il vaso di pandora
Transcript
il vaso di pandora
Spedizione in Abbonamento Postale 70% - Filiale di Savona Vol. XX, N. 4, 2012 TRA PRASSI E TEORIA APPUNTI DI VIAGGIO Edizioni QUATTRO PASSI PER STRADA OLTRE... * Omaggio a Hermann Zapf * Progetto informatico di Tiziano Stefanelli IL VASO DI PANDORA Edizioni IL VASO DI PANDORA Dialoghi in psichiatria e scienze umane Vol. XIX, N.3, 2011 IL VASO DI PANDORA Dialoghi in psichiatria e scienze umane <<Il Vaso di Pandora>> Copyright © 1992 by REDANCIA Iscrizione per il Tribunale di Savona N° 418/93 – ISSN 1828-3748 Direttore Responsabile: Giovanni Giusto Direttore Scientifico: Carmelo Conforto Comitato Editoriale: R. Antonello (Genova) A. Bonfanti (Cuneo) P. De Fazio (Catanzaro) G. Ferrigno (Genova) M. Marcenaro (Genova) P. Melo (Savona) A. Narracci (Roma) B. Orsini (Genova) P. Pisseri (Savona) E. Robotti (Genova) R. Valdrè (Genova) G. Ba (Milano) M. Carnovale (Savona) P. Destefani (Genova) A. M. Ferro (Savona) E. Maura (Genova) C. Mencacci (Milano) D. Nicora (Savona) P. F. Peloso (Genova) P. G. Semboloni (Genova) A. Salsa (Savona) V. Valenti (Savona) G. Berruti (Savona) G. Rebolini (Genova) L. Ferrannini (Genova) M. E. Morsucci (Cuneo) A. Oelker (Genova) La pubblicazione di ogni articolo è subordinata al parere positivo di referee esterni al Comitato Editoriale. Referee: E. Aguglia (TS) G. Cassullo (TO) C. Merlo (AL) F. Scarsi (GE) F. Borgogno (TO) P. Ciancaglini (GE) L. Rinaldi (NA) R. Speziale-Bagliacca (GE) R. Brunacci (GE) S. Inglese (CZ) D. Sacchi (TO) C. Vecchiato (CN) Comitato di redazione: Luca Gavazza, Paola Bartolini, Lorenzo Vita, Simona Magliani, Antonella Ferro Redazione: Via P. Boselli, 3/5 - 17100 Savona (SV) Amministrazione: Via Montegrappa, 43 - 17019 Varazze (SV) - P. IVA 00507810091 http://www.redancia.it - http://www.publinet.it/pol/ital/riviste/pandora/index.htm e-mail: [email protected] Stampa : CappelloCom - Via Guidobono, 11 - 17100 Savona - [email protected] La rivista è pubblicata in quattro volumi all'anno. Per abbonamento: C/C Postale n° 10483170 intestato a La REDANCIA S.r.l. - Via Montegrappa, 43 - 17019 Varazze (SV) Abbonamento annuale: Italia privati Euro 50,00 Estero privati Euro 80,00 Fascicolo singolo Euro 20,00 Arretrato Euro 25,00 Enti Euro 55,00 Enti Euro 100,00 3 IL VASO DI PANDORA Dialoghi in psichiatria e scienze umane - Vol. XIX, N°3, 2011 Sommario Editoriale Pasquale Pisseri pag. 7 TRA PRASSI E TEORIA Introduzione: Vie dell‟Etnopsichiatria Salvatore Inglese pag. 17 APPUNTI DI VIAGGIO 4 Disturbi da stress post traumatico e disturbi da spavento: ripensare il trauma da una prospettiva etnopsichiatrica Tobie Nathan, Catherine Grandsard pag. 31 Babelogue. Lingue e processi di mediazione clinica Filippo Casadei, Salvatore Ingloese pag. 57 QUATTRO PASSI PER STRADA Recensione: “La signorina che faceva HARA-KIRI e altri saggi“ di Franco Borgogno Carmelo Conforto pag. 89 IL VASO DI PANDORA Dialoghi in psichiatria e scienze umane - Vol. XIX, N°3, 2011 Table of contents Editorial Pasquale Pisseri pag. 7 TRA PRASSI E TEORIA Ethnopsychiatric ways - Introduction Salvatore Inglese pag. 17 APPUNTI DI VIAGGIO Post-traumatic stress disorders and panic disorders: rethinking the trauma from the ethnopsychiatric perspective Tobie Nathan, Catherine Grandsard pag. 31 Babelogue. Language and processes of clinic mediation Filippo Casadei, Salvatore Ingloese pag. 57 QUATTRO PASSI PER STRADA Recensione: “La signorina che faceva HARA-KIRI e altri saggi“ di Franco Borgogno Carmelo Conforto pag. 89 IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011 5 Editoriale Questo numero è integralmente dedicato all‟etnopsichiatria, e così pure il prossimo. Infatti il materiale pervenuto dal dott. Salvatore Inglese è tanto ricco da richiederne la distribuzione in due numeri della rivista. Il compito dell‟etnopsichiatra non è semplice, poiché incontra una duplice difficoltà: il rapporto con il paziente mentale e quello con lo straniero hanno in comune la necessità di approccio a un mondo mentale “altro”, in cui le necessarie comprensione ed empatia rischiano di trovarsi in scacco. Ricordiamoci la radice comune delle parole “alieno” e “alienato”, entrambe evocatrici di angoscia. Nel rapporto con il paziente straniero i due diversi problemi di approccio si sommano, o piuttosto si moltiplicano. I contributi di questo numero ci insegnano però a considerare non soltanto le difficoltà dell‟impresa ma anche l‟opportunità che essa ci offre di affinamento delle nostre capacità operative e di riflessione teorica. Abbiamo una certa abitudine a considerare l‟etnopsichiatria come tema in qualche modo collaterale; un capitolo fra i tanti, cui alcuni specialisti si dedicano a fondo mentre la gran maggioranza di noi se ne interessa marginalmente. Il DSM IV TM dedica poche pagine alle sindromi legate alla cultura, nonché al profilo culturale che è necessario considerare nella prassi applicativa in contesti multiculturali. E‟ suggestivo trovare in tali pagine categorie come il cosiddetto “ataque de nervios”, tipico della cultura “latina”, cioè della nostra; il termine è tuttora vivo nell‟uso comune dei paesi latini, almeno in alcuni contesti geografici e sociali. Esperienza, dicevo, suggestiva e salutarmente destabilizzante perché sposta per un momento noi neolatini dalla posizione di osservatori a quella di oggetto della osservazione scientifica; e magari da quella di giudicanti a quella di giudicati. L‟introduzione di Salvatore Inglese, di grande spessore metodologico, rovescia completamente la prospettiva: presenta l‟etnopsichiatria quasi come atta a rifondare la nostra disciplina grazie alla sua “tensione polemologica non finalizzata alla ricomposizione irenica fra teorie conflittuali” (portatrice, potremmo ricordare con il termine di paragone più illustre possibile, non della pace ma della spada). IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011 7 8 Addirittura, ciò ha condannato Devereux all‟isolamento e all‟emarginazione personale. Per Inglese, l‟etnopsichiatria “non si lancia alla scoperta della mente o dell‟apparato mentale né sul versante neuroscientifico né su quello psichiatrico, psicologico, psicoanalitico”. Non vengono quindi condivise posizioni esplicative, sul piano di una causalità psicologica o biologica; è ravvisabile forse una maggior vicinanza alla fenomenologia, in quanto questa rinuncia programmaticamente a tentativi di spiegazione causale: pare mostrarlo, fra l‟altro, l‟adozione di termini quali “mondanizzazione” e “presentificazione” E‟ da ritenere in effetti che non sia, nè dovrebbe esserlo, vocazione dell‟etnopsichiatria l‟entrare in concorrenza o competizione con le varie teorie, il condividerle o meno, o proporre teorie alternative: parrebbe più proficuo, e perfino più importante, porre l‟approccio etnopsichiatrico come preliminare allo sviluppo di teorie e alla revisione di quelle esistenti, come fornitore di una base di dati e conoscenze più vasta e multiforme di quella su cui è nata la psichiatria classica, nelle sue varie divaricazioni teoriche e metodologiche. Certo, l‟Autore non concorderebbe nel considerare meta valida il conseguimento di una nuova obbiettività più ampiamente fondata, ma manterrebbe comunque la sua posizione: “questi oggetti che vi interessano non sono affatto fenomeni naturali nè universali, ma costituiscono un evidente prodotto storico...” Il considerare la mente individuale e il suo dolore come socialmente situati è stato oggetto di ampie riflessioni di psichiatri, psicologi, filosofi: citando un po‟ a casaccio si possono ricordare il Freud di Psicologia delle masse, Wilhelm Reich, Erich Fromm, la scuola di Francoforte, Marcuse. Ma Salvatore Inglese ripropone la topica con inconsueta radicalità, che investe necessariamente lo statuto epistemologico della nostra disciplina: questa infatti non ha nè può avere un oggetto di studio naturale e obbiettivabile, ma ha a che fare con fenomeni storicamente e culturalmente determinati. Dunque, “Etnopsichiatria non vuol dire... lo sviluppo di una specializzazione medica: essa non è la psichiatria etnica coltivata da psicopatologi sensibilizzati alle altre culture”; si propone come radicale sfida metodologica, che si propone di “accendere una centrifuga cognitiva in cui le varie discipline sono disposte a scambiare le proprie conoscenze, reputandole assolute nel proprio campo (chiuso) di esercizio e al tempo stesso negoziandole come relative quando entrano nello spazio pubblico (aperto) di una agorà terapeutica”. Questa ottica trova una applicazione concreta esposta da Tobie Nathan e Catherine Grandsard nel loro lavoro sui disturbi da stress postraumatico. Essi recuperano il concetto di spavento, ben presente nel nostro lessico quotidiano ma non nella semeiotica psichiatrica, pur se vi si fa cenno nel DSM che lo include fra i criteri diagnostici necessari alla diagnosi di disturbo da stress acuto. Il concetto ha un ruolo chiave nelle teorie sul trauma sviluppate, con sconcertanti analogie, da diverse popolazioni africane: per esse, il trauma comporta uno svuotamento e una frattura nel Sé psichico (“o forse dovremmo dire la sua anima?” rileva Nathan), e nel vuoto risultante si insinua un essere alieno, non umano; il traumatizzato entra in contatto con un mondo “altro”, sconcertante e mal comprensibile. E‟ tuttavia possibile una evoluzione positiva e maturativa della esperienza, come mostrano gli evidenti aspetti traumatici e dolorosi delle cerimonie di iniziazione. Gli Autori, lungi dal considerare queste concezioni come rozze e primitive, le considerano con grande rispetto e umiltà, ritenendole capaci di innegabili e concreti risultati terapeutici e atte a migliorare la nostra comprensione. E‟ interessante pure annotare, come fa l‟Autore, che in Francia ancora nell‟800 convulsioni e tics fossero effetto di una sorta di possessione. Questo ci ricorda che un ulteriore affinamento della prospettiva può nascere dall‟apporto integrato della storia della psichiatria nei suoi vari risvolti: le antiche elaborazioni teoriche, la risposta sociale – istituzionale o meno - alla follia, le fantasie su di essa che ci giungono con le opere letterarie, i dati pur frammentari sulle sue manifestazioni. Inglese fa rilevare che una apertura a concezioni diverse e non necessariamente primitive e inferiori può scontrarsi con l‟angoscia che nasce dall‟attuale “reazione generalizzata (dall‟esterno) contro i fondamentali dell‟Occidente”, dal “vedere contemporaneamente restringersi il raggio di influenza del mondo occidentale ed estendersi quello di altre costituzioni sociali, culture e civiltà”. Ciò mi sembra solo in parte condivisibile: è certo vero che l‟Europa e in parte anche quella sua filiazione che sono gli USA vedono scosso il loro predominio economico – politico - militare: ma è lo stesso sul piano culturale? La sfida emergente di India e Cina si fonda sulla acquisizione e sviluppo di competenze scientifiche e tecniche di origine IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011 9 10 occidentale con parziale rinuncia al patrimonio culturale tradizionale, e nell‟altra nuova grande potenza economica, il Brasile, si parla una lingua neolatina; sul piano culturale, l‟Occidente non ha affatto smesso di colonizzare il mondo. Restringendoci nuovamente al nostro campo, ricordo una mia esperienza personale di anni fa in Nepal : vi è tuttora assai diffuso il ricorso ai tradizionali “witch doctors”, quali i Vaiyas, i Gubhaiu, i Dhamis, i Jhakri, le cui pratiche si ispirano a teorie ayurvediche o comunque nell‟ambito della concezione religiosa induista; ma la psichiatria pubblica di quel paese – almeno per l‟esperienza diretta che ne ho avuto - tende a considerare ciò come un fenomeno residuale e possibilmente da cancellare gradualmente, pur se finora maggioritario: e segue invece fedelmente la classificazione del DSM, rinunciando a un vero confronto, se non a una integrazione, con la medicina tradizionale . Questo atteggiamento, se condiviso in altri paesi – e ritengo che prevalentemente lo sia – è certo utile alla raffrontabilità dei dati; ma alla luce delle riflessioni portate dagli Autori di questo numero potrebbe esser responsabile di una occasione perduta. Nel contributo di Casadei e Inglese che chiaramente si rifà alla impostazione proposta nella introduzione, l‟intenzione degli Autori si annuncia già dal titolo quasi provocatorio, Babelogue: Babele è dialogo. Mentre nel nostro abituale modo di esprimerci e nel mito biblico Babele è sinonimo di confusione caotica, per l‟Autore il multilinguismo è insostituibile occasione di incontro, come espresso nel mito degli Indiani Akoma, in cui la Divinità moltiplica le lingue non per punire gli uomini ma al contrario per moltiplicare le occasioni di scambio e reciproca comprensione tramite uno sforzo interpretativo che consenta di por fine alle violenze reciproche. Il tema è fondamentale in tempi di immigrazione anche per le sue dirette implicazioni pratiche, poichè il dialogo è il miglior antidoto alla violenza. Ce lo ha insegnato, fra gli altri, Pirandello nella novella “Il corvo”. Questo (o questi?), imprigionato da un contadino, protesta invano: “Non è che il corvo non gridasse le sue ragioni: le gridò, ma da corvo: e non fu ascoltato”. Ne segue una catena di incomprensioni e paure destinata a concludersi in tragedia. Ma nella visione proposta dagli Autori, la differenza di linguaggio non è un puro e semplice ostacolo bensì una opportunità per incentivare lo scambio poiché la lingua dell‟altro, nella sua struttura e rete di significati, è fattore fondamentale per la comprensione della sua esistenza storicamente e culturalmente situata: l‟intervento di cura ha quella che gli Autori definiscono una parte etnoclinica. L‟operazione etnopsichiatrica deve dunque contare su un gruppo denominato “di mediazione”, di cui l‟interprete è figura fondamentale ma non unica : gli altri membri e il clinico stesso non si limitano ad attendere la traduzione in modo da ottenerne una comprensibilità meccanica di quel che il paziente dice, ma seguono il lavoro del traduttore nel definire l‟incontrarsi e l‟integrarsi di strutture e significati. Si forma così uno spazio pubblico di parola per la dimensione culturale e quella psicologica ove la parte lasciata alla lingua dello straniero aiuta a non figurarselo come culturalmente nullatenente. Per contro, l‟impiego dell‟ italiano come lingua obbligatoria nel colloquio può essere premessa all‟imporre i nostri modelli clinici e psicologici, dopo aver espropriato, con operazione non priva di violenza, lo straniero della propria lingua. Inoltre, la lingua naturale del clinico spesso non contiene termini atti a codificare identità e natura dei personaggi del mondo interno, delirante o meno, dello straniero. Al contrario, l‟apertura alla lingua di questi consente allo strumento linguistico di portarci nel cuore della sua cultura. In sintesi, le lingue devono superare la loro chiusura strutturale e funzionale per aprirsi l‟una all‟altra. Il dispositivo di mediazione pluriliguistico rende visibili entità altrimenti sfuggenti: senza traduzione e mediazione, si perde il contatto col gruppo del paziente. Anche se gli Autori non vi fanno riferimento esplicito, il loro lavoro non può non richiamarci alla classica lezione di Lacan sulla centralità e primarietà dell‟ordine simbolico del linguaggio, sulla attenzione da riservare al significante non meno che al significato. Il numero è arricchito da una recensione di Carmelo Conforto al volume di Franco Borgogno “La signorina che faceva hara-kiri e altri saggi”; recensione che ha lo spessore di un articolo originale. Richiama più volte la centralità, specie con pazienti gravi dalla espressività prevalentemente pre-verbale, della condivisione emotivo – empatica al di là di ogni interpretazione formalmente corretta, e della necessità che l‟analista sappia convivere con pesanti sentimenti traumatici, rispondendo alla richiesta dell‟analizzato di esperire la sofferenza connessa, nonchè di cogliere la “terribile fame d‟amore nascosta dietro all‟essersi sottratti agli scambi umani”. IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011 11 L‟analizzato non manca di indagare su queste capacità del terapeuta e sulla sua affidabilità. Tutto ciò si collega alla nozione di trauma precoce, connesso o meno a una dimensione di desiderio sessuale. A questo proposito, viene citata l‟espressione di Ferenczi “la confusione delle lingue fra adulti e bambini”: viene così ripreso, in coincidenza certo casuale e in diversissimo contesto, il tema – caro all‟etnopsichiatra - dell‟incontro fra linguaggi diversi, che può evolvere in conflitto o in integrazione. La svolta della terapia è il passaggio dalla preconcezione bioniana alla concezione dell‟oggetto psicologico introiettabile e da sempre atteso per riempire il vuoto angosciante della morte psichica. Carmelo Conforto mantiene una posizione aperta, fondata su riflessioni e confronti arricchenti, su “accostamenti e interrogativi che altri modelli ci sollecitano”. Pasquale Pisseri 12 Tra prassi e teoria 15 IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011 Salvatore Inglese1 Introduzione: Vie dell’Etnopsichiatria Questa introduzione si incammina lungo le vie dell‟etnopsichiatria disciplina strutturata da Georges Devereux sul modello di un‟arte marziale della prassi clinica: tecnica di combattimento metodologico non finalizzata alla ricomposizione irenica tra teorie conflittuali – che, a causa della sua tensione polemologica, non può essere esercitata da uomini pacifici ma da spiriti turbolenti (Colli, 1980). Alcuni si sono lasciati letteralmente consumare dal suo fuoco fino a farsene ridurre in cenere dopo aver patito il deserto della marginalità. Devereux ha trascorso gli ultimi anni in un affanno solitario, sulla linea d‟ombra della periferia parigina, vivendo di una modesta pensione perché quasi nessuno, salvo un paio di amici veramente eccellenti (Bastide, Lévi-Strauss), era disposto a riconoscere e a sostenere, per non dire a premiare, il suo genio innovatore (Inglese, 2007). Questa pira consuma gli attori più recenti e creativi della disciplina; penso adesso a Tobie Nathan, l‟allievo meno devereuxiano: se il maestro doveva iniziare un discepolo, avrebbe dovuto necessariamente ottenerlo come Nathan che finisce per somigliargli di più per contrasto e opposizione (Nathan, 2005). In carattere e spirito, programma e metodologia, azioni e teorie, Devereux e Nathan stanno agli antipodi di uno stesso pianeta disciplinare: rigoroso, sistematico, paziente, erudito all‟ennesimo il primo (1984); vigoroso, combattivo, immaginifico, intuitivo, un prestidigitatore della psicoterapia il secondo (1994). Più rabdomantico del maestro, l‟allievo sa entrare in risonanza con le sorgenti profonde della psyché multiforme dei popoli della Terra (Nathan, 1996). 