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Maria Felice <[email protected]>
Bollettino Radiogiornale
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7 luglio 2015 15:46
Sommario del 07/07/2015
Il Papa e la Santa Sede
Guayaquil. Un milione di fedeli a Messa Papa: recuperare gioia della famiglia
Il Papa alla cattedrale di Quito: nessuno venga escluso o scartato
A Quito l'incontro tra il Papa e il presidente Correa
Incontro gioioso di Francesco con la comunità dei gesuiti
P. Lombardi: in Ecuador un'accoglienza straordinaria
Bolivia: i fedeli in “allegra” attesa del Papa
Il Papa nomina mons. Silva Retamales nuovo Ordinario militare per il Cile
Oggi su "L'Osservatore Romano"
Oggi in Primo Piano
Grecia: attesa per l’Eurogruppo, Bce conferma liquidità
Ancora nessuna notizia del francescano rapito in Siria
Ucraina: bombardate zone filorusse, ancora vittime civili
Al­Shabaab attacca in Kenya: uccisi 14 minatori a Mandera
Nella Chiesa e nel mondo
Yemen: morti 100 civili mentre la tregua si allontana
Vescovi europei: la famiglia pro o contro le vocazioni?
Card. Filoni a Burgos: il Popolo di Dio oggi è missionario?
Cile. Card. Ezzati: difendere la vita sin dal concepimento
Panama: plenaria dei vescovi su famiglia, creato e corruzione
Francia: documento sul clima dei leader religiosi
10.mo attentati a Londra, britannici ricordano le vittime
Il Papa e la Santa Sede
Guayaquil. Un milione di fedeli a Messa Papa: recuperare gioia della famiglia ◊ Oltre un milione di fedeli ha partecipato alla Messa presieduta dal Papa nel Parco de Los Samanes
a Guayaquil, in Ecuador, sull'Oceano Pacifico. Una grande e colorita manifestazione di affetto per il
Pontefice argentino nella seconda giornata del suo viaggio apostolico in America Latina. Al centro
dell’omelia, una intensa meditazione sulla famiglia, a partire dal Vangelo delle nozze di Cana proposto dalla
liturgia. Il servizio di Sergio Centofanti: Le sofferenze della famiglia
Grande festa della gioia alla Messa di Guayaquil, incontenibile l’affetto dei fedeli, una folla oceanica. Papa
Francesco nell’omelia lancia un forte appello alle tante realtà familiari ferite: recuperare la gioia in famiglia è
possibile con l’aiuto di Maria. E’ quello che è successo alle nozze di Cana dove a un certo punto mancava il
vino, segno di gioia e amore:
"Cuántos de nuestros adolescentes y jóvenes perciben que en sus casas hace rato que ya no hay de ese
vino...
“Quanti nostri adolescenti e giovani percepiscono che nelle loro case ormai da tempo non c’è più questo
vino! Quante donne sole e rattristate si domandano quando l’amore se n’è andato, quando l'amore è scivolato
via dalla loro vita! Quanti anziani si sentono lasciati fuori dalle feste delle loro famiglie, abbandonati in un
angolo e ormai senza il nutrimento dell’amore quotidiano dei loro figli, dei loro nipoti e pronipoti! La mancanza
di vino può essere anche la conseguenza della mancanza di lavoro, delle malattie, delle situazioni
problematiche che le nostre famiglie in tutto il mondo attraversano”.
Porre le nostre famiglie nelle mani di Dio
Maria è attenta a tutte queste situazioni: “è madre” premurosa e “si rivolge con fiducia a Gesù”, prega perché
intervenga. Così, Maria anticipa “l’ora” di Dio:
"Ella nos enseña a dejar nuestras familias en manos de Dios; nos enseña a rezar, encendiendo la
esperanza...
Lei ci insegna a porre le nostre famiglie nelle mani di Dio; ci insegna a pregare, alimentando la speranza che
ci indica che le nostre preoccupazioni sono anche le preoccupazioni di Dio. E pregare ci fa sempre uscire dal
recinto delle nostre preoccupazioni, ci fa andare oltre quello che ci fa soffrire, quello che ci agita o ci manca,
e ci aiuta a metterci nei panni degli altri, a metterci nelle loro scarpe. La famiglia è una scuola dove il pregare
ci ricorda anche che c’è un ‘noi’, che esiste un prossimo vicino, evidente, che vive sotto lo stesso tetto, che
condivide con noi la vita e ha delle necessità”.
Famiglia è grande ricchezza sociale, servizi dello Stato non sono elemosina
Maria – osserva il Papa – ci mostra che “il servizio è il criterio del vero amore. E questo si impara
specialmente nella famiglia, dove ci facciamo servitori per amore gli uni degli altri”. Quindi rilancia le tre
parole che vanno imparate in famiglia: permesso, scusa, grazie. “Piccoli gesti” che “aiutano a costruire”, in
particolare là dove è più forte la sofferenza. “La famiglia – ricorda Francesco ­ è l’ospedale più vicino, quando
uno è malato è lì che lo curano ... la famiglia è la prima scuola dei bambini, il punto di riferimento
imprescindibile per i giovani, è il miglior asilo per gli anziani”:
"La familia constituye la gran «riqueza social», que otras instituciones no pueden sustituir, que debe ser
ayudada y potenciada...
La famiglia costituisce la grande 'ricchezza sociale', che altre istituzioni non possono sostituire, che
dev’essere aiutata e potenziata, per non perdere mai il giusto senso dei servizi che la società presta ai
cittadini. In effetti, questi servizi che la società presta ai cittadini non sono una forma di elemosina, ma un
autentico ‘debito sociale’ nei confronti dell’istituzione familiare, che è la base e che tanto apporta al bene
comune”.
Pregare per il Sinodo sulla famiglia
Molte volte – sottolinea il Papa – le realtà familiari non sono l’ideale. Anzi ci sono tante difficoltà. Di qui
l’invito a pregare per il Sinodo del prossimo ottobre che cercherà di “trovare soluzioni e aiuti concreti” perché
“persino quello che a noi sembra impuro" e ci scandalizza e spaventa, "Dio ­ facendolo passare attraverso la
sua 'ora' – lo possa trasformare in miracolo. La famiglia oggi ha bisogno di questo miracolo!”.
Nella famiglia si deve avere il coraggio di amare
Il miracolo delle nozze di Cana è che “il vino migliore è quello che sta per essere bevuto, la realtà più
amabile, profonda e bella per la famiglia deve ancora arrivare”:
"El mejor de los vinos está en esperanza, está por venir para cada persona que se arriesga al amor...
Il vino migliore è ‘in speranza’, sta per venire per ogni persona che accetta il rischio di amare. E nella
famiglia bisogna correre il rischio dell’amore, bisogna arrischiarsi ad amare. E il migliore dei vini sta per
venire, anche se tutte le possibili variabili e le statistiche dicessero il contrario. Il vino migliore sta per venire
per quelli che oggi vedono crollare tutto”.
Il miracolo di recuperare la gioia di vivere in famiglia
Dio – conclude il Papa – “si avvicina sempre alle periferie di coloro che sono rimasti senza vino, di quelli che
hanno da bere solo lo scoraggiamento”. Se ci si affida a Lui, con l’aiuto di Maria, può avvenire il miracolo di
“recuperare la gioia della famiglia, di vivere in famiglia”.
