Tra i ragazzi della valle dimenticata/7

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Tra i ragazzi della valle dimenticata/7
Claudio Giunta
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Tra i ragazzi della valle dimenticata/7
Di Elisabetta Verdone
(Continua il racconto di Elisabetta Verdone sul suo anno d’insegnamento in una scuola media abruzzese. La sesta
puntata un post più sotto).
26. Salva per miracolo
È febbraio. Un mese che ondeggia tra i primi respiri di primavera e la morsa dell’inverno che qui, in montagna,
sembra più lungo e profondo. La mente costruisce un anticipo di sole che non c’è.
Dopo giorni di pioggia, il terreno sprofonda e rotolano pietroni sull’asfalto. Quando si
addizionano nebbia e frane, la strada diventa una sorpresa dietro ogni arco di curva. Ma la nebbia, per la mia mente sovraccarica, può trasformarsi in culla. Nella fuga dalla scuola verso casa la incontro a metà monte.
Inizia a vagare cotonando i primi tornanti, danzando in zuccheri filati, per poi infittirsi. Alla fine, mi sembra di
avanzare in una tazza di latte. Una dopo l’altra, defluiscono le agitazioni. I sensi si distendono. A ogni ondeggiare
di curva deposito un nervosismo, una tensione.
Ma ora è febbraio. Alla nebbia e alla notte precoce si aggiunge il ghiaccio che si è sparso in tutti gli angoli del mio percorso giornaliero.
Oggi ho la prima ora. Parto prestissimo. La neve è arrivata anche in città. In meno di un’ora sfiorerò la cima della
montagna e chissà quanta ce ne sarà lassù. Ma il mio fatalismo ottimista, come al solito, non considera i rischi.
È una
settimana che ho a che fare con la neve. Amo i ricami che è capace di inventarsi sugli alberi. Sembrano festoni decorativi messi durante la notte per essere notati da me al mattino. E la valle, vestita di candore, ha qualcosa di puro e irreale.
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Eppure una strana sensazione mi assale stamattina, quando chiudo la portiera della macchina. Stanotte ha
nevicato sul serio. La mia valle dorme al di là di un monte. Sarò tra i primi a svalicare. Quando inizio a salire la
neve fresca e soffice cede dolcemente sotto le gomme termiche. Sono un puntino rosso in un mare di bianco.
È ancora
semi-buio. Sulla collina ecco il primo paesino. Ce ne sono tre che punteggiano il mio cammino. Il primo è cucito alle pendici del monte e mi augura: Buon viaggio e buon mattino! Il secondo, agganciato alla cima, a 1200 metri, mi grida: Sei a buon punto! Coraggio! Ed ecco il terzo, ai piedi della discesa, vicino al
mio, che mi mormora: In bocca al lupo…
Ma quando ho la prima ora, il primo paese mi guarda assonnato dalla sua collina. Sembra sbadigliare con me. Solo
il campanile ha la luce dorata da abat-jour che sa tanto di salotto di casa. Saluto l’ultima stella in questa
semioscurità in cui ho ancora voglia di coperta e tè caldo.
A questo punto, di solito, la radio ancora mi assiste, ma l’aria calda del condizionatore no. Respira asmatica senza decidersi a riscaldare. Situazione che si
capovolge a metà montagna, quando inizia la discesa. Mi guadagno la strada arrampicandomi senza troppo sforzo. La neve crepita sotto le ruote. Avverto l’esaltazione di dominare quel bianco reame come prima viandante dopo la notte.
Poi il materasso nevoso aumenta e su di esso le ruote sembrano rimbalzare. Mi sento tranquilla. L’immensità,
mentre salgo, si fa sempre più mia. Seguo questi pensieri. Poi, la macchina mi fa capire, con uno strattone, che ha
voglia di fare di testa sua. E decide lei.
Il volante mi guizza impazzito tra le mani. A sinistra c’è la valle, inesorabile nella sua altezza. A destra la schiena del monte. Una frazione di secondo. Il cuore si ferma. Un attimo e le ruote tagliano il muro di
neve e si dirigono verso la fiancata del monte. L’impatto.
Poi calma e silenzio. Biancore e immobilità.
Tremo ancora quando apro lo sportello. La neve mi sorpassa il ginocchio. Dal cielo fiocchi e fiocchi. La macchina fuma schiacciata contro la parete. Pochissimi minuti e qualcosa di arancione
avanza nel bianco. I soccorsi stradali. Un pullman si è ribaltato all’altezza di un villaggio, così sono passati per caso di qui e hanno raccattato anche me.
