Untitled - Barz and Hippo
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Untitled - Barz and Hippo
Forse la sorpresa più grande nel cinema italiano dell'ultimo anno, premiatissimo ai festival, piaciuto al pubblico, elogiato dalla critica, quello di Mainetti è un film magico: dal celebre manga di Gō Nagai nasce infatti un superhero movie all'americana meglio degli americani e che piace anche ai giapponesi, cinefilo quanto basta, ma con una viva presa sulla realtà italiana. Cosa desiderare di più? scheda tecnica durata: nazionalità: anno: regia: sceneggiatura: fotografia: effetti speciali: montaggio: musiche: presa diretta: scenografia: costumi: trucco: produzione: distribuzione: 118 MINUTI ITALIA 2016 GABRIELE MAINETTI NICOLA GUAGLIANONE, MENOTTI MICHELE D'ATTANASI O CHROMATICA ANDREA MAGUOLO GABRIELE MAINETTI, MICHELE BRAGA VALENTINO GIANNI' MASSIMILIANO STURIALE MARY MONTALTO GIULIO PEZZA GOON FILMS, RAI CINEMA LUCKY RED interpreti: CLAUDIO SANTAMARIA (Enzo Ceccotti), ILENIA PASTORELLI (Alessia), LUCA MARINELLI (Fabio Cannizzaro detto Zingaro), STEFANO AMBROGI (Sergio), MAURIZIO TESEI (Biondo), FRANCESCO FORMICHETTI (Sperma), DANIELE TROMBETTI (Tazzina), ANTONIA TRUPPO (Nunzia Lo Cosimo), GIANLUCA DI GENNARO (Antonio), SALVATORE ESPOSITO (Vincenzo) premi e nomination: 2016, 7 premi e 10 candidature ai David di Donatello: miglior regista esordiente, miglior produttore, miglior attrice protagonista a Ilenia Pastorelli, miglior attore protagonista a Claudio Santamaria, miglior attrice non protagonista a Antonia Truppo, mig lior attore non protagonista a Luca Marinelli, miglior montaggio; nomination per la miglior sceneggiatura, fotografia, musica, scenografia, costumi, trucco, acconciature, fonico di presa diretta, effetti speciali; Nastro d'argento, 9 candidature per la miglior regia, produzione, sceneggiatura, fotografia, scenografia, costumi, colonna sonora e come miglior attore protagonista a Claudio Santamaria e attore non protagonista a Luca Marinelli; Globo d'oro come Miglior film; Ciak d'oro per la miglior opera prima a Gabriele Mainetti, migliore attore non protagonista a Luca Marinelli, migliore colonna sonora e migliore manifesto a Daniele Moretti per Big Jellyfish; Imagine Film Festival di Amsterdam: Silver Scream Award. Gabriele Mainetti Nato a Roma nel 1976, Gabriele Mainetti si laurea in Storia e Critica del Cinema presso l'Università degli Studi Roma Tre. Accanto allo studio teorico, si interessa al mondo del cinema anche da un punto di vista produttivo: dopo la laurea frequenta corsi di regia, direzione della fotografia, produzione e sceneggiatura presso la Tisch School of the Arts di New York. Non manca inoltre la pratica attoriale: la sua formazione d'attore è legata ai laboratori e ai corsi tenuti a Roma da Beatrice Bracco, Francesca De Sapio, Nikolaj Karpov e Michael Margotta. Prima di vederlo all'opera dietro la macchina da presa, partecipa come interprete a numerosi film: per il grande schermo ricordiamo Il cielo in una stanza (1999, di Carlo Vanzina), e Un altr'anno e poi cresco (2001, di Federico Di Cicilia). E' protagonista inoltre di alcune fiction televisive, tra le altre le serie TV Stiamo bene insieme (2002, di Elisabetta Lodoli e Vittorio Sindoni) e Tutti per Bruno (2010, regia di Stefano Vicario), al fianco di Claudio Amendola e Antonio Catania. Per non tralasciare nessun aspetto del panorama mediale, sviluppa un grande interesse per la musica, tanto da frequentare corsi di composizione e arrangiamento presso il Saint Louis College of Music di Roma. Firma quindi le colonne sonore dei suoi cortometraggi e di alcuni documentari. La sua vera passione però rimane la regia. Con il cortometraggio Basette (2008), scritto da Nicola Guaglianone, con Valerio Mastandrea, Marco Giallini, Daniele Liotti e Luisa Ranieri, partecipa ad oltre 50 festival iniziando a farsi notare anche a livello internazionale. Nel 2011 fonda la società di produzione Goon Films con la quale realizza Tiger Boy (2012), cortometraggio in cui già compare