l`alimentazione in lombardia fra bisogno e tradizione

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l`alimentazione in lombardia fra bisogno e tradizione
cultura
e storia
A
L'ALIMENTAZIONE
IN LOMBARDIA
FRA BISOGNO E TRADIZIONE
ffrontare il tema dell'alimentazione eÁ
estremamente complesso e per avere
un quadro completo di tutte le implicazioni e di tutte le interdipendenze che esistono
fra alimentazione e societaÁ occorrerebbe uno
studio articolato con implicazioni interdisciplinari che coinvolgono varie discipline quali etnologia, botanica, climatologia, geografia, ecc.
Trattare dell'alimentazione popolare eÁ dunque
piuttosto arduo, i documenti scritti, ricettari o
trattati di cucina, forniscono informazioni sull'alimentazione delle classi elevate che, grazie
alle loro possibilitaÁ economiche, potevano disporre di prodotti costosi provenienti anche
da luoghi lontani. L'alimentazione popolare
era, invece, pesantemente condizionata da cioÁ
che la famiglia contadina produceva o comunque dai pochi prodotti disponibili sul territorio
e alla portata di tutti. I documenti scritti sulla
cucina popolare sono scarsi sia a causa dell'analfabetismo diffuso, che faceva sõÁ che le massaie si tramandassero le ricette a voce, sia per
l'abitudine di osti e locandieri di elencare, di
norma, solo gli ingredienti omettendo di trascrivere i procedimenti per la preparazione delle pietanze.
Tuttavia, per quanto uno studio delle abitudini alimentari in una determinata area geografica possa essere complesso, eÁ affascinante notare come l'alimentazione sia uno degli elementi
caratterizzanti e rivelatori dell'identitaÁ etnica e
culturale di un gruppo, ma non solo, le abitudini alimentari di un gruppo sono anche il frutto del loro adattamento all'ambiente 1.
Lungo un percorso secolare, dai tempi piuÁ
remoti alla fine dell'Ottocento, scopriamo
quanto la storia dell'alimentazione
e del cibo, in particolare nel mondo
contadino lombardo, sia il risultato
di complessi meccanismi economici,
sociali, sanitari, religiosi... e sia specchio,
non di rado, di condizioni di vita ben
piuÁ miserevoli di quanto una superficiale
considerazione `nostalgica' del passato
possa suggerire.
Alessandro Dumassi
UN BREVE EXCURSUS STORICO
Un proverbio varesotto cosõÁ recita: ``Pan, vin e
oche, e s'el voÈr fiocaÁ ch'el fioche'', quando cioeÁ
vi sono pane, vino e oche (come companatico)
se vuole nevicare, che nevichi; in passato avere
scorte alimentari, specialmente all'approssimarsi dell'inverno, era garanzia di sopravvivenza, il
poter disporre di cibo era la principale preoccupazione e i meno abbienti si ingegnavano in
ogni modo per sfruttare al meglio ogni risorsa
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e non sprecare nulla. Alcune considerazioni
riguardanti l'alimentazione dei contadini lombardi possono essere estese a tutta l'Italia settentrionale, le differenze riscontrabili nell'esaminare la dieta di un contadino piemontese, di
un lombardo, di un veneto riguarderebbero
infatti dettagli, come un condimento o qualche
variante nella preparazione, ma alla base della
dieta troveremmo prodotti quali castagne, patate, mais, riso, carne di maiale, latticini e
poco altro.
GiaÁ nel Neolitico, con il miglioramento delle
condizioni climatiche, avvennero fatti nuovi
nell'alimentazione umana: non si praticoÁ piuÁ
la caccia ai grandi mammiferi delle praterie, in
quanto gli uomini si dedicarono alla caccia di
animali piuÁ piccoli, alla raccolta di frutti spontanei, come nocciole, more, pere, mele e ghiande; contemporaneamente si cominciarono a
praticare l'agricoltura e l'allevamento (nei resti
di pasto si inizia a notare la prevalenza di tracce
di animali domestici rispetto alle specie selvatiche). Appare ormai probabile che a introdurre
l'agricoltura in Italia siano state popolazioni
provenienti dal vicino Oriente che, dedite all'agricoltura, vi portarono nuove specie vegetali
come farro e orzo, introducendo inoltre la coltivazione di leguminose, giaÁ presenti ma ancora
non coltivate, come ervo (da ervum, veccia, legume), lenticchia e pisello. L'orzo e il frumento 2 si diffusero fra V e IV millennio a.C., per
esempio, i Lagozziani 3 coltivavano due tipi di
frumento e due di orzo, fra le piante spontanee
commestibili v'erano quercia, nocciolo, melo,
lampone, fragola, prugnolo, corniolo, inoltre
allevavano pecore, maiali e capre. GiaÁ nel Neolitico ebbe inizio la pratica della panificazione
che si diffuse poi nell'etaÁ del Bronzo. L'esigenza
di disporre di nuovi terreni per l'agricoltura
contribuõÁ a diffondere la pratica degli incendi
boschivi (precedentemente impiegata per far
crescere, ai piedi degli alberi bruciati, erbe e
arbusti che costituivano pascolo per gli animali
da cacciare).
Nell'etaÁ del Bronzo l'uso di utensili di metallo e di osso, l'adozione di aratri 4 e falcetti piuÁ
efficienti aumentarono la produzione e la superficie coltivabile. Mentre l'agricoltura neolitica era praticata da un gruppo familiare su un'estensione relativamente limitata, ora fu possibile coltivare aree piuÁ vaste e cioÁ implicoÁ la creazione di organizzazioni sociali `complesse'
come le terremare.
A partire dalla media etaÁ del Bronzo, nella
bassa pianura, si registroÁ un significativo incremento della popolazione che `adattoÁ' il territorio alle esigenze di approvvigionamento alimentare; secondo alcuni studi, infatti, il 60% dell'area centrale della pianura Padana era stata
deforestata per lasciare spazio a terreni agricoli.
Alle specie coltivate nel Neolitico (orzo, farro e
frumento nudo) si affiancarono spelta (farro
grande), miglio e panico, piante particolarmente resistenti che si adattavano a terreni meno
produttivi che in precedenza non era stato possibile coltivare. Questa varietaÁ di specie coltivate metteva, in un certo modo, al sicuro dal rischio di carestie causate da un raccolto compromesso o mancato. Resta comunque importante, nell'etaÁ del Bronzo, la raccolta di frutti
spontanei come corniole, more, fragole, susine,
mele, uva e fichi.
Nell'etaÁ del Ferro la diminuzione della temperatura fece sõÁ che si riducesse l'attivitaÁ agri-
M. Harris, in Buono da mangiare, scrive infatti: ``... le
differenze sostanziali fra le cucine del mondo si possono
far risalire a condizionamenti ambientali e alle diverse
possibilitaÁ offerte dalle diverse zone''.
2
Resti fossili di semi di frumento e d'orzo sono conservati al Museo archeologico di Como.
3
Lagozza di Besnate si trova a sud di Varese.
4
Gaetano Forni in Dalla storia delle piante coltivate il
significato della simbiosi uomo/ambiente biologico, pub-
blicato in Le piante coltivate e la loro storia. Dalle origini
al transgenico in Lombardia nel centenario della riscoperta della genetica di Mendel, Atti del convegno (Milano, 24 giugno 1999), Milano, Franco Angeli, 2001, cita
uno studio di A. Sherrat del 1997 nel quale l'autore ha
calcolato che l'utilizzazione dell'aratro tirato da un animale aumenta la produttivitaÁ di un agricoltore del 400%,
rispetto a chi impiega vanga o zappa.
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l'alimentazione dei suini. Varrone cita un passo
del De agricultura di Catone: ``I Galli sono soliti
farne grandi e ottimi salati. La prova che sono
ottimi eÁ che ogni anno si importano a Roma
dalla Gallia prosciutti comacini e cavarini e
prosciutti disossati''. Sulla quantitaÁ delle carni
suine tagliate e salate in Gallia, sempre Catone
scrive: ``in Italia gli Insubri salano tre e quattromila pezzi di carne suina; il maiale suole crescere a tal punto di grassezza che non si regge
in piedi da se e non puoÁ camminare. Pertanto
se uno lo vuole trasportare in qualche posto, lo
deve caricare su di un carro''. Risalgono all'etaÁ
romana anche numerosi mortai e macine.
Nel Medioevo, a spese del farro, si affermoÁ
la segale, resistente al freddo, adatta anche ad
ambienti montani e seminabile sia in inverno
che in primavera. Ancora importanti miglio,
panico e sorgo 9, in virtuÁ della facilitaÁ di coltivazione e della brevitaÁ del loro ciclo vegetativo.
Fra i legumi, il favino (una varietaÁ di fava) eÁ
dominante, abbondante risulta anche il consumo di cicerchie, cui seguono lenticchie, piselli e
vecce. I legumi divennero presto importanti
nell'alimentazione sia per il valore nutritivo
che per la proprietaÁ, tramite l'essiccatura, di
conservarsi anche per tempi piuttosto lunghi.
Fra i legumi i fagioli (il fasiolus citato dagli
autori classici eÁ, secondo gli studiosi, il fagiolino, detto anche cornetto, il cui seme, giunto a
piena maturazione, viene chiamato fagiolo dell'occhio nero) sono quelli maggiormente presenti nella cucina lombarda (si pensi all'insalata
di nervetti o alla busecca). In questo periodo al
pult dei Romani (una sorta di polenta fatta con
cola. Fra i cereali non vi furono novitaÁ: mentre
l'orzo era prevalente nelle zone meno fertili e
montuose, miglio e panico, coltivati assieme ad
altri cereali, erano presenti in tutta l'Italia settentrionale. DiventoÁ consistente la presenza di
leguminose (cicerchie, lenticchie, piselli e vecce). AumentoÁ l'attivitaÁ pastorale, e tuttavia, per
la mancanza di scorte di foraggio e di adeguati
ricoveri per gli animali, buona parte del bestiame veniva macellato al sopraggiungere dell'inverno 5. Le tecniche per la conservazione degli
alimenti, specialmente delle carni, erano l'affumicatura e la salagione 6 che rimasero a lungo le
uniche praticate.
In etaÁ romana 7 la cerealicoltura diventoÁ ancora piuÁ importante. Per quanto riguarda gli
alberi da frutto eÁ interessante notare che il castagno 8, coltivato in un primo momento per il
legno, acquistoÁ via via importanza come pianta
da frutto. Alcune indicazioni ci vengono dai
ritrovamenti nella necropoli romana di Angera,
dove sono stati rinvenuti resti di ghiande, pinoli, pesche e, in sei tombe, eÁ stato trovato anche
pane di frumento (ma con molta crusca). Dall'esame del legno impiegato per il rogo funebre
si sa della presenza di noci oltre ai castagni.
Attrezzi ritrovati a Uboldo e a Legnano possono confermare la pratica dell'agricoltura e dell'allevamento: roncole, falcetti e zappe; cesoie e
raschiatoi usati dagli allevatori di pecore, mentre alcuni coltelli a lama larga sembrano essere
utensili da macellaio. Vale la pena di ricordare
come l'allevamento suino fosse particolarmente
diffuso nella Lombardia nord-occidentale, anche grazie all'abbondanza di querce e faggi per
L'ampliamento dei mercati durante l'etaÁ romana suggerisce cautela nel valutare i reperti botanici, infatti, la presenza di resti vegetali non deve necessariamente far
pensare che quella pianta fosse coltivata in loco, alcune
specie potevano provenire da mercati anche molto lontani come, per esempio, i datteri.
8
Dagli inizi del Medioevo, il castagno si diffonderaÁ sempre di piuÁ a discapito della quercia.
9
Cereali destinati all'alimentazione delle fasce piuÁ povere della popolazione.
Secondo alcuni studiosi, l'interesse dei Golasecchiani e
dei Reti per il sale eÁ derivato dalla necessitaÁ di disporne
per la conservazione della carne: sembra infatti che queste genti si spingessero fino alle miniere di salgemma di
Hallstatt proprio per procurarselo.
