il vaso di pandora

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il vaso di pandora
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Vol. XX, N. 4, 2012
TRA PRASSI E TEORIA
APPUNTI DI VIAGGIO
Edizioni
QUATTRO PASSI PER STRADA
OLTRE...
* Omaggio a Hermann Zapf *
Progetto informatico di Tiziano Stefanelli
IL VASO DI PANDORA
Edizioni
IL VASO DI PANDORA
Dialoghi in psichiatria e scienze umane Vol. XIX, N.3, 2011
IL VASO DI PANDORA
Dialoghi in psichiatria e scienze umane
<<Il Vaso di Pandora>>
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IL VASO DI PANDORA
Dialoghi in psichiatria e scienze umane - Vol. XIX, N°3, 2011
Sommario
Editoriale
Pasquale Pisseri
pag. 7
TRA PRASSI E TEORIA
Introduzione: Vie dell‟Etnopsichiatria
Salvatore Inglese
pag. 17
APPUNTI DI VIAGGIO
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Disturbi da stress post traumatico e disturbi da spavento: ripensare il
trauma da una prospettiva etnopsichiatrica
Tobie Nathan, Catherine Grandsard
pag. 31
Babelogue. Lingue e processi di mediazione clinica
Filippo Casadei, Salvatore Ingloese
pag. 57
QUATTRO PASSI PER STRADA
Recensione:
“La signorina che faceva HARA-KIRI e altri saggi“
di Franco Borgogno
Carmelo Conforto
pag. 89
IL VASO DI PANDORA
Dialoghi in psichiatria e scienze umane - Vol. XIX, N°3, 2011
Table of contents
Editorial
Pasquale Pisseri
pag. 7
TRA PRASSI E TEORIA
Ethnopsychiatric ways - Introduction
Salvatore Inglese
pag. 17
APPUNTI DI VIAGGIO
Post-traumatic stress disorders and panic disorders: rethinking the
trauma from the ethnopsychiatric perspective
Tobie Nathan, Catherine Grandsard
pag. 31
Babelogue. Language and processes of clinic mediation
Filippo Casadei, Salvatore Ingloese
pag. 57
QUATTRO PASSI PER STRADA
Recensione:
“La signorina che faceva HARA-KIRI e altri saggi“
di Franco Borgogno
Carmelo Conforto
pag. 89
IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011
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Editoriale
Questo numero è integralmente dedicato all‟etnopsichiatria, e così pure il prossimo.
Infatti il materiale pervenuto dal dott. Salvatore Inglese è tanto ricco da richiederne
la distribuzione in due numeri della rivista.
Il compito dell‟etnopsichiatra non è semplice, poiché incontra una duplice difficoltà:
il rapporto con il paziente mentale e quello con lo straniero hanno in comune la
necessità di approccio a un mondo mentale “altro”, in cui le necessarie comprensione
ed empatia rischiano di trovarsi in scacco. Ricordiamoci la radice comune delle
parole “alieno” e “alienato”, entrambe evocatrici di angoscia. Nel rapporto con il
paziente straniero i due diversi problemi di approccio si sommano, o piuttosto si
moltiplicano.
I contributi di questo numero ci insegnano però a considerare non soltanto le
difficoltà dell‟impresa ma anche l‟opportunità che essa ci offre di affinamento delle
nostre capacità operative e di riflessione teorica.
Abbiamo una certa abitudine a considerare l‟etnopsichiatria come tema in qualche
modo collaterale; un capitolo fra i tanti, cui alcuni specialisti si dedicano a fondo
mentre la gran maggioranza di noi se ne interessa marginalmente. Il DSM IV
TM dedica poche pagine alle sindromi legate alla cultura, nonché al profilo culturale
che è necessario considerare nella prassi applicativa in contesti multiculturali. E‟
suggestivo trovare in tali pagine categorie come il cosiddetto “ataque de nervios”,
tipico della cultura “latina”, cioè della nostra; il termine è tuttora vivo nell‟uso
comune dei paesi latini, almeno in alcuni contesti geografici e sociali. Esperienza,
dicevo, suggestiva e salutarmente destabilizzante perché sposta per un momento noi
neolatini dalla posizione di osservatori a quella di oggetto della osservazione
scientifica; e magari da quella di giudicanti a quella di giudicati.
L‟introduzione di Salvatore Inglese, di grande spessore metodologico, rovescia
completamente la prospettiva: presenta l‟etnopsichiatria quasi come atta a rifondare
la nostra disciplina grazie alla sua “tensione polemologica non finalizzata alla
ricomposizione irenica fra teorie conflittuali” (portatrice, potremmo ricordare con il
termine di paragone più illustre possibile, non della pace ma della spada).
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Addirittura, ciò ha condannato Devereux all‟isolamento e all‟emarginazione
personale.
Per Inglese, l‟etnopsichiatria “non si lancia alla scoperta della mente o dell‟apparato
mentale né sul versante neuroscientifico né su quello psichiatrico, psicologico,
psicoanalitico”. Non vengono quindi condivise posizioni esplicative, sul piano di una
causalità psicologica o biologica; è ravvisabile forse una maggior vicinanza alla
fenomenologia, in quanto questa rinuncia programmaticamente a tentativi di
spiegazione causale: pare mostrarlo, fra l‟altro, l‟adozione di termini quali
“mondanizzazione” e “presentificazione”
E‟ da ritenere in effetti che non sia, nè dovrebbe esserlo, vocazione
dell‟etnopsichiatria l‟entrare in concorrenza o competizione con le varie teorie, il
condividerle o meno, o proporre teorie alternative: parrebbe più proficuo, e perfino
più importante, porre l‟approccio etnopsichiatrico come preliminare allo sviluppo di
teorie e alla revisione di quelle esistenti, come fornitore di una base di dati e
conoscenze più vasta e multiforme di quella su cui è nata la psichiatria classica,
nelle sue varie divaricazioni teoriche e metodologiche.
Certo, l‟Autore non concorderebbe nel considerare meta valida il conseguimento di
una nuova obbiettività più ampiamente fondata, ma manterrebbe comunque la sua
posizione: “questi oggetti che vi interessano non sono affatto fenomeni naturali nè
universali, ma costituiscono un evidente prodotto storico...”
Il considerare la mente individuale e il suo dolore come socialmente situati è stato
oggetto di ampie riflessioni di psichiatri, psicologi, filosofi: citando un po‟ a casaccio
si possono ricordare il Freud di Psicologia delle masse, Wilhelm Reich, Erich
Fromm, la scuola di Francoforte, Marcuse. Ma Salvatore Inglese ripropone la
topica con inconsueta radicalità, che investe necessariamente lo statuto epistemologico
della nostra disciplina: questa infatti non ha nè può avere un oggetto di studio
naturale e obbiettivabile, ma ha a che fare con fenomeni storicamente e
culturalmente determinati.
Dunque, “Etnopsichiatria non vuol dire... lo sviluppo di una specializzazione
medica: essa non è la psichiatria etnica coltivata da psicopatologi sensibilizzati alle
altre culture”; si propone come radicale sfida metodologica, che si propone di
“accendere una centrifuga cognitiva in cui le varie discipline sono disposte a
scambiare le proprie conoscenze, reputandole assolute nel proprio campo (chiuso) di
esercizio e al tempo stesso negoziandole come relative quando entrano nello spazio
pubblico (aperto) di una agorà terapeutica”.
Questa ottica trova una applicazione concreta esposta da Tobie Nathan e
Catherine Grandsard nel loro lavoro sui disturbi da stress postraumatico. Essi
recuperano il concetto di spavento, ben presente nel nostro lessico quotidiano ma non
nella semeiotica psichiatrica, pur se vi si fa cenno nel DSM che lo include fra i
criteri diagnostici necessari alla diagnosi di disturbo da stress acuto.
Il concetto ha un ruolo chiave nelle teorie sul trauma sviluppate, con sconcertanti
analogie, da diverse popolazioni africane: per esse, il trauma comporta uno
svuotamento e una frattura nel Sé psichico (“o forse dovremmo dire la sua anima?”
rileva Nathan), e nel vuoto risultante si insinua un essere alieno, non umano; il
traumatizzato entra in contatto con un mondo “altro”, sconcertante e mal
comprensibile. E‟ tuttavia possibile una evoluzione positiva e maturativa della
esperienza, come mostrano gli evidenti aspetti traumatici e dolorosi delle cerimonie di
iniziazione.
Gli Autori, lungi dal considerare queste concezioni come rozze e primitive, le
considerano con grande rispetto e umiltà, ritenendole capaci di innegabili e concreti
risultati terapeutici e atte a migliorare la nostra comprensione. E‟ interessante pure
annotare, come fa l‟Autore, che in Francia ancora nell‟800 convulsioni e tics fossero
effetto di una sorta di possessione. Questo ci ricorda che un ulteriore affinamento
della prospettiva può nascere dall‟apporto integrato della storia della psichiatria nei
suoi vari risvolti: le antiche elaborazioni teoriche, la risposta sociale – istituzionale o
meno - alla follia, le fantasie su di essa che ci giungono con le opere letterarie, i dati
pur frammentari sulle sue manifestazioni.
Inglese fa rilevare che una apertura a concezioni diverse e non necessariamente
primitive e inferiori può scontrarsi con l‟angoscia che nasce dall‟attuale “reazione
generalizzata (dall‟esterno) contro i fondamentali dell‟Occidente”, dal “vedere
contemporaneamente restringersi il raggio di influenza del mondo occidentale ed
estendersi quello di altre costituzioni sociali, culture e civiltà”. Ciò mi sembra solo
in parte condivisibile: è certo vero che l‟Europa e in parte anche quella sua filiazione
che sono gli USA vedono scosso il loro predominio economico – politico - militare:
ma è lo stesso sul piano culturale? La sfida emergente di India e Cina si fonda
sulla acquisizione e sviluppo di competenze scientifiche e tecniche di origine
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occidentale con parziale rinuncia al patrimonio culturale tradizionale, e nell‟altra
nuova grande potenza economica, il Brasile, si parla una lingua neolatina; sul
piano culturale, l‟Occidente non ha affatto smesso di colonizzare il mondo.
Restringendoci nuovamente al nostro campo, ricordo una mia esperienza personale
di anni fa in Nepal : vi è tuttora assai diffuso il ricorso ai tradizionali “witch
doctors”, quali i Vaiyas, i Gubhaiu, i Dhamis, i Jhakri, le cui pratiche si ispirano
a teorie ayurvediche o comunque nell‟ambito della concezione religiosa induista; ma
la psichiatria pubblica di quel paese – almeno per l‟esperienza diretta che ne ho
avuto - tende a considerare ciò come un fenomeno residuale e possibilmente da
cancellare gradualmente, pur se finora maggioritario: e segue invece fedelmente la
classificazione del DSM, rinunciando a un vero confronto, se non a una
integrazione, con la medicina tradizionale .
Questo atteggiamento, se condiviso in altri paesi – e ritengo che prevalentemente lo
sia – è certo utile alla raffrontabilità dei dati; ma alla luce delle riflessioni portate
dagli Autori di questo numero potrebbe esser responsabile di una occasione perduta.
Nel contributo di Casadei e Inglese che chiaramente si rifà alla impostazione
proposta nella introduzione, l‟intenzione degli Autori si annuncia già dal titolo
quasi provocatorio, Babelogue: Babele è dialogo. Mentre nel nostro abituale modo di
esprimerci e nel mito biblico Babele è sinonimo di confusione caotica, per l‟Autore il
multilinguismo è insostituibile occasione di incontro, come espresso nel mito degli
Indiani Akoma, in cui la Divinità moltiplica le lingue non per punire gli uomini
ma al contrario per moltiplicare le occasioni di scambio e reciproca comprensione
tramite uno sforzo interpretativo che consenta di por fine alle violenze reciproche.
Il tema è fondamentale in tempi di immigrazione anche per le sue dirette
implicazioni pratiche, poichè il dialogo è il miglior antidoto alla violenza. Ce lo ha
insegnato, fra gli altri, Pirandello nella novella “Il corvo”. Questo (o questi?),
imprigionato da un contadino, protesta invano: “Non è che il corvo non gridasse le
sue ragioni: le gridò, ma da corvo: e non fu ascoltato”. Ne segue una catena di
incomprensioni e paure destinata a concludersi in tragedia.
Ma nella visione proposta dagli Autori, la differenza di linguaggio non è un puro e
semplice ostacolo bensì una opportunità per incentivare lo scambio poiché la lingua
dell‟altro, nella sua struttura e rete di significati, è fattore fondamentale per la
comprensione della sua esistenza storicamente e culturalmente situata: l‟intervento di
cura ha quella che gli Autori definiscono una parte etnoclinica.
L‟operazione etnopsichiatrica deve dunque contare su un gruppo denominato “di
mediazione”, di cui l‟interprete è figura fondamentale ma non unica : gli altri
membri e il clinico stesso non si limitano ad attendere la traduzione in modo da
ottenerne una comprensibilità meccanica di quel che il paziente dice, ma seguono il
lavoro del traduttore nel definire l‟incontrarsi e l‟integrarsi di strutture e significati.
Si forma così uno spazio pubblico di parola per la dimensione culturale e quella
psicologica ove la parte lasciata alla lingua dello straniero aiuta a non figurarselo
come culturalmente nullatenente. Per contro, l‟impiego dell‟ italiano come lingua
obbligatoria nel colloquio può essere premessa all‟imporre i nostri modelli clinici e
psicologici, dopo aver espropriato, con operazione non priva di violenza, lo straniero
della propria lingua. Inoltre, la lingua naturale del clinico spesso non contiene
termini atti a codificare identità e natura dei personaggi del mondo interno, delirante
o meno, dello straniero. Al contrario, l‟apertura alla lingua di questi consente allo
strumento linguistico di portarci nel cuore della sua cultura.
In sintesi, le lingue devono superare la loro chiusura strutturale e funzionale per
aprirsi l‟una all‟altra. Il dispositivo di mediazione pluriliguistico rende visibili
entità altrimenti sfuggenti: senza traduzione e mediazione, si perde il contatto col
gruppo del paziente.
Anche se gli Autori non vi fanno riferimento esplicito, il loro lavoro non può non
richiamarci alla classica lezione di Lacan sulla centralità e primarietà dell‟ordine
simbolico del linguaggio, sulla attenzione da riservare al significante non meno che al
significato.
Il numero è arricchito da una recensione di Carmelo Conforto al volume di Franco
Borgogno “La signorina che faceva hara-kiri e altri saggi”; recensione che ha lo
spessore di un articolo originale. Richiama più volte la centralità, specie con pazienti
gravi dalla espressività prevalentemente pre-verbale, della condivisione emotivo –
empatica al di là di ogni interpretazione formalmente corretta, e della necessità che
l‟analista sappia convivere con pesanti sentimenti traumatici, rispondendo alla
richiesta dell‟analizzato di esperire la sofferenza connessa, nonchè di cogliere la
“terribile fame d‟amore nascosta dietro all‟essersi sottratti agli scambi umani”.
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L‟analizzato non manca di indagare su queste capacità del terapeuta e sulla sua
affidabilità.
Tutto ciò si collega alla nozione di trauma precoce, connesso o meno a una
dimensione di desiderio sessuale. A questo proposito, viene citata l‟espressione di
Ferenczi “la confusione delle lingue fra adulti e bambini”: viene così ripreso, in
coincidenza certo casuale e in diversissimo contesto, il tema – caro all‟etnopsichiatra
- dell‟incontro fra linguaggi diversi, che può evolvere in conflitto o in integrazione.
La svolta della terapia è il passaggio dalla preconcezione bioniana alla concezione
dell‟oggetto psicologico introiettabile e da sempre atteso per riempire il vuoto
angosciante della morte psichica.
Carmelo Conforto mantiene una posizione aperta, fondata su riflessioni e confronti
arricchenti, su “accostamenti e interrogativi che altri modelli ci sollecitano”.
Pasquale Pisseri
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Tra prassi e teoria
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IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011
Salvatore Inglese1
Introduzione: Vie dell’Etnopsichiatria
Questa introduzione si incammina lungo le vie dell‟etnopsichiatria disciplina strutturata da Georges Devereux sul modello di un‟arte
marziale della prassi clinica: tecnica di combattimento metodologico
non finalizzata alla ricomposizione irenica tra teorie conflittuali – che, a
causa della sua tensione polemologica, non può essere esercitata da uomini
pacifici ma da spiriti turbolenti (Colli, 1980). Alcuni si sono lasciati
letteralmente consumare dal suo fuoco fino a farsene ridurre in cenere
dopo aver patito il deserto della marginalità. Devereux ha trascorso gli
ultimi anni in un affanno solitario, sulla linea d‟ombra della periferia
parigina, vivendo di una modesta pensione perché quasi nessuno, salvo
un paio di amici veramente eccellenti (Bastide, Lévi-Strauss), era
disposto a riconoscere e a sostenere, per non dire a premiare, il suo
genio innovatore (Inglese, 2007). Questa pira consuma gli attori più
recenti e creativi della disciplina; penso adesso a Tobie Nathan, l‟allievo
meno devereuxiano: se il maestro doveva iniziare un discepolo, avrebbe
dovuto necessariamente ottenerlo come Nathan che finisce per
somigliargli di più per contrasto e opposizione (Nathan, 2005). In carattere
e spirito, programma e metodologia, azioni e teorie, Devereux e
Nathan stanno agli antipodi di uno stesso pianeta disciplinare:
rigoroso, sistematico, paziente, erudito all‟ennesimo il primo (1984);
vigoroso, combattivo, immaginifico, intuitivo, un prestidigitatore della
psicoterapia il secondo (1994). Più rabdomantico del maestro, l‟allievo
sa entrare in risonanza con le sorgenti profonde della psyché multiforme
dei popoli della Terra (Nathan, 1996).
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Psichiatra. FAR/ERG (FAR/Ethnopsychiatry Research Group)
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Come si riconosce nella cifra della sua denominazione tripartita
(ethnós/psyché/iatreía; Inglese e Cardamone, 2010), l‟etnopsichiatria non
si interessa delle neuroscienze ma ne frequenta le stanze sperimentali,
non vuole competere con le evoluzioni della psicoanalisi, ma dialoga
criticamente con esse. Vale a dire, sfiora tangenzialmente alcuni nuclei
di sapere dell‟Occidente, oltremodo fondamentali, che si sono
condensati attraverso rivoluzioni scientifiche successive e permanenti. Essa
non si lancia alla scoperta della mente o dell‟apparato mentale né sul
versante neuroscientifico né su quello psichiatrico, psicologico,
psicoanalitico. Questo atteggiamento non è superbo ma rimane
refrattario ad avvicinarsi di un passo a queste due verità verticali: quella
sul sistema nervoso centrale, sempre meglio elaborata dai
neuroscienziati materialisti, bramosi di rinvenire in qualche groviglio
circuitale le tracce dell‟anima; quella sull‟apparato mentale unico e
universale, professata dalle creature militanti della rivoluzione
psicoanalitica. L‟etnopsichiatria orbita intorno a un oggetto più antico
con il quale bisogna misurarsi frontalmente, adesso, nell‟arena sociale.
Seguendo l‟ispirazione di Devereux, questa “via” metodologica evoca
un oggetto siffatto alla maniera degli antichi greci: psyché, pneuma, phrén soffio vitale, principio vitale della persona. Siamo coscienti di
impiegare una categoria retorica impalpabile e cangiante perché
nessuno sa dire, in realtà, cosa sia questo nucleo-momento originario.
Grazie a simili postulati cautelari, l‟etnopsichiatria si mette comunque
di traverso rispetto alle altre correnti scientifiche – dove si schierano
neuroscienziati e psicoanalisti che, apparentemente, duellano tra loro
ma restano, in effetti, sodali (neuropsicoanalisi; Pichot e Nathan, 1998).