l'ambivalenza del ruolo del supereroe. Finalista ai Globi d'Oro 2012 e al David di Donatello 2012, secondo classificato al 42° Giffoni Film Festival, vince il Nastro d'argento 2013 . Esordisce nel lungometraggio con l'originale Lo chiamavano Jeeg Robot (David di Donatello come miglior regista esordiente, oltre che a tutti gli attori), presentato alla Festa del Cinema di Roma 2015 e interpretato da Claudio Santamaria e Luca Marinelli. La parola ai protagonisti Intervista al regista Dopo il successo del tuo film, si può dire che in Italia ci sarà un prima e un dopo rispetto a Lo chiamavano Jeeg Robot. Ora magari i produttori classici proveranno la strada del superhero movie giusto per cavalcare l’onda. Come la vedi? Mi auguro che nascano una serie di produttori anche giovani che investano i soldi in film belli, emozionanti, e lì ci può essere anche la storia di un supereroe, come abbiamo visto dal nostro film. Non state a dire che adesso rinasce il genere, la bellezza di un film esula dal genere. Prima si diceva che un film come il nostro non si sarebbe potuto fare perché gli italiani non l’avrebbero guardato. Non è vero. Basta che hai una bella storia da raccontare, la puoi pure ambientare sulla luna. Un po’ come Moon di Duncan Jones, un film semplice che è costato poco e ha reso tanto. Si è parlato un sacco delle performance strepitose di Claudio Santamaria e Luca Marinelli. Ho letto da qualche parte che invece Ilenia Pastorelli, dopo il provino, non era stata scelta per il ruolo di Alessia. Oggi potresti mai vederci un’altra attrice in quella parte? Guarda, durante i provini avevo visionato una trentina di attrici dell’età del personaggio e non mi convincevano. Ce n’era una che poteva andare bene perché aveva un dolore importante, ma non aveva quel tessuto romano, c’avrebbe dovuto lavorare sopra e ci credo fino a un certo punto che si possa tirar fuori quel carattere lì. Ilenia venne a fare l’incontro ma non si ricordava niente, l’aveva preparato un po’ con la mano sinistra e dissi “Sì, è brava ma non può sostenere un personaggio così importante”. Dopo una settimana mi chiama il casting dicendo di aver ricevuto una telefonata dalla Pastorelli che vorrebbe rifare il provino perché ha capito delle cose. È tornata e ha fatto un provino che m’ha lasciato a bocca aperta. Lei però era alle prime armi e l’ho mandata da un mio amico a fare un po’ di training. Al terzo provino è entrata in ballottaggio con l’altra attrice che dicevo prima e alla fine ho puntato sulla romanità del personaggio. Non è stato facile per niente perché recitare, a prescindere dal talento è anche saper prendere la luce, mantenere il punto, prendere il segno, non impallare l’altro attore. Ilenia ha un ritmo naturale, quindi non avrei potuto fare le robe stilistiche tipo carrellata e quando s’avvicina la macchina, l’attrice alza la testa e dice la battuta. Però era talmente ricca di un vissuto neorealistico che dovevamo andare con quello. Ti dico una cosa: Ilenia è stata eccezionale in quel ruolo, però era un ruolo già eccezionale di suo, questo va riconosciuto agli sceneggiatori Menotti e Nicola Guaglianone, che hanno scritto un personaggio femminile meraviglioso. In tanti sperano in un sequel: è possibile? Perché no? Guarda, non ci lanceremo mai in un sequel del quale non siamo convinti, e per essere convinti dobbiamo avere dei personaggi tridimensionali, emozionanti. Ci dobbiamo fidare di noi, c’è chi dice che lo dobbiamo assolutamente fare, chi dice che dobbiamo finire qua, c’è addirittura chi chiede la serie. Noi adesso ci ragioniamo perché all’inizio pensavamo “Jeeg farà un milione, un milione e due, c’ha il suo percorso.” È arrivato a quattro milioni e mezzo di euro. A parte per il soldi ma quando vedi che 700.000 persone sono andate a vedere il film e ti chiedono ancora storie di Enzo Ceccotti, ti fa pure piacere poter pensare di raccontarne altre. Non si deve pensare che con personaggi o interpreti diversi non si riesca a fare un film del genere, troveremo altri personaggi e