6
Soprattutto per l'impiego come conservante, il sale ha
sempre avuto grande importanza: una testimonianza del
suo ruolo eÁ data anche, nella tradizione popolare, dal sal
di mort che la famiglia del defunto offriva a chi veniva a
farle visita, questi in cambio avrebbe pregato per l'anima
dell'estinto.
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La macellazione del maiale, particolare dell'incisione a bulino
di Francesco Fulcari Inverno, primi decenni del XVII secolo
(Civica Raccolta delle Stampe Achille Bertarelli, Milano).
cosõÁ l'allevamento bovino e di conseguenza la
preparazione di formaggi a pasta dura e la produzione di burro e di latticini in genere. Burro e
grana 11, peroÁ, rimarranno a lungo prodotti destinati ai piuÁ abbienti, mentre i ceti popolari
continueranno a utilizzare grasso di maiale o
d'oca e a consumare formaggi poco pregiati,
di facile lavorazione e sovente di produzione
propria.
Fra i popoli che durante il Medioevo si erano
stabilmente insediati in Italia i Longobardi
(giunti nel 568 e qui rimasti fino al 774) furono
quelli la cui influenza si riveloÁ piuÁ duratura e
significativa. Alla base della loro alimentazione
vi era il pulmentum, una zuppa di legumi e
grani minuti non macinati cui si accompagnava
della carne ± spesso presente nella loro dieta ±,
sovente si trattava di selvaggina, non solo cinghiali e maiali selvatici ma anche animali di
piccola taglia come lepri, conigli e volatili (che
era possibile cacciare dietro pagamento di una
tassa di concessione). I Longobardi per cucinare le carni ricorrevano soprattutto alla bollitura,
che rendeva tenere anche le carni piuÁ coriacee;
altro sistema utile, soprattutto per conservarle
per diversi giorni, era il sistema delle `cotture
successive': la carne bollita veniva poi fritta o
cotta in umido, quella arrostita era poi stufata
oppure la si marinava con vino rosso (ricco di
tannini e composti fenolici con proprietaÁ antisettiche), aceto e spezie. Si preparavano poi vari
tipi di carne salata, oltre a quella di maiale si
salavano anche le carni di capra, pecora e dei
capi di selvaggina. Si consumava altresõÁ il pesce
(anguille, trote, carpe e tinche), soprattutto nei
farina d'orzo tostata, oppure con farina di farro
a cui si aggiungevano acqua e olio) si sostituirono zuppe di legumi (da legumi essiccati si
ricavava una farina che, mescolata a quella di
cereali, serviva sia per la panificazione che per
la preparazione di minestre o polente) e cereali 10. La frutta ± abbondanti castagne, noci, pesche, ciliegie o amarene ± era riservata ai ricchi
(solo la castagna era consumata dai poveri);
l'uva, anche per ovviare alla deperibilitaÁ, veniva
destinata alla vinificazione.
Importante eÁ stata la bonifica della bassa
Lombardia, portata avanti, a partire dal Mille,
dai monaci cistercensi, la cui opera trasformoÁ
zone boschive o paludose in prati, sviluppando
10
Bonvesin de la Riva nel celebre De magnalibus Mediolani (1288) noteraÁ che, a Milano, fagioli, panico e castagne erano consumati dai poveri in sostituzione del pane.
11
Per quanto riguarda il grana eÁ curiosa la leggenda
all'origine della raspaduÈra ricavata dal grana lodigiano:
dato che questo tipo di formaggio per essere grattugiato
deve avere tre anni di stagionatura, un oste, per risparmiare, acquistoÁ delle forme di grana non ancora stagionato e dunque impossibile da grattugiarsi perche ancora
troppo morbido; l'oste allora pensoÁ di tagliarlo con un
attrezzo (simile a una pialla) che permetteva di ricavarne
delle striscioline sottilissime che si scioglievano in bocca.
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Anche sulla nascita del gorgonzola esistono delle leggende, una racconta di un oste di Gorgonzola che servõÁ
ai suoi clienti delle forme di stracchino andato a male a
causa della fioritura di muffe durante la stagionatura, ma
con sua grande sorpresa i clienti apprezzarono molto il
nuovo formaggio: era nato il gorgonzola. Secondo un'altra leggenda un casaro che aveva interrotto la preparazione del formaggio per passare una notte d'amore, al
mattino aggiunse alla cagliata della sera precedente il
latte appena munto, ottenendo cosõÁ un nuovo tipo di formaggio che fu chiamato gorgonzola.
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Alle pagine successive:
La semina e la raccolta del riso, incisioni dall'opera di Gian
Battista Spolverini La coltivazione del riso, Verona 1758.
cento giorni in cui, per motivi religiosi (dopo la
loro conversione dall'arianesimo al cattolicesimo), i Longobardi si astenevano dal consumo
di carne.
Come giaÁ ricordato, il maiale era giaÁ presente
nella dieta delle popolazioni dell'Italia settentrionale, ma nel Medioevo la sua macellazione
raggiunse lo `stato dell'arte'. Si utilizzava ogni
parte dell'animale che, grazie alla facilitaÁ di allevamento, diventoÁ la principale, se non esclusiva, fonte di carne. Il maiale 12 veniva allevato
allo stato semi-brado nei boschi 13, dove trovava
nutrimento senza pesare sull'economia familiare. La vita rustica che conducevano li faceva
crescere piuÁ lentamente (raggiungendo al massimo i 90 chili) e non venivano macellati nel
primo anno di vita, talvolta si aspettava fino al
quarto. La macellazione, affidata al norcino, avveniva in inverno, spesso a dicembre, anche
perche i mesi freddi erano piuÁ indicati per la
conservazione di salumi 14 e insaccati. Dunque
tutte le parti dell'animale, comprese anche le
meno nobili, trovavano una loro utilizzazione:
il sangue veniva raccolto e usato per preparare
sanguinacci; le ossa, con quel poco di carne che
vi rimaneva, dopo essere state bollite venivano
consumate nei giorni successivi; facendo scio-
gliere le parti adipose del maiale e filtrando il
prodotto si otteneva lo strutto che si conservava
al fresco per evitare che diventasse rancido (si
utilizza ancora oggi per la preparazione di pane,
focacce, dolci e per la conservazione di salumi e
carni); la cotenna era destinata ad arricchire
minestre e zuppe; i pezzetti di carne che si trovavano in mezzo al grasso, nel corso della bollitura, i ciccioli, venivano mangiati fritti. In Valtellina si preparava il salame di rape, un insaccato realizzato col grasso di maiale cui si aggiungevano rape e cavoli sbollentati e tagliati
grossolanamente.
Dopo la scoperta dell'America arrivarono
nuovi prodotti che incontrarono peroÁ molta
diffidenza e si diffusero piuttosto lentamente:
patate, fagioli 15 e mais 16, che fu il piuÁ `fortunato' e del quale si parleraÁ piuÁ avanti. La patata
giunse in Spagna alla fine del Cinquecento e
comincioÁ a diffondersi durante il secolo successivo 17; da principio destinata all'alimentazione
animale, solo nel Settecento entroÁ nell'alimentazione umana e in Italia si affermoÁ ancora piuÁ
tardi, a partire dagli anni Quaranta dell'Ottocento 18. Fra i promotori della coltivazione della
patata in Italia vi fu Alessandro Volta, che nel
corso dei viaggi in Alsazia, Savoia e Svizzera
12
Oltre alla convenienza dell'allevamento semibrado il
maiale ha un'alta `resa', Marvin Harris, nel citato Buono
da mangiare, nota che ``Nel corso della sua vita media un
maiale arriva a convertire in carne il 35% dell'energia
contenuta in cioÁ che mangia; rispetto al 13% degli ovini
e solo al 6,5% dei bovini''.
13
L'estensione dei boschi non veniva misurata in ettari
ma in base al numero di maiali che poteva nutrire.
14
Il termine salame deriva dal latino salumen che significa `insieme di cose salate': la salagione e la temperatura fresca della cantina erano infatti gli unici mezzi per
conservare a lungo le scorte di carne.
15
Il borlotto e il bianco di Spagna introdotti in Lombardia
al tempo della dominazione spagnola sostituirono il cosiddetto `fagiolo dell'occhio nero'.
16
Diverse sono le denominazioni dialettali date al mais.
Francesco Cherubini nel Vocabolario milanese-italiano,
Milano, Libreria milanese, 1997, ripr. facs. ed. Milano
1839 (5 voll.), ne registrava numerose: carlon, cinquantõÁn
formentoÂn, formenton de la famm, melgon, melgon fuseÂr,
melgon gros, melgon invernengh, melgon magengh,
melgon vostaÁn, melgonõÁn, melgoÁtt, quarantõÁn. A proposito di carlon, eÁ poco probabile che il nome sia connesso a
Carlo Borromeo che avrebbe, secondo alcuni, contribuito
in modo determinante alla diffusione del prodotto, dato
che l'epoca di san Carlo eÁ anteriore a quella dell'affermazione del mais in quest'area geografica. L'unica ipotesi possibile suggerisce che l'arcivescovo Borromeo
possa forse aver conosciuto il mais in Veneto, dove era
giaÁ coltivato, e ne abbia caldeggiato la coltivazione, che
tuttavia fu introdotta piuÁ tardi in conseguenza delle carestie. D'altro canto nel 1628, epoca in cui Manzoni colloca
la vicenda de I promessi sposi, la polenta era preparata
ancora con grano saraceno: infatti, quando Renzo si
reca a casa di Tonio (VI capitolo), questi sta preparando
una polenta di grano saraceno: ``... e lo trovoÁ in cucina,
che [...] tenendo, con una mano, l'orlo d'un paiolo, messo
sulle ceneri calde, dimenava, col matterello ricurvo, una
piccola polenta bigia, di grano saraceno.''.
17
La diffusione della patata fu ostacolata da numerosi
pregiudizi, si sosteneva che producesse flatulenze, fosse
tossica e provocasse la lebbra.
18
La resa delle patate eÁ decisamente superiore a quella
dei cereali: un terreno coltivato a patate poteva nutrire un
numero doppio o triplo di persone rispetto alla stessa
superficie coltivata a cereali.
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(1777) ebbe modo di conoscere le opportunitaÁ
offerte da questa pianta e comincioÁ a farla coltivare nelle sue proprietaÁ (a Camurago e Lazzate). Dopo il Volta si impegnarono per la diffusione di questa coltura anche la contessa Teresa
Ciceri Castiglioni e la SocietaÁ Patriottica Milanese. Quando i cattivi raccolti del periodo
1815-17 provocarono crescita dei prezzi, disoccupazione, aumento dei furti campestri e disordini (nel maggio del 1815 a Como, a Varese e a
Milano il popolo diede l'assalto ai forni), le
autoritaÁ esortarono a coltivare patate, ma la
loro diffusione incontroÁ ancora molte resistenze. Nel 1832 don Pietro Monti, docente all'Istituto Lombardo di scienze, lettere e arti e appassionato di agronomia, rilevava la presenza,
nel Comasco, di dieci diverse varietaÁ di patate.
Il riso, per quanto la sua resa sia superiore a
quella del frumento 19, fu a lungo un prodotto
costoso 20, consumato dunque, al di fuori delle
zone di produzione, solo dai ricchi. Per secoli
venne considerato un medicinale: il Tribunale
di Provvisione a Milano nel 1386 stabiliva che
gli speziali non potessero vendere il riso a piuÁ di
12 imperiali la libbra 21. Nel XV secolo comincioÁ a diffondersi in alcune zone del Milanese e
del Pavese, in Piemonte, Veneto ed Emilia, anche se in Italia era conosciuto e coltivato in
alcune aree del Centro-Sud giaÁ dal XII-XIII
secolo. Per merito di Galeazzo Maria Sforza
se ne diffuse la coltivazione in Lombardia; nel
1465 nel Lodigiano venne istituito un `Commissario Ducale ai Risi', segno che la risicoltura
evidentemente doveva aver assunto un ruolo
importante. Nel Cinquecento in Lombardia
giaÁ 5000 ettari erano coltivati a risaia 22.