– Ma che ci fai quassù dove nemmeno lo spazzaneve è arrivato?
– Andavo a scuola – Rispondo ancora tremando.
– La scuola! In queste condizioni?
Nei giorni seguenti, tra visite mediche e mal di schiena, volo con lo sguardo verso le montagne incappucciate.
Giorni di quiete, di riposo insperato. Penso. Se la caveranno i colleghi senza di me?
Un giorno, poco dopo il pranzo, mi arriva una chiamata da un numero sconosciuto.
– Pronto?...
– Professoré!!!
Ci metto un po’ a coordinare. Vocina squillante e timida al tempo stesso.
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– Sono Valentina. Professoré!
– Valentina? Ah ciao… come va?
– Bene, professoré. Volevo chiederti: come stai? Quando torni? Ci manchi… Ora devo andare. Se mi becca mia madre al telefono mi strilla…
Rimango con la cornetta in mano e una specie di sorriso...
27. “Io vado alla scuola pe diventà muratori”
Mi attacco al telefono della sala professori con Giovina alle calcagna che cerca di intuire le mie intenzioni. La Prima
al di là del muro fa un gran chiasso. Mancano tre giorni alla fine di marzo. Avanzano le scadenze per la scelta della
scuola superiore per i quattro di Terza e nessuno si è mai domandato quali siano le loro preferenze.
È nato tutto per caso. Continuo a
tormentarli con la visione dell’esame per ottenere un minimo di studio. Poi il pensiero della scuola superiore mi è balzato all’improvviso, raggiungendomi nella baraonda della Seconda, come un’alta marea. Ma a quale scuola vorreste iscrivervi?
La domanda resta sospesa nell’aria come un punto interrogativo capitato per caso tra queste mura. Simone
semiaddormentato alza a malapena l’occhio destro. Serafina, ansiosa, mi guarda con la sua sconvolgente
semplicità, gli occhi spalancati: Io non lo so, professoré. Valentina appoggiata sognante al banco continua a
guardarmi in silenzio. Attilio non esiste proprio. Come al solito è perso in mezzo alla Seconda braccando il fratello
per non so quale questione.
È così che sono filata in sala professori lasciando le tre classi in balia di loro stesse e ho chiamato il preside. La
sede centrale si era semplicemente dimenticata dei quattro “al di là” della montagna.
Il solo fare il numero della presidenza disegna nella mia testa immagini di una
scuola “normale”. Visualizzo, mentre telefono, ragazzi al proprio posto, corridoi silenziosi, un preside... alunni che al massimo entrano in ritardo con permessi giustificati. Mentre la mia voce viene da quassù contornata da una colonna sonora di banchi trascinati e urla, per chiedere, alla metà di marzo, informazioni
sull’orientamento...
Ma non ci ha già pensato qualcuno?, mi sento rispondere dall’altro capo del filo. – Beh, veramente, no. – Allora se
ne può occupare lei se vuole. Contatti delle scuole e organizzi degli incontri...
Rimango con la cornetta in mano penzoloni e Giovina interrogativa davanti a me. Poco dopo arrivano in corteo i tre
della Terza. Tutti meno Attilio che non ha voluto saperne di lasciare la classe, suo palco e suo pubblico.
Cerco, con l’elenco telefonico
in mano, alla pagina scuole, di capire dove sono orientati. Gli faccio una lista e gli spiego più o meno le differenze. Hanno una visione talmente vaga che mi sembra di ritrovarmi già nella nebbia del viaggio di ritorno. Serafina mi guarda con aria tragica. Valentina con i suoi occhi sperduti e abbandonati fa
concorrenza a Simone per rassegnazione e ineluttabilità.
È una giornata grigia. Le colline circostanti vestite ancora d’inverno sembrano barricarci dentro. Ci guardiamo
sconfitti. Lì in piedi, nella sala professori, con Giovina nel nostro cerchio, dobbiamo formare un gruppetto patetico.
A
interrompere il momento problematico irrompe Attilio: Ch’è successo qua? Valentina lo informa drammatica. E lui, immediato: Io vado a quella dei muratori. Professoré, la scuola pe diventà muratori. Che sto a perde tempo co ste scemenze io. Mi guadagno qualcosa.