ci lavoreremo per renderli altrettanto interessanti. A proposito dei David, immagino che qualche tuo collega abbia rosicato… Certo, molta gente non mi ha chiamato quindi penso abbia rosicato, però mi hanno chiamato tante altre nuove persone. Quando ho preso il David come miglior regista esordiente avevo staccato il telefonino, poi l’ho riacceso e sono arrivati più di 1500 messaggi, il telefonino sembrava impazzito. A parte gli amici cari che non fanno questo lavoro e che erano contenti per me, la cosa più bella è stata sentire sui social le persone che esultavano. Io dal palco ho ringraziato le persone che sono andate a vedere il film la prima settimana e che poi hanno incoraggiato amici o conoscenti ad andare in sala. Questa gente mi ha detto “Quando hai ricevuto il premio era come se l’avessi vinto anch’io, perché c’ho creduto come te” e mi ha emozionato tanto, perché il film è di tutti, il cinema è di tutti, non lo puoi fare per te, è un’arte di puro intrattenimento che dev’essere condivisa. Anche nel girarlo è un lavoro collettivo. C’è la visione del regista ma si collabora con un sacco di gente, dallo sceneggiatore che è un po’ la mamma del film al produttore ma anche al montatore, allo scenografo, al direttore della fotografia e via dicendo. Ognuno ha una visione che contribuisce a formare ciò che sarà il film e poi la storia non finisce finché non viene partecipato nelle sale dal pubblico, è lì che il film diventa di tutti. È stata una bella cosa. Una cosa che mi sono sempre domandato, quando esce un film che cita così evidentemente un personaggio o un altro film è come funz iona coi diritti d’autore? Tramite un avvocato abbiamo contattato la Toei Animation e siamo entrati in possesso dei diritti d’immagine di un minuto di un cartone. Abbiamo pagato e bon, ma la cosa assurda è che non avevamo i diritti dell’audio, quindi lo abbiamo ricopiato noi: io, Claudio Santamaria e la mia ragazza, tutta la puntata, facendo le voci e cambiando le battute perché non potevamo utilizzare quelle dell’episodio. In seguito abbiamo comprato i diritti editoriali della sigla italiana e l’abbiamo ricantata. Non sto parlando di quella finale riarrangiata, parlo proprio della sigla classica del cartone animato di Jeeg: l’abbiamo risuonata e anche lì è Santamaria che canta, imitando il vocione del cantante originale. Corri ragazzo laggiùùùùù… è lui. Non è il master originale perché ci costava troppi soldi. Hai suonato anche la colonna sonora, dì la verità: ti sei sentito un po’ Carpenter? Certo, infatti se senti i bassoni anni ’80 sono proprio un omaggio a lui. Io ho iniziato a suonare molto presto, ho studiato pianoforte, chitarra classica e elettrica, poi ho fatto dei corsi di composizione, però dopo l’elettrica ho iniziato a fare corsi di regia e prima ancora di recitazione perché volevo fare di tutto. La musica è nata prima, ho uno zio che è compositore di colonne sonore che mi ha iniziato a quel mondo. Comunque l’evento chiave che mi ha fatto diventare regista è questo: stavo al cinema Maestoso a Roma, ho visto Il Corvo di Alex Proyas, tratto dai fumetti di James O’ Barr, avevo 17 anni e mi sono detto “Cazzo, voglio fare questo lavoro.” Tra l’altro aveva una bomba di colonna sonora. Eh ci stavano i Cure, gli Stone Temple Pilots, i Violent Femmes… Continuando coi riferimenti nerd, in Giappone hai conosciuto Go Nagai, il creatore di Jeeg Robot: com’è stato l’incontro? È stato splendido. Ero sul palco con un moderatore che mi faceva le domande e intanto mi angosciavo al pensiero che non gli fosse piaciuto il film e che se ne stesse seduto in prima fila per cortesia. Quando il moderatore ha chiesto chi volesse fare domande dal pubblico, Go Nagai è stato il primo ad alzare la mano e io mi son detto “Eccoci, ora mi dice qualcosa che mi distrugge” . Invece lui mi guarda e mi dice “Quando lo fai il sequel?” Mi ha spiazzato perché mi ha fatto un sacco di complimenti, mi ha detto che il film è meraviglioso e mi ha elencato una serie di citazioni cinematografiche che mi hanno