le tre torri

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le tre torri
n.
Rivista quadrimestrale di geopolitica ed economia internazionale
LE TRE TORRI
USA, CINA E RUSSIA: I TRE POLI
DELLO SCACCHIERE GEOPOLITICO
13
Anno VI
Gennaio-Aprile 2017
IL NODO DI GORDIO
Rivista quadrimestrale di geopolitica ed economia internazionale
Anno VI – N. 13 – Gennaio-Aprile 2017
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13
n.
Rivista quadrimestrale di geopolitica ed economia internazionale
LE TRE TORRI
USA, CINA E RUSSIA: I TRE POLI
DELLO SCACCHIERE GEOPOLITICO
Anno VI
Gennaio-Aprile 2017
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Indice
INDICE
In questo numero:
6
EDITORIALE
93
IN "GLOBE" WE TRUST
di Daniele Lazzeri
12
15
TRANSATLANTIC OUTLOOCK
LE TRE TORRI
28
LE TRE TORRI
E IL DESTINO DELLE PEDINE
34
CHINA’S EURASIAN PIVOT:
MOTIVATIONS, IMPLICATIONS
AND PROSPECTS
70
80
89
115
RICHARD PERLE
“CON TRUMP, TENSIONI TRA USA E CINA. L’EUROPA? UN’UNIONE DOGANALE”.
di Augusto Grandi
LA MURAGLIA INFINITA
LE LEZIONI DI HENRY KISSINGER
MANCA LA QUARTA TORRE,
QUELLA EUROPEA
32
98
di Andrea Marcigliano
di Augusto Grandi
96
IL GRAFFIO DI GORDIO
di Alfio Krancic
13
LA CINA ARRIVA IN EUROPA SULL’AUTO ELETTRICA
118
125
di Marlen Belgibayev and Xiaotong Zhang
LA SINIZZAZIONE DELL’ASIA
CENTRALE TREDICI SECOLI DOPO
di Jeffrey Goldberg
a cura della Redazione
STATI UNITI D’AMERICA:
POTERI E LIMITI PRESIDENZIALI
di Vittorfranco Pisano
LA NATO COMBATTERÀ?
E PER COSA?
I Paesi Baltici e l’Alleanza Atlantica
di Stephen Bryen
132 THE FIELD OF FIGHT
di Marcello Ciola
LA STRATEGIA MARITTIMA DELLA REPUBBLICA POPOLARE CINESE
DA MAO A XI JINPING
138 L’“ATLANTICO ORIENTALE”
GLI USA NON POTRANNO
FARE A MENO DEL GIGANTE ECONOMICO EURO-
MEDITERRANEO
di Daniele Lazzeri
di Manuel Moreno Minuto
LA STRATEGIA CINESE
DEL “FILO DI PERLE”
di Antonciro Cozzi
3
di Daniele Capezzone
Indice
142 LEGGERE FRIEDMAN NEL 2016: di Amanda Schnetzer
146
ORIZZONTI DAL CREMLINO
200 ANTARTIDE: FARE RICERCA ALLA CAPITALISMO, LIBERTÀ E LA SFIDA DELLA CINA
DI MOSCA NEL NUOVO
SCACCHIERE MONDIALE
160 NEL MONASTERO ALTRUI NON SI di Irina Osipova
168
GRAND TOUR
VA CON IL PROPRIO STATUTO
IL LIBANO, UNA POZIONE MAGICA
di Gianni Bonini
LA SFIDA DEI PALESTINESI
DEL LIBANO
di Giampaolo Scardia
di Andrea Liorsi
I PROTAGONISTI DELLA
PRIMA REPUBBLICA
FRA ARABI E AMERICANI
di Matteo Gerlini
238 IL CIHEAM DALLA FONDAZIONE
di Luca Steinmann
188 LA RADICALIZZAZIONE DEI MA NON ITALIANO
231 GLI ITALIANI DEI DUE MONDI:
182 TRA IDENTITÀ E TERRORISMO.
di Renato Sartini
219 LA DIFESA DI CORFÙ DEL 1716
170 E ORA DOVE ANDIAMO?
L'ACCELERATORE DI PARTICELLE DEL MEDIO ORIENTE S'APRÌ SU SCIENZA E PACE
216 TUTTI AL MARE,
di Franco Cardini
di Marco Ferrazzoli
210 «APRITI SESAME!» E 148 IL RUOLO STRATEGICO
FINE DEL MONDO. PER SALVARLO
COMBATTENTI JIHADISTI NEI BALCANI OCCIDENTALI
di Nina Kecojević
AD OGGI
di Maurizio Raeli
243
LA BIBLIOTECA DI GORDIO
260
BOARD / AUTORI
196 UN PAESE IN CUI TUTTO
È IL CONTRARIO DI TUTTO”
IL GRANDE IRAN DI GIUSEPPE
ACCONCIA
di Michela Mercuri
Puoi seguirci su:
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5
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
EDITORIALE
IN "GLOBE" WE TRUST
di Daniele Lazzeri
ulle note di “My Way”, in quel
di Washington, è calato il sipario dei festeggiamenti per
l’“Inauguration Day”.
Donald Trump è il 45° presidente degli Stati Uniti d’America, giunto alla Casa Bianca
dopo una lunga ed accidentata campagna
elettorale non priva di colpi bassi e rovesciamenti di fronte.
Il duello a colpi di feroci tweet e velenosi dossier con la rivale Hillary Clinton ha
rappresentato solo una parte della contesa.
Altre “armi non convenzionali” sono state
utilizzate dai candidati per eliminare politicamente l’avversario. Dai sospetti dei
servizi segreti americani sull’intromissione di hacker russi per manipolare il voto
in favore di Trump al plateale – ed a tratti
riprovevole – appoggio garantito da mass
media e finanza internazionale alla Clinton, è stato tutto un susseguirsi di accuse
reciproche sull’inadeguatezza a ricoprire
S
La governance globale
dei prossimi decenni sarà
in mano a Usa, Russia e
Cina e alla loro capacità
di gestire le relazioni
internazionali. Una miriade
di piccole e medie potenze
faranno da corollario
alle strategie di questi tre
grandi poli di attrazione
geopolitica del pianeta e
cercheranno di ritagliarsi
uno spazio di influenza
regionale.
6
Editoriale
Senza una rinnovata spinta politica,
l’Unione europea rischia davvero di
cadere a pezzi.
7
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
l’incarico che fu di George Washington e di
Thomas Jefferson.
Terminata però l’abbuffata di convention,
trasmissioni ed analisi sulla campagna
elettorale e sul suo ormai noto esito ed
abbandonati gli slogan che hanno contraddistinto questi ultimi mesi – dall’"America
First" al "Make America Great Again" – è
necessario focalizzare l’attenzione sugli
scenari che accompagneranno il prossimo
futuro delle relazioni internazionali dopo
l’avvento di “The Donald”.
La nomina del Generale Michael Flynn
– costretto alle dimissioni dopo poche
settimane per le intercettazioni di sue
conversazioni con diplomatici russi prima dell’insediamento alla Casa Bianca –
a Consigliere per la Sicurezza Nazionale,
era già un chiaro messaggio della nuova
strategia di Washington nei confronti di
Teheran. D’altronde – come potrete leggere all’interno di questo numero – le idee
di Flynn sulla questione iraniana comparivano già dallo scorso giugno nel volume
scritto a quattro mani con Michael Ledeen
“Field of Fight”. Per gli autori, infatti, l’Iran è indiscutibilmente il motore del radicalismo islamico e delle sue declinazioni terroristiche; il nemico per eccellenza
per la sicurezza interna degli Stati Uniti
e dell’Occidente nel suo complesso. Per il
Generale Flynn, inoltre, gli stretti e storici rapporti tra Teheran e Mosca rischiano
di generare una pericolosa “Alleanza dei
Nemici” tra gli Ayatollah e Vladimir Putin.
Quest’ultimo, infatti, pur avendo subito
numerosi attacchi all’interno dei confini
nazionali russi da parte di cellule jihadiste,
persevera nel mantenere saldo l’asse privilegiato con l’Iran. Leggendo le pagine di
“Field of Fight”, sorge il dubbio che le prime dichiarazioni di apertura nei confronti
di Mosca rilasciate da Donald Trump, siano
da interpretare più come un tentativo di
depotenziare la relazione russo-iraniana
che una meno realistica riappacificazione
con lo “Zar Vladimir” dopo anni di crescente tensione.
Ma analogo discorso si potrebbe profilare
nei confronti della Cina. Sganciare Mosca
IL DIFFICILE DIALOGO
FRA LE TRE TORRI
Non sarà un compito facile ma è altrettanto vero che, allo stato attuale, non vi sono
altre strade percorribili.
La governance globale dei prossimi decenni sarà in mano a Stati Uniti, Russia e Cina
e alla loro capacità di gestire le relazioni
internazionali. Una miriade di piccole e
medie potenze faranno, invece, da corollario alle strategie di questi tre grandi poli
di attrazione geopolitica del pianeta e cercheranno, di volta in volta, di ritagliarsi
uno spazio di influenza regionale sfruttando le mutevoli condizioni nei rapporti di
forza tra Washington, Mosca e Pechino.
Tra queste potenze regionali, la prima ad
assumere assoluta rilevanza sarà l’Iran.
Trump non ha fatto mistero del suo desiderio di rinegoziare gli accordi sul nucleare siglati dal suo predecessore, accusando
Barack Obama di aver adottato in Medio
Oriente una politica fallimentare e contraria agli interessi americani.
8
Editoriale
da Pechino, infatti, è certamente uno degli
obiettivi che l’Amministrazione Trump si è
fissata. L’isolamento della Cina, stretta in
una pericolosa morsa sia da Oriente che da
Occidente, rappresenterebbe una garanzia
di depotenziamento della strategia di progressivo allargamento degli spazi messa in
campo dal Presidente Xi Jinping.
Una strategia che lo ha proclamato leader indiscusso del mondo globalizzato al
recente World Economic Forum di Davos,
proprio mentre il neo Presidente americano sostiene la volontà del “re-shoring”
– il rientro negli Stati Uniti delle attività
delocalizzate in Asia ed in Messico. È indubitabile che la volontà espressa da Trump
in questa direzione arrecherà un danno
economico e finanziario alla Cina ma è
altrettanto vero che il legame a triplo filo
tra Washington e Pechino determinerà dei
contraccolpi anche negli Usa. Non è un caso
che si siano smorzati i toni combattivi del-
la prima ora utilizzati da “The Donald” nei
confronti del Celeste Impero. Il Trump 2.0
– pur riaffermando alcuni capisaldi delle
politiche annunciate in campagna elettorale – dovrà dunque fare i conti con una realtà molto più complessa ed articolata. Lo
abbiamo visto con il riconoscimento della
politica del “One Country, Two Systems”
nei confronti di Taiwan e, probabilmente,
assisteremo nei prossimi mesi ad ulteriori
aggiustamenti nella linea diplomatica in
altre realtà geopolitiche.
Nel frattempo, il Presidente Xi prosegue
con il colossale progetto di costruzione
della nuova “Via della Seta”. Anzi, delle
nuove Vie della Seta che stanno prendendo
forma grazie alla “One Belt, One Road strategy” che si inquadra in un più vasto progetto geopolitico del quale diamo ampio
risalto all’interno del volume con la prima
parte del prezioso saggio a quattro mani di
Zhang Xiaotong e Marlen Belgibayev.
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Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
UNIONE EUROPEA:
LA TORRE IN FRANTUMI
un’Europa a due velocità coglie solo in
parte la dimensione e la complessità del
problema. Già esistono, infatti, più velocità sul territorio europeo. Come richiamato,
infatti, dal Ministro degli Esteri Angelino
Alfano: “Dei ventotto Stati membri dell’Unione Europea, solo diciannove adottano l’Euro. La libera circolazione nell’area
Schengen riguarda solo ventisei Paesi europei, di cui ventidue della Ue e quattro
associati. Quanto alla difesa e sicurezza
comune, ventotto Stati aderiscono alla
Nato (di cui ventisei europei), mentre cinquantasette Paesi partecipano all’Osce e
quarantasette al Consiglio d’Europa”. Una
vera e propria confusione che – come rileva Richard Perle nelle pagine interne – ridurrà probabilmente l’Europa ad una mera
unione doganale, senza alcuna rilevanza
politica nella scena internazionale.
E questa è una delle questioni che balza
agli occhi leggendo l’intervista ad Henry
Kissinger uscita su “The Atlantic” e che
pubblichiamo in esclusiva in questo numero: l’Europa è citata di striscio, con riferimenti legati più alla storia che al futuro
delle relazioni globali. In perenne ricerca
di un ombrello protettore che, sinora, è
stato rappresentato dall’Alleanza Atlantica
– il Vecchio Continente deciderà di dotarsi
di una Difesa comune o preferirà sottostare alle richieste di Trump di incrementare
i propri investimenti in questo settore? Se
lo chiede nel suo articolo dedicato all’Europa ed ai Paesi Baltici in particolare anche Stephen Bryen: “La Nato combatterà?
E per cosa?”.
L’elezione di Donald Trump non poteva
non produrre qualche effetto anche al di
qua dell’oceano. Ed in effetti, la già claudicante Europa rischia di venire azzoppata
definitivamente nei prossimi mesi, caratterizzati da alcuni cruciali appuntamenti
con le urne. Dalla Francia all’Olanda fino
alle elezioni in Germania, il pericolo di
preoccuparsi eccessivamente dei delicati equilibri interni ai singoli Stati porterà
con tutta probabilità a perdere di vista il
destino dell’Unione nel suo complesso. Il
timore per la crescente forza acquisita dai
movimenti cosiddetti populisti, accompagnato dal vento di strisciante sciovinismo
che sta soffiando su tutto il Vecchio Continente, pongono l’Ue di fronte ad uno dei
più difficili test dalla sua costituzione. A
poco servirà la difesa a spada tratta della
moneta unica che il Presidente della Banca
Centrale Europea, Mario Draghi, continua
a portare avanti nelle sue dichiarazioni e
nelle mosse di politica monetaria.
Senza una rinnovata spinta politica, l’Unione europea rischia davvero di cadere
a pezzi. Istituzioni scollegate dal Popolo, misure di politica economica – quelle
di austerity su tutte – che hanno messo
in ginocchio più di un membro aderente,
nonché un’inesistente coordinamento nelle decisioni di politica estera e di difesa a
livello continentale, non sono grattacapi di
poco conto per Bruxelles.
L’idea – peraltro non nuova – lanciata dalla Cancelliera Angela Merkel di ripensare
10
Editoriale
Ma in questo numero affidiamo al Lettore
anche numerosi focus su altri quadranti
geopolitici ed aree tematiche. Dalla complessa situazione libanese ai multiformi
volti dell’Iran, dal radicalismo jihadista nei
Balcani alla storia marittima ed all’economia del Mediterraneo. Fino allo splendido
reportage realizzato in Antartide dal Capo
Ufficio Stampa del Cnr, Marco Ferrazzoli,
sul ruolo scientifico e geopolitico dell’Italia nella ricerca polare che dimostra perché
“In Globe We Trust”.
Daniele Lazzeri
Direttore responsabile “Il Nodo di Gordio”
Segui il direttore su Twitter:
@DanieleLazzeri
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Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
IL GRAFFIO DI GORDIO
di Alfio Krancic
12
Le Tre Torri
LE TRE TORRI
In questa sezione:
15
LE TRE TORRI
E IL DESTINO DELLE PEDINE
di Andrea Marcigliano
28
MANCA LA QUARTA TORRE,
QUELLA EUROPEA
di Augusto Grandi
13
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
Tre Torri, Tre Potenze Globali:
il nuovo Grande Gioco geopolitico.
14
Le Tre Torri
LE TRE TORRI
E IL DESTINO DELLE PEDINE
di Andrea Marcigliano
rmai è il gioco delle Tre Torri.
Negli ultimi venticinque anni la
scena geopolitica ha conosciuto metamorfosi vorticose: infatti, dopo il
grande gelo della Cold War – che aveva reso
per mezzo secolo, il quadro internazionale
statico, paralizzato su un bipolarismo fra i
due Giganti – dalla caduta del Muro di Berlino in poi abbiamo assistito a mutamenti
dalla rapidità, e fluidità, mercuriale. Dopo
una breve stagione caratterizzata dall’egemonia statunitense – o dall’illusione di
questa – con “Washington gendarme del
mondo” secondo la definizione del Segretario di Stato Albright, gli attentati di New
York e del Pentagono ci hanno precipitato
in una più lunga epoca che Paul Wolfowitz
definì come quella delle “Alleanze a geometrie variabili”. Con lo scenario geopolitico in continua trasformazione, i nemici
di ieri che, improvvisamente divenivano
alleati ( e viceversa) e, soprattutto, un con-
O
Ormai è il gioco delle Tre
Torri. Cina, Russia, America,
gli unici players globali;
le superpotenze in grado
di agire in tutti gli scenari
geopolitici mondiali.
15
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
tinuo moltiplicarsi degli Attori geopolitici,
prevalentemente nei singoli quadranti regionali. Oggi, però, dopo il palese fallimento della politica estera dell’Amministrazione Obama – che, cercando di delegare agli
alleati gli oneri ha finito con il rendere
tutta la scena internazionale più magmatica e confusa di quanto lo fosse negli otto
anni di George W. Bush – ci troviamo agli
albori di una nuova stagione. Una stagione
che vede sì il perdurare del gioco delle alleanze a geometrie variabili – come dimostra l’intricata questione siriana – ma che
Con gli attori di secondo piano che, di volta in volta, di scena in scena, finiscono per
essere attratti dall’uno o dall’altro dei Tre
Colossi, inseguendo particolari e momentanei interessi. Quello che sta avvenendo
proprio in questi mesi con la Turchia ne è
l’evidente riprova.
ANKARA TRA MOSCA E WASHINGTON
Infatti Ankara appartiene tradizionalmente al blocco degli alleati di Washington.
Uno dei pilastri fondamentali, per la sua
posizione strategica e per la sua forza militare, di quella che Donald Rumsfeld definì la “Vecchia Nato”. Che, però, è appunto
ormai vecchia. E così abbiamo assistito ad
un complesso giro di valzer, innescato dalla Guerra Civile in Siria, che ha portato la
Turchia a stringere sempre più in rapporti
con la Russia, ed Erdogan a farsi promotore con Putin di un Vertice internazionale
ad Astana in Kazakhstan per risolvere il
conflitto. Scenario impensabile appena un
anno fa, quando Ankara si trovava schierata dalla parte delle forze ribelli che in Siria combattevano contro Assad, sostenuto
con forza, aiuti ed impegno della flotta e
dell’aviazione, da Mosca. Una tensione che
aveva raggiunto il livello critico nell’Autunno del 2015, quando un bombardiere
russo, che andava a colpire le posizioni dei ribelli dell’Esercito Siriano Libero,
era stato abbattuto da un F16 di Ankara.
Provocando una crisi nei rapporti bilaterali senza precedenti, e portando i due
paesi quasi sull’orlo dello scontro diretto.
Musica (probabilmente) per le orecchie
Il nuovo tripolarismo è
destinato a condizionare
gli strumenti ed i modelli
operativi della geopolitica
mondiale
al contempo si sta caratterizzando per una
nuova forma di tripolarismo. In buona sostanza, un gioco a tre: USA, Russia e Cina.
I tre, unici, players globali. Le uniche potenze non solo intenzionate, ma anche in
grado di giocare una partita a 360° su tutta
la carta geopolitica mondiale. E pertanto
capaci di divenire poli di attrazione per
tutti gli altri attori, dalle potenze regionali
ai paesi minori, sino alle nuove coalizioni
locali che si stanno affacciando sulla scena. Capacità di attrazione che, però, non
si traduce automaticamente, anzi ben difficilmente potrà tradursi nel costituirsi di
tre Blocchi internazionali compatti e coesi.
Al contrario, tende a rendere ancora più dinamico ed insicuro il gioco delle alleanze.
16
Le Tre Torri
dell’Amministrazione Obama, che vedeva
allontanarsi lo spettro di una Turchia che
giocasse il suo ruolo internazionale svincolata dalle tradizionali alleanze. Come
aveva, in buona sostanza, teorizzato l’allora premier turco Davutoglu. Poi, però,
sono intervenuti altri fattori determinanti. Due in particolare: la guerra contro lo
Stato Islamico e la Questione Curda. Due
problemi strettamente intrecciati fra loro,
e che lasciavano intravvedere sullo sfondo
quello che, comunque, rappresenta il nodo
fondamentale di tutto il problema siriano:
il ridisegno degli equilibri di tutto il Medio
Oriente. In buona sostanza la revisione dei
confini stabiliti, a suo tempo, dagli accordi
Sykes-Picot. E così, nel volgere di un solo
anno, la situazione si è completamente
ribaltata. Anche perché Vladimir Putin ha
saputo abilmente sfruttare la crisi nei rapporti fra Ankara e Washington innescata
sia dall’appoggio statunitense ai curdi siriani dell’YPG – strettamente legati ai loro
confratelli del PKK, il gruppo separatista
che sta insanguinando la Turchia con decine di attentati terroristici – sia, soprattutto, dall’ambiguità dimostrata da Obama
di fronte al tentato golpe che, a metà luglio
scorso, tentò di rovesciare il governo di Erdogan. Ambiguità che ha reso sospettosi i
turchi, anche perché il “padre nobile” del
tentato colpo di Stato, il leader politicoreligioso Fetullah Gülen, risiede da anni
negli USA e sono ben note le sue (ottime)
relazioni con ambienti di Langley. E il nuovo Zar di Mosca non solo non ha esitato a
condannare sin dal primo momento il tentativo di golpe – senza attendere il divenire
degli avvenimenti, come invece hanno per
lo più fatto le principali Cancellerie europee, ma sembra abbia addirittura fatto avvisare dalla sua intelligence Erdogan della
minaccia incombente, di fatto salvandogli
la vita. Per farla breve, Mosca ed Ankara
hanno trovato un accordo sulla Siria – impensabile ed insperabile sino a pochi mesi
fa – e insieme si sono fatte promotrici del
vertice di Astana. Il primo, serio, tentativo
di giungere ad una soluzione negoziata del
conflitto, e, di conseguenza, ad un ridisegno degli equilibri medio-orientali tale da
soddisfare le esigenze non solo delle due
potenze promotrici, ma anche di altri importanti attori coinvolti nella crisi regionale. In particolare l’Iran.
COMPETITORS, NON NEMICI
Caso esemplare, certo, di alleanze “a geometrie variabili”, ma ancor di più della
nuova partita incentrata su Tre Torri, ovvero su tre poli di attrazione capaci di assolvere al ruolo di potenze geopolitiche
globali. Infatti, Ankara delusa dalle scelte
di Washington – che legge come in contrasto con i suoi particolari interessi nazionali – è stata immediatamente attratta dalla
“Torre” russa, con la quale sembra poter
trovare – nonostante tutte le differenze
– maggiori convergenze. Tuttavia si deve
tener conto che un giro di valzer come
questo è pur sempre caratterizzato da una
sostanziale instabilità. o meglio dall’essere
legato ad uno specifico momento e a non
costituire, pertanto, una ridefinizione durevole degli schieramenti internazionali. E
17
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
proprio in questa sensazione di provvisorietà è possibile vedere una delle principali
differenze fra la nuova stagione geopolitica – che si sta aprendo davanti ai nostri occhi – e quella, ormai lontana, della Guerra
Fredda. Quando, appunto, i sistemi di alleanze erano “congelati” e determinavano
la compresenza di due blocchi massicci e
compatti, con pochi attori secondari che
potevano permettersi una qualche libertà
d’azione, per altro più illusoria che reale.
L’altra grande differenza è, naturalmente,
costituita dal tripolarismo, ovvero dalla
presenza sulla scena, accanto a Washington e Mosca, di Pechino. Un tripolarismo
che, insieme alla transitorietà e variabilità
delle alleanze, è destinato a condizionare
gli strumenti e i modelli operativi della
nuova geopolitica internazionale.
Ad uno sguardo superficiale le Tre Torri, le
tre grandi potenze, appaiono molto diverse fra loro per tipologia di forza e “dimen-
sioni”. Pechino, ad esempio, è sicuramente
una grande potenza economica globale,
con un sistema industriale ormai capace
di insidiare lo storico primato statunitense. Tuttavia soffre ancora di un gap sotto
il profilo della forza militare sia rispetto
a Washington che a Mosca. A sua volta
la Russia è sicuramente un gigante come
potenziale bellico, ma è condizionata in
negativo da una forza economica troppo
vincolata alla sola industria estrattiva ed
all’export di gas e petrolio. Infine gli USA
– pur continuando a mantenere il primato
in molti settori – hanno conosciuto negli
anni un netto declino del loro sistema industriale interno, e, pur continuando ad
essere di gran lunga la prima potenza per
investimenti in campo militare, vedono
sempre più questa tradizionale linea politica messa in discussione da forze politiche
e componenti sociali interne alla sua opinione pubblica.
18
Le Tre Torri
Notevole, poi, il divario sotto il profilo
del Soft Power, che vede, naturalmente,
Washington detenere una sorta di primato mondiale ben difficilmente insidiabile.
Gli Stati Uniti sono infatti il paese dove è
nata e si è sviluppata la cosiddetta “cultura
di massa”, con i suoi modelli ormai diffusi
universalmente. Modelli che rappresentano degli standard di vita decisamente attraenti per tutti i paesi non solo “occidentali” ma anche, anzi ancor di più per quelli
in via di sviluppo e/o sottosviluppati che
anelano ad un progressivo miglioramento
delle loro condizioni. E che pertanto guardano agli USA come ad una sorta di “Paradiso in terra”, ovvero ad un modello da
imitare il più possibile. Aprendosi, così,
con estrema, ancorché sovente inconscia,
disponibilità alla cultura di massa “made
in USA”, costituita da un’inestricabile intreccio fra Media, tecnologia, consumismo,
cultura “alta” e cultura “popolare”. Il Soft
Power americano, insomma. La vera potenza di Washington, al di là della forza
militare e di quella economica.
A tutto questo Mosca e Pechino stentano
a trovare dei loro “antidoti”. Privata del
Soft Power costituito dall’ideologia marxista-leninista, che caratterizzò la lunga
stagione sovietica, la Russia di Putin cerca
di trovare nuove strategie di penetrazione e suggestione culturale guardando alla
sua tradizione. E sembra averle trovate
nell’antico retaggio del pan-slavismo e in
quello ancora più antico e suggestivi della
fratellanza fra i popoli di fede Ortodossa.
Entrambe queste linee – per altro inevitabilmente intrecciate fra loro – non posso-
no venire a definire un Soft Power capace
di penetrazione a livello globale, essendo
per loro natura limitati ad una specifica,
anche se vasta, regione dello scacchiere
geopolitico mondiale. Ed infatti Ortodossia e pan-slavismo si sono dimostrati utilissimi strumenti di penetrazione culturale nella fase in cui Putin stava cercando
di risollevare le sorti della Russia dopo il
disastro degli anni di Eltsin, e di ridare a
Mosca un posto al tavolo delle decisioni. Oggi, però, rischiano di costituire una
sorta di limite, che potrebbe condizionare il futuro di Mosca costringendola in un
ruolo sì di Grande Potenza, ma comunque
confinata nel suo agire in una dimensione prettamente regionale. Un rischio del
quale il Cremlino appare ben cosciente.
Tant’è vero che si possono leggere alcune
recenti mosse di Putin e degli uomini del
suo entourage proprio come una progressiva apertura verso nuovi, più ampi, orizzonti culturali. Il fatto che il leader russo
abbia più volte, ed in diverse sedi, ricordato che la sua Federazione Russa è, anche,
una realtà dove con la tradizione cristiano-ortodossa si intreccia storicamente un
antico e forte retaggio culturale islamico,
e che l’Islam rappresenta, per numero di
credenti, la seconda religione del paese, è
un preciso segnale. Rappresenta la volontà
di Mosca di esercitare una crescente attrazione ed influenza sui popoli di fede islamica, ponendosi come riferimento per un
“Islam non radicale” e compatibile con la
cultura della modernità, che è, certo, estremamente diffuso nel mondo, ma privo,
sino ad oggi, di un’autentica, e soprattutto
19
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
forte, leadership politico-culturale. Inoltre nel dialogo sempre più stretto con la
Turchia di Erdogan e, al contempo, nell’allargamento verso paesi turcofoni dell’Asia
Centrale dell’Unione Economica Eurasiatica è possibile intravvedere una ripresa, in
chiave moderna, del sogno di Leontiev e
degli Eurasisti del XIX secolo. Che vagheggiavano una sorta di “alleanza di destino”
fra mondo slavo e mondo turcofono. Con
Mosca, naturalmente, alla guida.
Ancora diversa la situazione di Pechino. La
Cina è profondamente orgogliosa della sua
antichissima tradizione culturale. Una tradizione che investe tutti i campi della vita
adottare, al contempo, un modello politico
liberal-democratico occidentale. Contraddicendo così la più classica delle teorie politiche occidentali, che voleva inscindibile
Libero Mercato da Liberal-democrazia, a
meno di non rischiare gravi traumi e rivoluzioni nel corpo della società. Cosa che in
Cina, notoriamente, non si è verificata, suscitando lo stupore di analisti e osservatori
europei e statunitensi.
Tuttavia la cultura tradizionale cinese
non riesce, per sua natura a divenire un
Soft Power esportabile al di là dei confini
dell’Impero di Mezzo. In buona sostanza
può suscitare ammirazione e curiosità, e
conquistare il cuore e mente di appassionati sinologi. Ma non può divenire un Soft
Power capace di conquistare e suggestionare popoli lontani dalla tradizionale sfera
d’influenza cinese. Un limite notevole per
una potenza globale. Un limite, per altro,
del quale la dirigenza della Città Proibita
appare ben cosciente; così come è cosciente che proprio in questo risiede la maggior
debolezza rispetto al rivale statunitense.
Infatti Pechino non sembra temere il divario di forza militare che sta, a poco a poco,
cercando di colmare con intelligenti politiche di investimento nelle forze armate e
soprattutto nella marina. Ma si rende conto di non essere davvero competitiva nel
Soft Power. In buona sostanza la raffinata
tradizione sinica non riesce a conquistare
menti e cuori di interi popoli come invece
sa ben fare, e da tempo, la più “rozza”, ma
estremamente efficace, cultura di massa a
stelle e strisce.
Difficile per Pechino trovare una soluzio-
In futuro non esisteranno
blocchi coesi, ma sistemi
di alleanze in continuo
mutamento. Una partita
a Mah Jong, non a scacchi
– dalla letteratura al cinema, dalla moda
alla cucina… – e che non solo costituisce
un forte collante dell’unità nazionale, ma
ha, fino ad ora, permesso ai cinesi di assimilare le novità che vengono dall’Occidente, ovvero i modelli di quella che chiamiamo “modernità”, facendoli propri senza
venirne condizionati in profondità. Anzi
adattandoli, sostanzialmente, alla propria
specificità. Un atteggiamento che ha permesso a Pechino di superare molte sfide
negli ultimi decenni; in particolare quella,
epocale, rappresentata dal modello economico del Libero Mercato, che la Cina ha
assunto, con grande successo, senza, però,
20
Le Tre Torri
ne, senza rischiare, aprendosi troppo a
questi modelli culturali di massa per competere con Washington, un effetto boomerang. Ovvero di finire con l’erodere il
collante fondamentale della propria unità
interna. Di conseguenza la strategia sino
ad oggi adottata appare estremamente
prudente. E si fonda su due punti. In primo
luogo quella linea guida sintetizzata nel
motto “Sviluppo senza Conflitti”. Tradotto
significa che la Cina investe, commercia,
intrattiene relazioni economiche a 360°
su tutto lo scacchiere geopolitico, senza,
però, mai assumere un atteggiamento “imperialistico”. Senza mai dare l’impressione
di voler in qualche modo, “colonizzare” i
paesi oggetto dei suoi interessi. Una strategia lenta, una tessitura sottile, ma che
si sta rivelando efficace soprattutto in regioni che temono che l’eccessiva esposizione alla cultura di massa statunitense
possa trasformarsi in una forma di neocolonialismo “morbido”. Pechino, invece,
mira a presentarsi come rispettosa delle
specificità delle culture e delle tradizioni
di tutti i popoli. Atteggiamento dal quale
deriva la scelta, più decisamente politica,
di non ingerire mai nelle vicende interne
degli altri paesi. Quindi non criticare, anzi
non giudicare regimi e sistemi di governo
dei diversi popoli. In sostanza la Cina è realista: non vuole riforgiare il mondo a sua
immagine, ma solo stabilire con più popoli
e paesi possibili relazioni utili per i propri
fini ed interessi. Un esercizio estremamente diplomatico, e raffinato, del Soft Power.
Meno d’impatto, certo, dell’approccio, più
ideologico della Russia; e ancor più certa-
mente meno penetrante della cultura di
massa statunitense. Tuttavia la Cina è un
gigante antico e paziente. E, non senza ragione, pensa che questo approccio potrebbe rivelarsi estremamente efficace ed utile
in tempi medio-lunghi.
MAH JONG A TRE
Tre Torri, dunque, e tre diverse architetture In realtà, approfondendo l’analisi, è
possibile accorgersi che tali differenze,
pur reali, non inficiano per nessuno dei
tre Paesi in questione il ruolo di “Torre”,
ovvero di potenza geopolitica globale che
hanno, ormai, decisamente assunto. Semmai le differenze di cui parlavamo determinano la strategia complessiva di ognuno
dei tre “competitors globali”. Ed usiamo il
termine “competitors” proprio per significare che quella fra le tre grandi potenze
si configura come una partita geopolitica
segnatamente diversa da quelle che hanno
caratterizzato la storia sino ad oggi.
Innanzi tutto, come già accennato, perché non sembra che nel futuro potranno
più esistere blocchi coesi, ma appunto, sistemi di alleanze a geometrie variabili, in
continuo, spesso vorticoso, mutamento. In
seconda, ma ancor più rilevante, istanza,
perché nessuna delle tre potenze concepisce gli antagonisti come puri e semplici “nemici”. O, peggio, come “Imperi del
Male”, per riprendere una famosa espressione, dalla vaga eco tolkieniana, usata da
Ronald Reagan contro l’URSS. In buona
sostanza, se tre sono le Torri, nessuna di
queste, comunque, appartiene a Sauron…
21
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
Non concepire l’avversario come un “nemico”, bensì come un “competitor”, modifica sostanzialmente tutta la scena delle
relazioni internazionali, e facendo saltare
la storica dicotomia schmittiana – “amico/
nemico” appunto – la rende estremamente
più complessa. Un intricatissimo tessuto
di tensioni e distensioni, contrasti ed alleanze. Un intreccio nel quale le stesse Tre
Torri appaiono, di volta in volta, alleate o
nemiche, ed intessono le loro relazioni bilaterali – o trilaterali che dir si voglia – giocando continuamente una sorta di partita
di Mah Jong a tre. Gioco – guarda caso di
origine cinese – che prevede più contendenti – classicamente quattro – e richiede, quindi, strategie complesse e raffinate;
molto diverso, comunque, dagli Scacchi, la
grande sfida a due, che ha caratterizzato i
decenni della Guerra Fredda.
Appare chiaro, anzi lampante, che questa
partita stia per subire una notevole accelerazione proprio in seguito al recentissimo cambio della guardia a Washington. Un
mutamento di linee strategiche della Casa
Bianca che si è andato progressivamente
definendo già nelle settimane antecedenti il giuramento del Presidente Donald
Trump. E che vede rovesciata la linea sostenuta dall’Amministrazione precedente
di un deciso, e duro, confronto con Mosca.
Linea che, in buona sostanza, ha rappresentato l’unico punto fermo della politica
estera di Obama, in tutto il resto – Nord
Africa, Medio Oriente, rapporti con la
Cina… – sempre altalenante ed ambigua.
Punto fermo mantenuto, per altro, sino
all’ultimo momento, visto che Barack Oba-
ma negli ultimi due mesi del suo mandato
– con Trump già eletto – si è spinto ad inasprire le sanzioni contro la Russia, senza
alcuna consultazione con il suo successore designato… un comportamento senza
precedenti nella storia di Washington, che
ha messo in luce la volontà di lasciare in
eredità delle relazioni bilaterali con Mosca
estremamente deteriorate, allo scopo di
rendere più difficile all’imminente Amministrazione Trump la preannunciata, nuova politica estera.
IL “FATTORE TRUMP”
Nuova strategia che prende, appunto, le
mosse da un rilassamento dei rapporti con
il Cremlino, da tempo estremamente tesi
a causa prima della Crisi dell’Ucraina, poi
della guerra civile in Siria. crisi che avevano visto Mosca e Washington schierate
su due fronti opposti, con accenti (e atti)
di una durezza tale da rievocare agli occhi
di molti i fantasmi della Guerra Fredda.
Trump, però, è essenzialmente un pragmatico, come ha dimostrato sia nel suo discorso di insediamento, sia con i primi atti
della sua Presidenza, firmati letteralmente
a poche ore dal giuramento. Tutti segnali che ci fanno intuire come non si debba
dare troppo per scontata la linea di politica estera della nuova Amministrazione.
infatti sarebbe azzardato, e soprattutto
semplicistico, affermare che Trump tesserà rapporti privilegiati con Mosca a tutto
discapito di Pechino. Certo, il dialogo con
Putin è ormai riaperto, e questo dovrebbe
facilmente lasciar prevedere una soluzio22
Le Tre Torri
ne tanto della guerra civile in Siria, quanto
della crisi ucraina. Due dossier scottanti, e
che è interesse di entrambe le potenze risolvere – o per lo meno avviare verso una
soluzione condivisa il prima possibile. Infatti, l’intreccio di interessi finanziari fra
Russia e Stati Uniti è tale da rendere anacronistica ed autolesionistica ogni velleità di ritorno alla Guerra Fredda, quando,
anche dal punto di vista economico, URSS
ed USA erano due mondi separati ed alieni. E l’Amministrazione Trump, anche per
gli uomini di cui il neo-presidente si è circondato, appare più vocata ad un pragmatismo (appunto) economico, che a scelte
determinate da astratte visioni ideologiche. Come accadeva con il “liberal” Obama seduto nello Studio Ovale. Prevedibile,
quindi, che Washington e Mosca cerchino
un’intesa sul riassetto della regione siroirakena e, più in generale, dell’intero Medio Oriente. Un accordo che dovrebbe pre-
vedere una posizione di rilievo anche per la
Turchia, che si è fatta, a fine gennaio, promotrice, a fianco della Russia, del Vertice
di Astana. Un vertice che ha visto Putin ed
Erdogan invitare gli uomini dello staff di
Trump, e che potrebbe rappresentare finalmente una svolta concreta dopo gli anni
perduti in inutili chiacchere a Ginevra. La
nuova Amministrazione USA appare infatti molto interessata ad un riavvicinamento
con Ankara dopo il gelo disceso nelle relazioni bilaterali in seguito al tentato golpe
di luglio scorso. D’altro canto non è certo
casuale che uno dei primi leader a congratularsi, con toni entusiastici, con Trump
dopo la vittoria elettorale sia stato proprio
Erdogan.
In buona sostanza la nuova Washington non vuole più ritrovarsi coinvolta in
tensioni e conflitti regionale per colpa di
qualche alleato troppo “impulsivo” o intemperante, come accaduto in Libia pri23
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
ma ed in Siria poi. E questo per la decisa
convinzione che alleati come la Francia
o i sauditi sono sì capaci di dare inizio a
conflitti, ma non di portarli a soluzione
positiva. Mettendo, inevitabilmente, sulle
spalle degli Usa oneri non richiesti e, per
molti versi dannosi per l’interesse nazionale dell’America. Quell’interesse che,
come ha sottolineato Trump nel discorso
di insediamento, sarà l’unica bussola della
nuova Amministrazione. Meglio, dunque,
dialogare ed accordarsi con chi, come Mosca e, in dimensione regionale Ankara, ha
la forza per intervenire e porre fine ad un
conflitto. Meglio avere come “amico” un
gigante che sette nani riottosi e inetti.
Logica che vale forse ancor più per la crisi
ucraina. Un conflitto che ha portato al pericoloso gioco delle sanzioni reciproche fra
Mosca e Washington. Sanzioni che se hanno rappresentato un grave problema per il
Cremlino, sono andate comunque anche a
detrimento di molte aziende statunitensi e
di un mondo economico-industriale che è
stato molto vicino a Trump durante la lunga, e combattuta, campagna per l’elezione
alla Presidenza. Ora Washington è stata
trascinata nel pantano ucraino per due
precise ragioni. In primo luogo dagli alleati, Polonia e Paesi Baltici – con, dietro le
quinte, Berlino a fare la politica del pesce in
barile – che prima hanno fomentato la rivolta di Kiev per defenestrare Yanukovich,
considerato troppo filo-russo; poi si sono
spaventati per l’ovvia e prevedibile reazione di Mosca, invocando l’aiuto del Grande
Fratello statunitense. In secondo luogo per
la politica di Obama: in parte dettata dal
pregiudizio, tipicamente £liberal”, nei confronti della Russia di Putin, in parte determinata da interessi economici e finanziari
– si pensi a Soros e alla finanza speculativa
pronta ad approfittare della situazione di
tensione – molto vicini, e cari, all’ormai
ex Presidente. Ovvio che con Trump, che
rappresenta ben altri interessi e la cui linea
appare sin da ora informata ad un sostanziale pragmatismo, le cose siano destinate
a cambiare in breve tempo. Le staffilate del
nuovo Presidente ai Baltici ed alla stessa
Merkel – accusata di “sfruttare” l’Europa”
per interessi di bottega – vanno lette anche
in questa ottica.
IL TIRO ALLA FUNE
Ovvio, dunque, che Putin abbia festeggiato l’arrivo del nuovo inquilino della Casa
Bianca con caviale e champagne. Sarebbe, tuttavia, sbagliato – come sottolinea
Richard Perle nell’intervista rilasciata per
questo numero de “Il Nodo di Gordio” –
immaginare un futuro idillio o addirittura
un Patto di Ferro fra Mosca E Washington.
Tanto Putin quanto Trump sono sì due
pragmatici, ma anche due “vincenti”. E per
tanto non disposti ad un ruolo di comprimario. Più facile che le relazioni bilaterali
russo-statunitense siano improntate ad
una sorta di politica a macchie di leopardo. Dossier su cui entrambi convergono –
la lotta contro terrorismo ed estremismo
islamico, lo sviluppo di interessi industriali
comuni, il contenimento dell’espansionismo economico-politico di Pechino – e altri sui quali le divergenze si evidenzieran24
Le Tre Torri
no nel tempo, come, fin da ora, i rapporti
con l’Iran e, in prospettiva, gli equilibri
della regione caucasica. Non più, dunque,
una parodia della Guerra Fredda, come
quella inscenata dal duo Obama-Clinton,
ma un “cordiale” tiro alla fune, nel quale
sia Trump che Putin tenteranno di approfittare, di volta in volta, di ogni incertezza
e debolezza dell’avversario. Per guadagnare qualche centimetro, o metro di terreno,
senza mai, però, portare la corda sul punto
di spezzarsi.
In questa partita avrà, ovviamente, un
ruolo determinante anche la terza Torre,
Pechino. Che, per ora, resta alla finestra
a guardare, d’altro canto, la pazienza e la
cautela sono la cifra fondamentale della
politica estera cinese. Uno stile che deriva
dalla stessa, millenaria, storia dell’Impero
di Mezzo. L’élite di Pechino è, certo, molto preoccupata dalla determinazione con
cui Trump vuole contrastare il dumping
delle merci cinesi sul Mercato americano.
Mercato oggi più che mai vitale, vista la
contrazione, indotta dalla crisi, dei traffici
con quello europeo. E si tratta di una scelta
politica dalla quale la Casa Bianca ben difficilmente potrà recedere. La difesa dell’interesse nazionale – “Produci americano,
compra americano” – è al primo posto
dell’agenda presidenziale, ed ha rappresentato una delle carte vincenti della campagna elettorale di Trump. Inoltre è chiaro
che anche la nuova Amministrazione non
sarà disposta a lasciare completamente
mano libera a Pechino nelle sue mire di
espansione nel Mar Cinese Meridionale, o
ad avvallare senza contropartite adeguate
le rivendicazioni cinesi sulle Isole Spralty e Paracel – contese fra vari paesi della
regione e considerate fondamentali per il
tracciato di quelle rotte che dovrebbero
formare il “Filo di Perle”. La grande strategia economico-politica posta in essere
nella Città Proibita per collegare l’Impero
di Mezzo con il Mediterraneo passando
attraverso Pacifico, Oceano Indiano, Mar
Rosso. Le aperture clamorose nei confronti
di Taiwan – da sempre un alleato tenuto in
ombra – stanno a dimostrarlo.
Trump, Putin e Xi Jinping
incarnano una nuova
concezione della leadership,
fondata su un assoluto
pragmatismo
Tuttavia, subito dopo il giuramento, Trump
si è affrettato a ritirare gli USA dalla TransPacific Partnership (TPP). Segnale accolto
con molto favore – e forse anche con una
qualche sorpresa – a Pechino. Infatti il TPP
– che senza Washington, di fatto, ha cessato di esistere – rappresentava non tanto
una realtà economica, quanto una precisa
strategia geopolitica, posta in essere prima dal Segretario di Stato di George W.
Bush, Condoleezza Rice, poi da quello di
Obama, Hillary Clinton, con il solo scopo
- non dichiarato, ma evidente – di creare
una sorta di “cintura di contenimento” intorno alla Cina. Per contenerne, appunto,
le mire espansionistiche, e contrastarne
le strategie geo-economiche In particolare proprio quella del Filo di Perle. Un atto,
25
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
quello di denunciare il TPP, che potrebbe
apparire in contraddizione con l’asserita
volontà di non cedere sulla questione delle
Spratly e delle Paracel, ma che, a ben vedere, chiarisce le nuove linee guida dell’Amministrazione Trump nelle relazioni con
Pechino. Infatti, la nuova Casa Bianca
punta più su una strategia fondata sulle
relazioni bilaterali con i singoli paesi che
su quella, più tradizionale dei “blocchi”,
che ritiene dispendiosi e, alla luce della
stagione di Obama, anche troppo coinvolgenti e pericolosi per gli “interessi americani”. Di conseguenza Trump non punta
più su complesse tessiture di alleanze per
circondare, ed isolare, Pechino; preferisce
“risolvere” le ragioni di contrasto attraverso un diretto faccia a faccia con il suo
competitore. Braccio di ferro, dunque, su
molte questioni, con Xi Jinping, ma senza
che questo comporti l’innalzamento di una
nuova “Cortina di bambù”.
nel gioco. Sempre, però, come paesi singoli, ovvero senza la copertura di coalizioni
difensive o pseudo-economiche. In buona
sostanza il punto di arrivo di quella teoria
delle alleanze a geometrie variabili formulata da Wolfowitz alcuni lustri fa.
Per l’Europa, intesa come UE, burocrazia
di Bruxelles ed egemonia dell’asse francotedesco, una brutta sveglia. Se non proprio
il suono di campane a morto. Il fatto che
Trump abbia, immediatamente ricevuto il
premier britannico May – dopo aver clamorosamente applaudito alla Brexit – e
continui a snobbare Merkel ed Hollande,
e a rifilare metaforici ceffoni ai paludati Commissari Ue, rappresenta, di per sé
un segnale estremamente importante.
Che qualcuno a Roma e dintorni, dovrebbe essere pronto a cogliere. In un mondo
dove sempre più conterà la capacità di instaurare relazioni multilaterali e quella,
soprattutto, di essere pronti a cogliere le
occasioni offerte dal gioco mercuriale delle alleanze, l’Europa appare afflitta da una
grave sclerosi. Imprigionata in modelli economici – imposti, per altro, dalla Germania
– ed incapace di divenire attore geopolitico
unitario. Insomma una Quarta torre” completamente assente. Di qui la necessità che
i singoli paesi membri della UE, soprattutto quelli che, come l’Italia, rappresentano
delle potenze regionali, prendano atto del
nuovo scenario. E comincino ad esercitare, nei limiti della loro sfera d’azione, una
politica estera improntata al multilateralismo. Che, tradotto, significa giocare su più
tavoli contemporaneamente, ponendosi
come mediatrici fra i Tre Grandi su specifi-
TRE TORRI, TRE SIGNORI… E L’ITALIA?
Dobbiamo, probabilmente, abituarci all’idea che Trump, Putin e lo stesso Xi Jinping
incarnano con le loro personalità una nuova visione della leadership, fondata su un
assoluto pragmatismo e sulla convinzione
– questa sì pienamente condivisa da tutti
e tre – che la competizione geopolitica è,
essenzialmente, incarnata dalle (tre) Grandi Potenze. E che sono, appunto, queste a
doversi sedere ad un tavolo, guardarsi in
faccia, e prendere le decisioni. Gli altri,
tutti gli altri, devono stare al gioco, ed accodarsi. Tentando, se capaci, di inserirsi
26
Le Tre Torri
ci Dossier critici. Un esempio. La Tensione
tra Washington e Teheran appare destinata, con Trump alla Casa Bianca, a tornare a
livelli critici. Situazione che potrebbe creare difficoltà alle relazioni russo-americane, visto che ben difficilmente, nell’attuale
contesto medio-orientale, Putin potrebbe
decidere di scaricare il, prezioso, alleato
iraniano. L’Italia, però, avrebbe tutto l’interesse a che l’Iran rientrasse nel contesto
di normali relazioni internazionali, sia per
ragioni puramente economiche, sia per la
necessità di rendere più sicura la Nuova
Via della Seta – il grande progetto strategico cinese – che ridarebbe centralità al
Mediterraneo, facendo, quindi, del nostro
paese un attore geopolitico fondamentale.
A fronte di questo Roma dovrebbe/potrebbe porsi come intermediaria fra Mosca e
Washington, magari cercando l’appoggio
a questa iniziativa anche di Pechino. Insomma, una nuova “Pratica di Mare”, ma
mirata ad un preciso obiettivo ed allargata tenendo conto del nuovo Grande Gioco tripolare. Altro esempio, la crisi libica.
Attendersi una strategia comune europea
è mera illusione. L’interesse italiano sta
nell’appoggiare il tentativi di pacificazione
di Sarraj; ma la Francia continua ad appoggiare il rivale generale Haftar, e la Germania ha tutto l’interesse a che il petrolio ed
il gas libico restino fuori mercato, valorizzando ulteriormente il suo controllo della
parte terminale del gasdotto North Stream.
Pertanto il nostro riferimento non può essere che Washington, visto che Sarraj viene
considerato il leader libico che più guarda
in direzione degli States. Per altro il rende-
re più sicure le rotte mediterranee – facendo contemporaneamente da filtro ai flussi
migratori – è interesse anche cinese, visto
che nei progetti di Pechino il “Filo di perle” dovrebbe avere proprio in Italia uno dei
suoi principali porti d’approdo. E l’elenco
delle “opportunità” potrebbe continuare…
Quello che conta, però, è comprendere
come lo scacchiere geopolitico mondiale
vada, oggi, nella direzione di un vorticoso,
per certi versi mercuriale Gioco di alleanze
locali e variabili. Determinate tutte, comunque, dalla presenza di tre Giganti, che
fanno da polo di attrazione. Senza costituire blocchi rigidi, ma piuttosto generando
una dinamica nella quale diventerà sempre
più essenziale sapersi inserire con intelligenza.
Andrea Marcigliano
Senior fellow think tank “Il Nodo di Gordio”
@AndreaMarciglia
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Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
MANCA LA QUARTA TORRE,
QUELLA EUROPEA
di Augusto Grandi
ina, Russia, Stati Uniti. Tre Torri, anche se al neo presidente
Usa, Donald Trump, una pare di
troppo, quella di Pechino. La vecchia Yalta
aveva due soli protagonisti veri, Stati Uniti ed Unione Sovietica. Roosevelt e Stalin,
dunque, mentre Churchill aveva la funzione del parente povero che bofonchia un po’
ma non conta nulla nelle grandi decisioni.
Ora, però, il sogno di Trump deve fare i
conti con una realtà diversa: la Russia non
è l’Unione Sovietica, non ne ha la forza e
Putin non è Stalin. Inoltre la Cina è diventata una interlocutrice scomoda, troppo
grande e troppo forte per essere ignorata.
Ma in questo scenario manca un quarto
potenziale protagonista: l’Europa. Trump
lo sa bene e non ha la benché minima intenzione di resuscitare un cadavere politico alle prese con liti da ballatoio interne.
Dunque il presidente americano continuerà a privilegiare relazioni a due, ogni volta
C
L’Europa si conferma nano
politico sebbene resti ancora
un colosso economico
28
Le Tre Torri
con un diverso Stato dell’Unione europea,
in modo da rendere evidente la totale inesistenza della stessa Ue. Ed il primo passo per la disgregazione è rappresentato
dall’attacco contro la Germania. Il Paese
più grande, più forte, più ricco dell’Europa
Occidentale. Quindi il nemico principale.
Isolare Berlino non sarà neppure troppo
difficile, considerando la scarsa simpatia di
cui gode la Germania a causa, soprattutto
ma non solo, dei propri errori.
Trump utilizzerà innanzi tutto la leva commerciale, accusando Berlino di aver barato
sulla moneta unica europea con l’imposizione di un cambio che favoriva artificialmente la Germania a danno dei Paesi del
Mediterraneo. Ma gli alibi per scatenare
guerre, seppur commerciali, non mancano
mai, persino quando non ne esistono di reali. Peraltro sul fronte del valore dell’euro
rispetto alle monete nazionali, Trump troverà terreno fertile in molti Paesi europei
che si sentono discriminati ed impoveriti a
causa delle follie del cambio.
Dunque Berlino rischia l’isolamento. E le
strategie imposte alla Grecia dalla Germania, insieme alla Troika, non rappresentano certo una carta vincente per riaggregare
il Vecchio Continente intorno alla Merkel.
Come le assurde regole dell’Ue sul fronte
dell’agricoltura, con scelte che penalizzano le produzioni di qualità italiane a vantaggio delle produzioni industriali dell’Europa del Nord (Germania compresa) e delle
importazioni da Paesi extraeuropei. Difficile ottenere consensi dopo aver provocato
il malcontento con provvedimenti ingiusti
e discriminatori. Perché il malcontento,
perfettamente motivato, serve anche a respingere ogni eventuale critica comprese
quelle sacrosante. L’Europa non accetta
più l’austerità quando non è accompagnata da comportamenti corretti da parte di
chi pretende di dare lezioni agli altri.
29
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
Certo, si può continuare con i burocrati di Bruxelles che sanzionano le vongole
dell’Adriatico perché ignorano le differenze di dimensione a seconda delle località
di raccolta. E far finta di nulla di fronte al
vino senza uva o ai succhi di frutta senza
frutta. Ma di certo non è in questo modo
che si creano le condizioni per un’unione
reale tra i popoli europei.
Quanto poi al problema dei migranti, è stata la follia di Angela Merkel che ha spalancato le porte a tutti a provocare la creazione di nuovi muri in Europa, tra Stati della
stessa Unione. La cancelliera non poteva
certo ignorare che la Germania non confina
con i Paesi da cui parte l’ondata migratoria
e, dunque, l’esercito di migranti avrebbe
dovuto attraversare tutti gli altri Paesi europei, creando problemi colossali e di ogni
genere. E provocando rabbia contro Merkel
e contro i tedeschi in genere. Quei tedeschi
che non possono certo essere amati dai
greci ridotti alla fame grazie all’austerità
per salvare i crediti delle banche tedesche.
Ma se le tensioni all’interno della Ue sono
la conseguenza di scelte egoiste che privilegiavano gli interessi tedeschi, non è che
sul fronte esterno la situazione sia andata
migliorando. Berlino era riuscita a creare
un asse privilegiato, e forte, con Mosca.
Un’alleanza di fatto che aveva avuto come
simbolo il North Stream. Poi, però, l’idillio
è svanito. Gli scontri in Ucraina hanno permesso agli Stati Uniti di imporre le sanzioni contro la Russia, e gli Usa hanno anche
imposto all’Europa di seguirli su questa
strada. Con danni pesantissimi per l’economia italiana. Che, tra l’altro, si è vista
pure bloccare gli accordi per la realizzazione del South Stream. Peccato che, mentre
l’Italia doveva allinearsi ai voleri americani e di Bruxelles (ma anche di Berlino),
la Germania trattava tranquillamente con
Putin per il raddoppio del North Stream.
Un percorso che non ha favorito un reale
riavvicinamento tra Mosca e l’Europa e
neppure con la Germania. Ma che, in compenso, è servito ad umiliare ulteriormente
l’Italia.
D’altronde chi vuol essere il primo della
classe dovrebbe anche assumerne gli oneri, non solo gli onori. Invece Berlino è stata
assente dalla vicenda libica, non ha avuto ruoli in quella siriana. Le solite parole
a vuoto, ma tanto politicamente corrette,
sulla battaglia di Aleppo, con il sostegno
verbale dell’Ue, ma per il resto l’irrilevanza
assoluta.
L’Europa a traino tedesco non ha alcun
ruolo nel Mediterraneo, lasciando campo
a Putin o alle confuse strategie francesi in
Libia (confuse ma sicuramente più efficaci
rispetto al nulla altrui). Non ha credibilità nel confronto sulle frontiere ad Est, con
sempre più Paesi dell’ex blocco sovietico
che hanno superato l’odio per gli anni di
oppressione e guardano di nuovo a Mosca
come partner commerciale e come sponda
politica. Ma l’irrilevanza è assoluta anche nei confronti della Turchia che, dopo
il tentato golpe, si è ritrovata abbracciata
alla Russia. E sta disegnando, con Putin,
nuovi scenari in una vasta area che comprende anche l’Iran. Mentre le aziende
italiane, che dall’Iran si attendono ricchissime commesse, sono ancora in attesa del
30
Le Tre Torri
via libera da Washington per far affari con
Teheran.
E’ evidente che la strategia di Trump di dividere l’Ue e di trattare con i singoli Stati
renderebbe tutti i Paesi europei molto più
deboli e ricattabili. Schiacciati nella tenaglia della nuova Yalta e con la possibilità di
arraffare qualche briciola nei rapporti con
le potenze regionali come Turchia, Iran. O
con l’Egitto, il Marocco, i Paesi dell’Asia
Centrale. Inutile sperare in qualche gioco
di sponda con l’America Latina. Nei giorni di maggior contrasto tra Trump ed il
Messico, l’Europa è rimasta muta al di là
delle solite chiacchiere da bar sulla correttezza politica. Nessuna idea di rilancio di
un asse con un mondo che parla spagnolo
e portoghese e che ha milioni di cittadini
di origine italiana. L’Europa è assente, al
di là di qualche investimento finanziario o
industriale. Manca la capacità di analisi e,
di conseguenza, mancano idee, proposte,
progetti.
Ma la Yalta che piace a Trump esclude anche la Cina e questo potrebbe rimettere in
gioco l’Europa, qualora fosse in grado di
uscire dall’irrilevanza. In fondo il nano politico europeo è ancora un gigante economico. Produce sempre meno, ma è comunque il mercato mondiale di riferimento.
L’impoverimento che, da anni, sta caratterizzando il Vecchio Continente è una follia che serve solo agli speculatori ma non
agli imprenditori. I consumatori europei
diventano un obiettivo per tutti i Paesi
produttori. E chi è più vicino al mercato è
avvantaggiato. La Cina sta cercando di avvicinarsi, con la Via della Seta ferroviaria,
ma resta comunque penalizzata dai tempi
di percorrenza rispetto ai Paesi della sponda Sud del Mediterraneo che possono produrre e vendere in tempi molto più rapidi.
Inoltre, in previsione di un continuo impoverimento della popolazione europea a
causa di politiche salariali suicide, la sfida
tra la Cina ed i Paesi Nordafricani, mediorientali o centroasiatici si farà sui prezzi.
Che terranno conto dei costi di produzione
ma anche di quelli per il trasporto.
In uno scenario di questo tipo l’Italia potrebbe svolgere un importante ruolo logistico, ma le infrastrutture del Paese rischiano di cancellare questa opportunità a
vantaggio della Grecia e dei Balcani dove la
Cina sta già investendo proprio sulla logistica. Senza dimenticare i porti dell’Europa
del Nord, già oggi preferiti a quelli italiani
a causa della carenza di infrastrutture, persino da chi arriva da Sud. E, in prospettiva,
i porti del Nord saranno anche avvantaggiati dalla maggior facilità di navigazione a
causa dello scioglimento dei ghiacci.
Augusto Grandi
Senior fellow think tank “Il Nodo di Gordio”,
Giornalista de “Il Sole 24 Ore”
@augusto_grandi
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Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
LA MURAGLIA
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CHINA’S EURASIAN PIVOT:
MOTIVATIONS, IMPLICATIONS
AND PROSPECTS
di Marlen Belgibayev and Xiaotong Zhang
LA SINIZZAZIONE DELL’ASIA
CENTRALE TREDICI SECOLI DOPO
di Marcello Ciola
LA STRATEGIA MARITTIMA DELLA REPUBBLICA POPOLARE CINESE
DA MAO A XI JINPING
di Manuel Moreno Minuto
LA STRATEGIA CINESE
DEL “FILO DI PERLE”
di Antonciro Cozzi
LA CINA ARRIVA IN EUROPA SULL’AUTO ELETTRICA
di Augusto Grandi
32
La Muraglia infinita
Il Dragone di Pechino dalla Grande
Muraglia sta sempre più giocando una
partita globale
33
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
CHINA’S EURASIAN PIVOT:
MOTIVATIONS, IMPLICATIONS
AND PROSPECTS
di Marlen Belgibayev and Xiaotong Zhang1
hinese President Xi Jinping
launched the two Silk Road initiatives in 2013 –“the Silk Road
Economic Belt” and “the 21st Century
Maritime Silk Road,” which are generating
significant geopolitical implications both
regionally and globally. These Silk Road initiatives, which we would call the “Eurasian
Pivot,” are unprecedented in Chinese history characterized by assertiveness in an economic sense. This paper tries to examine
the motivations, implications and prospects
of China’s Eurasian Pivot. China’s Eurasian
Pivot is somewhat a reminder of the classical geopolitical theories of Alfred Mahan,
Halford Mackinder and Nicholas Spykman,
which are based on the relative importance
C
XI Jinping launched the
two Silk Road initiatives in
2013 which are generating
significant geopolitic
implications both regionally
and globally
1. Marlen Belgibayev is a research fellow at Wuhan University Centre of Economic Diplomacy. Xiaotong Zhang, the
corresponding author, is the executive director of Wuhan
University Centre of Economic Diplomacy and associate
professor of the School of Political Science and Public Administration of Wuhan University.
34
La Muraglia infinita
nents - the “Silk Road Economic Belt”
(SREB) and the “21st-Century Maritime
Silk Road” (MSR). Chinese President Xi Jinping officially announced the idea to build
the SREB during his visit to Kazakhstan in
September 2013 and the MSR during his
visit to Indonesia in the same year.3
The document released by the NDRC also
has the geographic parameters of China’s
“One Belt, One Road” initiative. The SREB
(“One Belt”) involves the construction of
overland road and rail routes, oil and natural gas pipelines, and other infrastructure
projects that “bring together China, Central Asia, Russia and Europe (the Baltic);
linking China with the Persian Gulf and the
Mediterranean Sea through Central Asia
and West Asia; and connecting China with
of land or sea communications. We find that
the success of China’s Eurasia Pivot would
be largely determined by a complex set of
geopolitical factors, in particular China’s
interactions with major and regional powers, such as the United States, Russia, The
European Union and India.
1. INTRODUCTION
In March 2015, China’s National Development and Reform Commission (NDRC)
jointly with the Chinese Ministry of Foreign Affairs and Ministry of Commerce released an action plan outlining key details
about its proposed “One Belt, One Road”
(OBOR) initiative.”2
The “Belt” and “Road” have two compo-
2. “Vision and Actions on Jointly Building Silk Road Economic Belt and 21st-Century Maritime Silk Road,” Xinhua News
Agency, March 28, 2015, available at: http://news.xinhuanet.com/english/china/2015-03/28/c_134105858.htm.
3. “Chronology of China’s Belt and Road Initiative,” Xinhua News Agency, March 28, 2015, available at: http://news.xinhuanet.
com/english/2015-03/28/c_134105435.htm.
35
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
Southeast Asia, South Asia and the Indian
Ocean. The MSR (“One Road”) entails a
network of coastal infrastructure projects
from “China’s coast to Europe through the
South China Sea and the Indian Ocean in
one route, and from China’s coast through
the South China Sea to the South Pacific in
the other”4 (see Figure 1).
On land, in addition to the “Belt,” the OBOR
“will focus on developing China-Mongolia-Russia, China-Central Asia-West Asia
and China-Indochina Peninsula economic
corridors. At sea, the China-Pakistan Economic Corridor and the Bangladesh-China-India-Myanmar Economic Corridor will
supplement the “Road.”5
Therefore, the Belt and Road intend to knit
together the whole Eurasian Continent
through a complex connectivity projects,
which will be funded by the China-led
Asian Infrastructure Development Bank
(AIIB)6 and the Silk Road Fund (SRF) and
are designed to complement and support
the Belt and Road’s development.7 Apart
from the “hard” infrastructure connectivity projects, China is building the “soft”
connectivity, including policy communication, trade facilitation, monetary circulation and people-to-people exchanges.
Figure 1: China’s Silk Road Economic Belt and Maritime Silk Road. Source: http://www.postwesternworld.
com/2015/03/10/chinas-pivot-eurasia/.
Chinese leaders note that the OBOR “is
expected to change the world political and
economic landscape through development
of countries along the routes.”8 Xi Jinping
is also hopeful that this large-scale project
would touch 4.4 billion people in more than
65 countries and that annual trade volume
between China and “Belt and Road” countries would “surpass 2.5 trillion U.S. dollars
in a decade or so.”9 South China Morning
Post even called the OBOR “the most significant and far-reaching project the nation has ever put forward.”10
Xi’s new Eurasian strategy constituted a
salient deviation from China’s traditional
experiences. Traditionally, China’s Eurasian strategy was defensive, as evidenced
4. “Vision and Actions on Jointly Building Silk Road Economic Belt and 21st-Century Maritime Silk Road,” Xinhua News
Agency, March 28, 2015, available at: http://news.xinhuanet.com/english/china/2015-03/28/c_134105858.htm.
5. Ibid.
6. “21 Asian countries sign MOU on establishing Asian Infrastructure Investment Bank,” Xinhua News Agency, October 24,
2014, available at: http://news.xinhuanet.com/english/business/2014-10/24/c_133740149.htm.
7. “China pledges 40 bln USD for Silk Road Fund,” Xinhua News Agency, November 8, 2014, available at: http://news.xinhuanet.com/english/china/2014-11/08/c_133774993.htm.
8. Shannon Tiezzi, “Where Is China’s Silk Road Actually Going,” The Diplomat, March 30, 2015, available at: http://thediplomat.com/2015/03/where-is-chinas-silk-road-actually-going/.
9. Ibid.
10. “‘One belt, one road’ initiative will define China’s role as a world leader,” South China Morning Post, April 2, 2015, available
at:
http://www.scmp.com/comment/insight-opinion/article/1753773/one-belt-one-road-initiative-will-define-chinasrole-world.
36
La Muraglia infinita
by the construction of Great Wall to defend
the invasion by Northern nomadic tribes.
There were exceptions in history, represented by Emperor Wu (156-87 BC) of Han
Dynasty (206 BC–220 AD) and Emperor
Yongle (1360–1424 AD) of Ming Dynasty
(1368–1644 AD). Emperor Wu sent military
expeditions to fight Huns, and more famously, sent Zhang Qian, on a diplomatic
mission to the nomads who were the enemy of Huns. Although Zhang was unable
to get military support from those nomads
to fight the Huns, he collected extremely
important information, essential for the
Chinese troops to finally defeat the Huns
in 123-119 BC, thereby securing the route
from China to the West. That made possible the emergence of a trade Silk Road
sometime around the end of the 2nd Century BC.11 One thousand five hundred years
later, Emperor Yongle sponsored massive
and long-term maritime expeditions led
by the Admiral Zheng He along the Indian
Ocean. However, these expeditions were
transient with the real purposes remaining
a mystery. Once the military and diplomatic objectives were achieved, or as a result
of fierce domestic resistances, China retreated to her traditional borders, or simply imposed a sea ban, as did the emperors
of Ming Dynasty and Qing Dynasty.
Now what Xi is doing seems another historical exception by launching a new assertive Eurasian strategy, what we would
call “China’s Eurasian Pivot.” China’s
Eurasian Pivot marks undergoing foreign
policy changes under President Xi Jinping.
In response to the current global geopolitical situation and its internal development
challenges, China is broadening its geopolitical interests and making more efforts in
“looking westwards,” particularly towards
China’s western-frontier neighbors, including Central Asia, Russia, the Middle
East and Eastern Europe.
China’s efforts to implement the OBOR
initiative could have an important effect
on the entire Eurasian economic architecture - regional trade, infrastructure development, investment - and in turn have
strategic implications for the major and
regional powers, such the United States,
Russia, the EU and India. This initiative
also raised another question to foreign
policy-makers and scholars - whether China’s Eurasia Pivot follows the logic of classic geopolitics.
In this paper, our core research questions
are three: (1) What motivated China’s Eurasian Pivot and how it is correlated with
the classical geopolitics? (2) What are the
geopolitical implications on other Eurasian powers? (3) What are the prospects
of China’s Eurasian Pivot?
We start with the literature review of classical geopolitics, illustrating the Realist
logic underpinning the classical geopolitical literature, including the theories
of Alfred Mahan, Halford Mackinder and
Nicholas Spykman. We then analyze the
characteristics and motivations of China’s
Eurasia Pivot and examine how it is corre-
11. Oliver Wild, The Silk Road, 1992.
37
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
lated with the classical geopolitics. In the
fourth section, we look at Eurasian strategies of other major and regional powers
including the United States, Russia, the
European Union, and India and see how
they compete or coexist with China’s new
OBOR. Finally, we evaluate the prospects
of China’s Eurasian Pivot.
for the US to win is to reduce continental powers’ control over the coastal areas, restraint
their access to maritime spaces and prevent
the formation of coalitions between Eurasian
powers, especially Russia and Germany.13
Mahan’s concept had an enormous influence in shaping the strategic thought of
navies across the world, especially in the
United States, Germany, Japan and Great
Britain, ultimately contributing to a European naval arms race in the 1890s, which
included the United States.
Unlike Mahan, Sir Halford Mackinder was
a proponent of control over the vast land
mass. In his Geographical Pivot of History,
Mackinder introduces the concept of the
“Heartland” – a huge land mass that occupies the central part of Eurasia, approximately coinciding with the territory of the
Russian Empire and the Soviet Union (see
Figure 2). Mackinder attached great geopolitical importance to the Heartland, which
is “the great natural fortress” with the vast
natural resources and inaccessible to any
sea power. The Heartland does not have convenient transportation access to the world
ocean, except the Arctic Ocean that almost
permanently covered by ice. The Heartland
is also surrounded by coastal areas of “inner
or insular crescent” stretching from Western Europe crossing the Middle East and Indochina to Northeast Asia. Mackinder also
highlighted the “outer crescent” composed
by maritime powers, including North and
South America, Australia, Oceania, sub-
2. LITERATURE REVIEW
OF CLASSICAL GEOPOLITICS
The classical geopolitics features geopolitical competition and control over territory, as well as alludes to the balancing
and counter-balancing between sea powers and land-based powers.
Alfred T. Mahan’s book The Influence of Sea
Power upon History outlined and argued, “[T]
he national greatness was inextricably associated with the sea, with its commercial
usage in peace and its control in war.” He
also recognized gaining dominance at sea
as a main geopolitical factor in international
politics, which allows ensuring victory over
the enemy and dominating the world. Therefore, presence of a strong navy, according to
Mahan, will largely determine “the historical
fate of nations and peoples.”12
Mahan also viewed continental powers of
Eurasia, including Russia, China and Germany
as the main danger to the maritime powers.
For him, the fight against Eurasian powers,
especially Russia was a long-term strategic
goal of the United States and the best tactics
12. Mahan, Alfred Thayer. The Influence of Sea Power upon History, 1660–1783 (1890), pp.25-89. Little, Brown & Co. Boston,
1890. Repr. of 5th ed., Dover Publications, New York, 1987.
13. Ibid.
38
La Muraglia infinita
Saharan Africa, the British Isles and Japan.14
In later works, Mackinder amended the
geographical boundaries of the Heartland.
Particularly, in 1919, he introduced additionally the Eastern European “strategic
Heartland” (Figure 2). Mackinder noted that
the Heartland is surrounded by formidable
space on all sides except the west, where it
is open to cooperation with the countries
of the “inner crescent” (Western Europe).
Therefore, the region of Eastern Europe is
of particular importance in world politics.
It is the region of potential major conflicts
as well as a platform to develop cooperation between the Heartland and maritime
powers.15 In the same work, he formulated
his famous maxim: “Who rules East Europe commands the Heartland; who rules
the Heartland commands the World-Island
(Eurasia and Africa); who rules the WorldIsland commands the world.”16
A Dutch-American geostrategist Nicholas
J. Spykman based his geostrategic ideas
on those of Halford Mackinder’s Heartland
theory. However, he proposed his own version of the geopolitical scheme, somewhat
different from Mackinder’s model. He argued that Mackinder overrated the geopolitical importance of the Heartland. According to his view, the key to controlling
Figure 2: Mackinder’s “Pivot area” or the “Heartland.”
Source: http://apksmart.com/eaf9082/amcukindir.html.
the world does not belong to the Heartland,
but to the Eurasian coastal areas of the “inner crescent” including maritime countries
in Europe, Middle East, India, Southeast
Asia and China.17 This belt stretching from
the western edge of the Eurasian continent
to the eastern one Spykman called as the
“Rimland”. The Rimland in turn possess all
of the key resources and populations hence
its domination is key to the control of Eurasia.18 Thus, Spykman reworked Mackinder’s formula to read: “Who controls the
Rimland rules Eurasia; who rules Eurasia
controls the destinies of the world.”19
Spykman was the successor of Mahan’s
ideas as both shared the view that the dominance in the ocean is a critical condition
for world control. Spykman is also known
as the “godfather of containment.”20 Pri-
14. Halford J. Mackinder, “The Geographical Pivot of History,” The Geographical Journal, Vol. 23, No. 4 (April 1904), p. 434.
15. Halford J. Mackinder, “Democratic Ideals and Reality. A Study in the Politics of Reconstruction”, National Defense University Press, 1996, pp. 145–150.
16. Halford J. Mackinder, “Democratic Ideals and Reality. A Study in the Politics of Reconstruction,” National Defense University Press, 1996, p. 150.
