Intervista a Stefano Manservisi

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Intervista a Stefano Manservisi
Intervista a Stefano Manservisi, Direttore Generale della DG Sviluppo
(Commissione Europea)
La cooperazione internazionale è essenziale per fare dell’UE un attore globale
Il suo curriculum parla da sé: portavoce della Commissione europea nell’era di Romano Prodi, poi Direttore
della Cooperazione UE allo sviluppo, un passaggio alla DG Affari Interni (per occuparsi di migrazioni), un
altro in Turchia per dirigere la Delegazione europea ad Ankara e la nomina nel 2014 come capo gabinetto
dell’Alto Rappresentante dell’UE per la politica estera e di sicurezza, Federica Mogherini. Dal 16 maggio
2016 Stefano Manservisi è tornato ad assumere le redini della DG Sviluppo. Un posto strategico per chi,
come lui, è chiamato a fare del primo donatore al mondo una macchina in grado di raccogliere sfide cruciali
per il futuro della politica estera dell’Unione, tra cui il dialogo con i Paesi partner dell’UE sulle migrazioni e
l’implementazione degli Obiettivi per lo sviluppo sostenibile (SDGs). In questa intervista rilasciata a Vita.it,
Manservisi spiega il perché la cooperazione internazionale deve cambiare pelle.
Direttore, dal Brexit alla minaccia terroristica, passando per la crisi economica e sociale che sta colpendo
molti cittadini europei, l’Europa sta attraversando una fase di depressione acuta. La Commissione
europea, e in particolar modo DEVCO, ha ancora i mezzi per fare e avere un ruolo nell’Azione esterna
dell’UE?
Credo che in una situazione difficile come quella in cui si trova l’Unione Europea oggi, sia necessario
mantenere gli obiettivi e i fondamentali su cui poggia l’UE. Così com’è stato illustrato nella strategia globale
per la sicurezza e la politica estera presentata a giugno dall’Alto Rappresentante Federica Mogherini, è
chiaro che dobbiamo utilizzare gli strumenti in modo coordinato così da poter far emergere un’Europa
unita e farla diventare un soggetto globale più efficace. Oggi il cittadino europeo chiede di più all’Europa,
ma non è convinto di ricevere le risposte adeguate. Il problema non è conoscere poco l’Europa o che
l’Europa sia distante, se ne parla ovunque sul Vecchio continente, perché i problemi a cui sono confrontati i
nostri cittadini sono globali. Oggi più che mai i cittadini dell’UE ci chiedono delle risposte chiare alle loro
preoccupazioni, dalla disoccupazione alla lotta contro il terrorismo passando per i cambiamenti climatici e
una crescita economica sostenibile, perché sanno che queste risposte possono venire soltanto a livello
europeo.
In tale contesto, che ruolo spetta alla cooperazione internazionale nella nuova strategia globale
presentata dalla Mogherini per rafforzare la politica estera dell’Unione?
Se qualcuno pensa ancora che la cooperazione internazionale sia una realtà avulsa dai grandi problemi di
questo mondo, ebbene si sbaglia. Lavoriamo per contribuire a fare dell’Unione Europea un soggetto globale
in grado di raccogliere le sfide che abbiamo di fronte. Non a caso, gli Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs)
adottati lo scorso anno sono obiettivi globali. Questi nuovi obiettivi incarnano un grande mutamento
rispetto ai vecchi Obiettivi del Millennio degli anni 2000. Siamo infatti passati da uno schema in cui si diceva
che la politica di sviluppo - attraverso le policies e i finanziamenti – contribuiva ad aiutare i paesi in via
sviluppo a combattere la povertà, le malattie, l’analfabetismo, ecc., ad un impegno globale comune che
coinvolge tutte le nazioni del mondo nel tentativo di raggiungere i nuovi obiettivi fissati alle Nazioni Unite
nel 2015. In altre parole, siamo passati da un approccio "noi per voi" ad un approccio "noi insieme con voi".
