In viaggio con Brunilde e Rosamunda
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In viaggio con Brunilde e Rosamunda
Gli assilli di un inviato speciale In viaggio con Brunilde e Rosamunda GIORGIO TORELLI Chiamavo così le due supreme macchine fotografiche tedesche che mi hanno accompagnato lungo il profilarsi del mondo. Allora, ogni immagine era a rischio perché diventava impossibile averne immediato riscontro, magari al 72° parallelo in Groenlandia, quasi a Capo Horn nella Terra del Fuoco, nella pampa, tra i Masai o sul Rio delle Amazzoni. Custodivo i rullini impressionati come un bottino di caccia grossa al bello e al vero. E adesso non smetto di stupirmi al vedere foto comparire in silenzio sul computer, trasmesse col telefonino in tempo reale, da vicino o da lontanissimo, come se un miracolo appartenesse all’ovvietà. NOTIZIARIO Elzeviri C on la stessa sgranata stupefazione che m’irretiva quando mio padre – io bambino – ingigantiva sul biancore dei muri di cucina le coloratissime figure a lastra della lanterna magica di famiglia, vedo adesso dilatarsi dentro il bocca- Travelling with Brunhilda and Rosamund The world is no longer a place for heroic and pioneering journalism where a correspondent was also a photographer who was anxious to capture a fleeting moment that would never return with his trusty reflex cameras. Nor was there any possibility of making sure that one shot, amongst the hundreds he had taken, would be worthy of a magazine page. Other times, other temperaments, other partners in adventure. For example, a pilot that might have taken you soaring over a mountain top in search of an exclusive photograph, who years later you find in one of those newspaper to which he himself had contributed, the victim of a fatal accident. As always, life and death are always an amazing adventure. 116 ELZEVIRI scena del computer le fotografie che gli amici hanno appena ripreso e spediscono in prima visione, da vicino o da lontanissimo. Tutto avviene con morbida naturalezza come se un clamoroso evento fiorisse dall’ovvietà e non dovesse – sempre – convocare le piccole estasi della meraviglia. Le immagini sono perfette e scorrono in punta di scarpette fin quando il computer, a un tattile sollecito dello sgonfietto chiamato mouse, rintana le foto e le tien pronte per ogni successiva esibizione. È fatta: l’arte spicciola della fotografia digitale (camere-piuma con tutto prepensato) ha ormai prevalso sull’arte pensosa di quello che fu l’esercizio vocazionale del testimoniare – a scatti – il circostante col rigore monastico del bianco e nero o con l’eccitazione dei colori. Noi di allora (non molto poco fa); noi delle pellicole da sviluppare dentro claustrali laboratori dalle penombre rosse e in bagnarole d’acidi rivelatori; noi dei negativi appesi ad asciugarsi (un prudente bucatino di celluloide) e poi sbirciati controluce uno a uno così da selezionare la stampa su carta dei soggetti e prospettarsi gl’ingrandimenti del caso; noi siamo diventati pittoreschi padri pellegrini dell’obiettivo, quelli – per dire – che navigavano ancora a vela, affrontando ansiose e calibrate procedure di rotta per arrivare al dunque delle fotografie finalmente pronte, squadrate, e a progressiva, lenta degustazione. Nel mio far giornalismo per decenni fin dove il mondo si restringe, ne ho attraversate tante di ansie fotografiche prenatali («Saranno venute tutte le foto del rulli- Sopra, a sinistra: Isole Figi. Giorgio Torelli racconta la storia di Ratu Tevita Mara, capo dell’isoletta di Serúa. Ratu e la moglie sono amabili nipoti di cannibali. A destra: reportage dal Kerala: incontro con l’italiana Lauretta Farina che vive tra i pescatori di Marianad per mutarne le sorti. A fianco: Egedesminde, Groenlandia, estate. Giorgio Torelli al sole di mezzanotte. Above, left: the Fiji Isles. Giorgio Torelli tells the story of Ratu Tevita Mara, chief of the island of Serúa. Ratu and his wife are the friendly grandchildren of cannibals. On the right: reportage from Kerala: a meeting with the Italian Lauretta Farina who lives with the fishermen of Marianad to change their fate. Alongside: Egedesminde, Greenland, summer. Giorgio Torelli in the midnight sun. ELZEVIRI 117 Giamaica, reportage sulla hospital ship “Hope”, arrivata in porto a Kingston per aggiornare medici locali e praticare interventi chirurgici decisivi. Jamaica, reportage on the hospital ship “Hope”, which docked in Kingston to update local doctors and perform decisive operations. Argentina, Torelli va a vivere coi gauchos della Pampa per raccontarne i giorni e le avventure. A fianco: il giornalista con gli incuriositi eschimesi della Baia di Baffin. Argentina, Torelli goes to live with the gauchos of the Pampa to relate their days and adventures. Alongside: the journalist with the curious Eskimos of Baffin Bay. 118 ELZEVIRI no? Le immagini risulteranno nitide? Saranno a fuoco? Avrò interpretato bene la così esigente apertura dell’obiettivo? Avrò calcolato a modo i giusti tempi d’esposizione in eventuale contrasto intimo con l’esposimetro ben temperato?»). Volavo in luoghi estremi dove non avrei potuto e, se possibile, mai osato, far sviluppare come test di conforto almeno uno dei tanti rullini impressionati e così cavarne un sospiro di sollievo professionale. Partivo sempre con le armi fotografiche di cui mi dotavo: due Leica, raffinate creature dell’ingegno ottico tedesco; talora portavo anche la madre nobile della fotografia, la Rolleiflex 4 per 4; e poi teleobiettivi, filtri, esposimetro da tenere al collo come una bussola di pronto impiego per far cabotaggio nella luce. Possedevo una borsa inglese da caccia stipata, invece che di cartucce, di rullini a diversa sensibilità. Altri pacchi di rullini li tenevo, di scorta e al riparo, dentro la valigia da pilota americano con cui m’inoltravo. I settimanali a grande diffusione per cui lavoravo da inviato speciale mi chiedevano anzitutto di “vedere con la penna” le cose e le persone. Ma, essendosi confermata la possibilità di illustrare io stesso i miei reportages senza che un fotografo dello staff redazionale dovesse farmi da compagno e moltiplicare la spedizione (a me, poi, piaceva viaggiare da solo e parlare con me stesso di quel che scoprivo), avevo un solo mandato (la frase è di Montanelli): «Tornare col carniere pieno di belle storie». Accadeva dunque che il mio impegno sui luoghi del bersaglio di lavoro, raddoppiasse: testo e foto in armonia sponsale. Mi preme anche dire che non ho mai rappresentato guerre o rivoluzioni, ma sempre fisionomie di luoghi attraverso i ritratti di personaggi individuati col sesto senso e delibati con calma e sincero desiderio di dialogo e di intreccio. Tutto quel che volevo raccontare andava scovato con passione, disciplina, lucidità d’intenti e piccole perizie tecniche perché la pariglia delle Leica, un bel momento entrate in scena, mi secondassero con amichevole docilità: pronte, instancabili, rigorose, belle e altere. Il resto toccava a me: impiegare a modo Rosamunda e Brunilde (così le avevo battezzate) per esserne corrisposto a dovere. Supponiamo che io partissi da Milano con duecento rullini in bianco e nero e altrettanti a colori. La malizia tecnica per riportare veramente a casa fotografie indispensabili era questa: «Fai molti scatti per uno stesso soggetto, qualche scatto con l’esposizione Undici metri di neve che ti sembra indovinata e altri attorno all’ospizio del Gran San scatti di supporto, sottoesposti o sovraesposti. Nel mazzetto degli Bernardo, raggiunto col pilota delle vette aggiustamenti, fiorirà l’immagine Hermann Geiger. che esigi». Il proposito: far I fotografi professionali – vec- Natale insieme ai chie volpi con l’occhio aduso ai monaci sciatori e mirini – ribadivano la praticità del con i loro cani da valanga. concetto, che – di converso – sul campo, si rivelava banale e perfino Eleven metres of supponente. Le fotografie – contisnow around the nuavo a pensare – devono carpire hospice of the Gran l’attimo principe perché ogni frazioSan Bernardo, reached with the ne di tempo diverge da quella precedente. Come d’incanto, il pilot of the summits Hermann Geiger. soggetto si sbilancia magari di The aim: to spend pochissimo, la situazione si cor- Christmas with the rompe, l’insieme non trasmette skiing monks and più il richiamo per cui volevi, assoavalanche rescue lutamente volevi, la foto di quel dogs. preciso, tassativo e irrinunciabile momento. Così, andavo alla ventura seguendo l’istinto. E continuavo a fotografare di getto e per immediatezza, senza le preoccupazioni del fare e rifare. In una parola: azzardavo, sperando che Brunilde e Rosamunda si confermassero così virtuose da supplire ogni mia disinvoltura. La sera, dovunque fossi, nelle tante camere d’albergo dove ponevo quartiere, pulivo con rigore le due Leica rientrate dal lavoro. E lo facevo con la stessa cura che dovevo riservare al fucile in dotazione (un ottimo Enfield britannico, reduce dalla guerra in Italia) quando vestivo i panni della recluta di Fanteria (1954-55) e la consegna per chi fosse colto con l’arma bistrattata era tassativa e urlata. Tutto in ordine, mi dicevo, la sera e la notte in hotel, tutto a posto; ma fingevo, perché nel retropalco della mente, ancora e di nuovo, si disegnava in bodoni l’interrogativo senza immediata risposta: e se le immagini non fossero state impresse nella pellicola, se – che so io e non potevo saperlo – le due Leica avessero subìto un inciampo interno, una ritenzione di pellicola o una balbuzie meccanica? Bisognava soffrire e sperar bene, ridirsi: vedrai che sarà tutta gloria. Faccio il caso di un viaggio perché il lettore intenda le mie rinnovate apprensioni e se ne faccia cortesemente partecipe. Ero alle isole Samoa occidentali, smeraldi a galla sull’immensità del Pacifico. Dovevo raccontare con calma , da Apìa, il trasognato vivere degli isolani ignari e felici in bungalow spalancati ai sentori e alle brezze dell’oceano e con i frutti dell’albero del pane pendenti, rigonfi e carnosi, appena davanti alla cerchia dei pali di sostegno, tutti rampicati dal tinteggio fluorescente della botanica tropicale. Mi aggiravo nell’eden di una piccola società discinta, appartata, curiosa, culturalmente intatta, ospitale e feconda. Le sabbie delle riviere, di un rosa-corallo accecante, stordivano la vista. Samoa è il luogo dove trovò estremo rifugio e pace lo scrittore Robert Louis Stevenson , il celebrato autore dell’Isola del tesoro. Costruì a Vailima, per se stesso e i suoi, una splendida dimora vasta e ariosa, tutto legno isolano con voluti cedimenti all’aristocrazia del colore blu. I samoani lo chiamavano Robert Tusitala, che significa: «Colui che racconta belle storie». A sua volta, Stevenson definiva i samoani come «i più felici della Polinesia, semplici, allegri, amanti del piacere. I loro canti non hanno mai fine». Quando Tusitala morì, nel 1894, il suo volere fu onorato: esser portato da un corteo di duecento samoani fin sul picco del monte Vaca, ripido, fangoso ed elevato 340 metri. E lassù dormire il sonno eterno dentro una tomba di pietra chiara, preciso sigillo nel verde unanime della vegetazione d’altura. Il viscido e ostile sentiero che i samoani percorsero con la bara di Stevenson, retta a più spalle, venne poi chiamato: «La strada dei cuori che amano». Bene, allora. Decisi che avrei fotografato ad ogni costo la tomba di Stevenson, ma come? Le piogge avevano dilavato il monte Vaca e il tracciato per appetire la vetta si svelava abbruttito da tre palmi ELZEVIRI 119 In alto, a sinistra: Umanaq, Groenlandia, il villaggio con la montagna “a cuore di foca”. È estate, gli icebergs con un rombo si frantumano. La domenica, gli eschimesi vestono il costume nazionale. A destra: Kenya, riserva Masai oltre la Rift Valley. In missione col Piper Cherokee della dottoressa-pilota Anna Spoerry dei Flying Doctors. Ambulatorio all’aperto vicino a un termitaio abbandonato, 50 gradi. A fianco: Terra del Fuoco, Ushuaia, quasi Capo Horn. Il campanile più a sud della Terra tra selve, dighe di castori e monti innevati. Above, on the left: Umanaq, Greenland, the village with the “seal heart” mountain. It’s summer and the icebergs break up with a rumble. On Sundays, the Eskimos put on their national dress. On the right: Kenya, a Masai reserve beyond the Rift Valley: in mission with the Piper Cherokee of the doctor and pilot Anna Spoerry of the Flying Doctors. An open-air surgery near an abandoned anthill, 50 degrees. Alongside: Tierra del Fuego, Ushuaia, almost at Cape Horn: the southernmost bell tower in the world, amid forests, beavers’ dams and snow-topped mountains. di limo succhioso. Non c’era che una soluzione: convincere il pilota dell’attempato DC3 presente sulla pista di Apìa, un bimotore di fusoliera argentea, vecchio di trent’anni ma impavido, il solo aeroplano che collegasse le isole circostanti con l’insegna ambiziosa Polynesian Airways, persuaderlo, coi dollari alla mano, a decollare per me e compiere, a più virate, ripetuti passaggi sopra la cima del Vaca. Il comandante era un canadese con la pipa tra i denti, capelli fulvi. Anche io avevo la pipa. Ci scambiammo il tabacco. Per una cifra ragionevole l’accordo fu sottoscritto. Decollammo con quel magnifico rombo che i DC3, veterani di guerra, rilasciavano generosamente. Fatta quota, principiò il torneo, passare e ripassare sulla tomba di Tusitala, io di fianco al pilota, il vetro del finestrino tirato, ancora io a sporgere la Leica e premere, premere, riuscendo appena ad inquadrare cima e tomba, rimaste subito indietro per la velocità del DC3. Altro passaggio: «Più basso, più basso comandante!», gridavo. Il pilota faceva il massimo, ma la regola della sicurezza gl’imponeva di tenere la quota corretta. In fine atterrammo. Il pilota era divertito, volle brindare al possibile risultato con una birra neozelandese. Il DC3 era stato bravissimo. Chissà se io avevo fatto altrettanto bene la mia parte di mitragliere-fotografo. Il rullino restava al sicuro nel buio fondo della Leica – Rosamunda o Brunilde – con cui m’ero cimentato, il vento in faccia e i tremiti altisonanti dei motori indosso. Rovello, però. Il solito rovello: e se le fotografie fossero sfuocate, mosse, alterate dalle cavalcate a fior di monte e dagli sbalzi inevitabili del pur glorioso aeroplano? Di certo non avrei potuto far sviluppare in Samoa il rullino a colori. Ancora una volta, dovevo attendere il rimpatrio via Figi, Hawaii, California, New York, Londra, Milano, mezzo giro del mondo a farla breve. Consolazione: a Milano, affidati i molti rullini al tecnico e rimanendo appostato accanto alla porta del laboratorio come un Oceano Pacifico, Isola di Samoa: padre che aspetti notizie di una la tomba dello nascita, contavo i minuti smisurascrittore Robert ti fino alla voce liberatoria dal di Louis Stevenson, dentro: «Tutto okay!». L’impresa, fotografata da un così remota ormai, era andata a DC3 in volo radente segno. Il settimanale per cui lavosul monte Vaca. ravo, partivo e ripartivo, era servito – come s’usava dire – di barba The Pacific Ocean Island of Samoa: e di parrucca. the tomb of the Le pagine a colori erano gaRobert Louis rantite. L’articolo – molte pagine writerStevenson, – l’avevo già in canna e adesso photographed from a non c’era che disporsi davanti alla hedgehopping DC3 Olivetti e raccontare. Particolare: on Mount Vaca. un anno dopo ero a Roma per un’intervista e andavo di fretta verso l’aeroporto. A un semaforo comprai un giornale del pomeriggio da uno strillone. Tra i titoli ce n’era uno: «DC3 delle Polynesian Airways perde un’ala e s’inabissa nel Pacifico». Era lui, il mio DC3 di Samoa, la nostra freccia sul monte Vaca, il pilota di cui mi tornava il sembiante scanzonato, quell’argentarsi della fusoliera all’antica. La commozione dilagò. Mi venne solo da pregare, poche parole, adagio. ELZEVIRI 121 Davide Marcolli Tortura per adolescenti LUCA GOLDONI R itrovo su un vecchio taccuino queste note sull’“apparecchio”. Stamattina sono uscito con lo scopo preciso di guardare la bocca e possibilmente i denti della gente pressappoco della mia età. Chi li aveva più fitti, chi più radi, forse non erano tutte chiostre smaglianti da réclame di dentifricio, ma comunque non ho scoperto nulla di sconvolgente. Eppure la mia generazione è cresciuta senza “apparecchio”, croce senza delizia dei nostri figli. Tutto comincia quel giorno in cui il bambino torna da scuola con un avviso che invita i genitori ad accompagnarlo all’istituto dei denti. Si crea subito uno stato d’allarme, il ragazzo non ha carie, spacca le noci con i denti, di cosa può trattarsi? Si va all’ambulatorio e dopo lunga attesa tra file di bambini che hanno avuto lo stesso invito, si è ricevuti dal professore, famoso mago dell’ortognatodonzia (vocabolo conturbante che ci ha fatto sfogliare il dizionario). Circondato da uno stuolo di assistenti, il maestro inizia la visita, apri, chiudi, e si rivolge ai discepoli in gergo scientifico. Quando la madre è sul punto di svenire, convinta che quel linguaggio grave ed indecifrabile riguardi un caso senza precedenti, il professore si decide a concludere la lezione e a rivolgersi con parole comprensibili agli interessati: l’arcata è stretta, la parte superiore sporge rispetto a quella inferiore, ci vuole l’apparecchio per tre anni. A casa si discute, è meglio l’apparecchio, a costo di creare dei complessi, o lasciamo perdere? Nessuno di noi è diventato un mostro anche se ab- Torture for teenagers When two sensitive parameters such as health and fashion appear together, there can be paradoxical and unforeseeable consequences. Indicative of this situation is the blessed or cursed “dental braces”. For some years now, this has been a source of torment for all parents who have the smile of their offspring at heart and one of joy for doctors specialized in orthognathodontics. The whole family is mobilized for the period of treatment, so that not even one minute of the precious applications is wasted. Sometimes the precautions veer on the paradoxical but, above all, for the unlucky “patient”, they can become a form of real torture. It’s true that you have to suffer to be beautiful, but in some cases the intervention can be exasperating. 122 ELZEVIRI biamo qualche capsula. Ma è chiaro che si decide per l’apparecchio (se ci dicessero che nostro figlio ha il mignolo leggermente curvo, lo faremmo ingessare subito fino all’omero). Così la nostra vita comincia ad essere condizionata dall’apparecchio che ci segue ovunque, d’estate al mare, d’inverno in montagna; si torna indietro, dopo cento chilometri d’autostrada, perché la madre s’è accorta con un urlo di avere dimenticato l’apparecchio. Bisogna litigare con le nonne che insorgono, “povero cocco è una tortura”; bisogna arrabbiarsi col bambino che, dopo un trimestre, pretende di avere già sistemato l’arcata superiore: “I denti sono tuoi, non miei, mettiti subito l’apparecchio”. Il bambino tenta di eccepire. Cosa dice?, chiede il marito alla moglie che, miracolo della maternità, riesce anche a decifrare il gorgoglio emesso dal figlio con lo strumento in bocca. Questi apparecchi sono più o meno allucinanti, vanno dal più semplice – cioè il calco di plastica rosa che il bambino ha imparato ad applicarsi sotto il palato e a togliersi per immergerlo nel bicchiere sul comodino – all’archetto d’acciaio da applicare con gancetti ed elastici e qui ci vuole l’intervento della madre, polso fermo come quando s’infila l’ago. Ogni due o tre giorni bisogna cambiare gli elastici, il padre ha scoperto una cartoleria dove vendono quelli della misura giusta, soltanto uno sprovveduto può illudersi che gli elastici raccolti via via in casa, e conservati nel vecchio samovar, vadano bene per le arcate. Il bambino va a letto con tutti i suoi tiranti, qualche volta di notte ci sveglia, grida che gli è partito un elastico; accorriamo e, a vederlo con quel morso in bocca – gli mancano soltanto le briglie – ci assale un’ondata di tenerezza. Mi viene da sorridere alla tesi che le nuove generazioni siano ribelli e ribalde; abbiamo delle generazioni di martiri. Talvolta l’apparecchio si perde, la vita familiare si paralizza, tutti cominciano a cercarlo incolpandosi reciprocamente di negligenza; un giorno lo strumento salta fuori, incastrato nel cassettone del letto e resta (insolubile) il dubbio se c’è finito per caso o se ce l’ha sistemato il bambino con l’arcata superiore eccetera. Passano gli anni, ogni tanto viene lanciato un nuovo apparecchio e le madri si telefonano subito, se lo consigliano, se lo spiegano, basta avvitare un piccolo bullone. Al “complesso” ormai non ci pensa più nessuno. Se mai il complesso viene a quei poveri bambini che hanno le arcate banalmente regolari, non hanno bisogno di nessun apparecchio e non sanno cos’è l’ortognatodonzia. GAVINO MANCA Immanuel Kant La pace della ragione L a guerra è la cosa più facile del mondo, osserva Immanuel Kant; non così la pace, che è una conquista della ragione e quindi un atto di volontà dell’uomo. Il pamphlet kantiano Per la pace perpetua non è tra le opere più note del grande filosofo tedesco ma è molto utile per inquadrare compiutamente quel movimento di pensiero a favore della pace, fiorito nei secoli XVI, XVII, XVIII, che va sotto il nome di irenismo; inoltre può aiutarci a cogliere il senso più profondo dei movimenti e dei progetti impegnati a evitare il ripetersi delle grandi tragedie del passato. Se la pace autentica, “perpetua”, si può conseguire solo attraverso l’esercizio della ragione, allora è chiaro che la pace appartiene all’uomo solo in quanto egli saprà essere capace di un giudizio autonomo al di fuori e al di sopra di ogni condizionamento. Da ciò appare evidente che il messaggio kantiano sfugge alla critica facile rivolta al mito di un mondo arcadico e idillico, com’è quello descritto dagli antichi poeti e filosofi – da Esiodo a Platone – che presuppone una trasformazione completa degli esseri umani, un capovolgimento totale della loro natura. Esso è invece saldamente radicato su una visione reale e “politica” della società, su una visione “storica”, che peraltro non gli impedisce di assumere un atteggiamento costruttivo per la fiducia nell’uomo, o meglio nel prevalere della ragione dell’uomo. La prova di questo realismo kantiano è fornita dalla premessa agli “articoli definitivi per una pace perpetua tra gli Stati” dove si rivela che «lo stato di pace tra gli uomini non è certo uno stato di natura, quanto uno stato di guerra, nel senso che, sebbene non vi siano ostilità continuamente aperte, tuttavia c’è sempre una minaccia che esse vi siano. Bisogna dunque renderlo stabile...». E a questo fine tre sono le condizioni fondamentali: 1) la costituzione civile di ogni Stato deve essere repubblicana; 2) il diritto internazionale deve fondarsi su una federazione di Stati liberi; 3) il diritto cosmopolitico deve essere limitato alle condizioni di un’ospitalità universale. Quanto alla prima condizione, bisogna far presente che Kant intende per “repubblicana” una costituzione basata sul principio della libertà dei membri di una società (come uomini), sul principio della dipendenza di tutti da un’unica legislazione comune (come sudditi), sulla legge dell’eguaglianza (come cittadini); quanto noi chiameremmo oggi più propriamente una costituzione democratica. Non è difficile comprendere perché sia questa una condizione fondamentale (la prima) per una pace perpetua: «Se (né in questa costituzione può essere altrimenti) si richiede il consenso dei cittadini per decidere se la guerra debba o non debba essere fatta, niente di più naturale dal pensare che, dovendo far ricadere su di sé tutte le calamità della guerra (combattere di persona, sostenere di propria tasca le spese della guerra, riparare le rovine che essa lascia dietro e, infine, per colmo di sventura, Per Immanuel Kant (1724-1804), grande filosofo tedesco, la diffusione della democrazia è la prima condizione per la pace perpetua. For the great German philosopher Immanuel Kant (1724-1804), widespread democracy is the first condition for perpetual peace. assumersi il carico di debiti mai estinti – a causa di sempre nuove guerre –, amareggiando così la stessa pace), essi ci penseranno sopra a lungo prima di iniziare un gioco così malvagio». Diverso discorso vale naturalmente per quei regimi nei quali «il suddito non è cittadino» e la forma di governo non è quella rappresen- Immanuel Kant. The peace of reason The Kantian idea of “perpetual peace” as an objective for civil society is not a casual invocation of an idyllic world. Reason must be applied in the very best way in order to achieve this undertaking. This political goal requires several inevitable elements: a republican form of state, a federation of free states, an international idea of universal hospitality. In this direction, it would be very opportune that permanent armies disappear, as they pose a continuous threat to peace. Furthermore, there can be no contrast between politics, the practical doctrine of law, and ethics, theoretic doctrine. Its message begins with the consideration that honesty is the best policy. ELZEVIRI 123 tativa; laddove «il sovrano non è membro dello Stato, ma ne è il proprietario». In tal caso, rileva Kant «la guerra è la cosa più facile del mondo ... perché chi la dichiara nulla perde dei suoi banchetti, delle sue cacce, castelli, ecc.». Quanto ciò sia – purtroppo – vero, la storia lo prova ampiamente. Se l’affermazione che la diffusione della democrazia è la prima condizione per la pace perpetua costituisce un fatto estremamente importante sul piano della dottrina politica, il secondo “articolo definitivo” – anch’esso determinante – presenta un significato ed un’attualità del tutto particolari. Kant sostiene infatti che, per evitare la guerra, è altresì necessario che il diritto internazionale si fondi su una federazione di Stati “liberi”, cioè democratici. Analogamente agli individui che hanno superato lo stato di natura sottomettendosi ad una legge comune, così gli Stati, pur conservando la loro sovranità, dovrebbero costituire una federazione in cui risolvere, senza conflitto, i loro rapporti. 124 ELZEVIRI «Per gli Stati che stanno in relazioni reciproche non vi è altra maniera razionale di uscire dallo stato di natura senza leggi, che comporta sempre guerre, se non rinunciando, come gli individui singoli, alla loro selvaggia libertà (senza leggi), sottomettendosi a leggi pubbliche coattive e formando uno stato di popoli (civitas gentium) che si estenda sempre più, fino ad abbracciare alla fine tutti i popoli della terra». E che si possa aspirare a giungere a questa civitas gentium lo fa pensare, rileva Kant, l’omaggio che ogni Stato (almeno a parole) rende al concetto di diritto, che dimostra l’esistenza nell’uomo, «benché ancora latente..., di una disposizione morale più grande destinata a prendere un giorno il sopravvento sul principio del male che è in lui (cosa che egli non può negare), e a fargli sperare che ciò avvenga anche negli altri». Un’accentuazione profondamente umana traspare dalla terza condizione fondamentale che Kant pone per la pace perpetua: il riconoscimento del diritto cosmopoliti- co ad una ospitalità universale. E ciò sulla base del «possesso comune della superficie della terra sulla quale, essendo sferica, gli uomini non possono disperdersi all’infinito, ma alla fine debbono rassegnarsi a coesistere». Coesistenza che darà la forza agli uomini per vivere pacifici. La terribilità degli Purtroppo la realtà era (ed è) ordigni bellici diversa da quella auspicata dal moderni ha reso sempre più necessari grande filosofo il quale, del resto, progetti di disarmo e ben se ne rendeva conto; il comdi “non mento alla proposizione enunciata proliferazione”. condanna apertamente la politica Nella foto, di espansione imperialistica dei l’esplosione della Paesi civili europei che, trovato il bomba atomica su massimo sviluppo nell’Ottocento, Nagasaki del 9 agosto 1945. doveva poi clamorosamente fallire. Ed altrettanto profetico doveva The awfulness of mostrarsi il rilievo che «in fatto di modern war bombs associazione di popoli... si è prohas made projects of gressivamente giunti ad un punto disarmament and tale che la violazione del diritto “non proliferation” compiuta in una parte della terra increasingly viene risentita in tutte le parti...». necessary. In the photo, the explosion Di quanto sia valida tale affermaof the atomic bomb zione la storia della nostra epoca on Nagasaki on offre, purtroppo, una continua con9th August 1945. ferma. Questi i principi fondamentali cui Kant aggiunge (anzi premette) delle condizioni “preliminari” tra le quali alcune presentano anch’esse una notevole attualità. Ad esempio quella che nessun trattato di pace può considerarsi tale se stipulato con la tacita riserva di argomenti per una guerra futura; e l’altra che gli eserciti permanenti (miles perpetuus) devono col tempo scomparire, perché essi rappresentano una continua minaccia alla pace e sono incompatibili con la dignità dell’uomo cui si addice «l’esercizio alle armi volontario e periodico» ma non il mercenarismo. Esigenza quest’ultima che ha trovato riconoscimento anche presso i “pratici” della politica, com’è provato dalla lunga serie di progetti per il disarmo o per lo meno la “non proliferazione”, resi sempre più necessari dalle terribilità degli ordigni bellici moderni. Ma forse il più significativo di questi “articoli preliminari” è quello che afferma che «nessuno Stato si deve immischiare con la forza nella costituzione e nel governo di Photo Oilime un altro»; non vi è giustificato dalla scusa di corruzione (scandalum acceptum), poiché «il cattivo comportamento di uno Stato serve piuttosto da ammonimento che da scandalo»; e nemmeno da discordie interne perché l’intervento sarebbe «una violazione dei diritti di un popolo che non dipende da nessuno e che combatte contro un male interno... e renderebbe insicura l’autonomia degli altri». Si è accennato all’inizio al rigore razionale che domina l’esposizione kantiana e mediante il quale è possibile cogliere – nella sua perfetta unitarietà – il modello logico sottoposto; la stessa matrice è alla base dell’affermazione, che costituisce forse il merito maggiore del grande filosofo tedesco, circa la necessaria identificazione (o meglio