Rassegna stampa 11 aprile 2016
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Rassegna stampa 11 aprile 2016
RASSEGNA STAMPA di lunedì 11 aprile 2016 SOMMARIO “Il cammino sinodale – scrive Papa Francesco nell’introduzione all’esortazione postsinodale “Amoris laetitae” sulla quale, nella Rassegna odierna, vi sono diversi commenti - ha permesso di porre sul tappeto la situazione delle famiglie nel mondo attuale, di allargare il nostro sguardo e di ravvivare la nostra consapevolezza sull’importanza del matrimonio e della famiglia. Al tempo stesso, la complessità delle tematiche proposte ci ha mostrato la necessità di continuare ad approfondire con libertà alcune questioni dottrinali, morali, spirituali e pastorali. La riflessione dei pastori e dei teologi, se è fedele alla Chiesa, onesta, realistica e creativa, ci aiuterà a raggiungere una maggiore chiarezza. I dibattiti che si trovano nei mezzi di comunicazione o nelle pubblicazioni e perfino tra i ministri della Chiesa vanno da un desiderio sfrenato di cambiare tutto senza sufficiente riflessione o fondamento, all’atteggiamento che pretende di risolvere tutto applicando normative generali o traendo conclusioni eccessive da alcune riflessioni teologiche. Ricordando che il tempo è superiore allo spazio, desidero ribadire che non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero. Naturalmente, nella Chiesa è necessaria una unità di dottrina e di prassi, ma ciò non impedisce che esistano diversi modi di interpretare alcuni aspetti della dottrina o alcune conseguenze che da essa derivano. Questo succederà fino a quando lo Spirito ci farà giungere alla verità completa (cfr Gv 16,13), cioè quando ci introdurrà perfettamente nel mistero di Cristo e potremo vedere tutto con il suo sguardo. Inoltre, in ogni paese o regione si possono cercare soluzioni più inculturate, attente alle tradizioni e alle sfide locali. Infatti, « le culture sono molto diverse tra loro e ogni principio generale […] ha bisogno di essere inculturato, se vuole essere osservato e applicato ». In ogni modo, devo dire che il cammino sinodale ha portato in sé una grande bellezza e ha offerto molta luce. Ringrazio per i tanti contributi che mi hanno aiutato a considerare i problemi delle famiglie del mondo in tutta la loro ampiezza. L’insieme degli interventi dei Padri, che ho ascoltato con costante attenzione, mi è parso un prezioso poliedro, costituito da molte legittime preoccupazioni e da domande oneste e sincere. Perciò ho ritenuto opportuno redigere una Esortazione Apostolica postsinodale che raccolga contributi dei due recenti Sinodi sulla famiglia, unendo altre considerazioni che possano orientare la riflessione, il dialogo e la prassi pastorale, e al tempo stesso arrechino coraggio, stimolo e aiuto alle famiglie nel loro impegno e nelle loro difficoltà. Questa Esortazione acquista un significato speciale nel contesto di questo Anno Giubilare della Misericordia. In primo luogo, perché la intendo come una proposta per le famiglie cristiane, che le stimoli a stimare i doni del matrimonio e della famiglia, e a mantenere un amore forte e pieno di valori quali la generosità, l’impegno, la fedeltà e la pazienza. In secondo luogo, perché si propone di incoraggiare tutti ad essere segni di misericordia e di vicinanza lì dove la vita familiare non si realizza perfettamente o non si svolge con pace e gioia. Nello sviluppo del testo, comincerò con un’apertura ispirata alle Sacre Scritture, che conferisca un tono adeguato. A partire da lì considererò la situazione attuale delle famiglie, in ordine a tenere i piedi per terra. Poi ricorderò alcuni elementi essenziali dell’insegnamento della Chiesa circa il matrimonio e la famiglia, per fare spazio così ai due capitoli centrali, dedicati all’amore. In seguito metterò in rilievo alcune vie pastorali che ci orientino a costruire famiglie solide e feconde secondo il piano di Dio, e dedicherò un capitolo all’educazione dei figli. Quindi mi soffermerò su un invito alla misericordia e al discernimento pastorale davanti a situazioni che non rispondono pienamente a quello che il Signore ci propone, e infine traccerò brevi linee di spiritualità familiare. A causa della ricchezza dei due anni di riflessioni che ha apportato il cammino sinodale, la presente Esortazione affronta, con stili diversi, molti e svariati temi. Questo spiega la sua inevitabile estensione. Perciò non consiglio una lettura generale affrettata. Potrà essere meglio valorizzata, sia dalle famiglie sia dagli operatori di pastorale familiare, se la approfondiranno pazientemente una parte dopo l’altra, o se vi cercheranno quello di cui avranno bisogno in ogni circostanza concreta. È probabile, ad esempio, che i coniugi si riconoscano di più nei capitoli quarto e quinto, che gli operatori pastorali