La liturgia della parola: il rito e il suo significato

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La liturgia della parola: il rito e il suo significato
CORSO DIOCESANO PER LETTORI 2015 2016
traccia del secondo intervento
LA LITURGIA DELLA PAROLA:
IL RITO E IL SUO SIGNIFICATO
Testo di mons. Claudio Magnoli
Qualcosa di simile alla liturgia della parola, come parte integrante della liturgia eucaristica,
sembra già presente negli scritti dell’evangelista Luca: in Atti 20, 7-11 (l’eucaristia presieduta da
Paolo a Troade) e in Luca 20, 13-35 (l’apparizione del Risorto ai discepoli di Emmaus).
Sarà invece la «Prima Apologia» di san Giustino, a Roma verso la metà del II secolo, a darci
una prima diretta attestazione sia nella sua struttura rituale di base [lettura dell’AT (scritti dei
profeti); lettura del NT (memorie degli apostoli); discorso di ammonizione ed esortazione da parte
di colui che presiede; preghiera comune di intercessione], sia nella sua flessibilità organizzativa («si
legge – egli scrive – finché c’è tempo»).
Con il sec. IV si afferma, almeno nelle celebrazioni domenicali e festive, uno schema
ternario di letture bibliche (lettura profetica – lettura apostolica – lettura evangelica), mentre si
diversifica per tradizioni liturgiche (gerosolimitana, romana, ambrosiana, alessandrina, antiochena,
ecc...) l’ordinamento delle letture, che risulta essere uno degli elementi portanti dell’educazione
della fede e il punto di riferimento essenziale per la predicazione omiletica. Buona parte degli scritti
dei Padri della Chiesa è il riporto delle omelie tenute durante le celebrazioni liturgiche, omelie nelle
quali è commentata la parola di Dio appena proclamata.
Dai secc. IX-X ha inizio una lenta decadenza della liturgia della Parola, più evidente in
ambito romano, ma riconoscibile anche in ambito ambrosiano: - la proposta del Lezionario si riduce
quantitativamente e si impoverisce qualitativamente; - viene meno la predicazione omiletica da
parte del sacerdote celebrante; - scompare la preghiera universale dei fedeli.
L’indicazione del concilio di Trento che tutti i sacerdoti, nelle messe con concorso di
popolo, riprendessero a predicare, durante le celebrazioni liturgiche, anche in volgare, non fu
accompagnata né da un rinnovamento sostanziale del numero e della qualità delle letture bibliche
proclamate, né dall’abbandono del latino a favore della lingua viva. Bene che andava le pagine
bibliche lette in latino, specialmente il vangelo, venivano parafrasate nell’omelia in volgare.
Altrimenti, l’omelia in volgare svolgeva una tematica di carattere morale o dottrinale, senza
interagire direttamente con le pagine bibliche proclamate e facendo invece ampio uso degli esempi
agiografici.
Si dovette attendere il concilio Vaticano II per avere una decisa inversione di tendenza con
tre chiari orientamenti: - «Vengano aperti più largamente i tesori della Bibbia, di modo che, in un
determinato numero di anni, si legga al popolo la parte migliore della Sacra Scrittura»; - «si
raccomanda l’omelia come parte della stessa liturgia»; - «sia ripristinata dopo il vangelo e
l’omelia, specialmente la domenica e le feste di precetto, l’orazione comune (= preghiera dei fedeli
o preghiera universale»). La riforma del Messale e del Lezionario, sia romani che ambrosiani, ha
dato piena realizzazione agli orientamenti conciliari.