anche sorpreso, facendomi capire che ne sa di brutto anche di cinema. Ero la persona più felice del mondo e come se non bastasse, anche le domande del pubblico sono state molto belle, perché i giapponesi hanno un ottimo rapporto con la cinematografia. Qualcuno ha visto una relazione tra il mio film e Takeshi Kitano, per il modo di trattare la violenza e l’ironia e mi ha colpito, perché è uno dei miei registi preferiti in assoluto. Insomma, alla fine sono sceso giù a ringraziare Go Nagai, “Arigato sensei” e lui mi ha chiesto cosa facevo a cena, poi mi ha portato a cena con sua moglie e Claudio Santamaria che era con me. È stata una cosa assurda, essere rispettato e benvoluto dal maestro, non avrei mai creduto. Mi ha portato una maglietta di Devilman, un pupazzetto di Jeeg Robot e un almanacco di tutti i suoi lavori dal 1967 al 2007 su cui in prima pagina ha disegnato Jeeg con la dedica. Nel film c’è tantissimo rispetto per il lavoro di Go Nagai. Chiaramente non si può pensare di riprodurre filologicamente un mecha, un cartone animato con i robottoni a parte perché non ci sono i capitali per produrre un film del genere in Italia, ma poi perché è una cultura che ci appartiene per certi aspetti in modo filtrato, che noi abbiamo utilizzato come strumento per raccontare la nostra di storia. Recensioni Gabriele Niola. Mymovies.it (...) Quello tentato da Gabriele Mainetti è un superhero movie classico, con la struttura, le finalità e l'impianto dei più fulgidi esempi indipendenti statunitensi. Pensato come una "origin story" da fumetto americano degli anni '60, girato come un film d'azione moderno e contaminato da moltissima ironia che non intacca mai la serietà con cui il genere è preso di petto, Lo chiamavano Jeeg Robot si muove tra Tor Bella Monaca e lo stadio Olimpico, felice di riuscire a tradurre in italiano la mitologia dell'uomo qualunque che riceve i poteri in seguito a un incidente e che, attraverso un percorso di colpa e redenzione, matura la consapevolezza di un obbligo morale. Il risultato è riuscito oltre ogni più rosea aspettativa, somiglia a tutto ma non è uguale a niente, si fa bello con un cast in gran forma scelto con la cura che merita ma ha anche la forza di farlo lavorare per il film e non per se stesso. Claudio Santamaria è il protagonista, outsider da tutto, un po' rintronato e selvaggio, avido, alimentato a film porno, pieno di libido ma anche dotato della dirittura morale migliore; Luca Marinelli è la sua nemesi, piccolo boss eccentrico e sopra le righe, spaventoso e sanguinario con i suoi occhi piccoli e iniettati di follia ma anche malato di immagine (ha partecipato a Buona Domenica anni fa e sogna di diventare famoso e rispettato con il crimine), l'anello di congiunzione tra la borgata di Roma e il Joker. Intorno a loro un trionfo di comprimari tra i quali spicca (per adeguatezza alla parte e physique du role) Ilenia Pastorelli. Il duo creativo Mainetti/Guaglianone (regia e sceneggiatura) si era già fatto notare anni fa, prima mettendo in scena Lupin III con attori romani (tra cui Valerio Mastandrea nella parte principale) nel corto Basette e poi con Tiger boy (alla lontana ispirato a L'uomo tigre). I due, con la collaborazione alla sceneggiatura di Menotti, hanno così costruito un percorso creativo e tecnico originale centrato sulla forza dell'ispirazione. Ciò che nel loro primo lungometraggio emerge infatti è come le storie che assorbiamo influenzino la nostra vita, come siamo i primi a desiderare una narrazione di noi stessi. (...) Ma anche a un livello più immediato quello di Lo chiamavano Jeeg Robot è un trionfo di puro cinema, di scrittura, recitazione, capacità di mettere in scena e ostinazione produttiva, un lungometraggio come non se ne fanno in Italia, realizzato senza essere troppo innamorati dei film stranieri ma sapendo importare con efficacia i loro tratti migliori. Soprattutto è un'opera che si fa portatrice di una visione di cinema d'intrattenimento priva di boria e snobberia intellettuale, una boccata d'aria fresca