La metodologia etnopsichiatrica avverte: “Attenzione! Questi oggetti
che vi interessano, non sono affatto fenomeni naturali né universali ma
costituiscono un evidente prodotto storico del mondo occidentale,
ottenuto attraverso rivoluzioni sociali e cognitive, scientifiche e
cliniche”. Quelle stesse correnti poderose sono, per eccellenza, un
prodotto storico ovvero un risultato, a sua volta, eccellente. Quando si
dice “prodotto storico” si deve intendere: incarnazione di una
soggettività sapiente che attraversa le società, ne segna il destino e le
conduce verso mete prefissate. In Occidente, il dogma
dell‟universalismo,
dell‟oggettivazione,
della
totalizzazione
gnoseologica imposto attraverso la religione, la scienza, l‟apparato
bellico ed economico non deve essere solamente contestato ma
definitivamente sorpassato. Bisogna considerare che il principio vitale
della persona (psyché) diventa un motore immobile del mondo oltre
che della società in cui la persona finisce con l‟abitare (mondanizzare, de
Martino) e nella quale finisce con l‟appropriarsi (domesticare, sempre de
Martino) dei suoi elementi costitutivi. Come si può osare infliggere
questa critica contro l‟universalismo della scienza materialistica o antimaterialistica? Come si può sferrare questo attacco (dall‟interno), mentre
si assiste a una reazione generalizzata (dall‟esterno) contro i fondamentali
dell‟Occidente? Queste intimazioni dissuasive si sono amplificate
quando l‟atmosfera euforica della prima globalizzazione si è convertita
nell‟angoscia di vedere contemporaneamente restringersi il raggio
d‟influenza del mondo occidentale ed estendersi quello di altre
costituzioni sociali, culture e civiltà.
La minoranza etnopsichiatrica proclama: se esiste un‟angoscia pervasiva
in presenza della molteplicità culturale - sostenuta dalla babelizzazione
della società occidentale grazie alla moltiplicazione infinita delle lingue
nel suo spazio geoculturale, prima reso omogeneo dalla predominanza
di un paio di lingue-matrici (greco, latino) e di poche lingue-ideologia
(francese, inglese, tedesco) reciprocamente traducibili (Inglese, 2009) come modificarsi al cospetto di popoli animati da princìpi vitali a noi
sconosciuti in modo da rimodulare le tecniche apprese dalle scienze
cliniche del Novecento? Il soggetto occidentale - impegnato a
esercitare il suo dominio sulle colonie dove ha esportato finanche gli
ospedali psichiatrici – ha proposto agli altri popoli di uniformarsi
(acculturazione) ai princìpi ideologici e pratici da lui stesso trasfigurati in
Legge trascendente. Tutti sanno com‟è finita l‟avventura o la
disavventura della colonizzazione: si è controvertita, rovesciandosi su sé
stessa fino alle deformazioni conosciute sulla punta avvelenata della
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coda novecentesca (Inglese, 2008). Ebbene, è questa reversione storica
che adesso indirizza nei nostri spazi sociali i principi di funzionamento
di collettivi umani ancora praticamente ignoti; essa riconduce a noi
fenomeniche cliniche che misconosciamo. Quando Kraepelin si reca a
Giava (1902), per studiarvi la psicopatologia indonesiana, trova in un
moderno nosocomio a direzione europea solo due forme di disturbo
mentale somiglianti a quelle cristallizzate, appena il giorno prima di
prendere il mare, nell‟ultima edizione del suo manuale. Tra le mura di
quell‟ospedale non riscontra nessuna importante variante patologica
autoctona. In sostanza, la tassonomia di Kraepelin non supera la
capacità classificatoria dell‟ordinamento nosografico di un piccolo
gruppo etnico del Vietnam centrale (i riottosi Sedang Moï studiati da
Devereux; Guerreiro, 2007), capace di accontentarsi di appena un paio
di disturbi mentali. La principale bipartizione sindromica sedang
ammette l‟esistenza di una costellazione fortemente eterogenea, a esito
positivo, e di un gruppo di fenomeni a prognosi negativa. Rispetto a
questo secondo insieme, i Moï pensano sia meglio provvedere in
anticipo e drasticamente, relegando le persone inguaribili e incurabili
nella foresta, facendole morire di inedia o dando loro la caccia perché
almeno ritornino utili all‟addestramento dei giovani guerrieri. A Giava,
Kraepelin esibisce la propria bipartizione elementare (psicosi maniacodepressiva/dementia praecox) ma chi volesse ancora oggi proiettarsi
negli altri mondi vi incontrerebbe, imparando a riconoscerlo, un piano di
variazione sindromica talmente irregolare da renderne ardue la
scomposizione e l‟annessione all‟interno delle categorie nosografiche
dei sistemi di classificazione più diffusi e autorevoli (DSM, ICD).
Immaginiamo adesso un confronto tra psichiatri e sociologi, come si
poteva fare negli anni Sessanta a Gorizia o a Trieste, nei luoghi topici e
agli albori della rivoluzione psichiatrica italiana. Disputerebbero tra
loro almeno due partiti: uno all‟attacco - i sociologi critici - che
inchioderebbe l‟accento sulla multiformità, eterogeneità, originalità
assoluta dei fenomeni sociali messi in moto dall‟immigrazione di massa
e, dall‟altra parte, quello dei clinici, figli di un‟autentica rivoluzione
culturale innescata dall‟unica generazione che ha saputo abbattere
un‟istituzione totale. Questi stessi discendenti, oggi, si pongono a
difesa dello status quo della disciplina riformata in quanto temono che i
vortici del movimento migratorio di massa possano risucchiarli in un
abisso dove un‟intera disciplina può perdersi. Questo smarrimento
significa tante cose: non ritrovare più, ad esempio, la propria ragione
sociale. Gli psichiatri, i modelli e i sistemi psichiatrici sono prodotti
della modernità e non dell‟eternità (Foucault, 2003); sono prodotti storici,
soggetti ad un proprio ciclo vitale: oggi possono esistere ma domani
chissà? Freud considerava la psicoanalisi come una disciplina di
transizione, scaturita da una rivoluzione silenziosa nel metodo e nella
pratica clinica ma, tutto sommato, destinata ad essere superata dalle
progressive contaminazioni che essa avrebbe dovuto cercare con le
altre psicoterapie e con la biologia “dura” (Freud, 1918). Ho sempre
fantasticato che Freud lavorasse in una specie di gabinetto chimico
dove allineava le particelle elementari dell‟apparato psichico, provando
e riprovando a fare interagire tra loro queste sostanze naturali. Contro
le piane evidenze offerte dalla biografia disciplinare della prima
psicoanalisi, gli psicoanalisti e le loro istituzioni internazionali vogliono
riprodursi come esseri eterni, dati una volta per sempre, occupati a
estrarre i materiali più intrattabili dalla mitopoiesi greca trasfigurata in
drammaturgia (Nietzsche, 1977): da maschera tragica e tragico destino,
Edipo diventa un processo inconscio costituente grazie a una licenza
retorica a rendimento relativo (Deleuze e Guattari, 1973; Devereux,
2007; Nathan, 1996). La psicoanalisi e gli psicoanalisti sono esseri
scientifici in transito. L‟etnopsichiatria, a sua volta, è un‟entità di
passaggio che, grazie a questa consapevolezza, non si concede
all‟amplesso endogamico con cui autogenerare etnopsichiatri.
Prima l‟ho definita una disciplina marziale in base alla sua intrinseca
necessità di essere tecnicamente rigorosa, avida del nuovo ma,
soprattutto, capace di stipulare alleanze operatorie attraverso un‟attività
diplomatica intensa. Il metodo etnopsichiatrico preconizza una
convocazione delle professioni più diverse, una traduzione delle lingue
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più estemporanee, un assemblaggio delle conoscenze più volatili, ma
anche di quelle fondamentali, da inquadrare nella cornice operativa
della clinica. Nel contesto di una lavorazione etnopsichiatrica non è
raro ritrovare esperti del diritto che interrogano mediatori etnoclinici.
Tali figure vengono inoltre associate a medici, antropologi o psicologi
che appaiono, talvolta, i personaggi meno interessanti dell‟interazione
terapeutica. Qual‟è la caratteristica centrale di queste convocazioni
molteplici ed eterogenee nel quadro dell‟etnopsichiatria clinica?
L‟intenzione è di accendere una centrifuga cognitiva in cui varie discipline
sono disposte a scambiare le proprie conoscenze, reputandole assolute
nel proprio campo (chiuso) di esercizio e, al tempo stesso,
negoziandole come relative quando entrano nello spazio pubblico
(aperto) di un‟agorà terapeutica, ovvero sul territorio di una clinica
democratica nella quale è il démos a reclamare la parola. Nella centrifuga
etnopsichiatrica non rotea un sapere unico, un pensiero unico.
Tutt‟altro, essa saluta in festa la moltiplicazione delle scuole cliniche e
degli orientamenti teorici, ne sollecita la proliferazione contro ogni
istanza egemonica. Quando si riesce a fare questo, si invita ogni
disciplina a infilarsi in tale centrifuga per curare (trasformare) sé stessa: se
un apparato disciplinare entra nell‟interazione clinica e ne esce uguale,
il processo di produzione trasformativa dell‟etnopsichiatria si è
interrotto, i suoi vettori deragliati, la sua zattera si abbandona alla
deriva, l‟intero sistema terapeutico non ha saputo autocurarsi attraverso
il proprio superamento. Quando invece vediamo che le discipline
impegnate raggiungono i loro nuclei di fondazione e incominciano a
criticarli (modificarli) o a ricercarne il rinnovamento, si profila allora la
certezza di aver fatto un buon lavoro. Ma qual è il lievito, il
catalizzatore di questa attività? Non è lo psichiatra; etnopsichiatria non
vuol dire, come lascerebbe credere il termine, lo sviluppo di una
specializzazione medica; essa non è la psichiatria etnica coltivata da
psicopatologi sensibilizzati alle altre culture. Devereux concepisce la
sua invenzione come un metodo frequentabile dalle soggettività più
diverse: psicologi e assistenti sociali, educatori e insegnanti, avvocati,
medici e filosofi. Questa è l‟idea originaria di Devereux (prima
etnologo avventuroso, poi psicoanalista contrastato, infine ellenista
rinomato), successivamente potenziata da Nathan fino a scontrarsi con
il clero delle varie confessioni professionali (psicoanalisti, antropologi e
filosofi sociali). L‟esempio precedente, quello della centrifuga
multilinguistica, multiculturale e multiprofessionale, rappresenta il
marchio di fabbrica che Tobie Nathan ha stampato sull‟etichetta
dell‟etnopsichiatria mondiale e a cui nessun altro aveva pensato prima,
ancorché vi fossero state sperimentazioni anche nei luoghi più ostili
della cura (es., l‟ospedale psichiatrico di Dakar dove si dispiegava
l‟azione illuminata di Henri Collomb).
L‟etnopsichiatria non è mai stata un esercizio confortevole né un
trastullo esotico: Devereux la esercitava nel braccio della morte dei
penitenziari americani, nell‟ultimo miglio percorso dal condannato alla
sedia elettrica. Essa ha immediatamente cercato oggetti incandescenti e
intrattabili, ha affrontato questioni di vita e di morte per mettere alla
prova i propri presupposti. Devereux pensava che proprio in luogo e in
punto di morte il principio vitale della persona si dovesse rivelare,
mettendo allo scoperto l‟intero processo storico-sociale che ne
plasmava la natura, la forma e la sostanza. C‟è differenza se il
condannato prega o non prega; fa un‟ulteriore differenza la divinità a
cui si rivolge, e ancora un‟altra si ritrova nella proiezione immaginativa
che il condannato incomincia a produrre sul mistero della vita dopo la
sua morte. Sto citando, seppur con incerta memoria, casi emblematici
di Devereux e ritorno a una sua perizia che ha permesso a un nativo
americano di evitare l‟esecuzione quasi all‟ultimo momento. Voglio
sostenere che ogni essere umano vede spingere la propria vita fino a un
momento supremo di verità (malattia del corpo e dello spirito,
condanna sociale, morte) e solo quando siamo lì con lui stiamo
veramente esercitando la nostra missione clinica. Questa è una lezione
che Devereux impartiva a sé stesso nei penitenziari, Nathan l‟ha
riproposta nelle banlieues parigine ma i medici greci la praticavano in
tutto il Mediterraneo. Nessuno iatrós ellenico si sarebbe applicato alla
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cura di un barbaro senza prima interrogarlo sulla sua lingua, costumi,
usi, abitudini, alleanze spirituali. Nessun medico antico avrebbe
somministrato un phármakon (es., un catartico) senza conoscere i principi
di funzionamento del ventre dei suoi eventuali pazienti barbari. La
metodologia etnopsichiatrica è moderna, essendovi costretta
dall‟evoluzione sociale, ma è anche antica perché una congruente azione
terapeutica deve ispirarsi alla correlazione tra persona e ambiente, tra i
suoi principi vitali e il contesto storico che ne disegna la fisionomia.
Con Devereux, le innovazioni dell‟etnopsichiatria vengono coltivate
nei penitenziari; con H.B.M. Murphy, psichiatra transculturale che
meriterebbe uno studio approfondito, alcune ispirazioni della disciplina
sono arrivate una prima volta in Italia (nelle settimane successive alla
Liberazione) per essere applicate alle popolazioni di profughi e rifugiati
della Seconda Guerra mondiale, raccolte nei campi di accoglienza tra
Veneto e Lombardia. Quando poi si misura con i disturbi mentali
gravi, essa diventa una disciplina marziale perché fronteggia quale suo
antagonista l‟enigma freniatrico assoluto: la psicosi. Con una certa
temerarietà, in etnopsichiatria si sostiene l‟istanza di affrontare gli
oggetti clinici più spinosi che vengono esposti al suo trattamento
quando gli altri procedimenti tecnici hanno fallito. Nel momento in cui
afferra i prodotti problematici di procedimenti clinici ineffettuali, la
macchina etnopsichiatrica li lavora in base al postulato che il paziente
non è mai un dato naturale ma un oggetto che porta in sé precise
marche di fabbricazione in quanto oggetto sociale e, principalmente,
tecnico, ovvero esposto e modificato da una specifica procedura
operatoria. Ogni paziente esibisce le stigmate della biomedicina, se è
stato esposto a quest‟ultima, così come quelle delle medicine
psicologiche, se ha invece conosciuto queste altre. Un processo
etnopsichiatrico degno di questo nome (democratico, aperto,
multiprofessionale, multilinguistico, multiculturale) deve possedere
anche questo vigore decostruttivo: rinvenire nel principio vitale della
persona gli elementi che ne hanno determinato la forma e segnato il
destino. Questa operazione richiede, evidentemente, un grandissimo
impegno in termini di diplomazia clinica: i terapeuti devono proporre
le mediazioni necessarie affinché questi processi decostruttivi e
ricostruttivi, preconizzati dal metodo, possano essere messi in
movimento. Aggiungerei, tanto più in movimento proprio negli ambiti
istituzionali nei quali essi sono autenticamente necessari.
Su questo, credo, vi è un ampio consenso: la clinica reale dei pazienti
reali e dei gruppi sociali reali è quella che viene praticata negli spazi di
salute pubblica. Non la si trova in nessun emiciclo accademico né in
qualche laboratorio sperimentale segreto; la si incrocia nel quotidiano
dell‟esercizio assistenziale in cui siamo tutti impegnati e dove
l‟etnopsichiatria vorrebbe introdurre nuovi fattori di trasformazione, in
primo luogo di sé stessa. Quanto sto dicendo potrebbe essere falsificato
e superato tra pochi mesi o tra un anno, magari tra una sola settimana, e
questo dovrebbe essere sempre il più grande auspicio per il cultore
dell‟etnopsichiatria.
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IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011
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Appunti di viaggio
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IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011
Tobie Nathan1, Catherine Grandsard2
Disturbi da stress post-traumatico e disturbi da
spavento: ripensare il trauma da una prospettiva
etnopsichiatrica3
Introduzione: trauma e terapia
L‟idea di trauma, con la sua versione odierna di Disturbo da Stress Posttraumatico (PTSD), si dimostra un concetto debole e di difficile uso per
il terapeuta impegnato a curare i pazienti, anche se esso è basato su
ampi studi comparativi in cui sono standardizzate, ad esempio,
esperienze che vanno dalla reazione allergica di un contadino
peruviano alla depressione dolorosa di un soldato americano reduce dal
fronte. Finanche nella sua interpretazione corrente, il trauma
rappresenta un‟eccezione nella psicopatologia dei giorni nostri:
costituisce uno dei pochi disturbi che non è stato emendato da
scoperte scientifiche né in termini di comprensione dei suoi
meccanismi né rispetto allo sviluppo di trattamenti efficaci; le cose
stanno invece diversamente per la maggior parte delle altre entità
diagnostiche. Ad esempio, le originarie descrizioni e classificazioni
psicoanalitiche delle nevrosi sono state completamente riviste nel corso
del tempo e suddivise in varie categorie e sotto-categorie (Disturbi
d‟Ansia, Dissociativi, dell‟Umore, ecc.), la maggioranza delle quali può
Professore di Psicologia Clinica e Psicopatologia, fondatore del Centro Georges
Devereux – Università di Parigi 8; attualmente Consigliere Culturale presso l‟ambasciata
francese di Guinée-Conakry
2 Psicologa clinica e psicoterapeuta familiare, docente di Psicologia Clinica e
Psicopatologia, co-direttrice del Centro Georges Devereux – Università di Parigi 8
3 Relazione presentata alla Third International Trauma Research Net Conference,
Trauma-Stigma and Distinction: Social Ambivalences in the Face of Extreme Suffering, St Moritz,
14-17 Settembre 2006. Traduzione a cura di Filippo Casadei e Salvatore Inglese
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IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011
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essere trattata con successo, o almeno alleviata, grazie alle cure
farmacologiche. Difatti, come conseguenza delle scoperte di nuovi e
molteplici approcci alla psicopatologia (farmacologico, cognitivocomportamentista, genetico, ecc.), gran parte dei disturbi mentali del
XIX secolo è stata ripartita in nuove e più pertinenti categorie. Questo
non è però il caso del trauma, rimasto largamente invariato come entità
clinica nel periodo a cavallo tra fine Ottocento e primo Novecento,
nonostante venga ora classificato come disturbo d‟ansia. Per questo
disturbo, tuttavia, i farmaci psicotropi si rivelano di scarso aiuto
(Neumeister, 2006a, 2006b; Gelpin et al., 1996) e gli approcci
psicoterapeutici sono spesso poco raffinati, il più delle volte ispirati da
concezioni del passato, come quella di catarsi – seppure offerta nella
forma moderna del debriefing – che richiede al paziente di narrare
l‟evento traumatico per riviverlo, ovvero di processarlo una seconda
volta dal punto di vista emotivo e cognitivo. Dobbiamo confessare il
nostro scetticismo riguardo a questo metodo, sostenuto negli ultimi
anni da numerose pubblicazioni (Van Emmerik et al., 2002; Taylor et
al., 2003). Secondo la nostra esperienza con vittime di trauma,
l‟attivazione della memoria è inutile nella maggioranza dei casi e
talvolta persino dannosa, dato che riattiva il dolore e la paura
producendo, in effetti, un nuovo trauma. Nel 1966 Georges Devereux
osservò che quando c‟è di mezzo il trauma non esiste alcuna possibilità
di mitridatizzarsi o di farci l‟abitudine (Devereux, 1972). Al contrario, il
trauma include un effetto cumulativo e amplificante, in grado di
spiegare il fatto che i sintomi possono a volte riaccendersi, molto
tempo dopo il trauma iniziale, a causa di un evento di minore
importanza. Questo punto verrà ulteriormente discusso più avanti.
Tornando al trauma come categoria psicopatologica, è interessante
notare che esso costituisce l‟unico disturbo mentale per cui una causa
esterna è chiaramente identificata nella forma di un tipo specifico di
evento, sperimentato in modo diretto dal paziente o a cui quest‟ultimo
ha semplicemente assistito4. In quanto tale, esso dichiara una sfida
metodologica alla ricerca e alla teoria psicopatologica: sviluppare un
modello capace di concettualizzare l‟evento traumatico, offrendo una
specifica modalità di trattamento dell‟evento stesso. Purtroppo, la
maggior parte dei modelli e degli interventi presta attenzione solo alle
caratteristiche individuali della vittima del trauma, alla sua psicologia e
costituzione biologica o ai suoi processi cognitivi (vedi l‟impiego di
tecniche di debriefing, EMDR, BCT), escludendo perciò l‟evento causale
esterno e il suo trattamento. Sorvolando sulle dispute in corso che
riguardano la pertinenza e l‟efficacia – o la loro mancanza – degli
approcci al trauma attualmente più in voga, la questione centrale
dell‟evento, o degli eventi, alla radice di ogni disturbo traumatico
rimane, a nostro parere, l‟elemento-chiave per comprendere il trauma e
trattarne le conseguenze (Boris et al. 2005; Crocq, 2004; Davidson,
2001; Ehlersa, Clarka, 2003; Lewis, 2003; Robertson et al., 2004;
Vermeiren, De Clercq, 1999; Watson et al., 2002). Il seguente esempio
clinico illustrerà il nostro punto di vista.