Con questo richiamo storico ci siamo introdotti al tema di questa sera che comporta la
presentazione del rito della liturgia della parola (l’ordinamento celebrativo) e dei significati in esso
racchiusi. L’ordinamento celebrativo di riferimento è quello della messa domenicale e festiva,
declinato in modo romano e in modo ambrosiano. I due modi, che hanno una sostanziale struttura
comune, si distinguono particolarmente nel dopo omelia. Il rito romano pone qui la recita o il canto
del Credo, che il rito ambrosiano colloca invece al termine della presentazione dei doni, all’interno
della liturgia eucaristica. Dove il rito romano ha il Credo, il rito ambrosiano prevede il canto dopo il
vangelo, che accompagna la preparazione dell’altare, ponendovi sopra il corporale, il purificatorio e
i vasi sacri, in vista della liturgia eucaristica. Ecco lo schema in sinossi:
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Rito romano
Rito ambrosiano
- PRIMA LETTURA
- PRIMA LETTURA (LETTURA)
- Salmo responsoriale
- Salmo responsoriale (Salmo)
- SECONDA LETTURA
- SECONDA LETTURA (EPISTOLA)
- Canto al vangelo
- Canto al vangelo
- VANGELO
- VANGELO
--------------------------------------------------------------------------------------------------------------- Omelia
- Omelia
- Professione di fede (Credo)
- Canto dopo il vangelo
- Preghiera dei fedeli
- Preghiera dei fedeli
- Orazione
- Orazione (a conclusione della liturgia della parola)
1.
Un ordinamento in due sezioni
Le Premesse al Messale, sia romano (n. 55) sia ambrosiano (n. 32), ci invitano a cogliere
all’interno della liturgia della parola una fondamentale struttura bipartita:
«Le letture scelte dalla Sacra Scrittura con i canti che le accompagnano,
costituiscono la parte principale della liturgia della parola; l’omelia, la professione
di fede [il canto dopo il vangelo per il rito ambrosiano], la preghiera universale o
preghiera dei fedeli, [e l’orazione a conclusione della liturgia della Parola per il rito
ambrosiano] sviluppano e concludono tale parte».
I diversi elementi rituali che compongono la liturgia della parola si raggruppano dunque in
una «parte principale» (le letture scelte dalla sacra Scrittura con i canti che le accompagnano) e in
una «parte di sviluppo e di conclusione» (l’omelia, la professione di fede [il canto dopo il Vangelo],
la preghiera universale e [l’orazione a conclusione della liturgia della parola]).
Quest’ultima dipende ovviamente dalla prima ed è quindi relativa alla prima. Detto in altro
modo l’omelia, la professione di fede o il canto dopo il vangelo, la preghiera dei fedeli e l’orazione
finale (della preghiera dei fedeli o di tutta la liturgia della parola) sono al servizio dell’ascolto /
interiorizzazione delle letture bibliche e non possono procedere in autonomia da esse.
Tra la proclamazione e l’ascolto delle letture bibliche e l’omelia la cosa più importante non è
la seconda, ma la prima. La liturgia della parola non è a servizio dell’omelia, ma è l’omelia che è a
servizio della liturgia della parola. La collocazione romana del Credo al termine dell’omelia lega in
modo più diretto la professione di fede all’ascolto della parola. Anche la preghiera dei fedeli, che
pure ha una sua logica interna e un suo sviluppo peculiare è sempre al servizio dell’ascolto della
parola di Dio e trae da quell’ascolto la sua linfa vitale.
Il compito specifico del lettore (e del salmista) si colloca soprattutto nella parte principale
(far risuonare la parola rivelata nelle Sacre Scritture) anche se può continuare nella parte di sviluppo
e di conclusione con la lettura delle intenzioni della preghiera dei fedeli. È anche questa una
conferma della sua preziosità e insostituibilità.
2.
Una prospettiva unitaria
A questo punto occorre recuperare la struttura dialogica dell’intero svolgimento della
liturgia della Parola. Quello che sembra essere una semplice sequenza di momenti rituali e di testi
da leggere in vista di un messaggio da ritenere si rivela in realtà, alla luce del fatto che Cristo è
presente in ogni annuncio della parola, un vero dialogo di salvezza tra due soggetti: Dio, che parla
al suo popolo riunito in assemblea liturgica e, in un crescendo di rivelazione, giunge fino alla piena
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manifestazione di sé nel vangelo del Figlio; l’assemblea dei fedeli che, disponendosi ad accogliere
la rivelazione di Dio, gli risponde nella preghiera e nel canto. I ministeri ordinati del presbitero e del
diacono, come pure i ministeri laicali del lettore, del salmista e degli operatori musicali si pongono
al servizio di questo dialogo di salvezza, animandolo dall’interno.