Il sottosviluppo, le ineguaglianze a livello globale, la povertà non sono mai stati problemi che potevano
essere risolti con trasferimenti economici. Certo gli aiuti erano e rimangono importanti. Ma la questione
fondamentale è politica - riconoscere per esempio che un modello di crescita fondato sullo sfruttamento
incontrollato di risorse e persone non può che generare ineguaglianze strutturali - e quindi concerne le
politiche da applicare, basate sul criterio della sostenibilità e dell'inclusività e orientate da scelte di lungo
periodo, come ad esempio quelle relative al cambiamento climatico.
La priorità ora è di identificare i grandi building blocks sui quali l'UE può fare la differenza.
Quali sono questi building blocks?
Sono le grandi priorità su cui è necessario concentrare i nostri sforzi. La prima riguarda le persone, perché
non bisogna mai perdere di vista l’obiettivo centrale: rendere il presente e il futuro di ogni essere umano
migliore. Questa priorità deve rimanere al cuore di tutte le nostre politiche su cui misurare il successo o
l’insuccesso delle strategie e delle iniziative che portiamo avanti. In concreto significa eliminare la povertà,
facilitare l’accesso alla salute e all'educazione, difendere i diritti fondamentali, e in modo generale restituire
dignità alle persone. In secondo luogo ci sono tutte le problematiche attinenti allo State Building, cioè alla
capacità del cittadino di darsi delle istituzioni che in modo credibile possono contribuire alla pace e alla
stabilità, alla gestione dei flussi migratori, ad una governance che evolva in modo chiaro verso la
democrazia e il rispetto dei diritti dell’uomo. Il terzo blocco riguarda lo sviluppo sostenibile che implica
un’interazione con le risorse naturali totalmente diversa rispetto all’era industriale, puntando sull’energia
rinnovabile. Tutto quello che è stato fatto a COP21 non ha chiamato soltanto in causa la questione
energetica, ma la relazione del genere umano con la Terra, con l'ambiente in cui viviamo. La quarta priorità
è la creazione di posti di lavoro, di occupazione sostenibile, specialmente per i giovani che sono la
maggioranza specialmente nei Paesi del Sud del mondo. Basta guardare al gap demografico che verrà a
crearsi nei prossimi vent’anni tra l’Europa e l’Africa. Il tempo del trasferimento di risorse a mo' di
compensazione per il divario di benessere è finito. Oggi bisogna rafforzare un modello di crescita
sostenibile attraverso il quale creare posti di lavoro, soprattutto a favore dei giovani che sono ormai una
maggioranza nel “Sud del mondo”. L'aiuto finanziario, pur necessario, non è sufficiente e comunque deve
essere utilizzato sempre più come un catalizzatore di iniziative.
I quattro pilastri che Lei ha appena menzionato saranno al cuore del nuovo Consensus europeo sul quale
la Commissione europea sta lavorando?
Certamente. Il Consenso in vigore dal 2005 era stato adottato sulla base degli MDGs, prevedeva azioni
misurabili per quegli obiettivi e mirava a fare in modo che l’Unione Europea, il più grande donatore al
mondo, lavorasse come fosse un’unica entità. Era la logica che sottindeva l’aid effectiveness. Oggi
naturalmente la situazione è profondamente cambiata,gli SGDs sono il nuovo punto di riferimento con un
approccio globale a sfide globali. Siamo quindi confrontati alla necessità di trovare un nuovo Consensus che
permetta di ridefinire la politica europea di sviluppo. E’ altresì necessario costruire sull’agenda dell’aid
effectiveness una vera azione comune europea sul terreno. Joint action e non solo joint planning.
Sui tempi come siamo messi?
Il documento verrà presentato in novembre con l’obiettivo di arrivare a un accordo tra le tre istituzioni
europee nel 2017. Sui tempi c’è flesibilità, l’importante è che questo processo sia inclusivo. L’Europa deve
ritrovare la sua unità e mandare un segnale molto forte al mondo.
Parlando di inclusività, la consultazione è stata aperta anche agli stakeholders di DEVCO, tra cui la società
civile, per raccogliere idee, commenti e suggerimenti. E’ prevista una consultazione anche sul testo che
verrà adottato?