Il Papa alla cattedrale di Quito: nessuno venga escluso o scartato
◊ “Che non vi siano differenze, che nessuno venga escluso”: così il Papa all’immensa folla raccolta ad
aspettarlo ieri sera fuori dalla cattedrale di Quito, dove si è raccolto in preghiera, dopo l’incontro con il
Presidente ecuadoriano. Il servizio di Roberta Gisotti: “Vengo a Quito come pellegrino, per condividere con voi la gioia di evangelizzare”, Francesco, che è arrivato
a piedi alla cattedrale, dal vicino Palazzo presidenziale, si è rivolto a sopresa ­ parlando a braccio ­ alle
migliaia di fedeli che lo attendevano sul sagrato, portando il suo saluto e la sua benedizione alla "grande
Nazione" e al "nobile popolo dell’Ecuador".
“Les voy a dar la bendición, les voy a dar la bendición, para cada uno de ustedes, para sus familias, para
todos los seres queridos y para este gran pueblo y noble pueblo ecuatoriano….”
““Do la benedizione a ciascuno di voi, alle vostre famiglie, a tutte le persone care e a questo grande e nobile
popolo ecuadoriano, perché non ci siano differenze, selettività, gente scartata, perché tutti siano fratelli,
nessuno sia escluso e non ci sia nessuno che resti fuori da questa grande nazione ecuadoriana”. “Per
costruire questa cattedrale – ha poi aggiunto ­ i lavori di trasporto, di intaglio e di muratura sono stati fatti
secondo le nostre usanze, quelle dei popoli autoctoni; un lavoro di tutti a favore della comunità, un lavoro
anonimo, senza cartelli pubblicitari né applausi”. “Voglia Dio – ha quindi invocato ­ che, come le pietre di
questa cattedrale, anche noi ci poniamo sulle spalle le necessità degli altri, aiutando a edificare o restaurare
la vita di tanti fratelli che non hanno forze per costruirla o l’hanno vista crollare”.
A Quito l'incontro tra il Papa e il presidente Correa
◊ Nella serata di ieri il Papa si è recato al Palazzo presidenziale per una visita di cortesia al Presidente
dell’Ecuador, Rafael Correa. Il servizio di Adriana Masotti: Non c'è stato discorso ma, come previsto, un incontro personale tra il Papa e il Presidente ­ 20, 30 minuti di
dialogo ­ senza la presenza dei ministri, e poi l’incontro con i familiari ­ la moglie, la madre, i figli ­ e lo
scambio di omaggi, semplici ma significativi. Il Papa ha regalato a Correa un mosaico di un’icona della
Vergine di San Paolo fuori le Mura e due documenti: la Evangelii Gaudium, esortazione apostolica
programmatica del Pontificato e fonte dei motti di questo viaggio, come l’allegria nell’annunciare il Vangelo,
e l’ultima enciclica, Laudato sì. Il Presidente ha donato al Papa un quadro con raffigurata la facciata della
Chiesa della Compagnia di Gesù a Quito, che Francesco visiterà a conclusione della giornata di oggi.
Contemporaneamente si è svolto un colloquio del cardinale segretario di Stato Parolin, del nunzio e del card.
Vela con alcune autorità, fra cui il ministro degli Esteri dell’Ecuador con cui si sono percorsi gli avvenimenti
ecuadoriani degli ultimi dieci anni.
Al termine del colloquio personale con il Presidente, Papa Francesco si è trasferito sulla terrazza per salutare
le persone che si erano radunate in piazza. Il Papa non ha parlato, ma ha salutato e dato la benedizione. E’
seguita una serie di presentazioni di persone, di autorità della delegazione del governo e della delegazione
vaticana. Erano presenti anche le suore di un convento di clausura, che sono potute uscire per veder il Papa.
Incontro gioioso di Francesco con la comunità dei gesuiti
◊ Dopo la Messa a Guayaquil, Papa Francesco ha pranzato al Collegio Javier della Compagnia di Gesù,
istituto fondato nel 1956. Si è trattato di un momento conviviale gioioso all’insegna della familiarità tra
confratelli gesuiti. Nell’occasione è stato festeggiato il direttore di Civiltà Cattolica, padre Antonio Spadaro,
che ieri ha compiuto 49 anni. Il servizio di Alessandro Gisotti: Un pranzo tra confratelli gesuiti all’insegna della familiarità. E' il momento conviviale che Francesco ha
vissuto ieri nel Collegio Javier della Compagnia di Gesù. Il Papa si è trattenuto per circa un’ora e mezza
nell’istituto retto dai gesuiti dove, dopo aver celebrato la Messa, ha incontrato una ventina di confratelli
provenienti da diverse comunità, impegnate in particolare in servizi educativi e di sostegno sociale. Era
presente anche il 91enne padre Paquito Cortés, maestro dei novizi del collegio Javier quando Bergoglio era
provinciale dei gesuiti argentini. Per diversi anni il futuro Pontefice ha inviato i suoi studenti a formarsi da
padre Paquito, tra questi anche l'amico di Papa Francesco, e scrittore di Civiltà Cattolica, padre Diego Fares.
L'incontro e il pranzo, ha riferito padre Federico Lombardi, si sono svolti in un “clima molto familiare e
informale” e sono stati dedicati in special modo "ai ricordi della vita gesuitica e alle conoscenze comuni". Tra
l'altro è stato festeggiato padre Antonio Spadaro, che ieri compiva 49 anni. A conferma della giovialità del
momento, Papa Francesco ha chiesto che si procurasse una candela per la torta del festeggiato. Tra le
comunità rappresentate dai gesuiti anche una impegnata nell’assistenza alle donne che hanno subito
violenza o a rischio di cadere nelle mani dei trafficanti di esseri umani.
P. Lombardi: in Ecuador un'accoglienza straordinaria
◊ Al termine del briefing con i giornalisti che ha tenuto ieri sera a Quito, il portavoce vaticano padre
Federico Lombardi è stato intervistato dal nostro inviato in Ecuador Mario Galgano: D. – In questa giornata a Guayaquil e poi a Quito sembra che il Papa si sia soffermato sul tema della
famiglia e l’incontro con i Gesuiti è un incontro con la sua famiglia, in un certo senso. Lei come ha visto
questa giornata a Guayaquil e a Quito?
R. – Questa giornata è certamente stata dedicata a Guayaquil, che è la seconda grande città del Paese.
Quindi è stata l’occasione per incontrare un numero immenso di ecuadoriani, che hanno potuto vedere e
incontrare il Papa. Come tema è stato scelto quello della famiglia, perché effettivamente è uno dei temi
importantissimi per la Chiesa, ed è importantissimo in ogni società, anche qui in Ecuador, naturalmente. Con
questo il viaggio si è inserito anche nel contesto della Chiesa universale, che sta lavorando sul tema della
famiglia in questi giorni, con grande intensità. Poi, però, c’è stato anche, nel pomeriggio, questo passaggio a
Quito, al Palazzo presidenziale e alla Cattedrale, ed è stato di nuovo un incontro con centinaia di migliaia di
persone. Una delle cose che mi colpisce è proprio la quantità di gente che si trova lungo le strade in queste
città, e questa è una cosa bellissima, che dice un’accoglienza straordinaria.