1 Psichiatra. FAR/ERG (FAR/Ethnopsychiatry Research Group) IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011 17 18 Come si riconosce nella cifra della sua denominazione tripartita (ethnós/psyché/iatreía; Inglese e Cardamone, 2010), l‟etnopsichiatria non si interessa delle neuroscienze ma ne frequenta le stanze sperimentali, non vuole competere con le evoluzioni della psicoanalisi, ma dialoga criticamente con esse. Vale a dire, sfiora tangenzialmente alcuni nuclei di sapere dell‟Occidente, oltremodo fondamentali, che si sono condensati attraverso rivoluzioni scientifiche successive e permanenti. Essa non si lancia alla scoperta della mente o dell‟apparato mentale né sul versante neuroscientifico né su quello psichiatrico, psicologico, psicoanalitico. Questo atteggiamento non è superbo ma rimane refrattario ad avvicinarsi di un passo a queste due verità verticali: quella sul sistema nervoso centrale, sempre meglio elaborata dai neuroscienziati materialisti, bramosi di rinvenire in qualche groviglio circuitale le tracce dell‟anima; quella sull‟apparato mentale unico e universale, professata dalle creature militanti della rivoluzione psicoanalitica. L‟etnopsichiatria orbita intorno a un oggetto più antico con il quale bisogna misurarsi frontalmente, adesso, nell‟arena sociale. Seguendo l‟ispirazione di Devereux, questa “via” metodologica evoca un oggetto siffatto alla maniera degli antichi greci: psyché, pneuma, phrén soffio vitale, principio vitale della persona. Siamo coscienti di impiegare una categoria retorica impalpabile e cangiante perché nessuno sa dire, in realtà, cosa sia questo nucleo-momento originario. Grazie a simili postulati cautelari, l‟etnopsichiatria si mette comunque di traverso rispetto alle altre correnti scientifiche – dove si schierano neuroscienziati e psicoanalisti che, apparentemente, duellano tra loro ma restano, in effetti, sodali (neuropsicoanalisi; Pichot e Nathan, 1998). La metodologia etnopsichiatrica avverte: “Attenzione! Questi oggetti che vi interessano, non sono affatto fenomeni naturali né universali ma costituiscono un evidente prodotto storico del mondo occidentale, ottenuto attraverso rivoluzioni sociali e cognitive, scientifiche e cliniche”. Quelle stesse correnti poderose sono, per eccellenza, un prodotto storico ovvero un risultato, a sua volta, eccellente. Quando si dice “prodotto storico” si deve intendere: incarnazione di una soggettività sapiente che attraversa le società, ne segna il destino e le conduce verso mete prefissate. In Occidente, il dogma dell‟universalismo, dell‟oggettivazione, della totalizzazione gnoseologica imposto attraverso la religione, la scienza, l‟apparato bellico ed economico non deve essere solamente contestato ma definitivamente sorpassato. Bisogna considerare che il principio vitale della persona (psyché) diventa un motore immobile del mondo oltre che della società in cui la persona finisce con l‟abitare (mondanizzare, de Martino) e nella quale finisce con l‟appropriarsi (domesticare, sempre de Martino) dei suoi elementi costitutivi. Come si può osare infliggere questa critica contro l‟universalismo della scienza materialistica o antimaterialistica? Come si può sferrare questo attacco (dall‟interno), mentre si assiste a una reazione generalizzata (dall‟esterno) contro i fondamentali dell‟Occidente? Queste intimazioni dissuasive si sono amplificate quando l‟atmosfera euforica della prima globalizzazione si è convertita nell‟angoscia di vedere contemporaneamente restringersi il raggio d‟influenza del mondo occidentale ed estendersi quello di altre costituzioni sociali, culture e civiltà. La minoranza etnopsichiatrica proclama: se esiste un‟angoscia pervasiva in presenza della molteplicità culturale - sostenuta dalla babelizzazione della società occidentale grazie alla moltiplicazione infinita delle lingue nel suo spazio geoculturale, prima reso omogeneo dalla predominanza di un paio di lingue-matrici (greco, latino) e di poche lingue-ideologia (francese, inglese, tedesco) reciprocamente traducibili (Inglese, 2009) come modificarsi al cospetto di popoli animati da princìpi vitali a noi sconosciuti in modo da rimodulare le tecniche apprese dalle scienze cliniche del Novecento? Il soggetto occidentale - impegnato a esercitare il suo dominio sulle colonie dove ha esportato finanche gli ospedali psichiatrici – ha proposto agli altri popoli di uniformarsi (acculturazione) ai princìpi ideologici e pratici da lui stesso trasfigurati in Legge trascendente. Tutti sanno com‟è finita l‟avventura o la disavventura della colonizzazione: si è controvertita, rovesciandosi su sé stessa fino alle deformazioni conosciute sulla punta avvelenata della IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011 19 20 coda novecentesca (Inglese, 2008). Ebbene, è questa reversione storica che adesso indirizza nei nostri spazi sociali i principi di funzionamento di collettivi umani ancora praticamente ignoti; essa riconduce a noi fenomeniche cliniche che misconosciamo. Quando Kraepelin si reca a Giava (1902), per studiarvi la psicopatologia indonesiana, trova in un moderno nosocomio a direzione europea solo due forme di disturbo mentale somiglianti a quelle cristallizzate, appena il giorno prima di prendere il mare, nell‟ultima edizione del suo manuale. Tra le mura di quell‟ospedale non riscontra nessuna importante variante patologica autoctona. In sostanza, la tassonomia di Kraepelin non supera la capacità classificatoria dell‟ordinamento nosografico di un piccolo gruppo etnico del Vietnam centrale (i riottosi Sedang Moï studiati da Devereux; Guerreiro, 2007), capace di accontentarsi di appena un paio di disturbi mentali. La principale bipartizione sindromica sedang ammette l‟esistenza di una costellazione fortemente eterogenea, a esito positivo, e di un gruppo di fenomeni a prognosi negativa. Rispetto a questo secondo insieme, i Moï pensano sia meglio provvedere in anticipo e drasticamente, relegando le persone inguaribili e incurabili nella foresta, facendole morire di inedia o dando loro la caccia perché almeno ritornino utili all‟addestramento dei giovani guerrieri. A Giava, Kraepelin esibisce la propria bipartizione elementare (psicosi maniacodepressiva/dementia praecox) ma chi volesse ancora oggi proiettarsi negli altri mondi vi incontrerebbe, imparando a riconoscerlo, un piano di variazione sindromica talmente irregolare da renderne ardue la scomposizione e l‟annessione all‟interno delle categorie nosografiche dei sistemi di classificazione più diffusi e autorevoli (DSM, ICD). Immaginiamo adesso un confronto tra psichiatri e sociologi, come si poteva fare negli anni Sessanta a Gorizia o a Trieste, nei luoghi topici e agli albori della rivoluzione psichiatrica italiana. Disputerebbero tra loro almeno due partiti: uno all‟attacco - i sociologi critici - che inchioderebbe l‟accento sulla multiformità, eterogeneità, originalità assoluta dei fenomeni sociali messi in moto dall‟immigrazione di massa e, dall‟altra parte, quello dei clinici, figli di un‟autentica rivoluzione culturale innescata dall‟unica generazione che ha saputo abbattere un‟istituzione totale. Questi stessi discendenti, oggi, si pongono a difesa dello status quo della disciplina riformata in quanto temono che i vortici del movimento migratorio di massa possano risucchiarli in un abisso dove un‟intera disciplina può perdersi. Questo smarrimento significa tante cose: non ritrovare più, ad esempio, la propria ragione sociale. Gli psichiatri, i modelli e i sistemi psichiatrici sono prodotti della modernità e non dell‟eternità (Foucault, 2003); sono prodotti storici, soggetti ad un proprio ciclo vitale: oggi possono esistere ma domani chissà? Freud considerava la psicoanalisi come una disciplina di transizione, scaturita da una rivoluzione silenziosa nel metodo e nella pratica clinica ma, tutto sommato, destinata ad essere superata dalle progressive contaminazioni che essa avrebbe dovuto cercare con le altre psicoterapie e con la biologia “dura” (Freud, 1918). Ho sempre fantasticato che Freud lavorasse in una specie di gabinetto chimico dove allineava le particelle elementari dell‟apparato psichico, provando e riprovando a fare interagire tra loro queste sostanze naturali. Contro le piane evidenze offerte dalla biografia disciplinare della prima psicoanalisi, gli psicoanalisti e le loro istituzioni internazionali vogliono riprodursi come esseri eterni, dati una volta per sempre, occupati a estrarre i materiali più intrattabili dalla mitopoiesi greca trasfigurata in drammaturgia (Nietzsche, 1977): da maschera tragica e tragico destino, Edipo diventa un processo inconscio costituente grazie a una licenza retorica a rendimento relativo (Deleuze e Guattari, 1973; Devereux, 2007; Nathan, 1996). La psicoanalisi e gli psicoanalisti sono esseri scientifici in transito. L‟etnopsichiatria, a sua volta, è un‟entità di passaggio che, grazie a questa consapevolezza, non si concede all‟amplesso endogamico con cui autogenerare etnopsichiatri. Prima l‟ho definita una disciplina marziale in base alla sua intrinseca necessità di essere tecnicamente rigorosa, avida del nuovo ma, soprattutto, capace di stipulare alleanze operatorie attraverso un‟attività diplomatica intensa. Il metodo etnopsichiatrico preconizza una convocazione delle professioni più diverse, una traduzione delle lingue IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011 21 22 più estemporanee, un assemblaggio delle conoscenze più volatili, ma anche di quelle fondamentali, da inquadrare nella cornice operativa della clinica. Nel contesto di una lavorazione etnopsichiatrica non è raro ritrovare esperti del diritto che interrogano mediatori etnoclinici. Tali figure vengono inoltre associate a medici, antropologi o psicologi che appaiono, talvolta, i personaggi meno interessanti dell‟interazione terapeutica. Qual‟è la caratteristica centrale di queste convocazioni molteplici ed eterogenee nel quadro dell‟etnopsichiatria clinica? L‟intenzione è di accendere una centrifuga cognitiva in cui varie discipline sono disposte a scambiare le proprie conoscenze, reputandole assolute nel proprio campo (chiuso) di esercizio e, al tempo stesso, negoziandole come relative quando entrano nello spazio pubblico (aperto) di un‟agorà terapeutica, ovvero sul territorio di una clinica democratica nella quale è il démos a reclamare la parola. Nella centrifuga etnopsichiatrica non rotea un sapere unico, un pensiero unico. Tutt‟altro, essa saluta in festa la moltiplicazione delle scuole cliniche e degli orientamenti teorici, ne sollecita la proliferazione contro ogni istanza egemonica. Quando si riesce a fare questo, si invita ogni disciplina a infilarsi in tale centrifuga per curare (trasformare) sé stessa: se un apparato disciplinare entra nell‟interazione clinica e ne esce uguale, il processo di produzione trasformativa dell‟etnopsichiatria si è interrotto, i suoi vettori deragliati, la sua zattera si abbandona alla deriva, l‟intero sistema terapeutico non ha saputo autocurarsi attraverso il proprio superamento. Quando invece vediamo che le discipline impegnate raggiungono i loro nuclei di fondazione e incominciano a criticarli (modificarli) o a ricercarne il rinnovamento, si profila allora la certezza di aver fatto un buon lavoro. Ma qual è il lievito, il catalizzatore di questa attività? Non è lo psichiatra; etnopsichiatria non vuol dire, come lascerebbe credere il termine, lo sviluppo di una specializzazione medica; essa non è la psichiatria etnica coltivata da psicopatologi sensibilizzati alle altre culture. Devereux concepisce la sua invenzione come un metodo frequentabile dalle soggettività più diverse: psicologi e assistenti sociali, educatori e insegnanti, avvocati, medici e filosofi. Questa è l‟idea originaria di Devereux (prima etnologo avventuroso, poi psicoanalista contrastato, infine ellenista rinomato), successivamente potenziata da Nathan fino a scontrarsi con il clero delle varie confessioni professionali (psicoanalisti, antropologi e filosofi sociali). L‟esempio precedente, quello della centrifuga multilinguistica, multiculturale e multiprofessionale, rappresenta il marchio di fabbrica che Tobie Nathan ha stampato sull‟etichetta dell‟etnopsichiatria mondiale e a cui nessun altro aveva pensato prima, ancorché vi fossero state sperimentazioni anche nei luoghi più ostili della cura (es., l‟ospedale psichiatrico di Dakar dove si dispiegava l‟azione illuminata di Henri Collomb). L‟etnopsichiatria non è mai stata un esercizio confortevole né un trastullo esotico: Devereux la esercitava nel braccio della morte dei penitenziari americani, nell‟ultimo miglio percorso dal condannato alla sedia elettrica. Essa ha immediatamente cercato oggetti incandescenti e intrattabili, ha affrontato questioni di vita e di morte per mettere alla prova i propri presupposti. Devereux pensava che proprio in luogo e in punto di morte il principio vitale della persona si dovesse rivelare, mettendo allo scoperto l‟intero processo storico-sociale che ne plasmava la natura, la forma e la sostanza. C‟è differenza se il condannato prega o non prega; fa un‟ulteriore differenza la divinità a cui si rivolge, e ancora un‟altra si ritrova nella proiezione immaginativa che il condannato incomincia a produrre sul mistero della vita dopo la sua morte. Sto citando, seppur con incerta memoria, casi emblematici di Devereux e ritorno a una sua perizia che ha permesso a un nativo americano di evitare l‟esecuzione quasi all‟ultimo momento. Voglio sostenere che ogni essere umano vede spingere la propria vita fino a un momento supremo di verità (malattia del corpo e dello spirito, condanna sociale, morte) e solo quando siamo lì con lui stiamo veramente esercitando la nostra missione clinica. Questa è una lezione che Devereux impartiva a sé stesso nei penitenziari, Nathan l‟ha riproposta nelle banlieues parigine ma i medici greci la praticavano in tutto il Mediterraneo. Nessuno iatrós ellenico si sarebbe applicato alla IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011 23 24 cura di un barbaro senza prima interrogarlo sulla sua lingua, costumi, usi, abitudini, alleanze spirituali. Nessun medico antico avrebbe somministrato un phármakon (es., un catartico) senza conoscere i principi di funzionamento del ventre dei suoi eventuali pazienti barbari. La metodologia etnopsichiatrica è moderna, essendovi costretta dall‟evoluzione sociale, ma è anche antica perché una congruente azione terapeutica deve ispirarsi alla correlazione tra persona e ambiente, tra i suoi principi vitali e il contesto storico che ne disegna la fisionomia. Con Devereux, le innovazioni dell‟etnopsichiatria vengono coltivate nei penitenziari; con H.B.M. Murphy, psichiatra transculturale che meriterebbe uno studio approfondito, alcune ispirazioni della disciplina sono arrivate una prima volta in Italia (nelle settimane successive alla Liberazione) per essere applicate alle popolazioni di profughi e rifugiati della Seconda Guerra mondiale, raccolte nei campi di accoglienza tra Veneto e Lombardia. Quando poi si misura con i disturbi mentali gravi, essa diventa una disciplina marziale perché fronteggia quale suo antagonista l‟enigma freniatrico assoluto: la psicosi. Con una certa temerarietà, in etnopsichiatria si sostiene l‟istanza di affrontare gli oggetti clinici più spinosi che vengono esposti al suo trattamento quando gli altri procedimenti tecnici hanno fallito. Nel momento in cui afferra i prodotti problematici di procedimenti clinici ineffettuali, la macchina etnopsichiatrica li lavora in base al postulato che il paziente non è mai un dato naturale ma un oggetto che porta in sé precise marche di fabbricazione in quanto oggetto sociale e, principalmente, tecnico, ovvero esposto e modificato da una specifica procedura operatoria. Ogni paziente esibisce le stigmate della biomedicina, se è stato esposto a quest‟ultima, così come quelle delle medicine psicologiche, se ha invece conosciuto queste altre. Un processo etnopsichiatrico degno di questo nome (democratico, aperto, multiprofessionale, multilinguistico, multiculturale) deve possedere anche questo vigore decostruttivo: rinvenire nel principio vitale della persona gli elementi che ne hanno determinato la forma e segnato il destino. Questa operazione richiede, evidentemente, un grandissimo impegno in termini di diplomazia clinica: i terapeuti devono proporre le mediazioni necessarie affinché questi processi decostruttivi e ricostruttivi, preconizzati dal metodo, possano essere messi in movimento. Aggiungerei, tanto più in movimento proprio negli ambiti istituzionali nei quali essi sono autenticamente necessari. Su questo, credo, vi è un ampio consenso: la clinica reale dei pazienti reali e dei gruppi sociali reali è quella che viene praticata negli spazi di salute pubblica. Non la si trova in nessun emiciclo accademico né in qualche laboratorio sperimentale segreto; la si incrocia nel quotidiano dell‟esercizio assistenziale in cui siamo tutti impegnati e dove l‟etnopsichiatria vorrebbe introdurre nuovi fattori di trasformazione, in primo luogo di sé stessa. Quanto sto dicendo potrebbe essere falsificato e superato tra pochi mesi o tra un anno, magari tra una sola settimana, e questo dovrebbe essere sempre il più grande auspicio per il cultore dell‟etnopsichiatria. 25 IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011 BIBLIOGRAFIA 26 Colli G., La sapienza greca III. Eraclito, Adelphi, Milano, 1980. Deleuze G., Guattari F., L‟anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino, 1973. Devereux G., Dall‟angoscia al metodo nelle scienze del comportamento, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 1984. Devereux G., Saggi di etnopsichiatria generale (Nuova ed. it. di S. Inglese), Armando editore, Roma, 2007. Foucault M., Le pouvoir psychiatrique. Cours au Collège de France. 19731974, Gallimard, Paris, 2003. Freud S., Vie della terapia psicoanalitica (1918), in O.S.F., vol. 9, Boringhieri, Torino, pp. 19-28. Guerreiro A., “Georges Devereux et les montagnards Sedang: de la fascination à la répulsion”, in Le Coq-Héron, 190, 35-46, 2007. Inglese S., “Georges Devereux: dietro i nomi, la natura molteplice dell‟etnopsichiatria”, in G. Devereux, Saggi di etnopsichiatria generale (Nuova edizione italiana a cura di S. Inglese), Armando editore, Roma, pp. 363-396, 2007. Inglese S., “Anche Hitler accarezzava i bambini. Lineamenti paranoicali del terrorismo totalitario”, in B. Callieri e C. Maci (a cura di), La Paranoia. Passione e ragione, Anicia, Roma, pp. 389-428, 2008. Inglese S., “L‟uso dell‟oggetto-lingua in etnopsichiatria. Traduzione, interpretazione, mediazione etnoclinica”, in A. Rotondo (a cura di), Etnopsichiatria e territorio, Edizioni Terrenuove, Milano, pp. 47-74, 2009. Inglese S., Cardamone G., “Psichiatria e alterità culturale. La questione dell‟immigrazione” (1996), in S. Inglese, G. Cardamone, Déjà vu. Tracce di etnopsichiatria critica, Edizioni Colibrì, Paderno Dugnano, pp. 43-60, 2010. Nathan T., L‟Influence qui guérit, Odile Jacob, Paris, 1994. Nathan T., Princìpi di etnopsicoanalisi (1993), Introduzione e traduzione a cura di S. Inglese, Bollati Boringhieri, Torino, 1996. Nathan T., “Etnopsichiatria, complementarismo, possessione”, in L. Attenasio, F. Casadei, S. Inglese, O. Ugolini (a cura di), La cura degli altri. Seminari di etnopsichiatria, Armando editore, Roma, pp. 164-178, 2005. Nietzsche F., La nascita della tragedia, Adelphi, Milano, 1977. Pichot P., Nathan T., Quale avvenire per la psichiatria e la psicoterapia? (ed. it. S. Inglese, L. Pisani), Edizioni Colibrì, Paderno Dugnano, 1998. 27 IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011 Appunti di viaggio 29 IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011 Tobie Nathan1, Catherine Grandsard2 Disturbi da stress post-traumatico e disturbi da spavento: ripensare il trauma da una prospettiva etnopsichiatrica3 Introduzione: trauma e terapia L‟idea di trauma, con la sua versione odierna di Disturbo da Stress Posttraumatico (PTSD), si dimostra un concetto debole e di difficile uso per il terapeuta impegnato a curare i pazienti, anche se esso è basato su ampi studi comparativi in cui sono standardizzate, ad esempio, esperienze che vanno dalla reazione allergica di un contadino peruviano alla depressione dolorosa di un soldato americano reduce dal fronte. Finanche nella sua interpretazione corrente, il trauma rappresenta un‟eccezione nella psicopatologia dei giorni nostri: costituisce uno dei pochi disturbi che non è stato emendato da scoperte scientifiche né in termini di comprensione dei suoi meccanismi né rispetto allo sviluppo di trattamenti efficaci; le cose stanno invece diversamente per la maggior parte delle altre entità diagnostiche. Ad esempio, le originarie descrizioni e classificazioni psicoanalitiche delle nevrosi sono state completamente riviste nel corso del tempo e suddivise in varie categorie e sotto-categorie (Disturbi d‟Ansia, Dissociativi, dell‟Umore, ecc.), la maggioranza delle quali può Professore di Psicologia Clinica e Psicopatologia, fondatore del Centro Georges Devereux – Università di Parigi 8; attualmente Consigliere Culturale presso l‟ambasciata francese di Guinée-Conakry 2 Psicologa clinica e psicoterapeuta familiare, docente di Psicologia Clinica e Psicopatologia, co-direttrice del Centro Georges Devereux – Università di Parigi 8 3 Relazione presentata alla Third International Trauma Research Net Conference, Trauma-Stigma and Distinction: Social Ambivalences in the Face of Extreme Suffering, St Moritz, 14-17 Settembre 2006. Traduzione a cura di Filippo Casadei e Salvatore Inglese 1 IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011 31 32 essere trattata con successo, o almeno alleviata, grazie alle cure farmacologiche. Difatti, come conseguenza delle scoperte di nuovi e molteplici approcci alla psicopatologia (farmacologico, cognitivocomportamentista, genetico, ecc.), gran parte dei disturbi mentali del XIX secolo è stata ripartita in nuove e più pertinenti categorie. Questo non è però il caso del trauma, rimasto largamente invariato come entità clinica nel periodo a cavallo tra fine Ottocento e primo Novecento, nonostante venga ora classificato come disturbo d‟ansia. Per questo disturbo, tuttavia, i farmaci psicotropi si rivelano di scarso aiuto (Neumeister, 2006a, 2006b; Gelpin et al., 1996) e gli approcci psicoterapeutici sono spesso poco raffinati, il più delle volte ispirati da concezioni del passato, come quella di catarsi – seppure offerta nella forma moderna del debriefing – che richiede al paziente di narrare l‟evento traumatico per riviverlo, ovvero di processarlo una seconda volta dal punto di vista emotivo e cognitivo. Dobbiamo confessare il nostro scetticismo riguardo a questo metodo, sostenuto negli ultimi anni da numerose pubblicazioni (Van Emmerik et al., 2002; Taylor et al., 2003). Secondo la nostra esperienza con vittime di trauma, l‟attivazione della memoria è inutile nella maggioranza dei casi e talvolta persino dannosa, dato che riattiva il dolore e la paura producendo, in effetti, un nuovo trauma. Nel 1966 Georges Devereux osservò che quando c‟è di mezzo il trauma non esiste alcuna possibilità di mitridatizzarsi o di farci l‟abitudine (Devereux, 1972). Al contrario, il trauma include un effetto cumulativo e amplificante, in grado di spiegare il fatto che i sintomi possono a volte riaccendersi, molto tempo dopo il trauma iniziale, a causa di un evento di minore importanza. Questo punto verrà ulteriormente discusso più avanti. Tornando al trauma come categoria psicopatologica, è interessante notare che esso costituisce l‟unico disturbo mentale per cui una causa esterna è chiaramente identificata nella forma di un tipo specifico di evento, sperimentato in modo diretto dal paziente o a cui quest‟ultimo ha semplicemente assistito4. In quanto tale, esso dichiara una sfida metodologica alla ricerca e alla teoria psicopatologica: sviluppare un modello capace di concettualizzare l‟evento traumatico, offrendo una specifica modalità di trattamento dell‟evento stesso. Purtroppo, la maggior parte dei modelli e degli interventi presta attenzione solo alle caratteristiche individuali della vittima del trauma, alla sua psicologia e costituzione biologica o ai suoi processi cognitivi (vedi l‟impiego di tecniche di debriefing, EMDR, BCT), escludendo perciò l‟evento causale esterno e il suo trattamento. Sorvolando sulle dispute in corso che riguardano la pertinenza e l‟efficacia – o la loro mancanza – degli approcci al trauma attualmente più in voga, la questione centrale dell‟evento, o degli eventi, alla radice di ogni disturbo traumatico rimane, a nostro parere, l‟elemento-chiave per comprendere il trauma e trattarne le conseguenze (Boris et al. 2005; Crocq, 2004; Davidson, 2001; Ehlersa, Clarka, 2003; Lewis, 2003; Robertson et al., 2004; Vermeiren, De Clercq, 1999; Watson et al., 2002). Il seguente esempio clinico illustrerà il nostro punto di vista. Osservazione clinica Nel 2000, vari membri della nostra équipe di etnopsichiatria partirono per il Kosovo dove tennero un seminario di formazione sul trattamento dei traumi psichici causati dalla guerra (Nathan, 2001b). In questa occasione ci venne presentato il caso di una donna di circa venti anni, kosovara di lingua albanese, che soffriva di sintomi allarmanti. Da dieci mesi era praticamente incapace di dormire, aveva un‟espressione fissa di sofferenza sul volto e implorava una medicina che potesse Vedi nel DSM-IV-TR il criterio diagnostico A, valido sia per il Disturbo Posttraumatico da Stress sia per il Disturbo Acuto da Stress: “La persona è stata esposta ad un evento traumatico nel quale erano presenti entrambe le caratteristiche seguenti: (1) la persona ha vissuto, ha assistito o si è confrontata con un evento o con eventi che hanno implicato morte, o minaccia di morte, o gravi lesioni, o una minaccia all‟integrità fisica propria o di altri (2) “la risposta della persona comprendeva paura intensa, sentimenti di impotenza, o di orrore” (DSM-IV-TR , 2001). 