Chomsky - Articoli Vari - Netsaver Paul

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Chomsky - Articoli Vari - Netsaver Paul
Noam Chomsky - Note
sull'anarchismo
Il presente saggio costituisce la rielaborazione dell'introduzione all’edizione inglese di
L’anarchisme: de la théorie à la pratique di DANIEL GUERIN.
Uno scrittore francese, simpatizzante anarchico, scriveva nell'ultimo decennio del
secolo scorso che "l'anarchia ha le spalle larghe; come la carta, sopporta qualunque
cosa" - ivi compresi, egli notava, coloro le cui azioni sono di tal fatta che "un nemico
mortale dell'anarchia non avrebbe potuto agire meglio". Sono molti gli stili di
pensiero e d'azione che sono stati qualificati come "anarchico". Sarebbe vano tentare
di unificare tutte queste tendenze contrastanti in una qualche ideologia o teoria
generale. E quand'anche si tenti di rintracciare nella storia del pensiero libertario una
tradizione vivente in evoluzione, come fa Guérin nel suo L'anarchisme, rimane
difficile formularne le dottrine come una ben determinata teoria della società e del
mutamento sociale. Lo storico anarchico Rudolf Rocker, che traccia un profilo
sistematico
dello
sviluppo
del
pensiero
anarchico
in
direzione
dell'anarcosindacalismo, secondo un'impostazione molto prossima a quella del lavoro
di Guérin, puntualizza esattamente la questione quando scrive che l'anarchismo non
costituisce
"un sistema sociale definito e in sé concluso, quanto piuttosto una ben
determinata tendenza nello sviluppo storico dell'umanità che, in contrasto con
la tutela intellettuale imposta da tutte le istituzioni clericali e governative, lotta
per il libero e incondizionato dispiegamento delle forze individuali e sociali
della vita. La libertà stessa è soltanto un concetto relativo, e non assoluto,
poiché tende costantemente ad espandersi e a coinvolgere sfere sempre più
ampie in una crescente varietà di modi. Per l'anarchico, la libertà non è un
astratto concetto filosofico, ma la concreta possibilità vitale per ogni essere
umano di sviluppare appieno tutte le potenzialità, le facoltà, le doti che la
natura gli ha donato, volgendole a vantaggio della società. Minore è il peso
della tutela ecclesiastica e politica in questo naturale sviluppo, e tanto più ricca
e armonica diverrà la personalità umana, tanto più decisamente essa diverrà la
misura della cultura intellettuale della società in cui è cresciuta."
Ci si potrebbe chiedere che valore abbia studiare una "ben determinata tendenza nello
sviluppo storico dell'umanità" che non si traduce in una specifica e particolareggiata
teoria sociale. In effetti, molti commentatori liquidano l'anarchismo in quanto
concezione utopistica, informe, primitiva, o comunque incompatibile con la realtà di
una società complessa. Nulla peraltro impedirà di sostenere una tesi alquanto diversa:
che in ogni fase della storia il nostro compito deve consistere nello smantellamento di
quelle forme di autorità e d'oppressione che sopravvivono a un'epoca in cui potevano
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anche trovare giustificazione nelle esigenze di sicurezza, di sopravvivenza o di
sviluppo economico, ma che ormai contribuiscono a deprimere - anziché ad elevare le condizioni materiali e spirituali della vita. In tal caso, non ci sarà una dottrina
stabile del mutamento sociale, valida per il presente come per il futuro, e nemmeno
necessariamente un'idea specifica e immutabile degli scopi ai quali dovrebbe tendere
il mutamento sociale. Sta di fatto che le nostre cognizioni sulla natura umana e sul
ventaglio delle forme sociali realizzabili sono così rudimentali che ogni dottrina di
ampio respiro va riguardata con grande scetticismo, allo stesso modo come lo
scetticismo è di prammatica quando si sente dire che la "natura umana" o le
"esigenze" o la "complessità della vita moderna" impongono questa o quella forma di
oppressione o di potere autocratico.
Ciò nondimeno, in un dato momento storico abbiamo tutte le ragioni di conferire a
questa ben determinata tendenza nello sviluppo storico dell'umanità, per quanto ce lo
consentono le nostre cognizioni, uno specifico contenuto concreto, corrispondente ai
compiti del momento. Per Rocker, "il problema che si pone nel nostro tempo è quello
di liberare l'uomo dalla maledizione dello sfruttamento economico e
dell'asservimento politico e sociale"; e il metodo non consiste né nella conquista e
nell'esercizio del Potere statale, né nel cretinismo parlamentare, bensì nel
"riorganizzare la vita economica dei Popoli da cima a fondo, edificandola nello
spirito del socialismo".
Ma solo i produttori stessi sono idonei a questo compito, essendo i soli creatori
di valore della società dalla quale può scaturire un nuovo futuro. Spetta loro il
compito di liberare il lavoro da tutti i ceppi impostigli dallo sfruttamento
economico, di liberare la società da tutte le istituzioni e le procedure del Potere
politico, e di spianare la via ad una alleanza di gruppi spontanei di uomini e
donne fondata sul lavoro cooperativo e su di un'amministrazione Pianificata
delle cose nell'interesse della comunità. Preparare le masse lavoratrici della
città e della campagna in vista di questo scopo grandioso e unificarle in una
forza militante è l'obiettivo del moderno anarcosindacalismo, e in questo
obiettivo si risolvono interamente i suoi intenti [p. 108].
In quanto socialista, Rocker dà ovviamente per scontato "che la vera, definitiva e
completa liberazione dei lavoratori è possibile soltanto ad una condizione: quella
dell'appropriazione del capitale, e cioè della materia prima e degli strumenti del
lavoro, terra compresa, da parte dell’intero corpo dei lavoratori".In quanto
anarcosindacalista, egli insiste altresì sulla necessità che le organizzazioni operaie
creino "non solo le idee, ma anche i fatti dello stesso futuro" durante il periodo
prerivoluzionario, che esse prefigurino già in se stesse le strutture della società futura
- prospettando una rivoluzione sociale che smantelli l'apparato statale e che espropri
ad un tempo gli espropriatori. "Ciò che noi poniamo al posto del governo è
l'organizzazione industriale".
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Gli anarcosindacalisti sono convinti che un ordine economico socialista non
può essere istituito mediante i decreti o gli ordinamenti di un governo, ma
soltanto mediante la collaborazione solidale dei lavoratori intellettuali e
manuali in ogni singolo settore della produzione; ossia mediante l'assunzione
della direzione di tutti gli stabilimenti da parte dei produttori stessi modo tale
che i diversi gruppi, stabilimenti e settori dell’industria vengano ad essere dei
membri indipendenti di un organismo economico generale e portino avanti
sistematicamente la produzione e la distribuzione dei prodotti nell'interesse
della comunità, sulla base di accordi reciproci [P. 49].
Rocker scriveva nel momento in cui tali idee erano state messe in pratica in modo
drammatico durante la rivoluzione spagnola. Proprio alla vigilia dello scoppio della
rivoluzione, l’economista anarcosindacalista Diego Abad de Santillan aveva scritto:
... nell'affrontare il problema della trasformazione sociale, la rivoluzione non
può considerare lo stato come un suo mezzo, ma deve fondarsi
sull'organizzazione dei produttori.
Abbiamo seguito questo principio e non vediamo quale necessità vi sia
dell'ipotesi di un potere superiore al lavoro organizzato, al fine di instaurare un
nuovo ordine di cose. Ringrazieremo chiunque ci volesse chiarire quale
funzione possa mai avere lo stato in un’organizzazione economica in cui la
proprietà privata sia stata abolita e in cui non ci sia più spazio per il
parassitismo e per privilegi particolari. La soppressione dello stato non può
essere una questione da prendere con le molle; compito della rivoluzione
dev'essere appunto quello di spazzare via lo stato. O la rivoluzione consegna la
ricchezza sociale nelle mani dei produttori e in questo caso i produttori si
organizzeranno ai fini della debita distribuzione collettiva e lo stato non avrà
ragione d'essere; oppure la rivoluzione non consegna la ricchezza sociale nelle
mani dei produttori, e in questo caso la rivoluzione sarà stata un inganno e lo
stato continuerà ad esistere.
Il nostro consiglio federale dell'economia non è un potere politico ma un potere
di regolazione economica e amministrativa. Esso riceve il suo orientamento dal
basso e opera in conformità alle risoluzioni delle assemblee regionali e
nazionali. Non è che un organo di collegamento, e nient’altro.
In una lettera del 1883, cosi Engels esprimeva il suo dissenso da questa concezione:
Gli anarchici capovolgono l'intera questione. Essi dichiarano che la rivoluzione
proletaria deve incominciare con l'abolizione dell'organizzazione politica dello
stato. [... ]
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Ma distruggerlo in un istante come quello significherebbe distruggere l'unico
organismo per mezzo del quale il proletariato vittorioso può far valere il potere
appena conquistato, può tenere a bada i suoi avversari capitalistici e imporre
quella rivoluzione economica della società senza la quale l'intera vittoria
dovrebbe necessariamente concludersi in una sconfitta e in un massacro della
classe operaia simile a quello seguito alla Comune di Parigi
Viceversa, gli anarchici - e Bakunin nel più eloquente dei modi - mettevano in
guardia dai pericoli della "burocrazia rossa", che si sarebbe rivelata "il più basso e
tragico inganno prodotto dal nostro secolo". L'anarcosindacalista Fernand Pelloutier
si chiedeva: "Lo stato transitorio che si è costretti a subire dev'essere
necessariamente, fatalmente, una galera collettivista? Non può consistere in una
organizzazione libertaria esclusivamente limitata ai bisogni della produzione e del
consumo, essendo scomparsa Ogni istituzione politica? ".
Non pretendo di conoscere la risposta a tale quesito.
Ma sembra chiaro che ove non ci sia modo di trovare una risposta positiva, le
possibilità di una rivoluzione veramente democratica che realizzi gli ideali umanistici
della sinistra non sono molte. Martin Buber poneva il problema in termini lapidari,
allorché scriveva: "Non è nella natura delle cose aspettarsi che un alberello
trasformato in mazza possa mettere foglie".
La questione della conquista o della distruzione del potere statale è quello che Buber
considerava il motivo fondamentale del suo dissenso da Marx. In un modo o
nell'altro, il problema è sorto a più riprese nel corso dei cent'anni successivi,
dividendo i "libertari" dagli "autoritari".
A dispetto delle predizioni di Bakunin sulla burocrazia rossa, e del loro inveramento
sotto la dittatura staliniana, sarebbe ovviamente un errore grossolano interpretare le
controversie di un secolo fa alla luce delle affermazioni dei movimenti sociali
contemporanei in merito alle loro pretese origini storiche. In particolare, è specioso
considerare il Bolscevismo come l'"applicazione pratica del marxismo". Al contrario,
di gran lunga più convincente è in proposito la critica da sinistra del Bolscevismo,
che tiene conto delle circostanze storiche della rivoluzione russa:
La sinistra antibolscevíca del movimento operaio si opponeva ai leninisti in
quanto essi non sfruttavano più a fondo i rivolgimenti russi per scopi
strettamente proletari. I leninisti caddero prigionieri delle condizioni
ambientali e si servirono del movimento rivoluzionario internazionale per
soddisfare delle esigenze specificamente russe, che ben presto divennero
sinonimo delle esigenze del partito-stato bolscevico. Gli aspetti borghesi della
rivoluzione russa vennero a questo punto rintracciati nel Bolscevismo stesso:
nel leninismo si giunse a vedere un settore della socíaldemocrazia
internazionale, che se ne differenziava solo su questioni tattiche .
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Se si volesse cercare un'unica idea guida nella tradizione anarchica, quest'idea
sarebbe a mio avviso quella espressa da Bakunin là dove, parlando della Comune di
Parigi, egli tracciava di sé questo autoritratto:
Io sono un amante fanatico della libertà, considerandola l'unico mezzo in seno
al quale possono svilupparsi e crescere l'intelligenza, la dignità e la felicità
degli uomini; non di questa libertà tutta formale, concessa, misurata e
sottoposta a regolamento dallo stato, menzogna eterna e che in realtà non
rappresenta mai nient'altro all’infuori del privilegio di alcuni fondato sulla
schiavitù di tutti; non di questa libertà individualista, egoista, meschina e
fittizia, vantata dalla scuola di .-J. Rousseau, come da tutte le altre scuole del
liberalismo borghese, e che considera quello che essa dice diritto di tutti,
rappresentato dallo stato, come il limite del diritto di ognuno, ciò che tende
necessariamente e sempre alla riduzione a zero del diritto di ognuno. No, io
intendo la sola libertà che sia veramente degna di tale nome, la libertà che
consiste nel pieno sviluppo delle potenze materiali, intellettuali e morali le
quali si trovano allo stato di facoltà latenti in ognuno; la libertà che non
riconosce altre restrizioni all'infuori di quelle che sono tracciate dalle leggi
della nostra stessa natura: in guisa che, propriamente parlando, non vi siano
restrizioni, poiché tali leggi non ci sono imposte da qualche legislatore dal di
fuori che si trovi sia accanto, sia al di sopra di noi; esse ci sono immanenti,
inerenti e costituiscono la base stessa di tutto il nostro essere, tanto materiale
che intellettuale e morale; invece dunque di trovare in esse un limite, noi
dobbiamo considerarle come le condizioni reali e come la ragione effettiva
della nostra libertà .
Queste idee provengono dall'Illuminismo; la loro radice è nel Discorso sull'origine
dell'ineguaglianza di Rousseau, nei Limiti dell'attività dello Stato di Humboldt,
nell'insistenza con cui Kant afferma, nella sua difesa della rivoluzione francese, che
la libertà è una condizione indispensabile per raggiungere la maturità richiesta per
l'esercizio della libertà stessa, e non un dono da concedere una volta che sia stata
raggiunta tale maturità (cfr. cap. IX, PP. 476-77). Con lo sviluppo del capitalismo
industriale, di un nuovo e imprevisto sistema d'ingiustizie, è toccato al socialismo
libertario conservare ed estendere il messaggio umanistico radicale dell'Illuminismo e
gli ideali liberali classici che sono stati stravolti in un'ideologia al servizio dell’ordine
sociale emergente. Difatti, in base agli stessi principi che inducevano il liberalismo
classico ad opporsi all'intervento dello stato nella vita sociale, anche i rapporti sociali
capitalistici appaiono inaccettabili. Ciò risulta chiaro, ad esempio, dal classico Saggio
sui limiti dell'attività dello Stato di Humboldt, che ha anticipato e forse ispirato il
discorso di Mill e sul quale ritorneremo più avanti (cap. IX, PP. 482-87). Questo
classico del pensiero liberale, ultimato nel 1792, è nella sua essenza profondamente,
seppur prematuramente, anticapitalista. Per farne un'ideologia del capitalismo
industriale, le sue idee vanno annacquate fino a renderle irriconoscibili.
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La visione humboldtiana di una società in cui le catene sociali sono sostituite da
vincoli sociali di reciprocità, e il lavoro sia svolto in piena libertà, richiama alla
mente il giovane Marx (cfr. cap. IX, nota 15), con la sua analisi della "alienazione del
lavoro allorché l'attività lavorativa è estranea al lavoratore... e non parte dalla sua
stessa natura, [sicché] egli non si realizza ma nega se stesso nel lavoro [e ne esce]
esausto nel fisico e abbrutito nella mente". La tesi, cioè, che il lavoro alienato "
ricaccia alcuni lavoratori in condizioni di lavoro barbare e altri li riduce a macchine",
privando in tal modo l'uomo del suo "attributo specifico" della "libera attività
consapevole", della "vita produttiva". Analogamente, Marx pensa ad "un essere
umano di tipo nuovo che ha bisogno dei suoi simili... [L'associazione dei lavoratori
viene ad essere] l'effettivo, concreto tentativo di creare la trama sociale dei futuri
rapporti umani". E’ vero che il pensiero libertario classico è contrario all'intervento
dello stato nella vita sociale, in nome di assunti più profondi circa il bisogno umano
di libertà, di diversità e di libera associazione. Ma proprio in base agli stessi assunti, i
rapporti di produzione capitalistici, il lavoro salariato, la competitività, l'ideologia
dell'"individualismo possessivo", tutto ciò va considerato come qualcosa di
fondamentalmente disumano. Il socialismo libertario va considerato propriamente
come l'erede degli ideali libertari dell'Illuminismo.
Rudolf Rocker definisce l'anarchismo moderno come "la confluenza di due grandi
correnti che durante e dopo la rivoluzione francese hanno trovato un'espressione tanto
caratteristica nella vita intellettuale europea: il socialismo e il liberalismo". Le idee
del liberalismo classico, egli sostiene, crollarono di fronte alla realtà delle forme
economiche capitalistiche. L'anarchismo è necessariamente anticapitalistico in quanto
" si oppone allo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo ". Ma l'anarchismo si
oppone anche al "dominio dell'uomo sull'uomo". Esso non si stanca d'affermare che "
il socialismo sarà libero o non sarà affatto. Nel riconoscimento di questa verità sta
l'autentica e profonda giustificazione dell'esistenza dell'anarchismo". Da questo punto
di vista, l'anarchismo si può considerare come l'ala libertaria del socialismo. Ed è in
questo spirito che Daniel Guérin ha affrontato lo studio dell'anarchismo nel suo
L'anarchisme e in altri scritti.
Guérin riprende l'affermazione di Adolph Fischer secondo cui "ogni anarchico è un
socialista, ma non ogni socialista è necessariamente un anarchico". Similmente, nel
suo "manifesto anarchico" del 1865 (il programma della sua progettata fratellanza
rivoluzionaria internazionale) Bakunin fissava il principio che ogni aderente
doveva,tanto per cominciare, essere socialista.
Un anarchico conseguentemente non può che essere contrario alla proprietà privata
dei mezzi di produzione e alla schiavitù del salario che di questo sistema è parte
integrante, in quanto entrambe incompatibili con il principio che il lavoro dev'essere
svolto liberamente e sotto il controllo del produttore. Come diceva Marx, i socialisti
auspicano una società in cui il lavoro diventi "non soltanto un mezzo di vita, ma
anche il primo bisogno della vita ", cosa impossibile finché il lavoratore è spinto
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dall'autorità o dal bisogno esterno anziché dal profondo della sua intima natura:
"nessuna forma di lavoro salariato, sebbene l'una possa eliminare gli inconvenienti
dell'altra, può eliminare gli inconvenienti del lavoro salariato stesso". Un anarchico
conseguentemente non può che essere contrario non solo all'alienazione del lavoro,
ma anche all'instupidente parcellizzazione del lavoro che si determina allorché i
mezzi per sviluppare la produzione
mutilano l'operaio facendone un uomo parziale, lo avviliscono a insignificante
appendice della macchina, distruggono con il tormento del suo lavoro il
contenuto del lavoro stesso, gli estraniano le potenze intellettuali del processo
lavorativo nella stessa misura in cui a quest'ultimo la scienza viene incorporata
come potenza autonoma.......
In tutto ciò Marx vedeva non già un risvolto inevitabile dell'industrializzazione,
quanto piuttosto un aspetto dei rapporti di produzione capitalistici. La società del
futuro deve provvedere a " sostituire all'individuo parziale odierno... ridotto a mero
frammento di uomo, l'individuo totalmente sviluppato, adatto a una varietà di lavori,
per il quale le differenti funzioni sociali non sono che tanti modi di dispiegare
liberamente le proprie potenzialità naturali". Condizione indispensabile di questo
mutamento è l'abolizione del capitale e del lavoro salariato in quanto categorie
economiche (per non parlare degli eserciti industriali dello "stato operaio" o delle
diverse forme moderne di totalitarismo o di capitalismo di stato). La riduzione
dell'uomo ad appendice della macchina, a strumento parcellare di produzione,
potrebbe in linea di principio essere eliminata, anziché esasperata, con lo sviluppo e
l’uso appropriato della tecnologia, ma non nelle condizioni di controllo autocratico
della produzione da parte di coloro che fanno dell’uomo uno strumento da utilizzare
ai propri fini, senza tenere conto, per dirla con Humboldt, dei suoi intenti individuali.
Gli anarcosindacalisti hanno tentato, già in regime di capitalismo, di costituire "libere
associazioni di liberi produttori" che si impegnassero nella lotta militante
preparandosi ad appropriarsi su basi democratiche dell'organizzazione della
produzione. Queste associazioni sarebbero servite da "scuole pratiche di anarchismo
". Se la proprietà privata dei mezzi di produzione è, secondo la frase spesso citata da
Proudhon, solo una forma di "furto" - "lo sfruttamento dei deboli da parte dei forti" il controllo della produzione ad opera di una burocrazia statale, per benevole che ne
siano le intenzioni, non crea neppure esso le condizioni nelle quali il lavoro, manuale
e intellettuale, può diventare il primo bisogno della vita.
Nel suo attacco contro il diritto al controllo privato o burocratico dei mezzi di
produzione, l’anarchico si schiera a fianco di coloro che lottano per portare a termine
"la terza ed ultima fase storica dell'emancipazione ": dopo che la prima ha
trasformato gli schiavi in servi, e la seconda i servi in salariati, la terza abolirà il
proletariato con un ultimo atto di liberazione che consegnerà il controllo
dell'economia nelle mani di libere associazioni volontarie di produttori (Fourier,
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1848). Sempre nel I848, De Tocquevílle denunciava il pericolo incombente sulla "
civiltà ":
Finché il diritto di proprietà è stato l'origine e il fondamento di molti altri
diritti, esso veniva difeso con facilità - o meglio, non veniva nemmeno
attaccato; esso rappresentava quindi la cittadella della società, mentre tutti gli
altri diritti non ne rappresentavano che le fortificazioni esterne; esso non
sosteneva l'urto principale dell'attacco, ed anzi non correva seri pericoli di
assalto. Ma oggi che il diritto di proprietà è considerato come l'ultimo baluardo
del mondo aristocratico, oggi che esso solo rimane in piedi come unico
privilegio in una società egualizzata, la faccenda è diversa. Si pensi a quanto
sta accadendo nei cuori delle classi lavoratrici, anche se debbo ammettere che
finora sono rimaste tranquille. E’ vero che sono infiammate meno di prima da
passioni politiche in senso stretto; ma non vedete che le loro passioni, lungí
dall'essere politiche, sono diventate sociali? Non vedete che a poco a poco si
diffondono nelle loro file idee e opinioni che non mirano semplicemente ad
abolire questa o quella legge, questo o quel governo, ma a sconvolgere le
fondamenta stesse della società?
Gli operai di Parigi nel 1871 ruppero il silenzio, e procedettero ad
abolire la proprietà, la base di ogni civiltà! Sì, o signori, la Comune voleva
abolire quella proprietà di classe che fa del lavoro di molti la ricchezza di
pochi. Essa voleva l'espropriazione degli espropriatori. Voleva fare della
proprietà individuale una realtà, trasformando i mezzi di produzione, la terra e
il capitale, che ora sono essenzialmente mezzi di asservimento e di
sfruttamento del capitale, in semplice strumento di lavoro libero e associato
La Comune, naturalmente, fu soffocata nel sangue. Il carattere della "civiltà" che gli
operai parigini cercavano di abbattere con il loro attacco alle "fondamenta stesse della
società" si palesò ancora una volta nel momento in cui le truppe del governo
riconquistarono Parigi dalle mani della sua popolazione. Come scrisse Marx, con
parole tanto amare quanto veritiere:
La civiltà e la giustizia dell'ordine borghese si mostrano nella loro luce sinistra
ogni volta che gli schiavi e gli sfruttati di quest'ordine insorgono contro i loro
padroni. Allora questa civiltà e questa giustizia si svelano come nuda barbarie
e vendetta ex lege. [...] Le azioni diaboliche della soldatesca rispecchiano lo
spirito innato di quella civiltà di cui essa è la vendicatrice mercenaria. [...] La
borghesia di tutto il mondo, che assiste con compiacimento al massacro dopo
la battaglia, rabbrividisce di orrore al veder profanati la calce e i mattoni!
[Ibid., pp. 925-26, 927].
Nonostante la soppressione violenta della Comune, Bakunin scrisse che Parigi
segnava l'inizio di una nuova epoca, "quella della completa e definitiva
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emancipazione delle masse popolari e della loro vera solidarietà futura, al di sopra e
malgrado le frontiere degli stati... la prossima rivoluzione dell'uomo, internazionale e
fondata sulla solidarietà, segnerà la resurrezione di Parigi" - una rivoluzione di cui il
mondo è ancora in attesa.
L'anarchico conseguentemente dovrebbe dunque essere ad un tempo un socialista, ma
un socialista di tipo particolare. Non solo egli sarà contrario all'alienazione e alla
parcellizzazione del lavoro e mirerà all'appropriazione del capitale da parte dell'intera
massa dei lavoratori, ma insisterà perché quest'appropriazione sia diretta, e non
attuata per il tramite di una qualsiasi forza d'élite che agisca in un modo o nell'altro in
nome del proletariato. In breve, sarà contrario alla
organizzazione della produzione da parte del governo. Vale a dire al socialismo
di stato, al dominio dei funzionari statali sulla produzione e al dominio dei
dirigenti, degli scienziati e dei funzionari di fabbrica sul luogo di produzione...
L'obiettivo della classe operaia è la liberazione dallo sfruttamento.
Quest'obiettivo non sarà né mai potrà essere raggiunto da una nuova classe
dirigente che si sostituisca al governo della borghesia. Si realizzerà soltanto
con il controllo degli stessi operai sulla produzione.
Queste osservazioni sono tratte dalle Cinque tesi sulla lotta di classe del marxista di
sinistra Anton Pannekoek, uno dei più insigni teorici del movimento comunista dei
consigli. E difatti il marxismo radicale fa tutt'uno con le correnti anarchiche.
A titolo di ulteriore chiarimento, si consideri il seguente profilo del "socialismo
rivoluzionario ":
Il socialista rivoluzionario nega che la proprietà statale possa avere altra conseguenza che non sia il dispotismo burocratico. Si è visto perché lo
stato non può gestire democraticamente l'industria. L'industria può essere
controllata e gestita democraticamente dagli operai, mediante l'elezione diretta
di comitati d'amministrazione emananti dalle loro stesse file. Il socialismo sarà
essenzialmente un sistema industriale; il suo corpo elettorale sarà di tipo
industriale.
Pertanto, coloro che portano avanti le attività sociali e le industrie della società
saranno direttamente rappresentati nei consigli locali e centrali
dell’amministrazione sociale.
In questo modo il potere di tali di tali delegati emanerà dal basso,
che svolgono il lavoro e conoscono i bisogni della comunità.
da coloro
Quando si riunirà il comitato centrale dell'amministrazione industriale, esso
sarà rappresentativo di ogni momento dell'attività sociale. Da ciò consegue che
lo stato politico o territoriale del capitalismo sarà sostituito dal comitato
d'amministrazione industriale del socialismo. La transizione dall'uno all'altro
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sistema sociale costituirà la rivoluzione sociale. Nel corso della storia lo stato
politico ha sempre significato il governo degli uomini da parte delle classi
dominanti; la repubblica del socialismo sarà il governo dell'industria gestito
per conto dell'intera comunità. Il primo significava la soggezione economica e
politica della maggioranza degli uomini; il secondo significherà la libertà
economica di tutti gli uomini - e sarà perciò una vera
democrazia.
Questa dichiarazione programmatica compare nel libro di William Paul, The State, Its
Origins and Functions, scritto agli inizi del 1917 - Poco prima di Stato e rivoluzione,
forse la più libertaria delle opere di Lenin. Paul, che più tardi sarebbe stato tra i
fondatori del partito comunista britannico, faceva allora parte del Socialíst Labour
Party di ispirazione marxista-deleonista. La sua critica del socialismo di stato
richiama la dottrina libertaria degli anarchici nell'affermazione di principio che,
siccome la proprietà e la gestione statale porterebbero al dispotismo burocratico, la
rivoluzione sociale deve invece instaurare l'organizzazione industriale della società
fondata sul controllo operaio diretto. Di enunciazioni analoghe se ne potrebbero
citare molte.
Ma la cosa di gran lunga più importante è che queste idee sono state messe in pratica
nel corso di spontanee azioni rivoluzionarie, come ad esempio in Germania e in Italia
dopo la prima guerra mondiale e in Spagna (non solo nelle campagne, ma anche
nell'industrializzata Barcellona) nel 1936. Si potrebbe sostenere che un qualche tipo
di comunismo conciliare costituisce la forma naturale del socialismo rivoluzionario in
una società industriale. Essa rispecchia l'intuizione del fatto che la democrazia viene
ad essere pesantemente limitata laddove il sistema industriale è controllato da un'élite
autocratica di qualsiasi tipo, sia essa costituita da proprietari, dirigenti d'azienda o
tecnocrati, ovvero da un partito "d'avanguardia" o da una burocrazia statale. In queste
concezioni di dominio autoritario gli ideali liberali classici, ulteriormente sviluppati
da Marx, da Bakunin e da tutti i veri rivoluzionari, non possono trovare attuazione;
l'uomo non sarà libero di dispiegare al massimo le proprie potenzialità, e il produttore
rimarrà un "frammento di uomo ", degradato a strumento di un processo produttivo
governato dall'alto.
L'espressione "spontanea azione rivoluzionaria" può prestarsi a equivoci. Gli
anarcosindacalisti, perlomeno, prendevano molto sul serio il richiamo di Bakunin alla
necessità che i lavoratori creassero "non solo le idee, ma anche i fatti dello stesso
futuro" durante il periodo prerivoluzionario. Le realizzazioni della rivoluzione
popolare spagnola, in particolare, affondavano le radici in un paziente lavoro
pluriennale d'organizzazione e d'educazione, quale componente di una lunga
tradizione di impegno e di militanza. Le risoluzioni del Congresso di Madrid del
giugno 1931 e del Congresso di Saragozza del maggio 1936 preannunciavano per
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molti versi i provvedimenti della rivoluzione, e lo stesso può dirsi delle idee un po'
diverse abbozzate da Santillan nel suo progetto abbastanza particolareggiato
dell'organizzazione sociale ed economica che la rivoluzione avrebbe dovuto
instaurare. Scrive Guérin: "La rivoluzione spagnola era relativamente matura nella
mente dei pensatori libertari, come pure nella coscienza popolare". E quando in
seguito all'insurrezione franchista i fermenti degli inizi del 1936 esplosero in una
rivoluzione sociale, esistevano organizzazioni dei lavoratori che possedevano la
struttura, l'esperienza e la consapevolezza necessarie per intraprendere l'opera di
ricostruzione sociale. Nell'introduzione ad una raccolta di documenti relativi alla
collettivizzazione in Spagna, l'anarchico Augustin Souchy scrive:
Per molti anni, gli anarchici e i sindacalisti spagnoli avevano considerato come
loro compito supremo la trasformazione sociale della società. Nelle loro
assemblee sindacali e nei loro gruppi, sui loro giornali, opuscoli e libri, il
problema della rivoluzione era stato discusso incessantemente e in maniera
sistematica.
Ecco quanto stava a monte delle realizzazioni spontanee, del lavoro costruttivo della
rivoluzione spagnola.
La voce del socialismo libertario, inteso nel senso appena detto, è finita soffocata
nelle società industriali dell'ultimo cinquantennio. Le ideologie dominanti sono state
quelle del socialismo di stato e del capitalismo di stato (che negli Stati Uniti si è
venuto sempre più militarizzando, per motivi tutt'altro che oscuri). Ma da qualche
anno a questa parte si assiste ad una ripresa d'interesse. Le tesi di Anton Pannekoek
da me citate sono riportate in un recente opuscolo di un gruppo operaio rivoluzionario
francese (Informations Correspondence Ouvrière). Le osservazioni di William Paul
sul socialismo rivoluzionario sono riprese in una relazione presentata da Walter
Kendall al Convegno nazionale sul controllo operaio di Sheffield, in Inghilterra, nel
marzo 1969. In questo paese il movimento per il controllo operaio è divenuto negli
ultimi anni una forza consistente. Esso ha organizzato diversi convegni e prodotto
una mole notevole di pubblicazioni, e conta tra i suoi attivisti degli esponenti di
alcune tra le più importanti organizzazioni sindacali. L'Unione dei metalmeccanici e
dei metallurgici, ad esempio, ha adottato, quale linea ufficiale, un programma di
nazionalizzazione delle industrie di base sotto il "controllo operaio a tutti i livelli".
Sviluppi analoghi si registrano nell'Europa continentale. Il maggio '68 ha
naturalmente ravvivato ancor più l'interesse per il comunismo conciliare e le sue idee
in Francia e in Germania, così com'è accaduto in Inghilterra.
Data la generale impronta conservatrice della nostra società fortemente ideologizzata,
non desta eccessiva sorpresa il fatto che gli Stati Uniti siano rimasti relativamente
alieni da questi sviluppi. Ma anche qui la situazione potrebbe cambiare. L'erosione
della mitologia della guerra fredda rende quanto meno possibile sollevare questi
problemi in ambienti sempre più vasti. Se si riuscirà a rintuzzare l'attuale ondata
11
repressiva, se la sinistra saprà vincere le proprie tendenze più suicide e costruire sulle
basi di quanto è stato realizzato nel corso dell’ultimo decennio, allora il problema di
come organizzare la società in forma veramente democratica, con un controllo
democratico sul posto di lavoro e in seno alla comunità, dovrebbe diventare una
questione intellettuale di primaria importanza per coloro che sono sensibili ai
problemi della società contemporanea e, con lo sviluppo di un movimento di massa
per il socialismo libertario, dalla teoria si dovrebbe passare all'azione.
Nel suo manifesto del 1865 Bakunin prediceva che un contributo alla rivoluzione
sociale sarebbe venuto da " quella parte intelligente e veramente nobile della gioventù
che, pur appartenendo per nascita alle classi privilegiate, nelle sue generose
convinzioni e ardenti aspirazioni abbraccia la causa del Popolo". Forse nella rivolta
del movimento studentesco degli anni sessanta si può vedere un passo avanti verso
l'avverarsi di questa profezia.
Daniel Guérin ha avviato quello che egli definisce un "processo di riabilitazione"
dell'anarchismo. Egli sostiene, in modo a mio avviso convincente, che "le idee
costruttive dell'anarchismo sono sempre vive, e che esse possono, a condizione di
essere riesaminate e passate al vaglio, aiutare il pensiero socialista contemporaneo a
prendere un nuovo indirizzo [e] contribuire ad arricchire il marxismo". Dalle " spalle
larghe " dell’anarchismo egli ha trascelto per un più attento esame quelle idee ed
azioni che si possono definire di impronta socialista libertaria.
E’ un'operazione logica e giustificata. Questa impostazione permette di includere in
un unico quadro i principali portavoce dell'anarchismo e le azioni di massa che sono
state ispirate da sentimenti ed ideali anarchici. Guérin non si interessa solamente del
pensiero anarchico, ma anche delle azioni spontanee delle forze popolari che di fatto
creano nuove forme sociali nel corso della lotta rivoluzionaria. Egli si interessa tanto
della creatività sociale quanto della creatività intellettuale. Inoltre, egli cerca di
ricavare dalle esperienze costruttive del passato una lezione che valga ad arricchire la
teoria della liberazione sociale. Per coloro che desiderano non solo capire il mondo,
ma anche cambiarlo, questo è il modo giusto di studiare la storia dell'anarchismo.
Guérin considera l'anarchismo del XIX secolo come un movimento essenzialmente
dottrinale, mentre il XX secolo, per gli anarchici, sarebbe stato un periodo di "pratica
rivoluzionaria ". Il suo libro L'anarchisme rispecchia questo giudizio. La sua
interpretazione dell’anarchismo guarda consapevolmente al futuro. Arthur Rosenberg
ebbe ad osservare che è una caratteristica delle rivoluzioni popolari quella di voler
sostituire ad "un'autorità feudale o centralizzata che governa con la forza" un sistema
di tipo "comunale" che comporta "la rovina e la dissoluzione del vecchio stato ". Tale
sistema sarà o il socialismo, o "una forma estrema della democrazia quale premessa
12
del socialismo, stante che il socialismo può essere realizzato solo in un mondo che
fruisca al più alto grado possibile della libertà individuale". Era questo, egli nota, un
ideale comune a Marx e agli anarchici. Questa lotta naturale per la liberazione
contrasta con la tendenza dominante della centralizzazione della vita economica e
politica.
Un secolo fa Marx scrisse che le masse lavoratrici di Parigi " sentirono che vi era una
sola alternativa: o la Comune o l'Impero, sotto qualsiasi nome questo potesse
ripresentarsi ".
L'Impero le aveva rovinate economicamente con lo sperpero delle ricchezze
pubbliche, con le truffe finanziarie su larga scala che esso aveva favorito, con
l'impulso dato all'accelerazione artificiale della concentrazione del capitale e
con la concomitante espropriazione di una gran parte del loro ceto. Le aveva
soppresse politicamente, le aveva scandalizzate moralmente con le sue orge,
aveva offeso il loro volterríanismo affidando l'istruzione dei loro figli ai Fréres
Ignorantins, aveva rivoltato il loro sentimento nazionale di francesi
precipitandoli a capofitto in una guerra che per le rovine provocate aveva
lasciato un solo compenso: la scomparsa dell'Impero.
Il miserabile Secondo Impero era " l'unica forma di governo possibile in un periodo
in cui la borghesia aveva già perduto la facoltà di governare la nazione"
Non è molto difficile riformulare queste osservazioni in modo da farle aderire alla
realtà dei sistemi imperiali del 1970. Il problema di "liberare l'uomo dalla
maledizione dello sfruttamento economico e dell'asservimento politico e sociale"
rimane il problema del nostro tempo. E finché rimarrà tale, le dottrine e la prassi
rivoluzionaria del socialismo libertario serviranno d'ispirazione e di guida.
13
Testo tratto da "Capire il potere" di Noam Chomsky
<http://www.tmcrew.org/archiviochomsky/>
"Vedete, finchè ci sarà il controllo privato dell'economia non importano le forme di
governo, perchè i governi sono impotenti. Si potranno avere partiti a cui la gente
aderisce mobilitandosi per determinare una linea d'azione, ma sulla politica
questo avrà sempre un ruolo assolutamente marginale. Il fatto è che il potere sta
sempre altrove".
Impedire la democrazia in Italia
"...è stato questo il primo grande impegno postbellico (dopo la seconda guerra
mondiale Nda) degli Stati Uniti: distruggere la resistenza antifascista in tutto il
mondo per rimettere al potere organizzazioni più o meno fasciste, e anche molti
collaboratori del fascismo. E' successo dappertutto: da paesi europei come Italia,
Francia e Grecia fino a posti come Korea e la Thailandia. E' il primo capitolo della
storia del dopoguerra: come abbiamo frantumato i sindacati italiani, francesi e
giapponesi e sventato la concretissima minaccia della democrazia popolare che
stava nascendo in tutto il mondo alla fine della guerra.
Il primo grosso intervento americano fu in Italia nel 1948, quando interferimmo
nelle elezioni, e si trattò di un operazione di rilievo. Vedete, gli strateghi
statunitensi temevano che le elezioni democratiche sfociassero in una vittoria del
movimento antifascista , e questa possibilità doveva essere scongiurata per la
solita ragione: gli interessi degli Stati Uniti non vogliono al governo gente con il
tipo sbagliato di priorità. E nel caso dell'Italia fecero un enorme sforzo per
impedire che le forze democratiche popolari che avevano condotto la resistenza
antifascista vincessero le elezioni dopo la guerra. L'opposizione americana alla
democrazia italiana è giunta al punto di sponsorizzare un colpo di stato militare
verso la fine degli anni sessanta per tenere fuori i comunisti (cioè i partiti operai)
dal governo. Ed è probabile che quando tutti i documenti interni americani
saranno rivelati al pubblico scopriremmo che l'Italia è stata il bersaglio principale
delle operazioni della CIA per anni. A quanto pare, lo è stata fino al 1975, cioè fin
dove arrivano i documenti declassificati.
Stessa storia in Francia e in tutta Europa. A ben pensarci, il principale motivo per
la divisione della Germania in una parte occidentale e una orientale (non
dimenticate che è partita dall'Occidente) è stato spiegato abbastanza bene da
George Kennan (del dipartimento di Stato americano), uno dei principali architetti
del mondo postbellico. Nel 1946 Kennan scrisse: dobbiamo "murare" la Germania
Ovest (bella espressione) dalla zona orientale a causa che si sviluppi un
movimento comunista tedesco troppo forte. La Germania è un paese importante,
potente, e visto che allora il mondo era abbastanza spostato verso la
socialdemocrazia un movimento socialista unificato in un posto come la Germania
o il Giappone sarebbe stato assolutamente intollerato. Così ci è toccato murare la
Germania Ovest dalla parte orientale per impedire che accadesse.