Bolivia: i fedeli in “allegra” attesa del Papa
◊ Cresce l’attesa in Bolivia per l’arrivo domani pomeriggio di Papa Francesco. Il Santo Padre atterrerà
direttamente dall’Ecuador nell’aeroporto di El Alto, oltre 4 mila metri sul livello del mare. L’arrivo è previsto
alle 16.15 locali, le 22.15 in Italia. Due le città toccate nel viaggio, fino a venerdì: La Paz, sede del governo
nazionale e la popolosa Santa Cruz de la Sierra, vitale centro economico del Paese. Lungo il tragitto che da
El Alto lo porterà a La Paz, Francesco attraverserà in papamobile la periferia di questi due centri. E, a
salutare “il loro Papa latinoamericano” durante il percorso ci saranno anche i fedeli della parrocchia “Santiago
Apostol” di Munaypata in “allegra” attesa, come racconta ­ al microfono del nostro inviato Paolo Ondarza ­ il
parroco don Andrea Mazzoleni: R. – La gente della mia parrocchia è costituita da lavoratori dei campi, la maggior parte sono piccoli
commercianti. Per noi ovviamente è un grande onore che il Papa ci visiti; noi boliviani siamo poi anche
avvantaggiati, perché sappiamo che il Papa visiterà due città in Bolivia, rispetto al Paraguay e all’Ecuador.
Quindi già questo è un grande onore. La gente poi riconosce che si tratta di un evento importante,
eccezionale, la visita di un Papa dopo tanti anni, dopo quella nel 1988 di Giovanni Paolo II. Vedo che la
gente sta vivendo con allegria l’attesa di questo incontro, come dice il motto che la Conferenza episcopale
ha scelto “Con Francesco noi annunciamo l’allegria del Vangelo”. Vedo che la gente si sta interessando
molto: anche tra i più lontani, tra quelli che in genere non partecipano alle attività parrocchiali, vedo che c’è
un interesse, un desiderio anche solo di vedere un Papa; spesso e volentieri sento dire: “Questo è uno dei
nostri”, nel senso che è un Papa dell’America Latina.
D. – È vivo il ricordo della visita in Bolivia di Giovanni Paolo II?
R. – Sì certo, gli adulti ricordano questo incontro forte. È chiaro che la differenza tra le due visite sta nel fatto
che Giovanni Paolo II è stato diversi giorni in Bolivia ed ha visitato parecchie realtà e città. La visita di
Giovanni Paolo II è stata preparata con molto anticipo, mentre quella di Papa Francesco la chiamano una
“visita lampo”: si è concretizzata tre, quattro mesi fa. Si fermerà solo quattro ore in La Paz e poi tutto il resto
si svolgerà a Santa Cruz.
D. – 27 anni che un Papa non visita la Bolivia: questa sarà una visita breve, di circa 48 ore. Immagino siano
tante le cose che la sua gente, la gente di La Paz, vorrebbe comunicare al Papa…
R. – È chiaro: una delle cose che la gente boliviana vuole comunicare al Papa è l’allegria. Ci sono molti
giovani e molti bambini: loro manifestano questa allegria. Ci sono poi ovviamente non poche difficoltà, i
problemi di un Paese arretrato, che si sta sviluppando a poco a poco. C’è il problema del narcotraffico che si
sta espandendo sempre di più, c’è anche il problema della Madre Terra: il Papa ci ha regalato questa nuova
Enciclica da approfondire.
D. – Come vorrebbe che questa visita incidesse sulla sua gente, sulla sua parrocchia in particolare, ma più in
generale sulla Bolivia?
R. – Spero che questa visita aiuti tutti i fedeli a rafforzare la fede. La fede della mia gente è una fede
semplice: questa è una cosa bella, ma quando una fede è semplice, molte volte si lascia anche distrarre...
C’è una confusione grande nella mia gente tra la fede, la “Pachamama”….
D. – Che cosa vuol dire “Pachamama”?
R. – La “Pachamama” è in lingua quechua la realtà legata alla Madre Terra. La maggior parte della gente è
legata a questa cultura bellissima. Però molte volte si crea confusione: ci sono culti, riti, legati alla Terra e
c’è il rischio che considerino la Terra come Dio, e non come creatura. Questa confusione si scontra con
alcune idee della fede cattolica. Di conseguenza, penso che la visita del Papa possa aiutare la mia gente a
rendere più forte la propria fede.
Il Papa nomina mons. Silva Retamales nuovo Ordinario militare per il Cile
◊ Il Papa ha nominato vescovo ordinario militare per il Cile, mons. Santiago Silva Retamales, trasferendolo
dalla sede titolare di Bela e dall’Ufficio di ausiliare della diocesi di Valparaíso (Cile).
Oggi su "L'Osservatore Romano"
◊ Sul viaggio del Papa, in prima pagina un editoriale del direttore dal titolo “Il vino migliore”.
L’era delle donne: Lucetta Scaraffia sulle riflessioni di Massimo Lapponi, sacerdote benedettino.
Dolci stranezze: intervista di Silvia Guidi a Francesco Santi, direttore della Società internazionale per il
medioevo latino.
Proust non basterebbe: Carlo Petrini su perdita della memoria e nuove frontiere della medicina.
Avanti, senza inerzia: Mario Benotti ricorda Franco Scaglia.
Un articolo di Antonio Paolucci dal titolo “Un luogo dove imparare”: a scuola di restauro nei Musei Vaticani.
Oggi in Primo Piano
Grecia: attesa per l’Eurogruppo, Bce conferma liquidità
◊ Giornata decisiva per la ripresa dei negoziati con la Grecia: previste la riunione dell’Eurogruppo dei ministri
delle Finanze e il summit straordinario dei capi di governo dell’Eurozona, ma si attende anche la mossa del
governo di Tsipras. Intanto, è tornato a parlare il presidente della Commissione Ue, Juncker, invitando ad
abbassare i toni, ribadendo che si farà di tutto per evitare che Atene esca dall’euro, ma ricordando che
“l’Eurozona si compone di 19 democrazie e una non è più importante delle altre”. Roberta Barbi ne ha parlato
con Francesco Carlà, analista finanziario e presidente di Finanza World: R. – Per quanto riguarda l’Eurogruppo penso che sia difficile che esca una posizione molto diversa da quella
che la Grecia ha rifiutato prima del referendum. In questo momento credo che la questione sia molto più sui
tempi che non sui contenuti. I tempi si dilatano un po’, come chiede Juncker. Da questo punto di vista sarà
molto interessante anche l’esito del summit dei premier; allora l’Eurogruppo e la Grecia possono allungare il
negoziato e quindi renderlo più produttivo, altrimenti è molto più difficile. I tempi, naturalmente, sono
soprattutto in mano a Draghi e forse a Tsipras nel senso che dipende molto dal livello della proposta che
presenterà. La questione è proprio questa: se si continua a negoziare per posizioni, il negoziato per posizioni
tipicamente per metodologia richiede tempi lunghi, quindi dipende molto da Tsipras se la sua prima proposta
sarà già accettabile dall’Eurozona o no. Dall’altra parte, ovviamente, dipende molto da Draghi perché se
Draghi continua a tenere in vita le banche greche è uno scenario, se invece non succede, lo scenario
cambia.
D. – La decisione della Bce di mantenere la liquidità di emergenza farà riaprire le banche e darà un po’ di
respiro alla popolazione?
R. – Attualmente temo che non cambierà molto, perché la liquidità di emergenza resta ferma agli 89 miliardi
di euro e serve a tenere in vita le banche greche, ma non migliora le condizioni che abbiamo visto nei giorni
scorsi. Del resto, riaprire le banche secondo me sarebbe davvero un gesto avventato di Tsipras, perché ne
seguirebbe una corsa agli sportelli e la fine delle banche greche, quindi anche con il precipitare di tutta una
situazione che riguarda la negoziazione.