17. Spykman, Nicholas. The Geography of the Peace. Harcourt, Brace and Co., 1944.
18. Ibid.
19. Ibid.
20. Timothy Boon von Ochssée, Mackinder and Spykman and the New World Energy Order, January 5, 2015, available at:
http://www.exploringgeopolitics.org/Publication_Boon_von_Ochssee_Timothy_Mackinder_and_Spykman_and_the_
new_world_energy_order/.
39
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
marily based on Spykman’s theory, right
after the Second World War and during the
Cold War the United States established a
network of military bases to encircle the
Soviet Union along the Rimland (from the
Mediterranean to Indochina), which eventually led to the formation of NATO in Europe, CENTO21 in West Asia, and SEATO.22
It is remarkable that Mackinder, Mahan
and Spykman themselves once warned
about China, which occupies areas in both
the Heartland and Rimland. They predicted that China would become the leader in
Asia and even use its advantageous geographical position “given its 9,000-mile
temperate coastline with many good natural harbors” to dominate Eurasia and to
threaten the insular powers of Japan and
the United States.23
Although Mackinder did not openly mention about China but “he was convinced
that the state, which controlled the Heartland, would consolidate space, resources
and power until the littoral spaces of Europe and Asia would be subsumed into
the Heartland. As the power and territory
of the heartland was consolidated and expanded, over a period of time, land power
would surely translate into sea power.”24
Spykman foresaw that China with a large
territory and abundant human and military resources would eventually try to create a great continental empire. In 1942 he
wrote, “China will be a continental power
of huge dimensions in control of a large
section of the littoral.”25
Mahan in turn identified the “immense
latent force” of China as a potential geopolitical rival and its ability to influence
events not only in Asia but also in Europe.26
He regarded China as a future key object of
the US strategy and advised the US policy
makers to maintain an “open-door policy”
and prevent the change of China’s maritime orientation to the continental one.
However, the question arises whether the
theories of Mahan, Spykman and Mackinder developed almost a century ago are
still applicable in the context of the present geopolitical realities. Mackinder and
his theory in particular are in the spotlight
and have been repeatedly discussed.
Walters argues that Mackinder and the
“Heartland theory” are irrelevant to contemporary geopolitics since it is based on
one view of the globe, and stated, “policy
is made in the minds of men; its contours
may not concur with a true map of the
21. The Central Treaty Organization (CENTO) was formed in 1955 by Iran, Iraq, Pakistan, Turkey, and the United Kingdom. It
was dissolved in 1979. Source: http://en.wikipedia.org/wiki/Central_Treaty_Organization.
22. The Southeast Asia Treaty Organization (SEATO) was an international organization for collective defense in Southeast
Asia created by the Southeast Asia Collective Defense Treaty, or Manila Pact, signed in September 1954 in Manila, Philippines.
Source: http://en.wikipedia.org/wiki/Southeast_Asia_Treaty_Organization.
23. Robert D Kaplan, “The Geography of Chinese Power,” Foreign Affairs, Vol. 89, No. 3, 2010, p. 22.
24. Monika Chansoria and Paul Benjamin Richardson. Placing China in America’s Strategic ‘Pivot’ to the Asia Pacific: The
Centrality of Halford Mackinder’s Theory. CLAWS Journal, 2012.
25. Spykman, Nicholas. America’s Strategy in World Politics: The United States and the Balance of Power. New York, Harcourt,
Brace and Company, 1942.
26. Mahan, Alfred Thayer. The interest of America in Sea Power, Present and Future. Boston: Little, Brown and company,
1897, Chapter VII: A twentieth-century outlook.
40
La Muraglia infinita
world.”27 Some scholars agree that Mahanian concept about preponderance at sea
and Spykman’s Rimland theory have historically proved themselves right while
Mackinder’s Heartland did not become the
center of economic and political gravity as
“the East Asian littoral” is today.
Cohen claims that Mackinder failed to recognize the importance that lies outside the
Heartland, particularly the Rimland and
the Offshore Islands (Mackinder’s “outer or
insular crescent”). He elaborated further,
saying that if his concepts were correct,
then immediately after the Soviet Union’s
collapse, Central Asia would be the scene
of fierce geopolitical struggle between the
great powers. However, today other regions of the world, including the Persian
Gulf and East Asia play a much greater role
in international politics.28
Ergashev in the same fashion seized upon Cohen’s ideas and highlighted that today’s Central Asia makes a relatively small contribution
to contemporary international relations. Nevertheless, he admits at the same time the potential re-emergence of Central Asia as a spot
of geopolitical significance “only when China
is powerful enough to challenge the predominant American power, may the ‘pivot of history’ once again become an object of intense
interest by extra-regional powers.”29
In addition, there are scholars who have not
rejected Mackinder but re-conceptualized
and relocated the original geographical
position of the Heartland. Thompson, for
example, framed China as the geographical
pivot of history and said, “If China comes to
dominate the Western Pacific, it will control
the industrial heartland of the global economy.” He also added, “Halford Mackinder
may not have gotten the zip codes right, but
a century after he propounded the notion of
a global heartland, it actually exists - with
China at its center.”30
The review of classical geopolitical literature reveals some of the characteristics
that are peculiar to it, including military
confrontation, control over territory and
natural resources. However, the classical geopolitics of Mackinder, Mahan and
Spykman, besides military power and coercion, also examines strategic prescriptions
based on the importance of controlling
sea-lanes and land communications.
China’s Eurasia Pivot, in turn, in the same
fashion implies predominance both at land
and at sea, as some Western commentators believed. Landward, China is using
financial and transportation resources
to construct the “Belt” and penetrate the
resource-rich lands of Central Asia, Russia and the Middle East. Whereas seaward,
China is strengthening naval power and
constructing the “Road” along the AsiaPacific region.31
However, what China is now doing seems
27. Walters, R.E., The Nuclear Trap: An Escape Route, Harmondsworth (England: Penguin Books, 1974), p.175.
28. Cohen W. The Asian American Century. N.Y.: Basic Books, 2002.
29. Bahodirjon Ergashev. Determinism versus Friction: A Critique of Mackinder. CA&CC Press, 2005, available at http://www.
ca-c.org/journal/2005/journal_eng/cac-04/10.ergeng.shtml.
30. Loren Thompson, “The Geopolitics of China’s Rise,” Early Warning Blog – Lexington Institute, January 28, 2011.
31. Francis P. Sempa, “Is China Bidding for the Heartland?” The Diplomat, January 21, 2015, available at: http://thediplomat.
com/2015/01/is-china-bidding-for-the-heartland/.
41
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
In October 2013, Xi Jinping suggested southeastern countries to establish the Maritime
Silk Road during a speech to the Indonesian
Parliament. The content of the speech in
Indonesia was similar to the viewpoints presented by Xi in Astana. The main emphasis
was given to the stronger political and economic interactions, closer cooperation on
joint infrastructure projects, the enhancement of security cooperation, and the idea of
a “21st Century Maritime Silk Road.”34
Chinese Foreign Minister Wang Yi, when
summarizing China’s diplomacy of the Year
2014, well summarized the two-level motivations of silk road initiatives, “Internally,
this initiative dovetails with China’s development strategy of developing our central
and western regions while addressing regional imbalances and fits well with our “go
global” strategy aimed at building all-directional cooperation with the outside world.
Internationally, this initiative aims to secure
common development, shared prosperity in
all countries along the routes, as it upholds
the vision for a community of shared destiny,
and highlights a win-win approach featuring
consultation, joint development and sharing. The initiative is bound to bring new life
and vigor to the ancient land of Eurasia and
give this vast continent two strong wings on
its journey toward prosperity.35
very different from the traditional geopolitical expansion undertaken by the great
powers in the first half of the 20th century.
China’s Eurasia Pivot very much focuses
on economic rationale and practices. At
the same time, we believe that it encompasses some features of Mackinder and
Mahan’s classical geopolitics as well.
3. CHINA’S EURASIAN PIVOT:
MOTIVATIONS AND CHARACTERISTICS
3.1 China’s Official Rhetoric about the
OBOR Motivations
In his speech delivered at Nazarbayev University in Astana, Xi for the first time posited
the idea of the “Silk Road Economic Belt”
and detailed the motivations thereof. Xi said,
“in order to strengthen economic ties, deepen cooperation and broader the space for development of Eurasian countries, we can apply a new model of cooperation and jointly
build the Silk Road Economic Belt, which I
believe will be very beneficial to people of all
countries along the route.”32 In his speech,
Chinese President also urged countries “to
strengthen political and trade relations, as
well as to strengthen the construction of a
single road network from the Pacific to the
Baltic Sea.”33
32. 习近平,“弘扬人民友谊共创美好未来——在纳扎尔巴耶夫大学的演讲”,2013年9月7日,阿斯塔纳,available at:
http://www.fmprc.gov.cn/mfa_chn/zyxw_602251/t1074151.shtml, last accessed on December 30, 2014.
33. Ibid.
34. Wu Jiao, “President Xi gives speech to Indonesia’s parliament”, China Daily, October 2, 2013, available at: http://www.
chinadaily.com.cn/china/2013xiapec/2013-10/02/content_17007915.htm.
35. Chinese Ministry of Foreign Affairs, “2014 in Review: A Successful Year for China’s Diplomacy - Foreign Minister Wang Yi
Attended and Addressed the Opening Ceremony of the Symposium on the International Developments and China’s Diplomacy in 2014,” Beijing, December 24, 2014, available at: http://www.fmprc.gov.cn/mfa_eng/zxxx_662805/t1222886.shtml,
last accessed on December 30, 2014.
42
La Muraglia infinita
3.2 China is Pivoting Seaward
After going through the Chinese government’s official rhetoric, I am now going to
explore the main characteristics of China’s
Silk Road strategy and to show how it correlates with the classical geopolitical theories of Mahan and Mackinder.
Mahan once called for the US to build a
powerful navy and an extensive network
of naval bases to establish control over the
world’s oceans and to expand the sphere of
influence of the US Navy. Mahan’s geostrategic vision about the superiority at sea
seems actively embraced by China’s policy
makers.
Today, China is pursuing a strategy of active investment in maritime-related infrastructure in South Asia. Particularly, China
is actively investing and constructing a
number of ports along the entire length of
the Indian Ocean. American defense contractor Booz Allen Hamilton has dubbed
this strategy as the “String of Pearls” (Figure 3), wherein “pearls” refer to China’s
land and maritime-related infrastructure
stretching from the South China Sea to the
Arabian Sea.36
According to Booz Allen Hamilton, to
implement the String of Pearls strategy,
China has developed a comprehensive and
long-term plan.37 The first phase involves
the establishment of transport corridors
and oil links from Sri Lanka (Hambantota) via Myanmar (Kyaukphyu Port) and
Figure 3: “String of Pearls.” Source: http://stratrisks.com/
geostrat/13282.
ultimately to Kunming (capital of Yunnan
Province), from Pakistan (through Gwadar
Port, and then by proposed railway to link
the Sino-Pakistani-built Karakorum highway and western China) and from Thailand
(through the proposed Kra Isthmus project
funded by China).
The second phase implies a material presence in the Indian Ocean - creating a network of ports, huge warehouses and other
facilities in a number of aforementioned
countries.
During the third phase, China intends to
pave “land bridges” by building roads,
aqueducts and viaducts to strengthen
the relationships between China’s southern provinces with the bordering ASEAN
countries and provide southeastern provinces with access to the Indian Ocean. For
this purpose, Beijing laid out railways and
highways from Kunming to Hanoi and construct Karakorum Highway from the port
of Gwadar to China’s western provinces.
These large-scale infrastructure projects
36. Shannon Tiezzi, “The Maritime Silk Road Vs. The String of Pearls,” The Diplomat, February 13, 2014, available at: http://
thediplomat.com/2014/02/the-maritime-silk-road-vs-the-string-of-pearls/.
43
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
in the Indian Ocean are primarily aimed
at boosting economic relations with the
ASEAN countries and ensuring China’s
energy security, which will greatly alleviate the “Malacca dilemma.” In strategic
and economic terms, the Strait of Malacca, located between Malaysia and the Indonesian island of Sumatra, is one of the
major sea-lanes and at the same time a
source of escalating tension between several countries (China, Philippines, Vietnam,
Japan) due to unresolved maritime/territorial disputes. Based on its military alliance
system, the US is able to exercise effective
control of this route and does not exclude the possibility of blocking the Strait of
Malacca. In fact, almost 85% of imports to
China transit via this route, including 80%
of the PRC’s energy imports.38
However, some Western observers often
view the String of Pearls as China’s military strategy. There is a fear about the
possible dual-use nature of the Chineseoperated ports and facilities, which theoretically can be used to deploy the People’s
Liberation Army Navy (PLAN) in the Indian Ocean and beyond. China’s uncompromising stand towards territorial disputes in the South China Sea, “the recent
visit of a Chinese submarine in Sri Lanka,
and Pakistan’s invitation for China to set
up a naval base in Gwadar” raise fears that
Chinese-operated seaports are not limited
to just economic terms.39
In fact, China has never officially used the
term “String of Pearls” and insists that its
37. Ibid.
38. Ibid.
39. Lucio Blanco Pitlo III, “China’s One Belt, One Road’ To Where?,” The Diplomat, February 17, 2015, available at: http://thediplomat.com/2015/02/chinas-one-belt-one-road-to-where/.
44
La Muraglia infinita
investment in maritime-related infrastructure is motivated only by economic reasons.
Zhou Bo from China’s Academy of Military
Science rejected the notion that China is establishing military bases throughout the Indian Ocean. He notes, “China has only two
purposes in the Indian Ocean: economic
gains and the security of Sea lines of Communication (SLOC)…Access, rather than
bases, is what the Chinese Navy is really
interested in.” He continues to say that China’s infrastructure development will “help
to mitigate security concerns.”40
In order to defuse tensions over China’s
activity in the Indian Ocean, particularly in
India, which sees itself as being encircled,
Beijing subsequently came up with the
Maritime Silk Road. This initiative is intended to emphasize the economic nature
of China’s actions. Similarly, it also allows
China jointly with specialized investment
vehicles such as the AIIB and the Silk Road
Fund to continue its investment in maritime infrastructure in the Indian Ocean
and South China Sea.
ning of the new millennium and the turbulent regional environment in Asia-Pacific
is forcing the Chinese leadership to turn
their eyes towards the Western frontier,
namely the vast expanses of Eurasia. As a
result, China is pushing forward with the
Silk Road Economic Belt (SREB), in contrast to the American “Asia Pivot.” Now,
China is actually embarking on a strategic
shift from its traditional “looking east”
policy to “looking west,” and the whole
Eurasian continent would be the future
key stage for China’s geopolitical performance. It seems that a prominent Chinese
scholar Wang Jisi played a certain role since it is him who first articulated the idea of
“Marching West,”41 as a rebalancing act of
China’s geo-strategy. As the United States
has pivoted towards the Asia-Pacific, Wang
urged Chinese policymakers not to limit
their interests to the Asia-Pacific region,
but rather to develop a plan to advance relations with China’s western-frontier neighbors, including Central Asia, South Asia,
and the Middle East and, furthermore, to
form a Eurasian cooperation framework
from London to Shanghai.
Mackinder in contrast to Mahan and Spykman even argued that the Heartland, which
comprise the territory of Central Asia and
Russia, is well connected to be a dominant
power. The importance of the heartland
region was first suggested to Mackinder
by his conception of the value of a central
3.3 China Is Pivoting Landward
For a long time, the Asia-Pacific direction
has been a key focus of China’s foreign
policy, whereas regions located to the west
of China, including Central Asia received
lesser foreign policy attention.
However, changes occurred with the begin-
40. Shannon Tiezzi, “The Maritime Silk Road Vs. The String of Pearls,” The Diplomat, February 13, 2014, available at: http://
thediplomat.com/2014/02/the-maritime-silk-road-vs-the-string-of-pearls/.
41. 王缉思( Wang Jisi), “Marching West, China’s Geo-strategic Re-balancing (西进, 中国地缘战略的再平衡)” (Beijing:
School of International Relations of Peking University, 2013).
45
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
position with interior lines of communication made powerful and unified by the
development of railway network to a point
where it could begin to compete with sea
communication. He also envisaged the
transformation of the steppe land from an
area of low economic potential to one of
high economic potential.42
Mackinder’s concept on the importance of
the railway network seems to be currently
implemented by China. Railways will play
a key role in the SREB. China is rapidly
expanding its own rail network and has
already become a world leader in the construction of high-speed lines. Central Asia
should become the starting point and the
main objective to upgrade and build new
rail lines, highways, pipelines and other infrastructure facilities.
Mackinder was also right about the geopolitical confrontation between global and
regional powers to control the Heartland.
The collapse of the bipolar system has
marked a new round of competition on the
Eurasian landmass in which the focus from
the Rimland’s coastal area has shifted to
the Heartland. The post-Cold War era is
also characterized by the emergence of
new regional actors such as China, the EU
and Turkey who together with the old traditional rivals Russia and the United States
have their own motives and strategies according to the new geopolitical realities.
This new phase of competition in Eurasia
has been supplemented with new elements
that highlight the importance of control
over inland transport communications designed to connect land areas of Heartland
with Rimland.
We have already noted that maritime powers have historically sought to control the
sea-lanes, high value of which persisted in
the geopolitical confrontation of the Cold
War era. Dominance over the external sealanes along the Rimland was one of the key
factors that predetermined the success of
the Atlantic bloc (the EU and the US) during the Cold War.
However, if during the Cold War land and
sea powers mainly interacted in the coastal
areas of Rimland, in the post-Soviet conditions, on the contrary, zone of interaction
closely approached the Heartland. From
now on, the major powers rivalry is unfolding in strategically important inland
areas of Eurasia. New geopolitical conditions also changed the traditional Cold
War rhetoric that there is no need for sea
powers to move into the deeper parts of
Eurasia to contain land powers. For this
reason, Atlantic bloc was compelled to
move into the heart of the continent (particularly Central Asia and the Caucasus) in
order to expand its influence and establish
control over land communications linking
these regions.
The significance of the Heartland has increased dramatically due to the energy resources of Central Asia. Providing secure
access to the energy resources and control
over export routes from Central Asia is rapidly turning into one of the central geopo-
42. Spykman, Nicholas. The Geography of the Peace. Harcourt, Brace and Co., 1944, p. 38.
46
La Muraglia infinita
litical issues after the Cold War. The breakdown of Russia’s long-term monopoly in
Eurasia meant that the Atlantic bloc gained
the most effective ways to exercise control
over these vast inland areas. In this regard,
the U.S. and the EU have focused on the creation of a regional transport infrastructure,
which they have sought to build while bypassing both Russia and Iran. Washington
and Brussels offer Central Asian governments to reorient transport and pipeline
routes to the west (the Caspian Sea, Azerbaijan, Georgia, Turkey) and the south-east
(Afghanistan-Pakistan-India).
China in the first ten years after the Soviet
Union collapsed has carefully scrutinized
course of events to the west of its borders and
was not in hurry to get involved in the great
powers dynamics. At that time that was explained by China’s lack of specific strategy in
relation to the continent’s western regions.
The sudden emergence of newly independent
states located in close proximity to China
struck the Chinese leadership with a completely new and fluid geopolitical scenario in
its western border. Given the outbreak of civil
war in bordering Tajikistan and instability in
neighboring Afghanistan, the security situation in Central Asia is a constant factor weighing on the minds of Chinese policy-makers.
In the early 1990s, Beijing was not ready for
any grand strategy to compete for the Heartland. Basically what China did was to focus on
priority issues, such as the establishment of
diplomatic ties, settlement of complex issues
inherited from the Sino-Soviet period and de-
veloping common approaches to the problem
of Uighur separatism.
At the beginning of the new millennium,
China has stepped up Eurasian vector of its
foreign policy, not only in Central Asia, but
also in the Middle East and South Asia. This
key turn has been associated with a number
of external and internal reasons. The “9.11”
and deployment of military bases in Afghanistan and Central Asia - events that took
place in close proximity to China, forced Beijing to draw attention to its western neighbors. Chinese leaders have concluded that
if they did not intervene now in contention
for the Heartland, then they would be at risk
of being in a situation in which other powers can easily redirect Central Asia’s energy
resources and transport capabilities to their
favor, thereby cutting of China’s access to
energy. Subsequently, America’s return to
Asia-Pacific has been another decisive motive underlying the SREB.
Cooperation in a westerly direction has
been strategically important for China
in the context of the “Western Development” program, which focused on Xinjiang
Uighur Autonomous Region (XUAR). The
SREB in turn is a strategic plan to stimulate the development of China’s western
regions. “In the past, the focus was on
coastal cities. However now, a new leadership is stressing greater development of
China’s frontier and inland regions. Therefore, the Belt could provide a solution for
the unbalanced economic development of
China’’ western areas.”43 In the field of se-
43. Justyna Szczudlik-Tatar, China’s New Silk Road Diplomacy (Warsaw: The Polish Institute of International Affairs, 2013).
47
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
curity, priorities of China in Central Asia
stem from the problem of separatism in
the XUAR, which has borders with this region. In recent years, “Uighur” separatists
have stepped up their activities using violent methods of struggle both in and outside Xinjiang.
Over several decades, the process of the subregional economic merger of Xinjiang and
the three neighboring countries - Kazakhstan, Kyrgyzstan and Tajikistan has clearly
been enhanced. This has been happening
in the official framework of the “strategic
partnership.” No coincidence that across
the external border of Xinjiang, there is a
bilateral free trade zone with neighboring
countries, coupled with the project to build
a railway from Uzbekistan through Kyrgyzstan to China.
Central Asian states themselves were in
need of investment and new alternative
routes for delivering their energy resources
since they sought to reduce their dependence on Russian pipelines. Therefore,
China’s assistance and investments came in
handy. As a result, during the last decade,
Chinese economic penetration into Central Asia has increased dramatically. During the past 10 years, China has become the
largest trading partner of Kazakhstan and
Turkmenistan, the second largest trading
partner of Uzbekistan, Kyrgyzstan and Tajikistan. China also implemented some priority infrastructure projects in Central Asia
and at the same time supported the ruling
political regimes in the region. Beijing’s
investments in the oil and gas industry of
Kazakhstan and Turkmenistan have been
extremely useful for them in terms of energy supplies diversification and providing
regular sources of income, especially given
the global downward trend in oil prices and
their geographical landlocked position.
The geographical proximity was also a key
factor that influenced the relations between China and Central Asia. In the past
“geographic proximity was not enough to
draw these partners together because of
Cold War divisions; but with the Soviet
Union’s collapse came a reshaping of the
continental order.” Geographical factor
is especially relevant for Kazakhstan and
Turkmenistan since the transportation
costs is the most important aspect of making their raw materials more expensive in
comparison to other oil and gas producers.
In addition, the lack of pipelines and the
need to supply energy via Russia reduce
the attractiveness of Kazakh oil and Turkmen gas. However, the geographical proximity of China and Central Asia, low transport costs, relative safety of the routes
and the lack of competitors greatly reduce
those disadvantages.
Nowadays, there are pipelines from Kazakhstan and Turkmenistan to China. In
the near future, the Kazakh and Turkmen
governments are going to put into operation additional pipelines, which pass
through Tajikistan, Kyrgyzstan and finally
end in China. That would allow the Tajik
and Kyrgyz governments to receive substantial revenues from the transit of energy resources. Among other things, Beijing
is endeavoring to implement a project for
the construction of the “China-Kyrgyz48
La Muraglia infinita
4. THE GEOPOLITICAL IMPLICATIONS
OF CHINA’S EURASIAN PIVOT
stan-Uzbekistan” railway with further access to Turkmenistan, the Middle East and
Turkey. China’s deals with Central Asia
countries make the SREB feasible.
By gaining a strategic foothold in Central
Asia, Beijing, therefore, has started pivoting to the Middle East and South Asia. In
these regions particular emphasis on two
transport corridors that are parts of the
SREB. Firstly, Beijing plans to build a transportation network linking Central Asia, the
Middle East and Eastern Europe. Second,
China is investing in the creation of an energy corridor originating in the Pakistani
port of Gwadar and through which crude
oil from the Middle East and Africa can
be transported by land to the northwestern of China. In the Middle East, China in
2009 became the largest buyer of Saudi oil.
In some Arab countries, China has become
the leading trading partner and investor.44
Using the U.S. rebalancing to Asia, Beijing
is gradually expanding its sphere of influence by strengthening bilateral relations
with each country in the region, including
Saudi Arabia and Iran, the two bitter rivals.
China’s dependence on Middle Eastern
oil will only increase in the future. Consequently, to ensure its energy security,
Beijing’s strategic goal is to form an interconnected energy and transport network,
which includes Central Asia, the Middle
East (Iran) and South Asia (Pakistan).
When analyzing the geopolitical implications of China’s Eurasian Pivot, we look at
the major geopolitical and geo-economic
strategies of Russia, the US, the EU and India
and try to understand how these strategies
interact with China’s Eurasian Pivot. Sometimes, those strategies conflict with Chinese. Sometimes, they co-exist in harmony
and in cooperation with China’s strategy. In
other words, we look at the competition and
cooperation of strategies among these players on the Eurasian Continent.
4.1. Russia
Since Vladimir Putin took power in 2000,
Moscow has consistently promoted its
own Eurasian strategy through various
economic initiatives and agreements such
as the Eurasian Economic Community
and the Eurasian Union. These initiatives
were designed to regain control of Central
Asia as well as other former Soviet republics, primarily Belarus and Ukraine, and
push them into the Kremlin wing.45 As a
result, Moscow’s Eurasian efforts eventually led to the establishment of the Eurasian Economic Union (EEU) on 29 May
2014 between Belarus, Kazakhstan, and
Russia.46 On October 9, 2014, Armenia
44. Lu Na, “Oil tycoon settles in CBD,” This is Beijing, March 22, 2013, available at: http://beijing.china.org.cn/2013-03/22/
content_28326623.htm.
45. Baktybek Beshimov, “The struggle for Central Asia: Russia vs China,” Al Jazeera, March 12, 2014, available at: http://www.
aljazeera.com/indepth/opinion/2014/02/struggle-central-asia-russia-vs-201422585652677510.html.
46. “Russia, Kazakhstan, Belarus Sign Treaty Creating Huge Economic Bloc,” Time Magazine, May 29, 2014, available at:
http://time.com/135520/russia-kazakhstan-belarus-treaty/.
49
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
jointed the EEU.47Thus, the integration of
the CIS countries into the regional bloc
under Moscow control has always been a
key focus of Russia’s Eurasian strategy. In
an article in Izvestiain October 2011, Putin
clearly outlined the priorities of regional
integration in the CIS area, the result of
which should be the formation of the Eurasian Union. At the same time, he noted,
“the prospective union will not be a new
USSR or a replacement for the CIS, instead
“we propose a model of a powerful supranational union capable of becoming one of
the modern world poles and which can be
an effective link between Europe and the
dynamic Asia-Pacific region.”48
In relations with Europe, Moscow proposed
“the creation of a harmonious economic
community stretching from Lisbon to Vladivostok.” Putin in his article “A new integration project for Eurasia: The future in the
making” also suggest that Russia and Europe could even consider a free trade zone
or even more advanced forms of economic
integration.”49 Some experts have already
labeled Putin’s idea as a Russian “pan-Eurasian continentalism,” the idea of which is
to create “a big Eurasia (pan-Eurasia) as the
union of continental civilizations indepen-
dent from the influence of the Atlantic powers, the US and the UK in particular.”50
It has also become quite clear that Moscow
in implementing its Eurasian idea, which
according to Putin is “the core of our foreign policy,” has no desire to weaken its
power in relation to the former Soviet
bloc states. Recently Ukraine has become
a good example. However, in the context
of Western sanctions and severe economic
situation, Moscow’s Eurasian offensive
seems to be stalled, which forces Russia to move eastwards and seek partnerships there. This pivoting away from the
West and “turning to the East” (“povorot
na Vostok”), though, is not only caused
by a “disappointment in the West.”51 In
fact, Putin long before the Ukrainian crisis
mentioned about reorienting towards the
Asian markets in order to develop Russia’s
eastern territories and integrate them into
the rapidly developing economy of Asia.
Western sanctions in this case become a
catalyst.52 Many Russian foreign policy experts also agree that the recent sanctions
and mounting economic problems at home
are the main reasons for which Russia
strengthens cooperation with its eastern
neighbors, especially with China.53 In May
47. “Armenia Joins Eurasian Economic Union,” RIA Novosti, October 10, 2014, available at: http://sputniknews.com/
world/20141010/193914853/Armenia-Joins-Eurasian-Economic-Union.html.
48. Vladimir Putin, “Novyi internatsionnyi proekt dlya Evrazii – budushchee, kotoroe rozhdaetsya sevodniya,” Izvestia, October 3, 2011, available at http://izvestia.ru/news/502761.
49. Ibid.
50. Maxim Sigachev, “SHOS kak proobraz pan”yevraziyskogo kontinental’nogo bloka,” September 18, 2013, available at
http://rusazia.net/news?uid=1231.
51. Gilbert Rozman, “The Russian Pivot to Asia”, the Asan Forum, December 1, 2014, available at http://www.theasanforum.
org/the-russian-pivot-to-asia/.
52. Alexander Andreev, “Povorot na Vostok,” RIA Novosti, May 21, 2014, available at http://ria.ru/columns/20140521/1008730350.html.
53. Kadri Liik, “Russia’s Pivot to Eurasia,” (London: The European Council on Foreign Relations, 2014), p.10.
50
La Muraglia infinita
2014, Beijing and Moscow signed a $400
billion 30-year gas deal to supply natural
gas to China through a new pipeline.54 In
addition, at the APEC summit held in Beijing, Vladimir Putin and Xi Jinping signed
another agreement for a second major gas
supply channel.55
Both Chinese and Russian leaders often
state that Sino-Russian relations have
reached a new stage of “all-round strategic partnership.” The Russian President
even pointed out that Moscow and Beijing have never been so close to the creation of a strategic alliance throughout the
long history of bilateral relations.56 Russia
needs Chinese investments, while China is
very interested in the Russian resources.
In addition, they have similar positions on
many international issues. For instance,
both countries vetoed a UN Security Council resolution regarding Syria. China also
abstained on a UN resolution condemning
Russia’s actions in Crimea. Some Chinese
and Russian scholars argue that Beijing
and Moscow need each other to “balance”
the U.S. and to create a multipolar world
order. As the U.S., according to Moscow,
advancing towards Russian borders in order to encircle and isolate her, as well as
considering the U.S. pivoting towards the
Asia-Pacific to contain China, it remains
an extremely important question whether
China and Russia is trying to establish a
“G2”on Eurasian Continent. Will there
turn up a scenario that a Rimland power,
China, unites with Russia, a land-power,
to dominate the Heartland and challenge
the global dominance of the U.S., a scenario that Zbigniew Brzezinski believes will
“shrink America’s primacy in Eurasia”?57
Due to a number of reasons, in the near
future we should not expect “G2” alliance
between China and Russia. Firstly, the U.S.
does not have the military threat to both
China and Russia. Second, unlike Russia,
China does not require a fundamental
revision of the world order. In addition,
Russia itself is not so much interested in
this alliance “since Russia would be a dramatically weaker junior partner in any relationship with China.”58 Thirdly, Putin’s
turn to the East is not limited to relations
with China. Russia is seeking to strengthen
cooperation with India, Vietnam, Japan,
and wants to maintain good relations with
all Southeast Asian countries. Therefore,
Moscow is unlikely to support Beijing in its
territorial disputes with Japan, Vietnam or
the Philippines. Moreover, Russian energy
companies sign agreements with Vietnam
on development of oil and gas fields in the
South China Sea59- those waters claimed
54. “Russia signs 30-year deal worth $400bn to deliver gas to China,” The Guardian, May 21, 2014, available at: http://www.
theguardian.com/world/2014/may/21/russia-30-year-400bn-gas-deal-china.
55. “Russia and China sign deal on second gas route,” DW.DE News, November 9, 2014, available at: http://www.dw.de/
russia-and-china-sign-deal-on-second-gas-route/a-18050249.
56. Alexander Andreev, “Povorot na Vostok,” RIA Novosti, May 21, 2014, available at: http://ria.ru/columns/20140521/1008730350.html.
57. Zbigniew Brzezinski, “The Grand Chessboard: American Primacy and Its Geostrategic Imperatives,” p.19.
58. Vassily Kashin and Pavel Salin. “Russia’s Pivot to Eurasia” (London: The European Council on Foreign Relations, 2014), p.9.
59. “Vietnam,” Country analysis briefs, May 9, 2012, available at: http://www.iberglobal.com/files/vietnam_eia.pdf.
51
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
by China and the Russian defense industry
is increasing the supply of arms to SouthEast Asia countries, in particular, selling
modern submarines to the Vietnamese and
Indian Navy.60
In Central Asia, China’s Silk Road (SREB)
competes with Russia-led Eurasian Economic Union (EEU). Nevertheless, both
countries often claim that the SREB would
not undermine the EEU. At the official level, it has been frequently stressed that
despite some conflicting points between
Russia and China in Central Asia, Beijing’s
plans to build the SREB would not be a
hindrance to the EEU, since they were originally two separate international institutions for different purposes. The EEU implies a single economic space, which would
act as a catalyst for the economies of the
participants while the Silk Road would be
solely a transport and logistics system at
the continental level.61
Nonetheless, transportation is another
object of competition between Russia and
China in Eurasia. Back in the early 1990s,
China built a railway line connecting Asia
with Europe. It starts at the Chinese port
of Lianyungang, and then passes through
Xi’an, Lanzhou, Urumqi, several cities in
Kazakhstan and Russia, Belarus, Poland,
Germany and ends in the Dutch port of
Rotterdam.62 This railway line is an al-
ternative to the Russian Trans-Siberian
Railway (TSR), which also serves as a land
bridge linking Asia and Europe. However,
if before the bulk of the cargo used to be
transported via the TSR, now a large part
of the cargo was reoriented to the Chinese line. To date, China within the SREB
project is planning to build a second transport corridor through Central Asia and
the Middle East. Through the formation of
these corridors, China intends to completely “loopback” cargo traffic from Southeast Asia to Europe along its economic belt,
thereby significantly reducing the capabilities of Russia’s Trans-Siberian Railway
(TSR).63 This, in turn, may finally force the
Russian leadership to think seriously about
the possibility of losing its position as the
Eurasian transport and logistics hub.
China’s economic might may also quickly
push Russia away from Central Asia. “China is rapidly investing in the construction
of new roads, railways and pipelines by
which Beijing firmly binds the region to its
own development.”64 The recent advancement of the SREB is regarded as a potential
challenge to Moscow’s economic geopolitical interests and poses a threat to the
further expansion of the EEU. Therefore,
“Russia’s call to include Kyrgyzstan and
Tajikistan into the EEU is mainly based
on the desire to limit the reorientation
60. “Russia clinches contract to sell submarines, warplanes to Vietnam,” Sputnik News, December 15, 2009, available at:
http://sputniknews.com/russia/20091215/157249436.html.
61. Li Hui (李辉), “Kitayskiy Ekonomicheskiy poyas Velikogo shelkovogo puti neyavlyayetsya konkurentom EAES,” November
8, 2014, available at: http://www.warandpeace.ru/ru/news/view/94625/.
62. “New Eurasia Land Bridge provides rail connection between China and Europe,” Railway PRO, July 15, 2010, available at:
http://www.railwaypro.com/wp/?p=2153.
63. “Logika kitayskoy logistiki,” China PRO, June 4, 2012, available at: http://www.chinapro.ru/rubrics/3/7936/.
64. Aleksey Podberezkin. “Yevraziyskaya strategiya Rossii.” Moscow, MGIMO, 2013, p.192, available at http://eurasian-de-
52
La Muraglia infinita
any form of integration, which would lead
to confrontation with Russia over the redistribution of influence in Central Asia.
Therefore, China would more likely to develop the “strategic partnership” with Russia focusing on energy and military cooperation and find common ground in Central
Asia - a region that Moscow sees as its traditional sphere of influence. So far, both
Chinese and Russian leaders are nuanced
in handling their relationship mostly due
to the current global and regional situation, wherein relations between Russia
and the West have deteriorated markedly,
while China is facing the U.S. in Asia-Pacific and trying to satisfy its own energy
demands. These circumstances make them
good “partners of convenience” but not
of Central Asian economies towards China.”65 Some Russian political analysts also
believe that the Eurasian Union as part of
a Russian response to the eastward shift
of the world’s economic centre of gravity. “Since Russia would be a dramatically
weaker junior partner in any relationship
with China, it needs the Eurasian Union
to enable it to ‘balance’ China. In this way,
the Eurasian Union aims at the same goal
in the East that it does in the West – to
strengthen Russia in order to enable it to
enter into an equal partnership with China
and the EU while containing both Chinese
and European influence in the post-Soviet
space.”66
To its best interest, China in advancing
its Eurasian pivot is not going to create
fence.ru/sites/default/files/t4/4-1-2.pdf.
65. Ibid.
66. Vassily Kashin and Pavel Salin. “Russia’s Pivot to Eurasia”, (London: The European Council on Foreign Relations, 2014),
pp.9-10.
53
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
allies.67“China’s economic growth and demand for resources, on the one hand, and
the rapidly growing military power and political ambitions, on the other hand, always
will pose a threat to Russia, who will not
be able to compete for the world’s natural
resources with the new giant.”68
cy to prevent any integration of power on
the continent of Europe and, particularly,
to see that nothing would lead to an effective military alliance between Germany
and Russia.69
Spykman was largely influenced by Mackinder. He once suggested to American policy-makers, for the United States, her main
political objective, both in peace and in
war, must be to prevent the unification of
the Old World centers of power in a coalition hostile to her own interests.70 Therefore, she must find some way of exerting
her power in these regions during peace
time so that she will not have to allow a
situation to develop which will force her
into a third war.71 Within the framework of
a geopolitical analysis, the United States
is seen to be geographically encircled. The
distribution of power resources gives to
the Old World greater possibilities for the
exertion of force than to the New World...
The situation at this time, however, makes
it clear that the safety and independence of
this country can be preserved only by a foreign policy that will make it impossible for
the Eurasian land mass to harbor an overwhelmingly dominant power in Europe
and the Far East.72 The United States must
recognize once again, and permanently,
that the power constellation in Europe and
Asia is of everlasting concern to her, both
4.2 The United States
Geopolitical concepts of Mackinder, Mahan and Spykman are still in great demand
in the United States and continue to influence the nature of the US strategy in Eurasia. Both American and British scholars
of geopolitics maintain a consistent policy
recommendation that no single continental power should be allowed to grow to a
dominant position to constitute a fatal threat to a sea power.
As Mackinder once commented, security for the British Empire depended on
the preservation of a power equilibrium
between the maritime and continental
states of the world island. If either of the
two gained the ascendancy, the whole
continent would be dominated and the
pivot area controlled by a single power.
With this vast land mass as a base, a sea
power could be developed which could
defeat Great Britain with ease. It was,
therefore, the task of British foreign poli-
67. Charles Grant, “Russia, China and Global Governance”, CER Publication, February 29, 2012, available at: http://www.cer.
org.uk/publications/archive/report/2012/russia-china-and-global-governance, last accessed on December 31, 2014.
68. Aleksey Podberezkin. “Yevraziyskaya strategiya Rossii.” Moscow, MGIMO, 2013, p.90, available at http://eurasian-defence.ru/sites/default/files/t4/4-1-2.pdf.
69. Spykman, Nicholas. The Geography of the Peace. Harcourt, Brace and Co., 1944, pp. 36-37.
70. Spykman, Nicholas. The Geography of the Peace. Harcourt, Brace and Co., 1944, p. 45.
71. Spykman, Nicholas. The Geography of the Peace. Harcourt, Brace and Co., 1944, p. 55.
72. Spykman, Nicholas. The Geography of the Peace. Harcourt, Brace and Co., 1944, pp. 59-60.
54
La Muraglia infinita
in time of war and in time of peace.73 The
basic issues will remain the same because
the geographic factors continue to operate. Balanced power on the Eurasian Continent is one of the objectives for which we
are fighting and the establishment of such
an equilibrium and its preservation will be
our objective when the fight is won.74
Brzezinski supplemented Mackinder’s and
Spykman’s ideas by saying that the United
States in the post-Cold War era must consolidate geopolitical pluralism in Eurasia
and exclude the possibility of China-Russia or China-Russia-India strategic alliance.75 He noted that with the unification
of Europe and subsequent expansion of
NATO to the East, the United States solved
the strategic task of securing positions in
the western part of the Rimland. However,
the U.S.in the post-cold war era must lay
emphasis on the eastern part of the Rimland characterized by the presence of two
rapidly developing regional giants China
and India. Brzezinski fears that Russia can
engage them in a strategic partnership,
which is incompatible with American interests and national security. Therefore,
Washington should strive first to involve
China in a joint geo-economic development of the middle Rimland (the Middle
East and Central Asia) and include China to
a “transcontinental security arrangement”
which might consist of “expanded NATO
linked by cooperative security agreements
with Russia, China, and Japan.”76 This goal,
in fact, perfectly fits into the U.S. strategy
to create so-called transatlantic (western
Rimland) and transpacific (eastern Rimland) security framework.
However, this global security framework,
which “perpetuate beyond a generation
the U.S. decisive role as Eurasia’s arbitrator,”77 obviously at odds with the Chinese
initiatives in Eurasia. Besides, Washington
itself is concerning about the growing economic and military might of China, which
can lead to increased political influence
of Beijing in Asia-Pacific and Central Asia
and result in loss of America’s global economic and geopolitical influence in these
regions. Since China’s rapid economic and
military rise is a challenge to America’s interests either on a regional or global scale,
the United States are currently engaged in
various political and diplomatic measures
designed to curtail expanding influence
of China and restore the geostrategic balance in Eurasia. As before, they resort to
old tactics of control over Rimland. In the
Asia-Pacific region, besides strengthening military alliances from Japan to India,
Washington also tries to “undercut China’s
effort to lead the region economic integration by pushing U.S.-centered and China-
73. Spykman, Nicholas. The Geography of the Peace. Harcourt, Brace and Co., 1944, p. 60.
74. Spykman, Nicholas. The Geography of the Peace. Harcourt, Brace and Co., 1944, p. 60.
75. Zbigniew Brzezinski. The Grand Chessboard: American Primacy and Its Geostrategic Imperatives. New York: Basic Books,
1997.
76. Ibid.
77. Zbigniew Brzezinski, “A Geostrategy For Eurasia,” Foreign Affairs, October 1977, available at: http://www.informationclearinghouse.info/article6266.htm.
55
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
free Trans-Pacific Partnership.”78 In Central Asia, the U.S. promoted the New Silk
Road (NSR) initiative in recent years.
The NSR stands alone in Washington’s
Eurasian strategy as it directly collides
with both Chinese and Russian interests
in Central Asia. In 2011, the U.S. Secretary
of State Hillary Clinton unveiled “the New
Silk Road” initiativeas one of the main factors of U.S. assistance to the region after
the ISAF (NATO-led security mission in
Afghanistan) withdrawal from Afghanistan. The main objective of the New Silk
Road is to create conditions for increasing trade relations between the countries
of Central and South Asia. This requires
the development of three components: infrastructure, transport and energy routes.
The NSR should be a large-scale network
of trade and transit links between South
and Central Asia, which would benefit the
countries of the region, in particular, Afghanistan and Pakistan.79 TAPI pipeline
(Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India) and the “CASA-1000” project, which
involves the supply of electricity from
Kyrgyzstan and Tajikistan to Afghanistan
and Pakistan serve as projects that can be
implemented in the future within the NSR
framework.80
From the above it becomes clear that the
NSR initiative is focused on Afghanistan
as a main hub for future economic integration and transportation. “If Afghanistan is
firmly embedded in the economic life of
the region, it will be better able to attract
new investments, benefit from its resource
potential, provide increasing economic
opportunities and hope for its people.”81
However, the notion of operating roads,
railway tracks and power networks connecting Central Asia with Afghanistan and
supplying fuel for the economic growth of
the entire subcontinent, seriously underestimates the legacy left after the conflict.
There are still prevalent security threats,
drug trafficking and governance problems in Afghanistan. There are other weak
points in the strategy of the “New Silk
Road.” Iran, a central pillar of the ancient
Silk Road and one of the most important
trading partners of Afghanistan, excluded
from the New Silk Road vision. Iran’s transit capabilities could yet provide a viable
alternative to riskier routes through Afghanistan and Pakistan.
Another missing point of the U.S. strategy is how Washington with its internal
budgetary issues and after withdrawal of
troops from Afghanistan would be in a
position to subsidize these transit routes.
Moreover, the U.S. has emphasized that it
does not plan to spend much of money on
the project. “With governments all around
78. Yun Sun, “March West: China’s Response to the U.S. Rebalancing,” Brookings, January 31, 2013, available at: http://www.
brookings.edu/blogs/up-front/posts/2013/01/31-china-us-sun.
79. “The New Silk Road?,” The Diplomat, November 11, 2011, available at: http://thediplomat.com/2011/11/the-new-silkroad/1/.
80. Erica Marat, “Following the New Silk Road,” The Diplomat, October 22, 2014, available at: http://thediplomat.
com/2014/10/following-the-new-silk-road/.
81. Robert Hormats, “The United States’ ‘New Silk Road’ Strategy: What is it? Where is it Headed?” September 2011, available
at: http://www.state.gov/e/rls/rmk/2011/174800.htm.
56
La Muraglia infinita
the world facing economic challenges, we
have to focus on ways to make this work
with limited government support. So, for
the New Silk Road vision to realize its potential, it is critical that the Afghan government and its neighbors take ownership
of the effort,” said Robert Hormats, Undersecretary of State for economic, energy and
agricultural affairs.82
On this basis, it is more logical to look for
geopolitical motives underlying the NSR,
which also directly associated with the impending transformation of the U.S. presence in Central and South Asia after the
end of the military mission in Afghanistan.
The strategic goal of the U.S. in Central
Asia at this and subsequent stages is to
strengthen its military and political presence in the region and gain a foothold for
projecting pressure on Russia, China, Iran
and the entire Eurasian continent. Hence,
we can assume that American Silk Road
mainly aims at binding Central Asia to
South Asia - Afghanistan, Pakistan and India. In this situation, the U.S. can once and
forever “tear off” Central Asia from Russia,
impede Chinese access to raw materials of
the region and redirect its resource flows
via Afghanistan and Pakistan to India.
Chinese policymakers are well aware of
this possible scenario, and therefore reinforce energy and economic cooperation
with the Central Asian states that over the
past few years, apart from providing a large
investment package for Central Asia, also
reflected in the construction of oil and gas
pipelines, railways and highways linking
the region with China. In South Asia, China
is going to create two economic corridors:
China-Pakistan (CPEC) and BangladeshChina-India-Myanmar. The CPEC occupies
a special place as it involves the construction of highways originating in Xinjiang,
then going to the Pakistani province of
Baluchistan, where the route reaches the
final destination - a deep-sea port of Gwadar located on the coast of the Arabian Sea.
Given the vulnerability of sea-lanes from
Beijing also plans to build
oil and gas pipelines from
Pakistan to Xinjiang
the Middle East to China, Beijing also plans
to build oil and gas pipelines from Pakistan
(from Gwadar port) to Xinjiang. These pipelines are supposed to ensure the safety
of oil imports from the Middle East while
allowing China to bypass the Strait of Malacca (a narrow sea-lane that the US Navy
is capable of controlling at short notice).
It is quite possible to say that Beijing’s
plans to bind Central and South Asia are not
solely motivated by the U.S. rebalancing to
Asia. Marching westwards and southwards
is a long-term objective to advance China’s
economic interests in the Heartland (Central Asia) and Rimland (South Asia). China’s Eurasia pivot is not entirely consistent
with Washington’s intentions on the “joint
82. Ibid.
57
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
geo-economic development of Eurasia,”
thus making the relation between the U.S.
and China “increasingly contentious and
zero-sum.”83
2004-2007 enlargement, the EU closely
approached the CIS borders. Conceptually this new approach was expressed by
the term “new neighborhood policy” in
relation to Belarus, Ukraine, Moldova and
the three Transcaucasian states. In 2007,
Brussels coined the term “neighbors of
neighbors” in relation to the Central Asian
states.84
Since 2001, the EU’s interest in Central
Asia has increased dramatically. This interest facilitated by the “9.11” terrorist
attack, the anti-terrorist operation in Afghanistan, EU enlargement and new concerns about energy security in Europe
caused by the gas dispute between Russia
and Ukraine in January 2006. As part of
the military campaign in Afghanistan, the
NATO also dispatched military bases in
Kyrgyzstan and Uzbekistan. The RussianUkrainian gas conflict has raised fears in
Europe. Some EU leaders have suggested
that Russia could use its energy supplies
to Europe as a tool for political pressure.85
Therefore, Brussels started to look for the
ways to diversify energy import routes.
Central Asia has become one of the priority for energy supply.
Given the fact that Europe does not border
with Central Asia, Brussels has started to
pay attention to the presence of transport
communications between the EU and Central Asia in order to draw the region into
the orbit of its influence. Thus, in the early
4.3 The European Union
An overall geopolitical strategy of the European Union is primarily viewed in relation to countries of the former Soviet camp
especially since the Ukrainian crisis clearly
indicates how these countries are important for the entire European geostrategy.
During the first decade after the Soviet
Union collapsed, the EU policy towards
post-Soviet countries was characterized by
a standardized approach to establish political and economic contacts. The EU at that
time developed and approved a program
of “Technical Assistance for the Commonwealth of Independent States” (TACIS).
The TACIS program involves the allocation
of financial and technical assistance in
four main areas: support for institutional,
legal and administrative reform, support
for the private sector and assistance for
economic development, support for social
issues during the transition period and cooperation on security issues.
The beginning of the new millennium
has been marked by the transformation
of the European approach to the post-Soviet space, which primarily related to the
EU expansion in 2004-2007. Due to the
83. Yun Sun, “March West: China’s Response to the U.S. Rebalancing,” Brookings, January 31, 2013, available at: http://www.
brookings.edu/blogs/up-front/posts/2013/01/31-china-us-sun.
84. Nargis Kassenova. “The EU in Central Asia: Strategy in the context of Eurasian Geopolitics.” Central Asia and the Caucasus Journal, 2007, p. 99, available at http://cyberleninka.ru/article/n/the-eu-in-central-asia-strategy-in-the-context-ofeurasian-geopolitics.
58
La Muraglia infinita
1990s, the EU actively lobbied two major
interregional projects: TRACECA (creation
of trade and transport corridor “Central
Asia-Caucasus-Europe”) and INOGATE
(creation of pipeline communications for
delivering oil and gas from Central Asia
to Europe). TRACECA (which also has the
name of a modern Silk Road) and INOGATE
have a significant geopolitical importance
since both of them bypass Russia. This explains the “nervous” perception of Moscow
regarding these projects. Many Russian
experts and officials consider these initiatives as geopolitical challenge and believe
that Brussels, thereby, wants to withdraw
South Caucasus and Central Asia republics
from Russia’s influence.86
Rapidly growing economic presence of China in Central Asia is a matter of concern in
Brussels. In 2007, Germany developed the
Central Asia strategy for the period 20072013 wherein in addition to the emphasis
on the need for energy corridors between
Central Asia and the EU through the Caucasus, also accentuates China’s ambitions
who has a strategic weight and prevents
the EU plans to link resources of the region
with transport capabilities.87 The document also states that the EU is losing the
competition for Central Asia resources to
China despite the significant involvement
of the former in the oil and gas sector in
several Central Asian countries (meaning
the European oil and gas companies engaged in the development and production
of oil and gas).
It is true that Brussels has frequently expressed the need for greater involvement
in Central Asia, but still has not undertaken any practical steps in contrast to China.
Apparently, this situation can be explained
by two reasons. Firstly, the most important factor is the funding. For example, the
construction of a pipeline linking Central
Asia, South Caucasus and Europe requires
a huge investment and the coordination of
participants. Secondly, local elites of Central Asian republics already made a strategic reorientation towards China. Massive
“unconditional” investments along with
the geography seem to give much more
preference to China. In this context, the
question arises whether China’s recent Silk
Road is a welcoming strategy in Europe
given the fact that Beijing’s assertiveness
overshadowed Brussels in the struggle for
Central Asia resources.
Furthermore, Brussels may concern about
China’s large-scale cooperation with the
countries of Eastern Europe and Central
Europe. Back in 2009, during the European
crisis, Beijing provided support to Greece by
buying part of the debt and making significant investments in the port of Piraeus and
85. Dmitry Zhdannikov, Ron Popeski, “Worried EU states to fly to Moscow over gas row,” Reuters, January 13, 2009, available
at: http://www.reuters.com/article/2009/01/13/us-russia-ukraine-gas. idUSTRE5062Q520090113?pageNumber=1&virtual
BrandChannel=0&sp=true.
86. Nargis Kassenova. “The EU in Central Asia: Strategy in the context of Eurasian Geopolitics.” Central Asia and the Caucasus Journal, 2007, p. 117, available at http://cyberleninka.ru/article/n/the-eu-in-central-asia-strategy-in-the-context-ofeurasian-geopolitics.
87. Ibid.
59
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
Athens International Airport. Beijing also
gave Greece a loan worth $ 5 billion to modernize the merchant fleet and the purchase
of 162 ships in China. Piraeus, which is often
called as “the southern gateway to Europe,”
has subsequently become the main entry
point for Chinese goods in Europe, shortening normal shipping times by one week.88
In 2012, China and Eastern European countries agreed to establish the China-CEE
annual summit. In the same year, China
announced a $10-billion credit line for a
region comprising some of the EU’s newest
members and others in the Western Balkans
that are not yet part of the bloc.89 In 2013, Li
Keqiang visited Romania and attended first
China-Central and Eastern Europe (CCEE)
leader’s meeting. Trade turnover between
China and Central-Eastern Europe already
reached $52 through the first ten months of
2013. During the meeting, Li announced that
China is going to double its trade with central and eastern European countries by 2018
and increase to over $120 billion in the next
five years.90
In 2014, Li Keqiang visited Europe again to
participate another CEE meeting held in
Belgrade. During the meeting, Lisaid that
China would create a new investment fund
of $3 billion targeting Central and Eastern
Europe.91 Chinese investments in the region
usually come in the form of loans financed
by China’s state-owned banks in exchange
for the bid given to Chinese companies. Li
Keqiang, however, during the summit in
Belgrade said China was open to “new models of financing and investment.”92 At the
end of the meeting, “China also secured a
deal to construct a high-speed train link
between the Belgrade and Budapest that
will cut travel time between the Serbian
and Hungarian capitals from eight hours
to less than three. The 400-kilometer railway is part of China’s plan to speed up the
delivery of its exports to central Europe
through Greece’s port of Piraeus. The Belgrade-Budapest line is to be completed by
mid-2017.”93
Summits in Bucharest and Belgrade demonstrated intention of China and CEE states to
implement investment projects without the
EU original members. The EU stands alert to
Beijing’s geo-strategic move in wooing central and eastern European countries fearing
that Beijing would tend to reap geopolitical benefits from this cooperation. Brussels
see them as its sphere of influence, but at
the same time, the EU is largely constrained
by the economic resources at its disposal
whereas “the debt-burdened Balkans, in ur-
88. Valbona Zeneli, “China’s Balkan Gamble,” The Diplomat, December 15, 2014, available at: http://thediplomat.com/2014/12/
chinas-balkan-gamble/.
89. “China to Ramp Up Investment in Central, Eastern Europe,” VOANews.com, December 16, 2014, available at: http://www.
voanews.com/content/china-to-ramp-up-investment-in-central-eastern-europe/2561530.html.
90. Shannon Tiezzi, “China ‘Marches West’ - To Europe,” The Diplomat, November 27, 2013, available at: http://thediplomat.
com/2013/11/china-marches-west-to-europe/.
91. “China to Ramp Up Investment in Central, Eastern Europe,” VOANews.com, December 16, 2014, available at: http://www.
voanews.com/content/china-to-ramp-up-investment-in-central-eastern-europe/2561530.html.
92. Ibid.
93. “China secures construction of European railway,” Associated Press, December 17, 2014, available at: http://www.nytimes.com/aponline/2014/12/17/world/europe/ap-eu-serbia-china-railway.html?_r=0.
60
La Muraglia infinita
4.4 India
gent need of major rescue packages and infrastructure investment.”94
Certainly, China and the EU have disagreements on certain issues.Countries have different ideologies, different models of development. Nevertheless, both sides often find
common ground. Mutual dependence that
emerged from business cooperation should
promote understanding in many aspects, including China’s economic policy in Eastern
Europe. Both Brussels and Beijing are interested in accelerating the mutual trade flows.
As of 2013, the EU for nine consecutive years
was the largest trading partner of China, and
China, in turn, was the second largest trading partner for the EU. During Xi Jinping’s
tour to Europe, China and four European
countries signed more than 120 cooperation
agreements in many areas. These constantly
expanding bilateral trade relations would
require new commercial routes. The SREB
and Maritime Silk Road with the help of an
extensive transportation network from East
Asia to Europe is intended to bring economic
cooperation between China and the EU to a
new strategic level. The CEE countries need
China’s financial advantages, while “Beijing
sees central and eastern Europe as a potentially lucrative market and bridgehead to the
wider EU.”95
India’s present foreign policy focus and
strategy are inextricably linked to the
events in the Indian Ocean. Conversely,
Central Asia receives much less attention
as New Delhi is lagging behind China and
Russia.
Since coming to power, Prime Minister of
India, Narendra Modi brings more changes in foreign policy than his predecessor.
Many experts think that foreign policy of
the previous Indian government was weak
and indecisive, especially in its relations
with China and Pakistan.96
Particularly, they are concerned about China’s maritime strategy in the Indian Ocean
(the String of Pearls) and believe that
Beijing’s intentions to develop a series of
ports with Pakistan, Myanmar, Bangladesh
and Sri Lanka and the frequent appearance
of the Chinese Navy in the Indian Ocean
have a specific purpose to encircle India
and redraw Asia’s geopolitical map.97 It
seems that even China’s Silk Road initiative is not conducive to mitigate tensions
since many Indian experts see the Maritime Silk Road as an attempt to disguise or
re-brand the String of Pearls.98
Apparently recognizing the diplomatic and
94. Valbona Zeneli, “China’s Balkan Gamble,” The Diplomat, December 15, 2014, available at: http://thediplomat.com/2014/12/
chinas-balkan-gamble/.
95. “China to Ramp Up Investment in Central, Eastern Europe,” VOANews.com, December 16, 2014, available at: http://www.
voanews.com/content/china-to-ramp-up-investment-in-central-eastern-europe/2561530.html.
96. Manik Mehta, “The perceived weakness about India’s foreign policy,” Gulf News, July 29, 2013, available at: http://gulfnews.com/opinion/thinkers/the-perceived-weakness-about-india-s-foreign-policy-1.1214672.
97. Rajeev Srinivasan, “Modi’s overseas ambitions: Vietnam and the reverse “string-of-pearls” to contain China,” Firstpost,
October 31, 2014, available at: http://www.firstpost.com/world/modis-overseas-ambitions-vietnam-and-the-reversestring-of-pearls-to-contain-china-1781389.html.
98. Brahma Chellaney, “The silk glove for China’s iron fist,” The Japan Times, March 9, 2015, available at: http://www.japantimes.co.jp/opinion/2015/03/09/commentary/world-commentary/the-silk-glove-for-chinas-iron-fist/#.VUMk3_ntmkq.
61
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
political slack of the previous government,
Narendra Modi is now trying to revitalize
Delhi’s foreign policy in the Indian Ocean.
It is clear that the Modi government is also
serious about India’s geopolitical ambitions.
In the latest ASEAN summit in Myanmar
on November 11-13, 2014, Modi unveiled
India’s new “Act East Policy,” and tried to
convince his Southeast Asian counterparts
that New Delhi is going to boost economic
ties with the region. During the summit,
Modi also announced India’s new “Act East
Policy.”99 He particularly said, “A new era of
economic development, industrialization
and trade has begun in India. Externally,
India’s ‘Look East Policy’ (formulated under Prime Minister Narasimha Rao in the
1990s) has become ‘Act East Policy.’”100
In contrast to India’s previous Look East
Policy, Modi’s new Act East Policy marks
a more action-oriented policy towards
ASEAN and Southeast Asian countries as
a whole. During the ASEAN-India summit, Modi proposed specific recommendations to deepen economic ties with ASEAN
countries, including cooperation in the
areas of transportation infrastructure,
manufacturing, agriculture and science.
Modi also invited ASEAN countries invest
in India as it experiences an ongoing economic transformation. Besides calling to
boost bilateral economic relations, Modi
touched on security issues, specifically on
the situation in the South China Sea and
reiterated the importance for everyone to
follow international norms and law.
The regional geopolitical aspirations of
Modi were also reflected in his five-day
visit to three island nations - Seychelles,
Mauritius and Sri Lanka. According to
experts, the aim of the tour was to bring
countries of the region closer to the Indian
sphere of influence through the provision
of economic and military assistance.101
In recent years, due to the increasing economic presence of China in these countries,
namely in the construction of highways,
power plants and ports, New Delhi seeks to
restore its former influence in the region.
The visit to Sri Lanka had a special significance, as the previous visit of Indian prime
minister to the country was almost 30 years
ago. New Delhi has always considered Sri
Lanka as its “backyard.” However, the relations between Colombo and New Delhi
during the reign of Mahinda Rajapaksa (the
former president of Sri Lanka) seriously deteriorated. At the same time, the Sino-Sri
Lanka bilateral relations began to develop,
with infrastructure investment and trade.
Consequently, Beijing has become the largest foreign investor in Sri Lanka.
Moreover, Chinese warships periodically
docked at Sri Lanka’s ports causing serious concerns in India.102 However, now
India is hoping for a new president of Sri
99. Prashanth Parameswaran, “Modi Unveils India’s ‘Act East Policy’ to ASEAN in Myanmar,” The Diplomat, November 17, 2014,
available at: http://thediplomat.com/2014/11/modi-unveils-indias-act-east-policy-to-asean-in-myanmar/.
100. Ibid.
101. “PM Modi ‘Eagerly Awaiting’ Seychelles, Mauritius, Sri Lanka Visit,” NDTV, March 8, 2015, available at: http://www.ndtv.
com/india-news/pm-modi-eagerly-awaiting-seychelles-mauritius-sri-lanka-visit-745096.
102. Shihar Aneez and Ranga Sirilal, “Chinese submarine docks in Sri Lanka despite Indian concerns,” Reuters, available at:
http://in.reuters.com/article/2014/11/02/sri-lanka-china-submarine-idINKBN0IM0LU20141102.
62
La Muraglia infinita
Una delle strade di montagna che uniscono Cina e India
Lanka since Modi’s visit to Colombo took
place against the backdrop of deteriorating
Sino-Sri Lankan relations after Sri Lanka
suspended the Chinese real estate project
worth US $ 1.5 billion and accuse China
of violating environmental regulations.103
This in turn gives India a good opportunity to expand economic relations and
strengthen military cooperation with Sri
Lanka, and restore its former influence in
the neighboring island nation.
Although Central Asia is one of the official
priorities of India’s foreign policy, New Delhi is lagging behind in establishing cooperation with the countries of Central Asia.
The most important economic niches in the
region have been already occupied by China
and Russia.104
Back in the early 1990s, India was faced with
many political and economic problems in
the country. At that time, India carried out
economic reforms and was unable to make
full use of its trade and investment opportunities in cooperation with the Central Asian
republics. Despite the economic difficulties
in the late 1990s and early 2000s, India’s
presence in Central Asia was quite noticeable. Senior Indian officials made frequent
visits to Central Asia and actively supported the American New Silk Road initiative.
However, in 2004, the new government of
Manmohan Singh changed the priorities
of Indian foreign policy and India hardly
showed itself in the region until 2011.
In recent years, India is making efforts to
catch-up opportunities in Central Asia,
103. Shihar Aneez, “Sri Lanka cabinet suspends Chinese project on approval issue,” Reuters, March 6, 2015, available at:
http://www.reuters.com/article/2015/03/06/us-sri-lanka-china-portcity-idUSKBN0M20WP20150306.
104. Raj Kumar Kothari. India’s ‘Connect Central Asia Policy’: Emerging Economic and Security Dimensions. Horizon Research
Publishing, 2014, available at: http://www.hrpub.org/download/20140902/SA5-19690106.pdf.
63
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
mainly due to its economic growth and
energy demands. India views Central Asia
as an important source of hydrocarbons
for its fast-growing economy. For this reason, India’s ONGC bought 8.42% share of
Conoco Phillips in Kazakhstan and shares
in the Azerbaijani section of the Caspian
Sea.105 Manmohan Singh’s visit to Astana
in 2011 also helped India to gain access to
the deposits of oil, gas and uranium in the
northern Caspian Sea.106
In June 2012, in Bishkek, India put forward
the “Connect Central Asia” policy (CCAP)
in order to build much closer relations
with Central Asia.107 This strategy involves
the creation of universities, hospitals and
information technology centers. Besides,
the CCAP is focused on the establishment
of joint business ventures, improving trade
and tourism, promotion of joint research
and strategic partnership in the field of defense and security.
India has also recently started negotiations
on the construction of the pipeline Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India
(TAPI), which is a part of the American Silk
Road strategy in Central Asia. Despite the
importance of the TAPI pipeline, it seems
that no states are willing to start and finance the project. This can be explained
by the lack of finance, hostile relations between India and Pakistan, instability in Afghanistan and opposition of major powers,
such as Russia and China, who have their
own interests in Central Asia.
5. CONCLUSION: THE PROSPECTS
OF CHINA’S EURASIAN PIVOT
The facts mentioned in previous sections
demonstrate China’s intention to create
a communication network among no less
than four key regions, which are Central Asia
(the gateway either to the Middle East or to
Europe), the Middle East (with major roles
played by Iran, Iraq, Syria, Saudi Arabia, and
Turkey), Russia (the key bridge between Asia
and Europe), and Eastern Europe (Greece,
Romania, Serbia and Hungary). Moreover,
the Maritime Silk Road covers an equally
large network, including the BangladeshChina-India-Myanmar and China-Pakistan
economic corridors, which could offer Beijing privileged access to the Indian Ocean.
Thus, the pivot to Eurasia is a critical test
for China to deal with both internal and external challenges. Internally, it would allow
China to step up reforms to sustain further
economic growth and ensure the security
of its western borders. Externally, China
strives to create a favorable international
environment and to take a more proactive
stance in the great power dynamics unfolding in the Eurasian continent. Competition
for resources and transport capabilities of
Eurasia is in full swing now.
105. Swetha Gopinath, “ConocoPhillips to sell Kazakh stake for $5 billion to ONGC,” Reuters, November 26, 2012, available at:
http://www.reuters.com/article/2012/11/26/us-conocophillips-assetsale-idUSBRE8AP0IJ20121126.
106. Meena Singh Roy, “Prime Minister Manmohan Singh’s Visit to Kazakhstan,” IDSA, April 27, 2011, available at: http://www.
idsa.in/idsacomments/PrimeMinisterManmohanSinghsVisittoKazakhstan_msroy_270411.html
107. K.M. Seethi, “India’s ‘Connect Central Asia Policy’,” The Diplomat, December 13, 2013, available at: http://thediplomat.
com/2013/12/indias-connect-central-asia-policy/.
64
La Muraglia infinita
China’s Silk Road ambition and its practices are redirecting the world’s attention
to the Eurasian continent, where traditional
geopolitics dominates. Compared with the
Asia-Pacific as the world’s economic gravity
center, the Eurasian Continent is no doubt
the world’s geopolitical gravity center, and
now more and more an economic center.
The recent evidences show that China
is shifting a large chunk of its economic
resources towards Central Asia, Russia,
South Asia, the Middle East and Eastern
Europe. China pledged $16.3 billion to
build and expand railways, roads and pipelines in Chinese provinces, which is part
of China’s overall strategy for reviving the
Silk Road.108In the meanwhile, China is advancing its idea of SCO Development Bank,
the BRICs Development Bank, Silk Road
fund (a special fund for infrastructure projects in Central and South Asia) as well as
the Asia Infrastructure Investment Bank
(AIIB). China has already allocated $40 billion into the Silk Road fund and $50 billion
to the Asian Infrastructure Investment
Bank (AIIB).109 That means a large amount
of financial resources would be distributed
to the Eurasian Continent.
China at the same time keeps a close eye on
the Asia-Pacific region that still attracts the
major geopolitical focus of Beijing. At the
latest APEC summit, President Xi Jinping
pushed forward an initiative of the Free
Trade Area of the Asia-Pacific (FTAAP).110
“FTAAP would mesh with China’s strategy
of promoting regional integration - and
would provide an alternative to the U.S.led Trans-Pacific Partnership (TPP) talks,
which currently excludes China.”111
Thus, China is stepping up global economic activities through both land and sea,
which in turn gives reason to call her an
amphibian power rising on two fronts.In
other words, China is both a land and maritime power. However, it remains another
debatable question, whether China is overstretched in doing on two fronts. The failure of Germany and Japan in the Second
World War was largely due to opening two
fronts at the same time. As Spykman predicted even before the War ended, “Japan
was prevented from overcoming the Chinese before she took on the Anglo-Saxon powers. Germany had more success in that she
did defeat the Poles before she attacked the
French and the French before she took on the
Russians, but she failed to dispose of the British before turning toward the Soviet Union
and she was still involved with both the British and the Russians when the United States
entered the conflict. This failure represented
the turning-point in the struggle.”112
108. Bloomberg, “China Said to Plan $ 16.3 Billion Fund to Revive Silk Road,” November 4, 2014, available at: http://www.
bloomberg.com/news/articles/2014-11-04/china-said-to-plan-16-3-billion-fund-to-revive-silk-road.
109. “China to create bank to fund ‘New Silk Road’: official media,” Reuters, November 12, 2014, available at: http://www.
reuters.com/article/2014/11/13/us-china-silkroad-idUSKCN0IX01320141113.
110. “Apec summit backs Beijing roadmap to vast Asia-Pacific free trade area,” The Guardian, November 11, 2014, available at:
http://www.theguardian.com/world/2014/nov/11/apec-summit-beijing-roadmap-asia-pacific-free-trade-area.
111. Shannon Tiezzi, “China’s Push for an Asia-Pacific Free Trade Agreement,” The Diplomat, October 30, 2014, available at:
http://thediplomat.com/2014/10/chinas-push-for-an-asia-pacific-free-trade-agreement/.
112. Spykman, Nicholas. The Geography of the Peace. Harcourt, Brace and Co., 1944, p. 49.
65
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
The present geopolitical situation in the Eurasian continent wherein the governments in
the EU and the US are largely constrained
by the economic resources at their disposal,
while Russia is suffering from the mounting
economic problems at home, gives China an
excellent opportunity to operate on many
geo-economic fronts. It is crunch time for
Chinese policy makers to implement their
Eurasian strategy since some of the key geopolitical nodes of Eurasia have received little
international attention in recent years. China is more than willing to pick up the EU’s,
Russia’s and American diplomatic slack in
Eastern Europe and Central Asia, and in turn
expects to reap either economic or geopolitical benefits.
Another important factor, which makes
China’s Eurasia pivot feasible, is that in
contrast to Western Europe or East Asia,
the Central Asian region is “free from a
U.S.-dominated regional order or a preexisting economic integration mechanism”
which in turn provides Beijing a chance to
fill this economic and political vacuum.113
Here we can agree with Wang’s view who
also sees the region as lacking generally
accepted rules of competition and cooperation and for China there is only one economic front, which is to shift toward the
West rather than to the East. There is also
a strategic reason since moving resources
to the West results in less conflict with the
United States, and makes China less vulnerable to US naval power.
China’s success in Eurasia will depend on
whether Beijing is able to preserve friendly
relations with neighbors and to convince
them that China does not pose a threat to
their fundamental security interests. Any
move by China to redefine its role in the
world or to seek a wider geopolitical space,
would immediately alarm its neighbors.
In the Southeast Asia, countries that have
unresolved territorial disputes with China
do not wholeheartedly embrace traditional
“peaceful nature” of China’s foreign policy,
which throughout a history did not seek
territorial expansion or domination. This
foreign policy dilemma will represent a
particular challenge for Beijing to carry on
its Eurasian pivot.
It is true that China’s geopolitical influence and its global aspirations reinforced by
the growing opportunities in Eurasia would
naturally increase. However, cultivating
friendly relations with the continent’s western countries is extremely important for
China in terms of maintaining stability and
security in its western frontier. This fact is
especially relevant since both China and
Central Asia share the same security-related issues, such as separatism, extremism,
terrorism and drug trafficking. Hence, China is an important element of regional security in Central Asia. Without the active
participation of Beijing, or at least, without
taking into account its interests, any security system in the region will not be effective.
Considering the U.S. rebalance to Asia,
China’s geopolitical stakes in the Middle
East would inevitably rise. Nevertheless,
113. “Marching West: Regional Integration in Central Asia,” Huffington Post, January 13, 2014, available at: http://www.huffingtonpost.com/china-hands/marching-west-regional-integration_b_4581020.html.
66
La Muraglia infinita
we have to admit that in the short-term
perspective, Chinese leaders would rather
avoid getting involved in the politics of
the Middle East. Nor is it military set up to
project power. China’s Silk Road strategy
in the Middle East is to create an overland
transport corridor passing through Central Asia and to ensure that other powers
do anything to interfere with its economic
potential in the region.
In a similar vein, China’s Eurasia pivot is
not aimed at subverting Brussels’s leading
role in Central and Eastern European affairs, but by establishing economic outposts
there, China can make itself an extremely
important partner. The most likely scenario is China will have more of a corporate
presence in Eastern Europe rather than becoming the head of any alliance or integration structure. Establishing an economic
presence in Central and Eastern Europe
and coming to dominate any sort of economic forum there gives Beijing more clout
without necessarily saddling with more responsibilities.
There is also a wide range of challenges,
which might hinder China’s Eurasian Pivot. First, China may be accused of neo-colonialism in an attempt to turn its western
neighbors into raw material appendages.
Second, the Middle East characterized
by the competition between regional leaders, such as Iran, Saudi Arabia, Turkey,
Egypt and Israel. In South Asia, there are
still India-Pakistan tensions. No matter
what position Beijing would occupy on
each particular issue, there will always be
a dissatisfied party. Third, Central Asia is
a very complex region where not only the
interests of global and regional powers are
intertwined with each other, but also the
relations between the countries of Central
Asia themselves are very intense. Therefore, China as the initiator of a new project
most likely has to be a moderator of these
relations and contradictions. Fourth, the
political power in some countries of the
Central Asia and Middle East is not sufficiently stable. In addition, these regions
struggle with poverty, wide range of ethnic
and religious conflicts. Presently the Syrian
and Iraqi governments are waging fierce
battles with numerous armed groups.