L'Italia era un problema particolarmente spinoso perchè lì la resistenza
antifascista era fortissima, estremamente popolare e rispettata. La Francia aveva
un sistema di propaganda molto migliore dell'Italia, perciò sappiamo molto più
della resistenza francese rispetto a quella italiana, ma in realtà la resistenza
italiana fu di gran lunga più significativa di quella francese. La gente che si
impegnò nella resistenza francese era coraggiosissima e lodevolissima, ma
costituiva un settore limitato della società: durante l'occupazione nazista la
Francia nel suo complesso era stata per lo più collaborazionista. Invece l'Italia era
un caso diverso: la resistenza italiana era talmente forte che in pratica aveva
liberato da sola l'Italia del Nord e teneva bloccate sei o sette divisioni tedesche; il
movimento operaio era molto organizzato, con un forte appoggio da prte della
popolazione. Quando gli eserciti americano e britannico arrivarono al Nord, furono
costretti a rovesciare il governo che era già stato insediato dalla resitenza in
quelle regioni e a sabotare i numerosi progressi fatti versi il controllo operaio delle
industrie. E rimisero al posto di comando i vecchi padroni, dal momento che la
rimozione di questi collaboratori del fascismo era stat una "destituzione arbitraria"
dei legittimi proprietari: usarono proprio questa espressione. Quindi sabotammo
anche le procedure democratiche perchè era evidente che le elezioni successive
sarebbero state vinte dalla resistenza e non dagli screditati conservatori. In Italia
c'era il pericolo che vincesse la democrazia - il governo statunitense la definiva
tecnicamente "comunismo" - e come al solito bisognava impedirlo.
La stessa cosa successe in quegli anni anche altrove, e in alcuni paesi con
maggiore uso della violenza. Perciò per distruggere la resistenza antinazista in
Grecia e rimettere al potere i complici dei nazisti c'è voluta una guerra in cui sono
morte forse centosessantamila persone e ottocentomila sono scappate dalle loro
case, tanto che il paese non si è ancora ripreso da quel trauma. In Corea furono
uccise centomila persone alla fine degli anni quaranta, ancor prima che
cominciasse la vera e propria guerra di Corea. Invece in Italia fu sufficente
organizzare forme di sovversione, compito che gli Stati Uniti presero molto sul
serio. Così abbiamo fondato leggi massoniche di estrema destra e gruppi
paramilitari terroristici, abbiamo riportato i crumiri e la polizia fascista, gli
abbiamo tolto il cibo, abbiamo fatto in modo che la loro economia non
funzionasse. Il primo memorandum del Consiglio di sicurezza nazionale, NSC 1,
parla dell'Italia e delle elezioni italiane e afferma che se i comunisti prendono il
potere con le elezioni in maniera legittima e democratica gli Stati Uniti devono
dichiarare l'emergenza nazionale, la Sesta flotta nel Mediterraneo dev'essere
messa in stato d'allerta e si devono avviare attività sovversive in Italia allo scopo
di rovesciare il governo e piani di contingenza in vista di un intervento militare
diretto: ripeto, se la resistenza avesse vinto elezioni democratiche legali.
E non era tanto per ridere, niente affatto, c'era gente ai massimi livelli del
governo statunitense che assumeva posizioni anche più estreme di queste. Per
esempio, il già citato George Kennan, che viene reputato un grande spirito
umanitario, riteneva che dovessimo invadere l'Italia ancora prima delle elezioni
senza nemmeno permettere che succedesse una cosa del genere, ma poi fu
trattenuto da altri che sostenevano che forse potevamo influenzare le elezioni
minacciandoli di farli morire di fame e con ampio utilizzo di terrorismo e
sovversione, una tattica che alla fine si è rivelata efficace.
Una politica simile era seguita dagli Stati Uniti ancora negli anni settanta, quando
si fermano i documenti che sono stati declassificati. La documentazione di cui
disponiamo finora arriva fino al 1975, quando il rapporto della commissione Pike
della Camera fornì parecchie informazioni sulle attività sovversive americane, ma
chissà se tali attività non sono continuate anche dopo. (...) Come dicevo, politiche
del genere sono state messe in atto in Francia, Germania, Giappone e altrove.
Gli Stati Uniti hanno anche resciuscitato la mafia come parte dello sforzo per
spaccare il movimento dei lavoratori europei dopo la guerra. La mafia era stat
praticamente eliminata dai fascisti, che in genere non accettano alcuna
concorrenza e sono molto rigidi. Hitler e Mussolini avevano praticamente
eliminato la mafia, ma quando l'esercito di liberazione americano attraversò la
Sicilia e l'Italia del Sud fino alla Francia la resciuscito come strumento per
impedire gli scioperi. Vedete, gli Stati Uniti avevano bisogno di gorilla per
spezzare le ginocchia degli scioperanti: e dove la trovate gente del genere? La
risposta fu: nella mafia. In Francia la CIA, in collaborazione tra l'altro con i capi
del movimento sindacale americano, fece risorgere la mafia corsa. E i mafiosi non
lo fanno solo per divertirsi, sapete: forse se la passano anche, ma vogliono
qualcosa in cambio. In cambio della repressione del movimento sindacale
francese hanno ottenuto il permesso di far ripartire il traffico d'eroina, che sotto i
fascisti era stato ridotto praticamente a zero. Ecco l'origine della famosa "French
Connection", la principale struttura del narcotraffico nel dopoguerra.
In quel periodo ci furono anche operazioni clandestine che coinvolgevano il
Vaticano, il dipartimento di Stato americano e i servizi segreti britannici e
americani, operazioni tese a salvare e utilizzare molti dei peggiori criminali di
guerra nazisti, impiegandoli esattamente nello stesso genere di attività per cui li
usavano i nazisti, contro la resistenza in Europa occidentale e poi all'Est. Per
esempio, il tipo che aveva inventato le camere a gas, Walter Rauff, fu fatto
entrare in clandestinità perchè organizzasse la attività antiinsurrezionali in Cile. Il
capo dei servizi segreti nazisti sul fronte orientale, Reinhard Gehlen , si unì ai
servizi segreti americani per fare lo stesso lavoro nell'Europa dell'Est. Il "macellaio
di Lione", Klaus Barbie, lavorò per gli americani spiando i francesi fino a quando
non furono costretti a evacuarlo attraverso la "rotta dei topi", gestita dal
Vaticano, verso l'America Latina, dove finì la sua carriera. Anche questo faceva
parte del complessivo sforzo postbellico degli Stati Uniti per distruggere ogni
prospettiva di democrazia indipendente, ed è andata come speravano.
Democrazia di Mercato in un Ordine Neoliberista: Dottrine e
Realtà
Davie Lecture, Università di Città del Capo, Maggio 1997
Noam Chomsky
Sono stato invitato a parlare di alcuni aspetti della libertà umana e della libertà accademica, un
invito che offre molte scelte. Mi concentrerò su alcuni semplici temi. Libertà senza opportunità è un
dono del diavolo, ed il rifiuto a fornire tali opportunità è criminale. Il destino dei più vulnerabili
offre una chiara misura della distanza che ci separa da quella che potremmo definire come "civiltà."
Mentre parlo, mille bambini moriranno di malattie facilmente prevenibili, e un numero quasi doppio
di donne morirà o soffrirà di gravi complicazioni legate alla gravidanza o al parto, per la mancanza
di semplici cure e medicinali. L'UNICEF stima che per rimediare a tali tragedie, e per assicurare
l'accesso generale a servizi sociali di base, sarebbe sufficiente un quarto delle spese militari annuali
dei "paesi in via di sviluppo," e circa il 10% della spesa militare americana. È con questo
background in mente che qualsiasi seria discussione sulla libertà umana dovrebbe procedere.
È dai più accettato che la cura per queste gravi malattie sociali è a portata di mano. Tali speranze
non sono senza fondamento. Gli ultimi anni hanno testimoniato alla caduta di brutali dittature, ad un
progresso della ricerca scientifica che offre grandi promesse, e a molte altre ragioni per cui essere
ottimisti per un promettente futuro. I discorsi dei privilegiati traboccano di fiducia e trionfalismo: il
percorso in avanti è noto, e non ce ne sono altri. Il tema di base, articolato con forza e chiarezza, è
che "la vittoria dell'America nella guerra fredda è stata una vittoria per un insieme di principi
politici ed economici: democrazia e libero mercato." Questi principi sono "l'ondata del futuro (un
futuro di cui l'America è sia guardiano che modello." Sto citando il principale commentatore
politico del New York Times, ma l'immagine è convenzionale, diffusamente ripetuta, ed accettata
come generalmente accurata anche dai critici. Veniva anche enunciata come la "Dottrina Clinton,"
la quale dichiarava che la nostra nuova missione è di "consolidare la vittoria della democrazia e di
mercati aperti" appena ottenuta. Una serie di discordanze permane: ad un estremo "l'idealismo
Wilsoniano" (da Woodrow Wilson, presidente degli Stati Uniti negli anni a cavallo della prima
guerra mondiale, ndt) urge alla continua dedizione alla tradizionale missione di benevolenza;
all'altro estremo, i "realisti" obiettano che potremmo non avere i mezzi per condurre questa crociata
di "migliorismo globale", e che dovremmo evitare di trascurare i nostri interessi nel perseguire il
servizio degli altri. Tra questi due estremi, ci è dato ad intendere, va cercata la via per un mondo
migliore.
La realtà sembra a me alquanto diversa. La gamma di opinioni abbracciata dal corrente dibattito
politico ha scarsa rilevanza nella definizione delle politiche realmente perseguite, come è vero delle
passate politiche: né gli Stati Uniti né alcun'altra nazione sono stati guidati dal "migliorismo
globale". La democrazia è sotto assedio in tutto il mondo, inclusi i principali paesi industrializzati;
perlomeno, democrazia nel senso vero del termine, ovvero democrazia che offra alla popolazione
l'opportunità di gestire i propri interessi collettivi ed individuali. Qualcosa di molto simile si può
dire del libero mercato. L'assedio alla democrazia ed al libero mercato sono inoltre profondamente
legati. Le loro radici vanno cercate nell'enorme potere di corporations dalla struttura
fondamentalmente totalitaria, sempre più interdipendenti e dipendenti da potenti stati, e totalmente
sollevate da ogni responsabilità verso il pubblico. Il loro potere continua a crescere come
conseguenza di politiche sociali che mirano a globalizzare il modello strutturale del terzo mondo,
con settori della società di enorme ricchezza e privilegio, a fianco di un incremento de "la
proporzione di coloro che lavoreranno sotto tutte le privazioni della vita, e segretamente aspireranno
ad una più equa distribuzione dei suoi frutti," come James Madison, uno degli artefici della
democrazia americana, predisse 200 anni fa. Queste scelte politiche sono più chiaramente evidenti
nelle società anglo-americane, ma si stanno estendendo ovunque. E non possono certo essere
attribuite a quello che "il libero mercato ha deciso, nella sua infinita ma mistica saggezza," a
"l'implacabile avanzata della 'rivoluzione di mercato'," a "il ruvido individualismo Reaganiano," o
alla "nuova ortodossia" che "permette pieno controllo al mercato." Le citazioni sono di esponenti
liberal e di sinistra, in qualche caso piuttosto critici. L'analisi è simile, ed in genere euforica, se
consideriamo la rimanente gamma di opinioni. La realtà è invece che l'intervento statale occupa un
ruolo decisivo, come nel passato, e le linee guida delle politiche perseguite sono difficilmente una
novità. La corrente versione di tali politiche riflette "il chiaro soggiogamento del lavoro da parte del
capitale" da più di 15 anni, nelle parole della stampa economica (Business Week, ndt), che spesso
articola con franchezza l'opinione di una comunità economica (*business comunity*) con un'alta
coscienza di classe, e impegnata in una continua lotta di classe.
Se queste mie percezioni sono corrette, è chiaro che il percorso verso un mondo più giusto e più
libero cade ben al di fuori di quello tracciato da potere e privilegio. Non ho la pretesa di voler
provare tali conclusioni qui, ma solo di suggerire che tali conclusioni sono abbastanza credibili da
essere considerate con attenzione. E di suggerire altresì che le attuali dottrine potrebbero
difficilmente sopravvivere non fosse che sono funzionali ad "irreggimentare la mente collettiva
quanto lo è un esercito ad irreggimentare i suoi soldati", per citare la massima di un liberal dell'era
Roosevelt-Kennedy, Edward Bernays, dal suo classico manuale per l'industria delle pubbliche
relazioni, industria di cui Bernays era uno dei fondatori e principali rappresentanti.
Bernays traeva dalla sua esperienza nel Committee on Public Information (Comitato per
l'Informazione Pubblica), l'agenzia di propaganda di stato di Woodrow Wilson. "Chiaramente, era
stato il successo della propaganda durante la guerra (prima guerra mondiale, ndt) che aveva aperto
gli occhi delle poche persone di senno sulle enormi possibilità di irreggimentare la mente collettiva"
scrisse. Il suo obiettivo era di adattare queste esperienze ai bisogni della "minoranza intelligente,"
principalmente business leaders, il cui compito è "la manipolazione cosciente ed astuta delle
abitudini organizzate e delle opinioni delle masse." Questa "manipolazione del consenso" è
"l'essenza del processo democratico," scriveva Bernays poco prima di ricevere un alto
riconoscimento dalla American Psychological Association nel 1949. L'importanza di controllare la
mente collettiva è stata riconosciuta con crescente chiarezza in seguito ai successi di lotte popolari
nell'estendere le modalità democratiche. Queste lotte hanno portato più volte a quello che le elite
liberal chiamano la "crisi della democrazia," ovvero il fenomeno per cui cittadini normalmente
passivi ed apatici si organizzano e cercano di entrare nell'arena politica per perseguire i propri
interessi e richieste, minacciando così la stabilità e l'ordine. Come illustrato da Bernays, con "il
suffragio universale e l'istruzione obbligatoria, ... finalmente anche la borghesia temeva la gente
comune. Ché le masse promettevano di conquistare il regno," una tendenza fortunatamente corretta
(o così viene auspicato) grazie all'ideazione e realizzazione di nuovi metodi per "plasmare la mente
delle masse."
In entrambe le principali democrazie occidentali c'era la crescente consapevolezza che
l'enormemente efficace sistema di propaganda della Prima Guerra Mondiale aveva fornito una
preziosa lezione che "andava ora applicata" ne "l'organizzazione della lotta politica," come veniva
eloquentemente espresso dal segretario del British Conservative Party settant'anni fa. Negli Stati
Uniti simili conclusioni venivano tratte dai liberal Wilsoniani, compresi pubblici intellettuali e
prominenti esponenti dell'allora in ascesa disciplina di Scienze Politiche. In un altro angolo della
civiltà occidentale, Adolf Hitler prometteva che la Germania non sarebbe stata battuta ancora nella
guerra propagandistica, ed ideava nuovi metodi per applicare le tecniche della propaganda angloamericana alla lotta politica in patria.
Negli Stati Uniti, il mondo del business metteva in guardia da "i pericoli che incombono sugli
industriali," conseguenza de "il potere politico ottenuto dalle masse," ed urgeva a condurre e vincere
"l'eterna lotta per la conquista della mente dell'uomo", a "indottrinare il popolo con il pensiero
capitalista" fino a che "questi [potrà] ripetere a memoria questo pensiero con sufficiente
precisione"; e così via, in un impressionante crescendo di pensieri ed azioni che costituiscono uno
dei temi dominanti della storia moderna.
Per scoprire il vero significato dei "principi politici ed economici" promossi come "l'ondata del
futuro", è necessario guardare oltre le frasi retoriche e le dichiarazioni ufficiali, ed investigare le
pratiche effettive e la documentazione interna. L'analisi approfondita di casi specifici è il metodo
più efficace, ma gli esempi vanno selezionati con cura, per dare una visione bilanciata. Un
approccio efficace è quello di esaminare proprio quegli esempi che i proponenti delle dottrine stesse
considerano "a favore." Un altro approccio è quello di selezionare quegli esempi dove l'influenza
(degli Stati Uniti, ndt) è massima e le ingerenze esterne minime, cosicché possiamo esaminare i
principi operativi nella loro forma più pura. Se per esempio vogliamo stabilire che cosa il Kremlino
intendesse per diritti umani e democrazia, non prestiamo granché attenzione alle sdegnate denunce
della Pravda sul razzismo negli USA o sul terrorismo di stato nei suoi stati clienti. Ancor meno alle
loro rivendicazioni di nobili motivi. È molto più istruttivo guardare allo stato dei diritti umani e
della democrazia nelle "democrazie popolari" dell'Europa dell'Est. Il punto è elementare, e va
quindi applicato anche all'auto-designato "guardiano e modello", gli Stati Uniti. L'America Latina è
l'ovvio terreno di prova, particolarmente la regione centro-americana e caraibica, dove per quasi un
secolo Washington ha goduto di una quasi totale mancanza di interferenze esterne, cosicché i
principi guida della politica, e dell'attuale "Washington consensus" neoliberista sono rivelati più
chiaramente dall'esaminare lo stato della regione e come questi si è realizzato. È interessante notare
che tale approccio di analisi viene molto raramente adottato, ed in quei rari casi, immediatamente
castigato come estremista se non peggio.
La "crociata [di Washington] per la democrazia", come viene chiamata, fu condotta con particolare
fervore durante gli anni della presidenza Reagan, con l'America Latina come area scelta. I risultati
sono comunemente offerti come prominente illustrazione di come gli Stati Uniti fossero diventati
"un'ispirazione per il trionfo della democrazia nei nostri giorni," per citare gli editori del principale
giornale del neoliberismo americano (NYT). L'autore, Sanford Lakoff, individua ne "lo storico
North American Free Trade Agreement (NAFTA - trattato nord-americano per il libero commercio,
ndt)" un potenziale strumento di democratizzazione. Nella regione di tradizionale influenza
statunitense, scrive, le nazioni si stanno muovendo verso la democrazia, dopo "aver sopravvissuto
ad interventi militari" e "perverse guerre civili."
Cominciamo allora con l'esaminare più da vicino proprio questi casi recenti, gli ovvi candidati data
la preponderante influenza statunitense, e i casi che vengono regolarmente scelti per illustrare i
successi e le promesse della "Missione americana."
La principale "barriera alla realizzazione" della democrazia, suggerisce Lakoff, sono gli interessi
campanilistici (*vested*) che cercano di salvaguardare "i mercati interni" (ovvero, di prevenire
corporations straniere (principalmente statunitensi) dall'acquisire un ancora maggior controllo della
società. Ci è quindi dato ad intendere che la democrazia viene rafforzata dal delegare un sempre
maggior numero di decisioni a tirannie private, principalmente straniere, totalmente irresponsabili
verso il pubblico, mentre l'arena pubblica subisce un'ulteriore contrazione come conseguenza di uno
stato che viene "minimizzato" in accordo con i "principi politici ed economici" del neoliberismo
finalmente trionfante. Uno studio della Banca Mondiale indica che la nuova ortodossia rappresenta
"un drammatico cambio di direzione da un ideale politico pluralista e partecipativo, verso un ideale
autoritario e tecnocratico...," un ideale in pieno accordo con gli elementi fondanti del pensiero
liberal e progressista del ventesimo secolo e, in un altra variante, con il modello Leninista; i due
sono più simili di quanto spesso riconosciuto. Ragionare sulla logica tacita che motiva tale
ortodossia è molto istruttivo al fine di meglio comprendere i concetti di democrazia e mercato nel
loro significato operativo.
Lakoff nel suo articolo non elabora ulteriormente sul "revival della democrazia" in America Latina,
ma cita una fonte autorevole, una collezione di scritti che include un contributo sulla "crociata" di
Washington degli anni 80. L'autore è Thomas Carothers, che unisce credenziali accademiche e
"prospettiva dell'insider", avendo lavorato in "programmi per il miglioramento della democrazia" al
dipartimento di stato durante la presidenza Reagan. Carothers considera "l'impulso statunitense a
promuovere la democrazia" come "sincero," ma essenzialmente un fallimento. Inoltre, il fallimento
si rivelò sistematico: dove l'influenza statunitense fu minore, in Sud America, si realizzarono
concreti passi verso la democrazia, che l'amministrazione Reagan generalmente oppose, e di cui si
attribuì il merito quando risultò chiaro che il processo era irreversibile. Dove l'influenza di
Washington fu massima, i passi avanti furono minimi, e dove questi comunque si realizzarono, il
contributo statunitense fu marginale se non negativo. La sua conclusione generale è che gli Stati
Uniti cercarono di mantenere "l'ordine essenziale di ... società fondamentalmente antidemocratiche"
e di evitare "cambiamenti di natura populista," perseguendo quindi "inevitabilmente riforme
democratiche limitate e top-down (gerarchiche, dall'alto al basso, ndt), che non rischiassero di
sconvolgere le tradizionali strutture di potere di cui gli Stati Uniti erano stati da sempre alleati."
L'ultima frase richiede alcune parole di commento. Il termine "Stati Uniti" viene
convenzionalmente usato per riferirsi ai gruppi di potere all'interno degli Stati Uniti; gli "interessi
nazionali" sono gli interessi di questi gruppi, ed hanno correlazione minima con gli interessi
generali della popolazione. La conclusione è quindi che Washington perseguì forme di democrazia
limitata e top-down, che non sconvolgessero le tradizionali strutture di potere con cui le strutture di
potere negli Stati Uniti erano da sempre alleate. Un fatto per nulla sorprendente, e tantomeno una
novità storica.
Per meglio apprezzare la rilevanza di questo fatto, è necessario esaminare più da vicino la natura
delle democrazie parlamentari. Gli Stati Uniti ne sono il caso più importante, dato non solo il loro
enorme potere, ma soprattutto le loro stabili e durature istituzioni democratiche. Inoltre, gli Stati
Uniti sono la cosa più vicina ad un modello teorico che si possa trovare. L'America può essere
"tanto felice quanto le pare," dichiarava Thomas Paine nel 1776: "ha una pagina bianca su cui
scrivere." Le società indigene erano state essenzialmente eliminate. Rimanevano pochi residui delle
strutture europee, una delle ragioni che spiegano la relativa debolezza del contratto sociale e di
sistemi assistenziali, che affondano le loro radici in istituzioni pre-capitaliste. E l'ordine sociopolitico era in misura inusualmente ampia frutto di un disegno consapevole. Nello studio della
storia non è possibile condurre esperimenti, ma gli Stati Uniti sono la cosa più vicina che uno possa
trovare al "caso ideale" di democrazia capitalistica.
Inoltre, il principale artefice del sistema costituzionale americano era un astuto e lucido pensatore
politico, James Madison, e furono le sue opinioni a incidere maggiormente sull'impianto
costituzionale. Nelle discussioni sulla costituzione, Madison osservò che se in Inghilterra le elezioni
"fossero aperte a tutte le classi sociali, la proprietà delle classi possidenti sarebbe in pericolo. Ben
presto, una riforma agraria verrebbe attuata," per distribuire la terra ai contadini. Il sistema che
Madison e i suoi associati stavano progettando doveva impedire una simile ingiustizia, ed
"assicurare gli interessi durevoli del paese," che sono poi i diritti di proprietà. È responsabilità del
governo, Madison dichiarò, "proteggere la minoranza degli opulenti dalla maggioranza." Per
ottenere questo obiettivo, il potere politico deve rimanere nelle mani de "la ricchezza della
nazione", uomini che "apprezzino sufficientemente" i diritti di proprietà e che "possano essere sicuri
depositari del controllo di tali diritti," mentre il resto della popolazione viene marginalizzata e
divisa, con solo una partecipazione limitata nell'arena politica. Tra gli studiosi di Madison, c'è un
generale consenso sul fatto che "la costituzione era intrinsecamente un documento aristocratico con
la funzione di porre un freno alle tendenze democratiche del periodo," dando il potere ad una
"classe migliore" di persone ed escludendo "quelli che non erano ricchi, di buona famiglia, o
prominenti, dall'esercizio del potere politico." Queste conclusioni vengono spesso qualificate con
l'osservazione che Madison, e il sistema costituzionale in generale, cercò un equilibrio tra i diritti
della persona e i diritti della proprietà. Ma tale formulazione è fuorviante. La proprietà non ha
diritti. Sia in principio che in pratica, la frase "diritto di proprietà" significa diritto alla proprietà,
tipicamente proprietà materiale, un diritto della persona che deve essere privilegiato rispetto a tutti
gli altri diritti, e che è crucialmente diverso da altri diritti perché il suo possesso da parte di una
persona ne priva le altre. Quando i fatti vengono esposti in modo chiaro, possiamo meglio
apprezzare la forza nella dottrina "i proprietari della nazione hanno il dovere di governarla," "una
delle massime favorite" dell'influente collega di Madison, John Jay, come osservato dal suo
biografo.
Si potrebbe obiettare, come alcuni storici fanno, che tali principi persero la loro forza una volta che
il territorio fu conquistato e popolato, con le popolazioni indigeni cacciate o sterminate. Qualsiasi
sia la valutazione di quegli anni, alla fine del XIX secolo le dottrine fondanti avevano preso una
forma ancor più oppressiva. Quando Madison parlò di "diritti della persona" si riferiva alla persona
fisica. Ma la crescita dell'economia industriale, e l'assurgere di *corporate forms* di imprese
economiche, portò ad una ridefinizione del termine. In un documento ufficiale corrente, "'Persona' è
definita in senso lato come qualsiasi individuo, filiale, gruppo associato, associazione, patrimonio,
trust, corporation, o altra organizzazione (organizzata o meno in accordo con le leggi di un qualsiasi
stato), o qualsiasi entità di governo," una concezione che avrebbe senza dubbio scioccato Madison
ed altri con radici intellettuali nell'Illuminismo e nel liberismo classico (pre-capitalisti e anticapitalisti nello spirito.)
Questi radicali cambiamenti nella concezione dei diritti umani e della democrazia non furono
introdotti per via legislativa, ma principalmente attraverso decisioni giuridiche (verdetti, ndt) ed il
commentario di intellettuali. Le corporations, fino ad allora considerate entità prive di diritti, si
videro accordare i diritti di una persona, e ben di più, visto che sono "persone immortali" e
"persone" straordinariamente ricche e potenti. Inoltre, non erano più limitate agli specifici scopi
determinati dallo State charter, e rimanevano pochi vincoli al loro agire.
Tali innovazioni furono aspramente osteggiate dagli studiosi di diritto conservatori, consapevoli del
fatto che minavano profondamente il principio per cui i diritti sono propri degli individui, nonché i
principi di mercato. Ma le nuove forme di regola autoritaria vennero istituzionalizzate, ed assieme
ad esse venne la legittimazione del lavoro salariato, considerato alla stregua della schiavitù nel
pensiero corrente per la maggior parte del XIX secolo, e non solo dal movimento operaio allora in
crescita, ma anche da figure quali Abraham Lincoln, il partito repubblicano, e i media
dell'establishment.
Questi sono temi con enormi implicazioni per chi voglia comprendere la natura della democrazia di
mercato. Ed aiutano a capire perché la "democrazia" all'estero deve riflettere il modello perseguito
in patria: forme di controllo top-down, con il pubblico relegato ad un ruolo di "spettatore", e
prevenuto dal partecipare al processo decisionale, da cui vanno esclusi questi "outsider ignoranti e
intriganti," secondo la moderna teoria democratica. Sto citando dai saggi sulla democrazia di Walter
Lippmann, uno degli intellettuali e giornalisti americani del secolo più stimati.
Per ritornare alla "vittoria della democrazia" sotto gli auspici statunitensi, né Lakoff né Carothers si
chiedono come Washington abbia mantenuto le tradizionali strutture di potere di società altamente
antidemocratiche. Soggetto dei loro scritti non sono le guerre terroristiche che lasciarono decine di
migliaia di corpi torturati e mutilati, milioni di rifugiati, e devastazioni probabilmente irreversibili
(in larga misura guerre contro la chiesa, che divenne un pericoloso nemico dal momento che decise
di adottare "l'opzione preferenziale per i poveri," (la nota teologia della liberazione che dà tanti
grattacapi a Giovanni Paolo II, ndt), nel tentativo di aiutare popolazioni sofferenti ad ottenere un
minimo di giustizia e di diritti democratici. È più che emblematico che la terribile decade degli anni
ottanta si sia aperta con l'assassinio di un arcivescovo che era diventato una "voce per i senza voce,"
e si sia chiusa con l'assassinio di sei prominenti intellettuali Gesuiti che avevano perseguito un
simile percorso, in entrambi i casi per mano di forze terroristiche armate ed addestrate dai vincitori
della "crociata per la democrazia." È importante qui sottolineare che i principali dissidenti latinoamericani vennero doppiamente assassinati: sia uccisi che ridotti al silenzio. Le loro parole, la loro
stessa esistenza, sono a mala pena conosciute negli Stati Uniti, a differenza dei dissidenti di stati
nemici, sommamente onorati ed ammirati; un altro principio culturale universale immagino.
Tali temi non entrano a far parte della storia raccontata dai vincitori. Nello studio di Lakoff per
esempio, per nulla atipico sotto questo aspetto, quello che resta sono riferimenti a "interventi
militari" e "guerre civili," senza alcun agente esterno preso in considerazione. Questi temi tuttavia,
non devono venire ignorati da coloro che cerchino di meglio comprendere i principi invocati a
modello per il futuro.
Particolarmente istruttiva è la descrizione del Nicaragua fatta da Lakoff: "una guerra civile si
concluse a seguito di elezioni democratiche, ed è in corso un difficile tentativo di creare una società
più prospera ed autonoma." Quello che effettivamente successe nel mondo reale è che la
superpotenza responsabile dell'aggressione al Nicaragua aumentò i suoi atti di aggressione
all'indomani delle prime elezioni democratiche del paese: le elezioni del 1984, attentamente
monitorate e giudicate legittime in molteplici rapporti di commissioni internazionali, tra cui quelli
dell'associazione professionale di studiosi Latino-americani (LASA), di delegazioni dei parlamenti
Irlandese e Britannico, di un'ostile delegazione del governo Danese piuttosto vicino
all'amministrazione Reagan, nonché della principale figura della democrazia centro-americana, Jos
Figueres, presidente della Costa Rica e osservatore molto critico, che ciononostante riconobbe la
legittimità delle elezioni, che si tenevano in un "paese occupato," e incoraggiò gli Stati Uniti a
permettere ai Sandinisti di "portare a termine quello che hanno cominciato; se lo meritano." Gli
Stati Uniti erano fortemente opposti a tali elezioni, e cercarono in tutti i modi di sabotarle,
preoccupati che elezioni democratiche potessero interferire con la loro guerra terroristica. Ma tali
preoccupazioni si rivelarono infondate, grazie all'egregia condotta in patria del sistema dottrinale
che impedì efficacemente la divulgazione di tali rapporti, e adottò riflessivamente la versione dei
fatti presentata dalla propaganda di stato, che giudicava le elezioni una frode, e prive di alcun
significato.
Altrettanto trascurato è il fatto che all'avvicinarsi della successiva scadenza elettorale (1990, ndt),
gli USA non lasciarono dubbi su quali sarebbero state le conseguenze della vittoria del candidato
sbagliato: i Nicaraguensi avrebbero sofferto il persistere dell'illegale guerra economica, e de
"l'illecito uso della forza" (per mano degli USA, ndt) che la World Court aveva più volte
condannato e ordinato di terminare, naturalmente in vano. Questa volta tuttavia le elezioni si
conclusero con un risultato accettabile, risultato accolto negli Stati Uniti con smisurato entusiasmo,
altamente informativo della cultura dominante. Il giornalista Anthony Lewis del New York Times,
considerato vicino all'estremo liberal dei confini del legittimo dibattere, esprimeva la sua
ammirazione per Washington e per il suo "esperimento di pace e democrazia," che dimostrava che
"viviamo in un'età romantica." I metodi sperimentali adottati non erano un segreto, e la rivista Time,
che si unì al coro degli entusiasti per "l'esplosione di democrazia", li sintetizzò con disarmante
franchezza: "ridurre l'economia in rovina, e condurre una lunga ed implacabile guerra mercenaria
(*proxy*) finché l'esausta popolazione nativa non si convincerà essa stessa a rovesciare
l'indesiderato governo" con un costo "per noi" minimo, e lasciando le vittime con "ponti distrutti,
centrali elettriche sabotate, e coltivazioni in rovina," fornendo così al candidato sostenuto da
Washington una "carta vincente", ovvero la fine della "persecuzione del popolo Nicaraguense," per
non parlare del continuo terrore. È bene sottolineare che il costo fu tutt'altro che "minimo" per i
Nicaraguensi: Carothers nota che il numero di vittime "fu considerevolmente più alto del numero di
statunitensi uccisi durante la guerra di secessione statunitense, e più del totale di tutte le guerre del
XX secolo." Il risultato finale era "una vittoria per il fair play statunitense" titolava il NYT
esultante, che descriveva gli americani "uniti nella gioia", nello stile dell'Albania o della Corea del
Nord.
I metodi di questa "età romantica," e la reazione a tali metodi di circoli illuminati, ci aiutano a
capire quali sono i principi democratici che hanno prevalso. Ci aiutano anche a capire il perché sia
una così "difficile impresa" riuscire a "creare una società più prospera ed autonoma" in Nicaragua.
È comunque vero che la difficile impresa viene ora portata avanti con un certo successo per una
minoranza privilegiata, mentre la maggioranza della popolazione deve fare i conti con un disastro
sociale ed economico che ricalca un modello molto familiare nelle colonie occidentali. Ed è
particolarmente interessante notare che il Nicaragua viene portato dagli editori del NYT come un
esempio che dimostra il loro ruolo di "ispirazione per il trionfo della democrazia."
Per meglio comprendere quali sono i principi dominanti è bene ricordare che questi rappresentati
del pensiero intellettuale liberal sono gli stessi che appoggiarono le spietate guerre di Washington in
America Latina, e approvarono il supporto militare a "regimi fascisti, ... non importa quanti saranno
assassinati," perché "gli Stati Uniti hanno priorità più alte dei diritti umani dei Salvadoregni."
Elaborando ulteriormente sul tema, Michael Kinsley, che rappresenta "la sinistra" nei dibattiti
politici televisivi, mise in guardia dal criticare con leggerezza le politiche di Washington di
attaccare obiettivi civili indifesi. Tali operazioni di terrorismo internazionale causano "vaste
sofferenze tra i civili," riconobbe Kinsley, ma possono essere "perfettamente legittime" se
"un'analisi dei costi-benefici" dimostra che "la quantità di sangue e miseria versati" porterà la
"democrazia", democrazia definita nei termini più consoni agli USA. Opinioni illuminate negano
quindi al terrore un proprio valore, e sostengono che questo va giudicato su basi pragmatiche.
E gli stati clienti godono di simili privilegi. Per esempio, H. Greenway, redattore esteri del Boston
Globe, scrivendo dell'ennesimo attacco Israeliano ai danni del Libano, commentò "Se bombardare
villaggi Libanesi, anche a costo di vite umane e di profughi, rendesse sicuri i confini Israeliani e
promuovesse la pace, allora direi di bombardare, e con me concorderebbero molti Arabi e Israeliani.
Ma la storia ci insegna che le avventure Israeliane in Libano hanno quasi sempre causato più
problemi di quelli che hanno risolto." Quindi, è solo in base ad un criterio pragmatico che
l'uccisione di civili, l'espulsione di centinaia di migliaia di profughi, e la devastazione del Libano
del Sud, vengono messi in discussione.
Tenete a mente che mi sto limitando a riportare le posizioni di rappresentanti al limite del legittimo
dissenso, rappresentanti di quella che viene chiamata "sinistra", e questo la dice lunga sui principi
dominanti e sulla cultura intellettuale entro cui tali principi si collocano.
Altrettanto rivelatrice fu la reazione dei media alle periodiche denunce mosse dall'amministrazione
Reagan di presunti piani Nicaraguensi per l'acquisto di intercettatori jet dall'Unione Sovietica
(conseguenza del fatto che gli USA avevano convinto i propri alleati a non fornire tali jets). I falchi
in congresso chiesero che il Nicaragua venisse immediatamente bombardato. Le colombe da parte
loro sostenerono la necessità di verificare prima le accuse mosse, e se confermate, di bombardare il
Nicaragua. Un osservatore sensato non avrebbe trovato difficile capire il perché il Nicaragua
intendesse dotarsi di intercettatori jet: per proteggere il proprio territorio dalle incursioni aeree della
CIA che fornivano gli approvvigionamenti alle forze mercenarie (i contras, ndt), nonché
informazioni aggiornate al minuto sui bersagli indifesi da colpire. L'assunzione tacita è che una
nazione non ha il diritto di difendere la propria popolazione dagli attacchi statunitensi.
Il pretesto per la guerra terroristica di Washington era come al solito la legittima difesa, la
giustificazione ufficiale per qualsiasi atto di guerra, compreso l'olocausto nazista. Infatti Ronald
Reagan, giudicando che "le politiche e le azioni del governo del Nicaragua costituiscono una
straordinaria ed inusuale minaccia alla sicurezza nazionale e alla politica estera degli Stati Uniti,"
dichiarò "un'emergenza nazionale," senza venire minimamente ridicolizzato. Altrove, reagiscono
diversamente. Quando Kennedy cercò di organizzare un'azione collettiva contro Cuba nel 1961, un
diplomatico messicano spiegò che il Messico non poteva dare il suo sostegno perché "se
dichiariamo pubblicamente che Cuba è una minaccia alla nostra sicurezza, quaranta milioni di
messicani moriranno dalle risate." Qui abbiamo una reazione più sobria alle minacce alla sicurezza
nazionale. E usando la stessa logica, potremmo concludere che l'USSR aveva tutto il diritto di
attaccare la Danimarca, una ben maggiore minaccia alla sua sicurezza, e certamente la Polonia e
l'Ungheria quando queste si mossero verso una maggiore indipendenza. Ribadisco che il fatto che
tali patenti assurdità possano essere abitualmente avanzate è un eloquente commento sulla cultura
intellettuale dominante ed un ulteriore indicazione di quello che ci aspetta.
La scarsa sostanza dei pretesti della Guerra Fredda è bene illustrata dal caso di Cuba, come lo sono i
reali principi operativi. Questi sono emersi con notevole chiarezza nelle passate settimane, in
occasione del rifiuto di Washington di accettare il verdetto della World Trade Organization
(W.T.O.) in favore dell'Unione Europea per una disputa sulla legittimità dell'embargo statunitense
contro Cuba, un embargo unico nella sua severità, e già condannato dall'Organization of American
States (OAS: Organizzazione degli Stati Americani) come una violazione del diritto internazionale,
nonché dalle Nazioni Unite in virtuale unanimità. L'embargo è stato recentemente esteso a parti
terze, e prevede severe sanzioni per coloro i quali disobbediscono gli editti di Washington, un
ulteriore violazione del diritto internazionale e di accordi commerciali. La giustificazione ufficiale
dell'amministrazione Clinton, come riportata dal New York Times, è che "l'Europa mette in
discussione tre decadi di politiche americano-cubane, introdotte dall'amministrazione Kennedy ed
interamente mirate a forzare un cambio di governo all'Avana". L'amministrazione dichiarava inoltre
che il W.T.O. "non ha competenza a procedere" in una materia concernente la sicurezza nazionale
degli USA, e non può "costringere gli USA a cambiare le proprie leggi."
Proprio nello stesso periodo, Washington e i media tessevano le lodi del nuovo accordo del W.T.O.
sulle telecomunicazioni, presentandolo come un "nuovo strumento di politica estera" che avrebbe
spinto le altre nazioni a cambiare le proprie leggi e pratiche in accordo con le esigenze di
Washington, trasferendo il controllo dei sistemi di comunicazione nazionali a multinazionali estere,
principalmente americane, in un ulteriore colpo inferto alla democrazia. E tuttavia, il W.T.O. non ha
l'autorità per costringere gli USA a cessare il loro terrorismo internazionale e le loro illegali guerre
commerciali. Libero commercio e diritto internazionale sono come la democrazia: idee ammirevoli,
ma da giudicare in base ai risultati, non al merito.