Osservazione clinica
Nel 2000, vari membri della nostra équipe di etnopsichiatria partirono
per il Kosovo dove tennero un seminario di formazione sul
trattamento dei traumi psichici causati dalla guerra (Nathan, 2001b). In
questa occasione ci venne presentato il caso di una donna di circa venti
anni, kosovara di lingua albanese, che soffriva di sintomi allarmanti. Da
dieci mesi era praticamente incapace di dormire, aveva un‟espressione
fissa di sofferenza sul volto e implorava una medicina che potesse
Vedi nel DSM-IV-TR il criterio diagnostico A, valido sia per il Disturbo Posttraumatico da Stress sia per il Disturbo Acuto da Stress: “La persona è stata esposta ad
un evento traumatico nel quale erano presenti entrambe le caratteristiche seguenti:
(1) la persona ha vissuto, ha assistito o si è confrontata con un evento o con eventi
che hanno implicato morte, o minaccia di morte, o gravi lesioni, o una minaccia
all‟integrità fisica propria o di altri
(2) “la risposta della persona comprendeva paura intensa, sentimenti di impotenza, o
di orrore” (DSM-IV-TR , 2001).
4
IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011
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finalmente farle recuperare il sonno. Aveva ripetutamente raccontato la
stessa storia: tre paramilitari serbi erano arrivati al suo villaggio. Le era
stato descritto molte volte come i Serbi uccidevano gli uomini e
violentavano le donne, e quando scorse i tre uomini, scappò via in
preda al terrore. I tre la rincorsero raggiungendola dentro un granaio.
Lei stava adesso di fronte a questi uomini in tenuta da combattimento
e con le facce impressionanti imbrattate di nero. Uno di loro le fece
segno con la mano e disse “Tu, vieni qui…” A quel punto svenne.
Non sapeva quanto a lungo fosse rimasta priva di conoscenza. Cos‟era
accaduto durante quel lasso di tempo? Era stata violentata? Non
sapeva dirlo…perché si vergognava o aveva davvero dimenticato?
Preferiva pensare che l‟avessero lasciata là e se ne fossero andati. Ma da
quel giorno, appena si addormentava, vedeva quegli stessi tre uomini
spaventosi avvicinarsi a lei e si svegliava di soprassalto, madida di
sudore. Quei primi terrificanti minuti di sonno erano seguiti da una
lunga notte passata in bianco. I clinici da cui era stata curata erano
convinti che durante quei momenti rivivesse la scena in cui era svenuta.
Eppure, quando cominciammo ad esplorare nei dettagli cosa provasse
di preciso durante quello che lei riferiva come il suo incubo – con una
violenta costrizione alla gola, accompagnata da sensazioni di
soffocamento e di bruciore sul collo – piano piano descrisse ciò che in
effetti percepiva. Non si trattava delle bande paramilitari, ma di una
strana specie di uccello che veniva giù dal cielo e le ghermiva il collo
facendola svegliare di colpo…
L‟abitudine a considerare i sogni come contenenti preziosi messaggi sul
passato di una persona aveva trattenuto i terapeuti della paziente dal
richiedere informazioni circa le sue percezioni reali. In realtà, il sogno
della giovane donna conteneva l‟informazione seguente: l‟estremo
spavento causato dalla vista dei tre paramilitari serbi aveva fratturato il
suo essere, aprendo una breccia in cui si era precipitato un essere
mitico, uno strano uccello – striga - che da allora tornava ogni notte.
Bastò riconoscere l‟esistenza di questo essere, esplorando in profondità
insieme alla paziente la natura di quest‟ultimo e allo stesso tempo i
mezzi tecnici con cui liberarsene, perché la donna ritrovasse il sonno
quella notte stessa. La ragione per cui non era riuscita a riposare da così
tanto tempo era che i suoi terapeuti avevano sempre sospeso la loro
indagine al momento in cui i Serbi apparivano nel sogno. Comprendere
e trattare l‟evento traumatogeno alla base dei sintomi da trauma non è
un compito così semplice come potrebbe sembrare. Alla fine del lungo
colloquio con questa giovane, era chiaro che l‟eziologia del suo
malessere, l‟origine della breccia psichica, era lo spavento. In quale modo
e perché lo spavento causa il disturbo? Come dimostrato da questo
caso particolare, oltre che da molti altri modelli eziologici
culturalmente determinati e registrati in tutto il mondo, lo spavento
causa disturbi evidenti perché pone il soggetto umano al cospetto di
esseri provenienti da altri mondi.
La natura degli eventi traumatici
In termini eziologici, gli operatori osservano spesso due emozioni
fondamentali correlate al trauma: lo spavento e l‟esperienza di morte.
Infatti, entrambe le caratteristiche sono incluse nella definizione di
evento traumatico data dal DSM IV. Una persona traumatizzata è
innanzitutto qualcuno che è stato spaventato. Apparentemente, la
ragione per cui è stata creata una nuova parola nel campo della
psicopatologia è che l‟uso quotidiano dei termini paura o spavento aveva
fatto gradualmente perdere le loro connotazioni fisiche. Il tumulto
emozionale prodotto nell‟istante in cui si subisce un grande spavento è
associato a paura improvvisa e inaspettata, a una reazione fisica di
trasalimento, a una brusca modifica dell‟equilibrio, seguita da
tachicardia e sensazione fisica di oppressione allo stomaco o al petto.
Quando una persona spaventata riesce a descrivere l‟esperienza,
ammette al tempo stesso una sensazione di perdita, come se il suo
respiro fosse stato risucchiato all‟improvviso, e di invasione, come se
un‟entità estranea fosse penetrata di sorpresa nel suo sistema. Come
abbiamo già visto nell‟esempio kosovaro, tale potente paura è
provocata anche quando una persona si trova ad affrontare l‟esperienza
IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011
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della propria morte; non semplicemente la paura di morire, bensì il
vivere per davvero la propria morte: l‟istante in cui uno sa che sta
morendo o si vede già morto.
36
Osservazione clinica
E‟ in piedi sopra un‟impalcatura, da qualche parte nella periferia
parigina; come ha fatto molte altre volte, sta stringendo i bulloni di una
lastra di metallo tenuta ferma da quattro viti. Agisce facilmente sui
primi due ma quando va per stringere il terzo, la chiave scivola intorno
al bullone. Sente di precipitare all‟indietro e piomba a terra sulla
schiena dopo una caduta da un‟altezza di otto-dieci metri. La sua testa
e la parte inferiore del dorso impattano il suolo per prime. Sente cedere
la cinghia dell‟elmetto e perde conoscenza. Si risveglia su una barella
circondato da uomini vestiti di bianco. Capisce di essere in Paradiso,
nel paradiso musulmano dove i morti indossano lunghe vesti bianche.
Viene esaminato e radiografato: a parte escoriazioni multiple, non
presenta sintomi allarmanti né ossa rotte né organi lesi. Una settimana
più tardi, viene dimesso dall‟ospedale. Da allora soffre senza tregua di
cefalee lancinanti, vertigini, nausea, fischi nelle orecchie, dolore alla
parte bassa della schiena, disturbi visivi e insonnia. Tre anni più tardi, la
patologia traumatica sviluppata a seguito dell‟incontro con la propria
morte è ancora attiva5.
Molti clinici hanno incontrato casi simili. Cosa si può fare di fronte alla
ripetizione infinita dello stesso racconto, della stessa scena traumatica?
Il solo modo in cui il terapeuta può riuscire a sopportare un senso di
impotenza per settimane, mesi e a volte anni di fila – un riflesso
dell‟esperienza che il paziente fa della propria morte – è porre la
domanda “perché”? Perché lui? E perché proprio quel giorno? A causa
di chi? Così facendo, è ancora una volta obbligato a diventare
testimone dell‟apparizione di esseri. Ad esempio, un tale aveva fatto
l‟amore con la moglie e prima di andare a lavorare aveva riposto
Questo caso e il suo trattamento sono stati descritti in Nathan T., La folie des autres.
Traité d‟ethnopsychiatrie, Dunod, Paris, 2001a.
5
l‟asciugamani macchiato di sperma sotto il materasso del letto
matrimoniale. Quella sera, la moglie gli aveva chiesto se avesse visto
l‟asciugamani. Lui le aveva detto che stava nel solito posto, ma lei non
lo aveva trovato. Passato qualche giorno si era dimenticato
dell‟accaduto. Una settimana dopo c‟era stato l‟incidente. Salta fuori
che la cognata, moglie del fratello di sua moglie, residente nello stesso
stabile, era venuta proprio quel giorno a farsi prestare dello zucchero.
Mentre sua moglie era impegnata con il bambino, si era introdotta
furtivamente nella loro camera da letto rubando l‟asciugamani deposto
sotto il materasso. Il giorno stesso, più tardi, lo aveva portato da uno
stregone che l‟aveva seppellito in un cimitero… Lo scopo era quello di
nuocere alla coppia, di certo per dispetto o per gelosia. Questo era
infatti quanto accaduto all‟operaio immigrato algerino caduto
dall‟impalcatura. In un caso del genere, c‟è solo un sistema per
recuperare l‟asciugamani: l‟uomo deve rivolgersi a un guaritore, a
qualcuno che possiede e governa gli spiriti, affinché costui mandi in
missione notturna uno dei suoi Djinns6 aiutanti per ritrovare l‟oggetto
perduto, così salvando l‟uomo da una morte certa. Il trauma è allora
una delle poche concezioni moderne per cui si rivela decisiva la
conoscenza veicolata dalle culture tradizionali. Una breve rassegna
dell‟etimologia della parola spavento in varie lingue mostrerà quanto
profondamente questi concetti sono incassati nel vocabolario della
cultura (Nathan, 2002).
Spavento
In francese, la parola frayeur (dal latino fragor: rumore intenso), si
riferisce a una forte emozione, a una grande paura; è associata all‟idea
di sorpresa (la frayeur è sempre inaspettata) e di reazione fisica
(palpitazione, tachicardia, blocco del respiro). Sperimentare una frayeur
vuol dire provare una paura intensa e sussultare a causa dello spavento.
Nella tradizione musulmana, i Djinns sono spiriti invisibili che vivono a fianco degli
esseri umani; vedi Nathan, 2001b, 2005a .
6
IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011
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38
La parola effroi si riferisce a un‟esperienza di spavento ancora più forte
che afferra e talvolta addirittura pietrifica una persona.
Fino al XIX secolo, in Francia era ancora diffusa l‟idea che il semplice
incontro con una persona sofferente di convulsioni o di tic fosse
sufficiente, a causa dello spavento, per trasmettere a chi guardava lo
stesso essere, spirito o demone che affliggeva questi soggetti. “Non
guardare mai un epilettico mentre ha una crisi perché potresti prenderti
il demonio”, era un detto comune. Ma se un uomo può venire preso
dalla creatura di un altro mondo, è perché il suo essere, il suo “Sé” – o
forse si dovrebbe dire la sua “anima” – è fuggito via a causa dello
shock provocato dalla paura. In wolof, sama feet na – di solito tradotto
come “sono spaventato” – significa, letteralmente, “la sua „anima‟ (feet
= „anima‟, principio vitale) è fuggita o ha preso congedo dal suo
corpo”. In bambara, diatiggé (dia: „ombra‟ e, per associazione, „anima‟,
„psiche‟; tiggé: „tagliare‟), si riferisce in modo specifico al terrore
notturno causato dall‟incontro con un essere sovrannaturale (uno
spirito: djinna; uno stregone: subkha; l‟anima di una persona morta).
Come in wolof, la parola che esprime il concetto di spavento significa
“l‟anima è tagliata o separata dal corpo della persona”. Per estensione,
diatiggé si riferisce anche ai disturbi psichici causati dallo spavento, in
particolare ad agitazione o a brevi episodi psicotici. In arabo, possono
essere usate due parole per riferirsi allo spavento. Una di esse è sar‟ che,
sebbene molto diffusa, ha piuttosto un‟enfasi letteraria. Deriva dalla
radice che significa “spandersi”, perdere la propria forma originaria o,
addirittura, qualsiasi forma. L‟altra parola, khal‟a, più comunemente
usata nei dialetti arabi del Maghreb, deriva direttamente dal verbo che
significa “sradicare”, estrarre con violenza. La prima parola, sar‟, era
molto usata nella medicina araba medievale e, attraverso una serie di
metonimie, giunse a significare disturbi associati ad agitazione fisica
disordinata, solitamente identificati dagli autori moderni come epilessia
o isteria ma che sono piuttosto simili a quanto gli antropologi e gli
etnopsichiatri descrivono come disturbi di possessione (Nathan,
2005b). Ancora una volta, dunque, siamo in presenza di una parola che
si riferisce contemporaneamente allo spavento e all‟eziologia di un
disturbo causato dall‟invasione del mondo interno di un essere umano
da parte di un altro essere non umano. Il termine khal‟a, traducibile con
“anima sradicata”, è molto simile alle altre eziologie tradizionali e,
come in bambara o in wolof, viene utilizzato per descrivere patologie
caotiche: dall‟autismo infantile alle sindromi di agitazione psicomotoria,
includendo tutta la sfera delle reazioni difensive all‟ambiente esterno,
quali mutismo, ecolalia, ecoprassia e coprolalia. Anche la parola susto
(“sussulto”), in spagnolo e portoghese, significa spavento e si riferisce
– nella Penisola iberica come in America Latina – a un disturbo di tipo
depressivo la cui eziologia è ancora una volta costituita dall‟incontro
con un essere proveniente da un altro mondo che scaccia dal corpo
l‟anima della vittima per prenderne il posto. Tra i Quechua del Perù, i
sintomi del susto includono l‟indebolimento graduale del vigore fisico,
ritiro sociale, anoressia e insonnia. Secondo i Quechua, questo
disturbo, frequente anche nelle grandi città, è causato dalla cattura
dell‟anima della vittima da parte della Terra o di una delle divinità che
la rappresentano7. I Cinesi Hakka di Tahiti interpretano una serie di
sintomi come il risultato di un‟esperienza spaventosa (hak tao) che ha
separato la persona (spesso un bambino) dal suo doppio (t‟ung ngiang
tsai), il quale non può più riguadagnare, di conseguenza, la sua
posizione originaria. Il guaritore deve fare tutto quanto è in suo potere
per recuperarlo, avvalendosi della persuasione nonché di promesse,
trucchi, intimidazioni o minacce (Sin Chan, 2003). In kirundi, la lingua
parlata nel Burundi, la stessa radice linguistica, kanga, si trova in una
serie di parole connesse al concetto di spavento. Sylvestre Barancira
(2004) spiega quanto segue: “Gukanga, significa spaventato; Kwikanga
significa sussultare; Ggukangagurika, svegliarsi di continuo scosso da
brividi, avere un sonno agitato, stare vigili e trasalire spesso. Igikangge si
riferisce a un essere invisibile che si trova in territori selvaggi, paludi,
burroni, selve o sotto terra. La sua presenza può essere riconosciuta nel
Questo disturbo è così comune che è stato inserito nel DSM-IV; vedi anche PuryToumi (de), 1990.
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fumo che sale dalla boscaglia di primo mattino e di sera, nelle scintille
che si accendono nottetempo, nei rumori improvvisi rassomiglianti,
talvolta, a quelli di una mandria o a quelli della vegetazione quando
stormisce anche in assenza di vento. Come in molti paesi africani, pure
i vortici di polvere che si alzano dal suolo al tramonto indicano la
presenza di uno spirito spaventoso. La gente mormora che questi
vortici sono il segno di uno spirito sotterraneo, il sacro pitone che
striscia per andare ad abbeverarsi…Finanche una subitanea sensazione
di freddo, caldo o torpore può essere un segno. Gli spiriti della natura
selvaggia hanno una vita propria; come i Djinns o i Jnun delle culture
arabe si sposano, fanno figli, allevano il bestiame, praticano la stessa
religione degli umani: il rito di possessione Kubandwa, culto tradizionale
del Burundi…A volte succede che uno spirito Ibikangge o Ibihume
chiami qualcuno per nome proprio mentre quella persona sta passando
nelle sue vicinanze, al tramonto o nelle primissime ore del mattino.
Coloro che rispondono al richiamo rischiano di ammalarsi, di
impazzire o persino di morire…Sono spesso attribuiti all‟azione di
questi spiriti le allergie della pelle, la tumefazione improvvisa delle
articolazioni, la paralisi di un braccio o di una gamba, il mutismo, le
convulsioni, l‟agitazione o i deliri…L‟eziologia di queste patologie è
l‟incontro casuale con gli spiriti: la vittima è stata spaventata –
yarakanzwe – dal trovarsi di fronte a spiriti della foresta come Igikangge,
Ibinyamwonga o Iggihume. Iggihume è un fantasma spaventoso, un mostro,
uno spirito feroce e maligno, o lo spettro di una persona che ha
conosciuto una morte violenta e che, rimasta senza sepoltura, ritorna a
perseguitare i vivi…In Burundi, come in molte culture del mondo, la
lingua stessa contiene la teoria dello spavento con cui ci stiamo
familiarizzando: lo spavento manda in frantumi il Sé della persona così
permettendo che vi subentri un essere non umano invisibile. La
patologia che ne deriva – designata dalla nostra psichiatria come
trauma, nevrosi traumatica o PTSD – è soltanto la manifestazione
indiretta dell‟essere invisibile all‟interno della persona. La terapia
dovrebbe quindi consistere nell‟espulsione di questo essere o, come
minimo, nel tentativo di domarlo.
Resoconto clinico
Ci occuperemo ora di un caso in cui lo spavento ha provocato davvero
l‟entrata di un essere invisibile all‟interno di una persona - fenomeno
socialmente accettato e addirittura valorizzato, almeno nel contesto
culturale in questione. Un breve promemoria storico servirà a
comprendere la vicenda.
Fin dai tardi anni Cinquanta, Rwanda e Burundi – che acquistarono
entrambi l‟indipendenza nel 1962 – sono stati martoriati da
un‟instabilità politica contrassegnata dall‟assassinio di presidenti, putsch
militari e massacri8. Negli anni Novanta, tali massacri si trasformarono
in genocidio. Tra questi, gli eventi del 1994 in Rwanda restano di gran
lunga i più orrendi e incomprensibili. Furono innescati all‟alba del 6
aprile 1994 dall‟abbattimento con missili terra-aria dell‟aereo che
trasportava il Presidente del paese, mentre stava atterrando
all‟aeroporto della capitale Kigali. La Guardia Presidenziale e
l‟Interahamwe, una milizia hutu agli ordini del governo, presero
immediatamente il controllo e incominciarono a portare avanti un
piano per eliminare fisicamente ogni Tutsi esistente in Rwanda. In
poche settimane, venne letteralmente provocato un bagno di sangue: le
acque dei fiumi divennero rosse del sangue di innumerevoli corpi;
come rifiuti, decine di migliaia di cadaveri erano sparpagliati per le
strade. In capo a quattro mesi, un ottavo della popolazione rwandese
era stata brutalmente uccisa nel corso di tumulti di massa in cui si
brandivano machete, lance, falci e poche armi da fuoco (African
Rights, 1995; Hatzfeld, 2000, 2003). Sei mesi prima, fatti simili –
seppure in scala ridotta – ebbero luogo in Burundi, un paese composto
in larga parte dalla stessa popolazione del Rwanda. Nell‟ottobre del
1993, a seguito dell‟assassinio del primo presidente hutu, almeno
Massacri in larga scala avvennero nel 1959, 1962, 1965, 1972, 1988, 1992, 1993, 1994;
vedi Guichaoua, 1997.
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trecentomila persone erano state massacrate per rappresaglia, usando
strumenti altrettanto poco tecnologici. Alla fine del massacro rwandese
del 1994, le Nazioni Unite dichiararono che il Rwanda era stato teatro
di un genocidio perpetrato dagli Hutu contro i Tutsi - un genocidio che
costò tra ottocentomila e un milione di vite umane. Il riconoscimento
istituzionale del genocidio portò alla creazione da parte del Consiglio di
Sicurezza di un tribunale internazionale per i crimini in Rwanda (ICTR)
con base ad Arusha, in Tanzania. I massacri del Burundi, invece,
devono ancora ottenere un riconoscimento giuridico internazionale.
Nel frattempo, nessuno è stato giudicato o anche solo accusato dal
debolissimo sistema giudiziario del Burundi. Intanto, per diminuire il
livello di conflitto quotidiano, i vari governi hanno ripetutamente
concesso delle amnistie.