4 IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011 33 34 finalmente farle recuperare il sonno. Aveva ripetutamente raccontato la stessa storia: tre paramilitari serbi erano arrivati al suo villaggio. Le era stato descritto molte volte come i Serbi uccidevano gli uomini e violentavano le donne, e quando scorse i tre uomini, scappò via in preda al terrore. I tre la rincorsero raggiungendola dentro un granaio. Lei stava adesso di fronte a questi uomini in tenuta da combattimento e con le facce impressionanti imbrattate di nero. Uno di loro le fece segno con la mano e disse “Tu, vieni qui…” A quel punto svenne. Non sapeva quanto a lungo fosse rimasta priva di conoscenza. Cos‟era accaduto durante quel lasso di tempo? Era stata violentata? Non sapeva dirlo…perché si vergognava o aveva davvero dimenticato? Preferiva pensare che l‟avessero lasciata là e se ne fossero andati. Ma da quel giorno, appena si addormentava, vedeva quegli stessi tre uomini spaventosi avvicinarsi a lei e si svegliava di soprassalto, madida di sudore. Quei primi terrificanti minuti di sonno erano seguiti da una lunga notte passata in bianco. I clinici da cui era stata curata erano convinti che durante quei momenti rivivesse la scena in cui era svenuta. Eppure, quando cominciammo ad esplorare nei dettagli cosa provasse di preciso durante quello che lei riferiva come il suo incubo – con una violenta costrizione alla gola, accompagnata da sensazioni di soffocamento e di bruciore sul collo – piano piano descrisse ciò che in effetti percepiva. Non si trattava delle bande paramilitari, ma di una strana specie di uccello che veniva giù dal cielo e le ghermiva il collo facendola svegliare di colpo… L‟abitudine a considerare i sogni come contenenti preziosi messaggi sul passato di una persona aveva trattenuto i terapeuti della paziente dal richiedere informazioni circa le sue percezioni reali. In realtà, il sogno della giovane donna conteneva l‟informazione seguente: l‟estremo spavento causato dalla vista dei tre paramilitari serbi aveva fratturato il suo essere, aprendo una breccia in cui si era precipitato un essere mitico, uno strano uccello – striga - che da allora tornava ogni notte. Bastò riconoscere l‟esistenza di questo essere, esplorando in profondità insieme alla paziente la natura di quest‟ultimo e allo stesso tempo i mezzi tecnici con cui liberarsene, perché la donna ritrovasse il sonno quella notte stessa. La ragione per cui non era riuscita a riposare da così tanto tempo era che i suoi terapeuti avevano sempre sospeso la loro indagine al momento in cui i Serbi apparivano nel sogno. Comprendere e trattare l‟evento traumatogeno alla base dei sintomi da trauma non è un compito così semplice come potrebbe sembrare. Alla fine del lungo colloquio con questa giovane, era chiaro che l‟eziologia del suo malessere, l‟origine della breccia psichica, era lo spavento. In quale modo e perché lo spavento causa il disturbo? Come dimostrato da questo caso particolare, oltre che da molti altri modelli eziologici culturalmente determinati e registrati in tutto il mondo, lo spavento causa disturbi evidenti perché pone il soggetto umano al cospetto di esseri provenienti da altri mondi. La natura degli eventi traumatici In termini eziologici, gli operatori osservano spesso due emozioni fondamentali correlate al trauma: lo spavento e l‟esperienza di morte. Infatti, entrambe le caratteristiche sono incluse nella definizione di evento traumatico data dal DSM IV. Una persona traumatizzata è innanzitutto qualcuno che è stato spaventato. Apparentemente, la ragione per cui è stata creata una nuova parola nel campo della psicopatologia è che l‟uso quotidiano dei termini paura o spavento aveva fatto gradualmente perdere le loro connotazioni fisiche. Il tumulto emozionale prodotto nell‟istante in cui si subisce un grande spavento è associato a paura improvvisa e inaspettata, a una reazione fisica di trasalimento, a una brusca modifica dell‟equilibrio, seguita da tachicardia e sensazione fisica di oppressione allo stomaco o al petto. Quando una persona spaventata riesce a descrivere l‟esperienza, ammette al tempo stesso una sensazione di perdita, come se il suo respiro fosse stato risucchiato all‟improvviso, e di invasione, come se un‟entità estranea fosse penetrata di sorpresa nel suo sistema. Come abbiamo già visto nell‟esempio kosovaro, tale potente paura è provocata anche quando una persona si trova ad affrontare l‟esperienza IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011 35 della propria morte; non semplicemente la paura di morire, bensì il vivere per davvero la propria morte: l‟istante in cui uno sa che sta morendo o si vede già morto. 36 Osservazione clinica E‟ in piedi sopra un‟impalcatura, da qualche parte nella periferia parigina; come ha fatto molte altre volte, sta stringendo i bulloni di una lastra di metallo tenuta ferma da quattro viti. Agisce facilmente sui primi due ma quando va per stringere il terzo, la chiave scivola intorno al bullone. Sente di precipitare all‟indietro e piomba a terra sulla schiena dopo una caduta da un‟altezza di otto-dieci metri. La sua testa e la parte inferiore del dorso impattano il suolo per prime. Sente cedere la cinghia dell‟elmetto e perde conoscenza. Si risveglia su una barella circondato da uomini vestiti di bianco. Capisce di essere in Paradiso, nel paradiso musulmano dove i morti indossano lunghe vesti bianche. Viene esaminato e radiografato: a parte escoriazioni multiple, non presenta sintomi allarmanti né ossa rotte né organi lesi. Una settimana più tardi, viene dimesso dall‟ospedale. Da allora soffre senza tregua di cefalee lancinanti, vertigini, nausea, fischi nelle orecchie, dolore alla parte bassa della schiena, disturbi visivi e insonnia. Tre anni più tardi, la patologia traumatica sviluppata a seguito dell‟incontro con la propria morte è ancora attiva5. Molti clinici hanno incontrato casi simili. Cosa si può fare di fronte alla ripetizione infinita dello stesso racconto, della stessa scena traumatica? Il solo modo in cui il terapeuta può riuscire a sopportare un senso di impotenza per settimane, mesi e a volte anni di fila – un riflesso dell‟esperienza che il paziente fa della propria morte – è porre la domanda “perché”? Perché lui? E perché proprio quel giorno? A causa di chi? Così facendo, è ancora una volta obbligato a diventare testimone dell‟apparizione di esseri. Ad esempio, un tale aveva fatto l‟amore con la moglie e prima di andare a lavorare aveva riposto Questo caso e il suo trattamento sono stati descritti in Nathan T., La folie des autres. Traité d‟ethnopsychiatrie, Dunod, Paris, 2001a. 5 l‟asciugamani macchiato di sperma sotto il materasso del letto matrimoniale. Quella sera, la moglie gli aveva chiesto se avesse visto l‟asciugamani. Lui le aveva detto che stava nel solito posto, ma lei non lo aveva trovato. Passato qualche giorno si era dimenticato dell‟accaduto. Una settimana dopo c‟era stato l‟incidente. Salta fuori che la cognata, moglie del fratello di sua moglie, residente nello stesso stabile, era venuta proprio quel giorno a farsi prestare dello zucchero. Mentre sua moglie era impegnata con il bambino, si era introdotta furtivamente nella loro camera da letto rubando l‟asciugamani deposto sotto il materasso. Il giorno stesso, più tardi, lo aveva portato da uno stregone che l‟aveva seppellito in un cimitero… Lo scopo era quello di nuocere alla coppia, di certo per dispetto o per gelosia. Questo era infatti quanto accaduto all‟operaio immigrato algerino caduto dall‟impalcatura. In un caso del genere, c‟è solo un sistema per recuperare l‟asciugamani: l‟uomo deve rivolgersi a un guaritore, a qualcuno che possiede e governa gli spiriti, affinché costui mandi in missione notturna uno dei suoi Djinns6 aiutanti per ritrovare l‟oggetto perduto, così salvando l‟uomo da una morte certa. Il trauma è allora una delle poche concezioni moderne per cui si rivela decisiva la conoscenza veicolata dalle culture tradizionali. Una breve rassegna dell‟etimologia della parola spavento in varie lingue mostrerà quanto profondamente questi concetti sono incassati nel vocabolario della cultura (Nathan, 2002). Spavento In francese, la parola frayeur (dal latino fragor: rumore intenso), si riferisce a una forte emozione, a una grande paura; è associata all‟idea di sorpresa (la frayeur è sempre inaspettata) e di reazione fisica (palpitazione, tachicardia, blocco del respiro). Sperimentare una frayeur vuol dire provare una paura intensa e sussultare a causa dello spavento. Nella tradizione musulmana, i Djinns sono spiriti invisibili che vivono a fianco degli esseri umani; vedi Nathan, 2001b, 2005a . 6 IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011 37 38 La parola effroi si riferisce a un‟esperienza di spavento ancora più forte che afferra e talvolta addirittura pietrifica una persona. Fino al XIX secolo, in Francia era ancora diffusa l‟idea che il semplice incontro con una persona sofferente di convulsioni o di tic fosse sufficiente, a causa dello spavento, per trasmettere a chi guardava lo stesso essere, spirito o demone che affliggeva questi soggetti. “Non guardare mai un epilettico mentre ha una crisi perché potresti prenderti il demonio”, era un detto comune. Ma se un uomo può venire preso dalla creatura di un altro mondo, è perché il suo essere, il suo “Sé” – o forse si dovrebbe dire la sua “anima” – è fuggito via a causa dello shock provocato dalla paura. In wolof, sama feet na – di solito tradotto come “sono spaventato” – significa, letteralmente, “la sua „anima‟ (feet = „anima‟, principio vitale) è fuggita o ha preso congedo dal suo corpo”. In bambara, diatiggé (dia: „ombra‟ e, per associazione, „anima‟, „psiche‟; tiggé: „tagliare‟), si riferisce in modo specifico al terrore notturno causato dall‟incontro con un essere sovrannaturale (uno spirito: djinna; uno stregone: subkha; l‟anima di una persona morta). Come in wolof, la parola che esprime il concetto di spavento significa “l‟anima è tagliata o separata dal corpo della persona”. Per estensione, diatiggé si riferisce anche ai disturbi psichici causati dallo spavento, in particolare ad agitazione o a brevi episodi psicotici. In arabo, possono essere usate due parole per riferirsi allo spavento. Una di esse è sar‟ che, sebbene molto diffusa, ha piuttosto un‟enfasi letteraria. Deriva dalla radice che significa “spandersi”, perdere la propria forma originaria o, addirittura, qualsiasi forma. L‟altra parola, khal‟a, più comunemente usata nei dialetti arabi del Maghreb, deriva direttamente dal verbo che significa “sradicare”, estrarre con violenza. La prima parola, sar‟, era molto usata nella medicina araba medievale e, attraverso una serie di metonimie, giunse a significare disturbi associati ad agitazione fisica disordinata, solitamente identificati dagli autori moderni come epilessia o isteria ma che sono piuttosto simili a quanto gli antropologi e gli etnopsichiatri descrivono come disturbi di possessione (Nathan, 2005b). Ancora una volta, dunque, siamo in presenza di una parola che si riferisce contemporaneamente allo spavento e all‟eziologia di un disturbo causato dall‟invasione del mondo interno di un essere umano da parte di un altro essere non umano. Il termine khal‟a, traducibile con “anima sradicata”, è molto simile alle altre eziologie tradizionali e, come in bambara o in wolof, viene utilizzato per descrivere patologie caotiche: dall‟autismo infantile alle sindromi di agitazione psicomotoria, includendo tutta la sfera delle reazioni difensive all‟ambiente esterno, quali mutismo, ecolalia, ecoprassia e coprolalia. Anche la parola susto (“sussulto”), in spagnolo e portoghese, significa spavento e si riferisce – nella Penisola iberica come in America Latina – a un disturbo di tipo depressivo la cui eziologia è ancora una volta costituita dall‟incontro con un essere proveniente da un altro mondo che scaccia dal corpo l‟anima della vittima per prenderne il posto. Tra i Quechua del Perù, i sintomi del susto includono l‟indebolimento graduale del vigore fisico, ritiro sociale, anoressia e insonnia. Secondo i Quechua, questo disturbo, frequente anche nelle grandi città, è causato dalla cattura dell‟anima della vittima da parte della Terra o di una delle divinità che la rappresentano7. I Cinesi Hakka di Tahiti interpretano una serie di sintomi come il risultato di un‟esperienza spaventosa (hak tao) che ha separato la persona (spesso un bambino) dal suo doppio (t‟ung ngiang tsai), il quale non può più riguadagnare, di conseguenza, la sua posizione originaria. Il guaritore deve fare tutto quanto è in suo potere per recuperarlo, avvalendosi della persuasione nonché di promesse, trucchi, intimidazioni o minacce (Sin Chan, 2003). In kirundi, la lingua parlata nel Burundi, la stessa radice linguistica, kanga, si trova in una serie di parole connesse al concetto di spavento. Sylvestre Barancira (2004) spiega quanto segue: “Gukanga, significa spaventato; Kwikanga significa sussultare; Ggukangagurika, svegliarsi di continuo scosso da brividi, avere un sonno agitato, stare vigili e trasalire spesso. Igikangge si riferisce a un essere invisibile che si trova in territori selvaggi, paludi, burroni, selve o sotto terra. La sua presenza può essere riconosciuta nel Questo disturbo è così comune che è stato inserito nel DSM-IV; vedi anche PuryToumi (de), 1990. 7 IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011 39 40 fumo che sale dalla boscaglia di primo mattino e di sera, nelle scintille che si accendono nottetempo, nei rumori improvvisi rassomiglianti, talvolta, a quelli di una mandria o a quelli della vegetazione quando stormisce anche in assenza di vento. Come in molti paesi africani, pure i vortici di polvere che si alzano dal suolo al tramonto indicano la presenza di uno spirito spaventoso. La gente mormora che questi vortici sono il segno di uno spirito sotterraneo, il sacro pitone che striscia per andare ad abbeverarsi…Finanche una subitanea sensazione di freddo, caldo o torpore può essere un segno. Gli spiriti della natura selvaggia hanno una vita propria; come i Djinns o i Jnun delle culture arabe si sposano, fanno figli, allevano il bestiame, praticano la stessa religione degli umani: il rito di possessione Kubandwa, culto tradizionale del Burundi…A volte succede che uno spirito Ibikangge o Ibihume chiami qualcuno per nome proprio mentre quella persona sta passando nelle sue vicinanze, al tramonto o nelle primissime ore del mattino. Coloro che rispondono al richiamo rischiano di ammalarsi, di impazzire o persino di morire…Sono spesso attribuiti all‟azione di questi spiriti le allergie della pelle, la tumefazione improvvisa delle articolazioni, la paralisi di un braccio o di una gamba, il mutismo, le convulsioni, l‟agitazione o i deliri…L‟eziologia di queste patologie è l‟incontro casuale con gli spiriti: la vittima è stata spaventata – yarakanzwe – dal trovarsi di fronte a spiriti della foresta come Igikangge, Ibinyamwonga o Iggihume. Iggihume è un fantasma spaventoso, un mostro, uno spirito feroce e maligno, o lo spettro di una persona che ha conosciuto una morte violenta e che, rimasta senza sepoltura, ritorna a perseguitare i vivi…In Burundi, come in molte culture del mondo, la lingua stessa contiene la teoria dello spavento con cui ci stiamo familiarizzando: lo spavento manda in frantumi il Sé della persona così permettendo che vi subentri un essere non umano invisibile. La patologia che ne deriva – designata dalla nostra psichiatria come trauma, nevrosi traumatica o PTSD – è soltanto la manifestazione indiretta dell‟essere invisibile all‟interno della persona. La terapia dovrebbe quindi consistere nell‟espulsione di questo essere o, come minimo, nel tentativo di domarlo. Resoconto clinico Ci occuperemo ora di un caso in cui lo spavento ha provocato davvero l‟entrata di un essere invisibile all‟interno di una persona - fenomeno socialmente accettato e addirittura valorizzato, almeno nel contesto culturale in questione. Un breve promemoria storico servirà a comprendere la vicenda. Fin dai tardi anni Cinquanta, Rwanda e Burundi – che acquistarono entrambi l‟indipendenza nel 1962 – sono stati martoriati da un‟instabilità politica contrassegnata dall‟assassinio di presidenti, putsch militari e massacri8. Negli anni Novanta, tali massacri si trasformarono in genocidio. Tra questi, gli eventi del 1994 in Rwanda restano di gran lunga i più orrendi e incomprensibili. Furono innescati all‟alba del 6 aprile 1994 dall‟abbattimento con missili terra-aria dell‟aereo che trasportava il Presidente del paese, mentre stava atterrando all‟aeroporto della capitale Kigali. La Guardia Presidenziale e l‟Interahamwe, una milizia hutu agli ordini del governo, presero immediatamente il controllo e incominciarono a portare avanti un piano per eliminare fisicamente ogni Tutsi esistente in Rwanda. In poche settimane, venne letteralmente provocato un bagno di sangue: le acque dei fiumi divennero rosse del sangue di innumerevoli corpi; come rifiuti, decine di migliaia di cadaveri erano sparpagliati per le strade. In capo a quattro mesi, un ottavo della popolazione rwandese era stata brutalmente uccisa nel corso di tumulti di massa in cui si brandivano machete, lance, falci e poche armi da fuoco (African Rights, 1995; Hatzfeld, 2000, 2003). Sei mesi prima, fatti simili – seppure in scala ridotta – ebbero luogo in Burundi, un paese composto in larga parte dalla stessa popolazione del Rwanda. Nell‟ottobre del 1993, a seguito dell‟assassinio del primo presidente hutu, almeno Massacri in larga scala avvennero nel 1959, 1962, 1965, 1972, 1988, 1992, 1993, 1994; vedi Guichaoua, 1997. 8 IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011 41 42 trecentomila persone erano state massacrate per rappresaglia, usando strumenti altrettanto poco tecnologici. Alla fine del massacro rwandese del 1994, le Nazioni Unite dichiararono che il Rwanda era stato teatro di un genocidio perpetrato dagli Hutu contro i Tutsi - un genocidio che costò tra ottocentomila e un milione di vite umane. Il riconoscimento istituzionale del genocidio portò alla creazione da parte del Consiglio di Sicurezza di un tribunale internazionale per i crimini in Rwanda (ICTR) con base ad Arusha, in Tanzania. I massacri del Burundi, invece, devono ancora ottenere un riconoscimento giuridico internazionale. Nel frattempo, nessuno è stato giudicato o anche solo accusato dal debolissimo sistema giudiziario del Burundi. Intanto, per diminuire il livello di conflitto quotidiano, i vari governi hanno ripetutamente concesso delle amnistie. Il racconto seguente venne reso nel novembre del 2003, durante un corso di formazione sul trattamento psicologico delle vittime di trauma di massa, organizzato all‟Università di Bujumbura, in Burundi (Hounkpatin, 2005). Chi parla è un giovane, il cui vero nome è stato da noi modificato in Jean-Chrysostome. “Il 21 ottobre 1993, fu assassinato il Presidente Ndadayé, di origine hutu. Per gli Hutu, egli venne ucciso dai Tutsi. Gruppi hutu iniziarono allora a uccidere i Tutsi, irrompendo nelle loro abitazioni. Mi trovavo a casa con i miei fratelli e non sapevamo che cosa stesse effettivamente accadendo. Fuori si era formato un piccolo gruppo di Tutsi che fuggirono appena si resero conto di essere troppo pochi per fermare gli assalitori. Ero insieme ai miei due fratelli ma decidemmo di scappare in direzioni diverse. Uscii in strada e incontrai una donna che stava andando a prendere acqua dal pozzo. Le chiesi dove si trovassero gli assassini e quando mi rispose, pensai che stesse mentendo perciò scelsi di correre in un‟altra direzione. Passai tutto il giorno nascosto nella foresta. Intorno alle sette di sera, ebbi la sensazione che non stessero più uccidendo nessuno, per via della calma. Decisi di abbandonare la foresta e di camminare verso Muranza. Nell‟istante stesso in cui misi piede sulla strada, mi imbattei in un gruppo di trenta o quaranta uomini che portavano torce elettriche, machete, mazze, insomma tutte quelle cose che stavano usando per ammazzare la gente. Mi ordinarono di fermarmi ma cercai rifugio in una casa, dentro la quale mi chiusi a chiave. Mi seguirono e sfondarono porte e finestre. Mi nascosi dentro per evitare le pietre che lanciavano. Riuscirono infine a entrare nella casa e mi ordinarono di seguirli. Dovetti obbedire. Perquisirono ogni centimetro dell‟abitazione; cercavano altre persone ma ero da solo. Mi ordinarono di uscire e appena lo feci cominciarono a colpirmi con i machete. Mi accusarono di non aver dato retta ai loro ordini. Non mi legarono come facevano di solito, così riuscii a proteggermi la testa e, grazie a questo, a salvarmi. In questo modo evitai alcuni fendenti di machete. Stavano tutti cercando di colpirmi con i loro machete. Ad un certo punto udii qualcuno dire “state attenti, non lasciatelo scappare” e capii che dovevo provarci. Alla mia sinistra c‟era un mucchio di gente, ma dall‟altro lato non erano in tanti e potei così sgusciare tra le loro gambe. Due uomini mi rincorsero. Caddi una volta, poi una seconda e alla terza mi raggiunsero. Ma anche uno dei miei aggressori cadde, lo afferrai alla gola e strinsi più forte che potei. Agguantai pure la