A proposito del successo del riso, Marco
Garnaschelli Gotti, in La cucina milanese, osserva che le risaie non potevano essere incendiate dagli eserciti invasori e inoltre costituivano un ostacolo al passaggio delle truppe nemiche (in particolare per la cavalleria pesante).
Probabilmente, grazie al fatto che le risaie restavano indenni dalle distruzioni della guerra,
questa coltivazione ebbe un crescente sviluppo.
Il consumo di riso era diffuso soprattutto nelle
zone di coltivazione, chi si nutriva di questo
cereale evitava la pellagra ma era esposto al
rischio dello scorbuto, poiche nelle zone intorno alle risaie, soprattutto a causa del terreno
acquitrinoso, era difficile coltivare verdure e
frutta. Non si coltivavano tutte le varietaÁ presenti attualmente ± l'unica specie diffusa era il
Nostrale ± e solo nell'Ottocento ne arrivarono
di nuove, alcune delle quali, come il Bertone, si
caratterizzavano per la resistenza alle malattie.
In linea di massima si puoÁ affermare che la
maggioranza della popolazione lombarda viveva in una condizione di ``sottoalimentazione dif-
A tal proposito, quando, nella seconda metaÁ del Quattrocento, Galeazzo Maria Sforza invioÁ del riso ai duchi
d'Este fece presente che, se ben coltivato, un sacco di
riso poteva fruttare un raccolto di ben dodici sacchi.
20
Anche i Romani conoscevano il riso, ma lo consideravano un medicinale (Oryza), di cui parla Aulo Cornelio
Celso (I secolo d.C.) nel De Medicina.
21
Una libbra corrispondeva circa a 360 grammi.
22
Tuttavia la coltivazione del riso incontroÁ resistenze soprattutto per motivi igienici: sia in Piemonte che in Lombardia, precise norme di legge prevedevano infatti per le
risaie una distanza minima dagli abitati.
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fusa'' 23, in cui la carne fresca era pressoche assente, a tal proposito Franco Della Peruta, in
Per la storia della societaÁ lombarda nell'etaÁ della
Restaurazione, riporta un passo dell'``Almanacco agrario valtellinese'': ``Le poche volte che ne
puoÁ bollire un pezzetto l'ebbe in dono da qualche vicino, al quale la sventura faceva morire
accidentalmente il porco o la giovenca''. Melchiorre Gioia nella Statistica del Dipartimento
del Mincio, compilata nel periodo 1807-13,
nota nella dieta dei contadini mantovani la presenza di molta polenta, poco frumento, formaggio, riso, cipolla, legumi, vino, ``minuto pesce
preso dagli stessi abitanti'', ``carne talvolta'', e,
inoltre, la carne messa in vendita era spesso di
cattiva qualitaÁ, pratica favorita anche dalla mancanza di adeguati controlli sanitari nonostante
questi fossero previsti da due circolari (9 giugno
1828 e 18 settembre 1848). Guido Bazzoni nel
suo L'alimentazione e le risorse economiche del
popolo minuto di Milano pubblicato nel 1868,
fornisce indicazioni sul vitto di muratori e operai a Milano: pane di mistura, che secondo i casi
poteva essere composta di 7/8 di farina di mais
e 1/8 di farina di segale, oppure poteva essere di
crusca fine o piuÁ tradizionalmente di farina di
frumento e farina di mais in parti uguali; c'era-
no poi la minestra di riso e cavolo condita con
lardo, infine formaggio o pesce salato.
Dai dati dell'Inchiesta agraria, diretta da Stefano Jacini fra 1877 e 1884, la situazione non
sembra cambiata 24, e diventa critica in inverno
quando i braccianti hanno a disposizione poca
polenta, aringhe o peperoni come companatico,
acqua come bevanda e nient'altro. Il contadino
salariato consumava zucchero solo in caso di
malattia. Il ricorso a bevande alcoliche, non
solo vino ma, dalla seconda metaÁ del secolo,
anche grappe (distillati di frutta), peraltro di
cattiva qualitaÁ 25, se da un lato consentiva di
assumere gli zuccheri necessari a continuare il
lavoro, dall'altro, consumate in quantitativi eccessivi, portava conseguenze sanitarie e sociali
facilmente intuibili; ricordiamo che pellagra e
alcolismo 26, sovente collegati, furono, fino ai
primi del Novecento, il principale motivo di
ricovero nei manicomi del Nord e del Centro
Italia. Per quanto riguarda il consumo di vino,
un aumento degli alcolisti si registroÁ a partire
dal 1888, anche a causa della consistente diminuzione del prezzo del vino in conseguenza
della `guerra doganale' con la Francia che era
uno dei principali importatori di vini italiani.
A partire dalla metaÁ dell'Ottocento, con la
23
Nel XVII secolo un contadino, la cui dieta era costituita
da farinate, zuppe e dall'immancabile polenta, disponeva
di circa 2000 calorie al giorno, mentre un benestante,
ricco borghese o nobile che fosse, disponeva di 5000
calorie giornaliere.
24
Anche se Enrico Paglia, autore dell'indagine nel Mantovano, nota differenze nell'alimentazione dei contadini
nelle diverse zone della stessa provincia.
Sovente il vino consumato dai ceti piuÁ modesti era
ottenuto da vinacce, l'insieme delle raspe e di tutto quello
che restava dopo la prima spremitura dell'uva che, con
l'aggiunta di acqua, venivano nuovamente spremute, ottenendo cosõÁ dei vini leggeri e di qualitaÁ mediocre.
26
Fra le cause della diffusione dell'alcolismo vi era anche
la disponibilitaÁ, dopo l'unificazione nazionale, di vino a
basso costo proveniente dall'Italia meridionale.
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Contadini, acquaforte di Francesco Londonio dal dipinto
dell'autore ripreso dal vero, 1763-64 (Civica Raccolta
delle Stampe Achille Bertarelli, Milano).
refrigerazione su scala industriale, la produzione su larga scala del burro, l'invenzione della
margarina, il procedimento per l'inscatolamento dei cibi, il divario fra cucina aristocratica e
borghese si ridusse di molto, mentre la dieta del
contadino, in linea di massima, rimase ancora
molto legata a modelli vecchi di secoli. I contadini che vivevano nelle zone di collina o in
montagna se da un lato erano meno soggetti
alla pellagra, grazie a una dieta piuÁ varia, dall'altro erano piuÁ esposti al rischio del gozzo 27 e
del cretinismo. Le conseguenze della scadente
qualitaÁ dei vegetali erano aggravate dal problema dei furti campestri, per evitare i quali i contadini effettuavano prematuramente la raccolta
con le inevitabili conseguenze negative sulla
qualitaÁ del prodotto. A proposito dei furti campestri eÁ interessante quanto scriveva nel 1841
Zanchi Bertelli nella Storia di Ostiglia: le piante
da frutto erano coltivate ``nelle immediate adiacenze delle case campestri, affine di guardarl[e]
dalla ingordigia della fanciullaglia dei contadini
vicini'' 28.
Nonostante i tentativi di migliorare l'agricoltura (rotazione delle colture, impiego di concimi chimici, impiego di nuove macchine, addestramento professionale, anche tramite le cattedre ambulanti di agricoltura, miglioramento
delle razze allevate) le condizioni di vita restarono molto precarie e se negli anni Sessanta la
mortalitaÁ infantile era del 228 per mille, alla
fine dell'Ottocento era scesa solo a 168 per
mille. Cesare CantuÁ, nella Storia di Varese e
sua provincia, riferisce quanto aveva affermato
il dottor Francesco Visconti, in un discorso in
occasione degli esami nelle scuole reali di Varese nel 1857: ``fra le frutta primeggiano pomi,
pere, pesche, prugne, ciliegie e fichi, si produce
ogni qualitaÁ d'ortaggi. L'olio si spreme dalle
noci, dal seme del lino, dal colsat. Abbondante
famiglia di bestiame pascola nei prati asciutti
delle montagne. Resta peroÁ sempre un fatto
che l'agricoltura varesina eÁ insufficiente alla popolazione''.
Nella seconda metaÁ dell'Ottocento si registrano i primi modesti cambiamenti nelle abitudini alimentari degli italiani, le cause sono diverse: la modernizzazione dell'agricoltura 29; la
crisi economica che dopo il 1880 colpõÁ l'agricoltura italiana provocando una diminuzione
dei prezzi; la retribuzione dei contadini che, a
partire dai primi del Novecento, non fu piuÁ
esclusivamente in natura ma, almeno parzialmente, in denaro 30, e le rimesse degli emigranti;
questi fattori consentirono di acquistare alcuni
alimenti con cui arricchire la dieta monofagica
a base di mais. Ma non mancarono, verso la fine
del secolo, i momenti di crisi: il 1897 fu caratterizzato da un cattivo raccolto che provocoÁ un
aumento dei prezzi. L'anno dopo la situazione
degeneroÁ: il 15 gennaio 1898 il prezzo del pane
aumentoÁ di 5 centesimi al chilo, passando da 45
a 50 (nel primo trimestre del 1897 era di 23,12
centesimi al chilo), a poco valse la riduzione,
Il gozzo, dovuto alla carenza di iodio (sotto 100 mcg/
die), eÁ una tumefazione che si forma nella parte anteriore
del collo, provocata dall'ingrossamento della ghiandola
tiroide (che, per la carenza di iodio, aumenta la secrezione di TSH ipofisario). La conseguenza piuÁ grave della
malattia eÁ il cretinismo, un ritardo mentale che puoÁ associarsi a ipotiroidismo, bassa statura, sordomutismo, strabismo, disturbi della postura e dell'andatura. Il gozzo
come malattia endemica (presente almeno nel 10% della
popolazione) si registrava in aree montuose lontane dal
mare, caratterizzate da un'economia agro-pastorale e
dall'autoconsumo.
28
La citazione eÁ tratta da B. Andreolli, Dal Brolo al frutteto, alle origini della pericoltura nell'OltrepoÁ Mantovano,
in C. Malagoli, Pera nell'OltrepoÁ Mantovano. Studio preliminare per l'indicazione Geografica Protetta, Mantova,
Consorzio Pera Tipica Mantovana, [s.d.].
29
L'impiego delle macchine in agricoltura (la macchina a
vapore vi fu adottata per la prima volta nel 1798, in Gran
Bretagna) ha modificato in modo significativo l'organizzazione del lavoro, tuttavia David Grigg, in Storia dell'agricoltura in Occidente, sostiene che in Europa solo dopo
il 1945 lo sviluppo industriale, attirando manodopera dalle campagne, ha reso indispensabile una rapida meccanizzazione dell'agricoltura. Inoltre la riduzione dei costi
del trasporto ha consentito un reale allargamento del
mercato.
30
Dobbiamo, tuttavia, tener presente che dopo l'unificazione essendo il reddito annuale pro-capite di 196 lire,
contro le 200 dell'Austria, le 428 della Prussia, le 509
della Sassonia, le 650 della Francia, le 775 dell'Inghilterra, i consumi alimentari erano particolarmente bassi.
27
3/2003
46
LOMBARDIA NORD-OVEST
decretata il 20 gennaio, di due lire al quintale
del dazio sul grano. La guerra tra Spagna e Usa,
col blocco delle importazioni, causoÁ un ulteriore rincaro di farina e pane, il 6 maggio a Milano
si verificarono scontri fra manifestanti, polizia
ed esercito che provocarono tre morti e numerosi feriti. Il 7 maggio fu proclamato uno sciopero generale, a causa degli scontri, nel pomeriggio, fu decretato lo stato d'assedio, affidando
pieni poteri al generale Bava Beccaris che l'8
maggio fece usare i cannoni contro i manifestanti provocando circa cento morti e qualche
migliaio di feriti 31.