subordinazione) della politica alla morale. È questa, come è facile intendere, un’appendice essenziale a tutto il discorso, perché il verificarsi di comportamenti come quelli auspicati è La scultura pacifista strettamente in funzione di un Non violence dello svedese Carl convinto impegno sul piano etico. Frederick, posta L’argomentazione kantiana offre probabilmente uno degli esempi all’ingresso visitatori del “Palazzo di più raffinati di logica (naturalmente vetro”, sede delle inquadrata in un certo “sistema” Nazioni Unite a New filosofico): «La morale è già di per York. se stessa una pratica in senso oggettivo, come insieme di leggi The pacifist sculpture Non-violence by che comandano incondizionatamente e secondo le quali noi dob- Swedish artist Carl Frederick stands in biamo agire, ed è evidente l’assur- the visitors’ entrance dità, dopo aver riconosciuto a queto the UN sto concetto l’autorità che gli spetheadquarters ta, voler affermare che però non lo in New York. si può attuare... Con ciò non può esservi alcun contrasto tra la politica, quale dottrina pratica del diritto, e la morale, quale dottrina teorica». Al contrario, vi deve essere identificazione, meglio subordinazione: «Sebbene la massima: “L’onestà è la migliore politica”, contenga una teoria che la pratica purtroppo molto spesso smentisce, tuttavia la massima: “L’onestà è migliore di ogni politica”, è di gran lunga superiore ad ogni obiezione, anzi è la condizione indispensabile di ogni politica». Siamo di fronte ad uno degli insegnamen- ti più alti che siano stati offerti, in nome della ragione, agli uomini; insegnamento spesso disatteso ma che il profondo travaglio che attraversa la nostra civiltà rende particolarmente attuale. È sempre più diffusa e viva la convinzione che, in società che basano sul principio di eguaglianza ogni rapporto di convivenza, il comportamento della classe politica sia strettamente vincolato ai principi della morale sociale. Morale, politica, libertà: ecco il necessario anello di congiunzione che costituisce anche qui la chiave di volta del sistema: «È certo che se non esiste nessuna libertà e nessuna legge morale fondata su di essa, ma tutto ciò che accade o può accadere è puro meccanismo della natura, allora la politica è tutta la sapienza pratica e l’idea di diritto è priva di senso. Ma se si riconosce indispensabile collegare tale idea alla politica, elevandola anzi a sua condizione limitatrice, allora si deve ammettere la conciliabilità delle due. Io posso immaginare un politico morale, cioè uno che intende i principi dell’arte politica in maniera tale che essi possano coesistere con la morale, ma non posso immaginare un moralista politico che si foggi la morale a seconda della convenienza dell’uomo di Stato». È su questa base, in conclusione, che si fonda tutto il discorso per la pace perpetua, sulla questione se «nei problemi della ragion pratica si debba iniziare dal principio materiale, dallo scopo, o dal principio formale che dice: opera in maniera tale che tu possa volere che la tua massima debba diventare una legge universale». E per Kant non può esservi che una risposta. Egli distingue così tra compito “tecnico” e compito “morale” che si differenziano l’uno dall’altro come “il cielo dalla terra”; e afferma che il secondo compito richiede la sapienza politica che «porta direttamente allo scopo... pur senza dimenticare la prudenza... che avverte di non voler giungere al traguardo affrettatamente e con la forza, ma di avvicinarsi di continuo ad esso approfittando delle circostanze favorevoli». È il principio del gradualismo delle riforme, che non significa però immobilismo! Cosa dire a oltre due secoli dal messaggio di Kant, dopo aver attraversato le esperienze tragiche della guerra totale? Che veramente la “pace perpetua” costituisce non già un’utopia, ma un’inderogabile esigenza per l’umanità. La storia ci narra l’avvilimento, il disprezzo dell’uomo, la sua abiezione; noi storicamente siamo impegnati a negare questo disprezzo, a non dare mai tregua e a non consentire mai la benché minima giustificazione alla violenza. Credere nell’uomo e nel suo dono più grande, la ragione; essa – dice Kant – «ci illumina sempre abbastanza chiaramente su ciò che dobbiamo fare per restare nella linea del dovere (secondo le regole della saggezza), e con ciò ci indica anche la via verso il fine ultimo». VITTORIO MATHIEU Tra “puristi” e “anarchici” Accademico dei Lincei La lingua italiana si trasforma II. I. The Italian language is transforming itself A language is naturally a living system, subject to changes which may also be consistent. Whilst in modern Italian journalism saying “gli” or “i” for the plural of the masculine definite article before a word beginning with “pn” arouses general indifference, we can remember that Boccaccio, the father of Italian prose, was subject to harsh criticism because by calling one of his characters Philostratus he had mixed a Greek root with a Latin one. At times, it is caution induced by respect that creates particular euphemisms: Jesus is called the fruit of the breast, not of the womb, of the Virgin Mary. The Commission for the Defence of the Italian Language at the Ministry for Cultural Heritage still has a lot of work to do. 126 SOCIETÀ E COSTUME nulla di solenne. L’uso ormai è così diffuso che ai dizionari non rimane che sostituire “verbo neutro” a “verbo attivo”. L’uso è sempre decisivo? Su ciò si battono due scuole estremistiche, i puristi e gli anarchici. Questi osservano che la lingua non la fanno i grammatici, bensì i parlanti. Quelli ribattono che il parlante dice qualcosa, e non si limita a emettere suoni inarticolati, solo grazie a una lingua comune, a cui non si comanda se non obbedendo. Occorre dunque un compromesso. Solo lo spirito tirannico di certi grammatici pretende a volte che si dica “gli pneumatici” o “gli gnocchi”, anziché “i”, contro l’uso anche di molti classici. È per contro certamente un errore, ma un errore tenue, scrivere “le superfici” al plurale, perché la parola latina è della quinta declinazione, quindi dà “le superficie”. Esempio: Enrico D’Ovidio, Le superficie di secondo ordine (1838), o Edgardo Ciani nelle Lezioni di geometria proiettiva (1883), dove, data la materia, il plurale ricorre continuamente. Però l’uso abusivo del plurale in i non può estendersi a tutto: dire “le speci” anziché “le specie” è ancor oggi errore da matita blu, non solo rossa. Il Boccaccio, padre della prosa italiana come Dante della poesia, fu rimproverato ancor vivente dai puristi per aver dato a un suo personaggio il nome di Filostrato, nel senso di “abbattuto da Amore”. La colpa era mescolare una radice greca con una latina (philía con sternere). Il nome Filostrato è usato anche in greco, ma per significare un soggetto che ama l’esercito (stessa radice in “stratega”). Se però dovessimo essere pignoli fino a tal segno non dovremmo dire “automobile”, bensì “sesemobile” o “autokíneton”, come dicono i greci (con parola impiegata già da Platone per l’anima, che muove e si muove da sé). I greci sono più conservatori di noi. Il risultato è che un greco colto può leggere Omero con l’ausilio di qualche lessico, come noi leggiamo Dante. Così i greci hanno una parola adatta per supermarket: yperagorá. La cosa curiosa è che da noi qualcuno pensa di far l’elegantone dicendo “ipermercato” cadendo così nell’errore simmetrico a quello del Boccaccio. Dunque, compromessi. Io mi pavoneggio scrivendo “superficie” Fotolia Nel corso della mia vita ho assistito a un mutamento NOTIZIARIO della lingua italiana che richiederebbe ormai una correzione dei vocabolari: il verbo “iniziare” è inSocietà dicato nel Fanfani (metà dell’800) e costume o nello Zingarelli (inizio del ’900) come “attivo”: tale, cioè, che richiede un complemento oggetto (ad esempio “iniziare un discorso”; o “iniziare qualcuno alla massoneria”). Oggi, per contro, si dice “iniziare a parlare” come se fosse un verbo neutro, che può avere o non avere un complemento oggetto (come “cominciare”). L’ultimo esempio di “iniziare” usato correttamente come verbo attivo l’ho trovato nella traduzione di Mister Mulliner, un romanzo umoristico di P. G. Wodehouse ad opera di Alberto Tedeschi (Bietti 1933, pag. 109): «Al tempo in cui il mio racconto si inizia». Oggi chiunque diSolo lo spirito rebbe “inizia”, senza l’oggetto. tirannico di certi All’inizio lo scambio aveva grammatici pretende che si dica ragioni di decoro: “cominciare a “gli gnocchi” o “gli parlare” va bene per un infante, pneumatici”. ma sembra riduttivo per un oratore; e allora si dice “iniziò a parlaOnly the tyrannical re”. Poi, però, la forma aulica ha spirit of certain sostituito dappertutto la meno pedants demands aulica, che va scomparendo. Si that we say “gli legge ad esempio, “inizia a piovegnocchi” or re”, anche se la pioggia non ha “gli pneumatici”. al plurale, ma mi astengo dal toscaneggiare scrivendo “superfice”, senza i al singolare; e mi accade di dire “la Venezuela” per ricordare che è una “piccola Venezia”, ma compiango i giornalisti che, terrorizzati da pseudofilologi, scrivono “gli pneumatici”. E non è neppure un compromesso, bensì una locuzione esatta, dire “due euro” anziché “euri”, perché le parole dimezzate non si declinano. È corretto, infatti, dire “due auto”. E “bici” non sarà elegante, ma si capisce che sta per “bicicletta”. Noi abbiamo la fortuna di avere una regione, la Toscana, che, pur storpiando tutto, fornisce una guida al parlar bene, cioè in modo appropriato. Anche se è difficile capire nel toscano arcaico che “alle guagnele” significa “alle Evangelia” non c’è dubbio che i La parola “senologia” usata per indicare toscani ci insegnano a parlar preil reparto che ciso: “caffè alto” significa che la si occupa delle sua superficie è vicina al bordo mammelle è uno della tazza, mentre “caffè lungo” pseudoeufemismo non dice niente. che la strettoia, le gouffre tra due prominenze quali le mammelle. Ma il francese fa molto peggio: è orrendo, ad esempio, dire che la cicoria è un “legume”, quasi si trattasse di fagioli o di ceci. D’altra parte l’organo femminile destinato all’allattamento è particolarmente soggetto in tutte le lingue a curiose trasposizioni: forse perché si trova poco elegante seguire Dante che alla fine del Duecento prevede che, tra breve, «sarà dal pergamo interdetto alle sfacciate donne fiorentine l’andar mostrando con le poppe il petto». Almeno nel parlare scientifico non si dovrebbe dimenticare mammella. Senonché il petto induce a volte in eufemismi perfino quando è maschile: si può ricordare in cui per la prima volta l’uso è documentato) a indicare lo spazio tra la veste e il petto. Poi si sposta a indicare ciascuna mammella (1786), mentre “tetta” viene dal germanico (tedesco Zitze). L’inversione probabilmente si spiega con uno spostamento dalla veste alla parte del corpo occultata. In origine, ad esempio, il tedesco Schosz era il bordo inferiore della gonna: il grembo, che poi passa alla parte del corpo corrispondente, tanto che noi diciamo ancora «in grembo a Giove», o «nel seno di Abramo» (Luca XVI, 22), come Omero diceva «en goúnadi degli dèi». Poi Schosz diviene sinonimo di Busen (ancora in Goethe, Meister VIII, 9) che poteva indicare anche il petto o Brust maschile. L’eufemismo francese piemontese lo “stomaco” nella locuzione scherzosa per lo sparato inamidato “stomaco di gesso” (stomi ’d giss). Inammissibile però che il linguaggio medico – che di solito si rifà al greco – cada, sia pur di rado, in locuzioni abominevoli. Mi accadde, mentre andavo a sottopormi a una radiografia, di leggere sulla porta di uno studio vicino a quello a cui ero destinato io la parola “senologia”. Giuro che non capii di che cosa si trattasse e me lo feci spiegare: il radiologo che lavorava in quella stanza, mi fu detto, si occupa dei “seni”. Qui lo pseudoeufemismo adottato è delittuoso. Il passaggio del latino sinus a significare una convessità anziché una cavità è molto meno giustificabile che gorge. Sein comincia in francese (1150: le date sono dell’anno in poitrine (dal latino pectorina o corazza) si diffonde per contro molto tardivamente (1835). L’indeterminazione della parte del corpo ricoperta favorisce il rovesciamento. Nel caso del mare, “seno” conserva il suo significato giusto: si parla di “insenatura” ad esempio per Paraggi, non per il promontorio di Portofino. Una cautela eufemistica induce per contro a dire il Messia «frutto del seno della Vergine», per non dire dell’utero; ma si potrebbe meglio rimediare con “grembo” o “ventre”. Presso il Ministero dei Beni culturali c’è un’apposita commissione per la difesa dell’italiano. E affianca la benemerita Dante Alighieri. Occorrerebbe dotarla del potere di irrogare pene detentive (non usandosi più, purtroppo, la gogna) per chi mette in circolazione mostri come “senologia”. delittuoso. The word “senology” used to indicate the hospital ward that deals with breasts is a criminal pseudo-euphemism. Dire “due euro” anziche “euri” è locuzione esatta perché le parole dimezzate non si declinano. Fotolia Saying “two euro” instead of “euri” is correct because shortened words are not declined. Photo Oilime III. Lo slittamento di significato è tipico per contro del francese. Il soutien-gorge (diffusosi a partire dal 1900, quando entrò in uso quell’indumento) non sostiene affatto la gola. La genesi della locuzione tuttavia si capisce: gorge, come “gola” è an- SOCIETÀ E COSTUME 127 Cos’è la buona medicina? ALESSANDRO BERTOLINI Direttore Oncologia Medica Azienda Ospedaliera Valtellina e Valchiavenna www.alessandrobertolini.it L a tentazione che più mi assale di questi tempi NOTIZIARIO sarebbe scrivere di questioni morali: moralità della politica, della comunicazione, Salute della giustizia, della società e dello sport. Sarebbe una tentazione molto semplice da esaudire, basta un riassunto della semplice lettura dei giornali, tuttavia sarebbe tempo perso. Ormai vivo in una sorta di pessimismo cosmico e dissertare di questioni che il tifo della politica interpreterebbe come pro o contro la realtà, bollandomi di positività o peggio di avversione a qualcosa o qualcuno, mi impone un’opportuna riservatezza. “Se dovessi dire Viviamo un’epoca decadente, cos’è una buona squadra di calcio siamo tutti d’accordo credo, dove la coscienza della società segue l’innon avrei dubbi, la risposta sarebbe: dirizzo del variabile e il singolo non Inter”. è da meno. Impera la non cultura, la cultura omologata al minimo co“If I had to say what mune denominatore dal messaga good football team gio mediatico, studiato per produrre is, I wouldn’t have ricchezza con la pubblicità. any doubts, Io ritengo che questo modo di the answer governare la vita sia diretta consewould be: Inter”. guenza della nostra “coscienza elastica”. Si approva e si disserta, anche pontificando, quanto dovrebbe essere sottomesso al giudizio di un valore assoluto, fatto salvo che è insita in ciascuno di noi la capacità di essere tolleranti e permissivi per prima cosa con noi stessi, ogni qual volta ci troviamo a infrangere le regole che l’etica ci imporrebbe di osservare. Un esempio che non offende nessuno e non scatena il tifo della politica? Non