roncola che voleva usare per uccidermi, ma la impugnai per la lama e mi ferii. Pensavo che, se l‟avessi lasciata, quello l‟avrebbe recuperata. L‟altro tipo stava gridando e chiamava i suoi amici. Ne arrivò un terzo, aveva una mazza e mi colpì sulla schiena. Lasciai andare la roncola e caddi steso sul dorso. Uno di loro aveva una torcia elettrica; si rese conto che non ero morto. Il cuore mi batteva velocissimo. Non sono sicuro di cosa accadde subito dopo, ma rimasi disteso senza muovermi e quelli pensarono che fossi morto. Si consultarono per decidere su come sbarazzarsi del mio corpo. Cercarono una latrina in cui potermi buttare. Dicevano che non doveva restare nessuna traccia di sangue. Mi sollevarono e mi portarono verso la latrina. Dal momento che ero ancora un po‟ cosciente, cercai di bloccare l‟entrata col ginocchio. Una mazza mi colpì sulla gamba ed io caddi in fondo alla latrina profonda circa dieci o dodici metri. Quando sbattei contro il fondo, mi resi conto che la latrina non era stata ancora usata. Mi accorsi di stare sanguinando, ma non sapevo da dove. Avevo perso le mie scarpe ma non i calzini, così li utilizzai per fasciarmi le ferite. Poi persi conoscenza. Passarono una notte e un giorno intero. Verso sera, cominciai a sognare. Nel mio sogno, vidi i miei amici, quelli con cui stavo prima che iniziasse tutta la faccenda. Vidi qualcuno che cercava di costruire sopra di me una casa, una specie di torre, come una latrina. Lo chiamai ad alta voce, chiedendo soccorso, e gli dissi che ero affamato e avevo freddo, ma la persona non accennò a muoversi. Urlai che quando mai fossi riuscito ad uscire da quel IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011 43 44 posto, se ne sarebbe pentito. Poi udii una voce che diceva “prendi una scala ed esci di qui”. Ma non ce n‟era nessuna, era ancora un sogno. Poi vidi la luce del sole che tramontava. Quando mi allungai per prendere la scala e vidi la luce, ripresi conoscenza. Capii che non c‟era nessuna scala e che ero da solo. Poco a poco, mi resi conto di dove mi trovavo. All‟inizio pensavo di essere in una cisterna. Quando capii che non c‟era uscita, pensai che forse potevo usare le fenditure nei muri della latrina per arrampicarmi, ed è quello che feci. Da cristiano, pregai Dio perché mi desse il Suo aiuto ad arrampicarmi fuori da quel buco. Avevo un dito che era stato praticamente strappato via, ma parte di esso restava ancora attaccato alla mano. Provai a staccarlo completamente con i miei denti ma non ci riuscii. Allora lo ripiegai nel cavo della mano. Le mie ferite erano molto dolorose e usai i gomiti per risalire. Mi sentivo girare la testa, così mi fermai per un po‟, puntellandomi con la schiena per riposare. Poi ripresi ad arrampicarmi. Quando stavo ormai per arrivare in cima, urtai contro alcune rocce e mi ferii alla spalla, ma riuscii a non cadere di nuovo giù. Una volta fuori, rimasi immobile per circa cinque minuti, guardandomi in giro, non capendo dov‟ero né cosa mi fosse successo. Poi pensai che dovevo nascondermi da qualche parte. Il primo edificio che vidi era una scuola diretta da suore. Scorsi un piccolo gruppo di vigilanti alla ricerca di fuggitivi. Entrai nella scuola. Mi sono dimenticato di dirvi che i vestiti mi erano stati strappati via per cui ero in mutande, insanguinato e coperto di fango. Una suora richiuse il cancello dietro di me e mi disse di affrettarmi ad entrare, ma non potevo andare più veloce, così mi aspettò. La prima cosa che dissi fu “ho fame”. Ma quando mi venne portato del cibo, non riuscii a mangiare nulla. Così bevetti prima un po‟ di latte e gradualmente recuperai un po‟ di forze”. Eravamo in gruppo nella stanza appositamente allestita per le consultazioni all‟Università di Budjumbura. Tra i giovani psicologi ve ne erano alcuni passati attraverso gli stessi eventi ma nessuno era stato così vicino alla morte. Ognuno di noi ascoltò attentamente la storia di Jean-Chrysostome. Quando qualcuno gli chiese dove avesse trovato la forza di resistere, rispose che Dio era entrato dentro di lui nell‟attimo del suo spavento più intenso. Dio si era manifestato nel sogno della scala e gli aveva trasmesso il vigore per risalire dalla latrina. Da quel giorno, Jean-Chrysostome, psicologo clinico e pastore di una chiesa evangelica, si dedica alla preghiera e alla cura, guidato dallo stesso essere apparsogli in quelle ventiquattro ore passate in fondo a una latrina… Il processo cumulativo del trauma Nei tre esempi clinici forniti fin qui, attraverso il processo dello spavento appena descritto, l‟evento traumatico ha fatto in modo che la vittima venisse a contatto con un mondo nascosto. In tutti e tre i casi, questo secondo mondo invisibile era culturalmente a disposizione della persona, anche se questa vi aveva fatto poca attenzione nella sua vita quotidiana. Nel primo esempio, fino all‟evento traumatico, il mondo delle Striga non aveva avuto una relazione diretta con la giovane donna che, probabilmente, aveva sentito parlare di questi esseri terrificanti in storie e leggende, però mai si sarebbe immaginata di avere personalmente qualcosa a che fare con loro. L‟incontro con i Serbi minacciosi, invece, di colpo l‟aveva posta a stretto contatto con questo mondo nascosto, obbligandola in seguito – e allo stesso modo obbligando i suoi terapeuti – a riconoscerne l‟esistenza e a contrastarlo. In maniera analoga, fino a quando il lavoratore algerino immigrato aveva vissuto più o meno senza problemi la sua routine quotidiana in Francia, dove era riuscito a costruire una vita per sé e la propria famiglia, aveva avuto ben pochi motivi per pensare o preoccuparsi della stregoneria o dei Djinns. Ancora una volta, in questo caso, lo spavento causato dall‟incidente, l‟esperienza di risvegliarsi nel mondo dei morti, aveva cambiato le cose. La sua sintomatologia posttraumatica venne alleviata solo dopo che l‟altro mondo, caratteristico della sua cultura d‟origine, fu riconosciuto, ricevendo un trattamento appropriato e competente nel quadro di riferimento di quell‟altro mondo nascosto. In entrambi gli esempi, come in molti casi simili, l‟evento traumatico ha messo le vittime in contatto con il mondo nascosto esistente all‟interno dei rispettivi contesti culturali. In termini terapeutici, il primo passo verso la cura di questi pazienti è dare credito agli esseri non umani invisibili, riconosciuti e descritti come tali dalla IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011 45 46 tradizione culturale del paziente. Secondo la nostra esperienza, una singola seduta è spesso sufficiente per ottenere un miglioramento significativo. D‟altro canto, sebbene simile ai primi due, il caso di Jean-Chrysostome è leggermente diverso; dopo la sua esperienza traumatica non ha sviluppato sintomi post-traumatici come accaduto nei nostri due primi esempi. In realtà, potremmo anzi dire il contrario: passato attraverso morte e risurrezione, Jean-Chrysostome ha assunto su di sé le responsabilità di una figura pubblica, ovvero di guaritore e leader religioso. Nel suo caso, invece di metterlo in contatto con i tradizionali esseri invisibili del proprio mondo culturale, lo spavento estremo, l‟esperienza della morte e del ritorno alla vita, lo hanno obbligato a lottare insieme alle forze che si stanno affermando in Burundi e a partecipare attivamente alla costruzione di una nuova realtà sociale. In effetti, chiese cristiane di varia denominazione e culti di ispirazione cristiana sono in ascesa in tutta l‟Africa Centrale e stanno diventando le vere forze politiche dominanti nella regione. Per inciso, l‟esperienza di Jean-Chrysostome suggerisce i modi in cui il processo traumatico può essere usato deliberatamente – e molto spesso lo è – come uno strumento politico per operare una trasformazione radicale e fondare un nuovo mondo. Sebbene i suoi aggressori lo avessero destinato a morire, il fatto stesso di essere sopravvissuto costituiva la prova vivente che Gesù è davvero il suo personale Salvatore. La sua conseguente trasformazione, o trasfigurazione, è nondimeno una chiara dimostrazione che l‟uso dello spavento per orchestrare la morte e la rinascita di qualcuno può rappresentare uno strumento psicologico e politico in grado di permettere una modificazione completa oltre che irreversibile della persona. Proprio per questa ragione, il trauma è uno strumento ben conosciuto nelle culture tradizionali, come si può intravvedere nella struttura di numerosi riti d‟iniziazione nel mondo (Zajde, 1998). Per lo stesso motivo, esso è anche uno strumento messo sempre più frequentemente al servizio di gruppi radicali politici e religiosi contemporanei. Il potere trasformativo del trauma appartiene alla qualità cumulativa del processo traumatico. Se accettiamo l‟idea suggerita dalle eziologie culturali dello spavento, secondo cui lo spavento estremo provoca un‟effrazione della persona che mette in contatto quest‟ultima con esseri di un mondo sconosciuto, allora l‟effetto principale del trauma è il crollo del mondo quotidiano della persona. Al suo posto, come abbiamo visto, si rivela un mondo nuovo e nascosto. Però, se e quando questo processo è ripetuto varie volte, il mondo e gli esseri nascosti o sconosciuti ma culturalmente accettati, rivelati dall‟evento traumatico iniziale, sono a loro volta soggetti a effrazione, per cui la vittima viene in contatto con esseri e mondi precedentemente ignoti non solo a lei, ma all‟umanità intera. Questo spiega, invero, l‟effetto isolante del trauma cumulativo: un poco alla volta la persona diventa la sola sulla Terra a sapere di mondi nascosti che nessun altro può vedere o percepire. Pertanto, ad ogni nuovo evento traumatico, il mondo usuale e quotidiano della persona perde significato fino a diventare totalmente privo di senso e vuoto, obbligando la vittima – oltre che i suoi terapeuti – a costruire un “neo-mondo” nel quale la successione degli eventi e le loro implicazioni abbiano un qualche senso. Il resoconto seguente, scritto da un sopravvissuto di Auschwitz (Bialot, 2002), è al contempo un‟agghiacciante e articolata descrizione di questo processo9. All‟epoca dell‟accaduto, l‟autore si trovava ad Auschwitz da molto tempo; qui incontrò un uomo che conosceva quando vivevano a Parigi e lo seguì nel suo blocco con la speranza di rimediare ancora un‟altra razione di zuppa. “Sto mandando giù il contenuto di un piatto di zuppa quando mi colpiscono delle luci abbaglianti. Una voce annuncia „Lagersperre!‟ Campo chiuso! Coprifuoco! Che sto facendo qui? Lascio cadere il piatto e mi lancio fuori dalla porta. Su etnopsichiatria, sopravvissuti all‟Olocausto e loro discendenti, Zajde, 2005a, 2005b; Zajde, Grandsard, 1996, 2002. 9 IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011 47 48 Questa volta non ce la farò. Sono spacciato. La ragione è semplice: non riuscirò ad arrivare nel mio blocco prima del coprifuoco. Se per una SS questo non è un tentativo di evasione, allora cos‟è? …Corro, corro, corro, aspettandomi una raffica di mitragliatrice da una delle torrette di guardia. Nessuno potrebbe evitarla. Ogni posto di sorveglianza controlla un settore alla portata del suo tiro ed è impossibile trovare riparo. L‟unica soluzione sarebbe quella di gettarmi contro il recinto di filo spinato elettrificato. Scopro la vera paura. Non solo ansia, non solo immaginazione amplificata, ma realtà. Sono il bersaglio scelto di tutti i mitraglieri delle SS. L‟unico dubbio è: quale torretta aprirà il fuoco per prima? In quel preciso istante, ho smesso di far parte del mondo “normale”, per acquisire la mia nuova pelle: la pelle di un deportato. Fino a quel momento, conoscevo solo con la ragione quanto accadeva in un lager. Quella sera ho perso ogni contatto con i miei simili, percependo le relazioni tra gli esseri umani da una prospettiva che non avevo mai sospettato: come relazioni governate dall‟assenza di leggi. In effetti, sono l‟unico partecipante di un gioco assurdo, le cui regole non sono padroneggiate da nessuno poiché ogni SS ha il diritto di improvvisare secondo il proprio umore. Per me, vincitore o perdente che sia, il nome del gioco è morte. D‟ora in avanti, sono un Häftling, un condannato perfetto, una cosa con la faccia da uomo. Le SS si riferiscono al deportato come a uno “Stück”, un pezzo o una parte. Un pezzo di legno o di metallo ha un valore, almeno commerciale. Lo Stück che sono diventato non ha invece nessun valore, sia esso estetico, morale o commerciale. Può essere gettato via o bruciato. D‟ora in poi, faccio parte di questo mondo di parti superflue. Non sono che un minuscolo pezzo di un nuovo mondo che non avrei mai potuto immaginare sebbene mi sia cucito addosso alla perfezione”. Il trauma, dunque, è un processo attraverso cui accade qualcosa non solo alla persona ma al mondo stesso, in modo tale che la vittima sia resa permeabile a nuove idee, aperta all‟avvento di un nuovo ordine, in cerca di nuovi significati. Questo è uno dei pericoli principali del trauma cumulativo. Quando la persona è stata “aperta” da eventi traumatici consecutivi, essa è vulnerabile a tutti i tipi di forze e di idee sociali, politiche, religiose e/o esoteriche che sperimenta una dopo l‟altra o talvolta simultaneamente, in una ricerca di senso senza fine. In simili casi, il lavoro del terapeuta consiste nell‟ingegnarsi a identificare e costruire, insieme al paziente, il nuovo mondo annunciato dagli eventi traumatici e in cui deve assegnare il giusto posto al paziente stesso. Non è un compito semplice… Conclusione: una filosofia dello spavento La concezione dello spavento in quanto fattore eziologico è scomparsa dalla psicopatologia scientifica, essendo stata dapprima rimpiazzata dal concetto di ansia (in psicoanalisi) quindi, più di recente, dall‟idea di uno squilibrio biochimico di alcune sostanze cerebrali come la serotonina o la dopamina (psichiatria farmacologica). Eppure, la maggior parte delle culture tradizionali continuano a ricorrere ad esso con un provato successo terapeutico. Infatti, le interpretazioni basate sulla categoria dell‟ansia producono un soggetto isolato con un dolore psichico persistente. Il concetto di spavento, invece, spinge i clinici a pensare l‟alterità, la vera alterità - non i nostri “altri” simili a noi, del tutto identici a noi stessi, ma gli “altri di un altro mondo”, il cui semplice incontro apre un breccia nella nostra psiche e la cui sola presenza ci pietrifica! Spingendo il ragionamento ancora un poco oltre, possiamo dire che lo spavento cumulativo vincola il terapeuta a costruire un nuovo mondo per il suo paziente traumatizzato. I Kashinawa, nativi della foresta amazzonica, consapevoli del vantaggio di fabbricare individui curiosi verso altri mondi, professano una vera e propria apologia dello spavento. Essi sostengono che l‟abilità nel farsi spaventare è una virtù capace di formare nella stessa misura un cacciatore e uno sciamano esperti. Un cacciatore ha bisogno di essere in profonda sintonia con il mondo animale, lo sciamano con quello degli spiriti (Deshayes, 2002a), e lo spavento è l‟unico modo per introdurre una persona in un altro mondo. Allo scopo di iniziare questi futuri specialisti al controllo dello spavento, viene somministrata ai novizi una bevanda chiamata ayawaska, contenente succhi derivati da una liana e dalle foglie di uno specifico tipo di arbusto. I Kashinawa forniscono la sottile spiegazione secondo cui le foglie producono le IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011 49 visioni mentre la liana fa vomitare il terrore provocato da esse. L‟alternanza tra visione ed eiezione conferisce gradualmente al novizio la capacità di sopportare il suo spavento benefico (Deshayes, 2002b). L‟abilità nel far fronte al proprio spavento equivale perciò a quella di percepire mondi diversi basati su principi logici ignoti. Questa abilità può essere comparata alla curiosità del ricercatore che deve essere in grado di tollerare la propria sorpresa. Il termine “spavento” è oggi usato raramente dagli psicopatologi professionisti, i quali prediligono parole come “trauma” o “stress”, anche se sta aumentando l‟interesse per tutte le concezioni che lo includono. Le recenti ricerche sulla psicopatologia del trauma e in etnopsichiatria mettono in luce la sua rilevanza oltre al fatto che le culture tradizionali fanno bene a rimanervi attaccate. 50 RIASSUNTO La psicopatologia scientifica e i vari approcci psicoterapeutici, quando si misurano con i disturbi di tipo traumatico, sembrano incapaci di avanzare con la stessa raffinatezza tecnica e precisione teorica utilizzate invece con altre categorie di disturbi mentali. Gli autori sottolineano con forza come il trauma manifesti una peculiare resistenza non solo al trattamento, farmacologico e psicoterapico, ma anche a essere ripensato dalle discipline cliniche. Se è vero che gli eventi traumatici segnano il limite delle terapie moderne, le quali non si curano del mondo esterno e si concentrano invece sulla soggettività psicobiologica della vittima, la proposta contenuta in questo articolo costituisce una sfida: spostare l‟attenzione terapeutica dalla vittima del trauma all‟evento traumatico, trattando per così dire l‟evento al posto della persona. È ciò che fanno i sistemi tradizionali quando mettono alla base del disturbo traumatico il concetto di spavento. Nelle lingue – qui se ne esplorano alcune come il quechua, il wolof, l‟arabo, il kirundi – si troverebbe inscritta una teoria dello spavento comune a diverse culture: lo spavento consisterebbe nell‟incontro terrifico e casuale con un essere di un altro mondo, che invade lo spazio interno dell‟essere umano, dopo che in quest‟ultimo si è aperta una breccia psichica. Questo modello viene estratto e commentato anche a partire da diversi casi clinici attraverso i quali si sviluppa il ragionamento degli autori. PAROLE CHIAVE: Stress post-traumatico, Spavento, Metamorfosi ABSTRACT When scientific psychopathology and modern approaches of psychotherapy have to cope with traumatic disorders, they seem to be less precise and sophisticated than they use to be with other categories of mental disorder. The authors strongly underline how trauma is peculiarly resistant not only to pharmacological and psychotherapeutic treatment, but also to conceptualisation: models utilised by clinical disciplines in order to understand its mechanism prove to be poor and obsolete when compared to the progresses of psychopathological thought. If it‟s true that traumatic events show the limits of modern therapies, because therapeutic perspectives are usually centred on the psychobiological subjectivity of the victim and don‟t take into account the world outside the subject, the clinical proposal made in this article sounds like a challenge: why don‟t we shift therapeutic attention from the victim of trauma to the traumatic event? But this is what traditional systems already do when they conceive fright as an explanatory model for traumatic disorders. In fact, a theory of fright common to different cultures is to be found in languages like Quechua, Wolof, Arabic, Kirundi: fright is due to the casual encounter with a terrifying being from another world, that invade the inner space of a human being, after having opened a breach in his mind. This model is also drawn from different clinical cases analysed by the authors. KEY WORDS: Post-traumatic stress, Fright, Metamorphosis IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011 51 BIBLIOGRAFIA 52 African Rights, Not So Innocent: When Women Become Killers, African Rights, London, 1995. American Psychiatric Association: Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali- IV edizione – Text Revision, American Psychiatric Association, Washington, DC, 2001. Barancira S., “Théorie et traitement traditionnel de la frayeur”, saggio presentato presso il Centre Culturel Français de Bujumbura, Bujumbura, Burundi, 30 Marzo 2004. Bialot J., C‟est en hiver que les jours rallongent, Le Seuil, Paris, 2002. Boris N.W., Ou A.C., Singh R., “Preventing post-traumatic stress disorder after mass exposure to violence”, Biosecurity and Bioterrorism: Biodefense Strategy, Practice, and Science, 3(2), 164-165, 2005. Crocq L., “Histoire du debriefing”, Pratiques Psychologiques, 10(4), 291-318, 2004. Davidson P., “Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR): A Meta-Analysis.” Journal of Consulting and Clinical Psychology, 69(2), 305-316, 2001. Deshayes P., “Frayeurs et visions chamaniques : le malentendu thérapeutique”, Psychologie française, 47-4, 5-14, 2002a. Deshayes P., “L‟Ayawaska n‟est pas un hallucinogène”, Psychotropes, 8, 65-78, 2002b. Devereux G., “Dedans et dehors… la nature du stress”, Revue de Médecine Psychosomatique et de Psychologie Médicale, 2, 103-113, 1966. Ripubblicato in Devereux, Ethnopsychanalyse complémentariste, ch. II, Flammarion, Paris, 1972. Ehlersa A., Clarka D., “Early Psychological Interventions for Adult Survivors of Trauma: A Review”, Biological Psychiatry, 53(9), 817-826, 2003. Gelpin E., Bonne O., Peri T., Brandes D., Shalev A.Y., “Treatment of recent trauma survivors with benzodiazepines: a prospective study”, Journal of Clinical Psychiatry, 57(9), 390-394, 1996. Guichaoua A., «Zoom sur…Les crises de la région des Grands Lacs» Politique Africaine, 68, 11-22, 1997. Hatzfeld J., Dans le nu de la vie, récits des marais rwandais, Le Seuil, Paris, 2000. Hatzfeld J., Une saison de machettes, Le Seuil, Paris, 2003. Hounkpatin L., “Survivre au génocide… et après ?” Revue Française de Psychosomatique, 28, 105-123, 2005. Lewis S., “Do One-Shot Preventive Interventions For PTSD Work? A Systematic Research Synthesis Of Psychological Debriefing”, Aggression and Violent Behavior, 8(3), 329-343, 2003. Nathan T., La folie des autres. Traité d‟ethnopsychiatrie, Dunod, Paris, 2001a. Nathan T., Nous ne sommes pas seuls au monde, Le Seuil-Les Empêcheurs de penser en rond, Paris, 2001b. Nathan T., L‟influence qui guérit, Odile Jacob, Paris, 2002. Nathan T., “The Djinns: A Sophisticated Conceptualization of Pathologies and Therapies”, in Moodley R., West W. (a cura di), Integrating Traditional Healing Practices Into Counseling and Psychotherapy, Sage Publications, Thousand Oaks, London, New Delhi, 26-37, 2005a. Nathan T., “Etnopsichiatria, complementarismo, possessione”, in Attenasio L. Casadei F., Inglese S., Ugolini O. (a cura di), La cura degli altri. Seminari di etnopsichiatria, Roma, Armando, 164-178, 2005b. Neumeister A., “What role does Serotonin play in PTSD?”, Psychiatric Times, 23 (4), Aprile, 2006a. NeumeisterA.,http://psychiatrictimes.com/showArticle.jhtml?arti cleId=186700462, Giugno, 2006b. IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011 53 54 Pury-Toumi S. (de), “Une maladie nommée susto”, Nouvelle revue d‟ethnopsychiatrie, 15, 173-207, 1990. Robertson M., Humphreys L., Ray R., “Psychological treatments for posttraumatic stress disorder: recommendations for the clinician based on a review of the literature”, Journal of Psychiatric Practice 10(2), 106-118, 2004. Sin Chan E., “Une étiologie traditionnelle chez les Hakka de Polynésie française : le hak tao ou la théorie étiologique de la frayeur” Ethnopsy: Les mondes contemporains de la guérison, 5 , 181-207, 2003. Taylor S., Thordarson D.S., Maxfield L., Fedoroff I.C., Lovell K., Ogrodniczuk, “Comparative efficacy, speed, and adverse effects of three PTSD treatments: exposure therapy, EMDR, and relaxation training”, Journal of Consulting and Clinical Psychology, 71(2), 330-338, 2003. Van Emmerik A., Kamphuis J.H., Hulsbosch A.M., Emmelkamp P.MG., “Single session debriefing after psychological trauma: a meta-analysis”, The Lancet, 260 (9335), 766-771, 2002. Vermeiren E., De Clercq M., “Le debriefing psychologique après un événement à caractère traumatique: intérêts et limites”, Médecines de catastrophe-Urgences collectives, 2(3-4), 95-99, 1999. Watson P., Friedman M., Ruzek J., Norris F., “Managing acute stress response to major trauma”, Current Psychiatry Reports, 4(4), 247-253, 2002. Zajde N., “Le traumatisme”, in Nathan T. (a cura di), Psychothérapies, Paris, Odile Jacob, , 223-279, 1998. Zajde N., Enfants de survivants, Odile Jacob, Paris, 2005a. Zajde N., Guérir de la Shoah, Odile Jacob, Paris, 2005b. Zajde N., Grandsard C., “Kaddish. Rituel de deuil dans un groupe de parole d‟enfants de survivants de la Shoah”, Nouvelle revue d‟ethnopsychiatrie, 31, 119-138, 1996. Zajde N., Grandsard C., “Le groupe de parole d‟enfants de victimes de la Shoah: un dispositif de recherche en psychologie clinique”, Psychologie française, 47, 73-83, 2002. 