Ai primi del Novecento la situazione alimentare della maggioranza della popolazione non
era migliorata in modo significativo e un'adeguata alimentazione era riservata solo ai ceti piuÁ
abbienti. I contadini, in linea di massima, con-
31
L'``Illustrazione popolare. Giornale per le famiglie'' (vol.
XXXV, n. 20, 15 maggio 1898) pubblica una cronaca dei
disordini di Milano: ``Scriviamo colla commozione nell'animo, inorriditi a scene selvaggie, a scene di sangue, alle
quali abbiamo dovuto assistere a Milano. [...] In quasi
tutta Italia, cominciarono agitazioni per il pane rincarito
[sic]; poi ribellioni contro la forza pubblica, feriti, morti.
[...] Il movimento comincioÁ il 25 e 26 aprile con disordini a
Faenza; e nella mattina del 27, scoppiarono a Bari. [...] A
Milano, nella sera del 6 maggio corrente, agitazioni, tumulti, morti, feriti [...] Guardie di questura e soldati vengono flagellati da una sassajuola da parte dei dimostranti. La truppa spara e cadono morti, una guardia in borghese e un operajo: quindici sono i feriti, due de' quali
gravi. Ma questo non eÁ che il preludio di scene piuÁ deplorevoli [...] Sabato, 7 maggio, verso le ore 11, una
torma di operaj, preceduti da donne e da ragazzi, si
rovescia sul corso Venezia; arresta i tramways a cavalli
e ne fanno due barricate [...] Un'orda sale ivi, sul palazzo
Saporiti, e arrivata sul tetto da quello si sparge sui tetti
vicini. Anche sui tetti delle case di fronte salgono i rivoltosi [...] e dai tetti vengono allora gettati sulle guardie e
sui carabinieri accorrenti, tegole e sassi. I carabinieri
arrivano anch'essi sui tetti, e laÁ s'impegna, allora, una
furiosa battaglia [...] Alcuni caddero morti, altri feriti...
Questo il principio degli eccessi, che si ripeterono in
modo piuÁ furibondo a Porta Ticinese, dove forti barricate
vennero erette e difese [...] A Porta Garibaldi, s'improvvisarono altre barricate [...] Nella domenica successiva e
nel lunedõÁ, altri conflitti tragici fra truppa e rivoltosi... Lo
stato d'assedio nella cittaÁ e nella provincia di Milano fu
dichiarato nel pomeriggio dello stesso giorno di sabato 7
maggio; il generale Fiorenzo Bava-Beccaris assunse il
comando, quale regio commissario straordinario, con
pieni poteri e spiegoÁ, senza indugio, la massima energia
nel reprimere. Numerosissimi gli arresti. [...] Non bastando i fucili, la truppa adoperoÁ il cannone. A Porta Monforte, l'8 maggio, la rivolta parve accentuarsi: la truppa sparoÁ contro un convento di frati cappuccini, dal quale partivano (pare) colpi contro i soldati. Il convento fu preso, e i
frati vennero arrestati. I morti superano il centinajo; numerosissimi i feriti. Oggi (9 maggio) mentre scriviamo,
tutto eÁ finito; la calma eÁ ritornata. [...]''.
LOMBARDIA NORD-OVEST
47
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La fabbricazione del formaggio, incisione di Giuseppe Elena,
da Cesare CantuÁ, Grande Illustrazione del Lombardo-Veneto,
vol. I, Storia di Milano, Milano, Corona e Caimi, 1858.
tinuavano a mangiare quello che coltivavano. Il
consumo di carne nell'Italia post-unitaria era
molto basso: 13 chili nel periodo 1861-70 e di
poco superiore nel periodo 1901-10; la gran
parte della popolazione considerava la carne
(tagli peraltro poco pregiati) un lusso e ne limitava il consumo ai giorni di festa. Nelle aree
interne il pesce fresco non era disponibile poiche il costo del trasporto per farlo arrivare non
deteriorato avrebbe fatto lievitare talmente i
costi da renderne il prezzo proibitivo. Il consu-
mo di vino era costante ma la qualitaÁ continuava a essere piuttosto scadente, mentre i dolci
erano assenti dalla dieta contadina, eccezion
fatta per alcune semplici preparazioni in occasione di festivitaÁ religiose. Gli alimenti base erano ancora legumi, cucinati nei modi piuÁ vari e
utilizzati anche nella panificazione, verdura e
frutta di stagione, mentre il pane bianco continuava a essere un privilegio di pochi. Per la
famiglia contadina possedere qualche capo di
bestiame era di vitale importanza 32: capre, pecore, galline, oche, l'immancabile maiale e qualche bovino 33, per i piuÁ fortunati, garantivano la
disponibilitaÁ di latte, latticini 34, burro, uova e,
piuÁ raramente, carne, evitando le conseguenze
di una dieta esclusivamente a base di polenta.
Gli animali da cortile si uccidevano solo nei
giorni di festa o quando in famiglia qualcuno
era ammalato e necessitava di un'alimentazione
piuÁ nutriente. La carne era talmente preziosa
che si mangiava sul pane, in modo che neanche
il sugo fosse sprecato. A proposito della scarsa
presenza di carne nella dieta dei contadini, Alberto De Bernardi, trattando della pellagra nell'Ottocento, scrive che ``l'oncia e il grammo 35
costituivano l'unitaÁ di misura con cui quantificare il peso dei cibi di origine animale che entravano nell'arco della settimana nell'alimentazione dei lavoratori dei campi, il resto era sol-
Pierangelo Frigerio, in Luino. Un secolo, 1889-1985,
afferma che nel Luinese piuÁ che la stentata agricoltura
era importante l'allevamento di pecore e capre, accudite
di solito da donne e bambini.
33
Allevare bovini ha sempre richiesto un particolare impegno economico. Chi possedeva qualche capo lo utilizzava per i lavori nei campi o per la produzione di latte. Si
ricordi che giaÁ nell'antica Roma repubblicana i bovini
erano destinati al lavoro e alla produzione di latte, gli
animali venivano macellati solo se inabili al lavoro o ammalati. Una delle leggi delle Dodici Tavole (intorno al 450
a.C.) prevedeva la pena di morte per chi avesse macellato un bue che non fosse ammalato o inabile al lavoro.
34
In un contesto di tipo `autarchico' era indispensabile
conoscere la tecnica per la lavorazione del latte. Appena
munto, era collocato in recipienti bassi dove riposava per
12-24 ore in modo da dare il tempo di affiorare alla panna, che veniva poi tolta con la spannarola, agitata e
sbattuta nella zangola fino a ottenere il burro; questo,
cui si dava ulteriore consistenza immergendolo in acqua
fresca, veniva poi inserito in stampi di legno perche acquistasse una forma regolare. Per la produzione del formaggio, al latte parzialmente scremato si aggiungeva
quello crudo appena munto, il tutto si scaldava in un
paiolo rimestando con un bastone anche per far sõÁ che
la temperatura (fra i 35ë e i 39ë) rimanesse uniforme; la
successiva aggiunta del caglio provocava la coagulazione della caseina, mentre la temperatura veniva elevata a
circa 50ë. Con lo spin (un agitatore costituito da un manico attorno al quale eÁ avvolta una sorta di spirale, talvolta di legno, altre di fil di ferro) la cagliata veniva rimestata continuamente e rotta. Alla fine la massa pastosa
ottenuta era inserita nella fascera (uno stampo circolare
di legno). La forma di formaggio, specialmente nei primi
giorni, veniva rigirata spesso affinche eliminasse completamente il siero (la parte acquosa del latte dopo la
produzione del formaggio). Dopo alcuni giorni si cominciava la salatura, necessaria per la stagionatura.
35
Nell'Ottocento, a Milano, un'oncia corrispondeva a
0,027 chili; a Como corrispondeva a 0,026 chili.
32
3/2003
48
LOMBARDIA NORD-OVEST
Nell'orto, incisione fotomeccanica dall'acquaforte
di LeÂon Augustin Lhermitte, in ``Rivista illustrata settimanale'',
a. V, n. 17, 22 aprile 1888.
tanto polenta e pane di mais'' 36. Cereali 37 e legumi pertanto continuavano a essere il cardine
della dieta contadina; si coltivavano cereali
poco pregiati ma resistenti e redditizi, soprattutto orzo e miglio, mentre fra i legumi venivano piantati fagioli, fave, ceci e, in un secondo
momento, piselli. Le verdure, le rape, le cipolle
erano coltivate in piccoli orti collocati vicino
casa e concimati col poco letame disponibile.
La cipolla era una costante in quasi tutte le
minestre e nel soffritto per i risotti.
La coltivazione dell'orto, la cui cura, come
quella del pollaio 38, era di solito affidata alle
donne, oltre a rendere piuÁ varia la dieta, poteva
permettere di integrare il reddito familiare, dato
che i prodotti migliori o quelli in eccesso erano
venduti al mercato. In base al periodo piuÁ indicato per la semina si cominciava col piantare
l'aglio e si finiva con zucche, zucchine e fagiolini. L'orto permetteva anche di disporre di
piante aromatiche e `medicinali' come la ruta,
la salvia, l'anice, il cerfoglio, l'alloro, l'achillea,
il basilico, la camomilla, la calendula, il crescione, il cumino, il finocchio, la malva, la menta, la
maggiorana, il rosmarino, la ruta, l'aglio, la salvia, il timo, la valeriana. L'aglio era utilizzato
anche per la preparazione di insaccati e nella
zona prealpina, associato alla salvia, costituiva
uno degli ingredienti piuÁ diffusi per risotti, polente, minestre e anche piatti a base di carne.
Con la fine dei privilegi nobiliari, fra cui l'eA. De Bernardi, Il mal della rosa, Milano, Franco Angeli, 1984, p. 44.
37
Massimo Livi Bacci, in Popolazione e alimentazione,
osserva che il `successo' dei cereali dipende dalla possibilitaÁ di prepararli in vari modi, dalla facilitaÁ della loro
conservazione e dai costi relativamente contenuti; per
esempio, prendendo in esame il periodo 1610-19 a Firenze, egli nota come il rapporto costo-caloria sia decisamente favorevole per i cereali, solo per vino e fagioli eÁ
Á probabile che la situazione fosse simile
equivalente. E
anche in altre zone d'Italia.
38
Il pollame era anche oggetto di regalo al medico, al
prete, al farmacista. Le carni bianche raramente si trovavano in macelleria perche la gente preferiva acquistare
carne piuÁ grassa che si conservava meglio. Le uova erano preparate in vari modi: strapassaa, in cereghin (al
tegame), in camisa (affogate), in mugnaga (bollite ma
senza che si rassodassero completamente).
36
LOMBARDIA NORD-OVEST
sclusivitaÁ dell'esercizio venatorio, la caccia comincioÁ a essere praticata per procurarsi carne a
basso costo. Molto diffuse erano le trappole,
come la tagliola, l'archetto (un arco di legno
con un cappio, messo in tensione con uno spago e dotato di un'esca; quando la preda mordeva l'esca l'archetto scattava imprigionando l'animale nel cappio). Soprattutto per gli uccelli di
passo si usava il roccolo realizzato con file di reti
disposte in una zona opportunamente piantumata. Si usavano anche le panie, posatoi costituiti da rami ricoperti di vischio. Il vischio quercino (Viscum album), che cresce sulle querce
49
3/2003
In questa pagina e a fronte:
Caccia agli uccelli con le reti e con il vischio, incisioni a bulino
attribuite ad Antonio Tempesta (1555-1630) (Civica Raccolta
delle Stampe Achille Bertarelli, Milano).
tevano far seccare al sole, rivoltandole periodicamente con un rastrello di legno; per quantitativi maggiori si faceva ricorso alla graÁ, un piccolo locale nel quale, tramite il calore e il fumo,
si essiccavano e poi battevano in modo da liberarle dalla pellicina che le ricopriva; talvolta
venivano raccolte ancora chiuse nei ricci e conservate in locali freschi e asciutti. Era consuetudine, in diverse localitaÁ della Valcamonica,
mangiare castagne nel giorno della commemorazione dei defunti: preparazione tipica di quest'occasione era lo schelt fatto con latte, acqua,
burro, sale e farina di castagne.