Il racconto seguente venne reso nel novembre del 2003, durante un
corso di formazione sul trattamento psicologico delle vittime di trauma
di massa, organizzato all‟Università di Bujumbura, in Burundi
(Hounkpatin, 2005). Chi parla è un giovane, il cui vero nome è stato da
noi modificato in Jean-Chrysostome.
“Il 21 ottobre 1993, fu assassinato il Presidente Ndadayé, di origine
hutu. Per gli Hutu, egli venne ucciso dai Tutsi. Gruppi hutu iniziarono allora a
uccidere i Tutsi, irrompendo nelle loro abitazioni. Mi trovavo a casa con i miei
fratelli e non sapevamo che cosa stesse effettivamente accadendo. Fuori si era formato
un piccolo gruppo di Tutsi che fuggirono appena si resero conto di essere troppo pochi
per fermare gli assalitori. Ero insieme ai miei due fratelli ma decidemmo di
scappare in direzioni diverse. Uscii in strada e incontrai una donna che stava
andando a prendere acqua dal pozzo. Le chiesi dove si trovassero gli assassini e
quando mi rispose, pensai che stesse mentendo perciò scelsi di correre in un‟altra
direzione. Passai tutto il giorno nascosto nella foresta. Intorno alle sette di sera, ebbi
la sensazione che non stessero più uccidendo nessuno, per via della calma. Decisi di
abbandonare la foresta e di camminare verso Muranza. Nell‟istante stesso in cui
misi piede sulla strada, mi imbattei in un gruppo di trenta o quaranta uomini che
portavano torce elettriche, machete, mazze, insomma tutte quelle cose che stavano
usando per ammazzare la gente. Mi ordinarono di fermarmi ma cercai rifugio in
una casa, dentro la quale mi chiusi a chiave. Mi seguirono e sfondarono porte e
finestre. Mi nascosi dentro per evitare le pietre che lanciavano. Riuscirono infine a
entrare nella casa e mi ordinarono di seguirli. Dovetti obbedire. Perquisirono ogni
centimetro dell‟abitazione; cercavano altre persone ma ero da solo. Mi ordinarono di
uscire e appena lo feci cominciarono a colpirmi con i machete. Mi accusarono di non
aver dato retta ai loro ordini. Non mi legarono come facevano di solito, così riuscii a
proteggermi la testa e, grazie a questo, a salvarmi. In questo modo evitai alcuni
fendenti di machete. Stavano tutti cercando di colpirmi con i loro machete. Ad un
certo punto udii qualcuno dire “state attenti, non lasciatelo scappare” e capii che
dovevo provarci. Alla mia sinistra c‟era un mucchio di gente, ma dall‟altro lato non
erano in tanti e potei così sgusciare tra le loro gambe. Due uomini mi rincorsero.
Caddi una volta, poi una seconda e alla terza mi raggiunsero. Ma anche uno dei
miei aggressori cadde, lo afferrai alla gola e strinsi più forte che potei. Agguantai
pure la roncola che voleva usare per uccidermi, ma la impugnai per la lama e mi
ferii. Pensavo che, se l‟avessi lasciata, quello l‟avrebbe recuperata. L‟altro tipo stava
gridando e chiamava i suoi amici. Ne arrivò un terzo, aveva una mazza e mi colpì
sulla schiena. Lasciai andare la roncola e caddi steso sul dorso. Uno di loro aveva
una torcia elettrica; si rese conto che non ero morto. Il cuore mi batteva velocissimo.
Non sono sicuro di cosa accadde subito dopo, ma rimasi disteso senza muovermi e
quelli pensarono che fossi morto. Si consultarono per decidere su come sbarazzarsi
del mio corpo. Cercarono una latrina in cui potermi buttare. Dicevano che non
doveva restare nessuna traccia di sangue. Mi sollevarono e mi portarono verso la
latrina. Dal momento che ero ancora un po‟ cosciente, cercai di bloccare l‟entrata col
ginocchio. Una mazza mi colpì sulla gamba ed io caddi in fondo alla latrina
profonda circa dieci o dodici metri. Quando sbattei contro il fondo, mi resi conto che
la latrina non era stata ancora usata. Mi accorsi di stare sanguinando, ma non
sapevo da dove. Avevo perso le mie scarpe ma non i calzini, così li utilizzai per
fasciarmi le ferite. Poi persi conoscenza. Passarono una notte e un giorno intero.
Verso sera, cominciai a sognare. Nel mio sogno, vidi i miei amici, quelli con cui
stavo prima che iniziasse tutta la faccenda. Vidi qualcuno che cercava di costruire
sopra di me una casa, una specie di torre, come una latrina. Lo chiamai ad alta
voce, chiedendo soccorso, e gli dissi che ero affamato e avevo freddo, ma la persona
non accennò a muoversi. Urlai che quando mai fossi riuscito ad uscire da quel
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posto, se ne sarebbe pentito. Poi udii una voce che diceva “prendi una scala ed esci
di qui”. Ma non ce n‟era nessuna, era ancora un sogno. Poi vidi la luce del sole che
tramontava. Quando mi allungai per prendere la scala e vidi la luce, ripresi
conoscenza. Capii che non c‟era nessuna scala e che ero da solo. Poco a poco, mi resi
conto di dove mi trovavo. All‟inizio pensavo di essere in una cisterna. Quando capii
che non c‟era uscita, pensai che forse potevo usare le fenditure nei muri della latrina
per arrampicarmi, ed è quello che feci. Da cristiano, pregai Dio perché mi desse il
Suo aiuto ad arrampicarmi fuori da quel buco. Avevo un dito che era stato
praticamente strappato via, ma parte di esso restava ancora attaccato alla mano.
Provai a staccarlo completamente con i miei denti ma non ci riuscii. Allora lo
ripiegai nel cavo della mano. Le mie ferite erano molto dolorose e usai i gomiti per
risalire. Mi sentivo girare la testa, così mi fermai per un po‟, puntellandomi con la
schiena per riposare. Poi ripresi ad arrampicarmi. Quando stavo ormai per arrivare
in cima, urtai contro alcune rocce e mi ferii alla spalla, ma riuscii a non cadere di
nuovo giù. Una volta fuori, rimasi immobile per circa cinque minuti, guardandomi
in giro, non capendo dov‟ero né cosa mi fosse successo. Poi pensai che dovevo
nascondermi da qualche parte. Il primo edificio che vidi era una scuola diretta da
suore. Scorsi un piccolo gruppo di vigilanti alla ricerca di fuggitivi. Entrai nella
scuola. Mi sono dimenticato di dirvi che i vestiti mi erano stati strappati via per cui
ero in mutande, insanguinato e coperto di fango. Una suora richiuse il cancello
dietro di me e mi disse di affrettarmi ad entrare, ma non potevo andare più veloce,
così mi aspettò. La prima cosa che dissi fu “ho fame”. Ma quando mi venne
portato del cibo, non riuscii a mangiare nulla. Così bevetti prima un po‟ di latte e
gradualmente recuperai un po‟ di forze”.
Eravamo in gruppo nella stanza appositamente allestita per le
consultazioni all‟Università di Budjumbura. Tra i giovani psicologi ve
ne erano alcuni passati attraverso gli stessi eventi ma nessuno era stato
così vicino alla morte. Ognuno di noi ascoltò attentamente la storia di
Jean-Chrysostome. Quando qualcuno gli chiese dove avesse trovato la
forza di resistere, rispose che Dio era entrato dentro di lui nell‟attimo
del suo spavento più intenso. Dio si era manifestato nel sogno della
scala e gli aveva trasmesso il vigore per risalire dalla latrina. Da quel
giorno, Jean-Chrysostome, psicologo clinico e pastore di una chiesa
evangelica, si dedica alla preghiera e alla cura, guidato dallo stesso
essere apparsogli in quelle ventiquattro ore passate in fondo a una
latrina…
Il processo cumulativo del trauma
Nei tre esempi clinici forniti fin qui, attraverso il processo dello
spavento appena descritto, l‟evento traumatico ha fatto in modo che la
vittima venisse a contatto con un mondo nascosto. In tutti e tre i casi,
questo secondo mondo invisibile era culturalmente a disposizione della
persona, anche se questa vi aveva fatto poca attenzione nella sua vita
quotidiana. Nel primo esempio, fino all‟evento traumatico, il mondo
delle Striga non aveva avuto una relazione diretta con la giovane donna
che, probabilmente, aveva sentito parlare di questi esseri terrificanti in
storie e leggende, però mai si sarebbe immaginata di avere
personalmente qualcosa a che fare con loro. L‟incontro con i Serbi
minacciosi, invece, di colpo l‟aveva posta a stretto contatto con questo
mondo nascosto, obbligandola in seguito – e allo stesso modo
obbligando i suoi terapeuti – a riconoscerne l‟esistenza e a contrastarlo.
In maniera analoga, fino a quando il lavoratore algerino immigrato
aveva vissuto più o meno senza problemi la sua routine quotidiana in
Francia, dove era riuscito a costruire una vita per sé e la propria
famiglia, aveva avuto ben pochi motivi per pensare o preoccuparsi
della stregoneria o dei Djinns. Ancora una volta, in questo caso, lo
spavento causato dall‟incidente, l‟esperienza di risvegliarsi nel mondo
dei morti, aveva cambiato le cose. La sua sintomatologia posttraumatica venne alleviata solo dopo che l‟altro mondo, caratteristico
della sua cultura d‟origine, fu riconosciuto, ricevendo un trattamento
appropriato e competente nel quadro di riferimento di quell‟altro
mondo nascosto. In entrambi gli esempi, come in molti casi simili,
l‟evento traumatico ha messo le vittime in contatto con il mondo
nascosto esistente all‟interno dei rispettivi contesti culturali. In termini
terapeutici, il primo passo verso la cura di questi pazienti è dare credito
agli esseri non umani invisibili, riconosciuti e descritti come tali dalla
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tradizione culturale del paziente. Secondo la nostra esperienza, una
singola seduta è spesso sufficiente per ottenere un miglioramento
significativo.
D‟altro canto, sebbene simile ai primi due, il caso di Jean-Chrysostome
è leggermente diverso; dopo la sua esperienza traumatica non ha
sviluppato sintomi post-traumatici come accaduto nei nostri due primi
esempi. In realtà, potremmo anzi dire il contrario: passato attraverso
morte e risurrezione, Jean-Chrysostome ha assunto su di sé le
responsabilità di una figura pubblica, ovvero di guaritore e leader
religioso. Nel suo caso, invece di metterlo in contatto con i tradizionali
esseri invisibili del proprio mondo culturale, lo spavento estremo,
l‟esperienza della morte e del ritorno alla vita, lo hanno obbligato a
lottare insieme alle forze che si stanno affermando in Burundi e a
partecipare attivamente alla costruzione di una nuova realtà sociale. In
effetti, chiese cristiane di varia denominazione e culti di ispirazione
cristiana sono in ascesa in tutta l‟Africa Centrale e stanno diventando le
vere forze politiche dominanti nella regione. Per inciso, l‟esperienza di
Jean-Chrysostome suggerisce i modi in cui il processo traumatico può
essere usato deliberatamente – e molto spesso lo è – come uno
strumento politico per operare una trasformazione radicale e fondare
un nuovo mondo. Sebbene i suoi aggressori lo avessero destinato a
morire, il fatto stesso di essere sopravvissuto costituiva la prova
vivente che Gesù è davvero il suo personale Salvatore. La sua
conseguente trasformazione, o trasfigurazione, è nondimeno una
chiara dimostrazione che l‟uso dello spavento per orchestrare la morte
e la rinascita di qualcuno può rappresentare uno strumento psicologico
e politico in grado di permettere una modificazione completa oltre che
irreversibile della persona. Proprio per questa ragione, il trauma è uno
strumento ben conosciuto nelle culture tradizionali, come si può
intravvedere nella struttura di numerosi riti d‟iniziazione nel mondo
(Zajde, 1998). Per lo stesso motivo, esso è anche uno strumento messo
sempre più frequentemente al servizio di gruppi radicali politici e
religiosi contemporanei.
Il potere trasformativo del trauma appartiene alla qualità cumulativa del
processo traumatico. Se accettiamo l‟idea suggerita dalle eziologie
culturali dello spavento, secondo cui lo spavento estremo provoca
un‟effrazione della persona che mette in contatto quest‟ultima con
esseri di un mondo sconosciuto, allora l‟effetto principale del trauma è
il crollo del mondo quotidiano della persona. Al suo posto, come
abbiamo visto, si rivela un mondo nuovo e nascosto. Però, se e quando
questo processo è ripetuto varie volte, il mondo e gli esseri nascosti o
sconosciuti ma culturalmente accettati, rivelati dall‟evento traumatico
iniziale, sono a loro volta soggetti a effrazione, per cui la vittima viene
in contatto con esseri e mondi precedentemente ignoti non solo a lei,
ma all‟umanità intera. Questo spiega, invero, l‟effetto isolante del
trauma cumulativo: un poco alla volta la persona diventa la sola sulla
Terra a sapere di mondi nascosti che nessun altro può vedere o
percepire. Pertanto, ad ogni nuovo evento traumatico, il mondo usuale
e quotidiano della persona perde significato fino a diventare totalmente
privo di senso e vuoto, obbligando la vittima – oltre che i suoi
terapeuti – a costruire un “neo-mondo” nel quale la successione degli
eventi e le loro implicazioni abbiano un qualche senso. Il resoconto
seguente, scritto da un sopravvissuto di Auschwitz (Bialot, 2002), è al
contempo un‟agghiacciante e articolata descrizione di questo processo9.
All‟epoca dell‟accaduto, l‟autore si trovava ad Auschwitz da molto
tempo; qui incontrò un uomo che conosceva quando vivevano a Parigi
e lo seguì nel suo blocco con la speranza di rimediare ancora un‟altra
razione di zuppa.
“Sto mandando giù il contenuto di un piatto di zuppa quando mi colpiscono delle
luci abbaglianti.
Una voce annuncia „Lagersperre!‟ Campo chiuso! Coprifuoco!
Che sto facendo qui? Lascio cadere il piatto e mi lancio fuori dalla porta.
Su etnopsichiatria, sopravvissuti all‟Olocausto e loro discendenti, Zajde, 2005a,
2005b; Zajde, Grandsard, 1996, 2002.
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Questa volta non ce la farò. Sono spacciato. La ragione è semplice: non riuscirò ad
arrivare nel mio blocco prima del coprifuoco. Se per una SS questo non è un
tentativo di evasione, allora cos‟è?
…Corro, corro, corro, aspettandomi una raffica di mitragliatrice da una delle
torrette di guardia. Nessuno potrebbe evitarla. Ogni posto di sorveglianza controlla
un settore alla portata del suo tiro ed è impossibile trovare riparo. L‟unica soluzione
sarebbe quella di gettarmi contro il recinto di filo spinato elettrificato.
Scopro la vera paura. Non solo ansia, non solo immaginazione amplificata, ma
realtà. Sono il bersaglio scelto di tutti i mitraglieri delle SS. L‟unico dubbio è: quale
torretta aprirà il fuoco per prima?
In quel preciso istante, ho smesso di far parte del mondo “normale”, per acquisire la
mia nuova pelle: la pelle di un deportato. Fino a quel momento, conoscevo solo con
la ragione quanto accadeva in un lager. Quella sera ho perso ogni contatto con i miei
simili, percependo le relazioni tra gli esseri umani da una prospettiva che non avevo
mai sospettato: come relazioni governate dall‟assenza di leggi. In effetti, sono l‟unico
partecipante di un gioco assurdo, le cui regole non sono padroneggiate da nessuno
poiché ogni SS ha il diritto di improvvisare secondo il proprio umore. Per me,
vincitore o perdente che sia, il nome del gioco è morte.
D‟ora in avanti, sono un Häftling, un condannato perfetto, una cosa con la faccia
da uomo. Le SS si riferiscono al deportato come a uno “Stück”, un pezzo o una
parte. Un pezzo di legno o di metallo ha un valore, almeno commerciale. Lo Stück
che sono diventato non ha invece nessun valore, sia esso estetico, morale o
commerciale. Può essere gettato via o bruciato. D‟ora in poi, faccio parte di questo
mondo di parti superflue. Non sono che un minuscolo pezzo di un nuovo mondo che
non avrei mai potuto immaginare sebbene mi sia cucito addosso alla perfezione”.
Il trauma, dunque, è un processo attraverso cui accade qualcosa non
solo alla persona ma al mondo stesso, in modo tale che la vittima sia
resa permeabile a nuove idee, aperta all‟avvento di un nuovo ordine, in
cerca di nuovi significati. Questo è uno dei pericoli principali del
trauma cumulativo. Quando la persona è stata “aperta” da eventi
traumatici consecutivi, essa è vulnerabile a tutti i tipi di forze e di idee
sociali, politiche, religiose e/o esoteriche che sperimenta una dopo
l‟altra o talvolta simultaneamente, in una ricerca di senso senza fine. In
simili casi, il lavoro del terapeuta consiste nell‟ingegnarsi a identificare e
costruire, insieme al paziente, il nuovo mondo annunciato dagli eventi
traumatici e in cui deve assegnare il giusto posto al paziente stesso.
Non è un compito semplice…
Conclusione: una filosofia dello spavento
La concezione dello spavento in quanto fattore eziologico è scomparsa
dalla psicopatologia scientifica, essendo stata dapprima rimpiazzata dal
concetto di ansia (in psicoanalisi) quindi, più di recente, dall‟idea di uno
squilibrio biochimico di alcune sostanze cerebrali come la serotonina o
la dopamina (psichiatria farmacologica). Eppure, la maggior parte delle
culture tradizionali continuano a ricorrere ad esso con un provato
successo terapeutico. Infatti, le interpretazioni basate sulla categoria
dell‟ansia producono un soggetto isolato con un dolore psichico
persistente. Il concetto di spavento, invece, spinge i clinici a pensare
l‟alterità, la vera alterità - non i nostri “altri” simili a noi, del tutto
identici a noi stessi, ma gli “altri di un altro mondo”, il cui semplice
incontro apre un breccia nella nostra psiche e la cui sola presenza ci
pietrifica! Spingendo il ragionamento ancora un poco oltre, possiamo
dire che lo spavento cumulativo vincola il terapeuta a costruire un
nuovo mondo per il suo paziente traumatizzato.
I Kashinawa, nativi della foresta amazzonica, consapevoli del vantaggio
di fabbricare individui curiosi verso altri mondi, professano una vera e
propria apologia dello spavento. Essi sostengono che l‟abilità nel farsi
spaventare è una virtù capace di formare nella stessa misura un
cacciatore e uno sciamano esperti. Un cacciatore ha bisogno di essere
in profonda sintonia con il mondo animale, lo sciamano con quello
degli spiriti (Deshayes, 2002a), e lo spavento è l‟unico modo per
introdurre una persona in un altro mondo. Allo scopo di iniziare questi
futuri specialisti al controllo dello spavento, viene somministrata ai
novizi una bevanda chiamata ayawaska, contenente succhi derivati da
una liana e dalle foglie di uno specifico tipo di arbusto. I Kashinawa
forniscono la sottile spiegazione secondo cui le foglie producono le
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visioni mentre la liana fa vomitare il terrore provocato da esse.
L‟alternanza tra visione ed eiezione conferisce gradualmente al novizio
la capacità di sopportare il suo spavento benefico (Deshayes, 2002b).
L‟abilità nel far fronte al proprio spavento equivale perciò a quella di
percepire mondi diversi basati su principi logici ignoti. Questa abilità
può essere comparata alla curiosità del ricercatore che deve essere in
grado di tollerare la propria sorpresa.
Il termine “spavento” è oggi usato raramente dagli psicopatologi
professionisti, i quali prediligono parole come “trauma” o “stress”,
anche se sta aumentando l‟interesse per tutte le concezioni che lo
includono. Le recenti ricerche sulla psicopatologia del trauma e in
etnopsichiatria mettono in luce la sua rilevanza oltre al fatto che le
culture tradizionali fanno bene a rimanervi attaccate.