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Ed è così che proprio ad Attilio spetta il compito di interrompere il clima di apatia e di lanciarmi all’azione. Ci metto
un po’ a capire che la scuola di cui parla è la scuola edile. Ispirata da Attilio, Serafina ha un’improvvisa
illuminazione: Professoré, la scuola pe disegnà. Quello di educazione artistica mi ha detto che so’ brava. Ed ecco
contattato anche il Liceo Artistico.
Restano Valentina e Simone. A strapparli dal loro limbo di impassibilità mi ci vuole un bel po’. Mi sembra di
chiamarli dal bordo di un pozzo. Loro sono nel fondo: Quali materie vi piacerebbe studiare? Il silenzio mi arriva dal
profondo assieme con l’eco. Cerco di svegliare la zona riservata ai sogni. Ma quale lavoro vi piacerebbe fare?
Come vi immaginate tra una quindicina d’anni?
Sono i giochetti che uso in Prima. In questi mesi è stata una priorità assoluta rieducarli alla fantasia, ai progetti, ai sogni, agli arcobaleni. A ricolorare la parte della mente e del cuore che
dovrebbe essere dedicata a progettare la felicità della vita...
28. Quanto ancora so poco di voi!
Simone e Valentina, dal fondo del pozzo, mi osservano muti. Quanto siamo distanti ora. Guardo le mani di Simone.
Piccole e robuste. Le unghie nere, una serie di graffi sui dorsi. Una sfilza di assenze “per malattia” che, come mi
ha spiegato Giovina, sono in realtà giornate di lavoro con il padre. Mi chiedo solo ora quante volte, in questi mesi,
l’ho visto sorridere. Chissà se pensa ancora a Curiosina di tanto in tanto...
Mi assalgono una serie di domande. Quanto ancora so poco di voi. Io che sono qui di passaggio e accompagno
ogni mio viaggio con un sospiro. Il primo, quando vengo, di rassegnazione, e il secondo, quando me ne vado, di
sollievo...
Guardo Valentina. Le occhiaie blu non l’hanno mai lasciata dal periodo della polmonite. Viso diafano e capelli nerissimi. Corpicino trasparente... Serafina, in piedi davanti a Valentina. Il doppio di lei. Sorride ora beata, e parla con se stessa sempre più convinta: Sì quel liceo là mi
piacerebbe. Devo disegnà solo, professoré?
E infine, Attilio, la somma di tutti e tre messi assieme, che ha trovato un altro argomento di battibecco con Giovina.
Che quadretto. Dalle due aule arriva intanto il fracasso della completa rivoluzione. Come spiegarlo al Preside che
ho dovuto arrangiare una triclasse in assenza dei colleghi?
Comincio a chiamare le scuole. Sono tutti molto gentili finché non arrivo ai due punti chiave. La locazione della scuola e il numero dei ragazzi interessati
nelle classi terze. Capisco che nessuno arriverà mai fin quassù per quattro ragazzi.
Intuisco subito che devo inventarmi qualcosa: Sì, la classe è composta da diciotto alunni. Molti gli interessati alla
vostra scuola. Hanno ancora le idee un po’ confuse e un incontro illustrativo potrebbe chiarirgliele, prima di
compilare la domanda. So di essere un po’ con i tempi stretti ma ci farebbe piacere una vostra visita.
Sono stupita di me stessa. Giovina mi fissa interrogativa. Dopo mezz’ora di chiamate mi ritrovo in mano una lista
di appuntamenti per tutta la settimana successiva. Verranno delegazioni di parecchie scuole con materiale
informativo e videocassette.
Il mio espediente di dare come numero quello degli alunni di tutta la scuola ha ottenuto il risultato sperato.
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29. La tarantella abruzzese
Mi ritrovo a sorridere davanti al quartetto. La mia euforia scioglie un po’ anche la malinconica rassegnazione di
Simone e Valentina. Nessuna famiglia li avrebbe mai accompagnati a un open day fino in città. La mia bugiola mi
sembra un po’ meno colpevole guardandoli.
Avremo ospiti!, annuncio entusiasta alla classe-scuola composta da Prima-Seconda-Terza e diciotto tipi diversi di
timbri vocali urlanti.