La dieta poteva essere integrata da altri frutti
di stagione come nocciole, noci, mele, pere, tuttavia il consumo di frutta non era consistente,
infatti questa era destinata quasi esclusivamente
alla vendita e non all'autoconsumo 40. Tra Medioevo ed etaÁ moderna la frutticoltura fu praticata soprattutto nelle proprietaÁ religiose e signorili ± qualche pianta era presente anche nelle immediate vicinanze delle abitazioni contadine ±, ma ancora nell'Ottocento era poco
sviluppata: gli alberi da frutto erano per lo piuÁ
inseriti in un contesto di agricoltura promiscua,
come pianta parassita, era l'elemento base di
questa caccia; le bacche mature erano raccolte
in estate, dopo un periodo di `maturazione' all'interno di un letamaio, venivano riscaldate e
mescolate con olio di noce fino a creare una
mescola `appiccicosa'. Dopo che l'uccellatore
aveva ripulito un tratto di sottobosco delimitandolo con una siepe molto fitta, si sistemavano le
`panie' col vischio e nei pressi si collocavano
delle gabbie con uccelli da richiamo per attrarre i volatili di passaggio, soprattutto tordi e
fringuelli, che incautamente vi si posavano restando con ali e zampe invischiate, e, caduti a
terra, rimanevano prigionieri all'interno dell'area recintata dalla siepe. L'uccellagione peroÁ
non era ben vista dagli agricoltori che lamentavano lo sterminio degli insettivori, un aiuto prezioso nella lotta contro gli insetti che minacciavano i loro raccolti. Chi possedeva armi da fuoco (un tempo esistevano molte meno restrizioni
all'esercizio venatorio) si appostava in un capanno da caccia, da dove venivano catturati i
piccoli uccelli, passeri, allodole, tordi (che, rosolati con burro e salvia e cotti ancora con l'aggiunta di poco brodo, erano alla base di un
piatto tipico come polenta e uccelli).
L'autunno era il periodo della raccolta delle
castagne. Un modesto quantitativo veniva consumato facendole bollire o arrostire, tutte le
altre venivano fatte seccare 39 e conservate per
l'inverno. Le castagne consumate subito erano,
di solito, quelle raccolte da terra, piuÁ deperibili.
I metodi di conservazione erano diversi: si po3/2003
39
Le castagne secche si facevano rinvenire in acqua
tiepida per 8-10 ore e si cuocevano a fuoco lento affincheÂ
non si sbriciolassero.
40
Il mercato milanese assorbiva gran parte della produzione, Giorgio Gallesio scriveva: ``La cittaÁ di Milano eÁ
l'emporio dei frutti dell'OltrepoÁ, di Lodi, dei laghi e di
Brianza'', ma vi si vendeva anche frutta proveniente dal
Veneto e dall'Emilia.
50
LOMBARDIA NORD-OVEST
fra le piante dell'orto. Per avere un quadro delle
specie coltivate sono interessanti I giornali dei
viaggi di Giorgio Gallesio 41, che fra 1810 e 1839
viaggioÁ in Italia per `inventariare' le piante da
frutto coltivate nel Paese. Gallesio visitoÁ piuÁ volte la Lombardia, i suoi diari documentano la
diffusione di pere, pesche, albicocche, susine e
fichi fioroni; nell'area varesina egli notoÁ la presenza consistente di fichi, nel Varesotto si coltivavano anche diverse varietaÁ di pera e da quest'area proveniva la maggioranza delle pesche
vendute sul mercato milanese. Anche i mirtilli
venivano venduti: per esempio nel 1898 a Locarno il loro prezzo era 20-30 centesimi al chilo 42.
Come condimento, da considerarsi comunque un lusso o quasi, alla polenta si poteva
aggiungere burro fuso con l'aggiunta di salvia,
o un pezzetto di aringa (la `carne dei poveri')
salata o affumicata, oppure del formaggio 43.
L'esigenza di evitare sprechi faceva sõÁ che si
recuperasse di tutto, nel Milanese la sguÈrbia
era un piccolo coltello molto affilato col quale
si asportavano dalla forma i pezzetti di formaggio avariati per evitare che la guastassero, ma i
pezzetti asportati venivano sciolti sulla polenta
calda e mangiati! Anche le polpette erano un
sistema per evitare gli sprechi, consistevano in
un impasto per il quale si riutilizzavano gli
avanzi di pietanze preparate in precedenza.
Nel Comasco, nel Varesotto e nel Milanese si
preparavano le polpette di verza in cui proprio
l'impiego di questa verdura permetteva di riutilizzare anche quantitativi modesti di carne 44.
Per cena spesso si mangiava minestra di riso
oppure di semi di miglio o di panico.
41
G. Gallesio, I giornali dei viaggi, trascrizione, note e
commento di E. Baldini, supplemento a ``I Georgofili, Atti
dell'Accademia dei Georgofili'', s. VII, vol. XLII, 1995.
42
Frigerio, nel suo volume su Luino, ricorda una bambina
di Rancio morta per il morso di una vipera proprio mentre
era intenta alla raccolta di mirtilli.
43
A proposito della presenza costante e pressocheÂ
esclusiva del mais nella dieta contadina, Giuseppe Baretti (in Opere, a cura di F. Fido, Milano, Rizzoli, 1967)
scrive che sulla fetta di polenta i contadini mettevano del
burro e, i piuÁ fortunati, qualche noce o del formaggio.
44
Un trito di carni giaÁ cotte (gli avanzi appunto) viene
impastato con salsiccia, formaggio grattugiato, pane secco ammollato nel latte e prezzemolo. L'impasto cosõÁ realizzato si pone al centro di una foglia di verza lessata che
si arrotola formando un involtino che viene soffritto con
burro, cipolla e pancetta, completando la cottura con vino
bianco e brodo.
LOMBARDIA NORD-OVEST
L'ALIMENTAZIONE IN AREA ALPINA
Potremmo dire che gli abitanti delle zone montane, nel tempo, hanno operato una vera `colonizzazione' dell'ambiente sfruttandone al meglio ogni possibile risorsa e adattandolo alle
loro esigenze. Il terreno scosceso eÁ stato rimodellato con terrazzamenti per coltivare cereali,
frutta ma anche ortaggi e viti. Talvolta i terrazzamenti (le rive, come venivano chiamate in
alcune aree del Varesotto) erano destinate alla
produzione di foraggio per l'allevamento di
51
3/2003
verse varietaÁ di mele erano fra i pochi frutti in
grado di resistere al clima rigido della montagna e potevano essere conservate a lungo nelle
soffitte. Il ciliegio selvatico eÁ uno dei pochi alberi da frutto spontanei delle Alpi.
La segale era il cereale piuÁ diffuso e, grazie al
ciclo vegetativo piuttosto breve, poteva essere
coltivata anche in montagna; macinata dava la
farina scura con cui si faceva il `pane nero'. In
alcune valli lombarde non tutte le famiglie avevano un forno, pertanto utilizzavano quello di
altre famiglie lasciando in cambio alcune forme
di pane in proporzione a quello che avevano
cotto. La panificazione avveniva a intervalli regolari che variavano peroÁ da zona a zona: settimanalmente o a distanza di mesi. Il pane era
conservato in luoghi freschi e arieggiati in
modo che asciugasse bene per potersi mantenere a lungo senza ammuffire. Il frumento, particolarmente nelle zone montane, era poco coltivato e la farina bianca, se utilizzata, serviva per
dare coesione ed elasticitaÁ al pane confezionato
con cereali inferiori 45. Il pane raffermo veniva
impiegato per preparare zuppe (come il pancotto o la panada). Quando era ormai completa-
qualche capo di bestiame (capre e vacche, e piuÁ
di rado pecore); anche i boschi, sfruttati per la
raccolta di castagne e altri frutti piuÁ o meno
spontanei (lampone, mirtillo nero e rosso,
rovo o mora, ribes nero e giallo, fragola di bosco), venivano talvolta abbattuti per ricavare
terreno da pascolo. Per quanto la dieta dei
montanari fosse piuÁ diversificata e piuÁ `ricca'
di quella dei contadini di pianura, le varietaÁ
coltivabili erano piuttosto limitate, principalmente per la brevitaÁ della buona stagione e
per le caratteristiche dei terreni. Inoltre parte
dello spazio coltivabile veniva destinato a specie
non alimentari ma altrettanto necessarie, come
le piante officinali o quelle tessili, la canapa ad
esempio, o quelle per ricavare legname da costruzione o da ardere.
Dalle castagne si ricavava farina, talvolta aggiunta a quella dei vari cereali per fare il pane;
le castagne venivano consumate nel latte, bollite, arrostite e anche secche. Dalle noci macinate
si otteneva un olio alimentare (ma anche da
lampada) e come frutta secca diventavano uno
dei pochi companatici disponibili. Le ghiande,
destinate all'alimentazione dei maiali, in caso di
necessitaÁ potevano essere mangiate anche dall'uomo. Le nocciole, oltre che per l'olio, erano
impiegate, assieme alle noci, per la preparazione dei rari dolci nelle feste tradizionali. Le di3/2003
45
A proposito del pane di mais, ricordiamo che il `pane
giallo' in alcune zone della Lombardia si mangiava, nel
giorno dei morti, con la minestra di `cotiche' e ceci.
52
LOMBARDIA NORD-OVEST
Interno contadino con vecchia che cuoce le castagne,
acquaforte di Francesco Londonio da disegno dell'autore
ripreso dal vero, 1763-64 (Civica Raccolta delle Stampe Achille
Bertarelli, Milano).
Il mais, dal Seicento, comincioÁ a diffondersi
sempre piuÁ; uno dei motivi fu l'alta resa 50, le
sue caratteristiche, poi, lo rendevano adatto al
clima dell'Italia settentrionale. Impiegato in sostituzione di altri alimenti scarsamente disponibili in periodi di carestia 51, diventoÁ col tempo,
sotto forma di polenta, l'alimento principale, e
talvolta unico, della dieta dei contadini 52. Accanto alla polenta di mais comparivano fagioli,
pane di segale o di miglio e formaggio; come
condimento si usava grasso di maiale e, quando
neanche lardo o strutto erano disponibili, si
utilizzavano olio di noce, di lino, di faggio o
addirittura di vinaccioli (i semi che si trovano
nell'acino d'uva), mentre il burro era riservato
ai piuÁ abbienti. Dalla metaÁ del XVIII secolo il
mais sostituõÁ quasi completamente le altre colture cerealicole meno redditizie.
Con la progressiva diffusione dell'agricoltura
capitalistico-imprenditoriale, si creoÁ un cesura
sempre maggiore fra la produzione destinata al
mercato e quella destinata all'autoconsumo,
mentre l'aumento dei prezzi dei generi alimentari rese ancora piuÁ difficile l'acquisto di prodotti che potessero integrare la dieta monofagica. L'esigua parte in danaro del salario dei braccianti 53 sovente non poteva essere destinata all'acquisto di generi alimentari che integrassero
la dieta maidica poiche serviva per spese non
alimentari, spesso per saldare debiti con medico, farmacista o altro. Nelle zone collinari, anche se la proletarizzazione dei contadini non fu
ne completa ne definitiva, le condizioni di vita
peggiorarono a causa dei contratti agrari diventati piuÁ onerosi sia economicamente sia dal
Ancora fino alla metaÁ del Novecento, soprattutto in
campagna, il pangrattato veniva fatto in casa recuperando il pane raffermo.
47
Paradossalmente il grano, principale prodotto dell'agricoltura italiana, era una coltivazione tipica del latifondo,
caratterizzata da basse rese per ettaro: a eccezione della Russia, infatti, non v'era in Europa un altro paese che
coltivasse cosõÁ tanto grano in rapporto alle terre messe a
coltura con rese cosõÁ basse (intorno al 1880, in Italia un
ettaro rendeva 10,50 ettolitri di grano, contro i 15 della
Francia, i 20 della Germania e i 27 dell'Inghilterra).
