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Black Coffee
Le voci più fresche del panorama americano, le giovani firme
più promettenti ma anche le opere di autori irragionevolmente
dimenticati o inediti in Italia, con attenzione anche per un
genere spesso trascurato nel nostro Paese ma di cui gli autori
d’oltreoceano sono maestri: il racconto. Con la profonda
convinzione che ora più che mai la narrativa debba sfidare gli
schemi per stimolare una reazione nel lettore e riappropriarsi
di un linguaggio che riesca a dare voce con coraggio alle
istanze più proprie della parola scritta.
A cura di Sara Reggiani e Leonardo Taiuti
«Hot Pink»
© 2011 by Adam Levin
Per l’edizione italiana:
© Edizioni Clichy - 2015
Edizioni Clichy
Via Pietrapiana, 32
50121 - Firenze
www.edizioniclichy.it
ISBN: 978-88-6799-179-2
adam levin
rosa
shocking
Traduzione di Sara Reggiani
Edizioni Clichy
Sommario
Frankenwittgenstein
La fine dolceamara di Susan Falls
Quello sforzo in più
Il fringuello
Rapporti
11
35
71
79
119
Jane Tell
Rsvp
Una crepa nel muro
Lui
Rosa Shocking
135
191
205
247
263
Messaggi confusi // Due conversazioni // Billy
// Professore e amante // Fine di un’amicizia //
Credibilità // Uomini Distinti
Rosa Shocking
Alle mie sorelle, Rachel e Paula Levin
RSVP
Da quel che so questo tizio, Donald, un timido patologico, aveva scritto la più bella lettera d’amore del
mondo - quattro righe, sì e no una settantina di parole
- a una ragazza di nome Janet, con la quale non aveva
fatto altro che stabilire un semplice contatto visivo in
tre diverse occasioni (dopo quella che si poteva considerare la seconda, era corso in bagno e aveva scoperto
di avere uno sbaffo di penna rossa sul naso). Donald
aveva scritto la lettera in perfetta grafia su carta pregiata, poi l’aveva ripiegata per farne un origami a forma di
cigno, e il giorno seguente, in pausa pranzo - Donald e
Janet lavoravano nello stesso ufficio - si era trattenuto
un paio di minuti in più, finché tutti i colleghi non se
ne erano andati, aveva attraversato la stanza col cigno
in mano e lo aveva posato per errore sulla sedia del
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Adam Levin
cubicolo di Chrissy, separato da quello di Janet da un
tramezzo.
Solo qualche minuto prima Janet, segretamente appassionata di origami e se possibile ancora più timida di
Donald, e più sola, per la quale Donald provava sentimenti del tutto ricambiati, aveva notato, mentre stava
uscendo per andare a pranzo, che Donald non si era ancora alzato dalla sua sedia. Janet si era detta che se avesse
tergiversato abbastanza a lungo da imbattersi in Donald
quando nessun altro fosse stato nei paraggi, forse finalmente avrebbero trovato il coraggio di parlarsi o, se non
questo, avrebbero almeno avuto occasione di stabilire
un altro contatto visivo, magari addirittura nell’intimità
dell’ascensore, e magari, nel caso in cui l’ascensore fosse
stato pieno, la sua spalla avrebbe sfiorato il braccio di
Donald. Così Janet aveva perso tempo nei pressi della
fontanella, fingendo di bere, e aveva visto Donald posare qualcosa sulla sua sedia. All’istante aveva cominciato
a sudare. Che cosa poteva mai essere? Era corsa al bagno e si era lavata le mani due volte. Quando alla fine
era tornata, Donald era sparito. Allora Janet era tornata
nel suo cubicolo, e aveva scoperto l’equivoco. Non c’era
nulla sulla sua sedia. Il regalo di Donald era per Chrissy.
Un cigno origami. Janet l’aveva preso in mano, osservato attentamente alla luce. Che splendido lavoro! Non
una piega che non fosse perfettamente dritta. Non la
minima traccia di un’ombra che non fosse voluta. Sotto
le ali e lungo il bordo del becco, alcune parole tracciate
con impeccabile maestria facevano capolino tra le ele192
Rosa Shocking
ganti pieghe: amore e occhi e impacciato e tu e io e noi e
per sempre. Altre parole si intravedevano ai lati del collo
e sulla membrana delle zampe, ma Janet, rammentandosi che non erano destinate a lei e dominando a fatica
il violento impulso di schiacciarsi il cigno contro il petto
e gettarsi dalla finestra, andando così incontro a morte
certa, l’aveva riposto sulla sedia di Chrissy e aveva abbandonato l’edificio, in preda a uno stato di torpore.