Il giudizio sul ruolo e le prerogative del W.T.O. ricorda da vicino le motivazioni ufficiali degli Stati
Uniti per la loro non accettazione del verdetto della World Court (Corte Mondiale) in favore del
Nicaragua, per accuse da questi portate contro Washington. In entrambi i casi gli USA non
riconobbero la giurisdizione esterna sulla base della plausibile assunzione che il verdetto sarebbe
stato loro contrario; semplice logica porta quindi a concludere che né la World Court né il W.T.O.
sono forum appropriati. L'allora consulente legale del Dipartimento di Stato Abraham Sofaer spiegò
che quando gli USA riconobbero la giurisdizione della World Court negli anni 40, la maggior parte
dei paesi membri delle Nazioni Unite "era allineata agli USA, e ne condivideva le opinioni
sull'ordine mondiale." Tuttavia oggi "molti di questi paesi non si possono più contare tra le fila di
coloro i quali condividono la nostra visione dello statuto costitutivo dell'ONU." E "questa stessa
maggioranza spesso si oppone agli Stati Uniti su importanti questioni internazionali." Non avendo
quindi la garanzia di averla sempre vinta, gli Stati Uniti devono ora "riservarsi il diritto di
riconoscere o meno giurisdizione alla Corte caso per caso," sulla base del principio che "gli Stati
Uniti non accettano giurisdizione obbligatoria su alcuna disputa che riguardi materie" che gli USA
stabiliscono essere "sotto la [propria] giurisdizione interna". Le "materie interne" nel caso in
questione erano l'attacco statunitense del Nicaragua.
I mass media, e più in generale l'opinione intellettuale, convenirono che la Corte si era discreditata
nell'emettere un verdetto contro gli USA. Parti cruciali del verdetto della corte non vennero
riportate, incluso il giudizio che gli aiuti americani ai contras qualificavano com militari e non
umanitari; i media americani continuarono a parlare di "aiuti umanitari" fino alla fine, quando il
terrore e la guerra commerciale e diplomatica statunitensi portarono alla "vittoria del fair play
USA."
Per ritornare alla disputa in discussione al W.T.O., non vale neanche la pena di giudicare dell'
affermazione che nello strangolamento economico di Cuba è in ballo l'esistenza stessa degli Stati
Uniti. Più interessante è la tesi che gli Stati Uniti hanno tutti i diritti di rovesciare un governo
straniero, in questo caso per mezzo di aggressione, terrorismo su larga scala per molti anni, e
strangolamento economico. Di conseguenza, diritto internazionale e accordi commerciali sono
irrilevanti. I principi fondamentali dell'ordine mondiale che sono emersi vittoriosi risuonano ancora
una volta forti e chiari.
Le dichiarazioni dell'amministrazione Clinton sono state accettate nella più totale mancanza di
critiche, sebbene siano state criticate su basi molto circoscritte dallo storico Arthur Schlesinger.
Scrivendo dalla posizione di "qualcuno coinvolto nella politica cubana dell'amministrazione
Kennedy," Schlesinger osservò che l'amministrazione Clinton aveva male interpretato le politiche
dell'amministrazione Kennedy. L'amministrazione era preoccupata dall' "agitazione nell'emisfero",
e dalla "soviet connection" di Cuba. Queste sono ora parte del passato, quindi le politiche di Clinton
sono un anacronismo, sebbene perfettamente legittime altrimenti.
Schlesinger non spiega il significato delle frasi "agitazione nell'emisfero" e "soviet connection," ma
lo aveva fatto in altra occasione, in segreto. Illustrando le conclusioni della Latin American Mission
(Missione Latino Americana) al presidente entrante nel 1961, Schlesinger spiegò chiaramente cosa
si intendeva per "agitazione [castrista] nell'emisfero": è il "diffondersi dell'idea castrista di prendere
controllo della propria situazione," un problema serio, aggiungeva poco dopo, visto che "la
distribuzione della terra e di altre forme di ricchezza nazionale avvantaggia enormemente le classi
possidenti ... [e] i poveri e i bisognosi, incoraggiati dall'esempio della rivoluzione cubana, chiedono
ora opportunità per condizioni di vita decenti." Schlesinger spiegò anche la minaccia della "soviet
connection": "nel frattempo, l'Unione Sovietica osserva defilata, offrendo sostanziosi prestiti per lo
sviluppo e offrendosi come modello per ottenere la modernizzazione in una singola generazione."
La "soviet connection" veniva percepita in una simile luce su più larga scala a Washington e
Londra, dalle origini della guerra fredda nel 1917 agli anni 60, che sono gli anni più recenti a cui i
documenti interni declassificati arrivano. Grazie a queste (segrete) spiegazioni del significato dell'
"agitazione [castrista] nell'emisfero" e della "Soviet connection," facciamo un ulteriore passo avanti
nella comprensione della realtà della guerra fredda, un altro tema importante che dovrò qui
accantonare. Non dovrebbe quindi sorprendere che le politiche di fondo continuino a persistere
nonostante la guerra fredda sia ormai relegata a memoria del passato, le stesse politiche
regolarmente portate avanti anche prima della rivoluzione Bolscevica: come per esempio la brutale
e distruttiva invasione di Haiti e della Repubblica Dominicana, giusto per citare una tipica
illustrazione del "migliorismo globale" condotto sotto l'egida de "l'idealismo Wilsoniano."
Andrebbe aggiunto che la politica tesa a rovesciare il governo di Cuba precede l'amministrazione
Kennedy. Castro prese il potere nel 1959. Nel giugno di quello stesso anno, l'amministrazione
Eisenhower aveva già deciso che il governo castrista andava rovesciato. Attacchi terroristici da basi
statunitensi cominciarono poco dopo. La decisione formale di rovesciare il governo di Castro in
favore di un regime "maggiormente devoto ai reali interessi del popolo cubano e più accettabile agli
USA" fu presa in segreto nel marzo del 1960, con l'aggiunta che l'operazione doveva essere
condotta "in modo tale da evitare qualsiasi evidenza di un intervento americano," per via delle
prevedibili reazioni in America Latina, nonché per facilitare il compito ai manager
dell'indottrinamento negli Stati Uniti. A quel tempo, la "Soviet connection" e l' "agitazione
nell'emisfero" erano inesistenti se non nella versione Schlesingeriana. Documenti declassificati
rivelano che la CIA stimò che il governo castrista godeva di ampio supporto popolare
(l'amministrazione Clinton è in possesso di simili informazioni oggi). L'amministrazione Kennedy
riconobbe inoltre che i suoi tentativi violavano il diritto internazionale, ed il Charter dell'ONU e
dell'OAS, ma non ritenne necessario discutere il problema.
Parliamo ora dell'accordo NAFTA, lo "storico" accordo che avrebbe dovuto promuovere la
democrazia stile USA in Messico, come suggerito da Lakoff. Un'analisi più accurata risulta ancora
una volta molto istruttiva. L'accordo NAFTA venne sbrigativamente approvato dal congresso a
fronte della strenua opposizione popolare, e del supporto incondizionato del mondo del business e
dei media, pieni di promesse per gli ipotetici benefici per tutti gli interessati derivanti dall'accordo,
benefici confermati dalle fiduciose previsioni della U.S. International Trade Commission
(Commisione internazionale per il commercio, ndt) e dei più noti economisti, dotati di sofisticati
modelli economici (modelli che avevano miseramente fallito nel prevedere le conseguenze deleterie
dell'accordo commerciale USA-Canada, ma che per qualche misteriosa ragione avrebbero
funzionato in questo caso). Completamente accantonata nel dibattito pubblico fu l'accurata analisi
condotta dall'Office of Technology Assessment (OTA: Ufficio per l'Impatto Tecnologico), la quale
concludeva che la versione prevista del trattato NAFTA avrebbe danneggiato la maggioranza della
popolazione del Nord America, e proponeva modifiche che avrebbero esteso i benefici dell'accordo
oltre il ristretto circolo di potenti interessi finanziari. Ancor più istruttivo è notare come la posizione
ufficiale dei sindacati statunitensi, descritta in una simile analisi, venne totalmente ignorata e
soppressa. Allo stesso tempo, i sindacati venivano aspramente condannati per la loro posizione
"arretrata e oscurantista", e per le loro "tattiche di pura intimidazione," motivate dalla "paura del
cambiamento e paura degli stranieri"; sto nuovamente citando da una fonte considerata all'estrema
sinistra dello spettro delle legittime opinioni, in questo caso Anthony Lewis (del NYT, ndt). Le
accuse mosse ai sindacati erano chiaramente false, ma furono le sole parole che raggiunsero il
pubblico in un ammirevole esercizio di democrazia. I dettagli della vicenda sono ancor più
illuminanti, e venivano riportati, e continuano a venire riportati, dalla stampa dissidente, sebbene
continuino ad essere ignorati dai mass media, e siano improbabili candidati per entrare a far parte
della storia ufficiale.
Oggi le favole sulle meraviglie del trattato NAFTA sono state con discrezione accantonate via via
che i dati, non propriamente favorevoli, si rendevano disponibili. Non si sente più parlare delle
centinaia di migliaia di posti di lavoro e degli altri benefici che aspettavano gli abitanti dei tre paesi
interessati (USA, Messico, e Canada, ndt.). E "benevoli punti di vista economici" le "opinioni degli
esperti" (che il NAFTA non ha avuto alcun effetto significativo, hanno preso il posto delle
promesse altisonanti. Il Wall Street Journal riporta che "rappresentanti dell'amministrazione
[Clinton] sono frustrati dall'incapacità di convincere gli elettori che la minaccia (rappresentata dal
NAFTA) non li danneggia" e che la perdita di posti di lavoro "è molto minore di quanto previsto da
Ross Perot," a cui era stato permesso di prendere parte al dibattito pubblico (al contrario dell'OTA,
il movimento sindacale, gli economisti che non appoggiavano la linea ufficiale, e naturalmente gli
analisti dissidenti) perché le sue posizioni erano spesso estreme e facilmente ridicolizzabili. "È
difficile contrastare le critiche dicendo la verità e cioè che il trattato commerciale non ha avuto
essenzialmente alcun effetto," osserva contrariato un rappresentante dell'amministrazione. Quello
che è stato dimenticato è che cosa "la verita" si sosteneva fosse quando l'impressionante esercizio di
democrazia procedeva con il vento in poppa.
Mentre gli esperti hanno declassato le conseguenze del trattato NAFTA a "nessun effetto
significativo," relegando le passate "opinioni degli esperti" al buco nero della memoria, un meno
"benevolo punto di vista economico" viene alla luce se gli "interessi nazionali" sono
sufficientemente ampliati così da includere in essi la popolazione generale. Testimoniando di fronte
al Comitato Bancario Senatoriale (Senate Banking Committee), il segretario della Federal Reserve,
Alan Greenspan, esprimeva il suo ottimismo per la "sostenibile espansione economica" ottenuta
grazie a "l'atipico contenimento nell'aumento delle retribuzioni [che] sembra essere conseguenza di
un'accresciuta insicurezza (per il posto di lavoro, ndt) tra i lavoratori" (un ovvio desideratum di una
giusta società. Il Rapporto Economico del Presidente del febbraio '97, fa più obliquamente
riferimento a "cambiamenti nelle istituzioni e pratiche del mercato del lavoro" come fattori rilevanti
nel "significativo contenimento dei salari" che alimenta la salute economica del paese.
Una ragione di questi benvenuti cambiamenti è svelata da uno studio commissionato dal
Segretariato del Lavoro del NAFTA su "gli effetti della chiusura di impianti sul principio della
libertà di associazione e sul diritto dei lavoratori ad organizzarsi in sindacato." Lo studio è stato
condotto sotto il trattato NAFTA a seguito della denuncia da parte di lavoratori della Sprint per
presunte pratiche antisindacali attuate dalla compagnia (la Sprint è una delle maggiori compagnie
statunitensi di telecomunicazioni, assieme alla AT&T e alla MCI, ndt). La denuncia veniva
esaminata dal U.S. National Labor Relations Board, il quale ordinava penalità simboliche e con
anni di ritardo, una procedura ricorrente. La distribuzione dello studio, condotto dall'economista del
lavoro Kate Bronfenbrenner, della Cornell University, è stata autorizzata in Canada e in Messico,
ma non negli USA dall'amministrazione Clinton. Tale studio rivela il significativo impatto del
trattato NAFTA sulle pratiche anti-sciopero. Circa la metà dei tentativi di organizzazione sindacale
fallisce, conseguenza delle minacce del datore di lavoro di trasferire l'attività all'estero. Le minacce
non sono a vuoto. Quando tali iniziative organizzative hanno comunque successo, i datori di lavoro
chiudono gli impianti in tutto o in parte ad un ritmo tre volte superiore a quello pre-NAFTA (circa il
15% delle volte). La minaccia della chiusura degli impianti è due volte più frequente nei settori più
mobili (per esempio, industrie manifatturiere se paragonate con imprese di costruzione).
Tali pratiche anti-sciopero, assieme ad altre riportate nello studio, sono illegali, ma questo è un
semplice tecnicismo, allo stesso livello di violazioni del diritto internazionale e dei trattati
commerciali quando i risultati della loro applicazione risultano inaccettabili. L'amministrazione
Reagan fece chiaramente capire al mondo del business che le loro illegali attività anti-sindacali non
sarebbero state ostacolate dallo stato, e le amministrazioni che le hanno succeduto hanno continuato
sullo stesso percorso. Tali politiche hanno avuto un sostanziale effetto sulla distruzione dei sindacati
o, con parole più sofisticate, su "cambiamenti nelle pratiche ed istituzioni del mercato del lavoro"
che contribuiscono al "significativo contenimento dei salari," nel contesto di un modello economico
offerto con grande orgoglio ad un mondo arretrato che non ha ancora compreso i principi vittoriosi
che apriranno la strada a giustizia e libertà.
Quello che fin dall'inizio veniva riportato dalla stampa alternativa sugli obiettivi del NAFTA viene
ora tranquillamente ammesso: il reale obiettivo era di "costringere il Messico" alle "riforme" che ne
hanno fatto un "miracolo economico," nel senso tecnico del termine: un "miracolo" per gli
investitori statunitensi ed i ricchi messicani, mentre la popolazione sprofonda nella miseria.
L'amministrazione Clinton "ha dimenticato che il fondamentale scopo del NAFTA non era la
promozione del commercio, ma il consolidamento delle riforme economiche in Messico," riportava
solennemente il corrispondente Mark Levinson, nella rivista Newsweek, dimenticando solamente di
aggiungere che esattamente il contrario era stato solennemente proclamato per assicurare
l'approvazione del NAFTA, mentre critici che segnalavano questo "fondamentale scopo" erano stati
efficacemente esclusi dal libero mercato delle idee dai suoi stessi proprietari. E forse un bel giorno
le ragioni verranno anch'esse svelate. "Costringere il Messico" alle riforme, si sperava, avrebbe
sventato il pericolo individuato in occasione del Latin America Strategy Development Workshop
tenutosi a Washington nel settembre del 1990. Tale workshop concludeva che le relazioni con la
brutale dittatura messicana erano ottime, sebbene si scorgesse un problema potenziale: "una
'apertura democratica in Messico potrebbe mettere alla prova lo speciale rapporto che ci lega,
eleggendo un governo nazionalista più interessato a mettere in discussione gli Stati Uniti e le sue
direttive economiche" oggi non più un problema, visto che il Messico è stato "costretto alle
riforme" per mezzo del trattato (NAFTA). Gli Stati Uniti hanno il potere di ignorare a piacere gli
impegni previsti dai trattati. Non così il Messico.
In breve, il pericolo è la democrazia, in patria come all'estero, come l'esempio scelto ancora una
volta illustra. La democrazia è permessa, pure benvenuta, ma va giudicata in base ai risultati, non al
metodo. Il trattato NAFTA era considerato un efficace strumento per controllare il pericolo della
democrazia. Veniva implementato in casa grazie alla sovversione di fatto del processo democratico,
ed in Messico con la forza, nonostante la vana protesta popolare. I risultati vengono ora presentati
come un promettente strumento per portare la democrazia di stile americano ai Messicani ancora
annaspanti nel buio. Un osservatore cinico a conoscenza dei fatti si troverebbe a dover convenire.
I mercati sono sempre un costrutto (*construct*) sociale, e nella forma specifica in cui sono
strutturati dalle correnti politiche sociali, il loro scopo è di limitare la democrazia, come nel caso del
trattato NAFTA, degli accordi del W.T.O., e di altri strumenti che ci si prospettano per il futuro. Un
caso che merita particolare attenzione è quello del Multilateral Agreement on Investment (MAI:
Accordo Multilaterale sugli Investimenti), correntemente in discussione all'OECD (Organization for
the Economic Cooperation and Development, ndt), il club dei ricchi, ed al W.T.O. (dove viene
chiamato MIA). L'apparente speranza è che l'accordo venga adottato più o meno all'insaputa del
pubblico, come era poi quanto si sperava di riuscire a fare con il NAFTA, speranza parzialmente
vanificata, sebbene il "sistema d'informazione" riuscì a mantenere le parti salienti sotto silenzio. Se
dovessero venire implementati i piani così come sono descritti nell'attuale versione, il mondo intero
potrebbe venire "ingabbiato" in accordi commerciali che forniscono alle corporations trasnazionali
nuovi strumenti per ridurre ulteriormente l'arena di applicazione di politiche democratiche,
consegnando in larga parte le decisioni politiche nelle mani di enormi dittature private che hanno
oltretutto molteplici strumenti di interferenza di mercato. Il tentativo di adottare tali accordi
potrebbe venire bloccato al W.T.O., a causa delle decise proteste dei "paesi in via di sviluppo,"
nella fattispecie India e Malesia, per nulla ansiosi di diventare totali accessori di potenti imprese
straniere. Ma la versione dell'accordo in discussione all'OECD potrebbe avere migliore fortuna, e
una volta approvata, presentata al mondo come fatto compiuto, con le ovvie conseguenze. E tutto
ciò sta procedendo con impressionante segretezza, fino ad oggi.
L'annuncio della dottrina Clinton veniva accompagnato dall'esempio favorito di illustrazione dei
principi usciti vittoriosi: I risultati ottenuti dall'amministrazione Clinton in Haiti. Dato che questo
viene offerto come "esempio a favore", mi sembra appropriato analizzarlo nei dettagli.
È vero che al presidente eletto (padre Bertrand Aristide, ndt) era stato permesso di tornare ad Haiti,
ma solo dopo che le organizzazioni popolari che avevano reso possibile la sua elezione erano state
soggette a tre anni di terrore da forze militari che avevano mantenuto stretti rapporti con
Washington per l'intero periodo; l'organizzazione internazionale per la difesa dei diritti umani
Human Right Watch sostiene che l'amministrazione Clinton ad oggi ancora rifiuta di restituire 160
mila pagine di documenti sul terrore di stato che erano stati confiscati dall'esercito statunitense ("per
evitare imbarazzanti rivelazioni" sul coinvolgimento degli USA con il regime responsabile del
colpo di stato (che aveva portato alla deposizione di Aristide, ndt). Prima di permetterne il ritorno in
patria, era anche stato necessario sottoporre il presidente Aristide ad "un corso intensivo di
democrazia e capitalismo," come veniva descritto dai suoi sostenitori statunitensi il processo di
civilizzazione del prete scomodo. L'espediente non è nuovo, ed è stato usato in altre occasioni in cui
una male accolta transizione alla democrazia è stata contemplata.
Come condizione per il suo ritorno, Aristide è stato costretto ad accettare un programma economico
che indirizza le politiche del governo Haitiano alle esigenze della "Società civile, in particolare il
settore privato, sia nazionale che estero": gli investitori statunitensi sono quindi promossi allo stato
di nucleo principale della Società civile haitiana, assieme ai ricchi haitiani che erano stati tra i
principali sostenitori del colpo di stato militare; non fanno invece parte della società civile i
contadini haitiani e i *slum-dwellers* che, contro tutte le previsioni ed ogni sorta di ostacoli, erano
stati capaci di eleggere un proprio presidente, suscitando immediatamente l'ostilità statunitense e il
tentativo di sovvertire il suo governo, il primo regime democratico in Haiti.
Il risultato delle inaccettabili azioni degli "outsiders ignoranti e impiccioni" veniva quindi annullato
con la forza, con la diretta complicità degli Stati Uniti, complicità che si esprimeva non solamente
attraverso i contatti con il regime golpista. Infatti, l'Organizzazione degli Stati Americani aveva
dichiarato un embargo. Sia l'amministrazione Bush che l'amministrazione Clinton fin dall'inizio non
rispettarono l'embargo, esentandone le compagnie statunitensi, ed anche segretamente autorizzando
la Texaco Oil Company a continuare le forniture al regime golpista ed ai suoi ricchi sostenitori in
violazione delle sanzioni ufficiali, un fatto cruciale che venne rivelato (dalla Associated Press, ndt)
il giorno prima dello sbarco statunitense per "ristabilire la democrazia", ma che non ha ancora
raggiunto il pubblico, ed è improbabile che entri a far parte della storia ufficiale.
Oggi la democrazia è stata ristabilita. Il nuovo governo è stato costretto ad abbandonare il
programma democratico e riformista che scandalizzò Washington, ed a seguire i programmi del
candidato sostenuto da Washington alle elezioni del 1990, elezioni in cui ricevette il 14% dei voti.
L'esempio "a favore" la dice lunga sul significato e le implicazioni della vittoria de "la democrazia e
i mercati aperti."
Gli haitiani sembrano avere imparato la lezione, sebbene i manager dell'indottrinamento in
occidente preferiscano un immagine differente. Le elezioni parlamentari dell'aprile '97 hanno visto
un'affluenza alle urne di "un triste 5%" degli elettori potenziali, come riportato dalla stampa, che si
chiedeva quindi se "Haiti [avesse] tradito le speranze statunitensi" Abbiamo sacrificato così tanto
per portare loro la democrazia, ma sono ingrati e indegni. Possiamo capire perché i "realisti" urgano
a stare alla larga da crociate di "migliorismo globale."
Un simile atteggiamento è comune in tutto l'emisfero. I sondaggi mostrano che in America Centrale
la politica suscita "noia," "sfiducia" ed "indifferenza" in proporzioni di molto superiori ad
"interesse" o "entusiasmo," ed evidenziano un "pubblico apatico ... che si sente spettatore del
proprio sistema democratico" e manifesta "un generale pessimismo per il futuro." La prima indagine
dell'America Latina, sponsorizzata dall'UE, riporta simili risultati: il coordinatore brasiliano
commentava che "il messaggio più allarmante dell'indagine ... era la percezione popolare che solo
l'elite ha beneficiato dalla transizione alla democrazia." Studiosi latino-americani osservano che la
recente ondata di democratizzazione ha coinciso con le riforme economiche neoliberiste, che sono
state molto dannose per la maggioranza della popolazione, e ciò ha portato alla cinica valutazione
delle istituzioni di democrazia formale. L'introduzione di analoghi programmi economici nel paese
più ricco del mondo ha avuto effetti simili. Nei primi anni '90, dopo 15 anni di una versione
americana dei programmi neoliberisti di adattamento strutturale, più dell'80% della popolazione
giudica il sistema democratico una farsa, con eccessivi poteri in mano al business, e l'economia
"inerentemente ingiusta". Queste sono le naturali conseguenze dell'attuazione della "democrazia di
mercato" sotto il controllo del business.
Naturali e per nulla impreviste. Il neoliberismo è vecchio di secoli, ed i suoi effetti dovrebbero
essere noti. Il noto storico Paul Bairoch sottolinea che "non c'è dubbio che il liberismo economico
imposto al terzo mondo nel diciannovesimo secolo è una delle cause fondamentali del ritardo nella
sua industrializzazione," o anche della sua "deindustrializzazione," mentre l'Europa e le regioni che
sfuggirono al controllo del neoliberismo si svilupparono grazie a radicali violazioni dei suoi
principi. Riferendosi al passato più recente, il rapporto segreto di Arthur Schlesinger sulla Latin
American Mission di Kennedy, realisticamente critica la "malefica influenza del Fondo Monetario
Internazionale," che stava allora perseguendo la versione anni '50 del "Washington Consensus"
(neoliberismo, adattamento strutturale). Nonostante tutta la fiduciosa retorica, si sa ancora molto
poco di ciò che determina lo sviluppo economico. Ma alcune lezioni della storia sembrano
ragionevolmente chiare, e di non difficile comprensione.
Torniamo alla dottrina prevalente secondo cui "la vittoria dell'America nella guerra fredda" è stata
una vittoria per la democrazia ed il libero mercato. Per quanto riguarda la democrazia, questo è in
parte vero, sebbene dobbiamo capire che cosa si intenda per democrazia: forme di controllo topdown "per proteggere la minoranza opulenta dalla maggioranza." E per quanto riguarda il libero
mercato? Pure in questo caso troviamo che la dottrina è ben lontana dalla realtà`, come i precedenti
esempi hanno illustrato.
Consideriamo ancora l'accordo NAFTA, un accordo che mirava a costringere il Messico ad una
disciplina economica che proteggesse gli investitori dai pericoli di "aperture democratiche." Le sue
disposizioni la dicono lunga sui principi economici emersi vittoriosi. Non è "un accordo per il libero
commercio." È anzi altamente protezionistico, e pensato così da escludere i competitori europei ed
asiatici. Inoltre, condivide con altri accordi globali principi anti-mercato, come i "diritti di proprietà
intellettuale" che costituiscono restrizioni estremamente severe che le società ricche mai accettarono
durante il loro periodo di sviluppo, ma che ora intendono usare per proteggere l'industria domestica;
per soppiantare l'industria farmaceutica nei paesi più poveri per esempio, e per ostacolare lo
sviluppo tecnologico, come il perfezionamento dei processi produttivi di prodotti brevettati; il
progresso non è più benvisto del mercato, a meno che produca benefici per quelli che contano.
Andrebbe inoltre messo in discussione il concetto stesso di "commercio." Più della metà del
commercio USA con il Messico consiste di transazioni intra-aziendali, una percentuale che è
aumentata del 15% dal passaggio del NAFTA. Per esempio, già un decennio fa industrie locate nel
Messico del nord e principalmente di proprietà statunitense producevano più di un terzo dei motori
usati nelle automobili statunitensi e tre quarti di altra componentistica essenziale. Il collasso postNAFTA dell'economia messicana nel 1994, che risparmiò solo i super ricchi e gli investitori
stranieri (protetti dal salvataggio governativo), portò ad un aumento del commercio USA-Messico,
mentre la nuova crisi, che stava riducendo la popolazione ad una sempre maggior miseria,
"trasformò il Messico in una conveniente fonte di prodotti a basso costo [o meglio, ancor più basso
costo], con salari industriali un decimo dei corrispettivi statunitensi", come riportato dalla stampa
economica. Secondo alcuni esperti, più di metà del commercio statunitense consiste di simili
transazioni a gestione centralizzata, e lo stesso vale per altre potenze industriali. Alcuni economisti
hanno plausibilmente caratterizzato l'attuale sistema mondiale come un sistema di "mercantilismo
corporativo" ben lontano dall'ideale del libero commercio. L'OECD, adottando un simile punto di
vista, sostiene che "sono la competizione oligopolistica e l'interazione strategica tra imprese e
governi, piuttosto che la mano invisibile delle forze di mercato, a determinare il vantaggio
competitivo e la divisione internazionale del lavoro nell'industria ad alta tecnologia."
Lo stesso si può dire dell'economia domestica statunitense, la cui struttura viola i principi
neoliberisti proclamati a gran voce. Il tema dominante dello studio della storia economica
statunitense è che "la moderna azienda prese il posto dei meccanismi di mercato nel coordinamento
delle attività economiche e nell'allocazione delle risorse," gestendo internamente molte delle
transazioni in un'altra significativa deviazione dai principi di mercato. E le deviazioni sono molte.
Si consideri per esempio la sorte del principio sostenuto da Adam Smith che il libero movimento
delle persone, attraverso le frontiere per esempio, è una componente essenziale del libero
commercio. Quando guardiamo al mondo reale delle corporations trasnazionali, ed alle loro
alleanze strategiche con stati potenti, la distanza tra dottrina e realtà si fa considerevole.
La teoria del libero mercato è disponibile in due versioni: la dottrina ufficiale; e quella che
potremmo chiamare "dottrina di mercato realmente esistente" che si può riassumere nel seguente
modo: la disciplina di mercato va bene per te, ma non per me, che ho bisogno dell'assistenza dello
stato. La dottrina ufficiale è imposta a quelli che non vi si possono opporre, ma è la "dottrina
realmente esistente" che è stata adottata dai potenti sin dai giorni in cui la Gran Bretagna emerse
come il più avanzato stato fiscale-militare, grazie ad aumenti sostanziali della pressione fiscale ed
un efficiente amministrazione pubblica, mentre lo stato diventava "il principale singolo attore
economico," responsabile della sua espansione globale, consolidando un modello che è stato seguito
fino ai giorni nostri nel mondo industriale, e certamente negli Stati Uniti.
La Gran Bretagna si convertì infine all'internazionalismo liberista (nel 1846, dopo che 150 anni di
protezionismo, violenza e potere di stato la posero in largo vantaggio su tutti i competitori. Ma la
conversione al mercato non avvenì senza riserve. Il 40% dei prodotti tessili britannici continuò a
fornire l'India colonizzata, e lo stesso si può dire dell'export britannico più in generale. Allo stesso
modo, all'acciaio britannico venne precluso il mercato statunitense per mezzo di alte tariffe che
permisero agli Stati Uniti di sviluppare la propria industria dell'acciaio. Ma l'India ed altre colonie
rimasero disponibili per l'export britannico, e continuarono ad esserlo anche quando l'ormai troppo
elevato prezzo dell'acciaio britannico lo escluse dal mercato internazionale. Il caso dell'India è
istruttivo; nel tardo diciottesimo secolo produceva tanto ferro quanto l'intera Europa, e gli ingegneri
britannici ancora nel 1820 studiavano le più avanzate tecniche manifatturiere dell'acciaio indiane
per cercare di ridurre il "gap tecnologico." Bombay era una competitiva produttrice di locomotive
quando il boom della ferrovia ebbe inizio. Ma le "dottrine di mercato realmente esistenti"
distrussero questi settori dell'industria indiana, così come avevano distrutto l'industria tessile, la
cantieristica navale, ed altre industrie all'avanguardia per gli standard dell'epoca. Gli Stati Uniti e il
Giappone riuscirono invece a sfuggire al controllo europeo, e poterono adottare il modello
britannico di interferenze al mercato.
Quando anche la competizione giapponese si dimostrò al di sopra delle aspettative, l'Inghilterra
pose fine al gioco, e l'impero venne di fatto precluso all'export giapponese, fatti questi che fanno
parte del background della seconda guerra mondiale. Nello stesso periodo, anche l'industria indiana
premette per misure protezionistiche (ma contro la Gran Bretagna, non il Giappone. E chiaramente
con minor successo, date le dottrine di mercato realmente esistenti.
Dopo l'abbandono del seppur limitato laissez-faire negli anni 30, il governo britannico introdusse
politiche più direttamente interventiste anche nell'economia domestica. Nel giro di pochi anni, la
produzione di macchine utensili venne quintuplicata, accompagnata dal boom nell'industria
chimica, l'industria dell'acciaio, l'industria aerospaziale, e tutta una serie di settori emergenti, in
"una nuova ondata di rivoluzione industriale," come scriveva Will Hutton. L'industria britannica a
controllo statale permise alla Gran Bretagna di superare la Germania nella produzione industriale
durante la guerra, ed anche di ridurre il gap con quella degli Stati Uniti, che stavano allora vivendo
una drammatica espansione industriale sotto la direzione dei magnati industriali che avevano preso
il controllo dell'economia di guerra coordinata dallo stato.
Gli Stati Uniti seguirono un percorso analogo a quello seguito dalla Gran Bretagna un secolo prima.
Dopo 150 di protezionismo e violenza, gli USA erano diventati la più ricca e potente nazione del
mondo e, come la Gran Bretagna un secolo prima, arrivarono ad apprezzare i vantaggi di una
"competizione imparziale" in cui avevano la certezza di poter annientare qualsiasi competitore. Ma,
come con la Gran Bretagna, la libera competizione venne introdotta con eccezioni non trascurabili.
Una di tale eccezioni è che Washington usò il suo potere per prevenire all'estero forme di sviluppo
economico indipendente, come aveva fatto l'Inghilterra un secolo prima. In America Latina, in
Egitto e in Asia del sud, come pure altrove, venivano imposte forme di sviluppo "complementari," e
non "competitive," e con ampie interferenze al commercio da parte statunitense. Per esempio, gli
aiuti del Piano Marshall vennero condizionati all'acquisto di prodotti agricoli statunitensi, che è
parte della ragione del perché gli Stati Uniti incrementarono la loro proporzione di produzione
mondiale di grano dal 10% di prima della guerra a più del 50% degli anni 50, mentre l'export
argentino si vide ridotto di circa due terzi nello stesso periodo. Anche gli aiuti del programma U.S.
Food for Peace vennero usati sia per sussidiare (sovvenzionare) l'agribusiness statunitense sia per
ostacolare i produttori stranieri, uno dei tanti stratagemmi per ostacolare lo sviluppo indipendente.
La quasi totale distruzione della produzione colombiana di frumento per mezzo di tali pratiche è
uno dei fattori che hanno determinato il boom del narcotraffico, boom che ha ricevuto ulteriore
impulso in tutta l'area andina dalle politiche neo-liberiste degli ultimi anni. L'industria tessile del
Kenya crollò nel 1994 quando l'amministrazione Clinton impose una quota, impedendogli il
percorso di sviluppo che era stato seguito senza eccezioni da tutti i paesi industrializzati, mentre i
"riformisti africani" venivano ammoniti a "procedere più speditamente" nel miglioramento delle
condizioni per il business, e a "consolidare le riforme di libero mercato" con "politiche commerciali
e di investimento" che soddisfassero le esigenze degli investitori occidentali. Nel dicembre del
1996, Washington bloccò l'import di pomodori dal Messico in violazione delle regole del NAFTA e
del W.T.O. (sebbene non tecnicamente, dato che si trattò di una semplice dimostrazione di forza,
senza bisogno dell'imposizione di alcuna tariffa ufficiale), ad un costo per i produttori messicani di
circa un miliardo di dollari all'anno. La ragione ufficiale per questo regalo ai produttori della
Florida è che i prezzi erano "artificialmente abbassati dalla competizione messicana" e che i
consumatori statunitensi preferivano i pomodori messicani. In altre parole, i principi di libero
mercato stavano funzionando, ma con il risultato sbagliato.
Queste sono solo sparse illustrazioni.
Un altro esempio piuttosto rivelatore è quello di Haiti, assieme al Bengali il premio coloniale più
ambito al mondo e fonte di buona parte della ricchezza della Francia, passato sotto il controllo
statunitense sin da quando i marines di Woodrow Wilson invasero l'isola ottant'anni fa, e ad oggi
una tale catastrofe che potrebbe diventare virtualmente inabitabile in un futuro non troppo remoto.
Nel 1981 venne avviato un piano di sviluppo sponsorizzato dalla Banca mondiale e dallo USAID,
basato su impianti di assemblaggio ed agroexport, trasferendo a tale scopo la terra fino ad allora
utilizzata per il consumo locale. L'USAID prevedeva "una storica svolta verso una progressiva
interdipendenza con gli Stati Uniti" che avrebbe visto Haiti diventare la "Taiwan dei Caraibi." Un
giudizio condiviso dalla Banca Mondiale, che raccomandava l'usuale ricetta basata sull' "espansione
dell'impresa privata" e la minimizzazione degli "obiettivi sociali," con il conseguente incremento di
disuguaglianza e povertà e la riduzione dei livelli di salute pubblica ed educazione; va notato, per
quello che vale, che queste ricette vengono sempre accompagnate da sterili sermoni sul bisogno di
ridurre disuguaglianza e povertà e di migliorare salute ed educazione, e che gli stessi studi tecnici
della Banca Mondiale riconoscono che una relativa uguaglianza economica ed alti standard di salute
ed educazione sono fattori cruciali nel determinare la crescita economica. Nel caso di Haiti le ben
collaudate ricette produssero altrettanto prevedibili risultati: alti profitti per l'industria
manifatturiera statunitense e gli Haitiani ultra-ricchi, ed una riduzione del 56% dei salari Haitiani
negli anni 80 in poche parole un "miracolo economico." Haiti rimane Haiti, e non Taiwan, la quale
ha seguito un corso radicalmente diverso, come devono senz'altro sapere gli esperti della Banca
Mondiale.
E furono proprio i conseguenti sforzi del governo democratico haitiano, tesi a rimediare al crescente
disastro, che provocarono l'ostilità di Washington, nonché il colpo di stato militare ed il terrore che
ad esso seguì. Una volta "ristabilita la democrazia," l'USAID sospendeva gli aiuti, condizionandoli
alla privatizzazione dei cementifici e di altre industrie per il beneficio dei ricchi haitiani e degli
investitori esteri (identificati come la "società civile" haitiana nel piano imposto per ristabilire la
democrazia), ed alla riduzione delle spese per salute ed educazione. L'agribusiness continuava a
ricevere ingenti finanziamenti, mentre nessuna risorsa veniva indirizzata all'agricoltura locale ed
all'artigianato, primarie fonti di reddito per la stragrande maggioranza della popolazione. Gli
impianti di proprietà straniera, che impiegavano i locali (principalmente donne) per salari al di sotto
del livello di sussistenza ed in condizioni di lavoro orrende, beneficiavano egregiamente
dell'elettricità a basso costo sussidiata dal generoso supervisore. Ma agli haitiani in condizioni di
povertà (la maggioranza della popolazione non é permesso fornire sussidi per elettricità, carburante,
acqua o alimenti); questi sono proibiti dalle regole imposte dal Fondo Monetario Internazionale
(FMI), sulla base del principio che costituirebbero un "controllo dei prezzi." Prima dell'attuazione
delle "riforme" la produzione locale di riso era capace di coprire la quasi totalità del bisogno
domestico, con importanti (benefiche) conseguenze per l'economia. Grazie alla "liberalizzazione,"
la produzione locale è scesa ora al di sotto del 50%, con prevedibili conseguenze sull'economia
domestica. Va sottolineato che la liberalizzazione è attuata solo da una parte: Haiti si deve
"riformare," eliminando le tariffe come dettato dai principi della scienza economica (scienza che,
per qualche miracolo della logica) esenta l'agribusiness statunitense, il quale continua a ricevere
ingenti sussidi, aumentati durante l'amministrazione Reagan al punto da fornire nel 1987 il 40% del
reddito lordo degli agricoltori. Le naturali conseguenze di tali politiche sono ben note, e calcolate:
un rapporto dell'USAID del 1995 osserva che "le politiche mirate all'export" imposte da
Washington provocheranno "un'inesorabile stretta per il coltivatore locale di riso," il quale sarà
quindi costretto a perseguire il più razionale obiettivo dell'agroexport per il beneficio degli
investitori statunitensi, in accordo con i principi della teoria delle aspettative razionali.
Per mezzo di tali metodi, il paese più povero dell'emisfero è stato trasformato in importante
acquirente di riso statunitense, così arricchendo le imprese americane sussidiate. Quelli abbastanza
fortunati da aver ricevuto una buona istruzione occidentale saranno senz'altro in grado di spiegare
che i benefici si faranno alla fine sentire anche per i contadini e *slam-dwellers* haitiani. Gli
africani potrebbero ritrovarsi a seguire un simile percorso, come attualmente raccomandatogli dai
leaders del "migliorismo globale" e dall'elite locale, e forse non vedono altra soluzione viste le
circostanze attuali un giudizio a parer mio alquanto discutibile. Ma se comunque decidessero di
intraprendere tale strada, dovrebbero almeno essere consapevoli delle conseguenze.
L'esempio di Haiti illustra una delle più rimarchevoli violazioni della dottrina ufficiale del libero
commercio, ben più importante del protezionismo, che anche in periodi passati fu ben lungi
dall'essere la più significativa delle interferenze di mercato, sebbene sia la più studiata, conseguenza
dell'artificiale suddivisione imposta dalle discipline accademiche, che aiuta a mascherare importanti
realtà sociali e politiche. Per citare un esempio ovvio, la prima rivoluzione industriale dipese dal
cotone a basso costo, così come l'attuale "età dell'oro" del capitalismo contemporaneo dipende dalla
disponibilità di energia a basso costo, ma i metodi per mantenere bassi i prezzi di tali merci
essenziali, metodi che difficilmente si possono giudicare conformi ai principi del libero commercio,
non entrano a far parte della disciplina economica.
Una delle componenti essenziali della teoria del libero commercio è il principio che sussidi statali
non sono permessi. Ma dopo la seconda guerra mondiale, i leader economici statunitensi
concordarono nel giudizio che l'economia sarebbe crollata se non fosse stato per il massiccio
intervento statale che durante la guerra aveva finalmente permesso di superare la depressione.