si può sorpassare se lungo la via qualche stradino ha dipinto sull’asfalto la striscia continua, questa non è una regola di destra o di sinistra, non si deve e basta. È motivo di bocciatura all’esame di guida e di grossa multa con penalizzazione sulla patente. Ebbene, quanti tra noi non l’hanno davvero mai fatto? Una coscienza elastica sa che il sorpasso in questione è cosa da non fare, ma proprio perché ragiona in modo duttile, giustifica il proprio sorpasso illegale ribaltando la responsabilità dell’infrazione su chi percorreva la stessa via con un’andatura non consona ai nostri appuntamenti. Pensate a qualsiasi altra cosa, nella società, nel vivere, nelle leggi e nella politica e vedrete quanto la nostra fragilità sia giorno dopo giorno sottomessa all’elasticità di una coscienza opportunista. Mi piacerebbe proseguire su questo modo di considerare il nostro approccio alle questioni dell’oggi, ma i tempi non sono maturi e il malinteso non gioverebbe a nessuno. È opportuno che ciascuno di noi rifletta su quanto accade nel mondo, guardando i fatti non con gli occhi della nostra caducità o partigianeria, ma secondo le regole della morale e dell’etica, che dovrebbero avere sempre un valore assoluto e non elastico. A questo punto mi viene più semplice dissertare di medicina e lo spunto lo prenderei dal quesito su cosa sia la “buona medicina”. Questo argomento non è poi così semplice da riferire, anzi esso stesso è pure delicato e parlare di sport sarebbe molto più semplice. Per questo se dovessi dire cos’è una buona squadra di calcio non avrei dubbi, la risposta sarebbe: “Inter” e in occasione di un convegno nella Bergamasca, l’anno passato, dove mi era stata Good medicine is something that is beneficial to the health of the ill. But this objective is not easily defined. It is fundamental to decide what is the best way to respect the pain of those suffering from illness. Respect, dialogue and comfort were the simple tools used by the family physician. Today, those tools have been replaced by protocols, tests and statistics that raise many doubts as to what is truly better, when working in difficult conditions. In order to be a good medicine, the ill person must always feel that someone is at his side, to help him fight his battles, without automatically imposing what the deontological procedure dictates. You can look down on a person only when you are helping him to get up. 128 SALUTE Olycom What is good medicine? A sinistra, un punto denunciata dai media provo semdi vista e, a destra, il pre un senso di profonda amarez“mio” punto di vista. za e dolore, che va oltre il mio Due esempi di “buona medicina”: lo sciroppo che mi somministrava mia madre, “buono” solo perché era lei a darmelo, e la borsa del buon medico di famiglia. Two examples of “good medicine”: the syrup my mother used to give me, “good” only because she gave it to me, and the good GP’s bag. senso civico e interessa il mio essere medico. Facendo anche altro nella vita, mi considero un intellettuale che cerca di osservare i fatti del mondo nel modo meno elastico possibile, vorrei raccontare un mio punto di vista, che non discende solo dalla professione che svolgo e che non deve avere un valore assoluto, ma potrebbe rappresentare il mio modo d’intendere l’argomento, che deve prescindere dalle risorse a disposizione e dalle conoscenze. Ovvio che facendo l’oncologo medico quando mi riferisco alla buona medicina nelle spiegazioni intendo esclusivamente la buona medicina oncologica, cioè quella Fotolia On the left, one point of view and, on the right, “my” point of view. Fotolia chiesta una riflessione sul tema “La buona medicina”, l’ho dichiarato pubblicamente, facendo anche vedere l’immagine della mia squadra del cuore. All’opposto, se dovessi dare una risposta altrettanto immediata alla domanda su cosa sia la “buona medicina” oggi, non avrei la stessa spavalderia. Questo succede perché io per primo non so cosa essa sia e non so neppure se sia dotato delle credenziali adatte per spiegarlo o se essa esista davvero, in questo periodo di esplosiva modernità scientifica. Oggi sono solo in grado di elencare una serie di riflessioni per tentare di avvicinare l’ideale della “buona medicina”, anche se sono più consapevole di cosa essa non sia, piuttosto che certo di ciò che essa dovrebbe essere. Per prima cosa penso, da medico ospedaliero, inserito a pieno titolo nel sistema sanitario nazionale e parte di questo mondo, che la buona medicina dovrebbe coincidere con quello che facciamo noi tutti durante le giornate di lavoro. Se così fosse il discorso sarebbe chiuso: buona medicina è quella fatta negli ospedali e negli studi dei medici di medicina generale. Tuttavia questa risposta non mi accontenta, perché ciascuno di noi lavora usando le proprie conoscenze, le proprie capacità professionali e le risorse che ha a disposizione. Non tutti siamo omologati allo stesso livello nella professione. La malasanità, tanto cara alla stampa, non è mai esempio di buona medicina e quando viene attività specialistica medica dedicata alla cura dei malati di cancro. Lungi da me offrire spiegazioni che non discendano da una mia diretta responsabilità professionale e lo dichiaro perché non vorrei essere frainteso. Quello che vale per l’oncologia medica potrebbe non valere per la buona ortopedia o la buona cardiologia e ritengo non si debba fare confusione nei punti di vista o nelle generalizzazioni. «Per essere buona la medicina – dice Sandro Spinsanti, docente di bioetica ed esperto di medical humanities – deve procurare un beneficio alla salute di chi è malato. È una condizione che si misura con gli standard della scienza. Ma non basta». La nostra è una professione che cammina lungo un filo in equilibrio precario, in modo non dissimile da chi faccia il funambolo. Ci sono fatti, conoscenze, miti e idee, che condizionano il nostro modo di porci nei confronti della professione e dei pazienti. Se penso alla buona medicina mi viene in mente quella che mi dava mia mamma da piccolo, lo sciroppo per la tosse, il lassativo o l’antibiotico, che erano buoni perché me li dava lei, anche se avevano un gusto orrendo. In questo caso il sostantivo medicina assume due significati differenti, da un lato è un prodotto dell’industria farmaceutica, dall’altro diviene una professione. Ho nostalgia di quei ricordi, di quando lei mi diceva: «Prendi la medicina, è buona e ti farà bene», ma ho anche rimpianti per il nostro caro medico di famiglia, dottor SALUTE 129 Il dottor Gannon di Medical Center, il dottor Tersilli de Il medico della mutua e Patch Adams, tre storie incentrate sulla figura dei medici e sulla sanità in generale. Dr. Gannon of “Medical Center”, Dr. Tersilli of Il medico della mutua and Patch Adams, three stories built up around the figure of doctors and health in general. Romei, scomparso da anni, che era pure padre di un mio compagno d’università. Egli, quando veniva a casa nostra per curarci, mostrava una dedizione che negli anni di professione ho ritrovato a fatica. L’unica sua stranezza era che chiamava mia sorella Mariarosa, sviato dalla pubblicità del lievito che porta il mio cognome, che aveva un cartone animato e una canzonetta di una certa Mariarosa come testimonial. Noi in famiglia tutte le volte tentavamo di correggerlo, ma lui imperterrito aveva quel nome nella memoria e non rinunciava al Mariarosa. Alla fine desistemmo. I ricordi della mia infanzia passano attraverso fiction in bianco e nero, che spopolavano a quei tempi: dottor Welby e dottor Gannon di Medical Center. In questi telefilm degli anni Sessanta i medici erano perfetti, ben vestiti, facevano diagnosi azzeccate, salvavano vite o scoprivano magagne, che parevano esercizi di buona medicina applicata alla giallistica. Il mondo degli ospedali era bello, accattivante, non erotico ed in ogni modo avvincente. Non esclu- do che la pletora medica della mia generazione abbia subìto il fascino del mondo della televisione per la scelta universitaria. Non è un esempio di sana vocazione, quanto piuttosto il plagio per un ambiente di successo dove la medicina investigativa dei telefilm non ha mai avuto nulla a che fare con la realtà di tutti i giorni. Gli esempi del passato arrivano alla saga di Mash, storie immaginarie e ironiche di un ospedale da campo in zona di guerra, durante il conflitto in Corea, dove un certo eros si dava da fare per creare vocazioni nei futuri studenti universitari. La capo infermiera aveva un soprannome molto invitante: labbra di fuoco e molti cedettero a quel mito più che al testo di Anatomia Umana. In Italia nello stesso periodo usciva il più genuino Medico della mutua di Alberto Sordi, che mostrava le contraddizioni insite in una professione che al cinema perdeva il fascino e la dedizione Mash: in un ospedale che toccavo con mano ammirando militare da campo, il caro dottor Romei. tre ufficiali medici, Io iniziai l’università nel 1978, pur prestando la loro oltre trent’anni fa e per questo opera di chirurghi motivo dovrei sentirmi vecchio. con bravura e Quello fu un anno memorabile e a dedizione, sono ripensarlo nei fatti salienti esso è insofferenti alla disciplina. ormai consegnato alla storia. La storia è quella di Giulio Cesare o Mash: in a military Napoleone e il pensare che ho field hospital, three iniziato l’università in un anno che medical officers, whilst exercising as è storia, questo colloca la mia vita professionale in qualcosa che parsurgeons with skill and dedication, are te da lontano, che sa d’antico. intolerant of the Nel 1978 ci furono tre papi, discipline. l’elezione a presidente della Repubblica di Sandro Pertini, il delitto Moro e l’attacco terroristico alla Repubblica nata dalla Resistenza. In quell’anno l’Italia arrivò pure quarta ai mondiali di calcio argentini, i primi che vidi a colori e che ricordo con forte tensione sportiva. Si svolgevano in un Paese preda di una feroce dittatura militare e ricordare tutte queste cose, un po’ in bianco e nero e un po’ a colori, dà il senso della lontananza dall’oggi. Il giro nei reparti era ancora caratterizzato dal primario pontefice, attorniato da uno stuolo di ca- mici bianchi dalle differenti attitudini e competenze. Era un mondo baronale, che ho intravisto all’università ma che oggi è stato del tutto spazzato dalla differente educazione di quanti sono cresciuti al mito di Mash. Capita che certi insegnamenti nella vita, mutuati dalla celluloide, servano per decidere cosa non si dovrà mai fare da grandi, piuttosto che per sapere cosa fare davvero. Il passato vissuto o visto al cinema non aiuta nell’arrivare a capire cosa possa essere la buona medicina e neppure i tempi nostri sono d’aiuto. Oggi siamo plagiati da un illusorio bonario, dove un ospedale fasullo è interpretato in modo dissacratorio dal mondo di celluloide con la storia controcorrente di Patch Adams, dal Medico in famiglia dell’istrione Lino Banfi, oppure ancora da ER o da un certo Dottor House, un pazzo vestito neppure troppo bene da medico. Sono tanti stravolgimenti della vita ospedaliera di tutti i giorni, che mi auguro non trainino altri giovani a una professione che in quella maniera non è davvero mai esistita. Rifuggendo da queste nuove storie televisive io sono più che certo che questo mondo alle volte buonista e più spesso falsamente scientifico, non ha nulla a che fare con la buona medicina. Tutto quanto raccontato finora ci aiuta a capire cosa non sia la buona medicina e in questo senso c’è addirittura dell’altro. Nel mondo d’oggi, come sosteneva mia nonna, a pensar male non si sbaglia mai e, dopo l’irreale raccontato nei film, il nostro cammino prosegue lungo una realtà funambolica. Se uno fabbricasse carrarmati, per vendere il proprio prodotto, avrebbe due sole possibilità: sperare in una guerra o provocarla egli stesso. Per questo domando, chi ci ha guadagnato dal gettare panico sociale per un virus, l’H1N1, che non ha fatto tutto lo sfacelo previsto? È buona medicina quella di investire soldi in un vaccino che poi non è stato neppure usato, perché la virosi si è dimostrata tutt’altro che virulenta, ma solo il frutto di una speculazione mediatica? Quanti carrarmati sono stati venduti dietro il mito illusorio di un virus fasullo? A pensar male come la nonna, mi viene da dire che qualcuno ha fomentato ad arte il panico sulla virosi per commerciare vaccini inutili. Non è buona medicina questa, è solo il mondo degli affari, né più né meno che vendere pignatte in televisione, perché i vaccini sono stati acquistati sotto Ciò che si vede al cinema o in la pressione involontaria del piaztelevisione non zista del telegiornale. sempre aiuta Gli spunti critici all’insegna di nell’arrivare a capire cosa non sia la buona medicina cosa possa essere la proseguono. Mettere i medici alla “buona medicina”. berlina su internet, dichiarando pubblicamente i loro stipendi, ser- What we see at the cinema or on ve a migliorare le prestazioni del television is not servizio sanitario nazionale? No di always of help in certo. being able to Mettere su un sito di un’istiunderstand what tuzione un banner pubblicitario “good medicine” is. che recita “because they saved my life”, chi incanta? Non è buona medicina il mercificare la propria opera con motti che promettono il nulla e danno ben poco. Gli slogan di questo tipo cosa lasciano nei pazienti? L’illusione che in quel luogo siano in grado di salvare la loro sorte, ma anche quando chi scriveva che la libertà sarebbe arrivata dal lavoro, scriveva inganni e prometteva menzogne e sappiamo tutti com’è andata a finire. Alla fine la nostra coscienza elastica approva motti fasulli, perché l’interesse non è esercitare l’arte medica ma promuovere affari. Il caro dottor Romei era un gran medico, faceva della medicina di famiglia un’arte e non aveva cartelli posticci che denunciavano la sua capacità scientifica o il suo reddito. «Un medico, diversamente da un politico o da un attore, viene giudicato soltanto dal suo paziente e dai suoi più prossimi colleghi, cioè a porte chiuse, da uomo a uomo». Questo è forse un indizio di buona medicina, secondo Kundera. Io pure, nella vita intellettuale, ho scritto cosa ritengo significhi fare bene il medico (Il Novecento d’Annetta). – Che ne pensi del professore? Chiese mentre erano nell’attesa del tram. – Devo dirti che mi ha impressionato, non aveva quel tono punitivo e saccente che hanno gli altri dottori. Parlava in modo comprensibile… – Ha dato la stessa impressione anche a me. – Era come se volesse dedicarmi il suo tempo a capire e spie- SALUTE 131 Paola Cusin scenza della biologia molecolare che sta sempre più arricchendosi di informazioni e diviene sempre più difficile e incomprensibile. Catene metaboliche spiegate con dovizie di particolari cui si deve dare fiducia cieca, perché quelli che vedevano il dottor Gannon alla televisione non le avevano nel loro piano di studi, anche se oggi si trovano a usare molti farmaci che interferiscono con queste vie metaboliche cellulari. Siamo vittime anche del creIl fenomeno del gare quello che secondo lui mi sta scere delle informazioni mediatiaccadendo. Non si è limitato a visi- “primario-pontefice” è che, che fanno da cassa