Chinese state-owned enterprises have
already witnessed how difficult is the situation in the Arab world on the example
of Libya and Sudan. Splash of social unrest
in the Arab world in early 2011, was seen
in China as a very important event that
raised concerns among Chinese leaders.
China’s economic loss in the Libya War
amounted to 16.6 billion USD.114 China also
was forced to carry out an unprecedented
operation to evacuate 36,000 of its citizens
and 2,000 citizens of other countries from
Libya and neighboring countries, using for
this purpose one of its warships in the Gulf
of Aden as well as the military transport
aircrafts.115 In the event of instability in
the Middle East or Central Asia, Beijing’s
114. Mu Ren. “An Analysis on the Contradiction Between China’s Non-intervention Policy and Intervention Activities.” Graduate School of International Relations Ritsumeikan University, October 2013, p.23, available at: http://rcube.ritsumei.ac.jp/
bitstream/10367/5025/1/isa_13ren.pdf.
67
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
corporate interests could be threatened
again as it was in the case of Libya. In this
situation, the question is whether China
will resort to military intervention. In fact,
Beijing has already become a part of this
complex picture. The Silk Road initiative implies that China’s vital interests will
inevitably grow, which also means that she
cannot simply withdraw from these areas
in case of instability.
China’s Eurasia Pivot is a serious test for
Beijing’s foreign policy doctrine. Traditional China’s “non-interference” policy can
break under the harsh reality that needs to
protect Chinese citizens and investment.
The experience of the Chinese peacekeeping in Sudan demonstrates that China
is willing to conduct military operations
when it comes to protecting its financial
interests. Chinese non-interference disappeared when Sudan began to disintegrate
and when China’s oil investments were threatened. As a result, Beijing was forced to
act as a diplomatic mediator and place its
peacekeeping contingent.
How far China can go on the Eurasian Continent largely depends on her interaction
with major and regional powers. Xi Jinping
marked a quite noticeable shift in China’s
foreign policy, which started to be much
more assertive. China is tougher than before showing its disagreement with the US
on a number of major international and bilateral issues, avoiding, however, crossing
the red line on which disagreements can
escalate into open confrontation.
The US return to Asia stirred up China’s
resentment. China’s rise and the US’ unhelpful hedging policy in China’s neighborhood increased tensions in this region.
Consequentially, the US pushed China towards the embrace of Russia. China is increasingly seeing Russia as a staunch ally
for a multipolar world and balancing the
American hegemony. It is argued that Russia has nothing to offer to China but for
natural resources. Those arguments only
tell half the story. Russia is instrumental if
China wants to reap potential geopolitical
and economic benefits out of the vast Eurasian continent.
China-Russia relationship is always a delicate one. China is conducting a much more
assertive foreign policy in Central Asia,
which implies geopolitical challenge for
Russia’s position in the region. However,
Beijing is also aware that without Russia’s
acquiescence, it cannot go far. Russian
military power is still a major condition for
maintaining security in Central Asia.
A potential scenario is a Russia-China G2on
Eurasian Continent, in which, China provides economic public goods while Russia provides security public goods. China’s
growing influence in Central Asia and its
tying the region to its own development
primarily through the financing of regional
infrastructure construction, the expansion
of Chinese participation in the development
of natural resources, as well as promoting
integration initiatives like the SREB are becoming stable trends in China’s foreign po-
115. Mu Chunshan, “China’s Nimble Libya Pullout,” The Diplomat, March 22, 2011, available at: http://thediplomat.com/2011/03/
chinas-nimble-libya-pullout/.
68
La Muraglia infinita
licy vector in Central Asia. In the meanwhile, Beijing agrees to the “privileged” status
of Russia in the region due to the expansion
of Moscow’s military infrastructure in Tajikistan and Kyrgyzstan. Instead of seeing it
as a threat, Beijing would probably see it
serve as a deterrent to the U.S. and removes the accusations of Beijing’s geopolitical
ambitions in the eyes of the Central Asian
leaders.
This Russia-China G2 scenario is problematic. It does not take into account the role
of the US and the EU. It can even lead to a
serious split between the East and the West,
which is unfortunately a potential possibility. On the one hand, China seeks political
and strategic partnership with Russia to lessen the global influence of the U.S. On the
other hand, China seeks greater economic
ties with the West, especially with the EU.
Strategic partnership with Russia cannot
bring the increased trade flows China wants
at the same time Beijing needs Moscow’s
political backing to cooperate in Central
Asia and to deal with the U.S.
Chinese-operated ports in the Indian Ocean, which theoretically can serve as military bases for the Chinese Navy raises
serious concerns in India. Therefore, Narendra Modi’s government departs from
the traditional neutral position and declares its own geopolitical ambitions via
the “Act East” and “Connect Central Asia”
policies. For China, this means that its Eurasian Pivot will also have to reckon with
India’s interests.
Perhaps a political balance of power and
an economic integration on Eurasia con-
tinent would best serve the interests of
all the stakeholders in this region. China,
Russia, the US and the EU, and India, as the
major and regional powers in this region,
would need to strike a balance of power.
In the meanwhile, they also need to work
towards an economically viable regional
integration framework, which could help
ensure the Eurasian continental stability
and prosperity.
FINE PARTE 1
Continua nel numero di Maggio-Agosto 2017
Marlen Belgibayev
Marlen Belgibayev is a research fellow at Wuhan University Centre of Economic Diplomacy.
Xiaotong Zhang
Executive director of Wuhan University Centre of
Economic Diplomacy and associate professor of the
School of Political Science and Public Administration
of Wuhan University.
69
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
LA SINIZZAZIONE DELL’ASIA
CENTRALE TREDICI SECOLI DOPO
di Marcello Ciola
espansione della galassia cinese
verso nord e verso ovest è un fatto lungo secoli se non, più correttamente, millenni. Questa lunga marcia
ha trovato sul suo cammino due grossi
ostacoli: l’orografia e la politica. Difatti, la
prima difficoltà appare evidente nel momento in cui si prende in mano la cartina
geografica e ci si confronta con quelle che
erano non solo le tecnologie di spostamento e controllo del territorio dell’epoca ma
anche le strategia di tipo militare: la catena dell’Himalaya e il massiccio del Tian
Shan a ovest e il Grande Khingan, il Deserto dei Gobi e i Monti Altai a nord hanno
costretto gli imperatori cinesi a incanalarsi
da un lato verso la pianura del Sungliao
seguendo il letto dei fiumi Nen e Songhua
in Manciuria e, dall’altro, nel bacino del
fiume Tarim, nel deserto del Taklamakan,
passando prima in una gola naturale posta tra il deserto dei Gobi e l’Altun Shan
L'
Gli investimenti cinesi
stanno modificando
qualitativamente
l’articolazione delle
tradizionali economie
centroasiatiche
70
La Muraglia infinita
fonte: The Circle of Ancient Iranian Studies
(le Montagne d’Oro, così come conosciute
dalle popolazioni turche), per poi finire o
nel corridoio di Wakhan verso l’Afghanistan (oggi ancora strategicamente molto
importante) o più a nord verso la Sogdiana
(o Transoxiana) o ancora più a nord verso
quello che sotto la dinastia Qing era l’ultimo confine della Cina Imperiale, il lago
Balqaš (Bo-Ku o Po-Ku in cinese a seconda
delle epoche). La difficile conformazione
geografica del territorio, caratterizzata,
come si è visto, da grandi gruppi montuosi, ha reso di fondamentale importanza il
controllo dei bacini idrici dei fiumi navigabili e ha ispirato l’espansione della Cina
nel corso della sua millenaria storia. Non
solo, ne ha condizionato anche la politica
interna, secondo elemento di instabilità,
sia nel suo sviluppo economico che ammi-
nistrativo che culturale. Infatti, è proprio
a quest’ultimo punto che si voleva arrivare: nella zona compresa tra l’appena citato lago Balqaš e la catena del Tian Shan,
conosciuta come la zona dei “Sette Fiumi”,
si sono incontrate e influenzate la “cultura
cinese”1 e quella dei popoli nomadi turchi e
mongoli dell’Asia Centrale. È difficile poter
sostenere con certezza quale fu la cultura
che influenzò più l’altra, fu sicuramente un
mescolarsi reciproco tra la cultura turcomongola, presenza già forte all’interno del
territorio sotto controllo di quelle dinastie
che appartengono2 alla storia della Cina, e
cultura Han con una sicuramente più alta
influenza economica di quest’ultima sulle
altre popolazioni. Dalla fine del I secolo
a.C. inizia un lento processo di espansione
verso ovest a opera prima di alcuni pionieri
1. Già di per sé composta da una costellazione di culture eterogenee tra loro.
2. Anzi, per certi versi sono fatte appartenere alla storia della Cina in quanto, è utile dirlo, alcune dinastie tra cui i Tang, gli
Yuan e gli Liao non avevano origine Han bensì turco-mongola.
71
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
IL GENERALE GAO XIANZHI
E LA BATTAGLIA DI TALAS
e poi da veri e propri contingenti militari
che, seguendo le rotte già tracciate, portarono la cultura Han sempre più verso
oriente, iniziando quel processo di sinizzazione, veicolato da un lato dalle merci
(e dalla tecnologia) cinese, dall’altro dalla cultura buddista, che andrà a investire
l’Asia Centrale e che ha lasciato segni tangibili fino a oggi come i numerosi templi,
statue e oggetti di vario tipo. Contestualmente nascono le cosiddette vie della seta
che un rapido sviluppo dall’ottavo secolo
in poi e che avevano conosciuto una prima fase di incubazione già nei secoli precedenti.
È sotto la dinastia Tang (618-907 d.C.) che
si interrompe quello che viene considerato il processo di sinizzazione dell’Asia
Centrale3. Tale dinastia aveva raggiunto
il potere e conosciuto il suo apice proprio
attraverso l’alleanza con quei popoli turchi che abitavano (e abitano) la zona dello
Xinjiang odierno e appena fuori ai propri
confini. La fragilità di questa alleanza era
quasi scritta nella storia, in quanto, contestualmente all’espansione dell’Impero
Celeste verso ovest, si stava realizzando
l’espansione dell’Impero culturale-religioso dell’Islam verso est. Un fenomeno,
quest’ultimo, che ha interessato le popolazioni arabe, turche e persiane che nelle loro tre dimensioni (storica, politica e
“mistica”) hanno dato sempre più vigore
e fondamenta alla già complessa dottrina
islamica.
In pieno 700, le scorribande musulmane
razziavano in continuazione i villaggi posti nel bacino del fiume Tarim, sotto protezione dell’Imperatore cinese. Per porre
fine alle incursioni, l’Imperatore Celeste,
Xuang Zong, decise di affidare al generale
Gao Xianzhi la messa in sicurezza di questa porzione di territorio strappata circa un
secolo prima all’Impero Tibetano, all’epoca dei fatti in pieno decadimento politico
ed economico. Il generale si convinse che
l’unica maniera per fermare le incursioni provenienti dall’Impero Omayyade era
quella di occupare la Sogdiana (controllata parzialmente da quest’ultimo). L’occupazione della Sogdiana avrebbe portato
due sostanziali conseguenze: il controllo
diretto degli snodi principali di quelle che
saranno in seguito battezzate come Silk
Roads e la fine delle incursioni musulmane a disturbo dei traffici che passano da
questi snodi. Ma questo comportava un
grosso svantaggio: la difficoltà logistica e
strategica di controllare un altro territorio a migliaia di chilometri dal centro del
potere. Per sopperire a questo svantaggio,
la strategia dei generali cinesi era quella di
allearsi con le popolazioni locali in difesa
rispetto a minacce “esterne”. Sostanzialmente una sorta di sistema feudale tipico
dei sistemi imperiali: protezione in cambio
di unità militari e derrate alimentari.
Gao Xianzhi aveva già una grande espe-
3. Che, in realtà, è giusto ribadire, è stato un processo di influenza biunivoco tra le due culture.
72
La Muraglia infinita
rienza con questa strategia: era lui che
qualche decennio prima, infatti, aveva ridotto ai minimi termini l’Impero Tibetano
alleandosi con tutti i regni circostanti. Il
generale, trovandosi nello Anxi, suo governatorato, si incamminò a sostegno delle
popolazioni del Fergana con l’obiettivo di
occupare la Sogdiana. Le popolazioni islamizzate non aspettarono l’arrivo di Gao e
si organizzarono chiedendo aiuto al governatore di Samarcanda, Ziyad bin Salih.
Le fonti in arabo originali4 ci dicono che
quest’ultimo si stabilì nei pressi della cittadina di Atlakh con circa 200000 uomini
(verosimilmente furono circa un quarto).
L’esercito al seguito di Gao Xianzhi era
composto invece da 30000 effettivi di cui
un terzo cinesi e il resto mercenari Karluks (cioè turchi nomadi stanziati per lo
più a ovest dei monti Altai lungo il bacino del fiume Irtysh), più 14000 uomini di
supporto.5 Questa disparità tra cinesi e
mercenari stranieri era normale per l’epoca se consideriamo che tradizionalmente
anche i romani nel tardo impero hanno
attuato lo stesso metodo lungo il confine
nord orientale.
Dopo cinque giorni di battaglia lungo il
fiume Talas, le truppe mercenarie sotto la
guida del generale dei Tang cambiarono di
schieramento attaccando i cinesi alle spalle. Il generale riuscì a salvarne solo 2000.
Le altre furono trucidate.
Questa sconfitta è considerata da molti6
una battaglia decisiva soprattutto perché
segnò la fine del lungo processo di sinizzazione che stava interessando l’Asia Centrale ormai da diversi secoli. Non solo, le
popolazioni arabe riuscirono ad acquisire
(sia razziando che sfruttando i prigionieri)
diversi segreti tecnologici cinesi tra cui la
carta e la seta. Per quest’ultimo motivo, la
battaglia, seppure ha segnato una sconfitta
militare per l’Impero Celeste, rappresentò
una vittoria in senso commerciale: lungo
le famose Vie della Seta furono costruiti
con l’aiuto dei prigionieri cinesi delle vere
Nel 751 sembrava chiaro
quale tra le culture cinese e
islamica avrebbe dominato
l’Asia Centrale sebbene tra il
diciannovesimo e il ventesimo
secolo ben altri processi
culturali e politici entrarono
in ballo
e proprie botteghe di fabbricazione della carta e tessitura della seta che diedero
impulso fondamentale alle arterie commerciali di tutta l’EurAfrAsia. I rapporti
diplomatici tra i due vecchi contendenti
ripresero dopo il 751 quando delegazioni
degli Abbasidi, che avevano sostituito un
anno prima la dinastia Omayyade, iniziarono a omaggiare di doni la dinastia Tang per
favorirne gli scambi commerciali. Sebbene
la sinizzazione politica e culturale dell’Asia Centrale subì un grande freno, quella
4. Citate in M. E. Lewis, “China’s Cosmopolitan Empire: The Tang Dynasty”, Harvard University Press, 2009, p. 159.
5. B. Hoberman, “The Battle of Talas”, Saudi Aramco World, Settembre-Ottobre, 1982, p. 28.
6. Come da Carrington Goodrich in “A Short History of the Chinese People”, Harper, Rev., New York, 1951, passim.
73
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
commerciale ebbe un’accelerazione notevole. Nel 751 sembrava chiaro quale tra le
culture cinese e islamica avrebbe dominato
l’Asia Centrale7 sebbene tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo ben altri processi
culturali e politici entrarono in ballo.
ografico che partiva dall’intersezione occidentale tra Cina, Urss e Mongolia e finiva
dalla parte opposta, a sud, ai confini con
l’India (dagli anni ’70 molto vicina all’Unione Sovietica). La Cina rivendicava per
sé il maltorto dei trattati ineguali, vale a
dire porzioni di territorio che comprendevano importanti risorse idriche e posizioni
strategicamente importanti per la difesa
del territorio della Repubblica Popolare. Il
mondo, però, per lo meno nei suoi confini
politici, era congelato, stretto nel fragile
equilibrio della Guerra Fredda e tra Cina e
Urss il clima politico non poteva “scaldarsi” troppo, pena la rottura definitiva del
sistema che verso la fine di questo periodo era diventato tripolare e che si sarebbe
risolto in favore del “terzo polo”, quello a
stelle e strisce. Curiosa similitudine storica questa del mondo tripolare con il tema
delle “Tre Torri” proposto dal presente numero: è tra la fine degli anni ’70 e la prima
metà degli anni ’80 (potendosi forse stiracchiare fino all’87) che queste “tre torri”
crescono fino a sovrastare il globo intero;
nell’ultimo decennio del diciannovesimo
secolo una di esse è crollata per poi ricostruirsi parzialmente nel nuovo millennio;
contestualmente (e simbolicamente, se si
pensa ai fatti dell’undici settembre 2001)
una di esse inizia a vacillare in favore della
terza, quella cinese, la cui crescita rallenta
a causa di limiti sociali, strutturali e congiunturali (si pensi all’inesistente classe
media che stenta a crescere in numero o
alla crisi finanziaria globale).
IL DRAGONE TORNA A GUARDARE
A OVEST
Nel diciannovesimo secolo la Cina è stata
costretta a subire una serie di trattati, cosiddetti ineguali, che le sottraevano quelli che oggi chiameremmo asset strategici.
Porti lungo la costa, porti fluviali, intere
aree ricche di risorse e materie prime, bacini idrici e le sorgenti di importanti fiumi,
tra cui quelli a sud del Tibet, finiti all’Impero Britannico e quelli della zona dei Sette
Fiumi, occupati dall’Impero russo sempre
più in espansione. La sinizzazione dell’Asia
Centrale sembrava oramai un pallido ricordo consegnato ai più remoti cassetti della
Storia. Senonché, nel secondo dopoguerra
la spinta rivoluzionaria del Partito Comunista Cinese ha dato nuova vita al cadavere
dell’Impero Celeste e, con la crisi dei rapporti con l’Unione Sovietica della seconda
metà del ventesimo secolo, ha aperto la
vecchia sfida del “ritorno in Asia Centrale”.
In questa maniera, le dispute territoriali
tra Cina e Urss erano accese a tal punto che
tra le due sponde dell’Amur ci si sparava
tra “compagni” spesso e volentieri, ma il
vero e più succulento pomo della discordia
si trovava invece a est, su un quadrante ge-
7. W. Barthold, “Four Studies In History Of Central Asia”, E. J. Brill, Leiden, 1962, pp. 88-89
74
La Muraglia infinita
Facendo però un passo indietro nella Storia, la Cina inizia a dimostrare un certo
interesse nell’Asia Centrale verso la metà
degli anni ’808. Pechino, così come tutti i
suoi prodotti (commerciali e culturali),
era vittima di una sorta di kulturkampf in
salsa sovietica che ne impediva dal basso
oltre che a livello di élite politiche la diffusione su quel territorio. Nonostante la
Cina abbia vissuto con una certa soddisfazione il crollo dell’Unione Sovietica e
l’acquisizione di una propria percezione
geopolitica e geoeconomica rinnovata, c’è
da considerare che davanti agli occhi del
dragone non si prospettavano solo opportunità ma anche importantissime sfide: si
erano aperti spazi politici e culturali inimmaginabili e ad approfittarne subito furo-
no tutti quei movimenti di radicalismo di
matrice religiosa che facevano leva sul desiderio di indipendenza rispetto ai vecchi
poteri laici considerati “infedeli”. Tiziano
Terzani nei suoi libri autobiografici ha raccontato molto bene la crescita esponenziale delle scuole salafite in Asia Centrale,
sovvenzionate lautamente dai soliti noti,
che hanno caratterizzato tutto il quadrante di instabilità compreso tra il Mar Caspio
e il deserto dei Gobi. La Cina temeva che lo
stesso fenomeno che aveva interessato l’Asia Centrale potesse in una certa maniera
causare un effetto domino sullo Xinjiang
e sul Tibet. E per molti versi così è stato
con la nascita di molti movimenti radicali
di ispirazione islamica che hanno trovato
terreno fertile e utile rifugio nell’impervia
8. Primi scambi commerciali di rilievo risalgono all’82 a dire il vero e furono riconosciuti solo verso l’86 quando vi fu un
processo di riforma della politica di commercio estero. Niklas Swanström, Nicklas Norling, Zhang Li, “China,” in F.S. Starr (a
cura di), New Silk Roads: Transport and trade in Greater Central Asia, Central Asia and Caucasus Institute, Washington DC,
2007, p. 386
75
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
zona compresa tra Urumqi (capoluogo dello Xinjiang e considerata capitale del Turkestan) e Kashgar.
Quale soluzione aveva la Repubblica Popolare Cinese per anestetizzare e poi debellare un fermento che stava infiammando le
ex-RSS (esclusione fatta per Kazakistan e
Turkmenistan) e che la stava minacciando direttamente? La soluzione era in uno
strumento di diplomazia che Pechino raramente ha conosciuto nella sua millenaria storia: il soft power. Se fino al 1992 la
Cina reclamava praticamente circa il 20%
del territorio dell’Asia Centrale, decise di
ridurre la contesa a “soli” 34000 km2 con il
chiaro desiderio di assicurarsi degli “alleati” al suo confine occidentale. Approfittando anche della crisi politico-economica
della Federazione Russa, la Cina risolse i
propri confini con il Kazakistan nel 1994
(un ultimo pezzo nel 1999), con il Kyrgyzstan nel 1996 e con il Tagikistan nel 2002.
In questo periodo nasce uno dei più grandi
strumenti di diplomazia mondiale che la
Cina ha tutt’ora: la Cooperazione di Shanghai (SCO, 2001), ispirata proprio dal forum
negoziale dello Shanghai Five (1995).
dei rapporti tra l’orso e il dragone e, conseguentemente, la cooperazione per il contenimento dei “tre mali”9 dell’Asia Centrale (il separatismo, il fondamentalismo, il
terrorismo). Per la Cina, la SCO ha invece
rappresentato un timido ma importante
inizio della (ri)sinizzazione parziale del
quadrante centroasiatico. Timido in quanto in ogni caso la Cina non vuole “pestare
le zampe dell’orso” proprio nel suo “giardino di casa”. Importante perché, sebbene
sia il “giardino di qualcun altro” le ex-RSS
rappresentano un’opportunità enorme per
l’espansione economica (e quindi politica)
cinese – oltre che per l’approvvigionamento energetico. Sinizzazione perché è in atto
un processo di forte influenza (si vedrà di
che tipo) cinese sulle ex-RSS. Parziale perché la PRC sicuramente non sta costruendo templi buddisti o non sta martellando
le popolazioni centroasiatiche con un
qualche tipo di propaganda ma sta agendo
sotto alcuni punti di vista che stanno abituando questi mercati alla presenza cinese.
Un qualcosa che solo pensarlo venti anni
fa sembrava essere roba da libri di ucronia.
Concentrandosi sulle ultime due parole
chiave, sinizzazione e parziale, è meritevole un’analisi più approfondita che si spera
crei, ma non ponga, più domande di quelle
a cui riesce a rispondere. Questo percorso di influenza che la Cina sta svolgendo
prende piede da due idee fondamentali:
investimenti e commercio. Da queste due
idee ne scaturiscono altre di natura eticopolitica, di tipo, dunque, qualitativo.
LA COOPERAZIONE DI SHANGHAI:
UN PARZIALE RITORNO ALLA (RI)
SINIZZAZIONE DELL’ASIA CENTRALE
La creazione della SCO ha contribuito
notevolmente a due processi che hanno
plasmato l’Asia Centrale così come la possiamo vedere e vivere oggi: la distensione
9. Così come indicati dall’art. 6 del trattato costitutivo della SCO.
76
La Muraglia infinita
Più che cambiare la situazione politica o
geopolitica, l’azione della Cina ha profondamente cambiato lo status quo economico di questi Paesi: tra il 2002 e il 2003 il
commercio è cresciuto del 300% andando
da un miliardo di dollari per anno a 3 miliardi. Tra il 2004 e il 2006 è cresciuto del
150%10. Nel 2010 la Cina ha superato la
Russia come volume d’affari con le ex-RSS
raggiungendo 29 miliardi di dollari11. Nel
2013, quando è stata lanciata da Xi Jinping
l’iniziativa Belt&Road (B&R) gli scambi
commerciali erano decollati raggiungendo
45 miliardi di dollari nel 201412. Da questi
Paesi la Cina prende, come detto, risorse e
materie prime13. In cambio la Cina non solo
investe in infrastrutture non solo strategicamente ma anche socialmente utili, ma
vende su questi mercati i propri prodotti
a basso costo che riescono a soddisfare la
domanda del basso stile di vita di queste
popolazioni a cui i prodotti non solo europei ma anche turchi, iraniani e russi risultano troppo costosi.14 Le ricadute di questa
situazione non sono solo prettamente calcolabili in dollari (quindi, quantitative). Ci
sono delle ricadute qualitative: la Cina, essendo un attore strutturale fondamentale
su questo quadrante sta modificando l’articolazione delle tradizionali economie centroasiatiche. Per fare un esempio concreto,
il Kyrgyzstan ha profondamente modifica-
to la sua economia diventando l’hub attraverso cui i prodotti cinesi vengono esportati in Russia, Asia Centrale e anche Medio
Oriente. Questa economia basata sul settore dei servizi (import-export) era, prima
degli ultimi anni, sconosciuta ai kyrgysi.
Tutto ciò ha favorito conseguentemente
lo sviluppo di altri settori che influenzano
la vita di individui e di interi settori della
società: lo studio e l’insegnamento delle
lingue straniere e la propensione all’imprenditoria privata e una certa educazione,
certo finora in fase pressoché embrionale,
ai principi del liberismo economico.
Questa tipologia di sinizzazione ha sicuramente portato a livello governativo una
certa condivisione dei valori e all’attitudine di politica estera della Cina (per altro
non troppo lontana da quelli della Federazione Russa) che si riflettono, in sostanza,
nei valori della Cooperazione di Shanghai
(il cosiddetto Shanghai Spirit). E sia attraverso i circoli culturali della SCO che
con il prezioso lavoro degli Istituti Confucio, Pechino sta cercando di diffondere,
partendo dalle élites, questi valori verso il
popolo nella sua interezza. Questo ha creato, tanto nelle élites che nelle popolazioni,
una certa spaccatura tra chi vede di buon
occhio questo processo e chi invece ne è
avverso.
Del primo gruppo ne fanno parte sicura-
10. G. Raballand e A. Andrésy, “Why should trade between Central Asia and China continue to expand?,” Asia Europe
Journal vol. 5, no. 2, 2007, pp. 235–252.
11. Fonte: Direction of Trade Statistics (DOTS).
12. Ivi.
13. M. Myant e J. Drahokoupil, “International Integration and the Structure of Exports in Central Asian Republics,” Eurasian
Geography and Economics, vol. 49, no. 5, 2009, pp. 604–622.
14. Per un elenco di questi prodotti consultare: H.-L.Wu, and C.-H. Chen, “The Prospects for Regional Economic Integration
between China and the Five Central Asian Countries,” Europe-Asia Studies, vol. 56, no. 7, 2004, pp. 1069–1070.
77
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
mente diversi oligarchi come Alexander
Mashkevich dell’Eurasian National Resources Corporation, colosso della metallurgia che controlla circa un terzo dell’intero valore economico del Kazakistan; si
trova anche Vladimir Kim delle Kazakhmys,
industrie di rame; la famiglia Salymbekov
che controlla i traffici tra il mercato cinese
e quello kyrgyso (proprietari del mercato
Dordoi di Bishkek); numerosi sono anche
i circoli economici uzbechi e turkmeni che
vedono di buon occhio questo ritorno cinese in Asia Centrale. Di contro, esistono dei
gruppi “sinofobi” e sono per lo più collegati agli ambienti dei circoli religiosi islamici (ma solo di alcune sette), ai sindacati,
alla piccola imprenditoria, al mondo delle
ong e alla “galassia uigura”, vale a dire quei
gruppi/associazioni di etnia turca che si
battono per l’indipendenza del Turkestan
(Xinjiang) e per una islamizzazione della
politica dei Paesi centroasiatici. Probabilmente, risulta in questa sede inutile sottolineare il fatto che la lobby sinofila è di
gran lunga più potente della seconda.
Andando invece sui numeri dei sondaggi,
molti credono che la Cina sia in realtà una
sfida per l’Asia Centrale, tra cui anche alcuni think tank asiatici sono scettici sull’ottimismo di politica ed economia circa la
presenza cinese sul loro territorio15. Sottolineano come, ad esempio, non vi sia nella
politica una voce che ponga la questione
dell’influenza cinese sulla politica interna
o su come vi sia una sorta di tabu sull’argomento nell’opinione pubblica, sui giornali,
in televisione e di come non si dibatta circa il collasso di interi settori economici a
causa dell’arrivo degli investimenti cinesi
e si parli solo dei nuovi settori economici
emergenti grazie agli investimenti cinesi o, ancora, su come questa sinizzazione,
sebbene parziale, possa rappresentare un
pericolo per le identità e per le peculiarità
secolari delle popolazioni centroasiatiche.
CONCLUSIONI
Quello del ritorno cinese è un fenomeno
largamente dibattuto in Asia Centrale e al
di fuori di essa. Nella regione la sinofilia
e la sinofobia proseguono cammini lontani tra loro ma paralleli e, in particolare
quest’ultimo, può avere nel lungo periodo conseguenze sociali importanti perché
è un argomento su cui il popolo risulta, a
differenza delle élites, ancora molto diviso.
Per il momento la Cina non rappresenta
un modello politico da seguire in quanto
la Russia o la Bielorussia sono attualmente i principali punti di riferimento. Anche
come “modello di vita” quello cinese è lontana dall’essere un punto di riferimento in
quanto il modello di vita occidentale rimane ancora oggi un mito da inseguire. Anche
a livello economico/commerciale inizia ad
arrivare il cliché della scarsa qualità dei
prodotti cinesi e del “pericolo giallo”. La
crescita di quest’onda che finora è più sinoscettica che sinofobica sta stimolando
soluzioni discutibili come quelle proposte
dai circoli nazionalisti kyrgysi di legaliz-
15. M. Laruelle e S. Peyrouse, “The ‘Chinese Question’ in Central Asia. Domestic Order, Social Changes and the Chinese
Factor”, Hurst, Columbia University Press, Londra e New York, 2012, p. 22.
78
La Muraglia infinita
zare la poligamia in modo da contrastare
la perdita di identità etnica e culturale davanti alla sempre più massiccia presenza
cinese (anche a livello demografico) che va
mescolandosi con la popolazione locale attraverso i matrimoni misti16.
Tutto sommato, però, c’è la percezione che
la Cina faccia parte della medesima famiglia euroasiatica (ancora a guida russa,
nell’immaginario comune) ma quanto la
Cina rappresenti un solido partner strategico o un concorrente militare, una opportunità economica o una maledizione
politica in virtù del suo potere economico,
queste sono questioni su cui molti centri
studi stanno indagando e stanno cercando
di dare risposte fondate e convincenti. La
politica centroasiatica, dal canto suo, pare
che non sia ancora posta seriamente la domanda sulla sfida della globalizzazione dei
mercati e su come eventualmente rimanere
a galla per sopravvivere alla enorme marea
cinese. Il dato di fatto è che dopo 1300 anni
il dragone ha volto il suo sguardo a ovest
e muove e muoverà lì pedine importanti,
fermo restando che al di là di un Oceano
un’altra “torre” pare aver anch’essa volto
lo sguardo a ovest, uno sguardo che la Cina
deve controllare con la dovuta attenzione.
Marcello Ciola
Associate analyst think tank “Il Nodo di Gordio”
16. S. Peyrouse, “Discussing China: Sinophilia and Sinophobia in Central Asia”, in Journal of Eurasian Studies, no. 7,
2016, p. 23.
79
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
LA STRATEGIA MARITTIMA DELLA
REPUBBLICA POPOLARE CINESE
DA MAO A XI JINPING
di Manuel Moreno Minuto
uso del mare quale strumento
di benessere, prestigio e potere
rientra da qualche tempo tra i
pilastri della “Grand Strategy” cinese i cui
ambiziosi obiettivi, insieme a quelli di ordine politico, diplomatico, economico e sociale tendono ad essere perseguiti con una
“percezione” del tempo diversa da quella
occidentale, obiettivi di cui occorre tenere
conto per comprendere, con approccio olistico, la visione di Pechino.
L'
Without an aircraft carrier,
i will die with my eyelids
open. Ammiraglio Liu
Huaqing Capo di Stato
Maggiore della PLAN 19821987
TRAD.
Senza una portaerei, morirò con le
palpebre aperte. Ammiraglio Liu
Huaqing Capo di Stato Maggiore
della PLAN 1982-1987
LA STRATEGIA MARITTIMA
“DIFENSIVA” DAL DOPOGUERRA
ALLA RIVOLUZIONE CULTURALE
La Repubblica Popolare Cinese nasce il 1
Ottobre 1949 alla fine di una lunga guerra civile che determinò gli attuali confini
terrestri e marittimi. La componente navale dell’Esercito di Liberazione popolare
(PLAN) fu costituita nel successivo Maggio
80
La Muraglia infinita
Ammiraglio Liu Huaqquing. Fonte: China Defence Blog
1950 contando su limitatissime risorse e
mezzi ereditati dal governo del Kuomitang.
Il primo comandante il Generale Xiao Jingguang, proveniente dall’Esercito Popolare,
operò essenzialmente per la realizzazione
degli obiettivi politici della Rivoluzione
con un programma volutamente generico
e privo di importanti traguardi operativi.
Nel 1950 l’URSS inviò in assistenza alla
neonata Marina cinese circa 500 consiglieri militari (divenuti 2500 nel 19541) che, oltre a fornire assistenza tecnica, trasmisero
la dottrina strategica della “Young School”
sovietica2. Questa scuola di pensiero, nata
intorno agli anni venti, confutava la validità strategica di un controllo del mare
(Sea Control) realizzato con grandi navi di
superficie in favore di una più efficace negazione dell’uso del mare (Sea Denial) ot-
tenuta con mezzi leggeri (es. pattugliatori)
o mezzi particolarmente insidiosi come i
sottomarini. Una filosofia che aveva una
sua ragion d’essere anche nella situazione
dell’economia, dell’industria e della cantieristica navale della Cina e dell’URSS in
quei primi anni cinquanta.
Nel 1953, anche per gli esiti negativi di un
giro ispettivo effettuato da Mao alle strutture della PLAN, si ebbe una prima svolta
nell’assegnazione delle risorse, che venivano rinforzate allo scopo di reagire alle
possibili “aggressioni imperialiste” e contrastare la Marina di Taiwan. I primi passi concreti riguardarono l’acquisizione di
alcune unità sovietiche compresi quattro
sottomarini, due incrociatori ed un cospicuo numero di pattugliatori costieri che si
affiancarono ad altre forze leggere di pro-
1. Cfr. AA.VV, A modern Navy with Chinese Charateristics, Office of Naval Intelligence, 2009.
2. Questa scuola di pensiero si basava sulla June Ecòle dell’Ammiraglio francese Aube. Cfr. Arne Roksund, The Jeune
École: The Strategy of the Weak, Drill, 2007.
81
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
venienza americana3. Da osservare che in
questa embrionale forza marittima il personale più qualificato proveniva dai disertori
della Seconda Divisione di Difesa Costiera
della Marina del Kuomitang. La guerra di
Corea non determinò nessun cambiamento
strategico nella della dirigenza cinese ancorata alla visione di Mao, una piccola marina
costiera al servizio di un grande esercito di
popolo, e come accennato agli oggettivi limiti economici ed industriali.
La fine degli anni cinquanta videro l’avvento
del binomio sottomarino atomico-missili a
testata nucleare4 quale strumento ideale di
rappresaglia strategica per le grandi potenze del pianeta. Un ristretto numero di mezzi
subacquei e missili prometteva di riequilibrare la sfavorevole situazione strategica
della Cina che impegnò ingenti risorse nello
sviluppo di questo binomio tecnologico, venendo tuttavia frustata nel 19585 dal rifiuto
sovietico di fornire assistenza tecnica.6
Una strategia marittima “difensiva” similare
venne adottata anche dall’URSS di Krushov
almeno fino all’avvento quale capo della Marina dell’Ammiraglio Sergey Gorshkov fautore di un maggiore equilibrio tra forze subacquee, forze di superficie e la componente
missilistica di lungo raggio7.
Tra il 1960 ed il 1976 i rapporti tra Cina ed
URSS si deteriorarono, tanto da causare anche scontri armati e la possibilità di un conflitto nucleare8, determinando, tra l’altro,
un riavvicinamento politico tra Pechino e
Washington. Tale situazione rafforzò il ruolo
dell’Esercito, custode del lunghissimo confine sino-russo, a scapito delle già deboli forze
della PLAN, nella quale, tuttavia, finalmente
entrarono in servizio le prime unità subacquee a propulsione nucleare dotate di missili balistici a lungo raggio9. La componente
subacquea convenzionale raggiunse le 100
unità, aumentò anche il numero di unità di
superficie dotate di missili antinave (circa
200). Le componenti della Marina dedicate
alla caccia antisommergibili ed alla protezione antiaerea10 soffrivano ancora, nonostante la crescita del budget di un cronico
ritardo tecnologico per la perdurante idea
che la “guerra del popolo” sarebbe stata vinta dalla massa e dalle qualità non-materiali
dei “soldati rossi” di Mao piuttosto che dal
progresso scientifico. Le lezioni apprese nel
corso del breve ma vittorioso scontro navale
del Gennaio 1974 con il Vietnam del Sud per
il possesso delle isole Paracel non mutarono,
inoltre, la postura strategica della dirigenza
del tempo.
3. Tali mezzi appartenevano alle dotazioni acquistate dal precedente governo del Kuomitang.
4. Tali unità subacquee sono definite SSBN, ad esse nel tempo di affiancarono anche gli SSGN dotati di missili nucleari di
minore portata a traiettoria non balistica.
5. Nello stesso anno la Marina Usa metteva in servizio il suo primo SSBN.
6. Una vicenda simile colpì negli anni sessanta lo sviluppo del primo sottomarino nucleare italiano, fortemente voluto dal
Ministro della Difesa Andreotti e rimasto sulla carta per la mancata assistenza tecnica USA.
7. Cfr. Sergey Gorshkov, The Sea Power of the State, Pergamon Press, 1979.
8. La disputa territoriale fu risolta solo nel 1991. Cfr. Michael S. Gerson , The Sino-Soviet Border Conflict Deterrence, Escalation, and the Threat of Nuclear War in 1969, CNA, 2010.
9. Il 1 Agosto 1974 il primo sottomarino d’attacco a propulsione nucleare interamente progettato in Cina - Classe Han entrò in servizio con la PLAN con un ritardo quasi trentennale rispetto ad USA e URSS.
10. Il primo cacciatorpediere dotato di missili (DDG) entrò in servizio solo nel dicembre 1971.
82
La Muraglia infinita
IL POTERE MARITTIMO NELLA VISIONE
STRATEGICA DI LIU HUAQING
da due catene di isole poste al largo della
Cina. La “ Prima Catena di Isole”, che abbraccia le Isole Kurili, il Giappone, le isole
Ryukyu, le Filippine e l’Indonesia contiene, tra l’altro, tutte le zone di mare incluse
nella “9 Dash Line” indicata, sin dal 1947,
dal Governo del Kuomitang quale demarcazione dei diritti storici di sovranità della Cina12. La “Seconda Catena di Isole” è
posta più ad oriente passando dalle Isole
Kurili, dal Giappone, dalle Isole Bonin, dalle Isole Marianne, Palau ed Indonesia (vedasi figura). Entrambe abbracciano alcuni
stretti strategici per il traffico marittimo
ed essendo sottoposte a controllo straniero limiterebbero la libertà di movimento
delle forze navali di Pechino. Altra componente del pensiero dell’Ammiraglio fu la
stesura di un piano di lungo termine con
tre obiettivi temporalmente definiti. Per
il 2000 doveva essere raggiunto il pieno
controllo delle acque all’interno della Prima Catena di Isole; nel 2020 il medesimo
obiettivo si allargava alla Seconda Catena
di Isole; mentre, nel 2050, la PLAN avrebbe
dovuto operare a livello globale mediante
i gruppi da battaglia basati su unità portaerei. Ad oggi il primo obiettivo appare
parzialmente raggiunto ma una visione
tanto chiara e lungimirante dice molto
sul valore che i cinesi danno alla parola
“strategia”. Il successo di Liu, rimasto in
carica fino al 1986, non fu solo politico ma
anche strutturale: in quel periodo infatti
vennero impostate numerose riforme che
La morte di Mao nel settembre 1976 pose
fine al decennio della Rivoluzione Culturale determinando anche un deciso cambio
di rotta nelle politiche militari di Pechino.
Le riforme economiche di Deng (Grande
Timoniere dal 1980 al 1989) e la sua teoria del “socialismo con caratteristiche
cinesi” consentirono a Pechino in pochi
anni di sedere tra le grandi economie del
pianeta entrando a far parte della World
Trade Organization nel Dicembre 2001. La
rivoluzione di Deng ebbe un forte impatto
anche sulle vicende marittime della Cina e,
sebbene nel 1979 egli enfatizzasse il ruolo
di difesa costiera11, di lì a tre anni le cose
cambiarono profondamente. Nell’Agosto
del 1982 Deng designò quale comandante
della PLAN l’Ammiraglio Liu Huaqing, che
pur provenendo dai ranghi dell’Esercito
(con cui aveva partecipato alla Lunga Marcia degli anni trenta) aveva maturato dal
1952 una lunga esperienza nel campo delle
costruzioni navali e si era formato presso
l’Accademia Navale Voroshilov dell’URSS.
Con l’Ammiraglio Liu, oggi considerato
il “Padre della Marina”, la PLAN passava
dal concetto di “Difesa Costiera” a quello
di “Offshore Defence”, termine volutamente generico che abbraccia tutte le zone di
mare in cui sono presenti interessi cinesi
da tutelare. Il quadro strategico originario
concepito da Liu era tuttavia delimitato
11. Cfr. Bernard D.Cole, Reflection on China’s Maritime Strategy: Island Chains and the Classics, National War College, 2012.
12. Tale visione è stata contestata il 12 Luglio 2016 da una sentenza della Corte Permamente di Arbitrato dell’Aja che ha
negato l’esistenza di tali diritti storici.
83
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
hanno portato all’attuale assetto organizzativo della PLAN. Ultimato il suo incarico
fu designato come membro ed infine vicepresidente del CMC13 dove poté esercitare fino al 1997 una significativa influenza
nel bilanciamento dei fondi a favore della Marina. Infatti in questo periodo che si
avviano alcuni fondamentali programmi
per le forze di altura: da quello relativo
all’acquisizione della prima portaerei cinese e relativo gruppo di volo14, ai quattro
incrociatori da 8.000 tonnellate tipo Sovremenny, dai caccia Classe Luhu e Classe
Luhai alle fregate Classe Jangwei. In campo
subacqueo sotto la dirigenza Liu vennero
acquisiti dall’URSS i primi esemplari della
Classe Kilo, a propulsione convenzionale, mentre in patria si impostava la Classe
Song, inoltre venivano completati gli SSN
Classe Han ed dei nuovi battelli d’attacco
Tipo 093-Shang (vedasi riquadro).
Il secondo tassello della strategia marittima cinese, di matrice più squisitamente
civile, venne posto nel corso dei negoziati per la Convenzione delle Nazioni Unite
sul Diritto del Mare (UNCLOS), iniziati nel
1973 e conclusisi nel 1982. Tale trattato fu
lo strumento intorno al quale15 si intensificarono le dispute16 con Giappone, Vietnam,
Filippine e gli altri stati limitrofi. Una posizione politica e giuridica rappresentata nel
documento “Law of the People Repubblic of
China on its Territorial Sea and Adjacent Zones” del 199217, i cui effetti dirompenti si
cominceranno a manifestare circa un ventennio dopo.
IL PREMIER XI JINPING E LA NUOVA
STRATEGIA MARITTIMA
La lunga permanenza ai vertici dell’Ammiraglio Liu garantì alla PLAN un decennio
di rilevanti investimenti in piena sintonia
con le linee politiche del Partito Comunista esplicitate al riguardo nella “National
Ocean Policy” del 199818. Il documento, pur
non rappresentando ancora una strategia
marittima ufficiale, delinea la necessità di
uno rafforzamento della protezione degli
interessi marittimi nelle zone di sovranità,
insieme allo sviluppo economico delle aree
costiere e la protezione dell’ecosistema
oceanico sviluppando azioni di monitoraggio, sorveglianza e polizia marittima.
L’ascesa al vertice del Partito Comunista
nel 1989 di Jang Zemin coincise con il declino politico di Liu, una figura ormai scomoda ed ingombrante per il nuovo Leader
che lo esautorò dal CMC sfruttando dei
presunti episodi di corruzione riguardanti
la sua famiglia19.
La Marina si ritrovò in una situazione po-
13. Central Military Commission, massimo organo di direzione politica ed operativa delle forze armate cinesi.
14. La portaerei cinese Liaoning (ex-URSS Varijag) risulta avere effettuato il suo primo pattugliamento nel Mar Cinese
Meridionale alla fine di dicembre 2016 dopo un lunghissimo e travagliato approntamento tecnico ed operativo iniziato nel
lontano 1998. Cfr. https://www.nytimes.com/2016/12/27/world/asia/south-china-sea-trump.html?_r=0.
15. Zheng Wang, China and UNCLOS: An Inconvenient History: As South China Sea tensions rise, Beijing rethinks its relationship with the UN Convention on the Law of the, http://thediplomat.com/2016/07/china-and-unclos-an-inconvenienthistory/.
16. Cfr.https://treaties.un.org/pages/ViewDetailsIII.aspx?src=TREATY&mtdsg_no=XXI6&chapter=21&Temp=mtdsg3&clang=_en#EndDec.
84
La Muraglia infinita
litica meno favorevole, ma il vertiginoso
aumento del PIL e delle spese belliche permisero comunque un rafforzamento dello
strumento operativo marittimo definito da
Jang Zemin come parte della “Grande Muraglia Cinese” costituita dalle forze armate
di Pechino. Nel 2003 la dirigenza del Partito passa a Hu Jintao, il cui approccio politico rappresentò una svolta sotto molti punti
di vista, non ultimo quello di una maggiore
trasparenza nei confronti degli osservatori
stranieri. Nel 2004 iniziò la pubblicazione
in lingua inglese dei “White Paper” sulla
Difesa. Tra I documenti di maggior interesse strategico vi sono di certo il China’s National Defense in 2010, The Diversified Employment of China’s Armed Forces (2013), ed
il China’s Military Strategy (2015). Ognuno
di essi permette di capire le logiche che
stanno guidando il rafforzamento delle
forze armate cinesi, ma anche la visione
del mondo che Pechino intende proporre
ad alleati e competitor. In particolare, nel
2010 il compito della PLAN era in linea con
gli obiettivi della Offshore Defence Strategy,
mentre nel 2013 veniva enfatizzato il ruolo
di tutela della sicurezza marittima e degli
interessi di sovranità grazie allo sviluppo
di capacità d’altura (blue-water) per con-
durre tutti i tipi di operazioni, dalla deterrenza strategica con sottomarini al contrasto alle minacce asimmetriche20.
Un’importante, sebbene non inaspettata,
evoluzione nella policy marittima, tuttavia, si realizza con l’arrivo del nuovo leader
Xi Jinping che, nel Luglio 2013, utilizza nel
corso di un congresso del partito comunista il termine di “jinglue haiyang” ovvero
uso strategico del mare21. Un concetto che
in mandarino indica l’abilità di determinare gli avvenimenti marittimi in tempo di
pace: un chiaro richiamo alla futura assertività di Pechino in tutte le pendenti questioni di sovranità nei mari della Cina.
Nel settembre dello stesso anno il leader
lancia l’idea della “Nuova Via della Seta”,
un corridoio infrastrutturale marittimo e
terrestre volto a rafforzare il legame economico tra Pechino, l’Europa, l’Africa ed i
paesi del Golfo Persico. Nel 2015 la visione
diventa, per queste ragioni, più raffinata
riprendendo i classici canoni del potere
marittimo che legano insieme forza militare e potere economico. La Cina, consapevole che sta acquisendo il mare nella
persecuzione dei suoi interessi nazionali
sente di essere più vulnerabile alle crisi ed
all’instabilità internazionali in particolare
17. Cfr. http://www.un.org/depts/los/LEGISLATIONANDTREATIES/PDFFILES/CHN_1992_Law.pdf
18. Cr. Bernard D. Cole, Op.Cit.
19. Cfr. http://www.washingtonpost.com/wp-srv/politics/special/campfin/stories/cf052098b.htm
20. The PLA Navy (PLAN) is China’s mainstay for operations at sea, and is responsible for safeguarding its maritime security
and maintaining its sovereignty over its territorial seas along with its maritime rights and interests. The PLAN is composed
of the submarine, surface vessel, naval aviation, marine corps and coastal defense arms. In line with the requirements of
its offshore defense strategy, the PLAN endeavors to accelerate the modernization of its forces for comprehensive offshore
operations, develop advanced submarines, destroyers and frigates, and improve integrated electronic and information
systems. Furthermore, it develops blue-water capabilities of conducting mobile operations, carrying out international
cooperation, and countering non-traditional security threats, and enhances its capabilities of strategic deterrence and
counterattack.
21. Termine già proposto dall’Ammiraglio Liu in alcuni suoi scritti. Cfr.http://www.realcleardefense.com/
articles/2015/06/02/a_salt_water_perspective_on_chinas_new_military_strategy_107997.html.
85
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
delle organizzazioni civili in temi che nel
passato rientravano nella sola sfera militare era tuttavia già iniziata con la grande
riforma del 2013 di Hu Jintao, che unificò
tutte le forze di polizia costiere sotto la responsabilità di un’unica amministrazione
la “State Oceanic Administration” che ha la
responsabilità operativa (economica, ambientale, legale) su tutte le acque di pertinenza di Pechino.
quelle che riguardano le aree di accesso
alle fonti energetiche e le rotte del commercio marittimo. Alla PLAN viene chiesto
di evolversi dalla Offshore Water Defence
ad una più ampia capacità di Open Seas
Protection22, incardinata su quattro obiettivi strategici: protezione della “sovranità
territoriale”, salvaguardia dei “diritti marittimi”, riunificazione della Madrepatria,
tutela della sicurezza dello sviluppo economico. Obiettivi, peraltro, in linea con la
visione di Liu Huaqing la cui figura è stata
onorata dallo stesso Xi Jinping nel corso di
un convegno nello scorso settembre23.
Di rilievo l’approvazione, nel maggio dello scorso anno, del 13° Piano di Sviluppo
Quinquennale dove si richiama la necessità dell’approvazione di una Strategia
Marittima omnicomprensiva che abbracci
cioè gli aspetti civili sopratutto per lo sviluppo economico, quelli più prettamente
legati alle attività di tutela della sovranità
(polizia marittima) e quelli strettamente
militari come la riunificazione di Taiwan.
Questo documento si dovrebbe quindi affiancare ai White Paper militari, delineando una politica marittima di ampio respiro in cui tutte le componenti dello Stato
Cinese dovranno contribuire all’esercizio
del potere marittimo24. Il coinvolgimento
CONCLUSIONI
La strategia marittima cinese, nei suoi
aspetti essenziali non rappresenta una
vera novità, essendo caratterizzata da
elementi costitutivi già presenti in quelle
delle grandi potenze marittime del passato
(Regno Unito) e del presente (USA). In particolare, l’uso del mare quale elemento di
potere politico ed economico è facilmente
riconducibile ai classici pensatori del Potere Marittimo, da Mahan a Corbett. Tuttavia ciò che colpisce è la voluta ambiguità
cinese (elemento sicuramente originale):
ad un rafforzamento delle organizzazione
militare si è accompagnato per oltre un
ventennio, da Deng Xiaoping fino a Jang
Zemin, una costante tentativo di evitare
scontri politico/militari di livello elevato.
22. With the growth of China’s national interests, its national security is more vulnerable to international and regional
turmoil, terrorism, piracy, serious natural disasters and epidemics, and the security of overseas interests concerning
energy and resources, strategic sea lines of communication (SLOCs), as well as institutions, personnel and assets abroad,
has become an imminent issue.n line with the strategic requirement of offshore waters defense and open seas protection,
the PLA Navy (PLAN) will gradually shift its focus from “offshore waters defense” to the combination of “offshore waters
defense” with “open seas protection,” and build a combined, multi-functional and efficient marine combat force structure.
The PLAN will enhance its capabilities for strategic deterrence and counterattack, maritime maneuvers, joint operations at
sea, comprehensive defense and comprehensive support.
23. http://news.xinhuanet.com/english/2016-09/28/c_135720748.htm
24. Una policy simile è stata adottata dal Consiglio dell’Unione Europea con il documento European Union Maritime Security Strategy. Cfr https://register.consilium.europa.eu/doc/srv?l=EN&f=ST%2011205%202014%20INIT.
86
La Muraglia infinita
Tipo
Classe
Dati caratteristici
Note e Armamento
Caccia
Sovremenny
Dislocamento 8500 Tonnellate,
Lunghezza 155 metri, Velocità 32
nodi, Equipaggio 290 uomini.
Unità Russe di elevate capacità
antiaree con i missili SA-7,
antinave con i missili SS-N22 ed
antisom.
Caccia
Luhu 052
Dislocamento 4900 Tonnellate,
Lunghezza 145 metri, Velocità 32
nodi, Equipaggio 230 uomini.
Progetto cinese con assistenza
europea ed americana. Spiccate
caratteristiche multiruolo con
missili Yj1 e HQ-7 ed armamento
antisommergibile.
Caccia
Luhai 051B
Dislocamento 6800 Tonnellate,
Lunghezza 153 metri, Velocità 29
nodi, Equipaggio 250 uomini.
Progetto cinese con assistenza
francese, russa e tedesca. Dotazione di missili C-802 e HQ-7
Crotale. Imbarcano anche armi
antisommergibile.
Fregata
Jangwei 053 H
Dislocamento 2500 Tonnellate,
Lunghezza 112 metri, Velocità 27
nodi, Equipaggio 170 uomini.
Unità con armamento di
artiglieria e missili a vocazione
antiaerea ed antinave di progettazione cinese.
Sottomarino d’attacco
a propulsione
convenzionale
Kilo Project
636
Dislocamento 3000 Tonnellate,
Lunghezza 74 metri, Velocità 25
nodi, Equipaggio 52 uomini.
Unità Russe particolarmente
performanti in termini di occultamento subacqueo. Imbarcano
siluri e mine.
Sottomarino d’attacco
a propulsione
convenzionale
036 song
Dislocamento 2300 Tonnellate,
Lunghezza 75 metri, Velocità 22
nodi, Equipaggio 60 uomini.
Progetto cinese con assistenza
francese. Possono lanciare
missili a guida inerziale YJ-8 e
siluri Yu4.
Sottomarino d’attacco
a propulsione nucleare
091 Han
Dislocamento 5600 Tonnellate,
Lunghezza 98 metri, Velocità 25
nodi, Equipaggio 75 uomini.
Progetto cinese con assistenza
tecnica straniera. Possono
lanciare missili a guida inerziale
C-801. Imbarcano siluri e mine.
Sottomarino d’attacco
a propulsione nucleare
093 Shang
Dislocamento 6000 Tonnellate,
Lunghezza 100 metri, Velocità 30
nodi, 100 uomini.
Derivati dagli SSN Russi Classe
Victor III. Sono armati con Siluri e
Missili da crociera.
87
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
La "Nuova Via della Seta" del Premier Xi Jinping
Questa ambiguità è stata in parte messa
alle spalle a partire dal 2013 con la riforma
della State Oceanic Administration e la definizione ufficiale di una strategia marittima
sempre più chiara ed assertiva volta a tutelare gli interessi ed i (dichiarati) diritti di
sovranità di Pechino in ampie zone del Mar
Cinese. Una chiarezza accompagnata, nel
corso del 2016, da alcune “sottolineature”,
come il sequestro in acque internazionali
di un veicolo subacqueo da ricerca della
US Navy. Difficile pensare nell’immediato
futuro ad un conflitto deliberatamente voluto da Pechino, ma una pericolosa (ed accidentale) escalation può sfuggire di mano
agli stessi decisori. L’interesse strategico
cinese per il prossimo decennio si incentrerà sul mantenimento della stabilità
economica e sul rafforzamento del proprio
strumento militare (ancora troppo lontano
dai livelli di forza congiunti di USA, Giappone, Corea) in attesa di un riequilibrio
strategico generale che molti osservatori
ritengono ormai inevitabile.
Manuel Moreno Minuto
Comando Flottiglia Sommergibili
Servizio Addestramento
Capo Reparto Operazioni
88
La Muraglia infinita
LA STRATEGIA CINESE
DEL “FILO DI PERLE”
di Antonciro Cozzi
a strategia perseguita dalla Cina
nell’ultimo decennio, nota con
il nome di “strategia del filo di
perle”, si prospetta come un’inquietante e
silenziosa manovra di espansione del “gigante asiatico” nel delicato quadro geopolitico dell’Asia sud-orientale. Ricalcando le
teorie di Mahan sulla strategia marittima,
essa prevede il rafforzamento delle relazioni politiche e commerciali con i Paesi
della fascia costiera che va dal Mar Rosso
sino all’Indocina, attraverso opere infrastrutturali realizzate in compartecipazione tra aziende cinesi a capitale privato o
pubblico e partner dello Stato interessato.
Un dato interessante è che la realizzazione
di queste infrastrutture è attuata in località di rilevante importanza geo-strategica,
convalidando le ipotesi degli osservatori di
una politica perseguita da Pechino a sostegno della propria economia oltre che della
sicurezza energetica e militare.
L
Chi domina sul mare,
domina sul commercio.
Chi domina sul commercio
mondiale domina sulle
risorse mondiali e, di
conseguenza, domina sul
mondo intero.
Sir Walter Raleigh navigatore, corsaro e
poeta britannico del XVI secolo.
89
Come scrive Paolo Sellari nel suo saggio
“dal 1990 in poi, in seguito allo spostamento
del fulcro produttivo mondiale da Ovest verso
Est, da Occidente ad Oriente, i traffici marittimi, attraverso cui si sviluppano oltre i due
terzi del commercio mondiale, si concentrano per la gran parte proprio negli immensi
porti container distribuiti tra la penisola di
Malacca e le coste del Mar Cinese”1 . Da qui
l’attivismo cinese in campo marittimo e la
strategia del “filo di perle”, l’ambiziosa manovra per consolidare la propria egemonia
sui Paesi della fascia costiera asiatica. E’
in atto un “Grande Gioco Eurasiatico” e la
Cina vuole esserne il principale attore. Pechino, spinta dal suo crescente fabbisogno
di materie prime, sta cercando di stringere
rapporti privilegiati con i Paesi in grado di
soddisfarlo.
Analizzando i diversi punti, si evince che
i vantaggi economici sono equamente distribuiti tra i Paesi cointeressati. Ogni Stato coinvolto beneficia di moderne infrastrutture e un’organica rete di servizi, oltre
ad un cospicuo flusso finanziario, mentre
la Cina ottiene appalti sicuri per le proprie
aziende e condizioni agevolate per l’accesso alle strutture stesse.
La politica del “filo di perle” costituisce
uno dei cardini della progressiva crescita
dell’influenza cinese in Asia, del rapporto
tra Pechino e i cosiddetti “stati canaglia”
e la modernizzazione delle forze armate cinesi. La Cina vuole rivestire un ruolo
preminente nel quadro dell’odierno ordine
internazionale. I rapporti intessuti con il
Myanmar e lo stesso Pakistan, con la prerogativa di non avere alcun interesse circa le questioni interne degli stati con cui
collabora, sono una valida alternativa alla
1. P. Sellari, “Geopolitica dei Trasporti”, Laterza ed., 2013
90
La Muraglia infinita
politica degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, che vincolando i propri investimenti
al rispetto dei diritti umani e della trasparenza della governance nazionale, vedono
indebolita la loro posizione. Infine, il massiccio ammodernamento dell’esercito e soprattutto della marina, potrebbe sfruttare
il “filo di perle” come un “cavallo di Troia” per la creazione di una serie di “teste
di ponte” nell’Oceano Indiano, utili per
sostituirsi progressivamente nel controllo
che, in questo mare, è oggi appannaggio
dell’India e degli Stati Uniti.
La silenziosa espansione di Pechino in
questo mare si sta concretizzando negli
ultimi anni insediando propri capisaldi
strategici sia dal punto di vista economicocommerciale che militare, nei porti della
Thailandia, in quelli birmani di Bassein e
Akyab, nelle Isole Coco (le isole Andamane
birmane), nel porto di Chittagong in Bangladesh oltre che in quello di Gwadar nel
Beluchistan pakistano.
Questa strategia permette alla Cina di usufruire di una rete portuale lungo la dinamica rotta commerciale che si snoda tra
il Canale di Suez e lo Stretto di Malacca,
attraverso la quale transita circa il 40%
del commercio globale. In particolare gli
approvvigionamenti energetici che coprono oltre 2/3 del fabbisogno di Cina e Giappone. In questa ottica il porto pakistano di
Gwadar, per la cui realizzazione la Cina ha
investito più di 400 milioni di dollari Usa,
ha una triplice funzione: da un lato, con il
completamento delle recenti e imponenti
opere viarie, facilita l’esportazione di beni
prodotti in Asia centrale, Afghanistan e
Cina occidentale, e di contro, costituisce il
punto di partenza di un corridoio energetico, che bypassando lo Stretto di Malacca, mette in contatto diretto il Mar Rosso
con la regione cinese dello Xinjiang , con
un risparmio in termini di tempo e costi,
evitando inoltre il rischio di attacchi terroristici o blocchi della navigazione che,
in caso di conflitti internazionali, la conformazione geografica dello Stretto potrebbe favorire. Il Pakistan di suo conto,
ha spostato i flussi di merci, che in passato
confluivano per il 90% al porto di Karachi,
troppo vicino all’India e passibile di blocchi navali in tempi di crisi. Inoltre le perle di questo filo, rappresentate dai porti
di Akyab e Sitwe in Myanmar e di Gwadar
in Pakistan e di Hambantota in Sri Lanka,
consentono alla Cina di accerchiare l’India,
uno degli attuali custodi di quest’area marina, garantendole nel contempo i diritti di
navigazione nell’Oceano Indiano e la protezione delle petroliere che provengono
dai Paesi Arabi. Un altro tassello della politica espansionistica cinese è il progetto
e il finanziamento della costruzione di un
canale lungo l’istmo di Kra , che collega la
Malaysia al Ranong Thailandese. Il canale
metterebbe in comunicazione il golfo della Thailandia con il Mar delle Andamane,
bypassando lo stretto di Malacca e riducendo di circa 1500 miglia la rotta marittima. Al progetto del canale è collegato il
Southern Strategic Energy Land Bridge, un
condotto petrolifero. Quest’opera faraonica, del costo di circa 30 miliardi di dollari,
garantirebbe di neutralizzare le possibili
minacce indiane del blocco dello Stretto e
91
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
comporterebbe ingenti benefici politicoeconomici per i Paesi del Pacifico.
Un’altra “perla” di rinomato valore è lo Sri
Lanka, la cui posizione strategica è in linea
con l’asse che collega lo stretto di Malacca
con il Mar Arabico. Nell’area meridionale
dell’isola si trova il porto di Hambantota,
distrutto dallo tsunami del 2004, ma attualmente in ricostruzione con un progetto di 800 milioni di dollari, finanziato per
l’85% del costo complessivo da Pechino. La
cooperazione con Ceylon non si è limitata
alla sola ristrutturazione delle opere portuali, ma anche alla realizzazione di nuove
tratte ferroviarie e la fornitura di equipaggiamenti bellici che hanno permesso al governo di Colombo di fronteggiare i ribelli
Tamil sostenuti dall’India.
Oggi il “filo di perle”, partito dal Mar Cinese meridionale, è arrivato, attraverso il
Mar Rosso, sino al Mediterraneo orientale.
La penetrazione cinese nel Mediterraneo è
iniziata il 3 ottobre 2010, quando Pechino
ha stretto una partnership strategica con
la Grecia che prevedeva la concessione di
parte del porto del Pireo a una società cinese, rendendo in tal modo lo scalo greco
uno dei principali centri per il commercio
tra Asia ed Europa. Il Pireo, situato nel Mediterraneo orientale, è una nuova testa di
ponte per la lenta ma progressiva politica di espansione strategica ed economica
della Cina anche nei mari occidentali. Il
recente soggiorno del Presidente della Repubblica Cinese, Xi Jinping, in Sardegna,
potrebbe significare l’apertura di nuovi
scenari. Il porto di Cagliari è infatti collocato sulla linea immaginaria di quel filo di
perle che da Oriente si muove verso Occidente, affacciandosi sul Canale di Sardegna, porta di accesso, controllo e transito
nel Mediterraneo occidentale e ponte naturale verso Gibilterra e l’Atlantico.
Come afferma il generale Fabio Mini “…in
meno di venti anni e senza sparare un colpo di fucile la Cina ha acquisito il controllo
di risorse che gli altri paesi, quelli cosiddetti
civili e anche democratici, avevano acquisito
con la colonizzazione, la schiavitù, le guerre
di preda e le devastazioni sociali e umane”.2
Antonciro Cozzi
Associate Analyst “Il Nodo di Gordio”
2. PeaceReporter, “Intervista a Fabio Mini”, 2010
92
La Muraglia infinita
LA CINA ARRIVA IN EUROPA
SULL’AUTO ELETTRICA
di Augusto Grandi
Moda, arte, motori: da
Pechino sfida a tutto campo
diventato il primo mercato mondiale dell’auto nel 2016, superando non solo gli Stati Uniti,
ma anche l’intera area Nafta (Usa, Canada
e Messico) e staccando nettamente l’Europa, ma la Cina non si accontenta. E Fabrizio
Giugiaro, figlio del grande stilista di auto
Giorgetto Giugiaro, assicura che Pechino
sta preparando una grande rivoluzione
nel mondo delle quattro ruote. Ci sarà una
svolta epocale – spiega – perché il governo ha deciso di puntare sull’auto elettrica,
favorendo esclusivamente le tecnologie
locali ed i tantissimi brevetti militari che
saranno adattati ad un uso civile. “Presto
– aggiunge Giugiaro che, con il padre, è impegnato a disegnare nuove vetture di prestigio per i costruttori cinesi – le nuove immatricolazioni saranno riservate alle auto
elettriche”. Dunque non si potranno più
vendere in Cina vetture diesel o a benzina.
Ma Giugiaro prospetta anche un successivo
È
93
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
scenario, da qui a 10 anni, con una massiccia esportazione di auto elettriche cinesi
verso l’Europa. Che è in ritardo su questo
fronte. Ci sono già Paesi europei che stanno pensando al divieto di immatricolare vetture diesel nei prossimi anni, ma la
conversione generalizzata verso le auto
elettriche è lontana. Soprattutto in Italia,
dove le strategie del costruttore – non più
nazionale e diventato olandese, inglese ed
americano – hanno imposto alla rete di rifornimento di puntare sullo sviluppo del
metano e del Gpl. Una scelta che rischia di
costare molto cara agli automobilisti italiani che potrebbero ritrovarsi con difficoltà di rifornimento all’estero.
La Cina, invece, può marciare sicura verso
l’elettrico grazie alla forza dei numeri. Con
immatricolazioni che ogni anno superano
abbondantemente i 20milioni di auto nuove, è in grado di condizionare le strategie
di ogni costruttore che voglia essere presente sul mercato del grande Paese asiatico. E se i grandi costruttori mondiali, da
Toyota a Volkswagen a GM, dovranno pro-
durre milioni di vetture elettriche per i cinesi, anche solo per ragioni di convenienza
economica proporranno le medesime motorizzazioni anche sui mercati degli altri
Paesi. Quanto allo stile, la Cina si è rivolta
a Giorgetto Giugiaro – insignito nel 1999, a
Las Vegas, del premio come miglior stilista
auto del secolo da una giuria di 120 esperti internazionali e con alle spalle successi
come la Giulia Sprint, la Panda, la Punto, la
Uno, la Mini, la Golf, la Scirocco ma anche
auto per gruppi asiatici – proprio per poter
offrire modelli di auto gradevoli e affascinanti per un pubblico mondiale. E Giugiaro
non è l’unico stilista torinese che lavora
per i costruttori cinesi. Senza dimenticare che stilisti cinesi hanno aperto sedi di
design dell’auto proprio a Torino, per uno
scambio continuo di idee e di progetti.
Da un lato, dunque, la forza della meccanica, degli ingranaggi, dei motori. Dall’altra
la leggerezza dello stile, della moda, della
bellezza. Non solo nell’auto. Cristiano De
Lorenzo, direttore di Christie’s Italia, in
un incontro organizzato da Tosetti Value
94
La Muraglia infinita
ha ricordato che nella Top 20 delle Case
d’asta mondiali figurano 7 case cinesi. Ed i
collezionisti del Paese asiatico acquistano
sempre più opere d’arte contemporanea e
sono diventati i principali compratori di
arte impressionista e moderna. Non a caso
è stato un magnate cinese ad acquistare
da Christie’s, per 170 milioni di dollari, un
nudo di Modigliani, stabilendo un record
mondiale nel settore. E l’opera è stata destinata al proprio museo privato, immenso,
di Shangai.
“L’arte nella storia – sostiene Dario Tosetti, presidente ed amministratore delegato
della Tosetti Value – ha sempre avuto un
ruolo molto importante (perché l’arte segue il denaro) e l’attenzione che le sta
prestando la Cina è un segnale per tutti”.
E l’arte va intesa in vari modi. Non solo le
tele dei pittori europei che hanno conquistato gli appassionati cinesi, ma anche lo
stile di Pechino nella moda che sta imponendosi anche in Francia ed in Italia, storiche patrie della moda mondiale. Le casacche “alla Mao” sono ormai un lontanissimo
ricordo. Ora gli stilisti in arrivo da Oriente
impongono tessuti, tagli, colori. Che non
sono quelli delle varie China Town presenti all’estero, ma sono quelli delle sfilate più
famose, degli atelier sparsi nei quartieri
più eleganti delle città.
Senza trascurare l’abbigliamento casual o
quello sportivo. Basti ricordare che all’inizio degli Anni Duemila un operatore cinese
ha acquistato, solo per il mercato locale, il
marchio Kappa della Basic Net che invece,
in altri 120 Paesi, conserva la proprietà del
marchio e lavora attraverso licenziatari.
Ancora una volta, dunque, stile italiano e
potenza dei numeri cinesi. Marco Boglione, fondatore e presidente di Basic Net,
sottolinea come, in soli due anni, in Cina
siano stati aperti 4.500 centri commerciali, ciascuno con un piano intero dedicato
all’abbigliamento casual e sportivo, con 60
botteghe a marchio da riempire. Un mercato affamato di prodotti, tanto è vero – assicura Boglione – che nel loro sistema commerciale non esiste la parola “rimanenze”,
perché tutto viene venduto.
Ciò che, invece, viene venduto poco è il
vino italiano in Cina. Non per una carenza di attenzione da parte dei consumatori locali, ma per le carenze dei produttori
italiani sul fronte del marketing. Gaia Gaja,
export manager dell’azienda di famiglia
guidata da Angelo Gaja, racconta che molti
cinesi chiamano il vino di qualità semplicemente “lafite”. E questo perché il Lafite
è il vino francese che appare nelle soap
opere cinesi. Ed la regina del mercato del
vino in Cina è sempre la Francia, la prima
ad affacciarsi nel Paese asiatico con i suoi
Bordeaux. L’Italia ha enormi potenzialità,
anche grazie all’utilizzo di Alibaba per le
vendite online. Ma i produttori del Bel Paese non sfruttano adeguatamente la presenza delle comunità cinesi in Italia e neppure
la crescente passioni di chef cinesi per la
cucina italiana.
Augusto Grandi
Senior fellow think tank “Il Nodo di Gordio”,
Giornalista de “Il Sole 24 Ore”
@augusto_grandi
95
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
TRANSATLANTIC
OUTLOOK
In questa sezione:
98
di Jeffrey Goldberg
115
RICHARD PERLE:
“CON TRUMP, TENSIONI TRA USA E CINA. L’EUROPA? UN’UNIONE DOGANALE”.
a cura della Redazione
118
125
138 L’“ATLANTICO ORIENTALE”
LE LEZIONI DI HENRY KISSINGER
GLI USA NON POTRANNO
FARE A MENO DEL GIGANTE ECONOMICO EURO-
MEDITERRANEO
di Daniele Lazzeri
142 LEGGERE FRIEDMAN NEL 2016: STATI UNITI D’AMERICA:
POTERI E LIMITI PRESIDENZIALI
di Vittorfranco Pisano
LA NATO COMBATTERÀ?
E PER COSA?
I Paesi Baltici e l’Alleanza Atlantica
di Stephen Bryen
132 THE FIELD OF FIGHT
di Daniele Capezzone
96
CAPITALISMO, LIBERTÀ E LA SFIDA DELLA CINA
di Amanda Schnetzer
Transatlantic Outlook
Dalla sua Trump Tower, la nuova
Amministrazione USA guarda agli
scenari globali con occhi diversi
97
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
LE LEZIONI DI HENRY KISSINGER
Il leggendario e controverso statista critica la Dottrina Obama,
parla delle principali sfide che dovrà affrontare il prossimo Presidente, e spiega come evitare una guerra con la Cina.
di Jeffrey Goldberg - The Atlantic
ota dell’autore (10 novembre,
2016): Negli ultimi mesi, ho
intervistato diverse volte l’ex
Segretario di Stato sul ruolo dell’America
nel mondo. Le nostre conversazioni hanno
avuto luogo prima dell’elezione di questa
settimana, ma sono state imperniate sulle
differenze di veduta dei candidati in tema
di politica estera. Il numero di dicembre
2016 dell’Atlantic riporta il mio articolo su
queste conversazioni, insieme alle numerose interviste su argomenti che spaziano
dal futuro della Russia, all’ascesa della
Cina, e al caos in Medio Oriente.
N
Il mercoledì, mentre il paese e il mondo intero si apprestavano ad assorbire il colpo
della vittoria di Donald Trump, ho sentito
al telefono Kissinger per raccogliere le sue
impressioni all’indomani delle elezioni.
Egli già prevedeva che altre nazioni, in particolare le grandi potenze, avrebbero fatto
98
Transatlantic Outlook
uno studio approfondito per capire come
reagire alla presidenza Trump. A suo parere, lo Stato Islamico, o altre organizzazioni
jihadiste simili, avrebbero potuto, a breve,
mettere alla prova Trump lanciando attacchi intesi a provocare una reazione (o, aggiungeva, una reazione esagerata).
“Gruppi non statali potrebbero ritenere
che la reazione di Trump a un attacco terroristico potrebbe rispondere ai loro scopi”, disse Kissinger.