48
PiuÁ nota con il nome di `grano saraceno', la farina pare
sia stata introdotta nel nostro Paese dai Saraceni al seguito di Ugo di Provenza ({ 947-948), quando questi si
impadronõÁ della corona d'Italia (926).
49
Nuto Revelli ha intitolato Trecentosessantacinque polente all'anno uno dei paragrafi del suo Il mondo dei vinti.
Revelli ha raccolto testimonianze di contadini piemontesi, ma la monofagia della dieta maidica eÁ stata comune
alla povera gente di quasi tutta l'Italia settentrionale.
50
Lodovico Balardini nello studio Della pellagra del grano
turco quale causa precipua di quella malattia e dei mezzi
per arrestarla, edito a Milano nel 1845, nota che la resa
del mais eÁ cinque volte superiore a quella del frumento.
51
Nel 1649, allo scopo di combattere la carestia, una grida a Milano imponeva di vendere al mercato anche il mais.
52
Si possono individuare tre principali tipologie di polenta: quella vedova, senza condimento; quella conscia (o
taragna), condita con burro o formaggio; quella pastizzada, con funghi o altri condimenti come salsiccia, stufato,
pesce.
53
Carlo Cattaneo, a proposito dei salariati, in Saggi di
economia rurale scrive: ``I salariati sono al servigio dell'affittuario ogni giorno dell'anno, anche la festa [...] prolungando il lavoro oltre la notte avanzata, per svegliarsi al
mattino qualche ora prima del giorno [...] La mercede del
salariato varia dalle sei alle dodici lire al mese [...] L'affittaiuolo gli assegna un pezzo di terreno a granturco che
[...] daraÁ un prodotto da 12 a 24 moggia di melgone, di
cui due terzi spettano all'affittaiuolo, e l'altro terzo al salariato. In tanti luoghi peroÁ lo si divide a quarto, spettandogliene solo un quarto [...] per vitto giornaliero riceve
due minestre al giorno con due libbre di pane [...] da
molti fittavoli vi si sostituisce l'equivalente in quattro staia
di melgone al mese. [...] I giornalieri fissi [...] pagano il
fitto dell'abitazione, sono retribuiti d'una mercede che
varia dai 10 ai 12 soldi per ogni giorno che lavorano
[...] per termine medio un giornaliero lavora 240 giorni
all'anno; quindi solo per questo tempo guadagna il vitto
con una mercede media di L. 130 all'anno; da cui se
deduci il fitto di casa, residuano al piuÁ L. 100 [...] Per
giornalieri di piazza ho voluto indicare quella classe di
contadini che con nessun contratto fisso servono or l'uno
or l'altro affittaiuolo per quel tempo che ne abbisogna [...]
e non hanno che il vitto e il guadagno del giorno, con cui
devono a tutto provvedere, anche per la famiglia''.
mente indurito se ne faceva pangrattato (magari
fatto biscottare in forno) e lo si utilizzava ancora 46. Il `pane bianco' di farina di frumento 47 era
prerogativa dei benestanti e presso la gente comune era riservato solo agli ammalati. Dal grano saraceno si ricavava la farina `bigia', ingrediente di varie preparazioni 48.
TRECENTOSESSANTACINQUE POLENTE
ALL'ANNO 49
46
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La raccolta delle pannocchie, silografia da giornale di
Ambrogio Centenari, dal dipinto Ave Maria di Andrea Glisenti,
in ``L'Illustrazione italiana'', a. IX, n. 46, 12 novembre 1882.
A fronte:
La cena, incisione di Luigi Rados su disegno di Roberto Focosi,
1830-31 circa (Civica Raccolta delle Stampe Achille Bertarelli,
Milano).
punto di vista della riduzione della libertaÁ decisionale dell'affittuario, che assomigliava sempre di piuÁ a un lavoratore salariato.
Ai primi dell'Ottocento in Lombardia il mais
rappresentava il cereale piuÁ diffuso, con una
produzione che si aggirava sui due milioni di
quintali all'anno; la polenta gialla diventoÁ cosõÁ
il piatto principale dell'alimentazione contadina 54. A causa dell'incremento demografico registrato nel Seicento, che aveva portato a destinare alla coltivazione dei cereali molti terreni prima utilizzati come pascolo, la disponibilitaÁ di
carne diminuõÁ ulteriormente, portando come
conseguenza la pellagra, che nelle zone di pianura dell'Italia settentrionale era considerata
malattia endemica 55. J.W. Goethe, che aveva
visitato il nostro Paese nel 1786 e nel 1790,
nel suo Viaggio in Italia sottolineava l'aspetto
malaticcio dei contadini e lo attribuiva al ``frequente uso che fanno del granturco e del grano
saraceno'' 56. La polenta dava una sensazione ±
nuova per le classi piuÁ umili ± di sazietaÁ: i contadini al servizio della contessa Cristina Trivulzio Belgioioso nel 1846 dichiaravano di essere
``gonfi e ripieni''. La nobildonna scriveva 57 inoltre che i contadini preparavano grosse forme di
pane di mais che venivano lasciate in forno per
troppo poco tempo 58 e cosõÁ, a causa della cottura parziale, il pane si guastava in poche ore
(``Quella pastrocchia cruda, [...] s'inacidisce in
poche ore''). CioÁ nonostante, i contadini continuavano a mangiarlo anche a diverse settimane
dalla preparazione, con le ovvie conseguenze
per la loro salute (``gli cava [...] anche la salute
da cui eÁ prodotto l'appetito'').
Nel 1852 Filippo Lussana sulla ``Gazzetta
medica italiana - Lombardia'' scriveva: ``In fra
tutti quanti i cibi [...] nessuno presenta cosõÁ per
eccellenza le sciagurate condizioni, che il granturco [...] La carestia, la fame, la inedia poterono distruggere delle popolazioni [...] Ma la
fame e l'inanizione non portarono giammai
54
GiaÁ nel IX secolo a.C. le popolazioni italiche, che coltivavano soprattutto farro e orzo, preparavano, dopo
averli abbrustoliti, una sorta di `polenta' aggiungendovi
anche miglio, grano, semi di lino, coriandolo e sale. Gli
studiosi suppongono che la tostatura servisse a liberare
i cereali dai parassiti. Questa tecnica (descritta da Plinio) era usata anche dai Romani, la cui alimentazione
era caratterizzata dal pult, una polenta a base di cereali
che poteva essere integrata con formaggio, sorta di
`pappa' ottenuta impastando la farina di segale e farro
± per secoli pianta alternativa al frumento ± con acqua e
cucinandola sino a farle assumere una certa consistenza; si utilizzavano anche fraina (meglio nota come grano
saraceno), miglio, sorgo (che potremmo considerare
l'antenato del mais), orzo e, piuÁ raramente, frumento.
Del pult parlano Catone nel De agricultura e Apicio nel
De re coquinaria.
55
Anche chi si nutriva prevalentemente di riso era soggetto a diverse patologie: le `febbri delle risaie', come
nota Giorgio Cosmacini in Storia della medicina e della
sanitaÁ in Italia, erano dovute a paludismo, febbre tifoide,
dissenteria.
56
``Il primo eÁ da loro anche chiamato polenta gialla, l'altro
polenta nera, l'uno e l'altro vengono ridotti in farina e
questa bollita nell'acqua, eÁ alla sua volta ridotta in una
densa pasta, e cosõÁ si mangia''.
57
L'articolo della contessa, intitolato Stato attuale dell'Italia, art. IV: condizione del basso popolo dell'Italia superiore, fu pubblicato a Parigi su ``L'Ausonio'', 1846.
58
Anche la privatizzazione dei terreni contribuõÁ all'impoverimento dei contadini che non ebbero piuÁ l'opportunitaÁ
di sfruttare le terre comunali (presenti soprattutto in montagna ma anche in zone collinari) per pascolo, foraggio e
raccolta di legna da ardere. Proprio la ridotta disponibilitaÁ
di quest'ultima fece sõÁ che, per economizzare la legna, si
aumentassero le dimensioni delle forme di pane e si
riducessero i tempi di cottura; la conseguenza fu che il
pane cotto male risultava difficilmente digeribile, dopo
qualche giorno acquistava un odore sgradevole e ammuffiva con facilitaÁ.
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LOMBARDIA NORD-OVEST
cute si raggrinza e prende color terreo, l'occhio
si fa lucido, incavato, cristallino, colla congiuntiva injettata; tutta la persona assume aspetto di
vecchiezza precoce. I sintomi si esacerbano al
venir della stagione calda. Presto ne rimangono
lese le funzioni principali del sistema dell'inervazione, con vertigini, poi stupidezza che finisce in fatuitaÁ e demenza; e paralisi agli arti, poi
mania, loquacitaÁ, allucinazioni, sussulti nervosi,
e marasmo e morte, talvolta procacciatasi col
suicidio, massime per annegamento. Non tocca
i poveri ne gli agiati della cittaÁ, ma non risparmia gli agiati della campagna. [...] Il peggior
guasto succede ne' contorni del lago di Varese
e nelle terre fra questo e il lago di Como, e nel
distretto di Brivio''.
La preoccupazione del governo austriaco per
la malattia eÁ dimostrata anche dai numerosi
studi sulla pellagra. La fondazione dell'Ospedale dei pellagrosi di Legnano, aperto il 29 maggio 1784, si deve alla volontaÁ dell'amministrazione di conoscere, tramite l'osservazione diretta, le cause della pellagra e gli eventuali rimedi;
come scrisse il cancelliere di stato, principe
Kaunitz, scopo dell'ospedale doveva essere
``non solo assistere que' poveri contadini [...]
ma anche per poterne [...] trovare un sicuro
rimedio''; d'altro canto i posti letto disponibili
risultarono spesso inferiori alle reali necessitaÁ.
La pellagra era conseguenza della carenza di
quel malore orribile, pel quale [...] dovette conseguire una miserabile esistenza, ove l'esaurimento e lo sconcerto della potenza nervosa
consegnano lentamente lo organismo alla morte.''. Anche Cesare CantuÁ nella Storia di Varese
e sua provincia trattoÁ della pellagra: ``la pelagra
[...] estende piuÁ sempre il suo desolante dominio. [...] si appoggia il crederla derivata dal
pane di granturco [...] e vuolsi non si trovi
quel flagello dove non eÁ coltivato il granone, e
dove il contadino si pasce di orzo, patate, latticinj e carni. [...] Ma il danno non deriva tanto
dalla natura del grano, quanto dal mal uso di
esso, adoperandosi non ben secco [...] e foggiandolo in grossi pani che non riescon ben
lieviti, ne abbastanza penetrati dal calore, sicche presto inacidiscono e ammuffano; o in polenta non cotta e rimenata a sufficienza: onde
allo stomaco [...] recasi peso e aciditaÁ. [...] Ne
sussegue una discrasia, per cui cominciano
inappetenza, gonfiezza di ventre, brucior di stomaco, stitichezza o scioglimento, verminazione,
amarezza di bocca, lingua impaniata, sete. Tengono dietro febbri erratiche, congestioni sanguigne ai visceri del basso ventre, al torace,
alla testa, dolori lancinanti per le membra,
emorragie, gonfiore, spossatezza, dimagramento, disquammazione della pelle esposta all'aria,
ragadi e afte alle gengive, alla lingua, alle labbra, palpitazioni, svenimenti, ipocondriasi; la
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cibo'') e tendevano a migliorare l'alimentazione
in modo da irrobustire l'organismo per renderlo meno vulnerabile alla malattia. Si tornoÁ sul
tema pellagra con il testo unico delle leggi sanitarie del 1ë agosto 1907 che, fra l'altro, prevedeva che i Comuni distribuissero ai pellagrosi
gli alimenti integrativi dell'alimentazione maidica. Tuttavia la disposizione di legge non risolse
il problema, che non poteva ridursi a semplice
carenza vitaminica ma aveva radici profonde
nella miseria dei ceti popolari, operai o contadini che fossero; una rima popolare nata nel
1913, in occasione delle elezioni per il collegio
Luino-Gavirate ci testimonia indirettamente la
costante e `inevitabile' presenza della polenta
nella dieta della maggioranza della popolazione:
``Se va su 'r Luchina / pulenta e furmagina;/ se
va su 'r Beltramin / pulenta e sancarlin''.