D. ­ Il Fondo monetario internazionale ha ribadito la propria disponibilità verso Atene ma a patto che i debiti
vengano onorati. Come si può risolvere questa situazione?
R. – È piuttosto difficile perché tutto si è spostato sul piano politico da quello finanziario­economico che era,
invece, il centro della questione fino agli ultimi giorni prima del referendum. Quindi tanti scenari che erano
fattibili tecnicamente, secondo me, anche utili, come questo del Fondo monetario internazionale, adesso si
mischiano a questioni politiche, faccende molto più irrazionali o almeno apparentemente tali. Infatti, c’è sul
terreno anche di nuovo la possibilità di federare una parte del debito che è una delle proposte più interessanti
e nuove che siano venute fuori, né dalla Grecia né dai creditori.
D. – Si avvicina anche la data del 20 luglio in cui scadrà un’altra rata dei pagamenti, quella dovuta alla Bce…
R. – Quella è una data davvero ultimativa perché è una data “europea”. La rata che è scaduta fin qua era
quella dell’Fmi – che è stata una pessima idea tirare in ballo perché creava problemi tecnici, soprattutto ­
questa della Bce è una data davvero ultimativa, per questo è molto importante che questi giorni vengano
sfruttati intelligentemente per trovare un punto di accordo stabile che, secondo me, per potersi ritenere tale
dovrebbe essere adeguato per tutta l’Eurozona, non punitivo per Atene ma nemmeno prodromico di nuovi
scenari simili in altri Paesi e che consenta che non faccia irruzione la speculazione che per il momento è
l’unico convitato di pietra della faccenda perché abbiamo visto, nei giorni successivi, che era l’unica che non
si è vista. Ci vuole un accordo che contenga tutto questo, cioè che sia adeguato per tutta l’Eurozona perché
altrimenti chiaramente tutti quelli che si ritengono ingiustamente colpiti da un accordo favorevole, o presunto
tale per la Grecia, ritornerebbero in campo.
D. – Se il referendum greco di domenica scorsa fosse fatto in altri Paesi europei che esito avrebbe, secondo
lei?
R. – Secondo me dipende da alcuni fattori: il primo è il quesito, perché nessuno ha capito bene nemmeno a
posteriori quale fosse il quesito; il secondo dipende dall’esito delle trattative dei prossimi giorni con Atene.
Credo che però, con le scene che abbiamo visto in Grecia in questi giorni, se c’è qualcuno che veramente è
rimasto sconfitto sono quelli che ritenevano fin qui entusiasmante lo scenario no­euro, uscita dall’euro.
Ancora nessuna notizia del francescano rapito in Siria
◊ La vicenda del sacerdote francescano iracheno Dhiya Azziz ­ il parroco del villaggio siriano di Yacoubieh
rapito sabato scorso da miliziani delle organizzazioni jihadiste che controllano la regione – rimane segnata
dall'incertezza, anche se tra i membri della comunità parrocchiale e tra i confratelli della Custodia
francescana di Terra Santa le apprensioni per la sua sorte si mescolano a caute speranze di un suo rapido
rilascio. Sul rapimento del francescano, Alessandro Guarasci ha sentito padre Pierbattista Pizzaballa,
Custode di Terra Santa: R. – Sono venuti a prelevarlo, sabato pomeriggio, alcuni militanti di alcune brigate collegate ad al­Nusra, di
cui non sappiamo esattamente il nome: è una galassia di piccoli gruppi. Doveva essere un incontro breve
con l’emiro del luogo, questo è quello che è stato detto nel villaggio: ma da allora non è più tornato…
Pensavamo fosse – come è accaduto nel passato ad altri ­ nel tribunale islamico di Tarkush, ma non è lì…
Non siamo in grado di capire dove sia e con chi sia.
D. ­ E’ stato stabilito qualche contatto con qualche autorità locale?
R. – Le autorità locali sono quelli di Jabath al­Nusra, con le quali è molto difficile avere una relazione: anzi, non si ha alcuna relazione!
D. – Quali altre notizie vi arrivano da quella regione?
R. – Le notizie sono drammatiche! C’è un deterioramento della situazione, con una perdita di potere sul
territorio da parte delle forze regolari e un grande caos anche tra le fazioni cosiddette ribelli, anche tra di loro.
E’ comunque molto difficile avere notizie chiare e certe.
Ucraina: bombardate zone filorusse, ancora vittime civili
◊ Nuova fiammata di violenze in Ucraina, due civili sono morti e un terzo è rimasto ferito in un
bombardamento nel villaggio di Svobodnoie 65 km a sud di Donetsk, sotto il controllo dei separatisti filorussi.
Lo rende noto il ministero della difesa dell'autoproclamata repubblica di Donetsk. Intanto il Cremlino denuncia
come "pericolo principale" per una soluzione pacifica del conflitto lo "slittamento dell'attuazione degli accordi
di Minsk 2". “Non si può parlare di stabilizzazione della crisi” ha aggiunto il portavoce del Presidente Putin.
Ma per fare il punto sulla crisi nelle regioni orientali dell’Ucraina, Marco Guerra ha intervistato il prof.
Eugenio Di Rienzo, autore del libro il conflitto Russo­Ucraino, edito da Rubbettino: R. – Sì, c’è una guerra civile tra l’Est e l’Ovest dell’Ucraina, che rimane strisciante, facendo un numero
rilevante di vittime non tanto militari, perché come tutte le guerre, purtroppo, è una guerra contro i civili alla
fine. La popolazione del Donbass ha subito molte vittime, anche perché l’esercito di Kiev è affiancato da
reparti regolari, alcuni dichiaratamente neonazisti, come il famigerato battaglione Azov. Sono quindi soldati
regolari che combattono dentro una struttura militare ucraina, ma che il governo di Kiev non può, o non vuole,
tenere sotto controllo. D’altra parte, è anche vero che sicuramente soldati senza stellette russi combattono
sull’altro fronte. C’è anche un problema di emergenza umanitaria nella regione del Donbass: mancano
alimenti, a volte mancano medicinali, a volte manca addirittura il rifornimento idrico, che il governo di Kiev
cerca di tagliare. La situazione è molto grave e di questo purtroppo i media occidentali in generale non
parlano e non informano.
D. – Quindi prosegue questa vera e propria guerra, malgrado gli accordi di Minsk 2. A che punto è
l’attuazione di questa intesa?
R. – Non mi sembra che il governo di Kiev sia molto interessato a sviluppare questi accordi. Gli accordi sono
abbastanza chiari: si chiede per il Donbass, per le regioni orientali, una larga autonomia, non solo
amministrativa, ma anche politica. Nel senso che queste regioni, con gli accordi di Minsk – se fossero
realizzati – dovrebbero mettere anche un veto ad alcune grandi decisioni di politica estera, come l’adesione
all’Unione Europea o l’adesione alla Nato. Naturalmente, se questi accordi fossero sviluppati, il governo di
Kiev dovrebbe far fronte a questo veto, che gli impedirebbe di entrare nell’Unione Europea. Ricordiamoci che
questo è stato il casus belli della crisi ucraina. Apparentemente hanno immobilizzato la situazione, ma non
mi sembra che il governo di Kiev sia molto interessato a mettere in atto questa riforma istituzionale nello
Stato ucraino, che dovrebbe portare ad un federalismo molto forte, in cui le varie parti, componenti dello
Stato ucraino, avrebbero voce in capitolo per le grandi decisioni di politica economica o di politica estera.