di risonantarmi, come farebbe un meccanico stato debellato dalla za a notizie su presunti successi differente educazione con un’automobile. di quanti sono – Con il suo aiuto e la sua sa- cresciuti al mito di pienza torneremo a vivere. È senza Mash. dubbio un brav’uomo. Al centro: la nostra Come dice Sandro Spinsanti coscienza elastica è «fare medicina in epoca di moderni- vittima di informazioni mediatiche che tà è diverso» e credo possa dipenandrebbero filtrate. dere dalla coscienza elastica che In basso: aver pervade la società. fomentato ad arte il Innanzitutto nella medicina panico sull’H1N1 non è certo “buona moderna adottiamo il modello delmedicina”. le scelte condivise, cercando di definire il programma terapeutico The phenomenon of col malato, spiegando in modo the “pope-head of semplice e comprensivo a chi ne hospital department” ha bisogno il perché di un percorso has been eradicated by the different di cura. L’accettazione della proposta è siglata ufficialmente con il education of those consenso informato, che dovrebbe who grew up in the medici e che andrebbero filtrate myth of Mash. per non ingenerare false attese. essere una garanzia per il paziente In the centre: our I nostri successi terapeutici per una maggiore partecipazione elastic conscience is alle decisioni che lo riguardano. the victim of media in campo oncologico riguardano information which soprattutto un allungamento della Non so se esso serva per fare una should be filtered. vita del malato, a costi non sembuona medicina o una medicina Below: having pre sostenibili. Avere una sopravsicura, comunque è un atto formadeliberately created le siglato da due persone, il medi- panic over H1N1 was vivenza nella malattia metastatica co e il paziente. Oggi il nostro sa- certainly not “good che passa da sei mesi a quasi tre anni nella media dei malati affetti pere passa attraverso una conomedicine”. da tumore metastatico del grosso intestino appaga la nostra professionalità ma non può accontentare i pazienti e non dobbiamo considerare questi successi come vera buona medicina. Fare buona medicina vuol dire tener conto delle caratteristiche cliniche del malato, seguendo linee guida internazionali, non fomentate da campagne mediatiche che portino ad acquistare vaccini inutili, anche se certe stranezze del passato le dobbiamo ancora scontare. Abbiamo dato 132 SALUTE per anni chemioterapia ai pazienti affetti dal cancro della prostata, perché un questionario di qualità di vita compilato da loro stessi dava credibilità a una cura solo in termini di benessere clinico, pur senza dimostrare mai un vantaggio nella loro sopravvivenza (Tannock, 1996). Oggi per fortuna la situazione è mutata e i nuovi chemioterapici hanno un impatto concreto sull’allungamento della sopravvivenza dei malati trattati. La verità è che negli ultimi cinquant’anni, lo ha scritto nel 2009 un editoriale del The New York Times, abbiamo fatto una serie di errori fondamentali nel combattere la guerra al cancro, perché non sempre è stata fatta ricerca con l’intento di far avanzare la scienza ma solo per inseguire interessi di parte in un normale mondo a coscienza elastica. Negli ultimi cinquant’anni la mortalità per ragioni cardiache è diminuita del 64%, mentre per cause oncologiche solo del 5%. È dato noto che solo uno su cinque trials arriva a pubblicazione con dati che indichino un reale beneficio per i futuri pazienti. Riflettere su queste cose, mentre si esercita la professione, è come vivere in un incubo permanente ed è difficile scegliere il meglio con il paziente e fare buona medicina. «Guai a sognare: il momento di coscienza che accompagna il risveglio è la sofferenza più acuta. Ma non ci capita sovente (Se questo è un uomo, Primo Levi) e Curare non è solo un esercizio di conoscenze farmacologiche, così come la salute non è solo benessere fisico. non sono lunghi sogni: noi non siamo che bestie stanche». Oggi sono sicuro che la buona medicina non si può fare da soli ma è un atto complesso di sistema, dove tutti hanno una parte attiva nella filiera della cura, perché «curare il tumore – Claudio Magris – è come uccidere una vita che ci assale». Curare non è solo un esercizio di conoscenze farmacologiche ma passa attraverso la comprensione, il dialogo e l’informazione. «Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza». La comunicazione al paziente è importante nell’esercizio di una buona medicina, perché «una diagnosi di cancro è come un 11 settembre». I pazienti vogliono vivere con dignità, cioè nel modo migliore e noi da tecnici del sapere medico questo desiderio lo chiamiamo qualità di vita. «L’oncologia medica – Rosy Bindi, 1998 – è un’arma strategica indispensabile nella lotta contro i tumori, non già perché guarisce sempre, ma perché sempre si prende cura del malato». L’oncologo in fondo ha questa doppia missione, cerca di far vivere più a lungo possibile i malati nel rispetto della loro qualità di vita e quest’idea di lavoro può essere un tassello di un più ampio progetto incasellato dall’acronimo “buona medicina”. Noi stessi «...dobbiamo smettere di dare ad un bisogno sempre e solo una risposta chemioterapica...» ma dobbiamo pensare alto, essere con il paziente, considerare le sue vere esigenze e staccarci dalle mille tentazioni elastiche dei nostri tempi. Mi chiedo spesso “che farei se fossi io dall’altra parte?”. Non lo so, ma le poche volte che sono stato paziente ho delegato ogni decisione al collega che mi curava, che in quel momento ritenevo essere in grado di proporre il meglio per me. Oggi facciamo largo uso del sostantivo “umanizzazione”, come concetto e come termine più che come atto pratico, nell’illusione che umanizzare un percorso di cura sia sufficiente per dire che stiamo facendo buona medicina. In questo modello terapeutico, che condivido, è importante «...non ri- durre le humanities alle amenities...», perché queste non servono al malato ma al medico. Il malato desidera solo vivere e avere un rapporto di privilegio col proprio curante e noi facciamo Healing is not only buona medicina quando siamo in grado di essere con i malati. an exercise of pharmacological Alla fine di questo lungo diknowledge, just as scorso credo sia inevitabile tornahealth is not only re al mio medico di famiglia d’un physical well-being. tempo, il caro dottor Romei, perché la buona medicina oncologica la si fa quando si è in grado di dare all’arte medica quanto dava lui ai suoi pazienti di sapere, attenzioni e stima. Ripensando al suo modo di operare e alle volte in cui sono stato oltre la barricata, ritrovo a pieno questa frase di Sandro Spinsanti: «Ho un sogno, che nelle decisioni mediche ogni persona possa proiettare la sua ombra». Da tutte queste riflessioni discende la mia proposta di Decalogo della buona medicina. Esso, se non riguarda la stessa al cento per cento, perlomeno si avvicina: 1) disponibilità totale al paziente (ascoltare, visitare, dialogare, esserci, capire, consolare); Per il paziente una 2) offrire cure che derivino da diagnosi di cancro solide conoscenze scientifiche e è come un 11 attuali; settembre. 3) grande capacità di comunicazione; For the patient, 4) condividere le scelte terapeua diagnosis of cancer is like a 9/11. tiche con il paziente; 5) pensare sempre alla persona e non solo alla sua malattia; 6) indirizzare con umiltà il paziente dove possa essere meglio curato; 7) superare i “livelli essenziali di assistenza” con progetti di umanizzazione; 8) condividere programmi di ricerca clinica con il paziente; 9) interrompere le cure, senza fare accanimento, nell’interesse del paziente e non della struttura dove si lavora; 10) non usare la medicina difensiva. «Ho imparato che un uomo ha il diritto di guardare dall’alto in basso un altro essere umano, solo quando lo aiuta a sollevarsi» (Gabriel Garcia Marquez). SALUTE 133 Il senso del non senso REMO BRACCHI Ordinario di Glottologia presso l’Institutum altioris latinitatis Università Pontificia Salesiana in Roma Fotolia D ivinità dell’aria e dei campi, degli ammassi rocciosi e dei fiumi, erano considerati in anni lontani, forse troppo, dai nostri, gli animali, specialmente i più grandi e feroci, talora in carne e ossa, annidati nelle foreste e improvvisamente protagonisti di incursioni cruente, altre volte fantastici, ma non per questo temuti di meno. Piccole bestie e insetti erano fatti prigionieri dalle mani dei bimbi per essere inviati come intermediari tra il regno dei beati e quello dei mortali, e venivano sospinti con formule cantilenate a mettersi in cammino o a prendere il volo per portare a termine la loro ambasciata. Una serie di filastrocche risulta rivelatrice della segreta missione un tempo a loro riservata. La struttura eucologica dei ritmi delle nenie, ancora leggibile nel frammento, riconduce a un sottofondo culturale assai arcaico, concludendosi in genere con la promessa di un dono sacrificale (un granello di frumento, pane, latte, cacio, vino, una monetina) o, in caso di rifiuto, con la minaccia di una sanzione estrema, spesso della decapitazione o della condanna al fuoco. In Brianza si invita la lucciola a calare in volo sulla mano, pro- The sense of non-sense Nonsense rhymes are a synthesis of archaic wisdom. Animals, considered to have remarkable abilities, often appear in these simple songs. They are chosen according to particular characteristics, which seemed to be the seal of divinity on their body, or some unusual behaviour which was interpreted as responses. For example, in Samolaco, in Valchiavenna, the ladybird is considered a divinatory animal: the direction it takes is the one that leads to a sweetheart. In addition, the very etymology of “ filastrocca” (nonsense rhyme, nursery rhyme) refers to the activity of spinning or weaving, which are typically feminine: this shows, with the reference to the ancient Goddess-Mothers, the intervention of the supernatural in human life. In mythology, the three Fates would spin and weave human existences, then cutting them like thread. mettendole come ricompensa latte e vino o una custodia accogliente e sicura nel proprio nido, dove sarà protetta come la pupilla dell’occhio: lüsirö vegn de bas, / te daroo un cügià de latt, / te daroo un cügià de vin, / te metaroo in del mè ninìn. L’invito a posarsi è rimasto fissato per sempre in mariposa, “Maria, posati”, la denominazione spagnola più nota della farfalla. Uno dei sinonimi trentini che ne riverbera l’eco in territorio italiano è baśatèra “bacia terra”. In aragonese paniquesa è un curioso composto che qualifica la “donnola”. Non è difficile scorgere, al di sotto della sequenza, i due segmenti compositivi, pane e cacio, i due doni degli antichi campagnoli offerti alla bestiola, temuta per la sua crudeltà e per la sua astuzia, allo scopo di ingraziarsela, in modo che passasse a randa del pollaio, senza insinuarvisi a fare strage. Una variazione sul medesimo tema, rintracciata nei Bassi Pirenei, è panlet, ossia pane e latte. La semplice tabella sinottica qui sotto riportata ci aiuta a collocare a fronte alcuni elementi comuni, per ricavarne i nessi dall’insieme. La scelta degli animali chiamati in gioco si rivela fatta sulla base di qualche loro caratteristica emergente, capace di attirare l’attenzione, ingenuamente intesa dai nostri lontani avi come il sigillo di una divinità sul loro corpo (la signa- Coccinella (Montagna) Maggiolino (Nembro BG) Formicaleone (Sondalo) Formicaleone (Poggiridenti) Formica rossa (Montagna) Polidòru, gùla in cél, ca l te sc’péccia san Michél; san Michél nu sa vegnì: gùla, gùla da per tì. Balóres chi gùla, al ta ciàma la tò murùśa, al ta ciàma ol tò Michél. Gùla, gùla fin al cél. Mónega, mónega del terén, l’é serén, serenénto: fam troàr li mìa càura e li mìa féda in un momént. Trìpa, trìpa, cinch curtèi a la tu vìta: ün de scià, ün de là. Sòlta fò dä lä tu cà. Vén, vén, maiapàn, che te dò n tuchèl de pan. 134 PROVINCIA IERI E OGGI L’invito a posarsi è rimasto fissato per sempre in mariposa, “Maria, posati”, la denominazione spagnola più nota della farfalla. Nella pagina a fianco: in Brianza si invita la lucciola a calare in volo sulla mano con la promessa di latte e vino. On the facing page: in Brianza the firefly is invited to land on the hand with the promise of milk and wine. NOTIZIARIO Provincia ieri e oggi Il chiamare in causa una bestiola rientrava in quell’arcaico quadro nel quale i confini fra i tre regni della natura non conoscevano ancora barriere inequivocabilmente incompatibili fra loro. Calling into question an animal was fully part of that archaic picture where the borders between the three kingdoms of nature did not yet have those unequivocally incompatible barriers between them. Fotolia The invitation to “touch down” (“posarsi”) has remained forever in mariposa, “Maria, posati”, the best known Spanish word for the butterfly. rie, si è indotti a spiegarlo come un composto dall’appellativo comune pula “pollastra”, ripreso dall’animale domestico, ma a buon conto ritoccato col ricorso alla terminazione affettiva in -i (si veda per esempio il trepallino barbi-róca “diavolo”, composto col parentelare bàrba “zio”, definito di famiglia, per difendersi dallo spirito del male), e dalla qualifica “d’oro”, che polarizza intorno a sé tutto ciò che di positivo si può immaginare. L’insetto è invitato a prendere il volo da una filastrocca ripetuta in coro dai fanciulli: Polidòru, gùla in cél, / ca l te sc’péccia san Michél; / san Michél nu sa vegnì: / gùla, gùla da per tì, “coccinella, vola in cielo, che ti aspetta san Michele; san Michele non sa venire: vola, vola solitaria”. A pochi chilometri di distanza, a Ponte, si riecheggia in modo simile: Pòla, pòla, gùla n cél, / che l te ciàma san Michél, / san Michél l’è andàc’ a Pavìa, / pòla, pòla, gùla vìa. Come sinonimo a Mazzo è tramandata la variante puàza, nella quale si riconosce una rimessa in campo, a causa di intersezioni fonetiche e di tangenzialità spesso misteriose nelle conoscenze entomologiche, del tipo puàza “maggiolino”, che si incontra altrove. Dal punto di vista strutturale, ci troviamo di fronte a una formazione suffissata, rispetto a pó(i)a “coccinella” attestata a Teglio nella sua forma semplice, a Castionetto póla, con l’attesa vocale tonica stretta, a Chiuro pùla “coccinella”, a Premana polalìin dol Segnóor “coccinella”, “pulcino del Signore”, con la quale i bambini giocavano, lasciandosela correre sulle mani e giocare a rimpiattino tra le dita. A Grosotto incontriamo la variante pòna, forse per il riecheggiamento di un antico nesso con Madòna. La bestiola è qui chiamata sulla palma per essere inviata verso il regno dell’azzurro: Pòna, pòna, van in cél, / che l te ciàma san Michél. / San Michél l’é śgià nàc’ lè: / pòna, pòna, van a chè, “San Michele se n’è già andato via: coccinella, torna a casa”. Nel villaggio che ha dato il nome alla Valtellina, la cantilena recitata per inviare l’insetto come messaggero dei mortali a coloro che abitano sopra le tempeste non si discosta di molto dal copione: Puàza, puàza, van al cél, / che l te ciàma san Michél. / San Michél al völ mìga vegnì. / Puàza, puàza, van de per tì! La variante loverina è pòla e la filastrocca per