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RIASSUNTO
La psicopatologia scientifica e i vari approcci psicoterapeutici, quando
si misurano con i disturbi di tipo traumatico, sembrano incapaci di
avanzare con la stessa raffinatezza tecnica e precisione teorica utilizzate
invece con altre categorie di disturbi mentali. Gli autori sottolineano
con forza come il trauma manifesti una peculiare resistenza non solo al
trattamento, farmacologico e psicoterapico, ma anche a essere
ripensato dalle discipline cliniche. Se è vero che gli eventi traumatici
segnano il limite delle terapie moderne, le quali non si curano del
mondo esterno e si concentrano invece sulla soggettività psicobiologica
della vittima, la proposta contenuta in questo articolo costituisce una
sfida: spostare l‟attenzione terapeutica dalla vittima del trauma
all‟evento traumatico, trattando per così dire l‟evento al posto della
persona. È ciò che fanno i sistemi tradizionali quando mettono alla
base del disturbo traumatico il concetto di spavento. Nelle lingue – qui
se ne esplorano alcune come il quechua, il wolof, l‟arabo, il kirundi – si
troverebbe inscritta una teoria dello spavento comune a diverse
culture: lo spavento consisterebbe nell‟incontro terrifico e casuale con
un essere di un altro mondo, che invade lo spazio interno dell‟essere
umano, dopo che in quest‟ultimo si è aperta una breccia psichica.
Questo modello viene estratto e commentato anche a partire da diversi
casi clinici attraverso i quali si sviluppa il ragionamento degli autori.
PAROLE CHIAVE: Stress post-traumatico, Spavento, Metamorfosi
ABSTRACT
When scientific psychopathology and modern approaches of
psychotherapy have to cope with traumatic disorders, they seem to be
less precise and sophisticated than they use to be with other categories
of mental disorder. The authors strongly underline how trauma is
peculiarly resistant not only to pharmacological and psychotherapeutic
treatment, but also to conceptualisation: models utilised by clinical
disciplines in order to understand its mechanism prove to be poor and
obsolete when compared to the progresses of psychopathological
thought. If it‟s true that traumatic events show the limits of modern
therapies, because therapeutic perspectives are usually centred on the
psychobiological subjectivity of the victim and don‟t take into account
the world outside the subject, the clinical proposal made in this article
sounds like a challenge: why don‟t we shift therapeutic attention from
the victim of trauma to the traumatic event? But this is what traditional
systems already do when they conceive fright as an explanatory model
for traumatic disorders. In fact, a theory of fright common to different
cultures is to be found in languages like Quechua, Wolof, Arabic,
Kirundi: fright is due to the casual encounter with a terrifying being
from another world, that invade the inner space of a human being,
after having opened a breach in his mind. This model is also drawn
from different clinical cases analysed by the authors.
KEY WORDS: Post-traumatic stress, Fright, Metamorphosis
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IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011
Filippo Casadei10, Salvatore Inglese11
Babelogue.
Lingue e processi di mediazione clinica
0.1 - In questo articolo ci proponiamo di riflettere su quali siano gli
elementi basilari per la costruzione di un dispositivo clinico di
ispirazione etnopsichiatrica finalizzato alla tutela della salute mentale
delle popolazioni straniere. Innanzitutto, occorre un attore collettivo,
ovvero un gruppo di lavoro costituito da varie figure professionali
(operatori sociosanitari, mediatori, antropologi, linguisti, filosofi,
giuristi, ecc.) che sia capace di fare della mediazione linguisticoculturale un asse portante della propria metodologia operativa. Tale
riferimento non deve mai essere smarrito neppure qualora il gruppo sia
costretto a intervenire in condizioni lontane da quelle ideali. Per
spiegare in cosa consiste un dispositivo di mediazione clinica bisogna
guardare all‟oggetto centrale di questa macchina: la lingua, o meglio le
lingue, dove il plurale indica una molteplicità babelica di codici
linguistici in azione e confluenti nel discorso clinico. Progettiamo tale
mediazione come un sistema interattivo che fa parlare gli oggetti
(lingue), piuttosto che come un processo intersoggettivo (interumano)
messo in moto da persone (i mediatori).
La matrice linguistica primaria, quella in cui l‟individuo è maturato
emotivamente e cognitivamente, con la quale esprime al meglio la
visione del mondo, i valori, gli affetti, l‟ethos del suo gruppo insieme alla
Etnolinguista (Dipartimento Salute Mentale ASL Firenze e Prato); Dottorando in
Antropologia ed Epistemologia della Complessità (Università di Bergamo); FAR/ERG
(FAR/Etnopsychiatry Research Group)
11 Psichiatra, Psicoterapeuta, antropologo medico; Responsabile Modulo di “Psichiatria
Transculturale e di Comunità – Metodologia della ricerca” – Dipartimento Salute Mentale ASP
Catanzaro; FAR/ERG (FAR/Etnopsychiatry Research Group)
10
IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011
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58
singolarità del suo vissuto culturale, non è un elemento accessorio (un
“lusso”) dell‟impresa clinica ma il fattore fondamentale che consente di
comprendere quella persona o quella forma di vita particolare
(individuale e collettiva, sempre data storicamente e culturalmente) con
le sue derive psicopatologiche. In un lavoro precedente, abbiamo
definito questa lingua-mondo come lingua matrice, anche per differenziarla
dalla lingua materna (Casadei, Festi, Inglese, 2005). Quest‟ultima, infatti,
proviene da una concettualizzazione etnocentrica e legata a contesti
monolingui (formula predominante: “la lingua prima del bambino è la
lingua della madre”) per cui occlude l‟ingresso nella direzione di una
riflessione sulla mediazione con pazienti provenienti da società e
gruppi multilingui (de Pury Toumi, 1994). Attraverso la lingua matrice
è possibile esplorare le reti significanti della persona: la lingua fa parte
del mondo empirico del soggetto, comportandosi per questo come
ogni altro oggetto sensibile, ma consente anche di comunicare su quel
mondo, collegandosi a oggetti, persone, pratiche, situazioni molto
distanti dal qui ed ora dell‟enunciazione ovvero, nel nostro caso, dalla
situazione clinica e dall‟universo di riferimento degli operatori. Questi
collegamenti sarebbero facilmente attivabili in una lingua diversa da
quella matrice del paziente? Secondo noi essi non sarebbero accessibili
al paziente che, adattandosi alla lingua del clinico, sarebbe costretto a
dimenticare o narcotizzare i collegamenti che lo ricondurrebbero ai
contesti d‟origine; sarebbero inaccessibili anche al clinico che, senza
decentrarsi dalla propria matrice comunicativa, non riuscirebbe a
individuare dietro la parola dell‟altro un mondo pieno di senso.
Le lingue non sono un ostacolo insormontabile (barriera comunicativa)
ma autentica opportunità per aumentare la porzione di scambio tra
l‟universo clinico e quello del paziente. È chiaro che l‟introduzione
delle lingue incrementa i livelli di complessità dell‟operazione di cura, al
punto che molti rinunciano all‟impiego dei mediatori linguisticoculturali nella loro attività con i gruppi stranieri. Questa chiusura
produce una cecità profonda rispetto alle esperienze e ai contesti di vita
del paziente e può diventare una forma di maltrattamento perché,
privando l‟intervento terapeutico della sua parte etnoclinica, preclude
all‟individuo sofferente la possibilità di ricorrere alla forza del suo
gruppo di riferimento, ai legami significativi con la propria comunità.
Una volta condivisi questi assunti di base, il gruppo di mediazione può
cominciare la sua esperienza. Prima di passare alla fase operativa, è
però necessaria una formazione teorica e tecnica congiunta delle figure
professionali coinvolte nell‟attività clinica. L‟utilizzo appropriato della
mediazione linguistico-culturale dipende da una metodologia di lavoro
che funziona se applicata dalla totalità del gruppo. Chiunque rimanga
all‟oscuro dei metodi e degli obiettivi della mediazione finisce con
l‟ostacolarla. Quale tipo di formazione sarebbe utile? Da quali e quanti
elementi dovrebbe essere composto il gruppo di mediazione? In quale
punto della rete sociosanitaria si dovrebbe collocare? Tali variabili
vanno esaminate ogni volta che si attivi un dispositivo di mediazione
etnoclinica, la cui progettazione va sempre modellata sul territorio reale
in base alle specificità dei gruppi con i quali si dialoga, ai fenomeni che
necessitano di risposta, alle risorse linguistiche e professionali
disponibili, all‟organizzazione dei servizi già operanti in quel contesto.
Nel setting clinico in cui si invita a utilizzare la lingua matrice o una delle
lingue-matrici possibili (es., persone appartenenti a famiglie o gruppi
multietnici dove si parlano varie lingue), il paziente accetta di
esprimersi attraverso di esse, sormontando resistenze spesso
dissimulate, poiché in tale setting esiste un ospite controverso
(mediatore: interprete della sua stessa matrice linguistica) che si
manifesta come il suo doppio: seconda voce narrante, una sorta di alter
ego che occupa uno status funzionale specifico all‟interno del gruppo
curante. La presenza del mediatore è un antidoto efficace contro la
tentazione di raffigurare gli stranieri come nullatenenti (senza nomi
propri, storicamente assegnati e vissuti, né relazioni sociali e familiari);
al tempo stesso, ci rivela la loro natura di proprietari della lingua. Questa
scoperta permette un salto conoscitivo poiché il mediatore e il paziente
diventano dei ricercatori attivi che, insieme al gruppo clinico, esplorano
aree incognite del loro mondo di provenienza. Le domande che si
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pongono sono degli interrogativi rivolti, in primo luogo, al sistema di
pensiero del loro gruppo. Durante la seduta lo scambio in lingua
matrice avvia un processo di presentificazione del gruppo di appartenenza
del paziente e delle realtà culturali con cui quel gruppo si identifica:
“Tra soggetti e oggetti culturali si istituisce un‟equazione identificatoria:
come i prodotti tecnici appartengono a un gruppo e sono identificati
quale proprietà inalienabile di quest‟ultimo (oggetto generato da gruppo), il
gruppo è identificato dall‟esistenza e dal funzionamento di questi
oggetti (gruppo derivato da oggetto). Nella dimensione cronologica (mitica,
storica) tale equazione diventa spesso una funzione processuale che
garantisce mutazioni, cambiamenti e innovazioni sia dei gruppi sia degli
oggetti, attraverso azioni su questi ultimi (es.: smarrimento, oblio,
profanazione, distruzione, sostituzione) o per loro traslazione dalle mani
di un soggetto culturale all‟altro” (Harrag, 2007, p. 158). La perdita dei
testi sacri può trascinare con sé, per dispersione, la fine di un popolo.
Gli esempi sono numerosi perché il catalogo degli esseri culturali è un
insieme aperto: ci sono genealogie, interdetti, teorie eziologiche,
pratiche di cura, di divinazione….Con l‟introduzione di un terzo,
intermediario tra terapeuta e paziente, il colloquio clinico diventa spazio
pubblico di parola dove la dimensione culturale e quella psicologica
trovano i loro “rappresentanti” e “delegati” (Latour, 1999).
0.2 - A monte dell‟oggetto-lingua sta il tradurre, indissociabile dalla
pratica clinica: la traduzione si pone come elemento primo. Anche il
singolo locutore è un traduttore, quando passa dal sistema linguistico
virtuale all‟atto concreto, sociale, di parola. Con il termine “traduzione”
intendiamo un processo di comprensione delle lingue e di trasmutazione del
senso che necessitano sempre della cooperazione dell‟Altro. Quando il
paziente si mette improvvisamente a parlare nella sua lingua d‟origine,
senza che nessuno possa capirne il significato, sta probabilmente
sfidando il sistema clinico attraverso l‟inabissamento in un codice
incomprensibile. Se non c‟è un interprete perdiamo la capacità di
parlamentare non tanto con il singolo soggetto – visto che prima parlava
l‟italiano, abbiamo ancora la possibilità di comunicare con lui – quanto
con il suo gruppo, mantenuto sconosciuto perché a lingua ignota. Ciò
accade nel momento in cui il paziente sembra posseduto dalla lingua. In
questi casi la presenza di un mediatore in grado di tradurre diventa una
precondizione del colloquio perché obbliga il paziente ad uscire dalla
trance linguistica idiosincrasica e incomunicabile per entrare in una
trance condivisa e transitiva. “Solo installandosi in questa posizione il
mediatore può ricadere produttivamente nel raggio d‟influenza del
paziente riuscendo così a interpretarne le istanze comunicative: dunque
sempre abbastanza vicino al paziente da esserne influenzato e, in un
certo senso, posseduto, ma sufficientemente distanziato da non
confondersi e perdersi nell‟identità del paziente” (Casadei, Festi,
Inglese, 2005, p.299).
Durante la consultazione con pazienti migranti, la traduzione
interlinguistica – ovvero interpretare un discorso in una lingua e
produrne un secondo più o meno equivalente in un‟altra – fa accadere
una quantità di fenomeni che attraversano o, meglio ancora,
interessano l‟intero sistema operatorio. Tali fenomeni non sono
equivalenti sintomali, per cui non sono legati esclusivamente alla sfera
psicopatologica del paziente, ma perturbazioni del dispositivo che
invadono il campo del mediatore e del terapeuta. Quando il dispositivo
di mediazione etnoclinica funziona, attingendo a livelli autoriflessivi e
autocorrettivi, esso non si limita a produrre fenomeni nuovi, da cui
possono scaturire effetti terapeutici, ma sperimenta inusuali
collegamenti trasformativi, modificando finanche sé stesso.
Il clinico non abituato a lavorare in un gruppo di mediazione, dove il
confronto tra lingue settoriali e prospettive teoriche diverse aiuta a
sviluppare un pensiero strategico rispetto ai problemi della traduzione,
tende sistematicamente a lasciare l‟interprete fuori visuale; si aspetta da
lui la replicazione esatta dei discorsi del paziente mentre resta
all‟oscuro degli sforzi occorsi e delle prove che l‟interprete ha dovuto
superare per fabbricare quelle parole. Il compito dei traduttori non è di
trasferire significati da un soggetto all‟altro (da paziente a clinico, e
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viceversa), da un punto all‟altro (dal mondo del primo a quello del
secondo, e ritorno), da una lingua all‟altra (dall‟idioletto di partenza dello
straniero a quello d‟arrivo del clinico, e da questo al primo) ma di
obbligare a portare lo sguardo sui modi di essere della significazione
all‟interno della lingua. Nella traduzione le lingue vengono stressate,
confrontate, sperimentate, trasformate. Il mediatore esercita una forma
di traduzione: a) in tempo reale; b) in un flusso continuo e multivocale
di enunciati (provenienti da mondi diversi e che animano controversie);
c) in concomitanza di un processo diagnostico e trasformativo. Per
eseguire tali operazioni egli deve possedere una coscienza linguistica
viva che gli permette di riflettere in modo rapido e accurato su regole,
valori, contesti d‟azione della propria lingua, sugli stili (riguardanti il modo
concreto dell‟esecuzione di un atto linguistico: intonazione,
impostazione della voce; Casadei, Inglese et al., 2005), sui registri
(includenti gli strumenti retorici azionati per sviluppare un tema) e,
infine, sui sottocodici delle tecniche di cura correlate ai contesti d‟uso dei
termini specialistici tradizionali.
La lingua, rappresentata spesso come un‟entità compatta, è invece una
gamma di varietà che comprende forme più o meno standardizzate e
forme fortemente influenzate da vernacoli locali (l‟inglese nigeriano
oscilla dalla forma british al pidgin). Tali varietà si dispongono secondo
un continuum, con numerose interferenze tra una varietà e l‟altra.
All‟interno di una stessa koiné linguistica, le competenze sono
stratificate e differenziate in base all‟educazione di ogni membro a
parlare quella specifica lingua. Esistono culture in cui il sentimento
della lingua è estremamente sviluppato: laddove esiste un‟estetica
spiccata della lingua, si “sente” immediatamente “chi parla bene” e “chi
parla male” (Cardona, 2006). Un mediatore kurdo iracheno di lingua
sorani (il kurdo si articola in almeno due dialetti principali - kurmanji e
sorani – parlati in aree diverse del paese) ha riferito di essere talmente
sensibile a certe parlate di villaggio, oltremodo sgradevoli al suo
orecchio, da non poter fare a meno di allontanarsi appena ne sente
una. Forse è anche per questo, ha aggiunto, che certi pazienti kurdi di
città preferiscono parlare con un mediatore arabo piuttosto che con un
altro kurdo proveniente dalle zone rurali.
In passato ci siamo soffermati su alcune caratteristiche salienti del
mediatore linguistico-culturale e abbiamo scritto che la neutralità,
invocata come requisito essenziale del mediatore, è un malinteso
derivante da un modello giuridico bipolare secondo il quale ci sono due
parti in disaccordo e una terza, estranea agli interessi delle parti
contendenti, che ha il compito di pacificare, ricomporre il conflitto
(Casadei, Festi, Inglese, 2005). Al contrario, la specificità del mediatore
sta proprio nella sua parzialità: egli fa parte dello stesso (o quasi)
gruppo culturale del paziente mentre, contemporaneamente, è membro
del gruppo clinico. All‟interno di quest‟ultimo deve trovare una propria
autonomia di parola e di interpretazione, altrimenti il confronto
auspicato tra diverse posizioni teoriche perde forza, lasciando in primo
piano soltanto il discorso egemone del terapeuta. Abbiamo chiamato
“battaglie della mediazione” (ibidem, pp. 298-300) gli sforzi del gruppo
clinico per rendere progressivamente più salda e originale la posizione
di parola del traduttore, fino a permettergli di conquistare un potere
personale (impersonale, quando gli deriva dalla lingua) sulla produzione
del discorso.
0.3 - Vorremmo adesso spostare l‟attenzione su un tema vicino a
quello della mediazione, ma che non si identifica completamente con
esso: l‟uso delle lingue nella clinica. In un dispositivo multiculturale di
salute mentale la centralità delle lingue dipende da come: 1)
partecipano all‟efficacia della cura – diventano leve potenti di
trasformazione perché possiedono una forza propria che va calcolata e
valorizzata durante l‟intervento terapeutico; 2) traducono gli altri codici
del campo clinico (es., sintomatologie).
Il modo in cui i disordini mentali si presentano all‟osservazione clinica
ha in comune con le lingue il fatto di essere in variazione continua.
Figuriamoci un dispositivo linguisticamente sensibile, reattivo, animato
da “terminazioni nervose” che vengono sollecitate (ancor più che
IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011
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informate) dall‟incontro con l‟oggetto-lingua; questi recettori sono
sempre in movimento nello spazio aperto della dimensione pragmatica
e reagiscono a stimoli minimali, ancora confusi, a variazioni del
continuum, cromatismi sonori più che fonemi, valenze più che significati,
e quando avvertono qualcosa, come un tocco, un cambiamento di
colore, cercano di capirne la provenienza e la destinazione, di attribuire
un‟intenzionalità a quei flussi linguistici, sicuramente orientati verso un
fare. Ogni parlante è mosso dall‟intenzione di comunicare (pragmatica
della comunicazione umana; Watszlawick, Beavin, Jackson, 1971).
L‟immagine che proponiamo è quella di un dispositivo dalla sensibilità
quasi tattile per le lingue, votato all‟esplorazione continua dell‟ambiente.
Il lavoro esplorativo non è affidato unicamente agli interpreti, che
rappresentano comunque i sensori linguistici più sofisticati, ma è
assunto con interesse dall‟intero gruppo. Osserviamo l‟interprete al
lavoro: è completamente assorbito nella traduzione; mentre ascolta
quanto viene pronunciato in una lingua, proietta il senso e l‟intensità
delle parole in un‟altra, esamina mentalmente i valichi che ogni sistemalingua gli consente di attraversare, predispone le strutture grammaticali
di passaggio e, sempre mantenendosi in uno stato di fluidità senza il
quale non potrebbe stare al passo con l‟interazione dei parlanti,
stabilisce dei punti di riferimento per ricordare le cose dette, il come
vengono dette e per quali vie conviene passare per tradurle. Inoltre,
considerato che questo impegno si protrae per tutto il tempo della
seduta, l‟interprete deve dare prova di resistenza, tenacia, capacità
durevole di concentrazione (Rusong, Hongtu, Ying, 2007).
Cosa fanno nel frattempo gli altri membri del gruppo di mediazione?
Dopo aver consegnato i propri enunciati alle cure dell‟interprete e
prima di ricevere da questo le parole del paziente? Possono spendere
questo intervallo in diversi modi: 1) seguire il flusso dei propri pensieri
senza interessarsi allo scambio traduttore-paziente, come se non
facessero veramente parte della seduta o non dipendessero
dall‟intenzione globale del dispositivo; 2) concentrarsi sul non verbale
o sulle parti discorsive che non richiedono una conoscenza della lingua
(la trasparenza del codice non-verbale è solo apparente essendo,
piuttosto, un generatore di equivocità); 3) mettersi in ascolto,
lasciandosi prima attirare e poi iniziare dalla lingua straniera.