Qui di seguito, si riporta la trascrizione
della nostra breve conversazione seguita
dall’articolo completo.
la situazione interna. Ovviamente, esiste
un divario tra la percezione dell’opinione
pubblica e quella dell’élite sul ruolo della
politica estera statunitense. Penso che il
nuovo Presidente abbia l’opportunità di
riconciliare le due percezioni. Un’opportunità che tocca a lui cogliere.
JG: Confida maggiormente nelle competenze o nella serietà di Trump?
HK: E’ una questione che non dovremmo
più discutere. E’ il Presidente eletto. Dobbiamo dargli la possibilità di maturare la
sua filosofia.
JG: Pensa di aiutarlo?
HK: Non sarò io a prendere contatti, ma mi
sono comportato così con tutti i Presidenti
da quando ho lasciato il mio incarico. Se mi
chiede di incontrarlo, lo farò.
JG: In seguito a questa elezione, cosa la
preoccupa maggiormente in termini di stabilità globale?
HK: Che i paesi stranieri possano rimanere
Jeffrey Goldberg: Sorpreso?
Henry Kissinger: Pensavo avrebbe vinto
Hillary.
JG: Che cosa significa questo per il ruolo
dell’America nel mondo?
HK: Potrebbe essere un modo per garantire coerenza tra la nostra politica estera e
99
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
scioccati. Detto ciò, lascerei aperta la possibilità di nuovi dialoghi. Se Trump dice al
popolo americano “Questa è la mia filosofia
di politica estera” e alcune delle sue politiche non sono identiche a quelle precedenti
ma condividono gli stessi obiettivi di base,
allora è possibile che ci sia continuità.
JG: Come reagirà la Cina?
HK: Sono abbastanza fiducioso che la Cina
reagirà valutando le proprie opzioni. E immagino che anche la Russia reagirà allo
stesso modo.
JG: Pensa che Trump sia un apologeta di
Putin?
HK: No. Credo che ci sia stata una certa retorica perché Putin, tatticamente, ha detto
delle buone parole sul suo conto e, di conseguenza, Trump si è sentito in dovere di
rispondere.
JG: Non pensa che la loro relazione sia stata in alcun modo preconfezionata?
HK: No.
JG: Quindi, non è prevedibile che a breve
la Russia tragga vantaggio da questa situazione?
HK: E’ più probabile che Putin aspetti per
vedere come evolve la situazione. La Russia e gli Stati Uniti interagiscono in aree in
cui nessuno di noi controlla tutti i fattori
in gioco, come ad esempio l’Ucraina e la
Siria. E’ possibile che alcuni attori di questi conflitti si sentano più liberi di agire.
Putin, quindi, aspetterà per valutare quali
sono le sue opzioni.
JG: E’, dunque, probabile che ci sia una
maggiore instabilità.
HK: Farei un’affermazione d’ordine generale: Credo che negli ultimi sei-nove mesi
gran parte della politica estera sia rimasta
in sospeso, in attesa del risultato delle elezioni. Si sono solo limitati a guardare il nostro paese alle prese con una rivoluzione
domestica nazionale e la vorranno studiare
per un po’ di tempo. A un certo punto però,
gli eventi imporranno nuovamente una decisione. La sola eccezione a questa regola
potrebbe essere rappresentata dai gruppi
non statali, i quali potrebbero essere incoraggiati a provocare una reazione americana che pregiudichi la nostra posizione a
livello mondiale.
JG: La minaccia dell’ISIS si farebbe più seria ora?
HK: I gruppi non statali potrebbero ritenere che Trump reagirà a un attacco terroristico secondo modalità che servono ai loro
scopi.
JG: Come risponderà l’Iran?
HK: L’Iran probabilmente riterrà, giustamente, che l’accordo nucleare ne esca più
fragile rispetto al passato; nel frattempo
studierà Trump e dimostrerà grande risolutezza, nonostante le pressioni. Nessuno
sa molto della sua politica estera, quindi ci
sarà un periodo di studio, o sarebbe meglio
dire, “di studio frenetico”.
JG: Secondo lei, perché è accaduto tutto ciò?
HK: Il fenomeno Trump è in larga parte
una reazione della classe media americana
più conservatrice agli attacchi ai propri valori da parte della comunità accademica e
intellettuale. Ci sono altre motivazioni, ma
questa è significativa.
JG: Che consiglio darebbe a Trump su come
presentarsi al mondo?
HK: Innanzitutto, dovrebbe dimostrare di
100
Transatlantic Outlook
essere in grado di far fronte alle sfide in
atto. Secondo, che sta riflettendo sulla loro
evoluzione. Il Presidente ha la responsabilità ineluttabile di fornire orientamenti:
Cosa vogliamo raggiungere? Cosa vogliamo impedire? Perché? Questo richiede
analisi e riflessione.
mendo, però, richieste e ponendo delle
condizioni eccessive per la presentazione
in pubblico della nostra conversazione. Mi
ha anche chiesto se l’articolo della nostra
intervista sarebbe stato pubblicato rispettando la stessa lunghezza – più di 19.000
parole — del mio articolo originale sul
Presidente Obama. “Dottor Kissinger” gli
ho detto, “si trattava di un articolo che riportava diverse interviste al Presidente in
carica degli Stati Uniti”.
Dopo una breve pausa disse: “La prego di
scrivere quanto sto per dirle e di riportarlo
nella sua storia come osservazione in prima persona”. “Sebbene Kissinger sia fuori
dai servizi di Stato da diversi decenni, trovo che la sua egomania sia rimasta invariata nel tempo”.
In un altro punto, percependo la mia frustrazione di fronte alle sue richieste, mi ha
detto: “Devo fornirle degli elementi per poter scrivere della mia paranoia”. Alla fine
siamo giunti a un accordo. Avrei registrato e trascritto la nostra conversazione, poi
gliel’avrei fatta leggere, come promesso, e
lui avrebbe apportato dei cambiamenti per
chiarire alcuni punti o approfondirne l’argomentazione. (Ha mantenuto la promessa).
Mi ha suggerito di incontrarlo un weekend
di maggio nella sua casa di campagna nel
Connecticut. Ho accettato, anche perché
sarei rimasto comunque nello Stato per
prendere la mia figlia maggiore dal college. “Dovrebbe portarla a pranzo” mi disse.
Così feci. Lungo il tragitto, mia figlia enumerava i risultati da lui raggiunti, “Ha permesso l’apertura verso la Cina, la distensione con l’Unione Sovietica, e il cessate il
LE LEZIONI DI HENRY KISSINGER
Nella primavera scorsa, poco dopo la pubblicazione nell’Atlantic del mio articolo
“The Obama Doctrine” sulla politica estera
del Presidente, venni a sapere che Henry
Kissinger, l’ex Segretario di Stato, e il protagonista della politica estera americana
più importante e controverso degli ultimi decenni (o forse di sempre), non aveva
mancato di esprimere, a conoscenze comuni, il suo pensiero critico sull’articolo e
sulla gestione di Obama degli affari esteri.
Chiamai Kissinger, ansioso di conoscere
il suo pensiero. In quel momento appariva spesso come cammeo nella campagna
presidenziale — il Senatore Bernie Sanders
aveva recentemente criticato aspramente
Hillary Clinton durante un dibattito dei
Democratici al fine di guadagnarsi l’approvazione di Kissinger — e volevo anche
sentire cosa pensasse della singolare campagna elettorale.
In effetti, Kissinger aveva molto da dire e
gli suggerii di incontrarci per una conversazione registrata. Nonostante i suoi 93
anni, resta immutato il suo desiderio di
convincere la gente che lui ha essenzialmente ragione. Ha accettato di concedere
l’intervista quasi immediatamente espri101
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
fuoco in Medio Oriente, giusto? Che cosa mi
sto dimenticando?”. Le ho detto, “E poi, ci
sono stati i bombardamenti segreti in Cambogia.” “E’ stato lui?”, ha risposto mia figlia.
Non ho mai incontrato una persona dell’età di Kissinger che fosse così disponibile
a impressionare positivamente chiunque,
anche diciannovenni. Durante il pranzo,
incalzava nel suo tentativo di convincere
mia figlia della sua visione del mondo e del
suo ruolo. Questa sua qualità lo rende esasperante e accattivante, e lo porta di tanto
in tanto a tentativi di auto-discolpa. Non
c’è nessuna questione - bombardamenti in
Cambogia, attività in Cile o Argentina, o il
suo ruolo nella guerra civile pakistana che
ha portato alla nascita del Bangladesh e a
un genocidio – sulla quale egli non abbia
voglia di riconfermare la sua posizione.
Abbiamo, tuttavia, avuto modo di parlare a
lungo della Dottrina Obama e della critica
mossa da Kissinger alla gestione americana delle relazioni con la Cina — che egli
asseriva essere di gran lunga la relazione
bilaterale più importante sulla scena internazionale. La Cina è da cinquant’anni una
preoccupazione di Kissinger. “Solo dopo
il riconoscimento di potenza mondiale,
all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti si sono dovuti confrontare con un pari geopolitico“. “Non è mai
avvenuto, nel corso della storia millenaria
della Cina, che “Il Regno di Mezzo” considerasse un paese straniero come qualcosa
che non fosse uno Stato Tributario” (Vedi
l’articolo di James Fallows, “China’s Great
Leap Backward ” sull’argomento).
Mia figlia e la nipote di Kissinger furono
spettatori della sua disquisizione su quello
che egli considera un problema cruciale del
mondo accademico americano di oggi — il
modo in cui si insegna la storia americana.
Egli lamenta che la storia non è insegnata
nella sua consequenzialità, e che gli avvenimenti storici sono spesso radicalmente
decontestualizzati. La sua tesi appare convincente ma anche autoreferenziale: egli
sostiene, facendo riferimento alle maggiori controversie verificatesi nel corso della
sua carriera, che il sostegno americano
post-bellico agli alleati anti-comunisti sia
impossibile da capire o razionalizzare in
assenza di un’adeguata contestualizzazione storica e di una simpatia di fondo per
la narrativa filo-occidentale. Alle Università, ha affermato, “piace insegnare la storia
come una serie di problemi discreti. E, soprattutto, non vogliono insegnare la storia
occidentale. Essi credono che l’Occidente
abbia commesso talmente tanti crimini che
essi non hanno il diritto di fare una scelta.
Un pensiero del genere non verrebbe mai
ai Cinesi. Ripristinare nelle università un
autentico pluralismo, per esaminare persino quelle idee che la saggezza convenzionale rifiuta, è diventata una delle principali
sfide nazionali”.
Ho chiesto a Kissinger se un atteggiamento
poco sicuro di sé faccia parte della tradizione cinese. “Se pure lo fosse, certamente
non al punto da impedir loro di agire ove
necessario.”
Quel giorno, e nelle nostre successive conversazioni nel suo ufficio di New York e
al telefono, abbiamo anche parlato delle
paure circa un disimpegno Americano dal
102
Transatlantic Outlook
mondo. Affermò che gli Stati Uniti si trovano in un momento di svolta della propria
storia, in cui devono decidere se continuare o no ad avere il ruolo svolto dal 1945.
“In questo momento, non esiste un reale
dibattito sulla politica estera. Si lanciano
slogan”. “Penso sia assolutamente essenziale per l’America recuperare una visione
strategica globale”.
La critica di Kissinger a Obama era quasi
sempre misurata, ma percepivo che si sentiva offeso perché il Presidente non avesse ritenuto opportuno consultarlo per un
consiglio, come avevano fatto i precedenti
Presidenti. Mi è sembrato anche di cogliere
che egli abbia inteso alcune delle osservazioni di Obama sulle decisioni di politica
estera dei precedenti Presidenti come una
critica personale. Non si sbagliava al riguardo. In vari momenti, nel corso delle
interviste al Presidente, sentivo che nella stanza aleggiava lo spirito di Kissinger,
specie quando Obama parlava, prendendo
le distanze, del valore della “credibilità”
nel perseguire gli obiettivi della sicurezza nazionale, e quando ha parlato del suo
modo, senza precedenti, di fare riferimento apertamente, e con sofferenza, a volte
anche in terra straniera, agli errori americani durante la Guerra Fredda. Quel che
ha più infastidito Kissinger è stato il modo
in cui Obama ha parlato di alcuni leader
mondiali. “Un aspetto incomprensibile di
Obama è come possa una persona così intelligente trattare i suoi pari col disdegno
espresso nel suo articolo”, “In genere, una
persona di quella statura sviluppa un senso
di umiltà.”
Gli ho anche chiesto di Donald Trump e
Hillary Clinton. E’ vicino a Clinton, ma non
a Trump, e non era difficile intuire quanto fosse sconvolto dal comportamento di
Trump e, in linea di massima, ampiamente
simpatizzante della Clinton. Se Kissinger
avrebbe o no appoggiato la Clinton era tra
le numerose ipotesi durante la campagna.
Tra i sostenitori della Clinton, alcuni speravano sull’appoggio di Kissinger, ma altri,
a quanto avevo saputo, erano preoccupati
che il suo appoggio avrebbe solo rinforzato
la tesi di Sanders secondo la quale la Clinton era troppo vicina a diversi personaggi
discutibili. Kissinger stesso era pienamente consapevole di questo. Quando ho detto
che Clinton era tendenzialmente e ideologicamente più vicina a lui che a Obama,
egli ha replicato, “Questo non è gentile nei
suoi confronti.”
La mia risposta è stata che non toccava a
me essere gentile o scortese. “Scatenerà l’ala radicale - l’ala di Sanders – contro
di lei”, disse Kissinger. Forse è stato preveggente su come Hillary Clinton avrebbe condotto la politica estera americana:
“L’incertezza con la Clinton è se l’ala di
Sanders del Partito Democratico le avrebbe
permesso di portare avanti quello che lei
intendeva”.
Quella che segue è la trascrizione adattata
e concentrata delle nostre conversazioni.
Jeffrey Goldberg: Come definirebbe la
dottrina della politica estera del Presidente Obama?
Henry Kissinger: La Dottrina Obama de-
103
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
scritta nel suo articolo di Atlantic postula
che l’America abbia agito contro i suoi valori fondamentali in diversi posti del mondo, dovendosi districare in una posizione
alquanto difficile. Quindi, continua la tesi,
l’America rivendica i suoi valori ritirandosi
dalle regioni dove non può che peggiorare
la situazione. Dobbiamo stare attenti, altrimenti si rischia di trasformare la Dottrina Obama in una politica estera fondamentalmente reattiva e passiva.
JG: Secondo lei, l’idea centrale è che la
Dottrina Obama intende proteggere il
mondo dall’America?
HK: Secondo me, Obama ritiene di non far
parte di un processo politico, ma di essere
sui generis, rivendicando una sua unicità. E la sua responsabilità, così come lui la
definisce, è far sì che elementi irrilevanti
dell’America non sconvolgano il mondo.
Egli si preoccupa piuttosto di evitare che
conseguenze a breve termine si trasformino in ostacoli permanenti. Un’altra visione
dell’arte di governare potrebbe consistere
maggiormente nel forgiare la storia piuttosto che evitare di ostacolare il suo corso.
JG: Come Presidente, si è accusati molto
meno per peccati di omissione che per peccati di commissione.
HK: E’ vero. E’ più difficile provarli. Ma si è
accusati di disastri, indipendentemente da
chi li ha provocati.
JG: Come diplomatico, quanto è utile andare in altri paesi e fare il mea culpa per il
comportamento passato dell’America? Lei
è una persona pragmatica. Certamente torna utile in qualche modo.
HK: Gli altri paesi non ci giudicano sulla
base della propensione del nostro Presidente a parlar male del proprio paese sul
loro suolo. Piuttosto, essi valutano tali
visite in termini di soddisfacimento delle
loro aspettative e non tanto per una rielaborazione del passato. Secondo me, un’eventuale rilettura della storia da parte del
Presidente dovrebbe essere rivolta al pubblico americano.
JG: Ma cosa dice in merito alla questione
concreta?
HK: Va soppesata rispetto all’impatto
che avrebbe sulle procedure di governo e
sul personale. Forse il singolo dipendente
pubblico americano dovrebbe preoccuparsi
di come appariranno le sue vedute ai governi stranieri a distanza di 40 anni? Un
governo straniero ha il diritto di accedere
a un file verificato dal governo degli Stati
Uniti a decina di anni di distanza?
JG: Qual è la prima cosa che consiglierebbe
di fare al quarantacinquesimo Presidente?
HK: Il Presidente dovrebbe chiedersi, “Cosa
vogliamo raggiungere, anche se dobbiamo
andare avanti da soli?” e “Cosa vogliamo
prevenire, anche se dobbiamo combattere
da soli?” Nelle risposte a queste domande
risiedono i fondamenti della politica estera
americana, che dovrebbero essere alla base
delle nostre decisioni strategiche.
Il mondo è nel caos. Sconvolgimenti notevoli e simultanei sono in atto in molte parti
del mondo, e molti rispondono ai principi
più diversi. Ci troviamo quindi di fronte a
due problemi: primo, come ridurre il caos
a livello regionale; secondo, come creare
un ordine mondiale coerente che si basi su
principi concordati che sono necessari per
104
Transatlantic Outlook
il funzionamento dell’intero sistema.
JG: Le crisi accadono sempre prima che i
Presidenti abbiano il tempo di creare un
ordine mondiale coerente, no?
HK: Praticamente, tutti gli attori in Medio
Oriente, in Cina, in Russia, e in un certo
qual modo in Europa, devono prendere decisioni strategiche importanti.
JG: Che cosa stanno aspettando?
HK: Di definire alcuni orientamenti fondamentali delle loro politiche. La Cina, il suo
posto nel mondo. La Russia, gli obiettivi
dei suoi bracci di ferro. L’Europa, il suo
scopo, attraverso una serie di elezioni. L’America, chiarire il significato dei tumulti in
atto dopo le elezioni.
JG: Quali sono gli interessi immutabili e di
sempre dell’America?
HK: Comincerei col dire che dobbiamo avere fede in noi stessi. E’ assolutamente necessario. Non possiamo ridurre la politica a
una serie di decisioni puramente tattiche o
ad auto-recriminazioni. La questione strategica fondamentale è: Cosa non dobbiamo
permettere, indipendentemente da cosa accade, e da quanto possa sembrare legittimo?
JG: Si riferisce, ad esempio, all’ipotesi che
Vladimir Putin possa invadere la Lettonia
nel 2017?
HK: Sì. E una seconda domanda: A cosa
aspiriamo? Non vogliamo che l’Asia o l’Europa cada sotto il dominio di un unico paese ostile. O il Medio Oriente. Se il nostro
scopo è evitare che questo accada, dobbiamo definire l’ostilità. Per quello che penso
io dell’Europa, del Medio Oriente, e dell’Asia, non abbiamo interesse che alcuno di
essi sia dominato.
JG: Questo ragionamento ricorda molto il
modo di vedere del periodo post-Seconda
Guerra Mondiale, in cui l’ordine internazionale era guidato dagli Americani.
Potrebbe non coincidere del tutto con la
visione di Obama. Ed era abbastanza evidente che dei quattro principali candidati
dei maggiori partiti rimasti nelle primarie
all’inizio di quest’anno - Ted Cruz, Donald
Trump, Bernie Sanders, e Hillary Clinton solo uno era un tradizionalista della politica estera.
HK: Clinton è l’unica che risponde al modello tradizionale, più aperto, internazionalista.
JG: Che significa?
HK: Che per la prima volta dalla fine della
Seconda Guerra Mondiale, la futura relazione degli Usa con il mondo non è completamente risolta.
JG: Infatti, Hillary Clinton è molto più tradizionale di Barack Obama su questioni riguardanti le responsabilità internazionali,
l’indispensabilità, e così via. Negli Americani, però, si è verificato un cambiamento
così grande nell’intendere la supremazia
statunitense da far sì che perfino un Presidente come Hillary Clinton avrebbe molto
meno margine di manovra?
HK: Per molti leader del mondo, Obama rimane un enigma dopo otto anni di mandato.
Non sanno come interpretare lui o gli attuali cambiamenti di direzione dell’America. Se
vince Hillary, il mondo potrà contare su una
figura conosciuta, tradizionale. Nell’intervista tra lei, signor Kissinger, e Obama, questi
era orgoglioso soprattutto delle cose che
egli ha impedito che accadessero.
105
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
JG: Lei ha seguito la politica nazionale
Americana sin dal 1948 o anche prima.
HK: In un modo o nell’altro vi ho partecipato dal 1955.
JG: Più o meno, c’è sempre stato un consenso bipartisan, in questo periodo,
sull’importanza del profondo impegno
americano nel mondo.
HK: Questa è la prima volta che tale consenso è messo in discussione fino a questo
punto. Credo che possa essere ristabilito in
qualche misura. Dopo il secondo conflitto
mondiale, il mondo occidentale aveva la
visione di un ordine pacifico. Certamente
avremmo dovuto fare dei sacrifici. Abbiamo
inviato un grosso esercito in Europa. Abbiamo speso molto denaro. Abbiamo bisogno
di riscoprire quello spirito e adattarlo alle
realtà che sono emerse nel frattempo.
JG: Come mai questa dinamica sta cambiando?
HK: Siamo stati troppo indulgenti nello
sfidare quelle che erano le nostre convinzioni nazionali. Possiamo invertire questa
tendenza, ma sarà necessario uno sforzo
enorme, ed essenzialmente bipartisan.
JG: Secondo alcuni, il Presidente Obama
sta mettendo in dubbio delle ipotesi fondamentali sul ruolo dell’America nel mondo. In una delle mie conversazioni con lui,
sembra che non fosse d’accordo con lei.
Quando mi ha spiegato le ragioni per le
quali non far rispettare la linea rossa che
egli aveva pubblicamente tracciato circa
l’uso delle armi chimiche del Presidente
Bashar al-Assad in Siria, a differenza di
Kissinger, il suo pensiero era che non andava a sganciare bombe su qualcuno solo
per dimostrare che si era pronti a farlo.
Con tali affermazioni credo si riferisse alla
Cambogia.
HK: La Cambogia ha assunto un ruolo
simbolico perché è l’unico posto in Indocina dove i liberali non hanno scatenato
la guerra. Il nostro impegno militare in
Vietnam è cominciato con Kennedy ed è
culminato con Johnson. La Cambogia, tuttavia, fu una decisione di Nixon, secondo
la terminologia radicale. Questo, secondo
la mitologia dei liberali, era un piccolo paese pacifico che Nixon aveva attaccato. Il
fatto che ci fossero quattro divisioni nordvietnamite entro 30 miglia da Saigon che
attraversavano il confine e uccidevano
Americani – 500 a settimana, due settimane dopo l’insediamento di Nixon – fu
ignorato nel dibattito sulla Cambogia dai
protestanti che enfatizzavano la neutralità tecnica della Cambogia, ignorando che
il suo sovrano aveva sollecitato la nostra
reazione. L’Amministrazione Obama ha sistematicamente condotto bombardamenti
simili per ragioni comparabili, ma con i
droni, in Pakistan, Somalia, e Yemen. Ho
sostenuto quei bombardamenti. Se mai
dovessimo avere una politica estera creativa, avremmo bisogno di affrancarci degli
slogan di una generazione fa e cercare di
risolvere le sfide attuali.
JG: Intendo dire che quando Obama parla
della Cambogia, pensa all’ascesa al potere
di Nixon e di Kissinger e alla loro necessità
di stabilire credibilità con Hanoi, e così cominciano la guerra. E’ questa la sua analisi
di come gli Stati Uniti si mettono nei guai.
HK: Questo non è vero. A un mese dal suo
106
Transatlantic Outlook
insediamento, abbiamo avuto più di 2.000
vittime, in maggior parte dai “santuari” in
Cambogia. Bisognava intervenire. Ci interessava controllare e porre fine alla guerra.
JG: Ma questa è una rappresentazione diffusa degli eventi.
HK: Lo so. Saliamo al potere, i nord-vietnamiti lanciano un’offensiva nelle due
settimane successive, noi registriamo 500
vittime la settimana – i bombardamenti in
Cambogia erano un modo per non riprendere i bombardamenti al Nord. E’ quello
che pensavamo. Non si trattava di cominciare una nuova guerra; la Guerra c’era già
in Cambogia. Quali erano le nostre vere
scelte strategiche? Potreste dire “Ritirarci.” Non troverete, però, un solo documento dalla fine dell’Amministrazione Johnson
che esortasse al ritiro immediato.
JG: La decisione della linea rossa di Obama in
Siria, mi disse, sopraggiunse quando decise di
liberarsi del cosiddetto “Washington playbook”. Non pensava di guadagnarsi la credibilità degli Stati Uniti con l’uso della forza. Cosa
pensa della controversia sulla linea rossa?
HK: Credo che la linea rossa fosse soprattutto una questione simbolica. Si è trattato
di una decisione poco saggia in un caleidoscopio di ambivalenze. Era il sintomo di un
problema più profondo. La forza militare
dovrebbe essere usata, se mai, quanto basta per raggiungere maggiori probabilità di
successo. Non deve trattarsi di un compromesso tra opposte forze nazionali.
JG: Come vede la relazione tra diplomazia e potere? Lei sa che, nell’ultimo anno,
John Kerry ha insistito molto con Obama
per un intervento militare contro Assad
per attirare la sua attenzione sulla necessità di una soluzione diplomatica. Tutto
ciò è avvincente, perché Kerry è uno che
ha cominciato la sua carriera protestando
contro la Guerra in Vietnam, e che invece
ora sostiene gli attacchi militari per guadagnare credibilità.
HK: Rispetto John Kerry per il suo coraggio
e la sua perseveranza. In Siria, sta lavorando per un governo di coalizione composto
da gruppi che sono stati impegnati nella
guerra genocida l’uno contro l’altro. Anche
se si riuscisse a costruire tale governo, salvo
che non si individui un attore dominante, si
dovrebbe rispondere alla seguente domanda: Chi risolverà le inevitabili controversie?
L’esistenza di un governo non ne garantisce
la percezione di legittimità o l’obbedienza
ai suoi pronunciamenti. Kerry ha compreso che sono necessarie altre pressioni per
raggiungere l’obiettivo dichiarato — un
cambiamento rispetto alla sua posizione
nella Guerra in Vietnam. L’uso della forza è
la sanzione più grave della diplomazia. La
diplomazia e il potere non sono attività discrete. Esse sono legate, ma non nel senso
che ogni volta che le negoziazioni subiscono un arresto si ricorre alla forza. Significa
semplicemente che, in una negoziazione, la
controparte deve sapere che c’è un punto
critico in corrispondenza del quale si cercherà di imporre la propria volontà. Altrimenti, vi sarà un’impasse o una sconfitta
diplomatica. Quel punto è determinato da
tre componenti: il possesso di adeguato potere, la disponibilità tattica a esercitarlo, e
una dottrina strategica che disciplini il potere di una società con i suoi valori.
107
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
JG: Sta venendo meno il concetto dell’eccezionalità americana?
HK: No, il concetto della eccezionalità
americana esiste ancora, ma si sta indebolendo nel senso di “città sulla collina”.
JG: Ma questo è Obama — egli vede l’eccezionalità americana come la “città splendente sulla collina”.
HK: Non nel senso che dovremmo smettere di realizzare i nostri valori. Costituzionalismo e impegno per i diritti umani
sono tra i vanti americani. D’accordo, siamo andati troppo oltre nel credere che potessimo portare la democrazia in Vietnam
o in Iraq sconfiggendo i nostri oppositori
militarmente e con lo strenuo esercizio
della buona volontà. Siamo andati troppo
oltre perché non abbiamo messo in relazione l’azione militare con quanto il nostro pubblico avrebbe potuto sostenere
o con una strategia regionale. L’impegno
maggiore era esprimere l’eccezionalità
americana. L’eccezionalità americana della
Guerra Fredda è sparita. Un adeguato adattamento è uno dei principali compiti della
nuova amministrazione. Istintivamente,
credo che il pubblico americano potrebbe
esserne persuaso, ma avrebbe bisogno di
una spiegazione diversa da quella che era
valida negli anni ’50.
JG: Ai fini della sicurezza nazionale degli
Stati Uniti, sono più importanti le relazioni
Cina-USA o il terrorismo islamico?
HK: Il terrorismo islamico è importante
per le prospettive dell’ordine internazionale a breve termine. Le nostre relazioni
con la Cina forgeranno l’ordine internazionale a lungo termine. Gli Stati Uniti e
la Cina saranno i paesi più importanti del
mondo. Dal punto di vista economico, lo
sono già. Tuttavia, entrambe le nazioni si
trovano di fronte a trasformazioni interne
senza precedenti. Come prima cosa, dovremmo cercare di capire in che modo la
Cina e gli Stati Uniti, insieme, potrebbero
dare stabilità al mondo. Come minimo,
dovremmo accordarci per limitare le nostre controversie; per essere più precisi,
dovremmo individuare progetti da poter
realizzare insieme.
JG: Quale potrebbe essere la politica con la
Cina del quarantacinquesimo Presidente?
HK: Dopo i primi anni della sua storia,
l’America è stata abbastanza fortunata da
non subire minacce di invasioni, non fosse
altro perché siamo circondati da due grandi oceani. Pertanto, l’America ha inteso la
politica estera come una serie di sfide discrete da affrontare man mano che si presentavano piuttosto vederle inquadrate in
un disegno globale.
E’ solo nel periodo post-Seconda Guerra
Mondiale che abbiamo cominciato a intendere la politica estera come un processo
continuo, anche in situazioni apparentemente tranquille. Per almeno 20 anni,
abbiamo formato alleanze per mettere dei
paletti e formulare una strategia. D’ora in
poi, è necessario individuare una strategia
più fluida, adattabile a situazioni in divenire. Occorre quindi studiare le storie e le
culture degli attori chiave internazionali,
ed essere perennemente presenti negli affari internazionali.
JG: Impegno costante con la Cina?
HK: La Cina è un esempio. Per un lungo
108
Transatlantic Outlook
periodo della sua storia, la Cina ha anche
goduto di isolamento. La sola eccezione
sono i 100 anni in cui è stata dominata
dalle società occidentali. Non era tenuta
a confrontarsi continuamente con il resto
del mondo, specialmente fuori dall’Asia.
Era circondata da nazioni relativamente più piccole, incapaci di turbare la pace.
Fino alla Rivoluzione Xinhai del 1911, le
relazioni della Cina con altri paesi erano
gestite dal Ministero dei Riti, che definiva
ogni paese straniero come relativo Stato
Tributario di Pechino. La Cina non aveva
relazioni diplomatiche nel senso Westphaliano; non considerava i paesi stranieri
come pari.
JG: Credo che lungo i suoi confini ci siano
paesi che non si sentono trattati come pari.
HK: In Cina è in corso un processo interno
incredibile. Il Presidente Xi Jinping ha stabilito due obiettivi che ha definito “i Due
obiettivi dei 100 anni”— i cento anni della
fondazione del Partito Comunista e i cento anni dalla fondazione della Repubblica
Popolare Cinese. Il primo sarà nel 2021; il
secondo nel 2049. Secondo una loro stima,
al raggiungimento del secondo centenario,
i Cinesi saranno pari a qualsiasi altro paese del mondo contemporaneo e potranno
insistere per l’assoluta uguaglianza materiale e strategica, anche con l’America.
Alcuni strateghi cinesi, infatti, dicono,
“Se fossimo al posto degli Americani, non
prenderemmo almeno in considerazione
l’opportunità di impedire a un altro paese
di raggiungere la parità?” E questa è una
fonte latente di tensione.
I dibattiti interni della Cina aprono almeno
a due risposte. I sostenitori della linea dura
diranno “Gli Americani sono visibilmente
in declino. Vinceremo noi. Possiamo permetterci di essere duri e guardare il mondo
con un atteggiamento tipo Guerra Fredda”.
L’altra posizione, che sembra essere quella del Presidente Xi, sostiene che lo scontro è troppo pericoloso: la Guerra Fredda
con gli Stati Uniti impedirebbe alla Cina di
raggiungere i suoi obiettivi economici. Un
conflitto con le armi moderne potrebbe andare ben oltre la devastazione che abbiamo
avuto con la Prima Guerra Mondiale e non
portare a nessun vincitore. Quindi, nell’epoca moderna, i paesi antagonisti devono
diventare partner e cooperare in modo che
ognuno trovi il proprio vantaggio.
JG: Quindi Xi è un moderato?
HK: Il Presidente Xi ha posto due obiettivi
per la Cina. Il primo è “l’Asia per gli Asiatici.” Il secondo è il tentativo di trasformare
gli avversari in partner. Secondo me, dovremmo prendere quest’ultimo come tema
dominante nelle relazioni tra Stati Uniti
e Cina. La visione del mondo dei Cinesi è
molto diversa dalla nostra. Per affrontare
la realtà attuale, dobbiamo contare su entrambe le nostre capacità, diplomatiche e
militari. Ma è possibile questo, nell’attuale
contesto mondiale, considerate le armi di
distruzione di massa e le cyber-capacità di
cui si dispone?
Un ostacolo è il divario culturale: l’America
pensa sostanzialmente che nella sua condizione normale il mondo sia pacifico, pertanto, se c’è un problema, c’è qualcuno che lo sta
causando. Se si sconfigge la persona o il paese che ne è la causa, si ristabilisce l’armonia.
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Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
I Cinesi invece non pensano a soluzioni
permanenti. Per Pechino, una soluzione è
semplicemente un biglietto di ingresso per
un altro problema. I Cinesi sono, quindi,
più interessati alle tendenze. Le domande
che essi si pongono sono: “Dove si sta andando? Come pensiamo che sarà il mondo
tra 15 anni?”
A seguito di questo divario culturale, quando i Presidenti dell’America e della Cina si
incontrano, l’esito dell’incontro è troppo
spesso ambiguo. Si fanno progressi su problemi immediati a breve termine, cambiamento climatico, alcuni problemi economici, ma si dà meno priorità all’impegno di
sviluppare un’idea comune per il futuro, in
parte anche a causa delle pressioni temporali e dell’influenza dei media che aspettano all’esterno della sala conferenze.
JG: Che valutazione darebbe al Presidente
Obama sulla gestione del portafoglio Cina?
HK: Direi B+.
JG: E’ un voto piuttosto buono.
HK: Beh, B+ per quanto riguarda il presente, ma qualcosa in meno se ci riferiamo
all’evoluzione delle relazioni Cina-USA a
lungo termine. Ha agito leggermente meglio per il breve termine, ma non ha dato
un grosso impulso alle relazioni sul lungo
periodo.
JG: Parliamo della “Trappola di Tucidide,”
del concetto secondo il quale una potenza
emergente, il più delle volte, entra in conflitto con una potenza dominante. Graham
Allison ha fatto un lavoro importante su
questo. Ne condivide l’idea, vero?
HK: Molto. Graham Allison mostra come
nella stragrande maggioranza dei casi
storici, le potenze in ascesa e le potenze dominanti hanno ingaggiato una sorta
di conflitto militare. E’ quasi inevitabile
quando entrambi i paesi esercitano un’influenza a livello globale. Anche se animati
da buone intenzioni, sono portati a interagire e, di tanto in tanto, anche a pestarsi
i piedi in alcuni posti del mondo. E’ insito
nella definizione di potenza emergente e
potenza dominante.
Tuttavia, esiste un’altra spiegazione paradossale per spiegare il conflitto. I conflitti
possono scoppiare perché da una parte c’è
un innalzamento della tensione e dall’altra c’è la convinzione che in un modo o
nell’altro gli Stati moderni trovano sempre
una soluzione. La Prima Guerra Mondiale
è nata soprattutto perché, per un periodo
abbastanza lungo, gli Stati, in un modo o
nell’altro, sono riusciti a gestire la reciproca influenza. A un certo punto, arriva
improvvisamente una crisi che, nella sostanza, non è più grave di altre verificatesi
in precedenza – potreste argomentare, in
realtà, meno grave della guerra dei Balcani che l’aveva preceduta. Ma nell’assassinio dell’arciduca d’Austria e sua moglie,
taluni eventi fortuiti hanno aggravato la
crisi. Non essendo la moglie dell’arciduca
di sangue reale, i Capi di Stato non erano
obbligati a partecipare al funerale. Se si
fossero riuniti tutti, avrebbero potuto negoziare una soluzione diplomatica informale al problema serbo. Inoltre, nell’Europa precedente al Prima Guerra Mondiale,
si confrontavano due potenze in ascesa. La
Germania che minacciava il comando dei
mari della Gran Bretagna, e la Russia che
110
Transatlantic Outlook
minacciava il ruolo della Germania nell’
Europa Centrale. Dopo Bismarck, la Germania è riuscita a diventare una fortezza
confinante con una Francia ostile a ovest,
e una Russia altrettanto ostile a est. Pertanto, il suo obiettivo strategico divenne,
in qualsiasi guerra e qualunque ne fosse
la causa, sconfiggere innanzitutto uno di
questi nemici. La Francia era più facilmente raggiungibile, mentre la Russia avrebbe
impiegato più tempo per mobilitare le proprie truppe. Quindi, gli strateghi tedeschi
ritennero che, nel secondo caso, una parte meno cospicua del proprio esercito sarebbe stata a rischio. Indipendentemente
dalla causa della guerra, anche se si trattava di violazioni della Serbia nei confronti
dell’Austria nei Balcani — come avvenuto
nel 1914 — la Germania avrebbe cominciato con l’attaccare la Francia. Si erano costruiti un sistema in cui, inconsciamente,
l’espressione di queste potenze emergenti
era locale, ma la strategia per sconfiggerle
era globale, o per lo meno regionale.
JG: E’ sufficientemente chiaro come si configurerebbe un reale conflitto tra Stati Uniti e Cina?
HK: Un conflitto militare tra i due paesi,
date le tecnologie di cui sono in possesso, sarebbe disastroso. E obbligherebbe
il mondo a dividersi. Porterebbe alla distruzione, ma non necessariamente a una
vittoria, che sarebbe probabilmente anche
molto difficile definire. Anche se potessimo parlare di vittoria, di fronte a una distruzione totale, cosa potrebbe richiedere il vincitore al vinto? Non sto parlando
semplicemente della forza delle armi, ma
dell’inconoscibilità delle conseguenze di
alcune di esse, come le cyber-armi. Le negoziazioni tradizionali per il controllo delle armi richiedevano che ogni controparte
dicesse all’altra quali fossero le proprie capacità come punto di partenza per limitare
le suddette capacità. Invece, con le cyberarmi, ogni paese sarà estremamente riluttante a far conoscere agli altri le proprie
capacità. Non esiste, quindi, un modo evidente per contenere una cyberwarfare, una
guerra cibernetica. E l’intelligenza artificiale peggiora la situazione. Macchine che
possono apprendere dalla loro esperienza
e comunicare tra loro autonomamente
pongono l’imperativo pratico e morale di
trovare un modo per impedire l’autodistruzione del genere umano. Gli Stati Uniti e la
Cina devono cercare di raggiungere un’intesa sulla natura della loro co-evoluzione.
JG: Giusto per chiarirci. La stabilità del
pianeta dipende da quanto i due paesi più
potenti saranno in grado di capire che cosa
vuole l’altro.
HK: E questo richiede trasparenza reciproca nelle motivazioni, cosa che sembra
alquanto strana per i diplomatici tradizionali.
JG: E a lei sembra molto strano?
HK: Un po’, ma se legge le trascrizioni delle mie precedenti conversazioni con Zhou
Enlai (il premier cinese con il quale Kissinger si incontrò segretamente nel 1971
per il raggiungimento dell’auspicata distensione), noterà due cose. La prima è che
siamo stati fortunati, perché non avevamo
una relazione quotidiana concreta di cui
parlare, eccetto Taiwan, che mettemmo da
111
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
JG: Come vede l’attuale strategia della
Cina?
HK: Ci sono due possibili interpretazioni.
Una è che i Cinesi pensano che il mondo si
muova nella loro direzione, che alla fine lo
erediteranno in qualche maniera, e che il
loro compito strategico è di tenerci tranquilli nel frattempo.
JG: Che l’arco della storia si stia piegando
dalla loro parte.
HK: Alcuni strateghi cinesi potrebbero
pensarla in questo modo. Oppure, le loro
azioni potrebbero essere interpretate nel
senso di “Comunque interpretiate l’arco
della storia, un conflitto tra paesi che possiedono le tecnologie che abbiamo noi, e
l’incerta applicazione delle stesse, è così
pericoloso che qualunque ne sia l’origine,
abbiamo il dovere di cercare di cooperare
per evitarlo.”
Credo che questa sia la visione del Presidente Xi. Ma non riusciremo a dimostrare
quale interpretazione sia corretta prima
che non passino circa 20 anni. Nel frattempo, le nostre politiche devono essere
abbastanza di ampio respiro in modo da
accoglierle entrambe.
JG: Quindi, Obama ha seguito troppo la linea dura con la Cina?
HK: Non una linea troppo dura ma di breve
termine. Per poter veramente andare avanti
nella nostra relazione con la Cina, dobbiamo ragionare in termini di tendenze.
JG: Teme tutti questi discorsi, alimentati
da Trump, circa una guerra commerciale
con la Cina?
HK: Più di qualsiasi altra cosa, un ordine
mondiale equilibrato e pacifico dipende
parte, quindi, per costruire la fiducia, dovevamo parlare della nostra filosofia dell’ordine mondiale. E secondo, di conseguenza,
sembravamo due professori che discutevano della natura del mondo e del suo futuro.
Questo tipo di comunicazione non è evidente nell’attuale dialogo tra Stati Uniti
e Cina. I leader si incontrano e discutono
proficuamente nel senso che ci sono tanti temi di ordine pratico sui quali devono
lavorare. Eppure, i Cinesi escono da questi
incontri con un senso di frustrazione. Il
primo argomento di cui vogliono discutere, di natura filosofica, non è mai sollevato, e sarebbe “Se noi fossimo al vostro posto, potremmo cercare di frenare la nostra
ascesa. Voi, cercate di frenarci? In caso di
risposta negativa, se diventiamo entrambi
forti, come c’è da aspettarsi, come sarà il
mondo?”
JG: Come dovrebbe porsi il Presidente per
risolvere, sistematicamente, i problemi
con la Cina?
HK: E’ importante comprendere la differenza nella percezione dei problemi tra
noi e i Cinesi. Gli Americani pensano che
la condizione normale del mondo corrisponda a stabilità e progresso: Se c’è un
problema, può essere rimosso investendo
in impegno e risorse, e una volta risolto,
l’America può tornare al suo isolamento. I
Cinesi pensano che nessun problema possa
mai essere definitivamente risolto. Perciò,
quando parlate con gli strateghi cinesi,
questi parlano del processo piuttosto che
di problemi specifici. Quando parlate con
gli strateghi statunitensi, questi, in genere,
cercano le soluzioni.
112
Transatlantic Outlook
da una relazione stabile tra USA e Cina. Xi
Jinping, riferendosi alla nostra interdipendenza economica, l’ha definita “la zavorra
e il propulsore” di una più ampia relazione
bilaterale; una guerra commerciale sarebbe devastante per entrambi.
JG: Lei ha sempre dialogato con gli alti dirigenti cinesi. Quale è stata la loro reazione alla minaccia di una guerra commerciale espressa da Trump?
HK: La loro prima reazione a Trump è
stata di shock, non tanto per la sua personalità, ma perché l’America potrebbe
avviare un dibattito politico sulla propria
natura. “Questo significa che siamo inevitabilmente costretti a scontrarci?” Questa
è stata la loro prima reazione.
©2016 The Atlantic
First published in The Atlantic.
Distributed by Tribune Content Agency, LLC.
©2016 Il Nodo di Gordio
Tradotto da:
Maria Amoruoso - CIHEAM Bari
113
RIVISTA
MARITTIMA
MENSILE DELLA MARINA MILITARE DAL 1868
La Rivista Marittima, pubblicazione editoriale
a carattere periodico della Marina Militare dal 1868,
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Transatlantic Outlook
RICHARD PERLE:
“CON TRUMP, TENSIONI TRA USA
E CINA. L’EUROPA? UN’UNIONE
DOGANALE”.
a cura della Redazione
ttualmente membro di alcuni dei
think tank influenti sulla politica di Washington – dall’Hudson
Institute al Washington Institute for the
Near East Policy – Richard Perle ha rivestito incarichi di fondamentale importanza
durante l’Amministrazione Reagan – come
Assistente del Segretario alla Difesa – e poi
ancora con George W. Bush in qualità di
Chairman of Board.
Considerato non solo uno dei massimi
esponenti del neo conservatorismo statunitense, ma anche, e forse soprattutto, uno
degli uomini che hanno maggiormente
contribuito a disegnare la politica estera
americana sotto le Amministrazioni degli
ultimi tre Presidenti Repubblicani, è soprannominato dalla stampa statunitense
“The Prince of Darkness” anche per il suo
carattere restio ad ogni esibizione mediatica.
Dopo aver anticipato in un’intervista al
A
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e leggi la precedente intervista
a Richard Perle sul sito:
www.nododigordio.org
115
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
va pensato in chiave anticinese. Quali
saranno le direttrici economiche degli
Stati Uniti nell’èra Trump?
“Nodo di Gordio” nel maggio dello scorso
anno la probabile ascesa alla Casa Bianca
di Donald Trump, ci ha concesso in esclusiva alcune nuove dichiarazioni sulle future
mosse in politica estera della Presidenza
americana.
Trump è arrivato alla Casa Bianca con delle idee su ciò che comporta per l’economia
americana il commercio con un certo numero di paesi, in particolare il Messico e la
Cina. Qualsiasi seria analisi mostrerà che,
nel complesso, queste relazioni commerciali avvantaggiano l’economia americana anche se danneggiano alcuni settori, e
Trump sarà costretto a riconoscerlo. Cercherà sicuramente di negoziare migliori
condizioni commerciali con i nostri partner, e potrebbe anche avere successo. Ma
lui non sconvolgerà l’economia globale
con un protezionismo estremo.
Contro ogni pronostico, Lei aveva anticipato l’elezione di Donald Trump nel
lontano maggio del 2016. Quale sarà il
futuro rapporto tra Stati Uniti, Russia
e Cina con la nuova Amministrazione?
È difficile prevedere così presto la politica
strategica globale del presidente Trump.
Nonostante si faccia notare il fatto che lui
abbia un amichevole, anche cordiale, rapporto con Vladimir Putin, penso sia probabile che la sua politica nei confronti della
Russia rifletterà le molte differenze tra la
Russia e l’Occidente, tanto quanto l’interesse comune nel contenere il terrorismo
delle organizzazioni islamiste radicali. Riflettendo sulle due personalità, quelle di
Putin e Trump, entrambi i quali hanno bisogno di essere visti come “vincitori”, ho il
sospetto che emergeranno conflitti e tensioni nel loro rapporto. La linea di Trump
nei confronti della Cina sarà assertiva sia
nel commercio sia in politica. Mi aspetto
una notevole tensione centrata sulle rivendicazioni regionali della Cina che sono
viste come aggressive e inaccettabili dai
nostri alleati asiatici.
Trump sembra essere pronto a stabilire relazioni amichevoli con Vladimir
Putin. Ma Mosca è un alleato storico
di Teheran. Quale sarà il futuro della
NATO e qual è la Sua opinione sull’Iran?
L’“alleanza” di Mosca con Teheran è poco
profonda e tattica, più una seccatura che
una minaccia.
Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, la
NATO si è mossa lentamente ed in maniera incostante per reinventare se stessa.
Trump farà pressione sulla NATO per investire di più nella difesa collettiva dell’Occidente – come hanno fatto altri presidenti
americani. Può fare meglio dei suoi predecessori perché i nostri alleati sono spaventati e allarmati dalla sua retorica e, in questo momento, prendono più seriamente ri-
Il nuovo Presidente ha già dichiarato di
voler bloccare alcune partnership commerciali come il TPP che Obama ave116
Transatlantic Outlook
spetto al passato la possibilità che gli Stati
Uniti riducano loro il sostegno. Trump ha
ragione nel credere che gli Stati Uniti si siano sobbarcati una quota sproporzionata
degli oneri per la sicurezza occidentale.
La dittatura iraniana è un nemico implacabile dell’Occidente ed è guidata dall’ambizione del dominio degli Sciiti. Se il popolo
iraniano fosso libero di scegliere, i Mullah
verrebbero cacciati e per l’Iran si aprirebbero nuove opportunità di aderire al mondo progredito. Questo non può avvenire
senza l’assistenza all’opposizione, cosa
che né Bush né Obama sono stati disposti
a dare. Forse ciò cambierà con Trump, che
sembra più disposto di ogni altro presidente dai tempi di Reagan ad andare contro
la convinzione comune e l’establishment
diplomatico. È giunto il momento che gli
oppositori del regime di Teheran abbiano
un amico negli Stati Uniti.
la campagna (inglese, ndr) di abbandono
dell’Unione e si intensificherà l’opposizione alla burocrazia non eletta di Bruxelles
Il concetto di un mercato unico ha una
grande attrattiva, ma la moneta unica non
ce l’ha e l’idea dei parlamenti nazionali subordinati alle istituzioni collettive dell’Ue
è sempre più impopolare.
In questa situazione, l’Italia può svolgere un importante ruolo diplomatico?
E dove? In Medio Oriente, con la Russia,
nel Mar Mediterraneo?
L’Italia ha la storia, l’economia e la cultura
per svolgere un ruolo politico e diplomatico significativo, ma dipenderà dalla capacità dei suoi leader se sarà in grado di farlo.
La capacità di comando del Regno Unito,
ad esempio, è stata una cosa con Margaret
Thatcher ed un’altra con Gordon Brown;
gli Stati Uniti con Ronald Reagan potevano comandare in un modo in cui non potevano con Jimmy Carter. Penso che Renzi
fosse molto promettente ma che non abbia avuto abbastanza tempo per emergere
come figura internazionale.
E per quanto riguarda l’Europa? È chiaro come Trump stia costruendo un rapporto preferenziale con la Gran Bretagna e non con la Germania. È forse la
fine dell’Unione europea?
Non prevedo la fine dell’Unione europea,
ma credo che finirà più come una unione
doganale che come unione economica, giuridica e politica completamente integrata
come i suoi sostenitori più ambiziosi (principalmente Germania e Francia) avrebbero
voluto. L’Ue sarà costretta a ridimensionare la sua aggressiva appropriazione delle
sovranità nazionali nel momento in cui si
diffonderà il sentimento che ha animato
117
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
STATI UNITI D’AMERICA:
POTERI E LIMITI PRESIDENZIALI
di Vittorfranco Pisano
elezione del facoltoso imprenditore repubblicano Donald Trump
quale 45° Presidente degli Stati Uniti avvenuta nel pieno rispetto della
Costituzione federale e delle disposizioni
dei singoli Stati che compongono l’Unione
ha, ciononostante, generato preoccupazioni accompagnate, con carente spirito
democratico, da manifestazioni di protesta
all’interno del Paese e all’estero.
In considerazione dello status di superpotenza mondiale che da un secolo caratterizza gli Stati Uniti e considerate le ansie
esternate in vari ambienti – europei inclusi – nei confronti dell’impostazione che la
presidenza di Trump potrebbe dare alla politica estera statunitense, è opportuno esaminare l’ambito e i limiti delle prerogative
del neoeletto.
Come ogni altro ordinamento costituzionale moderno ad alto sviluppo politico,
quello statunitense ha adottato la separa-
L'
Come ogni altro
ordinamento costituzionale
moderno ad alto sviluppo
politico, quello statunitense
ha adottato la separazione,
o divisione, dei poteri
dello Stato in legislativo,
esecutivo e giudiziario.
Questo principio cardine è
affiancato e attenuato da un
sistema di pesi e contrappesi
tanto in politica interna
quanto in politica estera.
118
Transatlantic Outlook
zione, o divisione, dei poteri dello Stato in
legislativo, esecutivo e giudiziario. Questo
principio cardine è affiancato e attenuato
da un sistema di pesi e contrappesi tanto in
politica interna quanto in politica estera.
Il Presidente degli Stati Uniti, in quanto
eletto sulla base del suffragio universale1
ed essendo la sua elezione del tutto indipendente da quella dell’assemblea legislativa, non è soggetto all’istituto del voto di
fiducia parlamentare.2 Tuttavia, l’esercizio
dei poteri a lui specificamente delegati
dalla Carta costituzionale o comunque impliciti è bilanciato e condizionato sia dalle
precipue prerogative del Congresso, organo legislativo bicamerale federale, sia dal
vincolante parere di conformità costituzionale di competenza della Corte Suprema e
corti federali inferiori3 esprimibile solo a
conclusione di una controversia giudiziaria e, pertanto, non a priori sotto forma di
parere consultivo.4
Contemporaneamente Capo dello Stato e
del governo, il Presidente siede al vertice
del potere esecutivo federale, la cui struttura abbraccia dicasteri (departments) ed
enti pubblici non ministeriali, entrambi
sottoposti alla direzione politica presidenziale e parimenti soggetti alle leggi emanate dal Congresso. Compete al Presidente,
una volta ottenuto l’assenso a maggioranza assoluta del Senato, la nomina delle più
1. Per un mandato della durata di quattro anni una sola volta rinnovabile, sempre a suffragio universale.
2. Contrariamente a quanto previsto dagli ordinamenti giuridici vigenti in altri Paesi, inclusa l’Italia.
3. Principio della judicial review.
4. Gli altri principi fondamentali che ispirano la Costituzione statunitense sono la sovranità popolare e il federalismo. Con
riguardo alla separazione dei poteri, va altresì notato che l’ordinamento costituzionale statunitense sancisce la differenziazione tra prerogative spettanti alla Camera dei Rappresenti e spettanti al Senato, i due organi del Congresso, e così
estende il sistema dei pesi e contrappesi anche all’interno del potere legislativo.
119
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
alte cariche dell’esecutivo5. Le altre prerogative e mansioni presidenziali includono
l’apposizione del veto sulle leggi emanate dal Congresso, veto invalidabile con il
voto parlamentare di due terzi di ciascuna Camera; la presentazione di disegni di
legge; la proposta del bilancio finanziario
riguardante il ramo esecutivo dello Stato;
l’invio al Congresso di relazioni sulle condizioni in cui versa l’Unione; la nomina dei
giudici della Corte Suprema e delle altre
corti federali, sottoposta all’assenso della
maggioranza assoluta del Senato; e la concessione di diminuzione di pena o di grazia
per reati federali.
Rientra, altresì, nella competenza presidenziale l’emissione di regolamenti (executive orders) aventi valore di legge con
riguardo alla pubblica amministrazione e
alla conduzione della politica estera e di
sicurezza nazionale, sempre nel rispetto
degli atti legislativi del Congresso.
Va aggiunto e sottolineato che solo il Congresso detiene il cosiddetto “potere della
borsa”, ovvero la facoltà di approvare il bilancio dello Stato nel suo complesso. Spettano, inoltre, al Congresso attribuzioni finanziarie quali l’imposizione dei tributi, il
pagamento dei debiti pubblici e il diritto di
battere moneta.
Tenuto presente quanto precede, quali
sono specificamente i poteri, gli strumenti e i limiti del Presidente nella sfera della
politica estera e della sicurezza nazionale?
Sebbene condizionato o condiviso, il ruolo
del Presidente in materia di affari internazionali e di sicurezza nazionale, intesa in
senso più ampio della mera difesa militare,
è notevole.
Secondo il testuale dettame costituzionale, i poteri del Presidente si esplicano nei
modi seguenti: Egli avrà il potere, su parere
e consenso del Senato con l’approvazione di
due terzi dei Senatori presenti, di concludere
trattati; designerà e nominerà, su parere e
consenso del Senato, ambasciatori, altri diplomatici e consoli […]. Egli riceverà ambasciatori e altri diplomatici […].6 Può, altresì
negoziare executive agreements, ovvero accordi che rivestono una dignità minore dei
trattati e non necessitano quindi la ratifica
del Senato.
Il Presidente è contemporaneamente comandante in capo delle forze armate, ma
compete al Congresso dichiarare guerra.
Gli altri poteri costituzionali del Congresso
nella sfera della politica estera e sicurezza
nazionale includono regolare il commercio
con le altre nazioni; […]; provvedere alla difesa comune; […] reclutare e mantenere eserciti; creare e mantenere una marina militare;
emettere regolamenti per l’amministrazione
e l’ordinamento delle forze di terra e di mare;
procedere alla chiamata in servizio della milizia per fare eseguire le leggi dell’Unione,
sopprimere insurrezioni e respingere invasioni […].7
La formulazione e l’attuazione della poli-
5. La durata del mandato di ognuna di dette cariche non può superare quella del mandato del Presidente, se non confermate dal suo successore.
6. Art. II. Sez.2 e 3.
7. Art I, Sez.8.
120
Transatlantic Outlook
tica estera e di sicurezza nazionale è palesemente un procedimento complesso che
richiede la collaborazione di entrambi i poteri esecutivo e legislativo, il secondo dei
quali dispone di specifiche commissioni in
entrambi le Camere.
Con l’assistenza o per il tramite degli organi
che compongono l’esecutivo, il Presidente esercita l’iniziativa reagendo a sviluppi
esteri e internazionali, proponendo speciali
disegni di legge, negoziando accordi e trattati, emettendo dichiarazioni politiche e
dando esecuzione a decisioni politiche.
A sua volta, il Congresso dà vita ad iniziative di politica estera e sicurezza nazionale
avvalendosi di risoluzioni e dichiarazioni
politiche, di atti, restrizioni e stimoli legislativi, di consultazioni informali con
esponenti del potere esecutivo ed esercitando il controllo parlamentare.
Anche se, in quanto organo monocratico,
il Presidente dispone di maggiore flessibilità rispetto al Congresso nel far fronte alle
esigenze di questo duplice settore, tanto la
politica estera quanto la sicurezza nazionale non sono concepibili o attuabili senza
stanziamenti finanziari, la cui prerogativa
è congressuale.
In politica estera e sicurezza nazionale il
Presidente è coadiuvato dal Gabinetto presidenziale, organo consultivo non collegiale composto principalmente dai titolari
dei dicasteri, e dal Consiglio Nazionale di
Sicurezza (National Security Council –
NSC), organo, foro e strumento per l’integrazione delle funzioni politiche, militari
e d’intelligence riguardanti questi settori
e presieduto dal Presidente stesso, che ne
stabilisce l’effettiva portata ed intensità
del ruolo.8 Per il tramite del NSC, il Presidente emette direttive per la sicurezza nazionale e assegna le risorse necessarie.
Oltre al Presidente compongono il NSC il
Vice Presidente e due membri del Gabinetto: il Segretario di Stato e il Segretario della Difesa. Il Capo di Stato Maggiore della
Difesa è di diritto consigliere militare del
NSC, mentre lo è per l’intelligence il Diret-
La formulazione e
l’attuazione della politica
estera e di sicurezza
nazionale è palesemente un
procedimento complesso che
richiede la collaborazione di
entrambi i poteri esecutivo e
legislativo
tore dell’Intelligence Nazionale nella sua
veste di capo del complesso dei servizi che
costituiscono la “comunità di intelligence”.
Per prassi partecipano alle riunioni del
NSC anche il Consigliere per la Sicurezza
Nazionale (un coadiutore del Presidente
che gestisce di fatto le operazioni giornaliere del NSC), il Segretario del Tesoro,
l’ambasciatore presso le Nazioni Unite,
l’Assistente Presidenziale per la Politica
Economica e il capo dello staff presidenziale. La partecipazione del Guardasigilli e del
8. Il Gabinetto è sorto per prassi mentre il NSC è stato istituito dalla Legge sulla Sicurezza Nazionale del 1947.
121
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
Direttore dell’Ufficio per la Politica di Controllo sulla Droga è prevista per le riunioni
che riguardano i settori di loro competenza. Ulteriori alte cariche e funzionari sono
invitati all’occorrenza. Il NSC dispone di
un proprio staff, che cura il supporto logistico e amministrativo e funge da punto di
contatto iniziale per i dipartimenti e gli altri enti che intendono sollevare questioni
di pertinenza del NSC.
Il Segretario di Stato è istituzionalmente il
consigliere principale del Presidente in materia di politica estera e di diplomazia, nonché il responsabile del Dipartimento di Stato
e quindi incaricato dello sviluppo e attuazione delle relazioni internazionali degli Stati
Uniti. Il Presidente, tuttavia, spesso si sostituisce al Segretario di Stato nella conduzione
della politica estera o si avvale prevalentemente di altri consiglieri.
Mentre, la direzione delle forze armate compete al Presidente nella sua veste di comandante in capo, il Segretario della Difesa è il
principale assistente del Presidente in tutto
ciò che riguarda i compiti del suo dicastero.
Lo Stato Maggiore della Difesa è subordinato al Presidente ed al Segretario della Difesa
ed è composto dal Capo di Stato Maggiore
della Difesa – consigliere militare primario
del Presidente e del Segretario della Difesa – e dai rispettivi Capi di Stato Maggiore
dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica. Nell’organizzazione del Dipartimento
della Difesa risaltano, sotto l’aspetto operativo, i “comandi combattenti interforze” la
cui linea di comando risale al Presidente per
il tramite del Segretario della Difesa. Questi comandi sono organizzati su base geo122
grafica (ad esempio, Comando Europeo e
Comando Pacifico) e in questo caso rispecchiano la proiezione geopolitica e gli interessi ed impegni internazionali degli Stati
Uniti oppure corrispondono a criteri funzionali (ad esempio, Comando Interforze
per il supporto ad altri comandi e Comando
Operazioni Speciali per tali compiti).
Sia l’invio sia l’impiego delle forze armate
debbono essere decisi dal vertice dell’esecutivo, ma sono ulteriormente disciplinati da un atto legislativo del Congresso del
1973 noto come Risoluzione sui Poteri di
Guerra. Esso stabilisce che il Presidente
informi il Congresso qualora egli invii contingenti militari a fronteggiare ostilità in
corso o imminenti. L’uso della forza deve
essere terminato nell’arco di 60-90 giorni
se non autorizzato o prorogato dal Congresso. Ogni qualvolta possibile il Presidente deve consultare il Congresso prima
dell’invio delle forze armate.
Ai fini della politica estera e della sicurezza
nazionale operano altresì i servizi d’informazioni e di sicurezza, noti negli Stati Uniti come agenzie di intelligence.
Le funzioni di questi servizi, privi di propri poteri decisionali di natura politica,
riguardano la raccolta e l’analisi delle informazioni necessarie per la formulazione
e la conduzione della politica estera e di sicurezza nazionale da parte delle massime
autorità federali. A loro volta, le operazioni
coperte o speciali, a latere della diplomazia classica, rappresentano solo una minima parte dei compiti d’istituto di alcuni di
questi servizi.
Tutti i servizi d’intelligence sono soggetti
Transatlantic Outlook
a direttive, autorizzazioni e verifiche non
solo del Presidente, ma anche delle apposite commissioni di controllo (oversight) delle Camere del Congresso e in determinati
casi di un organo giudiziario. Sono altresì
previsti intelligence briefings per otto parlamentari investiti di eminenti funzioni
all’interno delle due Camere.
Le operazioni coperte o speciali – che abbracciano forme di propaganda e di finanziamento estero, nonché attività paramilitari – sono sottoposte ad un particolare
regime di controllo. Debbono essere specificamente autorizzate dal Presidente per
iscritto e preventivamente.
I servizi d’informazioni e di sicurezza fanno parte della “comunità di intelligence”,
la quale attualmente abbraccia sedici enti
coordinati dal predetto Direttore di Intelligence Nazionale. Per il tramite del NSC,
l’intera comunità predetta è alle dipendenze gerarchiche del Presidente.
Il più noto dei sedici servizi è l’Agenzia
Centrale d’Intelligence (Central Intelligence Agency – CIA), ente autonomo – nel
senso di non ministeriale – nell’ambito del
potere esecutivo.
Compito della CIA, da svolgersi unicamente all’estero, è quello di raccogliere
informazioni avvalendosi di fonti umane
e di analizzare e fornire ai poteri decisionali informazioni derivanti altresì da fonti
tecnologiche di pertinenza di altri servizi.
E’ altresì suo compito, su diretto ordine
del Presidente o per il tramite del NSC,
compiere sempre all’estero funzioni d’intelligence che influiscono sulla sicurezza
nazionale e che in alcuni casi richiedono
che il ruolo degli Stati Uniti non sia reso
pubblico. E’, per contro, vietato alla CIA
l’esercizio di poteri di polizia e di funzioni
di sicurezza all’interno degli Stati Uniti.
Otto servizi appartenenti alla “comunità
di intelligence” fanno parte del Diparti-
123
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
mento della Difesa. La Defense Intelligence
Agency (DIA) svolge compiti analitici attinenti alla difesa, dirige gli addetti militari presso le rappresentanze diplomatiche
all’estero e coordina i servizi di intelligence
dell’Esercito, della Marina, dell’Aeronautica
e del Corpo dei Marines. La DIA dispone altresì di un Servizio Clandestino della Difesa
che opera nel contesto militare. Fanno parimenti capo al Dipartimento della Difesa
la National Security Agency, competente
in materia di comunicazioni elettroniche;
la National Geospacial Intelligence Agency,
competente in materia di immagini fotografiche e rappresentazioni cartografiche; e
il National Reconnaissance Office, competente per gli aspetti spaziali.
Due ulteriori membri della “comunità
di intelligence” appartengono al Dipartimento della Giustizia: il Federal Bureau
of Investigation, significativamente nello
svolgimento dei compiti di controspionaggio e di contrasto al terrorismo, e la Drug
Enforcement Administration, ente addetto
al contrasto del traffico di stupefacenti. Rientra, a sua volta, nella predetta comunità l’elemento d’intelligence della Guardia
Costiera, la quale è inquadrata nel Dipartimento di Sicurezza Interna.
Uffici specializzati in materia di intelligence e perciò membri della stessa comunità
sono anche presenti nell’organico dei Dipartimenti di Sicurezza Interna, del Tesoro
e dell’Energia.
Completa la lista il Bureau of Intelligence and Research, che è organico al Dipartimento di Stato e svolge esclusivamente
funzioni di analisi.
124
La su illustrata potestà del Presidente in
politica interna ed estera è ulteriormente
soggetta all’influenza dell’opinione pubblica ed al potere del Congresso di mettere
in stato di accusa e rimuove il capo dell’esecutivo nei casi di tradimento, concussione o altri gravi reati.
Va, infine, tenuto presente che la politica estera di una superpotenza occidentale
come gli Stati Uniti può mutare nella forma ma non in modo cospicuo nella sostanza, a prescindere dalla persona del Presidente in carica. Affinità culturali, etniche
e religiose, nonché interessi economici e
di sicurezza collettiva, continueranno ad
aggregare Washington con altre nazioni,
particolarmente quelle europee. Per di più,
l’avvicinamento con la Federazione Russa,
non più Unione Sovietica, prospettato dal
neoeletto Presidente può ulteriormente
saldare i legami transatlantici.
Come nel caso delle precedenti amministrazioni statunitensi, molto dipenderà
dalla competenza e tatto dei collaboratori e consiglieri del neo-Presidente e dal
rapporto che egli stesso saprà instaurare
e mantenere con le istituzioni del proprio
Paese e quelle estere.
Vittorfranco Pisano
Capo del Dipartimento di Scienze Informative per
la Sicurezza dell’Università Popolare UNINTESS, ha
prestato servizio con il grado di colonnello nello U.S.
Army ed è stato consulente ed estensore di relazioni
per commissioni del Congresso degli Stati Uniti
Transatlantic Outlook
LA NATO COMBATTERÀ?
E PER COSA?
I Paesi Baltici e l’Alleanza Atlantica
di Stephen Bryen
unica cosa di cui sono certo è che
i Russi possono fare la differenza. Conoscono abbastanza bene
l’entità e la capacità delle forze NATO dispiegate negli Stati Baltici e in Polonia, e
sanno che la NATO, nonostante la recente
frenetica attività e l’invio di carri armati
e armamenti, è molto lontana dall’essere
pronta. I Russi hanno scelto di fare pressione sull’area Baltica e persino su Finlandia e Svezia (entrambe fuori dall’Alleanza
NATO) soprattutto per rivelare la vulnerabilità della NATO e metterne in dubbio la
pretesa di proteggere i propri membri più
recenti.
Molti di questi paesi, soprattutto Lettonia,
Lituania e Estonia sono seriamente impreparati a difendersi. Ci si potrebbe ragionevolmente chiedere perché la NATO abbia
voluto così tanto acquisire la loro adesione
da non pretendere nessun requisito riguardo le loro capacità nella difesa.
L'
I Russi conoscono bene
l’entità e la capacità delle
forze NATO dispiegate nei
Paesi Baltici e in Polonia e
sanno che la NATO è ben
lontana dall’essere pronta
Scansiona con il tuo smartphone
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e guarda il video dell'intervista
a Stephen Bryen sul sito:
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125
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
La Lettonia per esempio ha meno di 5.000
militari di cui meno di 1.000 nell’esercito.
Non ha carri armati né aerei da combattimento. Eppure ha una popolazione di 2,3
milioni di abitanti. Ovviamente la difesa
nazionale è secondaria rispetto ai programmi sociali e al welfare.
La Lituania è messa un po’ meglio, poiché
ha introdotto la leva obbligatoria nel 2015.
In tutto ci sono 20.000 militari in servizio
di cui 4.800 guardie di frontiera, ma sono
presenti solo poche unità combattenti.
Il Paese sta acquisendo alcuni veicoli da
combattimento per la fanteria (IFV) ma
nessun carro armato (MBT), possiede pochissima artiglieria e alcuni aerei da addestramento L-39C Albatross (comprati di
seconda mano dal Kazakistan) che possono fornire una minima difesa aerea. La popolazione è appena sotto i 3 milioni e sta
spendendo circa l’1,9% del PIL per la difesa
(soprattutto per il personale).
126
Anche l’Estonia segue una politica minimalista della difesa con solo 17.500 militari, per la metà donne. Il numero di militari
in servizio è di circa 6.000. Non ha forza aerea, a parte un paio di elicotteri e, sebbene
aspiri ad acquisire alcuni fighters, per ora
non ne ha acquistato nessuno. L’Estonia
ha dichiarato di volere più truppe NATO
sul suo territorio, purché non siano neri.
Per l’Europa, con l’eccezione della Francia,
questo non rappresenterebbe un problema,
ma lo è per gli Stati Uniti. Nello US Army
sono neri il 31% delle donne e il 16% degli
uomini in servizio. L’Estonia è un piccolo
paese (1,3 milioni) ed investe molto poco
nella difesa (477 milioni di euro, cioè circa
il 2,3% del PIL, più di Lettonia e Lituania).
Lo scenario migliora considerevolmente
guardando alla Polonia, che spende 9,4 miliardi nella difesa, cioè il 2% del suo PIL. E
possiede un esercito e un’aeronautica notevoli.
Transatlantic Outlook
Svezia e Finlandia, nonostante il loro status di non-allineati, hanno capacità militari abbastanza importanti. Nel marzo del
2013 la Svezia ha subito una practice run
russa che è stata interpretata come una
prova d’invasione. L’Esercito svedese ha
120 carri armati (MBT) e più di 500 veicoli
da combattimento per la fanteria (IFV). Ha
anche una forza di reazione rapida. La Svezia ha una Marina piccola ma forte e pochissimi sottomarini estremamente capaci. Soprattutto ha un’Aeronautica di prima
qualità, una delle più grandi in Europa, con
217 aerei da combattimento che aumenteranno di circa 100-120 unità. Il budget per
la difesa però è stato ultimamente ridotto
e costituisce solo l’1,5% del PIL. L’obbiettivo sarebbe di incrementarlo fino al 3% del
PIL. Resta da capire se i politici svedesi, per
la maggior parte di sinistra, permetteranno un simile aumento. Comunque, di tutti
i paesi Baltici (eccetto la Polonia) la Svezia
è in buona posizione per difendersi, anche
contro i Russi, che troverebbero molto dispendioso attaccarla.
La Finlandia ha la leva maschile universale, un forte esercito e una forza di riserva
capace. Avendo combattuto l’Unione Sovietica, sanno quanti sacrifici occorrano
e quanto conti la preparazione. Mentre la
Russia continua a minacciare la guerra, la
Finlandia aspira a una relazione più forte
con la NATO. Possiede 160 MBT e altri 40
sono in arrivo nei prossimi anni. Ha una
Aeronautica di 62 fighters e altri 65 aerei da
combattimento relegati al ruolo di addestratori. L’Esercito ha un altissimo livello
di meccanizzazione e una forte artiglieria.
127
Sfortunatamente però, rispetto alle necessità e alla popolazione, le spese per la difesa finlandesi sono troppo basse, circa 2,2
miliardi cioè l’1,3% del PIL. E’ un magro
budget per far fronte a possibili minacce
locali.
Dunque nell’area Baltica è presente un numero di paesi vulnerabili qualora la Russia creasse dei problemi. Mentre gli USA
e i suoi alleati della NATO ora hanno 4
battaglioni multinazionali (non brigate) e
stanno fornendo moderni aerei multiruolo (fighter and strike aircraft) per l’European Reassurance Initiative, queste forniture
rappresentano più un sostegno psicologico
che un’effettiva capacità di respingere un
eventuale attacco Russo.
Uno studio della Rand Corporation è pervenuto a conclusioni molto negative al riguardo. Gli investigatori della Rand hanno
svolto delle simulazioni, attraverso molteplici war games, con una vasta gamma di
partecipanti esperti, in uniforme e senza,
su entrambi i fronti, si evince che il tempo
massimo necessario alle forze Russe per
raggiungere le periferie delle capitali di
Estonia e Lettonia, rispettivamente Tallinn
e Riga, è 60 ore.
Una così rapida invasione lascerebbe la
NATO con un numero limitato di opzioni,
tutte negative:
Rand ha suggerito le seguenti:
• Una forza di circa sette brigate, incluse
tre brigate pesanti - adeguatamente supportate da air power, artiglieria e altri
mezzi di terra e pronti al combattimento
all’inizio delle ostilità - potrebbe essere
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
sufficiente a prevenire una rapida invasione degli stati Baltici.
• Benché non sufficiente a una difesa prolungata della regione o a ripristinare
l’integrità territoriale di questi membri
NATO, tale posizione cambierebbe fondamentalmente lo scenario strategico
dal punto di vista di Mosca.
I rinforzi USA e alleati agli stati Baltici appaiono assai lontani da quello che Rand
considera una posizione di minima difesa.
ARTICOLO 5
Il cuore del sistema NATO è la Collective
Security, detta anche Collective Defense.
L’articolo chiave del Trattato di Washington (o del Nord Atlantico) firmato il 4 aprile del 1949 è l’Articolo 5.