per come afferma che il meglio di quest'arte non sta nel contenuto o nel tema ma nella forma (da cui tutto il resto discende). Nonostante un budget evidentemente inadeguato al tipo di storia Lo chiamavano Jeeg Robot è un trionfo di movimenti interni alle inquadrature, di trovate ironiche e invenzioni visive, un tour de force di montaggio creativo e fotografia ispirata (per non dire di effetti digitali a costo contenuto), tutto ciò che serve per raccontare un mito senza crederci troppo e divertendosi molto. Stefania Ulivi. Il Corriere della Sera È brutto, sporco, all’apparenza anche abbastanza cattivo. Si chiama Enzo Ceccotti, una specie di Accattone inacidito, nato ai bordi della periferia romana, in una Tor Bella Monaca cupa come non mai. Quando si accorge di avere dei superpoteri non sa neanche cosa farsene. Di salvare il mondo non ha nessuna intenzione. «È totalmente privo di senso civico: è un solitario, egoista e misantropo. Pensa solo a se stesso, a come sopravvivere in un contesto durissimo», spiega Claudio Santamaria, il protagonista di Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti. (...) Benvenuti nel neorealismo fantastico dei supereroi all’italiana, dove ci si scopre tali dopo una caduta nel Tevere tra fusti di rifiuti tossici o dopo aver indossato un costume comprato in un negozio cinese, come Il ragazzo invisibile di Gabriele Salvatores (che si sta dedicando alla lavorazione del sequel). Dolore, passioni e sentimenti: la vita quotidiana può stupire o ferire più degli effetti speciali. «La difficoltà per questo genere di film in Italia è la credibilità. Gli americani li hanno inventati, certo, e noi li guardiamo senza porci il problema di quanto sia plausibile la storia di un ragazzo che diventa ultrapotente grazie alla puntura di un ragno al museo — osserva Santamaria —. Nella nostra storia, invece entri pian piano, la chiave d’accesso sta nell’empatia del pubblico con i personaggi. Se scatta, lo spettatore sospende l’incredulità e ti segue. E, magari, il superpotere diventa secondario; in primo piano, come nel nostro caso, arriva la storia d’amore» (...) «Personaggi come Superman o Spiderman sono bravi ragazzi, hanno background edificanti», riflette l’attore romano. «Il nostro più che Uomo ragno sembra Uomo rogna... Ma più grande è il malessere e più grande sarà il riscatto». Non ha dubbi Santamaria: Lo chiamavano Jeeg Robot lascerà il segno. «Non vedevo l’ora di fare un film così, chi l’ha detto che noi non possiamo? Credo che il cinema italiano si sia troppo intellettualizzato. Invece il cinema è anche divertimento, non solo quello più becero. Questo film è uno spartiacque, come all’epoca fu, in un altro senso L’ultimo bacio di Muccino. Dimostra che possiamo tentare strade diverse, come allora Gabriele dimostrò che si potevano raccontare persone vicine al pubblico. Sono felice che finalmente si sia imboccata questa strada». Una strada dove si conta di intercettare il pubblico più giovane. Non a caso anche il supereroe di Tor Bella Monaca come è accaduto per Il ragazzo invisibile arriva accompagnato da un fumetto. Questo in uscita con La Gazzetta dello sport, con copertine disegnate da Zerocalcare e Leo Ortolani. Per l’attore quarantunenne il film di Mainetti — nominato nel 2014 agli Oscar per il corto Tiger Boy — è stata anche l’occasione di cantare la sigla del cartoon rivisitata sui titoli di coda. «Un godimento. La musica è da sempre la mia grande passione. Ho appena formato una nuova band, stiamo preparandoci a concerti dal vivo». Matteo Bordone. Internazionale (...) Il cinema di genere in Italia non è mai stato cinema ufficiale, soprattutto perché a noi manca per ragioni storiche una narrativa di genere in qualsiasi forma. C’è un po’ di giallo, ma molto meno che altrove e quasi solo negli ultimi decenni, mentre non ci sono sostanzialmente né fantascienza né horror né avventura. Meglio: tutto questo c’è, ma solo nei fumetti. È proprio partendo da una cultura che è fatta di fumetti e di generi, e stando lontano dai colossal