D. – In questo stallo permangono le sanzioni che finora hanno avuto l’unico effetto di colpire alcune
economie europee. Dal punto di vista geopolitico che cosa comporta questo?
R. – Le sanzioni certamente non hanno portato ad un fallimento dell’economia russa, come alcuni speravano.
Hanno portato invece dei gravissimi danni per alcuni Paesi dell’eurozona: in particolare la Germania – primo
partner –; in particolare l’Italia – secondo partner con la Russia –; e in particolare tutti i Paesi del Sud
dell’eurozona, perché questi, ad esempio, esportano prodotti alimentari. L’Italia esporta beni di lusso,
autovetture, cantieristica e alimentari. Invece qui c’è da mettere di nuovo in evidenza una spaccatura
dell’Europa. I Paesi sanzionisti, infatti, favorevoli alle sanzioni, sono i Paesi del Nord Europa, esclusa la
Germania. Quindi c’è una spaccatura dell’Europa anche su questo e direi anche una spaccatura della Nato.
Pure nella Nato c’è un fronte interventista antirusso – i Paesi baltici; la Svezia; la Finlandia; l’Inghilterra, che
è sempre molto legata alle decisioni degli Stati Uniti – con un atteggiamento molto, molto più prudente dei
Paesi Nato dell’area Sud e della Germania. Quindi la crisi ucraina non riguarda soltanto l’Ucraina e la Russia,
ma è qualcosa che riguarda tutta l’Europa. D’altra parte, l’Ucraina e la Russia stanno in Europa, non
dimentichiamocelo.
D. – In prospettiva, nei prossimi mesi, cosa dobbiamo aspettarci? Quali potrebbero essere le evoluzioni di
questa crisi?
R. – Sia a Kiev sia a Mosca, forse anche a Bruxelles, e sicuramente anche a Washington, in questo
momento c’è un partito della pace e un partito della guerra. Putin riesce a tenere il partito della guerra molto
sotto freno. Non so se lo stesso possa avvenire a Kiev. Da tutte e due le parti c’è qualcuno che vorrebbe
arrivare alla soluzione militare definitiva della crisi. Immagini, se questo partito della guerra prevalesse, in
quale situazione ci troveremmo!
Al­Shabaab attacca in Kenya: uccisi 14 minatori a Mandera
◊ Le milizie islamiste di Al­Shabaab hanno attaccato questa notte un villaggio nel Nord­Est del Kenya, vicino
Mandera, uccidendo almeno 14 minatori. “Il loro obiettivo è di liberare il Nord­Est del Paese dai non
musulmani e dai non somali”, ha commentato all’Agenzia Fides, mons. Joseph Alessandro, vescovo
coadiutore di Garissa. Non è la prima volta che il gruppo terroristico, originario della Somalia, sconfina in
Kenya, come spiega Nicola Pedde, direttore dell’Institute of Global Studies di Roma, al microfono di
Michele Raviart: R. – Non si tratta tanto di sconfinamento quanto di operazioni che vengono gestite da alcune cellule che
sono residenti sul territorio del Kenya. Il Kenya viene individuato oggi come una delle principali fonti di
opposizione al movimento, proprio perché è stato l’intervento del Kenya quello che ha fatto venire meno la
capacità dell’Al­Shabaab di generare la gran parte dei propri redditi nella Somalia meridionale, costringendola
a una ridefinizione delle attività soprattutto nelle aree rurali, che ha consistito in un lungo periodo di tempo nel
saccheggio e nel cercare di inglobare all’interno del territorio sotto il suo controllo una serie di villaggi più o
meno riluttanti.
D. – In questi giorni Al­Shabaab ha conquistato un villaggio a 90 chilometri da Mogadiscio. Qual è lo stato di
salute dell’organizzazione?
R. ­ Al­Shabaab è in uno stato di salute di fatto precario, al di là della capacità di condurre attentati di una
certa rilevanza dal punto di vista delle perdite umane o comunque sia dell’impatto sul sistema della
sicurezza. Si tratta di una struttura che sta cercando di riconquistare spazi: non credo che ci siano grandi
capacità di poterlo fare nella Somalia centrale. Il vero obiettivo, in questo momento, è cercare di consolidare
– a cavallo tra il territorio del Kenya e della Somalia meridionale – una certa sfera di controllo, soprattutto
all’interno di una serie di villaggi che presentano condizioni ottimali per Al­Shabaab per quanto riguarda la
logistica, per il reclutamento anche all’interno dei campi profughi di nuovi combattenti e soprattutto per
cercare di drenare denaro all’interno delle casse, perché questo è il principale problema poi dell’Al­Shabaab
oggi.
D. – Quali sono i rapporti di Al­Shabaab con gli altri gruppi del terrorismo islamico?
R. ­ Al­Shabaab è proprio un caso a se stante: ha cercato ­ soprattutto nella fase in cui c’è stato Godane al
comando dell’organizzazione ­ un’affiliazione internazionale che era stata sistematicamente negata
soprattutto da Al­Qaeda. L’analisi dei carteggi trovati nei computer di Bin Laden ha dimostrato quanto Al­
Qaeda fosse non solo ostile alla figura di Godane in sé, ma anche a qualsiasi ipotesi di affiliazione di Al­
Shabaab all’interno della reta qaedista, proprio perché riteneva i metodi di Godane e comunque del suo stato
maggiore antitetici rispetto a quelle che sono le prerogative del sistema qaedista: quindi della conquista del
territorio attraverso l’inserimento di una dinamica sociale nella politica attiva. Godane veniva sostanzialmente
considerato un tagliagole. E’ Al­Zawahiri, che più che per disperazione che non per effettiva capacità di
consolidare il gruppo ha dato questa patente qaedista ad Al­Qaeda. Ma i rapporti tra Al­Qaeda e Al­Shabaab
sono sempre stati squisitamente epistolari.
D. – Ci sono collegamenti con il sedicente Stato Islamico?
R. – Lo Stato islamico è un fenomeno squisitamente iracheno, che ha ramificazioni e patenti che vengono
prese qua è là, in modo più o meno dubbio, ma che sicuramente non hanno alcun tipo di radicalmente con la
dimensione somala. Chiaramente interesse di Al­Shabaab è cercare di far comprendere all’opinione pubblica
internazionale quanto la minaccia, rappresentata dall’organizzazione, sia ben maggiore rispetto a quella che
in realtà non è: questa supposta capacità di gestione logistica delle attività nella regione – insieme a Boko
Haram e Is – è ovviamente parte della retorica e della propaganda dell’Al­Shabaab, ma nella realtà dei fatti è
onestamente – ad oggi ­ molto difficile poter dire che ci sia una effettiva capacità di coordinamento e
soprattutto di gestione congiunta delle operazioni.
D. – La Somalia è uno Stato, il cui governo controlla a malapena la capitale: perché non si riesce a
stabilizzare?
R. – Il vero problema della Somalia è che dopo una prima fase di grandi entusiasmi internazionali e di euforia
nazionale con le prime elezioni che hanno portato all’elezione del Parlamento e a quella del presidente, la
Somalia è tornata nel limbo del suo problema endemico: quindi quello della corruzione, del nepotismo, del
tribalismo. La Comunità internazionale non è stata capace – da una parte – di generare quel necessario
flusso di risorse economiche che sono oggi fondamentali per la ripresa del Paese e – dall’altra – di imporre
un regime di governance alle autorità somale.