55 IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011 Filippo Casadei10, Salvatore Inglese11 Babelogue. Lingue e processi di mediazione clinica 0.1 - In questo articolo ci proponiamo di riflettere su quali siano gli elementi basilari per la costruzione di un dispositivo clinico di ispirazione etnopsichiatrica finalizzato alla tutela della salute mentale delle popolazioni straniere. Innanzitutto, occorre un attore collettivo, ovvero un gruppo di lavoro costituito da varie figure professionali (operatori sociosanitari, mediatori, antropologi, linguisti, filosofi, giuristi, ecc.) che sia capace di fare della mediazione linguisticoculturale un asse portante della propria metodologia operativa. Tale riferimento non deve mai essere smarrito neppure qualora il gruppo sia costretto a intervenire in condizioni lontane da quelle ideali. Per spiegare in cosa consiste un dispositivo di mediazione clinica bisogna guardare all‟oggetto centrale di questa macchina: la lingua, o meglio le lingue, dove il plurale indica una molteplicità babelica di codici linguistici in azione e confluenti nel discorso clinico. Progettiamo tale mediazione come un sistema interattivo che fa parlare gli oggetti (lingue), piuttosto che come un processo intersoggettivo (interumano) messo in moto da persone (i mediatori). La matrice linguistica primaria, quella in cui l‟individuo è maturato emotivamente e cognitivamente, con la quale esprime al meglio la visione del mondo, i valori, gli affetti, l‟ethos del suo gruppo insieme alla Etnolinguista (Dipartimento Salute Mentale ASL Firenze e Prato); Dottorando in Antropologia ed Epistemologia della Complessità (Università di Bergamo); FAR/ERG (FAR/Etnopsychiatry Research Group) 11 Psichiatra, Psicoterapeuta, antropologo medico; Responsabile Modulo di “Psichiatria Transculturale e di Comunità – Metodologia della ricerca” – Dipartimento Salute Mentale ASP Catanzaro; FAR/ERG (FAR/Etnopsychiatry Research Group) 10 IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011 57 58 singolarità del suo vissuto culturale, non è un elemento accessorio (un “lusso”) dell‟impresa clinica ma il fattore fondamentale che consente di comprendere quella persona o quella forma di vita particolare (individuale e collettiva, sempre data storicamente e culturalmente) con le sue derive psicopatologiche. In un lavoro precedente, abbiamo definito questa lingua-mondo come lingua matrice, anche per differenziarla dalla lingua materna (Casadei, Festi, Inglese, 2005). Quest‟ultima, infatti, proviene da una concettualizzazione etnocentrica e legata a contesti monolingui (formula predominante: “la lingua prima del bambino è la lingua della madre”) per cui occlude l‟ingresso nella direzione di una riflessione sulla mediazione con pazienti provenienti da società e gruppi multilingui (de Pury Toumi, 1994). Attraverso la lingua matrice è possibile esplorare le reti significanti della persona: la lingua fa parte del mondo empirico del soggetto, comportandosi per questo come ogni altro oggetto sensibile, ma consente anche di comunicare su quel mondo, collegandosi a oggetti, persone, pratiche, situazioni molto distanti dal qui ed ora dell‟enunciazione ovvero, nel nostro caso, dalla situazione clinica e dall‟universo di riferimento degli operatori. Questi collegamenti sarebbero facilmente attivabili in una lingua diversa da quella matrice del paziente? Secondo noi essi non sarebbero accessibili al paziente che, adattandosi alla lingua del clinico, sarebbe costretto a dimenticare o narcotizzare i collegamenti che lo ricondurrebbero ai contesti d‟origine; sarebbero inaccessibili anche al clinico che, senza decentrarsi dalla propria matrice comunicativa, non riuscirebbe a individuare dietro la parola dell‟altro un mondo pieno di senso. Le lingue non sono un ostacolo insormontabile (barriera comunicativa) ma autentica opportunità per aumentare la porzione di scambio tra l‟universo clinico e quello del paziente. È chiaro che l‟introduzione delle lingue incrementa i livelli di complessità dell‟operazione di cura, al punto che molti rinunciano all‟impiego dei mediatori linguisticoculturali nella loro attività con i gruppi stranieri. Questa chiusura produce una cecità profonda rispetto alle esperienze e ai contesti di vita del paziente e può diventare una forma di maltrattamento perché, privando l‟intervento terapeutico della sua parte etnoclinica, preclude all‟individuo sofferente la possibilità di ricorrere alla forza del suo gruppo di riferimento, ai legami significativi con la propria comunità. Una volta condivisi questi assunti di base, il gruppo di mediazione può cominciare la sua esperienza. Prima di passare alla fase operativa, è però necessaria una formazione teorica e tecnica congiunta delle figure professionali coinvolte nell‟attività clinica. L‟utilizzo appropriato della mediazione linguistico-culturale dipende da una metodologia di lavoro che funziona se applicata dalla totalità del gruppo. Chiunque rimanga all‟oscuro dei metodi e degli obiettivi della mediazione finisce con l‟ostacolarla. Quale tipo di formazione sarebbe utile? Da quali e quanti elementi dovrebbe essere composto il gruppo di mediazione? In quale punto della rete sociosanitaria si dovrebbe collocare? Tali variabili vanno esaminate ogni volta che si attivi un dispositivo di mediazione etnoclinica, la cui progettazione va sempre modellata sul territorio reale in base alle specificità dei gruppi con i quali si dialoga, ai fenomeni che necessitano di risposta, alle risorse linguistiche e professionali disponibili, all‟organizzazione dei servizi già operanti in quel contesto. Nel setting clinico in cui si invita a utilizzare la lingua matrice o una delle lingue-matrici possibili (es., persone appartenenti a famiglie o gruppi multietnici dove si parlano varie lingue), il paziente accetta di esprimersi attraverso di esse, sormontando resistenze spesso dissimulate, poiché in tale setting esiste un ospite controverso (mediatore: interprete della sua stessa matrice linguistica) che si manifesta come il suo doppio: seconda voce narrante, una sorta di alter ego che occupa uno status funzionale specifico all‟interno del gruppo curante. La presenza del mediatore è un antidoto efficace contro la tentazione di raffigurare gli stranieri come nullatenenti (senza nomi propri, storicamente assegnati e vissuti, né relazioni sociali e familiari); al tempo stesso, ci rivela la loro natura di proprietari della lingua. Questa scoperta permette un salto conoscitivo poiché il mediatore e il paziente diventano dei ricercatori attivi che, insieme al gruppo clinico, esplorano aree incognite del loro mondo di provenienza. Le domande che si IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011 59 60 pongono sono degli interrogativi rivolti, in primo luogo, al sistema di pensiero del loro gruppo. Durante la seduta lo scambio in lingua matrice avvia un processo di presentificazione del gruppo di appartenenza del paziente e delle realtà culturali con cui quel gruppo si identifica: “Tra soggetti e oggetti culturali si istituisce un‟equazione identificatoria: come i prodotti tecnici appartengono a un gruppo e sono identificati quale proprietà inalienabile di quest‟ultimo (oggetto generato da gruppo), il gruppo è identificato dall‟esistenza e dal funzionamento di questi oggetti (gruppo derivato da oggetto). Nella dimensione cronologica (mitica, storica) tale equazione diventa spesso una funzione processuale che garantisce mutazioni, cambiamenti e innovazioni sia dei gruppi sia degli oggetti, attraverso azioni su questi ultimi (es.: smarrimento, oblio, profanazione, distruzione, sostituzione) o per loro traslazione dalle mani di un soggetto culturale all‟altro” (Harrag, 2007, p. 158). La perdita dei testi sacri può trascinare con sé, per dispersione, la fine di un popolo. Gli esempi sono numerosi perché il catalogo degli esseri culturali è un insieme aperto: ci sono genealogie, interdetti, teorie eziologiche, pratiche di cura, di divinazione….Con l‟introduzione di un terzo, intermediario tra terapeuta e paziente, il colloquio clinico diventa spazio pubblico di parola dove la dimensione culturale e quella psicologica trovano i loro “rappresentanti” e “delegati” (Latour, 1999). 0.2 - A monte dell‟oggetto-lingua sta il tradurre, indissociabile dalla pratica clinica: la traduzione si pone come elemento primo. Anche il singolo locutore è un traduttore, quando passa dal sistema linguistico virtuale all‟atto concreto, sociale, di parola. Con il termine “traduzione” intendiamo un processo di comprensione delle lingue e di trasmutazione del senso che necessitano sempre della cooperazione dell‟Altro. Quando il paziente si mette improvvisamente a parlare nella sua lingua d‟origine, senza che nessuno possa capirne il significato, sta probabilmente sfidando il sistema clinico attraverso l‟inabissamento in un codice incomprensibile. Se non c‟è un interprete perdiamo la capacità di parlamentare non tanto con il singolo soggetto – visto che prima parlava l‟italiano, abbiamo ancora la possibilità di comunicare con lui – quanto con il suo gruppo, mantenuto sconosciuto perché a lingua ignota. Ciò accade nel momento in cui il paziente sembra posseduto dalla lingua. In questi casi la presenza di un mediatore in grado di tradurre diventa una precondizione del colloquio perché obbliga il paziente ad uscire dalla trance linguistica idiosincrasica e incomunicabile per entrare in una trance condivisa e transitiva. “Solo installandosi in questa posizione il mediatore può ricadere produttivamente nel raggio d‟influenza del paziente riuscendo così a interpretarne le istanze comunicative: dunque sempre abbastanza vicino al paziente da esserne influenzato e, in un certo senso, posseduto, ma sufficientemente distanziato da non confondersi e perdersi nell‟identità del paziente” (Casadei, Festi, Inglese, 2005, p.299). Durante la consultazione con pazienti migranti, la traduzione interlinguistica – ovvero interpretare un discorso in una lingua e produrne un secondo più o meno equivalente in un‟altra – fa accadere una quantità di fenomeni che attraversano o, meglio ancora, interessano l‟intero sistema operatorio. Tali fenomeni non sono equivalenti sintomali, per cui non sono legati esclusivamente alla sfera psicopatologica del paziente, ma perturbazioni del dispositivo che invadono il campo del mediatore e del terapeuta. Quando il dispositivo di mediazione etnoclinica funziona, attingendo a livelli autoriflessivi e autocorrettivi, esso non si limita a produrre fenomeni nuovi, da cui possono scaturire effetti terapeutici, ma sperimenta inusuali collegamenti trasformativi, modificando finanche sé stesso. Il clinico non abituato a lavorare in un gruppo di mediazione, dove il confronto tra lingue settoriali e prospettive teoriche diverse aiuta a sviluppare un pensiero strategico rispetto ai problemi della traduzione, tende sistematicamente a lasciare l‟interprete fuori visuale; si aspetta da lui la replicazione esatta dei discorsi del paziente mentre resta all‟oscuro degli sforzi occorsi e delle prove che l‟interprete ha dovuto superare per fabbricare quelle parole. Il compito dei traduttori non è di trasferire significati da un soggetto all‟altro (da paziente a clinico, e IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011 61 62 viceversa), da un punto all‟altro (dal mondo del primo a quello del secondo, e ritorno), da una lingua all‟altra (dall‟idioletto di partenza dello straniero a quello d‟arrivo del clinico, e da questo al primo) ma di obbligare a portare lo sguardo sui modi di essere della significazione all‟interno della lingua. Nella traduzione le lingue vengono stressate, confrontate, sperimentate, trasformate. Il mediatore esercita una forma di traduzione: a) in tempo reale; b) in un flusso continuo e multivocale di enunciati (provenienti da mondi diversi e che animano controversie); c) in concomitanza di un processo diagnostico e trasformativo. Per eseguire tali operazioni egli deve possedere una coscienza linguistica viva che gli permette di riflettere in modo rapido e accurato su regole, valori, contesti d‟azione della propria lingua, sugli stili (riguardanti il modo concreto dell‟esecuzione di un atto linguistico: intonazione, impostazione della voce; Casadei, Inglese et al., 2005), sui registri (includenti gli strumenti retorici azionati per sviluppare un tema) e, infine, sui sottocodici delle tecniche di cura correlate ai contesti d‟uso dei termini specialistici tradizionali. La lingua, rappresentata spesso come un‟entità compatta, è invece una gamma di varietà che comprende forme più o meno standardizzate e forme fortemente influenzate da vernacoli locali (l‟inglese nigeriano oscilla dalla forma british al pidgin). Tali varietà si dispongono secondo un continuum, con numerose interferenze tra una varietà e l‟altra. All‟interno di una stessa koiné linguistica, le competenze sono stratificate e differenziate in base all‟educazione di ogni membro a parlare quella specifica lingua. Esistono culture in cui il sentimento della lingua è estremamente sviluppato: laddove esiste un‟estetica spiccata della lingua, si “sente” immediatamente “chi parla bene” e “chi parla male” (Cardona, 2006). Un mediatore kurdo iracheno di lingua sorani (il kurdo si articola in almeno due dialetti principali - kurmanji e sorani – parlati in aree diverse del paese) ha riferito di essere talmente sensibile a certe parlate di villaggio, oltremodo sgradevoli al suo orecchio, da non poter fare a meno di allontanarsi appena ne sente una. Forse è anche per questo, ha aggiunto, che certi pazienti kurdi di città preferiscono parlare con un mediatore arabo piuttosto che con un altro kurdo proveniente dalle zone rurali. In passato ci siamo soffermati su alcune caratteristiche salienti del mediatore linguistico-culturale e abbiamo scritto che la neutralità, invocata come requisito essenziale del mediatore, è un malinteso derivante da un modello giuridico bipolare secondo il quale ci sono due parti in disaccordo e una terza, estranea agli interessi delle parti contendenti, che ha il compito di pacificare, ricomporre il conflitto (Casadei, Festi, Inglese, 2005). Al contrario, la specificità del mediatore sta proprio nella sua parzialità: egli fa parte dello stesso (o quasi) gruppo culturale del paziente mentre, contemporaneamente, è membro del gruppo clinico. All‟interno di quest‟ultimo deve trovare una propria autonomia di parola e di interpretazione, altrimenti il confronto auspicato tra diverse posizioni teoriche perde forza, lasciando in primo piano soltanto il discorso egemone del terapeuta. Abbiamo chiamato “battaglie della mediazione” (ibidem, pp. 298-300) gli sforzi del gruppo clinico per rendere progressivamente più salda e originale la posizione di parola del traduttore, fino a permettergli di conquistare un potere personale (impersonale, quando gli deriva dalla lingua) sulla produzione del discorso. 0.3 - Vorremmo adesso spostare l‟attenzione su un tema vicino a quello della mediazione, ma che non si identifica completamente con esso: l‟uso delle lingue nella clinica. In un dispositivo multiculturale di salute mentale la centralità delle lingue dipende da come: 1) partecipano all‟efficacia della cura – diventano leve potenti di trasformazione perché possiedono una forza propria che va calcolata e valorizzata durante l‟intervento terapeutico; 2) traducono gli altri codici del campo clinico (es., sintomatologie). Il modo in cui i disordini mentali si presentano all‟osservazione clinica ha in comune con le lingue il fatto di essere in variazione continua. Figuriamoci un dispositivo linguisticamente sensibile, reattivo, animato da “terminazioni nervose” che vengono sollecitate (ancor più che IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011 63 64 informate) dall‟incontro con l‟oggetto-lingua; questi recettori sono sempre in movimento nello spazio aperto della dimensione pragmatica e reagiscono a stimoli minimali, ancora confusi, a variazioni del continuum, cromatismi sonori più che fonemi, valenze più che significati, e quando avvertono qualcosa, come un tocco, un cambiamento di colore, cercano di capirne la provenienza e la destinazione, di attribuire un‟intenzionalità a quei flussi linguistici, sicuramente orientati verso un fare. Ogni parlante è mosso dall‟intenzione di comunicare (pragmatica della comunicazione umana; Watszlawick, Beavin, Jackson, 1971). L‟immagine che proponiamo è quella di un dispositivo dalla sensibilità quasi tattile per le lingue, votato all‟esplorazione continua dell‟ambiente. Il lavoro esplorativo non è affidato unicamente agli interpreti, che rappresentano comunque i sensori linguistici più sofisticati, ma è assunto con interesse dall‟intero gruppo. Osserviamo l‟interprete al lavoro: è completamente assorbito nella traduzione; mentre ascolta quanto viene pronunciato in una lingua, proietta il senso e l‟intensità delle parole in un‟altra, esamina mentalmente i valichi che ogni sistemalingua gli consente di attraversare, predispone le strutture grammaticali di passaggio e, sempre mantenendosi in uno stato di fluidità senza il quale non potrebbe stare al passo con l‟interazione dei parlanti, stabilisce dei punti di riferimento per ricordare le cose dette, il come vengono dette e per quali vie conviene passare per tradurle. Inoltre, considerato che questo impegno si protrae per tutto il tempo della seduta, l‟interprete deve dare prova di resistenza, tenacia, capacità durevole di concentrazione (Rusong, Hongtu, Ying, 2007). Cosa fanno nel frattempo gli altri membri del gruppo di mediazione? Dopo aver consegnato i propri enunciati alle cure dell‟interprete e prima di ricevere da questo le parole del paziente? Possono spendere questo intervallo in diversi modi: 1) seguire il flusso dei propri pensieri senza interessarsi allo scambio traduttore-paziente, come se non facessero veramente parte della seduta o non dipendessero dall‟intenzione globale del dispositivo; 2) concentrarsi sul non verbale o sulle parti discorsive che non richiedono una conoscenza della lingua (la trasparenza del codice non-verbale è solo apparente essendo, piuttosto, un generatore di equivocità); 3) mettersi in ascolto, lasciandosi prima attirare e poi iniziare dalla lingua straniera. Esiste un altro modo imperativo per valicare le barriere linguistiche seppure esso rappresenta l‟opzione maggiormente dispendiosa ma anche quella che spinge più lontano nell‟esplorazione dei mondi altri: senza conoscere l‟organizzazione di un codice, dei suoi usi pratici nella vita quotidiana e nei contesti di esperienza meno ordinari, non si può superare il fossato che separa da quel mondo significante. La metafora del mediatore-ponte è illusoria se non si spicca un salto verso la lingua dell‟altro. Per apprezzare la potenza incorporea di un codice non basta interrogare l‟interprete su alcuni termini, poiché “il linguaggio come uso di una lingua particolare acquista la sua forza non solo dalla varietà lessicale (quante parole per uno stesso concetto o per una “famiglia” di concetti?), ma anche dalla combinazione di nomi, aggettivi, avverbi e verbi, classificatori, quantificatori che fondano la costruzione della frase” (Duranti, 2007, p.27). Senza un‟idea della singolare struttura di una lingua non si può cogliere la sua forza che, di conseguenza, non può essere convogliata in maniera consapevole verso l‟obiettivo terapeutico. Inoltre, l‟evento della traduzione rimane separato dall‟azione clinica. Al contrario, se proviamo a colmare la lacuna per mezzo di conoscenze linguistiche sempre più precise si migliora il lavoro con l‟interprete e si sfrutta pienamente la traduzione. Incrementare l‟intelligenza linguistica del dispositivo serve ad accrescere la sua sensibilità culturale. Parliamo di intelligenza e non di coscienza linguistica; la coscienza è quella dell‟interprete, consistente nel sentimento vivido e intuitivo della propria lingua accompagnato dalla capacità autoriflessiva, mentre l‟intelligenza è quella collettiva, fatta di studio e addestramento a riconoscere le lingue e a saperle trattare come entità specifiche; essa consiste in un progressivo familiarizzarsi con simili oggetti, con le loro caratteristiche strutturali, coi loro principi organizzativi e le loro pragmatiche. Bisogna studiare anche vari tipi di lessico: della vita quotidiana, delle emozioni e, soprattutto, quelli IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011 65 specialistici (etnoclinici). Questi ultimi vanno usati con molta cautela, senza voler simulare la competenza diagnostica di un sistema tradizionale. Riconoscere i termini di un campo semantico etnopsicopatologico può farci credere di esserci avvicinati al nucleo problematico del paziente. “Ecco – pensiamo - finalmente la persona ha deciso di usare la lingua profonda, ora comincerà davvero a mostrarci le parti più segrete di sé”12. Ma la comparsa di un termine “profondo” nel colloquio clinico non è garanzia che proprio quel sintomo o quel disordine, anche se nominato, corrisponda a un‟esperienza realmente vissuta dal paziente, così come noi ce l‟aspettiamo. Questo termine infatti potrebbe essere impiegato non in senso proprio (intraculturale), per indicare un disturbo etnico conosciuto nell‟area culturale da cui proviene il paziente (Devereux, 2007), ma in senso lato (transculturale), per riferirsi a un malessere che non corrisponde più a nessun modello nosografico preesistente: con la pretesa di risalire alla configurazione etnica originaria del disturbo si rischierebbe di perdere la nuova pista clinica che il paziente ha segnalato, anche se in maniera mascherata. 