Osservo quasi ammirata per la fantasia con cui hanno trasformato la classe nella mezz’ora libera. La bisca clandestina di carte si è posizionata vicino alla finestra. La Prima riunita in un angolo ha trovato il tempo di disegnare su pezzi di cartone fari, volante,
marmitta eccetera e di appiccicarli ai banchi e alle sedie, trasformandoli in macchine da corsa. Io li ho disturbati nel bel mezzo della gara.
Ma il meglio occupa il centro-aula. Enrica si è procurata lo stereo che dovrebbe essere utilizzato per le ore di lingua
e ora, a tutto volume, riempie l’ambiente con il suono coinvolgente di una saltarella abruzzese. Lei e Stefano al
centro ballano con tecnica perfetta.
Li guardo senza parole per qualche minuto. Coordinatissimi, rapidi, concentrati. Fabio mi nota per un attimo con un sorriso da un orecchio all’altro. Giovina arriva alle mie spalle: Hai visto che bravi? Non posso fare a
meno di ammetterlo... Eh, professoré, quann’ero giovane altro che chissi. Come ballavo. Ma anche adesso alle sagre estive...
Fra tutto quel parapiglia, Ludovico è lì, solo, nel suo banco. L’unico non modificato in macchina...
30. Due sconosciuti venuti dalla città
La settimana seguente si apre in fermento. Di ospiti qui non se ne vedono tutti i giorni. Le occasioni non ci sono
mai e l’orientamento è una cosa dimenticata da anni.
Raduno i ragazzi delle tre classi nella sala computer. Una dimensione che sembra completamente fuori contesto. Attrezzata di una trentina di postazioni internet, troppe
perfino per l’intera scuola, collegate al computer centrale dell’insegnante. Nemmeno le scuole più all’avanguardia possono vantare un’aula così.
Eppure, questo regalo del Comune è intoccabile, irraggiungibile. Giovina detiene l’unica chiave e la elargisce solo
agli insegnanti nelle ore libere asserendo che le “bestie di ragazzi” li romperebbero. Così continuano ad andare
nella vecchia aula computer. Ma oggi c’è il grande ingresso in società e bisogna mostrare il volto migliore.
Li ho fatti sedere con
enorme fatica. Ora gli ripeto le ultime raccomandazioni come fossi il generale davanti al plotone prima della battaglia: Voi siete la classe terza (mentre calco su queste parole guardo Mirko in prima fila minuscolo come non mai e mi domando chi ci crederà). Fatevi vedere interessati, vengono apposta dalla città per
noi. Non comportatevi come al solito. È importante per i vostri compagni poter scegliere...
Li guardo speranzosa. Ridacchiano, ma in fondo sono curiosi. Oggi è il primo incontro. Quello con l’Istituto agrario
di Ascoli. L’ho chiamato soprattutto per Simone. Esco dall’aula e vado verso l’ingresso in attesa. Giovina in sala
professori ha allungato la fila delle tazzine di caffè e aspetta gli ospiti anche lei. Noto che ha i capelli restaurati e il
maglione con i fiori. Solo quando arriva il preside è vestita così.
Li vedo entrare piuttosto confusi e, come immaginavo, in ritardo. Scusate ma è stato più lungo del previsto. – Non
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immaginavamo tutte quelle curve..., mi dicono un po’ imbarazzati i due professori stringendomi la mano.
Li conduco lungo il corridoio
parlando nervosamente per nascondere il brusio che viene da dietro la porta…
Appena entro, fulmino i ragazzi con lo sguardo. Funziona molto di più il fattore curiosità che i due sconosciuti si
portano dietro come una scia. Due stranieri. Due coraggiosi che hanno varcato le colonne d’Ercole venendo dalla
città.
31. I giornalini della bidella giovane
Qui la città è una parola che vaga nell’aria come un’astrazione. È il luogo in cui si va in processione rituale a fare
scorta di libri, quaderni e penne all’inizio di settembre. Poi non serve più. C’è Giuseppe.
Giuseppe lavora al di là del colle, una marea di tornanti più in basso. È lui
che raccoglie le richieste del paese. Che siano libri o prodotti alimentari o oggetti di vita quotidiana, Giuseppe carica la macchina e ritorna alla base con le scorte. Non credo che una nave carica di seta, spezie e prodotti d’oltremare fosse attesa con maggior entusiasmo di quello che riesce a riscuotere la macchina
di Giuseppe.
Tuttavia, nella lista import, sono ammessi solo beni di prima necessità. È così che i ragazzi sono riusciti a
fabbricarsi un’altra rete import in maniera autonoma e sganciata dal mondo dei grandi. È la cosiddetta “bidella
giovane”.