Fra i vari interventi messi in atto nei decenni
Settanta e Ottanta dell'Ottocento sono da ricordare istituzioni quali le `Cucine economiche',
sorte per preparare e distribuire minestre, e i
`Forni Anelli', cosõÁ chiamati dal nome del loro
ideatore, il parroco Anelli, che avrebbero dovuto produrre pane preparato e cotto correttamente, ma che non ebbero grande diffusione:
furono circa dodici nella provincia di Milano,
sette a Como, tre a Cremona, pochissimi (talvolta nessuno) nelle altre province lombarde.
una vitamina PP (la niacina) o di un amminoacido, il triptofano, che sono presenti nelle verdure, nel latte e nei suoi derivati e nei cereali,
escluso il granturco (il minimo quantitativo di
niacina presente nella farina di mais si disperdeva durante la bollitura necessaria per ottenere la polenta). Se la polenta veniva associata a
proteine animali (formaggi o carni) o ad altri
alimenti come, per esempio, le castagne, si evitava la malattia. La pellagra aveva un andamento stagionale e si manifestava maggiormente in
autunno e in primavera; in un primo stadio
provocava eritemi a viso, collo, braccia e
mani, prurito, arrossamento della lingua, desquamazione e pigmentazione brunastra; in un
secondo stadio si aggiungevano anche una diarrea debilitante e astenia; l'ultimo stadio provocava demenza (tanto da essere considerata una
malattia neurologica). Nel 1880 si giunse a registrare 104.000 casi.
Una legge sanitaria del 1902, per arginare la
pellagra, dettoÁ provvedimenti che miravano alla
diminuzione del consumo di granturco, vietavano la vendita di mais guasto (giaÁ nel 1884, Stefano Jacini, nella Relazione finale dell'Inchiesta
agraria e sulle condizioni della classe agricola,
aveva affermato che ``... lo Stato con severi
provvedimenti [...] dovrebbe combattere ad oltranza [...] l'uso del granturco guasto come
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LOMBARDIA NORD-OVEST
Le Cucine economiche a Porta Nuova in Milano, fotoincisione
meccanica dal disegno di C. Linzaghi, in ``Il Secolo illustrato
della domenica'', a. XIV, n. 637, 30 marzo 1902.
Natale, e largo consumo ne veniva fatto il giorno del mercato a Erba Incino: Ottorina Perna
Bozzi, in La Lombardia in cucina, riferisce che a
Lodi veniva offerta gratuitamente in occasione
della festa del patrono san Bassiano 60.
La cazzoeuÃla eÁ un piatto invernale, particolarmente calorico ed economico, almeno nella versione tradizionale: si tratta di tagli di maiale
poco pregiati (orecchie, puntine, piedi, cotenne, ecc.) cotti con verze (possibilmente la `verza
di Milano'), carote, sedano e cipolle. Ancora
secondo Colombo 61 il termine cazzoeuÃla discende dal latino tardo cattia, derivante forse, a sua
volta, dal greco kyÂatos (che significa coppa a
forma di navicella); il termine cazzoeuÃla, col significato di mestolo, pare risalga alla dominazione spagnola quando, durante le carestie, il
mestolo (cazzoeuÃla) era l'unitaÁ di misura per la
distribuzione ai poveri di un piatto preparato
con le parti meno pregiate del maiale. La cazzoeuÃla, secondo Gianni Rebora, nasce proprio
dall'esigenza di utilizzare quelle parti del suino
che, non potendo essere conservate perche non
adatte alla salagione, venivano bollite, con l'aggiunta di verdure, rape (o patate) e cavoli, dando vita al noto piatto lombardo 62.
Vanno poi ricordati i pizzoccheri della Valtellina (nota anche per la bresaola), tagliatelle di
farina di grano saraceno, cotti con patate, verze,
porri e altre verdure e infornati con formaggio
bitto o scimudin; i casonsei bergamaschi (una
pasta ripiena); i tortelli di zucca, tipici mantovani, con un ripieno di zucca e amaretti; le
mariconde, polpettine di formaggio, pangrattato
e uovo immerse nel brodo; gli agnoli, dei ravioli
ripieni di carne di cappone, cannella, formaggio
e chiodi di garofano.
Anche altre iniziative, come le `Locande sanitarie' e le SocietaÁ cooperative ebbero scarsa diffusione.
Paradossalmente, un fattore che contribuõÁ
alla sconfitta della pellagra fu la crisi che colpõÁ
i mercati italiani dopo il 1880, infatti il brusco
calo dei prezzi, conseguente alla crisi economica, fece sõÁ che vari generi alimentari diventassero accessibili anche ai contadini, non piuÁ costretti cosõÁ alla dieta maidica. Altro fatto importante fu, a partire dai primi del Novecento, la
presenza sempre piuÁ consistente di denaro nella
retribuzione dei contadini. Dopo la prima guerra mondiale la pellagra poteva ormai considerarsi sconfitta, infatti il numero di pellagrosi
registrati dagli ospedali diminuisce sempre di
piuÁ fino a scomparire del tutto.
LA CUCINA LOMBARDA
Nonostante la presenza di alcuni ingredienti
unificanti, come il riso, la cucina lombarda presenta, sia per le vicende storiche che per le
caratteristiche del territorio, differenze e numerose `variazioni sul tema' (basti pensare al risotto, diffuso in tutta la regione ma preparato in
tante varianti).
Milanesi sono il risotto con lo zafferano, il
minestrone, la busecca (una zuppa di trippa),
la cazzoeuÃla, l'ossobuco (ricavato dal garretto
posteriore del vitello e accompagnante il risotto), la costoletta. Piero Colombo 59 afferma che il
termine busecca deriva dal germanico butze che
significa viscere. In questa pietanza le striscioline di trippa vengono cotte a lungo insieme alle
verdure; nelle varie zone eÁ realizzata con qualche variante e puoÁ risultare piuÁ o meno densa,
ma di norma va mangiata col cucchiaio come se
si trattasse di una minestra (con i fagioli bianchi
oppure con verdure, talvolta con patate e piuÁ
raramente col pomodoro, entrato piuttosto tardi nella cucina di queste aree). Ancora Colombo ricorda che i commercianti che frequentavano il mercato che si teneva a Varese erano dei
buoni consumatori di busecca. In Brianza la busecca si mangiava dopo la messa di mezzanotte a
LOMBARDIA NORD-OVEST
P. Colombo, La `busecca', in ``Lombardia Nord-Ovest'',
n. 3, settembre-dicembre 2000.
60
A proposito della Lombardia, Carlo Porta diceva che
era il paes della busecca.
61
P. Colombo, La `cazzoela', in ``Lombardia Nord-Ovest'',
n. 2, maggio-agosto 2000.
62
La cazzoeuÃla ha parenti strette in altre regioni italiane:
Gianni Rebora ne La civiltaÁ della forchetta cita la bollita di
maiale che si prepara a Benevento.
59
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Se la cazzoeuÃla eÁ la piuÁ nota fra i piatti di
carne, un'altra preparazione che merita attenzione eÁ per esempio la faraona alla creta, originaria della Valcuvia. Pare che il singolare
metodo di cottura sia stato introdotto dai Longobardi: la faraona veniva rivestita con della
creta e poi cotta in una buca dove erano stati
posti dei tizzoni, a cottura ultimata si toglieva
lo strato di creta che strappava anche le penne.
Col tempo la preparazione andoÁ `raffinandosi':
farcita con aromi, la faraona viene avvolta in
un cartoccio e poi rivestita con la creta e cotta
in forno.
La varietaÁ di stufati 63 eÁ particolarmente ricca,
fra tutti ricordiamo uno stufato, tipico di Busto
Arsizio, che si preparava in occasione dei pranzi
di fidanzamento: si utilizza coppa di manzo tagliata a pezzi, aromatizzata con alloro, rosmarino, ginepro (appena raccolti), si versa abbondante vino lasciando riposare per circa due giorni; il tutto viene poi cotto con l'aggiunta di
pancetta, burro, cipolla e chiodi di garofano e,
verso la fine, di patate: sono queste ultime che
fanno la differenza fra lo stuÈaa in conscia di
Busto Arsizio e gli altri stufati, che si accompagnano alla polenta.
A proposito di stufato, vale la pena di precisare che nei dialetti lombardi eÁ difficile individuare una distinzione precisa fra i termini stracott, brasaa e stuÈaa indicanti, comunque, tagli di
carne poco pregiati che per diventare teneri
hanno bisogno di una cottura prolungata nel
loro stesso sugo, al quale si aggiunge brodo o
vino. A tal proposito dobbiamo ricordare che
anche cavalli e asini, quando non erano piuÁ
`abili al lavoro', venivano macellati; data l'etaÁ
e il lavoro svolto la loro carne era piuttosto
dura e pertanto la preparazione piuÁ adatta era
lo stufato (coppa, reale, scamone e spalla le
parti utilizzate), cui si aggiungevano patate o
funghi, col quale si condiva la polenta.
Tipici del Varesotto sono i bruscitt (bruscolini), uno spezzatino di polpa di manzo tagliata
fino a ottenere pezzetti molto piccoli (pressappoco delle dimensioni di un fagiolo) che vengono saltati in padella con burro, pancetta, aglio,
pepe e semi di finocchio. La cottura, durante la
quale si aggiunge vino rosso 64, un tempo durava
alcune ore affinche la carne avesse modo di
intenerirsi. Veniva e viene tuttora accompagnato a fette di polenta.
A proposito di preparazioni a base di carne,
molto particolare eÁ il cervellato, un insaccato di
cui esistono varie versioni; una prevede strutto
aromatizzato con spezie varie fra le quali primeggia lo zafferano; un'altra versione prevede
l'impiego di lardo macinato e aromatizzato con
cannella, chiodi di garofano, pepe, zucchero e
acqua di rose; in altre ricette si utilizza anche
del grana finemente grattugiato.
Cremona si associa alla mostarda, che accompagna i bolliti, fatta con frutta candita, miele,
aceto e spezie (l'alternativa alla mostarda, sempre per le carni lessate, eÁ la salsa verde preparata con prezzemolo, tritato finemente, a cui si
aggiungono mollica di pane ammollata nell'aceto, aglio, capperi tritati, un'acciuga lavata,
diliscata e tritata, aceto, olio e sale). Anche se
altre cittaÁ se ne attribuiscono il merito, Cremona si considera patria del cotechino, in origine
un insaccato preparato dai contadini con le
parti piuÁ grasse del maiale. Bergamo viene associata alla polenta taragna 65, tipica anche della
Valtellina, fatta di una miscela di mais e grano
63
Lo stufato nasce anche da un'esigenza `tecnica', in
quanto la lunga cottura rende piuÁ tenera la carne. Prima
dell'Ottocento l'allevamento stabulare era pressocheÂ
sconosciuto, i bovini pascolavano all'aperto (arricchendo
il terreno con il loro letame), ma il moto faceva inevitabilmente sviluppare la muscolatura degli animali e la loro
carne risultava dunque fin troppo soda; per renderla
`morbida' si bolliva e poi si stufava.
64
Il vino era impiegato nella preparazione di carni, come
il brasato e il salmõÁ, per `mascherare' gli odori sgradevoli
della carne mal conservata o troppo frollata.