hollywoodiani, che Gabriele Mainetti è riuscito, primo nella storia del nostro cinema, a fare un film popolare italiano di supereroi. L’equilibrio tra l’adesione ai canoni del genere e il coinvolgimento del pubblico è ineccepibile: il film funziona non tanto perché ricorda una storia di genere, ma perché le storie di genere funzionano. Per questo Lo chiamavano Jeeg Robot non è solo per appassionati di fumetti o di quei cartoni giapponesi che a cavallo tra anni settanta e ottanta occupavano i palinsesti delle neonate tv private e della Rai, ma è un film per tutti. C’è anche un rapporto riuscitissimo tra Roma, la sua lingua, le sue strade, le sue periferie, e un gruppo di personaggi che ne fanno parte, sono vivi e divertenti, ma non ricadono né nella commedia di cui sono pieni i film di Natale, né nel realismo sociale che i nostri registi impegnati amano frequentare. Sia la sceneggiatura sia la regia in questo senso sono impeccabili, perché si muovono con grazia e naturalezza senza mai lasciare intendere quanto siano controcorrente. Per chi apprezza i racconti di genere di qualsiasi tipo, Lo chiamavano Jeeg Robot sarà un’esperienza di goduria e sollievo. Per anni abbiamo dovuto sottostare all’idea per cui le storia di genere in Italia non potevano funzionare, figuriamoci quelle di supereroi. Gabriele Mainetti dimostra che non è assolutamente vero, e riscatta una fetta di pubblico che si era quasi rassegnata. Per farlo, dirige in maniera magistrale un cast che non sbaglia mai niente. Claudio Santamaria è perfetto nel contrasto tra il carattere dimesso e il ruolo impostogli dai superpoteri. Luca Marinelli interpreta un giovane malavitoso con lo slancio di un diavolo della Tasmania con i tacchi a spillo. Ilenia Pastorelli sembra trovare l’unico modo di tenere insieme la ragazza sexy, il disagio della borgata e gli occhioni delle eroine dei manga. Questo è un film appassionante, che esalta, diverte e commuove con uno stile, una cura e un’onestà ai quali non siamo abituati. Quando si parla di cinema d’autore, si parla di questo. Giona A. Nazzarro. Micromega Entusiasmarsi è bello. Farlo per un film italiano, anche di più. Negli ultimi tempi, infatti, è stato possibile osservare una notevole progressione qualitativa nel nostro cinema. Guidato dall’agguerrito plotone dei cineasti del reale, Di Costanzo, Minervini, Marcello, Parenti e D’A nolfi, Santarelli e Rosi, solo per citare i primi nomi che veng ono subito alla mente, il rinnovamento c’è e si sente. Non supportato ancora da un’industria e da una politica che ne ha compreso tutte le implicazioni e novità, ma c’è. Questa vitalità è avvertibile persino in altre articolazioni della produzione italiana. Lo straordinario livello qualitativo di una serie come Gomorra e di un noir sui generis come Suburra, ne sono sintomo evidente. Senza dimenticare lo sberleffo insurrezionale di un film imprendibile come La solita commedia: Inferno di Biggio&Mandelli& Ferro, il cinema di poesia di Stefano Odoardi ancora troppo poco conosciuto e amato in Italia e commedie ambiziose come Loro chi? di Francesco Miccichè e Fabio Bonifacci che si rifanno alla tradizione con intelligenza. In quadro così ricco di fermenti e movimento, Lo chiamavano Jeeg Robot appare come una supernova. Un film che racchiude in sé tutti i discorsi fatti nei decenni scorsi sul rinnovamento dell’industria, superandoli tutti a sinistra per inventiva, generosità e passione. (...) Gabriele Mainetti è il primo a rendere conto in forma di cinema di una trasformazione avvenuta sotto gli occhi di tutti noi ma che nessuno prima di lui ha messo in scena con tale verosimiglianza e precisione, questa sì, “documentaria”. Lo chiamavano Jeeg Robot è molto più della somma dei materiali che lo compongono. Il film di Mainetti non solo tira tutte le fila di un sapere diffuso nelle esplose galassie delle passioni nerd, ma compie la straordinaria operazione politica di riorganizzare questi linguaggi e materiali in una mitologia condivisibile e quindi partecipabile. Lo chiamavano