Insistettero inoltre che l'industria avanzata "non può sopravvivere in una pura, competitiva, e nonsussidiata economia della 'libera impresa'" che "il governo è l'unico in grado di salvarla (come
riportato in Fortune e Business Week, esprimendo il generale consenso del tempo). E riconobbero
che il sistema basato sul Pentagono (industria militare, ndt) sarebbe stato il modo migliore di
trasferire i costi alla popolazione. La spesa sociale avrebbe potuto giocare un simile ruolo, ma ha
difetti non da poco: non è un diretto sussidio all'industria privata, ha effetti "democratizzanti",
nonché effetti redistributivi. La spesa militare non ha alcuna di queste indesiderabili caratteristiche.
Ed è anche facile da vendere: con l'inganno. Il segretario dell'Air Force nell'amministrazione
Truman lo spiegò con disarmante semplicità: dobbiamo evitare di usare la parola "sussidi", disse; la
parola da usare è "sicurezza." E si industriò affinché il bilancio militare "[soddisfacesse] i bisogni
dell'industria areonautica," come egli stesso spiegò. Una delle conseguenze è che l'industria
areonautica civile è oggi l'industria nazionale leader nelle esportazioni, e l'enorme industria di
viaggi e turismo, che si basa sul trasporto aereo, è fonte di notevoli profitti.
È quindi assai appropriato che Clinton, nell'esporre la sua "nuova visione" del futuro del libero
mercato, abbia scelto la Boeing come "un modello per tutte le aziende d'America." Un esempio
perfetto della dottrina di mercato realmente esistente, l'industria areonautica civile è ad oggi quasi
interamente nelle mani di due compagnie, la Boeing-McDonald, e la Airbus (un consorzio europeo,
ndt), entrambe le quali devono la loro esistenza ed il loro successo a sussidi statali su larga scala. Lo
stesso si può dire dell'industria elettronica e dei computer, dell'industria dell'automazione, della
biotecnologia, delle comunicazioni, e più o meno di ogni dinamico settore economico.
Non c'era bisogno di spiegare questa caratteristica fondamentale del "capitalismo del libero mercato
realmente esistente" all'amministrazione Reagan, che era maestra in quest'arte, esaltando le glorie
del mercato ai poveri, e vantandosi contemporaneamente di fronte al mondo del business del fatto
che Reagan avesse "garantito all'industria americana maggiori protezioni dall'import di qualsiasi
suo predecessore in più di mezzo secolo"; in realtà maggiori protezioni dell'insieme dei suoi
predecessori, nella "più pronunciata svolta protezionistica dagli anni trenta," trasformando gli Stati
Uniti da "campioni del libero commercio multilaterale a principali oppositori," come riportato nella
rivista del Council for Foreign Relations (Consiglio per i rapporti con l'estero) nell'ambito di una
analisi della decade. I Reaganites "condussero un sostenuto assalto ai principi [del libero
commercio]" che ebbe inizio negli anni 70, come viene deplorato in uno studio di Patrick Low,
economista del segretariato del GATT (Global Agreement on Tariffs and Trade, ndt), il quale stima
che gli effetti delle politiche protezionistiche Reaganiane siano stati tre volte più restrittivi di quelli
delle politiche di altri paesi industrializzati.
La grande "svolta protezionistica" rappresenta solo uno degli aspetti del "sostenuto assalto" ai
principi del libero commercio, assalto accelerato durante il periodo del "ruvido individualismo
Reaganiano." Un altro capitolo della storia include l'enorme trasferimento di fondi pubblici al
potere privato, spesso giustificati ricorrendo al pretesto della "sicurezza nazionale," trasferimenti
che "portarono la spesa militare e per R&S (Ricerca e Sviluppo) al di sopra dei livelli record degli
anni sessanta." La popolazione veniva terrorizzata ricorrendo a diversi nemici pubblici (l'Unione
Sovietica, la Libia, e così via), ma il messaggio dei Reaganites al mondo del business si rivelava
come sempre assai più onesto. Se fossero mancate queste misure estreme di interferenze al mercato,
è assai dubbio che le industrie americane di autovetture, acciaio, macchine utensili, semiconduttori
ed altre, avrebbero sopravvissuto alla competizione Giapponese, o che sarebbero state capaci di
dominare il mercato delle nuove tecnologie, con profonde conseguenze per l'economia.
Non c'è neppure bisogno di spiegare le dottrine operative all'attuale leader della "rivoluzione
conservatrice," Newt Gingrich, sempre pronto ad impartire severe lezioni a bambini di sette anni sui
mali della dipendenza dal welfare, mentre allo stesso tempo detiene il primato nazionale nel
trasferimento di fondi pubblici al suo affluente collegio elettorale. Come non c'è bisogno di spiegare
tali dottrine alla Heritage Foundation, fondazione responsabile della proposta di manovra
finanziaria fatta propria dai "conservatori" del congresso. Tale proposta chiedeva (e otteneva) un
aumento della spesa per il Pentagono che addirittura sorpassava l'aumento già previsto da Clinton,
al fine di assicurare che "la base industriale della difesa" rimanesse solida sotto la protezione del
potere di stato, fornendo tecnologia a doppio-uso ai suoi beneficiari, e così facendo garantendo loro
il dominio dei mercati commerciali ed il loro arricchimento a spese della collettività.
È comunemente accettato che "libera impresa" significa che la collettività si fa carico dei costi
come pure dei rischi se le cose dovessero andare male; ne sono un esempio gli interventi pubblici in
soccorso di banche e corporations che in anni recenti sono costati al pubblico centinaia di milioni di
dollari. Quindi, nei sistemi di mercato realmente esistenti, i profitti vanno privatizzati, ma i costi e i
rischi vanno socializzati. La storia, ormai vecchia di secoli, continua a ripetersi senza grandi
cambiamenti, e non solo negli Stati Uniti ovviamente.
Le dichiarazioni ufficiali vanno quindi interpretate alla luce di queste realtà, come ad esempio
l'attuale piano di Clinton per l'Africa che fa appello a "commercio anziché aiuti", piano che contiene
una serie di disposizioni che guarda caso beneficiano gli investitori statunitensi. La *uplifting*
retorica dell'appello ignora la realtà di quanto poco simili approcci abbiano funzionato in passato,
come pure il fatto che gli Stati Uniti già prima di questa ammirevole innovazione avessero il
programma di aiuti più miserevole tra tutti i paesi industrializzati. Per prendere un altro ovvio
esempio, considerate l'interpretazione di Chester Crocker dei piani per l'Africa dell'amministrazione
Reagan del 1981. "Siamo in favore di mercati aperti, del libero accesso a risorse primarie, e
dell'espansione delle economie statunitense ed africana," e vogliamo portare i paesi africani "nel
circolo delle economie di libero mercato." La dichiarazione potrebbe sembrare piuttosto cinica,
provenendo dai leader del "sostenuto assalto" a "l'economia del libero mercato." Ma
l'interpretazione data da Crocker non è poi così lontana dal segno, una volta filtrata attraverso il
prisma delle reali dottrine economiche. I mercati aperti e l'accesso alle risorse primarie sono
riservati agli investitori statunitensi ed ai loro associati locali, e le economie vanno sviluppate in un
modo ben specifico, così da proteggere "la minoranza degli opulenti dalla maggioranza." Gli
opulenti meritano la protezione dello stato e i sussidi pubblici. Come altro potrebbero prosperare,
per il beneficio di tutti?
Per illustrare la "teoria del libero mercato realmente esistente" per mezzo di un diverso criterio di
misura, si pensi che il più estensivo studio sulle multinazionali trovò che "la virtuale totalità delle
più grandi aziende multinazionali ha beneficiato in maniera decisiva dell'influenza di politiche
governative e/o barriere protezionistiche," e "almeno 20 delle aziende che fanno parte delle Fortune
100 del 1993 non avrebbero sopravvissuto se non fossero state soccorse dai rispettivi governi,"
socializzando le perdite, o semplicemente passando sotto il controllo governativo. Una di tali
aziende è il maggiore datore di lavoro nel conservatore distretto elettorale di Gingrich, la Lockeed,
salvata dal crollo da un prestito garantito dal governo di 2 miliardi di dollari. Lo stesso studio
rimarca che l'intervento statale, "che è stato la regola più che l'eccezione negli ultimi due secoli, ...
ha giocato un ruolo decisivo nello sviluppo e la diffusione di numerosi prodotti e tecnologie (in
special modo il settore aerospaziale, l'elettronica, le moderne tecnologie agricole, il trasporto e
l'energia," come pure le telecomunicazioni e l'informatica in generale (la rete Internet e la World
Wide Web sono due esempi recenti) e, in periodi passati, le industrie tessile e metallurgica, e
naturalmente l'energia. Altri studi tecnici confermano tali conclusioni.
Come illustrato negli esempi precedenti, gli Stati Uniti non sono soli nella loro concezione di
"libero commercio," sebbene i loro ideologhi spesso guidino il cinico coro. Il divario tra paesi ricchi
e paesi poveri dagli anni 60 è da attribuire a misure protezionistiche dei ricchi, come concludeva il
rapporto per lo sviluppo dell'ONU (UN Development Report) del 1992. Il rapporto del 1994
concludeva che "i paesi industrializzati, violando i principi del libero mercato, stanno costando ai
paesi in via di sviluppo approssimativamente 50 miliardi di dollari all'anno quasi quanto il flusso
totale di aiuti stranieri" aiuti che altro non sono se non promozioni all'export sovvenzionate dallo
stato. Il Rapporto Globale dell'Organizzazione per lo Sviluppo Industriale dell'ONU del 1996 stima
che il divario tra il 20% più povero ed il 20% più ricco della popolazione mondiale è aumentato del
50% tra il 1960 ed il 1989, e prevede "una crescente disuguaglianza a livello mondiale come
conseguenza della globalizzazione." Tale crescente disparità si sta manifestando anche all'interno
dei paesi industrializzati, con gli Stati Uniti in testa, e la Gran Bretagna non lontana. La stampa
economica specializzata esulta di fronte ad una crescita dei profitti "spettacolare" e "sbalorditiva",
applaudendo la straordinaria concentrazione di ricchezza in mano ad una ristretta percentuale della
popolazione, mentre per la maggioranza le condizioni economiche continuano a stagnare se non a
peggiorare. I *corporate media*, l'amministrazione Clinton, e in generale i sostenitori della
American Way, si offrono orgogliosi come esempio al resto del mondo; sepolti nel coro di auto
adulazione sono i risultati consci di politiche sociali deliberate durante il periodo che ha visto il
"chiaro soggiogamento dei lavoratori da parte del capitale." Tali risultati includono ad esempio la
lista di "indicatori sociali" appena pubblicata dall'UNICEF, che rivela come gli USA abbiano il
peggior record tra i paesi industrializzati, trovandosi a fianco di Cuba (un misero paese del Terzo
Mondo, sotto l'incessante attacco della superpotenza dell'emisfero per gli ultimi quarant'anni)
rispetto ad indicatori sociali quali mortalità tra bambini sotto i cinque anni, fame, povertà infantile,
e numerosi altri.
E tutto questo sta accadendo nel paese più ricco del mondo, con vantaggi incommensurabili e stabili
istituzioni democratiche, ma anche, e in misura inusuale, sotto il controllo del business. Queste sono
le premesse per il futuro, se la "drammatica svolta da un ideale politico pluralista e partecipativo ad
un ideale autoritario e tecnocratico" procede nel giusto corso, nel mondo intero.
È bene osservare che in segreto le reali intenzioni sono spesso ammesse onestamente. Come ad
esempio quando, nel primo periodo seguito alla seconda guerra mondiale, George Kennan, uno dei
più influenti pianificatori e considerato un grande umanitario, assegnò ad ogni settore del mondo la
sua "funzione": la funzione dell'Africa sarebbe stata di venire "sfruttata", nelle parole di Kennan,
dall'Europa per la ricostruzione di quest'ultima, dato che gli Stati Uniti non avevano alcun interesse
in essa. L'anno prima, un documento di pianificazione d'alto livello sottolineava come "lo sviluppo
cooperativo degli alimenti a basso costo e delle materie prime del Nord Africa avrebbe potuto
aiutare nel forgiare l'unità europea e nel creare la base economica per la ripresa del continente," un
concetto di "cooperazione" assai peculiare. Non si ha conoscenza di documenti in cui si suggerisce
lo "sfruttamento" dell'occidente da parte dell'Africa per la sua ripresa dal "migliorismo globale" dei
secoli passati.
Se facciamo lo sforzo di distinguere dottrine e realtà, troviamo che i principi politici ed economici
che hanno prevalso sono assai remoti dai principi proclamati. Vanno tuttavia prese con scetticismo
anche le previsioni che tali principi siano "l'ondata del futuro," che porteranno la storia ad un lieto
fine. La stessa "fine della storia" è stata proclamata molte volte in passato, e sempre erroneamente.
E nonostante tutte le sordide continuità, un'anima ottimista penso possa realisticamente discernere
un lento progresso. Nei paesi industrializzati, come pure altrove, lotte popolari possono partire da
una posizione più avanzata, e con maggiori speranze di successo che in passato. E manifestazioni di
solidarietà internazionale possono assumere forme nuove e più costruttive, conseguenza del fatto
che la maggioranza delle popolazioni del mondo stanno capendo che i loro interessi sono molto
simili e possono essere fatti progredire insieme. Non ci sono più ragioni oggi che in alcun altro
periodo storico per credere che siamo vincolati da misteriose ed immutabili regole sociali anziché
dalle decisioni prese nel contesto di istituzioni sotto il controllo del volere umano istituzioni umane
che devono soddisfare un criterio di legittimità, e se non lo soddisfano, possono venire rimpiazzate
da altre istituzioni più libere e più giuste, come è avvenuto innumerevoli volte in passato.
Gli scettici che scontano tali pensieri come utopici e naive non devono fare altro che guardare a
quello che è avvenuto proprio qui (in Sud Africa, ndt) negli ultimi anni, un tributo a ciò che la forza
dello spirito umano può ottenere, e alle sue illimitate potenzialità lezioni queste che il mondo ha un
bisogno disperato di imparare, e che dovrebbero guidare nella continua lotta per la giustizia e la
libertà anche qui, ora che il popolo del Sud Africa, dopo la grande vittoria, si trova a fronteggiare
nuovi e difficili compiti.
2 giugno 2003
ZNet
L'America vuole dominare il mondo
con la forza?
Chomsky intervistato all'Amsterdam Forum
Noam Chomsky
Buonasera e benvenuti all'Amsterdam Forum, il programma di
discussione interattiva di Radio Netherlands. Quella di oggi è
un'edizione speciale che ha come ospite Noam Chomsky, scrittore e
attivista politico famoso in tutto il mondo. Il Professor Chomsky,
descritto dal New York Times come sicuramente il più importante
intellettuale vivente, critica apertamente la politica estera americana.
Dopo la guerra in Iraq, Chomsky afferma che gli USA stanno cercando
di dominare il mondo con la forza, la dimensione nella quale sono
superiori. Il monito di Chomsky è che questa politica porterà alla
proliferazione delle armi di distruzione di massa e degli attacchi
terroristici determinati dall'odio verso l'amministrazione americana.
Secondo lo scrittore la sopravvivenza della specie potrebbe essere
addirittura a rischio. Ebbene il Professor Chomsky è qui e risponderà
alle domande dei nostri ascoltatori da tutto il mondo. Diamo il
benvenuto al professor Chomsky.
La prima e-mail è di Norberto Silva dall'isole di Capo
Verde e chiede: "Gli USA e il presidente Bush con la loro
politica di attacco preventivo possono portare il mondo ad
una guerra nucleare?
CHOMSKY: Certo che possono. Prima di tutto bisogna chiarire che non
si tratta di una politica di attacchi preventivi. Secondo il diritto
internazionale gli attacchi preventivi sono quelli da sferrare in caso di
minacce reali ed incombenti. Ad esempio se degli aerei attraversassero
l'Atlantico per bombardare New York, sarebbe legittimo per le forze
aeree americane abbatterli. Questo è un attacco preventivo. E viene
chiamato a volte guerra preventiva. Noi invece stiamo parlando di una
nuova dottrina annunciata lo scorso settembre dalla Strategia di
Sicurezza Nazionale che sancisce il diritto di attaccare qualsiasi
ostacolo potenziale alla supremazia globale degli Stati Uniti. La
potenzialità è negli occhi dell'osservatore, per cui, a tutti gli effetti
questo autorizza ad attaccare praticamente chiunque. Può questo
portare ad una guerra nucleare? Certo che può. Nel passato ci siamo
andati vicini. Proprio lo scorso ottobre, ad esempio, si è scoperto, per
l'orrore e lo shock di coloro che ci hanno fatto caso, che durante la crisi
dei missili cubani nel 1962, il mondo era ad un passo da una guerra
nucleare terminale. I sottomarini russi con le armi nucleari furono
attaccati dagli americani. Parecchi comandanti pensarono che fosse
iniziata una guerra nucleare e ordinarono di lanciare dei missili
nucleari. Un ufficiale diede un contrordine. Ecco perché siamo qui a
parlarne. E ci sono stati molti altri casi come questo da allora.
Siamo in una situazione più
dottrina preventiva in atto?
pericoloso
con
questa
La dottrina della guerra preventiva è praticamente un invito per i
potenziali bersagli a sviluppare un qualche tipo di deterrente e ci sono
solo due tipi di deterrente. Il primo sono le armi di distruzione di
massa e l'altro è il terrore su vasta scala. Questo viene fatto notare di
continuo da analisti strategici, dai servizi segreti e così via, quindi sì,
sicuramente aumenta il pericolo che qualcosa sfugga di mano.
Questa e-mail è di Don Rhodes, da Melbourne in Australia
e dice: "non credo che gli USA vogliano dominare il
mondo. Gli Americani sono stati attacati su più fronti,
come l'11/9 per esempio. Qualcuno deve rimettere in riga
gli stati ribelli e solo gli USA hanno la capacità di farlo.
Senza una tale "polizia del mondo" il mondo
semplicemente si disintegrerebbe in una serie di fazioni
belligeranti. Basta guardare alla storia per trovare degli
esempio". Come commenta questo tipo di affermazione?
La prima frase semplicemente non è corretta da un punto di vista
fattuale. La strategia di Sicurezza Nazionale afferma piuttosto
esplicitamente che gli USA intendono dominare il mondo con la forza
che è la dimensione nella quale sono superiori, e intendono assicurarsi
che non ci sia mai un potenziale ostacolo alla loro supremazia. Questa
non è solo un affermazione, ma è stata anche commentata proprio dal
cuore del sistema - Il giornale degli Affari Esteri-che nel suo prossimo
numero sottolinea che gli USA sta affermando il diritto di essere quello
che chiamano "uno stato controllore" che userà la forza per controllare
il mondo nel proprio interesse. La persona che ha mandato l'e-mail
crede che gli USA abbiano un qualche diritto unico di dominare il
mondo con la forza. Non lo credo, e contrariamente a quanto egli
afferma, non credo affatto che la storia porti degli esempi a proposito.
Per la verità quello che è documentato sugli USA, che tra parentesi
sono stati aiutati dall'Australia, dal 1940 periodo del suo inizio di
dominazione sul mondo, è istigazione alla guerra alla violenza e al
terrore su vastissima scala. La guerra di Indocina, giusto per fare un
esempio che riguarda l'Australia che vi ha partecipato, è stata
praticamente una guerra di aggressione. Gli USA hanno attaccato il
Vietnam del sud nel 1962. La guerra si è stesa poi all'Indocina. Il
risultato finale è stato l'uccisione di parecchie migliaia di uomini e la
devastazione di paesi, e questo è solo un esempio. Quindi la storia non
fornisce elementi per concludere che uno stato debba avere il diritto
sovrano di dominare il mondo con la forza. Questo è un principio
estremamente rischioso, non importa di quale nazione si tratti.
Questa invece è di Noel Collamer da Bellingham a
Washington Stati Uniti e dice: "Noam dice che
l'amministrazione Bush vuole dominare il mondo con la
forza, la dimensione nella quale sono superiori e vogliono
farlo permanentemente, per cui mi chiedo: Se noi che
possiamo non usiamo la forza con i tiranni, cosa
dovremmo fare secondo lui? La popolazione brutalizzata
dovrebbe usare una resistenza non violenta contro i suoi
tiranni anche se questo risulterebbe nel loro genocidio?
per prima cosa non sono io che lo dico ma è l'amministrazione Bush. Io
sto semplicemente ripetendo quello che viene dichiarato abbastanza
esplicitamente e che non è particolarmente controverso. Come ho
detto prima è stato commentato essenzialmente con queste parole nel
primo numero della rivista degli Affari Esteri subito dopo. per quanto
riguarda le popolazioni che soffrono i regimi di tirannia , sì sarebbe
bello che qualcuno li aiutasse. prendete ad esempio l'attuale
amministrazione a Washington. Proprio loro, ricordate che costoro sono
per o più dei seguaci di Reagan reciclati, hanno appoggiato una serie di
dittatori mostruosi che hanno inflitto alle loro popolazioni una
tremenda tirannia, Saddam Hussein. Ceausescu, Suharto, Marcos,
Duvalier. E' una lista piuttosto lunga. Il modo migliore di risolvere la
questione sarebbe stato di smettere di appoggiarli. Tra l'altro,
l'appoggio del terrore e della violenza continua. Il modo migliore di
fermarli è smettere di appoggiarli. Spesso, infatti, in ognuno di questi
casi, i tiranni sono stati rovesciati dal loro popolo, nonostante gli USA li
appoggiassero. Ceausescu, per esempio era un tiranno perfettamente
paragonabile a Saddam Hussein. E'stato rovesciato dal suo popolo
mentre veniva ancora appoggiato da Washington, e questo continua.
Se c'è gente che resiste all'oppressione e alla violenza, dobbiamo
trovare il modo di aiutarli e il modo più facile è smettere di appoggiare
i tiranni. Dopo sorgono problemi complicati. Non ci sono documenti,
che io sappia, di USA o nessun altro stato, (gli esempi che i sono sono
rari) che intervengono per prevenenire l'oppressione e la violenza.
Questo è molto raro.
Bene, un'altra e-mail. Questa è da H.P. Velten dal New
Jersey negli USA e chiede:"perchè non c'è più
controversia sugli interessi di Bush nei media americani?
Beh veramente c'è molta controversia. Una cosa davvero sorprendente
a proposito della guerra in Iraq e della strategia di sicurezza militare
nella quale si è svolta, è che è stata criticata davvero duramente
proprio dal cuore della elite della politica estera- è stata criticata nei
due principali giornali di politica estera, Foreign affairs e Foreign Policy.
L' Accademia Americana delle Arti e delle Scienze, che raramente
prende posizione sui problemi attuali controversi, ha fatto uscire una
monografia che la condanna. C'è un'intera serie di altri articoli. Tutto
ciò è stato parzialmente riportato dai media, ma non completamente,
perché ricordate che i media tendono ad appoggiare il potere per varie
ragioni.
Ok, un'altra e-mail. Questa è da RijswiJk in Olanda ed è di
M.J. "Bob" Groothland. Il messaggio dice: "nel corso della
storia, alcune nazioni hanno sempre cercato di dominare
il mondo. quelle più recenti che mi vengono in mente
sono la Germania, la Russia e il Giappone. Se gli USA sono
gli ultimi aspiranti conquistatori possiamo ritenerci
fortunati. La conquista si farebbe con dignità e onore per
tutta l'umanità. Il fatto è che niente di tutto ciò viene
fatto da Bush o dall'amministrazione americana.
Dimentica che gli USA hanno una costituzione e, al
contrario di Stalin, Hitler, Hussein ed altri despoti, Bush
dovrà essere rieletto tra due anni e gli elettori americani
non sono stupidi né oppressi né intimiditi. Il voto è
segreto." Gli elettori metteranno le redini al governo degli
USA come suggerisce questo ascoltatore?
Per prima cosa il resoconto storico è perlopiù immaginario, ma
lasciamo questo da parte. Il fatto che una nazione abbia una
costituzione non significa che non possa portare avanti una politica di
violenza e distruzione. Abbiamo una lunga a storia alle spalle che lo
dimostra. L'Inghilterra ad esempio era forse il paese più libero del
mondo nel diciannovesimo secolo ma portava avanti atrocità in tutto il
mondo e il caso degli USA è simile. Le testimonianze vanno indietro nel
tempo. Gli USA erano una nazione democratica quando hanno invaso
le Filippine un secolo fa uccidendo parecchie migliaia di persone e
lasciando il paese devastato.. era un paese democratico quando negli
anni 80 le stesse persone che sono a Washington hanno condotto una
guerra di terrore devastante in Nicaragua, facendo decine di migliaia di
morti e lasciando il paese praticamente in rovina. Per questo attacco gli
USA sono stati condannati dal Tribunale Mondiale e dal Consiglio di
Sicurezza in una risoluzione a cui fu posto il veto, ma invece l'attacco si
è intensificato e continua. Per quanto riguarda le elezioni
democratiche, sì, è vero c'è un'elezione, e i Repubblicani hanno
spiegato molto chiaramente come intendono superare il fatto che la
maggior parte della popolazione si oppone alla loro politica. Intendono
superarlo portando la nazione al panico e alla paura cosicché essa
possa ripararsi sotto l'ombrello di una figura di riferimento che li
protegga. Infatti l'abbiamo appena visto lo scorso settembre, quando
la strategia di sicurezza è stata annunciata e il rullo di tamburi della
propaganda è cominciato. C'è stata una campagna governativa di
propaganda dei media che è stata davvero spettacolare. Ha avuto
successo nel convincere la maggior parte della gente che Saddam
Hussein era una minaccia imminente alla sicurezza degli Stati Uniti.
Nessun altro lo credeva. neanche il Kuwait o l'Iran, che lo disprezzano,
lo considerano una minaccia. Sapevano che era il paese più debole di
quella zona. Sono riusciti anche a convincere la maggior parte della
popolazione che Saddam Hussein era dietro l'undici settembre, che era
l'istigatore e colui che ha portato avanti l'attacco e che ne stava
pianificando altri. Di nuovo, non abbiamo uno straccio di prova a
riguardo, e non ci sono analisti della sicurezza o servizi segreti che lo
credano.
Ma allora dov'è l'opposizione politica negli USA? I
Democratici? Perché non cercano di farsi strada
nell'impalcatura Repubblicana? Sì c'è stato un grande
movimento pacifista, abbiamo visto centinaia di migliaia
di persone sulle strade in America, che si opponevano
all'azione militare. Dov'è l'opposizione politica negli USA?
L'opposizione politica dei Democratici è molto tiepida. C'è stato troppo
poco dibattito, da sempre, sugli Affari esteri. Questo è risaputo. Le
figure politiche sono riluttanti a mettersi in una posizione nella quale
possono essere accusati di volere la distruzione dell'America, di
appoggiarne i nemici ed essere i protagonisti di fantasie del tipo di
quelle che erano presenti nell'e-mail. I politici non vogliono essere
soggetti a questo e il risultato è che la voce di una grande porzione
della popolazione è scarsamente rappresentata e i Repubblicani lo
ammettono. Karl Rove, il manager della campagna repubblicana ha
detto chiaramente che i Repubblicani avrebbero dovuto basare la
campagna elettorale su istanze di sicurezza, perché se fossero stati
affrontati temi riguardanti la politica interna avrebbero perso. Così
hanno impaurito la popolazione e l'hanno costretta all'obbedienza, e lui
ha già annunciato che bisognerà fare lo stesso prima delle lezioni del
2004. Dovranno di nuovo presentare le cose come se si dovesse votare
per un presidente guerriero che difenderà la nazione dalla distuzione.
Tra l'altro stanno semplicemente recitando di nuovo una parte che
hanno cominciato a recitare negli anni 80 la prima volta che sono stati
in carica (più o meno erano le stesse persone). Se ci fate caso le
politiche che proponevano non erano popolari. La popolazione era
contraria ma loro hanno continuato a spingerli al panico e ha
funzionato. Nel 1981 la Libia stava per attaccarci. Nel 1983 Grenada
stava per costruire una base aerea dalla quale i Russi ci avrebbero
bombardato. Nel 1985 Reagan ha dichiarato uno stato di emergenza
nazionale perché la sicurezza degli USA era minacciata dal governo del
Nicaragua. Se da Marte qualcuno avesse visto la scena sarebbe morto
dalle risate. Ed è continuata così per tutti gli anni 80. Sono riusciti a
mantenere la popolazione così intimidita e spaventata da poter
mantenere un flebile aggancio al potere politico, e questo è il tipo di
sforzo che si fa da allora. Questa tattica non l'hanno inventata loro ma
sfortunatamente ha dato i suoi frutti e le figure politiche ed altre figure
riluttanti a farsi avanti e affrontare il torrente di abusi e di isteria che
scaturirebbe da un tentativo di riportare le cose ad un livello di realtà.
Ok, un'altra e-mail, di Boris Kazaman, dal Wyoming negli
USA e dice: "La pace può solo scaturire dall'uso della
forza e spesso viene dopo una guerra giusta. La Pax
Romana è scaturita dalla forza dell'Impero Romano, non
da qualche ideologia pacifista. Gli Usa sono da criticare
solo quando non hanno agito subito. Ad esempio Hitler,
Stalin e Pol Pot sono saliti al potere perché non si è fatta
loro opposizione. La sua critica ad un approccio alla
politica estera basato sul potere sono ingenui o
falsamente ingenui. Quelli che agiscono contro le minacce
rendono possibile un mondo dove gli arroganti
appartenenti alla sinistra hanno la libertà di parola che
concede loro di mostrare i loro errori di ragionamento.
Che possa essere sempre così. Pace a voi, ma pace
attraverso la forza." Come commenta questa e-mail?
Beh, possiamo cominciare col guardare alla realtà. Prendiamo ad
esempio Hitler. Hitler è salito al potere con l'appoggio dell'America e
dell'Inghilterra. Ancora nel 1937 il Dipartimento di Stato descriveva
Hitler come un moderato che stava tra gli estremi della destra e della
sinistra. Uno che bisognava appoggiare altrimenti le masse potevano
impadronirsi del potere e orientarsi verso sinistra. Infatti gli USA non
entrarono in guerra fin quando vennero attaccati dal Giappone e la
Germania dichiarò guerra agli USA. Nel caso di Stalin, non sono stati
gli USA a portarlo al potere ma non lo hanno neanche osteggiato più di
tanto. Ancora nel 1948 H.Truman, il presidente, affermava che Stalin
era un brav'uomo, onesto, traviato da coloro che lo consigliavano e
così via. Nel caso di Pol Pot, i Khmer Rouge si svilupparono nei primi
anni '70- erano pressoché sconosciuti nel 1970- e si svilupparono nel
contesto di una massiccia campagna di bombardamenti in Cambogia.
Secondo la CIA morirono circa 600000 persone e si alimentò una
resistenza crudele e feroce che prese il sopravvento nel 1975. Dopo
che ebbe preso il potere, gli USA non hanno fatto niente per fermarlo
ma quando il Vietnam lo elimina nel 78-79 invadendolo e cacciandolo,
gli USA attaccarono ferocemente il Vietnam per il crimine di essersi
sbarazzati di Pol Pot. Gli USA hanno appoggiato un'invasione cinese per
punire il Vietnam, gli hanno imposto pesanti sanzioni e inoltre hanno
appoggiato quel che restava dell'esercito di Pol Pot in Thailandia.
Quindi se vogliamo parlare della storia, bisogna dire le cose come
stanno. Poi possiamo cominciare con le diatribe.
Pensa che ci sia una situazione nella quale la forza sia
giustificata? Abbiamo sentito parecchie posizioni sulla
guerra in Iraq secondo le quali era il minore dei due mali.
La storia recente dell'Iraq la sappiamo bene, ma era
arrivato il momento di fare qualcosa per liberarsi di
Saddam Hussein. In Iraq molti degli stessi iracheni
sembravano pensarlo.
Per prima cosa non ci risulta che gli iracheni ci stessero chiedendo di
invaderli, ma ammesso che questo fosse stato il fine, perché tutte le
bugie allora? Quello che lei sta dicendo è che Tony Blair, George Bush,
Colin Powell e il resto di quei fanatici bugiardi stavano fingendo fino
all'ultimo che il fine era di liberarsi dalle armi di distruzione di massa.
Se il fine era liberare gli Iracheni perché non l'hanno detto prima?
Il presidente Bush lo ha detto nelle ultime settimane
prima della guerra, ha cominciato a parlare di guerra di
liberazione.
Negli ultimi minuti, al summit delle Azzorre ha detto che anche se
Saddam Hussein e la sua gente avessero lasciato il paese, gli USA
avrebbero invaso lo stesso, il che significa che gli USA volevano
controllare il paese. Ora c'è un problema serio dietro questa
dichiarazione. Non ha niente a che fare con la liberazione degli
Iracheni. Vi poteste chiedere come mai gli Iracheni non hanno
rovesciato Saddam come hanno fatto i Rumeni con Ceausescu e com'è
stato per altri dittatori. beh si fa presto a saperlo. Gli occidentali che
conoscono meglio l'Iraq- Dennis Halliday e Hans von Sponek, i capi del
programma dell'Onu "oil for food"-, avevano centinaia di investigatori
all'interno del paese ed hanno osservato, come molti altri, che quello
che ha fatto in modo che in Iraq non ci fosse nessuna ribellione sono le
terribili sanzioni che hanno ucciso migliaia di persone (facendo una
stima ottimistica), hanno rafforzato Saddam e hanno reso la
popolazione completamente dipendente da lui per sopravvivere. Quindi
il primo passo per aiutare gli iracheni sarebbe stato smettere di
impedire la loro liberazione, permettendo alla società di ricostruirsi in
modo da poter badare ai propri affari, Se questo sistema fosse fallito,
se gli iracheni fossero stati incapaci di fare quello che altri popoli hanno
fatto quando erano governati da tali tiranni , a quel punto si sarebbe
potuto contemplare l'uso della forza, ma prima che che sia stata data
loro un'opportunità, e fin quando l'azione dell'Inghilterra e degli USA
gliel'ha impedito non possiamo porci questa domanda. E infatti gli USA
e l'Inghilterra non se la sono posta durante la preparazione alla guerra.
Date solo un'occhiata ai documenti.
Questa e-mail è di Bob Kirk da Israele e dice: " Perché il
Professor Chomsky si oppone così tanto all'espansione
della democrazia e alla liberazione di molti popoli del
mondo (da parte degli USA se necessario visto che l'UE ha
smesso di sfidare i dittatori) e quale mezzo oltre che la
persuasione e la forza, che a volte è giustificabile,
proporrebbe lui per liberare le società del mondo che
libere non sono?
Io sarei fortemente a favore dell'estensione della democrazia al mondo
e mi oppongo a che questa sia impedita. Una delle ragioni, è
sconvolgente se si guardano gli ultimi mesi, è che non ho mai visto,
per quel che mi ricordo, un disprezzo così chiaro e spudorato della
democrazia come quello delle elite americane. Basta guardare l'Europa
che, ad esempio, era divisa tra vecchia e nuova Europa. secondo
questo criterio, la vecchia Europa era formata dai paesi i cui governi,
quali che siano le ragioni, hanno preso la stessa posizione della
maggioranza del loro popolo. Poi c'era la nuova Europa, Italia, Spagna
e Ungheria, in cui i governi hanno prevaricato una percentuale
addirittura maggiore del loro popolo. La gente che si opponeva infatti,
era maggiore in questi paesi che nella vecchia Europa, ma i governi
non hanno considerato il loro popolo-forse l'80 o 90% di loro- e hanno
seguito gli ordini di Washington, e questa dovrebbe essere una buona
cosa. La Turchia è l'esempio pi lampante. La Turchia è stata attaccata
aspramente dai commentatori US e dalle elite perché il governo ha
preso una posizione in accordo con circa il 95% della loro popolazione.
Paul Wolfowitz, che viene descritto come un grande esponente della
democratizzazione, qualche settimana fa ha condannato i militari turchi
per non essere intervenuti ad obbligare il governo a, come dice lui,
aiutare gli americani, invece di seguire il 95% del loro popolo. Questo
mostra davvero un disprezzo spudorato per la democrazia e i fatti lo
dimostrano. Non sono solo gli USA a comportarsi male, è tipico di
qualsiasi altro stato moto potente, ma guardate cosa succede negli
stati che sono sotto il controllo americano da molto tempo come
l'America centrale e i caraibi, che lo sono da circa 100 anni. Gli USA
hanno accettato di tollerare la democrazia ma dev'essere come dicono
loro. Per riportare le parole di un fautore della democrazia sotto
l'amministrazione Reagan "democrazia dall'alto verso il basso",
democrazia nella quale le elite tradizionali rimangono al potere , quelle
elite che sono state legate agli Stati Uniti e mandano avanti le loro
società nel modo in cui vogliono gli USA. In quel caso gli USA tollerano
la democrazia. Sono molto simili ad altri stati potenti, ma non ci
facciamo illusioni. L'ascoltatore scrive dal medio oriente se non sbaglio
da Israele
e gli USA hanno appoggiato una dittatura brutale e oppressiva per
molto tempo e sanno da sempre che questo è il motivo principale per
cui il popolo gli è ostile. Negli anni 50, lo sappiamo da documenti
interni, il presidente Eisenhower ha discusso con il suo staff quella che
chiamava " la campagna di odio contro di noi" tra gli abitanti del medio
oriente e la ragione era che gli USA stavano appoggiando regimi non
democratici e stava bloccando la democrazia e lo sviluppo a causa degli
interessi americani nel controllo del petrolio nel vicino oriente. Bene,
questo va avanti. Lo dicono anche ricchi musulmani occidentalizzati
intervistati dal Wall Street Journal proprio in questi giorni. C'è una
lunga storia documentata di opposizione alla democrazia, a meno che
sia controllata, e per ragioni che sono ancorate a politiche di potere
che conosciamo.
Leggiamo un'altra e-mail. Questa è da Vera Gottlieb, dalla
British Columbia, in Canada e dice: camuffata da lotta al
terrorismo, si sta driducendo il Bill of rights, per non dire
che lo si sta decimando. L'Americano medio lo sa e se ne
interessa?
Davvero pochi lo sanno. Il Patriot Act e il nuovo, il secondo Patriot Act
che stanno progettando, mina, almeno teoricamente ed in parte
praticamente, delle libertà civili fondamentali in maniera piuttosto
estensiva. L'attuale dipartimento di giustizia si è arrogato il diritto di
arrestare gente, compresi cittadini americani, confinarla a tempo
indeterminato, senza possibilità di consultare un avvocato. Hanno fatto
anche di peggio. Tra i nuovi piani ce ne sono alcuni secondo i quali si
permetterà di imprigionare cittadini se il procuratore generale lo vuole.
Civilisti, professori di diritto ed altri hanno fermamente condannato
tutto ciò ma quasi niente è trapelato dai media. Queste cose davvero
non si sanno. Questi movimenti sono davvero radicali. Il presidente
Bush dovrebbe avere un busto di Winston Churchill sulla scrivania,
regalatogli dal suo amico Tony Blair, e infatti Churchill ha avuto
qualcosa da dire a questo proposito. Disse, e lo sto quasi citando, che
per un governo, imprigionare qualcuno che non sia stato processato
dai suoi simili è qualcosa di abominevole, ed è il fondamento di tutti i
regimi totalitari, che siano nazisti o comunisti. Lo ha detto nel 1943,
mentre stava condannando delle proposte di natura simile, che non
vennero attuate, in Inghilterra. Ricordate che nel 1943 l'Inghilterra era
in una posizione davvero critica, era stata attaccata e si preparava ad
essere annientata dalla forza militare più feroce della storia e
ciononostante Churchill ha giustamente descritto misure come queste
"abominevoli" e "il fondamento dei governi totalitari". Sì, la gente
dovrebbe esserne sconvolta.
Perché questo non è un problema dibattuto e perché non
c'è una opposizione radicale al secondo Patriot Act e a
queste cose che lei ha descritto?
Per prima cosa per sapere queste cose bisogna fare un'attenta ricerca.
Non dico che sono nascoste, se li si cerca i documenti si trovano , ma
non sono certamante di pubblico dominio. Quando si sanno, c'è
opposizione, ma ricordatevi il grande successo della campagna di
propaganda tramite i media che ha fatto il governo, dallo scorso
settembre, per convincere la popolazione degli USA che c'era una
minaccia imminente di distruzione da parte del mostro Saddam
Hussein, e la prossima settimana sarà qualcun altro quello da cui ci
dovremo proteggere. E proprio quelli che hanno creduto a queste
menzogne, che sono la maggior parte, hanno un'attitudine favorevole
alla guerra, e si può capire perché, se proprio credi a quelle cose puoi
anche accettare di vedere ridurre le libertà civili. Certo, è stata una
montatura, l'esempio più spettacolare di propaganda di una montatura
mai visto, hanno fatto notare in molti, ma ha funzionato. Quando la
gente ha paura, a volte può non voler difendere i diritti che ha
conquistato.