Esiste un altro modo imperativo per valicare le barriere linguistiche
seppure esso rappresenta l‟opzione maggiormente dispendiosa ma
anche quella che spinge più lontano nell‟esplorazione dei mondi altri:
senza conoscere l‟organizzazione di un codice, dei suoi usi pratici nella
vita quotidiana e nei contesti di esperienza meno ordinari, non si può
superare il fossato che separa da quel mondo significante. La metafora
del mediatore-ponte è illusoria se non si spicca un salto verso la lingua
dell‟altro. Per apprezzare la potenza incorporea di un codice non basta
interrogare l‟interprete su alcuni termini, poiché “il linguaggio come
uso di una lingua particolare acquista la sua forza non solo dalla varietà
lessicale (quante parole per uno stesso concetto o per una “famiglia” di
concetti?), ma anche dalla combinazione di nomi, aggettivi, avverbi e
verbi, classificatori, quantificatori che fondano la costruzione della
frase” (Duranti, 2007, p.27). Senza un‟idea della singolare struttura di
una lingua non si può cogliere la sua forza che, di conseguenza, non
può essere convogliata in maniera consapevole verso l‟obiettivo
terapeutico. Inoltre, l‟evento della traduzione rimane separato
dall‟azione clinica. Al contrario, se proviamo a colmare la lacuna per
mezzo di conoscenze linguistiche sempre più precise si migliora il
lavoro con l‟interprete e si sfrutta pienamente la traduzione.
Incrementare l‟intelligenza linguistica del dispositivo serve ad
accrescere la sua sensibilità culturale. Parliamo di intelligenza e non di
coscienza linguistica; la coscienza è quella dell‟interprete, consistente nel
sentimento vivido e intuitivo della propria lingua accompagnato dalla
capacità autoriflessiva, mentre l‟intelligenza è quella collettiva, fatta di
studio e addestramento a riconoscere le lingue e a saperle trattare come
entità specifiche; essa consiste in un progressivo familiarizzarsi con
simili oggetti, con le loro caratteristiche strutturali, coi loro principi
organizzativi e le loro pragmatiche. Bisogna studiare anche vari tipi di
lessico: della vita quotidiana, delle emozioni e, soprattutto, quelli
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specialistici (etnoclinici). Questi ultimi vanno usati con molta cautela,
senza voler simulare la competenza diagnostica di un sistema
tradizionale. Riconoscere i termini di un campo semantico
etnopsicopatologico può farci credere di esserci avvicinati al nucleo
problematico del paziente. “Ecco – pensiamo - finalmente la persona
ha deciso di usare la lingua profonda, ora comincerà davvero a
mostrarci le parti più segrete di sé”12. Ma la comparsa di un termine
“profondo” nel colloquio clinico non è garanzia che proprio quel
sintomo o quel disordine, anche se nominato, corrisponda a
un‟esperienza realmente vissuta dal paziente, così come noi ce
l‟aspettiamo. Questo termine infatti potrebbe essere impiegato non in
senso proprio (intraculturale), per indicare un disturbo etnico conosciuto
nell‟area culturale da cui proviene il paziente (Devereux, 2007), ma in
senso lato (transculturale), per riferirsi a un malessere che non
corrisponde più a nessun modello nosografico preesistente: con la
pretesa di risalire alla configurazione etnica originaria del disturbo si
rischierebbe di perdere la nuova pista clinica che il paziente ha
segnalato, anche se in maniera mascherata.
66
0.4 - I gruppi stranieri fanno deflagrare l‟idea di una lingua unica. Gli
sforzi per arginare queste spinte centrifughe, come l‟idea dell‟esame di
italiano per ottenere la cittadinanza, sono deboli in confronto
all‟ampiezza e capillarità del fenomeno. Si scorgono molto bene i limiti
di un progetto politico che non resisterà alla prova dei mutamenti
linguistici, sociali, culturali: in clinica ci appare chiaro come l‟italiano sia
continuamente “deterritorializzato”, i suoi confini riplasmati; le
interlingue di coloro che apprendono la nostra lingua sono molteplici –
traghetti che non approdano mai a una lingua unica d‟arrivo –
Usiamo “profondo” nel senso in cui si dice “wolof profondo”, intendendo il wolof
di Saint Louis o quello parlato nei villaggi storicamente a maggioranza etnica wolof,
contrapposto a un wolof di città, per definizione quello di Dakar, mescolato con il
francese e con altre varietà locali (Swigart, 2000).
12
diventano esse stesse codici autonomi13; nel lavoro di conquista della
lingua, fatto dagli stranieri, si disegnano nuove possibilità, vengono
connessi e coniugati elementi che fanno emergere nuove entità. Gli
stessi dialetti italiani entrano in questo processo di
apprendimento/fabbricazione: i principi fondamentali in atto sono la
variazione continua e la ricombinazione. Uno di noi ha utilizzato
quest‟ultimo concetto per descrivere la vitalità e la capacità di
mutazione/ibridazione delle sindromi culturali: “Non si deve escludere
che in aree sociali dove impera uno scambio incessante tra molti
modelli culturali estranei e competitivi si possa instaurare una
ricombinazione imprevedibile di sintomi e sindromi” (Inglese, 2011).
L‟italiano è una lingua conquistata, le sgrammaticature e gli errori di
pronuncia sono, ancor più che interferenze, marchi di appropriazione.
I pazienti stranieri usano spesso questa varietà per comunicare con noi
in seduta, ma tale comportamento non diminuisce per nulla la necessità
di lavorare con gli interpreti. Questi a volte traducono anche quando il
paziente parla italiano: ciò non è una svista – tradurre a oltranza,
all‟eccesso, dimenticando che la persona sta già parlando italiano – ma
è un‟operazione eseguita sulla linea di variazione continua della lingua:
l‟interprete fornisce delle variabili grammaticali in risposta alle
espressioni ibride, agrammaticali, emesse dal paziente. “L‟espressione
atipica costituisce una punta di deterritorializzazione della lingua, gioca
un ruolo di tensore, fa in modo cioè che la lingua tenda verso un limite
dei suoi elementi, forme o nozioni, verso un al di qua o un al di là della
lingua” (Deleuze, Guattari, 2006, p.162). Il mediatore, anche quando
traduce dall‟italiano, continua a svolgere il suo ruolo di intermediario
in maniera del tutto appropriata dicendo “attenzione, vi mostro io cosa
sta facendo il paziente con la vostra lingua, o con quella che voi pensate
ancora sia la vostra lingua, esclusivamente vostra…”.
In glottodidattica si chiamano così i sistemi linguistici che si formano durante
l‟apprendimento di una nuova lingua e in cui convivono regole di più lingue (quelle di
partenza e quella di arrivo; Beccaria, 1994).
13
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68
Il lavoro di appropriazione della lingua è particolarmente visibile nei
Servizi di Neuropsichiatria Infantile dove arrivano bambini migranti
con difficoltà scolastiche. I processi di acquisizione delle varie
competenze linguistiche, culturali, relazionali risultano specialmente
travagliati per il primogenito, che non di rado ha passato i primi anni di
vita nel paese d‟origine dei genitori, e per l‟ultimogenito, l‟“italiano” del
gruppo, quello nato e concepito nel paese d‟immigrazione. “Le ricerche
etnopsichiatriche individuano i bambini maggiormente sensibili
all‟impatto dell‟esposizione migratoria, riconoscendoli nel primo e
nell‟ultimo figlio che aprono e chiudono le res gestae di un romanzo
familiare i cui protagonisti partono da un altrove culturale e approdano
avventurosamente in un mondo radicalmente straniero” (Inglese,
2004). Questi campioni alle prese, fin dai primi mesi di vita, con
l‟ordalia dell‟emigrazione e del trapianto, sono chiamati a svolgere un
compito di capitale importanza per l‟intero gruppo familiare,
conquistando l‟uso della parola in un‟ecologia completamente diversa
da quella di partenza, senza quindi poter beneficiare, a differenza delle
generazioni ascendenti, di tutto ciò che il proprio gruppo culturale è
riuscito a trovare per vivere e pensarsi in relazione con l‟ambiente, e
per generare esseri umani riconoscibili come suoi membri. In che
modo ci rivolgiamo a questi bambini quando facciamo clinica? In quale
lingua? Siamo consapevoli di avere davanti degli eroi culturali, dei
sopravvissuti, degli eletti, delle creature sospese tra mondi diversi di
affiliazione, tra passato e futuro (Inglese, 2010)?
Quando si lavora con tutta la famiglia è possibile differenziare i vari
codici generazionali: non si utilizzerà in maniera indiscriminata la
lingua matrice per parlare con tutti i membri, prediligendone l‟impiego
con gli adulti e interloquendo in italiano con i ragazzi. Ciò serve a
sottolineare una variazione strutturale della famiglia che, pur dovendosi
inserire in un nuovo ambiente culturale, assegna ai più giovani il
compito di portare a termine il processo di acculturazione; viceversa, si
potrà parlare la lingua matrice con i figli, per lavorare sui loro legami di
affiliazione al gruppo culturale d‟origine, e l‟italiano con i genitori, in
modo che essi si rendano conto della necessità di accompagnare i figli
nell‟indispensabile cammino di acculturazione. Lo scambio
comunicativo risulterà bilingue ma, a seconda degli interlocutori e della
problematica individuata, sarà diverso l‟impiego di ciascuna lingua.
Questa scelta è un‟opzione tecnica del dispositivo che rinvia a una
necessaria integrazione tra teoria della mediazione e metodologia
clinica.
0.5 - A volte i pazienti, soprattutto quando hanno una discreta
padronanza dell‟italiano, prendono le distanze dal mediatore e
rimandano il momento in cui passeranno alla propria lingua. Allora, ma
non sempre, può capitare di incoraggiarli ad approfittare della presenza
di un traduttore: “come direbbe questa cosa nella sua lingua?”; oppure,
in maniera più direttiva (quando è molto che aspettiamo e ancora non
succede nulla): “parli pure nella sua lingua”. Se il nostro interlocutore
accetta il suggerimento, cosa succede alla sua parola? Avete sentito un
paziente che riprende un discorso avviato in italiano riformulandolo
subito dopo nella sua lingua? Spesso sembra un altro discorso o un altro
che parla: non si può dire la stessa cosa usando due lingue diverse, a
maggior ragione se i due sistemi linguistici non sono imparentati tra
loro. È un problema di relatività linguistica. Questa idea, attribuibile a
Humboldt e Boas ma, in modo particolare, a Sapir e Whorf, i quali la
svilupparono negli anni ‟40, consiste nel ritenere che le strutture
semantiche delle diverse lingue siano tra loro incommensurabili così
come lo sono anche i modi di concettualizzare l‟esperienza, vista la
forza influenzante del linguaggio sul pensiero. Dopo il periodo di
discredito dovuto all‟imporsi delle scienze cognitive negli anni ‟60,
questa teoria è stata ripensata con favore critico da molte discipline,
come la psicologia, la linguistica, la sociolinguistica, l‟antropologia
linguistica (Gumperz, Levinson, 1996). Riprendere l‟idea di relatività
linguistica non vuol dire negare la possibilità che persone di culture
diverse possano intendersi o insinuare che la traduzione sia qualcosa di
impraticabile. Se così fosse perché dovremmo insistere su una clinica il
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cui fulcro metodologico è la moltiplicazione delle lingue (Inglese, 2005)?
Rileviamo però che esiste una profonda differenza nel modo in cui il
locutore può raccontare una propria esperienza usando l‟italiano o il
cingalese; le due lingue infatti propongono codifiche dell‟esperienza, e
degli stati del mondo, difficilmente assimilabili. Eppure, procedendo
per costruzione di comparabili (Ricoeur, 2004), ovvero per momenti
felici di traduzione imperfetta, queste due lingue possono arrivare a
parlarsi. Le lingue, prima ancora che le persone! Lutero, ad esempio,
avrebbe posto le basi per questa possibilità di dialogo tra lingue molto
distanti: “si può dire che Lutero non ha solo costruito un comparabile
traducendo la Bibbia in tedesco, «germanizzandola», come osava dire
egli stesso, nei confronti del latino di san Girolamo, ma che ha anche
creato la lingua tedesca come comparabile del latino, del greco della
Settanta e dell‟ebraico della Bibbia” (ibidem, p.23). L‟espressione
utilizzata da Ricoeur, “creare una lingua come comparabile di un‟altra”,
ci sembra calzante per illustrare la necessità di partire da un sistema
impersonale e non dalla soggettività umana. Se interpello direttamente
il paziente chiedendogli di usare la lingua matrice al posto dell‟italiano,
facilmente sortirò su di lui un effetto di disorientamento o di chiusura,
oppure, se il paziente si conforma alla richiesta, potrò avere
l‟impressione di una differenza incommensurabile o, al contrario, di
una traducibilità totale tra costrutti che non sono dunque percepiti
come comparabili, in quanto differenti, ma semplicemente come
identici. In poche parole, non riuscirò mai a tenere la giusta distanza
dalla lingua del paziente. Se invece – opzione Lutero – parto dal lavoro
del traduttore, ovvero dalla creazione della lingua matrice come
comparabile dell‟italiano (e viceversa), allora riuscirò ad aprire una
possibilità di parola per il paziente, a far sì che sia finalmente lui a
presentarsi – e a presentare i suoi oggetti – nella propria lingua.
0.6 - Spesso, in etnopsichiatria, si incontrano casi dove la
sintomatologia a tutta prima indecifrabile (lingua sintomatica segreta o
sconosciuta sia al clinico che al paziente) rinvia alla presenza di un altro
essere che influenza il suo funzionamento anche per mezzo della loro
lingua comune (wolof, arabo, hindi…). “Si può intervenire su questa
situazione usando una formula che specifica il pensiero del clinico
espresso in soggettiva: “Io dico che…”. Questa modalità d‟apertura
linguistica - quasi obbligata, gravida di responsabilità, proposta come
premessa di un successivo discorso eziologico - non può essere inviata
al paziente senza una traduzione. Anche se dico quanto sto dicendo,
l‟altro non può capirmi poiché parla una lingua diversa (osservando il
movimento labiale potrebbe solo pensare, come farebbe un Dogon:
“sta emanando vapore attraverso la bocca, allora è vivo”). Se facciamo
intervenire un mediatore che traduce questa prima espressione, non
dirà “io dico” come se fosse l‟eco della prima voce in un‟altra lingua.
L‟interprete declina una versione grazie alla quale il pensiero formulato
in prima persona viene trasmesso in terza persona (“lui dice…”, “sta
dicendo che...”, “ha detto che…”). Si istituisce così un secondo regime
multilinguistico e interlinguistico (alla terza persona) al posto di quello
monolinguistico (alla prima persona). Il nuovo assetto pronominale,
instaurato dalla traduzione, permette di salire sulla muraglia linguistica
per osservare un nuovo paesaggio culturale. Da questa altezza relativa
si può cominciare a discutere con precisione di quell‟ente terzo che
«tira i piedi di notte…». La lingua naturale del clinico spesso non
possiede una parola, una frase, un‟espressione con cui tradurre e
codificare identità e natura di questo terzo. Su questo punto di
indecidibilità e massima equivocità traduttiva, l‟interprete deve iniziare
il periplo intorno alle concezioni culturali appartenenti al gruppo del
paziente e condivise o affini a quelle proprie (condizione che vanifica
ogni perorazione di neutralità interpretativa da parte di un soggetto
interno alla lingua e al pensiero del paziente). Prima o poi giunge il
momento in cui finalmente l‟interprete riesce a spiegare: “da noi si dice
che gli esseri molestati di giorno tormentano il disturbatore durante le
ore notturne”. L‟interprete realizza così un primo accoppiamento
strutturale (storico, mitico, psicologico e sociale) con il paziente grazie
alla formula impersonale del “si dice”. Giunta a questo punto, la
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traduzione prepara l‟interpretazione di allegorie, metafore, poemi,
storie per cui il dialogo si modifica in costrutto narrativo, catalogazione
scientifica, canone teologico, abbandonando la semplice descrizione
sintomatica per rendere in modo efficace la sostanziale complessità del
fenomeno clinico, il quale guadagna la sua intelligibilità obbligando il
gruppo terapeutico a consultare le creazioni d‟ingegno più importanti
di una cultura. Lo strumento linguistico porta l‟osservazione clinica nel
cuore della cultura anche se la traduzione, in uno o in molti codici
linguistici, diventa apparentemente faticosa, imprecisa, difettosa,
prestata in carenza di parola. Questo rende necessario mettere in
tensione le lingue in cui si svolge l‟interazione fino a inventare una
soluzione discorsiva e concettuale non preesistente nei vari sistemi
culturali impegnati nel dialogo. Questo stadio ulteriore vede una
recessione del “si dice” (il quale fa riferimento a paradigmi cognitivi
dominanti e obiettivati nel mondo interrogato) e una valorizzazione del
“si potrebbe anche dire”. Con questo si lascia intendere che nella
cultura e nella lingua del paziente è permesso dire (o non dire) quanto
non si può dire (o dire) in quella del clinico. Nell‟interazione la lingua
matrice del paziente viene relativizzata rispetto a se stessa, è costretta a
conoscere e riconoscere la presentificazione di altri mondi. Essa non
può essere data come lingua assoluta (disposizione totalitaria) bensì
relativa: si torna così alla condizione generale dell‟umanità dove ogni
gruppo parla la propria lingua ma insegue il desiderio maggiore di
entrare in uno scambio sociale generalizzato, anche se questo spesso si
rivela conflittuale e talvolta antagonistico” (Inglese, 2009, p. 65-67;
Devereux [1943], 1985).
0.7 - L‟interprete è abitato dalla lingua, e quando riesce ad incarnare i
principi teorico-tecnici della metodologia etnopsichiatrica diventa un
vero posseduto della traduzione (Nathan, de Pury, et al., 1998). Solo a
questo punto l‟interprete può davvero dirsi mediatore e svolgere i
compiti di diplomazia interculturale affidatigli. Essere mediatore non è
tanto un ruolo professionale predefinito quanto una funzione, uno
stato di funzionamento all‟interno del dispositivo, che permette di
intensificare le qualità recettive (sensibilità culturale) e creative
(vocazione terapeutica) dell‟intero gruppo. Mentre l‟interprete fa
parlare le persone, ed è quindi un traduttore personale, il mediatore fa
parlare le cose, ed è per questo un traduttore oggettuale14. Nel primo
caso la lingua è data come bagaglio del professionista della traduzione,
nel secondo scaturisce come invenzione, artefatto, stratagemma che
mette in relazione sistemi culturali diversi.
Le situazioni di plurilinguismo sono frequentissime, tanto da
rappresentare la normalità; finanche in Italia la lingua nazionale si è
costituita a partire dalla conglomerazione di numerosi dialetti. Nei
contesti di vita attuali, non solo metropolitani, vediamo una
proliferazione imponente delle varietà linguistiche, con fenomeni di
contatto e interferenza del tutto nuovi. Le lingue, dislocandosi con i
gruppi che le parlano, si stanno modificando, ampliano le loro
variazioni interne e si confrontano continuamente con situazioni
comunicative impreviste; sono perciò costrette ad inglobare o
inventare nuove espressioni. Non c‟è solo il fatto di imparare la lingua
del paese dove si va, c‟è soprattutto quello di modificare la propria. Se
da un lato le lingue nel mondo continuano a diminuire di numero, e
questo succede ogni volta che si estingue una comunità di parlanti una
certa varietà, dall‟altro esse tendono, nei relativi spazi ecolinguistici, a
moltiplicarsi, incrociarsi, variare, influenzarsi (Calvet, 1999). Le lingue
appaiono sempre meno legate (se mai lo sono state davvero) a una
rappresentazione univoca del mondo: si allenta il nesso ecologico
gruppo – territorio – visione-del-mondo man mano che si estende il raggio
d‟azione del gruppo e i suoi membri sono costretti ad ambientarsi in
contesti molto diversi da quelli d‟origine.
La situazione monolingue non è naturale; c‟è però l‟idea che della
lingua unica ci si possa meglio appropriare. Come se non fosse
possibile la chiusura dell‟individuo, delle sue facoltà psichiche, senza la
Cose che sono, come la lingua, “il prodotto di una fabbricazione, sempre opera di un
collettivo” (Nathan, 2001, p. 127).