Il dialogo ha inizio con la prima lettura. Dio prende la parola e, per il tramite del lettore, fa
giungere oggi all’orecchio, alla mente e al cuore dei fedeli ciò che un tempo aveva comunicato a
Israele per il tramite di Mosé (la Legge) e dei profeti (o già alla Chiesa, quando la prima lettura è
tratta dal Nuovo Testamento). Ce lo ricorda l’acclamazione conclusiva («Parola di Dio / Rendiamo
grazie a Dio»), che dichiara la vera natura della parola risuonata dall’ambone e il giusto
atteggiamento da tenere nei suoi confronti.
Alla prima lettura segue il salmo responsoriale. Il testo è preso dal salterio biblico ed è
dunque esso stesso parola di Dio, ma la sua funzione è assai diversa dalle letture. Non si tratta,
anzitutto, di una parola che Dio rivolge all’uomo, ma della parola che Dio mette in bocca all’uomo
(la comunità celebrante) perché l’uomo possa rivolgerla a Dio in risposta alla sua Parola.
Ecco perché l’azione liturgica richiede anche un cambio di ministerialità: al lettore subentra
il salmista. E questo non solo perché al salmista è chiesta una migliore competenza musicale, ma
ancor più perché, mentre il lettore opera in quanto portavoce di Dio che parla, il salmista agisce in
quanto portavoce e guida dell’assemblea dei fedeli che risponde.
Nella seconda lettura Dio riprende a parlare e, sempre per il tramite del lettore, ripropone ai
fedeli radunati le parole che egli un tempo ha suscitato nella mente e nel cuore degli apostoli per
annunciare al mondo l’opera di salvezza compiuta in Cristo Gesù. Ancora una volta l’acclamazione
conclusiva («Parola di Dio / Rendiamo grazia a Dio») chiarifica la vera natura della parola che è
risuonata dall’ambone.
La lettura profetica e la meditazione apostolica accendono l’animo dei fedeli,
predisponendolo ad accogliere la narrazione diretta dei gesti e delle parole di Gesù. Così il canto al
vangelo (acclamazione – versetto – acclamazione) con il quale l’assemblea dei fedeli prosegue il
dialogo in atto con Dio, non risulta più, come il salmo, una risposta alla parola di Dio appena udita,
ma è piuttosto un’acclamazione rivolta a Dio, un canto di giubilo per ciò che ancora dovrà accadere
e sta per rivelarsi: è un’acclamazione che annuncia la venuta di Cristo nella proclamazione del
vangelo e predispone i fedeli ad accoglierlo nell’ascolto di quella proclamazione. Questo canto ha
anche una funzione di sostegno e di accompagnamento della processione all’ambone da parte del
diacono o del sacerdote che reca il libro dei vangeli (evangeliario).
Nel vangelo Dio riprende a parlare e, per il tramite del diacono, del presbitero (o del
vescovo), comunica all’assemblea dei fedeli quanto di più prezioso ha: la vita e le parole di Gesù,
pienezza di tutta la rivelazione, vertice insuperabile del suo dono d’amore all’umanità.
In questo caso sia il triplice segno di croce (in fronte, sulle labbra e sul petto), accompagnato
dall’acclamazione del popolo («Gloria a te, Signore»), sia la conclusione («Parola del Signore /
Lode a te, o Cristo») evidenziano il fatto che il vangelo è una comunicazione che il Signore Gesù fa
di se stesso. Tutto concorre al riconoscimento nella fede di Colui che non solo ci comunica le parole
di Dio, ma è la Parola di Dio in persona, il Verbo del Padre che ha rivestito e continua a rivestirsi
della nostra umanità.