Nel momento in cui il testo verrà adottato dalla Commissione, esso verrà introdotto nel percorso interistituzionale dell’Unione per arrivare ad un accordo finale con la società civile e con i Paesi partner. Ci tengo
tuttavia a sottolineare che in parallelo apriremo un dialogo strutturale.
Come vede oggi il ruolo della società civile? Più da watchdog oppure come service provider?
Ho coltivato e continuo a coltivare un’ammirazione notevole nei confronti della società civile europea che,
nei momenti più difficili della cooperazione allo sviluppo, e penso in particolar modo al nostro Paese, si è
sempre illustrata per la sua grandissima generosità in termini di creatività, attivismo e volontarismo.
Nonostante i pochi mezzi a disposizione, le ONG sono state protragoniste di esperienze di eccellenza, come
quelle portate avanti da Medici con l'Africa CUAMM, giusto per citarne uno, ma la lista è lunga. Oggi
l’interazione con la società civile a livello europeo si deve fondare sul rispetto dei ruoli reciproci. Avere un
watchdog che mi critica, mi stimola e mi chiede conto delle cose che si fanno mi sembra altresì necessario.
Non nascondiamoci dietro un dito, oggi ci sono fenomeni di razzismo, di xenofobia, di paura, di mancanza
di coraggio per guardare lontano, che soltanto una società civile forte può permettere di controbilanciare.
La società civile è un punto di riferimento fondamentale per l’Europa e le sue relazioni con il resto del
mondo. Da cui la mia volontà di garantire un dialogo forte, chiaro e inclusivo con i suoi attori.
Oggi il blending appare come uno dei strumenti finanziari che l’UE intende privilegiare. Quale sarebbe il
ruolo della società civile in questo caso?
Il blending è uno strumento importante per creare massa critica finanziaria, per stimolare investimenti e
creare sinergie, ma non è certo un fine in sé.
Il ruolo della sua società civile per promuovere e implementare progetti di sviluppo rimane molto
importante, anche perché gli strumenti finanziari messi in campo devono sempre avere al centro
dell’attenzione le comunità di base. Detto questo, pensare la società civile come semplice beneficiario di
fondi è riduttivo. Anche per strumenti come il blending che sembrano essere più lontani dagli strumenti a
cui le ONG hanno solitamente accesso, è necessario mantenere un dialogo non solo sulla scelta dei progetti
sostenuti dal blending , ma soprattutto sulle policies. E’ quello che definisco un “sustainability check”, il
controllo delle policies portate avanti dall’Unione Europea e dai suoi Stati Membri in tema di cooperazione
allo sviluppo, dove la sosteniblità sta al cuore di tutto. E tanto più il settore privato sarà chiamato a
investire sempre di più nella cooperazione internazionale, tanto più il ruolo della società civile – nelle sue
vesti di watchdog – avrà un ruolo cruciale. Non si può correre il rischio di investire laddove c’è più profitto e
abbandonare le aree geografiche più bisognose, per esempio.
Ma per svolgere appieno il suo ruolo di watchdog, la società civile ha bisogno di mezzi. Ora di mezzi ce ne
sono sempre di meno...
E’ una delle priorità su cui mi sono confrontato in modo chiaro con CONCORD Europe, cercando di non
limitare il dialogo ai progetti finanziati e messi in opera dalla società civile, ma allargarlo alle prospettive,
cioè i “sustainability check”. In altre parole, il percorso che l’UE sta cercando di imbastire per raggiungere
gli SDGs serve oppure no? I progetti che scegliamo nel blending sono buoni per poter mobilizzare
investimenti privati che fanno solo profitto - e il profitto è necessario – oppure servono anche per poter
contribuire allo sviluppo sostenibile? Sarà necessario inventare forme nuove di collaborazione, non soltanto
a Bruxelles, ma anche negli Stati membri e nei Paesi partner.