Esso esprime l’idea che un attacco a un Alleato è un attacco a tutti gli Alleati. Sebbene la NATO abbia attuato azioni che
potrebbero chiamarsi di difesa collettiva
riguardo alla Siria e alla crisi in Ucraina, di
fatto dal 1949 l’Articolo 5 è stato invocato
solo una volta, ossia dopo l’attacco terroristico dell’11 Settembre.
In quell’occasione si appellarono all’Articolo 5 gli Stati Uniti. Ma l’invocazione
dell’Articolo non si realizzò nel senso auspicato dagli americani. Soltanto un mese
dopo, esattamente il 5 ottobre, la NATO
convenne che una forza esterna era implicata nell’attacco e quindi si approvò il
ricorso all’Articolo 5. Persino allora, in realtà, si rimase molto lontano da un’azione
di difesa collettiva. In sostanza la NATO
conveniva che avrebbe fatto qualcosa per
supportare gli USA, ma al contempo considerava gli Stati Uniti “liberi” di fare quanto
ritenessero necessario secondo gli obblighi
derivanti dalla Carta dell’ONU. In sostanza, la NATO garantiva agli Stati Uniti i diritti che avevano sempre avuto e poco di
significativo faceva per sostenere l’alleato.
Una tale performance dell’Articolo 5 costituisce forse un indizio di quanto la Nato
possa essere utile in una vera crisi con
un potente avversario. Due aspetti hanno principalmente attirato l’attenzione.
Il primo è che l’Articolo 5 lascia agli stati
membri la facoltà di decidere quali azioni
ciascun stato può intraprendere singolarmente se l’Articolo 5 è attivato, solo con
voto unanime. Il secondo è che l’Articolo
5 è legato fortemente al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, in cui la Russia ha potere
di veto su ogni risoluzione.
Ecco il testo completo dell’Articolo 5:
“Le Parti convengono che un attacco armato
contro una o più di esse, in Europa o nell’America settentrionale, costituirà un attacco
verso tutte, e di conseguenza convengono
che se tale attacco dovesse verificarsi, ognuna di esse, nell’esercizio del diritto di legittima difesa individuale o collettiva riconosciuto dall’Articolo 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti così
attaccate, intraprendendo immediatamente,
individualmente e di concerto con le altre
parti, l’azione che giudicherà necessaria, ivi
compreso l’impiego della forza armata, per
ristabilire e mantenere la sicurezza nella regione dell’Atlantico settentrionale.”
128
Transatlantic Outlook
“Qualsiasi attacco armato siffatto, e tutte
le misure prese in conseguenza di esso,
verrà immediatamente segnalato al Consiglio di Sicurezza. Tali misure dovranno
essere sospese non appena il Consiglio di
Sicurezza avrà adottato le disposizioni necessarie per ristabilire e mantenere la pace
e la sicurezza internazionali”
La NATO sarebbe capace di raggiungere
un accordo nel caso in cui l’azione militare contro uno dei paesi Baltici provenisse
dalla Russia? E anche dopo una presunta
provocazione? Un simile incidente è successo nel 2007 quando il Soldato di Bronzo di Tallinn, eretto dai soldati sovietici
nel 1949, fu spostato dalle autorità Estoni.
Questo comportava o il trasferimento delle
tombe dei soldati russi altrove assieme alla
statua del Soldato di Bronzo, oppure la restituzione dei loro resti ai parenti -se rintracciabili- resti affinché li riseppellissero
in Russia.
L’incidente del Soldato di Bronzo ha scatenato uno scontro politico cui i Russi hanno
risposto in molteplici modi, principalmente con una significativa cyber war contro le
organizzazioni governative Estoni, contro
i loro militari e contro il sistema bancario
e finanziario del paese. Nel 2007 l’Estonia
era membro NATO da 3 anni ma non ha
chiesto l’attivazione dell’Articolo 5. Oggi
però farebbe altrettanto, dopo che la NATO
ha dislocato forze sul suo territorio e ha
dato assicurazione che la supporterebbe in
un conflitto? In un certo senso la NATO si è
resa ostaggio di un futuro incidente.
Ma la domanda più grande, che Donald
Trump ha effettivamente posto, è se gli
USA debbano continuare a supportare la
NATO quando proprio sugli Usa pesa la
maggior parte dell’onere, soprattutto il
combattimento e le perdite umane. E anche se continuassero a volerlo, spinti da
un Congresso e da una stampa combattiva,
129
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
che dire degli altri membri NATO?
La Grecia e la Turchia supporterebbero la
NATO in una lontana battaglia al nord dove
non hanno alcun interesse, gravitando comunque loro nell’orbita russa? La Francia e
la Germania rischierebbero il disastro delle
loro economie per una guerra che in realtà
potrebbe essere evitata?
Gran parte della questione baltica è in realtà legata al pasticcio ucraino. Fin tanto
che la questione ucraina può essere mitigata e disinnescata, il potenziale conflitto nella NATO è ridotto. La verità è che
sicuramente gli stati della NATO hanno
giocato un ruolo deleterio nello stimolare
il conflitto in Ucraina; questo ha fatto suonare un campanello d’allarme a Mosca che
sta ancora riecheggiando nei corridoi del
Cremlino. Prima o poi deve essere trovata
una soluzione che sia coerente che la sicurezza occidentale e provveda a garantire
uno sbocco alla questione ucraina.
Se ci arriveremo dipende non solo dall’abilità del Presidente Trump di negoziare, ma
anche da quanto il Presidente Putin abbia
bisogno di proteggersi da suoi bellicosi generali.
Stephen Bryen
Già sottosegretario alla Difesa degli Stati Uniti
d’America ed ex Presidente di Finmeccanica
Nord America.
Tradotto da: Ugo Cardini
Studente di Economia e Commercio, appassionato di
Difesa e Sicurezza.
130
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
THE FIELD OF FIGHT
How We Can Win the Global War
Against Radical Islam and Its Allies
di Michael T. Flynn e Michael Ledeen (ed. St.Martin’s Press)
di Daniele Capezzone
l generale Michael T. Flynn ha oltre trent’anni di carriera ai massimi livelli dell’intelligence militare americana, essendo stato protagonista
di missioni nei più diversi teatri (Grenada,
Haiti, America Centrale, Iraq e Afghanistan),
e avendo lavorato fianco a fianco con figure
come i generali Petraeus e Mc Chrystal. Il
suo nome è diventato noto anche ai non addetti ai lavori in almeno due occasioni: una
prima volta, quando è stato sollevato dalla
posizione di Direttore della Defense Intelligence Agency americana per aver dichiarato
davanti a una Commissione parlamentare
che gli Stati Uniti sono oggi più in pericolo di quanto non lo fossero alcuni anni fa;
e una seconda volta, proprio in questi giorni, perché il suo nome, secondo la stampa
statunitense, è entrato nella short-list delle
personalità tra cui Donald Trump potrebbe
scegliere il suo candidato vicepresidente. Se
la scelta cadesse su Flynn, si tratterebbe di
I
132
Transatlantic Outlook
una mossa in grado di cambiare la partita:
non solo per le qualità personali di Flynn,
ma perché – di tutta evidenza – sarebbe la
prima mossa davvero “presidenziale” di
Trump.
Michael Ledeen è – a mio personale avviso –
uno dei massimi intellettuali viventi. Uomo
di eccezionale cultura e visione, da decenni
con libri, articoli e una incessante attività di studio, ricerca e divulgazione (dapprima all’American Enterprise Institute, ora
alla Foundation for Defense of Democracies),
ammonisce sulla necessità di promuovere a
livello globale libertà e democrazia, di abbattere dittature e rovesciare tiranni, di non
accettare la logica dell’appeasement e del cedimento rispetto ai nemici dell’Occidente.
Si tratta di due maverick, di due outsider rispetto ai loro stessi mondi: di due uomini liberi, che hanno pubblicato questa settimana un pamphlet, scritto a quattro mani, dal
valore doppio: da un lato, perché si ricono-
sce pagina dopo pagina l’architettura e la visione della politica internazionale secondo
Ledeen; dall’altra, perché la testimonianza
personale e diretta e le conoscenze sul campo del generale Flynn rappresentano una
fonte di primissima qualità. Chiunque sia
il nuovo Presidente americano, farà bene a
tenere questo libro sulla propria scrivania,
come bussola e guida per compiere scelte
diverse da quelle – deludenti, rinunciatarie,
pericolose – dell’amministrazione Obama.
La tesi centrale del libro può essere riassunta così. Nel mondo, c’è un network di
gruppi estremisti islamisti (Isis, Al Qaeda,
Hamas, Talebani, Boko Haram, ecc) che
sono da anni in crescita esponenziale: per
i lutti che provocano, per la loro crescita e
la loro capacità di proselitismo, per la loro
penetrazione verso obiettivi occidentali.
Noi, finora, non siamo stati in grado (perché
non lo abbiamo voluto con determinazione
sufficiente e con necessaria chiarezza di vi-
133
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
sione) né di contrastarli né di colpire chi li
sostiene. E qui sta la seconda parte del problema. C’è un insieme di Paesi (diversissimi
fra loro, a volte anche ostili gli uni agli altri)
che, per varie ragioni, ritengono di sostenere o fare sponda alle reti terroristiche, o
che comunque, per altra via, concorrono a
ritenere l’Occidente il proprio nemico: Corea del Nord, Russia, Cina, Iran, Siria, Cuba,
Venezuela, eccetera.
Flynn e Ledeen presentano una fotografia
choccante: anche se i nostri leader dicono
che stiamo vincendo, la verità è che stiamo perdendo. Ora, occorre fare due cose.
Primo: riconoscere che siamo dentro una
guerra, una nuova guerra mondiale, e non
continuare a negarla, chiudendo gli occhi
dinanzi alla natura del nemico. E’ sintomatico che Obama non riesca praticamente mai a pronunciare insieme le tre parole
“radical islamist terror”. Secondo: non basta
immaginare un piano per “ridurre il danno”,
per “gestire” la situazione, per “contenere”
il nemico. Occorre (e Flynn e Ledeen lo mettono nero su bianco) un piano per vincere.
Nel mare di spunti di questo volume, che
mirabilmente intreccia teoria geopolitica/
geostrategica e azione sul campo, seleziono
cinque aspetti a mio avviso particolarmente
significativi.
1. Nelle situazioni (si pensi all’Iraq) in cui
una grande missione militare si trasforma
in una specie di guerriglia, può sempre accadere il peggio. Ergo, è essenziale ottenere il supporto delle popolazioni locali, che
– in genere – non vogliono essere direttamente implicate, almeno fino al momento
in cui non abbiano deciso chi sia destinato
a vincere il conflitto. Più che una scelta,
quella delle popolazioni locali è una sorta
di profezia che si autoavvera, nel senso che
il contributo della loro “intelligence territoriale ambientale” e delle loro risorse umane si rivela essenziale. In fondo, spiegano
Flynn e Ledeen, nell’estate del 2006 le cose
stavano andando molto male in Iraq: Bush
ebbe il merito di comprenderlo e di cambiare strategia, inviando Petraeus. Anche
allora (come oggi su scala globale) c’era un
errore nel mettere a fuoco la big picture, il
quadro complessivo, anche perché lo stato
reale delle cose sul campo confliggeva con
la “narrazione” politica più rassicurante. Ma
il capo politico ebbe il coraggio di modificare i suoi piani e di sostituire i capi militari
sul terreno. Un punto essenziale divenne
proprio il rapporto con le popolazioni locali,
alle quali fu trasmesso (e oggi sarebbe necessario fare lo stesso più complessivamente, rispetto al mondo arabo) un messaggio
chiaro e inequivocabile: che l’America non
aveva (non ha) obiettivi imperialisti ma di
sincera cooperazione, e soprattutto che voleva (vuole) vincere davvero, non lasciare le
popolazioni locali in mezzo al guado, sempre in balia di un nemico non sconfitto.
2. I nostri nemici (in testa Isis e Al Qaeda)
hanno un’elaborazione e una preparazione
sofisticatissima, al massimo livello. Flynn
e Ledeen ricordano (riferendosi a covi di Al
Qaeda scoperti in Iraq nel 2005, e poi a un
covo di Al Zarqawi, e sono cose di 10 anni
fa!!!) che le forze occidentali ritrovarono
piani strategici di straordinaria raffinatez-
134
Transatlantic Outlook
za, e una estrema e dettagliata conoscenza
dell’Occidente. In tempi più vicini a noi,
i recenti attentati (Parigi, Bruxelles, ecc)
hanno mostrato anche l’estrema disciplina
dei terroristi islamisti nell’uso delle comunicazioni, tale da vanificare o comunque da
rendere assai meno efficace una tradizionale attività di intercettazione. È dunque
essenziale infiltrare queste organizzazioni.
E fare uso (gli autori ne parlano diffusamente) di tecniche volte a ottenere il massimo
di informazioni dai nemici catturati. Sono
dunque indispensabili: interrogatori penetranti e con dotazioni anche tecnologiche
elevatissime; un costante “ponte elettronico” tra le strutture che interrogano sul campo e le strutture centrali dell’intelligence a
Washington; sburocratizzare le procedure
autorizzative e ogni collo di bottiglia; massimizzare il valore e l’utilità di ogni singola informazione ottenuta dai prigionieri in
funzione e a beneficio di ciò che sta con-
temporaneamente accadendo sul campo di
battaglia; rafforzare nei nemici l’idea della
“onnipotenza” occidentale; e per questa via,
naturalmente, sarà anche più facile capire
se alcuni prigionieri vogliono ingannarci
con false informazioni. Tutto ciò – a mio
avviso – oltre a essere sacrosanto dovrebbe
aiutare l’Occidente a superare l’illusione di
poter sconfiggere il nemico islamista “in
punta di diritto”, cioè con mezzi legali ordinari. Lo spiegava Churchill rispetto ai nazisti, e la cosa è più che mai vera settant’anni
dopo rispetto al nazi-islamismo: se qualcuno pensa di ottenere qualcosa da normali
interrogatori con verbali e avvocati, temo
viva su un altro pianeta…
3. È necessario smettere di farsi illusioni
sull’Iran, tramutato dalla presidenza Obama in un interlocutore privilegiato. Al contrario, Flynn e Ledeen hanno buon gioco
a mettere in fila dozzine di episodi che, in
135
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
modo chiaro e incontrovertibile, mostrano quanto il regime di Teheran supporti e
alimenti le reti terroristiche, oltre a massacrare la speranza di libertà del proprio
popolo. Esempi? Il caso dei terroristi di Al
Qaeda addestrati in Libano con materiale fornito dall’Iran; il fatto che Al Zarqawi
abbia costruito il suo primo network del
terrore proprio mentre si trovava in Iran
(difficile pensare che il regime non sapesse
e non volesse…); o, più indietro nel tempo,
il vero e proprio “manuale terroristico” di
provenienza iraniana ritrovato dalle forze
britanniche della Nato in Bosnia nel lontano 1996. Ciononostante – accusano giustamente Flynn e Ledeen – nessun presidente
americano ha mai invocato il regime change a Teheran, e Obama è arrivato al punto di
umiliarsi nel negoziato sul nucleare.
4. Flynn e Ledeen sono molto duri, a mio
avviso lucidamente, anche sulla Russia di
Putin. Qui la cosa è molto interessante, anche perché la vulgata giornalistica europea
tende invece a descrivere Flynn come un
“putinofilo”…Invece i due autori non risparmiano a Mosca una chiara accusa: Putin
ha rapporti opachi con l’Iran (ovviamente
non mancano frizioni e sfiducia reciproca,
però il legame di fondo c’è); non ama la
democrazia; e soprattutto anche lui individua nell’Occidente, nella Nato e negli Stati
Uniti il bersaglio da colpire o comunque da
indebolire. Ma il punto è soprattutto “ideologico”: la Russia fa parte di quella catena di
stati che preferiscono la dittatura ai sistemi
democratici e a società aperta. E’ la solita
storia, ben conosciuta nel Novecento: con i
totalitarismi e gli autoritarismi che tendono
ad attrarsi, prima che i loro interessi confliggano (anche Hitler e Stalin, oltre al noto
patto, cooperarono per smembrare la Polonia, prima di combattersi come sappiamo).
5. L’ultima e decisiva parte del libro di Flynn
e Ledeen è dedicata a come vincere. Vincere – lo dicevo all’inizio citando i due autori
– vuol dire esattamente vincere, non solo
“pareggiare” o trovare un qualche equilibrio di compromesso. Vuol dire distruggere
militarmente il nemico; uccidere e catturare i leader terroristi; screditare la loro ideologia; sfidare i regimi che li supportano;
costruire nuove alleanze strategiche per il
Ventunesimo Secolo. Purtroppo Obama ha
fatto il contrario, costruendo il suo Nobel
sulla “non leadership” e sulla “non vittoria”
occidentale, e costruendo il vuoto (fisicomilitare e politico-ideologico) in cui il terrorismo ha potuto trovare spazi per crescere
e rafforzarsi. Il terrorismo islamista (come
il nazismo e il comunismo nel secolo scorso) parte da una presunzione di superiorità
rispetto all’Occidente, alla libertà e alla democrazia. A suo tempo, l’America seppe andare all’attacco – insieme – ideale e fisico di
quei nemici. Ora occorre fare lo stesso. Primo: usando l’arma più potente di tutte, cioè
i media e l’informazione, mettendo in campo tutto l’arsenale dei media tradizionali e
di quelli social (occorre però la cooperazione dei giganti Google, Facebook, Twitter):
occorre dunque osservare-monitorare-intercettare, ma soprattutto occorre contrattaccare culturalmente, denunciando quelle
ideologie. La confutazione (e magari la ri-
136
Transatlantic Outlook
dicolizzazione) è più efficace di qualunque
censura o atto di repressione. Naturalmente, però, questo significa abbandonare tutto
il devastante retaggio politically correct del
nostro Occidente: quello per cui l’Islam è
“religione di pace”; quello per cui ci sarebbe
qui da noi una sorta di “Islamofobia”; quello per cui tutte le culture e tradizioni sono
equivalenti… Secondo: occorrono le armi
tradizionali, quelle militari, per una vittoria
sul campo che non lasci nemmeno un pezzetto di territorio al nemico. Le due guerre
(la “guerra delle idee” e la “guerra sul campo
di battaglia”) vanno combattute insieme:
sono l’una complementare e funzionale rispetto all’altra. E la sconfitta dei nostri nemici su entrambi i piani farà anche crollare
la loro capacità di proselitismo: perché mai
milioni di giovani arabi dovrebbero aderire
a una causa perdente, a un’ideologia ridicolizzata e medievale, e non cogliere quanto
di meglio (libertà, democrazia, progresso)
possiamo offrire loro?
Questo libro è uno strumento di eccezionale
importanza, di assoluto valore culturale, politico, militare. Si chiude con una nota tanto
lucida quanto realistica. Un piano del genere
richiede leader occidentali convinti, consapevoli della sfida e determinati a battersi per
vincere. Ci sono leadership del genere? Forse
no. È possibile lavorare per costruirle, rafforzarle, incoraggiarle? Certamente sì.
Per gentile concessione
dell’On. Daniele Capezzone.
Tratto dalla sua newsletter “Giuditta’s files”
numero 65, 15 luglio 2016
137
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
L’“ATLANTICO ORIENTALE”
GLI USA NON POTRANNO FARE A
MENO DEL GIGANTE ECONOMICO
EURO-MEDITERRANEO
di Daniele Lazzeri
Un volume di studi
collettaneo, curato da
Eugenia Ferragina per
l’Istituto di Studi sulle
Società del Mediterraneo
“ISSM-CNR”, che raccoglie
l’approfondita analisi di
docenti universitari, esperti
e ricercatori impegnati
nel complesso compito
di illustrare le dinamiche
geopolitiche, economiche e
sociali che si intessono tra
le due sponde del “Mare
Nostrum”.
n secolo fa, il Presidente americano Theodore Roosevelt sostenne di fronte ai giornalisti
che il futuro del pianeta si sarebbe giocato
tra le due sponde dell’Oceano. E quando la
stampa gli fece notare che è sempre stato
così, Roosevelt ribatté divertito: “Sì, ma io
stavo parlando del Pacifico”.
È noto, infatti, che negli ultimi decenni abbiamo assistito al progressivo spostamento delle preoccupazioni geopolitiche americane dall’Oceano Atlantico al Pacifico. Il
confronto-scontro con l’emergente potenza cinese ha rideterminato l’impegno politico, economico e militare di Washington
che, dallo storico intreccio di rapporti con
l’Europa, appare ora più interessato ad incrementare la sua presenza in altre aree
del globo terrestre.
Ed in particolare l’Amministrazione guidata da Barack Obama ha finito per confermare questa tendenza, perseguendo una
U
138
Transatlantic Outlook
politica di progressivo abbandono della
presenza statunitense in Medio Oriente,
con il lancio della sua strategia denominata “Pivot to Asia”.
La sua “unwillingness”, la riluttanza ad
intervenire nei magmatici scenari mediorientali ha finito per consegnare ad altri attori geopolitici – sia globali come la Russia,
sia regionali come Turchia, Arabia Saudita
ed Iran – le chiavi per ridisegnare le mappe
di aree in passato ritenute da Washington
di primaria valenza strategica.
Quale sarà, dunque, il futuro per il Mediterraneo? Quel meraviglioso “Continente
liquido” – per dirla con Fernand Braudel
– appare, infatti, sempre più marginale rispetto agli antichi fasti che lo hanno visto
protagonista nel corso dei secoli. Come abbiamo rilevato, la sua centralità geopolitica sembra appannarsi per finire relegata a
mera “periferia del mondo”. Uno specchio
d’acqua su cui si affacciano Paesi deboli e
rissosi, attraversato dalla disperazione dei
flussi migratori che spingono milioni di
persone verso l’Europa e caratterizzato da
economie dal futuro incerto e poco coordinato.
Una disamina articolata della situazione
attuale e delle prospettive euro-mediterranee, si può trovare nell’edizione 2016 del
“Rapporto sulle economie del Mediterraneo” (Ed. Il Mulino, pp. 266, Euro 22,00).
Un volume di studi collettaneo, curato da
Eugenia Ferragina per l’Istituto di Studi sulle Società del Mediterraneo “ISSMCNR”, che raccoglie l’approfondita analisi
di docenti universitari, esperti e ricercatori
impegnati nel complesso compito di illu-
strare le dinamiche geopolitiche, economiche e sociali che si intessono tra le due
sponde del “Mare Nostrum”.
Nelle pagine del Rapporto vengono evidenziati gli effetti del progressivo disimpegno degli Usa nel Mediterraneo di cui si
è parlato in precedenza. Un cambiamento
strategico dell’Amministrazione Obama,
influenzato anche dalla nuova indipendenza energetica acquisita dagli Usa, che
si è tradotto nel ritiro americano dal Medio Oriente e dal Nord Africa “mettendo
a nudo – scrive nell’introduzione Eugenia
Ferragina – il fatto che dal 1956 gli europei
hanno delegato la politica mediorientale
agli Usa e che oggi di conseguenza gli eu-
139
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
ropei non hanno una politica mediorientale, né riescono concepirla”.
Da qui, l’incontrollabile recrudescenza del
mai sopito scontro tra Sunniti e Sciiti e la
lotta per la leadership regionale tra Arabia
Saudita ed Iran che hanno determinato la
destabilizzazione di Yemen, Libano e Siria.
Il fallimento delle cosiddette “Primavere
arabe” e di quel riformismo islamista in
Nord Africa, inoltre, hanno dato avvio ad
una nuova ondata del radicalismo jihadista, sfociata nei numerosi attentati terro-
Nonostante le numerose
difficoltà da un punto di vista
politico, economico e sociale,
vi sono esempi di successo
tra i Paesi prospicienti il
Mediterraneo. Tra tutti, il
Marocco.
ristici degli ultimi anni. Un quadro a tinte
fosche, inasprito dal dramma del fenomeno migratorio che sta riversando sulle coste europee, nel fianco meridionale della
Turchia e lungo la rotta balcanica, un flusso inarrestabile di persone alla disperata
ricerca di condizioni di vita migliori.
Ciò avviene mentre continua a calare il
peso demografico dell’Unione europea
rispetto al resto del mondo, passato dal
14,5% del 1952 al 7% nel 2010. Contemporaneamente i benefici dei flussi migratori
verso l’Europa in termini di riduzione dei
livelli di disoccupazione nei Paesi di provenienza e di apporto di competenze e
capacità contributiva nei Paesi di destinazione è messo in discussione dall’eccesso
di offerta che preme dalla riva Sud. Le conseguenze e l’impreparazione ad affrontare
queste ondate migratorie sono sotto gli occhi di tutti e, secondo il Rapporto, necessitano di un rinnovato piano di sostegno e di
investimenti internazionali destinati alla
crescita, alla creazione di infrastrutture e
di formazione del “capitale umano” nei Paesi di partenza.
Ciò è tanto più vero per gli Stati “Mena”
(Middle East and North Africa) che appaiono ben integrati nelle reti di produzione
globale ma ancora bloccati in stadi a basso
valore aggiunto.
Tuttavia, nonostante le numerose difficoltà da un punto di vista politico, economico
e sociale, vi sono esempi di successo tra i
Paesi prospicienti il Mediterraneo. Tra tutti “il Marocco che – grazie alla prolungata stabilità politica – punta a diventare il
principale hub produttivo del continente
africano ed in particolare al ruolo del porto
di Tanger Med, uno dei principali del Mediterraneo per movimentazione container
e transito di mezzi navali grazie alla sua
posizione strategica sullo Stretto di Gibilterra, alle caratteristiche del porto e alla
presenza di grandi società del settore shipping come la Maersk e di aziende leader nel
comparto automotive, come la Renault”.
La chiave del successo di Rabat è certamente da individuare nell’assenza di dazi
doganali, in una politica di sgravi ed agevolazioni fiscali e di semplificazione delle
procedure amministrative in grado di attirare gli investimenti stranieri. Ma anche
140
Transatlantic Outlook
grazie all’efficienza della rete di trasporti
stradali, ferroviari ed aeroportuali in grado
di realizzare quel “moltiplicatore delle opportunità” che ha consentito di coniugare
una posizione geografica favorevole con
un’efficienza logistica e portuale.
Ma nel Rapporto, ampio spazio è dedicato anche all’importanza del settore della
“green economy” per lo sviluppo economico e la mitigazione degli effetti del cambiamento climatico nei Paesi mediterranei
nonché ai quei cruciali fattori di competitività rappresentati dalla reti di trasporto,
logistica e dalle zone franche per tutti gli
Stati della sponda Sud del Mediterraneo.
Tutti segnali di un’economia ancora vitale e potenzialmente in grado di reggere il
confronto con le altre economie globali.
Un’area certamente complessa e con ampi
margini di miglioramento ma per nulla
marginale, come dimostrato diffusamente
dal contributo analitico degli Autori.
L’annuale “Rapporto sulle economie del
Mediterraneo” è dunque un prezioso strumento per approfondire le tematiche che
vedono coinvolti tutti i Paesi bagnati da
quel mare che continua a raccontarci le
storie del passato e che inizia già a sussurrare le trame future delle Civiltà che vi si
affacciano.
Daniele Lazzeri
Direttore responsabile “Il Nodo di Gordio”
141
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
LEGGERE FRIEDMAN NEL 2016:
CAPITALISMO, LIBERTÀ E LA SFIDA
DELLA CINA
di Amanda Schnetzer
essanta anni fa, il Premio Nobel
per l’economia Milton Friedman
tenne una serie di lezioni al Wabash College in Indiana, fonte ispiratrice
di uno dei lavori più famosi della sua opera: Capitalism and Freedom (Capitalismo e
Libertà). In questo volume, breve ma autorevole, Friedman enunciava principi di
governo limitato e potere decentrato, presenti nella Costituzione americana, essenziali per preservare la libertà. Inoltre, egli
sottolineava che se “la libertà economica
costituisce…uno strumento indispensabile per raggiungere la libertà politica”, la
libertà politica non è essenziale per il raggiungimento della libertà economica.
L’ascesa della Cina a potenza economica
nel 21° secolo mi ha fatto riflettere a lungo sulla conclusione di Friedman, secondo
cui un paese potrebbe essere allo stesso
tempo capitalista e indemocratico. Hanno
dunque ragione gli studiosi nell’avvertire
S
Gli studiosi avvertono
che il modello cinese di
capitalismo autoritario
potrebbe prevalere sul
capitalismo democratico.
Ma il modello economico
cinese è sostenibile?
Potrebbe davvero portare ad
un declino della democrazia
in un futuro non troppo
remoto?
142
Transatlantic Outlook
che il modello di “capitalismo autoritario”
del Partito Comunista possa trionfare sul
capitalismo democratico? O, piuttosto, si
può individuare qualcosa di insostenibile
nel modello cinese e, pertanto, ancora sperare che miliardi di persone nei paesi in via
di sviluppo possano sperimentare ciò che
Friedman definiva “assenza di coercizione”
nella vita politica ed economica?
Nel volume Capitalismo e Libertà, Friedman
scrive:
“L’Italia fascista e la Spagna fascista, la
Germania in diversi momenti…..il Giappone prima della I Guerra Mondiale – sono
tutte società che non possono verosimilmente essere descritte come politicamente libere. Pur tuttavia, in ciascuna di esse,
l’impresa privata era la forma dominante
di organizzazione economica. E’ dunque
possibile avere un’organizzazione economica capitalista e un sistema politica non
libero”.
COSA DICONO GLI STUDIOSI
Un numero sempre più nutrito di studiosi sta cercando di far luce sull’impatto di
tale organizzazione sulla Cina odierna. Ad
esempio, in un articolo pubblicato nel 2013
su The Atlantic, (http://www.theatlantic.
com/china/archive/2013/03/why-the-chinamodel-isnt-going-away/274237/), il giornalista Joshua Kurlantzik offre una delle
migliori descrizioni che abbia mai letto del
modello cinese di “capitalismo autoritario”
e del perché gli Stati Uniti dovrebbero preoccuparsi.
La forma ibrida del capitalismo cinese ha
prodotto una forte crescita economica e
liberato dalla povertà milioni di persone
pur mantenendo un forte controllo governativo. Ha anche conquistato sostenitori
dal Vietnam alla Russia facendo del modello Cina, scrive Kurlantzik, una “valida
alternativa alle democrazie di punta”. E ciò
143
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
costituisce, secondo lo stesso autore, “la
minaccia più seria nei confronti del capitalismo sin dall’ascesa del comunismo e del
fascismo”.
Un collaboratore della rivista Forbes va ben
oltre:” Temo che la Cina possa un giorno,
diciamo nell’arco dei prossimi 50 anni,
soppiantare gli Stati Uniti e soffocare la democrazia su scala mondiale”. (http://www.
forbes.com/sites/anderscorr/2016/03/16/
the-tipping-point-of-chinas-authoritariancapitalism/#357e9a874c60). “E’ più probabile tra 20 anni” è stata la replica di un excapo di stato.
Gli studiosi potrebbero sempre più pensare
che i giorni del capitalismo democratico siano contati. Credo, invece, che ci siano ancora spazio ed opportunità per il contrario,
anche in Cina.
In primo luogo, la Cina potrebbe avere
un sistema autoritario a regola d’arte ma
è ben lungi dall’essere capitalista. Infatti,
l’uso del termine “capitalista”, autoritario
o altro, maschera la limitata liberalizzazione dell’economia cinese.
Nei vent’anni in cui il Wall Street Journal e
la Heritage Foundation hanno pubblicato il
loro indice annuo di libertà economica, la
Cina è stata costantemente annoverata tra
i paesi “generalmente meno liberi”.
Il suo punteggio complessivo di libertà economica
(http://www.heritage.org/index/
country/china) nel 2016 è pari a 52 su 100lo stesso del 1995, anno di esordio dello
studio. Su 178 nazioni, la Cina è solo al
144° posto. Delle 10 libertà economiche
tracciate dallo studio, solo gli indici relativi alle libertà di commercio, libertà mone-
taria e assenza di corruzione sono migliorati nello stesso periodo.
Tutto il resto è peggiorato a diversi livelli
tra cui gli indici relativi ai diritti di proprietà privata, alla libera circolazione di capitale finanziario, e alla libertà dal controllo
governativo nel settore finanziario.
PUÒ DURARE IL MODELLO CINA?
Non c’è nulla di incongruente nella comprensione da parte nostra del modello
Cina: maggiore apertura al commercio insieme a un pesante controllo governativo e
interventi nei settori chiave. Il vero problema è se tutto ciò può perdurare. (http://www.
economist.com/blogs/freeexchange/2016/07/
taking-china-s-temperature).
Nel breve termine, la Cina ha dato priorità
a progetti statali per spronare un’economia stagnante e raggiungere gli obiettivi
di crescita del Presidente XiJinping. A lungo termine, anche alcuni dei leader cinesi
riconoscono la necessità di una maggiore
liberalizzazione per sostenere la crescita
economica. Se fosse così, anche la liberalizzazione politica potrebbe avere una
chance.
In secondo luogo, il successo economico
cinese non ha completamente schiacciato
il desiderio, del popolo cinese, di maggiore libertà. Si prenda in considerazione la
crescente classe media, pari all’11% della
popolazione. Secondo Minxin Pei del Claremont McKenna College, la Cina “non è di
fronte ad un’imminente rivolta della classe
media…(ma) i segnali sono evidenti”.
Nel frattempo, sottolinea Pei, la classe
144
Transatlantic Outlook
media cinese resta in gran parte “politicamente passiva”. Ma nei prossimi dieci anni
o giù di lì, egli sostiene, “cresceranno ulteriormente i livelli di reddito e di istruzione e di conseguenza dovrebbero crescere
le dimensioni della classe media. In altre
parole, nel prossimo decennio, la trasformazione sociale della Cina renderà la sua
società più intollerante nei confronti di un
regime monopartitico”.
Del resto, si registrano già proteste su
aspetti legati al diritto al lavoro e alla terra soprattutto e in maniera crescente nelle
aree urbane del paese dove si concentra
maggiormente la classe media. E’ sempre
più netta la consapevolezza che la Cina
non può diventare uno stato moderno con
un governo monopartitico.
In terzo luogo, gli Stati Uniti possono o accettare il dominio del modello Cina come
inevitabile o invece fare qualcosa. La leadership americana ha un ruolo da svolgere
nel riaffermare i principi di libertà economica e politica e nel rafforzare le istituzioni e le alleanze che li riflettono su scala
mondiale. La leadership statunitense ha
anche il compito di sorvegliare i miglioramenti che alcuni paesi devono compiere in
tema di stato di diritto, diritti umani, partecipazione politica in cambio di relazioni
economiche più solide.
Le recenti aperture all’Iran e a Cuba rivelano alcune lacune. Né tanto meno la
retorica anti-scambi commerciali e protezionistica di entrambi i candidati alle presidenziali americane lascia presagire nulla
di positivo per il modello capitalista democratico. Pur tuttavia, gli Stati Uniti devono
far pressione per garantire libertà economica e politica.
In una video-intervista del 2003 (http://www.
youtube.com/watch) il compianto Milton
Friedman esprimeva la sua previsione: “La
Cina abbraccerà sempre più la libertà politica se continuerà a perseguire con successo la strada della libertà economica”. Per il
momento, tutto sembra remare contro ma
è ancora troppo presto per arrendersi.
Amanda Schnetzer
Director of Global Initiatives at the George W. Bush
Institute in Dallas, Texas. In this role, she is responsible for developing innovative research, programmatic,
and policy efforts to advance societies rooted in political and economic freedom and to empower women
to lead in their communities and countries.
Titolo originale “Reading Friedman in 2016: Capitalism, Freedom, and the China Challenge”
© The Catalyst – Il Nodo di Gordio, Gennaio-Aprile 2017
Si ringrazia per la gentile concessione William
McKenzie, Direttore della rivista “The Catalyst”
del G.W. Bush Institut
Tradotto da: Elvira Lapedota
CIHEAM Bari
145
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
ORIZZONTI
DAL CREMLINO
In questa sezione:
148 IL RUOLO STRATEGICO
DI MOSCA NEL NUOVO
SCACCHIERE MONDIALE
di Franco Cardini
160 NEL MONASTERO ALTRUI NON SI VA CON IL PROPRIO STATUTO
di Irina Osipova
146
Orizzonti dal Cremlino
Mosca, nonostante la fragilità della sua
economia, è tornata di prepotenza al
tavolo dei Grandi. Ed esercita sempre
più un’influenza globale
147
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
IL RUOLO STRATEGICO
DI MOSCA NEL NUOVO
SCACCHIERE MONDIALE
di Franco Cardini
Putin appare, ormai, ai suoi
estimatori come l’unico
leader capace di opporsi allo
strapotere delle grandi lobby
finanziarie mondialiste
er i suoi irriducibili avversari,
che lo temono e lo detestano, è
“Zar Putin”: una denominazione originariamente denigratoria e demonizzante che molto probabilmente non gli
dispiace affatto; per i suoi più decisi estimatori, quelli secondo i quali egli rimane
tutto sommato quello che tra tutti i leaders
al mondo più da vicino somiglia a quel che
classicamente si sarebbe fino a poco tempo
fa definito uno “statista” e l’unico a poter
in un modo o nell’altro catalizzare e magari almeno in parte indirizzare le forze
di quanti si oppongono sia all’egemonia
definitiva delle lobbies multinazionali sul
pianeta sia all’indolenza senza prospettive di chi si arrende all’ “Occidente-Mondo”
dell’inarrestabile(?) ruota produzione/profitto (del quale gode un numero sempre più
ristretto di soggetti)/consumo (il McWorld),
egli è ormai “San Vladimiro da Mosca”, colui che non solo ha contribuito in maniera
P
148
Orizzonti dal Cremlino
decisiva al fallimento del progetto monoegemonico messo a punto dai neocons
americani tra la fine del secolo scorso e
l’inizio di questo, ma che costituisce anche il principale, valido ostacolo a una ridefinizione del Vicino e Medio Oriente che
ne accresca il potenziale destabilizzatore
sostituendo all’equilibrio sostanzialmente
stabilito nel 1920 a Sanremo dal “memorandum segreto d’intesa” francobritannico
sullo sfruttamento delle risorse petrolifere
del Vicino Oriente postottomano un nuovo
sistema ancor più pericoloso, fondato sulla
scomposizione-ricomposizione territoriale etnoreligiosa.
Di Putin si ricorda ancora – ed è bene non
dimenticarlo – la responsabilità nel massacro dei ceceni di Grozny; ma si è scordata
invece l’immagine abbastanza caricaturale dei bei tempi del governo Berlusconi,
quando le foto di entrambi – forniti di cappottone di pelliccia e di alto colbacco nella
dacia di campagna di Vladimir – ispiravano
a un bello spirito della RAI il confronto con
l’irresistibile sequenza di Totò, Peppino e la
Malafemmina nella quale due benestanti
cafoni della Campania profonda sbarcano,
con analogo abbigliamento, nella stazione
di quella Milano che nel loro immaginario
è la gelida Ultima Thule; e abbiamo messo da parte anche l’immagine vagamente
boccacciana del “lettone di Putin” caro alle
vere o supposte prodezze sessuali del Cavaliere di Arcore.
Ormai, Putin è in realtà l’immagine – discussa e magari “demonizzata” finché si
vuole – di una nuova Russia che, se la signora Clinton avesse vinto le elezioni
statunitensi del dicembre scorso, sarebbe
stata la potenza egemonica da battere nel
clima di una “nuova guerra fredda” paragonabile a quella degli Anni CinquantaOttanta del secolo scorso; mentre, con
Trump, si presenta – quanto meno nelle
149
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
conclamate e non ancor chiare intenzioni
del nuovo inquilino della Casa Bianca -, se
non propriamente come un alleato, quanto meno come il possibile partner privilegiato di una ridefinizione dell’equilibrio
del pianeta che dia nuovo spazio alla politica al di là dell’in apparenza “naturale”,
“obiettiva” e “inarrestabile” dinamica del
turbocapitalismo economico-finanziario1
ora che – dopo la “conferenza di Davos” –
quella sessantina di gruppi e di lobbies che
sembrano essere i veri padroni del mondo
si sono visti costretti ad uscire almeno in
parte allo scoperto.
Nel corso delle ultime battute della campagna elettorale statunitense, mentre al
signora Clinton si era trincerata, quanto
alla futura politica estera del suo paese,
dietro il consueto, per i democratici americani indiscutibile e incrollabile, dogma
dell’incondizionato appoggio a Israele e
della linea duramente antirussa e antiraniana al tempo stesso, Obama si era allontanato dalla candidata del suo partito
– che notoriamente detesta, ma rispetto
alla quale ostentava un appoggio comunque incondizionato – consentendo agli
USA addirittura un voto neutrale riguardo
all’ultima dichiarazione della maggioranza
ONU a proposito d’Israele e Palestina e favorendo un almeno parziale atteggiamento di distensione nei confronti dell’Iran nel
momento nel quale però induriva le sue
posizioni (in evidente esplicito contrasto
rispetto alle dichiarate intenzioni “filorusse” di Trump) proprio contro la Russia. In
procinto di abbandonare la Casa Bianca,
il “presidente uscente” ha assestato formalmente indirizzandolo a Putin, in pratica con al trasparente volontà di colpire
colui che stava in procinto di sostiiuirlo
nello Studio Ovale, un potente “colpo di
coda”: l’annunzio di nuove sanzioni alla
Russia per i supposti attacchi degli hacker
di quel paese durante le elezioni e l’ordine
di espulsione di 35 diplomatici russidefiniti “persone non grate”. Inoltre Obama ha
dato istruzioni al Dipartimento di Stato di
chiudere due compounds, ripettivamente
in Maryland e a New York “che sono usati
da personale russo per attività collegate a
operazioni d’ intelligence”.
Non si è fatta attendere la risposta da parte
del Cremlino. Promettendo di ribattere anche in futuro, colpo per colpo, a qualunque
“atto ostile”, Mosca ha già adottato una
prima contromisura concreta ordinando
per ritorsione la chiusura della la scuola
anglo-americana di Mosca frequentata dai
figli del personale delle ambasciate Usa,
britannica e canadese, ma anche da ragazzi
di altre nazionalità; intanto è stato chiuso
anche l’accesso alla residenza di vacanza
dell’ambasciata USA a Serebryany Bor, vicino a Mosca.
Sembrerebbe una guerra di dispetti. Forse
c’è qualcosa di più. Vale la pena di leggere per intero il testo di un’intervista concessa appunto alla fine dell’anno scorso a
IntelligoNews da un giornalista, scrittore e
commentatore politico, Giulietto Chiesa,
del quale si può anche dire tutto il male
1. Per gli obiettivi del quale, e la loro pericolosità, rimandiamo a O. Roy, Dismisura, Napoli, Controcorrente, 2016, e a NPolony – Le Comité Orwell, Bienvebue dans le pire des mondes, Paris, Polon, 2016.
150
Orizzonti dal Cremlino
-Perché?
-Perché la Russia non fa altro che ribadire
la propria sovranità rispetto ad azioni che
sono palesemente ostili da parte degli Stati
Uniti.
che si vuole ma che è un grande conoscitore e un’indiscussa autorità a proposito del
mondo russo.
“ -Come definisce l’espulsione di Obama, una vendetta?
-Non è una vendetta soltanto, ma un’operazione politica che tende a usare, a mio
avviso molto scorrettamente, gli ultimi
giorni di una presidenza per predeterminare la situazione in cui dovrà agire il presidente eletto. Per correttezza colui che se
ne sta andando non dovrebbe prendere decisioni di grande portata, perché altrimenti
condiziona il successore. Questa è una decisione che sta cercando di condizionare
l’unica scelta che Trump ha mostrato fino
ad ora con chiarezza, cioè la volontà di migliorare i rapporti con la Russia di Putin. -Quindi cosa farà Putin?
-Non credo che faccia niente, aspetterà.
Probabilmente una parte dei funzionari
americani a Mosca saranno espulsi, come
misura di normale ritorsione diplomatica.
Ma più in là non si andrà”. -Quali sono gli effetti per Trump? Obama lo sta mettendo in difficoltà, oppure
Trump dal 20 gennaio volterà semplicemente pagina?
-La situazione è difficile da capire perché
tutto questo che si manifesta come uno
scontro tra Obama e Putin in realtà è uno
scontro tra Obama e Trump. O meglio, tra
i democratici e Trump. Quindi uno scontro
interno agli Stati Uniti. Per questa ragione
io ritengo che Putin non farà nulla, il primo
a sapere che la battaglia è interna agli Stati
Uniti è Putin. Salvo che ovviamente non si
debba difendere.
-Putin ha risposto chiudendo una scuola anglo-americana. Finirà qui o ci saranno altre ritorsioni?
-La situazione è molto grave, non è affatto
uno scambio di sgarbi. Grave perché asimmetrica: nessun ambasciatore americano è
stato ucciso in un luogo pubblico, nessun
aereo americano è stato abbattuto mentre
si alza in volo da un aeroporto americano,
mentre dall’altro lato si chiude una scuola.2
Mi pare che sia non simmetrica la situazione. Si tratta di vere e proprie dichiarazioni
preventive di una guerra ibrida che è già
in corso e che proviene evidentemente da
parte americana”.
-Assad intanto chiede all’Europa di
“togliere l’embargo” perché così “aiuta i terroristi”. Dietro queste scelte di
Obama c’è il timore verso l’asse PutinErdogan-Assad che potrebbe iniziare
a piacere all’Europa? C’è il rischio che
l’Europa si sposti più verso la Russia?
2. Si allude evidentemente all’uccisione dell’ambasciatore russo a Istanbul e al disastro dell’aeroporto di Soci che ha causato la morte die componenti del coro dell’Armata Rossa, amato e popolarissimo in tutta la Russia.
151
-Obama sta cercando di forzare la situazione per forzare gli europei. Questo scontro
interno agli Stati Uniti si riproduce evidentemente anche in Europa. Le elite europee,
che si sono schierate sempre senza alzare un sopracciglio sulla linea americana,
adesso si trovano spiazzate da molti fattori. Dalla debolezza americana alla sconfitta
statunitense in Siria, nonché dalla nuova
alleanza Mosca-Ankara-Teheran. L’America della Clinton e di Obama vuol far sapere
all’Europa che non ci saranno modificazioni di comportamento. Bisognerà vedere se
le attuali leaderships europee staranno sulla linea precedente o cercheranno di adeguarsi, lo scopo dell’operazione Obama è
esattamente questo”.
Ora, il discorso è evidentemente cambiato.
Gli osservatori si stanno chiedendo come
Trump svolgerà il difficilissimo, quasi paradossale còmpito che si è autoassegnato:
mantenere infrangibile alleanza con Isra152
ele, ma al tempo stesso procedere insieme
con Putin verso une generale ridefinizione
delle alleanza planetarie che cominci con
una comune intesa sulla Siria e sulla liquidazione di Daesh, metter da canto o in
qualche modo modificare comunque ruolo
e assetto della NATO, rispettare le promesse di rigorosa ostilità nei confronti dell’Iran che sono il patrimonio dell’old great
party repubblicano fino dal ‘79 e dai tempi
di Reagan.
Ma sul gioco di Trump si parla in altra sede.
E quello di Putin?
Noialtri “occidentali” siamo vissuti circa
sette decenni nella beata illusione che fosse un ricordo del passato, qualcosa di diventato ormai impossibile: almeno da noi.
Roba che ormai succedeva anche altrove
e agli altri. Forse avremmo dovuto ricrederci da tempo: e forse, del resto, magari
avevamo già mangiato la foglia almeno dal
tempo del Vietnam eppure non volevamo
Orizzonti dal Cremlino
ammetterlo. Certo, pian piano, il suono dei
tamburi lontani si è andato sempre più avvicinando all’Aiuola Felice dell’Occidente:
il Vicino Oriente, l’Africa, l’Iran, l’America
latina, i Balcani.
Ora ci siamo. Non alla guerra, o comunque
non è detto. Ma alla sensazione che qualcosa è cambiato, che l’incanto è rotto, che
siamo quasi in prima linea o che comunque
ne abbiamo il sospetto, la paura, la rassegnata certezza, magari perfino l’incosciente curiosità. Le guerre del presente sarenno
anche a “bassa intensità”, come si è detto
con un’espressione che ha avuto molta fortuna. Ma alle genti del Vicino e del Medio
Oriente questa intensità che dura ormai da
troppi anni sembra altissima: e non hanno
senza dubbio torto. In questa sede, è opportuno dimenticare che la lunga fase dei
bombardamenti, delle “operazioni di polizia umanitaria”, delle campagne di “esportazione della democrazia” è cominciata
ormai quasi quarant’anni or sono, con l’arrivo in Afghanistan dei guerrieri-missionari sauditi e yemeniti sunniti per concorrere
alla cacciata dell’Armata Rossa e alla fine
del regime socialista ivi insediato: quindi
con l’inoculamento nell’area mediorientale del virus fondamentalista sunnita dal
quale sono scaturiti al-Qaeda prima, il Daesh poi. Il jihadismo si è rivelato, fino dalle
sue prime battute, obiettivamente alleato
anziché avversario dell’occidente egemonizzato dagli Stati Uniti.
Se a uno storico del futuro, un anno qualunque del futuro, un “Anno X” (ammesso
che in quell’anno ci saranno ancora degli
storici), qualcuno facesse un quadro come
quello del 2017 - lo sconvolgimento dell’area siro-irakena, la corsa al nucleare di paesi come la Corea del Nord e il Pakistan, il
persistere delle crisi ucraina e caucasica, le
conseguenze del tentato golpe turco, la crisi del neonato accordo tra paesi occidentali
e Teheran voluto da Obama ed evidentemente avversato da Trump, il caos africano
fonte inesauribile della nuova Völkerwanderung che giustamente preoccupa l’Europa ma alla quale non si sa porre rimedio in
quanto non se ne conosce (o non se ne vuol
riconoscere) la vera causa, infine la paurosa sperequazione socioeconomica che vige
nel pianeta - e gli chiedesse quanto manca
allo scoppio della nuova guerra mondiale ,
quello risponderebbe forse qualche giorno,
forse qualche settimana o mese.
Ma forse ha ragione il papa : la guerra
(“terza” o “quarta” che sia) è già cominciata, solo che nulla è accaduto come il 3
settembre del ‘39, quando i governi di Sua
Maestà Britannica e della Repubblica francese consegnarono il loro ultimatum al governo del Reich.
In parallelo alla polveriera del Vicino
Oriente, di cui in questi giorni soprattutto
si parla, non dimentichiamo che il periodo
a cavallo tra 2014 e 2015 è stato caratterizzato dal conflitto in Ucraina; in apparenza remoto, in realtà irrisolto e legato a ciò
che sta avvenendo oggi. Nei colloqui svolti all’inizio del 2016 tra i premiers russo,
ucraino, tedesco e francese per risolvere la
crisi ucraina, c’erano una Grande Assente
e un Convitato di Pietra: un’assenza e una
presenza entrambe inquietanti.
La Grande Assente era l’Europa, che avreb-
153
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
be dovuto essere la principale se non unica
mediatrice tra Ucraina e di Russia. Il presidente francese e la Frau Kanzler Merkel,
rappresentanti di un’Europa “carolingia” e
atlantista (e così arriviamo al Convitato di
Pietra) non erano obiettivamente rappresentare da soli l’Unione Europea, la quale
purtroppo non dispone ancora (se mai ne
disporrà) di alcuna voce diplomatica, semplicemente perché l’Europa politicamente
unita e indipendente purtroppo non esiste.3 La crisi ucraina riguarda viceversa in
primissima istanza proprio l’Europa nonché quella che dovrebb’essere la sua vicina,
confinante e anche alleata o quantomeno
buona interlocutrice e partner tanto politica quanto economica e commerciale,
la Russia. Ma perché l’Europa si è lasciata trascinare su una via pregiudizialmente
ostile nei confronti della Russia, perché si
è lasciata imporre addirittura un embargo
deleterio soprattutto e anzitutto per l’economia italiana?
E qui entra in scena il Convitato di Pietra:
l’ambigua presidenza di allora degli Stati
Uniti d’America, che di tanto in tanto si
dimenticava di essersi tirata in disparte rispetto al ruolo di superpotenza egemonica
mondiale e di tanto in tanto si dimenticava di essersene dimenticata: e prometteva
armi all’Ucraina (il che oltretutto aveva
l’aria di un buon business: e Obama aveva promesso al suo popolo, in vista delle
elezioni, di tirarlo fuori dalla crisi…) rischiando di trasformare la crisi ucrainorussa, che si avrebbe avuto bene il motivo
di ritenere almeno in parte intraeuropea,
in una crisi russo-”occidentale” (cioè statunitense) trascinando ovviamente in essa
un’Europa investita non già del ruolo storico e geopolitico indipendente e sovrano
che sarebbe stato bene le spettasse, bensì
in quello di gregaria degli USA.
E qui il Convitato di Pietra si sdoppiava:
il suo alter ego e la sua longa manus erano
ovviamente la NATO, organizzazione in
cui entrano ancora automaticamente tutti
i nuovi partners dell’Unione Europea e che
dipende essenzialmente dal Pentagono.
Era (e resta?) la NATO, quindi il Pentagono, quindi gli USA, ad aver interesse a piazzare i suoi centri tattico-strategici il più
vicino possibile alla frontiera russa: era il
copione della Georgia nel 2008 che a nord
del Mar Nero si stava ripetendo, mutatis
mutandis, quasi alla lettera. L’Europa veniva da tutto ciò ancora una volta emarginata, ancora una volta ridotta a non-potenza
gregaria, a coacervo di stati non sovrani.
Ma oggi, nella distanza della “media durata”, va riconosciuto che a un quarto di
secolo dal disfacimento dell’Unione Sovietica, la Russia ha ripreso a esercitare
un suo saldo peso sulla scena internazionale. Pressoché assente durante la guerra
in Iraq, ben diverso è apparso il suo ruolo
nella crisi siriana, partita pressoché in concomitanza con quella ucraina: un ruolo che
si espresso addirittura nell’impianto di una
forza marinara militare non indifferente, e
che ha tutta l’aria di non essere effimera,
lungo la costa sirolibanese .
3. Ha molte ragioni G. Dussouy, Fondare lo Stato europeo. Contro l’Europa di Bruxelles, tr.it., Napoli, Controcorrente, 2016.
154
Orizzonti dal Cremlino
Indubbiamente, Vladimir Putin è non
solo il simbolo, ma anche il leader concreto ed effettivo di questa ripresa, che non
ha mancato di attirargli strali mediatici e politici. Per esempio, quando mesi fa
un charter russo con 224 persone, tra cui
27 bambini, cadde in Egitto e il Daesh ne
rivendicò l’abbattimento, “Charlie Hebdo” raggiunse il punto più basso del suo
già squallido profilo morale pubblicando
l’immagine di un missile-supposta che penetrava l’aereo dal retro, scherzando sul
nuovo tipo di bombardamento russo (i detriti) che pioveva sulla testa dei miliziani
jihadisti (e la Russia era la sola, insieme
con le forza lealiste siriane, i curdi e alcuni
pasdaran iranaini, a opporsi sul serio alle
forze di al-Baghdadi laddove la “grande
coalizione” che si pretendeva guidata dagli USA latitava arando con le sue bombe il
deserto e ammazzando innocenti).
In tutt’altro scenario, la legge votata dalla Duma e firmata da Putin nel 2013, che
proibiva la propaganda tesa a contraddire
i valori della famiglia tradizionale (di fatto,
impediva solo la propaganda delle unioni
gay e le manifestazioni come il gay pride; i
rapporti omosessuali non sono invece perseguiti), veniva tresentata in modo stravolto e pesantemente contestata in Occidente. L’allora primo ministro italiano Gianni
Letta si disse seriamente preoccupato per
la questione e affermò che l’avrebbe fatto
presente alle Olimpiadi invernali di Sochi, in Russia; peccato che, quando proferì
tale affermazione, stesse rientrando da un
viaggio ufficiale in Qatar, dove l’omosessualità è proibita con pene che arrivano
155
alla condanna capitale. Esgli si comportò
comunque sempre meglio di Obama, Merkel, Cameron, Hollande: che addirittura
disertarono l’apertura dei giochi per l’identica ragioni, ma che non avevano mai
manifestato problemi nel recarsi in Arabia
Saudita, in Qatar, nel Kuwait e negli Emirati pur ben sapendo che in quegli stati
l’omosessualità è condannata con estrema
durezza. Ma si trattava, è ovvio, di “amici”
e “alleati”.
Beninteso: siamo qui di fronte a segnali
Nella Siria assadista l’URSS
aveva un sicuro partner; la
rinnovata alleanza, sostenuta
da ragioni geopolitiche, si è
fatta sentire anche con Putin
poco più che simbolici; eppure essi sono
significativi dell’atmosfera di disagio, di
sospetto e di dispetto che circonda questo
ritorno della Russia sulla scena politica.
Ancora più gravi il caso siriano e l’assetto
della questione missilistica nel suo insieme . Nella Siria assadista, l’Unione Sovietica aveva un sicuro partner: la rinnovata
partnership, sostenuta da evidenti motivi di
carattere geopolitico, si è fatta sentire anche con Putin, come si vide dall’intervista
concessa - provocando ovviamente grande
rumore - dal leader russo a Paolo Valentino
e pubblicata su “Il Corriere della Sera” del 6
giugno 2015. Al di là delle domande e delle
risposte, serrate entrambe, colpirono nel
quotidiano milanese la contraddittorietà
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
e la sottintesa slealtà del rapporto tra un
titolo che poteva sembrare conciliante ma
suonava come excusatio non petita (Putin:
“Non sono aggressore: patto con l’Europa e
parità con gli USA”) e un sottotitolo, a titolo di smentita, pretendeva viceversa di
smascherare nella linea putiniana una pericolosa e unilaterale volontà aggressiva (Il
presidente russo al Corriere: “Svilupperemo
il nostro potenziale aggressivo e penseremo
a sistemi in grado di superare la difesa antimissilistica degli USA”). Dal momento che
troppi lettori non vanno oltre i titoli e i
sottotitoli, l’ inganno era chiaro: rispetto
alle parole di Putin la sostanza del problema veniva ribaltata e la denunzia dello
scudo spaziale statunitense – pensato per
impedire che un eventuale obiettivo dei
missili USA potesse rispondere al fuoco, e
quindi squisitamente offensivo – era stravolta in una dichiarazione intenzionalmente aggressiva. L’inversione degli aggettivi
– il potenziale difensivo russo ribattezzzato
“aggressivo”, il sistema aggressivo statunitense ridefinito “difesa antimissilistica”
- lasciava, nel suo cinismo lessicale specchio di ben altro cinismo, senza parole. La
denunzia del premier russo, che sapeva bene
di trovarsi sotto tiro – e dalla Georgia all’Ucraina gli USA e la NATO non facevano che
puntare sulla Russia nuove armi offensive –
veniva rovesciata in un ordine di discorso
contrario, che faceva dei possibili aggressori
dei probabili aggrediti e viceversa. Ma il punto non è ancora questo. Il problema vero è che almeno finora – Trump
cambierà qualcosa, nel quadro dell’annunziato suo “nuovo corso” dei rapporti russo156
statunitensi? - ormai da parecchi anni la
presidenza degli Stati Uniti e il Pentagono
sembrano aver di nuovo orientato il loro
dispositivo tattico-strategico sulla Russia e
su tutti i suoi effettivi o probabili partners,
com’era accaduto fra gli Anni Cinquanta e
gli Anni Ottanta. Eravamo abituati a quello
che pur era apparso un abuso: lo stravolgimento degli originari còmpiti della NATO
da alleanza in prospettiva antisovietica a
strumento aggressivo e deterrente nei confronti di almeno una parte del mondo arabo-islamico, senza che gli “alleati” europei
venissero messi a parte del mutamento
tattico-strategico e obbligandoli anzi ad
accettare un fatto compiuto.
Ma le cose sono poi cambiate di nuovo. Tra
2008 e 2014 l’Occidente – e in ciò come in
altre cose l’Unione Europea ha regolarmente spalleggiato gli statunitensi, andando
spesso anche contro i suoi interessi economici e commerciali – ha successivamente
provocato in Georgia prima, in Ucraina poi,
colpi di mano antirussi più o meno abilmente truccati da sollevazioni “popolari”
che avevano come scopo il “rovesciamento
delle alleanze”, il passaggio di quei paesi
dall’amicizia con la Russia al legame con la
NATO e l’avvicinamento di basi fornite anche di testate nucleari al confine russo. Era
ovvio che Putin rispondesse come poteva:
le secessioni dell’Ossezia meridionale dalla Georgia e della Crimea dall’Ucraina sono
state la conseguenza di quelle aggressioni.
In seguito, mentre la politica statunitense
si faceva meno chiara a causa dei dissensi
fra il presidente Obama e il congresso egemonizzato dalla destra repubblicana, era la
Orizzonti dal Cremlino
volta della leadership francese e inglese a
indirizzare nella sostanza la NATO ancora
una volta indirettamente contro la Russia,
fomentando in Siria la rivolta contro Assad.
Da molte parti si stava ormai parlando di
una nuova “guerra fredda”: e sembrava
che se ne vogliano ricostituire gli schieramenti, con il vantaggio da parte dell’Occidente di aver attirato dalla sua una parte
dei paesi europei ex-membri del Patto di
Varsavia, spesso sfruttando cinicamente il
rancore diffuso nei confronti della vecchia
egemonia sovietica. I governi europei, con
una scelta arbitraria che non teneva in alcun conto la volontà dei popoli interessati
(basti pensare all’intollerabile imposizione
di una base NATO a Vicenza, quella della
Dal Molin, contro l’esplicito parere della
stragrande maggioranza della popolazione), ottemperarono allora al diktat statunitense in forza del quale i nuovi membri
dell’Unione Europea divenivano automaticamente anche membri della NATO: e ciò
senza alcuna verifica a proposito dei nuovi
còmpiti che quell’alleanza politico-militare si sarebbe posta, ora che quelli che potevano giustificarla erano stati già da tempo
stravolti
Ma quanto meditate, quanto ragionevoli erano le nuove scelte? Quanto lo sono
adesso? Il mondo dalla fine della “guerra
fredda” e anche dai tempi in cui gli USA si
atteggiavano, con il presidente Bush jr., a
unica superpotenza, sono definitivamente
tramontati. Ora, in un clima di peraltro incerto e confuso multilateralismo, si è evidentemente dinanzi a nuove frontiere e a
nuovi impegni: dall’ascesa della Cina che
157
sta progressivamente mangiandosi l’Africa
alla minaccia di un nuovo e più aggressivo
fondamentalismo musulmano ch’è stato
causa non ultima del sia pur cauto “disgelo” nei rapporti tra la Washington di Obama e Teheran, in seguito a una politica
distensive nella quale la Russia di Putin
aveva fatto lealmente la sua parte.
E allora, chi volvae ricreare una nuova, arbitraria “cortina di ferro”? L’atteggiamento
russo nei confronti dell’Europa ha seguito
fino dai tempi di Gorbaciov una politica
improntata a obiettiva chiarezza: ne sono
stati conseguenza rapporti economici e
commerciali floridi e vantaggiosi per entrambe le parti. Non fingiamo di non sapere che governi ed imprese occidentali (a
cominciare dall’Italia) hanno digerito poco
e male il diktat americano che imponeva
l’embargo alla Russia all’indomani della
crisi ucraina. Quella scelta non era nel nostro interesse nazionale, come non lo era
in quello di altri paesi europei.
E giustamente Putin allora si chiedeva:
perché l’opinione pubblica e i media europei mostravano di ritenere del tutto “ovvia”
e “naturale” la politica di acquiescenza dei
loro governi nei confronti di un’America
che sembrava aver intenzione di rianimare
il vecchio spauracchio del “nemico metafisico”, della Russia-Impero-del-Male (ci
siamo già scordati della ridicola proposta
di Obama, secondo la quale avemmo dovuto far a meno del gas russo a buon mercato e importare a carissimo prezzo quello
americano?), mentre invece ci si scandalizzava poi del fatto che la Confederazione
degli Stati indipendenti, della quale Mosca
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
è a capo, si preoccupasse di tutelare i suoi
rapporti con i confinanti Siria e Iran e di
porgere una mano alla Grecia ortodossa o
all’Armenia, che al Cremlino hanno sempre
guardato come al loro grande protettore?
Sono domande che restano valide ancor
oggi: e che c’impongono di chiederci quali
potrebbero essere per l’Europa le conseguenze di un riavvicinamento russo-americano, accompagnato da un mutamento
di prospettiva statunitense nei confronti
della NATO, e quali quelle invece del caso
in cui tale riavvicinamento irsultasse effimero o illusorio.
Perché al fondo tutto ciò esiste per noi
un’altra, ineludibile domanda: ci sono
davvero motivi storici, culturali e “naturali” che colleghino noialtri europei al
continente americano più strettamente
di quanto non siamo invece collegati a
quell’Eurasia della quale l’Europa rappresenta l’apice nordoccidentale? “Il Volga
nasce in Europa”, è stato detto. E non basta. Anche la grande cultura russa nasce da
una radice bizantina e si è “europeizzata”
fra Sei e Ottocento (da Pietro il Grande in
poi) sulla base delle istanze che le provenivano dalla Francia e dalla Mitteleuropa. E
c’è di più: il legame sempre più stretto tra
un’Europa e una Russia che hanno, come
area di comune fruizione, un “Mediterraneo allargato”. Oggi una nave che parta da
Gibilterra può in pochi giorni, attraverso
i Dardanelli, il Bosforo, il Don e il VolgaDonskoj Kanal, arrivare nel Caspio, ai porti
di Baku e di Astrakan. Perché mai quindi, per gli europei, in questo nuovo Great
Game la “carta atlantica” dovrebb’essere
dogmaticamente più plausibile della “carta
eurasiatica”?
In un mondo i rapporti all’interno del quale sono in continua ridefinizione, il presidente Putin lancia la sua sfida. L’America,
come superpotenza, ha intonato quattordici anni or sono con la campagna irakena
il suo “canto del cigno”: un canto alquanto
sgraziato. Ma come s’inserirà in tutto questo il nuovo progetto isolazionistico-americocentrico di Trump? Quale sarà la nota
sulla quale egli intonerà il suo Amerika
First? E’ questo senza dubbio che, al Cremlino, vorrebbero capire e sapere. E vorremmo tanto capirlo, saperlo anche noi.
Intanto, un segnale che ci ha commossi.
Finalmente il 20 dicembre scorso, ad Aleppo, è stato di nuovo drizzato un albero di
Natale simbolo di riconciliazione e di pace.
Sotto di esso, si sono ritrovati musulmani e
cristiani. Aleppo era stata liberata: e senza
il concorso delle ambigue forze siriane che
si dicono anti-Daesh, e magari a modo loro
lo sono (in quanto esponenti di uno jihadismo di timbro diverso), senza il concorso di
quelle della fantomatica “Siria democratica” nella quale credono solo Bernard-Henri Lévi e i suoi compagni di merende della
gauche-caviar e della neodestra ultraliberista parigine. Aleppo è stata liberata dall’esercito della Repubblica Araba di Siria, che
esiste ancora, e grazie al concorso sovietico. I terroristi hanno impedito al leggendario coro dell’Armata Rossa di cantare a
Damasco, ma non hanno saputo impedire
all’albero di Natale di Aleppo di coprire
con la sua ombra pacifica chi ha ritrovato,
auguriamoci per sempre, libertà e sereni-
158
Orizzonti dal Cremlino
tà. E ciò grazie anche a san Vladimiro da
Mosca, che procede intanto anche a un
inedito, storicamente audacissimo – quasi
azzardato, è vero – new deal con la Turchia.
Dai tempi di Pietro il Grande, Russia e Turchia sono sempre state nemiche, così come
Russia e Persia costantemente amiche ed
alleate. San Pietroburgo e Isfahan (o Mosca e Teheran) hanno sempre collaborato,
ed entrambe hanno sempre avuto rapporti
difficili con Istanbul (o con Ankara). Nel
Novecento la politica e la diplomazia statunitensi sono giunte alla “genialità” di
ottenere l’impossibile: prima il riavvicinamento di URSS e Cina, poi quello di Cina e
India. Ora, un’America che ha rinsaldato i
rapporti con la Gran Bretagna e che sembra marcire nel senso di un nuovo rapporto
con la Russia, riuscirà a smontare l’effetto
di un suo nuovo “miracolo”, quello di aver
fatto riavvicinare Russia e Iran alla Turchia? Ci chiediamo anche ciò: con un po’
allarmato, un po’ incuriosito, perfino un
po’ divertito interesse.
Franco Cardini
Direttore editoriale “Il Nodo di Gordio”
159
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
NEL MONASTERO ALTRUI NON SI
VA CON IL PROPRIO STATUTO
di Irina Osipova
L’immagine della politica
estera russa appare come
quella di una serie di
componenti di un puzzle
complesso
I
L PROBLEMA DELLE FONTI
Per
catturare
un’immagine
ad alta definizione della politica estera
russa è fondamentale far combaciare una
serie di elementi di un puzzle complesso.
Spesso
gli
opinionisti
tratteggiano
delle caricature deformi dalla realtà,
realizzando delle analisi in assenza di fatti
comprovati. Gli esperti in collegamento
con i TG molto spesso limitano le proprie
analisi alle opinioni soggettive fondate
su dei costrutti ideologici prestabiliti
che ignorano la sequenza fattuale degli
avvenimenti geopolitici. Se sventolando
delle provette false fu possibile per gli Stati
Uniti invadere l’Iraq, figuriamoci quanto
possa essere facile per un politico o un
opinionista parlare di Russia solo perché
ha il suo spazio mediatico. Le accuse
standard rivolte a Putin in politica estera
sono solitamente quelle di aver invaso
160
Orizzonti dal Cremlino
l’Ucraina, intimorito con armi i cittadini
della Crimea, usato i propri hacker contro
la Clinton, bombardato gli ospedali in Siria
e preparato un blitzkrieg contro gli stati
Baltici. A sostegno di queste dichiarazioni
accusatorie né i satelliti della NASA, né
gli agenti della CIA hanno saputo ancora
fornire prove da dare in mano ai propri
propagandisti. Nella situazione in cui
nei regimi democratici non vi è un’equa
distribuzione del potere mediatico tra
le forze politiche in campo, non sarebbe
possibile parlare dell’esemplarità di libertà
d’opinione in Occidente, perché questa
viene inevitabilmente vincolata dai media
più influenti. Ma anche quando la retorica
viene accompagnata dalle presunte
prove empiriche ci sarebbe da prenderle
con le pinze. Ha provato a dimostrare di
avere ragione Poroshenko a Monaco –
sventolando le copertine dei passaporti
dei presunti militari russi fermati durante
le operazioni in Ucraina. La domanda che
un libero cittadino si dovrebbe porre è: il
presidente ucraino non ha tenuto presente
che in tali missioni si usano altri tipi di
documenti d’identità, oppure i suoi spin
doctors gli hanno suggerito che simili
spettacoli funzionano, perché il cittadino
medio tende a fidarsi della diplomazia in
stile Collin Powell?
Gli squilibri mediatici e le barriere
linguistiche ostacolano il cittadino dal
reperire le fonti primarie e poter svolgere
di conseguenza un’analisi autonoma,
ricostruendo la sequenza logica tra gli
accadimenti.
IL RISPETTO DELLE DIFFERENZE
CULTURALI E POLITICHE
La diplomazia moderna russa si
contraddistingue da quella occidentale
non solo per una divergenza di approccio,
161
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
ma pure nei modi di interagire con i media
e con i rappresentanti degli altri stati. Nel
mondo Occidentale, dove il concetto di
sovranità e di interesse nazionale perde
progressivamente valore, diventa sempre
più difficile parlare di confini non solo di
carattere fisico, ma di carattere politico.
Il ministero dell’Ambiente della Repubblica
Italiana ha finanziato la campagna
elettorale di Hillary regalando almeno $
100,000 di contributi pubblici alla Clinton
Foundation
Per Mosca è indubbiamente
più facile dialogare con
Trump che con la Clinton, ma
Putin non ha mai espresso
una preferenza per uno dei
candidati
(fonte:
https://www.clintonfoundation.
org/contributors?category=$100,001%20
to%20$250,000&page=3). I rappresentanti
dell’Unione Europea: Ashton, Steinmeier,
Kaczynski,
Stetina,
Verhofstadt,
Westerwelle, gli ambasciatori degli USA,
Francia, Spagna, Germania e Danimarca
insieme ai funzionari americani Nuland,
Biden, i senatori Murphy e McCain erano
presenti in prima persona su piazza Maidan
a sostenere la sovversione dell’ordine
costituzionale in Ucraina. Con l’esordio
alla presidenza di Donald Trump, i leader
dell’Unione Europea hanno promosso aspre
critiche nei confronti della politica interna
americana. Dall’altra parte, una volta
162
venuta meno la struttura politica sovietica,
torna veramente complicato trovare una
nota diplomatica del Ministero degli Esteri
russo intenzionata a dare delle linee guida
agli altri Stati. Nessuno dubita che per la
Russia sarebbe stato più facile dialogare
con Trump piuttosto che con la Clinton,
tuttavia se si guarda alla realtà dei fatti il
Presidente Russo non ha mai espresso una
netta preferenza nei confronti dell’uno o
dell’altro candidato americano, al di là di
come si pensa comunemente. Nel settembre
2016, durante la campagna elettorale negli
Stati Uniti Putin ha affermato che la Russia
collaborerà con qualsiasi amministrazione
e presidenza USA, aggiungendo:
“Trump fa perno sull’elettorato repubblicano
tradizionale, sul cittadino medio con un
reddito medio, sulla classe operaia e su
un determinato gruppo di imprenditori, su
persone che aderiscono ai valori tradizionali.
La signora Clinton si appoggia sull’altra parte
dell’elettorato che sta altrettanto cercando
di influenzare in tutti modi. Per questa
ragione si attaccano a vicenda. Non vorrei
che prendessimo esempio da loro e dal loro
modo di fare. Penso che non rappresentano
l’esempio migliore. Ma tale è la cultura
politica degli Stati Uniti. E’ semplicemente
necessario
prenderla
così
com’è”
(Traduzione I. Osipova). In queste parole
del Presidente russo non viene espressa
alcuna preferenza verso i due candidati
americani e non vi è alcuna interferenza
nella diatriba ideologica tra i democratici
e i repubblicani. Commentando i due
favoriti delle elezioni americane, Putin si
limita a constatare la differenza politica
Orizzonti dal Cremlino
tra i candidati, sottolineando la divergenza
culturale fra i due modelli elettorali
(americano e russo), lasciandoli a giudizio
del popolo americano. “Nel monastero
altrui non si va con il proprio statuto” - dice
un detto nazionale tradizionale russo, al
quale sembra ispirarsi anche l’approccio
putiniano.