A servizio della rivelazione di Dio al suo popolo per mezzo della lettura delle Sacre Scritture
è l’omelia, volta a favorire una più profonda assimilazione della parola ascoltata. Propriamente non
è parola di Dio, ma parola d’uomo che con sapienza si pone al servizio della parola di Dio. Per
questo, nel dialogo tra Dio e il suo popolo, essa, per un verso, è ancora momento in cui Dio parla al
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suo popolo, ma, d’altra parte, è anche risposta dell’uomo al parlare di Dio. Tramite l’omelia infatti
la comunità consegna a Dio la sua accoglienza della parola, il suo proposito di conversione e la sua
promessa di fedeltà.
Risposta a Dio che ha parlato è la professione di fede romana e il canto dopo il vangelo
ambrosiano. Nel primo caso, i fedeli attraverso la recita o il canto del simbolo di fede (il Credo)
danno voce alla fede della Chiesa che – come scrive san Paolo – viene sempre dall’ascolto della
parola di Cristo (cfr Rm 10, 17). Leggiamo al n. 67 delle Premesse al Messale romano: «Il simbolo,
o professione di fede, ha come fine che tutto il popoloriunito risponda alla parola di Dio, proclamata
nella lettura della Sacra Scrittura e spiegata nell’omelia; e perché, recitando la regola della fede...
torni a meditare e professii grandi misteri della fede, prima della loro celebrazione eucaristica».
Nel secondo caso, attraverso un’antifona cantata o recitata, i fedeli ringraziano Dio per la
sua parola e accompagnano l’allestimento dell’altare sul quale di lì a poco si celebrerà il sacrificio
eucaristico. Leggiamo al n. 41 delle Premesse al Messale ambrosiano: «Dopo l’omelia si canto o si
recita il canto dopo il vangelo, mentre si prepara l’altare. Durante il canto infatti, l’altare o mensa
del Signore, che è il centro di tutta la liturgia eucaristica, viene preparato dai ministri in vista della
liturgia eucaristica».
Si deve osservare che questo canto non va considerato opzionale, ma è parte integrante e
necessaria del programma rituale della liturgia della Parola. Ne deriva l’attenzione a valorizzare i
testi propri del Messale o almeno a ispirarsi da vicino ai temi biblici e spirituali che questi testi
esprimono. Nulla vieta che, in alcune circostanze, si attinga dal repertorio dell’antico canto
ambrosiano, dando spazio a un momento di ascolto meditativo.
Risposta a Dio che ci ha parlato è anche la preghiera universale o dei fedeli. La sua
collocazione a questo punto sta infatti a sottolineare che la preghiera, come la fede, trae alimento
dall’ascolto della parola di Cristo e diviene uno dei primi e più alti esercizi della fede. Come si
potrebbe chiedere l’aiuto di Dio e intercedere per i fratelli che sono nella prova fisica, morale e
spirituale («ascoltaci, Signore») se venisse meno la fede in Gesù Cristo e nella sua potente
salvezza?
La preghiera universale è anzitutto la preghiera di un popolo sacerdotale che esercita il
suo sacerdozio battesimale a favore di tutta la Chiesa e a vantaggio del mondo intero. Di per sé in
tutta la celebrazione eucaristica la partecipazione attiva, consapevole, pia e fruttuosa dei fedeli è
espressione di una nativa dignità sacerdotale in forza del battesimo (sacerdozio comune o
battesimale), ma nella preghiera dei fedeli tale dignità ha una manifestazione rituale particolarmente
evidente e solenne. Le intenzioni, formulate o dal diacono, o dal lettore, o dal commentatore o da
qualcuno dei fedeli, devono venire, infatti, ratificate dalla risposta litanica o dal silenzio orante di
tutta la comunità.