D. – Dopo gli attacchi subiti recentemente in Kenya – pensiamo a quello all’Università di Garissa o al centro
commerciale di Nairobi – ci sono rischi che il Kenya possa diventare una nuova Somalia?
R. – L’Al­Shabaab trova spazi solo in quella regione oggi, favorito dal fatto che ci sono ingenti traffici, favorito
dal fatto che c’è comunque anche una criminalità locale con la quale sembra che una certa forma di sodalizio
sia stata in qualche modo raggiunta e quindi trova interessi comuni nell’opporsi a quello che è – anche in
questo caso – il disastroso ruolo del governo di Nairobi nella gestione delle politiche regionali. Questo non
vuol dire, però, che Al­Shabaab sia una forza imbattibile; questo non vuol dire che sia impossibile debellare il
jihadismo: il problema vero rimane la governance.
Nella Chiesa e nel mondo
Yemen: morti 100 civili mentre la tregua si allontana
◊ Almeno 100 persone sarebbero morte sotto i bombardamenti aerei sauditi nella sola giornata di ieri
secondo l’agenzia yemenita Saba, ripresa dall'agenzia AsiaNews. A pochi giorni dall’ennesima visita nel
Paese dell’inviato speciale delle Nazioni Unite Ismail Ould Sheik Ahmad, in carica dallo scorso aprile, la
situazione nello Stato del Golfo è sempre più critica. I raid aerei della coalizione a guida saudita continuano
in tutto il Paese, così come gli scontri sul terreno fra Houthi, truppe filo­governative e milizie tribali. L’ipotesi
di una tregua umanitaria, negoziata dall’inviato Onu e più che mai necessaria, appare pertanto ancora
lontana.
Civili sotto attacco
Fra le vittime degli attacchi, riporta AsiaNews, ci sarebbero molti civili, fra cui donne e bambini che si
trovavano nei mercati delle cittadine di Lower Joub e al­Foyoush. Dal 19 marzo a oggi, secondo l’Onu, i
bombardamenti avrebbero causato oltre 3mila vittime, metà delle quali civili, e 14mila feriti, facendo
precipitare una situazione umanitaria già delicata. Secondo l’ufficio per il Coordinamento degli Affari
Umanitari dell’Onu 4 yemeniti su 5 hanno bisogno di aiuti di base, mentre uno su due non ha accesso
regolare a cibo e acqua potabile. Oltre un milione di persone ha abbandonato la propria casa in seguito agli
scontri e il sistema sanitario è al collasso.
Emergenza umanitaria di terzo livello
Dalla fine di giugno le Nazioni Unite hanno dichiarato un’emergenza umanitaria di “terzo livello” per lo Yemen.
Con la sigla “L3” l’Onu indica situazioni che richiedono interventi prioritari e stretta collaborazione fra le
organizzazioni internazionali per dare assistenza alla popolazione. Oltre allo Yemen, a rientrare in questa
categoria sono oggi Siria, Sud Sudan e Iraq. La consegna degli aiuti è però ostacolata dall’instabilità e dagli
scontri continui. Il cessate il fuoco umanitario invocato da Ban Ki­moon la scorsa settimana appare lontano,
nonostante gli Houthi, la principale forza militare sul terreno, si siano mostrati disponibili.
Un anno di conflitto
Dopo le rivolte del 2011, lo Yemen ha attraversato una fase di transizione turbolenta, sfociata in un conflitto
sempre più esteso. L’occupazione della capitale Sana’a da parte delle milizie degli Houthi, un gruppo tribale
del nord a maggioranza sciita, nell’estate 2014, ha di fatto sancito la sconfitta del presidente Abedrabbo
Mansour Hadi, rifugiatosi in Arabia Saudita lo scorso febbraio. Divisioni politiche e tribali, antichi rancori e
pesanti ingerenze esterne rendono quello yemenita un conflitto di difficile risoluzione. (G.Z.)
Vescovi europei: la famiglia pro o contro le vocazioni?
◊ “La famiglia, come chiesa domestica, è il luogo primo dove avviene la trasmissione della fede. E’ lì che
spesso si scopre e si sviluppa la vocazione al sacerdozio e alla vita consacrata. Allo stesso tempo la
famiglia può essere il luogo dove una nascente vocazione può essere soffocata, se non è adeguatamente
accompagnata e sostenuta. Se si perde di vista l’idea che l’istituzione famigliare, è essenzialmente una
comunità di fede per il benessere della coppia e dei loro figli, questo ha un effetto diretto sulla naturale
armonia della vita familiare, e con essa sulla quantità e la qualità delle vocazioni”, ha affermato don Michel
Remery, vice­segretario generale del Ccee, in apertura dei lavori ieri pomeriggio dell’Incontro Europeo
Vocazioni in corso a Praga. Spesso la famiglia cristiana pone ostacoli ai giovani che sentono la vocazione
“Quando un giovane o una giovane esprime un desiderio crescente di seguire Cristo in modo radicale
attraverso un cammino di discernimento al sacerdozio o alla vita consacrata, la famiglia può sentirsi
inadeguata e sola nell’accompagnare le domande, i dubbi e le sfide connessi con una scelta di vita così
radicale. Oggi giorno una tale scelta viene considerata come poco attrattiva e strana, tanto che spesso la
stessa famiglia cristiana pone ostacoli e divieti ai giovani che considerano una tale vocazione". La comunità cristiana deve accompagnare le famiglie
"Chiaramente ­ prosegue mons. Remery ­ il cammino verso la vocazione è un cammino personale di Dio con
la persona chiamata, e la scelta è solo sua. Allo stesso tempo, come cristiani, non siamo soli, e abbiamo
bisogno dell’aiuto degli altri. E' necessario che l’intera comunità cristiana, la Chiesa, sappia accompagnare
ed aiutare le famiglie a compiere insieme un cammino di discernimento e di maturazione di una eventuale
vocazione alla vita consacrata o al sacerdozio”. Presenti a Praga delegati di 20 Paesi
A confrontarsi sul tema "Come accompagnare i giovani al sacerdozio e alla vita consacrata nella famiglia
​
oggi" sono giunti a Praga 72 partecipanti, di cui 9 vescovi, assieme ai responsabili per la pastorale
vocazionale e ai delegati delle Conferenze episcopali in Europa e delle Congregazioni religiose, provenienti
da 20 Paesi europei e dalla Commissione per la Vita consacrata degli Usa. I lavori, che si svolgono a porte
chiuse, si concluderanno giovedì prossimo con l’approvazione di un comunicato finale che sarà proposto in
italiano, inglese, francese e tedesco nella mattinata di venerdì 10 luglio. (I.P.)
Card. Filoni a Burgos: il Popolo di Dio oggi è missionario?
◊ “La celebrazione più bella e sognata di un Decreto conciliare, e di tutto il Concilio nel suo insieme, è quella
di poter costatare che detto Decreto si è invecchiato come documento scritto, ma è ancora vivo perché è
stato accolto e attuato normalmente nell’esperienza ecclesiale. Possiamo applicare questa recezione al
Decreto ‘Ad Gentes’ sull’attività missionaria della Chiesa, in concreto?”. Questo interrogativo è stato il punto
di partenza della conferenza inaugurale della 68ma Settimana di Missiologia di Burgos, tenuta dal Card.