65
Secondo alcuni il nome deriverebbe da tarello, il bastone col quale si rimescolava durante la preparazione;
in effetti la polenta di fraina (un tempo la polenta taragna
si faceva solo con grano saraceno) tende ad attaccarsi
alle pareti del paiolo con piuÁ facilitaÁ rispetto a quella di
mais ed eÁ dunque indispensabile mescolare ininterrottamente.
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LOMBARDIA NORD-OVEST
Inverno, acquaforte e bulino di Giovanni Volpato su disegno
di Francesco Maggiotto, seconda metaÁ del XVIII secolo
(Civica Raccolta delle Stampe Achille Bertarelli, Milano).
saraceno. Brescia eÁ con tutta probabilitaÁ la patria della polenta con gli uccelli, la provincia
bresciana eÁ, ancora oggi, terra di cacciatori e
dal Medioevo la Valtrompia (Gardone in particolar modo) eÁ il centro della produzione armiera italiana.
Le acque interne ± fiumi, laghi, canali, risaie
± contribuivano all'arricchimento della dieta 66,
per esempio le cucine comasca e varesina 67
sono influenzate dalla presenza dei laghi (Lario
e Verbano) con varie preparazioni a base di
pesce, fra cui i missoltit, pesci (di solito agoni)
che venivano eviscerati ed essiccati all'aria,
quindi sistemati a strati in una sorta di barile
e pressati; si cucinavano a fuoco basso in padella o su una graticola, mettendoli poi nell'aceto,
si servivano conditi con un filo d'olio (un tempo si accompagnavano con la polenta). Fra i
pesci piuÁ consumati ricordiamo l'alborella (pessitt da Sant'Antoni), un piccolo ciprinide che
vive in branchi e ha carni saporite, purcheÂ
non si consumi in estate quando, a causa dell'alimentazione, diventa amaro; le alborelle vengono consumate fresche, salate, seccate al sole 68
66
Non sempre ci si poteva dedicare liberamente alla pesca, nel Varesotto, per esempio, dei diritti di pesca erano
spesso titolari famiglie nobili; Pierangelo Frigerio in Luino. Un secolo, 1889-1985 scrive che sul lago Maggiore la
pesca era riservata, quasi esclusivamente, ai pescatori
delle isole Borromee che ne avevano la concessione dai
Borromeo. Non potendosi dedicare alla pesca, alcuni
impiantarono allevamenti ittici introducendo coregoni e
trote nei laghi di Ghirla, Ganna e Delio. Anche in alcuni
punti del lago Maggiore con opportuni sbarramenti si
crearono delle peschiere.
67
C. CantuÁ, in Storia di Varese e sua provincia, scrive:
``Fra i pesci del lago di Varese primeggiano tinche, anguille, lucci, ciprini e persici''.
68
Fino ai primi del Novecento a Cazzago Brabbia erano
messe a seccare sul sagrato della chiesa.
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e in carpione 69, sottoposte cioeÁ a un processo di
acidificazione che blocca i processi di decomposizione (dopo essere state fritte vengono bollite con aceto e vino) 70. Vi sono poi l'agone, il
cavedano, che non ha un grande valore commerciale per le numerose spine, il coregone,
saporito e con poche spine, il persico, che privato della `pelle' ha carni delicate che lo hanno
sempre reso particolarmente ricercato.
Tra i piatti a base di riso, oltre al celeberrimo
risotto alla milanese, con lo zafferano, vi sono
anche quello comasco con i filetti di pesce persico, quello con la salsiccia tipico della Brianza,
il risotto alla certosina, che a Pavia viene preparato con gamberi 71, funghi e piselli. Un altro
piatto eÁ il riso in cagnone il cui nome deriva
dall'aspetto dei chicchi di riso, che dopo la cottura assomigliano alle larve degli insetti (cagnuÁn
in dialetto).
Il risotto allo zafferano eÁ fin troppo conosciuto, vale peroÁ la pena di ricordare la leggenda della sua origine (della quale, come spesso
accade per le leggende, esistono alcune varianti): nel Cinquecento fra gli artigiani impegnati
nella realizzazione delle vetrate del Duomo c'era un tale Valerio di Fiandra, famoso per i colori smaglianti che otteneva aggiungendo dello
zafferano alle varie combinazioni. Gran bevitore, spesso andava al `Bettolino de Preti', allora
noto per la buona qualitaÁ del vino che vi si
serviva. La figlia di mastro Valerio, che sovente
si recava all'osteria per riportare a casa il padre,
finõÁ con l'innamorarsi del figlio dell'oste. Durante il banchetto di nozze un garzone di bottega di mastro Valerio, segretamente innamorato della figlia del padrone, per gelosia pensoÁ di
rovinare il riso gettandovi una manciata di zafferano, ma l'effetto fu opposto: il risotto profu-
mato e colorato dallo zafferano fu la portata piuÁ
apprezzata sia dal punto di vista estetico che
per il gusto e cosõÁ la ricetta ebbe rapida diffusione e lunga fortuna. Volendo restare piuÁ legati
al dato storico, dobbiamo considerare che nei
banchetti medievali e rinascimentali era diffusa
la pratica di rivestire d'oro i cibi prima di portarli in tavola, sia per ostentare la ricchezza del
padrone di casa sia perche convinti che l'oro
avesse particolari caratteristiche che miglioravano la qualitaÁ delle pietanze. Probabilmente lo
zafferano permetteva anche ai meno abbienti di
colorare di giallo oro le loro pietanze.
In tutta l'area prealpina era conosciuta la
zuÈpa de imbroj, non una semplice pietanza,
ma una zuppa che si riteneva avesse lo stesso
potere di un filtro d'amore: veniva preparata
con ortaggi e verdure (fagioli borlotti, piselli,
patate, carote, porro, sedano, prezzemolo,
aglio, basilico, salvia, una cipollina, un pomodoro, un cuore di cavolo verza, lardo e burro)
che dovevano essere raccolti `di nascosto',
dopo un temporale notturno, all'approssimarsi
dell'alba; si offriva, accompagnata con una fetta di pane giallo raffermo, al giovane che la
ragazza voleva far innamorare e questi doveva
mangiarla fuori dalla porta di casa. Soddisfatte
queste condizioni, il giovanotto si sarebbe innamorato (forse ci si riferisce a filtri d'amore
di questo tipo quando si dice `prendere per la
gola').
I dolci erano rari, quelli che si preparavano
in alcune occasioni particolari erano molto
semplici e realizzati con ingredienti `poveri',
mostazzitt e giromett, ad esempio, sono tipici
di Varese e, in particolare, sono legati al Sacro
Monte. I primi venivano preparati dalle suore
in occasione di particolari ricorrenze, la ricet-
69
P. Colombo ne Il carpione, in ``Lombardia Nord-Ovest'',
n. 2, maggio-agosto 2002, afferma che il carpione eÁ un
salmonide che vive nel lago di Garda.
70
GiaÁ gli ateniesi adottavano un'analoga tecnica di conservazione del pesce, ridotto in pasta oppure in filetti e
conservato con aceto e vino.
71
Il risotto con i gamberi d'acqua dolce ormai eÁ impossi-
bile da preparare poicheÂ, a causa dell'inquinamento delle
acque, mancano proprio i gamberi, un tempo richiestissimi soprattutto dal mercato milanese (tanto che non
sempre si riusciva a soddisfare la richiesta). Ottorina
Perna Bazzi in La Lombardia in cucina sostiene che
una delle ultime zone che ha fornito gamberi d'acqua
dolce eÁ stata la Valganna.
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LOMBARDIA NORD-OVEST
renza, il forno della famiglia di Adalgisa si trovoÁ
in difficoltaÁ, Ughetto inventoÁ, con l'aggiunta di
burro e zucchero, un nuovo e particolare tipo
di pane. Incoraggiato dall'immediato successo
della preparazione, Ughetto fece un'ulteriore
aggiunta, le uova: era nato il panettone. Il successo fu ancora maggiore e la migliorata situazione economica della bella fornaia convinse gli
Atellani ad acconsentire alle nozze fra i due
giovani. Secondo un'altra leggenda il panettone
sarebbe stato inventato, nel XIV secolo, da un
certo Toni, cuoco degli Sforza, che avendo bruciato il dolce natalizio che stava preparando ne
dovette `inventare' uno in tutta fretta: alla pasta
di pane aggiunse spezie e frutta candita, mettendo tutto in forno; il dolce creato estemporaneamente ebbe grande successo e fu battezzato
pan de Toni, da questo nome a `panettone' il
passo fu breve.
ta 72 originale non prevedeva uova (troppo costose) ne zucchero, non ancora disponibile, sostituito dal miele, mentre l'uso di spezie ne denuncia l'origine medievale. Sulle bancarelle dei
venditori ambulanti, un tempo numerosi intorno al santuario, si potevano trovare i giromett
(destinate soprattutto ai bambini), un curioso
biscotto secco a forma di soldato e decorato
con strisce di carta colorata e piume.
La farina di mais era utilizzata anche per
dolci come la torta sbrisolona di Mantova e la
polenta fritta, con burro e spolverata di zucchero. Per la preparazione di dolci semplici (in
realtaÁ pani speziati) si impiegavano noci e nocciole (torta di noci della Valmalenco, pan strõÃa
della Brianza, panon della Valtellina), altri ingredienti erano mele e pere che, grazie alla presenza di zuccheri, sopperivano alla mancanza
dello zucchero di canna, dal costo proibitivo,
e del miele. Altro componente dei dolci `poveri'
era il mosto cotto, ottenuto dal mosto fatto bollire fino a che non si addensava e usato per
preparare biscotti (per esempio i mostazzitt),
anche questo era un dolcificante a basso costo
che, inoltre, aveva il pregio di poter essere conservato a lungo.
Arcinoto eÁ il panettone sull'origine del quale,
come per il risotto allo zafferano, esistono diverse leggende. Una di queste vuole che, intorno alla fine del Quattrocento, Ludovico il Moro
donasse a un suo scudiero, Giacometto Atellani, una casa nei pressi di Santa Maria delle
Grazie. Vicino a casa Atellani si trovava un forno e Ughetto, figlio di Giacometto, si innamoroÁ
di Adalgisa, la figlia del fornaio. Data la differenza di ceto, la famiglia osteggiava l'amore fra i
due giovani che potevano incontrarsi solo clandestinamente. Quando, a causa della concor-
Poco rimane da dire, in questa breve trattazione, sul periodo che va dal secondo dopoguerra alla metaÁ degli anni Cinquanta, periodo
in cui si avvia una ripresa dell'economia caratterizzata soprattutto da uno sviluppo dell'industria che daraÁ vita al `boom economico'. La
dieta degli italiani diventa piuÁ varia, la carne
non eÁ piuÁ riservata agli ammalati o consumata
solo nelle grandi feste, ma compare sulla tavola
almeno una volta alla settimana. Il `benessere'
arriva anche nelle campagne sia per l'accresciuto potere d'acquisto dei contadini sia per la
diffusione sempre maggiore dei negozi. Negli
anni Sessanta si registra un notevole aumento
del consumo di carne bovina, anche latticini,
verdura e frutta si diffondono sulle tavole degli
italiani, indipendentemente dal ceto sociale,
mentre l'olio di semi e soprattutto d'oliva sostituiscono il lardo.
CosõÁ come ho aperto, chiudo con un vecchio
proverbio varesotto, anche questo testimonia
l'esigenza di `riempirsi la pancia' e non lasciarsi
sfuggire nessuna opportunitaÁ: ``PuÈtost che roba
vanza, creÂpa panscia'', piuttosto che far avanzare cibo eÁ meglio farsi scoppiare la pancia. E
come dargli torto?
La ricetta dei mostazzitt eÁ presente anche in un ricettario del celebre Bartolomeo Scappi (notizie 1536-1567).
Originario di Dumenza, fu uno dei piuÁ famosi cuochi del
XVI secolo. Al servizio dei papi Pio V e Giulio II, scrisse
uno dei piuÁ celebri trattati di gastronomia del Rinascimento: Opera di Bartolomeo Scappi, cuoco secreto di
Papa Pio V.
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