Tra il Mediterraneo e i Balcani, i flussi migratori stanno avendo un peso molto importante nell’agenda
politica dell’UE. Quale sarà il posto delle migrazioni nel nuovo Consensus europeo?
L' immigrazione è un tema di discussione quotidiana. Spesso l'UE è accusata di pensare solamente a voler
fermare i flussi. E’ una percezione piuttosto diffusa e per certi versi comprensibile. Ma facciamo un passo
indietro. Nell’era degli MDGs, le migrazioni non erano al centro dell’attenzione e molto spesso il tema
aveva creato non poche perplessità. Ricordo che durante le prime ondate migratorie significative nel 20062007 verso la Spagna, il rapporto tra la migrazione e lo sviluppo era un rapporto ambiguo e contraddittorio.
Alla base c’era l’idea che la migrazione è un fenomeno di depauperamento delle società da cui le persone
partivano. Rircordo che nelle mie funzioni di Direttore generale agli Affari Interni dell’UE, lanciammo una
nuova strategia – il “Global approach for migration and mobility” – con l’obiettivo di conciliare le esigenze
dei ministeri dell’Interno europei – ovvero controllare le frontiere, lottare contro l’immigrazione irregolare
– con quelle di una realtà più complessa, avendo più opportunità di mobilità e migrazione legale, sostenuta
da azioni di cooperazione. Oggi siamo entrati nell’era degli SDGs, dove le migrazioni fanno pienamente
parte tra i cosiddetti “enabling factors” dello sviluppo, inteso come fenomeno positivo per lo sviluppo se
ben gestite. Al di là di quella che è l’urgenza di salvare vite umane e togliere i flussi migratori dalle grinfie
dei trafficanti , abbiamo una responsabilità comune con i Paesi di origine affinché questi flussi vengano
gestiti nell’interesse delle persone e aiutare le persone che ritornano in questi paesi a potersi reintegrare.
In questo contesto, la politica di sviluppo non può stare ferma a guardare, anzi può aiutare i paesi tanto ad
affrontare le cause profonde che costringono le persone a emigrare quanto a gestire le loro frontiere.
Questo è il senso del Migration compact su cui l’Italia si è molto impegnata.
Da dove iniziare?
Sul breve termine è necessario lavorare sul rispetto della legalità dei flussi e sul salvataggio delle persone in
mare o nei deserti che attraversano. Ma è ancora più importante rendersi conto che il gap demografico e le
condizioni in cui il nostro vicino Africa si sta sviluppando, ci porranno sempre di più delle sfide di lungo
termine, bisogna attrezzarci per raccoglierle. In passato abbiamo voluto gestire un problema, oggi si
presenta a noi un’opportunità e comunque una necessità.
Lei parla di opportunità, ma il migration compact presentato dalla Commissione europea nel giugno
scorso a Strasburgo sembra piuttosto giocare sulla difensiva, special modo sugli incentivi negativi
annunciati nel campo dello sviluppo e del commercio per garantire che i paesi refrattari a collaborare in
modo efficace con l'Unione nella gestione della migrazione ne subiscano le conseguenze...
Non sono d'accordo. Intanto nella Comunicazione della Commissione europea non c’è nessun riferimento
ad una condizionalità negativa, semmai questa èstata introdotta nelle conclusioni del Consiglio europeo.
Quello su cui dobbiamo basarci è il principio della responsabilità condivisa, un fenomeno globale così
complesso come la migrazione non può essere affrontata che nella condivisione di diritti e di doveri. Il
nostro approccio è il seguente: chi fa di più avrà ovviamente più sostegno.
E chi fa di meno riceve meno aiuti e più ritorsioni commerciali?
Vale quello che ho detto sopra. Il primo passo è quello di essere tutti consapevoli che abbiamo un
problema comune da gestire in modo comune con delle responsabilità condivise. Vorrei far notare che tra
tutti i Paesi partner con cui abbiamo avuto una discussione sulla questione migratoria, non ho incontrato
nessuno che abbia rifiutato un’assunzione di responsabilità e di sedersi al tavolo per discutere, tanto nel
riprendersi i migranti irregolari che nell’attrezzarsi a mettere in piedi delle politiche per affrontare i flussi
migratori sul lungo termine.