Aveva percorso un isolato, senza sapere dove, poi un altro, sempre ignara. A metà del terzo isolato, aveva scelto
il lago. Sarebbe andata al lago a guardare le onde, una
vista che le dava sempre tanto conforto d’estate. Il lago
era a est ed est era a sinistra. Janet aveva svoltato bruscamente, scendendo in strada, e in quel momento un
autobus l’aveva travolta, uccidendola sul colpo.
A pranzo Donald aveva mangiato brioche all’insalata di uova. Aveva preparato l’insalata la sera prima, una
volta ultimato il cigno, e quella mattina ne aveva versato
una porzione sufficiente a farcire quattro sandwich dentro un contenitore di plastica sigillabile. Si era portato il
contenitore, insieme alle posate e qualche tovagliolino,
nella borsa termica comprata per l’occasione. Al primo
piano dell’edificio, dove lavoravano lui e Janet, c’era una
caffetteria che vendeva le sue brioche salate preferite.
Dopo averne acquistate quattro, Donald si era diretto
al parco dall’altra parte della strada e, seduto sul bordo
della fontana, al sole, ne aveva divise tre a metà, vi aveva
spalmato l’insalata di uova, e se le era mangiate di gusto. Aveva atteso l’ultimo minuto della pausa pranzo per
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Adam Levin
prepararsi la quarta, per essere sicuro che restasse fresca
il più a lungo possibile. Aveva in mente, al suo ritorno
in ufficio, sempre che Janet non gli fosse parsa inorridita
dalla sua lettera, di offrirla a lei. La sua ultima ragazza,
Terri, aveva giurato che la sua insalata di uova era la migliore che avesse mai mangiato, ed era piaciuta pure al
suo amico. Donald, senza falsa modestia, concordava sul
fatto che sapeva fare un’ottima insalata di uova, ma non
l’aveva più mangiata, neanche una volta in tre anni, da
quando Terri e il suo amico erano scappati insieme in
Connecticut ed erano diventati due rappresentanti farmaceutici molto ben retribuiti. Una parte di lui aveva temuto di aver perso il tocco, ma subito dopo aver ingerito
il primo boccone aveva capito che non era affatto così.
Era arrivato in ufficio con un paio di minuti di ritardo. Erano già tornati tutti tranne Janet.
Chrissy non si rese mai conto che il cigno era una lettera, ma immaginò che fosse un regalo da parte di Janet,
la ragazza tutta casa e libri che le lavorava accanto e che
era stata travolta da un autobus - che tristezza - perciò
lo conservò per il suo valore sentimentale. Chrissy era
stata fortunata a essere nata così, e questo lei lo sapeva,
perciò era sempre gentile con tutti, comprese le lesbiche, a patto che non facessero mosse azzardate, perché,
primo, anche le lesbiche erano persone e, secondo, non
si resta belli per sempre, si invecchia e ci si affloscia, e un
bel corpo non è per la vita, mentre gli amici sì. Questi
erano i suoi valori.
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Rosa Shocking
Di ritorno dal lavoro, il giorno che Janet era morta,
Chrissy aveva posato il cigno sul bordo del vassoio portaoggetti, dov’era rimasto fino alla prima notte rigida
d’autunno, quando il riscaldamento si era acceso e la
ventola aveva spedito il cigno a spasso per tutto il vassoio finché non era andato a infilzarsi di becco tra una
coppia di gorilla di porcellana in T-shirt che si abbracciavano. Poi, la prima notte mite di primavera (a quel
punto, ormai, Donald si era già impiccato da tempo),
Chrissy aveva dato una festa che era degenerata a tal
punto che un tizio ubriaco, ballando, era caduto malamente portandosi dietro il vassoio portaoggetti. A eccezione della più bella lettera d’amore del mondo, tutto il
contenuto del vassoio era andato in mille pezzi.
«Mi hai rotto il vassoio portaoggetti» aveva detto
Chrissy al tizio ubriaco.
«E tu mi hai fatto affondare come una nave» aveva
detto quello a Chrissy.