invitarla a volare oltre la cortina delle nuvole suona: Pòla, pòla, va n del cél, / che l ta mànda san Michél; / san Michél l’è già partì, / pòla, pòla, van par tì. Quasi identica quella di Tresivio: Pòla, pòla, göla in cél, / che l te ciàma san Michél; / san Michél nu m sa vegnì, / göla, göla da per ti. Con attribuzione più specifica alla sfera sacrale, ad Albosaggia la “coccinella” è definita galinèla, galìna del Signór, a Campo pégura de la Madòna, “pecorella della Madonna”, a Tàrtano fràa, “frate”, nel dialetto di Surselva bàu Niességner, bàu Nossadùnna “coccinella”, in senso letterale “insetto del Signore, della Madonna”, nel gen. induvinellu, “indovinello”, probabilmente nel senso agentivo di “piccolo indovino, piccolo mago” o anche in quello risultativo di “pronostico”. Un frammento di filastrocca riverbera la propria striatu- Fotolia tio rerum), o in considerazione di qualche comportamento insolito che poteva essere interpretato come un responso. Entrano in questa categoria la lepre, la lince, la donnola, l’ermellino, la lontra, gli uccelli notturni, il cuculo, i rettili in genere, la farfalla, la cavalletta, la mantide religiosa, il cervo volante, la cetonia, il maggiolino, l’elaterio, la lucciola, la coccinella, l’onisco, il formicaleone, la forbicina e numerose altre specie. Il chiamare in causa una bestia, quasi fosse in grado di comprendere il linguaggio umano, rientrava pienamente in quell’arcaico quadro nel quale i confini fra i tre regni della natura non conoscevano ancora barriere inequivocabilmente incompatibili fra loro. Perciò dagli animali ci si attendevano reazioni simili a quelle manifestate dagli uomini, di simpatia o di ostilità, ed era necessario trattare con loro secondo codici di comportamento improntati a grande rispetto. In modo ancora sufficientemente diafano le filastrocche, quando non ci siano pervenute del tutto frammentarie, rappresentano spezzoni consistenti di antiche preghiere, inserite un tempo come sezioni irrinunciabili di rituali che noi dobbiamo limitarci a presupporre, dal momento che nessuno di essi ha avuto l’avventura di giungere fino a noi in questa veste sacrale e nel suo contesto liturgico. Per la Valtellina e la Valchiavenna, come per ogni altro angolo del villaggio globale, se ne potrebbero citare diversi esemplari, a commento dei motivi che hanno determinato l’assegnazione a tassonomie funzionali per noi assolutamente enigmatiche di numerosi animaletti che furono capaci di suscitare l’interesse dell’uomo primitivo per qualche loro caratteristica, ma qui ci troviamo costretti dal tema scelto ad attenerci a quelli soltanto a carico dei quali traspaia qualche venatura di sgomento o di timore reverenziale come sintomo di tabuizzazione. A Montagna il nome con il quale si è voluto designare la “coccinella” è pulidòru. Dal confronto con altre denominazioni confina- PROVINCIA IERI E OGGI 135 136 PROVINCIA IERI E OGGI l’amore”, volando dalla palma verso la direzione che l’insetto indovino soltanto conosce, dipende assai probabilmente anche l’abr. cëcamóre, “coccinella”, “cerca amore”. Lo confermano le strofette popolari propagginatesi nei giochi dei ragazzi, quando sollecitano l’insetto catturato a prendere il largo sul filo della brezza che scorre loro incontro: Catarënèlla, catarënèlla, / vann’a truvà l’amóra bèllë, / ggìrë dë llà, ggìrë dë nguà: / va vvëdé addónna sta, “Caterinella, Caterinella, va’ a scoprire l’amore bello, gira di là, gira di qua, va’ a vedere dove sta”; Ciavëlarèllë Fotolia ra anche nelle singolari denominazioni tabarchine dell’insetto: a Calasetta minindé, in modo più diafano a Carloforte duminindé, da Domine Deus, invocazione alla divinità. A Lanzada si è ricorsi alla personificazione, assegnando al piccolo coleottero il nome di caterìne, forse come spezzone iniziale superstite di un’antica cantilena, intesa a evocare il piccolo messaggero delle altezze. In alcuni dialetti settentrionali l’insetto appare infatti con il significativo designante di marìa vola. A Samòlaco, all’imboccatura della Valchiavenna, anche il maggiolino era considerato una bestiola divinatoria. I ragazzi legavano alle loro zampette un filo e sollecitavano il rumoroso coleottero a librarsi nell’aria. La direzione che il messaggero avrebbe presa sarebbe stata interpretata come indicazione del percorso da seguire per muoversi alla ricerca della futura fidanzata. Il nome assegnatogli di filamùur è probabilmente da decifrare come un composto imperativale, l’inizio del comando di partire, srotolando il filo magico: “Fila (il perfetto) amore!”. Una conferma indiretta ci è fornita da una cantilena bergamasca (raccolta a Nembro, dove la Valseriana sfocia al piano): Balóres chi gùla, / al ta ciàma la tò murùśa, / al ta ciàma ol tò Michél. / Gùla, gùla fin al cél, “maggiolino che vola, ti chiama la tua fidanzata, ti chiama il tuo Michele. Vola, vola fino al cielo”. L’arcangelo san Michele, così ricorrente nelle filastrocche, era raffigurato nelle chiese della valle con una bilancia in mano, intento a pesare le anime. Egli stesso, come psicopompo, le avrebbe poi guidate verso le dimore eterne. Il Garbini ha raccolto a Chiavenna filamóra nell’accezione di “mantide religiosa”, concetto ricorrente nella definizione dell’ortottero in varie località e spiegato dalla nenia che ripetono i ragazzi siciliani: Filannera, chi fa tò mamma: fila o tessi?, arguendo poi se fili o tessa dalla maniera in cui la bestiola, tenuta in mano, muove le zampe anteriori per divincolarsi e difendersi. Dall’invito a “cercare [composto probabilmente con “uccello” e “volare”, “volarello”] vólë, vólë, / sàccëm’asddìcë addó sc’tà l’amóre: / o da cquà o da llà, / sàccëm’addicë addónna sc’ta, “Uccello volarello, vola, vola, sappimi dire dove sta l’amore: o di qua o di là, sappimi dire dove sta”. A Mazzo, per spingere il coleottero a levarsi in alto, si ripete la filastrocca: Puàza, puàza, van al cél, / che l te ciàma san Michél. / San Michél al völ mìga vegnì: / puàza, puàza, van (de) per tì, riecheggiando una formula applicata anche ad altri ambasciatori delle soglie di ametista. Il tipo puàza “maggiolino”, diffuso pure a Lovero, rappresenta molto probabilmente un compromesso tra pùla “pollastra” e cugàza, ossia “codaccia”, attributo scorrente dal displuvio demonizzato. A Novate Mezzola si segnala infatti pòla come nome del “maggiolino”, con la vocale tonica larga, presumibilmente per esigenze di rima più perfetta nell’inserzione in qualche filastrocca, mentre altrove, come si è visto sopra, lo stesso appellativo si presenta come designazione della “coccinella”. Un composto imperativale del tutto trasparente compare in saltamartìn, la denominazione delAnche il maggiolino la “cavalletta” più diffusa in enera considerato una trambi i bacini imbriferi dell’Adda e bestiola divinatoria, della Mera e vastamente trabocfatta prigioniera dalle mani dei bimbi cante nelle aree contermini: borm., piatt. saltamartìn “cavalletta, locuper essere inviata come intermediaria sta”, gros. saltamartìn “cavalletta” tra il regno dei beati e “trottola”, Valle Olona saltamare quello dei mortali. tén “locusta, mantide, grillo”, vares. saltemartìn, saltemartìtt “caThe ladybird was valletta”, mil. saltamartìn, salalso considered a tamàrt, pav. saltamartei “cavalletdivinatory animal, ta, locusta”, bresc. saltamartì captured in the “locusta, cavalletta”, tic. saltamarhands of children tìn, saltamartégn, saltamartìgn, salto be sent as an intermediary between temartìn, sautramartìn, soltamartìn the kingdom of the “saltamartino, cavalletta e altri inblessed and that setti affini; formicaleone”, per traof mortals. slato “ragazzo, individuo piccolo, magro, agile, irrequieto, volubile; persona che cambia spesso lavoro, che manca di parola, che parla in modo sconclusionato, saltando di palo in frasca; tipo di giocattolo per bambini; mazzeranga, pestello usato per comprimere e rassodare il selciato”, trent. (Roncone) saltamartìn “cavalletta, locusta, Locusta viridissima e congeneri”, ver. saltamartìn “cavalletta; gambalunga, saltabecca; larva dello stiantino”, regg. Seltamartèin “cavalletta, locusta”, valenz. saltamartí. A differenza degli insetti alati, la cavalletta si muove al suolo per lo più balzando. L’invito a partire le viene perciò rivolto adattandosi alle sue preferenze. Talora il secondo segmento compositivo muta, in considerazione del luogo di partenza, o sotto l’influsso di altre suggestioni, mentre il comando rimane identico, sia che venga Fotolia Fotolia espresso col medesimo verbo, sia che venga affidato a un suo sinonimo: tic. saltafén, saltefén “cavalletta”, “salta fieno”, friul. saltapayusk “salta pagliuzze”, Cabbio, Muggio saltabósch “cavalletta, locusta”; béarn. saltaprat, astur. saltapraos, spagn. saltamatos, saltamontes; abr. jundamartìnë “cavalletta” (dal lat. *iǔncta-re “saltare a piedi giunti”); it. saltacavalla “cavalletta”, con ritorno alla metafora dell’equino, folign. saltamula, appenn. bol. saltabécco “cavalletta” per sostituzione dell’animale preso come paragone, fr. mer. saltabuk; Mergoscia saltabèca “specie di cavalletta”, reinterpretato come “salta (e) becca”, it. saltabecca; Gandria saltamartèla “cavalletta”, forse “salta e martella”; Assisi, Amelia salta picchio, march., tic. (Bruzella) saltamósch “cavalletta”; umbro saltalippo, probabilmente composto in seconda sede coll’ipocoristico del personale “Filippo”, ancon. salippo, perug. cont. saléppico “cavalletta”, Terni saltazìppuro (DEI 5,3323); picc. grãper sotö “cavalletta”, “nonno saltatore”, con risvolto parentelare. differenza degli Lo stesso composto è tra- A insetti alati, la smesso per osmosi ad altri insetti cavalletta, come la salterini, in primo luogo al metalli- mantide, si muove al co “elaterio”. Ne troviamo testimosuolo per lo più nianza nel sondal. saltamartìn, con balzando. L’invito a partire le viene la variante agionimica sanmartìn perciò rivolto “elaterio”, nel chiav. (Gordona) soadattandosi alle sue latamartìn “elaterio”, nello zold. preferenze. sautamartìn, nel friul. saltemartin “coleottero”, nel guastall. saltaUnlike winged martìn “elaterio”, nel sen. e tosc. insects, the saltamartino “elaterio”. A Monte grasshopper, like the praying mantis, sopra Morignone è apostrofato come sanmartìn, mentre a Tola, moves on the ground mainly by jumping. poco sotto, nella valle, porta il Inviting it to leave is nome di santacaterìna, l’inizio therefore made by dell’invocazione, con la quale lo si adapting to its inviava verso il solito varco tra i preferences. nembi, ripetendo cadenzatamente a più riprese: santacaterìna, ´sg’gòla in cél, / che l te c(h)iàma san Michél. Tanto la personalizzazione, quanto il ricorso all’agionimo sono sintomi di una considerazione di privilegio riservata all’insetto, consultato pure per conoscere dal suo balzo, quando è rovesciato, un responso su un interrogativo dai due esiti, come si fa quando si sfoglia una margherita. A Sonogno il piccolo coleottero è chiamato chessì, perché i fanciulli, giocando, mettevano alla prova le sue capacità divinatorie (cf. palerm. anniminagghia “elaterio”, voce che vale anche “indovinello”, dal lat. tardo *indivīnare “leggere nel pensiero degli dei”, perché i ragazzi traevano pronostici dai movimenti della bestiola sul ritorno dei padri dalla pesca), osservando le affermazioni del capo, interpretate come una sua risposta di conferma: che sì. Gli si deve probabilmente affiancare anche il verz. cìco di sì “specie di coleottero”, “insetto del sì”. Nel gergo dei magnani di Lanzada soltomartìn è la “pulce”, a Revine saltamartìn il “martin pescatore”. Ricorrendo alle due componenti rovesciate nella loro successione, si è plasmato a Bianzone, oltre Tirano, il nome del “formicaleone”, martin-scéśa, da interpretarsi, in modo parallelo, come un invito alla bestiola personificata: “Martino, arretra”. Il segmento verbale è desunto dal lat. cěssa-re “ritirarsi”. Dopo aver scavata la propria buca, ammonticchiando su un lato il cumulo dei granelli in bilico, pronti a franare al più piccolo urto come il contenuto di una clessidra, l’insetto si ritira in fondo alla fossa in attesa della preda. La forma imperativale appare come una sollecitazione ad acquattarsi nel suo nascondiglio per non lasciarsi scoprire dall’eventuale vittima, mandando a vuoto l’insidia. L’animaletto viene così blandito col porsi dalla sua parte, per accondiscendenza empatica. I piccoli bianzonaschi infilavano uno stecchino nella buca dell’insetto, ripetendo a intervalli cadenzati: martinscéśa, scéśa indré “ritirati, retrocedi”. Alle bestiole sparute che si rintanano nella terra erano commissionate ambascerie indirizzate alle divinità ctonie, delegandole quali intermediarie verso il regno dei morti. L’invito a retrocedere poteva costituire un mandato di discesa verso il gorgo delle ombre. A Poggiridenti per definire la “larva del formicaleone” è stato segnalato l’appellativo trìpa. Per farla uscire dalla tana, anche qui si riteneva che fosse necessario ricorrere a una filastrocca di velata minaccia (l’amputazione del capo), ritmicamente scandita, quasi certamente sopravvissuta come momento culminante di un antico formulario magico: Trìpa, trìpa, / cinch curtèi a la tu vìta: / ün de scià, ün de là. / Sòlta fò dä lä tu cà. Forse anche in questo caso bisogna presupporre alla base dell’etimologia una motivazione analoga, partendo dal verbo germ. *trippo-n “saltare”, che ha lasciato numerosi continuatori nell’Italia settentrionale e altrove. Nella parlata di Samòlaco trépa è il “segno tracciato nell’erba strisciando il piede, prima di iniziare lo sfalcio, al fine di evidenziare il limite di proprietà per prevenire involontari sconfinamenti”. L’alone magico che si addensa intorno all’insetto è comprovato anche dalla personalizzazione rilevata dal ricorso al nome proprio caterinèta con il quale esso è conosciuto a Grosio, caterinéta a Grosotto, caterìn(n)a o anche caterinnadelavàl a Montagna, “Caterina della valle”, incipit decapitato di una diffusa cantilena, e da quello più generico di mónega “formicaleone” con cui lo si definisce a Sóndalo. Qui è sfuggita all’oblio una sequenza che si cantillava, per farsi indicare dal piccolo indovino la direzione verso la quale ci si sarebbe dovuti muovere alla ricerca delle bestie smarrite al pascolo: Mónega, mónega del terén, / l’é serén, serenénto: / fam troàr li mìa càura e li mìa féda in un momént, “monaca, monachella del terreno, è sereno, sereno limpido. Fammi trovare in un attimo le mie capre e le mie pecore” (Dario Cossi). Assai più inquietante si rivela la raffigurazione presupposta dal pav. PROVINCIA IERI E OGGI 137 138 PROVINCIA IERI E OGGI ripetuta una cantilena, intesa a chiamarla vicino per predisporla all’invio: Vén, vén, maiapàn, / che te dò n tuchèl de pan, “vieni, vieni, mangiapane, Dopo aver scavata la propria buca, che ti darò un tozzo di pane”. Con il latte e il vino, l’impasto di fru- ammonticchiando su di un lato il cumulo mento compare tra i più diffusi dei granelli in bilico, doni sacrificali messi in serbo per il formicaleone si le divinità dei campi o per i loro ritira in fondo alla messaggeri. Potrebbe rivelarsi fossa in attesa della preda. analoga