Prendiamo un Paese come l’Eritrea. Lei sa che il Presidente Afeworki ha tutto l’interesse di vedere i
migranti eritrei rimanere all’estero. Da un lato perché molti di loro sono fuggiti dal suo regime
dittatoriale, e quindi sono oppositori in meno da dover gestire in Eritrea, secondo perché dall’estero i
migranti alimentano le casse delle rimesse che vengono spedite in madrepatria, contribuendo così a
lottare contro una povertà molto diffusa in questo paese. Per Afeworki è una vittoria su tutti i fronti, non
crede?
Il problema dell'Eritrea è molto più complesso di quanto riportato nei luoghi comuni. E' un problema in una
regione sempre più instabile. Il dialogo con l’Eritrea sulle questioni migratorie si fa nell’ambito del Processo
di Khartum, mentre quello a livello bilaterale non c’è ancora stato. I problemi di questo paese sono
principalmente legati al servizio militare obbligatorio, all’instabilità che caratterizza il Corno d’Africa.
Stiamo cercando di lavorare con l’Eritrea, e soprattutto con la società eritrea, per provare a migliorare le
condizioni di una popolazione sottoposta ad una crisi economica molto grave e a pressioni tali da spingerli a
lasciare il paese.
Si riferisce a pressioni politiche?
Mi riferisco alla difficoltà di costuire un futuro in un paese in cui dai 18 ai 50 anni le persone sono
sottoposte a un servizio militare permanente. Ci sono segni di miglioramento, di recente il governo eritreo
ha adottato una legge che prevede la smobilitazione sotto certe condizioni. Ma mi sembra sia rimasta
largamente inapplicata. Nelle relazioni con i Paesi partner, rimaniamo convinti che sulle migrazoni il dialogo
è lo strumento migliore per arrivare a qualche soluzione. Non dimentichiamo mai che stiamo parlando di
persone, non di merci.
Ma dall’esterno la percezione è un pò diversa. Si ha chiaramente l’impressione che se non c’è
cooperazione sui rimpatrii e sulle riamissioni allora si procede con incentivi negativi...
Invece non è così. Se abbiamo un Paese che rifiuta di riprendere dei nazionali che sono trovati in situazione
irregolare, è un problema che dobbiamo affrontare perché i Paesi partner dell’area ACP sono sottoposti
all’articolo 13 dell’Accordo di Cotonou che prevede l’obbligo di riprendre i migranti ACP irregolari alle prese
con una procedura di rimpatrio dall’Ue. E numerosi passi avanti si stanno facendo.
Va però ricordato che alla vigilia del Summit UE-Africa di La Valletta il dialogo non era molto sereno.
Alcuni Stati membri europei non hanno esitato ad esercitare pressioni al limite del ricatto sui paesi
africani per accettare le condizioni dell’Europa...
Esistono nelle opinioni pubbliche nazionali gruppi, anche molto importanti, che hanno assunto posizioni
anche molto dure che le hanno fatte proprie.
Oggi in Europa la questione migratoria è diventata tossica perché è stata sequestrata da populisti di ogni
sorta ai danni di società già fortemente destabilizzate dalla crisi economica, che spesso sono in crisi di
identità e sottoposte allo stress degli attentati terroristici. Su un tale terreno sociale purtroppo la iper
semplificazione xenofoba riesce di tanto in tanto a fare breccia.
Qual’è quindi la migliore risposta da dare?
E’ una sola: assicurare che la legalità non è una parola vuota. Quando una legge europea prevede che gli
irregolari devono essere rimpatriati nei Paesi di origine, chiedere il rispetto di questa legge non significa
creare una condizionalità, ma dare una certezza ai nostri cittadini che le leggi vanno rispettate. E quando ci
sediamo al tavolo con i Paesi partner sulle modalità migliori da adottare per applicare delle regole iscritte
nei Trattati internazionali e che hanno sottoscritto, non è condizionalità, ma condivisione di responsabilità.