In secondo luogo, la preghiera universale è la preghiera dell’intercessione fraterna o
l’esercizio della carità in preghiera. L’assemblea dei battezzati, in quanto partecipe del sacerdozio
universale di Cristo, partecipa anche della sua intercessione per la Chiesa e per il mondo. Facendo
questa preghiera, i fedeli, riuniti in «questa» specifica assemblea liturgica, ricordano di essere segno
e porzione di una comunione universale nella Chiesa, primizia e caparra di un’umanità nuova,
pienamente riconciliata in Cristo.
Al momento della sua esecuzione pratica sarà, dunque, importante vigilare, affinché non
venga meno il suo carattere propriamente universale, senza, d’altra parte, scadere in una
formulazione rigida o stereotipa. La preghiera dei fedeli diviene, in tal modo, luogo liturgico di
educazione al senso e al valore della preghiera cristiana di intercessione.
Quando formuliamo le intenzioni dobbiamo anzitutto decidere bene a chi ci rivolgiamo (al
Padre? Al Signore nostro Gesù Cristo?). Dobbiamo poi chiarire che cosa sia conveniente
domandare e per chi lo domandiamo. Dobbiamo infine mantenere fermo il criterio della sobrietà
espressiva. In obbedienza al vangelo che ci raccomanda di «non sprecare parole» quando
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preghiamo, perché Dio sa di quali cose abbiamo bisogno prima ancora che gliele chiediamo (cfr. Mt
6, 7-8), dobbiamo evitare sproloqui e sviluppi abnormi.
Anche l’assenso dell’assemblea alle intenzioni formulate merita di essere considerato con
più attenzione. La regola liturgica ci dice che esso può venire espresso «con un’invocazione
comune» (detta o cantata) – dall’Ascoltaci, Signore al tradizionale Kyrie eleison ambrosiano –
oppure «pregando in silenzio», e che in ogni caso, i fedeli possono stare in piedi o in ginocchio,
secondo che si voglia esprimere la richiesta dei figli o la supplica dei peccatori (in occasione di
particolari momenti difficili della vita sociale e/o ecclesiale).
Risposta a Dio che ci ha parlato è infine l’orazione che chiude la preghiera dei fedeli (rito
romano) o l’orazione che chiude tutta la liturgia della parola (rito ambrosiano). Le due orazioni si
assomigliano molto, ma la prima c’è solo quando c’è la preghiera dei fedeli e non è codificata in un
testo liturgico stabilito, mentre la seconda c’è sempre anche qualora dovesse mancare la preghiera
dei fedeli ed è codificata in modo ufficiale in un testo liturgico stabilito ufficialmente. Tranne casi
rari in cui si volge direttamente al Signore Gesù, questa orazione riprende lo schema più antico
della preghiera cristiana: al Padre per mezzo di Cristo, aiutandoci così a riconoscere anche nella
preghiera la rivelazione trinitaria di Dio.
3.
Per una piena partecipazione alla liturgia della parola
La liturgia della Parola vive di parole, canti, gesti e silenzi. Sono le quattro vie principali per
la partecipazione dei fedeli. Le parole sono l’elemento più in vista e quantitativamente più rilevante.
I canti sono parte integrante della liturgia della parola e non solo elementi ornamentali, anche se
esiste un ampio margine di discrezionalità circa il quando e il come cantare. I gesti sono
principalmente le posture dell’ascolto e della preghiera. I silenzi sono le pause necessarie per
interiorizzare il dono della parola e per disporre l’animo alla preghiera.
È fatta di parole ogni singola lettura biblica, l’omelia, la preghiera dei fedeli e l’orazione che
la conclude (rito romano) o che conclude la liturgia della parola. Sono fatti di parole gli stessi canti:
il salmo responsoriale; l’acclamazione al vangelo; il canto dopo il vangelo. Evidentemente anche le
parole vanno dette con arte e, specialmente le letture bibliche e il salmo responsoriale richiedono
una specifica tecnica vocale e comunicativa (vedi l’ultimo incontro).