Il neopresidente americano, per quanto
possa piacere anche ai simpatizzanti di
Putin, ha un modo diverso di approcciarsi
alla politica internazionale rispetto alla
Russia. Putin e Trump sono politici di
estrazione diversa e sono a capo di due Stati
con degli obiettivi geopolitici differenti.
Nonostante ciò, sembra essere simile
l’approccio statocentrista, promotore del
libero mercato ma rispettoso degli interessi
nazionali. Le leve politiche coinvolte nel
raggiungimento degli obiettivi restano
differenti, così come la composizione della
scala prioritaria dei partner internazionali.
A differenza di Putin, come la maggior
parte dei leader occidentali Trump non
pensa due volte prima di esprimere dei
giudizi sulla politica interna ad esempio
dell’Unione Europea, attaccando con la
retorica la Germania e l’Euro. Per quanto
l’Unione Europea possa rappresentare
un’entità geopolitica politicamente ed
ideologicamente ostile alla Russia, Mosca
non è solita dare indicazioni sul modus
operandi in politica interna agli stati
europei. Il Cremlino si limita ad intervenire
negli affari degli Stati terzi solamente nei
casi in cui si tratta di questioni legate
alla sicurezza del propri cittadini o
della sicurezza nazionale del paese. Un
avvenimento recente che mette in risalto la
differenza dell’approccio diplomatico russo
si è rivelato nel corso del tentato golpe in
Turchia. Subito dopo la svolta politica di
Erdogan i politici dell’Unione Europea
hanno espresso grandi preoccupazioni
sulle decisioni del leader turco, criticando
apertamente i provvedimenti in politica
interna del loro stesso alleato del blocco
NATO e partner dell’Unione Europea. Il
Ministero degli Esteri russo invece ha agito
inviando una nota ad Ankara, chiedendo
di garantire la sicurezza ai cittadini
russi in Turchia. Le prove vengono fatte
emergere dai vari portavoce della politica
estera russa ogni qual volta i cosiddetti
partners geopolitici cominciano a pestare
i piedi alla Federazione Russa. Basta
ricordare come ministero della Difesa
russo ha organizzato la conferenza stampa
e mostrato in mondovisione i sentieri
percorsi dalle cisterne petrolifere dalle
zone occupate dall’ISIS transitanti in
Turchia. Queste immagini satellitari erano
sicuramente possedute e analizzate da
mesi, ma sono state fatte apparire, insieme
ad una imposizione delle sanzioni, solo
quando la Turchia ha oltrepassato il limite
abbattendo il Su-24. Un’altra conferenza
stampa con immagini satellitari a sostegno
delle proprie ragioni è stata svolta dopo che
l’Occidente ufficiale aveva rivolto le accuse
contro Putin ore dopo l’abbattimento del
MH17 in Ucraina. Come risulta ben chiaro
da questi esempi la Russia ha agito in modo
risoluto per difendersi, applicando la logica
binaria azione-reazione. In Occidente le
prese di posizione russe spesso vengono
163
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
percepite come aggressione. Le stesse
sanzioni imposte alla Russia vengono
spiegate come punizione per la cosiddetta
annessione della Crimea.
LA CRIMEA, IL DONBASS
E LE SANZIONI
Il 17 marzo 2014 è entrato nella storiografica
russa come giorno della riunificazione
della Crimea e di Sebastopoli con la Russia,
compiuta a seguito ad un referendum
popolare. Nel mentre gli oppositori della
Russia di Putin continuano ad usare il
termine “annessione”, essendoci nella
guerra dell’informazione anche una chiara
battaglia delle parole. Se Trump ebbe modo
di dire durante la campagna elettorale
in Florida come bisognasse rispettare la
decisione degli abitanti della Crimea, la
Harey, ambasciatrice trumpiana presso il
Consiglio di Sicurezza dell’ONU continua
a rivendicare il ritorno della penisola
sotto la giurisdizione ucraina, accusando
la Russia della destabilizzazione nel
Donbass. Sarebbe prematuro dare un
giudizio a tale dualismo. L’ipotesi più
verosimile spinge a pensare che da una
parte Trump stia cercando di trovare un
equilibrio dentro il partito repubblicano,
e che dall’altra aspetti il momento di
incontrare Putin per usare la Crimea come
merce di scambio. Non a caso Trump ha
già avanzato la condizione che debba
verificarsi per muoversi verso l’abolizione
delle sanzioni americane alla Russia:
l’accordo sul disarmo nucleare. Queste
parole suggeriscono una discontinuità
di Trump con la linea strategica
dell’amministrazione Obama. Analizzando
le vicende ucraine da vicino è semplice
dedurre che l’operazione in Crimea è stata
un grande errore di valutazione per gli USA,
come pure frutto dell’aggressiva politica
di espansione occidentale accompagnata
dalla diplomazia non tradizionale. Gli
avvenimenti in Crimea sono stati la
conseguenza
diretta
dell’operazione
Euromaidan organizzata e sostenuta
dall’Occidente. Una rivoluzione alle porte
di Mosca che con grande prepotenza
intendeva ignorare gli interessi vitali dei
russi. Come tenne più volte a sottolineare
Putin riguardo le proposte di dialogo, alla
Russia venne detto che gli accordi tra
l’Ucraina alla UE non riguardavano Mosca.
Invece questo accordo riguardava proprio
gli interessi commerciali della Russia.
Con l’entrata in vigore delle clausole
commerciali del trattato di associazione
dei giallo-blu, la Russia si sarebbe trovata
costretta ad abolire il regime preferenziale
degli scambi con l’Ucraina per evitare
l’afflusso sul mercato russo delle merci
europee
ri-etichettate.
Si
sarebbe
trattato di una misura volta ad evitare
le triangolazioni capaci di danneggiare i
produttori del mercato nazionale. Anche
in questo caso la prepotenza dei funzionari
della UE e del nuovo governo ucraino
pensarono di fare a meno del dialogo
con la Russia sottovalutando la serietà
dell’approccio russo e i suoi interessi.
Come preannunciato da Putin le clausole
commerciali preferenziali con l’Ucraina
sono state abolite e a partire dal 1 gennaio
164
Orizzonti dal Cremlino
2016 il che mise in crisi diversi esportatori,
che a loro volta avendo esaurito le quote sul
mercato dell’Unione Europea affrontano
delle difficoltà economiche. Questo ad
esempio è il caso dei produttori delle uova
di gallina.
Non è un segreto neanche per Kiev, il fatto
che dal punto di vista demografico, la
maggioranza degli abitanti della Crimea si è
sempre sentita appartenere al mondo russo.
Invece dal punto di vista della sicurezza
nazionale, il passaggio dell’Ucraina nelle
mani dei poteri Occidentali avrebbe reso
dubbio il controllo russo della sua marina
dislocata in Crimea. La flotta russa del
Mar Nero nasce nel 1783 proprio a seguito
all’annessione della Crimea all’Impero
Russo. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica,
essendo la Crimea divenuta territorio
dell’Ucraina per iniziativa personale
dell’ucraino Krusciov nel 1954, l’accordo
bilaterale russo-ucraino sulla spartizione
dell’eredita della flotta sovietica è stato
siglato nel 1997. L’accordo ventennale
sanciva: che la Russia avrebbe pagato
annualmente all’Ucraina 97,75 miliardi
di dollari di affitto per alcune insenature
costiere per la flotta russa, che 25 mila
soldati russi avrebbero potuto trovarsi in
Crimea e che la Russia potesse possedervi
338 natanti e 106 aerei ed elicotteri.
Intromettendosi negli affari interni
ucraini con metodi non tradizionali per
le relazioni bilaterali l’Occidente non ha
tenuto conto della dottrina ventennale
marittima russa del 2001 che sanciva
esplicitamente che la difesa alla sicurezza
nazionale nel Mar Nero fu assegnato lo
status di importanza prioritaria. Nello
stesso documento promosso da Putin si
stabiliva l’importanza del mantenimento
della Flotta del Mar Nero a Sebastopoli nel
lungo periodo. “La Russia non ha amici. Le
sue dimensioni intimoriscono. La Russia ha
solo due alleati fedeli: la flotta e l’esercito”
– lo disse per primo lo zar Alessandro III,
ma queste affermazioni trovarono eco
in diverse occasioni anche nelle parole
di Putin. Le dimensioni della Russia non
hanno mai smesso di fare gola agli altri
stati e il buon politico non può fare a
meno di sottovalutare la constatazione di
duecento anni fa. Ignorando gli interessi
nazionali russi, nei giorni successivi
all’Euromaidan, gli Stati Uniti stavano
preparando un attentato proprio a uno
dei due alleati più fedeli dello zar. Le navi
del gruppo aeronavale statunitense che
comprendevano la portaerei a propulsione
nucleare George Bush (CSG-2) con 102
tonnellate di stazza e 90 aerei a bordo,
accompagnata da 16 navi da guerra, fra
cui l’incrociatore USS Philippine Sea, i
lanciamissili Truxtun e Roosevelt, tre
sottomarini nucleari d’attacco erano già
in rotta verso la Crimea in violazione
del Trattato di Montreux permessa
segretamente dalle autorità turche.
Un bravo judoca sa difendersi anche
quando l’avversario tenta di sopraffarlo
apportando colpi vietati dalle regole
convenzionali. In uno dei suoi interventi
al forum Valdai, parlando di terrorismo
Putin disse – “Quando sai che lo scontro è
inevitabile, bisogna menare per primi”. La
riunificazione della Crimea alla Russia
165
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
è stata la risposta diretta all’attentato
dell’Occidente ufficiale agli interessi
vitali del mondo russo. Uno scacco matto
di Putin all’amministrazione Obama. La
sconfitta americana è susseguita da un
desiderio di vendetta da perdente. Gli atti
vendicativi dell’uscente amministrazione
Obama si manifestano non solo attraverso
le sanzioni, ma anche attraverso il
finanziamento della guerra in Ucraina
e la presenza di uomini come McCain
direttamente nel Donbass.
Anche la ribellione del popolo del Donbass
fu un atto di ostilità manifestato come
rifiuto di recepire i comandamenti di
Bruxelles. Anche questa volta non sarebbe
corretto parlare di aggressione ma di
una naturale reazione difensiva dei filorussi del proprio territorio e della lingua
madre. Uno dei primi atti legislativi del
maidanismo golpista era l’abolizione della
legge che conferiva alla lingua russa lo
status ufficiale in Ucraina. (http://rada.gov.
ua/news/Novyny/Povidomlennya/88068.
html). La popolazione russofona sopratutto
dell’est del paese ha manifestato i primi
seri sintomi di ribellione proprio dopo
questo attacco legislativo ad uno degli
elementi fondanti della loro identità. La
speranza di molti abitanti del Donbass
di riunificarsi alla Russia, revisionando
tramite referendum la decisione di Lenin
di annetterli all’Ucraina non ebbe luce.
La Russia rifiutò di riconoscere l’esito del
referendum, spiegando che a differenza
della Crimea non vi fu un netto quorum
e si sospettavano numerose irregolarità.
Kiev inviò dei carri armati per soffocare la
ribellione. Scoppiò la guerra. E’ strano che
ci sia ancora qualcuno che dubiti del fatto
che alla Russia sarebbero bastati pochi
giorni per conquistare non solo il Donbass,
ma anche Kiev, se solo ci fosse stata una
tale intenzione. La realtà dei fatti vede
Mosca insistere sul rispetto degli accordi
di Minsk 2 auspicando un cessate il fuoco
tra le parti, mentre un senatore americano
non perde occasione di aizzare in prima
persona i battaglioni mortali sulla linea del
fronte in Ucraina.
Questa ferita aperta in Ucraina, prevista
nel lontano 1996 da Huntington nel suo
libro “Scontro delle civiltà” continua a
sanguinare, segnando quella linea rossa che
potrà essere superata solamente attraverso
una saggia soluzione diplomatica, perché
da sempre è la parola ad iniziare e a porre
fine ad una guerra.
Irina Osipova
Fondatrice e presidente dell’ass. RIM Giovani Italo
Russi, Politologo presso Zentr Aktual’noj Politiki
166
Partnership con la rivista internazionale
"CONFLITS"
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
GRAND TOUR
In questa sezione:
170 E ORA DOVE ANDIAMO?
IL LIBANO, UNA POZIONE MAGICA
di Gianni Bonini
182 TRA IDENTITÀ E TERRORISMO.
LA SFIDA DEI PALESTINESI
DEL LIBANO
di Luca Steinmann
188 LA RADICALIZZAZIONE DEI COMBATTENTI JIHADISTI NEI BALCANI OCCIDENTALI
L'ACCELERATORE DI PARTICELLE DEL MEDIO ORIENTE S'APRÌ SU SCIENZA E PACE
di Renato Sartini
216 TUTTI AL MARE,
MA NON ITALIANO
di Giampaolo Scardia
219 LA DIFESA DI CORFÙ DEL 1716
di Andrea Liorsi
di Nina Kecojević
196 UN PAESE IN CUI TUTTO
È IL CONTRARIO DI TUTTO”
IL GRANDE IRAN DI GIUSEPPE
ACCONCIA
di Michela Mercuri
200 ANTARTIDE: FARE RICERCA ALLA 210 «APRITI SESAME!» E FINE DEL MONDO. PER SALVARLO
231 GLI ITALIANI DEI DUE MONDI:
I PROTAGONISTI DELLA
PRIMA REPUBBLICA
FRA ARABI E AMERICANI
di Matteo Gerlini
238 IL CIHEAM DALLA FONDAZIONE
di Marco Ferrazzoli
168
AD OGGI
di Maurizio Raeli
Grand Tour
Sguardi su un mondo
in frenetica trasformazione
169
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
E ORA DOVE ANDIAMO?
IL LIBANO, UNA POZIONE MAGICA
di Gianni Bonini
Parlandone con Maroun
El Moujabber
o appena letto il libro di Antonio Musarra sulla caduta di San
Giovanni d’Acri nel 1291. Un libro avvincente ed assolutamente attuale,
perché legge la caduta degli Stati crociati
nel contesto più generale dei movimenti
che nel XIII secolo, “secolo lungo” tra la
fine del sogno ottoniano e svevo del Sacrum Imperium e la Morte Nera, la peste
del XIV, così lo definisce Franco Cardini
nell’Introduzione, interessano il territorio
siro-libanese-palestinese, da sempre anello di congiunzione tra civiltà mesopotamiche e Mediterraneo in una relazione di
comunicazione che non ha mai conosciuto
soluzione salvo rarissimi momenti. Il limes
arabicus, la frontiera romano-bizantina,
spalmata su più di 1300 chilometri, tra la
Siria del Nord e il sud della Palestina, il
centro della mezzaluna fertile, è sempre
stata l’epicentro dei terremoti geopolitici
dell’antichità ed anche oggi non cessa di
H
170
Grand Tour
essere al centro di conflitti, interpretabili
sotto molti aspetti, da quello energetico
a quello etnico-religioso, che occupano la
scena della politica internazionale con un
peso nettamente superiore alle entità demografiche coinvolte. Non è difficile quindi rintracciare una continuità storica fin
dal secondo millennio avanti Cristo, quella
continuità-contiguità che ha portato Giovanni Semerano, il filologo scomparso da
una diecina di anni, insignito felicemente
da Firenze, la mia città che lo ha adottato,
del Fiorino d’Oro, a concludere perentoriamente, nella polemica di una vita contro
la favola dell’indoeuropeo, che “la grande
civiltà sumero-accadica ha disciplinato gli
elementi del linguaggio umano che si sono
irradiati verso lontane regioni dell’oriente
e dell’occidente”.
Il Libano è completamente dentro questa
realtà, anzi si può dire che ne è il crogiolo
in tutti i sensi, per la coesistenza compe-
titivo-conflittuale delle religioni del Libro
nelle più diverse espressioni liturgicoconfessionali, per la permeabilità economico-finanziaria, per il fatto che in Libano
precipitano tutte le ambizioni e le contraddizioni politico-statuali dell’area MENA
- Middle East and North Africa - di cui la
tragica guerra cosiddetta civile, in verità
una guerra di tutti contro tutti, di cui a noi
sfuggono ancora molteplici sfaccettature,
ha rappresentato il ring di combattimento
privilegiato. In un articolo di tre anni fa,
scritto nella forma di reportage giornalistico per la rivista IF, dopo una missione del
CIHEAM-IAMB a Beirut e nella valle della
Beqā’, in occasione della cerimonia conclusiva del progetto L’Olio del Libano che ha
insegnato agli agricoltori a produrre l’olio
extravergine ed a commerciarlo, nel ribadire tutto il mio scetticismo sulle “primavere
arabe”, un esempio sul versante dell’opinione pubblica europea ed occidentale di
171
disinformazione programmata, a partire
da Al Jazeera, fino a farne la premessa obbligata della mia analisi dello scacchiere
euromediterraneo, parlavo della ventilata
riforma elettorale, in virtù della quale ogni
elettore avrebbe dovuto votare solo i candidati della lista politico-confessionale a
cui sarebbe stato precedentemente iscritto. Un’aberrazione che avrebbe cancellato ogni principio di libertà per fissare sul
piano della segregazione istituzionale la
modifica dei rapporti di forza demografici, che stanno alla base della Costituzione
formale e materiale e del patto nazionale
del 1943, quello della ripartizione delle
cariche istituzionali, della terra dei cedri. L’allora, era il gennaio 2013, Ministro
dell’Ambiente Nazem El Khouri, cristiano
maronita, si disse totalmente contrario oltre che preoccupato.
E ora dove andiamo? La domanda ricalcata
sul titolo italiano del bel film della regista
ed attrice libanese Nadine Labaki - titolo
originale Et maintenant, on va où? - premiato al festival di Toronto nel 2011, la
rivolgo a Maroun El Moujabber, agronomo
ed esperto di cooperazione internazionale,
che ha vissuto sulla sua pelle, portandone
un segno indelebile, la tragedia libanese;
attualmente lavora a Bari all’Istituto Agronomico Mediterraneo di Valenzano - IAMB
- un gioiello del CIHEAM - Centre International des Hautes Études Agronomiques
Méditerranéennes - e un orgoglio della Cooperazione italiana allo Sviluppo, che i lettori della rivista già conoscono per averne
descritto la missione euromediterranea, in
particolare nella monografia del Nodo di
Gordio Il sogno di Marco Polo. Ci sono novità negli assetti istituzionali libanesi?
Questo è un Paese che ha avuto la capacità
di non farsi travolgere dalla guerra in Siria,
nonostante detenga il primato mondiale
del numero dei rifugiati, all’incirca 232 per
1000 abitanti, seguito a notevole distanza,
per la statistica, dalla Giordania con 87 e
dalla Turchia con 21. È riuscito a mantenersi in equilibrio sull’onda dei sommovimenti
messi in moto per cambiare i connotati civili del Medioriente, ridisegnarne i confini
inventati dal cinismo dell’accordo SykesPicot, creare nuove zone di influenza e di
sfogo alle velleità di potenza dell’Arabia
Saudita - in otto anni ha comprato armi
dagli USA per 115 bilioni di dollari - e degli Emirati allarmati per l’indebolimento,
172
Grand Tour
per ragioni complesse di politica ed innovazione energetica, shale oil&gas ma non
solo, dell’accordo del 1945 siglato sull’USS
Quincy, sicurezza in cambio di petrolio, le
ultime fughe di notizie dal Segretario di
Stato sulla strumentalizzazione dell’ISIS
da parte di Obama contro Assad sono scontate ma fanno sempre un po’ scalpore, mantenere l’ellisse energetica ad excludendum
della Russia, contenendone l’aggressività
nel solco della tradizionale politica estera inglese, secondo l’analisi dell’analista
russa Narocnizkaja. Ed ancora come non
vedere il bisogno della NATO in versione
clintoniana di rafforzare il suo fianco sud
indebolito dall’annessione russa - non prevista? - della Crimea, con un controllo più
aderente del corpaccione della Turchia, in
bilico tra la modernizzazione del kemalismo e la tentazione del sultanato del XXI
secolo, ormai lontana dall’Europa di Maastricht ed ancor più attratta dalla possibilità di esercitare un ruolo egemone sull’area
turcofona, quanto in ansia per la nascita di
uno Stato curdo ben provvisto di petrolio
ai suoi confini meridionali; il tentato colpo
di stato in Turchia, con o senza Fethullah
Gülen, scaturisce da questo ordine di questioni. Insomma un groviglio di spinte e
controspinte che definiscono lo spazio e
il tempo di questo scambio di vedute, effetti favoriti da quella geopolitica del soft
power obamiano che abbiamo studiato ripetutamente sulla nostra rivista come le
linee guida della politica estera americana,
stimolati e perché no, suggestionati anche
dalle analisi dedicate di Germano Dottori
e del Rapporto Nomos&Khaos di Nomisma,
173
di cui registriamo ormai l’assenza. Con il
fatto nuovo, o forse non è mai stato tale,
di una divaricazione , secondo Raghida
Dergham, columnist libanese-americana
per Al Hayat molto accreditata, tra gli interessi russi e i progetti regionali dell’Iran,
accelerato dalla soluzione della crisi siriana che sostanzialmente avrebbe per garanti solamente la Russia e la Turchia, con
l’esclusione dell’Iran e che prevederebbe
il ritiro delle forze di quest’ultima dal teatro di guerra, incluso Hezbollah. Tanto da
far nascere il sospetto che il recente bombardamento di Israele, che si era tenuto a
distanza dalla mischia siriana, non smentito nè confermato com’è naturale, dell’aeroporto siriano di Mezzeh si inserisca in
questa dinamica, preso atto della dichiara-
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
zione di Netanyahu sul grave pericolo rappresentato dalla caduta di Aleppo foriera
di uno spostamento sul fronte del Golan di
Hezbollah e dei Pasdaran iraniani.
Riassumo così molto sinteticamente il
quadro della situazione euromediterranea
che ho ampiamente trattato nei numeri
passati del Nodo di Gordio. È ancora presto
per giudicare Trump, al di là degli impegni presi in una velenosissima campagna
elettorale che sembrano voler rovesciare
l’ideologia stessa del soft power, anche se
le prime mosse alla Casa Bianca come la
rimozione del TPP - Trans Pacific Partnership - e la visita a Washington del Premier
britannico Theresa May, che, spesso lo dimentichiamo, porta in dote il Commonwealth, annunciano tempi duri per l’UE. La
consueta cialtroneria mediatica sorvola sul
suo discorso sulla Brexit, un intervento di
grande respiro strategico a cui non si può
rispondere con le battute di dubbio gusto
di Juncker, mentre il suo invito all’Europa
a tenere un atteggiamento collaborativo e
non autolesionistico, parole testuali, sembra confermare il ritorno a visioni strategiche e ad alleanze neo atlantiche più tradizionali, compreso il riferimento all’area
di libera circolazione con l’Irlanda in linea
con la storia del Regno Unito dopo il distacco seguito alla guerra dei cent’anni. La
sindrome dell’accerchiamento per l’UE è
diventata a questo punto un rischio molto
concreto e Romano Prodi, che può vantare
un livello incommensurabilmente più alto
di esperienza internazionale rispetto alla
media del nostro ceto politico, avverte che
forse è l’ora di smetterla con le sanzioni
contro Putin prima che si logori una relazione con la Russia che è un must storico
della nostra politica estera, almeno fino
dal riconoscimento italiano della Unione
Sovietica negli anni venti, ma si potrebbe
facilmente risalire a prima. Senza considerare che i Russi sono ormai tornati in Libia
e con loro è conveniente ragionare a tutto
campo, non escluse, anzi al primo posto, le
relazioni in campo energetico.
Ma torniamo al Libano ed al quadro più
specificatamente mediorientale.
“Qualcosa è cambiato sulla scena politica
libanese- esordisce Maroun El Moujabber
- l’elezione del Generale Michel Aoun il 31
ottobre 2016 come Presidente del Libano in
seguito alla pacificazione tra le due maggior
forze politiche cristiane cioè il Movimento
Patriottico Libero e le Forze Libanesi inducendo un accordo tutto libanese e un largo
consenso delle maggiori forze politiche del
paese, potrebbe essere indubbiamente un
punto di svolta a livello mediorientale. Il
Libano che ha sempre subito gli eventi nel
Medioriente, questa volta si prepara a contagiare gli altri paesi. Sembra un’esagerazione ma non dimentichiamo che l’arabo è
la lingua dell’esagerazione e quindi non c’è
da sorprenderci. Per spiegare meglio questa
svolta, bisognerebbe tornare al 13 aprile
1975 quando è scoppiata la guerra in Libano. Questa guerra (1975-1990) solo apparentemente civile, era la conseguenza della
politica americana che all’epoca guardava
principalmente al controllo delle risorse
energetiche ed a mio parere allora esisteva una complicità muta tra i regimi arabi e
Israele quando si voleva cacciare i cristiani
174
Grand Tour
da questo paese e dare ai palestinesi un territorio alternativo alla loro terra”.
Un’affermazione senza mezzi termini, peraltro in totale sintonia con la politica vaticana che si muove nell’indifferenza delle cancellerie democratiche e dell’Unione
Europea, così sensibili ai diritti civili da
ignorare il fondamentale diritto alla libertà religiosa delle primavere arabe. Una fra
le tante iniziative a sostegno è quella della
fondazione pontificia Aiuto alla chiesa che
soffre, che si è mobilitata per lanciare una
raccolta di fondi per i cristiani perseguitati
in Iraq e Siria, una persecuzione non virtuale ma fatta di scene di vita quotidiana
che ha provocato centinaia di migliaia di
esodi ed il rischio concreto della fine della
testimonianza nelle terre dove il messaggio di Cristo è nato e si è irradiato in tutta
l’Ecumène. E non è solo Daesh, acronimo
arabo di ISIS - Islamic State of Iraq and alSham - il pericolo. Neanche i Curdi, pure
tanto vezzeggiati dall’Occidente, la retorica mediatica occidentale dei peshmerga è
stata battente, scherzano. Secondo quanto
racconta Monsignor Jacques Behnan Hindo, Arcivescovo siro cattolico di Hassaké
nel nord-est della Siria, non si vergognano ad occupare arbitrariamente le terre e
le case di quella comunità cristiana che in
passato è sempre venuta in loro soccorso.
Il giuoco dei buoni contro i cattivi come
quello dell’esportazione della democrazia
non si addice al Medioriente e la narrazione stantia del politicamente corretto trova
difficoltà ad attecchire in uno scenario che
sembra fatto apposta per mescolare buoni
e cattivi.
175
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
“Gli israeliani hanno invaso per la prima
volta il Libano il 14 marzo 1978 e hanno
creato la cosiddetta fascia di sicurezza,
approfittando anche di un malessere delle
popolazioni per l’operato militare dei palestinesi. Questa fascia di sicurezza non è
riuscita a proteggere Israele dagli attacchi,
da qui viene la seconda invasione del 4 giugno 1982. Il 13 giugno l’esercito israeliano
arriva a Beirut. È la prima volta che una
capitale araba è occupata dagli israeliani.
Il 21 agosto 1982, partono i primi combattenti palestinesi con destinazione Tunisi, il
23 agosto Bashir Gemayel viene eletto Presidente del Libano e il 28 agosto arrivano
gli altri militari della Forza multinazionale. I Libanesi hanno sperato per un attimo
nell’elezione di Gemayel per ricostruire il
Libano e unire quello che la guerra aveva
distrutto”.
Maroun riprende fiato. La sua non è una
narrazione distaccata, sono avvenimenti
che lo hanno coinvolto insieme alla sua famiglia, sono di Byblos, una delle più antiche città del mondo, ancora oggi a maggioranza cristiana. Lui, lo dice il nome stesso
che richiama San Marone, il monaco siriano venerato come santo dalla Chiesa cattolica e da quella ortodossa, fondatore di
una congregazione monastica nel V secolo,
è orgogliosamente cristiano-maronita. Il
suo punto di vista forgiato nel fuoco delle
atrocità di una guerra che noi abbiamo visto solo alla televisione oppure al cinema
come nel film franco-canadese Incendies
- La donna che canta in versione italiana non pretende di essere semplicisticamente
oggettivo ma di filtrare la valutazione sto176
rica e politica attraverso il sentimento di
un Paese assediato che vuole ritrovare la
propria identità nazionale senza perdere la
sua natura di melting pot religioso.
“Il sogno è durato poco - prosegue Maroun
fissando le date con la memoria di chi ha
attraversato quegli eventi - gli incubi sono
quelli che durano. Il 14 settembre Bashir
Gemayel viene ucciso in un attentato a
Beirut Est, proprio nel quartiere generale
del suo partito. Un giorno di grande dolore e indignazione, ho 14 anni, è la prima
volta che vedo mio padre piangere anche
se la nostra famiglia di Byblos non ha mai
simpatizzato per il partito di Gemayel. La
zona di Byblos è conosciuta storicamente
per essere fedele al Blocco Nazionale di
Raymond Edde, un politico irrepetibile,
morto in esilio a Parigi che aveva rifiutato
di fare il Presidente della Repubblica nel
1976 perché non ha mai gradito le ingerenze nella nostra politica da parte dei nostri
vicini.
Voglio sottolineare che la nostra zona,
pure essendo culturalmente diversificata,
è stata una delle zone più sicure del Libano
durante tutta la guerra. Sono stati allontanati soltanto i filopalestinesi che, guarda
caso, erano principalmente cristiani come
il grande cantante Marcel Khalifé. Sinceramente ho riflettuto molto sul perché di
questa isola di tranquillità, la risposta l’ho
trovata un giorno camminando nel centro
di Byblos: gli abitanti hanno lo stesso livello sociale, fanno più o meno le stesse attività commerciali e studiano nelle stesse
scuole, non c’era nessun motivo di conflitto. E malgrado tutte le ondate di rifugia-
Grand Tour
ti che sono arrivati a Byblos e dintorni, la
maggioranza cristiana ha sempre protetto
le minoranze musulmane, non hanno permesso a questi rifugiati di occupare le case
dei musulmani. Non è un caso che Byblos
sia stata scelta nel 2000 come sito messaggero della pace dalle Nazioni Unite.
Il sogno è finito, bisogna affrontare la brutta realtà, accordi e complicità silenti tra
le forze regionali e quelle internazionali.
L’invasione israeliana ha allontanato una
buona parte dei combattenti palestinesi
ma i libanesi non hanno firmato una Camp
David libanese. Il Libano è l’ultimo paese
arabo che potrà mai un giorno naturalizzare i rapporti con Israele. Il massacro di
Sabra e Chatila chiama la responsabilità
israeliana, probabilmente con mano d’opera di appartenenza diversa, anche, non
solo, libanese.
E poi cominciò un periodo di resistenza libanese fino al maggio 2000, l’anno in cui
Tsahal si ritirò. Ma c’è un dettaglio, molto
rilevante, questa volta a fare la resistenza
sono gli sciiti, il partito di Dio, Hezbollah,
che nacque nel 1982, forte della rivoluzione islamica degli Ayatollah in Iran. E il
primo ingresso dell’Iran nella palude libanese. Va detto che in precedenza, nella prima invasione di Israele, gli sciiti non sembravano così avversi nei confronti delle
truppe che avevano oltrepassato il Litani.
Questo ci riporta al cuore del dramma del
Libano e cioè che dal 1982 fino al 1990, si è
combattuta una guerra di tutti contro tutti,
i drusi contro i cristiani, gli sciiti contro i
drusi, gli sciiti contro i palestinesi, i siriani contro i palestinesi, gli sciiti contro gli
sciiti e i cristiani contro i cristiani. In una
guerra c’è solo da perdere e oggi possiamo
dire chiaramente che si sbaglia quando si
pensa di vincere in Libano con la sola forza
delle armi.
Il nome del Libano si cita circa settanta volte nella Bibbia, il primo miracolo di
Gesù Cristo fu a Cana nel Sud del Libano.
Questa sacralità del paese molto probabilmente l’ha protetto e lo proteggerà, gli
scogli sul fiume “Nahr il Kalb” ne sono testimoni”.
Non è facile trovare una fede così forte
nell’Europa secolarizzata, una convinzione profonda e battagliera che concepisce
il martirio come possibilità concreta. Ed
allora mi viene immediatamente da citare
l’ultimo film di Scorsese, Silence, che parla di un altro martirio, il significato greco
originale è appunto testimonianza, quello
giapponese del XVII secolo dei Gesuiti e
dei Kakure Kirishitan, i cristiani nascosti;
un racconto sulla debolezza dell’uomo e
del prete che rimane tale fino alla fine, sulla Chiesa che offre la propria vita soprattutto per gli indegni, per chi ha perduto la
fede. Bellissimo. Maroun l’ha appena visto
e ne è rimasto colpito. Chissa quanti Ferreira e Rodrigues, i due padri gesuiti che
sembrano aver perso la fede, ma mentre si
procede all’incinerazione di Rodrigues la
macchina da presa zoomma sulle sue mani
che strette nascondono il piccolo crocefisso di legno che lo ha accompagnato fin dal
suo approdo nella prima comunità cristiana in Giappone, penso tra me, avrà visto
durante l’immane dramma libanese. Così
prosegue il suo racconto sulla guerra senza
177
quegli sconti che la ricostruzione a posteriori delle vicende talvolta ci può indurre a
fare. È il caso della posizione siriana, la cui
valutazione non si ferma alle vicende del
dopo 2011 e si allarga correttamente ad abbracciare il periodo storico che inizia con
gli anni 70 e la guerra dei sei giorni.
“La guerra civile, chiamiamola così per
semplicità - continua Maroun, proponendoci una carrellata degli eventi che arriva
fino alla morte di Hariri- ha visto due invasioni israeliane ed è finita nel 1990 con gli
accordi di Ta’if. L’accordo di Ta’if, in Arabia
Saudita - che per la precisione fu stipulato
il 22 Ottobre 1989 sulla base del lavoro di
un comitato congiunto a cui partecipavano
re Fahd dell’Arabia Saudita, re Hasan II del
Marocco ed il presidente algerino Shadhli
Benjedid, sotto la tutela ufficiosa degli
USA, ratificato dal Parlamento libanese il
5 Novembre dello stesso anno - ha messo
fine alle prerogative del Presidente della
Repubblica, che per Costituzione deve essere maronita, in particolare quella di sciogliere la Camera dei Deputati ed ha messo
il potere nelle mani del Consiglio dei Ministri, oltre ad aver equiparato i deputati
musulmani a quelli cristiani.
Il Primo Ministro in Libano è Sunnita.
L’accordo di Ta’if che nasce sotto tutela
saudita con la Siria come implementing
agency che aveva il suo esercito in Libano
dal 1976, parla di condivisione tra cristiani
e musulmani del potere politico.
All’epoca i rapporti tra Siria e Arabia Saudita erano ottimi e si preparava la prima
guerra del Golfo contro Saddam Hussein,
i siriani si erano alleati con gli americani
178
Grand Tour
e hanno avuto, tra i premi, quello di avere
mano libera in Libano.
I siriani per mantenere un equilibrio che
permetteva a loro di sfruttare al meglio
le risorse del Libano, hanno usato lo strumento delle leggi elettorali per creare delle
figure funzionali ai loro interessi e compensare uno squilibrio demografico dovuto
in particolare all’immigrazione.
Non dimentichiamo che tutti i Signori della guerra sono finiti al governo tranne le
due principali figure cristiane cioè Michel
Aoun in esilio e Samir Geagea in prigione.
E non mi risulta che la comunità internazionale abbia dato alcun segnale di sgomento od almeno di preoccupazione per
questa situazione, gli interessi economici e
geo-politici sono più importanti delle comunità che in questi casi sono considerate
danni collaterali. Per molti anni i responsabili della comunità internazionale andavano in Siria per parlare del Libano.”
E qui Maroun fa una pausa e riprende l’analisi a partire dal punto di vista dei cristiani.
“Perché parlare dei cristiani? Cosa sarebbe il Libano senza la presenza di tutte le
sue comunità religiose? Niente, il Libano è
il Paese dove tutte, ribadisco, tutte le sue
componenti devono essere rappresentate e
partecipano attivamente alla vita politica
ed economica.
Purtroppo, l’applicazione dell’accordo di
Ta’if ha molte zone grigie che lasciano
spazio alle interpretazioni che facevano
comodo ai siriani per poter controllare la
vita politica ed economica libanese. Un sogno che non smetteranno mai di sognare.
La prima trappola per i cristiani si realizza
già nel 1992. In queste elezioni ha votato
solo il 24% della popolazione. L’accordo di
Ta’if prevedeva una legge elettorale basata
sulle Mohfazat, le Regioni in italiano, ma
è stata fatta una legge elettorale con criteri diversi che permetteva ai Signori della guerra al potere di tradursi in deputati
eletti.
Il 1992 è stato l’anno che Rafic El Hariri, il
padrino dell’accordo di Ta’if è stato designato Primo Ministro. Rafia El Hariri, era
molto vicino al Re dell’Arabia Saudita, ha
dato il via alla ricostruzione del paese ed è
stato Primo Ministro fino al 1998, quando
Emile Lahoud, alleato di Bashar El Assad è
stato eletto Presidente della Repubblica.
Rafiq El Hariri è stato un personaggio di livello internazionale con grandi legami, capace di riunire intorno a sè i capi di stato di
tutto il mondo ed è diventato per un lungo
periodo il fulcro della vita politica libanese. Molti hanno discusso e avevano delle
perplessità sulla sua politica economica,
la sostenibilità di questa politica e anche
la sua adattabilità alla realtà libanese, ma
nessuno ha mai potuto negare le sue capacità imprenditoriali e politiche ma soprattutto le sue qualità umane. Durante tutta
la guerra e anche dopo, Rafic El Hariri tramite la sua fondazione ha dato la possibilità a decine di migliaia di giovani libanesi,
di tutte le comunità voglio sottolinearlo,
di studiare all’estero permettendo al paese di avere una classe dirigente altamente
qualificata. Con le elezioni del 2000 Rafic
El Hariri, vincitore, è tornato al governo
ed è rimasto fino al 2004 quando c’è sta179
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
to un rinnovo del mandato del Presidente
libanese Emile Lahoud per altri 3 anni. Un
rinnovo non previsto nella costituzione
ma praticato anche precedentemente con
il presidente Elias Hraoui. La legge elettorale del 2000 chiamata correntemente col
nome dell’ex capo dei servizi segreti siriani
in Libano Ghazi Kanaan, è stata emanata
sotto la tutela siriana dal Parlamento nel
1996. Così il Libano è stato diviso in quattordici distretti elettorali che non rispettano la realtà politica, né la logica geografica
e sociale.
La tensione in Libano era molto forte e il,
14 febbraio 2005 Rafic El Hariri è stato assassinato. Un vero terremoto che ha sconvolto non solo il Libano ma tutto il mondo arabo. Il più forte uomo sunnita che
sembrava intoccabile, è stato assassinato.
Un’altra volta il sogno è finito, è ricominciato l’incubo, un passaggio fondamentale
in questa trasformazione del Medio Oriente dalla culla delle civiltà al cimitero della
ragionevolezza”.
Qui Maroun fa una pausa ed io ne approfitto per raccontargli il mio viaggio a Beirut proprio nei giorni immediatamente a
ridosso dell’attentato sul Lungomare in
cui perse la vita il leader libanese. Ero con
Stefania Craxi ed un paio di collaboratori
della Fondazione intitolata allo statista
socialista, tra cui il fedelissimo autista di
Bettino, Nicola Mansi. Partecipammo ad
un convegno sul diritto dei profughi palestinesi a riavere una patria, ricordo bene il
nervosismo che si respirava ed il discorso
di Stefania molto netto sulle responsabilità politiche siriane in Libano, incontram-
mo anche un alto esponente di Hezbollah
e vedemmo l’ambasciatore italiano Franco
Mistretta che mi fece un’ottima impressione di competenza e di realismo politico.
Ho una fotografia che mi ritrae insieme a
Stefania Craxi in raccoglimento davanti al
feretro di Hariri, intorno a noi era palpabile
la commozione ma soprattutto la tensione
e i giorni seguenti confermeranno questa
perenne condizione del Libano sempre sul
baratro di nuovi focolai di guerra civile.
“La destabilizzazione di tutto il mondo
arabo non sarebbe stata possibile senza
l’assassinio di Hariri - si avvia a concludere
Maroun - Aveva della capacità e delle potenzialità in grado di interloquire sul piano
globale e lavorava per la risoluzione delle
tensioni del puzzle mediorientale. Chi lo
ha ucciso voleva mantenere alto il livello
dello scontro sunnita-sciita in Medioriente. Elementi che sembrano dispersi, ma
messi insieme con quello che è successo in
Iraq potrebbero spiegare la nascita dell’ISIS.
I focolai di conflitto nel mondo arabo, Sira,
Iraq e Yemen, non potranno mai essere risolti con l’applicazione della democrazia
numerica. L’esperienza della Democrazia
Consensuale Libanese potrà sicuramente
essere una soluzione per portare questi
paesi verso una zona di dialogo e di condivisione. In tutti questi anni, molti paesi
arabi hanno fatto passi importanti di modernizzazione, gli Emirati arabi in particolare hanno avuto personalità lungimiranti
come il governatore di Dubai ma al mondo
arabo mancano le capitali culturali come
Beirut, il Cairo, Damasco e Baghdad. Non si
180
Grand Tour
potrà stabilire di nuovo una situazione di
tranquillità senza ridare a queste capitali il
loro ruolo di faro.
La situazione oggi nel Medioriente è drammatica, assistiamo ad una spartizione dei
ruoli e dei poteri tra la Turchia, l’Iran e
Israele. A pagare le conseguenze è naturalmente il mondo arabo. Un ritorno alla
diversità e il rispetto delle peculiarità etniche religiose sembrano le uniche strade da
intraprendere per uscire fuori da questo labirinto. Il Libano è la migliore best practice
a questo proposito, una pozione magica,
perciò ritengo una svolta positiva l’elezione del Generale Michel Aoun in seguito ad
una riconciliazione storica coraggiosa con
Samir Geagea. Un atto da uomini di stato
che è stato accolto con altrettanto coraggio da Saad Hariri. Hezbollah ha naturalmente appoggiato per ragioni geopolitiche
ma soprattutto per riconoscenza verso il
Generale Michel Aoun durante la guerra
israeliana del 2006. Saranno loro quattro
Aoun, Geagea, Hariri e Hezbollah a definire
il futuro del Libano con una legge elettorale che ci tiri fuori dalle paludi confessionali
verso lo Stato di diritto e di cittadinanza.
È un sogno forse, ma solo sognando possiamo uscire da questo incubo di una lotta
continua senza esito”.
La nota positiva finale di Maroun El
Moujabber si basa su una valutazione attenta degli equilibri e dei rapporti di forza
attuali in un Libano che con tutte le sue
forze rifiuta di rivivere gli orrori del passato, la Beirut che ha anticipato Aleppo,
non è un esercizio di ottimismo della volontà. Bisogna ora vedere come si evolverà
il quadro geopolitico complessivo, se veramente si realizzerà un asse Trump-Putin
e come reagiranno gli attori mediorientali alla riproposizione del patronage delle
due superpotenze della guerra fredda che
ne raffredderebbe le ambizioni regionali e
qualcosa di più. Gli ingredienti della pozione magica vanno lavorati con sapienza da
mani esperte, riprendere il controllo dopo
la sciagura delle primavere arabe è in questo senso interesse dell’Europa e dell’Italia
in special modo, a partire dalla situazione
libica dove si giuoca una partita mediterranea confusa tra l’Europa e l’area MENA e
dentro l’Europa, tra Serraj e Haftar e da cui
può legittimarsi un nuovo ruolo del nostro
Paese nel dopo soft power americano.
Gianni Bonini
Vicepresidente del CIHEAM (Centre international de
hautes études agronomiques méditerranéennes) e Senior fellow del think tank “Il Nodo di Gordio”
181
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
TRA IDENTITÀ
E TERRORISMO.
LA SFIDA DEI PALESTINESI
DEL LIBANO
di Luca Steinmann
Nel 1974, all’ONU,
Arafat tese la mano ad un
Occidente che si era sempre
schierato a favore di Israele
ono venuto qui portando in
una mano il ramo di ulivo e
nell’altra il fucile del combattente della libertà. Fate che il ramo
d’ulivo non cada mai dalla mia mano”.
Quando nel 1974 Yasser Arafat si rivolgeva con queste parole alle Nazioni Unite il conflitto arabo-israeliano era nel
pieno della sua esecuzione e della sua
violenza. Il leader della resistenza palestinese tese in quell’occasione la mano
a un mondo, quello occidentale, che
fino a quel momento era stato piuttosto
schierato a favore delle posizioni israeliane. Questo discorso di apertura venne
letto da molti analisti di allora come il
primo passo verso un processo di pacificazione con l’Occidente, nonché come
una apertura al dialogo con il mondo
ebraico. In molti, ancora oggi, leggono
quelle parole come l’inizio di un processo di pacificazione che confluì nel 1993
"S
182
Grand Tour
negli accordi di Oslo, quando le autorità
palestinesi riconobbero ufficialmente
la legittimità dell’esistenza di uno Stato ebraico in Palestina, accettando la
cosiddetta “soluzione a due Stati”. Arafat probabilmente non si aspettava che
mettendo da parte il fucile non avrebbe
messo fine alla guerra. Non immaginava
che la cosiddetta pace avrebbe generato
una profonda sfiducia nei confronti suoi
e dell’OLP. Non immaginava che le trattative per il reciproco riconoscimento
tra Israele e Palestina avrebbero portato
ad un vuoto di potere all’interno delle
comunità di esuli palestinesi che, a sua
volta, avrebbe generato una lotta intestina diffusa e perpetua. Una guerra civile all’interno dei campi profughi palestinesi che si sta combattendo in questi
giorni e in queste ore in diverse zone del
Medio Oriente. E che ha come epicentro
la Siria e il Libano.
LE ORIGINI
Fin da quando i primi esuli dovettero lasciare le proprie case in Palestina a seguito
della nascita dello Stato d’Israele nel 1948
e delle conseguenti guerre che scoppiarono tra arabi ed ebrei, la maggior parte dei
palestinesi si stabilì nei Paesi confinanti:
Giordania, Libano e Siria. Attendendo un
rimpatrio che mai avverrà, essi andarono
ad abitare in campi profughi che, col tempo, diventarono dei veri e propri quartieri o
città autonome, sotto il controllo delle autorità palestinesi e di proprie milizie armate. La storia di questi campi e dei loro abitanti ha segnato tutto il corso del conflitto
arabo-israeliano, dalle vicende di Settembre Nero in Giordania fino alla guerra civile libanese e alle due invasioni israeliane.
Seppur le diverse società palestinesi dei
campi abbiano sviluppato rapporti differenti con le rispettive autorità dei Paesi
183
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
ospitanti – generalmente positivi nella Siria degli Assad, di segregazione in Libano,
molto altalenanti in Giordania – tutte sono
accomunate da un elemento di base comune: l’assimilazione all’interno delle società
ospitanti è sempre stata vissuta come una
minaccia alla propria identità e al proprio
diritto al ritorno. Un’idea, questa, promossa soprattutto dalle autorità all’interno dei
campi, quasi sempre nelle mani dell’OLP, il
cui consenso tra i palestinesi è sempre stato maggioritario. Fino al 1993. Con il riconoscimento dell’OLP al diritto ad esistere
dello Stato di Israele e alla propria rinuncia
al terrorismo, alla violenza e all’intento di
distruzione dello Stato ebraico è stata ufficializzata la mancanza di volontà da parte
dei leader palestinesi di garantire il rimpatrio dei propri esuli. Molti dei quali si sono
dunque sentiti abbandonati e hanno iniziato a mettere in pesante dubbio la legittimità di Arafat e di Abbas a rappresentare
la propria causa. La conseguenza di tutto
ciò è stato l’arretramento dell’OLP come
forza politica e la conseguente creazione
di un vuoto politico e militare all’interno dei campi. La cui occupazione ha dato
progressivamente vita a lotte intestine per
il potere tra le milizie dell’OLP, principalmente di al Fatah, e altri movimenti ad
esse concorrenziali che rivendicano la titolarità della lotta per i diritti del proprio popolo a favore del rimpatrio e contro quella
che chiamano “l’occupazione israeliana”.
Negli ultimi anni questa conflittualità si è
sovrapposta, mischiata e confusa con quella in corso tra sciiti e sunniti che interessa
tutto il mondo arabo-musulmano. Gene-
rando una spaccatura interna ai palestinesi così profonda da mettere in secondo
piano la lotta contro Israele, anche se non
formalmente, rispetto alle faide interne.
LA FAIDA TRA SCIITI E SUNNITI
All’interno della guerra fra sciiti e sunniti, che ha come epicentro la Siria ma che
coinvolge massicciamente anche il Libano, i palestinesi non hanno preso un’unica posizione a favore dei primi o dei secondi, ma si sono divisi internamente tra
gruppi con vincoli di fedeltà differenti. I
campi profughi sono diventati il luogo in
cui questa contrapposizione si manifesta
maggiormente e con maggiore violenza, trasformandosi spesso in veri e propri
campi di battaglia tra le diverse fazioni che
si contendono il territorio. Le dinamiche
che hanno segnato queste divisioni sono
analoghe in Siria come in Libano. Con lo
scoppio della guerra siriana i palestinesi si
profondamente divisi: una minoranza ha
giurato fedeltà al regime di Bashar al Assad, altri si sono uniti ai variegati gruppi
di ribelli che componevano inizialmente il
fronte anti-governativo. Una piccola parte
di loro ha aderito a formazioni terroristiche come Daesh e Jabhat al Nusra. Sia i ribelli che il governo hanno preso di mira i
propri nemici, bombardando pesantemente i campi profughi e spingendo milioni di
palestinesi-siriani a fuggire per trovare riparo nei campi del vicino Libano, dove le
logiche di divisione e conflitto sono pressoché le stesse. Con la grande differenza
che tra i palestinesi-libanesi è molto forte
184
Grand Tour
l’infiltrazione di Hezbollah, che ha creato
all’interno dei campi due milizie palestinesi, La Brigata di Sicurezza e Ansar Allah,
che hanno giurato fedeltà direttamente al
Partito di Dio e del quale sono a tutti gli
effetti braccia armate operative. All’interno dei campi libanesi convivono a strettissimo contatto tutte le componenti che
combattono conflitto tra sciiti e sunniti. E
che si combattono a loro volta tra le catapecchie e i casermoni in cui vivono gli esuli
palestinesi, generando centinaia di morti e
feriti.
DAESH E NUSRA TRA I PALESTINESI
Particolarmente rilevante è la sovrapposizione tra la causa palestinese e quella dei
gruppi terroristici sunniti come Daesh e
al Nusra. Il tentativo dei terroristi di presentarsi come i nuovi titolari della lotta
anti-israeliana non è cosa nuova, ma affonda le proprie radici in decenni di tentativi di radicamento all’interno delle comunità di esuli palestinesi, la cui causa è
stata invece tradizionalmente animata da
un’ispirazione laica se non laicista. La crisi
di consenso dell’OLP a partire dal 1993 e
il conseguente vuoto di potere hanno però
aperto nuovi margini d’azione per i gruppi
radicali sunniti che, facendo leva sulla comunanza di fede con la maggior parte dei
profughi, hanno iniziato a fare propaganda mischiando le proprie parole d’ordine
con aiuti sociali e materiali che forniscono
alla gente bisognosa. Così facendo alcune
loro cellule hanno trovato spazio in alcuni campi che hanno usato come base per
dar vita a rivolte armata contro le autorità libanesi ancor prima dello scoppio delle cosiddette primavere arabe. Il caso più
emblematico è quello del campo di Nahr El
Bared, a Tripoli, nel Libano settentrionale
e non lontano dal confine siriano. Nel 2007
un gruppo di 300 terroristi facenti parti
del gruppo di Fatah al Islam, legato ad al
Qaeda ed inizialmente supportato e finanziato da un noto partito sunnita libanese
vicino all’Arabia Saudita, prese il controllo
del campo. Si trattava di 300 persone provenienti da tutto il mondo (Siria, Libano,
Afghanistan, Arabia Saudita, Giordania,
Marocco, Pakistan, Kuwait) che in nome
della difesa della causa palestinese utilizzò Nahr el Bared per tentare un colpo
di mano armato contro lo Stato libanese.
Le autorità nazionali reagirono e scoppiò
una guerra che durò diversi mesi e rase il
campo quasi totalmente al suolo a causa
dell’utilizzo di bombe e missili da parte dei
governativi che alla fine cacciarono i jihadisti ma lasciarono a terra anche tantissime vittime civili. Secondo molti abitanti di
Nahr El Bared quello di allora fu un tentativo di rivoluzione analogo a quello che
qualche anno dopo avrebbe colpito la Siria.
Questo esempio mostra chiaramente come
da parte dei terroristi vi sia la volontà di
utilizzare la causa palestinese per promuovere la propria guerra che vede come primo
bersaglio non Israele, bensì quei musulmani che non si piegano al loro volere, quindi
principalmente gli sciiti. Non è neanche un
caso, dunque, che all’interno della guerra
tra sciiti e sunniti importanti partiti sunniti legati all’Arabia Saudita ed ai Paesi
185
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
del Golfo abbiano supportato a fasi alterni
questi gruppi terroristici in funzione antisciita.
IL RUOLO DI HEZBOLLAH
Per l’opinione pubblica palestinese, però, il
principale nemico rimane Israele. È anche
per questo che i gruppi terroristici sunniti
che non attaccano direttamente lo Stato
ebraico non hanno mai raggiunto un vasto
consenso tra di loro. Va anzi sottolineato
che pur essendo vero che alcuni palestinesi aderiscono a queste formazioni, la
stragrande maggioranza è loro avversa e
li combatte attivamente. In molti temono
infatti che la sovrapposizione tra la causa
jihadista e quella palestinese possa essere
utilizzata come scusa da Israele per attaccarli nuovamente, mettendo fine manu
militari alle proprie ambizioni di rimpatrio. È per questo che, nonostante la fede
sunnita della maggior parte dei palestinesi, alcuni di loro hanno giurato fedeltà a
quella formazione che si è contraddistinta
come principale e indispensabile interprete della lotta anti-sionista: gli sciiti di
Hezbollah. La potenza militare del Partito
di Dio e la propria forza di intelligence fa
permette a tale movimento di controllare
de facto diverse aree di alcuni campi libanesi, permettendo all’interno di essi anche
l’ingresso di spie siriane alla ricerca di persone palestinesi-siriane riparate in Libano
per non essere arruolate tra le fila del regime. È il caso soprattutto di alcuni campi di
Beirut, come quello di Sabra e Shatila, dove
la presenza sciita e siriana è ormai visibile
e dove le operazioni militari contro i dissidenti anti-siriani (terroristi o meno) sono
costanti.
EQUILIBRI NON CATALOGABILI
Quella che si sta combattendo tra i palestinesi è dunque una vera e propria guerra
civile interna ad una guerra civile più ampia, che vede la partecipazione di tutti gli
attori in causa: Hezbollah, i lealisti siriani,
i ribelli siriani anti-governativi, i gruppi
186
Grand Tour
terroristici sunniti, i partiti libanesi sunniti legati ai Paesi del Golfo. I combattimenti
sono ininterrotti, anche se non coinvolgono tutti i campi. Quelli che negli ultimi
mesi sono stati maggiormente interessati
dalle violenze sono quello di il campo di
Yarmouk, vicino a Damasco, e quello di Ein
el Hilwee, a Sidone. Entrambe dichiarate
zone di guerra, nel secondo caso le Nazioni
Unite hanno dovuto abbandonate momentaneamente le proprie postazioni interne
al campo perché non in grado di difenderle. Ein el Hilwee è un caso emblematico che
mostra chiaramente come in questa guerra
non esistano fazioni omogenee e che gli
schemi interpretativi che spesso la stampa
europea fornisce per interpretare la guerra tra musulmani non siano validi. A Ein
El Hilwee si combattono tutti i giorni più
fazioni: Daesh, Nusra, Fatah, Fatah Intifada, gruppi legati a Hezbollah. Sono proprio
questi ultimi ad avere siglato a seguito degli scontri una insolita alleanza militare
con al Nusra, gruppo terroristico guidato
all’interno del campo da Bilal Bader, classe
1989, che ha dato il proprio nome alla formazione che guida pur rivendicando la sua
appartenenza a al Nusra. Mentre in Siria e
in altre parti del Libano sciiti e sunniti si
combattono, i delicati equilibri di questo
campo hanno portato ad un alleanza tra
opposte fazioni.
Divisi, frammentati e antagonisti, gli esuli palestinesi sono oggi più lontani che
mai non solo dal ritorno in Palestina ma
anche dalla possibilità di lottare contro il
proprio nemico israeliano. Se lo facessero
verrebbero immediatamente bloccati da
Hezbollah, che difende la sua titolarità a
combattere Israele per accreditarsi all’interno di tutto il mondo islamico. Quello
che si registra oggi nei campi profughi è
una profonda assenza di una classe dirigente palestinese, che se e quando ha abbandonato le armi non ha investito sulla
formazione e sulla comunicazione, ma ha
aspettato che qualcuno permettesse loro
di tornare in Palestina. Oggi stanno ancora
aspettando, vittime delle violenze di tutti.
Dei siriani governativi, dei ribelli, dei terroristi, di Hezbollah, delle stesse autorità
palestinesi. Il fallimento degli accordi di
Oslo, lo sradicamento e la difficile difesa
di una fragile identità senza terra stanno
mettendo a dura prova le comunità di esuli. Che, nonostante tutto ciò, continuano
a sognare il ritorno in Palestina. E anche
per questo la stragrande maggioranza di
loro combatte attivamente i terroristi, sperando di potersi, un giorno, rimpossessare
del proprio destino. Oggi gestito da attori
esterni.
Luca Steinmann
Giornalista e docente universitario, è corrispondente in Italia del quotidiano svizzero “Il Corriere del
Ticino” e collaboratore di diverse testate italiane e
tedesche. Collabora con il Dipartimento di Relazioni Internazionali della facoltà di Scienze Politiche
dell’Università degli Studi di Milano ed è costantemente inviato come reporter e ricercatore in diverse
aree del globo. In Libano tiene dei corsi di giornalismo e comunicazione all’interno dei campi profughi
palestinesi.
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Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
LA RADICALIZZAZIONE DEI
COMBATTENTI JIHADISTI NEI
BALCANI OCCIDENTALI
di Nina Kecojević
La radicalizzazione nei
Balcani ha radici nella
dissoluzione violenta della
Ex Jugoslavia
el corso degli ultimi anni, il mondo ha assistito alla vertiginosa
ascesa di una “macchina del terrore”, un brand-new denominato “Stato
islamico in Siria e Iraq”. Ciò che ha maggiormente stupito non è stato l’emergere
del gruppo terroristico di per sé ma la sua
componente internazionale. Il fenomeno
dei foreign fighters, che ha caratterizzato
questa “nuova entità”, ha visto migliaia di
individui “abbracciare” le idee dello Stato
islamico non solo per combattere e per rovesciare i regimi politici in Siria e in Iraq
o per il dominio nel mondo islamico, ma
anche per creare uno “stato” pienamente
funzionante destinato a diventare la “patria” di tutti i veri musulmani. La forza del
richiamo dello Stato islamico, più che nella
diffusione del terrore, sta quindi nella “vision” del gruppo terroristico che intende
proiettarsi globalmente scardinando i confini geografici esistenti.
N
188
Grand Tour
Il conflitto per il dominio tra i regimi statali e
i gruppi non statali nell’area MENA ha portato alla “transnazionalizzazione” del conflitto
e al risveglio di foreign fighters pronti a lottare in nome dell’ideologia jihadista, con la
promessa di una vita migliore nella società
governata delle leggi della Shari’a.
I dati relativi alla radicalizzazione jihadista in Bosnia-Erzegovina, Kosovo ed in
Albania, nonostante la disponibilità di un
minor numero di analisi e ricerche rispetto
a quelle che hanno indagato sul fenomeno in altre aree, testimoniano il successo della campagna propagandistica dello
Stato islamico nel corso degli ultimi anni.
Con oltre 600 individui (anche se non tutti
effettivi combattenti) giunti nei territori
dello Stato islamico, questi tre Paesi sono
considerati tra i maggiori “esportatori” di
jihadisti in Europa ed è quindi opportuno
analizzare questo aspetto del fenomeno
con particolare attenzione1. L’inizio degli anni Novanta nei Balcani Occidentali
ha segnato, tra l’altro, la dissoluzione del
peculiare regime comunista imposto da
Tito portando al risveglio delle aspirazioni nazionaliste sopite ed alle sanguinose
guerre civili in Bosnia-Erzegovina ed in
Kosovo. L’incapacità dei governi di garantire il controllo e l’effettività di uno stato
di diritto all’interno dei rispettivi confini
nazionali ha generato l’erosione istituzionale e la disfatta dei confini nazionali,
facendo dilagare la corruzione2. Inoltre, il
1. Vlado Azinović, Mehmet Jusić, The new lure of Syrian war – The foreign fighter’s Bosnian Contingent, Atlantic Initiative,
Sarajevo, Aprile 2016, p. 21; Kosovo Center for Security Studies, Report inquiring into the causes and consequences of Kosovo
citizens’ involvement as foreign fighters in Syria and Iraq, Apri 2015,p.24 e Peter R Neumann, “Foreign Fighter Total in Syria/
Iraq Now Exceeds 20,000; Surpasses Afghanistan Conflict in the 1980s”, ICSR, 26 January, 2015.
2. Il rapporto di UNODC del 2011 (Corruption in Bosnia and Herzegovina: Bribery as experiences by the popolation) classifica
la corruzione come il quarto problema più grave del paese.
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Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
deterioramento delle economie nazionali
ha generato ulteriori problemi: elevata disoccupazione (in particolare quella giovanile giunta al 55.3% in Kosovo e al 62.8%
in Bosnia-Erzegovina a gennaio 2014) e
povertà crescente hanno accentuato un
diffuso senso di insicurezza e frustrazione
tra le popolazioni ormai divise su base etnico-religiosa.3 In un contesto caratterizzato da esclusione sociale e mancanza di
prospettive, il Salafismo4 ed il Takfirismo5
sono riusciti a penetrare nelle zone isolate, sfidando l’ordine esistente e l’autorità
delle Comunità Islamiche nazionali.6 Sono
riusciti anche a sfruttare l’insoddisfazione
popolare verso i regimi esistenti in favore
di un progetto che oltrepassa i confini nazionali: la creazione del Califfato.
Nonostante gli sforzi politici e umanitari
realizzati nel corso degli ultimi venti anni,
la Bosnia-Erzegovina rimane ancora profondamente contrassegnata dalla divisione etnico-religiosa e lontana dal raggiungimento del suo ideale Euro-Atlantico. La
difficoltà del processo di nation buliding
sembra essere esaltata dal complesso sistema governativo realizzato dopo le guerre civili ostacolando la cooperazione tra i
partiti politici etnicamente divisi. Vista
la precaria situazione della società postbellica e il suo, finora, difficile percorso democratico, una piccola parte della società
ha iniziato ad abbracciare la propaganda
dell’Islam radicale per cercare una stabilità
sociale e economica. Il fondamentalismo
islamico in Bosnia-Erzegovina, però, non
è un fenomeno nuovo. La sua evoluzione
si è avviata già in epoca comunista con la
pubblicazione della Dichiarazione islamica (il manifesto della rinascita islamica di
Alija Izetbegović7) che rivelava le aspirazioni dell’élite musulmana di quel tempo:
organizzare un movimento pan islamico
che spezzasse le catene della schiavitù e
della sottomissione musulmana e instaurasse la società islamica governata da un
governo mussulmano8. Anche se durante il
periodo bellico, Izetbegović e il suo Partito
d’Azione Democratica (Stranka Demokratske Akcije) si dichiaravano protettori della
Bosnia-Erzegovina multi-etnica, lo scoppio della guerra creò i prerequisiti per l’ascesa del movimento pan islamico nel Paese. La Risoluzione 713 del Settembre 1991
del Consiglio di Sicurezza delle N.U. pose
l’embargo sulle forniture militari alla Jugo-
3. http://www.indexmundi.com/
4. Salafismo è il movimento all’interno dell’Islam sunnita che professa il ritorno alle autentiche credenze e pratiche delle
prime tre generazioni di musulmani, quali sono l’ideale di pratiche islamiche. Il suo carattere estremista e la forma militante
sono alla base ideologica per varie organizzazioni terroristiche, in primis Al-Qaida.
5. Il Takfirismo è l’ideologia che si basa sulla pratica del “takfîr”. È un termine arabo utilizzato per indicare la “scomunica” applicata nei confronti di un soggetto dichiaratosi appartenente ad una religione diversa dall’Islam o di un musulmano che non
professa in modo radicale la sua fede. I takfiristi percepiscono la jihad come lo strumento per la restaurazione del Califfato.
6. Con l’espressione “Comunità Islamica” si indicano le più grandi organizzazioni religiose dei musulmana nei paesi in questione, quali Bashkësia Islame e Kosovës in Kosovo, Komuniteti Mysliman i Shqipërisë in Albania e Islamska zajednica Bosne
i Hercegovine.
7. Alija Izetbegović è stato il Presidente della Bosnia ed Erzegovina dal 1990 fino al 1996 e il fondatore del Partito d’Azione
Democratica.
8. Alija Izetbegović, Islamska deklaracija, 1990, pp. 21-22.
190
Grand Tour
slavia; di conseguenza, l’esercito bosniaco
cercò vie alternative per provvedere alle
proprie esigenze. Oltre ad aiuti umanitari e finanziari, da diversi Paesi arabi sono
arrivati anche i Mujahideen (in seguito
incorporati nell’unità El Mudžahid) e con
essi la diffusione di diverse interpretazioni dell’Islam, strettamente legate alle reti
terroristiche che percepivano la guerra in
Bosnia-Erzegovina come un nuovo fronte della jihad globale9. Durante il periodo
delle guerre intestine, l’Arabia Saudita è
stata considerata da alcuni analisti uno dei
maggiori “sostenitori” dell’Islam radicale in Bosnia-Erzegovina ed in Kosovo, ed
ancora oggi continua a sostenere le reti di
humanitarian aid agencies e di formazione
degli imam10.
Anche in Kosovo la nascita del fenomeno è
legata alla crisi identitaria ed alla dilaniante situazione socio-economica del Paese,
che lo ha reso terreno fertile per l’espansione dell’estremismo violento. Secondo
Isa Blumi, finita la guerra, le agenzie del
SJCRKC (Saudi Joint Committee for the
Relief of Kosovo and Chechnya) sfruttando le disattenzioni dell’UNMIK (United
Nations Interim Administration Mission
in Kosovo11) nelle zone rurali e isolate,
hanno disseminato le idee conservatrici
della dottrina Salafita tramite la costruzione delle moschee e l’educazione dei
giovani12. Secondo uno studio del Centro
per gli Studi sulla Sicurezza Kosovaro sui
foreign fighters, l’estremismo islamico nel
Paese è legato anche alla dottrina Takfirista importata dalla Macedonia, negli anni
successivi alla guerra di indipendenza13. I
due imam macedoni Shukri Aliu e Rexhep
Mumishi, entrambi addestrati in Egitto,
sono considerati i principali importatori
della dottrina estremista in Kosovo, dove
hanno creato una base di reclutamento
per lo Stato islamico14. Shukri Aliu è stato
bandito dal Kosovo nel 2012 ma ciò non gli
ha impedito a mantenere i contatti con gli
imam locali e reclutare nuovi combattenti
fino alla sua morte, avvenuta nel 2015.
In Albania, dopo ventitrè anni dell’epoca
atea, la ricostruzione religiosa è stata profondamente contrassegnata dalla mancanza di risorse finanziarie per la ricostruzione delle istituzioni e delle figure religiose
processate o uccise durante il regime comunista. La riscoperta della libertà di culto ha coinciso con la decisione del primo
9. I Mujahideen erano i “holy warriors” stranieri che combattevano contro i Serbi e Croati durante la guerra in BosniaErzegovina. Secondo Documentation Centre of Republic of Srpska sarebbero stati collegati con i gruppi terroristici come
come Al - Qaeda, GIA, l’egiziano al-Gama’a al Islamiyya.
10. Shaul Shay, Islamic Terror and the Balkans, New Brunswick, 2007, p. 47; John R. Schindler, Unholy Terror, Zenith Press,
2007, p. 129.
11. L’istituzione dell’UNMIK è stata autorizzata da Consiglio di Sicurezza con la Risoluzione 1244 - al fine di fornire un’amministrazione ad interim per il Kosovo in base alla quale la popolazione del Kosovo poteva godere di una sostanziale autonomia.
In seguito alla dichiarazione di indipendenza nel 2008, i compiti della missione si focalizzano principalmente sulla promozione della sicurezza, della stabilità e sul rispetto dei diritti umani in Kosovo.
12. Isa Blumi, Indoctrinating Albanians Dynamics of Islamic Aid, ISIM Newsletter, Novembre, 2002.
13. Kosovo Center for Security Studies, Report inquiring into the causes and consequences of Kosovo citizens involvement
as foreign fighters in Syria and Iraq, p. 51.
14. Ibid, pp. 52-53.
191
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
L'ex Presidente albanese Sali Berisha
Presidente post-comunista, Sali Berisha,
di accogliere finanziamenti provenienti
dai Paesi del mondo islamico. Con i fondi
stranieri sono state costruite numerose
moschee di ispirazione radicale operanti
al di fuori della giurisdizione della Comunità Islamica e concesse borse di studio
per studi di teologia islamica nei Paesi del
Golfo ed in altri Paesi arabi. Al loro ritorno
nel paese di origine, alcuni di questi imam
hanno promosso idee radicali in contrasto
con le posizioni ufficiali della Comunità
Islamica Albanese, sfruttando le controversie esistenti per creare reti di reclutamento e convincere i giovani albanesi ad
abbandonare l’Islam tradizionale in nome
della jihad15.
La circolazione degli insegnamenti radicali, però, non è più limitata alle moschee
ma si sta diffondendo tramite i social
media e l’attivismo degli agenti radicali
operanti in zone rurali ed isolate. La “vittimizzazione” dei musulmani che hanno
perso la vita nei sanguinosi conflitti degli anni Novanta e la percezione che la
“causa” della loro lotta è trascurata dalle
strutture politiche “corrotte” rende ancora più seducente il richiamo dello Stato
islamico.
Le prime partenze da Bosnia-Erzegovina,
Kosovo e Albania verso Siria e Iraq sono
state registrate nel corso del 2012.16 La
frequenza delle partenze si è poi intensificata, anche diversificandosi quanto al tipo
di impegno. Secondo uno studio condotto
dall’Atlantic Initiative, gli individui erano
inizialmente spinti a recarsi nelle aree di
conflitto da spirito di solidarietà verso loro
15. AA.VV, Religious radicalism and violent extremism in Albania, IDM, Tirana, 2015, p. 34.
16. Adrian Shtuni, Ethnic Albanian Foreign Fighters in Iraq and Syria, CTC Sentinel, April 2015, p.11; Vlado Azinovic, Mehmet
Jusic, The new lure of Syrian war – The foreign fighters Bosnian Contingent, pp. 31-32.
192
Grand Tour
confratelli; ha poi prevalso, invece, la lotta
al regime di Al Assad17.
Si possono distinguere due categorie di
fighters. La prima comprende i veterani
delle guerre civili in Bosnia-Erzegovina e
Kosovo che, fatte proprie le interpretazioni
radicali dell’Islam, sono diventati influenti
membri delle comunità radicali. L’altra, invece, annovera i giovani che si mobilitano
con un forte desiderio di autorealizzazione
e per la necessità di allontanarsi dall’esclusione economica e dalla marginalizzazione
sociale.
Molti di questi individui hanno in comune la predisposizione per l’estremismo e
per gli atti criminali (soltanto nel caso del
contingente bosniaco in Siria e Iraq, il 26%
aveva precedenti penali18). La propensione
degli ex criminali ad aderire allo Stato islamico non è casuale ma è il risultato dei due
fattori tra loro connessi: la mancanza delle
prospettive sociali e familiari e l’inclinazione dello Stato islamico a dare un senso
ed un riconoscimento alle loro azioni. Il
caso di Emrah Fojnica testimonia in modo
lampante quanto possa incidere il passato
criminale sui processi di radicalizzazione.
Fojnica è stato sospettato di aver aiutato
Mevlid Jašarević ad organizzare l’attacco
terroristico all’Ambasciata degli Stati Uniti
a Sarajevo nel 2011. È stato assolto dall’accusa nel 2012 per mancanza di prove. Nel
suo caso, oltre che dai precedenti penali, il
processo di radicalizzazione è stato anche
facilitato dalla scarsa istruzione, dall’influenza della comunità salafita di Gornja
Maoča19 e dall’autorità del padre, Hamdo
Fojnica, che, peraltro, avrebbe poi celebrato il suo martirio avvenuto nell’Agosto
2014 in Iraq.
Nella maggioranza dei casi la diffusione
dell’Islam radicale è legata alle attività e
all’influenza delle cosiddette “nuove autorità religiose”, ovvero agenti di indottrinamento ideologico. La presenza delle comunità salafite isolate nelle zone rurali, come
Gornja Maoča, Ošve e Velika Kladuša in
Bosnia-Erzegovina, Leshnica, Zagoracan
e Kachanik in Kosovo, Elbasan, Pogradec e
Kukes in Albania evidenzia la presenza di
diversi centri di reclutamento e di addestramento militare e ideologico dei nuovi
jihadisti20.
Anche nei Paesi citati, il potere dei social
media è stato ampiamente sfruttato dagli agenti islamisti per l’indottrinamento
ideologico ed il reclutamento nelle formazioni paramilitari dello Stato islamico. E’
stata creata una serie di siti web di carattere educativo, specialmente nel caso della
Bosnia-Erzegovina (come Vijesti Ummeta,
Put Vjernika, Islam Bosna e Mladi Muslimani) destinati a lodare i successi dello Stato islamico. Inoltre, i video delle khudba
17. Vlado Azinović, Mehmet Jusić, The new lure of Syrian war – The foreign fighters Bosnian Contingent, p. 50.
18. Ibid., p. 40.
19. Gornja Maoča è un villaggio nel nord-est della Bosnia-Erzegovina.
20. Vlado Azinović, Mehmet Jusić, The new Lure of the Syrian war – The foreign fighters Bosnian Contingent, p. 37; Kosovo
Center for Security Studies, Report inquiring into the causes and consequences of Kosovo citizens‟involvement as foreign
fighters in Syria and Iraq, p.80; Enri Hide, Assessment of risks on national security/ the capacity of state and society to react:
Violent Extremism and Religious Radicalization in Albania, Albanian Institute for International Studies, Tirana, 2015, p.7.