14
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monolingua (per questo si tende a vedere una creatura a rischio in ogni
bambino immerso dentro una situazione di bi- o tri-linguismo). In
realtà non c‟è mai appropriazione assoluta, perché non c‟è proprietà
naturale della lingua, non si riescono a “intrattenere con essa dei
rapporti di proprietà o identità naturali, nazionali, congeniti,
ontologici” (Derrida, 2004, p.29). Esistono diversi casi di gruppi che
non parlano la lingua corrispondente al loro etnonimo: in certe zone
del Mali i Peul definiscono la loro identità peul attraverso la pratica della
lingua bambara; alcuni gruppi tuareg usano il sonraï come lingua materna
e il tamasheq come lingua veicolare (Amselle, 2004, p.275). Le
condizioni per cui si realizza la situazione monolingue sono quanto mai
artificiali: occorrono spesso delle operazioni violente di separazione o
sottrazione. Derrida (2004) parla di una triplice dissociazione operata sulla
comunità degli ebrei indigeni di Algeria: dalla lingua e cultura araba e
berbera; dalla lingua e cultura francese; dalla memoria ebraica (a
differenza di altre comunità non esisteva per loro una lingua rifugio,
come il ladino o lo yiddish). Ciò di cui parla Derrida è un dramma
vissuto da decine di migliaia di persone e le cui conseguenze sono
descritte dal filosofo nei termini di una “turba dell‟identità”. Un
disturbo dell‟identità, per essere veramente tale, è sempre collettivo: se
all‟individuo straniero accade spesso di vedersi improvvisamente
ritirare la cittadinanza (tale evento ha inesorabilmente effetti distruttivi
per la mente di una persona), è mai accaduto un fatto del genere a un
gruppo in quanto tale? La rarità dell‟evento e la sua estensione a tutti i
membri di quel gruppo rendono irreparabile il danno arrecato al senso
di identità culturale. La cittadinanza francese ottenuta dagli ebrei
d‟Algeria nel 1870 era stata loro tolta dalla Francia collaborazionista di
Pétain, e poi riconsegnata successivamente. L‟ablazione della
cittadinanza era durata due anni. I giovani “ebrei indigeni” erano stati
resi estranei alle radici della cultura francese, anche se il francese era la
loro unica lingua, il loro unico sistema d‟istruzione. C‟era quindi una
lingua ma non c‟era una cultura, perché “per tutti il francese era una
lingua considerata materna, ma la sua fonte, le sue norme, le sue regole,
la sua legge erano situate altrove” (ibidem, p.50). Derrida parla a tale
proposito di “incultura radicale”.
Questo disordine collettivo, a seguito di un atto di sottrazione ripetuto,
si riflette poi a livello individuale. Un effetto è la nevrosi della lingua
unica, della lingua pura, che segna per sempre il filosofo nell‟atto dello
scrivere: egli si sente come se fosse l‟ultimo erede della lingua francese,
il solo al quale essa confida i suoi segreti, quelli della sua purezza; gli
sembra di essere perso o condannato fuori da essa, e di padroneggiarla
quanto più ne aumenta le resistenze alla traduzione, spingendosi fino al
paradosso dell‟intraducibilità intralinguistica (convinzione che un testo
scritto da lui in puro francese non possa essere riformulato in un altro
francese meno puro).
Dopo aver mostrato con un esempio storico l‟indesiderabilità della
lingua unica (e anche la sua antinaturalità e anticulturalità) passiamo a
un esempio mitologico. Abbiamo trovato tracce di un mito in qualche
modo inverso a quello di Babele. Iatiku, la divinità madre degli Indiani
Akoma, un gruppo nativo delle mesas americane, moltiplicò le lingue
perché vide che gli uomini, avendo una lingua unica, passavano il
tempo a trucidarsi (Crystal, 2009). Questo mito è interessante perché
anteriore all‟arrivo degli Spagnoli, e dunque alla diffusione del testo
biblico tra i sopravvissuti Akoma. Il punto di partenza e il punto
d‟arrivo dei due racconti sembrano però gli stessi: se all‟inizio esiste la
lingua unica, parlata da tutto il genere umano, alla fine c‟è la
moltiplicazione delle lingue; invece, l‟intenzione della divinità e il suo
rapporto con la lingua degli umani appaiono molto diversi nei due
esempi: nel testo biblico la divinità interviene per mettere fine a un
progetto umano di usurpazione della sovranità teocratica, e dunque per
annientare la capacità degli uomini di parlarsi, organizzarsi – li disperde
linguisticamente, in modo che non possano più rimettersi insieme; nel
mito akoma l‟operazione compiuta dalla divinità è invece quella di far
cessare le liti sanguinose tra gli umani, per instaurare una capacità
diffusa di intercomprensione e mediazione tra i gruppi. Quella di Iatiku
non è una punizione né una sanzione invidiosa, ma un dono, un
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provvedimento salvifico per permettere agli uomini di ottenere la pace
interpretandosi. Il mito fa vedere che per trovare un accordo bisogna
saper parlare, ovvero saper interpretare molte lingue15.
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0.8 - Torniamo alla situazione clinica ordinaria, non implementata da
un dispositivo di mediazione, in cui il singolo operatore dei servizi ha
di fronte il paziente straniero. Alla luce di quanto abbiamo appena
scritto, non ci dovrebbe più sembrare una cosa naturale l‟idea di fare
tutto il colloquio in italiano, anzi dovrebbe apparirci come una
manovra simile a quelle di tipo dissociativo cui faceva riferimento
Derrida. Infatti la costruzione di un ambiente operatorio monolingue
comporta delle azioni contro l‟altro come la separazione della persona
dalle sue lingue, teorie, oggetti, da tutto ciò che ha contribuito a
fabbricarlo come essere umano specifico (Nathan, 1994, 2001).
Affermare che l‟italiano è la monolingua obbligatoria per lo scambio è
spesso il primo passo per poi imporre all‟altro esclusivamente le teorie
e gli oggetti del clinico. Del resto, questo rischio è così forte da
continuare ad esistere anche qualora si utilizzino gli interpreti senza
possedere una teoria clinica della traduzione.
Una proposta metodologica fondamentale dell‟etnopsichiatria è quella
di introdurre nella situazione duale operatore-paziente la mediazione
etnoclinica. Per noi, tale ingiunzione significa l‟apertura del setting
clinico agli interpreti e alle altre figure interessate a questo tipo di
approccio.
L‟assunzione del principio di moltiplicazione (visto all‟opera negli esempi di
genere sociolinguistico, storico, mitico) può portare a una pacificazione
perché costringe i vari attori a confrontarsi sugli enunciati teorici
veicolati dalle diverse lingue, ma poi a cooperare per trovare una
Analizzando il racconto della torre di Babele abbiamo avanzato l‟idea che la divinità
non sottrae agli uomini la capacità di parlare una lingua (il testo biblico descrive un
mondo pre-babelico già popolato da razze parlanti lingue diverse) ma quella di
interpretare le tante lingue dei gruppi umani (Inglese, 2009).
15
soluzione intermedia possibile16. Le lingue stesse, mettendosi
reciprocamente in tensione lungo i sentieri tortuosi della traduzione,
devono superare la loro chiusura strutturale e funzionale per aprirsi alle
altre. Dalla traduzione, che mette in rilievo i punti di divergenza
concettuale, si può arrivare alla mediazione che consiste, invece, nella
costruzione di punti di convergenza concettuale tra mondi diversi
(Inglese, 2009). Chiedendo a un paziente maghrebino se è convinto
che gli altri possano „vedere‟ i suoi pensieri – nell‟ipotetico tentativo di
esplorare il suo vissuto delirante rispettando gli algoritmi raccomandati
dal DSM IV-TR – ci accorgiamo che non possiamo usare il verbo
vedere (šaf) per rendere quella frase. Altrimenti facciamo delirare il
traduttore che, in condizioni „normali‟ (cioè parlando per proprio
conto e non per conto di un gruppo clinico), non avrebbe mai reso il
“pensiero” oggetto del verbo “vedere”. Questo è il primo livello di
difficoltà e riguarda la traduzione (decisione su che cosa usiamo al
posto di šaf); il livello più avanzato è quello che ci obbliga a cambiare
formulazione e tipo di domanda, muovendoci verso un piano
concettuale più complesso e attinente alla problematica espressa dal
paziente. Tale livello richiede di confrontare lingue e sistemi di
pensiero impegnati nel dialogo fino a trovare una soluzione discorsiva
e concettuale condivisibile nei vari mondi culturali che partecipano
all‟interazione. Nell‟esempio dato possiamo prendere in considerazione
il fatto che la nozione di delirio esiste anche nella lingua araba, sebbene
formulata in termini diversi dai nostri e secondo un altro modo di
esperienza; se il paziente e il suo gruppo non intendono far propria
nessuna delle definizioni di disturbo delirante reperibili nelle lingue a
disposizione, allora si dovrebbe cercare da un‟altra parte, muovendo in
direzione di altre aree semantiche più calzanti rispetto ai vissuti delle
persone, anche se meno riconoscibili da un punto di vista
psicopatologico formale. Occorre creare una comparabilità tra saperi,
Per una definizione polemologica della mediazione, vedi Casadei, Festi e Inglese
(2005).
16
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definire una zona intermedia dove si possano costruire concetti ibridi,
temporaneamente validi e acquisibili da parte del gruppo paziente.
Riassumendo, la proposta dell‟etnopsichiatria sarebbe quella di
sostituire all‟esercizio duale, monolingue e intersoggettivo della terapia
una macchina clinica plurilingue, dove le varie funzioni indispensabili al
colloquio clinico – ivi inclusa quelle di traduzione e mediazione – siano
pensabili come le funzioni di un collettivo multiprofessionale e
multiculturale.
Altre valide ragioni per mettere in moto una macchina del genere sono
la visibilità delle entità e la connessione ai gruppi:
a) Visibilità delle entità: il dispositivo di mediazione plurilinguistico
consentirebbe di vedere oltre l‟orizzonte di un unico sistema di
pensiero, culturale e clinico. Nella situazione monolingue i concetti
dell‟altro rimangono invisibili perché nascosti dietro la linea
dell‟orizzonte epistemico (ognuno di noi prende meno in
considerazione ciò che la sua lingua non nomina). Se utilizziamo lingue
diverse, confrontandole e parlando non solo per mezzo della lingua ma
intorno e sulla lingua (de Pury Toumi, 1998), appariranno nuovi
fenomeni ai confini del campo clinico. Si potrà anche lavorare in
italiano, se necessario, soprattutto quando la pratica dell‟operatore avrà
ormai incorporato questa abitudine alla comparazione e alla controversia,
perché a quel punto l‟italiano sarà pensato come vettore aperto,
connesso ad altre entità linguistiche che sarà possibile nominare,
richiamare durante la seduta. L‟operatore, anche in assenza di
interpreti, deve sapersi mantenere saldamente in questa posizione
dinamica di avvistamento.
b) Connessione ai gruppi: la lingua funziona come un elemento di
chiusura/apertura del gruppo sociale: “chiude gli scambi del gruppo
verso l‟esterno e al tempo stesso apre lo scambio di parola e di discorso
al suo interno, contribuendo insieme ad altri elementi culturali
(concezioni del mondo, organizzazione sociale, tecniche di governo e
di adattamento alla realtà materiale) a generare un collettivo umano
intorno a nuclei di affinità e identificazione reciproca. Se i pazienti si
esprimono nella loro lingua originaria si avvantaggiano degli effetti di
apertura verso il gruppo culturale di appartenenza con i quali
ripristinano un contatto funzionale” (Inglese, 2009, p.5). Senza il
mediatore il problema non è tanto quello di perdere la capacità di
comunicare con il singolo soggetto, ma di non riuscire più a
connettersi con il suo gruppo. La lingua è una formidabile risorsa
clinica proprio perché non è soltanto uno strumento di comunicazione:
essa fonda le relazioni umane. Inoltre è un oggetto con statuto di
esistenza anfibio, tra psiche e mondo, tra individuo e gruppo: forse qui
sta la sua forza di leva terapeutica e trasformativa.
0.9 - Il seguente bozzetto clinico ci fa capire quanto possa essere
problematico scegliere quali lingue utilizzare nei colloqui con i pazienti
stranieri. La scelta della lingua è cruciale nella definizione di quali
“mondi” (Inglese, 2006) e “attaccamenti” (Nathan, 2001) si riusciranno
ad esplorare. Infatti le dinamiche interne al sistema-paziente sono rese
visibili, e risultano diversamente trattabili, anche in relazione
all‟oggetto-lingua selezionato dal dispositivo. Nel corso delle sedute si
scoprono universi familiari e linguistici estremamente complessi –
quasi caotici in certe loro manifestazioni – di fronte ai quali la scelta
della lingua operata a monte del processo clinico andrebbe rivista, per
valutare se essa è in sintonia con le dinamiche trasformative che si
vorrebbero innescare.
Di fronte a una giovane paziente maghrebina la scelta dell‟arabo
dialettale potrebbe quasi sembrare obbligata. Eppure ci sono aspetti
linguistici e culturali che vanno continuamente approfonditi affinché
clinica e traduzione avanzino accoppiate in un unico processo. Pur
trattandosi di un caso clinico, ci concentreremo su altri fenomeni
interessanti, convinti che tale omissione lasci intatto il ragionamento.
Jamila è una ragazza molto esile, dai lineamenti delicati; è nata da una
famiglia berbera in un villaggio del sud del Maghreb; il padre e la madre
hanno avuto dopo di lei altre due figlie, la più piccola in Italia. La
paziente viene alle sedute accompagnata dalla madre: c‟è un legame
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molto stretto tra loro come se facessero fatica a separarsi. Sappiamo
che a casa Jamila è spesso silenziosa, cerca la vicinanza fisica della
madre, dividendo con lei i lavori domestici e i momenti di riposo.
Anche di notte il filo che le tiene legate non si spezza: quando la figlia
sta per avere una crisi, la madre puntualmente fa dei sogni premonitori
la notte prima. Il giorno della crisi non si allontana mai da lei, pronta a
soccorrerla appena distingue i sintomi anticipatori. C‟è un‟altra cosa
che rende Jamila così attaccata alla madre: la lingua araba dialettale che
la madre ha voluto trasmetterle, credendo di darle un futuro migliore;
conoscendo solo il berbero sarebbe stato molto difficile per lei studiare
– nelle scuole in Maghreb si usa esclusivamente l‟arabo – e trovare un
lavoro in città. Poi la famiglia è emigrata in Italia e a quel punto la
lingua che avrebbe aperto le porte dell‟avvenire è diventata un‟altra. Le
sue sorelle hanno colto con naturalezza questa possibilità, ma lei no.
Per Jamila la comunicazione con le due sorelle è complicata, a causa
della differenza di età e di carattere – viene vista da loro quasi come
una vecchia zia rimasta nubile – ma anche perché loro vanno a scuola e
si parlano spesso in italiano mentre lei ha fatto pochi progressi da
quando è in Italia: la sua malattia e le paure della madre le hanno
impedito di uscire di casa, trovare un impiego, frequentare amicizie
italiane; le rare volte in cui vince il timore di essere presa in giro e trova
lo slancio per chiedere alle sorelle di farla partecipare alla
conversazione, queste si rifiutano, non essendo abituate a parlare con
lei in italiano. È infatti in berbero che si rivolgono normalmente alla
sorella maggiore e ai genitori. Jamila utilizza il darija (arabo
maghrebino) per parlare con la madre e il berbero con gli altri membri
della famiglia. Le sorelle minori, vergognandosi talvolta per il loro
darija approssimativo, rimproverano alla madre di aver insegnato
l‟arabo soltanto alla primogenita. Abbiamo qui dunque una situazione
carica di gelosie linguistiche intrafamiliari che accentuano la rivalità tra
sorelle, e allo stesso tempo esiste una lingua, l‟arabo dialettale, che
funziona come elemento di chiusura e protezione rispetto a una
relazione esclusiva, di dipendenza, tra madre e figlia. La lingua della
madre (poiché scelta e trasmessa soprattutto da questa), che in origine
doveva facilitare gli scambi con il mondo esterno e permettere alla
figlia di uscire dalla realtà ristretta del villaggio, ora – dopo la
migrazione – è destinata unicamente alla comunicazione tra le due
donne, come un codice fatto apposta per condividere segreti; neppure
il padre di Jamila, benché bilingue (arabo-berbero), viene ammesso
facilmente in questo spazio arabofono riservato.
Le dinamiche interne alla famiglia non bastano a spiegare questi
fenomeni comunicativi, le cui ragioni profonde vanno ricercate su
entrambe le sponde del Mediterraneo, tra le pieghe di una storia
plurisecolare e interetnica. Forse questo caso può essere letto solo
dandosi la pena di sfogliare le pagine tormentate di un atlante storicoculturale e linguistico che non trova mai la sua scrittura definitiva,
perché la migrazione tiene sempre in movimento popoli e lingue, non
lasciandoli mai fermare negli stessi luoghi troppo a lungo. In questo
caso la mediazione in darija è fondamentale perché ci permette di
entrare nel lessico familiare sviluppato da madre e figlia intorno al
problema della malattia; inoltre fa emergere il tipo di comunicazione
esistente tra le due donne e il funzionamento singolare della loro
relazione; d‟altra parte, se il dispositivo si concentra solo sul darija
rischia di assecondare il movimento di chiusura della coppia. Pensiamo
quindi che sia utile una doppia operazione di apertura: far partecipare
alle sedute gli altri membri della famiglia, favorendo la circolazione e lo
scambio delle lingue all‟interno del gruppo.
Un‟altra cautela necessaria quando si selezionano le lingue da utilizzare
in seduta, è quella di non affrettare la presa sul nucleo culturale.
Conviene di più un‟approssimazione graduale a questo nucleo, magari
servendosi di una lingua veicolare che non contrasti il paziente rispetto
ai vincoli originari di identità e appartenenza. Il vantaggio di una lingua
siffatta (l‟inglese o il francese per l‟Africa Occidentale) è quello di
permettere al paziente di sentirsi a suo agio nel comunicare, senza
costringerlo a prendere troppo presto una posizione all‟interno del
dispositivo terapeutico. Chiameremo allora lingua di mediazione una
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varietà che venga impiegata per lavorare in situazione transculturale,
indipendentemente dal fatto che si tratti di una lingua matrice o
veicolare.
Proponiamo inoltre il concetto di timing – non riferito in questo
contesto alle interpretazioni (modello psicoanalitico), ma all‟utilizzo
delle lingue nello scambio clinico. L‟avvicendamento delle lingue di
mediazione, dalla veicolare, più esterna alla matrice culturale della
persona, a quella più prossima al suo nucleo culturale, può richiedere
un tempo di maturazione, di consolidamento della relazione. Un
passaggio troppo rapido o immediato alla lingua matrice, soprattutto se
non c‟è un rapporto stabile di collaborazione tra operatori clinici e
mediatori, potrebbe anche provocare nel paziente una reazione di
rifiuto o minaccia. Naturalmente occorre valutare caso per caso, perché
le configurazioni possibili sono innumerevoli.
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RIASSUNTO
La molteplicità babelica delle lingue propria delle società complesse
viene qui assunta come elemento centrale di una clinica
etnopsichiatrica aperta alle avventure della globalizzazione. Il
ragionamento degli autori cerca di andare oltre il tema della traduzione
e del modello intersoggettivo della mediazione (paziente-mediatoreterapeuta) per affrontare invece la questione di come si possa curare
l‟altro facendo intervenire le lingue (parlate dal gruppo-paziente e dal
gruppo-operatore) come strumenti di lavoro clinico. In antitesi con la
monolingua, che esercita sempre una forma di terrore sull‟altro, il
dispositivo di mediazione si configura come macchina clinica
plurilingue in grado di costruire delle connessioni nuove con i gruppi e
i contesti d‟origine del paziente. Gli autori propongono un uso
differenziale delle lingue nel setting clinico a seconda del gruppopaziente che si ha di fronte. Nel caso di famiglie migranti dove si lavora
con genitori e figli insieme non si utilizzerà solo la lingua matrice per
parlare con tutti i membri, ma si prediligerà una comunicazione
bilingue per mettere in rilievo il cambiamento culturale cui va incontro
l‟intero gruppo migrante.
PAROLE CHIAVE: Lingue, Mediazione etnoclinica, Teoria della
traduzione
SUMMARY
Multilinguism has become a common factor in complex societies, and
must be valued as a crucial element in a clinical ethnopsychiatric
perspective, that aims to be open to the adventures of globalisation.