D'accordo, leggiamo un'altra e-mail. Questa è dal
Venezuela ed è di Alberto Villasmil Raven che dice: vorrei
sapere se il Professor Chomsky pensa che sia possibile
che gli USA invadano il Venezuela.
beh, non penso che lo invaderà direttamente ma tra le regioni che
sono il bersaglio della cosiddetta guerra preventiva, sicuramente c'è la
regione andina. E' una regione di sostanziali risorse. E' per un certo
verso, fuori controllo. Gli Usa hanno già delle consistenti risorse
militari- un sistema di basi militari in Ecuador, *****le Isole
Olandesi****, El Salvador, che circondano la regione, e un po' di basi
sul posto. Il mio sospetto e che gli USA in Venezuela, probabilmente
appoggeranno un colpo di stato come l'anno scorso. Ma se questo non
funziona, un intervento diretto non è impossibile. Ricordate, si sta
pianificando da molto. L'unica cosa veramente buona degli USA è una
società davvero libera, unicamente libera. Abbiamo documentate tutte
le pianificazioni interne. Proprio sul periodo della crisi dei missili
cubani, abbiamo dei documenti dai quali risulta che il presidente
Kennedy e suo fratello stavano discutendo la minaccia dei missili
cubani e dissero che uno dei maggiori problemi che ponevano era "che
possono essere un deterrente all'invasione del Venezuela se
decidessimo di invaderla. Questo succedeva nel 1962. Queste sono
vecchie politiche, saldamente radicate.
Bene, questa è di Berrada M. Ali, da Rabat, in Marocco, e
la sua domanda è la seguente: "pensa che dopo
l'ingiustificata e ingiustificabile guerra contro l'Iraq il
mondo perderà il significato della sua esistenza, come
nella lingua quando si perdono le regole grammaticali?
Perderemo il riferimento del significato delle frasi e di
conseguenza il significato del mondo intorno a noi?
secondo me, il commento più onesto a questo riguardo è stato fatto
dai sostenitori della guerra in Iraq. Ad esempio se guarda l'ultimo
numero di Affari Stranieri, il principale giornale del sistema, c'è un
importante articolo di un conosciutissimo specialista di diritto
internazionale, Michael Glennon, che sostiene che noi dobbiamo
riconoscere che il diritto internazionale e le istituzioni internazionali
sono quello che lui chiama "aria calda". La loro inapplicabilità è stata
provata dal fatto che gli USA non le rispettano, e lui dice che fanno
bene a non rispettarle, e che gli USA devono mantenere il diritto di
usare la forza come vogliono, indipendentemente da queste istituzioni,
che dobbiamo solo calpestare e non rispettare. bene almeno questa è
una dichiarazione onesta. penso che sia una minaccia terribile per il
mondo, ed è parte del motivo per cui il governo USA è diventato
oggetto di grande paura nel mondo. I sondaggi internazionali a questo
riguardo sono chiari, ed è comprensibile. Quando una nazione prende
queste posizioni, è ovvio che la gente comincia ad aver paura, e quindi,
come è stato sottolineato sempre di più dai servizi segreti, analisti etc.,
la gente prenderà le contromisure. cercheranno di trovare dei
deterrenti. Gli USA stanno imponendo al mondo la proliferazione
dellearmi di distruzione di massa, anche se come deterrenti.
Abbiamo un'ultima e-mail da John Blessen da Beverly
Hills negli Stati Uniti e il suo messaggio è il seguente:
"Come possono gli USA proteggersi al meglio da stati
criminali come la Corea del Nord? E dalle minacce
chimiche, nucleari e biologiche di stati fuorilegge? Delle
minacce sconvolgenti agli USA sono reali ed alcuni dicono
imminenti, per cui come organizzerebbe lei, Professor
Chomsky, una politica di difesa per gli USA?
Bene, prendiamo l'esempio che lei ha citato, la Corea del Nord. Non si
possono fare delle generalizzazioni, dipende dai casi. Prendiamo il caso
della Corea del Nord. Lì gli stati della zona, Russia, Corea del Sud, Cina
e Giappone sono d'accordo nel seguire la via diplomatica, la via delle
negoziazioni per ridurre la minaccia, che è reale, e per integrare in
qualche modo di nuovo la Corea del Nord tra queste regioni, e questa è
una mossa saggia. Anche Clinton si è mosso in questa diezione. Non le
ha sviluppate ma le ha fatte. Hanno avuto un certo successo, e penso
che il consens era giusto. Il modo di difendersi da tali minacce è
prevenire la loro insorgenza. E ci sono molti modi di farlo, anche negli
altri casi di cui abbiamo parlato. Nel caso dell'Iraq si trattava di un
regime orribile. Ecco perché sono sempre stato contrario al fatto che
gli Stati Uniti appoggiavano Saddam Hussein, ed ero anche contrario
all'embargo che ha prevenuto una rivolta contro di lui, ma anche se era
orribile, non costituiva una minaccia. Il Kuwait e l'Iran, che disprezzano
Saddam Hussein che li ha invasi- non lo ritengono un pericolo, e a
buon diritto. L'Iraq era lo stato più debole di quella zona. Le sue spese
militari erano un terzo di quelle del Kuwait, che ha una popolazione
inferiore del 10%. Era stato decimato dalle sanzioni, quasi disarmatoun posto orribile, ma non pericoloso. E' stata propaganda- una
grottesca e orribile propaganda. Se vogliamo esaminare altri casi che
possono costituire una reale fonte di preoccupazione, allora sì, però
pianifichiamo qualcosa di appropriato. prendiamo ad esempio la
minaccia del terrorismo. Questa è una minaccia reale e pericolosissima.
La minaccia del terrorismo è stata resa maggiore dal comportamento
dell'amministrazione Bush. Infatti organizzazioni terroristiche come AlQaeda sono diventate più temibili da quando si è cominciato a
minacciare di invadere l'Iraq e poi si è invaso e questo si poteva
immaginare, Si capisce perché.
Lei è uno di quelli che cercano di sgonfiare questa
propaganda con la quale lei sostiene che il governo USA
stia influenzando la popolazione. Come reagisce la gente
a qualcuno che parla male dell'attuale politica estera
degli USA?
Io spendo circa un'ora ogni notte scrivendo molto riluttantemente delle
lettere in cui devo declinare inviti a tenere conferenze in tutto il paese,
con un vasto pubblico, cose di tremendo interesse. Gli USA non sono
diversi da altri paesi del mondo in questo campo. C'è grande paura e
grande preoccupazione a proposito della politica che l'amministrazione
Bush sta seguendo. Se si elimina l'elemento panico, che è stato indotto
dalla propaganda, che è unica degli USA, allora l'opposizione alla
guerra e alla strategia di sicurezza sono più o meno le stesse che
altrove. Io ed altre persone che vogliono parlare pubblicamente siamo
riempiti di inviti e richieste di discutere di questi problemi.
Professor Noam Chomsky, scrittore, attivista politico e
profesore di linguistica al Massachussets Institute of
Technology, la ringrazio tantissimo di essere stato qui con
noi.
Grazie a voi
e grazie ai nostri ascolatori
Chomsky sull’anarchismo ...
Archivio Web Noam Chomsky
Chomsky su anarchismo, democrazia,
marxismo e leninismo, capitalismo e il futuro
Anarchismo
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Fui attratto dall’anarchismo da giovane teenager e da allora non ho avuto molte ragioni per
rivedere quelle prime attitudini. Trovo sensato scoprire e identificare le strutture di autorità,
gerarchia e dominazione in ogni aspetto della vita, e sfidarle; a meno che non possa essere
data una giustificazione, esse sono strutture illegittime, e dovrebbero essere demolite, per
incrementare la libertà umana. Queste strutture includono il potere politico, la proprietà,
l’amministrazione, le relazioni tra uomini e donne, tra genitori e figli, il nostro controllo sul
destino delle generazioni future e molto altro ancora. Naturalmente queste rimandano alle
enormi istituzioni di coercizione e controllo: lo stato, le irresponsabili tirannie private che
controllano la maggior parte dell’economia domestica e internazionale, e così via. Ma non
solo questo. Ciò che io ho sempre compreso come l’essenza dell’anarchismo è la convinzione
che l’onere della prova deve essere a carico dell’autorità, e che essa dovrebbe essere demolita
se quell’onere non può essere affrontato.
La cultura intellettuale generale associa anarchismo con caos, violenza, bombe, disgregazione,
e così via. Così la gente è spesso sorpresa quando io parlo positivamente dell’anarchismo e
identifico me stesso nelle sue tradizioni portanti. Ma la mia impressione è che anche fra il
pubblico generale le idee base diventino ragionevoli, quando le nuvole si allontanano.
Naturalmente, quando poi parliamo di materie specifiche (tipo la natura delle famiglie, o nel
modo in cui un’economia funzionerebbe in una società più libera e giusta) sorgono le
domande e le controversie. Ma è così che deve essere. La fisica non può realmente spiegare
come l’acqua scorra dal rubinetto al lavandino. Quando noi ci giriamo verso più complesse e
vaste questioni che riguardano il significato dell’umano, la comprensione è molto fievole, e
c’è sempre abbondanza di spazio sia per il disaccordo e la sperimentazione, sia per
l’esplorazione reale e intellettuale di possibilità che ci aiutino a capire di più.
Un elemento importante è ciò che viene tradizionalmente chiamato “socialismo libertario”. Ho
provato a definire ciò che io intendo con questo termine, sottolineando che esso è molto
originale. Io ho preso le idee dagli individui trascinanti del movimento anarchico, che si
definiscono socialisti, e che condannano duramente la “nuova classe” di intellettuali radicali
che cercano di raggiungere il potere dello stato nel corso della lotta popolare, e diventare così
la viziosa “burocrazia rossa” della quale Bakunin ci avvertì. Anche questo è spesso chiamato
socialismo, ma io concordo piuttosto con le percezioni di Rudolf Rucker che le tendenze
(centrali) nell’anarchismo si ricavano dal meglio dell’Illuminismo e dal pensiero liberale
classico. Infatti, ho provato a dimostrare che le dottrine libertarie, che sono particolarmente
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Chomsky sull’anarchismo ...
alla moda negli Stati Uniti e in UK, contrastano distintamente con la dottrina e la pratica
marxista-leninista e altre ideologie contemporanee, che mi sembra si riducano tutte ad una
difesa dell’una o dell’altra forma di autorità illegittima, abbastanza spesso la reale tirannia.
●
Se l’anarchismo potrebbe portare alla dittatura? Prima di tutto distinguiamo anarchismo da
anarchia; io non sono a favore di quelli che vogliono fare tutto quello che sentono di fare.
L’anarchismo, come io lo concepisco, è un sistema altamente democratico, è un sistema ed è
organizzato e strutturato dal basso verso l’alto. Esso è organizzato attraverso l’associazione
volontaria, l’accordo, la federazione – dovrebbe essere un sistema altamente strutturato. Ma
deve sorgere dal coinvolgimento popolare. Dovrebbe essere un sistema in cui la gente è
veramente responsabile.
Democrazia
●
La critica della democrazia fra gli anarchici è stata spesso una critica della democrazia
parlamentare, come essa è sorta all’interno di società con caratteristiche profondamente
repressive. Prendi gli Stati Uniti: la democrazia americana fu fondata sul principio,
sottolineato da James Madison nella Constitutional Convention nel 1787, che la prima
funzione del governo è difendere la minoranza degli opulenti dalla maggioranza. Egli avvertì
che in Inghilterra, in cui c’era l’unico modello quasi democratico di governo a quei tempi, se
alla popolazione veniva permessa una opinione negli affari pubblici, il governo avrebbe
dovuto implementare la riforma agraria o altre atrocità; e che il sistema americano doveva
essere attentamente astuto ad evitare tali crimini contro il diritto di proprietà, che deve essere
difeso (infatti deve prevalere). La democrazia parlamentare all’interno di questa infrastruttura
merita una chiara critica da parte dei genuini libertari, tralasciando molte altre ingegnose
caratteristiche di questo tipo di democrazia– la schiavitù, per menzionarne una, o la schiavitù
del lavoro salariato, che fu amaramente condannata dai lavoratori che nemmeno sentirono
parlare di anarchismo o comunismo fino al 19° secolo, ed anche più in là.
Marxismo e Leninismo
●
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Se si intende la sinistra come includente il bolscevismo, allora io vorrei nettamente
dissociarmi dalla sinistra. Secondo la mia opinione, Lenin è stato uno dei più grandi nemici
del socialismo, per le ragioni che ho discusso.
Gli avvertimenti di Bakunin riguardo la rossa democrazia che avrebbe istituto il peggiore di
tutti i governi dispotici furono detti molto prima di Lenin e furono diretti contro i seguaci di
Mr. Marx. C’erano, tuttavia, seguaci di molti differenti tipi; Pannekoek, Luxembourg, Mattick
e altri erano davvero lontani da Lenin, e le loro vedute convergevano spesso con elementi di
anarco-sindacalismo. Infatti Korsch ed altri scrissero con simpatia della rivoluzione anarchica
in Spagna. Ci sono continuità da Marx a Lenin, ma ci sono anche continuità con i marxisti che
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Chomsky sull’anarchismo ...
criticarono aspramente Lenin e il bolscevismo. Il lavoro di Teodor Shanin, negli anni passati,
sulle ultime attitudini di Marx riguardo la rivoluzione dei contadini, è molto rilevante. Sono
lontano dall’essere uno scolaro di Marx, e preferirei non avventurarmi su nessun giudizio serio
sulle continuità che riflettono il “Marx reale”. La mia impressione, per ciò che conta, è che il
primo Marx era davvero una figura del tardo Illuminismo, e che l’ultimo Marx era davvero un
attivista altamente autoritario, ed un analista critico del capitalismo, che aveva poco da dire
sulle alternative socialiste. Ma queste sono solo mie impressioni.
Il futuro
●
La mia risposta alla fine della tirannia sovietica fu simile alla mia reazione alla disfatta di
Hitler e Mussolini. In tutti i casi è una vittoria per lo spirito umano. Dovrebbe essere
particolarmente benvenuta ai socialisti, visto che un grande nemico del socialismo è
finalmente collassato. Anch’io sono rimasto incuriosito nel vedere come la gente – compresa
gente che si considerava anti-stalinista e anti-leninista – rimase demoralizzata per il collasso
della tirannia. Ciò rivela che essi erano profondamente legati al leninismo più di quanto
credevano.
Capitalismo
●
●
Ciò che è chiamato capitalismo è basilarmente un sistema di mercantilismo corporativo, con
grandi e incalcolabili tirannie private che esercitano un vasto controllo sull’economia, il
sistema politico, la vita sociale e culturale, e che operano in cooperazione con potenti stati che
intervengono massivamente nell’economia domestica e nella società internazionale. Questo è
drammaticamente vero per gli Stati Uniti, contrariamente alle illusioni. I ricchi ed i privilegiati
non hanno più la volontà per fronteggiare la disciplina del mercato come hanno fatto in
passato, sebbene essi la considerino giusta per la popolazione generale. Meramente per citare
poche illustrazioni, l’amministrazione Reagan, la quale si dilettò nella retorica del libero
mercato, si vantò anche con la comunità affaristica di essere l’amministrazione più
protezionistica del dopoguerra negli Stati uniti– attualmente più di tutte le altre messe insieme.
Newt Gingrich, che porta avanti la corrente crociata, rappresenta un distretto super ricco che
riceve più sussidi federali di ogni altre regione suburbana nel paese, fuori delle stesso sistema
federale. I conservatori che stanno chiedendo la sospensione dei pasti nelle scuole per gli
studenti, stanno anche domandando un incremento del budget per il Pentagono, che fu
stabilito nella sua forma corrente alla fine degli anni ’40, perché l’industria dell’alta tecnologia
non può sopravvivere in una economia della libera impresa pura, competitiva e non
sovvenzionata, e il governo deve essere il suo salvatore. Senza il salvatore, i costituenti di
Gingrich sarebbero povera gente lavoratrice (se fossero fortunati). Non ci sarebbero computer,
elettronica generale, industria dell’aviazione, metallurgia, automazione, eccetera.
Ora più che mai le idee socialiste libertarie sono rilevanti, e la popolazione è molto aperta
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Chomsky sull’anarchismo ...
verso di esse. A dispetto della enorme massa di propaganda, al di fuori dei circoli colti, la
gente mantiene abbastanza la propria tradizionale attitudine. Negli Stati Uniti, ad esempio,
l’80% della gente vede il sistema economico come innatamente ingiusto e il sistema politico
come una frode, che favorisce gli interessi speciali, non la gente. La maggioranza schiacciante
della popolazione pensa che i lavoratori hanno troppa poca voce negli affari pubblici (la stessa
cosa è vera anche per l’Inghilterra), che il governo ha la responsabilità di assistere la gente nei
loro bisogni, che spendere per l’educazione e la salute ha la precedenza sui tagli al budget e
alle tasse, che gli attuali propositi repubblicani che stanno navigando attraverso il congresso
beneficiano il ricco e danneggiano la popolazione generale, e così via. Gli intellettuali possono
raccontare una storia differente, ma non è molto difficile scoprire i fatti.
●
questo brano è stato tratto dal sito (molto interessante) del Circolo Libertario E. Zapata di
Pordenone - http://www.zapata.3000.it
Archivio Noam Chomsky
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rivista anarchica
anno 30 n.268
dicembre 2000 - gennaio 2001
potere
Come ti omologo i media
di Noam Chomsky
Ruolo, meccanismi e trabocchetti del sistema dei mass-media
nell'analisi di Noam Chomsky, uno dei più acuti intellettuali "contro"
negli Stati Uniti.
Parte della ragione che mi porta a scrivere di mezzi di comunicazione è
l'interesse che nutro per l'insieme della cultura intellettuale. Di questa, la parte
più facile da studiare sono proprio i media. Escono tutti i giorni. Rendono
possibile un'investigazione sistematica. Si possono confrontare le versioni di
oggi con quelle di ieri. Si trovano le prove di come l'insieme è strutturato, e dei
fattori in gioco.
Studio i media come qualsiasi istituzione che voglio capire. Faccio domande
sulla struttura interna. Cerco di sapere qualcosa sul loro posizionamento rispetto
alla società: come si relazionano ad altri sistemi di potere e di autorità? Quando
sono fortunato, trovo materiale interno al sistema dell'informazione che spiega
come il tutto funziona (è una specie di sistema dottrinale). Non parlo dei
resoconti forniti dalle pubbliche relazioni, ma di ciò che i direttori di quel
sistema si dicono tra loro: c'è molta documentazione interessante al riguardo.
Raccolta l'informazione sulla natura dei media, li si studia come uno scienziato
studierebbe una molecola complessa. Si guarda la struttura, e si fanno ipotesi
circa il prodotto di tale struttura. Poi si investiga il prodotto effettivo, e si
osserva se e quanto sia conforme alle ipotesi. Il lavoro di analisi dei media si
accontenta in genere di quest'ultima parte: cerca di studiare attentamente il
prodotto per quello che è, verificandone la conformità a idee preconfezionate
circa la struttura e la natura dei media.
Bèh, che trovi? Primo, che ci sono media diversi, con ruoli diversi. Hollywood
è intrattenimento, le soap operas, etc., nonché la maggioranza dei giornali e
delle riviste negli Stati Uniti (la stragrande maggioranza), dirigono la massa del
pubblico.
Poi ci sono i mezzi d'informazione d'élite, quelli con le risorse maggiori, che
disegnano lo schema entro il quale si muovono tutti gli altri. Il New York Times
e la CBS, quel livello lì. Il loro bacino d'utenza è tra i privilegiati. Chi legge il
New York Times è benestante, fa parte di quella che viene chiamata la classe
politica, ed è attivamente coinvolto nel sistema politico. Sono generalmente
dirigenti di qualcosa. Possono essere dirigenti politici, dirigenti economici,
dirigenti accademici (come i professori universitari), o altri giornalisti,
impegnati nell'organizzare il pensiero della gente e il loro modo di vedere le
cose.
I media d'élite disegnano lo schema entro cui operano gli altri. Seguendo
l'Associated Press, che macina un flusso continuo di notizie, si legge ogni
giorno, a metà pomeriggio, una "Nota agli Editori" che comincia così: "Il New
York Times di domani avrà le seguenti storie in prima pagina." Lo scopo è
questo: se l'editore di un giornale locale non ha le risorse per capire quali siano
le notizie rilevanti, o non vuole pensarci, quella "Nota" gli dice quali notizie
stampare, nei pochi spazi che il giornale non dedica alla cronaca locale o a
divertire i lettori. Sono le storie che trovano spazio perché il New York Times
dice che è di queste che dovremo interessarci domani. Il nostro editore di
provincia dovrà più o meno adeguarsi, perché non ha molto altro in termini di
risorse. Se esce da questa linea, se dà spazio a storie non gradite alla stampa
nazionale, verranno presto a farglielo notare. Ci sono molti modi in cui i giochi
di potere possono spingerti a tornare in linea. Se cerchi di spezzare lo stampo,
non durerai a lungo. È uno schema che funziona abbastanza bene, ed è
comprensibile in quanto riflesso dalle strutture del potere.
I mezzi di comunicazione veramente di massa cercano sostanzialmente di
divertire la gente (to divert: sviare).
Che facciano altro! Non diano noie a noi (che organizziamo). Che si interessino
di sport. Che tutti si strappino i capelli per le partite, per gli scandali sessuali,
per le personalità e i loro problemi, cose così. Qualsiasi cosa, purché non seria.
La roba seria è per i grandi. Ci pensiamo "Noi".
I rapporti con il potere
Come funzionano i media d'élite, quelli che decidono l'Ordine del Giorno? Il
New York Times e la CBS, per esempio. Beh, prima di tutto, sono grosse
imprese, con alti margini di profitto. La maggior parte di loro è collegata ad
altre imprese, molto più grandi, come General Electric, Westinghouse, e simili,
che a volte sono direttamente proprietarie di mezzi d'informazione. Qui siamo
in cima alla struttura di potere dell'economia privata, che è una struttura
tirannica. Le Corporations funzionano come tirannie gerarchiche controllate
dall'alto. Se non ti piace quello che fanno, ti allontanano. I media maggiori sono
una parte di quel sistema.
Qual è la situazione istituzionale? Più o meno la stessa. I media interagiscono e
si relazionano con gli altri centri di potere: il governo, le altre Corporations, le
università. Se sei un reporter con una storia da scrivere sul sud-est asiatico o
sull'Africa, o qualcosa del genere, ti manderanno alla grande università, dove
un esperto ti dirà cosa scrivere. Oppure dovrai andare presso una fondazione,
come la Brookings Institute o l'American Enterprise Institute, e là ti diranno
quali parole scegliere. Queste istituzioni funzionano in modo simile ai media.
Anche le università, negli Stati Uniti, non sono istituzioni indipendenti.
Possono esserci individui indipendenti sparsi al loro interno, ma questo è vero
anche per i media. Ed è generalmente vero per le imprese. È vero anche per le
dittature, se è per questo. Ma l'istituzione in sé è parassita. Dipende da fonti di
supporto esterne e quelle fonti, cioè il capitale privato, i fondi delle grandi
imprese, e il governo (tanto intrinsecamente connesso con il potere delle
Corporations da non poterlo quasi distinguere), delimitano il campo entro cui
può operare l'università. Chi ci lavora e non si adatta alla struttura, e non
l'accetta e non l'interiorizza (non puoi funzionare davvero se non la interiorizzi
e non "credi"); chi non fa questo viene generalmente tolto di mezzo, a partire
dall'asilo nido. C'è una varietà di sistemi di filtri per liberarsi di gente che
rompe le scatole e pensa in modo non-dipendente. Chi è stato in un'università
americana sa che il sistema educativo è molto impegnato nel promuovere la
conformità e l'obbedienza, al di fuori delle quali lo studente viene trattato come
un disturbo. Sono filtri che lasciano passare individui che onestamente (non
mentono) interiorizzano il punto di vista del sistema di potere in cui vengono
formati. Le università d'élite, come Harvard o Princeton, per esempio, lavorano
molto sulla socializzazione. Buona parte di ciò che avviene là dentro insegna le
buone maniere: come comportarsi come un membro delle classi agiate, come
pensare i pensieri giusti, e così via.
George Orwell scrisse La fattoria degli animali a metà degli anni '40. Era una
satira sull'Unione Sovietica, uno stato totalitario. Un successone. Piacque a
tutti. Poi si scopre che Orwell scrisse un'introduzione a La fattoria degli
animali, soppressa a suo tempo, e pubblicata solo trent'anni dopo. Qualcuno
l'aveva ritrovata tra i suoi manoscritti. L'introduzione trattava la questione de
"La Censura Letteraria in Inghilterra" e diceva che ovviamente il racconto
ridicolizzava l'Unione Sovietica e la sua struttura totalitaria. Ma spiegava che in
Inghilterra le cose non andavano molto diversamente. Non abbiamo addosso il
KGB, ma il risultato è simile. Individui con idee indipendenti, o che pensano i
pensieri sbagliati, vengono tagliati fuori.
Dice poco, due frasi appena, sulla struttura istituzionale. Chiede: perché
succede questo? Ebbene: primo, perché la stampa è proprietà di persone
facoltose che vogliono che solo certe notizie arrivino al pubblico. L'altra cosa
che dice è che, attraversando il sistema educativo dell'élite, frequentando le
giuste scuole a Oxford, si impara che ci sono cose delle quali non sta bene
parlare, e pensieri che non è appropriato avere in testa. È il ruolo socializzante
degli istituti d'élite e se non ti ci adatti, in genere, sei fuori. Quelle due frasi di
Orwell spiegano bene la situazione.
Quando critichi i media e dici, guardate, Anthony Lewis (editorialista del New
York Times) ha detto questo e quest'altro, si arrabbiano molto. Dicono, e sono
sinceri, frasi come "nessuno viene a dirmi come scrivere. Scrivo quello che mi
pare. Tutto quest'affare di presunte pressioni e costrizioni è ridicolo perché
nessuno esercita pressioni su di me." Il che è perfettamente vero, ma il punto è
che questi editorialisti non sarebbero al loro posto, se non avessero dimostrato
in passato di non aver bisogno di suggeritori: scrivono già da soli le cose
"giuste". Lo stesso è vero dei cattedratici universitari per le facoltà più
ideologiche. Hanno attraversato il sistema di socializzazione.
Bene, abbiamo un'idea della struttura di quel sistema. A cosa somiglieranno le
notizie? È quasi ovvio. Prendiamo il New York Times. È un'impresa che vende
un prodotto. Il prodotto è l'audience. Non guadagnano vendendo giornali. Sono
felici di metterli in rete sul world wide web, gratuitamente. In realtà ci perdono
dalla vendita diretta. È il pubblico il loro prodotto. Il prodotto d'élite è il
pubblico dei privilegiati, come gli editori stessi, coloro che nella società
prendono le decisioni ad alti livelli. Il prodotto va venduto al mercato e il
mercato, beninteso, è la pubblicità (ovvero, le altre imprese). Che si tratti di
televisioni o giornali, o altro, è il pubblico che viene messo in vendita. Società
private vendono pubblico ad altre società private. Nel caso dei media d'élite, si
tratta di grossi affari.
Cosa possiamo aspettarci? Cosa possiamo dedurre, dato l'insieme dei fattori in
gioco? Quale potrebbe essere l'ipotesi zero, la congettura plausibile senza
ulteriori speculazioni? L'ipotesi ovvia è che il prodotto dei mezzi di
comunicazione, ciò che vi appare e ciò che ne scompare, e il modo in cui
vengono presentati i fatti, rifletteranno gli interessi dei venditori e dei
compratori, delle istituzioni, e dei sistemi di potere che li contornano. Se non
fosse così, sarebbe una specie di miracolo.
Qui viene il lavoro difficile. Ti chiedi se funziona davvero come previsto. E
potrai giudicare da solo. Ci sono studi su questa ipotesi che hanno superato le
verifiche più rigorose che si possano immaginare, e tuttora rimangono un punto
di riferimento. Non si trovano quasi, nel campo delle scienze sociali , studi che
supportino con altrettanta forza conclusioni diverse, e ciò non può sorprendere:
sarebbe inspiegabile se l'ipotesi non reggesse, date le forze in gioco.
A che servono le relazioni pubbliche
Il passo successivo porta a scoprire che l'intero argomento è tabù. Presso le
grandi scuole di giornalismo, e nelle più quotate facoltà di scienze della
comunicazione, questi argomenti non fanno nemmeno parte del programma di
studi. Anche questo rientra nelle previsioni. Tenendo a mente la struttura
istituzionale è facile capire che quei signori non desiderino esporsi. Di nuovo,
non si tratta di una censura consapevole. Semplicemente non si raggiungono
certe posizioni, se non ci si lascia "socializzare", se non ci si addestra a
rimuovere alcuni pensieri. Perché se ti vengono certi pensieri, non puoi stare lì.
Possiamo quindi stabilire un secondo ordine di previsioni, che dice che il primo
ordine di previsioni non è ammesso nelle discussioni.
L'ultima cosa da analizzare è la cornice dottrinale in cui si muove il tutto. Ci si
chiede se i dirigenti di alto livello nell'informazione, nella pubblicità, nelle
facoltà di scienze politiche, etc., abbiano o meno un'idea di come dovrebbero
andare le cose. Quando parlano in pubblico, sono parole e fuffa. Ma quando si
scrivono tra loro, cosa dicono?
Abbiamo tre correnti, alla base, da studiare. La prima è l'industria delle
pubbliche relazioni, l'industria di propaganda del grande business. Cosa dicono
i dirigenti delle PR? In secondo luogo si investigano gli "intellettuali pubblici",
i grandi pensatori, quelli che scrivono gli editoriali d'opinione, o grossi libri
sulla natura della democrazia, e simili. Cosa dicono? La terza corrente da
osservare è il filone accademico, con speciale attenzione a quella parte delle
scienze politiche che si occupa di informazione e comunicazione.
Seguiamo queste tre correnti, vediamo cosa dicono, leggiamo ciò che i
personaggi più rappresentativi del sistema dottrinale scrivono a questo
proposito. Dicono tutti (cito, in parte) che la gente comune è "ignorante,
estranea e impicciona." Dobbiamo lasciarli fuori dall'arena pubblica perché
sono troppo stupidi, e se s'immischiano creano guai. La loro deve rimanere una
posizione di "spettatori", mai di "partecipanti". Permettiamo loro di andare a
votare ogni tanto, di scegliere uno di noi intelligentoni. Ma poi che se ne
tornino a casa a guardare la partita, o quello che sia. Gli "ignoranti estranei e
impiccioni" devono stare a guardare, non partecipare. A partecipare penseranno
gli "uomini responsabili".
Non ti chiedi mai che cosa fa di te un "uomo responsabile" e di un altro un
carcerato. Eppure la risposta è semplice. È perché sei stato obbediente e
subordinato al potere, e l'altro forse è stato indipendente. Naturalmente, non te
la poni neanche, la domanda.
Così abbiamo gli intelligentoni, cui spetta di condurre il gioco, e gli altri, cui
spetta starne fuori, e non dovremmo soccombere (cito un articolo accademico)
ai "dogmatismi democratici che dipingono l'uomo come il miglior giudice del
proprio interesse". Non lo è. È un pessimo giudice del proprio interesse, ed è
per questo che ci penseremo noi. Per il suo bene.
Come si è evoluto tutto questo? La storia è interessante. Determinante fu la
prima guerra mondiale, un vero punto di svolta. Cambiò la posizione degli Stati
Uniti nel mondo. Nel 18esimo secolo gli USA erano già la nazione più ricca al
mondo. La qualità della vita, la salute e la longevità furono raggiunte dalle
classi agiate in Inghilterra solo agli inizi del 20simo secolo, per non parlare del
resto del mondo. Gli USA erano straordinariamente ricchi, con vantaggi
enormi, e, alla fine del 19esimo secolo, avevano di gran lunga l'economia più
potente al mondo. Il loro ruolo sulla scena internazionale, al contrario, rimaneva
marginale. Il potere statunitense si estendeva ai Caraibi e ad una parte del
Pacifico, ma non molto di più.
Durante la prima guerra mondiale, i rapporti di forza cambiarono. Dopo la
seconda, gli Stati Uniti cominciarono più o meno a governare il mondo. Ma già
dopo la prima vi fu un cambiamento significativo, e gli USA divennero
creditori di quelle nazioni delle quali erano stati, prima, debitori. Non era
ancora enorme, come la Gran Bretagna, ma cominciava ad assumere un ruolo
primario tra i grandi protagonisti della scena mondiale. Fu un grosso
cambiamento, e non fu l'unico.
Durante la prima guerra mondiale, per la prima volta, vi fu una propaganda di
stato organizzata. Gli inglesi avevano un Ministero dell'Informazione, e ne
avevano un gran bisogno perché dovevano ad ogni costo trascinare gli USA in
guerra, pena una probabile sconfitta. Il Ministero dell'Informazione era attivo
soprattutto nel diffondere propaganda, incluse grossolane falsificazioni su
presunte atrocità degli "Unni", e così via. Miravano agli intellettuali
d'oltreoceano, presumendo (a ragione) che fossero i più suggestionabili e i più
inclini a credere alla propaganda. Sono anche coloro che l'avrebbero poi
disseminata nell'informazione. I documenti del Ministero Britannico
dell'Informazione (molti dei quali sono oggi accessibili) spiegano che
l'obbiettivo era il controllo del pensiero del pianeta, un obbiettivo minore, ma
soprattutto degli Stati Uniti. Non si curavano molto di ciò che la gente potesse
pensare in India.
Negli USA, del resto, trovarono una controparte. Woodrow Wilson fu eletto nel
1916 con una piattaforma anti-interventista. Gli USA erano una nazione
pacifista. Lo era sempre stata. La gente non vuole andare a combattere guerre
all'estero. Il paese era contro la guerra e Wilson fu eletto proprio per la sua
posizione contro l'intervento. "Pace senza vittoria" era il suo slogan. Ma aveva
intenzione di andare in guerra. Si poneva quindi la questione: come trasformare
un popolo pacifista in un branco di fanatici anti-tedeschi che bramino poi di
andare a uccidere i tedeschi? Ci vuole propaganda. Venne così istituita la prima
e in fondo l'unica grande agenzia per la propaganda di stato nella storia degli
USA: La Commissione per l'Informazione Pubblica (bel nome orwelliano…),
detta anche Commissione Creel, dal nome di chi la guidava. Il compito di
questa commissione era quello di gettare la popolazione in un'isteria
nazionalistica e belligerante. I risultati superarono le aspettative. Nel giro di
pochi mesi ci fu una crescente isteria bellica e gli Stati Uniti poterono entrare in
guerra.
Molti osservatori rimasero impressionati dal successo dell'operazione. Un
osservatore impressionato, e questo ha qualche rilevanza per ciò che accadde
poi, fu Hitler. Nel Mein Kampf conclude, non a torto, che la Germania perse la
prima guerra perché perse la battaglia della propaganda. Non era stata in grado
nemmeno di cominciare a competere con la schiacciante propaganda britannica
e americana. In futuro, scrisse Hitler, anche la Germania avrebbe istituito un
sistema di propaganda, e così avvenne durante la seconda guerra mondiale. Sul
fronte americano, a rimanere fortemente impressionata dai risultati della
propaganda fu la classe imprenditoriale. Avevano un problema serio in quei
tempi. La nazione diventava formalmente più democratica. C'era molta più
gente che poteva votare, per esempio. Il paese si arricchiva, un numero
crescente di soggetti partecipava alla vita economica, aumentava il flusso
dell'immigrazione, e così via.
La fabbrica del consenso
Che fare? Diventa difficile gestire il paese come un circolo privato. Quindi,
ovviamente, bisogna controllare il pensiero della gente. C'erano specialisti di
pubbliche relazioni, a quel tempo, ma nessuna vera e propria industria di
pubbliche relazioni. Si poteva trovare qualcuno per abbellire l'immagine
pubblica di un Rockefeller, o cose del genere, ma questa gigantesca industria
delle pubbliche relazioni, che è un'invenzione americana e un'industria
mostruosa, nacque solo dopo la prima guerra. Ai livelli più alti di questa
industria nascente troviamo i membri della Commissione Creel. Il più influente
tra loro fu Edward Bernays, anche lui membro della Commissione. Bernays
scrisse un libro, in quegli anni, intitolato Propaganda. Il termine "propaganda",
sia detto per inciso, non aveva in quegli anni un'accezione negativa. Fu durante
la seconda guerra mondiale che la parola divenne tabù, perché associata alla
Germania e a tutte quelle cose brutte. Prima di allora significava solo
informazione, o qualcosa del genere. Propaganda, il libro di Bernays, esce nel
1925, e comincia spiegando la lezione della Grande Guerra. Il sistema istituito
durante la guerra, e il lavoro della Commissione Creel, dimostrano, scrive, che
è possibile "irreggimentare la mente del pubblico così come l'esercito
irreggimenta il corpo." Queste nuove tecniche d'"irreggimentazione" delle
menti, prosegue, sono a disposizione della minoranza intelligente per
assicurarsi che i bifolchi restino al loro posto. Ora possiamo farlo perché
abbiamo messo a punto la tecnica.
Questo è il manuale fondamentale dell'industria delle Relazioni Pubbliche.
Un altro membro della Commissione Creel fu Walter Lippmann, la figura più
autorevole del giornalismo americano per oltre mezzo secolo (e intendo il
giornalismo serio, le teste pensanti). Scrisse, fra l'altro, dei Saggi Progressisti
sulla Democrazia , "progressisti" perché considerati tali negli anni '20. Di
nuovo, vediamo applicata molto esplicitamente la lezione del lavoro di
propaganda. Dice che c'è un'arte nuova in democrazia, chiamata la
fabbricazione del consenso. È una sua frase. Edward Herman e io l'abbiamo
usata come titolo di un nostro libro (La Fabbrica del Consenso), ma viene da
Lippmann. Che spiega questa nuova arte: fabbricando il consenso, è possibile
aggirare il fatto che, formalmente, il diritto di voto venga esteso a molti.
Possiamo rendere questo fattore irrilevante, perché ora siamo in grado di
fabbricare il consenso. Siamo in grado di strutturare le loro scelte e i loro
atteggiamenti, in modo che facciano sempre ciò che noi diciamo loro di fare,
anche se formalmente potrebbero partecipare. Così avremo una reale
democrazia. Funzionerà a dovere.
È questa la lezione dell'agenzia per la propaganda.
Le facoltà accademiche di scienze sociali e di scienze politiche nascono allo
stesso modo. Il fondatore di quella che viene chiamata scienza delle
comunicazioni è Harold Glasswell. La sua opera più importante fu la
pubblicazione di uno saggio sulla propaganda. È lui che ha scritto, molto
apertamente, le frasi che citavo prima, tra cui l'esortazione a non soccombere ai
dogmatismi democratici. È tutta scienza politica accademica ufficiale.
Anche i partiti politici impararono dall'esperienza di guerra, e in special modo i
partiti conservatori britannici. I loro primi documenti interni, resi pubblici solo
negli ultimi anni, dimostrano che anch'essi riconobbero i successi del Ministero
Britannico dell'Informazione. Si rendevano conto che il sistema andava
democratizzandosi e che non sarebbe stato più un club privato per soli uomini.
Giunsero quindi alla conclusione che la politica doveva diventare guerra
politica, applicando i meccanismi della propaganda, che era riuscita così bene,
in guerra, a manipolare i pensieri della gente.
Questo è l'aspetto dottrinale, che coincide con la struttura istituzionale. Rafforza
l'ipotesi su come funzionerebbe il sistema. E le conferme abbondano. Ma queste
conclusioni, poi, non trovano accesso al dibattimento pubblico. Il materiale che
ho citato appartiene alla letteratura ufficiale, ormai, ma è accessibile solo a chi è
all'interno del sistema. Nessuno, all'università, ti fa leggere i classici su come si
controlla l'opinione pubblica.
Così come nessuno ti farà leggere le parole che James Madison pronunciò
davanti l'assemblea costituente, spiegando che il sistema nascente doveva avere
come obbiettivo principale "proteggere la minoranza opulenta dalla
maggioranza," e andava progettato per quella funzione. È il fondamento
dell'assetto costitutivo della maggiore forza planetaria, per questo non lo studia
nessuno. Anche un ricercatore universitario americano faticherebbe a
rintracciarlo.
Questo è il disegno, a grandi linee, di quello che vedo del sistema: le sue
strutture istituzionali, le dottrine che lo sostengono, e i risultati che ne
conseguono. C'è un'altra parte, diretta agli "ignoranti impiccioni." Consiste
nell'utilizzare la diversione, il divertimento (to divert: sviare), in un modo o
nell'altro. Da questo, penso, è facile prevedere quello che ci si può attendere.