Fernando Filoni, Prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli. La Settimana, che si è
aperta ieri pomeriggio e si concluderà giovedì prossimo, si tiene presso la Facoltà di Teologia di Burgos, e
quest’anno ha per tema “Significato e sfide della missione oggi. A 50 anni dal Decreto Ad Gentes”.
Il Decreto Ad Gentes è sempre nuovo
Nella sua ampia relazione sul tema “Il Decreto Ad Gentes: una visione teologica e pastorale della missione” ­
riferisce l'agenzia Fides ­ il card. Filoni ha evidenziato anzitutto che non si tratta di celebrare un anniversario
di qualcosa di rilevante del passato, in quanto per “il Vaticano II non succede così, perché si tratta di un
avvenimento vivo, che non si è esaurito”. Dopo aver ripreso la definizione missionaria della Chiesa data dal
Decreto, espressa attraverso principi e definizioni teologiche di grande portata, il Prefetto del Dicastero
Missionario ha rilevato come ai nostri giorni sia “evidente che la definizione missionaria della Chiesa è stata
assunta in tutti i documenti ufficiali del magistero”, tuttavia si è chiesto: “possiamo affermare che il Popolo di
Dio sia oggi un popolo missionario?”.
Per l'immagine di una "Chiesa tutta missionaria” la strada è ancora lunga
Il card. Filoni ha quindi evidenziato: “Non vi è dubbio che la missionarietà ha occupato la riflessione pastorale
di numerose Conferenze episcopali, con risultati diversi… Altri episcopati tentano ora di uscire dal lungo
letargo missionario nel quale hanno vissuto per secoli. Forse per questo motivo, Papa Francesco, in
Evangelii gaudium, centra il suo discorso di conversione alla missione sui pastori: se questi non cambiano,
sarà veramente difficile che il Popolo di Dio ne prenda coscienza”. Per arrivare all’immagine di “una Chiesa in
stato di missione, di una Chiesa tutta missionaria” la strada è ancora lunga, ma “non c’è dubbio che
nell’epoca postconciliare si è fatto poco per raggiungerla. La Chiesa missionaria continua ad appartenere ai
missionari ad gentes o inter gentes” ha rilevato il Prefetto del Dicastero Missionario.
La missione interna e la missione ad gentes hanno acquistato dimensioni globali
Tuttavia, a livello di coscienza missionaria dell’intero Popolo di Dio, non mancano anche elementi positivi, ha
rilevato il porporato facendo una panoramica dei continenti. Soffermandosi quindi sullo sviluppo della
missionarietà, ha ricordato: “Una prova evidente di una nuova coscienza missionaria si trova nel campo
concreto dell’attività missionaria, nella missionarietà della comunità cristiana. E’ un agire che non è più
unidirezionale, dal Nord al Sud, dai ricchi ai poveri; si tratta, infatti, di un agire communionale, dove tutti
hanno qualcosa da dare e qualcosa da ricevere, sia all’interno delle chiese, sia in ordine a portare il Vangelo
ai non cristiani. Sia, dunque, la missione interna, sia la missione ad gentes hanno acquistato dimensioni
globali, di tutta la Chiesa per tutto il mondo”.
La cooperaziome missionaria deve coinvolgere tutto il Popolo di Dio
Nell’ultima parte della sua conferenza, il Prefetto del Dicastero Missionario ha parlato della cooperazione
missionaria: “frutto di una coscienza missionaria, non si limita a una partecipazione individuale nella varietà
di azioni missionarie; si tratta di un coinvolgimento di tutto il Popolo; è un operare comune. Si parla sempre
del soggetto che coopera donando; è lui il protagonista in quanto donatore. Dall’altra parte si trova colui che
riceve e che non è mai visto come cooperatore. Chi dà coopera, chi riceve è mero soggetto passivo.
Tuttavia, questo non manifesta una autentica struttura communionale cristiana. In questa tutti danno e tutti
ricevono; ognuno mette in comune ciò che ha e ognuno partecipa dei doni del fratello, sui quali poggia la
beatitudine di chi riceve”.
Il Decreto conciliare non è stato ancora accolto in pienezza dal Popolo di Dio
Nelle conclusioni il card. Filoni ha affermato tra l’altro: “Dalla pubblicazione del Decreto Ad gentes fino
​
all’Esortazione Evengelii gaudium, è trascorso mezzo secolo, nel quale l’attività missionaria della Chiesa non
si è fermata. In realtà, la Chiesa non sa fare altro, se non annunciare la Buona Novella. Tuttavia, la solenne
proclamazione conciliare sulla Chiesa missionaria per natura non è stata ancora accolta nella sua pienezza
dalla totalità del Popolo di Dio. E questa dovrebbe essere la grazia più grande che questo Popolo può
ricevere e l’unica azione richiestagli per essere fedele alla sua identità”. (S.L.)
Cile. Card. Ezzati: difendere la vita sin dal concepimento
◊ Si respira ancora aria di festa, in Cile, dopo la storica vittoria calcistica sull’Argentina, ottenuta il 4 luglio,
nell’ambito della Coppa America 2015. Ed è proprio partendo da questo contesto sportivo che il card. Ricardo
Ezzati Andrello, arcivescovo di Santiago del Cile, ha diffuso una sua riflessione sul quotidiano “La Tercera”.
La nota, intitolata “Giocatori per una vita degna”, ricorda che, pur nel contesto calcistico della Coppa
America, in realtà in Cile “si sta giocando un’altra partita storica, ovvero quella relativa al dibattito sulla
depenalizzazione dell’aborto”.
L’aborto non è mai terapeutico
Da tempo, infatti, è in discussione una proposta normativa mira a depenalizzare l’interruzione volontaria di
gravidanza in tre casi: quando la gestazione mette in pericolo la vita della madre; quando il feto presenta
malformazioni incompatibili con la vita e nel caso in cui la madre sia rimasta incinta in seguito ad uno stupro.
Ricordando, dunque, che la Chiesa ha a cuore tanto il nascituro, quando la donna che lo porta in grembo, il
card. Ezzati Andrello scrive: “Non vogliamo sottoporre la donna ad un’esperienza devastante che non
dimenticherà mai, perché l’aborto non è mai terapeutico”.
Diritto alla vita appartiene ad ogni essere umano, sin dal concepimento
“Entrambe le vite, sia quella della madre che quella del bambino, sono importanti – continua la riflessione –
Ed è per questo che un atteggiamento autenticamente umano guarderà sempre alla vita, alla dignità ed al
bene primario della madre e del figlio, e giammai all’esclusione ed alla soppressione deliberata di uno di loro”.
Quindi, l’arcivescovo di Santiago precisa che il diritto alla vita, che tutti gli esseri umani hanno dal
concepimento e fino alla morte naturale, suppone condizioni dignitose, quali abitazioni adeguate, educazione
di qualità, lavoro decente, salario giusto, opportunità di sviluppo integrale.
La Chiesa rispetta, difende e promuove sempre la vita
A questo proposito, il card. Ezzati ribadisce: “La voce della Chiesa non ha mai mancato di rispettare,
difendere e promuovere la vita umana, specialmente quando essa viene minacciata. Non ha mancato in
passato, quando la persecuzione politica costava la vita, l’integrità e la libertà della persona; non ha titubato
in questi ultimi anni, richiamando l’attenzione sugli scandali della disuguaglianza, delle condizioni carcerarie
precarie, del maltrattamento degli immigranti, delle tante discriminazioni. E tanto meno tace oggi, quando gli
esseri umani più innocenti sono in pericolo e le loro madri vivono situazioni drammatiche”.