66 0.4 - I gruppi stranieri fanno deflagrare l‟idea di una lingua unica. Gli sforzi per arginare queste spinte centrifughe, come l‟idea dell‟esame di italiano per ottenere la cittadinanza, sono deboli in confronto all‟ampiezza e capillarità del fenomeno. Si scorgono molto bene i limiti di un progetto politico che non resisterà alla prova dei mutamenti linguistici, sociali, culturali: in clinica ci appare chiaro come l‟italiano sia continuamente “deterritorializzato”, i suoi confini riplasmati; le interlingue di coloro che apprendono la nostra lingua sono molteplici – traghetti che non approdano mai a una lingua unica d‟arrivo – Usiamo “profondo” nel senso in cui si dice “wolof profondo”, intendendo il wolof di Saint Louis o quello parlato nei villaggi storicamente a maggioranza etnica wolof, contrapposto a un wolof di città, per definizione quello di Dakar, mescolato con il francese e con altre varietà locali (Swigart, 2000). 12 diventano esse stesse codici autonomi13; nel lavoro di conquista della lingua, fatto dagli stranieri, si disegnano nuove possibilità, vengono connessi e coniugati elementi che fanno emergere nuove entità. Gli stessi dialetti italiani entrano in questo processo di apprendimento/fabbricazione: i principi fondamentali in atto sono la variazione continua e la ricombinazione. Uno di noi ha utilizzato quest‟ultimo concetto per descrivere la vitalità e la capacità di mutazione/ibridazione delle sindromi culturali: “Non si deve escludere che in aree sociali dove impera uno scambio incessante tra molti modelli culturali estranei e competitivi si possa instaurare una ricombinazione imprevedibile di sintomi e sindromi” (Inglese, 2011). L‟italiano è una lingua conquistata, le sgrammaticature e gli errori di pronuncia sono, ancor più che interferenze, marchi di appropriazione. I pazienti stranieri usano spesso questa varietà per comunicare con noi in seduta, ma tale comportamento non diminuisce per nulla la necessità di lavorare con gli interpreti. Questi a volte traducono anche quando il paziente parla italiano: ciò non è una svista – tradurre a oltranza, all‟eccesso, dimenticando che la persona sta già parlando italiano – ma è un‟operazione eseguita sulla linea di variazione continua della lingua: l‟interprete fornisce delle variabili grammaticali in risposta alle espressioni ibride, agrammaticali, emesse dal paziente. “L‟espressione atipica costituisce una punta di deterritorializzazione della lingua, gioca un ruolo di tensore, fa in modo cioè che la lingua tenda verso un limite dei suoi elementi, forme o nozioni, verso un al di qua o un al di là della lingua” (Deleuze, Guattari, 2006, p.162). Il mediatore, anche quando traduce dall‟italiano, continua a svolgere il suo ruolo di intermediario in maniera del tutto appropriata dicendo “attenzione, vi mostro io cosa sta facendo il paziente con la vostra lingua, o con quella che voi pensate ancora sia la vostra lingua, esclusivamente vostra…”. In glottodidattica si chiamano così i sistemi linguistici che si formano durante l‟apprendimento di una nuova lingua e in cui convivono regole di più lingue (quelle di partenza e quella di arrivo; Beccaria, 1994). 13 IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011 67 68 Il lavoro di appropriazione della lingua è particolarmente visibile nei Servizi di Neuropsichiatria Infantile dove arrivano bambini migranti con difficoltà scolastiche. I processi di acquisizione delle varie competenze linguistiche, culturali, relazionali risultano specialmente travagliati per il primogenito, che non di rado ha passato i primi anni di vita nel paese d‟origine dei genitori, e per l‟ultimogenito, l‟“italiano” del gruppo, quello nato e concepito nel paese d‟immigrazione. “Le ricerche etnopsichiatriche individuano i bambini maggiormente sensibili all‟impatto dell‟esposizione migratoria, riconoscendoli nel primo e nell‟ultimo figlio che aprono e chiudono le res gestae di un romanzo familiare i cui protagonisti partono da un altrove culturale e approdano avventurosamente in un mondo radicalmente straniero” (Inglese, 2004). Questi campioni alle prese, fin dai primi mesi di vita, con l‟ordalia dell‟emigrazione e del trapianto, sono chiamati a svolgere un compito di capitale importanza per l‟intero gruppo familiare, conquistando l‟uso della parola in un‟ecologia completamente diversa da quella di partenza, senza quindi poter beneficiare, a differenza delle generazioni ascendenti, di tutto ciò che il proprio gruppo culturale è riuscito a trovare per vivere e pensarsi in relazione con l‟ambiente, e per generare esseri umani riconoscibili come suoi membri. In che modo ci rivolgiamo a questi bambini quando facciamo clinica? In quale lingua? Siamo consapevoli di avere davanti degli eroi culturali, dei sopravvissuti, degli eletti, delle creature sospese tra mondi diversi di affiliazione, tra passato e futuro (Inglese, 2010)? Quando si lavora con tutta la famiglia è possibile differenziare i vari codici generazionali: non si utilizzerà in maniera indiscriminata la lingua matrice per parlare con tutti i membri, prediligendone l‟impiego con gli adulti e interloquendo in italiano con i ragazzi. Ciò serve a sottolineare una variazione strutturale della famiglia che, pur dovendosi inserire in un nuovo ambiente culturale, assegna ai più giovani il compito di portare a termine il processo di acculturazione; viceversa, si potrà parlare la lingua matrice con i figli, per lavorare sui loro legami di affiliazione al gruppo culturale d‟origine, e l‟italiano con i genitori, in modo che essi si rendano conto della necessità di accompagnare i figli nell‟indispensabile cammino di acculturazione. Lo scambio comunicativo risulterà bilingue ma, a seconda degli interlocutori e della problematica individuata, sarà diverso l‟impiego di ciascuna lingua. Questa scelta è un‟opzione tecnica del dispositivo che rinvia a una necessaria integrazione tra teoria della mediazione e metodologia clinica. 0.5 - A volte i pazienti, soprattutto quando hanno una discreta padronanza dell‟italiano, prendono le distanze dal mediatore e rimandano il momento in cui passeranno alla propria lingua. Allora, ma non sempre, può capitare di incoraggiarli ad approfittare della presenza di un traduttore: “come direbbe questa cosa nella sua lingua?”; oppure, in maniera più direttiva (quando è molto che aspettiamo e ancora non succede nulla): “parli pure nella sua lingua”. Se il nostro interlocutore accetta il suggerimento, cosa succede alla sua parola? Avete sentito un paziente che riprende un discorso avviato in italiano riformulandolo subito dopo nella sua lingua? Spesso sembra un altro discorso o un altro che parla: non si può dire la stessa cosa usando due lingue diverse, a maggior ragione se i due sistemi linguistici non sono imparentati tra loro. È un problema di relatività linguistica. Questa idea, attribuibile a Humboldt e Boas ma, in modo particolare, a Sapir e Whorf, i quali la svilupparono negli anni ‟40, consiste nel ritenere che le strutture semantiche delle diverse lingue siano tra loro incommensurabili così come lo sono anche i modi di concettualizzare l‟esperienza, vista la forza influenzante del linguaggio sul pensiero. Dopo il periodo di discredito dovuto all‟imporsi delle scienze cognitive negli anni ‟60, questa teoria è stata ripensata con favore critico da molte discipline, come la psicologia, la linguistica, la sociolinguistica, l‟antropologia linguistica (Gumperz, Levinson, 1996). Riprendere l‟idea di relatività linguistica non vuol dire negare la possibilità che persone di culture diverse possano intendersi o insinuare che la traduzione sia qualcosa di impraticabile. Se così fosse perché dovremmo insistere su una clinica il IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011 69 70 cui fulcro metodologico è la moltiplicazione delle lingue (Inglese, 2005)? Rileviamo però che esiste una profonda differenza nel modo in cui il locutore può raccontare una propria esperienza usando l‟italiano o il cingalese; le due lingue infatti propongono codifiche dell‟esperienza, e degli stati del mondo, difficilmente assimilabili. Eppure, procedendo per costruzione di comparabili (Ricoeur, 2004), ovvero per momenti felici di traduzione imperfetta, queste due lingue possono arrivare a parlarsi. Le lingue, prima ancora che le persone! Lutero, ad esempio, avrebbe posto le basi per questa possibilità di dialogo tra lingue molto distanti: “si può dire che Lutero non ha solo costruito un comparabile traducendo la Bibbia in tedesco, «germanizzandola», come osava dire egli stesso, nei confronti del latino di san Girolamo, ma che ha anche creato la lingua tedesca come comparabile del latino, del greco della Settanta e dell‟ebraico della Bibbia” (ibidem, p.23). L‟espressione utilizzata da Ricoeur, “creare una lingua come comparabile di un‟altra”, ci sembra calzante per illustrare la necessità di partire da un sistema impersonale e non dalla soggettività umana. Se interpello direttamente il paziente chiedendogli di usare la lingua matrice al posto dell‟italiano, facilmente sortirò su di lui un effetto di disorientamento o di chiusura, oppure, se il paziente si conforma alla richiesta, potrò avere l‟impressione di una differenza incommensurabile o, al contrario, di una traducibilità totale tra costrutti che non sono dunque percepiti come comparabili, in quanto differenti, ma semplicemente come identici. In poche parole, non riuscirò mai a tenere la giusta distanza dalla lingua del paziente. Se invece – opzione Lutero – parto dal lavoro del traduttore, ovvero dalla creazione della lingua matrice come comparabile dell‟italiano (e viceversa), allora riuscirò ad aprire una possibilità di parola per il paziente, a far sì che sia finalmente lui a presentarsi – e a presentare i suoi oggetti – nella propria lingua. 0.6 - Spesso, in etnopsichiatria, si incontrano casi dove la sintomatologia a tutta prima indecifrabile (lingua sintomatica segreta o sconosciuta sia al clinico che al paziente) rinvia alla presenza di un altro essere che influenza il suo funzionamento anche per mezzo della loro lingua comune (wolof, arabo, hindi…). “Si può intervenire su questa situazione usando una formula che specifica il pensiero del clinico espresso in soggettiva: “Io dico che…”. Questa modalità d‟apertura linguistica - quasi obbligata, gravida di responsabilità, proposta come premessa di un successivo discorso eziologico - non può essere inviata al paziente senza una traduzione. Anche se dico quanto sto dicendo, l‟altro non può capirmi poiché parla una lingua diversa (osservando il movimento labiale potrebbe solo pensare, come farebbe un Dogon: “sta emanando vapore attraverso la bocca, allora è vivo”). Se facciamo intervenire un mediatore che traduce questa prima espressione, non dirà “io dico” come se fosse l‟eco della prima voce in un‟altra lingua. L‟interprete declina una versione grazie alla quale il pensiero formulato in prima persona viene trasmesso in terza persona (“lui dice…”, “sta dicendo che...”, “ha detto che…”). Si istituisce così un secondo regime multilinguistico e interlinguistico (alla terza persona) al posto di quello monolinguistico (alla prima persona). Il nuovo assetto pronominale, instaurato dalla traduzione, permette di salire sulla muraglia linguistica per osservare un nuovo paesaggio culturale. Da questa altezza relativa si può cominciare a discutere con precisione di quell‟ente terzo che «tira i piedi di notte…». La lingua naturale del clinico spesso non possiede una parola, una frase, un‟espressione con cui tradurre e codificare identità e natura di questo terzo. Su questo punto di indecidibilità e massima equivocità traduttiva, l‟interprete deve iniziare il periplo intorno alle concezioni culturali appartenenti al gruppo del paziente e condivise o affini a quelle proprie (condizione che vanifica ogni perorazione di neutralità interpretativa da parte di un soggetto interno alla lingua e al pensiero del paziente). Prima o poi giunge il momento in cui finalmente l‟interprete riesce a spiegare: “da noi si dice che gli esseri molestati di giorno tormentano il disturbatore durante le ore notturne”. L‟interprete realizza così un primo accoppiamento strutturale (storico, mitico, psicologico e sociale) con il paziente grazie alla formula impersonale del “si dice”. Giunta a questo punto, la IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011 71 72 traduzione prepara l‟interpretazione di allegorie, metafore, poemi, storie per cui il dialogo si modifica in costrutto narrativo, catalogazione scientifica, canone teologico, abbandonando la semplice descrizione sintomatica per rendere in modo efficace la sostanziale complessità del fenomeno clinico, il quale guadagna la sua intelligibilità obbligando il gruppo terapeutico a consultare le creazioni d‟ingegno più importanti di una cultura. Lo strumento linguistico porta l‟osservazione clinica nel cuore della cultura anche se la traduzione, in uno o in molti codici linguistici, diventa apparentemente faticosa, imprecisa, difettosa, prestata in carenza di parola. Questo rende necessario mettere in tensione le lingue in cui si svolge l‟interazione fino a inventare una soluzione discorsiva e concettuale non preesistente nei vari sistemi culturali impegnati nel dialogo. Questo stadio ulteriore vede una recessione del “si dice” (il quale fa riferimento a paradigmi cognitivi dominanti e obiettivati nel mondo interrogato) e una valorizzazione del “si potrebbe anche dire”. Con questo si lascia intendere che nella cultura e nella lingua del paziente è permesso dire (o non dire) quanto non si può dire (o dire) in quella del clinico. Nell‟interazione la lingua matrice del paziente viene relativizzata rispetto a se stessa, è costretta a conoscere e riconoscere la presentificazione di altri mondi. Essa non può essere data come lingua assoluta (disposizione totalitaria) bensì relativa: si torna così alla condizione generale dell‟umanità dove ogni gruppo parla la propria lingua ma insegue il desiderio maggiore di entrare in uno scambio sociale generalizzato, anche se questo spesso si rivela conflittuale e talvolta antagonistico” (Inglese, 2009, p. 65-67; Devereux [1943], 1985). 0.7 - L‟interprete è abitato dalla lingua, e quando riesce ad incarnare i principi teorico-tecnici della metodologia etnopsichiatrica diventa un vero posseduto della traduzione (Nathan, de Pury, et al., 1998). Solo a questo punto l‟interprete può davvero dirsi mediatore e svolgere i compiti di diplomazia interculturale affidatigli. Essere mediatore non è tanto un ruolo professionale predefinito quanto una funzione, uno stato di funzionamento all‟interno del dispositivo, che permette di intensificare le qualità recettive (sensibilità culturale) e creative (vocazione terapeutica) dell‟intero gruppo. Mentre l‟interprete fa parlare le persone, ed è quindi un traduttore personale, il mediatore fa parlare le cose, ed è per questo un traduttore oggettuale14. Nel primo caso la lingua è data come bagaglio del professionista della traduzione, nel secondo scaturisce come invenzione, artefatto, stratagemma che mette in relazione sistemi culturali diversi. Le situazioni di plurilinguismo sono frequentissime, tanto da rappresentare la normalità; finanche in Italia la lingua nazionale si è costituita a partire dalla conglomerazione di numerosi dialetti. Nei contesti di vita attuali, non solo metropolitani, vediamo una proliferazione imponente delle varietà linguistiche, con fenomeni di contatto e interferenza del tutto nuovi. Le lingue, dislocandosi con i gruppi che le parlano, si stanno modificando, ampliano le loro variazioni interne e si confrontano continuamente con situazioni comunicative impreviste; sono perciò costrette ad inglobare o inventare nuove espressioni. Non c‟è solo il fatto di imparare la lingua del paese dove si va, c‟è soprattutto quello di modificare la propria. Se da un lato le lingue nel mondo continuano a diminuire di numero, e questo succede ogni volta che si estingue una comunità di parlanti una certa varietà, dall‟altro esse tendono, nei relativi spazi ecolinguistici, a moltiplicarsi, incrociarsi, variare, influenzarsi (Calvet, 1999). Le lingue appaiono sempre meno legate (se mai lo sono state davvero) a una rappresentazione univoca del mondo: si allenta il nesso ecologico gruppo – territorio – visione-del-mondo man mano che si estende il raggio d‟azione del gruppo e i suoi membri sono costretti ad ambientarsi in contesti molto diversi da quelli d‟origine. La situazione monolingue non è naturale; c‟è però l‟idea che della lingua unica ci si possa meglio appropriare. Come se non fosse possibile la chiusura dell‟individuo, delle sue facoltà psichiche, senza la Cose che sono, come la lingua, “il prodotto di una fabbricazione, sempre opera di un collettivo” (Nathan, 2001, p. 127). 14 IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011 73 74 monolingua (per questo si tende a vedere una creatura a rischio in ogni bambino immerso dentro una situazione di bi- o tri-linguismo). In realtà non c‟è mai appropriazione assoluta, perché non c‟è proprietà naturale della lingua, non si riescono a “intrattenere con essa dei rapporti di proprietà o identità naturali, nazionali, congeniti, ontologici” (Derrida, 2004, p.29). Esistono diversi casi di gruppi che non parlano la lingua corrispondente al loro etnonimo: in certe zone del Mali i Peul definiscono la loro identità peul attraverso la pratica della lingua bambara; alcuni gruppi tuareg usano il sonraï come lingua materna e il tamasheq come lingua veicolare (Amselle, 2004, p.275). Le condizioni per cui si realizza la situazione monolingue sono quanto mai artificiali: occorrono spesso delle operazioni violente di separazione o sottrazione. Derrida (2004) parla di una triplice dissociazione operata sulla comunità degli ebrei indigeni di Algeria: dalla lingua e cultura araba e berbera; dalla lingua e cultura francese; dalla memoria ebraica (a differenza di altre comunità non esisteva per loro una lingua rifugio, come il ladino o lo yiddish). Ciò di cui parla Derrida è un dramma vissuto da decine di migliaia di persone e le cui conseguenze sono descritte dal filosofo nei termini di una “turba dell‟identità”. Un disturbo dell‟identità, per essere veramente tale, è sempre collettivo: se all‟individuo straniero accade spesso di vedersi improvvisamente ritirare la cittadinanza (tale evento ha inesorabilmente effetti distruttivi per la mente di una persona), è mai accaduto un fatto del genere a un gruppo in quanto tale? La rarità dell‟evento e la sua estensione a tutti i membri di quel gruppo rendono irreparabile il danno arrecato al senso di identità culturale. La cittadinanza francese ottenuta dagli ebrei d‟Algeria nel 1870 era stata loro tolta dalla Francia collaborazionista di Pétain, e poi riconsegnata successivamente. L‟ablazione della cittadinanza era durata due anni. I giovani “ebrei indigeni” erano stati resi estranei alle radici della cultura francese, anche se il francese era la loro unica lingua, il loro unico sistema d‟istruzione. C‟era quindi una lingua ma non c‟era una cultura, perché “per tutti il francese era una lingua considerata materna, ma la sua fonte, le sue norme, le sue regole, la sua legge erano situate altrove” (ibidem, p.50). Derrida parla a tale proposito di “incultura radicale”. Questo disordine collettivo, a seguito di un atto di sottrazione ripetuto, si riflette poi a livello individuale. Un effetto è la nevrosi della lingua unica, della lingua pura, che segna per sempre il filosofo nell‟atto dello scrivere: egli si sente come se fosse l‟ultimo erede della lingua francese, il solo al quale essa confida i suoi segreti, quelli della sua purezza; gli sembra di essere perso o condannato fuori da essa, e di padroneggiarla quanto più ne aumenta le resistenze alla traduzione, spingendosi fino al paradosso dell‟intraducibilità intralinguistica (convinzione che un testo scritto da lui in puro francese non possa essere riformulato in un altro francese meno puro). Dopo aver mostrato con un esempio storico l‟indesiderabilità della lingua unica (e anche la sua antinaturalità e anticulturalità) passiamo a un esempio mitologico. Abbiamo trovato tracce di un mito in qualche modo inverso a quello di Babele. Iatiku, la divinità madre degli Indiani Akoma, un gruppo nativo delle mesas americane, moltiplicò le lingue perché vide che gli uomini, avendo una lingua unica, passavano il tempo a trucidarsi (Crystal, 2009). Questo mito è interessante perché anteriore all‟arrivo degli Spagnoli, e dunque alla diffusione del testo biblico tra i sopravvissuti Akoma. Il punto di partenza e il punto d‟arrivo dei due racconti sembrano però gli stessi: se all‟inizio esiste la lingua unica, parlata da tutto il genere umano, alla fine c‟è la moltiplicazione delle lingue; invece, l‟intenzione della divinità e il suo rapporto con la lingua degli umani appaiono molto diversi nei due esempi: nel testo biblico la divinità interviene per mettere fine a un progetto umano di usurpazione della sovranità teocratica, e dunque per annientare la capacità degli uomini di parlarsi, organizzarsi – li disperde linguisticamente, in modo che non possano più rimettersi insieme; nel mito akoma l‟operazione compiuta dalla divinità è invece quella di far cessare le liti sanguinose tra gli umani, per instaurare una capacità diffusa di intercomprensione e mediazione tra i gruppi. Quella di Iatiku non è una punizione né una sanzione invidiosa, ma un dono, un IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011 75 provvedimento salvifico per permettere agli uomini di ottenere la pace interpretandosi. Il mito fa vedere che per trovare un accordo bisogna saper parlare, ovvero saper interpretare molte lingue15. 