Noam Chomsky
(traduzione di Stefano Guizzi; titolo originale "What Makes Mainstream Media
Mainstream" da un colloquio allo Z. Media Institute, giugno 1997)
"Si fa quello che diciamo noi"
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La colonizzazione del Medio Oriente: le sue origini e il suo profilo
di Noam Chomsky
Ben più di un anno è trascorso dall'accordo tra Israele e Arafat del settembre del 1993, suggellato dalla
Dichiarazione dei principi (Ddp). I firmatari hanno ricevuto i loro premi Nobel per la pace. Il significato
sostanziale di ciò che hanno firmato si è fatto più chiaro nel tempo, man mano che le ambiguità si
andavano diradando. E un buon momento per riflettere sull'accaduto e sul perché, e per chiederci quale
sarà il probabile esito del "processo di pace".
Presi alla lettera, i termini della Ddp aderiscono strettamente alle posizioni che Stati Uniti e Israele hanno
sostenuto costantemente e, per oltre vent'anni, in isolamento praticamente totale. Gli Stati Uniti e i loro
protetti-alleati che dominano la regione, interpretano i termini rigorosamente alla lettera, come mostrano
successivi sviluppi - e la cosa non sorprende più di tanto se si considera che sono stati loro a fabbricare ad
arte e imporre questi termini. Questa posizione si colloca all'interno di una più ampia concezione
statunitense riguardo al modo in cui la regione andrebbe organizzata, concezione che risale alla seconda
guerra mondiale. Pur avendo mantenuti fermi a lungo i propri principi, è stato solo in anni recenti che
Washington ha potuto metterli effettivamente in pratica. Mi sembra questa la sostanza dell'attuale
"processo di pace".
La stessa espressione "processo di pace" è un orwellismo standard, impiegato acriticamente negli Stati
Uniti e adottato in buona parte del mondo, data l'enorme influenza e potenza degli Usa. In pratica, il
termine si riferisce a qualunque cosa la leadership degli Stati Uniti è impegnata a fare sul momento - che,
spesso, consiste proprio nel minare il processo di pace nel senso letterale dell'espressione, come un analisi
dei fatti rende piuttosto chiaro.
La guerra del Golfo ha stabilito il dominio degli Stati Uniti nel Medio Oriente a un livello mai raggiunto
prima, dando la possibilità a Washington di organizzare il "processo di pace" in accordo con le proprie linee
guida, a partire dagli incontri di Madrid nell ottobre del 1991. E proprio da qui che bisognerebbe iniziare
una seria analisi della recente attività diplomatica.
Mentre bombe e missili piovevano su Baghdad e i soldati di leva iracheni si nascondevano nel deserto,
George Bush annunciò orgogliosamente lo slogan del Nuovo Ordine Mondiale, in quattro semplici parole:
"What We Say Goes", ossia "si fa quello che diciamo noi". "Quello che diciamo noi" venne presto esplicitato
con non minore chiarezza quando le armi tacquero, e Bush torno alla vecchia prassi di prestare aiuto e
sostegno a Saddam Hussein mentre quest'ultimo impietosamente soffocava le rivolte sciite e crude sotto
gli occhi delle vittoriose forze alleate, che non si degnarono di alzare anche un solo dito. Il sostegno a
Saddam era così estremo che il comando degli Stati Uniti non fu disposto nemmeno a concedere ai
generali iracheni ribelli di impiegare gli armamenti sequestrati per difendere la popolazione dalla
carneficina del dittatore. Un piano saudita per sostenere la rivolta degli indigeni sciiti venne rapidamente
soffocato dall'amministrazione Bush.
Il significato del Nuovo Ordine Mondiale non avrebbe potuto essere espresso in modo più chiaro. La
reazione che gli è stata tributata getta anche luce sull'attuale stato della cultura occidentale: per lo più
applausi per la politica dei nostri leader.
Le ragioni della tollerante posizione di Washington nei confronti della carneficina vennero spiegate per
grandi linee, all'epoca, da eminenti analisti: le atrocità di Saddam ci addoloravano, certamente, ma erano
necessarie al fine della "stabilità" - altro utile termine del discorso politico, che va letto come "qualunque
cosa sia nell'interesse del potere".
La posizione ufficiale venne delineata da Thomas Friedman, allora capo corrispondente diplomatico del New
York Times. Washington aveva sperato nel "migliore dei mondi possibili", spiego Friedman: "una giunta
irachena dal pugno di ferro senza Saddam Hussein". Tale giunta avrebbe restaurato il precedente status
quo, in cui il "pugno di ferro [di Saddam] [...] teneva unito l'Iraq, con grande soddisfazione degli alleati
americani, Turchia e Arabia Saudita" - e, ovviamente, del boss a Washington. Ma questo auspicabile esito
si era rivelato impraticabile, cosicché i padroni della regione avevano dovuto accontentarsi della seconda
migliore alternativa a disposizione: lo stesso "pugno di ferro" al quale avevano dato forza mentre torturava
i dissidenti e uccideva col gas i curdi, tutte cose perfettamente accettabili finché il criminale al potere si era
attenuto agli ordini sulle questioni fondamentali. Solo pochi mesi prima che Saddam conquistasse il Kuwait,
George Bush colse l'occasione della sua invasione di Panama per annunciare l'intenzione di sollevare il
divieto sui prestiti all'Iraq, intenzione messa in pratica poco tempo dopo, per raggiungere l'"obiettivo di
accrescere le esportazioni statunitensi e metterci in una migliore posizione per trattare con l'Iraq riguardo
ai suoi precedenti in fatto di diritti umani [ ]" come spiego il Dipartimento di Stato imperturbabile alle
ai suoi precedenti in fatto di diritti umani [...]", come spiego il Dipartimento di Stato imperturbabile alle
poche interrogazioni provenienti dal Congresso. I principali media e i giornali di maggior diffusione
trovarono l'intera faccenda indegna di essere commentata o perfino riportata.
E' sicuro che non tutti considerarono la restaurazione della "Bestia di Baghdad" o di qualche suo accettabile
clone come il "migliore dei mondi possibili": i dissidenti iracheni, per esempio. Ahmed Chalabi, banchiere
residente a Londra, condanno aspramente la posizione di Washington: "gli Stati Uniti, coprendosi dietro
alla foglia di fico della non interferenza negli affari iracheni, aspettano che Saddam massacri i rivoltosi nella
speranza che egli possa in seguito venire rovesciato da un funzionario accettabile" - egli disse - un
atteggiamento radicato nella prassi statunitense di "sostenere la dittatura per conservare la stabilità".
Il popolo degli Stati Uniti venne tenuto all'oscuro di queste note discordanti, come era avvenuto durante la
crisi. Le voci dei dissidenti iracheni potevano essere ascoltate solo dai lettori della poco diffusa stampa
dissidente, che pubblicò ciò che si poteva apprendere dalle fonti estere, e da quanti parteciparono a
convegni pubblici organizzati da gruppi di pace e giustizia, che offrirono ai leader dell'opposizione irachena
in visita dall'Europa un foro ben disposto. Anche questi sono fatti sgraditi, e perciò riposti come al solito nel
dimenticatoio in favore di una versione alquanto audace che capovolge completamente fatti facili da
stabilire, una storia interessante sulla quale non starò qui a dilungarmi.
I portavoce ufficiali degli Stati Uniti confermarono che l'amministrazione Bush non era intenzionata a
parlare con i leader dell'opposizione: "Abbiamo reputato che un incontro politico con loro [...] non sarebbe
al momento appropriato per la nostra linea", affermò il 14 marzo Richard Boucher, portavoce del
Dipartimento di Stato. Il sistema dell'informazione ne convenne e continuò a bandire gli autentici dissidenti
iracheni dai principali mezzi di informazione. Fu solo in aprile, ben dopo la fine delle ostilità, che il Wall
Street Journal, - di questo gli va dato atto - ruppe i ranghi e offrì spazio a un portavoce dell'opposizione
democratica irachena - sempre Chalabi - il quale descrisse la situazione che si era venuta a creare come "il
peggiore dei mondi possibili" per il popolo iracheno, la cui tragedia è "spaventosa".
Secondo la versione standard, tracciata per grandi linee, alcuni giorni dopo, da Alan Cowell, corrispondente
dal Medio Oriente del New York Times, i ribelli avevano fallito perché "pochissime persone fuori dell'Iraq
volevano che vincessero". Gli Stati Uniti e i "loro partner della coalizione araba" erano giunti a "una visione
eccezionalmente unanime", spiegò: "qualsiasi siano le colpe del leader iracheno, egli offriva all'Occidente e
alla regione una più consistente garanzia di stabilità per il suo paese di coloro che avevano subito la sua
repressione". La conclusione è sostenibile se intendiamo escludere dal novero delle "persone" di cui parlava
Cowell i dissidenti iracheni e la popolazione dei "partner della coalizione araba", almeno quella dell'Egitto, il
solo paese abbastanza libero da permettere ad alcune di tali persone di far udire la propria voce. E' vero,
tuttavia, che la "visione unanime" e condivisa dalle persone che contano: Washington, le redazioni dei
notiziari e delle rubriche, e le dittature della regione. E' condivisa anche da Turchia e Israele, la prima
preoccupata dalla propria popolazione curda sottoposta a brutale repressione, la seconda timorosa che
l'autonomia curda in Iraq avrebbe potuto "creare una contiguità territoriale e militare tra Teheran e
Damasco", venendo a costituire un potenziale "pericolo per Israele" (Mose Zak, caporedattore
dell'importante quotidiano Ma'ariv, mentre spiegava per quale motivo parte dei vertici del comando
militare e un ampio settore dell'opinione politica, compresi leader delle colombe, avessero accordato il loro
sostegno a Saddam). Le preoccupazioni della Turchia hanno ricevuto qualche menzione, ma non la
reazione di Israele, che contrasta troppo nettamente con l'immagine che si è voluta dare.
Ora si è ammesso, per inciso, che quando il suo amico disobbediente invase il Kuwait, l'amministrazione
Bush prevedeva che si sarebbe ritirato, lasciando al potere un regime fantoccio - ossia, una replica di
quello che gli Stati Uniti avevano appena fatto a Panama. Certo, nessun parallelo storico e mai del tutto
esatto. In un incontro ad alto livello immediatamente dopo che Saddam aveva invaso il Kuwait, il capo di
stato maggiore, Colin Powell, espresse parere sfavorevole a proposito dell'intervento militare sulla base del
fatto che il popolo americano "non vuole che i suoi giovani muoiano per avere il petrolio a 1 dollaro e
mezzo". "Nei prossimi giorni l'Iraq si ritirerà", disse, lasciando "il suo fantoccio al potere. Tutti nel mondo
arabo saranno contenti". Al contrario, quando Washington si ritirò parzialmente da Panama dopo aver
messo il suo fantoccio al potere, molti furono tutt'altro che felici (nel sud del mondo). L'impresa criminosa
di Washington a Panama suscitò grande rabbia in tutto l'emisfero, a tal punto che il regime fantoccio venne
espulso dal Gruppo delle otto democrazie latinoamericane in quanto paese sottoposto a occupazione
militare. Come osserva il latino americanista Stephen Ropp, Washington era pienamente consapevole del
fatto "che rimuovere il manto della protezione americana avrebbe presto condotto al rovesciamento civile o
militare di Endara e dei suoi sostenitori" vale a dire, il regime fantoccio di banchieri, uomini di affari e
narcotrafficanti instaurato dall'invasione di Bush. Perfino la Commissione per i diritti umani di quello stesso
governo ha denunciato la protratta violazione del diritto all'autodeterminazione e alla sovranità del popolo
panamense attraverso lo "stato di occupazione da parte di un esercito straniero", quattro anni dopo
l'invasione.
A parte simili fatti (non riportati), l'analogia può sussistere - o, almeno, potrebbe sussistere, se fosse
possibile spiegarla o anche solo parlarne attraverso i principali mezzi di informazione.
Gli interessi di Washington spiegano perché ha dovuto bloccare ogni iniziativa che avrebbe potuto condurre
a un ritiro negoziato iracheno, come in effetti ha fatto; e perché i mezzi di comunicazione internazionali
hanno dovuto nascondere i fatti concernenti le opportunità di soluzione diplomatica, come in effetti hanno
fatto, e con notevole efficienza, nonostante talvolta si sia ammesso tacitamente che i fatti erano noti. Vi è
un'ampia letteratura critica riguardo al comportamento dei mezzi di informazione durante la guerra, ma
anch'essa evita questo argomento, che evidentemente è quello cruciale. Quanto fosse importante tenere
segreti i fatti diviene particolarmente chiaro quando scopriamo che alla vigilia del bombardamento la
segreti i fatti diviene particolarmente chiaro quando scopriamo che alla vigilia del bombardamento, la
popolazione americana, in proporzione di circa 2 a 1, era favorevole a un accordo basato sul ritiro delle
truppe irachene in considerazione dei problemi della regione, non sapendo di una proposta irachena
orientata in tal senso di qualche settimana prima, o del sommario rifiuto che essa aveva ricevuto a
Washington. Sugli stessi standard si mantengono gli attuali studi accademici sulla vicenda, altra storia
interessante che qui metterò da parte. In modo simile, gli archivi dei documenti sollevati dal segreto di
Stato, pieni di informazioni in abbondanza sull'accaduto, vengono ignorati dagli studi accademici più
ammirati come sono stati completamente ignorati dai media. Solo ai margini si trovano eccezioni allo
schema.
Sulla scorta del ben assimilato principio di Tacito secondo cui "il crimine una volta scoperto non ha altro
rifugio se non la sfrontatezza", questo misero comportamento viene ora generalmente considerato un
esempio di come il sistema democratico promuova un'accurata, deliberata e sobria divulgazione di tutti gli
aspetti delle questioni cruciali prima che vengano prese decisioni importanti.
La concezione strategica
La guerra del Golfo ha avuto luogo sullo sfondo di importanti mutamenti nell'economia internazionale e
nelle vicende mondiali che hanno offerto agli Stati Uniti l'opportunità di riorganizzare la parte del mondo
che non aveva incontrato il suo gradimento dalla fine della seconda guerra mondiale. Tra le ceneri della
catastrofe, gli Stati Uniti sono riusciti a espellere dall'emisfero i loro principali rivali, la Francia e la Gran
Bretagna, e a mettere in pratica la dottrina Monroe. Negli anni novanta, in effetti, gli Stati Uniti sono
finalmente riusciti a estendere l'applicazione della dottrina Monroe al Medio Oriente. Per comprendere quali
siano le implicazioni di ciò per la regione, bisogna dissipare la nebbia dell'ideologia e vedere in che modo la
dottrina veniva concretamente intesa dai suoi ideatori. Prendiamo solo l'amministrazione Woodrow Wilson,
al culmine del suo "idealismo" in politica estera. La dottrina Monroe si basa sul "semplice egoismo", spiegò
in privato il segretario di Stato Robert Lansing, e nel sostenerla gli Stati Uniti "badano ai propri interessi.
L'integrità di altre nazioni americane è un caso fortuito, non un fine". Il presidente ne convenne,
aggiungendo che sarebbe stato "imprudente" mettere il pubblico a parte del segreto. Questa applicazione
dell'"idealismo wilsoniano" è semplicemente ragionevole, aggiunse il segretario degli interni, perché i
latinoamericani sono "bimbi indisciplinati che si avvalgono di tutti i privilegi e diritti degli adulti", e questo
loro comportamento richiede "una mano ferma, una mano autorevole".
Acquisire il controllo unilaterale delle regioni medio orientali produttrici di petrolio non è un obiettivo di
poco conto. Quando gli Stati Uniti divennero una vera e propria superpotenza negli anni quaranta, la
leadership politica vide la regione come l'"area strategicamente più importante del mondo" (Eisenhower),
"una enorme fonte di potere strategico, e uno dei maggiori obiettivi materiali della storia del mondo" oltre
che "probabilmente il più ricco obiettivo del mondo nel campo degli investimenti stranieri" (Dipartimento di
Stato, anni quaranta) un obiettivo che gli Stati Uniti intendevano tenere per sé e per il loro alleato
britannico, nel Nuovo Ordine Mondiale che si andava allora dispiegando.
Da allora, gli Stati Uniti si sono attenuti a una concezione strategica per la regione che avevano ereditato
dal loro predecessore britannico. Il grande "obiettivo materiale" deve essere gestito da amministratori
locali, dittature familiari deboli e dipendenti, disposte a fare ciò che gli si dice di fare. Tali dittature
costituiscono quello che i pianificatori imperialisti britannici avevano chiamato la "facciata araba", edificata
per consentire alla Gran Bretagna di governare dietro a varie "finzioni costituzionali" dopo aver concesso
una garanzia di indipendenza nominale. Gli amministratori possono essere brutali e corrotti finché
vogliono, a patto di svolgere la propria funzione. Sotto questo aspetto essi rientrano in una impressionante
collezione di tiranni e assassini: i vari dittatori militari latinoamericani, Suharto, Marcos, Mobutu,
Ceaucescu, e molti altri criminali alla stessa stregua. E' difficile immaginare un crimine che potrebbe farli
espellere da questo club. Perfino Stalin venne trovato con le carte in regola. Truman stimava e ammirava
l'"onesto" leader russo. La sua morte sarebbe stata una "autentica catastrofe", secondo Truman, il quale
aggiungeva che avrebbe potuto "trattare con" Stalin fintantoché gli Stati Uniti avessero condiviso la sua
strada l'85 per cento delle volte. Quello che Stalin faceva a casa sua non lo riguardava. Altri rispettati
personaggi condividevano questo giudizio, compreso Churchill, il cui smaccato apprezzamento per il
tiranno sanguinario proseguì nel 1945: "il premier Stalin era uomo di grande forza, nel quale riponeva la
massima fiducia", spiegò Churchill al suo gabinetto dopo Yalta, esprimendo l'auspicio che il leader russo
rimanesse al comando.
Non c'è nulla di nuovo nel sostegno offerto ai mostri del Medio Oriente e nell'indifferenza per i crimini piu
spaventosi se ciò contribuisce a perseguire i più elevati fini della "stabilità". Se non si comprendono queste
persistenti caratteristiche della "diplomazia reale", quello che accade nel mondo è destinato a rimanere un
mistero.
La "facciata" va protetta dagli abitanti locali, che sono arretrati e incivili, e non sembrano cogliere le ragioni
per le quali del "più ricco obiettivo economico del mondo" debbano giovarsi non loro, ma gli investitori
occidentali. Di conseguenza, è necessario affidarsi a gendarmi locali per mantenere l'ordine; in momenti
diversi, all'Iran, alla Turchia, al Pakistan, e ad altri ancora. La forza statunitense e britannica rimane sullo
sfondo, ove necessario. Israele ricade nel secondo di questi livelli di controllo.
Nei corridoi del potere, le idee fondamentali vengono intese abbastanza bene, anche se viene considerato
sconveniente parlare in modo troppo schietto; così non ci appropriamo di risorse per noi stessi, ma
piuttosto le sottraiamo a potenziali nemici, per autodifesa; indipendentemente dai fatti, noi e i nostri alleati
p
p
,p
;
p
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siamo impegnati in "controterrorismo" o "rappresaglia", non in "terrorismo", ecc. Tuttavia, una certa
chiarezza emerge dalle nebbie.
Molto impressionato dal successo militare di Israele nella guerra del 1948, lo Stato Maggiore descrisse il
nuovo Stato come la principale potenza militare della regione dopo la Turchia, che offriva agli Stati Uniti lo
strumento per "acquisire un vantaggio strategico nel Medio Oriente, che avrebbe controbilanciato il declino
della potenza britannica nell'area". Dieci anni dopo, il Consiglio di sicurezza nazionale giunse alla
conclusione che un "corollario logico" dell'opposizione al crescente nazionalismo arabo "consisterebbe nel
sostenere Israele come unica forte potenza filo-occidentale in Medio Oriente". Durante gli anni sessanta, gli
analisti statunitensi videro la potenza israeliana come una barriera alle minacce nasseriane alla "facciata",
impressione confermata dalla distruzione della forza militare dell'Egitto da parte di Israele nel 1967. La tesi
secondo cui Israele poteva servire da "risorsa strategica" per difendere gli interessi e gli alleati degli Stati
Uniti dalle forze nazionaliste venne ulteriormente corroborata nel 1970, quando Israele parò quella che si
profilava come una minaccia siriana al Regno di Giordania e potenzialmente ai produttori di petrolio. E
l'impressione ando crescendo negli anni seguenti.
La tesi della risorsa strategica trovò la sua collocazione naturale all'interno della Dottrina di Nixon, secondo
la quale gli Stati Uniti non potevano "più interpretare il ruolo di poliziotto mondiale" e quindi "si
attendevano che altre nazioni fornissero più di un poliziotto per perlustrare i propri quartieri" (ministro
della difesa Melvin Laird). Il quartier generale della polizia - era inteso - rimaneva a Washington; gli altri
dovevano perseguire i propri "interessi regionali" all interno del "quadro globale di ordine" amministrato
dagli Stati Uniti, per riprendere il modo in cui Henry Kissinger spiegò il concetto generale agli europei,
ammonendoli a non infrangere le regole. I due principali poliziotti incaricati di perlustrare il distretto medio
orientale erano Israele e l'Iran, segretamente alleati. Gli studiosi parlano, in genere, di una "strategia dei
"due pilastri" per il controllo statunitense, pensando a Iran e Arabia Saudita; che, invece, si sia trattato di
una "strategia dei tre pilastri" e apparso chiaro almeno fin dagli anni settanta.
Nel maggio del 1973, il principale specialista del Senato su petrolio e Medio Oriente, il falco democratico
Henry Jackson, osservò che il dominio statunitense sulla regione è salvaguardato dalla "forza e
dall'orientamento occidentale di Israele sul Mediterraneo e dell'Iran sul Golfo Persico", due "amici affidabili
degli Stati Uniti". Questi amici "sono serviti a inibire e contenere quegli elementi irresponsabili e radicali di
certi stati arabi che, se gliene fosse stata data la possibilita, avrebbero rappresentato in effetti una grave
minaccia alle nostre principali fonti di petrolio nel Golfo Persico". All'epoca, gli Stati Uniti si servivano
appena di queste fonti. Il maggiore produttore di petrolio del mondo fino al 1970 fu il Venezuela, che
l'amministrazione Wilson aveva preso a controllare come un feudo privato mezzo secolo prima, espellendo
la Gran Bretagna, altro esempio dell'"idealismo wilsoniano": in questo caso, della sua dedizione al principio
della "porta aperta" e al principio di "autodeterminazione". Anche altre riserve dell'emisfero occidentale
erano sostanziose. Ma la sorgente più economica e abbondante di petrolio del mondo, che si trovava
appunto nella regione del Golfo, era necessaria come riserva e come leva per dominare il mondo, oltre che
per l'ingente ricchezza che ne scaturiva, principalmente per gli Stati Uniti e la Gran Bretagna.
Se i materiali di archivio venissero resi disponibili, avrebbero sicuramente molto di interessante da dire
riguardo alle tacite relazioni intrattenute nel corso degli anni tra la facciata araba e i due principali
gendarmi, con i quali era ufficialmente in guerra. Questo è del tutto improbabile in Arabia Saudita e negli
Emirati del Golfo, e purtroppo meno probabile di quanto lo fosse un tempo negli Stati Uniti, dopo il
passaggio a una censura molto più aspra sotto Reagan, che, a quanto pare, ancora permane; recenti
scoperte effettuate dallo storico israeliano Benny Morris destano dubbi anche sugli archivi israeliani. Le
relazioni segrete tra Israele e lo Scià sono state ampiamente rivelate, soprattutto in Israele.
Non deve affatto sorprendere che dopo la caduta dello Scià, Israele e Arabia Saudita cominciarono
istantaneamente a cooperare nella vendita di armi statunitensi all'esercito iraniano. Lo si è sostanzialmente
ammesso in pubblico sin dal 1982. Si era agli stadi iniziali di quello che in seguito sarebbe divenuto noto
come lo scandalo delle "armi in cambio di ostaggi", scoppiato quando non fu più possibile nascondere
alcuni aspetti della vicenda. Non vi era alcun ostaggio quando ebbe inizio l'operazione statunitenseisraeliana-saudita, e alti funzionari israeliani furono abbastanza franchi nello spiegare quello che stava
accadendo fin dai primi giorni: un tentativo di ispirare un colpo militare per restaurare il vecchio ordine.
Del resto, si trattava solo di una "procedura operativa standard". Il modo abituale di rovesciare un governo
civile e di stabilire relazioni con elementi militari, le persone incaricate di sbrigare il lavoro. Il progetto è
talvolta coronato da successo; l'Indonesia e il Cile ne sono due esempi recenti. L'Iran si e rivelato un osso
più duro.
Vari agenti acquisiscono diritti a seconda del loro ruolo all'interno della generale concezione strategica. Gli
Stati Uniti hanno diritti per definizione. Anche i poliziotti di ronda hanno diritti, a meno che non siano
negligenti, nel qual caso, se agiscono in modo troppo indipendente, diventano nemici. Gli amministratori
locali hanno diritti fintantoché badano ai propri affari. Se ci vuole un "pugno di ferro" per preservare la
"stabilità", così sia.
Gli abitanti dei bassifondi del Cairo o dei villaggi libanesi, e altri come loro, non hanno né ricchezza né
potere, e quindi nessun diritto, per semplice conseguenza logica. Anche i loro interessi sono "un incidente,
non un fine". Nel caso dei palestinesi, essi non solo non hanno diritti ma, peggio ancora, sono un fastidio;
la loro infelice sorte è stata un agente irritante con effetto dirompente sull'opinione pubblica araba.
Pertanto essi hanno diritti negativi, fatto che spiega molte cose. E' stato necessario incidere quell'ascesso
in qualche maniera, con la violenza o in altro modo. L'idea di fondo e che se si riuscisse a sgombrare il
campo dalla questione palestinese, dovrebbe essere possibile portare alla superficie le tacite relazioni tra le
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parti dotate di diritti, ed estenderle, incorporando anche altri paesi in un sistema regionale dominato dagli
Stati Uniti nell "area strategicamente [più] importante del mondo".
Questa è sempre stata la logica essenziale del "processo di pace". Il quadro, stabile e durevole, non ci
permette di dedurre con assoluta esattezza ciò che accade e probabilmente continuerà ad accadere; le
faccende umane sono troppo complesse perché ciò sia possibile. Ma ci consente di arrivarci
sorprendentemente vicino.
Fino a poco tempo fa, non è stato possibile imporre appieno la concezione strategica guida, in parte a
causa dei limiti del potere degli Stati Uniti, in parte in seguito a problemi determinati dall'impegno a
conservare il ruolo cruciale di Israele come "risorsa strategica". Tale ruolo ha assunto maggiori proporzioni
tra gli anni settanta e gli anni ottanta, andando ben al di la del Medio Oriente. Questa è stata una delle
conseguenze delle iniziative intraprese dal Congresso a partire dai primi anni settanta per imporre
condizioni concernenti i diritti umani sulle azioni dell esecutivo; tali iniziative sono uno dei più importanti
effetti dei movimenti popolari degli anni sessanta, che modificarono in modo considerevole gli
atteggiamenti e la percezione del grande pubblico nei confronti di un ampia gamma di questioni, con
considerevole rammarico per l'opinione dell'élite'. I pianificatori ebbero bisogno di ricorrere sempre più
spesso a dei surrogati. Per citare un solo illuminante esempio, quando John F. Kennedy decise di spedire la
forza aerea statunitense a bombardare il Vietnam del sud, non vi fu un sussurro di protesta; ma quando i
reaganiani cercarono di condurre operazioni simili in America centrale, scatenarono una pubblica rivolta, e
dovettero limitarsi a massicce operazioni terroristiche clandestine.
In un simile contesto, Israele venne ad assumere nuove funzioni. Perciò, quando le condizioni riguardanti i
diritti umani stabilite dal Congresso impedirono al presidente Carter di spedire jet in Indonesia nel 1978,
mentre le atrocità a Timor est raggiungevano il culmine, egli poté fare in modo che Israele inviasse jet
statunitensi, che sarebbero giunti attraverso un canale libero. I maggiori contributi tuttavia, si ebbero in
Africa e Sudamerica, specie da quando l'amministrazione Reagan creò una rete di terrorismo internazionale
di imponenti dimensioni, comprendente neonazisti argentini, Taiwan, Sudafrica, Inghilterra, Arabia
Saudita, Marocco e altri. Va ricordato che gli operatori di poco conto come Gheddafi ingaggiano terroristi,
mentre i pezzi grossi preferiscono ricorrere direttamente a Stati terroristi.
Sulla questione del ruolo centrale di Israele nella politica medio orientale degli Stati Uniti, vi è stato
qualche dibattito interno. Ma per varie ragioni, non prive di interesse, la tesi della risorsa strategica si è
trovata raramente a fronteggiare gravi minacce. Gli sparuti tentativi di discostarsi da tale tesi sono stati
rapidamente soffocati, in gran parte in riconoscimento delle dimostrazioni di valore militare di Israele, che
produssero una grande impressione non solo nei leader statunitensi ma anche in un vasto spettro dell
opinione intellettuale.
Queste sono alcune delle ragioni per le quali gli Stati Uniti hanno costantemente svilito o piegato gli sforzi
diplomatici per risolvere il conflitto nel corso di oltre 20 anni. La maggior parte di tali iniziative avrebbero
imposto un qualche riconoscimento dei diritti palestinesi, laddove Washington è ferma nel sostenere che i
palestinesi non hanno alcun diritto che possa interferire col potere israeliano. Inoltre, queste iniziative
avrebbero portato a un qualche tipo di coinvolgimento internazionale in un accordo; Washington è sempre
stata riluttante ad accettare anche questo, nonostante si sia dimostrata disposta a fare un'eccezione per il
suo "luogotenente" britannico, per mutuare l'espressione con la quale un influente consigliere di Kennedy
spiegò in che modo andava inteso il "rapporto speciale" con l'importante partner. E' stato necessario
"assicurarsi che gli europei e i giapponesi non venissero coinvolti nell'azione diplomatica in Medio Oriente",
come spiego in privato Henry Kissinger.
Le premesse fondamentali sono cosi profondamente radicate che sono entrate a far parte della stessa
terminologia impiegata per inquadrare i problemi. Prendiamo il termine "negazionismo [rejectionism]", che
qualora venisse impiegato in senso neutrale dovrebbe riferirsi alla negazione del diritto
dell'autodeterminazione nazionale per l'uno o l'altro dei due gruppi che reclamano appunto tale diritto nella
ex Palestina: gli abitanti indigeni e i coloni ebrei che li hanno gradualmente sostituiti. Ma il termine non
viene impiegato a questo modo. Piuttosto, "negazionisti" sono coloro i quali negano i diritti di uno solo dei
contendenti, vale a dire del popolo ebreo: alcuni elementi dell'Olp, il governo dell'Iran e qualcun altro.
D'altro canto, quanti negano i diritti dei palestinesi (compresi i due maggiori gruppi politici di Israele, i due
partiti politici statunitensi, tutti i governi israeliani e statunitensi, praticamente tutta l'opinione statunitense
rappresentata nei mezzi di informazione) sono "moderati" o "pragmatici", perfino "colombe". E ancor più
degno di nota, tuttavia, il fatto che, senza alcuna vergogna, le persone e le organizzazioni che vengono
considerate "civili e libertarie" possano denunciare come "offensivo" l'"accostamento tra quegli israeliani
che si oppongono alla creazione di uno Stato potenzialmente ostile al confine di Israele e quei palestinesi
che tuttora propugnano la distruzione di Israele [...]" ossia, il confronto tra coloro che negano il diritto all
autodeterminazione ai palestinesi e coloro che negano tale diritto agli ebrei israeliani.
La consuetudine razzista è così saldamente radicata da passare inosservata e risulta incomprensibile
quando la si fa notare. Come Orwell osservò nella sua trattazione della "censura [...] deliberata in
Inghilterra", lo strumento più efficace e il "generale tacito accordo che "non starebbe bene" menzionare
quel particolare fatto"; è compito di una decente istruzione inculcare gli atteggiamenti opportuni. E uno dei
fatti che "non starebbe bene" menzionare, o addirittura pensare, e che gli Stati Uniti sono stati a lungo il
leader del fronte della negazione.
Vale la pena osservare come la guerra fredda sia stata per lo più una considerazione secondaria,
circostanza talvolta ammessa nel dibattito interno. Così nel marzo del 1958, il segretario di Stato John
Foster Dulles informò il Consiglio di sicurezza nazionale che né il comunismo né l'Unione Sovietica erano
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coinvolti nelle tre maggiori crisi mondiali dell'epoca, tutte riguardanti il mondo islamico: il Medio Oriente, il
Nordafrica e l'Indonesia. E quando uno dei presenti suggerì che altri avrebbero potuto lavorare per conto
dei russi, il presidente Eisenhower fece "vigorosa obiezio- ne", rivela il documento.
Non credo che ci sia nulla da aggiungere su questo punto; lo si sta cominciando ad ammettere, anche
ufficialmente, dato che il pretesto non serve più ad alcuno scopo utile. La transizione è stata rapida. A
1989 inoltrato, gli Stati Uniti si stavano difendendo dalla globale aggressione comunista. Alla fine dell'anno,
non era più questo ciò che stavano facendo (o che avevano mai fatto). Nel marzo del 1990, la Casa Bianca
presentò il suo regolare rapporto al Congresso per spiegare perché il budget del Pentagono doveva venire
mantenuto al suo colossale livello, il primo rapporto dopo la caduta del muro di Berlino nel novembre del
1989. La conclusione fu la solita, ma le ragioni stavolta furono differenti: la minaccia non era il Cremlino,
ma la "tecnologia sempre più sofisticata" del terzo mondo. In particolare, gli Stati Uniti dovevano
mantenere le proprie forze di intervento puntate sul Medio Oriente dato "l'affidamento che il mondo libero
fa sulle riserve di energia che si trovano in questa regione chiave", dove le "minacce ai nostri interessi
potrebbero non risiedere alle porte del Cremlino". Fatto questo che talvolta è stato riconosciuto negli ultimi
anni, o anche prima, se è per questo, come nel 1958. 0 nel 1980, quando l'architetto della forza di
intervento rapido (il futuro comando centrale) del presidente Carter, puntata principalmente sul Medio
Oriente, testimoniò davanti al Congresso che l'impiego più probabile del dispiegamento militare non era
quello di resistere a un attacco sovietico (estremamente poco plausibile), ma di occuparsi delle tensioni
indigene e regionali: il "nazionalismo radicale" che ha rappresentato sempre una preoccupazione di primo
piano.
Ovviamente, nel Medio Oriente come altrove, i bersagli dell'attacco statunitense si rivolsero ai russi per
cercare appoggio, cosa che il Cremlino fu talvolta disposto a offrire per ragioni puramente ciniche e
opportunistiche. E la potenza sovietica ebbe un effetto deterrente, come i documenti ripetutamente
mostrano. Ma a parte queste precisazioni, rimane vero che "le minacce ai nostri interessi potrebbero non
risiedere alle porte del Cremlino".
Nel 1991, Washington era nella condizione di raggiungere i suoi obiettivi strategici con poco riguardo per
l'opinione mondiale. Non era più necessario minare tutte le iniziative diplomatiche, come Washington
aveva fatto per 20 anni. L'Unione Sovietica era scomparsa, e con essa, lo spazio per il non allineamento,
un fatto di grande importanza per le vicende mondiali, che ha ricevuto scarsa attenzione a occidente ma è
stato accolto con non lieve apprensione nel terzo mondo. In una rivista cilena, il noto autore Mario
Benedetti scrisse che "la combinazione dell indebolimento dell'Urss e della vittoria [statunitense] nel Golfo
potrebbe rivelarsi tragica [per il sud] a causa della rottura dell equilibrio militare internazionale che in
qualche modo serviva a contenere le smanie di dominio statunitense" e perché la provocazione lanciata
allo sciovinismo razzista occidentale "potrebbe stimolare imprese imperialiste ancor più selvagge". Lo stato
d'animo generale del sud venne fotografato dal cardinale brasiliano Paulo Evaristo Arns, il quale osservò
come nelle nazioni arabe "il ricco si è schierato con il governo statunitense mentre i milioni di poveri hanno
condannato questa aggressione militare". In tutto il terzo mondo "vi è odio e paura: quando decideranno di
invaderci" e con quale pretesto? Se non in modo marginale, nulla di tutto ciò giunge all'occidente,
sprofondato nel trionfalismo e nell'autocongratulazione.
La maggior parte del terzo mondo era ad ogni modo piombata nel completo disordine, devastata dalla
catastrofe del capitalismo degli anni ottanta. L'Europa ha fondamentalmente abdicato a qualsiasi ruolo
nelle faccende del Medio Oriente, garantendo agli Stati Uniti il controllo pressoché totale che avevano a
lungo agognato. La guerra del Golfo ha suggellato il patto, stabilendo che "si fa quello che diciamo noi" e
mettendo in moto un genuino "processo di pace" - vale a dire un processo saldamente sottoposto al
controllo unilaterale degli Stati Uniti.
Lo "stallo"
Ricapitolerò rapidamente le premesse della situazione, a partire dalla guerra del giugno 1967.
L'esito della guerra fu estremamente gradito agli Stati Uniti, visto che venne meno l'influenza nasseriana
nella regione (con grande sollievo della "facciata") e Israele assunse il controllo della sponda occidentale,
di Gaza, degli altopiani del Golan e del Sinai. Ma la guerra aveva portato il mondo pericolosamente vicino a
uno scontro tra superpotenze. Si temevano minacciose comunicazioni sulla "linea calda" tra Washington e
Mosca. Il premier sovietico Kosygin a un certo punto ammonì il presidente Johnson che "se volete la
guerra, guerra avrete", come riportò anni dopo il ministro della difesa Robert McNamara, aggiungendo la
sua opinione che "siamo andati maledettamente vicini alla guerra" quando la flotta degli Stati Uniti
"circondò una portaerei [sovietica] nel Mediterraneo"; egli non spiegò i dettagli, ma l'episodio
probabilmente risaliva al periodo in cui Israele si impossessò degli altipiani siriani del Golan dopo il cessate
il fuoco.
Chiaramente bisognava fare qualcosa. Seguì un processo diplomatico, che condusse alla risoluzione
numero 242 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che da allora ha costituito il quadro di
riferimento diplomatico. Nonostante fosse stata deliberatamente formulata in modo vago nella speranza di
ottenere l'adesione generale, vi sono pochi dubbi sul modo in cui la risoluzione venne interpretata dal
Consiglio di sicurezza, compresi gli Stati Uniti: richiedeva una pace completa in cambio del completo ritiro
israeliano, forse con qualche reciproco e minore aggiustamento. Che gli Stati Uniti sostenessero questo
consenso internazionale emerge chiaramente dai documenti che sono stati divulgati, e in alcuni casi
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trapelati, compresa un importante ricostruzione del Dipartimento di Stato. Questa interpretazione della
risoluzione 242 venne confermata pubblicamente nel piano Rogers del 1969 presentato dal segretario di
Stato William Rogers e approvato dal presidente Nixon, nel quale si era sostenuto che "qualsiasi
mutamento dei confini preesistenti non avrebbe dovuto riflettere la portata della conquista e avrebbe
dovuto limitarsi a variazioni di poco conto necessarie per la mutua sicurezza".
La 242 non venne attuata. Nonostante tutti avessero firmato, gli stati arabi rifiutarono di accordare una
pace completa e Israele rifiutò di ritirarsi completamente. Notate che la 242 e piattamente negazionista:
non offre nulla ai palestinesi, che vengono contemplati solo in relazione al problema dei rifugiati.
L'impasse venne rotta nel febbraio del 1971, quando il presidente egiziano Sadat si unì al consenso
internazionale, accettando la proposta del mediatore dell'Onu Gunnar Jarring per la pace completa con
Israele in cambio del completo ritiro israeliano dal territorio egiziano. Israele accolse di buon grado la
dichiarazione dell'Egitto "di essere pronto a intavolare un accordo di pace con Israele", ma lo rifiutò,
affermando che "Israele non si ritirerà entro i confini precedenti al 5 giugno del 1967". Questa posizione e
stata da allora sostenuta senza deviazioni da entrambi i raggruppamenti politici, le coalizioni basate
rispettivamente sul partito laburista e sul Likud.
Sadat, facendo propria la posizione ufficiale degli Stati Uniti, pose Washington di fronte a un dilemma:
Washington avrebbe dovuto accettarla, lasciando così Israele da sola tra i principali attori dell opposizione?