«Mi hai rotto il vassoio portaoggetti» aveva detto
Chrissy.
E il tizio: «Il portaoggetti è a pezzetti, posso avere
due bacetti?».
Alla fine aveva preso la scopa e lei la paletta. Il cigno
sembrava cartaccia e avevano raccolto anche lui. Avevano scopato tutta la notte, e bene per essere ubriachi. La
notte seguente, da sobri, avevano scopato anche meglio.
Quando tu e io eravamo giovani e innamorati, io e
Tom frequentavamo sempre un diner aperto ventiquat195
Adam Levin
tro ore su ventiquattro ricavato in una cantina all’incrocio tra Western Avenue e Augusta. Ci accomodavamo
al banco e mangiavamo uova fritte su piccoli croissant
quasi tutte le mattine, prima di andare a lavorare. Siccome eravamo habitué, il cuoco di tanto in tanto ci
sorprendeva con una fettina di formaggio fuso sopra i
sandwich, gratis.
Scrivo ancora tutte le lettere al computer e gli indirizzi a mano. Penso ancora degli origami quello che
penso dei mimi, a meno che non continui a insistere
nel dire che Harpo Marx era un mimo. Harpo Max lo
adoro.
Sei stata tu a introdurmi ai fratelli Marx - avevi tutto
su cassetta - ma per fare colpo ho finto di sapere tutto sul loro conto, e li ho liquidati argomentando che i
Three Stooges erano meglio. Questa era l’opinione di
Tom e per me quello che diceva lui era oro colato. Era
più grande di me di un paio d’anni e stracolmo di risposte. Una volta gli chiesi quando avrei smesso di odiare
mio padre. («Non appena smetterà di fare lo stronzo
coi tuoi amici o stronzo ci diventerai tu e ci pianterai,
proprio come vuole lui»). Una volta gli ho chiesto di
spiegarmi, in parole povere, la differenza tra segni e sintomi. («I segni, come per esempio due bottoncini sotto
la maglietta, li puoi vedere da te, i sintomi, se per esempio sentono le farfalle nello stomaco o un formicolio lì
sotto, no»). Un’altra, appena dopo che avevo spedito la
lettera che ti avevo scritto, gli ho chiesto cosa pensava
delle lettere d’amore. («Questo poeta di nome Don che
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Rosa Shocking
conosceva mio cugino ha scritto la migliore di sempre,
ma l’ha data alla ragazza sbagliata - una sciacquetta che
non era neanche tanto fica - e lei non ha risposto e lui si
è ucciso»). Poi una volta gli ho chiesto se pensava che i
gay facessero finta che il loro pene fosse di qualcun altro
quando si masturbavano. Ha risposto che non lo sapeva, ma era una bella domanda, e comunque supponeva
che l’avessero fatto almeno una volta. Poi mi ha detto
che era come l’Estranea.
«Cos’è, un film?»
«È quando ti infili un elastico al polso e la mano si
addormenta».
«Ah» ho detto. «E funziona?».
Tom avrebbe dato qualsiasi cosa per saperlo, ma non
c’erano mai elastici in giro quando servivano.
Ero uscito con te la sera prima. Ti avevo portata a
vedere un film d’azione. Eri ancora un’atleta all’epoca.
Ti allenavi con la squadra di nuoto mentre io fumavo a
catena. Avevo lasciato la macchina sul tetto di un parcheggio a quattro piani e, dopo il film, hai detto che
avremmo dovuto fare a gara a chi arrivava prima in
cima. Ti piaceva farmi correre. Era una corsa bella lunga
e tu non ti sei risparmiata. Eri ancora piegata in due a riprendere fiato, il respiro affannato, le mani sulle ginocchia, quando finalmente sono arrivato anch’io. Avevi i
capelli raccolti in una coda con un elastico ricoperto di
stoffa color uovo di tordo. Te l’ho sfilato per sancire il
mio arrivo - a malapena riuscivo a respirare, figuriamoci
a parlare - e tu ti sei voltata di scatto e mi hai afferrato,
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Adam Levin
con entrambe le mani, la camicia, e mi hai spinto verso
il muro e io ti ho tirata giù a terra, sul cemento, e…
sono sicuro che te lo ricordi. Ma ti sei scordata dell’elastico, non me l’hai più richiesto. Sarà stato perché ne
avevi tanti. Li vendono in confezioni da dieci, venticinque, cinquanta, quegli elastici. Quelli con un filo dorato
intrecciato dentro. Lo sai quali intendo. Quello che ti
ho preso non significava niente per te.