No allo “scarto”. Aiutare le madri senza mettere a rischio vita dei figli
Citando, poi, l’Enciclica Laudato si’ di Papa Francesco, l’arcivescovo cileno evidenzia che “quando non si
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riconosce nella realtà stessa l’importanza di un povero, di un embrione umano, di una persona con disabilità,
difficilmente si sapranno ascoltare le grida della natura stessa”. Infine, il card. Ezzati sottolinea che la Chiesa
mette in campo tutti i suoi sforzi per porre fine alle esclusioni sociali: “Non vogliamo aggiungere le madri
traumatizzate o i bambini non nati alla lista di persone ‘scartate’ dalla società, come dice Papa Francesco”,
perché “in questa logica di mercato che ignora i deboli ed i disabili, non possiamo rassegnarci”. “Una società
giusta ed inclusiva – conclude la nota – deve aiutare le madri ad affrontare questi drammi dolorosi, senza
mettere a rischio la vita dei loro figli”. (I.P.)
Panama: plenaria dei vescovi su famiglia, creato e corruzione
◊ A pochi giorni dalla chiusura dell’Assemblea plenaria dei vescovi di Panama, l’agenzia Fides ha diffuso
oggi i punti fondamentali dei cinque giorni di incontro. Al centro del dibattito, il valore della famiglia, la
riconciliazione nazionale, la corruzione e il cambiamento climatico richiamato nell’Enciclica “Laudato sii” di
Papa Francesco. Numerosi i richiami all’attualità sociale del Paese.
Verso l’Incontro mondiale delle famiglie
“La famiglia va difesa da tutti”, scrivono i vescovi panamensi, “da chi gestisce il potere pubblico come dalla
società civile, dalla Chiesa cattolica e da tutte le confessioni”. L’orizzonte è quello dell’Incontro mondiale
delle famiglie, che si terrà il prossimo settembre negli Stati Uniti, e del Sinodo dei vescovi sulla famiglia, in
calendario a Roma nel mese di ottobre.
Corruzione e riconciliazione
I vescovi hanno anche voluto ricordare il difficile cammino di riconciliazione nazionale, avviato dal presidente
Juan Carlos Varela lo scorso dicembre, a 25 anni di distanza dall’intervento Usa contro il dittatore Noriega.
“Non possiamo costruire la pace senza verità e giustizia, non possiamo vivere nella falsità e nella
menzogna”, hanno scritto. Un’esigenza più che mai attuale, visti i casi di corruzione emersi nell’ultimo anno,
in cui parrebbero essere coinvolti diversi esponenti del governo dell’ex­presidente Ricardo Martinelli. Antidoto
alla disonestà è, secondo i vescovi, la creazione di “una cultura dell’onestà e della trasparenza, che
contribuisca al bene comune e denunci ogni forma di corruzione”.
“Proteggiamo la nostra casa comune”
Richiamandosi all’Enciclica di Papa Francesco, i vescovi hanno sottolineato come “nel territorio panamense
stiamo già vivendo gli effetti del cambiamento climatico: una crisi ecologica dovuta alla devastazione delle
foreste, all’uso di pesticidi nocivi nell’agricoltura e all’esaurimento delle fonti di acqua”. Nell’ultimo ventennio il
Panama ha perso 540mila ettari di foreste a causa dell’urbanizzazione e dello sfruttamento agricolo
intensivo, rendendo più vulnerabili le popolazioni rurali, la cui sopravvivenza è legata alla coltivazione su
piccola scala. Citando le parole di Papa Francesco, i vescovi concludono che, anche a Panama, “la sfida più
urgente è proteggere la nostra casa comune”. (G.Z.)
Francia: documento sul clima dei leader religiosi ◊ Con una dichiarazione consegnata al Presidente francese François Hollande, la Conferenza dei
responsabili del culto in Francia (Crcf) ha indirizzato ai partecipanti alla Conferenza delle Nazioni Unite sui
cambiamenti climatici (Cop2), che si terrà a Parigi a dicembre, la richiesta di un accordo vincolante per far
fronte alla crisi climatica e la limitazione a 2 gradi centigradi dell’aumento della temperatura, obiettivo,
quest’ultimo concordato a livello internazionale per contenere il riscaldamento globale. Ai leader mondiali si
domanda l’impegno ad uscire dall’era dei combustibili fossili e a ridurre le emissioni ad effetto serra con
norme che garantiscano la trasparenza, la responsabilità e un regolare processo di revisione degli obiettivi;
che proteggano i più vulnerabili dall’impatto dei cambiamenti climatici; che promuovano uno sviluppo
ecologicamente responsabile e la lotta contro la povertà; che garantiscano un rafforzamento delle
conoscenze e competenze.
Il contributo del Consiglio ecumenico delle Chiese
Le richieste formulate nel documento scaturiscono anche dalla campagna Act, Azione per la giustizia
climatica, sostenuta attivamente dal Consiglio ecumenico delle Chiese che nel suo portale istituzionale
riferisce della visita dei leader religiosi all’Eliseo. La dichiarazione presentata al Presidente francese è stata
sottoscritta dalla Conferenza dei vescovi di Francia, dalla Federazione protestante di Francia, dall’Assemblea
dei vescovi ortodossi di Francia, dall’Unione buddista di Francia, dal Consiglio francese del culto musulmano
e dal Concistoro centrale israelita di Francia ed esprime viva preoccupazione per le generazioni future
sottolineando che la crisi climatica è una sfida spirituale e morale. “E’ interpellata la nostra coscienza
spirituale e morale. La nostra sfida è quella di agire per la giustizia, di lavorare per la pace, di intervenire
urgentemente per un futuro sicuro e sostenibile per i nostri figli” si legge nel documento, che evidenzia la
necessità di revisionare i modelli economici di produzione e consumo senza limiti.
Il sostegno all’iniziativa della campagna 'Digiuno per il clima'
A sostenere l’iniziativa della Conferenza dei responsabili del culto in Francia è stata nei giorni scorsi la
campagna 'Digiuno per il clima' che ha voluto sensibilizzare alla responsabilità per la sicurezza climatica. La
Conferenza dei responsabili del culto in Francia è stata creata il 23 novembre del 2010 e rappresenta Chiese
cristiane cattoliche, ortodosse e protestanti, buddisti, musulmani ed ebrei. (T.C.)
10.mo attentati a Londra, britannici ricordano le vittime
◊ Vetture ferme e un minuto di raccoglimento: così i trasporti pubblici londinesi ricordano oggi il decimo
anniversario dell'attacco dei 4 kamikaze legati ad al Qaeda che il 7 luglio 2005 compirono una strage in tre
diversi settori della metropolitana e su un autobus causando in totale 52 morti e oltre 700 feriti nel più
sanguinoso attacco terroristico perpetrato nella capitale britannica.
Messa a St. Paul Cathedral e commemorazione ad Hyde Park
La ricorrenza è stata segnata fin dalle prime ore del mattino dalla deposizione di fiori e da brevi cerimonie, su
uno sfondo di allerta per la sicurezza rilanciato in questi giorni anche in seguito all'attentato contro turisti
(soprattutto britannici) compiuto in Tunisia. Sono in programma una liturgia in ricordo delle vittime a St. Paul
Cathedral e una commemorazione di fronte al memoriale del 7/7 di Hyde Park, alla presenza di superstiti,
leader politici e del principe William. (A.G.)
Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LIX no. 188
E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del
Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va
Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili, Anna Poce e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di
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