0 gli Stati Uniti avrebbero dovuto cambiare politica unendosi a Israele nel loro riiiuto a tutt'oggi unilaterale
delle disposizioni della 242 concernenti il ritiro Henry Kissinger preferì quest ultima alternativa, perorando
la situazione di "stallo", sulla base di motivazioni così bizzarre che è stato necessario ignorarle,
probabilmente a causa dell'imbarazzo; non è il solo caso del genere. Può darsi che la sua principale
motivazione fosse quella di soppiantare il suo rivale William Rogers e assumere cosi la direzione del
Dipartimento di Stato come stava per fare.
La linea di Kissinger prevalse. Da allora gli Stati Uniti hanno negato non solo i diritti dei palestinesi
(all'epoca, forti del consenso interno), ma anche le disposizioni di ritiro della risoluzione 242 così come
erano intese dai suoi autori - compresi gli Stati Uniti, contrariamente alle invenzioni successive.
Anche queste sono cose che "non starebbe bene" dire. Pertanto, l'intera vicenda è vietata: espulsa dalla
storia.
Nelle sue memorie, il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin, allora ambasciatore di Israele a Washington,
descrive l'accettazione della "famosa" proposta Jarring da parte di Sadat un "fulmine a ciel sereno", una
"pietra miliare" sulla via della pace, per quanto inaccettabile perché rimaneva l'"impronta elusiva di Sadat",
implicando un "nesso pregiudiziale" tra l'accordo di pace e il ritiro di Israele entro i confini precedenti al
giugno del 1967 (in accordo con la 242, così come veniva intesa all'epoca al di fuori di Israele). Negli Stati
Uniti, d altro canto, i fatti sono scomparsi. Vengono regolarmente ignorati dai giornalisti e dai
commentatori dei principali mezzi di informazione, e abbastanza spesso anche nei lavori accademici.
L'esempio più recente è la storia di Mark Tessler, che è più equilibrata della maggior parte delle altre. Nella
sua estesa analisi dell'attività diplomatica, non si trova alcun cenno all'ufficiale offerta di pace da parte di
Sadat e al rifiuto di Israele, ma una nota a pie' di pagina fa riferimento a un'intervista del 1971 nella quale
Sadat informava il redattore di Neurstoeek Arnaud de Borchgrave "che l'Egitto era pronto a riconoscere
Israele e a trattare la pace". De Borchgrave informò il primo ministro israeliano Golda Meir "che Sadat
avrebbe presto ripetuto la sua offerta di pace all'inviato delle Nazioni Unite Gunnar Jarring", prosegue
Tessler, ma la Meir "respinse l'apertura di Sadat".
Questo è tutto per la "famosa pietra miliare". Pochi altri si sono anche solo avvicinati cosi tanto alla realtà.
Il rifiuto della 242 da parte degli Stati Uniti su iniziativa di Kissinger cancellò la questione del ritiro dal
"processo di pace". Il problema del negazionismo sorse alcuni anni dopo, quando il consenso internazionale
si spostò verso una posizione non negazionista, condivisa anche dai maggiori stati arabi e dall'Olp. Il
problema giunse all'apice quando il Consiglio di sicurezza discusse una risoluzione che incorporava il testo
della risoluzione 242, ma aggiungeva una disposizione concernente uno Stato palestinese da fondare nella
sponda occidentale e nella striscia di Gaza. La risoluzione venne sostenuta dagli "stati del conflitto" arabi
(Egitto, Giordania, Siria) e dall'Olp, dall'Unione Sovietica, dall'Europa e dalla maggior parte del resto del
mondo. Ad essa posero il veto gli Stati Uniti, che si erano ormai saldamente attestati a capo della frangia
più estrema del Fronte della Negazione. Washington pose il suo veto a una risoluzione simile nel 1980. La
questione passò allora all'Assemblea generale, che tenne votazioni annuali nelle quali gli Stati Uniti e
Israele rimasero isolati all'opposizione (una volta sola in compagnia della Repubblica dominicana); un voto
negativo degli Stati Uniti nell'Assemblea equivale a un veto, anche se gli Stati Uniti sono completamente
soli, o quasi, come comunemente accade. L'ultima delle regolari votazioni annuali si tenne nel dicembre del
1990, 144-2. Un'altra risoluzione che appoggiava "Il diritto del popolo palestinese all'autodeterminazione"
venne presa in esame nel novembre del 1994 (124-2).
Tutto questo è bandito dalla storia, di rado persino riportato, espulso dai documenti in favore di edificanti
storie sugli sforzi americani tesi al raggiungimento della pace, contrastati da negazionisti arabi e altri
cattivi personaggi, nel quadro, probabilmente, di un cosmico "scontro di civiltà".
La votazione alle Nazioni Unite del 1990 avvenne poco prima della guerra del Golfo che pose gli Stati Uniti
nella posizione di imporre, alla fine, la loro forma estrema di negazionismo. L'amministrazione Bush aveva
riaffermato quei principi ben prima, nel piano Baker del dicembre del 1989, il quale non faceva altro che
appoggiare il piano Shamir-Peres proposto dalla coalizione di governo israeliana nel maggio del 1989.
Secondo il piano Shamir-Peres-Baker, gli Stati Uniti e Israele avrebbero selezionato certi palestinesi che
avrebbero ricevuto il permesso di discutere l'"iniziativa di Israele", ma nient'altro. Il piano teoricamente era
pubblico ma trovò un'eco immediata solo nella stampa dissidente oltre a essere trascurato o mal
pubblico ma trovò un'eco immediata solo nella stampa dissidente, oltre a essere trascurato o mal
rappresentato anche in buona parte dei migliori studi accademici. Si è parlato di una sola delle sue
disposizioni, quella relativa alle elezioni, per illustrare ciò che la stampa talvolta definisce la "brama di
democrazia" dei leader americani: una democrazia che dovrebbe essere realizzata tramite elezioni da
tenersi sotto il controllo militare di Israele mentre buona parte del settore istruito della popolazione giace
in prigione senza capi di imputazione.
I termini cruciali del piano Shamir-Peres-Baker erano: 1) che non vi puo essere nessun "altro Stato
palestinese nel distretto di Gaza e nell'area tra Israele e la Giordania" (es- sendo gia la Giordania uno
"Stato palestinese"); e 2) che "Non vi può essere alcuna variazione nello status di Giudea, Samaria e Gaza
[la sponda occidentale e la striscia di Gaza] se non in accordo con le linee guida essenziali del governo
[israeliano]", le quali escludono l'autodeterminazione palestinese.
E' importante tenere a mente che questa era la posizione ufficiale dell'amministrazione Bush, che viene
regolarmente condannata per la sua aspra posizione anti-Israele. E' coerente con l'estremo negazionismo
statunitense degli anni precedenti, ed è il contesto in cui si inquadra il "processo di pace" che
l'amministrazione alla fine è riuscita a imporre dopo la guerra del Golfo.
Tutto ciò è inaccettabile dal punto di vista dottrinale, e quindi inesprimibile se non addirittura inconcepibile
nella cultura intellettuale estremamente disciplinata. I fatti non sono in discussione, ma sono sovversivi per
il potere e così è necessario "uccidere la storia", per mutuare l'appropriato termine che viene usato per
descrivere la regolare prassi dei commissari. Dai media, difficilmente provengono obiezioni - anche se
alcuni degli eventi sono stati riportati fedelmente, compresi gli eventi del gennaio del 1976 che sono
completamente spariti dalla storia ufficiale.
Dal principio degli anni ottanta, la storia divenne semplicemente un'opera buffa, mentre i media dell'élite e
la comunità intellettuale si battevano con crescente disperazione "per non vedere" i sempre più evidenti
tentativi da parte dell'Olp di passare a un accordo negoziato - occultando anche il fatto, oggetto di ampio
dibattito in Israele, che il principale proposito del devastante attacco israeliano in Libano nel 1982 era di
minare la minaccia degli sforzi dell'Olp di negoziare un accordo politico.
"La pace del vincitore": gli accordi di Oslo
La Dichiarazione dei principi e i successivi accordi incorporano la versione estrema del negazionismo
statunitense-israeliano. L'accordo finale si fonda unicamente sulla risoluzione 242, senza alcun
riconoscimento dei diritti nazionali dei palestinesi. Fuori della porta rimane la posizione della maggior parte
del resto del mondo: ossia, che accanto alla risoluzione 242, la quale riconosce solo i diritti degli Stati
esistenti, andrebbero considerate anche le risoluzioni delle Nazioni Unite che si sono espresse a favore dei
diritti palestinesi. Per quanto concerne la seconda questione principale, quella del ritiro, Stati Uniti e Israele
sono stati chiari ed espliciti nell'affermare che il ritiro sarà parziale, nella misura che unilateralmente
determineranno.
L'esito è completamente in accordo con l'immutata posizione statunitense sul negazionismo e sul ritiro (su
quest'ultimo salda sin dal 1971). Ricade anche all'interno della gamma delle varie proposte israeliane che
si sono succedute negli anni, dal piano Allon del 1968 che rappresenta la proposta estrema delle colombe,
al piano Shamir-Peres-Baker del 1989, e ai piani proposti dal rappresentante dell'estrema destra Ariel
Sharon e dal partito laburista nel 1992, che a malapena differiscono. Anche tutto ciò e ben documentato e
regolarmente riportato in modo corretto in Israele e in pubblicazioni alternative dissidenti negli Stati Uniti,
ma pochi americani hanno potuto avere anche il minimo sentore dei fatti. Ormai, con l'Europa che ha
sgombrato il campo, sembra di poter dire lo stesso dei cittadini europei, anche se, non avendo compiuto
un'indagine accurata, lo dico con cautela. In questo contesto, non deve sorprendere granché che la
Norvegia si sia prestata a fare da intermediario per l'accordo Israele-Arafat, che si è attenuto rigidamente
al tradizionale negazionismo statunitense-israeliano.
Per quanto concerne la ragione per la quale Israele ha deciso di rivolgersi al canale di negoziato di Oslo,
escludendo gli Stati Uniti finché non è giunto il momento della fanfara (e dei soldi), può darsi che si
temesse che un accordo con Clinton nei panni del mediatore non avrebbe avuto alcuna credibilità nel
mondo arabo, alla luce dell'avvicinamento della sua amministrazione verso le posizioni dei falchi. Questo
allontanamento da una lunga storia di sostegno alla meno estrema forma di negazionismo dei laburisti ha
stupito i commentatori israeliani. Sembra che tale condotta sia da attribuire al falco australiano del Medio
Oriente Martin Indyk e al Washington Institute for Near East Policy che egli ha fondato dopo aver lasciato
l'Aipac, la lobby di Israele a Washington; l'istituto ha avuto un ruolo interessante nella stampa statunitense
consentendo ai giornalisti di presentare la propaganda israeliana come un "mero resoconto dei fatti"
formulato con le parole di "esperti" forniti dall'istituto.
Un accordo, ovviamente, avviene tra due parti e, perciò, ci si deve anche chiedere perché Arafat ha
accettato ciò che rappresentava una completa capitolazione di fronte alle richieste di Stati Uniti e Israele.
La risposta più verosimile è che egli deve avervi intravisto l'ultima chance di mantenere la sua posizione di
potere all'interno del movimento palestinese. L'Olp si è attirata il disprezzo di buona parte della
popolazione dei territori per la sua corruzione e il suo assurdo atteggiamento, e dal 1993, l'opposizione ad
Arafat e le istanze di democratizzazione dell'organizzazione avevano raggiunto livelli drammatici, riportati
nella stampa israeliana e sicuramente noti alle autorità israeliane, che hanno intravisto la possibilità di
siglare un tipo di accordo che avevano sempre desiderato. Come virtuale agente di Israele, Arafat ha
potuto conservare il suo feudo, ottenendo anche in tal modo accesso a sostanziosi fondi. Da quanto è dato
potuto conservare il suo feudo, ottenendo anche in tal modo accesso a sostanziosi fondi. Da quanto è dato
sapere, sembra che sia stato questo a condurlo a Oslo.
I piani di Sharon e dei laburisti del 1992, ora effettivamente fissati nella Dichiarazione dei principi, si
basano sul principio al quale Israele ha aderito fermamente sin dal suo piano Allon del 1968: Israele deve
essere in grado di controllare i territori nella misura che reputa utile, comprese le terre e le risorse
utilizzabili (in particolare le riserve d'acqua della sponda occidentale, alle quali Israele attinge
abbondantemente). I modi il cui il controllo andrebbe esercitato sono stati oggetto di un dibattito
strategico che si e sviluppato nel corso degli anni, così come i confini che si desidera va dare alla "Grande
Israele". Per quanto concerne la questione dei modi di controllo, la questione più dibattuta e stata quella di
determinare se l'autorità vada divisa in termini territoriali o "funzionali", ove quest'ultimo aggettivo sta
praticamente a prefigurare una situazione in cui Israele continuerebbe a controllare il territorio e l'autorità
palestinese sarebbe responsabile dei palestinesi che si trovano all'interno di tale territorio. Dalla metà del
1995, Israele continua a rimanere attestata sulla posizione secondo cui può esservi tutt'al più una divisione
"funzionale" dell'autorità almeno nel 1999: non vi sarà alcun fondamentale "trasferimento di sovranità" ai
palestinesi, ha annunciato il ministro degli esteri Shimon Peres alla radio israeliana, e la maggior parte
della terra della sponda occidentale rimarrà sotto il controllo dell'esercito israeliano durante tale periodo.
Quanto ai confini, i programmi attuali indicano l'intenzione di includere all'interno della "Grande Israele" la
Valle del Giordano, circa un terzo della striscia di Gaza, area circostante l'entità nebulosa e in rapida
espansione della "Grande Gerusalemme", che si estende ormai a est fino a Gerico; e qualsiasi altra zona
Israele scelga di annettersi con la benedizione (e il finanziamento) della superpotenza che la protegge.
L'espansione della "Grande Gerusalemme" in effetti spacca la sponda occidentale in "cantoni" in accordo
con il piano Sharon; un altro corridoio di accesso alla Giordania colonizzato da israeliani frammenta
ulteriormente la regione.
Quando la Dichiarazione dei principi venne annunciata, gli osservatori bene informati riconobbero che non
offriva "nemmeno l'accenno di una soluzione al problema di fondo che esiste tra Israele e i palestinesi", né
nel breve periodo né strada facendo (il giornalista israeliano Danny Rubinstein). Il suo significato operativo
divenne ancora più chiaro dopo l'Accordo del Cairo del maggio 1994, col quale si assicurò che i territori
amministrati da Arafat sarebbero rimasti "completamente nell'ovile economico di Israele", come osservò il
Wall Street Journal, e che l'amministrazione militare sarebbe rimasta intatta in tutto fuorché nel nome.
L'importanza dell'accordo venne immediatamente compresa in Israele. Meron Benvenisti, ex vice sindaco
di Gerusalemme e capo del Data Base Project per la sponda occidentale, oltre a essere da molti anni uno
dei più scaltri osservatori dell'informazione ufficiale israeliana, commentò che l'Accordo del Cairo, "a tal
punto che è difficile credere ai propri occhi nel leggerlo, [...] garantisce all'amministrazione militare
l'autorità esclusiva nella "legislazione, aggiudicazione, esecuzione politica"" e "responsabilità per l'esercizio
di questi poteri in conformità col diritto internazionale" che gli Stati Uniti e Israele interpretano a proprio
piacimento. "L'intero intricato sistema di ordinanze militari [...] conserverà la sua forza, a parte la facoltà
di regolamentazione legislativa e quanti altri poteri Israele potrà espressamente garantire" ai palestinesi. I
giudici israeliani conservano "poteri di veto su qualsiasi legislazione palestinese "che potrebbe mettere a
repentaglio i principali interessi israeliani"", che hanno "la precedenza", e vengono interpretati come Stati
Uniti e Israele preferiscono. Pur essendo subordinate alle decisioni di Israele su tutte le questioni di una
certa importanza, alle autorità palestinesi viene garantito un dominio di loro esclusiva competenza: esse
hanno "responsabilità esecutiva per qualsiasi cosa venga fatta o non fatta", il che significa che
acconsentono a caricarsi i gravosi costi dei 28 anni di occupazione, dalla quale Israele ha tratto enorme
profitto, e ad assumere una perdurante responsabilità per la sicurezza di Israele. Questo "accordo di resa",
osserva Benvenisti, pone in atto le estremistiche proposte di Sharon del 1981 che a suo tempo erano state
respinte dall'Egitto.
Dopo un altro accordo Israele-Arafat, un anno dopo, Benvenisti ha commentato che "Arafat ancora una
volta ha chinato il capo di fronte all'avversario infinitamente più forte". Egli ha rivisto i termini dell'accordo,
che ha lasciato oltre metà della sponda occidentale "all'assoluto controllo israeliano" e ha rimandato la
discussione dello status di un altro 40 per cento per diversi anni, durante i quali Israele potrà continuare a
servirsi dell'aiuto statunitense per "fabbricare fatti" come di consueto. L'accordo, nota Benvenisti, rescinde
la disposizione della Dichiarazione dei principi "secondo cui la sponda occidentale verrà considerata
"un'unità territoriale, la cui integrità verrà preservata durante il periodo di interim"". Egli predice che poco
cambierà rispetto al periodo dell'occupazione, se non che "il controllo israeliano diverrà meno diretto:
invece di gestire gli affari in prima persona, gli "ufficiali di collegamento" israeliani li seguiranno tramite gli
impiegati dell'Autorità palestinese". Come la Gran Bretagna durante il suo periodo d'oro, Israele continuerà
a governare al riparo di "finzioni costituzionali". Di certo non c'è nessuna innovazione; si tratta dello
schema tradizionale di conquista attuato dagli europei nella maggior parte del mondo.
La situazione è ancora peggiore a Gaza, dove i servizi di sicurezza israeliani (Shabak) rimangono "una
forza invisibile ma violenta, la cui oscura presenza si avverte costantemente, ed esercita un potere letale
sulle vite degli abitanti di Gaza", riporta il corrispondente di Ha'aretz Amira Hass, aggiungendo che le
autorità israeliane continuano a controllare anche l'economia. Dal 1991, osserva Graham Usher, Israele ha
riconvertito la tradizionale produzione di frutta e verdura di Gaza alla produzione di piante ornamentali e
fiori tramite varie misure coercitive, tra le quali le confische che hanno ridotto di quasi un terzo la terra da
agrumi coltivabile. Lo scopo è solo in parte quello di sottrarre territorio di un certo valore al controllo
arabo. Israele intende anche "assorbire l'urto del commercio di Gaza con altre economie, o meglio,
custodirlo all'interno del commercio israeliano". L'esportazione di questi settori a monocoltura è nelle mani
di imprenditori israeliani, e il bassissimo costo del lavoro nella demoralizzata striscia di Gaza permette agli
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imprenditori israeliani di mantenere i propri mercati europei in sostanziale attivo.
Nell'estate del 1995, il 95 per cento della popolazione di Gaza era "imprigionata nella regione" dalla forza
israeliana, riporta il gruppo israeliano per i diritti umani Tsevet'aza, con l'"economia strangolata" e le forze
di sicurezza preposte a controllare il commercio, l'esportazione e le comunicazioni, spesso impegnate a
"peggiorare le condizioni di vita dei palestinesi". In condizioni simili, pochi sono disposti a fronteggiare i
rischi dell'investimento, almeno al di fuori dei parchi industriali messi su dai produttori israeliani per
"sfruttare la poco costosa manodopera palestinese". Tsevet'aza riporta inoltre che Israele continua a
negare agli investitori palestinesi la licenza di aprire piccoli impianti produttivi, e che i pescatori vengono
tenuti a sei chilometri dalla costa, dove non vi è affatto pesce durante i mesi estivi. Le limitate risorse d
acqua in questa regione molto arida vengono impiegate per l'intensiva agricoltura israeliana, persino i laghi
artificiali di eleganti luoghi di villeggiatura, stando a quanto riportano i visitatori. Nel frattempo, le risorse
di acqua erogate ai palestinesi di Gaza sono state ridotte della metà dopo gli accordi di Oslo, come ha
scritto l'ispettore delle Nazioni Unite per i diritti umani Rene Felber in un rapporto aspramente critico sulle
condizioni carcerarie e sulla politica idrica. Egli ha rassegnato le dimissioni poco tempo dopo,
commentando che non ha senso redigere rapporti che vanno a finire in un cestino.
Un anno dopo la Dichiarazione dei principi, il controllo di Israele sulla terra della sponda occidentale ha
raggiunto il 75 per cento, in aumento rispetto al 65 per cento del periodo in cui sono stati firmati gli
accordi. Anche l'insediamento e il "consolidamento" di colonie è proceduto a passo spedito, accanto alla
costruzione di "strade di circonvallazione" che collegano le colonie ebraiche con Israele vera e propria,
tagliando fuori i villaggi arabi che sono rimasti isolati l'uno dagli altri e dai centri urbani che Israele
preferisce cedere all'amministrazione palestinese. I progetti autostradali sono immensi, con costi stimati
intorno ai 400 milioni di dollari, secondo il segretario generale del partito laburista attualmente al governo.
Lo scopo è di fornire ai coloni quella che si potrebbe chiamare "una strada dove non si è obbligati a vedere
gli arabi attorno". I dettagli sono segreti, ma "le linee generali emergono dalle mappe dei coloni", riporta il
corrispondente Barton Gellman, compreso il solito metodo di mettere "la forza della legge israeliana" al
servizio di progetti "iniziati illegalmente dai coloni". Benvenisti descrive le strade come "fatti politici dotati
di conseguenze a lungo termine" che rientrano nel piano di "suddividere le aree arabe in settori, di
tramutare la sponda occidentale in un lager", nel quadro di "una pace del vincitore, di un diktat".
I fondi governativi per le colonie dei territori occupati sono aumentati del 70 per cento nell'anno successivo
alla Dichiarazione dei principi (1994), nonostante si partisse da un livello che era già elevato rispetto agli
standard precedenti. Il sostegno ai coloni e così generoso che i loro standard di vita sono tra i più alti del
paese. Gli annunci pubblicitari sui giornali "invitano gli ebrei di Tel Aviv e delle sue vicinanze a stabilirsi a
Ma'aleh Ephraim" con vista sulla valle del Giordano e collegata a Gerusalemme da strade di
circonvallazione, nell'ambito dello sviluppo che taglia praticamente in due la sponda occidentale. Gli
annunci promettono piscine, enormi prati, e una genuina atmosfera agreste che vi assicurerà un'alta
qualità di vita", con concessioni governative di 20.000 dollari per famiglia oltre a bassi tassi di interesse,
sgravi fiscali e altri incentivi. Nel giugno del 1995 il sindaco della vicina Ma'aleh Adumin ha annunciato la
costruzione di 6.000 nuove unità residenziali destinate ad accrescere più del doppio la popolazione della
città portandola a cinquantamila anime negli anni a venire, accanto alla costruzione di viali, di negozi, di un
nuovo municipio e di altri edifici. La rivista del partito laburista Daoar riporta che il governo Rabin ha
conservato le priorità del governo di estrema destra Shamir che ha rimpiazzato; mentre fingeva di
congelare le colonie, il partito laburista "le ha aiutate finanziariamente ancor più di quanto il governo
Shamir abbia mai fatto", estendendo le colonie "ovunque nella sponda Occidentale, anche nei punti più
provocatori", compresi gli insediamenti dei sostenitori (spesso americani) del rabbino (americano) Kahane,
che è stato bandito dal sistema politico israeliano per aver invocato le leggi di Norimberga di Hitler e per
altre scimmiottature dei nazisti.
In seguito a tali misure, nell'anno successivo alla Dichiarazione dei principi la popolazione ebraica della
sponda occidentale è cresciuta del 10 per cento, a Gaza del 20 per cento, secondo quanto riporta la
stampa israeliana, un processo che prosegue e potrebbe accelerare. Il generale (in pensione) Shlomo
Gazit, ex capo dello spionaggio militare e Amministratore della sponda occidentale, osserva che i
programmi annunciati dal partito laburista sono mirati a raddoppiare la popolazione ebraica della sponda
occidentale entro il "periodo di interim" di cinque anni a decorrere dagli accordi di Oslo. La Foundation for
Middle East Peace a Washington, che pubblica regolari aggiornamenti, giunge alla conclusione che "i piani
di costruzione del governo Rabin per le colonie della sponda occidentale e di Gerusalemme rivaleggiano
con, e sotto alcuni aspetti sorpassano gli sforzi di costruzione coloniale del governo Shamir durante il
1989-92", con "una decisa intensificazione" prevista per gli anni a venire; il governo Shamir era stato in
precedenza il più estremista nell'opporsi ai diritti palestinesi e nell'incoraggiare la presa dei territori da
parte di Israele.
Un piano recentemente annunciato "polverizza qualsiasi residua [illusione] palestinese che l'Accordo di
Oslo possa portare ad un ritiro israeliano da importanti territori della sponda occidentale o che
Gerusalemme est possa mai divenire una capitale palestinese", ha commentato nel gennaio del 1995
Danny Rubinstein, il veterano dei corrispondenti della sponda occidentale. Gli eventi successivi non fanno
che rafforzare tale conclusione. A giugno, è stata fondata Ma'ale Yisrael, la 145' colonia nella sponda
occidentale, contro gli ordini del governo ma con la sua acquiescenza. I coloni usano mezzi pesanti e
esplosivi per costruire strade di accesso nei pressi di settori della sponda occidentale densamente popolati
e attentamente pattugliati, ma il governo non ne sa nulla, come dicono i suoi portavoce alla stampa. Gli
arabi vengono trattati in maniera alquanto differente se commettono reati simili, come quello di cercare di
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espandere il centro abitato sulla terra di loro proprietà (i permessi vengono raramente accordati).
Da tutto ciò è escluso quello che sta avvenendo a Gerusalemme est e nei suoi dintorni, conquistati durante
la guerra del 1967. "Dall'annessione di Gerusalemme est nel 1967", riporta il gruppo israeliano per i diritti
umani B'Tselem, "il governo israeliano ha adottato una politica di sistematica e deliberata discriminazione
nei confronti della popolazione palestinese della città in tutte le questioni attinenti all'esproprio di terre, alla
pianificazione e alla costruzione", e in questo quadro rientra "il deliberato insediamento di ebrei in
Gerusalemme est [che] è illegale secondo il diritto internazionale", ma accettabile per gli Stati Uniti,
autorità suprema in virtù del loro potere. "L'estesa edificazione e gli enormi investimenti" da parte del
governo "incoraggiano gli ebrei a insediarsi" nella zona est di Gerusalemme in precedenza araba, mentre le
autorità "soffocano lo sviluppo e l'edificazione per la popolazione palestinese", come altrove nei territori e
in Israele stessa. La maggior parte delle terre espropriate era di proprietà privata di arabi, riporta
B'Tselem: secondo il ministro dell'integrazione israeliano Yair Tzaban: "Circa 38500 unita residenziali sono
state costruite su questa terra per la popolazione ebraica ma nessuna per i palestinesi". Inoltre,
"l'edificazione è stata ostacolata sulla maggior parte dell'area che rimane nelle mani dei palestinesi". "Solo
il 14 per cento di tutto il territorio di Gerusalemme est è destinato allo sviluppo di centri residenziali
palestinesi". "Zone verdi" vengono fissate come "un cinico mezzo nel quadro del tentativo di privare i
palestinesi del diritto di costruire sulla loro terra e di preservare tali zone come luoghi per la futura
costruzione a beneficio della popolazione ebraica"; dell'attuazione di tali piani si ha regolarmente notizia.
La linea di condotta è stata ideata dal sindaco Teddy Kollek, oggetto di grande ammirazione ad occidente
come personaggio di spicco per le sue doti democratiche e umanitarie. Il loro proposito, commenta Amir
Cheshin, consigliere di Kollek sulle questioni arabe, era di "porre ostacoli nel processo di pianificazione nel
settore arabo". "Non voglio dare [agli arabi] un senso di uguaglianza" ha spiegato Kollek, anche se sarebbe
utile farlo "qui e li, dove non ci costa molto"; altrimenti "soffriremo". La commissione pianificatrice di Kollek
ha anche consigliato di favorire lo sviluppo per gli arabi laddove abbia "un "effetto vetrina"", che "verrà
visto da un gran numero di persone (residenti, turisti, ecc.)". Kollek ha spiegato ai mezzi di informazione
israeliani nel 1990 che per gli arabi egli "non aveva coltivato nulla né costruito nulla", se non un sistema
fognario che - egli si affrettò a rassicurare i suoi ascoltatori - non era mirato "al loro benessere, al loro
agio>>, dove per "loro" si intendevano gli arabi di Gerusalemme. Piuttosto, "si erano verificati alcuni casi
di colera [nei settori arabi], e gli ebrei avevano il timore di venire contagiati, perciò installammo le fogne e
un sistema idrico per prevenire il colera". Sotto il successore di Kollek, il sindaco del Likud Ehud Olmert, il
trattamento riservato agli arabi si è fatto considerevolmente più duro, stando alla stampa locale.
Oltre a Gerusalemme est, alle colonie ebraiche, agli impianti militari e alla rete autostradale di
circonvallazione, Israele continuerà a controllare le risorse idriche della sponda occidentale e "le terre
pubbliche disabitate della sponda occidentale che ammontano a circa la metà del territorio della sponda
occidentale", riporta Aluf Ben; il totale dei terreni pubblici ammonta a circa il 70 per cento dell'intero
territorio della sponda occidentale, secondo quanto riporta la stampa israeliana. I terreni pubblici sono
riservati all'uso da parte di ebrei; gli arabi della sponda occidentale sono confinati nei cantoni separati che
sono stati loro assegnati. Queste restrizioni valgono anche per il 92 per cento dei terreni all'interno di
Israele, attuate in vari modi per precludere ai cittadini israeliani arabi non solo quasi tutta la terra della
loro nazione, ma anche i fondi per lo sviluppo. I contributi da parte degli americani destinati a realizzare
tali obiettivi sono deducibili dalle tasse come donazioni in beneficenza, e perciò i costi vengono divisi tra i
contribuenti in generale; è facile prevedere che programmi del governo per precludere agli ebrei il 92 per
cento di New York e i normali servizi cittadini potrebbero ricevere un'accoglienza un po' differente. Come al
solito, i fatti sono nelle mani di chi paga i conti.
Israele ha sempre preferito trattare con la Giordania - lo "Stato palestinese" del piano Shamir-Peres-Baker
- piuttosto che con i palestinesi; i due Stati hanno sempre avuto un comune interesse nel sopprimere il
nazionalismo palestinese, e hanno cooperato a questo fine durante la guerra del 1948. In particolare, i
piani statunitensi e israeliani favoriscono accordi per Gerusalemme e la valle del Giordano con la Giordania
piuttosto che con l'amministrazione palestinese. In vista di tali obiettivi, una piccola parte del territorio
della valle del Giordano è stata restituita alla Giordania con grande fanfara. Dobbiamo consultare la stampa
israeliana per scoprire che il Fondo nazionale ebraico (Fne) aveva impiegato mezzi pesanti e qualche
settimana di lavoro per "radere" il fertile manto superficiale della terra e trasferirlo nelle colonie ebraiche.
L'esproprio della proprietà araba per gli insediamenti ebraici "pone problemi in relazione al processo di
pace", ha comunicato al Consiglio di sicurezza Madeleine Albright, ambasciatore di Clinton presso le
Nazioni Unite; ma "non crediamo che il Consiglio di sicurezza sia la sede appropriata dove discutere di
questa azione" - che è stata completamente finanziata dal contribuente americano (compresa la
costituzione del Fne, ufficialmente a scopi benefici), e non è stata discussa in nessun'altra sede. "Nel
linguaggio di Washington, questo vuol dire che gli Stati Uniti porranno il veto a qualsiasi risoluzione su
Gerusalemme che sia "ostile" a Israele", osserva il corrispondente Graham Usher. Si tratta della prassi
tradizionale; come la Corte mondiale e altre istituzioni internazionali, le Nazioni Unite fanno quello che
vogliono gli Stati Uniti o vengono sciolte; e l'espansione israeliana a spese dei palestinesi è una
tradizionale politica statunitense che sta raggiungendo nuovi apici sotto Clinton.
Terrore e punizione
La Dichiarazione dei principi inizialmente suscitò grandi speranze, perfino euforia, tra i palestinesi. Questo
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è comprensibile dopo anni di sofferenza e di lotta culminati nell'Intifada, che venne repressa con
straordinaria crudeltà. Ma non è mai una buona idea farsi sedurre dalla retorica dell'esaltazione e dalla
speranza disperata invece di attenersi ai fatti concernenti il potere e, nel caso specifico, al testo letterale
dei documenti formulato dai vincitori. Com'era inevitabile, la dura realtà ha progressivamente spazzato via
gli entusiasmi iniziali. Una conseguenza è stata l'insorgere del terrorismo, che ha modificato il tradizionale
schema nel quale le vittime erano in maggioranza arabe. I fatti sono difficili da stabilire, dal momento che
l'uccisione dei palestinesi, o altre atrocità e violenze nei loro confronti, ricevono poca attenzione, e, di
certo, non ricevono l'imponente copertura e l'appassionata denuncia della "folle strage" (New York Times)
che si hanno quando le vittime sono ebrei israeliani. Scegliendo praticamente a caso, i redattori del Times
e di altre riviste, non hanno espresso alcuna "ripugnanza e sdegno", né hanno visto alcun bisogno di
riportare almeno i fatti, quando le squadre della morte fondate nel 1989 sono tornate a colpire, uccidendo
solo nella prima settimana del 1995 sette persone, quattro nel villaggio di Beit Liqya; un'altra venne
salvata dal coraggioso intervento dell'attivista per i diritti umani palestinese Hanan Ahrawi, ex membro del
gruppo di negoziato dell'Olp. Una rara notizia nella stampa statunitense riporta che negli anni successivi
alla firma degli accordi "sono morti 187 palestinesi principalmente per mano di una Forza di difesa
israeliana (Fdi) sempre più tesa, gravata dal peso della responsabilità di proteggere i coloni ebrei", a fronte
di 93 israeliani; a maggio del 1995 il numero era salito a 124 israeliani e 204 palestinesi, "un numero di
vittime inferiore agli anni precedenti". Il gruppo fondamentalista islamico Hamas, considerato il principale
agente del terrorismo antiebraico, ha proposto negoziati per allontanare i civili dal centro della guerra e
delle violenza", riporta la stampa israeliana, ma il primo ministro Rabin ha respinto l'offerta sulla base del
fatto che "Hamas è il nemico della pace e il solo modo di trattare con loro è una guerra di sterminio".
Anche le atrocità israeliane in Libano passano regolarmente sotto silenzio negli Stati Uniti. Più di 100
libanesi sono stati uccisi dall'esercito israeliano o dai suoi mercenari dell'esercito del Libano del sud nella
prima metà del 1995, riporta l'Economist di Londra, a fronte dei sei soldati israeliani caduti in Libano. Le
forze israeliane usano armi terribili, compresi granate antipersona che si frantumano in schegge di metallo
(talvolta granate a azione ritardata in modo da portare al massimo livello il terrore), che hanno ucciso due
bambini nel luglio del 1995, altri quattro nella stessa città alcuni mesi prima e altri sette a Nabatiye, dove
"nessun giornalista straniero si è casualmente trovato" a descrivere le atrocità, come ha riferito Robert
Fisk. Di solito si hanno delle menzioni occasionali nel contesto di articoli che denunciano le azioni
terroristiche di rappresaglia degli Hezbollah nei confronti degli israeliani. A prescindere dall'identità delle
vittime, la reazione delle autorità militari è invariabilmente la stessa: punire i palestinesi. L'esempio più
drammatico si è avuto a Hebron dopo il massacro di 29 palestinesi nella moschea di Ibrahim nel febbraio
del 1994 da parte del colono di Hebron Baruch Goldstein, un immigrato americano, al pari della gran parte
della frangia estrema, di temperamento neonazista, come i commentatori israeliani regolarmente
osservano. Dopo il massacro, "l'occupazione israeliana raddoppiò l'oppressione" dei palestinesi, ha
riportato un anno dopo Ori Nir. Nuove misure di sicurezza "per proteggere i coloni ebrei dalla vendetta"
divennero permanenti, con le strade principali chiuse e il mercato, un tempo centro regionale e base
dell'economia di Hebron, distrutto. Il mercato è stato chiuso perché si trova nei pressi dell'insediamento di
50 famiglie ebraiche in questa città di 120.000 palestinesi, e "i coloni erano soliti rovesciare i chioschi in
scorribande, finché le autorità militari israeliane si stufarono di trovarsi in mezzo a tumulti e si limitarono a
chiudere il mercato", riporta il corrispondente Gideon Levy: "Ora i negozi sono chiusi e l'ingresso nella
strada è consentito solo agli ebrei", compresi quelli che "vanno al mercato con cani feroci per intimidire i
palestinesi", scagliano pietre contro di loro mentre marciano attraverso le zone palestinesi "armati e pronti
ad entrare in azione" durante le settimanali scorribande del sabato sera, o chiariscono chi è che comanda
in altri modi, con l'acquiescenza delle forze di sicurezza.
Gli autobus degli arabi sono banditi dalla città, continua Nit, mentre quelli usati dalla esigua minoranza dei
coloni ebrei si muovono liberamente. Per gli arabi, la "folle realtà" posta dalla forza militare "subordina le
loro vite agli interessi dei coloni". La vita per loro è divenuta "un incubo" con la distruzione dell'economia e
la costante violenza da parte dei coloni che tengono incatenati dei cani per sbarrare loro il passaggio,
dipingono sulle loro case stelle di David slogan come "Fuori gli arabi", "Morte agli arabi", "Lunga vita a
Baruch Goldstein" e perpetrano umiliazioni arbitrarie o anche di peggio mentre le forze di sicurezza girano
lo sguardo dall'altra parte. Si fanno vedere, aggiunge il corrispondente Ran Kislev, ma solo quando gli
arabi "cercano di difendere la loro proprietà" a Hebron o nei villaggi circostanti. Con la normale
conseguenza "che numerosi arabi vengono feriti e ancor di più imprigionati".
La punizione forse più severa è il coprifuoco che segue regolarmente a ogni tumulto, a prescindere da chi
ne sia responsabile. Dopo il massacro di Goldstein nella moschea (la Grotta dei patriarchi), il confino degli
arabi per lunghi periodi tramite virtuali (spesso reali) arresti domiciliari divenne una routine, attuata
talvolta in un modo che rivela la sgradevole realtà più efficacemente delle regolari atrocità. Durante le
vacanze della Pasqua ebraica nel 1995, per esempio, un coprifuoco ininterrotto venne imposto ai 120.000
palestinesi di Hebron affinché i pochi coloni e i 35.000 visitatori ebrei giunti a Hebron con pullman
noleggiati potessero fare picnic e spostarsi liberamente per la città, danzando per le strade, intonando
pubbliche preghiere per abbattere "il governo della sinistra", ponendo la prima pietra di un nuovo edificio
residenziale, e indulgendo in altri piacevoli occupazioni sotto lo sguardo attento di uno straordinario
dispiegamento di forze militari. "La celebrazione è stata conclusa", riporta Yacov Ben Efrat, "da coloni che
hanno imperversato per la città vecchia, distruggendo proprietà e infrangendo finestrini delle macchine
[...] in una città magicamente ripulita [...] dai palestinesi", cogliendo l'occasione "per insultare i palestinesi
imprigionati nelle loro case e per lanciare loro dei sassi se osavano sbirciare dalla finestra gli ebrei che
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festeggiavano nella loro città" (Israel Shahak). "Bambini, genitori e anziani vengono di fatto imprigionati
per giorni nelle loro case, che nella maggior parte dei casi sono gravemente sovraffollate", riporta Levy, e
non possono far altro che accendere i propri apparecchi televisivi per "osservare una colona che annuncia
gioiosamente, "c'è un coprifuoco, grazie a Dio "", e ascoltare le "allegre danze dei coloni", le "processioni
festive", alcune alla "Grotta dei patriarchi aperta solo agli ebrei". Nel frattempo "il commercio, le
professioni, gli studi, la famiglia, l'amore - tutto si interrompe bruscamente", e il "sistema medico è
rimasto paralizzato" di modo che "molte persone malate a Hebron non hanno potuto raggiungere gli
ospedali durante il coprifuoco e donne che stavano partorendo non sono riuscite a giungere in tempo alle
cliniche".