Jeeg Robot crea uno nuovo tessuto spettatoriale che inevitabilmente è soprattutto un tessuto sociale. Crea, evoca, un pubblico che prima non c’era offrendogli l’immagine di un mondo che non ha mai visto anche se lo vive da sempre. Il valore sincretico di Lo chiamavano Jeeg Robot, senza volere insinuare nessuna similitudine o raffronti improbabili fra opere lontanissime fra loro, è pari solo a quanto fatto da Sergio Leone con Per un pugno di dollari. Ossia appropriarsi di una mitologia, renderla italiana, quindi originale, quindi nuova. (...) Lo chiamavano Jeeg Robot è davvero l’anno zero del cinema di genere italiano. A Gabriele Mainetti l’aug urio di realizzare altri film del valore di questo. Gabriele Niola. Badtaste.it I rifiuti tossici, l’origine rocambolesca, la difficoltà ad accettare e capire i superpoteri e poi il trauma e la decisione di dove schierarsi mentre dall’altra parte nasce anche una nemesi. Niente di più classico, alla base di Lo chiamavano Jeeg Robot c’è lo svolgimento fumettistico per eccellenza, senza contaminazioni o intrusioni. A rendere tutto credibile in uno scenario italiano (Roma) è una scrittura di equilibrio impeccabile, che traduce i personaggi tipici nei loro equivalenti da malavita romana, che gioca tantissimo sul contrasto tra l’immaginario dei fumetti e la bassezza del dialetto e dell’atteggiamento romanesco nei confronti di tutto ciò che è strano e diverso (cioè una totale impermeabilità) e addirittura inventa una storia d’amore plausibile nella sua assurdità. Forse gli si può appuntare una lunghezza nell’ultima parte ma di fronte al traguardo raggiunto appare come una piccolezza. Gabriele Mainetti (regista), Menotti (sceneggiatore) e Nicola Guaglianone (sceneggiatore) sono riusciti là dove nessuno aveva osato, nella più semplice e più complessa delle operazioni: realizzare un film di puro intrattenimento e azione, un film alla moda e al tempo stesso originale all’interno del sistema italiano. (...) Lo chiamavano Jeeg Robot ha capito che per dare plausibilità a tutto questo servono non solo battute coerenti ma anche uno scenario più grande, un presente in cui Roma è costantemente preda di attacchi terroristici e in cui la malavita è un mondo, con gerarchie, cattivi e diversi strati di potere. Ma se la storia ha il coraggio di non voler essere niente altro se non un genere preciso, ha la ragionevolezza cioè di non contaminarsi con critiche sociali, eccessiva autorialità (non è Il ragazzo invisibile) o troppa commedia, dall’altra parte Mainetti fa un lavoro meticolosissimo di vera regia, cioè di narrazione per immagini, limitando le parole come può e scegliendo di lavorare di montaggio e fotografia ma soprattutto di casting. Non solo i protagonisti sono in tono ma anche le spalle come Ilenia Pastorelli, semplicemente perfetta (e presa dal Grande Fratello 12). L’impresa impossibile era quella di trovare un connubio tra Romanzo Criminale e il cinema di supereroi, rendendosi bene conto di quanto tutto ciò possa essere a tratti comico e abbracciandone il paradosso. Quindi posizionandosi bene all’incrocio tra il serio e il divertente Mainetti si viene a sedere in mezzo al pubblico per ridere ed emozionarsi, invece di avere la boria di proporre qualcosa che guardi gli spettatori dall’alto verso il basso. Federico Pontiggia. Cine matografo.it Applausi a scena aperta durante la proiezione stampa, e una certezza: sarà difficile sfilare il Premio del Pubblico della decima Festa di Roma a Lo chiamavano Jeeg Robot. Piuttosto, segnatevi questo nome: Gabriele Mainetti. Classe 1976, una qualche notorietà per il corto Tiger Boy, all’esordio al lungometraggio fa qualcosa di quasi impossibile: un film di supereroi italiano. Non c’era riuscito nessuno, nemmeno il Gabriele Salvatores de Il ragazzo invisibile, viceversa, lui trasforma la sceneggiatura di Nicola Guaglianone e Menotti in un film molto radicato in Roma e nell’italianità e, insieme, alieno alla nostra produzione corrente: malavita capitolina, camorra, manga giapponesi (Jeeg Robot) e supereroi disfunzionali hollywoodiani, il tutto frullato in 122’ (si poteva tagliare qualcosa) che fanno sul serio nell’aderenza al genere ma contemporaneamente lasciano spazio all’ironia e al nonsense. (...) Effetti speciali senza strafare ma molto ben fatti, sceneggiatura che dialettizza il canovaccio fumettistico e supereroistico e i dialoghi indolenti e cafoni a indicazione geografica tipica romana, interpreti in stato di grazia – sia Santamaria, che regala a Enzo chili in esubero, inadeguatezza e nonchalance, che Marinelli, il Joker de ‘noantri – per un approdo financo paradossale: ma era così difficile fare un film così? Il futuro di Mainetti, e dei suoi sceneggiatori, è roseo, ma pure quello del ritrovato genere italiano: supereroi alla riscossa! Fabio Ferzetti. Il Messaggero (...) Niente tutine lucenti però, né voli sulla metropoli o altre pacchianate. Il protagonista di Lo chiamavano Jeeg Robot, cioè Claudio Santamaria, abita a Tor Bella, si chiama Enzo Ceccotti e campa di scippi e furtarelli. Finché, inseguito dalla polizia, non casca nel Tevere, sfonda un bidone di rifiuti radioattivi. E si trasforma in una specie di Hulk de noantri. Ma senza pelle verde o dilemmi da supereroe con supernevrosi. Quella è roba buona per la Marvel. A Gabriele Mainetti, classe 1976, qui al primo film dopo molti corti, bastano i “mostri” delle nostre periferie. (...) Molte facce vere e ben scelte in mezzo a tanta fantasia. E un paio di affondi sentimentali che non rovinano il gioco ma danno perfino un briciolo di pathos a questo supereroe dei nostr i tempi. Simona Santoni. Panorama (...) Sorprendente, divertente, entusiasmante e, soprattutto, meravigliosamente italiano. È Lo chiamavano Jeeg Robot, opera prima dell'attore romano trentanovenne Gabriele Mainetti. Un'autentica gioia cinematografica, che spolpa diversi generi, ne prende brandelli e li unisce insieme con cura e sagacia facendone un insieme innovativo e croccante. Anche in Italia, allora, si possono fare cinecomics convincenti e da applausi. (...) Sulla sceneggiatura di Nicola Guaglianone e del fumettista Menotti, si muove un supereroe tutto italiano, anzi, romano e coatto. (...) Gli effetti speciali a cui Mainetti si affida per il suo supereroe sono essenziali, e proprio per questo sempre appropriati e puntuali. Non siamo negli States, siamo in Italia, Roma, ed Enzo Ceccotti è molto più vero e vicino a noi di Iron Man e Capitan America. (...) Interpreta Enzo Ceccotti, supereroe per caso, Claudio Santamaria, che per la parte è ingrassato di 20 chili. Ombroso, disabituato a interagire con il prossimo, vive da solo cibandosi di creme in vasetto e guardando film porno. (...) Roccioso, cupo, dall'aria sempre stropicciata, non poteva esserci attore più adatto di Santamaria per incarnare il supereroe "de noantri". Guarda caso, era stato proprio Santamaria a doppiare il Batman di Christian Bale nella trilogia di Christopher Nolan. (...) Tra Sperma, Biondo e Pinocchio, il piccolo boss della criminalità locale a Tor Bella Monaca è lo Zingaro, un Luca Marinelli strabordante, che si conferma in ottima forma dopo l'altra viscerale interpretazione in Non essere cattivo di Claudio Caligari. In Lo chiamavano Jeeg Robot Marinelli è poeticamente trash quando canta con trasporto Un'emozione da poco di Anna Oxa, è pericoloso, infido e letale con chi lo contraddice, è comico quando fa il duro spietato e poi sceglie come suoneria del cellulare la canzone della Oxa. Avido, ambizioso, folle, è una maschera teatrale riuscitissima, un perfetto villain psicopatico alla Joker. (...) Lo chiamavano Jeeg Robot è una brillante commistione di generi. Si fondono con gusto atmosfere dark fumettose, tensione da thriller, situazioni sanguinose da crime movie, romanticismo, comicità sottile giocata sui paradossi, eccessi pulp, degrado delle periferie, solitudini diverse. Mainetti mescola tutto in un vortice che sembra caos e che invece è alchimia perfetta, supportata da un'intrigante estetica visiva e da scoppiettanti trovate.