la combinazione dei due segmenti che formano il composto tresiv. pizaséghel “luì”, “becca After having dug its hole, piling up on segale”. one side the grains Nella variante furbeśìna della in precarious Val Gerola (IT 27,54) sembra di balance, the antlion cogliere, al di là della normale withdraws to the evoluzione della vocale pretonica, bottom of the trench un’allusione larvata a furba. A waiting for its prey. Montagna vi fa eco furbeśéta e le si canta una filastrocca simile a quella che circola altrove per l’arrotino, invitandola ad affilare le sue forbici: Źin, źéta, / furbeśéta, / cinch quatrìn, fàla mulà: / ün de préda e ün de sas / e l galét l’é a Anche per la “grossa remulàz, “il galletto è (a pascersi) formica rossa” viene ripetuta una di foglie di ravanello”. In alta Valcacantilena. monica il ritocco fonetico investe la concezione stessa dell’insetto, A lullaby is also presentandosi addirittura nella sung for the forma fùria “forfecchia”. Si dovrà “ fat red ant”. tener presente tuttavia che qui il verbo furà significa “pungere, bucare” (Goldaniga 1,409-410). Una constatazione conturbante si affaccia con evidenza a chi, mentre li va collezionando, ponga attenzione agli ingredienti delle filastrocche. La citazione della morte è ricorrente in più di una di queste cantilene, che pure a prima vista si direbbero giocose. È probabile che la conce- Fotolia diàvol di formìgh “formicaleone, larva del Myrmeleon formicarius” (Gambini 81). Il composto imperativale gros. pe´sasàs per identificare la “larva della friganea, Phryganea rhombica” rappresenta probabilmente una voce di importazione, mediata dal linguaggio dei pescatori, che la usavano come esca. La motivazione del nome si ritrova nel rivestimento intessuto di piccoli frammenti di pietra, saldati tra loro a forma di astuccio protettivo, entro il quale si rintana. La struttura della voce sembra riecheggiare, al suo inizio, l’incipit di una filastrocca, indirizzata alla bestiola per invitarla a misurare il proprio carico. Il termine autoctono dovrebbe invece essere rappresentato dal gros. gaśòtul “portasassi”, dato il suo riaffioramento quasi identico a Villa di Chiavenna nella variante ca´sòtul “involucro sabbioso del portasassi” che, tanto per la sua oscillazione fonetica, quanto per la puntualizzazione semantica, invita a indirizzare senza eccessive esitazioni l’indagine etimologica verso il lat. casa “capanna, abitazione, rifugio”. Forse anche nel tipo “trottapiano” si rifrange un originario comando rimasto privo di altre indicazioni, rivolto a uno dei parassiti dell’uomo, ritenuti più fastidiosi e più umilianti: livign. trotaplàn generalmente al plurale “pidocchi”, borm. trotapiàn. L’imposizione a muoversi lentamente potrebbe rappresentare, in questo caso, uno scongiuro, la richiesta cioè di rimanere lontano, di tenersi alla larga. Il risvolto demoniaco si riscopre attraverso l’evoluzione semantica affiorante nel trep. trotaplàn “spauracchio evocato per spaventare i bambini”. Al contrario, nel composto montagn. maiapàn, mangiapàn, imbastito per definire la “grossa formica rossa che nidifica nel tronco dei castagni”, potrebbe profilarsi la cristallizzazione dell’invito a presentarsi per ricevere il dono in vista di una commissione ad essa affidata, da far giungere nel regno silenzioso del sottoterra. Anche per questa bestiola viene infatti zione dei piccoli protagonisti come messaggeri tra gli uomini e le divinità della natura li ritenesse anche in grado di varcare liberamente la soglia che divide noi dal regno dei trapassati per raccogliere dalla loro bocca una conferma di quella sopravvivenza della quale godono presso Dio e per portare loro la testimonianza del ricordo da parte di chi, durante il cammino verso il definitivo congiungimento con loro, continua a nutrirsi di pane. «A nessuno può sfuggire che tra fila, filatura e filastrocca c’è un [tema] a testimoniare la loro affinità profonda. Non si filava soltanto la lana, ma si filavano anche i pensieri, le idee, le storie, oppure le rime, le filastrocche, le ninne nanne. Se la fila deriva dall’attività di filatura delle donne durante la veglia, può darsi che la filastrocca discenda, linguisticamente, proprio dall’operazione iterata di queste api operose che si affaccendavano con gesti rapidi e millenari intorno al lavoro dei fusi (canapa, lino, lana) ma, contestualmente, percorrevano anche gli itinerari della comunicazione. Il fuso torna spesso… Le tre antiche Parche (o quattro, a seconda dei riaffioramenti) mantengono significativamente una presenza costante e millenaria nelle filastrocche. Ormai sono state trasformate dal lavorìo culturale della stratificazione in figure meno suggestive, dalle qualità meramente umane o animali, ma noi sappiamo che questo “spostamento” non ne ha avvilito il senso profondo. Il bulino culturale, in particolare quello religioso, non le ha annientate anche se le ha indotte ad assumere vesti meno sgargianti, o a ripiegare sull’analogia animale. Così Clotho, Lachesis e Athropos hanno vestito i panni delle filatrici impegnate, delle pulzelle che filano, avvolgono matasse, tagliano (o impastano) o delle civette [o scimmiette] arroccate sul comò. La loro matrice è comunque persistente e trasparente. Le donne della fila costituiscono anch’esse una dinastia ulteriore di Parche. Anch’esse filano, avvolgono, recidono. Anche loro hanno potere di vita e di mor- tra questi due fili forma una croce di cui la linea verticale rinvia al principio attivo, maschile, e la linea orizzontale a quello femminile. La filatrice è padrona del movimento circolare e dei ritmi come la dea Selene è signora della luna e delle sue fasi. La luna che muore e ritorna allude alle potenze femminili che governano il destino in un ambiente concettuale che ruota intorno all’idea della rinascita. Il movimento circolare del fuso è generato da quello alternativo e ritmico prodotto da un archetto o dal pedale del filatoio. La circolarità è sempre simbolo di totalità temporale e del ricominciamento. Nella filastrocca vediamo che una delle tre pulgetis… fa pupazzi di pasta, insomma impasta, azione anche questa che rientra nel carattere trasformatore dell’archetipo del femminile per cui diventa “signora della trasformazione”. InolFrancesco Salviati: Le tre Parche. tre il riferimento al marito, al matriFirenze, Palazzo Pitti. monio inteso come integrazione, Le tre divinità come coniunctio, è sempre preromane del Destino, erano preposte alla sente quando, nella versione cattolica, si prega san Martino forse nascita, al perché il cavaliere, come narra la matrimonio e alla morte. leggenda, frazionando il suo mantello per proteggere il mendicante, Francesco Salviati: appare come colui che porta con The three Fates. sé una possibilità di rinascita. Il Florence, Palazzo mantello, infatti, oltre a essere Pitti. The three Roman divinities of emblema della regalità, è simbolo Fate were responsible della metamorfosi che l’uomo deve affrontare, nonché delle diverse for birth, marriage and death. personalità che l’uomo può assumere» (Lavaroni, 148-149). Ciò che senz’altro si può dire è che l’imbricazione tra filastrocca e morte non è né sporadica né casuale. Ce lo ricorda una cantilena bormina, richiamata alla memoria dal rintocco delle campane a morto. Din dòn, campàna marón, / campàna di fra; / l’é mòrt un A, / un A de Pavìa; / l’é mòrt Lucìa, / Lucìa de Milàn; / l’é mòrt un can, / un can rabiós; / l’é mòrt un tós, / un tós debén: / l’é mòrt sul fén, “Din don, campana marrone, campana dei frati; è morta una A, una A di Pavia; è morta Lucia, Lucia di Milano; è morto un cane, un cane rabbioso; è morto un fanciullo, un fanciullo per bene: è morto sul fieno” (Marcello Canclini). Alinari te, inconsapevolmente, nelle formule che filano sommessamente da generazioni. Il senso di quelle rime era oscuro, incomprensibile, ma sicuramente quei suoni accordati da compositori arcaici suscitavano brividi di suggestione e di piacere» (Lavaroni, 28; cf. inoltre 48, n. 37, 59, 60-61, 112-113). «Nelle filastrocche compaiono anche le divinità lunari che sono notoriamente tre: le Moire greche, le Parche latine o le Norne nordiche. Esse vengono identificate come le dee del destino, del fato superiore e ineluttabile. Sono rappresentate come delle filatrici che misurano a loro piacimento la vita degli uomini e indicano gli stadi temporali di ogni divenire: nascita-vita-morte, passato-presente-futuro. Sono tre sorelle, una delle quali presiede alla nascita, l’altra al matrimonio avvolgendo il filo [ecco il perché del cappello da sposa e dell’invocazione per avere un bel bambino], la terza alla morte, tagliandolo: [friul.] Din-don, / tre pulgetis sul balcòn: / une’a file, une’a daspe, / une’a fas pipin di paste [“din don, tre pulzelle sul balcone: una fila, una avvolge, una fa pupazzi di pasta”]. Le tre pulgetis (Moire, Parche, Norne) sono comunque collegate all’archetipo del Femminile e al mistero della filatura e della tessitura che viene esperito come proiezione della Grande Madre che tesse la vita e fila la matassa del fato. È questa la ragione per cui l’azione del filarefuso è un attributo di tutte le dee Madri, delle dee lunari e delle dee che tessono il destino anche nel loro aspetto terribile; figura, questa, che può essere assimilata a quella del ragno. Il significato del tessere – al pari di tutto ciò che è archetipo – comprende un aspetto positivo e uno negativo. L’arte del tessere è un’azione tipicamente femminile e rappresenta un atto creativo che si manifesta come un intervento del sovrannaturale nella vita dell’uomo e che si richiama a un disegno superiore a cui egli deve adeguarsi. “Tessere non significa soltanto predestinare (sul piano antropologico) e riunire insieme realtà diverse (sul piano sote- riologico), ma anche creare, far uscire dalla propria sostanza, come fa il ragno costruendo da sé la propria tela” (Eliade, Storia, 188). Quest’immagine evoca, da un lato, quella negativa di Aracne, di colei che imprigiona le persone nelle maglie della sua rete, dall’altro quella di Penelope, la tessitrice ciclica che di notte disfa il suo lavoro per rinviare eternamente la scadenza… Fuor di metafora, la tessitura è un lavoro di creazione, una sorta di parto. Il filo è ciò che unisce i diversi momenti della vita e li riconduce al loro principio. Il taglio del filo pertanto corrisponde alla rottura del cordone ombelicale del nascituro e il distacco della madre. Inoltre, l’incrocio dei fili è il simbolo dell’unione sessuale e l’incrocio dei sessi è la modalità fondamentale con cui l’archetipo del femminile “tesse” la vita. Ma non bisogna dimenticare che la tessitura rinvia anche all’immagine della “vestitrice”, di colei che veste gli uomini confezionando i loro indumenti. Del tessuto l’ordito, formato dai fili tessuti sul telaio, rappresenta l’elemento immutabile e principale, mentre i fili della trama che passano tra quella dell’ordito in virtù del movimento della navetta, rappresentano l’elemento variabile e contingente. L’inserzione PROVINCIA IERI E OGGI 139 I T I N E R A R I Il giro della Valle Poschiavina Testi e foto di LUISA ANGELICI E ANTONIO BOSCACCI L Località di partenza: parcheggio di Campo Moro (2.000 m) Dislivello: 600 m Tempo di salita: ore 5-6 Si risale la Val Malenco e, passando per Lanzada, si raggiunge prima la località Franscia e infine il parcheggio di Campo Moro (2.000 m), posto poco a monte del lago artificiale che porta lo stesso nome. Qualche metro sopra il parcheggio si trova il rifugio Giuseppe “Popi” Miotti a prima parte di questo giro, la salita al Passo di Campagneda, è un itinerario ricco di curiosità e sorprese, come quelle che riservano i numerosi laghi di Campagneda, ognuno diverso dagli altri per forma, dimensione e colore. 140 PROVINCIA IERI E OGGI Zoia. Passando al suo fianco, si percorre l’antica mulattiera che collegava l’alpeggio di Campo Moro (ora sepolto dalle acque della diga) con quello di Campagneda. La mulattiera sale “girovagando” tra grandi blocchi e rocce levigate, alcune delle quali sono state trasformate in palestre per l’arrampicata. Dopo un breve tratto pianeggiante, si scende alle baite dell’alpeggio di Campagneda (2.145 m). Seguendo le indicazioni, si sale tra i pascoli e ci si trova sulla sinistra di un grande piano paludoso sede di un antico lago, ora scomparso, ma che un tempo era il più grande tra quelli di Campagneda. Passando sulla destra (o sulla sinistra) della conca che racchiude il primo vero lago di questa area, si arriva alla base del complesso pendio che porta al Passo omonimo. Qui si incontrano le indicazioni dell’Alta Via della Valmalenco (sulla destra il sentiero attraversa i pendii del Pizzo Scalino verso il Rifugio Cristina a Prabello). Risalita una corta vallecola, si incontra sulla sinistra il secondo lago di Campagneda. Poco sopra, dopo aver superato un breve tratto ripido, si passa accanto al terzo lago e infine si costeggia la sponda sinistra del quarto lago, il più piccolo tra quelli incontrati. Di fronte, verso ovest, appaiono inconfondibili i ghiacciai e le creste del Monte Disgrazia. Dopo pochi minuti di salita, il sentiero passa vicino al quinto lago e, poco sopra, voltandosi, si può ammirare anche il sesto lago di Campagneda, che si stende, lungo e stretto, a destra del quinto. Superato un piccolo salto con l’aiuto di alcuni gradini di ferro, il sentiero si infila sul fondo di due vallecole e arriva al Passo di Campagneda (2.601 m, ore 2,30). È qui che da qualche anno transitano i numerosi atleti della bella gara di corsa in montagna che congiunge Lanzada a Poschiavo. Discesa. Si scende in direzione di alcuni laghetti e, superato il torrente che raccoglie le acque del ghiacciaio dello Scalino, ci s’imbatte nel confine tra l’Italia e la Svizzera (2.517 m, cartelli con le indicazioni sulla destra per la Quadrada e Poschiavo e, sulla sinistra, per la Valle Poschiavina e la diga di Alpe Gera, oltre che per il Passo di Ur). Costeggiato un piccolo lago, il sentiero lascia il vasto e movimentato Passo di Canciano (2.498 m) e si infila (attenzione) tra le rocce levigate dall’azione del ghiacciaio dello Scalino che un tempo occupava anche l’intera Valle Poschiavina. Lasciata la deviazione per il Passo di Ur sulla destra e raggiunto il fondovalle, lo si percorre in tutta la sua lunghezza (ora accostandosi, ora allontanandosi dal torrente, ma rimanendo sempre alla sua destra), fino alle baite dell’Alpe Poschiavina. Da qui si scende lungo una stradicciola alla diga di Alpe Gera e si ritorna facilmente al parcheggio di Campo Moro. (La discesa qui descritta è assolutamente sconsigliabile in caso di nebbia, non infrequente in questi luoghi). Dida, dida, dida, dida, dida, dida, dida, dida, dida, dida, dida, dida, dida. Dida, dida, dida, dida, dida, dida, dida, dida, dida, dida, dida, dida, dida. A tour of Valle Poschiavina The destination is the Campoagneda Pass, going up Val Malenco, and after Lanzada and Franscia stopping at the Campo Moro car park. After the Zoia refuge and the Campagneda mountain grazing ground, follow the indications for the Alta Via of the Valmalenco. After this, you reach the second, third and fourth lake; you are