E da parte nostra, dialogare e aiutare non è un'opzione, è una condivisione di responsabilità. Perché
rimpatriare e reintegrare 15.000 o 20.000 irregolari non è una questione semplice, e la reintegrazione dei
migranti irregolari va considerata un’operazione di sviluppo. Le storie di persone rimandate a casa sono
storie di fallimento perché le comunità di partenza fanno molta fatica ad accogliere un loro connazionale su
cui hanno investito per ricevere rimesse o oltre forme di aiuto, ma la cui impresa migratoria è fallita. Sono
anche storie di migranti che devono recuperare credibilità in una comunità. E qui è necessario fare una
distinzione molto importante: la cooperazione internazionale non finanzia i rimpatri, di questo se ne
occupano i ministeri degli Interni dei Paesi UE, di Frontex. Quello che facciamo è facilitare il processo di
reintegrazione dei migrantri irregolari dopo il loro rimpatrio, reinserirli nelle società, aiutare a trovare un
lavoro.
Nei numerosi incontri che ha avuto con i partner africani, ha la sensazione che ci sia sulla riva opposta del
Mediterraneo una presa di coscienza rispetto al clima negativo che si sta abbattendo in Europa, che la
cooperazione allo sviluppo è a rischio se le destre estreme arrivano al potere? In fin dei conti, cosa vi
chiedono?
Le discussioni a La Valletta furono molte franche e dirette, con la percezione che in Europa stavano
cambiando alcune cose. Le nostre relazioni devono svilupparsi attraverso un partenariato fondato su
responsabilità più reciproche. E’ qualcosa che va costruito. Se lei si cala per un attimo nei panni di un
governante di un Paese del Sahel, dove la povertà non è un fenomeno marginale, dove la fertilità è
altissima, dove i giovani non hanno lavoro, dove la sicurezza non è garantita, a cui si chiede di controllare le
frontiere affinché i migranti non arrivino da noi, capisce che come minimo ci vuole un dialogo forte per
spiegare che noi abbiamo bisogno di più, ma che siamo anche disposti a dare di più.
Con il Trust Fund dell’UE per l’Africa sulle migrazioni, l’Europa si gioca una partita importante per
rafforzare o meno la sua credibilità sul continente africano. Ma ci sono due problemi: il primo è che i
fondi destinati a questo Fondo sono nettamenti inferiori a quelli riservati alla Turchia; il secondo riguarda
l’accesso ai finanziamenti del Trust Fund, che molti giudicano opaco. Che cosa risponde?
Le cifre che abbiamo proposto sono cifre perfettamente paragonabili a quelle negoziate con la Turchia. Ci
sono 1,8 miliardi di euro che aumenteranno di un altro mezzo miliardo per il Trust Fund, abbiamo poi
calcolato 3,1 miliardi di fondi di investimento che devono raggiungere quota 6 miliardi per poi ottenere un
effetto leva di 60 miliardi di euro; ad ognuna di queste cifre, sono previsti fondi aggiuntivi provenienti dagli
Stati Membri, se vorranno seguire il nostro invito.
Ma i contributi degli Stati Membri rimangono davvero infimi...
La cifra è abbastanza ridotta, se ci riferiamo ai fondi aggiuntivi versati al Trust Fund, ma continuiamo a fare
il nostro lavoro affinché possa aumentare. Spetta anche ai media esercitare sul versante africano le stesse
pressioni esercitate sul dossier turco visto che in Africa il fenomeno migratorio è molto più strutturale
rispetto alla Turchia. Perché mentre si spera che in Siria possa tornare la pace, diminuendo di conseguenze i
flussi migratori, in Africa il problema è demografico.
Sull’accesso al Trust Fund , che cosa ci può dire?