This argument leads the authors to think beyond the concept of
translation and the triadic model of mediation (patient-mediatortherapist), to find out how languages, a multiplicity of languages, can
be used in clinical work. In opposition to monolinguism, that always
exerts a form of terror on the other, mediation works as a clinical
plurilinguistic device, that is capable of building new connections with
the groups and contexts of origin of the patient. The authors propose a
differential use of languages within the clinical setting, according with
the group which has to be met. In the case of immigrant families, when
the team in charge works with parents and children together, bilingual
communication will be preferred to using only the “matrix” language,
in order to lay emphasis on the process of cultural changing that the
whole immigrant group is going through.
KEY WORDS: Languages, Ethnoclinic mediation, Translation‟s
theory
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Quattro passi per strada
__________________________________________________
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Carmelo Conforto17
Recensione
La signorina che faceva HARA-KIRI e altri saggi
Di Franco Borgogno
BOLLATI BORINGHIERI, TORINO, pag. 332, E. 28,00
Franco Borgogno prosegue, con questo ultimo libro (e come scrive
nel cap. 11), la descrizione del suo modo di essere psicoanalista.
Un modo in movimento, un cammino che esprime il suo senso non
definendosi in maniera dogmatica, pur nella coerenza di un percorso
che, come l'Autore ricorda (p.65), è attento a integrare gli accadimenti
dell'ambiente di crescita con il peso dei processi introiettivi del
paziente.
Il tragitto, gli avvenimenti relazionali, quelli interiori, i dialoghi, i
pensieri che via via si susseguono, marcano le stazioni del viaggio dello
psicanalista, dell'uomo Franco Borgogno, divenendo il contenuto dei
suoi scritti, anche di questo, come ci ha abituati.
Il libro ha preso vita dentro di me quando, credo in maniera ancora
più intensa rispetto ad altre opere di Borgogno, mi sono ritrovato in
contatto con Franco e M., la giovane paziente schizoide deprivata, nella
ostensione della loro così ineffabile intimità.
Non è la prima volta che M. e Franco mostrano se stessi al lettore, a
me, poichè M. pare offrire al suo analista, così fortemente collocata
dentro di lui, una ininterrotta stimolazione affettiva che lo spinge a
riflettere e a rileggere nell' après-coup, a proporre un modello di lavoro
che si fortifica e che lo spinge a cercare interlocutori.
17
Psicoanalista SPI
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Il mio tentativo di proporre una "recensione" del libro si incontra
allora con un‟incalzante sequenza di temi che l'autore espone, accenna,
ribadisce, accompagnati dalle osservazioni dei tanti commentatori
presenti nel libro.
Scelgo di soffermarmi sul capitolo 6, "Sulla << morte psichica>>", ove il
tema che Borgogno affronta (evocando in me la percezione di una
sintonica simpatia) è la inevitabilità che in situazioni simili a quelle di
M., in cui il tema della morte psichica si pone come immanenza
allarmante, sfiduciante, allontanante, l'analista si trovi a dolorosamente
convivere con " i sentimenti traumatici che siamo chiamati a esperire"
(p. 169).
M., si presenta al suo analista con un sogno di (apparente) morte,
l'uomo giapponese che fa hara-kiri di fronte a lei.
La storia traumatica della giovane donna, che avrebbe invaso la
relazione analitica, è "una storia traumatica di svuotamento di pensiero
e di emozioni che si ripete e non puoi fermare". Con essa, su di essa,
nelle sue complesse espressioni transfert-controtransfert, si svolge il
percorso che Borgogno ci mostra.
L'autore evidenzia la estrema diffidenza presente nei pazienti con
questo livello di sofferenza nei confronti dell'analista che,
avvicinandosi, riesce a cogliere "la terribile fame di amore nascosta
dietro all'essersi sottratti agli scambi umani".
E' allora il conflitto tra una fame implacabile e il terrore di una nuova
delusione che definisce il modo in cui il paziente e l'analista
sperimentano il tentativo di stare insieme.
Accanto a loro, dentro loro, un continuo viaggiare di introietti e
proiezioni attraverso i quali il fallimento traumatico dei caregivers (quelli
del paziente, forse non solo quelli) si ripropone instancabile, nelle varie
forme della relazione analitica, incluso il modo che Borgogno chiama
rovesciamento dei ruoli: la sofferenza che l'analizzato chiede all'analista di
sperimentare come se fosse il bambino esposto alla minaccia mortifera
della madre (p.39, p.251).
E' nel paragrafo scritto in collaborazione con Massimo Vigna-Taglianti
(Il rovesciamento dei ruoli: un << riflesso>> dell'eredità del passato piuttosto
trascurato) che ho trovato riflessioni su cui vorrei invitare il lettore a
soffermarsi. Queste pagine sono una straordinaria sintesi del modo che
Borgogno ha raggiunto nel considerare la funzione dell'analista in
rapporto a pazienti gravemente deprivati, non ancora approdati a
padroneggiare il simbolico.
Con essi il contatto è soprattutto con ciò che non è verbale,
pensabile18, delegato a emozioni non ancora dotate di significazione,
che invadono il campo analitico, coinvolgendo l'analista nella faticosa
ricerca di senso e sorprendendolo in "messe in atto reciproche".
Nel commento al caso clinico, Jonathan Sklar19 propone questa
riflessione: "Ogni analizzando scruta sempre l'analista allo scopo di
testare se egli, in linea di massima, sia davvero capace di riconoscere le
sue esperienze primitive, se esse in pratica rientrino nel repertorio di
strumenti che lui ha a disposizione per comprendere l'esistenza umana
e gli siano almeno per certi versi familiari" (p. 136).
Inaspettatamente, forse, avevo trovato in uno scritto della
O'Shaughnessy (1981)20 delle riflessioni che si muovono nella stessa
direzione: "I bambini fanno indagini sulla capacità di reverie
dell'analista e portano materiale allo scopo di vagliare se è in grado di
pensare, notare, ricordare, capire la differenza tra verità e menzogna, e
di comprendere emotivamente, in contrasto con una comprensione
meccanica e teorica".
In effetti la verità di queste affermazioni non può, ritengo, prescindere
dalla nozione di trauma, inteso (sopratutto, in questo libro) come la
18 Gli autori scrivono: " Il trauma per essi consiste proprio nel fatto che non è
accaduto quello che sarebbe dovuto accadere", facendo riferimento agli scritti di
Ferenczi, Winnicott, Borgogno stesso.
19 “Il silenzio: memoria traumatica e mezzo di comunicazione”, in Cap. 5 "Il processo
di working through nell'hic et nunc e nella << lunga onda>> dell'incontro analitico”.
20 "La teoria del pensiero di Bion e le nuove tecniche in analisi infantile" in : E.Bott
Spillius (a cura) "Melanie Klein e il suo impatto sulla psicoanalisi oggi", Astrolabio,
1995.
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condizione esistenziale al quale è stato esposto dai caregivers il bambino,
e di cui dialogano Dina Vallino e Franco Borgogno nel cap. 7.
Il paradigma di base è che molti "comportamenti non costruttivi e non
vitali dei bambini e adolescenti" sono dovuti non al loro corredo
pulsionale ma "a qualche forma di grave sofferenza causata da una
noncuranza ambientale" (così come Ferenczi, Balint, Winnicott, i più
ricordati, avevano colto).
Necessariamente, sottolinea Dina Vallino, "La stessa nozione di
trauma porta (..) a rivisitare l'idea psicoanalitica dell'intrapsichico e
dell'interpersonale" (p. 209).
E' in questa condivisibile prospettiva che l'attenzione si centra sul
modo d'essere dell'analista. Dina Vallino scrive (p.194) che "il divenire
un buon analista con pazienti traumatizzati richiede anni e anni molto difficili di
lavoro", e Borgogno si chiede (p.197): "come essere analisti" con chi ha
interiorizzato un oggetto deprivante.
Questi rilievi, la cui risposta è ancora parziale, rimanda a quello che
Binswanger nel 1925 scrisse a Freud21: "Il problema di sapere che cosa
mi mette nello stato di interpretare è per me più interessante di fare una
interpretazione giusta", non ricevendo da Freud una risposta
soddisfacente.
Nel libro, Borgogno e chi ha scritto con lui, sollevano, direttamente o
in maniera implicita, la medesima domanda: quali sono gli elementi
personologici, storici, elaborati nell'analisi didattica, nelle supervisioni, nelle
riflessioni (come quelle presenti nel volume) che ci mettono nello stato di affrontare,
tollerare, sopravvivere (assieme al paziente) ad esperienze analitiche così estreme?
Cosa mette l'analista nella condizione di poter riconoscere il dolore del
paziente, gestirlo, "e attraverso quali lotte e compromessi perviene a
conviverci, a darvi un nome, a elaborarlo e, se possibile, a superarlo"
(p.294).
Cosa permette, infine e sopratutto, all'analista di accogliere in analisi,
nella sua vita, un tale paziente.
21 S. Freud, L. Binswanger " Correspondance" 1908-1938, Calmann-Lévy, 1995
In un mio lavoro, scrivendo sulla ragione del perché io e quella così
grave paziente avevamo deciso di lavorare insieme22, avevo parlato
della speranza ricordando la proposta di Bion: "Le 'paure' sono opache
come le 'speranze'. La speranza è diversa dal desiderio? Si, come i nodi;
è desiderio+tempo"23.
Borgogno (p.299) ritorna su questa dimensione dell'umano parlando
di se stesso uomo e analista, suggerendo che "la fede, la speranza e
altresì la carità soggiungono lentamente dall'impegno che uno ha
profuso nella sua vita, e che bisogna vivere appieno la vita per poterle
possedere e potervi credere".
Borgogno non propone solo questo interrogativo, ma un secondo,
fondamentale, quello che siamo in qualche modo costretti a porci
quando pazienti al limite ci chiedono (nei loro modi) di essere con loro.
E' lecito immaginare (a me succede) che nell'uomo persista, anche
dove l'incontro primario è stato così carico di delusioni traumatiche
(come nella paziente di Borgogno), quella pre-concezione (condizione
d'attesa) del "seno", di cui parla Bion (196224), ovvero di un
contenitore psichico sufficientemente vivo e accogliente, di cui, come
riprende Grotstein ( 200725) "un aspetto è saturo; l'altro è insaturo,
quella parte disponibile ad accogliere l'esperienza".
Scelgo, nel lungo racconto della vicenda tra Franco e M., a conferma,
l'episodio del quarto anno d'analisi, (di cui anche ho parlato in una
precedente recensione26) in cui la 'signorina' disse che "faceva
quadrato" riferendosi apparentemente ad una situazione di lavoro. In
quel momento passò un camion, nella strada sottostante, con un gran
boato. L'analista rispose con una comunicazione che sembrò sfuggirgli,
stupendolo:<< Un rombo come risposta al quadrato>>. La paziente
22 C.Conforto, 2010, "Quando il tempo della morte entra in analisi" Atti XV
Congresso Nazionale SPI, Taormina.
23 W. Bion, 1992, "Cogitations", Armando, Roma, 1996.
24 W. Bion, 1962, "Apprendere dall'esperienza", Armando, Roma, 1972.
25 J. Groststein, 2007, " Un raggio di intensa oscurità", Cortina, Milano, 2010.
26 C. Conforto, 2003, 'Recensione di : L. Rinaldi (a cura ) " Stati caotici della mente",
Rivista di Psicoanalisi, XLIX, n° 3'.
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rise, dicendo che il terapeuta aveva proprio usato parole sue
"riconoscendo-scrivevo-l'unicità dell'altro, l'ipseità, proseguendo così
quell'indispensabile percorso che la porterà a disentificarsi dall'oggetto
deprivante".
Proseguendo anche, aggiungo, il cammino verso il riconoscimento
dell'esistenza dell'oggetto psicologico di cui permaneva in lei
l'aspettativa, la speranza.
In questo modo, è noto, Bion propone avvenga il passaggio dalla preconcezione alla concezione di un oggetto (introiettabile) , vivo, capace di
contenimento e dotato di una mente che pensa e permette di
apprendere a pensare.
Ancora due parole sul tema della sessualità, che nel volume non tende
a configurarsi come "conflittualità edipica", considerata come non
ancora ammessa in quei pazienti poiché (riprendendo sopratutto
l'intervento di Carlos Nemirovsky, p.82), "la problematica in cui si
inquadra il loro disagio è di tipo bi-personale e non triangolare".
Indubbiamente chi ha esperienza di pazienti gravi, deprivati, concorda
con ciò che Borgogno precisa (p. 99), avendo toccato con mano " cos'è
un transfert centrato sul bisogno e in che cosa questo si diversifichi
dal lavorare con il transfert di desiderio"27.
A questo proposito aggiunge, riprendendo Ferenczi, quanto della
traumaticità connessa alla relazione bambino-caregivers sia espressione
della tensione incestuosa che è presente in essi (p.272).
Questa osservazione mi rimanda in particolare al contributo dello
picoanalista ungherese "La confusione delle lingue tra adulti e
27 Non mi è certo possibile in questa sede avventurarmi in riflessioni e posizioni
analitiche che affrontano da angolazioni diverse questo tema fondamentale. Mi limito a
ricordare la posizione di Morris Eagle(1998) "Carenze di sviluppo e conflitto
dinamico" (in: POL.it.) che afferma come ad esempio in giovani che hanno subito
blocchi dello sviluppo, pazienti schizoidi o border, si rileva la presenza di conflitti e
angosce tipicamente edipici, spesso saturati da temi e problemi pre-edipici non risolti.
In conclusione la sua ipotesi (peraltro assai nota) è che anche "nei casi di carenza o di
blocchi lo sviluppo psicologico non si arresta su tutti i fronti".
bambini" (193228) in cui un ruolo fondamentale nella teoria
dell'etiologia traumatica viene affidato allo scontro tra le esigenze di
tenerezza del bambino (il linguaggio della tenerezza) e le manifestazioni
di erotismo passionale dell'adulto. L'aggressore- osserva Ferenczi- diviene
oggetto di introiezione e a quel punto "l'evento da extrapsichico diviene
intrapsichico"(p.421).
Aggiunge che in tal modo la vita sessuale "resta involuta o assume
forme perverse"( p.422), come ho avuto modo di cogliere nell'analisi
di pazienti che hanno subìto situazioni traumatiche di quest'ordine ed
in cui la tendenza all'erotizzazione del transfert nascondeva un
inconcluso, non realizzato bisogno (desiderio?) di ritorno a quella che
appunto Ferenczi chiama "la fase della tenerezza" (p.426).29
Mi pare che Borgogno, nella chiarezza con cui esprime il suo
percorso "sul modo d'essere analisti nel XXI secolo", sappia che alcuni
aspetti del nostro lavoro meritano rinnovata esplorazione. In nota a p.
268 annuncia che la via che sente necessario affrontare è quella che
riavvia l'attenzione sulle funzioni analitiche che implicano il
<<materno>> recuperando il << paterno>> e il <<femminile>>
accanto al <<maschile>>.
Nella mia lettura, non necessariamente condivisibile, intendo il
progetto di riprendere e ridefinire alcuni elementi e funzioni
indispensabili a quell'approdo (nel percorso analitico) alla terzità (come
si esprime Green)30, da lui inclusa nella teoria "della triangolazione
generalizzata con un terzo sostituibile".
28 S. Ferenczi, Fondamenti di Psicoanalisi, Vol.III, 1932, "Confusione delle lingue tra
adulti e bambini", Guaraldi , Firenze, 1974.
29 Un lavoro recente di Gaburri, presentato al 1° Colloquio Italo-spagnolo (2011) "
Mito, Passione e Tenerezza" riprende in particolare il lavoro di Ferenczi suggerendo
l'importanza della "corrente di tenerezza" non solo nel rapporto madre-bebé quanto
nel rapporto analista -paziente. Rimando al contributo.
30 A. Green, (2002), " Idee per una psicoanalisi contemporanea", Cortina, Milano,
2004.
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Trovo qui un possibile riferimento a quello che pensa Ronald Britton,
(neo-kleiniano), quando propone il raggiungimento della terza posizione
dalla quale analista e analizzando possono osservare le relazioni
oggettuali (p.66).31
Fermo qui i pensieri e le riflessioni che, come mi accade leggendo
Borgogno, tendono a presentarsi arricchenti, promuovendo confronti
con i modi in cui lavoro (lavoriamo) in analisi e con gli accostamenti e
interrogativi che altri modelli ci sollecitano.
Buona lettura.
96
31 R. Britton, (2000), "Credenza e immaginazione", Borla, Roma, 2006. Non mi
spingerò oltre sui temi che ho accennato, rimandando alle opere citate.
Caro Lettore,
lo spirito con cui è nata la rivista “Il Vaso di Pandora” è stato quello di favorire ed
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Savona (SV), all’attenzione del Dott.ssa Antonella Ferro.
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6. Le citazioni, accuratamente controllate, dovranno apparire tra virgolette doppie
(anche le virgolette usate per fini diversi dalla citazione dovranno essere doppie). I
corsivi originali dovranno essere sottolineati (o meglio riportati in corsivo); i corsivi
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verranno segnalate nel seguente modo: (…). Parole o frasi in lingua diversa
dall’italiano saranno senza virgolette, ma sottolineate (o scritte in corsivo) e seguite,
nel caso, dalla traduzione tra parentesi o in nota.
7. I riferimenti bibliografici nel testo saranno indicati tra parentesi semplicemente
con il cognome dell’Autore, seguito dalla data ed eventualmente dal numero delle
pagine: (Freud 1921, p. 315), ma (Freud A. 1936, p. 58). Nel caso di opere coeve:
(Hartmann 1939a, p.46), (Hartmann 1939b, p. 161). Se gli Autori sono due,
appariranno entrambi: (Breuer e Freud 1893-1895, p.345). Se sono più di due:
(Racamier et al. 1981, p.184).
8. I titoli di libri riportati nel testo saranno sottolineati (o scritti in corsivo). I titoli di
articoli apparsi in riviste o libri saranno citati tra virgolette doppie. Ad ogni riferimento
bibliografico nel testo dovrà corrispondere una voce nella bibliografia finale.
98
9. La bibliografia consiste in una lista, non numerata, in ordine alfabetico, e deve
contenere unicamente gli Autori citati nello scritto.
La voce bibliografica relativa ad un libro seguirà questo modello:
- Wing J.K. (1978): Reasoning about Madness. Oxford University Press, Oxford.
Di seguito, tra parentesi, può essere indicata l’eventuale traduzione italiana con titolo
sottolineato, editore, città, anno; il tutto chiuso da un punto fermo. E’ accettata anche
la citazione del titolo della traduzione italiana, purché tra parentesi, dopo il nome
dell’Autore, figuri la data di uscita del lavoro in originale. La data della traduzione va
in fondo. Es.:
- Wing J.K. (1978): Normalità e dissenso, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 1983.
Le opere di uno stesso Autore appariranno secondo ordine cronologico, con
ripetizione del nome dell’Autore ed eventuale differenziazione con lettera alfabetica
delle opere:
- Freud S. (1923a): Remarks on the Theory and Practic of Dream-Intepretation. S.E.,
19.
- Freud S. (1923b): The Infantile Genital Organization. S.E., 19.
Due coautori appariranno entrambi; se gli Autori sono più di due, può essere citato il
primo seguito da: et al. Un Autore citato come Autore singolo e anche come coautore
apparirà in primo luogo come Autore singolo.
La voce bibliografica relativa ad un articolo pubblicato in volume apparirà secondo
questo modello:
- Wittember I. (1975): “Depressione primaria dell’autismo. John”. In D. Meltzer et al.,
Esplorazioni sull’autismo, Boringhieri, Torino, 1977.
Oppure, quando l’Autore è lo stesso:
- Ferenczi S. (1913): “Stages in the Development of the Sense of Reality”. In First
Contributions to Psycho-Analysis, Hogarth Press, Londra, 1952
La voce bibliografica relativa ad un articolo pubblicato su rivista seguirà questo
modello:
- Servadio E. (1976): Il movimento psicoanalitico in Italia. Riv. Psicoanal. 22, pp. 162168.
10. Il materiale iconografico, sia fotografie, sia disegni, dovrà essere presentato su
singolo foglio e numerato progressivamente in numeri arabi. Le tavole, anch’esse in
fogli singoli, dovranno essere numerate in cifre romane. Sia le tavole sia l’iconografia
dovranno essere richiamate nel testo ed essere accompagnate da una legenda
esplicativa.
La Segreteria Scientifica e di Redazione si riserva di apportare ai testi degli Autori
piccole correzioni, qualora ritenute indispensabili o comunque utili ad uniformare i
testi stessi allo stile della rivista. Ogni qual volta ciò accada, l’Autore ne riceverà
immediata comunicazione.
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IL VASO DI PANDORA – Vol. XIX, N°3, 2011