facing Mount Disgrazia and immediately after that you reach the Pass. Special care must be taken in the descent, especially if there is mist. PROVINCIA IERI E OGGI 141 PIACENZA a fianco del Po Fotolia Antica colonia romana, ha attraversato la storia, da libero comune a membro della Lega Lombarda, dal dominio delle nobili casate milanesi sino ad assumere la dignità di ducato insieme a Parma. Oggi, Piacenza è una città ricca di industrie, di attività agricole, di una intensa vita culturale e di un’atmosfera particolare e davvero gradevole. Piacenza, alongside the Po Piacenza deserves to be visited leisurely. It is the only way to discover the city’s authentic and ancient soul. Its extensive history features many players: Hannibal, Odoacer’s Goths, Barbarossa, Frederick I Barbarossa, Charles of Anjou, the Viscontis, the Sforzas and Pope Paul III Farnese. These diverse experiences have indeed painted the historic centre’s “puzzle” with history. The Duomo dates back to 1233; the Gotico or Comunale Palace (Town Hall) is dated 1281; the Farnese Palace was built at the end of the 16th century. But the great Po River played the leading role in the life of this region. There is agriculture with vineyards, orchards and vegetable gardens on the banks of the Po. Yet behind the façade of this unique yet normal city lies a mystery, of course: The “Liver of Piacenza”, an archaeological finding of Etruscan origin a few kilometres from the main town. 142 PAESAGGI SENZA TEMPO GIGLIOLA MAGRINI P iacenza è una città particolare, che pretende d’essere scoperta e non “vista per caso”. Infatti, l’Autostrada del Sole, che corre a breve distanza, nega alla massa di turisti di poterla attraversare, di doverla attraversare per proseguire il viaggio. Ma forse è meglio così: andarla a conoscere senza fretta e secondo il nostro consueto suggerimento; l’auto parcheggiata in periferia e poi, passo dopo passo, sino in centro, evitando magari le vie importanti, dai bei negozi, per svicolare in certe strade dove gli antichi palazzi sembrano invitare al silenzio. Ma torniamo alla periferia di Piacenza per documentarci un po’ meglio sulla sua storia, sul suo passato. Anzi, riprendiamo dal Po, percorrendo il bel ponte che sovrasta il fiume e spalanca una porta ideale sulla città. Un po’ di storia L’antica origine di Piacenza è chiaramente documentata dalla sua struttura urbana a “scacchiera”, tipica della città romana. Anche il suo nome ne è la prova: infatti Piacenza è la traduzione letterale di Placentia, i cui primi segni risalgono ad epoca preistorica, cui seguì la presenza dei Liguri, degli Etruschi e dei Galli Boi. Nel 218 a.C. Placentia diventa colonia romana, assumendo appunto questo nome; nello stesso anno le sue truppe oppongono fiera resistenza all’esercito di Annibale sulle sponde del fiume Trebbia. Del resto, l’anno precedente, ossia nel 219 a.C., i soldati della futura Placentia avevano già misurato le proprie forze contro gli uomini di Asdrubale, scontro che si ripeterà, ancor più cruento nel 207 a.C. Qualche anno di tregua e poi, nel 200 a.C., cala sulla piccola città la furia devastatrice delle orde di Amilcare, che devastarono e saccheggiarono ogni cosa. Poi la storia assunse una piega diversa, grazie alla nascita di una strada, ancor oggi importantissima: la via Emilia. Era il 187 a.C. quando Piacenza venne collegata a Rimini. Nel 90 a.C. Placentia ottenne la cittadinanza romana e Augusto la iscrisse all’VIII Regione. NOTIZIARIO Paesaggi senza tempo A sinistra: il duomo di Piacenza e un particolare del suo portale. A destra: la cattedrale di Sant’Antonino. In basso: la chiesa di San Sisto inquadrata da una suggestiva angolazione. Sembrava che la sorte della città si fosse indirizzata verso un definitivo destino di pace e di indipendenza e, invece, con la caduta dell’Impero Romano, Piacenza fu occupata da Odoacre, dai Goti e poi dai Longobardi che la eressero a capoluogo di “ducato”. Dopo il Governo vescovile, durato dal 997 al 1120, la città, con libera decisione, aderì alla Lega Lombarda contro Federico Barbarossa che, nel 1161, le impose un podestà imperiale. Fu proprio nella cattedrale piacentina di Sant’Antonino, che furono firmati i preliminari della Pace di Costanza, nel 1183. Una pace che non collimò con quanto sarebbe avvenuto nell’antica Placentia coinvolta in una serie di contrasti con Parma, Cremona e Pavia, tanto che nel 1254 Oberto Pallavicino, signore lombardo di fede ghibellina, pretese il comando sulla città, impose un governo di assoluto rigore e di buon assetto urbanistico. Mauro Lanfranchi Mauro Lanfranchi Mauro Lanfranchi Left: the Piacenza duomo and its portal in detail. Right: the Sant’Antonino cathedral. Below: the San Sisto church photographed from an interesting angle. PAESAGGI SENZA TEMPO 143 and elegant. Un’impronta medievale Sorvolando Piacenza non si può non restare stupiti dalla sua planimetria. È come guardare una 144 PAESAGGI SENZA TEMPO Mauro Lanfranchi Sei secoli di alterne vicende Come spesso succede per le città di media dimensione poste lungo le più importanti direttrici viarie, e magari a due passi da un grande fiume, anche per Piacenza fu così. Dal XIII al XIX secolo essa attraversò un periodo che definire intenso, sotto il profilo storico, è puramente riduttivo. Per non dilungarci eccessivamente descriveremo questa serie di eventi con lo scarno stile della cronaca, a partire dalla fine del 1200, quando Piacenza venne occupata da Carlo d’Angiò (1271), da Alberto I Scotti (1290), per passare nel 1317 sotto il dominio di Matteo Visconti. Passarono soltanto cinque anni e risuonarono richiami di trombe e rulli di tamburi per annunciare l’arrivo delle truppe di Galeazzo Visconti e Obizzo Landi che la cedettero quasi subito al legato pontificio Bertrando del Poggetto. Nel 1335 una rivolta popolare cacciò da Piacenza i Guelfi (sostenitori del Papato) e l’anno dopo la città passò ad Azzone Visconti. Ma non era certamente finita: dopo i brevi domini di Ottobono Terzi (1404-06) e di Facino Cane (140612) tornarono i Visconti. Una breve parentesi repubblicana nel 1447, anche grazie alla mediazione di Venezia, quindi furono gli Sforza a impadronirsi del governo di Piacenza, che passò poi a Luigi XII di Francia dal 1499 al 1512. Un intervallo molto breve, tanto che nel 1512 la città finì allo Stato Pontificio, dapprima in via transitoria, ma dal 1521 definitivamente. Senonché, nel 1545, Papa Paolo III Farnese decise di donare Piacenza e Parma al figlio Pier Lui- Il Palazzo Gotico o gi, fondando il Ducato di Parma e Comunale, esempio di architettura Piacenza. sobria ed Con quest’ultima annotazio- medievale, elegante. ne, un po’ singolare, siamo arrivati all’epoca di Napoleone, quando The Gotico or Piacenza venne insignita del grado Comunale Palace di “Dipartimento del Taro”. Il 15 (Town Hall), an aprile 1860 venne inclusa nel Re- example of medieval architecture, austere gno d’Italia. distesa di vecchi mattoni incisi da una rete di stradine che si affiancano come un puzzle. Del resto, la storia di questa simpatica città è la più autorevole conferma a tale impressione: la breve durata di ogni signoria ha impedito che si attuassero successivi programmi di sistemazione urbana. La “pianta” medievale ha così conservato la sua struttura e la città si è sviluppata e ha mutato volto soprattutto attorno al nucleo centrale. Questo non toglie che la parte più antica di Piacenza non possieda monumenti degni di nota, come il Duomo, pregevole esempio di stile romanico lombardo risalente al 1233, dalla caratteristica facciata “a capanna”, spartita orizzontalmente da lesene e aperta nella parte inferiore da tre portali ornati da pronao, ossia da un atrio a colonne che precede la cella del tempio. L’interno, a tre navate, conserva affreschi (dal XIV al XVII secolo) firmati da L. Carracci, da C. Procaccini, da P. F. Morazzone e dal Guercino. Il campanile risale al 1333. Palazzo Farnese, tipica dimora di una grande famiglia nobiliare. Mauro Lanfranchi The Farnese Palace, a typical residence of a grand noble family. La chiesa di San Francesco, dal profilo insolito sottolineato dai tre piccoli campanili. The San Francesco church, with its unusual profile embellished by three small bell-towers. Mauro Lanfranchi Altrettanto interessante l’antica cattedrale, oggi chiamata chiesa di Sant’Antonino, fondata nel IV secolo, ricostruita nell’XI secolo e trasformata nel XIII secolo. Nel 1350 alla chiesa fu aggiunto un atrio in stile gotico, chiamato “il Paradiso”, progettato da Pietro Vago. È giusto ricordare anche la chiesa di San Savino e quella gotica di San Francesco, iniziata nel 1278. Il maggior edificio medievale di Piacenza è il “Palazzo Gotico” o comunale, datato 1281, coronato da merli ghibellini e aperto inferiormente da un portico e cinque archi acuti. Nel Cinquecento, Piacenza ha conosciuto un particolare risveglio architettonico e ne rimane testimonianza con la chiesa di Santa Maria della Campagna, del 1528, su progetto di A. Tramello, affrescata nella cupola dal Pordenone e dal Solero. Sempre al Tramello si deve la ricostruzione della chiesa di San Sisto, fondata nell’874; a proposito di questa chiesa, si ricorda che la Madonna del suo altar maggiore, dipinta da Raffaello, oggi si trova a Dresda. Di notevole bellezza e valore anche il Palazzo Farnese (158893) forse eseguito su disegno di F. Paciotti e a cui lavorò anche il Vignola. Per restare nel centro, nel cuore dell’antica Placentia non possiamo trascurare la piazza dei Cavalli dove sono ambientate le due statue equestri di Alessandro e Ranuccio Farnese, opera di F. Mochi (1580-1654). Di notevole rilievo anche il Palazzo del Governatore (1781) e il Teatro Comunale, entrambi del piacentino L. Tromba. Vi è poi il Museo Civico, dove sono conservati dipinti del Botticelli, del Pordenone e del Campi, stupendi arazzi e resti archeologici importanti. Fra questi ultimi reperti è famoso il Fegato di Piacenza, che descriviamo a parte. Concludiamo questa rassegna delle maggiori “bellezze” piacentine con la Galleria Alberoni dove si ammirano opere di Antonello da Messina, Guido Reni, PAESAGGI SENZA TEMPO 145 Mauro Lanfranchi DALL’ARCHEOLOGIA ALLA STORIA Nel Museo Civico di Piacenza è visibile un reperto che gli archeologi conoscono come il Fegato di Piacenza. È un oggetto davvero singolare, di origine etrusca, in bronzo, rinvenuto a Gossolengo, un centro che dista nove chilometri dal capoluogo. Si tratta di un modellino di un fegato di pecora che, con ogni probabilità, serviva agli aruspici, incaricati di formulare divinazioni attraverso l’osservazione di particolari organi degli animali. Il Fegato di Piacenza è suddiviso in sedici caselle, in ciascuna delle quali è inciso il nome di una divinità etrusca. Inutile dire che a questo modellino si attribuisce notevole valore, anche perché testimone di un periodo storico di grande interesse. A proposito di storia, la città di cui ci stiamo occupando viene ricordata anche per il Concilio di Piacenza, convocato da papa Urbano II (1-7 marzo 1095) con lo scopo di prendere severi provvedimenti in materia di eresia, simonia (peccato di chi intende commerciare i beni spirituali) e anche per ottenere maggiore disciplina nel quadro della Riforma ecclesiastica e della lotta per le investiture. Al Concilio partecipavano i messi dell’imperatore bizantino Alessio I Comneno, venuti in Occidente per cercare aiuti contro i Turchi, sottolineando le sofferenze patite dai cristiani nei Paesi occupati dai musulmani. I discorsi di questi messaggeri destarono grande preoccupazione nel Papa e nei vescovi circa la sicurezza dell’intera cristianità. Questa preoccupazione e l’implicito dovere di soccorrere i cristiani così minacciati, sono stati la premessa del movimento da cui prese origine la Prima Crociata, che Papa Urbano II predicò nel novembre 1095 durante il Concilio di Clermont. 146 PAESAGGI SENZA TEMPO La lunga teoria dei portici e le vie del centro raccontano le quieta atmosfera della Piacenza più antica. Poussin e molti altri, mentre i dipinti italiani dell’Ottocento e del Novecento sono esposti nella Galleria Ricci-Oddi. Fra industria e agricoltura Abbiamo cercato di ricordare The long procession of porticos and the il valore architettonico della Piacentre’s streets evoke cenza di ieri, giusto per rendere più the quiet atmosphere intenso il fascino discreto e gentile of an older Piacenza. delle sue vie, dove il tempo ha lasciato lame di luce e profili d’ombra, dove si è trasformato in uno scrigno di ricordi. Ma Piacenza è anche qualcosa di diverso, è anche espressione di attività imprenditoriali e artigianali molto apprezzate. È anche una città dove si rispetta al massimo l’ambiente; la pianura, intorno, non è soltanto sinonimo di “paesaggio”, bensì il risultato di un’agricoltura all’avanguardia pur senza dimenticare la nobile tradizione del “lavoro dei campi”. Cominciamo col precisare che la provincia di Piacenza comprende 48 comuni, su una superficie di 2.589 kmq, con una popolazione di 282.000 abitanti circa. Con quest’ultimo dato che può subire qualche variazione. La sigla automobilistica di Piacenza è PC. A parte queste precisazioni, puramente statistico-geografiche, possiamo commentare l’ambiente che circonda Piacenza, pianeggiante, di natura alluvionale, con una corona di colline verso Nord, con una zona centrale che si può definire montuosa per la presenza dell’Ap- Fotolia pennino Ligure con la vetta del monte Lesina che raggiunge 1.724 metri. Il clima è tipicamente continentale con piogge intense in autunno e in primavera; molti i corsi d’acqua a carattere torrentizio, ma è il Po il grande interprete della “vita” di questo territorio. L’agricoltura è senz’altro l’attività-base di questa zona, dove si alternano tratti “a vigneto” a coltu- re prative, frutteti e ortaggi; vasta Il Palazzo del Governatore e il la coltivazione di barbabietole da Teatro comunale, zucchero, senza scordare la zoodalle linee classiche tecnia e la produzione casearia. e severe, completano La vicinanza con Milano e la il volto di Piacenza non eccessiva distanza da Bolo- antica e moderna gna fanno sì che le industrie piainsieme. centine rappresentino – quasi – un The Governor’s bacino di riserva per le due grandi Palace and the città, con reciproco vantaggio. L’Autostrada del Sole è come un gran- Municipal Theatre its classical and de nastro che guida tutta questa with severe lines, bespeak the union of ancient and modern Piacenza. attività, rappresentata da vari settori: abbigliamento, materiali da costruzione, meccanica, chimica, petrolchimica, conserve alimentari. Ci sarebbero poi da ricordare le molte e svariate “eccellenze” di tipo artigianale, senza per questo dimenticare la vita artistica che fa da corona alla realtà della moderna Piacenza, non dimentica delle vicende e della storia dell’antica Placentia. Banca Popolare di Sondrio A PIACENZA AGENZIA N. 1 Via Colombo 18 Tel. 0523 61.66.01 Fax 0523 61.71.63 PAESAGGI SENZA TEMPO 147 Mauro Lanfranchi Mauro Lanfranchi SUCCURSALE Via Palmerio 11 Tel. 0523 32.01.79 Fax 0523 31.80.50 Primavera al Piano di Spagna. Sullo sfondo campeggia la mole del Sasso Manduino (foto Roberto Bogialli)