sunto della tesi “ricerche sulla lex iulia de adulteriis”
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sunto della tesi “ricerche sulla lex iulia de adulteriis”
SUNTO DELLA TESI “RICERCHE SULLA LEX IULIA DE ADULTERIIS”, DI CHIARA SERTORI, MATR. 43620. Nel tentativo di porre un freno alla dilagante corruzione dei costumi che investiva tutti gli strati sociali, Augusto, nel 18-16 a.C., fece approvare la lex Iulia de adulteriis coercendis, con la quale lo stato interveniva per la prima volta in modo fermo e diretto nella repressione dei crimini sessuali, considerati ora crimina publica e perseguiti dinanzi ad una quaestio perpetua, la quaestio de adulteriis, appositamente istituita. Prima di questa legge la repressione di questo reato era rimessa all’iniziativa familiare: in particolare, l’adulterio della donna, ovvero la sua infedeltà coniugale, veniva punito con estrema durezza: una durezza che comportava di certo il ripudio della donna sposata, e che poteva giungere anche alla sua condanna capitale. Solo l’adulterio della donna assumeva, per i Romani, rilevanza penale e solo il suo illecito sessuale poteva essere perseguito. Sono due le testimonianze che abbiamo circa il sistema di vendetta privata vigente prima della lex Iulia: una di Dionigi di Alicarnasso che riporta una lex regia attribuita a Romolo, in base alla quale si concedeva ai parenti (consilium domesticum) insieme con il marito di punire con la morte la donna che si fosse resa responsabile di adulterio e di ubriachezza; l’altra di Plutarco, il quale non parla di diritto del marito di uccidere la moglie, ma solo di diritto di ripudiarla qualora si fosse macchiata di gravi colpe quali il veneficio della prole, l’adulterio e la sottrazione delle chiavi della cantina. Dionigi e Plutarco, dunque, sembrano in contrasto tra loro; diverse le soluzioni conciliative tentate dalla dottrina, ma la più verosimile pare essere quella secondo cui in caso di adulterio non flagrante e di ubriachezza, ad una punizione severa come la morte della colpevole, si sia sostituita, in una fase successiva, una punizione più mite, come il ripudio. Sempre la morte, invece, fu la punizione cui andava incontro la moglie che veniva scoperta in flagrante adulterio; la flagranza, poi, dispensava il marito dal riunire il consilium domesticum e chiederne il parere. Il motivo per cui l’adulterio venne sempre considerato la colpa più grave di cui una donna sposata poteva macchiarsi, consisteva nel fatto che, avendo rapporti con un uomo diverso dal marito, si creava un inquinamento, una corruzione della purezza del sangue familiare di cui la donna era depositaria e custode; pertanto veniva meno alla sua funzione principale, ovvero dare eredi legittimi al marito (e quindi anche cittadini legittimi a Roma), provocando così la commixtio sanguinis e offendendo, inoltre, la dignitas del marito. E’opinione pressoché concorde in dottrina che la lex Iulia abbia represso, configurandoli come crimina publica e colpendoli quindi con pubblica pena, non solo l’adulterium, ossia, si è detto, l’infedeltà coniugale della donna sposata, ma anche lo stuprum, temine che era forse riferito a qualsiasi relazione sessuale con donne nubili o non più sposate di onorata condizione sociale e in generale tutti i comportamenti violenti in cui il soggetto che li subisce è passivo; tra questi potrebbe rientrare anche lo stuprum cum puero, che fa riferimento all’impudicitia omosessuale, e, forse l’incestum. Inoltre, era punito come crimine sessuale anche il lenocinio, che comprendeva tutti quei casi di sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione e tutti quei patti volti ad ottenere un guadagno dall’adulterio della donna, quali: il non aver ripudiato la moglie dopo averla scoperta in flagrante adulterio o, comunque, aver avuto notizia certa che esso si è consumato; sposare una donna condannata per adulterio tramite un regolare processo; dare il proprio consenso, a scopo di lucro ( ed un qualche guadagno è necessario perché si configuri questo crimen), alla consumazione dell’infedeltà, indipendentemente dal fatto che tale accondiscendenza sia data prima o dopo il rapporto sessuale illecito. Il processo pubblico viene attivato da un’accusa riservata inizialmente, per un periodo di 60 giorni, al padre e al marito di colei cui viene addebitato l’adulterium, dopodiché aperta a qualunque cittadino per i successivi 4 mesi. Ad ogni modo, il provvedimento legittima ancora, benchè in misura diversa, anche l’iniziativa stragiudiziale del padre e del marito dell’adultera, prevedendo che tali persone possano mettere a morte l’amante di questa. Tra gli studiosi è ammesso in modo pacifico che il diritto di uccidere concerne, in modo esclusivo, la repressione del solo adulterium. Il ius occidendi è attribuito agli stessi soggetti titolari dell’accusa privilegiata, sebbene si configuri diversamente a seconda che si tratti del pater o del marito della colpevole. Erano richieste condizioni particolari e diverse per il padre e il marito, affinchè questi potessero esercitare legittimamente il loro ius occidendi: fuori da queste condizioni, essi erano punibili come omicidi. Fungeva, poi, da particolare attenuante per il marito, la valutazione del suo iustus dolor causato dall’aver scoperto la moglie con un altro uomo. Nel caso in cui si fosse seguita la via della repressione pubblica, e a seguito del processo i due amanti fossero stati giudicati colpevoli, la pena era quella della relegatio in insulam e della publicatio bonorum, che consisteva nella perdita di metà della dote e un terzo del patrimonio per l’adultera, e metà del patrimonio per l’adultero.