Di sicuro però significava un po’ più di niente per
me, anche se apparentemente non abbastanza, o significava troppo per poterlo confessare. Magari una combinazione delle due. Non lo so più, forse non l’ho mai
saputo, ma Tom era mio amico, io ero giovane e innamorato, e lui era più grande di me, ma neanche poi tanto, e il tuo elastico era stretto intorno al mio accendino
nella tasca. Gliel’ho ceduto.
«Estranea, arrivo» ha detto.
«Aspetta» ho detto. «A dire il vero…»
«Cosa?» ha detto Tom.
«Lascia perdere» ho detto. «Niente. Inventiamoci la
religione».
Spesso a colazione ci ripromettevamo di inventare
una religione, ma non arrivava mai l’occasione giusta.
O la sera prima avevamo bevuto troppo, o non avevamo
la penna o, quando finalmente avevamo abbastanza caffè in corpo, dovevamo uscire per andare al lavoro. Quel
giorno non era diverso.
«Domani» ha detto Tom. «Siamo già in ritardo».
Quella sera ti ho portata a mangiare sushi su Divi198
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sion e mi sono ritrovato davanti una zuppa di miso che
non avevo ordinato. Tu hai insistito che la provassi, ma
io proprio non capivo come si facesse a mangiare una
zuppa con le bacchette, allora tu mi hai mostrato che
si poteva bere direttamente dalla ciotola. Una goccia
beige sul labbro è diventata una riga sul mento e te la
sei asciugata con la manica della felpa, il pollice infilato
in uno strappo nella cucitura, l’unghia fucsia mangiucchiata.
«Dai» hai detto facendo un cenno col mento verso la
mia ciotola.
Nel brodo ho intravisto il tofu. Cubetti di roba bianca, che si sfaldavano. Brandelli sfilacciati di cadavere bagnato. Ero riuscito a evitarlo per anni. Mi sono portato
la ciotola alla bocca e ho bevuto finché non c’è stato più
niente da bere.
I cubetti sono rimasti appiccicati sul fondo, una benedizione.
Ti ho chiesto se avevi ricevuto la mia lettera d’amore.
L’ho presa larga, da cacasotto… quale sono. Del resto,
nessuno mi aveva mai accusato di essere troppo diretto.
Ho detto: «Come se la passava oggi la tua cassetta della
posta?».
Mi hai detto che la lettera era arrivata, che era scritta
al computer.
«Sì, ma com’era?» ho chiesto.
«Scritta al computer» hai detto.
«Ma la firma l’ho fatta a mano».
«Non c’è altro modo di firmare una lettera» hai detto.
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Adam Levin
«Avresti preferito un cigno? Preferivi che la dessi alla
tua collega d’ufficio tettona?»
«Un cigno?» hai detto. «Io non lavoro in un ufficio».
Non hai capito cosa intendevo… come avresti potuto,
a ripensarci? Non avevo voglia di spiegare. Non importa,
ho pensato. Fosse stata la lettera che meritavi, non l’avresti mai ricevuta… tu non eri la ragazza sbagliata.
Il mattino seguente, a colazione, Tom mi ha fatto un
resoconto dell’Estranea. «Le prime volte funziona bene»
ha detto. «Immagino che dopo una pausa funzioni anche meglio. Per ora ha perso il suo fascino».
Gli ho chiesto di restituirmi l’elastico.
Me ne ha dato uno rosa.
Ho detto: «Questo è rosa. Non è quello che ti ho
dato io».
«Il colore» ha detto «non fa differenza. Dopo il
lavoro, l’altro giorno, ho provato con quello che mi
avevi dato, quello azzurro. Poi sono corso a comprare
un bel pacchetto da venticinque. L’ho provato verde,
rosso e arancione. La volta migliore è stata col rosso, ma
solo perché ormai avevo capito il trucco e non ero ancora troppo stanco. È stato il primo con cui ho imparato
l’arte, e quindi il migliore».
«E dopo quello?» ho chiesto.