76 0.8 - Torniamo alla situazione clinica ordinaria, non implementata da un dispositivo di mediazione, in cui il singolo operatore dei servizi ha di fronte il paziente straniero. Alla luce di quanto abbiamo appena scritto, non ci dovrebbe più sembrare una cosa naturale l‟idea di fare tutto il colloquio in italiano, anzi dovrebbe apparirci come una manovra simile a quelle di tipo dissociativo cui faceva riferimento Derrida. Infatti la costruzione di un ambiente operatorio monolingue comporta delle azioni contro l‟altro come la separazione della persona dalle sue lingue, teorie, oggetti, da tutto ciò che ha contribuito a fabbricarlo come essere umano specifico (Nathan, 1994, 2001). Affermare che l‟italiano è la monolingua obbligatoria per lo scambio è spesso il primo passo per poi imporre all‟altro esclusivamente le teorie e gli oggetti del clinico. Del resto, questo rischio è così forte da continuare ad esistere anche qualora si utilizzino gli interpreti senza possedere una teoria clinica della traduzione. Una proposta metodologica fondamentale dell‟etnopsichiatria è quella di introdurre nella situazione duale operatore-paziente la mediazione etnoclinica. Per noi, tale ingiunzione significa l‟apertura del setting clinico agli interpreti e alle altre figure interessate a questo tipo di approccio. L‟assunzione del principio di moltiplicazione (visto all‟opera negli esempi di genere sociolinguistico, storico, mitico) può portare a una pacificazione perché costringe i vari attori a confrontarsi sugli enunciati teorici veicolati dalle diverse lingue, ma poi a cooperare per trovare una Analizzando il racconto della torre di Babele abbiamo avanzato l‟idea che la divinità non sottrae agli uomini la capacità di parlare una lingua (il testo biblico descrive un mondo pre-babelico già popolato da razze parlanti lingue diverse) ma quella di interpretare le tante lingue dei gruppi umani (Inglese, 2009). 15 soluzione intermedia possibile16. Le lingue stesse, mettendosi reciprocamente in tensione lungo i sentieri tortuosi della traduzione, devono superare la loro chiusura strutturale e funzionale per aprirsi alle altre. Dalla traduzione, che mette in rilievo i punti di divergenza concettuale, si può arrivare alla mediazione che consiste, invece, nella costruzione di punti di convergenza concettuale tra mondi diversi (Inglese, 2009). Chiedendo a un paziente maghrebino se è convinto che gli altri possano „vedere‟ i suoi pensieri – nell‟ipotetico tentativo di esplorare il suo vissuto delirante rispettando gli algoritmi raccomandati dal DSM IV-TR – ci accorgiamo che non possiamo usare il verbo vedere (šaf) per rendere quella frase. Altrimenti facciamo delirare il traduttore che, in condizioni „normali‟ (cioè parlando per proprio conto e non per conto di un gruppo clinico), non avrebbe mai reso il “pensiero” oggetto del verbo “vedere”. Questo è il primo livello di difficoltà e riguarda la traduzione (decisione su che cosa usiamo al posto di šaf); il livello più avanzato è quello che ci obbliga a cambiare formulazione e tipo di domanda, muovendoci verso un piano concettuale più complesso e attinente alla problematica espressa dal paziente. Tale livello richiede di confrontare lingue e sistemi di pensiero impegnati nel dialogo fino a trovare una soluzione discorsiva e concettuale condivisibile nei vari mondi culturali che partecipano all‟interazione. Nell‟esempio dato possiamo prendere in considerazione il fatto che la nozione di delirio esiste anche nella lingua araba, sebbene formulata in termini diversi dai nostri e secondo un altro modo di esperienza; se il paziente e il suo gruppo non intendono far propria nessuna delle definizioni di disturbo delirante reperibili nelle lingue a disposizione, allora si dovrebbe cercare da un‟altra parte, muovendo in direzione di altre aree semantiche più calzanti rispetto ai vissuti delle persone, anche se meno riconoscibili da un punto di vista psicopatologico formale. Occorre creare una comparabilità tra saperi, Per una definizione polemologica della mediazione, vedi Casadei, Festi e Inglese (2005). 16 IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011 77 78 definire una zona intermedia dove si possano costruire concetti ibridi, temporaneamente validi e acquisibili da parte del gruppo paziente. Riassumendo, la proposta dell‟etnopsichiatria sarebbe quella di sostituire all‟esercizio duale, monolingue e intersoggettivo della terapia una macchina clinica plurilingue, dove le varie funzioni indispensabili al colloquio clinico – ivi inclusa quelle di traduzione e mediazione – siano pensabili come le funzioni di un collettivo multiprofessionale e multiculturale. Altre valide ragioni per mettere in moto una macchina del genere sono la visibilità delle entità e la connessione ai gruppi: a) Visibilità delle entità: il dispositivo di mediazione plurilinguistico consentirebbe di vedere oltre l‟orizzonte di un unico sistema di pensiero, culturale e clinico. Nella situazione monolingue i concetti dell‟altro rimangono invisibili perché nascosti dietro la linea dell‟orizzonte epistemico (ognuno di noi prende meno in considerazione ciò che la sua lingua non nomina). Se utilizziamo lingue diverse, confrontandole e parlando non solo per mezzo della lingua ma intorno e sulla lingua (de Pury Toumi, 1998), appariranno nuovi fenomeni ai confini del campo clinico. Si potrà anche lavorare in italiano, se necessario, soprattutto quando la pratica dell‟operatore avrà ormai incorporato questa abitudine alla comparazione e alla controversia, perché a quel punto l‟italiano sarà pensato come vettore aperto, connesso ad altre entità linguistiche che sarà possibile nominare, richiamare durante la seduta. L‟operatore, anche in assenza di interpreti, deve sapersi mantenere saldamente in questa posizione dinamica di avvistamento. b) Connessione ai gruppi: la lingua funziona come un elemento di chiusura/apertura del gruppo sociale: “chiude gli scambi del gruppo verso l‟esterno e al tempo stesso apre lo scambio di parola e di discorso al suo interno, contribuendo insieme ad altri elementi culturali (concezioni del mondo, organizzazione sociale, tecniche di governo e di adattamento alla realtà materiale) a generare un collettivo umano intorno a nuclei di affinità e identificazione reciproca. Se i pazienti si esprimono nella loro lingua originaria si avvantaggiano degli effetti di apertura verso il gruppo culturale di appartenenza con i quali ripristinano un contatto funzionale” (Inglese, 2009, p.5). Senza il mediatore il problema non è tanto quello di perdere la capacità di comunicare con il singolo soggetto, ma di non riuscire più a connettersi con il suo gruppo. La lingua è una formidabile risorsa clinica proprio perché non è soltanto uno strumento di comunicazione: essa fonda le relazioni umane. Inoltre è un oggetto con statuto di esistenza anfibio, tra psiche e mondo, tra individuo e gruppo: forse qui sta la sua forza di leva terapeutica e trasformativa. 0.9 - Il seguente bozzetto clinico ci fa capire quanto possa essere problematico scegliere quali lingue utilizzare nei colloqui con i pazienti stranieri. La scelta della lingua è cruciale nella definizione di quali “mondi” (Inglese, 2006) e “attaccamenti” (Nathan, 2001) si riusciranno ad esplorare. Infatti le dinamiche interne al sistema-paziente sono rese visibili, e risultano diversamente trattabili, anche in relazione all‟oggetto-lingua selezionato dal dispositivo. Nel corso delle sedute si scoprono universi familiari e linguistici estremamente complessi – quasi caotici in certe loro manifestazioni – di fronte ai quali la scelta della lingua operata a monte del processo clinico andrebbe rivista, per valutare se essa è in sintonia con le dinamiche trasformative che si vorrebbero innescare. Di fronte a una giovane paziente maghrebina la scelta dell‟arabo dialettale potrebbe quasi sembrare obbligata. Eppure ci sono aspetti linguistici e culturali che vanno continuamente approfonditi affinché clinica e traduzione avanzino accoppiate in un unico processo. Pur trattandosi di un caso clinico, ci concentreremo su altri fenomeni interessanti, convinti che tale omissione lasci intatto il ragionamento. Jamila è una ragazza molto esile, dai lineamenti delicati; è nata da una famiglia berbera in un villaggio del sud del Maghreb; il padre e la madre hanno avuto dopo di lei altre due figlie, la più piccola in Italia. La paziente viene alle sedute accompagnata dalla madre: c‟è un legame IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011 79 80 molto stretto tra loro come se facessero fatica a separarsi. Sappiamo che a casa Jamila è spesso silenziosa, cerca la vicinanza fisica della madre, dividendo con lei i lavori domestici e i momenti di riposo. Anche di notte il filo che le tiene legate non si spezza: quando la figlia sta per avere una crisi, la madre puntualmente fa dei sogni premonitori la notte prima. Il giorno della crisi non si allontana mai da lei, pronta a soccorrerla appena distingue i sintomi anticipatori. C‟è un‟altra cosa che rende Jamila così attaccata alla madre: la lingua araba dialettale che la madre ha voluto trasmetterle, credendo di darle un futuro migliore; conoscendo solo il berbero sarebbe stato molto difficile per lei studiare – nelle scuole in Maghreb si usa esclusivamente l‟arabo – e trovare un lavoro in città. Poi la famiglia è emigrata in Italia e a quel punto la lingua che avrebbe aperto le porte dell‟avvenire è diventata un‟altra. Le sue sorelle hanno colto con naturalezza questa possibilità, ma lei no. Per Jamila la comunicazione con le due sorelle è complicata, a causa della differenza di età e di carattere – viene vista da loro quasi come una vecchia zia rimasta nubile – ma anche perché loro vanno a scuola e si parlano spesso in italiano mentre lei ha fatto pochi progressi da quando è in Italia: la sua malattia e le paure della madre le hanno impedito di uscire di casa, trovare un impiego, frequentare amicizie italiane; le rare volte in cui vince il timore di essere presa in giro e trova lo slancio per chiedere alle sorelle di farla partecipare alla conversazione, queste si rifiutano, non essendo abituate a parlare con lei in italiano. È infatti in berbero che si rivolgono normalmente alla sorella maggiore e ai genitori. Jamila utilizza il darija (arabo maghrebino) per parlare con la madre e il berbero con gli altri membri della famiglia. Le sorelle minori, vergognandosi talvolta per il loro darija approssimativo, rimproverano alla madre di aver insegnato l‟arabo soltanto alla primogenita. Abbiamo qui dunque una situazione carica di gelosie linguistiche intrafamiliari che accentuano la rivalità tra sorelle, e allo stesso tempo esiste una lingua, l‟arabo dialettale, che funziona come elemento di chiusura e protezione rispetto a una relazione esclusiva, di dipendenza, tra madre e figlia. La lingua della madre (poiché scelta e trasmessa soprattutto da questa), che in origine doveva facilitare gli scambi con il mondo esterno e permettere alla figlia di uscire dalla realtà ristretta del villaggio, ora – dopo la migrazione – è destinata unicamente alla comunicazione tra le due donne, come un codice fatto apposta per condividere segreti; neppure il padre di Jamila, benché bilingue (arabo-berbero), viene ammesso facilmente in questo spazio arabofono riservato. Le dinamiche interne alla famiglia non bastano a spiegare questi fenomeni comunicativi, le cui ragioni profonde vanno ricercate su entrambe le sponde del Mediterraneo, tra le pieghe di una storia plurisecolare e interetnica. Forse questo caso può essere letto solo dandosi la pena di sfogliare le pagine tormentate di un atlante storicoculturale e linguistico che non trova mai la sua scrittura definitiva, perché la migrazione tiene sempre in movimento popoli e lingue, non lasciandoli mai fermare negli stessi luoghi troppo a lungo. In questo caso la mediazione in darija è fondamentale perché ci permette di entrare nel lessico familiare sviluppato da madre e figlia intorno al problema della malattia; inoltre fa emergere il tipo di comunicazione esistente tra le due donne e il funzionamento singolare della loro relazione; d‟altra parte, se il dispositivo si concentra solo sul darija rischia di assecondare il movimento di chiusura della coppia. Pensiamo quindi che sia utile una doppia operazione di apertura: far partecipare alle sedute gli altri membri della famiglia, favorendo la circolazione e lo scambio delle lingue all‟interno del gruppo. Un‟altra cautela necessaria quando si selezionano le lingue da utilizzare in seduta, è quella di non affrettare la presa sul nucleo culturale. Conviene di più un‟approssimazione graduale a questo nucleo, magari servendosi di una lingua veicolare che non contrasti il paziente rispetto ai vincoli originari di identità e appartenenza. Il vantaggio di una lingua siffatta (l‟inglese o il francese per l‟Africa Occidentale) è quello di permettere al paziente di sentirsi a suo agio nel comunicare, senza costringerlo a prendere troppo presto una posizione all‟interno del dispositivo terapeutico. Chiameremo allora lingua di mediazione una IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011 81 varietà che venga impiegata per lavorare in situazione transculturale, indipendentemente dal fatto che si tratti di una lingua matrice o veicolare. Proponiamo inoltre il concetto di timing – non riferito in questo contesto alle interpretazioni (modello psicoanalitico), ma all‟utilizzo delle lingue nello scambio clinico. L‟avvicendamento delle lingue di mediazione, dalla veicolare, più esterna alla matrice culturale della persona, a quella più prossima al suo nucleo culturale, può richiedere un tempo di maturazione, di consolidamento della relazione. Un passaggio troppo rapido o immediato alla lingua matrice, soprattutto se non c‟è un rapporto stabile di collaborazione tra operatori clinici e mediatori, potrebbe anche provocare nel paziente una reazione di rifiuto o minaccia. Naturalmente occorre valutare caso per caso, perché le configurazioni possibili sono innumerevoli. 82 RIASSUNTO La molteplicità babelica delle lingue propria delle società complesse viene qui assunta come elemento centrale di una clinica etnopsichiatrica aperta alle avventure della globalizzazione. Il ragionamento degli autori cerca di andare oltre il tema della traduzione e del modello intersoggettivo della mediazione (paziente-mediatoreterapeuta) per affrontare invece la questione di come si possa curare l‟altro facendo intervenire le lingue (parlate dal gruppo-paziente e dal gruppo-operatore) come strumenti di lavoro clinico. In antitesi con la monolingua, che esercita sempre una forma di terrore sull‟altro, il dispositivo di mediazione si configura come macchina clinica plurilingue in grado di costruire delle connessioni nuove con i gruppi e i contesti d‟origine del paziente. Gli autori propongono un uso differenziale delle lingue nel setting clinico a seconda del gruppopaziente che si ha di fronte. Nel caso di famiglie migranti dove si lavora con genitori e figli insieme non si utilizzerà solo la lingua matrice per parlare con tutti i membri, ma si prediligerà una comunicazione bilingue per mettere in rilievo il cambiamento culturale cui va incontro l‟intero gruppo migrante. PAROLE CHIAVE: Lingue, Mediazione etnoclinica, Teoria della traduzione SUMMARY Multilinguism has become a common factor in complex societies, and must be valued as a crucial element in a clinical ethnopsychiatric perspective, that aims to be open to the adventures of globalisation. This argument leads the authors to think beyond the concept of translation and the triadic model of mediation (patient-mediatortherapist), to find out how languages, a multiplicity of languages, can be used in clinical work. In opposition to monolinguism, that always exerts a form of terror on the other, mediation works as a clinical plurilinguistic device, that is capable of building new connections with the groups and contexts of origin of the patient. The authors propose a differential use of languages within the clinical setting, according with the group which has to be met. In the case of immigrant families, when the team in charge works with parents and children together, bilingual communication will be preferred to using only the “matrix” language, in order to lay emphasis on the process of cultural changing that the whole immigrant group is going through. KEY WORDS: Languages, Ethnoclinic mediation, Translation‟s theory IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011 83 BIBLIOGRAFIA 84 AMSELLE J.-L., “Du métissage au branchement des langues”, in J. Dakhlia, Trames de langues au Maghreb, Maisonneuve & Larose, Paris, 2004, p. 275. BECCARIA G.L. (diretto da), Dizionario di linguistica e di filologia, metrica, retorica, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1994. CALVET L.-J., Pour une écologie des langues du monde, Plon, Paris, 1999. CARDONA G.R., Introduzione all‟etnolinguistica, UTET, Torino, 2006. CASADEI F., FESTI G., INGLESE S., “Profili di una teoria della mediazione linguistica, culturale e clinica per la salute mentale”, in L. Attenasio, F. Casadei, S. Inglese, O. Ugolini (a cura di), La cura degli altri. Seminari di etnopsichiatria, Armando editore, Roma, 2005. CASADEI F., INGLESE S., G. FESTI, E. ONDONGHESSALT, A. ZEMPLENI, “Pensare la voce in etnopsichiatria clinica”, in S. Inglese, P. Affettuoso, N. Romano (a cura di), Etnie, arti e terapie, Il Vaso di Pandora, N. spec., Genova, pp. 167-179, 2005. CRYSTAL D., The Future of Language: The Routledge David Crystal Lectures, Routledge, London, 2009. DELEUZE G., GUATTARI F., Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, Roma, 2006. DE PURY TOUMI S. “Mais, où est donc la mère? Brève note sur l‟étymologie de l‟expression « langue maternelle » ”, Traduction et psychothérapie, Nouvelle Revue d‟Éthnopsychiatrie, n. 25/26, pp. 187195, 1994. DE PURY TOUMI S., Traité du malentendu. Théorie et pratique de la médiation interculturelle en situation clinique, Le Plessis-Robinson, Les Empêcheurs de penser en rond, 1998. DE PURY TOUMI S., NATHAN T. ET AL., “Traduire en folie. Discussion linguistique”, Nouvelle Revue d‟Éthnopsychiatrie, n. 25/26, pp.13-46, 1994. DERRIDA J., Il monolinguismo dell‟altro, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2004, p. 29. DEVEREUX G., “Acculturation antagoniste”, in Ethnopsychanalyse complémentariste, Flammarion, Paris, pp. 253-290, 1985. DEVEREUX G., Saggi di etnopsichiatria generale (nuova ed. it. a cura di S. Inglese), Armando Editore, Roma, 2007. DURANTI A., Etnopragmatica. La forza nel parlare, Carocci, Roma, 2007. GUMPERZ J.J., LEVINSON, S.C., Rethinking Linguistic Relativity, Cambridge University Press, Cambridge, 1996. HARRAG, Di clinica in lingue. Migrazioni, psicopatologia, dispositivi di cura, Colibrì, Milano, 2007. INGLESE S., “La moltiplicazione delle lingue nelle terre del rimorso. Metodologia ed esperienze di etnopsichiatria comunitaria in Italia meridionale (Calabria)”, in S. Inglese, P. Affettuoso, N. Romano (a cura di), Etnie, arti e terapie, Il Vaso di Pandora, N. spec., Genova, pp. 107-126, 2005. INGLESE S., “L‟infanzia sospesa tra almeno due mondi. Un contributo etnopsichiatrico alla psicopedagogia transculturale”, Atti XV Congresso Nazionale Le culture dell‟infanzia, Edizioni Junior, Genova, pp. 99112, 2006. INGLESE S., “L‟uso dell‟oggetto-lingua in etnopsichiatria: traduzione, interpretazione, mediazione etnoclinica” in A. Rotondo (a cura di), Etnopsichiatria e territorio. Esperienze, Edizioni di Terrenuove, Milano, pp. 47-73, 2009. IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011 85 86 INGLESE S., “Infans, Migrans, Mutans. La generazione culturale degli esseri umani”, in P. Bria, E. Caroppo, P. Brogna, M. Colimberti, Trattato italiano di psichiatria culturale e delle migrazioni, SEU, Roma, pp. 23-30, 2010. INGLESE S., “Culture-Bound Syndromes”, in press, 2011. LATOUR B., “Piccola filosofia dell‟enunciazione”, in Basso P., Corrain L. (a cura di) Eloquio del senso. Dialoghi semiotici per Paolo Fabbri, Costa & Nolan, Milano, 1999. NATHAN T., L‟influence qui guérit, Éditions Odile Jacob, Paris, 1994. NATHAN T., Nous ne sommes pas seuls au monde, Les Empêcheurs de penser en rond/Le Seuil, Paris, 2001. RICOEUR P., Tradurre l‟intraducibile. Sulla traduzione, Urbaniana University Press, Città del Vaticano, 2008. RUSONG W., HONGTU W., YING H., Arte della Guerra e arte della guarigione, Luni editrice, Firenze, 2007. SWIGART L., “The limits of Legitimacy: Language Ideology and Shift in Contemporary Senegal”, Journal of Linguistic Anthropology, 10 (1), 2000, pp. 90-130 WATSZLAWICK P., BEAVIN J.H., JACKSON D.D., Pragmatica della comunicazione umana. Studio dei modelli interattivi delle patologie e dei paradossi, Astrolabio, Roma, 1971. Quattro passi per strada __________________________________________________ 87 IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011 Carmelo Conforto17 Recensione La signorina che faceva HARA-KIRI e altri saggi Di Franco Borgogno BOLLATI BORINGHIERI, TORINO, pag. 332, E. 28,00 Franco Borgogno prosegue, con questo ultimo libro (e come scrive nel cap. 11), la descrizione del suo modo di essere psicoanalista. Un modo in movimento, un cammino che esprime il suo senso non definendosi in maniera dogmatica, pur nella coerenza di un percorso che, come l'Autore ricorda (p.65), è attento a integrare gli accadimenti dell'ambiente di crescita con il peso dei processi introiettivi del paziente. Il tragitto, gli avvenimenti relazionali, quelli interiori, i dialoghi, i pensieri che via via si susseguono, marcano le stazioni del viaggio dello psicanalista, dell'uomo Franco Borgogno, divenendo il contenuto dei suoi scritti, anche di questo, come ci ha abituati. Il libro ha preso vita dentro di me quando, credo in maniera ancora più intensa rispetto ad altre opere di Borgogno, mi sono ritrovato in contatto con Franco e M., la giovane paziente schizoide deprivata, nella ostensione della loro così ineffabile intimità. Non è la prima volta che M. e Franco mostrano se stessi al lettore, a me, poichè M. pare offrire al suo analista, così fortemente collocata dentro di lui, una ininterrotta stimolazione affettiva che lo spinge a riflettere e a rileggere nell' après-coup, a proporre un modello di lavoro che si fortifica e che lo spinge a cercare interlocutori. 