Bionda, allegra e sulle nuvole, approda qui ogni due settimane a dare una mano a Giovina. Proviene dall’altra città. Quella più lontana e sconosciuta. La mia: Teramo. In breve è diventata tramite di giornalini e caramelle. Lei arriva un sabato sì e un sabato no. La sua venuta è attesa con
tanta ansia da oscurare il mito di Giuseppe, lasciandolo ai genitori.
Mi sono spesso domandata perché, essendo anch’io “straniera” ed “esotica” non mi abbiano mai costruito
attorno una rete di import. Poi ho afferrato che nel loro codice morale le prof non si devono coinvolgere in scambi
commerciali. Rimangono però utilissime per la vendita in uscita di castagne, noci e funghi. In questo, esse
costituiscono il nodo centrale dell’export.
Giovina invece ha un altro codice. E di tanto in tanto, con voce cantilenosa ti viene incontro la mattina con
qualcosa tra le mani, anticipando: Professoré, che in città mi spedisci la raccomandata?, oppure Professoré, non
mi funziona più il telefono, che me lo porti al centro riparazioni? La risposta non l’aspetta mai e appena scaricata
la sua consegna si defila rapida verso il lavoro a maglia.
32. “Fammi un piacere. Non ci venire nella nostra scuola”
Ricordo bene le espressioni dei due poveri ignari venuti dalla città. Simulano una tranquillità che non hanno. E i
ragazzi li mangiano. Hanno mangiato me con quegli stessi occhi il primo giorno.
La presentazione è molto ben organizzata. Viene proiettato un video. Una scuola avveniristica
dotata di foresta, campi, vigneti, oliveti, laboratori. E poi grandi sale ricreative pomeridiane, attività alternative. Non potevo invitare di meglio per il primo incontro.
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Eppure qualcosa non va. Come al solito. Simone si è di nuovo incamminato verso il bosco dell’apatia e i suoi occhi
si sono colorati di fatalismo. Valentina è diventata triste. La povera Serafina mostra tutta la sua attenzione e
annuisce in automatismo senza sosta.
Questa la prima fila. Nelle retroguardie ho disposto ad arte la Seconda e solo laggiù nel fondo i sei scriccioli di Prima. Buoni a fare massa e posizionati in modo tale da dissimulare le dimensioni un po’ cortine
della Terza.
Loro hanno mantenuto l’attenzione per un po’. Ma la fascia mediana, la Seconda, l’ho persa già dopo il primo
minuto. Dopo averli aggrediti di curiosità li hanno buttati via. Un po’ come hanno fatto con me. So bene che nulla
al mondo li farà tornare.
Ed ecco il risveglio del fantasma. Il signor Casino. Attilio ha lanciato il primo segnale di battaglia. I due poverini non
se ne rendono conto, ma io sì. Piantato al centro della scena, grande e grosso com’è, Attilio sembra un’antenna
satellitare. E polarizza il gioco attorno a sé. Alza con noncuranza il mouse proiettando la luce rossa del laser verso
gli occhi del relatore che illustra il video. Lo alza e lo abbassa. E ridacchia. Tutta la Seconda ridacchia ora. E anche
la Prima. Il poveruomo capisce tutto ma va avanti.
Cerco di attirare la loro attenzione con disperata agitazione. Macché. È ad Attilio che guardano tutti. Il mio volto
deve essere più rosso e acceso di quello della luce laser. Quindi, con gesto esasperato, il poveretto molla il
telecomando del proiettore e rivolto ad Attilio gli intima di smetterla.
Per un po’ si crea calma. Poi le risatine si riaccendono. Fabio e Dario parlano fitto. Fabio si alza. Esce dalla fila. Comincia a
camminare con estrema tranquillità nella piccola sala. Avanti e indietro. Raggiunge le retroguardie di Prima e comincia a parlottare con Lorenzo. L’anello debole e corruttibile. Sto per intervenire ma il relatore mi precede: Tu lì in fondo. Se non sei interessato almeno non disturbare. Non devo sceglierla io la scuola
superiore, ma tu.
Ecché me ne frega, io faccio la seconda. Sta cosa è per quelli di terza! Eppoi mi so’ annoiato. Ora lo sguardo del
poveretto sta cercando il mio. Lo sento che mi gira attorno. E io guardo verso il pavimento. Imbarazzata come
credo mai.