I canti, che uniscono la musica alle parole, intervengono (possono intervenire) in alcuni
momenti qualificati: a conclusione delle prime due letture bibliche (solo eccezionalmente nelle
stesse letture); al salmo responsoriale; all’acclamazione al vangelo; nel dialogo che introduce al
vangelo e nella conclusione del vangelo (qualche volta nella stessa lettura evangelica); al canto
dopo il vangelo (rito ambrosiano) e nella formulazioni delle stesse intenzioni di preghiera o solo
nella risposta.
Mi soffermo sul canto al vangelo che ha a che fare con il lettore. L’acclamazione al vangelo
ha bisogno del canto come sua forma ordinaria, al punto che la norma liturgica ne consente la
sospensione qualora non venisse cantato: «L’alleluia e il versetto prima del vangelo, se non si
cantano, si possono tralasciare». L’alleluia (o l’acclamazione sostitutiva della quaresima) è dunque
da considerarsi una parte indispensabile del repertorio canoro di una comunità, sulla quale investire
energie per avere più spartiti a disposizione con una pluralità di moduli musicali, dal più semplice
(il canto di tutta l’assemblea con proclamazione del versetto) al più articolato (introduzione
strumentale – acclamazione cantata dall’assemblea e ripresa dal coro a più voci – versetto cantato
dal solista – acclamazione cantata dall’assemblea e ripresa dal coro a più voci – coda strumentale).
Se il versetto non è cantato dal cantore, il lettore ne proclama il testo dall’ambone e poi, mentre
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l’assemblea o il coro ripete l’acclamazione (alleluia o altro), scende dall’ambone e si avvia al
proprio posto.
I gesti previsti durante la liturgia della parola sono molteplici e si possono distinguere in due
tipi: quelli dei vari ministri (salire e scendere dall’ambone; intronizzare, insensare e baciare il libro
dei vangeli, ecc...) e quelli di tutta l’assemblea dei fedeli. Questi ultimi sono le tre fondamentali
posture del corpo (stare seduti, in piedi e in ginocchio) e la triplice segnatura del pollice in fronte,
sulle labbra e sul petto. Lo stare seduti è l’atteggiamento del discepolo in ascolto; lo stare in piedi è
l’atteggiamento del figlio (e dell’amico) pronto a compiere ciò che dice la parola, ma anche rivolto
a Dio nella preghiera. Lo stare in ginocchio è una possibile postura della preghiera dei fedeli,
quando si vuole accentuare l’atteggiamento della supplica. La triplice segnatura della fronte, delle
labbra e del petto consacra al Signore i tre centri della relazione: la mente (l’intelligenza); la voce
(la parola); il battito del cuore (l’affetto).
Anche i silenzi sono importanti. Alcuni favoriscono la meditazione e l’interiorizzazione
delle parole ascoltate; altri sottolineano la dimensione della preghiera interiore. Tra i primi
ricordiamo quelli brevi, dopo ogni lettura, e quello più lungo al termine dell’omelia. Tra i secondi si
segnala un unico caso, quello della pausa di silenzio dopo la formulazione delle intenzioni di
preghiera durante la preghiera dei fedeli. Un clima di silenzio avvolge l’ascolto della parola e la
supplica / intecessione della Chiesa.
4.
Per finire
Ogni momento della liturgia della parola è strettamente legato all’altro. Ecco perché è
richiesta la presenza di tutti fin dall’inizio, senza sconti: arrivo per il vangelo, arrivo per l’omelia.
Fin dall’inizio infatti si instaura un dialogo intenso tra Dio che parla e la comunità dei fedeli che
risponde e grande dovrebbe essere il desiderio di tutti di non perdere una sola sillaba di ciò che Dio
ha da comunicarci attraverso la proclamazione delle Sacre Scritture.
Il lettore è posto a servizio di questo dialogo d’amore tra Dio e il suo popolo e tutto ciò che
compie deve tendere a favorire questo interscambio. Arrivare per tempo, predisporre bene ciò che è
necessario per una buona lettura pubblica della parola, favorire l’ascolto e l’interiorizzazione delle
parole che escono dalla bocca di Dio mediante la sua bocca, questo dovrebbe essere tutta la sua
preoccupazione.
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