193
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
(sermoni) hanno mostrato di essere uno
strumento efficiente della radicalizzazione. É emblematico il video della khudba di
Bilal Bosnić nella quale egli loda la proclamazione del Califfato21. Nel sostenere la
causa dello Stato islamico egli enfatizza il
fatto che solamente i non credenti metteranno in discussione la legittimità di tale
proclamazione e contesteranno l’unificazione dei musulmani. La forza del suo appello, inoltre, si arricchisce del confronto
che egli fa tra il Vaticano (il luogo sacro
cristiano che chiude le porte davanti ai
fedeli) ed Israele (costruito nel cuore del
mondo musulmano), da un lato, e lo Stato
islamico dall’altro, che, invece, abbraccia i
veri credenti proponendosi di ripristinare
l’orgoglio a lungo perduto. Il suo discorso vuole stimolare i potenziali seguaci ad
aderire alle formazioni jihadiste, unendosi
nella lotta contro gli apostati e gli infedeli.
Le attività di Bosnić (condannato nel 2015
a sette anni di prigione per il reclutamento
e l’organizzazione dei viaggi verso Siria ed
Iraq) hanno provocato la morte di almeno
sei cittadini bosniaci in Medio Oriente22.
Altro video emblematico è quello di Al Hayat dal titolo “L’onore è in Jihad: un messaggio al popolo dei Balcani” in cui otto
combattenti, provenienti da Bosnia, Kosovo e Albania, coinvolgono gli spettatori
con una serie di immagini inquietanti e di
testimonianze, attraverso un percorso sto-
rico dalla caduta dell’impero ottomano ad
oggi.
Gli esperti di radicalizzazione e di estremismo violento sono particolarmente preoccupati per i returnees (e di quelli la cui partenza è stata impedita dalle autorità) che
rappresentano una potenziale minaccia per
la sicurezza, sia interna che regionale. Gli
stessi esperti danno la massima importanza alla creazione delle misure efficaci per la
riabilitazione e la reintegrazione sociale di
individui precedentemente coinvolti nella
narrazione estremista23. Anche se, nel corso degli ultimi anni, i Paesi in questione
si sono impegnati a riformare i rispettivi
codici penali e l’intero quadro giuridico in
accordo con gli standard promossi dalla
Strategia globale anti-terrorismo dell’ONU
e dalla Strategia anti-terrorismo dell’UE in
materia di lotta contro il terrorismo, sussiste ancora la forte necessità di promuovere
il dialogo sociale e inter-religioso24.
L’estremismo violento è anche conseguenza della diffidenza reciproca tra i governi
nazionali e della mancanza di cooperazione in ambito sicurezza. Il problema travalica la sola limitata prospettiva interna di
ogni Paese e la stessa dimensione regionale, necessitando di cooperazioni efficaci.
Un esempio lo troviamo nella Operazione
Van Damme del Dicembre 2015. Gli interventi condotti dalla polizia Italiana e Kosovara hanno portato all’arresto di quattro
21. Bilal Bosnić hutba: velika radost-proglašenje hilafeta, Luglio 2014, https://www.youtube.com/watch?v=wSbLs7OH5cY
22. Balkan Insight, Bosnia Jails Salafist Chief for Recruiting Fighters, November 2015, https://goo.gl/oqEZPq
23. Council of the European Union, The European Union Counter-Terrorism Strategy, November 2005, Brussels, p.8, https://
goo.gl/EDK7bS
24. Bosnia and Herzegovina Council of Ministers, Strategy of Bosnia and Herzegovina for Preventing and Combating Terrorism 2015-2020, Sarajevo 2015.
194
Grand Tour
Campi di addestramento jihadisti nei Balcani
individui provenienti dai Balcani e residenti in Italia. Di questi, tre sono stati arrestati dalla polizia Italiana in seguito alle
investigazioni condotte a Brescia, Perugia
e Vicenza mentre uno è stato arrestato in
Kosovo, nel villaggio Hani I Helezit. Essi
erano sospettati di aver effettuato la propaganda jihadista nei Balcani e di aver pianificato un attentato a Papa Francesco e a
Tracy Ann Jacobson, Ambasciatrice degli
Stati Uniti in Kosovo. Questa operazione
rispecchia il carattere transnazionale del
terrorismo, anche a cavallo del confine
orientale dell’Italia, da ciò ne consegue che
una collaborazione consolidata ad ogni livello è indispensabile.
Nina Kecojevic
Di origine montenegrine, è laureata in Relazioni
Internazionali (percorso: Pace, Guerra e Sicurezza).
Ha svolto il tironcinio presso l’Ambasciata del Montenegro a Roma. Attualmente è stagista presso ADC
ICTY (The Association of Defence Counsel practising
before the International Criminal Tribunal for the
Former Yugoslavia). Studiosa di questioni di estremismo violento, radicalizzazione e jihadismo soprattuto
nell’area balcanica.
195
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
UN PAESE IN CUI TUTTO
È IL CONTRARIO DI TUTTO”
IL GRANDE IRAN DI GIUSEPPE
ACCONCIA
di Michela Mercuri
n Paese in cui tutto è il contrario di tutto. La libertà è ipocrisia,
la religione è politica, la carità
è profitto”. Anche questo è, citando le parole di Giuseppe Acconcia, Il Grande Iran.
Un luogo che vive di mille contraddizioni,
in cui regna una “pace metafisica” che colpisce l’autore mentre torna nel Paese dal
confine turco, un confine che “lo separa
dal mondo intero”. L’antica Persia, però,
è anche un luogo capace di “sconvolgere”
chi osserva per la prima volta la sua capitale Teheran, “coi suoi 15 milioni di abitanti che si riversano su strade straripanti di
macchine, taxi, moto”. Un Paese con una
storia controversa, lacerata per certi versi,
ma sempre orgogliosa di sé stessa. Come il
suo popolo, capace di realizzare l’unica rivoluzione – quella del 1979 per intenderci
– davvero riuscita nel mondo arabo e che,
giova ricordarlo, non hai mai preteso di essere “esportata”.
"U
196
Grand Tour
Il libro procede tra le contraddizioni di un
Paese sospeso tra Oriente e Asia, con una
sorprendente capacità di unire il resoconto storico, la narrazione e il vissuto personale dell’autore, in un viaggio che dalla
dinastia dei Qajar arriva all’Iran di oggi e
che attraversa la sua società, la sua economia e la sua politica. Molti sono gli aspetti
che colpiscono il lettore. Tra i tanti, non si
può non restare affascinati dalla resilienza
della sua società civile che vive i “vincoli
dell’islam ufficiale” inventando una sorta
di “controcultura casalinga”. D’altra parte
Teheran ha una cultura antichissima. Già
durante il regno dei Qajar, come ben ricorda l’autore, l’arte “iniziò ad essere considerata come forma partecipativa”.
Nel testo, poi, si parla anche del ruolo
dell’Iran negli equilibri geopolitici mondiali, con un discorso capace di andare ben
oltre il pur importante tema del nucleare
iraniano. Passaggio inevitabile per un Pae-
se che oggi, forse suo malgrado, è essenziale per la risoluzione dei principali conflitti
in Medio Oriente.
È chiaro già dal titolo cosa vuole dirci Acconcia. “Il Grande Iran” fa l’eco al “The
Great Game” di Peter Hopkirk, al gioco diplomatico e militare che, dai primi dell’Ottocento fino alle soglie della prima guerra
mondiale, vide scontrarsi i due grandi imperi, quello britannico e quello zarista, nella conquista del Medio Oriente e dell’Asia
centrale. Quel gioco, in verità, non è mai
finito. Basta guardare agli attuali sconvolgimenti in corso nel Levante per capire
che la storia sembra comunque procedere
in direzione ostinata e contraria. I grandi
attori hanno cambiato volto e nome, ma
i territori contesi sono sempre gli stessi.
La realpolitik dell’interesse nazionale ha
superato indenne la nascita e lo sviluppo
delle organizzazioni internazionali che
parlavano di concertazione e “si illudevano
197
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
di pace” e, oggi come allora, guida le politiche degli Stati. Il libro ci svela, così, che il
mito del Grande Iran è anche la risultante
della politica unilaterale del Grande Medio
Oriente di George W. Bush in cui l’Iran, l’Iraq e la Corea del Nord erano i tre cardini
dell’asse del male. Tuttavia, la “salvifica
esportazione della democrazia” ha fallito.
Il sonno della ragione ha generato mostri
ed ha piantato i semi per la destabilizzazione del Medio Oriente.
Da questa illuminata riflessione dell’autore possiamo partire per leggere alcuni degli
attuali focolai di crisi nel mondo arabo.
A iniziare dall’Iraq, un Paese che con la
lunga dittatura di Saddam Hussein ha faticosamente mascherato la sua natura di
precario college di gruppi etnici e religiosi,
come ricorda Sergio Romano nel libro Con
gli occhi dell’islam, “assemblati da Churchill alla conferenza del Cairo nel 1920 per
assicurare carburante alla flotta britannica”. Lo capì Bush senior quando, durante la
prima guerra del Golfo, lasciò che le truppe
americane punissero gli uomini di Saddam
in ritirata, mietendo più di 30.000 vittime
nelle fila irachene, ma si fermò davanti alla
liquidazione del regime, ricordando che la
missione comprendeva la sola liberazione
del Kuwait ed era conclusa. Forse immaginava che il crollo del Paese avrebbe avuto come diretto corollario la guerra per la
spartizione. 13 anni dopo il figlio non fu
così lungimirante. Diede il via a Iraqi Freedom, fece fuori il dittatore e consegnò il
Paese a Teheran.
Non è andata meglio, qualche anno dopo,
in Siria. Qui gli Stati Uniti di Obama, già
nel 2011, decisero di supportare la Turchia
e le monarchie del Golfo contro gli sciiti.
La Russia per salvaguardare le sue basi nel
Mediterraneo è intervenuta direttamente nel conflitto. Le “superpotenze” hanno
così fomentato, manipolato e alimentato i
revanscismi religiosi e settari per dare vita
alla più grossa guerra per procura della
storia recente. Teheran, come Mosca, aveva
ben chiaro fin dall’inizio l’obiettivo siriano: assicurarsi il controllo indiretto verso
il Mediterraneo, ottenendo una proiezione
strategica che neppure lo Shah aveva mai
sognato. Si è alleato con Damasco e ha trovato la sponda russa, puntando sul cavallo
vincente. Anche in questo caso l’Iran si è
rafforzato grazie agli errori degli Stati Uniti e dei suoi alleati regionali e internazionali e ora siede al tavolo dei negoziatori,
assieme alla Russia ed alla Turchia.
Verrebbe da chiedersi cosa stia accadendo oggi a quel Grande Medio Oriente? La
risposta appare inevitabile: non esiste
più. Oggi stiamo assistendo non solo alla
dissoluzione dei confini artificiali, creati
dalle potenze coloniali, ma anche a quella
dei popoli, intesa come volontà di vivere
insieme e condividere una comunità politica e sociale. La caduta dei dittatori, da
Saddam alle primavere arabe, ha sancito
il tramonto dell’era post-coloniale e dello
Stato-Nazione. La mancanza di identità
nazionali radicate ha condotto alla loro decomposizione all’interno dei confini statali
e alla loro ricomposizione sulle linee preesistenti alla creazione degli Stati (tribù,
regioni, clan, etnie etc.) dando vita a una
ristrutturazione sociale basata su poteri a
198
Grand Tour
forte base localistica. Non ci si illuda, dunque, che in Siria la fine della guerra, con o
senza Bashar al Assad, ricomporrà il Paese
così come lo abbiamo fin qui conosciuto.
Probabilmente, dopo un’eventuale vittoria
sull’Isis, anche in Iraq verrà il momento di
stabilire una sorta di spartizione che qui
potrebbe essere ancora più dolorosa a causa delle ingenti risorse petrolifere.
L’Iran, anzi, il Grande Iran, dall’alto della
sua storia millenaria, sembra guardare con
un certo distacco il disfacimento del Medio
Oriente. Forse non è neppure troppo preoccupato dall’aggressiva politica di Donald
Trump che minaccia di farlo ripiombare
nell’isolamento che ha vissuto fin dalla
rivoluzione islamica del 1979, quando gli
USA imposero sanzioni unilaterali, estese nel 1995 e poi legittimate dall’Onu nel
2006. Allora, messo al palo dall’Occidente,
Teheran aveva saputo inserirsi nel nuovo
grande gioco apertosi in Asia, avvicinandosi alla Cina, uno dei principali importatori del suo greggio e cogliendo la mano
tesa della Russia, che ha fornito capitali
pubblici e privati da investire nell’ammodernamento degli impianti petroliferi ma
anche armi convenzionali e tecnologie
nucleari. Se da un lato le sanzioni hanno
danneggiato l’economia iraniana, dall’altro non l’hanno distrutta. L’Iran è stato in
grado di resistere.
Detta in altri termini, se è vero, come scriveva Pier Paolo Pasolini, che “bisogna essere molto forti per amare la solitudine”, il
Grande Iran sembra essere ben allenato in
tal senso.
Queste sono solo alcune delle considera-
zioni che nascono dalla lettura del testo di
Acconcia. Un libro intenso, mai scontato,
capace di accompagnare il lettore in un
viaggio complesso, con l’accortezza di non
volerne mai condizionare il giudizio, ma
soprattutto uno strumento indispensabile
per capire l’Iran di oggi e ciò che potrebbe
rappresentare in futuro.
Michela Mercuri
Docente di storia contemporanea dei Paesi del Mediterraneo all’Università di Macerata e di Geopolitica
del Mediterraneo all’Università Niccolò Cusano di
Roma
199
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
ANTARTIDE: FARE RICERCA ALLA
FINE DEL MONDO. PER SALVARLO
di Marco Ferrazzoli
L’Italia è tra i pochissimi
paesi al mondo a gestire
basi sia in Artide sia in
Antartide, da dove giunge
questo reportage che mostra
come il ruolo scientifico e
geopolitico del nostro paese
nella ricerca polare sia di
assoluta rilevanza. La creazione dell’Area protetta
del Mare di Ross, poi, apre
prospettive strategiche per i
ricercatori italiani
ul ruolo scientifico e geopolitico
italiano a livello internazionale
è diffuso un certo scetticismo,
spesso un pessimismo esplicito. Eppure,
almeno per quanto concerne la ricerca polare, questo luogo comune va sicuramente
smentito. L’Italia è tra i pochissimi paesi al
mondo a gestire basi sia in Artide - la stazione Dirigibile Italia a Ny Alesund, nelle
isole Svalbard - sia in Antartide, con le stazioni Mario Zucchelli nella Baia Terra Nova
e Concordia a Dome C, nell’interno.
L’importanza geopolitica di questa presenza è legata alle speciali convenzioni internazionali nell’ambito delle quali i ricercatori polari operano. In Artico, la comunità
scientifica vive e lavora in un’enclave extraterritoriale del territorio norvegese.
L’Antartide è l’unica parte del pianeta non
assoggettata a sovranità nazionale: una
‘Terra di pace e di scienza’, come viene definita, in cui sono inibite tutte le attività
S
200
Grand Tour
Pinguini imperatore, Cape Washington
commerciali e militari grazie al Trattato
Antartico, entrato in vigore il 23 giugno
1961, e al Protocollo di Madrid, che ha
vietato fino al 2041 lo sfruttamento degli
idrocarburi e dei preziosi minerali di cui il
continente bianco è ricco. Uno status del
tutto unico, con il quale la cooperazione
scientifica e il principio di condivisione
che la anima hanno prevalso sulla competizione, sugli interessi economici e sulle
spartizioni di potere.
L’Italia è tra i firmatari del Trattato, al
quale hanno complessivamente aderito
oltre 50 Paesi che coprono più dell’80%
della popolazione mondiale, ed è membro
di organizzazioni quali lo SCAR (Scientific Committee on Antarctic Research) e il
CoMNAP (Council of Managers of National
Antarctic Programmes). Ma soprattutto assicura dal 1985, dopo le prime spedizioni
nella Terra Vittoria, un’attività ufficiale e
continuativa con il PNRA (Programma Na-
zionale di Ricerche in Antartide): 31 campagne scientifiche che hanno contato fino
a 340 partecipanti di vari enti e università, su finanziamento del MIUR (Ministero
dell’Istruzione, Università e Ricerca scientifica). Il coordinamento scientifico e logistico compete al CNR (Consiglio Nazionale
delle Ricerche), mentre ENEA (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia
e lo sviluppo economico sostenibile) è responsabile dell’organizzazione delle spedizioni, dalla logistica al funzionamento
delle stazioni.
La stazione dedicata a Mario Zucchelli
(MZS) si trova lungo la costa della Terra Vittoria, tra i ghiacciai Campbell e Drygalski,
coordinate latitudine 74° 41’ 42” sud, longitudine 164° 07’23” est. Ospita circa 80
persone e si sviluppa su 7.000 mq con laboratori, alloggi, officine, mensa, locali per il
tempo libero, pronto soccorso con due medici (che, come a Concordia, in caso di ne-
201
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
Atterraggio sulla pista di ghiaccio
Sopra: Baia Terra Nova, nell'Area marina protetta
del Mare di Ross
Sotto: La Stazione italo-francese Concordia,
sul plateau antartico
cessità possono far ricorso a un servizio di
telemedicina concordato con il Policlinico
Gemelli di Roma). La base di Dome C si trova a 75° 06’ sud, 123°20’ est, 1.200 km dalla
costa e 3.230 m di quota. Dal 2005 è aperta
ininterrottamente e ospita una comunità
multinazionale di fino a 80 persone (16 in
inverno) con una gestione congiunta italofrancese. La collaborazione internazionale
è del resto una costante della ricerca antartica e gli italiani lavorano soprattutto
con coreani, tedeschi, neozelandesi, australiani e statunitensi. L’ Antartide è uno
dei crocevia più rilevanti per gli scienziati
di tutto il mondo e qui, come alle Svalbard,
gli italiani possono confrontarsi con i maggiori centri di ricerca polare al mondo. Soprattutto per i più giovani significa ricevere stimoli unici, oltre che stabilire sinergie
importanti. Quanto i nostri ricercatori siano apprezzati lo dimostra tra l’altro, come
racconta con un certo imbarazzo il diretto
interessato, il fatto che proprio i colleghi
stranieri abbiano proposto la dedica di un
ghiacciaio a Marino Vacchi dell’Istituto di
scienze marine del CNR.
Questi oltre trenta anni di attività italia202
Grand Tour
Campo remoto
na nel continente antartico si sono svolti
in una fase politico-culturale che ha conosciuto importanti mutamenti nella coscienza ambientale dell’opinione pubblica.
Mantenere laboratori e ricercatori nelle
aree più remote del pianeta significa occuparsi di tematiche strategiche che investono per esempio l’origine dell’universo,
la riduzione dell’ozono, i movimenti della
crosta terrestre, contribuendo in tal modo
alla sempre maggiore consapevolezza che
il nostro futuro è strettamente connesso
con la comprensione dei fenomeni globali e, dunque, con studi capaci di interpretarli. Facciamo qualche esempio. Se oggi
consideriamo la preservazione della biodiversità un dovere irrinunciabile è anche
perché diversi decenni fa, nell’ambito delle
convenzioni antartiche, si stabilì il divieto
di caccia alla foca, misura - all’epoca oggetto di perplessità che giunsero fino allo
scherno - precursore delle normative che
oggi mirano a tutelare tutte le specie a rischio di estinzione. Fattore non meno importante: l’Antartide è coperta per il 98%
da una calotta di 30 milioni di km cubici di
ghiaccio, che rappresenta il 91% del totale
disponibile e la maggiore riserva d’acqua
dolce del pianeta e che offre un contributo fondamentale alla regolazione termica
del pianeta, influenzando la circolazione
atmosferica globale e in particolare il clima dell’emisfero meridionale. L’attività
antartica italiana si esplica anche nel coinvolgimento diretto del pubblico e in particolare di media, giovani e scuole tramite
collegamenti - se ne sono tenuti di continuo anche nei giorni della nostra presenza
- conferenze, mostre e servizi video e giornalistici: una divulgazione che si trasforma
in sensibilità.
Anche quando non conduce a risultati immediati di tipo applicativo, è dalla conoscenza che derivano le soluzioni ai problemi
vecchi e nuovi del pianeta e di conseguenza le risposte alla nostra sopravvivenza su
di esso. Una delle questioni scientifiche
più complesse e controverse, attualmente,
è senz’altro il ruolo dell’impatto antropico
sul clima: si pensi solo a quanto sta accadendo negli USA con le scelte in materia
del presidente eletto Donald Trump. Per
dirimerla è fondamentale conoscere l’andamento della co2 nelle ere passate, quan-
203
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
Cape Washington
do le fasi climatiche erano ‘forzate’, come
si dice in gergo, da fattori naturali: un dato
essenziale per comprendere come l’azione
dell’uomo a partire dall’epoca industriale
incida nei mutamenti globali. In tale affascinante linea di ricerca l’Italia è stata già
protagonista con il progetto EPICA, con un
carotaggio glaciale eseguito alla profondità di 3270,20 metri che ha consentito di ricostruire il paleoclima fino a 840 mila anni
fa, e lo è di nuovo adesso con Beyond EPICA. Proprio nei giorni della nostra recente,
breve ed emozionante missione antartica,
la traversa che trasporta le attrezzature
nel punto dove si effettuerà il nuovo carotaggio procedeva in un periglioso percorso
tra i crepacci a una velocità, si fa per dire,
di nemmeno dieci chilometri orari di media. Il nuovo progetto, come ci ha spiegato Massimo Frezzotti dell’ENEA, intende
“giungere fino a 1,5 milioni di anni indietro, scavallando e chiarendo così il passaggio cruciale nelle fasi glaciali-interglaciali
avvenuto intorno a un milione di anni fa e
il legame tra questi cicli e i gas serra presenti in atmosfera”.
Partecipare a progetti internazionali così
ambiziosi “richiede ingenti risorse scientifiche, economiche e logistiche, per cui
– osserva Antonio Meloni, presidente della CSNA, la Commissione Scientifica che
valuta i progetti antartici di Università e
Istituti di ricerca – è giusto chiedersi se si
tratti di una semplice spesa o di un investimento”. La crisi impone una gestione
ancor più oculata delle risorse pubbliche,
ma per quanto riguarda le area polari si
può dire che il riconoscimento politico e
scientifico ottenuto dall’Italia giustifica lo
sforzo compiuto. Oltre al Progetto EPICA
ricordiamo, tra i tanti, il carotaggio record
di sedimento ANDRILL, i dati sulle interazioni stagionali mare/ghiaccio e sulle
ripercussioni a grande distanza di tali processi, i sondaggi nella piattaforma continentale, l’esperimento BOOMERanG sulla
struttura dell’universo, la ricostruzione
dell’evoluzione geologica nel Cenozoico,
i risultati pubblicati su riviste scientifiche
quali Nature, premi come il Balzan, il Dan
David, il Cartesio. È essenziale che l’impegno italiano non venga meno perché solo
204
Grand Tour
Edmonson Point
la regolarità delle spedizioni consente di
ottenere i risultati scientifici attesi.
Al di là del dovere morale di sostenere la
ricerca, la motivazione migliore dei circa
700 milioni di euro che hanno consentito
all’Italia i suoi trent’anni di presenza nel
settimo continente è che ambedue gli ambienti polari vanno conservati e studiati
per capire meglio il nostro passato e, di
conseguenza, il nostro futuro. La comparazione tra i diversi fenomeni in corso nei
due poli – al di là delle similitudini climatiche, paesaggistiche e geografiche - è
di estrema importanza, per esempio per
quanto riguarda l’andamento delle temperature, le dinamiche dei ghiacci, le relazioni tra le specie viventi o la riflessione della
luce solare. Non meno rilevante, dal punto
di vista geopolitico, che l’area artica sia
soggetta a ingenti mire di numerosi paesi,
mentre quella antartica è l’ultimo angolo
incontaminato del Pianeta. Un immenso
laboratorio naturale e umano a cielo aperto sostanzialmente inesplorato e pochissimo antropizzato, abitato dalla sola comunità scientifica, che conta tra le mille e le
Sopra: C130 atterrato a Baia Terra Nova
Sotto: Crepe sul ghiaccio
205
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
MZS-Mario Zucchelli Station, la prima base italiana in Antartide
Sopra: In elicottero
Sotto: Pesca in Campo Remoto
diecimila persone a seconda delle stagioni.
Il ruolo italiano in Antartide è nodale e lo
sarà ancor più con la recente istituzione,
dopo cinque anni di trattative, dell’Area
marina protetta di Ross, la più grande riserva marina mondiale, di cui la Stazione
Zucchelli potrà essere l’hub, rafforzando
una vocazione e un’esperienza ormai consolidate. Da tempo la pista aerea su ghiaccio di 3.000 metri gestita dagli italiani a
Baia Terra Nova consente i voli di Twin Otter, Basler ed Hercules e, quindi, i rifornimenti e i collegamenti con la Nuova Zelanda – dove, a Christchurch, si trova l’altro
snodo da e verso l’Italia - e per l’interno del
continente: tra Mario Zucchelli e Concordia, con le stazioni Jang Bogo (coreana),
Gondwana (tedesca), McMurdo (statunitense) e Dumont D’Urville (francese) e con
i campi remoti (ne sono stati allestiti in
contemporanea fino a 9 e per 76 giorni di
attività). Questo ruolo, oggi limitato all’inverno australe (il nostro gruppo è rientrato a fine novembre con l’ultimo volo utile,
poiché con l’arrivo dell’estate il rischio di
atterrare sul pack è eccessivo), potrà di206
Grand Tour
Foche al sole
venire permanente grazie all’aviopista su
terraferma in corso di realizzazione sempre nei pressi di MZS: proprio a fine 2016
è stato approvato un nuovo finanziamento
ad hoc di cinque milioni di euro. Le navi restano però insostituibili per il trasporto di
carichi pesanti: Italica, 5.600 tonnellate di
stazza e 130 metri di lunghezza, ha avviato
da poco la sua ultima missione, dopo una
lunga e onorata carriera in cui ha collegato
il Mediterraneo a Baia Terra Nova e condotto importanti ricerche oceanografiche;
l’OGS di Trieste gestisce invece Explora,
1.400 tonnellate e 70 metri, attrezzata con
multibeam e mooring per eseguire prospezioni geofisiche, rilevare la conformazione
dei fondali e condurre campionamenti.
Ma la strategicità italiana nel mare di Ross
non è solo logistica. L’Area concentrerà
maggiormente l’attenzione della ricerca
internazionale sull’oceano australe, che
ha un’estensione doppia rispetto alla terraferma antartica: un sistema regolato da
un gioco affascinante di salinità, correnti
e densità, estremamente complesso e difficile da interpretare, per esempio per quan-
to concerne le dinamiche dei ghiacci, che
si presentano in alcune aree in riduzione,
come accade in modo più eclatante in Artico, in altre in crescita. La creazione di
questa riserva inoltre, secondo quanto stabilito da una convenzione internazionale,
rappresenta una sorta di pilota per l’avvio
di altre aree protette e in questo contesto noi abbiamo l’opportunità di assumere un ruolo da leader. “Si potrà rafforzare
una sorta di complementarietà - prevede
Meloni - tra le ricerche svolte sul plateau
a Concordia, nel deserto che caratterizza
l’interno dell’Antartide, e quelle di Mario
Zucchelli, rivolte tra l’altro alle scienze
della vita”.
Se a Dome C trovano il loro habitat ideale alcuni studi di astronomia, astrofisica,
fisica dell’atmosfera, sismologia e medicina, nei giorni della nostra missione abbiamo seguito sul campo due dei biologi
che a Baia Terra Nova lavorano sull’inimmaginabile biodiversità - alghe, licheni,
muschi e funghi, invertebrati, krill, uccelli,
foche, skua, balene - di questo luogo così
apparentemente inospitale, occupandosi
207
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
in particolare delle reti trofiche. Edoardo
Calizza della Sapienza di Roma studia alcune specie di pinguini e, confessa, “ogni
volta che mi reco in pinguinaia per le ricerche l’emozione è sempre la stessa. Sono
fortunato a poter lavorare qui”. I ravvicinatissimi incontri con questi uccelli eccezionalmente socievoli, in effetti, rimangono
tra le emozioni più forti che il continente
bianco regala, assieme a quelle dei paesaggi glaciali. Di straordinario interesse scientifico e ambientale sono anche le ricerche
sulla fauna ittica - specie endemiche come
l’ice fish, capace di resistere a temperature sotto lo zero grazie a una circolazione
acquosa, senza emoglobina - che persino
a queste latitudini deve fare i conti con la
pesca commerciale, il cui controllo e regolamentazione è tra gli obiettivi dell’Area
marina. “Lavorare in questo ambiente, in
questo silenzio quasi assordante, avendo
come compagne di pesca le foche, è straordinario”, ammette Laura Caiazzo dell’Istituto di scienze marine del CNR.
Del resto, l’entusiasmo con cui un ricercatore lavora in Antartide è intuibile. La ricerca scientifica porta con sé passione per
l’ignoto, desiderio di conoscenza, curiosità. E dove ritrovare questo spirito di esplorazione più che a latitudini così remote, in
ambienti così estremi e ancora poco conosciuti, in un luogo che tra l’altro conta la
maggiore altitudine media della terra ma
rappresenta anche il deserto più esteso e
il luogo più arido del pianeta? Ogni anno
decine di italiani vengono fin quaggiù per
conto di Enti di ricerca, Università e ministeri come Esteri e Difesa: biologi, fisici,
medici, ingegneri, meteorologi, ma anche
informatici, operai, autisti, personale di
segreteria e amministrativo, cuochi… Gli
studi polari abbracciano uno spettro che
va dai meteoriti ai venti, dal sottosuolo alle
osservazioni astronomiche, dalla geologia
alla simulazione di ambienti extraterrestri, dal campo magnetico alle interazioni
elettromagnetiche tra terra e sole, con fenomeni come tempeste solari e aurore australi, fino all’adattamento dell’uomo allo
stress. E la tecnologia collegata a queste
discipline coinvolge telerilevamento, sistemi satellitari, radar, informatica, telematica, robotica.
A chi fa ricerca in queste lande distanti oltre 15 mila chilometri dalla nostra penisola
è richiesta, oltre alle competenze tecniche
e scientifiche, una buona dose di spirito di
avventura, una capacità di adattamento e
uno spirito di sacrificio non comuni. Ci vogliono almeno 2 o 3 giorni di volo per raggiungere le nostre basi, settimane se si va
in nave. Poi, bisogna vivere e lavorare un
ambiente che registra temperature medie
di -50° centigradi (il record fu toccato nel
1983 con -89,7 °C), nell’oscurità totale o
in un giorno illuminato per 24 ore, magari
in una base con una quindicina di persone
appena, per più di nove mesi e a centinaia
di chilometri dall’abitato più prossimo. La
spinta motivazionale deve andare insomma oltre quella professionale, per quanto
le condizioni di vita e le possibilità di contatto siano ormai relativamente comode rispetto ai tempi pionieristici di James Cook,
Shackleton, Amundsen, Scott, ma anche a
quelli di Ardito Desio e Caroline Mikkel-
208
Grand Tour
Attività ricreative a Concordia
Corrado Leone, logistico del CNR, durante una missione PNRA
sen. E comunque i rigorosissimi standard
di addestramento e sicurezza previsti per
chi arriva in Antartide hanno consentito di
limitare al minimo gli incidenti, anche se
purtroppo nel 2014 si è registrata una tragica perdita, quella del biologo Luigi Michaud, durante un’immersione subacquea.
Le attività in cui questa comunità umana
è impegnata sono tanto varie e complesse che soltanto mettendo a fattore comune approcci e conoscenze diverse, ma il
medesimo entusiasmo, si può affrontare
e comprendere un ecosistema così particolare e così correlato allo stato di salute
dell’intero pianeta terrestre. Anche l’ordine, la pulizia nelle basi, la qualità della
cucina, sono indici della disciplina un po’
militare che è indispensabile mantenere in
queste particolari condizioni e della passione che tutti mettono nel lavoro. Persino
un operaio, che abbina il servizio in base a
un lavoro stagionale in Italia, spiega come
venire ogni anno diventi quasi inevitabile,
una volta accettato l’isolamento. A testimoniarlo forse meglio di tutti è lo station
leader di Mario Zucchelli, Alberto Della
Rovere dell’ENEA, oltre 20 anni di spedizioni alle spalle: “Ogni volta, quando torno
a casa, non lascio nemmeno una penna. Ma
poi c’è sempre qualche ragione per la quale ritorno qui”. Quanto queste terre tanto
diverse, remote ed estreme suscitino inevitabilmente curiosità, fascino e interesse,
avendo avuto la grande fortuna di poter
visitare le nostre stazioni di ricerca in entrambi i circoli polari, lo possiamo confermare in minima parte anche noi.
Marco Ferrazzoli
Capo Ufficio Stampa CNR
Foto di: Marco Ferrazzoli, Corrado Leone,
Antonio Meloni, Vittorio Tulli @PNRA
209
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
«APRITI SESAME!»
E L'ACCELERATORE DI PARTICELLE
DEL MEDIO ORIENTE S'APRÌ SU
SCIENZA E PACE
di Renato Sartini
In quante altre situazioni
si può sentire dire attorno
a un tavolo “I fully
agree with Israel.” da un
rappresentante dell’Iran?
ésame, ouvre-toi!». Così scriveva
in Les mille et une nuits Antoine
Galland traducendo dall’opera
originale la formula magica che apriva la
caverna col tesoro dei quaranta ladroni.
Il racconto, ambientato nell’antica Persia,
l’attuale Iran, è una novella fantastica che
oggi sembra materializzarsi grazie alla luce
di sincrotrone. Una radiazione elettromagnetica generata da particelle cariche,
elettroni o positroni, che, “ammaestrate”
dagli scienziati con “fruste” di campi magnetici, sono costrette a viaggiare alla velocità prossima a quella della luce su traiettorie curve.
Una di queste macchine che gli scienziati
usano per approfondire le conoscenze sul
mondo è entrata in funzione il 12 gennaio scorso nel Medio Oriente, a trenta
chilometri da Amman e circa trenta dal
King Hussein/Allenby Bridge sul fiume
Giordano. Ed è proprio questa “montagna
«S
210
Grand Tour
tecnologica” la protagonista di questa rivisitazione in chiave moderna dell’antica
favola. In SESAME, infatti, il Synchrotronlight for Experimental Science and Applications in the Middle East, che di fatto è
un supermicroscopio, è nascosto un immenso tesoro chiamato conoscenza. A cui
tutti vorrebbero accedere per “arricchirsi”
di saperi da utilizzare anche in campo industriale, magari per nuove e innovative
applicazioni. Ma in questa narrazione non
ci sono cattivi, ma persone con interessi e
visioni culturali contrapposte. E Margiāna,
la schiava che per difendere Alì Babà uccide con l’olio bollente i furfanti nascosti
nelle otri, è interpretata dalla Scienza, che
cerca di irretire tutti i protagonisti con la
parola Pace. Con la lettera maiuscola. Perché Scienza di queste cose se ne intende.
Ne sono un esempio lampante la Stazione
Spaziale Internazionale intorno alla quale
collaborano USA e URSS, o il progetto del
Cern, nato dopo la Seconda guerra, e intorno al quale si sono stretti la mano vincenti
e sconfitti. Ma anche le missioni scientifiche in Antartide o verso il pianeta Marte si
sono rivelate terreni fertili di cooperazione
e deterrenza per conflitti e incomprensione politiche e culturali. «In quante altre situazioni si può sentire dire attorno a un tavolo “I fully agree with Israel.” da un rappresentante dell’Iran?» racconta via skype
Giorgio Paolucci, direttore scientifico del
progetto. «È quello che è accaduto durante
una delle tante riunioni del progetto. SESAME rappresenta una grande occasione
per tutta l’area interessata affinché si superino le reciproche incomprensioni e si
valorizzi il meglio di ognuno. Con l’obiettivo di progredire insieme. Basti pensare che
gli scienziati dei Paesi coinvolti hanno una
grandissima preparazione teorica, come
per esempio gli iraniani, ma hanno scarse
possibilità di concretizzare le idee perché
211
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
non hanno strumenti potenti di questo genere. Perché queste infrastrutture costano.
E per il loro funzionamento hanno bisogno
di un’importante bagaglio di conoscenza
sia in termini progettuali che operativi.
Fino a oggi queste menti eccelse per lavorare su un sincrotrone dovevano rivolgersi
a quelli più vicini. Come l’Elettra di Trieste o lo spagnolo Alba a Cerdanyola del
Vallès, in provincia di Barcellona. Adesso
hanno la loro macchina, e questo gli consente di contenere anche il brain drain, la
fuga dei cervelli dai loro territori». Sotto
l’egida dell’UNESCO e il supporto della
comunità mondiale, SESAME ha messo a
lavorare gomito a gomito scienziati provenienti dall’Autorità Nazionale Palestinese,
Bahrain, Cipro, Egitto, Iran, Israele, Giordania, Pakistan e Turchia. Ma anche ricercatori di nazioni che collaborano al progetto quali Italia, Francia, Spagna, Brasile,
Cina, Germania, Grecia, Giappone, Kuwait,
212
Russia, Svezia, Svizzera, Stati Uniti e Gran
Bretagna. Paesi che, probabilmente, si ritroveranno tutti insieme per partecipare
alla presentazione ufficiale che si terrà il
16 maggio alla presenza del re Abdallah II
di Giordania.
Per quanto riguarda il ruolo dell’Italia nel
progetto, al quale partecipa con Infn - Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, Università “La Sapienza” di Roma, Elettra Sincrotrone Trieste e Città della Scienza di Napoli, è stata fondamentale l’autorevolezza
e preparazione nel campo della fisica e
l’esperienza accumulata nella realizzazione e uso di Elettra. «Abbiamo contribuito
a realizzare le 4 cavità risonanti che rappresentano il cuore della macchina e accelerano gli elettroni» spiega Paolucci. «Tre
sono già installate, di cui due alimentate.
Saranno due le linee di luce che inizieranno a funzionare: una nell’infrarosso per lo
studio delle cellule tumorali nell’ambito
Grand Tour
delle scienze della vita e un’altra nell’assorbimento dei raggi X. Quest’ultima sarà
la prima a entrare in funzione verso aprile
e verrà utilizzata per lo studio dei terreni
industriali contaminati». Tra le ricerche
interessanti in questo specifico ambito
ve ne sarà una pakistana riguardante la
phytoremediation, ovvero lo studio della
capacità di una pianta di essere utilizzata
per assorbire inquinanti dai terreni e accumularli nelle foglie. I biologi coinvolti
potranno, grazie alla luce di sincrotrone,
vedere come i contaminanti risalgono lungo la pianta, così da poter testare efficienza
ed efficacia del metodo. I campi di applicazione della luce sono, però, innumerevoli,
tra cui l’ingegneria dei materiali, l’archeologia, la chimica, la fisica e la medicina. Si
potranno studiare proteine a livello atomico, fornendo linee guida per lo sviluppo di
nuovi farmaci, oppure sperimentare catalizzatori chimici dalle prestazioni migliori
che possono trovare impiego, per esempio,
nell’industria petrolchimica. Si potranno
identificare in maniera non invasiva, quindi non distruttiva, anche le composizioni
chimiche di fossili e dipinti, ma anche fare
l’imaging in tempo reale di cellule viventi.
«Oltre alla tecnologia, l’Italia provvederà
anche alla struttura per l’accoglienza dei
ricercatori che si recheranno ad Amman
per i loro esperimenti» sottolinea Fernando Ferroni, Presidente dell’Infn. «Grazie anche all’impegno del MIUR, il nostro
Paese ha investito 5 milioni di euro per la
scienza e per la pace. Contribuendo anche a stemperare tutte le difficoltà che ci
sono state e che ci saranno in un progetto
in cui si vuol tenere uniti sotto la scienza
alcuni Paesi tra di loro ostili». Tra le varie
problematiche da affrontare c’è stata anche quella dovuta ai passaporti in quanto
i cittadini di alcuni Paesi partecipanti non
possono farsi reciproca visita. Problemati-
213
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
ca risolta alla radice con l’individuazione
della Giordania quale luogo di costruzione
della macchina. Paese in buoni rapporti
con tutti gli altri. «Riguardo alla copertura
del finanziamento il problema è stato più
complicato. Per esempio, l’Iran, che a causa delle sanzioni non ha più potuto portare
soldi all’estero, a un certo punto non ha
più pagato le sue quote di partecipazione
al progetto. Cipro, a causa di una profonda
crisi economica, da un certo momento in
poi non è stata più in grado di sostenere la
spesa». Ma anche Egitto, Israele e Pakistan
a un certo punto non hanno più versato.
A oggi, Giordania e Turchia sono gli unici
paesi ad aver onorato gli impegni riguardo
ai contributi annuali e a capitale del fondo
di partenza. Al problema finanziario hanno
sopperito anche i 5 milioni di euro di contributo dell’Unione Europea su un progetto che, in totale, è costato poco più di 110
milioni di euro.
«Oltre che un’occasione per la pace SESAME
rappresenta anche un simbolo di emancipazione e libertà della donna mediorientale»
tiene a sottolineare Ferroni. «Gihan Kamel,
40 anni, fisica egiziana, è da circa un anno
e mezzo l’unica rappresentante femminile a
lavora alla macchina. Ma sarà l’apripista per
l’arrivo di tante altre scienziate». Laureatasi
in fisica all’università di Helwan del Cairo,
in Egitto, ha svolto un dottorato di ricerca
all’Università “La Sapienza” di Roma proseguendo poi gli studi nel 2014 presso i laboratori dell’Infn di Frascati. Col sincrotrone
lavorerà a esperimenti di biofisica.
SESAME, però, oltre che aspetti positivi
pone anche problematiche riguardanti il
214
rischio terrorismo. Perché tra il 2009 e il
2010 sono stati assassinati con autobombe due scienziati iraniani del programma.
Nonostante questo oggi sembrano non
esserci timori riguardanti azioni da parte
dell’ISIS. «Non credo che possa interessare
a qualcuno creare problemi a scienziati che
si occupano soltanto di far progredire il
genere umano» conclude Ferroni. Ma pensando allo strazio archeologico di Palmira,
in Siria, c’è davvero da stare poco sereni.
Sarebbe davvero un peccato se un progetto così tanto desiderato venisse compromesso da chi vorrebbe restaurare il Medio
Evo. Anche perché su questo sincrotrone
si sono investiti danaro e decenni. Anche
se il primo fascio di particelle è circolato
nell’impianto a inizio di quest’anno, infatti, scampoli della prima luce sono balenati
nel cervello di alcuni scienziati visionari
più di 25 anni fa. Tra cui il premio Nobel
pakistano Abdus Salamm, scienziati del
CERN e del MESC (Cooperazione Scientifica del Medio Oriente) guidato dallo scomparso fisico italiano Sergio Fubini. Durante
la metà degli anni Ottanta, oltre che al tavolo scientifico a Dahab in Egitto, si teneva
la riunione tra il ministro egiziano dell’Istruzione Superiore, Venice Gouda, ed
Eliezer Rabinovici (MESC e Hebrew University, Israele), impegnati a sostenere attività
di cooperazione arabo-israeliana.
Nel 1997,
Herman Winick (SLAC National Accelerator Laboratory, USA) e Gustav-Adolf Voss
(Deutsches Elektronen Synchrotron, Germania) suggerirono la costruzione di una
fonte di luce di sincrotrone in Medio Oriente a partire dai pezzi del BESSY di Berlino,
Grand Tour
che sarebbe stato di li a poco dismesso e
smantellato. Questa idea fu portata avanti
e discussa nel corso di workshop organizzati in Italia (1997) e in Svezia (1998) dal
MESC e da Tord Ekelof (MESC e Università
di Uppsala, Svezia). Su richiesta di Fubini
e Herwig Schopper (ex direttore generale
del CERN) si arrivò alla decisione da parte
del governo tedesco di donare parti della
macchina per la costruzione di SESAME. A
patto, però, che i costi venissero sostenuti
dai promotori del progetto che trovarono
nell’UNESCO non solo il finanziatore per
lo smontaggio e il trasporto, ma anche
il coordinatore, attraverso la propria direzione generale, dell’incontro avvenuto
presso la sede di Parigi del giugno ‘99 tra
delegati del Medio Oriente e altri Paesi.
Un momento cruciale al seguito del quale
ci fu l’avvio del progetto e l’istituzione di
un Consiglio Internazionale ad interim. E
anche la scelta della Giordania quale Paese
in cui costruire il centro, che avrebbe messo a disposizione il terreno e i fondi per la
costruzione dell’edificio.
La cerimonia inaugurale si svolse nel gennaio del 2003, mentre la messa in posa della “prima pietra” ad agosto. Dando il via a
un sogno in parte già realizzato, ma che
dovrà essere sostenuto “a occhi aperti” da
tutti i protagonisti e dalla Comunità Internazionale.
215
Renato Sartini
Giornalista scientifico e divulgatore. È esperto in
comunicazione della conoscenza scientifica e tecnologica. In ambito comunicazione ha supportato la
direzione operativa del MARS Center di Napoli e la
presidenza del Polo High Tech di Napoli Est.
È Presidente dell’Associazione Culturale Divulgo,
per la disseminazione di temi di scienze, natura e
tecnologie.
www.renatosartini.it
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
TUTTI AL MARE,
MA NON ITALIANO
di Giampaolo Scardia
l "Rapporto sul turismo italiano" edito dall’Istituto di ricerca
su innovazione e servizi per lo
sviluppo del CNR, grazie a un approccio sistemico ed interdisciplinare, si pone come
uno strumento prezioso per chi si occupa
di pianificazione del territori nell’ottica
della competitività internazionale delle
imprese turistiche. Da tempo si considera l’industria delle vacanze come volano
per la ripresa del Belpaese, ma negli ultimi anni non sono state apportate misure
adeguate per lo sviluppo dell’economia in
questa direzione. L’Italia che soffre la crisi, con conseguenze economiche e sociali
evidenti, perde anzi ogni anno punti percentuali, nonostante le potenzialità per
competere: cerchiamo di capire il perché.
Secondo le stime del Rapporto coordinato
da Emilio Becheri e Giulio Maggiore, negli ultimi 10 anni l’Italia ha aumentato le
proprie presenze complessive (straniere e
I
Turismo: Italia dietro
a troppi concorrenti. E
cresciamo poco. Il ‘Rapporto
sul Turismo Italiano’ del
CNR evidenzia le difficoltà
del comparto e le incertezze
normative e fiscali che
frenano in particolare
la crescita del comparto
balneare. Mentre gli altri
turismi sono molto più
aggressivi
216
Grand Tour
Tonnara di Scopello - Sicilia
nazionali) del 9,3%, un valore sotto tendenza rispetto all’Unione Europea, che sta
oltre il 20%, ai Paesi del Nord Europa (Svezia +22,5%, Finlandia +19%) e all’area del
Mediterraneo (Spagna +17,3%, Portogallo
+31,8%, Grecia + 81%). Se invece si analizza il mercato nella sua globalità, l’Italia
resta al quinto posto per arrivi internazionali con 50 milioni di arrivi, dietro a Francia (84,5), Stati Uniti (77,5), Spagna (68,2)
e Cina (56,9). Il Paese più bello del Mondo
nel 1970 era al primo posto. Se poi valutiamo il parametro economico degli incassi
si scivola al settimo posto, dietro la Gran
Bretagna e la Thailandia.
Lo stesso World Economic Forum riconosce al Belpaese il primato mondiale per
patrimonio storico culturale e l’eccellenza per il turismo naturalistico (secondo
nel ranking). Cosa manca allora, se sotto
il profilo dell’offerta storico-artistica, enogastronomica e paesaggistica non abbia-
mo rivali? Interventi normativi, sblocco
di investimenti in infrastrutture, piani di
marketing territoriale. Queste le azioni
che finora sono mancate per mirare alla
competizione sui mercati internazionali. I
prezzi sono troppo alti per l’eccessiva tassazione, l’offerta balneare è obsoleta e non
riesce a rinnovarsi per la paralisi amministrativa, manca un piano promozionale
che riposizioni nel mondo il made in Italy,
ancorato ad un modello di vacanza e viaggio ormai tramontato. Il 35% del mercato
del turismo è costituito dal mare e circa il
24% è prodotto dai turisti stranieri. Analizzando il posizionamento internazionale
di questo asset l’Italia conferma la scarsa
attrattività che questo Paese nutre verso
il turismo internazionale, data la presenza di un’offerta alternativa estremamente
aggressiva, più moderna e meno costosa
in diverse zone del Mediterraneo (Spagna
e, con trend crescenti, Turchia e Croazia).
217
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
Il Rapporto del CNR evidenzia le difficoltà: mentre gli altri turismi balenari sono
aumentati nel loro complesso del 20,6%,
ad un tasso medio annuo dell’1,3, nel periodo che va dal 2000 al 2015, il comparto
italiano segna una situazione stazionaria:
+0,01%.
Non si può, a fronte di questo risultato così
negativo, non interrogarsi sulle cause che
hanno prodotto tali effetti. Certamente la
crisi economica continua ad indirizzare
verso il risparmio, ma ancor più sta incidendo l’annosa fase di incertezza normativa che ha destabilizzato l’intero comparto
turistico balneare, aperta dalla cosiddetta
“Direttiva Bolkestein” che fissava per il
2015 la messa a bando delle concessioni
demaniali (prorogata al 2020 con il Decreto Crescita, convertito in Legge 17 dicembre 2012, n° 221), paralizzando ogni
iniziativa di investimento e bloccando sul
nascere progetti di sviluppo.
Si avverte la necessità di un intervento
normativo statale, al fine di regolarizzare
il settore e sbloccare gli investimenti, ma
la stagnazione procedurale si avverte a
tutti i livelli della filiera amministrativa:
Governo, Regioni, Comuni, si vive. Forse il
World Economic Forum si riferisce a questa situazione quando posiziona l’Italia al
147° posto per Business Enviroment, evidenziando le gravi lacune per il contesto
ambientale di chi fa impresa, a causa dei
lacciuoli amministrativi, fiscali e normativi. Resta poi il tema dei prezzi, relativo
alla tassazione: il settore balenare sconta
l’Iva al 22%, mentre i paesi europei turisticamente più rilevanti praticano aliquo-
te inferiori al 10%, assestandosi anche su
percentuali del 5,5% come in Francia, o del
7%, come accade in Spagna.
Il Rapporto offre una valida panoramica su
tutti turismi ed i mercati, analizza il sistema delle imprese ricettive e le filiera turistiche nella loro complessità, confrontando la competitività delle destinazioni ed il
ruolo delle Istituzioni. Chi si occupa di pianificazione territoriale dovrebbe ricordare
quanto questi elementi siano connessi.
Giampaolo Scardia
Capo Ufficio Stampa Nazionale
di Federbalneari Italia
218
Grand Tour
LA DIFESA DI CORFÙ
DEL 1716
di Andrea Liorsi
L’ultimo successo militare
terrestre della Serenissima
nella secolare contesa con
l’Impero Ottomano
ra il 1714 e il 1718 la Repubblica
di Venezia combatté la sua ultima
guerra contro l’Impero Ottomano, con l’obiettivo di mantenere il possesso
della Morea, faticosamente conquistata da
Francesco Morosini non molti anni prima. La
guerra non andò bene per i veneziani, nonostante l’intervento dell’Impero Asburgico a
fianco della Serenissima, ma non mancarono
alcuni successi, tra cui la difesa dell’isola di
Corfù, la sentinella dell’Adriatico, la cui perdita avrebbe seriamente compromesso la sopravvivenza della Repubblica. Artefice primo
del vittorioso evento fu il Feldmaresciallo Johann Matthias von der Schulemburg, valente
militare sassone passato per l’occasione al
servizio di Venezia, che in breve tempo riuscì
a fortificare adeguatamente la piazzaforte e
successivamente a respingere gli attacchi di
una preponderante forza ottomana. Il brillante risultato conseguito nella difesa dell’isola favorì poi altri successi militari, per ter-
F
219
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
Corfù
ra e per mare, che, se non cambiarono l’esito
della guerra, permisero tuttavia a Venezia di
conservare il possesso delle isole Ionie e, in
definitiva, il controllo dell’Adriatico.
I PRODROMI
La seconda metà del Settecento era stata
caratterizzata per la Serenissima da alterne vicende nella secolare contesa con
la Sublime Porta: con la Guerra di Candia
(1645-1669), nonostante diverse brillanti vittorie sul mare ed il blocco (parziale)
dei Dardanelli, aveva perso definitivamente l’isola di Creta, mentre la successiva Prima Guerra di Morea (1684-1699)
si era conclusa con la conquista del Peloponneso, ad opera soprattutto di Francesco Morosini. Il secolo si era quindi chiuso con la Pace di Carlowitz (26 gennaio
1699), assai insoddisfacente per gli Ottomani, a cui la perdita della Morea non
era andata giù. Seguì un periodo in cui
le capacità militari della Sublime Porta
si andarono rafforzando fino a che la
guerra fu nuovamente dichiarata l’8 dicembre 1714 (Seconda Guerra di Morea).
Nel corso del 1715 gli Ottomani riconquistarono rapidamente il Peloponneso
(in verità scarsamente difeso) con azioni
navali, poco contrastate dalla flotta veneziana, e terrestri; il prossimo obiettivo sarebbe stata l’isola di Corfù, ultimo
baluardo difensivo veneziano. La caduta
di quella importante piazzaforte nelle mani dell’Impero Ottomano avrebbe
non solo spianato la strada per Venezia,
ma avrebbe anche consentito al Sultano
di minacciare l’Italia intera e l’Europa
centro-orientale, con ciò suscitando i
timori dell’Imperatore asburgico Carlo
VI. Il 16 aprile 1716 fu pertanto firmata
un’alleanza tra Venezia e il Sacro Romano Impero.
220
Grand Tour
L’ORGANIZZAZIONE MILITARE
DELLA SERENISSIMA
in proprio di navi a vela nell’Arsenale, che
si era dovuto adattare alle nuove realizzazioni. Le navi a remi non furono mai abbandonate, andando a costituire l’Armata
Sottile, che accompagnava sempre quella
Grossa, con compiti sussidiari. Il Capitano Generale da Mar, supremo comandante
della Marina in tempo di guerra, tendeva
tradizionalmente ad alzare la sua insegna
su questo tipo di nave (galea generalizia).
Per quanto riguarda le forze terrestri, un
ambito in cui la tradizione veneziana era
molto più recente (dall’inizio della costituzione dei domini di terraferma), si era fatto
per lo più ricorso a truppe e comandanti
mercenari, attingendo alla numerosa messe di capitani di ventura che all’epoca offrivano i loro servigi a chi pagava meglio, non
disdegnando talvolta di passare dall’uno
all’altro campo guerra durante. Le truppe
mercenarie provenivano soprattutto dalla Germania e dalla Svizzera, mentre fra i
Con la Guerra di Candia Venezia era ritornata a mettere in linea un certo numero di
unità a vela che affiancassero la tradizionale flotta di unità a remi - galee e galeazze
- con la quale la Repubblica aveva raggiunto nei primi secoli della sua esistenza quel
potere marittimo che le aveva consentito
di prosperare. L’Armata Grossa - questo il
suo nome - era stata costituita inizialmente utilizzando mercantili armati noleggiati
- soprattutto inglesi e olandesi - con equipaggi e capitani di quei Paesi, anche se a
bordo veniva comunque posto un patrizio
veneziano a dirigere la nave. Successivamente si era fatto uso delle navi catturate
durante le guerre, segnatamente le sultane ottomane. Infine, quando tali metodi di
approvvigionamento erano risultati poco
attuabili, si era dato inizio alla costruzione
221
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
condottieri si annoveravano nomi famosi
come il Colleoni, il Carmagnola, il Gattamelata, ecc.. L’altro bacino di reclutamento
era costituito dalle popolazioni dello Stato
da Mar, ossia principalmente la Dalmazia
e l’Istria che fornivano i famosi Schiavoni.
Queste milizie, denominate craine quelle oltremarine, cernide quelle su territorio
italiano, venivano costituite all’occasione.
Nel complesso, in caso di necessità la Repubblica riusciva a dotarsi di un sufficiente
numero di armati, al quale era però preposta un’organizzazione di vertice alquanto
farraginosa, non permanente, affidata a
Provveditori nominati per l’occasione che
avevano poca o nulla esperienza militare.
IL TEATRO DELL’EVENTO
L’isola di Corfù era la maggiore delle sette
Isole Ionie e il perno del sistema difensivo
dell’Adriatico - il Golfo di Venezia. Dopo la
perdita di Cipro e Creta, Corfù era la principale base avanzata della Repubblica, dove
le navi dell’Armata Grossa di norma stazionavano (le galee, ad eccezione di quelle in
navigazione con scopi di pattugliamento,
stazionavano a Venezia, nei pressi dell’Arsenale). Situata a breve distanza dalla costa greca dell’Epiro, Corfù era veneziana di
fatto dal 1386, di diritto dal 1402.
Il capoluogo dell’isola, la città omonima,
si trova circa a metà della costa orientale, occupando una breve e tozza penisola
che si prolunga sul mare verso est con un
alto sperone roccioso. La città era stata già
oggetto delle cure degli ingegneri militari
in passato, trattandosi di un baluardo di
estrema importanza (aveva già subito un
assedio da parte di navi e truppe ottomane, spalleggiate da una squadra di galee
francesi, nel 1537, interrotto dopo poche
settimane), tra cui si era particolarmente distinto tale Filippo Besset di Verneda,
francese. La situazione agli inizi del 1716
era quindi quella di un complesso fortificato, ma con molte lacune (alcune modifiche suggerite dal Verneda non erano state
ancora attuate), pochi cannoni, pochi artiglieri e una guarnigione assai scarsa e poco
motivata (anche per effetto della recente
perdita della Morea).
LE FORZE IN CAMPO
Su suggerimento del principe Eugenio di
Savoia, non disponendo la Serenissima di
validi generali, il Comando in Capo di tutte le forze terrestri della Repubblica era
stato affidato al Feldmaresciallo Johann
Matthias von der Schulenburg, abile condottiero tedesco, veterano di molte campagne, che il principe conosceva e stimava.
Una volta assunto l’incarico, a fine 1715
(la Morea era stata purtroppo già persa),
Schulemburg si rese conto dell’importanza della difesa di Corfù e decise perciò di
occuparsene personalmente. A metà febbraio 1716 giunse sull’isola e fece iniziare
subito le opere di consolidamento delle
fortificazioni, realizzando trincee e rinforzando le porte cittadine. Assunse quindi il
Comando militare della piazza, affiancato
dal Provveditore Generale delle Isole Ionie,
Antonio Loredan, in qualità di Governatore
civile. All’inizio delle ostilità Schulemburg
222
Grand Tour
Johann Matthias von der Schulemburg
poteva contare su circa 3100 uomini, di cui
1429 Tedeschi e Svizzeri, 556 Italiani, 1112
fra Schiavoni, Greci e Albanesi. Solamente due terzi dei soldati erano abili al combattimento, i restanti versavano in cattive
condizioni di salute. La maggior parte dei
difensori erano quindi mercenari tedeschi e svizzeri, inquadrati in reggimenti,
che, purtroppo, con gran costernazione di
Schulenburg che li aveva espressamente
richiesti, si dimostrarono le truppe meno
affidabili.
Sul fronte navale la situazione era di poco
migliore: l’Armata Grossa contava 27 navi
di varie dimensioni e potenza di fuoco. C’era poi sicuramente un desiderio di rivalsa,
visto che l’anno precedente l’Armata Grossa non era riuscita, se non ad impedire,
nemmeno a contrastare la vittoriosa azione
della squadra ottomana protagonista della
conquista della Morea, a causa soprattutto
della tattica eccessivamente attendista del
suo comandante, il Capitano Straordinario
delle Navi Daniele Dolfin. Il nuovo comandante, Andrea Corner, appena nominato,
aveva ricevuto l’ordine dal Capitano Generale da Mar, Andrea Pisani, Comandante
in Capo della Marina Veneziana, anch’egli
di fresca nomina, di stazionare nei pressi
di Zante allo scopo di intercettare l’ormai
certo arrivo della flotta ottomana. Pisani
invece, che tradizionalmente aveva posto
la sua insegna di comando su di una galea,
con l’Armata Sottile (18 galee, due galeazze, una decina di legni minori) si era trattenuto a Corfù, per la difesa ravvicinata.
Gli opponenti erano di tutto rispetto.
L’intera operazione era sotto il comando
del Kapudan Pasha - ossia il Comandante
in Capo della Marina Ottomana - Janun
Hogia, che già si era posto in luce nella
conquista della Morea. Personaggio carismatico, negli anni successivi all’impresa
di Morosini era stato uno strenuo fautore
appunto della riconquista del Peloponneso (era nativo di Corone); inoltre aveva un
conto personale da regolare con Venezia,
essendo stato schiavo per sette anni su una
galea generalizia. Hogia poteva contare su
una cinquantina di navi a vela di vario tipo,
di cui alcune particolarmente poderose,
più il solito codazzo di galee (nemmeno
gli Ottomani le avevano abbandonate ...).
Sul fronte terrestre il corpo di spedizione
ottomano, che si era concentrato nel porto
albanese di Butrinto, in prossimità dell’in-
223
Disposizione dell'assedio
gresso nord dello stretto di Corfù, contava
circa 30.000 uomini, di cui almeno la metà
truppe di assalto (il resto era costituito da
genieri, artiglieri e altri) e circa 3000 cavalli. Li comandava personalmente il Comandante in Capo dell’Esercito Ottomano, il
Sarasker (o Serraschiere) Kara Mustafa. Il
disegno d’operazione ottomano prevedeva
dunque il trasferimento protetto, a mezzo
delle unità della flotta, delle truppe d’assedio da Butrinto alla costa corfiota.
LE FORZE OTTOMANE PRENDONO
POSIZIONE
Janun Hogia, dimostrando la sua abilità
marinaresca e sfruttando la sua conoscenza delle acque, riesce ad evitare l’agguato di Corner presso Zante e, passando
molto al largo, ad entrare nello Ionio non
visto, presentandosi all’ingresso nord
del canale di Corfù il 5 luglio. Pisani, do-
tato solo di galee, non può far altro che
richiamare Corner, ancora in attesa a
Zante. Nel frattempo l’armata ottomana
procede allo sbarco di qualche migliaio
di genieri e artiglieri sull’isolotto di Vido,
prospiciente il capoluogo dell’isola, che
viene fortificato e dotato di artiglierie
per battere le difese veneziane di Corfù.
L’arrivo di Corner viene ritardato da bonacce e venti contrari e quando finalmente l’8 luglio si presenta all’estremità
nord dello stretto, dove Pisani gli aveva
disposto di dirigere, si trova di fronte la
flotta ottomana, all’ancora, che sorveglia le operazioni di traghettamento dei
soldati da Butrinto alla spiaggia di Ipsos,
sulla costa corfiota poco a nord della città. Avviene qui il primo (e unico, durante la difesa di Corfù) scontro navale fra
l’Armata Grossa di Corner e la squadra
ottomana di Hogia, dotata di un numero di navi circa doppio. Lo scontro è ca-
224
Grand Tour
Le fortificazioni della città
ratterizzato inizialmente dal tentativo
di mantenere il sopravvento, essenziale
per la buona manovrabilità delle navi,
favorevole ai veneziani (vento da NordOvest). Alle 15 inizia la battaglia con le
navi più o meno su linee di fila, dove si
distingue particolarmente tra i Veneziani Marcantonio Diedo, che manovra di
iniziativa salvando situazioni rischiose.
Alle 2030 circa si sospendono le ostilità
e le flotte si separano, ognuna con gravi danni. Il mattino successivo Corner si
lascia (inspiegabilmente) scadere sottovento, verso la città e gli Ottomani ricostituiscono la linea di fila attraverso il
canale, riprendendo il trasporto di truppe (e sbarrando l’accesso nord del canale
ai rinforzi da Venezia). A causa del vento
dominante di Nord-Ovest, la flotta veneziana non riuscirà più a impensierire
quella ottomana.
L’ASSEDIO
Una volta traghettato l’intero corpo di spedizione, gli Ottomani iniziano i preparativi per l’assedio, costruendo le trincee di
avvicinamento. Nel frattempo l’Esercito
Asburgico al comando di Eugenio di Savoia
inizia le ostilità contro gli Ottomani nella
penisola balcanica, attraversando la Sava
(13 luglio) e dirigendo verso la fortezza di
Petervaradino. Pochi giorni dopo a Corfù
gli Ottomani saggiano le difese veneziane
con un primo attacco, respinto. Successivamente arriva, passando dall’ingresso
sud dello stretto di Corfù, un convoglio di
rinforzo, scortato dall’Armata Sottile, poi
quattro navi maltesi, che vanno a integrarsi nella flotta veneziana.
A fine mese gli attacchi ottomani si fanno
più frequenti, ma i difensori riescono sempre a respingerli. Le navi, impossibilitate
ad attaccare la flotta ottomana a causa del
225
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
Scontro navale fra le flotte di Andrea Corner e Janun Hogia
vento contrario, cercano di appoggiare le
azioni veneziane a terra bombardando le
posizioni nemiche; arriva un nuovo convoglio di aiuti composto da navi pontificie,
spagnole, genovesi e toscane (cinque navi
a vela e 14 galee). Il 1° di agosto avviene
un attacco in grande stile degli Ottomani,
che investono le due alture prospicienti la
città, Monte d’Abramo e Monte San Salvador; da questa seconda postazione i tedeschi di guarnigione si ritirano quasi subito, provocando anche la caduta dell’altra
piazzaforte, difesa invece fino all’ultimo
dalle truppe schiavone. Conquistate le due
alture gli attaccanti si trovano a godere di
una notevolissima posizione di vantaggio,
potendo bersagliare le fortificazioni veneziane dall’alto.
Il 5 agosto il Sarasker Kara Mustafa fa recapitare ai Veneziani l’ultimatum, che viene respinto. Lo stesso giorno avviene un
tentativo di portare le unità dell’Armata
Grossa in posizione di battaglia, rimorchiandole con le galee, approfittando della
caduta mattinale del vento contrario, ma
alla ripresa di questo l’azione deve essere
annullata.
A seguito del rifiuto di arrendersi, il giorno successivo gli Ottomani attaccano in
massa appoggiati dalle artiglierie sui forti conquistati; i difensori resistono come
possono, sempre seguiti personalmente da
Schulenburg, presente in tutte le fasi dei
combattimenti. Un po’ di ottimismo rinfranca gli animi quando arriva la notizia,
portata da una nave inglese, della vittoria
asburgica a Petervaradino, dopo una sanguinosa battaglia fra 70.000 Austriaci e circa 100.000 Ottomani guidati personalmente dal Gran Visir Ali Damat, che era caduto
in combattimento. Pochi giorni dopo giungono 1700 soldati in rinforzo, quanto mai
necessari agli assediati (come si può notare, gli Ottomani non erano stati in grado di
imporre un assedio “stretto”, visto che gli
assediati avevano sempre potuto ricevere
rinforzi da sud). Il 18 una sortita notturna
per tentare di riprendere il Monte d’Abramo si risolve nella perdita di una sessantina di Schiavoni, colpiti per errore dai soliti mercenari tedeschi. Il giorno dopo gli
Ottomani scatenano quello che avrebbe
dovuto (e potuto) essere l’attacco decisivo
alla Fortezza Nuova, ma ancora una volta i
226
Grand Tour
difensori resistono. Nel momento più critico Schulenburg, guidando personalmente
un contingente di 800 soldati, esce da un
passaggio secondario e investe sul fianco
i nemici, che si ritirano disordinatamente
lasciando sul campo moltissimi morti. Il
giorno dopo - il 20 - ha luogo un ultimo e
inutile attacco ottomano verso Porta Raimonda, sotto una pioggia torrenziale che
in poco tempo devasta le opere d’assedio e
l’accampamento nemico. Lo stesso giorno
il cambiamento di vento potrebbe riportare in battaglia le navi veneziane, ma la
forte tempesta lo rende impossibile, danneggiando fra l’altro entrambe le flotte.
LA RITIRATA DEGLI OTTOMANI
L’impresa ottomana è finita: la strenua difesa dei Veneziani, la sconfitta di Petervaradino e una rivolta dei Giannizzeri, truppa d’élite del Sultano. persuadono il nuovo
Gran Visir ad ordinare la ritirata. Tra il 21
e il 22 le truppe terrestri si reimbarcano,
lasciando sul terreno cannoni, materiali
vari, bandiere e i cavalli, perdendo fra l’altro varie centinaia di uomini nelle operazioni di reimbarco. La flotta veneziana non
riesce a contrastare le operazioni a causa
del vento contrario che ostacola anche gli
Ottomani. Solo il 26 Hogia riesce a uscire
dal canale di Corfù, Corner pensa di precederlo da sud ma Pisani glielo vieta. Quando
l’Armata Grossa riesce a prendere il vento
giusto, le navi ottomane hanno già una
giornata di vantaggio: ancora una volta
Hogia manovra meglio e riesce a sottrarsi
all’inseguimento. Alla fine Corner si ferma
a Zante per le riparazioni, dove gli ausiliari
(pontifici, maltesi, spagnoli, ...) si staccano
e rientrano alle rispettive basi. La successiva sosta è a Modone dove arriva anche
Schulemburg che giudica inattaccabile la
fortezza. L’Armata Grossa resta nelle acque
del Peloponneso, ma non si fida a cercare
la flotta ottomana, che è già rientrata alle
basi, mancando la possibilità di infliggere
alla Sublime Porta una pesante sconfitta
anche per mare, dopo il vittorioso esito
della difesa terrestre di Corfù.
Per aver guidato in modo magistrale la difesa del presidio veneziano Schulenburg ottenne onori e riconoscimenti tangibili, tra
cui una statua nella piazzaforte di Corfù vivente - e un oratorio, Juditha triumphans,
commissionato per l’occasione ad Antonio
Vivaldi, basato sulla vicenda di Giuditta e
Oloferne, successivamente rappresentato
all’Ospedale della Pietà di Venezia. Il feldmaresciallo poi rimase a vita al servizio
della Serenissima, passando gli ultimi anni
a Verona come Governatore Militare. Janun
Hogia fu invece riconosciuto responsabile
del fallimentare esito dell’impresa (tutto sommato ingiustamente), nonostante
avesse dato ottima prova delle sue qualità
marinaresche, privato dell’incarico e imprigionato; lo si rivedrà comunque alla fine
della guerra, reintegrato come assistente
del Kapudan Pasha di turno.
LA FINE DELLA GUERRA
Nei due anni successivi le forze navali veneziane e quelle ottomane si scontrano
ancora quattro volte. Nel 1717 l’Armata
227
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
Statua di Schulemburg
Grossa, al comando del nuovo Capitano
Straordinario Ludovico Flangini, questa
volta in campagna offensiva, si dirige per i
Dardanelli con lo scopo di bloccare la flotta ottomana ed eventualmente penetrare
all’interno. Nei pressi dell’imboccatura
degli stretti le due flotte si scontrano due
volte, il 12 e il 16 giugno, riportando gravi perdite ma senza che nessuna prevalga.
Nel secondo scontro Flangini viene gravemente ferito e muore poco dopo. La flotta
veneziana, al comando ora di Marcantonio
Diedo, dirige per la Morea. Qui avviene il
terzo scontro dell’anno, nel golfo di Laconia. Alla fine le flotte si ritirano, entrambe
danneggiate, senza vincitori. Nel 1718 le
due flotte si scontrano per tre giorni di seguito dalle parti di Capo Matapan, ancora
una volta riportando gravi danni ma senza vincitori: sarebbe stata l’ultima volta.
L’Armata Sottile negli stessi anni conquista due piazzeforti ottomane sulla costa
epirota, Prevesa e Vonitza, e pone l’assedio
alla base corsara di Dulcigno, con un corpo di spedizione anfibio appoggiato dal
mare. Non appena ottenuta la resa degli
assediati, tuttavia, arriva la notizia della
firma della pace di Passarowitz, avvenuta
il 21 luglio, e le operazioni devono essere
interrotte.
La pace, orchestrata da Impero Asburgico
e Impero Ottomano, a cui Venezia deve in
qualche modo sottostare, si basa sul principio dell’uti possidetis (status quo), per cui
a Vienna, che risulta la vera vincitrice del
conflitto, restano i vasti territori balcanici
conquistati agli Ottomani, i quali mantengono la Morea, mentre Venezia conserva le
228
Grand Tour
Isole Ionie e qualche possedimento in Dalmazia e Albania. Un altro aspetto negativo
per Venezia, seppur non direttamente connesso alla firma del trattato (risale infatti
all’anno precedente), è la dichiarazione di
libera navigazione in Adriatico per le navi
dell’Impero Asburgico, un atto poco sostanziale in sé (le Marine sia mercantile
che da guerra dell’Impero erano assai limitate), ma indice della perdita della supremazia della Serenissima sul “suo” Golfo ...
LESSONS LEARNED PER VENEZIA
Alla luce dell’impiego delle truppe terrestri a Corfù, Venezia decide di affidare a
Schulenburg vari provvedimenti correttivi, sia sul piano tecnologico che su quello
amministrativo. Il Nostro si dedica quindi
a indicare una serie di provvedimenti migliorativi delle fortificazioni in essere, non
solo dell’isola di Corfù, ma anche di altre
fortezze dello Stato veneto. Prosegue poi
a supervisionare una riorganizzazione
dell’Esercito veneziano, in parte già iniziata qualche anno prima da un suo predecessore, il generale Adam Heinrich von
Steinau, facendone una forza permanente
di circa 20.000 uomini organizzati in reggimenti e compagnie e facendo a meno
delle inaffidabili truppe mercenarie. Fornisce poi suggerimenti sull’arruolamento,
sull’addestramento, sul trattamento dei
militari e sull’organizzazione di vertice. Si
preoccupa anche di suggerire la creazione
di un corpo di ingegneri militari, che possano progettare, costruire e manutenere
le numerose fortificazioni della Repubbli-
ca (per la cui formazione sarà istituito un
Collegio a Verona, nel 1759). Dà infine alle
stampe un trattato in cui si descrive con
precisione teutonica tutti gli aspetti della
vita militare (“Esercizio Militare e regola
universale dell’Infanteria della Serenissima
Repubblica di Venezia”).
In campo navale l’analisi del comportamento delle navi aveva potuto dare qualche
utile indicazione, che tuttavia poté essere
messa in pratica in modo limitato, anche
per la mancanza di occasioni successive di
mettere alla prova eventuali miglioramenti. Nei vari scontri era stato verificato come
le due flotte fossero sostanzialmente in
parità, dove il numero maggiore delle navi
ottomane spesso era controbilanciato dal
miglior addestramento al tiro dei veneziani; quindi con flotte equivalenti la tattica
del fuoco in linea di fila non era efficace (il
“taglio del T” di nelsoniana memoria era di
là da venire...). La segnaletica a bandiere,
nonostante un accurato Libro dei Segnali
preparato da Flangini in occasione della
campagna del 1717, era di difficile interpretazione, soprattutto se il comandante
non si trovava a metà dello schieramento
(sia nel 1717 che nel 1718 le navi di coda
spesso non avevano preso parte al combattimento, non avendo visto i segnali e non
avendo ricevuto istruzioni in proposito).