Il terzo tempo vede come protagonisti ancora Attilio con Dario. Il quale ha attaccato di nascosto una gomma da
masticare, mangiucchiata e umida, tra i capelli di Ludovico, seduto di fronte.
Attilio non ce la fa più ed esplode in una grande risata. Adesso basta!, tuona il relatore rosso in viso Tu, lì.
Sì tu grosso. Fammi un piacere. Te lo chiedo per favore! Non ci venire nella nostra scuola che non ti vogliamo! Quindi non la scegliere proprio! – Mica so’ scemo che vado a fa’ un’altra scuola. Io faccio la scuola da muratore!
33. “Mia mamma mi ha detto che posso sceglie solo l’alberghiero”
Quello che non smette mai di sconvolgermi, in questa classe, è l’infinito fondo di mancanza di vergogna. L’ho
cercato mille volte. Quel fondo non ce l’hanno. Io sì e ci sono finita da tempo. Contando i minuti esasperata.
Salvando gli ultimi brandelli di apparenza. Sopra il viso rosso un sorriso immobilizzato e provato dagli eventi,
mentre usciamo superati dai bolidi in corsa.
Mando Poveretto 1 e Poveretto 2 da Giovina per il caffè e becco Valentina che è l’unica a viaggiare sotto i 120 con
Ludovico come satellite. Che ti è successo? Nemmeno una domanda gli hai fatto? Ma non era una di quelle scuole
che ti interessava? Cavolo ragazzi, lo sto facendo per voi! Svegliatevi un attimo!
Mi rendo conto che le sto rovesciando addosso parte della tensione nervosa accumulata. Lei
alza le serrande degli occhioni rassegnati. Professoré, mia mamma mi ha detto che posso sceglie solo l’alberghiero. Faccio quello sulla costa, vado a vivere con mia zia. Perché dice che poi d’estate là ti trovano un lavoretto e mi guadagno qualcosa. – Ma… Poi mi blocco.
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La mamma la conosco. Caparbiamente contadina. Mai un cedimento di dolcezza per Valentina e Mirko. Mi
riprometto di chiamarla anche se la depressione di Valentina mi ha raggiunto di nuovo, come sabbia mobile.
Poi acciuffo al
volo Dario che, dopo aver tirato con violenza le ciocche di Ludovico imprigionate nella gomma, senza risultati, ha trovato un paio di forbici e prima del mio intervento le ha già fatte fuori tutte. Sono infuriata all’estremo. Ecche è tutta sta tragedia per una gomma con sto mezzo cervello che non reagisce mai!
Non ho il coraggio di affrontare lo sguardo dei due poveretti. Li ho attirati in trappola. E pensavo fosse a fin di bene.
Un altro sassolino lanciato nel pozzo dei desideri vani.
Raduno le tre ex classi terze in aula e gli rivolgo la peggiore orazione di fuoco. Quindi esco scenograficamente sbattendo la porta e mi lancio sul telefono. Lista in
mano. Pronta ad abolire tutti gli appuntamenti della settimana. Poi mi giro. Serafina occupa lo spazio porta con la sua mole abbondante e soffice. Mi guarda speranzosa.
Professoré, chiami il Liceo Artistico per me? – No, Serafina. Chiamo tutte le scuole. Disdico tutto. Ancora mi trema
la voce di rabbia. No, professoré, non disire, didire la mia scuola, mi supplica impigliandosi nelle parole.
Non ho cuore e lascio l’Artistico fuori dalla lista. Da quando ha preso la sua decisione Serafina disegna ovunque.
Fogli, bordini di libri, banco, lavagna, gomme. Riempie tutto di generosi segni colorati. E ha assunto nell’aria un
che da artista snob di fronte alle prese in giro di Attilio.
No, non posso farle questo…. Il vento e la nebbia mi abbracciano appena salto in macchina. Fuga più che mai oggi… Chiudiamo il sipario anche su questa giornata.
Oggi pomeriggio, cara la mia valle, ti impacchetto con doppio strato di scotch!
Il giorno dopo mi sveglio che è arrivata la neve. Tanta neve. Ha bloccato le vie per Ascoli. La scuola ha richiuso di
nuovo. Serafina imbottita in sciarpa e cappotto, le guancione colorate di rosso, è contenta come una pasqua. E
della successiva delegazione non se n’è saputo più nulla.
Se ne sono perse le tracce nella neve.
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