«Ho provato il giallo, stamattina. Il giallo è ottimo,
come il rosso, ma non proprio uguale. Domani o dopodomani, per amore della scienza, proverò anche gli altri
colori - mi manca ancora viola, nero, bianco e rosa - ma
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Rosa Shocking
sono sicuro che saranno come il rosso, uguale. La mente
non dimentica e la mano neppure, ma la mente forse
mente e la mano pure o… sticazzi».
Gli ho chiesto di darmi l’azzurro.
«L’azzurro è andato, bello. L’ho buttato via. Ma fidati, il colore non conta».
Gli ho spiegato perché invece sì.
Ha detto: «Valore sentimentale. Me lo dovevi dire prima che lo ricoprissi di sborra. Dev’essere un tipino niente
male, questa qui, eh?» ha detto Tom. «Una bomba sexy,
eh? Una figa atomica. Un bocconcino succulento. Una
gnocca da paura. Me la farai conoscere, spero».
«Esci insieme a noi stasera» ho detto. «Mi sa che
andiamo al bowling».
«Ci sto» ha detto Tom.
Dopo di che gli ho chiesto una penna per inventare
la religione.
«Ok» ho detto. «Dunque, prima di tutto ci vorrebbe
un feticcio perché…»
«Un feticista?» ha detto Tom. «Tipo quelli dei piedi?»
«Un feticcio, un totem» ho detto. «Un oggetto da
adorare».
«Ah» ha detto Tom. «Non è pensata male, sai? La
religione attecchisce e noi ci facciamo un pacco di soldi
a venderli».
«Venderli?» ho detto.
«I feticci» ha detto Tom. «Col marchio registrato.
Tipo portachiavi. Toppe da cucirsi sui vestiti. Potrebbero coniarci una cazzo di moneta».
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Adam Levin
«Non lo so» ho detto. «Pensavo…»
«No. Va bene così, totem. È un’idea geniale. Quindi
la prima cosa che dobbiamo inventarci è il cattivo. Se
no da chi ci protegge, il totem? Sì… giusto. Partiamo
dal cattivo».
Non siamo partiti dal cattivo. Non siamo partiti proprio. Non avevamo nient’altro che dei tovaglioli di carta
su cui scrivere, e l’unica penna che aveva Tom era una
di quelle col giochino dentro: nel cilindro con l’acqua
c’era una pista da sci e, quando capovolgevi la penna
per scriverci, un omino piatto con un berretto piatto
scendeva al rallentatore giù per la pista. Era un souvenir
di un qualche posto di montagna. Nessuno si era mai
aspettato che fungesse da utensile per scrivere. Il meccanismo a sfera da due soldi scriveva solo se calcavi forte
con la mano. Ho strappato il tovagliolo a furia di provare e sono passato sotto scavando un solco nel bancone.
Quella mattina il cuoco non mi ha messo la fettina di
formaggio gratis.
La sera siamo andati tutti insieme al bowling. Abbiamo fatto quattro giri, poi Tom si è reso conto che
era tardi. Il giorno dopo dovevamo alzarci tutti presto
per andare a lavorare. Dei tre ero io quello che abitava
più vicino. Tom, che guidava, ce l’ha fatto notare - sono
sicuro che te lo ricordi - e ha detto che la cosa più sensata era accompagnarmi per primo. Per me non aveva
un gran senso ma a quel punto eravamo già a un isolato
da casa mia.
Oggi, davanti alla buca delle lettere, busta quadrata
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Rosa Shocking
in mano, sguardo fisso sul mio nome pieno di grazie,
scritto a mano, ho desiderato una sigaretta come mai
prima d’ora, e frugavo nella tasca con l’altra mano, ciecamente, in cerca dell’accendino, quando sono stato
colto da un improvviso, travolgente spasmo (sto bene),
e la mano nella tasca si è chiusa intorno a tutto ciò che
conteneva - chiavi, scontrini, spicci ecc. - poi si è sollevata di scatto e ha lasciato cadere ogni cosa a terra. In
mezzo non ci ho trovato la penna souvenir - perché mai
avrei dovuto? Sono passati anni - ma ho pensato che
sarebbe stato giusto. Ho pensato che sarebbe stato bello
per una volta chiudere il cerchio.
Suppongo di essere troppo vecchio ormai anche per
inventare una religione. Ma grazie dell’invito. Mi rincresce, stavolta passo, buone cose a entrambi.
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