Siamo sottoposti alla pressione di dover fare in fretta, mettendo il più rapidamente possibile i progetti in
esecuzione nei paesi partner. Finora abbiamo approvato progetti per circa 900 milioni di euro. E’ chiaro che
è possibile se ci sono progetti portati da intermediari finanziari come la Kfw, l’Agence française de
développement, la Cassa Depositi e Prestiti ecc., perché ci consentono di implementare il Trust Fund in
tempi rapidi. Ma va detto che questi fondi non sono riservati esclusivamente a questi attori, possono essere
utilizzati anche dalle ONG e dalla società civile, soprattutto nei Paesi partner. Su azioni di breve termine
come la reintegrazione dei migranti nelle loro comunità, l’apporto della società civile può essere decisivo.
Stiamo parlando di accompagnamento delle persone, la loro inserzione nelle comunità di origine... Le
critiche sulla trasparenza non sono nuove ed è un bene che continuino per spingerci a fare meglio, fermo
restando che non possiamo appoggiare centinaia di piccoli progetti, dobbiamo fare massa critica.
La società civile ha lamentato la tendenza di alcuni Stati Membri di integrare negli APS i costi dei rifugiati.
Una tendenza confermata dall’OCSE DAC. E’ una preoccupazione che condivide?
Sì e no. No perché nella misura in cui le regole adottate attraverso un consenso internazionale stabiliscono
che questa integrazione è eligibile come aiuto pubblico allo sviluppo, non vedo perché dei paesi come
l’Italia o la Germania, che già si caricano di accogliere un numero elevatissimo di rifugiati, non possano
integrare i costi di questa accoglienza negli Aps. Se invece si confermasse la tendenza a gonfiare queste
spese come alternativa agli interventi nei Paesi Terzi, allora sì sarebbe preoccupante.
Prima dell’estate, lo European Centre for Development Policy Management ha pubblicato un rapporto
sulle relazioni tra l’UE e i paesi ACP (Africa-Caraibi e Pacifico) dopo la scandenza dell’Accordo di Cotonou
previsto nel 2020, evidenziando alcuni scenarii. Lei che scenario ha in testa?
E’ un momento essenziale per fare un bilancio delle nostre relazioni con i Paesi ACP. Nel 1975 due grandi
gruppi come l’UE e gli ACP decisero liberamente di creare quello che è stato per almeno quindici anni il
modello più avanzato di partenariato e cooperazione allo sviluppo. Si tratta di un patrimonio che non può
essere sperperato. Abbiamo pubblicato un rapporto in cui emergono alcune tendenze. La prima è che
questo schema ha contribuito alla lotta contro la povertà, l’inserimento di questi Paesi nell’economia
mondiale, la familiarità che è venuta a crearsi tra noi. Poi ci sono gli aspetti meno positivi, come ad esempio
l’incapacità di mettere in piedi un’allenza che ci consentisse di adottare delle posizioni comuni alle Nazioni
Unite o nei grandi negoziati internazionali. Di conseguenza è necessario porsi domande serie: val la pena
mantenere questa relazione speciale oppure no? Io penso che si sia formato un tale capitale di conoscenza
e di esperienze comuni che valga la pena mantenerla in vita. Certo, i tempi sono cambiati e il futuro va
ripensato. Mi pare inconcepibile e contrario ai nostri interessi smantellare questa lunga relazione speciale
con un gruppo di 78 paesi. Siamo seri: se abbiamo smesso di trarre beneficio politico ed economico che
riteniamo, giustamente, necessario, lavoriamo per conseguirlo. E lavoriamoci come Unione, più che come
Stati membri, perché a quel livello le sfere di influenza sono ormai poca cosa.
Quali forme di cooperazione s'immagina?
Ci sono vari criteri, il primo riguarda gli SDGs che è il quadro generale in cui bisogna agire; il secondo è
l’Europa, un attore ormai globale in un mondo che cambia. E’ necessario creare un nuovo patto che non sia
stabilito tanto sull'aiuto finanziario (il FED), ma sul modo in cui l'Unione Europea e 78 Paesi ACP possono
fare insieme per contribuire al raggiungimento degli SDGs. Al di là degli obiettivi di sviluppo sostenibile,
bisogna interrogarsi sulle azioni e le strategie comuni da portare avanti per la pace, la sicurezza e la stabilità
nel mondo. Una volta definita un’agenda politica comune, si può pensare agli strumenti per implementarla.