Le navi dovevano essere grandi, dotate di
un gran numero di cannoni di calibro elevato per poter manifestare una certa superiorità (erano sorti vari dissidi in seno
all’Arsenale sulla dimensione delle navi e
sull’armamento). La scelta di fare vascelli
più piccoli per poterli impiegare anche in
229
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
tempo di pace risultò non pagante; in loro
vece furono introdotte le c.d. “navi atte”,
mercantili armati che non necessitavano
di scorta e potevano all’occorrenza essere
impiegate anche per limitati scopi bellici
(esempio tipico la “Polacca”, dotata di tre
alberi a velatura mista, una decina di cannoni e propulsione ausiliaria a remi). Il voler poi far lavorare insieme vascelli a vela
e galee non era risultato efficace, se non
talvolta per azioni di rimorchio in assenza di vento; più spesso le galee erano state
di intralcio, costringendo le navi a vela a
ritardare o a distaccarsi per portare loro
soccorso.
fu capace di interpretare i segnali dei cambiamenti in atto e si trovò quindi impreparata a gestire gli avvenimenti che inesorabilmente ne provocarono la caduta.
Andrea Liorsi
Capitano di Vascello, già Direttore dei corsi dell’Istituto di Studi Militari Marittimi e Senior fellow del
think tank “Il Nodo di Gordio”
EPILOGO
All’indomani della poco soddisfacente
pace di Passarowitz Venezia aveva davanti
circa ottant’anni di pace, essendosi autoobbligata ad una neutralità assoluta, che
non abbandonò nemmeno in seguito ai
pressanti e allettanti inviti di partecipare
ai successivi conflitti contro l’Impero Ottomano da parte di Austria e Russia, che
promettevano nuove annessioni nel Levante. Gli “ultimi fuochi” si sarebbero verificati solo con le imprese di Jacopo Nani
e Angelo Emo contro i corsari barbareschi,
che dal Nordafrica effettuavano scorrerie
sulle coste italiane. Venezia si chiuse così
in un certo immobilismo politico (malgrado la vita intellettuale e culturale fosse vivace). La classe politica dominante aveva
progressivamente rinunciato alle attività
commerciali marittime, più rischiose, a favore di quelle fondiarie in terraferma; non
230
Grand Tour
GLI ITALIANI DEI DUE MONDI:
I PROTAGONISTI DELLA
PRIMA REPUBBLICA
FRA ARABI E AMERICANI
di Matteo Gerlini
otrà sembrare curioso l’uso di due
citazioni letterarie e cinematografiche giapponesi per presentare un
saggio che tratta di questioni mediorientali
ed euro atlantiche. Tuttavia, solo due titoli
riescono a esprimere icasticamente e lo spirito che anima “Il dirottamento dell’Achille
Lauro e i suoi inattesi e sorprendenti risvolti”.
Il primo è il film di Akira Kurosawa, Rashomon, che benissimo si presta ad essere struttura narrativa di un assieme di fatti, alcuni
noti altri solo intravisti, che cambiano il loro
significato a seconda del soggetto che li vive.
Esso offre la chiave per intendere il primo
brano qui tratto dal saggio.
Col pollice chiuso verso il palmo, il dorso
rivolto alla platea di un convegno romano
del 2002, Giulio Andreotti levava le quattro
dita del- la mano destra chiedendosi come
avessero fatto quattro palestinesi a tenere
per giorni sotto scacco l’intero equipaggio
di una motonave, una ciurma composta
P
231
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
non da «Figli di Maria», ma da marittimi
di Torre del Greco1. Dubbio forse retorico,
perché probabilmente una risposta il senatore a vita già l’aveva; dubbio reale e concreto invece, per tutti coloro che cerchino
di orientarsi nei convulsi eventi che dal 7 al
12 ottobre 1985 segnarono il dirottamento
della nave da crociera, il sequestro dei suoi
passeggeri e il tormentato accertamento
dei responsabili dell’attentato.
Il dubbio di Andreotti, nella sua apparente
banalità, portava l’autore di queste pagine
a chiedersi se il suo fosse solo biasimo verso il comportamento dell’equipaggio, da
lui ritenuto non adeguato alla difficile situazione, oppure se, guardando alla mano
e non ai marittimi, fosse legittimo ritenere
che assieme ai quattro dirottatori, poi condannati, ve ne fossero altri a bordo. L’esito
del processo ai sequestratori aveva escluso
tale possibilità, però di tanti passaggi oscuri o semplicemente poco convincenti era
piena la vicenda del dirottamento dell’Achille Lauro. Ma se alla luce delle fonti oggi
disponibili diventa argomento ancor più
incerto ciò che effettivamente avvenne
sulla nave, diviene per converso molto più
decifrabile la condotta dei governi coinvolti nel dirottamento, finalmente scevra
da considerazioni e omissioni dettate dalle
circostanze e dalla comune volontà, in ne
raggiunta dai rappresentanti di Egitto, Italia e Stati Uniti, di lasciarsi dietro le spalle
i contrasti e i dissapori.
Proprio questo appianamento delle serie
asperità emerse fra i governi coinvolti, raggiunto con grandi difficoltà, ha reso invalsa
una narrazione che privilegiava una parte
dei significati della vicenda, mettendo in
ombra altri significati e talvolta anche altri
fatti. Una narrazione non falsa, ma parziale, che meglio di altre rispondeva alla necessità di spiegare l’accaduto alla luce della ricomposizione dei con itti fra italiani,
americani e egiziani.
Una narrazione della quale è stato ampiamente prigioniero anche l’autore. Si scriveva che durante il sequestro gli italiani
frenarono il più possibile l’azione di forza americana: un arrembaggio della Delta
Force consono alla politica «muscolare»
reaganiana, esasperata dall’uccisione di
cittadini statunitensi per opera del «terrorismo», come se questo fosse un soggetto
storico. Si riprendevano le fruste vesti di
quella recitazione che vuole gli americani
provenienti da Marte e gli europei da Venere, dove venerei e marziali alla ne diventano venusiani e marziani, cioè categorie
extraterrestri inutili alla spiegazione delle
vicende politiche2. Si diceva altresì che la
decisione italiana di lasciare andare uno
dei due negoziatori della liberazione della nave – successivamente scoperto invece
correo del sequestro – era giustificata dalla
ferma coerenza rispetto a una direttrice di
politica estera verso il mondo arabo tenacemente perseguita. I governanti italiani,
1. L’episodio è avvenuto durante il convegno «La politica estera italiana negli anni Ottanta», tenutosi a Roma nel 2002; la
frase è riportata negli atti del convegno medesimo: Di Nolfo, Ennio (a cura di), La politica estera italiana negli anni Ottanta, Marsilio, Venezia 2007 (Lacaita, Manduria 2003), p. 117.
2. Cfr. Kagan, Robert, Of Paradise and Power. America and Europe in the New World Order, Alfred A. Knopf, New York
2003.
232
Grand Tour
o meglio, i rappresentanti democristiani e
socialisti, credevano nel capo palestinese
Yasser Arafat e nella possibilità di pace con
Israele in associazione con la Giordania, e
si erano pertanto scontrati sia con gli israeliani, la cui causa era maggiormente interpretata in Italia dai repubblicani, sia con
gli statunitensi: questi ultimi fatalmente
distanti dalla civilizzazione mediterranea
che rendeva facile agli italiani il dialogo
con gli arabi. Sulla riappacificazione fra il
presidente de- gli Stati Uniti Ronald Rea-
Non si trattava dell’etica
protestante contro lo spirito
levantino: la più seria crisi
diplomatica fra la Repubblica
italiana e gli Stati Uniti
d’America si consumò attorno
alla gestione delle basi
NATO, e l’atteggiamento
verso il terrorismo
palestinese fu solo la miccia
che fece esplodere la
polveriera.
gan e il presidente del Consiglio Bettino
Craxi si diceva, con toni più dimessi, che
gli americani fossero spaventati dal consenso che Craxi aveva acquisito nel paese e
da una disponibilità dei comunisti di dare
a Craxi i voti persi nella rottura coi repubblicani.
Tutte queste convinzioni rispecchiavano
una sola parte di una vicenda assai com-
plessa, e se considerate spiegazioni ultime,
traggono in serio errore. Non un errore di
opinione, ma un errore di ricostruzione, di
cronaca; non uno, ma vari errori che come
sempre si scoprono confrontando quanto
acquisito con altre fonti e nuova documentazione.
Si legge così che gli italiani erano pronti ad
assaltare la nave sin dal giorno 7 ottobre,
approfittando di un’apertura di negoziato
tramite i siriani, che aveva l’unico ne di
tenerla ferma di fronte al porto di Tartus
e permettere l’arrembaggio. L’ambasciatore degli Stati Uniti in Italia Maxwell Rabb
esercitò delle forti pressioni su Craxi, che
chiuse il canale a discapito di quanto aveva stabilito Andreotti, ministro degli Esteri
nel suo governo. Questa non è una novità assoluta, ma uno di quei fatti rimasti in
secondo piano rispetto al gioco delle parti
venereo-marziale. Ciò che invece non si
trovava nelle precedenti ricostruzioni era
il motivo di questa preoccupazione statunitense: la sfiducia nelle capacità degli incursori italiani. Proprio le relazioni fra le
forze armate dei due Stati, i rispettivi rami
che dovevano essere maggiormente affini
e intrecciati, furono invece le più lacerate.
L’organizzazione del trattato dell’Atlantico del Nord, che tanto aveva integrato le
forze armate degli Stati membri nella formazione, standardizzazione e catena di
comando, pareva segnare in quelle ore il
perimetro di uno scontro anziché l’ambito
di una condivisione. Furono le minacce di
crisi dello stesso perimetro atlantico, cioè
di revisione delle decisioni prese, a chiudere l’episodio, quando Andreotti pose sul
233
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
piatto della crisi la base di Comiso, luogo
di schieramento dei nuovi sistemi d’arma
dell’alleanza noti come Euromissili. Fu un
duro colpo, che richiese un tempo fisiologico per essere assimilato e elaborato nel
modo più oculato da parte degli americani. Questo, più dell’appoggio comunista,
che pure fu determinante nel permettere a
Craxi di sparigliare le carte, in un intervento di fronte alla Camera che mise alla sbarra il ministro della Difesa Giovanni Spadolini, chiuse veramente la crisi. I comunisti
non fecero mancare il loro aiuto a Craxi e
Andreotti, e la vicenda segnò un notevole
passaggio nei loro rapporti, pur senza prefigurare alleanze alternative.
Dai comunisti italiani a quelli russi il passo era lungo, eppure anche i sovietici non
furono completamente assenti dalla crisi.
Entrambi i negoziatori palestinesi, la cui
liberazione tanto turbamento arrecò alle
relazioni italostatunitensi, non furono cer-
tamente espulsi dall’Italia per salvarne la
politica verso il con itto araboisraeliano;
forse furono sottratti agli americani perché erano personaggi di collegamento fra
l’OLP e il blocco orientale durante la calda crisi degli ostaggi sovietici in Libano.
Sicuramente volarono su un aereo jugoslavo non per dissimulazione agli occhi, o
meglio alle orecchie statunitensi, che tutto
sapevano e ascoltavano, ma furono caricati
su un volo di linea per minimizzare il rischio che l’aviazione americana abbattesse
l’aereo, o lo dirottasse.
C’entrava poco lo spirito levantino, che
doveva accomunare arabi e italiani contro
l’etica protestante. Il comune Mar Mediterraneo non poteva certo intendersi
come garanzia di maggior comprensione
fra civiltà, identità o gruppi, se non attraverso generalizzazioni retoriche o di
basso uso politico. In particolare l’intesa
sviluppata con l’OLP era contestuale alla
234
Grand Tour
guerra del governo italiano contro i palestinesi dissidenti e oppositori di Arafat,
che in quella stagione godevano di particolare credito presso vari governi, in particolare del blocco orientale, una guerra
che insanguinò le strade e gli aeroporti
italiani. Viceversa, la «crociata» contro
il terrorismo promossa da vari esponenti del governo statunitense e benedetta
da Reagan fu denudata dallo scandalo
Iran-contra: un traffico d’armi con la repubblica islamica, da poco entrata nel
novero delle madrine del terrorismo, i cui
«machiavellici» obiettivi politici parevano poca cosa rispetto ai concreti dividendi del commercio di armamenti con mani
che avrebbero verosimilmente ucciso altri
cittadini statunitensi.
Ancor di più queste acquisizioni evinte
dagli opinionisti – spesso di alto livello
giornalistico – crollano di fronte alla nuova documentazione qui presentata rispetto al cosiddetto «lodo Moro», che lodo non
era e neppure di Aldo Moro. Il «colloquio»,
stabilito nel 1972 fra il direttore del Servizio Informazioni Difesa (SID) Vito Miceli
e la direzione arafattiana, era una prassi
di espulsione al posto della detenzione,
praticata solo in alcuni casi e perciò approvata dal presidente del Consiglio Andreotti e dal suo guardasigilli, Guido Gonella. Una prassi, come suggerito da altra
documentazione successiva, impiegata
a maglie più larghe da altri Stati europei
come la Repubblica francese o la Confederazione elvetica. I mediterranei italiani
erano dunque assai più duri de- gli europei continentali nei confronti dei rivieraschi palestinesi. In ne, la missione italiana
dell’alto dirigente dell’intelligence americana Hugh Montgomery, ampiamente negletta sino alla parziale pubblicazione dei
documenti statunitensi3 qui invece esaminati integralmente, chiarisce quanto
profonda fosse stata la ferita nelle forze
armate italiane e quindi nello stesso nerbo dell’alleanza atlantica. Da medesimi
archivi si ricava un quadro a tinte più forti
della crisi di governo e dei rapporti fra gli
italiani e gli statunitensi, quale quello che
emerse nell’incontro fra Rabb e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio,
Giuliano Amato, epitome delle differenze
fra Craxi e Andreotti nei rapporti con gli
americani.
Soprattutto, appare ancora una volta confermato l’interesse prioritario degli statunitensi nell’evitare che gli italiani restringessero l’uso delle basi alla lettera degli
accordi italostatunitensi in materia, e non
alla prassi invalsa nei siti militari.
Si trova dunque, cercando nelle nuove
fonti, un quadro nel quale le questioni
orientali rimanevano sullo sfondo, ovvero
era stato la scintilla che aveva innescato
un fuoco inedito nell’alleanza fra Italia e
Stati Uniti rafforzata dal governo socialista, e che proprio per questo rese ancor
più evidenti le venature dei pregiudizi che
segnarono la crisi. Pregiudizi veri, sull’atavismo degli italiani e degli statunitensi.
Pregiudizi che la politica ricompose anche
3. Cfr. Fondazione Craxi, La notte di Sigonella. Documenti e discorsi sull’evento che restituì orgoglio all’Italia, Mondadori,
Milano 2015.
235
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
grazie alle conoscenze mutuali dei singoli
partecipanti alle vicende, alle loro convinzioni e frequentazioni.
Non si troverà in queste pagine un’ermeneutica delle personalità politiche coinvolte, né dissertazioni sulla loro mentalità,
perché protagonisti sono i fatti. Si tratta di
storia fattuale, tanto disprezzata da alcuni
storici contemporanei, eppure ricerca della
conoscenza, di costruzione dell’evento come
necessità della narrazione, senza la quale rimarrebbero solo filosofie e digiune di realtà.
Di pagine ne sono state consultate molte per
la costruzione del saggio; pagine di giornali, elettronici o in microfilm; pagine di documenti, in copia o in originale. In questa
messe di fogli, è capitato di trovare un breve
documento, apparentemente adombrato dagli altri, come intende il senso del titolo di
quella famosa di etica giapponese: Hagakure,
nascosto fra le foglie. Una sola pagina, inserita verosimilmente da Andreotti nel faldone
di documenti relativo a Craxi. Un foglio che
contiene elementi evidentemente sensibilissimi quanto difficilmente verificabili, ma che
l’euristica delle fonti impone di riportare in
quanto non proveniente da un sito scandalistico, bensì dall’archivio di un presidente del
Consiglio. Chiave di questo secondo brano del
saggio, Hagakure trattava le regole morali dei
samurai attorno alla fedeltà al proprio signore, dissertando però sulla vita del samurai che
si trovi a perdere il signore stesso. Traslare
questo vincolo in ciò che comportò per i protagonisti della vita repubblicana il crollo della prima Repubblica è una suggestione forse
troppo poetica, ma certo efficace.
C’è una vulgata che vuole l’atteggiamento
tenuto da Craxi e Andreotti durante la crisi
di Sigonella come primum movens dei procedimenti giudiziari avviati nel 1992 e raccolti poi nel lessico giornalistico col nome
di «Tangentopoli», processi che come è
noto inquisirono prima i quadri e poi i dirigenti dei partiti di governo. Una vulgata
che alla fine non convinceva lo stesso Craxi, come ebbe a dichiarare in una videointervista, in cui riteneva però la mano estera
– scilicet americana – concreta e credibile,
dietro i procedimenti a suo carico. Non da
mano estera, ma da mano interna – e a noi
anonima – Andreotti ricevette uno stato
sulle ipotesi di imputazione che gli era stato recapitato in data ugualmente ignota.
“Contro Andreotti, secondo le nostre fonti, saranno a breve utilizzati due «profili».
Ulteriori e più approfondite analisi sono
purtroppo impossibili allo stato. Il primo
«profilo», giudicato per ora debole e diversivo, è l’accusa di attività mafiosa, che non
sembra adeguatamente supportata e documentata dagli atti dei giudici di Palermo.
Tuttavia, tale profilo potrebbe facilmente
essere rafforzato con la visita del procuratore Giancarlo Caselli negli USA. Il secondo «profilo», giudicato in sostanza come il
vero attacco, è costituito dalle vicende legate all’omicidio Moro prima, Dalla Chiesa
poi. Andreotti, si sostiene, potrebbe indirizzare il suo contrattacco contro Leoluca
Orlando Cascio, sufficientemente vulnerabile sotto il profilo politico e morale, ma
sufficientemente rappresentativo della volontà di avvertire gli anglo-americani che
ulteriori attacchi non saranno più tollerati
236
Grand Tour
senza reagire. In seconda battuta, si osserva, potrebbe essere scelto da Andreotti il
terreno della massoneria, reso però infido
dal rischio di creare complicazioni politico-giudiziarie che coinvolgerebbero Licio
Gelli. L’opzione che potrebbe essere scelta
è la scoperta e relativa divulgazione di un
elenco (ovviamente falso) di aderenti alla
«vera loggia P2», quella che alcuni giornalisti ai tempi definirono la «super P2» e
simili”4.
Il contegno tenuto durante la crisi, che aveva non di poco esasperato le forze armate
italiane, parrebbe una ragione sufficiente
a escludere un collegamento estero fra la
crisi di allora e la situazione giudiziaria in
cui Andreotti si trovò quando pareva imminente la sua elezione a presidente della
Repubblica. Ma senza altre fonti storiche
si resta nell’indeterminatezza, ed è necessario attenere a un piano obiettivo, su ciò
che noto e comprovato. Certo i processi
finirono bene per Andreotti, sul piano meramente giudiziario. Sul piano politico no,
fu una débacle in cui sprofondò anche tutto
il partito cattolico. E cattolico e conservatore Andreotti lo era, e sempre per rimanere sul piano obiettivo non può sfuggire
che cattolici furono anche due personaggi
dirimenti nel sanare la crisi, come Vernon
Walters e Clare Boothe Luce.
Ma questa considerazione, poco più di
mero colore, si inserisce invece in un affresco più grande, quello delle percezioni
mutuali degli italiani e de- gli americani,
cioè nella loro costruzione stereotipica,
che infiammò la crisi diplomatica di Sigonella e a cui solo una cruda ratio politica
pose un argine.
Matteo Gerlini
Università degli Studi di Firenze e Autore del libro
“Il dirottamento dell’Achille Lauro e i suoi inattesi e
sorprendenti risvolti” (Mondadori education 2016)
4. ASILS AGA, s. Craxi, ss. Varie, b. 272, carte non riordinate, La questione Andreotti, s.l., s.d.
237
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
IL CIHEAM
DALLA FONDAZIONE AD OGGI
di Maurizio Raeli
Nel 1962 i paesi europei, fra
cui l’Italia si sono dotati di
un fondamentale strumento
operativo: la Politica
Agricola Comune
el 1957, sei Paesi, tra i quali l’Italia, decidono di creare quella che
all’epoca era denominata CECA
(Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio), antesignana dell’attuale Unione Europea. Nel 1962, quegli stessi Paesi si dotano di uno strumento operativo: la Politica
Agricola Comune. Nello stesso anno, gli
stessi uomini – grandi visionari – stabiliscono la creazione – all’interno dell’OCSE
(Organizzazione per la cooperazione e lo
sviluppo economico) – di un’organizzazione che possa dedicarsi alla formazione di
una classe dirigente in grado di rispondere
alla grande sfida di quel periodo storico:
alimentare le popolazioni sia dell’Europa
che del Mediterraneo.
Il CIHEAM (Centre International de Hautes
Etudes Agronomiques Méditerranéennes)
nasce da questa straordinaria contingenza
e l’Istituto italiano sorge grazie alla lungimiranza, tra gli altri, dell’allora Ministro
N
238
Grand Tour
INTERNATIONAL CENTER FOR ADVANCED
MEDITERRANEAN AGRONOMIC STUDIES
degli Esteri Aldo Moro che volle la sede italiana del Ciheam a Bari. Perché Bari? Perché la Puglia è una penisola al quadrato,
una penisola nella penisola con vocazione
mediterranea, che guarda ad oriente verso
il Mashrek e ad occidente verso il Maghreb; una terra che ha avuto, nella storia,
dominazioni arabe, angioine, spagnole; un
incrocio di culture che all’Istituto Agronomico Mediterraneo di Bari del CIHEAM si
perpetua da cinquantacinque anni, accogliendo migliaia di ragazzi e ragazze. Tra di
essi vi sono giovani che provengono da Paesi in cui ancora oggi è in atto una guerra,
ragazzi che hanno vissuto sulla loro pelle
dolore e violenza, giovani di etnie e religioni diverse che, a Bari, sfidando i costumi
e le abitudini dei loro Paesi, sedendo fianco
a fianco nelle aule di studio o passeggiando
nei giardini del grande Campus.
Da oltre cinquantacinque anni il CIHEAM
promuove l’agricoltura sostenibile nell’inte-
ra Regione mediterranea, affrontando, oltre a
problemi di sicurezza e di igiene alimentare,
anche le sfide più difficili imposte dalla globalizzazione, valorizzando le risorse umane,
approfondendo, ampliando e diffondendo la
conoscenza scientifica e tecnologica, disseminando la cultura della cooperazione internazionale.
In particolare, negli ultimi trent’anni di attività, grande impulso è stato dato alla formazione, intensificando i corsi post-universitari
ed i rapporti di collaborazione scientifica con
le Università ed i Centri di ricerca di tutto il
mondo, e alla cooperazione, promuovendo
numerosi accordi internazionali e realizzando progetti di sviluppo senza, tuttavia,
dimenticare di coinvolgere attivamente il
territorio pugliese e gli Enti locali.
Numerosi sono i personaggi illustri che
hanno voluto, con la loro presenza, testimoniare il valore e l’impegno della nostra
comunità.
239
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
Il Presidente Giorgio Napolitano è sicuramente uno tra essi; la sua visita, il 14
settembre 2006, ha rappresentato il riconoscimento ufficiale dello Stato italiano
dell’importanza e del valore della missione
di pace e solidarietà che il CIHEAM di Bari
svolge nella Regione mediterranea.
Negli anni, il CIHEAM di Bari ha attuato
centinaia di progetti di cooperazione internazionale recependo i bisogni istituzionali e
operando attraverso interventi di assistenza tecnica e di rafforzamento istituzionale;
lo ha fatto ponendosi l’obiettivo di sviluppare in maniera sostenibile aree socio-economiche fragili e suscettibili di migrazioni
a causa, tra l’altro, di condizioni sfavorevoli
determinate dai cambiamenti climatici e/o
da instabilità politica.
Le attività di cooperazione, in un primo
tempo focalizzate su temi inerenti ai principali settori di attività del Centro (gestione
dell’acqua, protezione integrata delle colture, agricoltura biologica), si sono progressivamente arricchite. Oggi gli interventi sono
strettamente correlati agli ambiti tematici
che costituiscono l’attuale piano d’azione
per il Mediterraneo del CIHEAM per il 2025
(CAPMED 2025).
L’Agenda Strategica 2025 del CIHEAM e il
suo piano d’azione – in forte connessione
con l’Agenda delle Nazioni Unite 2030 - sono
strutturati intorno a quattro pilastri relativi
allo sviluppo sostenibile del Mediterraneo
e divisi in quindici priorità tematiche quali,
per citarne alcune, sicurezza alimentare e
nutrizione, dieta mediterranea, sistemi alimentari sostenibili, cambiamenti climatici
e gestione delle risorse naturali, migliora-
mento della qualità delle produzioni agricole e agro industriali, sviluppo dei territori
rurali e costieri, pesca e acquacoltura sostenibili, sostegno alle fasce sociali vulnerabili,
parità di genere, lotta allo spreco ecc.
Operare in tematiche e settori così sensibili,
ha permesso all’Istituto di Bari del CIHEAM
di sviluppare approcci e soluzioni concrete,
costruiti su basi tecnico-scientifiche consolidate.
Le iniziative del CIHEAM di Bari sono ideate, pianificate e realizzate per essere complementari e sinergiche fra loro, nel rispetto
delle priorità di sviluppo di ciascun Paese
attraverso un modus operandi che include
una metodologia partecipativa, inclusiva e
integrata a doppio flusso (bottom-up-bottom), che mira ad avviare, laddove possibile, partenariati pubblico-privati.
Forte della rete costituita negli anni con i
Paesi oggetti di intervento, il CIHEAM di
Bari è considerato un punto di riferimento per le Istituzioni ed i Ministeri dei Paesi mediterranei con cui sono stati attivati
specifici accordi di collaborazione tecnicoscientifica e di cooperazione. Lo scorso 23
gennaio, per esempio, è stato siglato un Accordo quadro di collaborazione istituzionale con l’Agenzia Italiana per La Cooperazione allo Sviluppo (AICS). L’AICS ha ritenuto
opportuno avvalersi delle competenze e
dell’assistenza tecnica del CIHEAM Bari per
rafforzare la sua presenza nei Paesi Med e
non solo, favorendo e catalizzando i processi relazionali con i Ministeri tecnici (Agricoltura, Pesca, Ambiente, Risorse idriche)
e recependo le esigenze delle istituzioni e
delle comunità locali beneficiarie degli in-
240
Grand Tour
terventi di cooperazione allo sviluppo. Tale
collaborazione è volta a rafforzare l’incisività del sistema della Cooperazione italiana
nei processi di sviluppo coerentemente con
il Documento di programmazione triennale del Governo italiano, principalmente nei
settori della sicurezza alimentare e nutrizione, dello sviluppo rurale, della gestione
delle risorse naturali, dell’acquacoltura/
pesca, del sostegno alle comunità costiere/
rurali e delle questioni relative al rafforzamento del ruolo dei giovani e delle donne.
Oggi come ieri, l’Istituto di Bari del CIHEAM continua ad essere un’organizzazione
aperta alla partecipazione ed alla collaborazione di tutti i Paesi del Bacino mediterraneo, terreno ideale per la crescita della
spazio Euro-mediterraneo per la ricerca e
l’innovazione, non solo nel settore agricolo
ed agronomico, ma anche in quello agroalimentare e nella sfera dell’occupazione e
dello sviluppo.
Ancora oggi siamo certi, tuttavia, che la
nostra forza resta soprattutto la formazione dei futuri quadri dirigenti. È sui giovani
che bisogna investire, di più e meglio. Siamo consapevoli che la situazione attuale è
complessa, ma cerchiamo di non dimenticare mai che anche nelle contingenze più
sfavorevoli il contadino taglia su tutto, ma
non sulla semina. I giovani rappresentano il
futuro sul quale investire.
Maurizio Raeli
Direttore del CIHEAM di Bari
241
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
EDIZIONI
"VOX POPULI"
"IL NODO DI GORDIO"
Edizioni Vox Populi - Nodo di Gordio, 2016 pp. 200 Euro 18,00 - Per ordinazioni: [email protected]
Edizioni Vox Populi - Nodo di Gordio, 2016 pp. 214 Euro 18,00 - Per ordinazioni: [email protected]
242
Edizioni Vox Populi - Nodo di Gordio, 2016 pp. 288 Euro 25,00 - Per ordinazioni: [email protected]
Recensioni libri / Riviste internazionali
LA BIBLIOTECA
DI GORDIO
www.nododigordio.org
EURASIA E JIHADISMO:
GUERRE IBRIDE SULLA NUOVA
VIA DELLA SETA
A cura di: Matteo Bressan, Stefano
Felician Beccari, Alessandro Politi e
Domitilla Savignoni
Roma, Carocci Editore 2016
pp 194, € 18
Nell’ambito della vasta letteratura sul
terrorismo, ed in particolare per quel che
attiene alla componente legata al “jihadismo” o “radicalismo islamico”, il recente
volume Eurasia e Jihadismo – Guerre ibride
sulla Via della Seta si distingue per affrontare il tema in modo innovativo, sia sul piano geografico che su quello metodologico.
Sul piano geografico, esso non si limita a
trattare il “classico” caso del Medio Oriente nelle sue declinazioni principali (quali
l’ISIS in Siria-Iraq o il tradizionale caso
243
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
afghano), già abbondantemente presente in letteratura, ma allarga la ricerca ad
ambiti relativamente sconosciuti. Da qui
la principale chiave di lettura del volume,
ovvero come il terrorismo contemporaneo
leghi diversi ambiti geografici anche molto
distanti fra loro, con una prospettiva geopolitica che parte dal Medio Oriente, percorre la “Via della Seta”, passando dal Caucaso, tocca la Cina (con approfondimenti
sul caso dello Xinjiang e degli Uiguri) ed
infine “scende” fino alla Nuova Zelanda,
analizzando anche l’articolato quadrante
dell’Asia Pacifica.
Sul piano metodologico, è interessante notare come l’analisi, grazie alle multiformi
expertise messe in campo, sia capace di
esaminare non solo il terrorismo in sé, ovvero la mera descrizione dei vari gruppi o
sottogruppi e le relative aree di operazione, ma affronti pure ambiti collegati ed
importanti per comprenderne il ruolo e la
portata. Va sottolineato il contributo fornito da analisti stranieri, fra i quali spiccano
cinesi e russi, rispettivamente focalizzati
sul problema del jihadismo in Caucaso e
sulla complicata questione dello Xinjiang
e del separatismo uiguro.
Il volume esplora quindi la dimensione del
terrorismo combinando questi due piani
con il risultato di una fotografia ampia ma
dettagliata del terrorismo e delle sue tendenze più recenti, facendo comprendere
come oggi gli avvenimenti in Siria ed Iraq
siano capaci di avere un impatto veramente globale, che lega i sanguinosi (e noti)
eventi di Parigi, Nizza e Bruxelles a episodi
più oscuri ma non meno importanti quali
gli attentati in Bangladesh, Jakarta o nello
Xinjang.
In definitiva, “Eurasia e Jihadismo – Guerre
ibride sulla Via della Seta” è un volume agevole ed interessante, diretto non solo agli
addetti ai lavori ma anche a quel pubblico più ampio che intende comprendere e
conoscere il fenomeno del terrorismo, non
limitandosi alla mera dimensione “mediorientale” dell’ISIS/DAESH. La struttura
del volume permette di selezionare con
immediatezza gli ambiti di maggiore interesse e di usufruire di un ricco apporto
cartografico. Nel panorama italiano Eurasia e Jihadismo si presenta quindi come una
interessante novità capace di fornire una
chiave di lettura ampia e innovativa del
terrorismo contemporaneo, basata su una
solida attività di ricerca e sulle molteplici
esperienze dei qualificati autori.
Francesco Lombardi
244
Recensioni libri / Riviste internazionali
IMMIGRAZIONE. TUTTO QUELLO
CHE DOVREMMO SAPERE
Gian Carlo Blangiardo, Gianandrea
Gaiani, Giuseppe Valditara
Edizioni Aracne, 2016
pp. 88, € 10,00
“Il business dell’accoglienza rende più
appetibile assistere gli immigrati rispetto agli italiani poveri (oltre 4,5 milioni
secondo l’Istat): questi ultimi ricevono
infatti sussidi e welfare ad personam,
mentre i clandestini vengono assistiti attraverso intermediari italiani che incassano direttamente le diarie previste per ogni
immigrato illegale”. Gian Carlo Blangiardo, Gianandrea Gaiani e Giuseppe Valditara hanno scelto la strada della chiarezza
nel loro libro “Immigrazione. Tutto quello
che dovremmo sapere”, edito da “Aracne”.
E da sapere, secondo gli autori, c’è davvero molto. Tutto quello che la disinformazione politicamente corretta cerca di
censurare e di nascondere. Tutto quello
che viene falsato e distorto. Dal numero
dei reati alle bufale sulle positive ricadute economiche, sociali e demografiche.
Un libro “scorretto” e proprio per questo
fondamentale per tutti coloro che si occupano di problemi legati all’immigrazione.
D’altronde è il tema diventato prioritario
in tutte le agende di politica interna ed
estera dei Paesi europei. Incide sui bilanci, sull’occupazione, sui diritti dei lavoratori. Ma anche sulla geopolitica perché
sconvolge gli equilibri, determina fratture, provoca alleanze inconsuete ed inimicizie impreviste. La Brexit è stata favorita
anche dalla disastrosa gestione del fenomeno migratorio, i muri interni che hanno messo a rischio la sopravvivenza stessa
dell’Unione europea sono la conseguenza
di fallimentari politiche su questo tema.
Ma i tre autori non sono adusi a slogan, a
dichiarazioni ad effetto. Il loro è un lavoro documentato, preciso, ricco di citazioni
di esponenti di varie istituzioni. A partire
dalle imbarazzanti ed imbarazzate dichiarazioni di poliziotti tedeschi “caldamente
invitati” a minimizzare e a nascondere i
reati commessi dai migranti. E ancora
articoli di giornali politicamente corretti
che, ciò nonostante, non riescono sempre
a censurare le notizie scomode.
Un lavoro pregevole che ha poco da spartire con i proclami “di pancia” di chi poco
conosce ma protesta a prescindere. Un libro crudo ma di estremo buon senso, in-
245
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
dispensabile per chi deve affrontare i problemi legati ad un fenomeno che non si
vuole gestire ma che, al contrario, sarebbe
gestibile a patto di averne consapevolezza
e di avere voglia di affrontarlo.
Augusto Grandi
I GUERRIERI DI DIO
Hezbollah: dalle origini al conflitto
in Siria
Stefano Fabei, Fabio Polese
Edizioni Mursia
pp. 394, € 21,00
Scritto da uno storico e da un giornalista fotoreporter recatosi più volte in Libano, I guerrieri di Dio. Hezbollah: dalle origini al conflitto
in Siria costituisce uno strumento utile per
orientarsi nell’attualità del Medio Oriente e
comprendere le profonde ragioni della sua instabilità. Il saggio ripercorre infatti la storia di
uno dei protagonisti contemporanei più originali e importanti del mondo arabo e islamico,
il Partito di Dio. Nato nei primi anni Ottanta
del scorso secolo sull’onda della vittoriosa Rivoluzione islamica iraniana, Hezbollah si propose due obiettivi fondamentali: dare voce alla
componente maggioritaria nel Paese dei cedri
– la sciita, fino allora marginalizzata − e creare
una Repubblica simile a quella fondata a Teheran dall’ayatollah Khomeini, anche attraverso
la Resistenza a Israele, considerato il nemico
numero uno non solo del Libano e dei palestinesi, ma anche degli oppressi di tutto il mondo.
Se il progetto d’instaurare un regime islamico
come quello iraniano nel corso degli anni è
stato pragmaticamente messo da parte, la lotta contro lo Stato ebraico continua a costituire
una delle ragioni fondanti del partito guidato
dal carismatico Hassan Nasrallah, oggi impegnato al fianco di Putin e dell’Iran nella difesa
della Siria di Assad dall’aggressione dell’ISIS,
mostro creato dall’Occidente e sostenuto, fra
gli altri, da Arabia Saudita e Israele.
246
Recensioni libri / Riviste internazionali
Oltre a rappresentare puntualmente le tappe
del percorso di Hezbollah, il contesto economico, sociale, religioso e culturale in cui esso
è nato, quelli che ne sono stati gli ispiratori
e i leader, Fabei e Polese illustrano la realtà
di un soggetto politico attivo in tutti i settori della vita nazionale: vero e proprio Stato
nello Stato libanese; protagonista nella lotta
contro l’imperialismo e per la liberazione del
Libano da Israele; struttura tentacolare impegnata in ogni ambito, dall’assistenziale all’educativo, dal militare all’informativo. Il libro,
destinato a un pubblico non solo di specialisti,
con chiarezza comunicativa e scrupolo informativo dimostra come esista un Islam diverso da quello fanatico, settario e oscurantista
rappresentato dal cosiddetto Stato islamico o
da al-Qaeda. Gli autori, oltre a offrire un’utile
definizione di Islam distinguendo quello sunnita, maggioritario, da quello sciita, accompagnano il lettore nella conoscenza del contesto
del Medio Oriente i cui mali risalgono a un secolo fa, quando − sconfitto nella Prima guerra
mondiale e smembrato l’Impero ottomano,
alleato della Germania e dell’Austria-Ungheria − Francia e Inghilterra ridisegnarono la
carta geografica dell’area in funzione dei loro
esclusivi interessi colonialistici, senza tenere
in considerazione le aspirazioni dei popoli
arabi e tradendo gli impegni presi con i rappresentanti di questi ultimi. Le ripercussioni
di quelle miopi scelte continuano a evidenziarsi in modo drammatico sotto gli occhi di
tutti dalla Palestina all’Iraq, dalla Siria al Libano, dove è nato e opera Hezbollah.
La Redazione
ITALIA E STATI UNITI.
Terrorismo e disinformazione
Vittorfranco Pisano
Roma, Nuova Cultura, 2016
pp 278, € 25
Le cronache dei nostri giorni riportano,
con stressante continuità, le notizie (e le
analisi conseguenti) sugli attentati o le
tentate stragi di matrice jihadista. La paura, oramai, è compagna di vita nei Paesi occidentali, oltre che nei martoriati territori
mediorientali. Per noi italiani, ed in particolare per le generazioni più mature, il fenomeno non è nuovo. A cavallo degli anni
’70-’80, il terrorismo di matrice politica
insanguinò la Penisola, ed anche allora la
247
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
valutazione sull’appoggio, anche solo morale, che parte della cittadinanza o componenti di istituzioni partitiche o sindacali
potevano aver dato alla causa criminale
divenne oggetto di confronto, al pari di
oggi, in cui è acceso il dibattito sul sostegno che il terrorismo radicalizzato riceve
dalle comunità islamiche, dentro e fuori i
confini nazionali. Il volume, realizzato dal
Prof. Pisano, dal titolo “Italia e Stati Uniti.
Terrorismo e disinformazione”, ripercorre
quegli anni, concentrandosi su un tratto
dell’aspetto comunicativo e mediatico che,
al pari di quanto avviene con la minaccia
contemporanea, viene utilizzato con la
stessa spregiudicatezza con cui si impiegano armi tradizionali. Con questo pregevole
lavoro Vittorfranco Pisano ha inteso confutare una tesi che a lungo è serpeggiata
in quel periodo noto come “anni di piombo”. Una tesi sostenuta da soggetti, anche
autorevoli, provenienti da diversi ambiti
del mondo accademico, professionale ed
istituzionale: la tesi di una trama oscura,
di matrice statunitense, che avrebbe dato
origine e gestito il terrorismo in Italia. Per
smontare questa tesi complottista, l’autore ha realizzato una meticolosa indagine
scientifica su una elevata e differenziata
quantità di fonti, elaborata grazie alla vastissima esperienza maturata nelle Forze
Armate USA in Italia e ad una successiva
intensa attività accademica. Una esperienza che gli ha permesso di conoscere il fenomeno terrorismo prima, analizzarne le
dinamiche poi e comprenderne, infine, le
ragioni e le linee evolutive. L’autore accompagna il lettore, sia quello informato
e qualificato, anche quello tecnicamente
edotto, sia quello più giovane, fornendogli
gli strumenti metodologici di indagine prima e gli oggetti di analisi poi, in un percorso dove razionalità, logicità e completezza
costituiscono i driver portanti. Con la descrizione puntuale di fatti, eventi, analisi,
dichiarazioni, testi, a suo tempo realizzati,
e tendenti a dar corpo alla tesi complottista, e la loro successiva particolareggiata
invalidazione, grazie a sostanziali evidenze, l’autore ricompone il quadro del percorso mistificatorio che ha accompagnato la
realizzazione degli atti delittuosi. Questo
libro, inoltre, si arricchisce di una vastissima appendice che censisce buona parte
delle opere (volumi ed opuscoli) realizzate
in lingua italiana riguardanti il terrorismo
nel nostro Paese, editi tra il 1965 ed il 2016.
Per ognuno dei 91 testi segnalati l’autore
si è premurato di elaborare una scheda che
riporta i contenuti del testo stesso; un utilissimo strumento di ricerca, quindi, per
chiunque voglia approfondire le vastissime sfaccettature del fenomeno. In definitiva, questo volume è utile per coloro che
vogliano avvicinare una metodologia di
analisi ed anche per coloro che desiderano
meglio comprendere, con un filtro di verità, aspetti che, nel nostro Paese, sono ancora al limite tra cronaca e storia.
Francesco Lombardi
248
Recensioni libri / Riviste internazionali
GERUSSIA – L’ORIZZONTE INFRANTO
DELLA GEOPOLITICA EUROPEA
Il rapporto tra la Germania e la Russia,
le due vere potenze europee.
Salvatore Santangelo
Edizioni Castelvecchi
pp. 269, € 14,00
GeRussia ricostruisce la storia e l’attualità
di uno degli snodi politici più importanti
del nostro tempo.
L’analisi risale alle radici e alle ferite storiche della relazione tra Mosca e Berlino, per
arrivare agli sviluppi degli ultimi anni, nel
nuovo quadro emerso dalla crisi dell’equilibrio unipolare e dall’affermazione di due
forti leadership politiche, quelle di Angela
Merkel e di Vladimir Putin.
Dalle immagini drammatiche degli stermini e delle macerie fumanti di Stalingrado e
di Berlino fino agli odierni intrecci politici,
economici e culturali tra russi e tedeschi,
Gerussia disegna una scacchiera viva, fatta
di calcoli, interessi e strategie, da cui dipenderà in larga misura il futuro dell’Europa. Dopo l’uscita di “Frammenti di un mondo globale” e “Le lance spezzate”, Salvatore
Santangelo, giornalista professionista che,
dopo la laurea in Scienze politiche ha conseguito un dottorato in Storia dell’Europa,
traccia in questo volume i corsi e ricorsi
storici che hanno caratterizzato i non sempre facili rapporti tra Mosca e Berlino.
Gli orrori del I conflitto mondiale, i totalitarismi nazionalsocialista e comunista che
si sono battuti all’ultimo sangue per conquistare le anime, le menti e i corpi delle
decine di milioni di esseri umani intrappolati nelle maglie dei loro sistemi repressivi;
la Germania occupata, umiliata, smembrata, un feroce confronto politico, militare e
ideologico tra blocchi contrapposti: tutto
ciò ha contribuito a plasmare il XX secolo.
La caduta del Muro, la Riunificazione, il
collasso dell’Urss hanno portato a ridefinire i confini della carta dell’Europa, e spinto
la relazione tra la Germania e la Russia verso una nuova dimensione, contrassegnata
da una rinnovata speranza e da un’intensa
collaborazione: tutto ciò almeno fino alla
Crisi ucraina del 2014.
In realtà, quello tra Germania e Russia è
stato, per secoli, un rapporto strettissimo,
per certi versi simbiotico; ma niente affatto facile. Anzi, lo si può ben definire un
rapporto d’amore-odio, in cui alla consa-
249
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
pevolezza dell’utilità reciproca si è affiancata una diffidenza di fondo.
In controluce, possiamo trovare gli appunti
sparsi di un’altra storia: per secoli le classi dirigenti dei due Paesi hanno sfidato il
cambiamento radicale dei propri regimi, gli
equilibri e i contesti geopolitici internazionali, e persino due guerre globali in cui un’inimicizia e un odio senza quartiere hanno
avuto il sopravvento. Chi lo ha intuito, forse
per primo, è stato il grande economista inglese John M. Keynes, per il quale il ruolo
storico di Berlino sarebbe proprio quello di
modernizzare il Paese degli Zar.
Adottare questo punto di vista significa
comunque superare tanti stereotipi, incomprensioni, andare non solo oltre i fotogrammi dei film di Sergej Ejzenshtein,
ma anche archiviare definitivamente, senza dimenticare, le immagini drammatiche
degli stermini e delle macerie fumanti di
Stalingrado e di Berlino.
Con la consapevolezza che comunque oggi
il confine orientale dell’Europa - lì dove
sono giunti le istituzioni e le regole della
Ue, ma anche lo scudo dell’Alleanza atlantica - vive in un tempo diverso dal nostro,
e i popoli che “presidiano” questa frontiera guardano al passato in modo dissimile,
sentendosi forse ancora prigionieri delle
Terre insanguinate.
La memoria, il dolore, l’appartenenza, gli
odi atavici, stanno diventando altrettante
fiches gettate su questo tavolo da gioco.
Se l’integrazione tra Russia e Germania
- GeRussia - non sarà semplicemente un
progetto egemonico costruito su freddi
calcoli che prendono in considerazione
solo vantaggi o svantaggi economici, ma
un processo che tende la mano anche a
chi più ha sofferto a causa dei russi e dei
tedeschi, e quindi se saprà nutrirsi, magari rinvigorendolo, dello stesso spirito che
ha animato i padri fondatori che vollero
edificare la Casa comune sulle macerie fumanti della guerra civile tra europei, forse,
finalmente, gli spettri e gli orrori di questa
geografia insanguinata potranno essere
esorcizzati.
La Redazione
250
Recensioni libri / Riviste internazionali
SAMARCANDA: UN SOGNO
COLOR TURCHESE
Franco Cardini
Edizioni Il Mulino
pp. 325, € 16,00
Kan ma kan... c’era una volta, come si recita
in lingua araba quando inizia il racconto di
una fiaba. E proprio una fiaba sembra la cavalcata attraverso i secoli che Franco Cardini invita il lettore a compiere sfogliando
le pagine del suo Samarcanda (Il Mulino,
Bologna). Città dalle cupole dorate, dai
cortili inondati dal sole, degli imponenti
monumenti funebri, crocevia sulla via del251
la seta, antico emporio di merci preziose,
spezie, avorio, indaco, diamanti. Samarcanda, la mitica, la misteriosa, sarebbe stata fondata dal principe ario Samar, da qui
il nome, ma quella che Cardini afferma di
amare di più è l’antica Afrasiab che si trova
a Est dell’attuale città, quella che raggiunse il suo splendore tra il VII e l’VIII secolo,
con le sue moschee, le medrase; quella che
gli uzbeki preferiscono contrapporre a Samar, voluta da un altro principe: Afrasiab
per l’appunto, di origine turanica essendo
i turanici nemici giurati degli arii, un po’
come gli uzbeki lo sono degli afghani. Conquistata da Alessandro Magno fra il 329 e
il 327 a.c., poi da Gengis Khan nel 1220,
divenuta capitale dell’impero timuride tra
XIV e XV secolo è la città che ospita la più
grande moschea dell’Asia centrale, quella di Bibi Khanum, restaurata di recente.
Un mosaico di popoli, di lingue, di culture
quelle che Renè Grousset ha definito l’impero delle steppe, dove sogdiani, turkmeni,
cumani, transoxiani hanno vissuto e combattuto, si sono incontrati e scontrati. Le
pagine di Cardini sono un utilissimo baedeker ad uso del viaggiatore colto, o per
meglio dire curioso e affascinato da quello
che gli antropologi definiscono l’altro da
sè. La “tomba del re vivente”, Shah-e Zinda, la piazza del Reghistan, la madrasa di
Ulugh Beg che vi campeggia, sono altrettante testimonianze della magnificenza
che ispira l’attuale capitale dell’Uzbekistan. Ma Samarcanda non è solo questo. Il
grande storico fiorentino, come spesso gli
capita di fare, oltrepassa i confini, si spinge
oltre e racconta di come l’Islam si sia af-
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
fermato in quelle regioni tra l’Amu Darya
e il Sir Darya, di come esso abbia assorbito
le tradizioni precedenti, quelle sciamaniche, perpetrandole anche all’interno della nuova religione. “L’anima più profonda
dell’Islam centroasiatico - osserva Franco
Cardini - che ha una radice robustamente
collegata a quello persiano, anche se, a differenza di esso, è rimasto sunnita, è quello
della pietas sufica impregnata di un misticismo che ha consentito in passato l’assorbimento di numerose pratiche sciamaniche....”. Marco Polo ha viaggiato sulle vie
che portano a Samarcanda, nel suo Devisement dou monde quello che noi conosciamo
come il Milione, dice di Samarcanda: “è una
nobile cittade, e sonvi cristiani e saracini”,
Odorico da Pordenone così come il fiorentino Giovanni de' Marignolli sono transitati
per la città sogdiana, mentre Ruy Gonzales
de Clavijo, ambasciatore del Re d’Aragona,
ce ne fornisce un’ entusiastica descrizione.
Tra storia e mito l’autore ci parla del signore della paura, Timur, da noi conosciuto
come Tamerlano, fondatore dell’impero timuride che di Samarcanda fece la sua capitale. Lo zoppo per alcuni mentre per i mongoli il suo toponimo sarebbe stato Temur
“ferro” e il ferro, osserva ancora Cardini
“è appunto metallo sacro nella tradizione
degli sciamani, i poteri dei quali sono tradizionalmente legati all’arte delle fucine”.
Lo sguardo acuto dell’autore tuttavia non
si ferma all’epoca più antica, Cardini ci descrive anche la Samarcanda sovietica, con
le sue contraddizioni, i piani di sviluppo, le
brutture che ancora oggi le fanno da non
proprio regale corona. Per farlo egli spa-
zia sull’intera realtà sovietica soffermandosi su quella delle repubbliche dell’Asia
centrale, sulla politica di Chruscev e sulla
perestroika gorbacioviana, che seppe offrire una nuova vita culturale alle diverse
etnie che componevano l’ex impero sovietico. In fondo Samarcanda è tutto questo:
la grandezza di un impero e la fine di esso,
l’arte più raffinata e le caserme-alberghi
costruite dai sovietici, la magnificenza dei
suoi empori e la miseria che negli anni più
tristi della dominazione della falce e martello ne ha alterato, sebbene parzialmente,
i connotati. È verso la favolosa Samarcanda
che cavalca il soldato di ritorno dalla festa
per la fine di una lunga guerra. Il suo re gli
ha regalato il destriero più veloce perché
egli possa sfuggire alla Signora in Nero che
però è lì ad aspettarlo. Kan ma kan. Non è
poi così lontana Samarcanda...
Alessandro Bedini
252
Recensioni libri / Riviste internazionali
IL SOCIALISMO DEL XXI SECOLO
Le rivoluzioni populiste in Sudamerica
Luca Lezzi, Andrea Muratore
Circolo Proudhon Edizioni
pp. 260, € 15,00
Nel mondo multipolare delle Tre Torri,
non manca soltanto la quarta torre,
quella europea. Manca anche la quinta,
quella latinoamericana. Un continente
dalle enormi potenzialità ma del tutto
trascurato non soltanto dalle grandi
potenze, ma anche da analisti ed opinione
pubblica. Per questo è di grande rilevanza
il libro che Luca Lezzi e Andrea Muratore
hanno dedicato alla situazione del Sud
America ed alla storia più recente dei vari
Paesi. “Il socialismo del XXI secolo”, edito
dal Circolo Proudhon (15 euro per 241
pagine più un utilissimo glossario finale),
è indubbiamente un libro schierato. Dalla
parte di Chavez, dei Kirchner, di Correa,
di Morales e di Mujica. Ma lo è in modo
trasparente ed è accompagnato da cifre,
date, analisi approfondite che svelano una
realtà sconosciuta ai più e che spesso viene
raccontata in Italia da chi conosce poco o
nulla del Sud America.
Un ottimo libro che spiega le ragioni del
successo dei populisti e dei populismi
sudamericani, l’ingresso dei lider indigenos
sulla scena, le trasformazioni economiche
e sociali. Ma che illustra, con grande
onestà intellettuale, anche le ragioni di
un declino e di alcuni pesanti insuccessi.
Innanzi tutto il caudillismo, il legame
eccessivamente forte ed esclusivo tra il
popolo ed il suo condottiero. Così quando
il leader scompare per cause naturali (come
la morte di Chavez) o per ragioni politiche,
diventa un enorme problema la scelta di
un successore che sia all’altezza non solo
come competenza ma anche nel rapporto
con il popolo. Maduro, il successore di
Chavez in Venezuela, si è rivelato del tutto
inadeguato.
Ma esistono anche altri aspetti. La
corruzione, innanzi tutto. Endemica in
tutta l’America Latina, non soltanto nel
Sud America. Un grimaldello per tutte
le opposizioni che cercano di ribaltare
i governi populisti. Oppositori che,
ovviamente, non sono per nulla immuni
dalla stessa corruzione ma che possono
contare su media di loro proprietà che
attaccano gli errori del governo ed
253
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
ignorano quelli dell’opposizione. E poi
l’atteggiamento di una classe media che
ha potuto crescere e svilupparsi grazie alle
politiche dei populisti ma che, arrivata alla
stabilizzazione, si è trasformata in plebe
desiderante attratta da modelli come quelli
Nord Americani.
Gli autori non dimenticano il peso che
Washington e le multinazionali Usa
continuano ad avere sull’America del
Sud, quella che gli yanqui hanno sempre
considerata come il giardino di casa. Per
evidenti ragioni di tempo mancano le
ipotesi su quali conseguenze potrebbe avere
sull’America Latina la nuova presidenza
Trump. A partire dalla cancellazione del
trattato TTP che potrebbe ripercuotersi
sugli Stati sudamericani del Pacifico.
Per arrivare al Paese che corre i rischi
maggiori: il Messico. Non sudamericano
ma comunque latinoamericano e che
potrebbe essere obbligato a guardare verso
Sud per ovviare alle misure promesse da
Trump a Nord.
Augusto Grandi
HOLY SEE’S ARCHIVES AS SOURCES
FOR AMERICAN HISTORY
Kathleen Sprows Cummings,
Matteo Sanfilippo a cura di
Edizioni Sette Città
pp. 269, € 14,00
Le cancellerie internazionali attendono di capire
quanta parte dei proclami lanciati in campagna
elettorale dal nuovo Presidente degli Stati Uniti
d’America, Donald Trump, venga effettivamente
posta in essere nel corso del suo mandato. Tra di
esse vi è certamente anche la Santa Sede.
254
Recensioni libri / Riviste internazionali
Sono principalmente due le politiche di Donald
Trump che saranno osservate con attenzione in
Vaticano. La prima è quella relativa alla tutela della vita, ovvero le iniziative che verranno
adottate per proteggere la vita umana dal suo
inizio fino alla sua conclusione; la seconda
riguarda il fenomeno migratorio, un vasto capitolo che interessa non solo l’aspetto dell’accoglienza ma anche quello della sicurezza nazionale.
Su quest’ultimo tema non sono mancati degli scambi d’opinione, anche duri, tra Papa
Francesco e Donald Trump. Ad esempio, il 17
febbraio 2016, durante il volo di ritorno dalla
visita pastorale in Messico, il giornalista Phil
Pulella della ‘Reuters’ ha chiesto al Santo Padre, tra l’altro, un giudizio sulle dichiarazioni
di Trump in merito alla volontà di costruire un
muro di 2.500 Km lungo la frontiera tra Stati Uniti e Messico e “se un cattolico potesse
votare per una persona del genere”. Con stile
raffinato Papa Francesco ha risposto che lui
non si immischia nella competizione elettorale
statunitense aggiungendo subito dopo: “Soltanto dico: se dice queste cose, quest’uomo non è
cristiano. Bisogna vedere se lui ha detto queste
cose. E per questo do il beneficio del dubbio.”.
Un beneficio, quello nei confronti di Trump e
della sua prossima azione di governo, ribadito
da Papa Francesco nel corso dell’intervista rilasciata al quotidiano spagnolo ‘El Pais’ lo scorso
22 gennaio, in concomitanza con l’insediamento di Trump alla Casa Bianca, con le seguenti
parole: “Ver qué pasa, pero asustarme o alegrarme por le que pueda suceder, en eso creo que
podemos caer en una gran imprudencia … Se
verá. Veremos lo que hace y ahí se evalúa.”.
Questi esempi inducono a pensare che si stia per
aprire una nuova stagione nei rapporti tra Santa Sede e Stati Uniti d’America. Su quali basi?
Forse la storia può essere un’utile strumento per
fare delle ipotesi sulle future direttrici.
Appare quindi molto tempestiva l’iniziativa
presa dalla casa editrice Sette Città di pubblicare, interamente in inglese, il libro “Holy See’s
Archives as sources for American history”. La
tesi di fondo del libro è che gli archivi vaticani e
quelli degli ordini religiosi possano offrire utili documenti per comprendere alcuni passaggi
storici sul cattolicesimo nel continente americano e, più in dettaglio, sui rapporti tra Stati Uniti
e Santa Sede.
L’opera, curata da Kathleen Sprows Cummings
e Matteo Sanfilippo, raccoglie saggi di studiosi
italiani e stranieri.
Tra di essi, si segnala in particolare, il saggio
del prof. Daniele Fiorentino dal titolo: “A peculiar relationship: the U.S. and the Vatican,
1893-1919”. Questo saggio può essere d’aiuto
nell’ipotizzare i futuri rapporti tra Stati Uniti e
Santa Sede.
Costantino Moretti
255
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
HILLARY
Vita e potere in una dynasty
americana
Gennaro Sangiuliano
Le Scie | Mondadori, 2016
pp. 298, Euro 22,00
Lunedì 12 dicembre 2016, ore 17: a Roma
presso Palazzo Mattei di Paganica si presenta il libro di Gennaro Sangiuliano ‘Hillary. Vita e potere di una dynasty americana’
(Mondadori). Intervengono, oltre all’autore, Fausto Bertinotti, Maria Stella Gelmini e Francesco Verducci. Da poco più di un
mese, Donald Trump è il presidente eletto
degli Stati Uniti d’America. Un paradosso
sul quale in pochi avrebbero scommesso.
Hillary «è caduta all’appuntamento decisivo con la storia americana e con il suo personale destino, per colpa di un miliardario
newyorchese non di sinistra come lei, che a
differenza di lei è riuscito a vincere contro
l’establishment al quale entrambi appartengono. Paradossale, se si vuole, ma è così
che talvolta vanno le cose in America», si
legge nelle presentazione del volume pubblicata sul sito della Treccani.
Hillary Rodham Clinton è una donna che
ha consacrato la sua vita al potere, scrive
Sangiuliano, e a leggerne la biografia è difficile dargli torto. Secondo il giornalista,
già autore delle biografie di Vladimir Putin
e Angela Merkel, l’ex-first lady nella vita
ha seguito solo la propria ambizione: fin
da quando studiava a Yale con Bill, non è
solo una moglie. Avvocato di successo, in
ottimi rapporti con l’alta finanza, si interessa come legale allo scandalo Watergate,
diventa senatrice, contende a Obama la
candidatura alla presidenza, ne diventa segretario di Stato nonostante i rapporti non
splendidi con il partito democratico, che
forse di lei non si fida: del resto Hillary da
giovanissima era una militante repubblicana, sulle orme del padre. «Sono molto orgogliosa di essere stata una Goldwater girl,
avevo idee radicate nel conservatorismo.
Io non sono nata democratica», spiega lei
(Goldwater fu il candidato presidenziale repubblicano nel 1964) e del resto non
è questa la tappa più controversa del suo
percorso.
La storia della mancata prima donna presidente d’America appare come una saga a
metà tra Dynasty e House of Cards, spre-
256
Recensioni libri / Riviste internazionali
giudicata, fatta di scandali, trabocchetti,
agguati. Assieme al suo uomo, Hillary ha
superato incomprensioni, dissapori e un
tradimento rimasto nella storia che - secondo Sangiuliano - ha ulteriormente cementato l’alleanza con il marito, il quale
le ha sempre attribuito ruoli decisionali e
da protagonista politica. Per carità, non si
tratta di un caso unico nella politica americana. Fu un po’ così anche per Eleanor
Roosevelt. E il familismo nella storia presidenziale americana è una costante, dai
Kennedy ai Bush.
Quello che colpisce nella biografia è la luce
alternata a ombre inquietanti, la frequenza
con cui la protagonista viene sfiorata dagli scandali uscendone indenne. E anche
come i due costituiscano una coppia perfetta. Lui estroverso ma disordinato; lei
diligente ma antipatica. Hillary entra nello staff della commissione Giustizia della
Camera; Bill diventa governatore del suo
Stato, l’Arkansas. Complementari e capaci
di crescere in parallelo, di sostenersi reciprocamente. Dopo l’infanzia a Park Ridge,
sobborgo di Chigago, il ‘68 e la guerra in
Vietnam, lei matura la sua nuova coscienza
politica a Yale grazie al giovane Bill «con i
capelli lunghi e la barba incolta» di cui si
innamora subito. Ma quando lui va in crisi
durante il periodo reaganiano è la moglie a
convincerlo a non mollare. Anzi: dei due,
secondo Sangiuliano, il Principe in senso
machiavellico è proprio Hillary.
Insieme supereranno tanti ostacoli: il Clintongate, il caso di Monica Lewinsky a causa
del quale, il 17 agosto 1998, Bill è il primo
presidente in carica della storia degli Stati
Uniti a deporre davanti a un Gran Giurì. Ma
la coppia attraversa anche altre crisi, meno
note e forse più significative. Il 20 luglio
1993 viene trovato morto l’avvocato Vince Foster, l’amico di una vita di Bill, uno
dei consiglieri dello staff presidenziale:
suicidio, scrive il medico, si dice che l’uomo fosse depresso a causa di uno scandalo
sull’amministrazione della Casa Bianca,
il cosiddetto Travelgate, e di una sequela
di errori e veleni interni all’entourage. Ma
quando si comincia a scavare nello scandalo Whitewater si ipotizza un complotto, un
assassinio. Secondo la commissione d’inchiesta del Senato, riporta Sangiuliano,
alcuni «documenti che collegavano Hillary
Clinton allo scandalo Whitewater» sarebbero stati «fatti sparire». Il senatore repubblicano Alfonse D’Amato li definisce la
«possibile pistola fumante» dello scandalo.
Una coppia così non si arrende facilmente.
«Con la fine del secondo mandato, la carriera di Bill Clinton si sarebbe conclusa, ora
toccava a lei. Non aveva senso gettare via
anni di lavoro», scrive Sangiuliano. I due
non avevano però fatto i conti con Donald
Trump.
Marco Ferrazzoli
257
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
SULLA TRANSIBERIANA
Sette fusi orari, 9200 km, sul treno
leggendario da Mosca al mar del
Giappone
Mauro Buffa
Ediciclo Editore
pp. 204, € 15,00
In viaggio attraverso l’Eurasia. Così potrebbe essere sintetizzato il bel libro di
Mauro Buffa, Direttore dell’Istituto Culturale Mòcheno, un museo storico colmo
di tradizioni e situato a Palù del Fersina
nell’omonima valle del Trentino. Un volume che fa il paio con un altro scritto
dell’Autore dedicato alla Transmogolica
“oltre 9000 km in treno da Mosca a Pechino sulle orme di Gengis Khan”. Un lungo
percorso da Mosca a Vladivostok sui treni
della leggendaria ferrovia, quello raccontato nelle pagine di “Sulla Transiberiana”.
Un vero e proprio reportage di viaggio che
ha origine dalla fascinazione di Buffa per
la descrizione idilliaca della Siberia tratta
da Dostoevskij. Con alcuni compagni di
avventura contattati su internet, l’Autore parte per andare a vedere cosa c’è oltre
gli Urali. Percorrerà più di 9200 chilometri attraverso sette fusi orari deviando dal
tracciato della ferrovia per raggiungere
il lago Baikal e addentrarsi, su un traballante pulmino, nella steppa della remota
Repubblica di Tuva ai confini con la Mongolia. Viaggiare su treni lenti, dagli spazi
angusti, dormendo nelle cuccette corte e
strette in vagoni affollati e mangiando il
cibo comprato alle fermate dalle babushke si rivelerà un’esperienza densa di suggestioni letterarie, storiche e soprattutto
umane. Mentre le giornate scorrono pigramente a bordo del treno, sfilano sotto
i suoi occhi le città siberiane sopravvissute alla distruzione della seconda guerra
mondiale. Soste di pochi giorni o di poche
ore che sono occasioni per entrare in contatto con affascinanti culture e tradizioni.
Bellissime donne dagli occhi a mandorla, nostalgici del comunismo e sostenitori
del nuovo ordine, un cuoco stagionale che
ha trovato lavoro a seimila chilometri da
casa e un ex combattente della guerra di
Cecenia. Tutti contenti di vivere in Siberia dove fino a venticinque gradi sottozero non è considerato freddo e solo oltre i
quaranta i bambini non vanno a scuola.
Giunto infine al mar del Giappone non gli
resterà che tornare indietro riportando
testimonianze, impressioni e colori di un
258
Recensioni libri / Riviste internazionali
viaggio nel cuore e nella periferia del più
grande paese del mondo che ancora oggi
rimane in gran parte sconosciuto.
Un percorso personale che consente al
Lettore di guardare con gli occhi dell’Autore nella profondità di una terra tanto
estesa quanto ancora poco conosciuta.
La Redazione
259
Il Nodo di Gordio n. 12 - Settembre-Dicembre 2016
BOARD
Think tank "Il Nodo di Gordio"
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Franco Cardini
Direttore Editoriale
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Il Nodo di Gordio n. 12 - Settembre-Dicembre 2016
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Maurizio Beber
Logistica e
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Logistica e
Organizzazione
262
Recensioni libri / Riviste internazionali
263
Il Nodo di Gordio n. 12 - Settembre-Dicembre 2016
AUTORI
Hanno collaborato in questo numero:
Marlen Belgibayev
Marlen Belgibayev is a research fellow at Wuhan University Centre of Economic Diplomacy.
Stephen Bryen
Già sottosegretario alla Difesa degli Stati Uniti d’America ed ex Presidente di Finmeccanica
Nord America.
Marco Ferrazzoli
Capo Ufficio Stampa CNR
Matteo Gerlini
Università degli Studi di Firenze e Autore del libro “Il dirottamento dell’Achille Lauro e i suoi
inattesi e sorprendenti risvolti” (Mondadori education 2016)
Nina Kecojevic
Di origine montenegrine, è laureata in Relazioni Internazionali (percorso: Pace, Guerra e Sicurezza). Ha svolto il tironcinio presso l’Ambasciata del Montenegro a Roma. Attualmente è
stagista presso ADC ICTY (The Association of Defence Counsel practising before the International Criminal Tribunal for the Former Yugoslavia). Studiosa di questioni di estremismo
violento, radicalizzazione e jihadismo soprattuto nell’area balcanica.
Michela Mercuri
Docente di storia contemporanea dei Paesi del Mediterraneo all’Università di Macerata e di
Geopolitica del Mediterraneo all’Università Niccolò Cusano di Roma
Manuel Moreno Minuto
Comando Flottiglia Sommergibili Servizio Addestramento Capo Reparto Operazioni
Irina Osipova
Fondatrice e presidente dell’ass. RIM Giovani Italo Russi, Politologo presso Zentr Aktual’noj
Politiki
264
Board / Autori
Vittorfranco Pisano
Capo del Dipartimento di Scienze Informative per la Sicurezza dell’Università Popolare
UNINTESS, ha prestato servizio con il grado di colonnello nello U.S. Army ed è stato consulente ed estensore di relazioni per commissioni del Congresso degli Stati Uniti
Maurizio Raeli
Direttore del CIHEAM di Bari
Renato Sartini
Giornalista scientifico e divulgatore. È esperto in comunicazione della conoscenza scientifica
e tecnologica. In ambito comunicazione ha supportato la direzione operativa del MARS Center di Napoli e la presidenza del Polo High Tech di Napoli Est.
È Presidente dell’Associazione Culturale Divulgo, per la disseminazione di temi di scienze,
natura e tecnologie. www.renatosartini.it
Giampaolo Scardia
Capo Ufficio Stampa Nazionale di Federbalneari Italia
Amanda Schnetzer
Director of Global Initiatives at the George W. Bush Institute in Dallas, Texas. In this role, she
is responsible for developing innovative research, programmatic, and policy efforts to advance
societies rooted in political and economic freedom and to empower women to lead in their
communities and countries.
Luca Steinmann
Giornalista e docente universitario, è corrispondente in Italia del quotidiano svizzero “Il Corriere del Ticino” e collaboratore di diverse testate italiane e tedesche. Collabora con il Dipartimento di Relazioni Internazionali della facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli
Studi di Milano ed è costantemente inviato come reporter e ricercatore in diverse aree del
globo. In Libano tiene dei corsi di giornalismo e comunicazione all’interno dei campi profughi
palestinesi.
Xiaotong Zhang
Executive director of Wuhan University Centre of Economic Diplomacy and associate professor of the School of Political Science and Public Administration of Wuhan University.
265
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
“IL NODO DI GORDIO”:
LA COLLEZIONE
n. 1 Giugno 2012
Tutte le rotte
di Ulisse
L’isola del Mondo e i suoi
Mediterranei. Scenari del
nuovo Grande Gioco
n. 2 Febbraio 2013
n. 3 Settembre 2013
La spada
di Alessandro
La Via delle Civiltà
Nuove vie della seta e crisi
mediorientale
Mercanti e Guerrieri
nel Cuore del Mondo
n. 4 Gennaio 2014
n. 5 Maggio 2014
n. 6 Settembre 2014
Il Mosaico globale
Metamorfosi
del Globo
War Games
Scenari di un mondo
pericoloso
Mutazioni e rivoluzioni
della geopolitica
266
Giochi di Guerra /
Dossier Difesa
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n. 7 Gennaio 2015
n. 8 Maggio 2015
n. 9 Ottobre 2015
Masters of Terror
Mari che uniscono
I signori del Terrore
Italia e Turchia, pilastri
del Mediterraneo
I due volti
della mezzaluna
n.
Rivista quadrimestrale di geopolitica ed economia internazionale
Çanakkale: alle radici
della Turchia moderna
11
Anno V
Maggio-Agosto 2016
SOFT POWER
HARD POWER
NUOVI SCENARI LUNGO
LA VIA DELLA SETA
n. 10 Gennaio-Aprile 2016
n. 11 Maggio-Agosto 2016
n. 12 Settembre-Dicembre 2016
Alleanze Necessarie
Soft power
hard power
Il valzer
delle potenze
Come reagire alla minaccia globale
Nuovi scenari lungo
la Via della Seta
n. 13 Gennaio-Aprile 2017
Le tre Torri
Usa, Cina e Russia: i tre poli
dello scacchiere geopolitico
267
Danzando sul Titanic
Il Nodo di Gordio n. 13 - Gennaio-Aprile 2017
Rivista quadrimestrale di geopolitica ed economia internazionale
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Board del think tank “Il Nodo di Gordio”:
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COLLANA MONOGRAFIE "VOX POPULI"
"IL NODO DI GORDIO"
1.
5. Ermanno Visintainer, Ahmed
Yassawi. Sciamano, sufi e
letterato kazako, 2010
pp. 206 + 8 p. appendice
fotografica
e 18,00
Paolo Zammatteo, Codex
wangianus.
La produzione dell’argento in
Trentino, 2008 - pp. 126
e 10,00
2.AA.VV., Imperi delle
Steppe. Da Attila a
Ungern Khan, 2008
pp. 300 - e 19,00
(edizione limitata in
cofanetto e 30,00)​
6.AA.VV., La profondità strategica turca nel pensiero
di Ahmet Davutogˇlu, 2011
pp. 134 + 16 tavole illustrate
e 16,00
3.AA.VV., Porte d’Eurasia. Il
Grande Gioco
a vent’anni dalla caduta del
Muro
di Berlino, 2009
pp. 255 + 22 p. appendice
fotografica
e 24,00
7. Paolo Zammatteo, Dal codex
wangianus all’essenza sulfurea, 2011
pp. 132 + 8 tavole illustrate
e 15,00
4. Giorgio Fogazzi,
Il Testamento, 2010
pp. 300 - e 19,00
8. Ermanno Visintainer, Andrea
Marcigliano, L’Aquila nel Sole.
Leadership e carisma
da Kül Tegin a Nursultan
Nazarbayev, 2011
pp. 206 + 8 tavole illustrate
e 18,00
269
9.AA.VV., Oltre Lepanto. Dallo
scontro di ieri all’intesa di
oggi, 2012
pp. 288 + 16 tavole illustrate
e 28,00
13.AA.VV., La Chiesa apostolica
Albana.
Le radici di un simbolo
dell'Azerbaigian, 2014
pp. 123 - e 18,00
10. Francesco Roat,
La pienezza del vuoto. Tracce
mistiche nei testi di Robert
Walser, 2012
pp. 274 - e 15,00
14. Nursultan Nazarbayev, GGLOBAL Il mondo
del XXI secolo, 2014
pp. 216 - e 18,00
11.AA.VV., Da Baikonur alle
Stelle. Il Grande Gioco
spaziale, 2013
pp. 208 - e 19,00
15. Ermanno Visintainer, Kazakhstan: un tempo, uno
spazio, un destino, 2015 pp.
192 - e 18.00
12.AA.VV., Viandanti tra due
mondi.
Il taccuino turco di Othmar
Winkler, 2014
pp. 172 - e 18,00
16.AA.VV., Il sogno
di Marco Polo, proiezioni della
politica estera italiana dal
Mediterraneo all’Asia Centrale,
2016
pp. 200 - e 18.00
17.AA.VV., Le nuove reti
eurasiatiche.
Il futuro dell'Italia lungo
la Via della Seta, 2016
pp. 214 - e 18.00
18.AA.VV., Terre degli Argonauti,
l'autonomia del Trentino Alto
Adige come modello per la
convivenza tra i popoli, 2016
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