I coprifuoco protratti nel tempo impongono grandi sofferenze, talvolta letteralmente la fame, a una
popolazione che per sopravvivere è stata costretta a dipendere da un lavoro servile in terra d Israele,
svolto in condizioni terribili che sono state condannate per anni dalla stampa israeliana con pittoresche
descrizioni. Il solo studio accademico comparativo giunge alla conclusione che "la situazione di arabi non
cittadini in Israele è peggiore rispetto a quella di non lavoratori stranieri in altri paesi", dei lavoratori
emigrati negli Stati Uniti, dei "lavoratori ospiti" in Europa, ecc. Ma questi erano i bei vecchi tempi. Ora i
palestinesi sono progressivamente sostituiti da lavoratori provenienti da Thailandia, Filippine, Romania e
altre nazioni dove le persone versano nella miseria. Il ministero del lavoro ha riportato oltre 70.000
lavoratori stranieri registrati dal marzo del 1995, mentre solo 18.000 permessi di ingresso sono stati
garantiti a palestinesi dei territori, in confronto ai 70.000 di un anno prima. Alcuni giornalisti riferiscono
che, accanto a decine di migliaia di emigranti illegali, essi subiscono "orari di lavoro inumani e detrazioni
della paga con vari pretesti", con "uomini venduti come schiavi da un padrone all'altro" e "donne che
subiscono gravi molestie sessuali e hanno paura di fiatare", sapendo che la minima protesta può condurre
all'espulsione.
Queste "persone silenziose e lavoratrici in molti casi vivono in condizioni subumane", scrive il redattore di
Ha aretz, "e sono spesso soggette all'oppressione da parte dei loro datori di lavoro". Vengono tenuti isolati
e senza diritti, vita familiare o sicurezza. La loro condizione "sarebbe la più stretta approssimazione alla
schiavitù" se alla base non vi fosse un "contratto consensuale" reso possibile dalle condizioni create dal
"capitalismo reale" in buona parte del mondo. La soluzione "Thai" preannunzia ulteriori disastri per i
palestinesi, egli ammonisce, con pericolose conseguenze anche per Israele.
I coprifuoco e le chiusure "hanno devastato l'economia palestinese distruggendo 100.000 famiglie nella
sola Gaza", riporta Nadav Ha'etzni. Il "trauma" può essere accostato solo all'espropriazione e espulsione in
massa dei palestinesi nel 1948. Dato che la manodopera importata in stato di semi schiavitù preclude alla
forza lavoro palestinese l'unico impiego che le era stato concesso, "gli accordi di Oslo hanno creato un
Medio Oriente veramente nuovo", egli scrive.
Programmi e piani di sviluppo
Sotto l'occupazione israeliana, lo sviluppo sensato nei territori è stato bandito. Un'ordinanza ufficiale del
ministero della difesa di Israele ha dichiarato che "non verrà concesso alcun permesso per espandere
l'agricoltura e l'industria che possa generare competizione con lo Stato di Israele". Lo strumento è familiare
alla prassi americana e dell'imperialismo occidentale in genere, che comunemente contemplava regioni di
servizio "complementari" ma non lo "sviluppo competitivo" - ragion per cui l'America latina è un'area così
disastrata al pari dell'India, dell'Egitto e di altre regioni sotto il controllo occidentale.
Nonostante la barriera posta da Israele allo sviluppo nei territori fosse nota, la sua entità apparve
sorprendente persino agli occhi del più informato degli osservatori quando fu possibile visitare la Giordania
dopo gli accordi di pace.
Il confronto è particolarmente opportuno, osserva Danny Rubinstein, dal momento che la popolazione
palestinese è più o meno numericamente equivalente sui due lati del Giordano, e la sponda occidentale era
in una certa misura più sviluppata prima della conquista israeliana nel 1967. Dopo essersi occupato con
bravura per anni dei territori occupati, Rubinstein era ben consapevole che l'amministrazione israeliana
"aveva deliberatamente peggiorato 1e condizioni in cui i palestinesi dei territori dovevano vivere".
Nondimeno egli rimase scioccato e rattristato nello scoprire la sbalorditiva verità.
"Nonostante la Giordania abbia un economia instabile e appartenga al terzo mondo", egli trovò che "il suo
tasso di sviluppo è molto superiore a quello della sponda occidentale per non parlare di Gaza",
amministrate da una società ricchissima che si avvale di aiuti stranieri senza pari. Mentre Israele ha
costruito strade solo per i coloni ebrei, "in Giordania la gente guida su nuove autostrade a multiple corsie,
ben attrezzate con ponti e intersezioni". L'elettricità e disponibile ovunque, a differenza della sponda
occidentale, dove la grande maggioranza dei villaggi arabi dispone solo di generatori locali che funzionano
irregolarmente. "Lo stesso vale per il sistema idrico. Nell'arida Giordania, vari grandi progetti idrici [...]
hanno mutato la sponda orientale della valle del Giordano in una densa e florida area agricola", mentre
sulla sponda occidentale le risorse idriche sono state destinate all'uso dei coloni e di Israele stessa - circa i
5/6 dell'acqua della sponda occidentale, secondo gli specialisti israeliani. Molti villaggi non hanno affatto
acqua corrente e anche città come Hebron e Ramallah mancano di acqua corrente per molte ore al giorno
d'estate.
Le fabbriche, il commercio, gli alberghi e le università si sono sviluppate nell'impoverita Giordania, fino a
raggiungere livelli discreti. Praticamente nulla di simile è stato permesso sulla sponda occidentale, a parte
la costruzione di "due piccoli alberghi a Betlemme". "Tutte le università nei territori sono state costruite
la costruzione di due piccoli alberghi a Betlemme . Tutte le università nei territori sono state costruite
solamente grazie a fondi privati e donazioni da parte di Stati stranieri senza ricevere un centesimo da
Israele", a parte l'Universita islamica di Hebron, originariamente finanziata da Israele nell'ambito del piano
volto a incoraggiare il fondamentalismo islamico affinché minasse alle fondamenta l'Olp, e che ora è un
centro di Hamas. I servizi nella sponda occidentale sono "estremamente arretrati" in confronto alla
Giordania. "Due grandi edifici a Gerusalemme est che i giordani stavano costruendo nel 1967 e che erano
destinati a divenire ospedali e cliniche per i residenti della sponda occidentale sono stati mutati in edifici di
polizia dal governo israeliano", che ha rifiutato anche permessi per costruire fabbriche a Nablus e Hebron
sotto la pressione dell'industria manifatturiera israeliana che voleva un mercato controllato, privo di
competizione. "Il risultato è che l'arretrato e povero regno di Giordania ha fatto molto più per i palestinesi
che vivono nel suo territorio di Israele", mostrando "in modo ancora più lampante quanto male siano stati
trattati dall'occupazione israeliana".
Così nella striscia di Gaza, "nulla simboleggia meglio l'ineguaglianza nel consumo di acqua, degli umidi
prati verdi, delle aiuole irrigate, dei giardini fiorenti e delle piscine delle colonie ebraiche nella sponda
occidentale", osservano due corrispondenti del Financial Times, mentre i vicini villaggi palestinesi si vedono
negare il diritto di scavare pozzi e hanno acqua corrente - solo un giorno per diverse settimane - inquinata
dagli scarichi fognari, cosicché gli uomini devono salire in macchina per recarsi in città a riempire taniche
d'acqua o appaltare a privati il servizio a un costo quindici volte maggiore. Israele reclama il diritto
all'acqua della sponda occidentale - che fornisce qualcosa come il 30 per cento de11e risorse idriche
israeliane e metà dell'acqua impiegata per l'agricoltura - per "consuetudine storica" a partire
dall'occupazione del 1967. E' difficile immaginare che ceda questa preziosa risorsa a qualsiasi autorità
palestinese, un fatto che da solo rende i discorsi sull'autonomia praticamente insensati.
L'imponente letteratura apologetica racconta una storia differente, lodando la "benigna" occupazione che
ha portato simili benefici agli ingrati palestinesi "facendo fiorire il deserto". Pone anche molta enfasi sul
grande aumento delle opportunità di istruzione offerte alla popolazioni palestinese sotto il governo
israeliano - trascurando, tuttavia, ciò che diceva Rubinstein, e anche qualche altra cosa. In discussioni
interne, i funzionari del governo hanno raccomandato di concedere tali opportunità scolastiche nel contesto
del piano globale volto a "trasferire" i palestinesi altrove, nella misura del possibile. La speranza e che
"molti laureati possano emigrare dalla regione" dal momento che non vi sarà alcuna opportunità per loro
sotto il governo israeliano (Michael Shashar, portavoce del governo militare nei primi anni
dell'occupazione). Per i palestinesi che rimangono, non deve esservi altra scelta se non quella di una
esistenza marginale in villaggi isolati o di un lavoro servile in atroci condizioni in Israele.
I lineamenti di fondo del "processo di pace" sono stati descritti in modo realistico dalla professoressa
dell'università di Tel Aviv Tanya Reinhardt, la quale ha fatto rilevare come sia un errore accostare gli
accordi che vengono attualmente imposti alla fine dell'apartheid in Sudafrica; piuttosto, dovrebbero venire
comparati con l'istituzione di quel mostruoso sistema, con le sue misure di "autonomia" per "nuovi stati
indipendenti", così come venivano viste dai razzisti sudafricani e dai loro leali amici. Gli Stati Uniti versano
denaro a palate che in effetti viene destinato alla confisca di terre, all'edificazione e allo sviluppo nei
territori occupati, a finanziare forze di sicurezza, e così via. Il risultato di tutto ciò sarà che i palestinesi
finiranno per essere un popolo sottomesso, privo di diritti, o giungeranno ad un punto tale di disperazione
da cercare di andarsene. La Giordania può essere vista come un potenziale terreno di dumping, che
resisterà, ma forse in modo inefficace dato che viene assorbita sempre più completamente come una
regione dipendente all'interno dell'economia israeliana di gran lunga più ricca e potente.
E' prevedibile che Israele e la corrente dell'Olp che fa a capo ad Arafat saranno uniti nella ferma
opposizione alla democrazia nelle aree ad amministrazione palestinese. Si possono solo ammirare Rabin e
Peres per la franchezza con la quale annunciano che "se Hamas vince le elezioni per il parlamento
dell'Autonomia - l'accordo decade". Arafat naturalmente plaudirà, nello stesso modo in cui ha invalidato le
elezioni del novembre del 1994 al Consiglio di Fatah nella regione di Ramallah, e ha fatto in modo che non
venissero più indette, dopo la sconfitta dei suoi sostenitori. E anche difficile immaginare che Israele ponga
fine la sua occupazione illegale del Libano meridionale (nonostante l'invito del Consiglio di sicurezza del
marzo 1978 al ritiro immediato e incondizionato) o alle operazioni terroristiche che conduce a volontà in
quella e altre regioni del Libano; tra queste si intendono non solo le atrocità delle quali viene
occasionalmente data notizia, ma anche i casi minori non riportati negli Stati Uniti: per esempio, il divieto
che Israele ha imposto sulla pesca a sud di Tyre per quasi 20 anni; o il rapimento di un libanese del sud
annunciato dall'esercito nel luglio del 1994, portato in Israele col sospetto di aver partecipato ad operazioni
contro gli occupatori israeliani e il loro esercito assassino - operazioni che sono di legittima difesa, non di
terrorisrno, in accordo con la principale risoluzione delle Nazioni Unite sul terrorismo, che nel dicembre
1986 ottenne 153 voti a favore e 2 contrari con Honduras unico astenuto; ma in effetti venne respinta,
poiché gli Stati Uniti votarono contro (assieme ad Israele); e perciò non è stata riportata ed è bandita dalla
storia.
"Rifiuti umani e scarto della società"
La Dichiarazione dei principi e le sue conseguenze hano rappresentato un significativo passo avanti in
direzione degli obiettivi degli espansionisti e dei negazionisti di Stati Uniti e Israele. Se fosse realmente
possibile spazzare la questione palestinese sotto il tappeto, forse le relazioni tra le piincipali nazioni
potrebbero divenire pubbliche e rafforzarsi, con Israele che diverrebbe un centro tecnologico, industriale e
finanziario mantenendo il suo predominio militare con l'appoggio della potenza statunitense, e
continuerebbe a sopravvivere su un sussidio degli Stati Uniti senza pari negli affari mondiali. Ufficialmente
l'attuale appannaggio di 3 miliardi di dollari all'anno ammonta al 25 per cento del totale degli aiuti elargiti
all'estero dagli Stati Uniti. L'analista del Medio Oriente Donald Neff stima che la somma reale ammonti a
più del doppio, qualora si prendano in considerazione vari altri strumenti finanziari (garanzie di prestito,
concessioni, pagamenti dilazionati, ecc.; i contributi deducibili dalle tasse, anch'essi unici, sono un'altra
forma di sussidio pubblico). Gli aiuti a Israele non sono inoltre soggetti a condizioni o supervisione, a
differenza di altri programmi, come gli oltre 2 miliardi di dollari versati regolarmente all'Egitto per
mantenersi in linea con gli interessi statunitensi e israeliani.
D'altro canto, ai palestinesi vanno 100 milioni di dollari statunitensi, tutti attraverso il canale dell'Autorità
nazionale palestinese (Anp) di Arafat, per lo più per finanziare le forze di sicurezza. L'amministrazione
Clinton ha tagliato di 17 milioni di dollari il contributo statunitense all Unrwa, il più grande singolo datore di
lavoro nella striscia di Gaza e responsabile del 40 per cento dei servizi sanitari e scolastici della regione.
Può darsi che Washington abbia in programma di cancellare l'Unrwa, che "Israele ha storicamente
combattuto", osserva il corrispondente Graham Usher, lasciando i palestinesi come un "problema" da
affidare ad Israele e all'Anp, considerata un virtuale agente del governo israeliano. Rompendo con la
precedente tradizione politica, l'amministrazione Clinton ha votato contro tutte le risoluzioni dell'Assemblea
generale concernenti rifugiati palestinesi nel 1993 e nel 1994, sulla base del fatto che tali questioni
"pregiudicano l'esito del processo di pace in corso e andrebbero risolte tramite negoziati diretti", ora
saldamente nelle mani degli Stati Uniti e dei suoi alleati. Un passo verso lo smantellamento dell'Unrwa, e il
programmato spostamento del suo quartier generale a Gaza. Questo do vrebbe porre veramente termine
al sostegno internazionale per il milione e ottocentomila rifugiati palestinesi in Giordania, Libano e Siria. Il
passo successivo consisterà nel togliere i fondi all'Unrwa per metterli nelle mani dell'Anp, riportano fonti
delle Nazioni Unite.
I fondi che vanno a Israele e all'Egitto, e i pochi spiccioli destinati ai palestinesi, sono la componente degli
aiuti statunitensi maggiormente avversata dall'opinione pubblica. Ma la politica diverge nettamente
dall'opinione su un'ampia gamma di questioni, non solo questa.
Si potrebbe osservare che le elargizioni statunitensi a Israele non sono solo straordinari nelle proporzioni,
ma anche illeciti. Lo Human Rights Watch (Hrw) ha recentemente affrontato la questione, mettendo in
rilievo ancora una Volta che la legge statunitense espressamente proibisce aiuti militari o economici a
qualsiasi governo che pratichi la tortura sistematica. E come si evince nuovamente dal suo ampio rapporto,
Israele "pratica un sistematico schema di maltrattamento e tortura", secondo standard internazionalmente
accettati, e in proporzioni alquanto notevoli. Lo Hrw stima che "il numero di palestinesi torturati o
gravemente maltrattati durante gli interrogatori al tempo dell'Intifada [dal dicembre del 1987] ammonta a
decine di migliaia", su una popolazione maschile di adulti e adolescenti di meno di 3/4 di un milione, di cui
solo una parte alla fine e stata posta in stato di accusa (e giudicata colpevole, di solito su "confessione").
Israele è evidentemente la sola democrazia industriale in cui la tortura e legalmente autorizzata, su
raccomandazione dell'ufficiale Commissione Landau, la quale è giunta alla conclusione che i servizi di
sicurezza hanno impiegato la tortura per sedici anni ma che solo certe misure di coercizione dovrebbero
d'ora in poi venire consentite (indicate esplicitamente in una sezione segreta); le pratiche che sono state
osservate e sono autorizzate vengono considerate torture dagli osservatori dei diritti umani. Lo Human
Rights Watch fornisce dettagli, come l'organizzazione israeliana per i diritti umani B'Tselem, e altre indagini
compiute negli ultimi 20 anni.
E', comunque, ingiusto prendersela solo con Israele, dal momento che la maggior parte degli aiuti
statunitensi sono -illeciti per lo stesso motivo; per esempio, la metà degli aiuti militari statunitensi al
Sudamerica sono destinati alla Colombia, che non solo pratica la tortura ma compie anche massacri su
scala imponente, ponendosi al comando dell'emisfero negli abusi dei diritti umani.
Gli estremi presupposti negazionisti dei governanti si rivelano ad ogni momento. Ne è esempio la reazione
all'iniziativa di Arafat di invocare una "Jihad" per Gerusalemme; la quale suscitò una sorta di isteria negli
Stati Uniti, poiché provava che non ci si poteva fidare dell'ambiguo terrorista. Nel frattempo Israele
annunciò che la sua Jihad era compiuta: Gerusalemme sarebbe rimasta l'eterna e indivisa capitale di
Israele, priva di qualunque istituzione palestinese (per tacere dei diritti). Questa dichiarazione è passata
sotto silenzio negli Stati Uniti. La reazione (inesistente) alla decisione di Israele di affidare
l'amministrazione dei luoghi santi al suo alleato giordano riflette la stessa posizione negazionista, così
come la mancanza di preoccupazione riguardo all'espansione dei confini delle aree ambigue di
Gerusalemme, ed il passo spedito al quale lì procedono edificazione e colonizzazione direttamente
finanziate dall'ignaro contribuente statunitense.
Un ennesimo passo verso la realizzazione del negazionismo israeliano-statunitense è la cessazione del
teorico diritto di ritorno e compensazione per i rifugiati palestinesi. Tale diritto era un elemento cruciale
della Dichiarazione universale dei diritti umani: il suo articolo 13 afferma che "Tutti hanno il diritto di
lasciare qualsiasi nazione, compresa la propria e di far ritorno alla propria nazione" (mio il corsivo). Il
giorno dopo che la Dichiarazione venne approvata dal'Assemblea generale, si adottò all'unanimità anche la
risoluzione 194 che applicava l'articolo 13 al caso dei palestinesi. La Dichiarazione è riconosciuta nei
tribunali degli Stati Uniti e altrove in quanto "diritto internazionale consuetudinario e come "autorevole
definizione" degli standard in fatto di diritti umani. L'articolo 13 è sicuramente la disposizione più famosa,
invocata ogni anno per molti anni in occasione del giorno dei diritti umani, il 10 dicembre, con
dimostrazioni e furiosi appelli all'Unione Sovietica per consentire agli ebrei russi di partire, loro sacrosanto
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diritto in base all'articolo 13. Quello che si è sempre nascosto e che coloro i quali lo invocavano con
maggior passione erano i suoi più appassionati oppositori. Il trucco venne realizzato con semplicità: fu solo
necessario sopprimere la frase in corsivo, col suo significato esplicitato dalla risoluzione 194. Questa
ipocrisia, perlomeno, è un ricordo del passato. La prima parte dell'articolo 13 ha perso la sua importanza, e
l'amministrazione Clinton ha tolto sostegno alla seconda parte nel dicembre del 1993 nella sua prima
celebrazione del giorno dei diritti umani, votando, in contraddizione con la linea politica seguita
ufficialmente per 45 anni, a sfavore della risoluzione 194, come seampre in solitudine (accanto ad Israele).
La vittoria dell'estremismo negazionista israeliano-statunitense è una conquista straordinaria. Costituisce
un altro significativo passo verso la realizzazione delle aspirazioni della leadership sionista dei vecchi
tempi, quando il padre fondatore del moderno sionismo, Chaim Weizmann, informò Lord Balfour che "il
problema noto come la questione araba in Palestina sarà di carattere meramente locale e, in effetti
chiunque sia al corrente della situazione non la considera un fattore estremamente significativo". La
situazione attuale non si scosta dalle linee guida di fondo tracciate dall'ex presidente Haim Herzog nel
1972, quando dichiarò che non nega ai palestinesi alcun luogo o posizione o opinione su ogni questione"
anche se "certamente non sono preparato a considerarli come partner in alcun modo in una terra che è
stata consacrata nelle mani della nostra nazione per migliaia di anni. Per gli ebrei di questa terra non
possono esservi partner". Come ho detto, ricade ben all'interno della gamma delle varie proposte israeliane
avanzate dalla sinistra all'estrema destra, a partire dal 1968.
E' vero, i risultati sono ancora inferiori all'atteggiamento espresso da Weizmann quando rilevò, 70 anni fa,
che i britannici lo avevano informato del fatto che in Palestina "ci sono alcune centinaia di negri, ma si
tratta di una questione senza importanza". La situazione attuale, tuttavia, dimostra che gli specialisti del
governo israeliano nel 1948, ebbero vista lunga nel prevedere che i rifugiati palestinesi si sarebbero
assimilati altrove o "si sarebbero dispersi": "alcuni di loro moriranno e per lo più si tramuteranno in rifiuti
umani e scarto della società, entrando nei ranghi delle classi più povere delle nazioni arabe". E vista lunga
ebbe anche Moshe Dayan - forse il leader che si mostro più comprensivo nei confronti dei palestinesi quando, prima della guerra del 1973, dichiarò che il controllo israeliano sui territori era "permanente" e
consigliò che Israele dicesse ai palestinesi "che non abbiamo alcuna soluzione, continuerete a vivere come
cani e chi vuole può partire - e vedremo a cosa porta questo processo [...]".
Ovviamente, Israele non avrebbe mai potuto raggiungere tali scopi con i suoi soli mezzi, e probabilmente
non avrebbe rnai osato perseguirli. Lo poteva fare solo alleandosi col dominatore del mondo. La
convinzione che la potenza statunitense sia guidata da una qualche sorta di "obbligo morale" nei confronti
di Israele è troppo ridicola per meritare commento, cosa di cui Israele si accorgerebbe immediatamente se
facesse l'errore di scavalcare il padrone. Fintantoché si mantiene il rapporto strategico e la dominazione
statunitense permane senza grave rischio interno per gli Stati Uniti stessi, le questioni concernenti la
giustizia e i diritti umani possono essere tranquillamente archiviate.
Ri cordate come fonti ufficiali abbiano riconosciuto che il budget del Pentagono deve rimanere alto, con
forze di intervento puntate principalmente contro il Medio Oriente, dove "minacce ai nostri interessi
potrebbero non risiedere alle porte del Cremlino". Con questa visione del mondo reale, vi sono buone
ragioni di accettare il giudizio di Shlomo Gazit secondo cui dopo la guerra fredda, il principale compito di
Israele non è cambiato affatto, e rimane di cru- ciale importanza. La sua ubicazione al centro del Medio
Oriente arabo musulmano predestina Israele ad essere un devoto guardiano della stabilità di tutte le
nazioni che la circondano. Il suo [ruolo] è di proteggere i regimi esistenti: prevenire o arrestare i processi
di radicalizzazione e bloccare l'espansione del fanatismo religioso fondamentalista.
Per comprendere le sue parole si deve solo operare la consueta traduzione dal gergo odierno al linguaggio
comune. Il termine "stabilità" significa controllo statunitense, "radicalizzazione" significa inaccettabili forme
di indipendenza e "fanatismo religioso fondamentalista" è un caso particolare del crimine di indipendenza.
Non ha importanza che i criminali preferiscano il nazionalismo laico, il socialismo democratico, il fascismo,
la teologia della liberazione o il "fanatismo religioso fondamentalista". Sicuramente il compito di Israele
non è di minare il regime più estremista del fondamentalismo islamico, quello dell'Arabia Saudita - almeno
non per ora - così come Israele non venne chiamata a "bloccare" le forze estremiste fondamentaliste
islamiche di Gulbuddin Hekmatyar, il prediletto degli Stati Uniti ne- gli anni ottanta, che fece a pezzi i resti
dell Afghanistan dopo il ritiro sovietico mentre espandeva il suo narcotraffico; o i gruppi fondamentalisti
islamici che Israele finanziava nei territori occupati alcuni anni fa, per controbattere l'Olp. Né, se è per
questo, ci si aspetta che Israele "controlli" gli Stati Uniti, una delle più estremiste culture religiose
fondamentaliste del mondo.
Se Israele reagisce in modo intelligente di fronte a quella che Thomas Friedman, specialista del Medio
Oriente del New York Times, ha chiamato la "bandiera bianca" di Arafat, farà cadere le restrizioni imposte
per impedire qualsiasi sviluppo nei territori, La posizione razionale sarebbe di incoraggiare un flusso di
fondi stranieri che possono essere usati per fondare un settore di servizio per l'industria israeliana e
produrre benefici per gli investitori israeliani e i loro partner palestinesi e stranieri. Sarebbe sensato per
Israele spostare impianti di assemblaggio di alcune miglia in una zona dove non ci si deve affatto
preoccupare di questioni come i diritti dei lavoratori, l'inquinamento e la presenza di indesiderati arabi (o
anche dei lavoratori thailandesi e romeni) all'interno delle aree coloniche ebraiche. Impianti a Gaza e
dintorni, oltre che nei cantoni della sponda occidentale, possono fornire manodopera a basso costo e
facilmente sfruttabile, generando profitti per gli investitori e aiutando a controllare la popolazione. Settori
ricchi di Israele dovrebbero ottenere considerevoli profitti se i territori venissero sfruttati in modo
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intelligente sul modello che Washington adotta nei propri dintorni.
Quanto alla forza di sicurezza, sarebbe sensato affidarla principalmente a forze locali asservite - il modello
seguito dai britannici in India, dagli Stati Uniti nella regione dei Caraibi dell'America centrale, e in genere
dalle potenze razionali. I vantaggi sarebbero molteplici, e uno di questi venne evidenziato dall'ultimo
vincitore del premio Nobel per la pace poco dopo l'annuncio della Dichiarazione dei principi. Parlando al
consiglio politico del partito laburista, il primo ministro Rabin spiegò che le forze palestinesi sarebbero state
in grado di "occuparsi di Gaza senza i problemi provocati dagli appelli all'Alta corte di giustizia, da
B'Tselem, e da tutti i teneri di cuore, dalle madri e dai padri". Questo è più o meno vero, sebbene a volte
possa tornare utile anche l'ostentazione della forza come nel tradizionale schema imperiale.
Con una buona pianificazione, le cose dovrebbero svilupparsi secondo le linee tracciate da Asher Davidi
sulla stampa del partito laburista nel febbraio del 1993, pochi mesi prima dell'accordo Israele-Arafat a
Oslo. Egli descrisse l'"accordo completo tra rappresentanti dei vari settori (delle banche, dell'industria e del
commercio su larga scala) e il governo sul fatto che la dipendenza economica dell'en- tità palestinese deve
essere preservata" ma con "una transizione dal colonialismo al neocolonialismo", intrapresa
congiuntamente con una ricca frangia di investitori e subappaltatori palestinesi, come nel modello
comunemente applicato nel terzo mondo.
Non è chiaro quali implicazioni potrebbe avere questa situazione per la società israeliana al suo interno.
Uno specialista israeliano di spicco, Sami Smooha, predice che un accordo di pace "accrescerebbe in modo
significativo l'ineguaglianza", danneggiando i cittadini ebrei di seconda classe di origini orientali e
migliorando lo status dei cittadini palestinesi di terza classe. Può darsi, anche se l'ineguaglianza può
crescere per altre ragioni. Israele rimane estremamente dipendente dalle elargizioni e dagli aiuti americani,
ed è percio più predisposta di altri a seguire il modello statunitense, abbandonando il suo tradizionale
contratto sociale. Dal momento che l'economia e "liberalizzata", si può prevedere che l'ineguaglianza
insolitamente elevata all'interno di Israele sia destinata a crescere, rispecchiando l'ordinarnento interno del
padrone che continua a foraggiarla in cambio dei servizi resi.
Dopo la guerra del 1967, mi sembrava che il corso più saggio e umano per i vincitori sarebbe stato di far
rivivere le tradizionali idee sioniste sulla federazione di aree amministrate da ebrei e da arabi, che avrebbe
forse condotto a una conclusiva integrazione binazionalista man mano che si intrecciavano scambi tra le
comunità a cavallo dei confini nazionali. Questa opzione si fece particolarmente appropriata, secondo me,
dopo il rifiuto da parte di Kissinger delle disposizioni di ritiro della risoluzione 242, lo divenne ancora di più
dopo che gli Stati Uniti dovettero frettolosamente schierarsi accanto ad Israele nel respingere la nozione
dei due Stati quando quest'ultima entrò nell'agenda internazionale intorno alla metà degli anni settanta, e
lo divenne più che mai negli anni che seguirono. Con l'avvento della Dichiarazione dei principi, dovrebbe
ormai essere ovvio che l'opzione dei due Stati ha perduto qualsiasi (dal mio punto di vista limitata)
possibilità di realizzazione, e da allora la cosa si è fatta ancora più chiara. Agli israeliani, ai palestinesi e
agli esterni simpatizzanti che hanno a cuore i temi della pace e della giustizia, il momento appare più che
maturo per cominciare a preoccuparsi di questioni concernenti i diritti umani e la democrazia invece di
sempre più irrealistiche illusioni politiche, e per tornare, parallelamente, a considerare alternative che sono
state a lungo disponibili e lo sono tuttora. Tali alternative avrebbero potuto prevenire la guerra del 1973,
che si presentò come una necessita ineluttabile per Israele, la terribile invasione del Libano con le sue
conseguenze, e molte altre distruzioni e sofferenze, che non sono in alcun modo terminate.
In tutta la faccenda, osserviamo chiaramente in azione i principi guida dell'ordine mondiale: gli affari
mondiali sono gestiti dalla Regola della Forza, mentre si fa affidamento sugli intellettuali affinché
dissimulino la realta per assecondare le esigenze del potere. Ci vuole una certa disciplina per non
rendersene conto. Gli accordi che vengono attualmente messi in pratica sono degradanti e vergognosi, ma
non più del simile modello che viene adottato in buona parte del mondo dal momento che gli ideali
operativi - non quelli delle favole - hanno superato molti ostacoli popolari alla loro realizzazione. Alcuni si
sono spinti più in là degli altri nel "tramutarsi in rifiuti umani e scarto della società" ma questa è la
direzione nella quale sta andando, e andrà, buona parte del mondo, se ai padroni viene permesso di
progettare un ordine mondiale in cui "si fa quello che diciamo noi".
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intervista rilasciata a Cambridge - U.S.A. il 28-5-92
A chi dobbiamo, Professor Chomsky, i contributi più
significativi nello studio del linguaggio in epoca moderna?
All'inizio dell'Ottocento un grande linguista, Karl Wilhelm von
Humboldt, osservò che il linguaggio in qualche modo ci fornisce dei
mezzi finiti per usi infiniti. I mezzi che abbiamo per esprimerci
sono collocati nel cervello, il che significa che sono finiti, mentre
l'uso per il quale possiamo impiegarli è illimitato, sconfinato e
infinito. Già Cartesio però sosteneva che per capire se un'altra
creatura avesse una mente come la nostra, la migliore indicazione
stesse proprio nel suo poter usare il linguaggio in quel modo
creativo così caratteristico degli esseri umani. Egli intendeva
un'uso del linguaggio prima di tutto infinito e, in secondo luogo,
evidentemente non causato da situazioni esterne né da una
disposizione interna.
Ci può dire invece quando ci si è posti la domanda di come si
sia formata questa attitudine?
La questione di come possa essersi sviluppata questa capacità
creativa riguarda un altro aspetto dello stesso problema, che può
essere fatto risalire, ancora più in là di Cartesio, ai dialoghi
Platonici. In questo senso l'interrogativo si estende anche alla
spiegazione di come sia possibile agli uomini comprendere la
grande quantità di cose che di fatto comprendono, dato il carattere
limitato dell'esperienza disponibile. Se si considera più da vicino il
linguaggio, infatti, è possibile dimostrare facilmente che qualsiasi
bambino piccolo usa quei mezzi finiti per esprimere alcuni pensieri
limitati senza avere quasi nessuna esperienza pertinente. Quello
che si potrebbe definire "il problema di Platone", e cioè la
domanda, "Come è possibile sapere tante cose avendo esperienze
così minime?" può essere trasferita nel linguaggio traducendola
nella formula seguente: "Come si possono sviluppare i mezzi finiti
che ci mettono in grado di esprimere pensieri illimitati in maniera
creativa, non causata, ma appropriata?". Fino a circa cinquanta
10/11/2006 12.29
Noam Chomsky: La linguistica contemporanea
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anni fa non è stato mai possibile affrontare in modo molto preciso
tali questioni fondamentali, che pure sono state sollevate più volte
nel corso del tempo. L'idea, infatti, di un uso infinito di mezzi finiti
rimase una metafora fino al ventesimo secolo. Da allora questo
concetto è stato chiarificato anche in altri campi quali la
matematica, lo studio dei sistemi logici e la computazione.
Quali effetti ha prodotto in linguistica questa impostazione
del problema?
Il concetto di un uso infinito di mezzi finiti divenne molto chiaro e
comprensibile. Esso fornì gli strumenti intellettuali per affrontare
quei problemi che Humboldt, per esempio, riuscì a discutere solo in
modo metaforico e creò così le condizioni per convertire quelle
domande in un programma di ricerca veramente vivo. Solo allora,
infatti, fu possibile formulare un progetto di ricerca specifico, il
programma di grammatica generativa, con il quale si è cercato di
definire l'esatto sistema di principi e di modi di computazione usati
dal cervello nell'esprimere pensieri in quel modo illimitato. Non
appena si giunse a questo risultato, ci si accorse presto del fatto
che il materiale disponibile nelle grammatiche tradizionali o anche,
in maggior copia, nelle grammatiche strutturalistiche moderne,
non si avvicinava nemmeno lontanamente alla quantità di
conoscenze di cui dispone ogni persona normale o, di fatto, ogni
bambino piccolo.
Dalla formulazione precisa di questi principi, che collocavano il
problema su una scala diversa da quella che si poteva immaginare,
si arrivò ad approfondire il "problema di Platone", il render conto di
come questa capacità umana si fosse sviluppata. Le conclusioni a
cui si giunse riguardo tale questione non furono poi diverse da
quelle a cui giunse lo stesso Platone e cioè che questa capacità ha
potuto svilupparsi sulla base dell'esperienza solo perché era già
presente come parte di ciò che oggi chiameremmo la dotazione
biologica o genetica. Questi concetti furono sviluppati in quella che
fu definita la "rivoluzione cognitivista" degli anni '50 e che
rappresentò un cambiamento di prospettiva alquanto significativo
in relazione allo studio del comportamento, del pensiero e
dell'intelligenza umana. Si spostò l'attenzione dai comportamenti ai
meccanismi interni che rendono possibile quei comportamenti, e lo
sviluppo della grammatica generativa interna rientrò in questo
programma rappresentando, di fatto, un grande stimolo allo
sviluppo delle moderne scienze cognitive. Da quel periodo in poi
abbiamo assistito a molti sviluppi importanti nel tentativo di
formulare i principi che realmente rendono conto della nostra
conoscenza delle frasi espressive e di ciò che esse significano. Ci si
rese conto di come la complessità di questi meccanismi andasse
molto aldilà di quanto potessimo mai immaginare.
Professor Chomsky, secondo quali principi funziona il
linguaggio nell'ottica della grammatica generativa?
Qualsiasi sia l'aspetto del linguaggio che noi consideriamo, si tratti
del significato delle parole o del modo in cui le parole si combinano
in frasi, del modo in cui si possano formare certe costruzioni, come
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nel caso delle domande o anche delle relazioni semantiche tra
parole, oppure si tratti delle relazioni tra un pronome e un
antecedente o un nome, ci si affaccia subito su un vasto orizzonte
di complessità. Alle questioni tradizionali - come quelle citate sono connessi, inoltre, una serie di paradossi. Uno è quello per cui
sembra di essere costretti a creare sistemi di regole estremamente
intricati e complessi, in parte condivisi dalle varie lingue, e in parte
differenti da lingua a lingua. I tentativi comunque di affrontare gli
interrogativi connessi al "problema di Platone", di come si faccia ad
acquisire il sapere, solo nel corso degli ultimi quarant'anni sono
andati avanti seguendo un percorso naturale e abbastanza
proficuo, cioè secondo un'idea di base che era quella di cercare di
dimostrare che le regole semplici erano quelle veramente giuste.
Lo sforzo è consistito nel mostrare l'esistenza di una regola
elementare e di una semplice relazione strutturale tra i vari fattori,
che sono universali e fissati in modo semplice nella natura del
linguaggio, per cui questi interagiscono in svariate maniere in
modo da rendere il ventaglio delle complessità fenomeniche.
Questo, si dimostrò un programma di ricerca molto proficuo, col
quale si proseguì per circa venticinque anni in modo attivo, su una
varietà crescente di lingue, a partire dagli anni '50. Attorno al
1980, questo indirizzo giunse a una sorta di punto di svolta
evidenziando un nuovo quadro che indicava una rottura davvero
radicale rispetto alla tradizione dei duemila e cinquecento anni
precedenti.
Secondo questi nuovi orientamenti quali erano gli elementi
innati e quali quelli da acquisire nell'apprendimento del
linguaggio?
I bambini possiedono già disponibili i concetti, come parte della
loro natura interna e, pur con una quantità limitata di esperienza,
sono in grado di legare questi concetti con suoni particolari. Essi,
nei periodi di più intenso apprendimento acquisiscono circa dieci
nuove parole al giorno nel loro ambiente; il che significa che
stanno acquisendo parole sulla base di una singola esposizione e
che perciò alla base devono già avere fissi il concetto e la struttura
sonora. Ciò che invece imparano è il legare le due cose tra loro,
acquisiscono cioè il legame tra concetto e struttura sonora. C'è un
aspetto per il quale le lingue variano ma, al di fuori di questo
aspetto, sembra che le loro variazioni esistano soltanto nei tratti
periferici delle parti non sostantive del lessico.
Quali sono propriamente gli aspetti del significato per cui le
lingue differiscono e quelli per i quali invece si
assomigliano?
Come per i sistemi computazionali, le diverse lingue non
differiscono affatto, se non per alcune variazioni marginali, come
per esempio il caso delle parole "house" e "home" in inglese. Per
spostare una "house" da New York a Boston è necessario spostare
un oggetto fisico, mentre per spostare una "home" non c'è affatto
bisogno di spostare alcun oggetto fisico, pur essendo anche
"home", in inglese, un oggetto fisico. La differenza tra "house" e
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Noam Chomsky: La linguistica contemporanea
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"home" è una differenza che il bambino deve acquisire. In altre
lingue l'equivalente della parola "home" è di fatto un avverbio,
come nel caso del francese "chez moi" o come nel caso
dell'italiano, "vado a casa" dove, in quest'espressione, all'oggetto
concreto viene data un'interpretazione astratta.
Nella lingua, secondo il concetto saussuriano di arbitrarietà, Z3:0
"house" può avere un certo suono in inglese e un diverso suono
nella lingua vicina e le strutture sonore possono variare in un certo
margine. Le parole possono essere imparate molto rapidamente,
perché essenzialmente esse sono già note mentre la sola cosa che
va conosciuta è come i concetti si legano ai suoni e il modo di
sistemare il ventaglio di variazioni esistenti, per quanto ridotto.
Posto dunque che il sistema computazionale è fissato e la
variazione pare essere così come essa si manifesta nella sua
articolazione in suoni e posto che anche nella mente le cose paiono
procedere nello stesso modo è possibile, partendo da queste
premesse, affrontare quello che è stato definito "il problema di
Platone" che è lo stesso problema sollevato da Humboldt. A questa
domanda si risponde essenzialmente con la natura del sistema
computazionale che ha precisamente la proprietà di generare una
serie illimitata di pensieri che possono essere espressi con un
meccanismo finito.
Al problema posto da Cartesio circa la creatività dell'uso linguistico
è più difficile rispondere. E' possibile, infatti, parlare del tempo, di
ciò che si mangia a cena e di qualsiasi cosa senza che ci sia nulla
nello stato interno di chi parla che possa determinare ciò che si sta
per dire. Da ciò deriva un comportamento fondamentalmente
libero e non casuale appropriato però alle situazioni. Un
comportamento tale da evocare nelle menti di chi ascolta pensieri
che egli, prima di allora, non avrebbe mai avuto ma che può
adesso pensare e che avrebbe potuto esprimere nello stesso modo.
Per Cartesio questa collezione di proprietà diventò l'indicazione
dell'esistenza di una mente distinta da un meccanismo. La
domanda su come ciò sia possibile resta oggi misteriosa quanto
allora e si può semplicemente osservare che queste sono le
proprietà di cui evidentemente gode il linguaggio. Per il momento,
rimane ancora un mistero il modo in cui un meccanismo biologico
possa avere simili proprietà.
Biografia di Noam Chomsky
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