Infine dobbiamo consentire ad ognuna delle tre grandi realtà che compongono gli ACP, ovvero l’Africa, i
Caraibi e il Pacifico, di affermare la propria identità all’interno di una casa comune, quella UE-ACP. E’
necessario superare il periodo di schizofrenia che abbiamo vissuto con l’Africa nell’ultimo decennio. Infatti,
non è normale discutere con i governi africani nell’ambito di un Summit UE-Africa programmi e azioni che
in parte erano già state fatte o portate avanti con gli stessi governi nell’ambito degli ACP e non trasferibili
nell’ambito dell’Unione Africana, e viceversa. Così come ci siamo inventati delle strategie con l’UA i cui
strumenti finanziari rientrano nel sistema ACP. Bisogna uscire da questa contraddizione e ostacoli
burocratici rafforzando ad esempio un partenariato euro-africano in relazione col quadro ACP. I Caraibi
fanno parte di una regione, quella centroamericana in cui tanto sul piano economico che su quello della
stabilità, devono trovare una forma di equilibrio. Anziché continuare a investire in una nicchia tra UE e
Caraibi, forse converrebbe sviluppare una presenza eurocaraibica all’interno del Centroamerica in modo da
creare nuove opportunità e nuove dinamiche. Del resto è un approccio che rientra nella strategia dell'Alto
Rappresentante Mogherini che propone un’Europa capace di essere più presente nelle realtà regionali. Nel
Pacifico, la nostra presenza, oltre ad essere riconosciuti dai nostri partner tradizionali, lo è anche da Paesi
come l’Australia, la Nuova Zelanda e quelli del Sud-est asiatico, tutti interessati a lavorare con il nostro
schema pur non facendo parte del mondo ACP. E poi non dimentichiamo che nel Pacifico ci sono territori
europei abitati da cittadini europei.
Ecco, il futuro UE-ACP lo vedo sotto il tetto di una casa comune, con le sue regole, le sue strategie e i suoi
principii, per poi andare verso una forte diversificazione tra le tre regioni, non tanto per separarle l’una
dall’altra, ma per fare da volano al ruolo globale che l'Alto rappresentante Mogherini vuole attribuire
all’Europa. Ma spetta anche agli ACP dirci cosa vogliono e come vedono il futuro delle loro relazioni con
l’UE.
Veniamo all’Italia. In luglio il Ministero degli Affari esteri, l’Agenzia per la cooperazione allo sviluppo e la
Cassa Depositi e Prestiti hanno firmato una Convenzione che secondo Mario Giro “completa il percorso
dei tre vertici che si occuperanno di cooperazione". Qual’è lo sguardo di EuropeAid sulla nuova forma che
sta assumendo la cooperazione italiana?
Mario Giro ha perfettamente ragione e il suo ruolo e impegno sono determinanti. Oggi l’Italia può dirsi
attrezzata per poter essere un attore importante nella politica di sviluppo europea. Nel Trust Fund, l’Italia è
il Paese che presenta il maggior numero di progetti, nel blending le cose si stanno muovendo nella
direzione giusta. Ora è necessario che il sistema Italia produca delle capacità, un’inclusività e un percorso
chiaro verso il target dello 0,7%. Non si può riconquistare credibilità soltanto con gli strumenti, così come
non basta pensare di accedere meglio ai fondi europei. Ci vuole un’inversione di tendenza netta sull'APS e
la necessità assoluta di non staccarsi mai dalla società civile italiana che nei momenti più bui della
cooperazione è sempre stata un punto di riferimento riconosciuto da tutti. L'Italia sta finalmente
compiendo un grande salto di qualità e, da europeo e da italiano, non posso che esserne felice.
Di Joshua Massarenti
Intervista realizzata nell’ambito di un progetto editoriale che associa VITA e Afronline a 30 media privati
africani.