17 Psicoanalista SPI IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011 89 90 Il mio tentativo di proporre una "recensione" del libro si incontra allora con un‟incalzante sequenza di temi che l'autore espone, accenna, ribadisce, accompagnati dalle osservazioni dei tanti commentatori presenti nel libro. Scelgo di soffermarmi sul capitolo 6, "Sulla << morte psichica>>", ove il tema che Borgogno affronta (evocando in me la percezione di una sintonica simpatia) è la inevitabilità che in situazioni simili a quelle di M., in cui il tema della morte psichica si pone come immanenza allarmante, sfiduciante, allontanante, l'analista si trovi a dolorosamente convivere con " i sentimenti traumatici che siamo chiamati a esperire" (p. 169). M., si presenta al suo analista con un sogno di (apparente) morte, l'uomo giapponese che fa hara-kiri di fronte a lei. La storia traumatica della giovane donna, che avrebbe invaso la relazione analitica, è "una storia traumatica di svuotamento di pensiero e di emozioni che si ripete e non puoi fermare". Con essa, su di essa, nelle sue complesse espressioni transfert-controtransfert, si svolge il percorso che Borgogno ci mostra. L'autore evidenzia la estrema diffidenza presente nei pazienti con questo livello di sofferenza nei confronti dell'analista che, avvicinandosi, riesce a cogliere "la terribile fame di amore nascosta dietro all'essersi sottratti agli scambi umani". E' allora il conflitto tra una fame implacabile e il terrore di una nuova delusione che definisce il modo in cui il paziente e l'analista sperimentano il tentativo di stare insieme. Accanto a loro, dentro loro, un continuo viaggiare di introietti e proiezioni attraverso i quali il fallimento traumatico dei caregivers (quelli del paziente, forse non solo quelli) si ripropone instancabile, nelle varie forme della relazione analitica, incluso il modo che Borgogno chiama rovesciamento dei ruoli: la sofferenza che l'analizzato chiede all'analista di sperimentare come se fosse il bambino esposto alla minaccia mortifera della madre (p.39, p.251). E' nel paragrafo scritto in collaborazione con Massimo Vigna-Taglianti (Il rovesciamento dei ruoli: un << riflesso>> dell'eredità del passato piuttosto trascurato) che ho trovato riflessioni su cui vorrei invitare il lettore a soffermarsi. Queste pagine sono una straordinaria sintesi del modo che Borgogno ha raggiunto nel considerare la funzione dell'analista in rapporto a pazienti gravemente deprivati, non ancora approdati a padroneggiare il simbolico. Con essi il contatto è soprattutto con ciò che non è verbale, pensabile18, delegato a emozioni non ancora dotate di significazione, che invadono il campo analitico, coinvolgendo l'analista nella faticosa ricerca di senso e sorprendendolo in "messe in atto reciproche". Nel commento al caso clinico, Jonathan Sklar19 propone questa riflessione: "Ogni analizzando scruta sempre l'analista allo scopo di testare se egli, in linea di massima, sia davvero capace di riconoscere le sue esperienze primitive, se esse in pratica rientrino nel repertorio di strumenti che lui ha a disposizione per comprendere l'esistenza umana e gli siano almeno per certi versi familiari" (p. 136). Inaspettatamente, forse, avevo trovato in uno scritto della O'Shaughnessy (1981)20 delle riflessioni che si muovono nella stessa direzione: "I bambini fanno indagini sulla capacità di reverie dell'analista e portano materiale allo scopo di vagliare se è in grado di pensare, notare, ricordare, capire la differenza tra verità e menzogna, e di comprendere emotivamente, in contrasto con una comprensione meccanica e teorica". In effetti la verità di queste affermazioni non può, ritengo, prescindere dalla nozione di trauma, inteso (sopratutto, in questo libro) come la 18 Gli autori scrivono: " Il trauma per essi consiste proprio nel fatto che non è accaduto quello che sarebbe dovuto accadere", facendo riferimento agli scritti di Ferenczi, Winnicott, Borgogno stesso. 19 “Il silenzio: memoria traumatica e mezzo di comunicazione”, in Cap. 5 "Il processo di working through nell'hic et nunc e nella << lunga onda>> dell'incontro analitico”. 20 "La teoria del pensiero di Bion e le nuove tecniche in analisi infantile" in : E.Bott Spillius (a cura) "Melanie Klein e il suo impatto sulla psicoanalisi oggi", Astrolabio, 1995. IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011 91 92 condizione esistenziale al quale è stato esposto dai caregivers il bambino, e di cui dialogano Dina Vallino e Franco Borgogno nel cap. 7. Il paradigma di base è che molti "comportamenti non costruttivi e non vitali dei bambini e adolescenti" sono dovuti non al loro corredo pulsionale ma "a qualche forma di grave sofferenza causata da una noncuranza ambientale" (così come Ferenczi, Balint, Winnicott, i più ricordati, avevano colto). Necessariamente, sottolinea Dina Vallino, "La stessa nozione di trauma porta (..) a rivisitare l'idea psicoanalitica dell'intrapsichico e dell'interpersonale" (p. 209). E' in questa condivisibile prospettiva che l'attenzione si centra sul modo d'essere dell'analista. Dina Vallino scrive (p.194) che "il divenire un buon analista con pazienti traumatizzati richiede anni e anni molto difficili di lavoro", e Borgogno si chiede (p.197): "come essere analisti" con chi ha interiorizzato un oggetto deprivante. Questi rilievi, la cui risposta è ancora parziale, rimanda a quello che Binswanger nel 1925 scrisse a Freud21: "Il problema di sapere che cosa mi mette nello stato di interpretare è per me più interessante di fare una interpretazione giusta", non ricevendo da Freud una risposta soddisfacente. Nel libro, Borgogno e chi ha scritto con lui, sollevano, direttamente o in maniera implicita, la medesima domanda: quali sono gli elementi personologici, storici, elaborati nell'analisi didattica, nelle supervisioni, nelle riflessioni (come quelle presenti nel volume) che ci mettono nello stato di affrontare, tollerare, sopravvivere (assieme al paziente) ad esperienze analitiche così estreme? Cosa mette l'analista nella condizione di poter riconoscere il dolore del paziente, gestirlo, "e attraverso quali lotte e compromessi perviene a conviverci, a darvi un nome, a elaborarlo e, se possibile, a superarlo" (p.294). Cosa permette, infine e sopratutto, all'analista di accogliere in analisi, nella sua vita, un tale paziente. 21 S. Freud, L. Binswanger " Correspondance" 1908-1938, Calmann-Lévy, 1995 In un mio lavoro, scrivendo sulla ragione del perché io e quella così grave paziente avevamo deciso di lavorare insieme22, avevo parlato della speranza ricordando la proposta di Bion: "Le 'paure' sono opache come le 'speranze'. La speranza è diversa dal desiderio? Si, come i nodi; è desiderio+tempo"23. Borgogno (p.299) ritorna su questa dimensione dell'umano parlando di se stesso uomo e analista, suggerendo che "la fede, la speranza e altresì la carità soggiungono lentamente dall'impegno che uno ha profuso nella sua vita, e che bisogna vivere appieno la vita per poterle possedere e potervi credere". Borgogno non propone solo questo interrogativo, ma un secondo, fondamentale, quello che siamo in qualche modo costretti a porci quando pazienti al limite ci chiedono (nei loro modi) di essere con loro. E' lecito immaginare (a me succede) che nell'uomo persista, anche dove l'incontro primario è stato così carico di delusioni traumatiche (come nella paziente di Borgogno), quella pre-concezione (condizione d'attesa) del "seno", di cui parla Bion (196224), ovvero di un contenitore psichico sufficientemente vivo e accogliente, di cui, come riprende Grotstein ( 200725) "un aspetto è saturo; l'altro è insaturo, quella parte disponibile ad accogliere l'esperienza". Scelgo, nel lungo racconto della vicenda tra Franco e M., a conferma, l'episodio del quarto anno d'analisi, (di cui anche ho parlato in una precedente recensione26) in cui la 'signorina' disse che "faceva quadrato" riferendosi apparentemente ad una situazione di lavoro. In quel momento passò un camion, nella strada sottostante, con un gran boato. L'analista rispose con una comunicazione che sembrò sfuggirgli, stupendolo:<< Un rombo come risposta al quadrato>>. La paziente 22 C.Conforto, 2010, "Quando il tempo della morte entra in analisi" Atti XV Congresso Nazionale SPI, Taormina. 23 W. Bion, 1992, "Cogitations", Armando, Roma, 1996. 24 W. Bion, 1962, "Apprendere dall'esperienza", Armando, Roma, 1972. 25 J. Groststein, 2007, " Un raggio di intensa oscurità", Cortina, Milano, 2010. 26 C. Conforto, 2003, 'Recensione di : L. Rinaldi (a cura ) " Stati caotici della mente", Rivista di Psicoanalisi, XLIX, n° 3'. IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011 93 94 rise, dicendo che il terapeuta aveva proprio usato parole sue "riconoscendo-scrivevo-l'unicità dell'altro, l'ipseità, proseguendo così quell'indispensabile percorso che la porterà a disentificarsi dall'oggetto deprivante". Proseguendo anche, aggiungo, il cammino verso il riconoscimento dell'esistenza dell'oggetto psicologico di cui permaneva in lei l'aspettativa, la speranza. In questo modo, è noto, Bion propone avvenga il passaggio dalla preconcezione alla concezione di un oggetto (introiettabile) , vivo, capace di contenimento e dotato di una mente che pensa e permette di apprendere a pensare. Ancora due parole sul tema della sessualità, che nel volume non tende a configurarsi come "conflittualità edipica", considerata come non ancora ammessa in quei pazienti poiché (riprendendo sopratutto l'intervento di Carlos Nemirovsky, p.82), "la problematica in cui si inquadra il loro disagio è di tipo bi-personale e non triangolare". Indubbiamente chi ha esperienza di pazienti gravi, deprivati, concorda con ciò che Borgogno precisa (p. 99), avendo toccato con mano " cos'è un transfert centrato sul bisogno e in che cosa questo si diversifichi dal lavorare con il transfert di desiderio"27. A questo proposito aggiunge, riprendendo Ferenczi, quanto della traumaticità connessa alla relazione bambino-caregivers sia espressione della tensione incestuosa che è presente in essi (p.272). Questa osservazione mi rimanda in particolare al contributo dello picoanalista ungherese "La confusione delle lingue tra adulti e 27 Non mi è certo possibile in questa sede avventurarmi in riflessioni e posizioni analitiche che affrontano da angolazioni diverse questo tema fondamentale. Mi limito a ricordare la posizione di Morris Eagle(1998) "Carenze di sviluppo e conflitto dinamico" (in: POL.it.) che afferma come ad esempio in giovani che hanno subito blocchi dello sviluppo, pazienti schizoidi o border, si rileva la presenza di conflitti e angosce tipicamente edipici, spesso saturati da temi e problemi pre-edipici non risolti. In conclusione la sua ipotesi (peraltro assai nota) è che anche "nei casi di carenza o di blocchi lo sviluppo psicologico non si arresta su tutti i fronti". bambini" (193228) in cui un ruolo fondamentale nella teoria dell'etiologia traumatica viene affidato allo scontro tra le esigenze di tenerezza del bambino (il linguaggio della tenerezza) e le manifestazioni di erotismo passionale dell'adulto. L'aggressore- osserva Ferenczi- diviene oggetto di introiezione e a quel punto "l'evento da extrapsichico diviene intrapsichico"(p.421). Aggiunge che in tal modo la vita sessuale "resta involuta o assume forme perverse"( p.422), come ho avuto modo di cogliere nell'analisi di pazienti che hanno subìto situazioni traumatiche di quest'ordine ed in cui la tendenza all'erotizzazione del transfert nascondeva un inconcluso, non realizzato bisogno (desiderio?) di ritorno a quella che appunto Ferenczi chiama "la fase della tenerezza" (p.426).29 Mi pare che Borgogno, nella chiarezza con cui esprime il suo percorso "sul modo d'essere analisti nel XXI secolo", sappia che alcuni aspetti del nostro lavoro meritano rinnovata esplorazione. In nota a p. 268 annuncia che la via che sente necessario affrontare è quella che riavvia l'attenzione sulle funzioni analitiche che implicano il <<materno>> recuperando il << paterno>> e il <<femminile>> accanto al <<maschile>>. Nella mia lettura, non necessariamente condivisibile, intendo il progetto di riprendere e ridefinire alcuni elementi e funzioni indispensabili a quell'approdo (nel percorso analitico) alla terzità (come si esprime Green)30, da lui inclusa nella teoria "della triangolazione generalizzata con un terzo sostituibile". 28 S. Ferenczi, Fondamenti di Psicoanalisi, Vol.III, 1932, "Confusione delle lingue tra adulti e bambini", Guaraldi , Firenze, 1974. 29 Un lavoro recente di Gaburri, presentato al 1° Colloquio Italo-spagnolo (2011) " Mito, Passione e Tenerezza" riprende in particolare il lavoro di Ferenczi suggerendo l'importanza della "corrente di tenerezza" non solo nel rapporto madre-bebé quanto nel rapporto analista -paziente. Rimando al contributo. 30 A. Green, (2002), " Idee per una psicoanalisi contemporanea", Cortina, Milano, 2004. IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011 95 Trovo qui un possibile riferimento a quello che pensa Ronald Britton, (neo-kleiniano), quando propone il raggiungimento della terza posizione dalla quale analista e analizzando possono osservare le relazioni oggettuali (p.66).31 Fermo qui i pensieri e le riflessioni che, come mi accade leggendo Borgogno, tendono a presentarsi arricchenti, promuovendo confronti con i modi in cui lavoro (lavoriamo) in analisi e con gli accostamenti e interrogativi che altri modelli ci sollecitano. Buona lettura. 96 31 R. Britton, (2000), "Credenza e immaginazione", Borla, Roma, 2006. Non mi spingerò oltre sui temi che ho accennato, rimandando alle opere citate. Caro Lettore, lo spirito con cui è nata la rivista “Il Vaso di Pandora” è stato quello di favorire ed agevolare il dialogo tra i professionisti delle scienze umane, con particolare riguardo all’area della Psichiatria. A tale proposito, la Segreteria Scientifica e di Redazione invita i Lettori ad inviare elaborati, loro o dei loro collaboratori, dai quali poter trarre nuovi spunti di dialogo e riflessione e che possano contribuire ad un arricchimento dei temi trattati. La pubblicazione di un articolo sulla rivista è, in ogni caso, rigorosamente subordinata al parere positivo di referee esterni al Comitato Editoriale. Note per gli Autori 1. Nel proporre il proprio scritto alla Segreteria Scientifica e di Redazione, l’Autore dovrà specificare che si tratta di un lavoro inedito e che intende pubblicarlo esclusivamente sulla rivista “Il Vaso di Pandora”. 2. Preferibilmente, l’elaborato proposto dovrà essere inviato tramite mail come file di WORD allegato agli indirizzi di posta elettronica: [email protected] e [email protected] Qualora ciò non fosse possibile, l’Autore potrà inviare il file WORD, salvato su CD, al seguente recapito: Segreteria de “Il Vaso di Pandora”, Piazza Mameli 5/7 – 17100 Savona (SV), all’attenzione del Dott.ssa Antonella Ferro. 3. Ogni testo dovrà essere accompagnato da: Nome e Cognome per esteso degli Autori; una breve nota biografica relativa ad ognuno (la Segreteria si fa carico di omettere questi dati dalle copie che invia ai referee per la valutazione); almeno un indirizzo postale a cui i lettori possano inviare eventuali loro comunicazioni agli autori, un indirizzo di posta elettronica e un numero di telefono per eventuali comunicazioni della Segreteria; titolo in italiano ed inglese; alcune parole chiave in Italiano ed Inglese; un breve riassunto in Italiano ed Inglese; 4. Qualora l’elaborato si sia ispirato ad una relazione presentata ad un Convegno (è questo il caso degli “estratti”), dovrà comunque essere accompagnato da un breve riassunto, sia in Italiano che in Inglese e dalle parole chiave. 5. Le note dovranno essere ridotte al minimo e numerate progressivamente. 6. Le citazioni, accuratamente controllate, dovranno apparire tra virgolette doppie (anche le virgolette usate per fini diversi dalla citazione dovranno essere doppie). I corsivi originali dovranno essere sottolineati (o meglio riportati in corsivo); i corsivi IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011 97 aggiunti dovranno essere indicati tra parentesi con: (corsivo aggiunto), oppure (sottolineatura mia). Ogni aggiunta dell’Autore dell’articolo dovrà essere posta in parentesi quadra; per esempio. “egli [S. Freud] intendeva”. Le omissioni nel testo verranno segnalate nel seguente modo: (…). Parole o frasi in lingua diversa dall’italiano saranno senza virgolette, ma sottolineate (o scritte in corsivo) e seguite, nel caso, dalla traduzione tra parentesi o in nota. 7. I riferimenti bibliografici nel testo saranno indicati tra parentesi semplicemente con il cognome dell’Autore, seguito dalla data ed eventualmente dal numero delle pagine: (Freud 1921, p. 315), ma (Freud A. 1936, p. 58). Nel caso di opere coeve: (Hartmann 1939a, p.46), (Hartmann 1939b, p. 161). Se gli Autori sono due, appariranno entrambi: (Breuer e Freud 1893-1895, p.345). Se sono più di due: (Racamier et al. 1981, p.184). 8. I titoli di libri riportati nel testo saranno sottolineati (o scritti in corsivo). I titoli di articoli apparsi in riviste o libri saranno citati tra virgolette doppie. Ad ogni riferimento bibliografico nel testo dovrà corrispondere una voce nella bibliografia finale. 98 9. La bibliografia consiste in una lista, non numerata, in ordine alfabetico, e deve contenere unicamente gli Autori citati nello scritto. La voce bibliografica relativa ad un libro seguirà questo modello: - Wing J.K. (1978): Reasoning about Madness. Oxford University Press, Oxford. Di seguito, tra parentesi, può essere indicata l’eventuale traduzione italiana con titolo sottolineato, editore, città, anno; il tutto chiuso da un punto fermo. E’ accettata anche la citazione del titolo della traduzione italiana, purché tra parentesi, dopo il nome dell’Autore, figuri la data di uscita del lavoro in originale. La data della traduzione va in fondo. Es.: - Wing J.K. (1978): Normalità e dissenso, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 1983. Le opere di uno stesso Autore appariranno secondo ordine cronologico, con ripetizione del nome dell’Autore ed eventuale differenziazione con lettera alfabetica delle opere: - Freud S. (1923a): Remarks on the Theory and Practic of Dream-Intepretation. S.E., 19. - Freud S. (1923b): The Infantile Genital Organization. S.E., 19. Due coautori appariranno entrambi; se gli Autori sono più di due, può essere citato il primo seguito da: et al. Un Autore citato come Autore singolo e anche come coautore apparirà in primo luogo come Autore singolo. La voce bibliografica relativa ad un articolo pubblicato in volume apparirà secondo questo modello: - Wittember I. (1975): “Depressione primaria dell’autismo. John”. In D. Meltzer et al., Esplorazioni sull’autismo, Boringhieri, Torino, 1977. Oppure, quando l’Autore è lo stesso: - Ferenczi S. (1913): “Stages in the Development of the Sense of Reality”. In First Contributions to Psycho-Analysis, Hogarth Press, Londra, 1952 La voce bibliografica relativa ad un articolo pubblicato su rivista seguirà questo modello: - Servadio E. (1976): Il movimento psicoanalitico in Italia. Riv. Psicoanal. 22, pp. 162168. 10. Il materiale iconografico, sia fotografie, sia disegni, dovrà essere presentato su singolo foglio e numerato progressivamente in numeri arabi. Le tavole, anch’esse in fogli singoli, dovranno essere numerate in cifre romane. Sia le tavole sia l’iconografia dovranno essere richiamate nel testo ed essere accompagnate da una legenda esplicativa. La Segreteria Scientifica e di Redazione si riserva di apportare ai testi degli Autori piccole correzioni, qualora ritenute indispensabili o comunque utili ad uniformare i testi stessi allo stile della rivista. Ogni qual volta ciò accada, l’Autore ne riceverà immediata comunicazione. 99 IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011