abbiano particolare interesse per il capitolo sesto, e che tutti si vedano molto interpellati dal capitolo ottavo. Spero che ognuno, attraverso la lettura, si senta chiamato a prendersi cura con amore della vita delle famiglie, perché esse «non sono un problema, sono principalmente un’opportunità»” (a.p.) IN PRIMO PIANO - “AMORIS LAETITA”, L’ESORTAZIONE DEL PAPA DOPO IL SINODO AVVENIRE di domenica 10 aprile 2016 Pag 1 Come tutto cambia di Stefania Falasca Pag 5 Paglia: una svolta storica per la famiglia di Luciano Moia “Discernere e integrare? Sì, ma caso per caso, in dialogo con il confessore” CORRIERE DELLA SERA di domenica 10 aprile 2016 Pag 29 L’abbraccio del Papa a trans e prostitute di Luigi Accattoli LA NUOVA di domenica 10 aprile 2016 Pag 10 La svolta spacca la Chiesa, Francesco non si ferma di Mariaelena Finessi “Amoris laetitia” è già best seller L’OSSERVATORE ROMANO di sabato 9 aprile 2016 Pag 1 Per il bene di tutti di g.m.v. Pag 4 La gioia dell’amore Presentata l’esortazione apostolica postsinodale “Amoris laetitia” sulla famiglia frutto delle assemblee tenute nel 2014 e nel 2015 Pag 6 Semplice come un buonasera di Christoph Schönborn L’intervento dell’arcivescovo di Vienna Pag 7 Buona notizia per le famiglie di Lorenzo Baldisseri La presentazione del segretario generale del Sinodo dei Vescovi AVVENIRE di sabato 9 aprile 2016 Pag 1 Lo speciale sigillo di Pierangelo Sequeri Amore, famiglia, vita vera Pagg 4 – 5 La rivoluzione di Francesco. Un abbraccio senza esclusioni di Luciano Moia L’originalità di un testo che rovescia le prospettive pastorali. Il vescovo Fragnelli: “E adesso ridefiniamo la pastorale” CORRIERE DELLA SERA di sabato 9 aprile 2016 Pag 5 Paglia e il nodo dei sacramenti: “Dobbiamo curare le ferite, non agire come un tribunale” di Gian Guido Vecchi Pag 5 Nelle diocesi: giusto aiutare chi ha sofferto di Fabrizio Caccia Il teologo Forte: c’è attenzione verso la fede “incarnata” Pag 6 La Chiesa e il sesso. Quando Paolo disse: “Le donne siano sottomesse ai mariti” di Aldo Cazzullo Il confronto con le parole del Pontefice Pag 32 Quella porta aperta sull’amore che accoglie di Michela Marzano Pag 33 La volontà di riforme e il magistero della Chiesa di Massimo Franco LA REPUBBLICA di sabato 9 aprile 2016 Pagg 6 – 7 La svolta del Papa: “Ostia ai divorziati, ma caso per caso. Il sesso dono di Dio” di Marco Ansaldo Pubblicata l’esortazione “Amoris laetitia”, le nuove guida per i pastori e le famiglie Pag 9 Schönborn: “Io, figlio di separati, felice per l’apertura della comunione alle coppie risposate”. Burke: “L’eros non è il male, ma non deve mai essere in contrasto con la procreazione” di Paolo Rodari Pag 33 Francesco e la riforma dell’amore di Alberto Melloni Pag 33 Ma sulla famiglia la Chiesa è ferma di Chiara Saraceno IL FOGLIO di sabato 9 aprile 2016 Pag 1 Gli eufemismi non veritativi di Francesco di Giuliano Ferrara Pag 1 Ma l’attesa rivoluzione non c’è stata di Matteo Matzuzzi IL GAZZETTINO di sabato 9 aprile 2016 Pag 1 Il cambio di passo che il Pontefice chiede alla Chiesa di Franco Garelli LA NUOVA di sabato 9 aprile 2016 Pag 1 La famiglia secondo Bergoglio di Andrea Sarubbi Pag 7 “Il sesso è un meraviglioso dono di Dio” di Mariaelena Finessi e Paolo Sacredo Il testo è stato più volte limato compromesso tra varie anime 1 – IL PATRIARCA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XI In 2500 al “ritmo” del Patriarca di g.bab. Jesolo: responsabilità e libertà al centro della riflessione con i ragazzi. Folla per la festa diocesana dei giovani con Moraglia LA NUOVA Pag 16 Festa diocesana, oltre 2500 ragazzi con il Patriarca di Alessio Conforti Jesolo: è stata una giornata intensa e di grande allegria. Moraglia: “Siete all’inizio del magnifico libro della vita” 2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 10 aprile 2016 Pag XIX Chiesa di Borbiago: da oggi all’opera due nuove suore di l.gia. AVVENIRE di sabato 9 aprile 2016 Pag 18 A Jesolo la festa diocesana rivolta agli adolescenti IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 9 aprile 2016 Pag XXIII Jesolo: in 2500 alla festa diocesana dei ragazzi di G.Bab. LA NUOVA di sabato 9 aprile 2016 Pag 43 Tornano a Treporti le spoglie di don Giorgio di Francesco Macaluso Giovedì 14 la cerimonia: al sacerdote sarà intitolato il patronato Pag 43 Jesolo: festa dei ragazzi con il Patriarca domani al Pala Arrex di g.ca. 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO di domenica 10 aprile 2016 Pag 8 Capaci di guardare negli occhi All’udienza giubilare Francesco spiega il significato e il valore dell’elemosina AVVENIRE di domenica 10 aprile 2016 Pag 3 L’ecumenismo dell’accoglienza di Riccardo Maccioni Lesbo e i “corridoi”: gesti comuni dei cristiani 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO IL GAZZETTINO di domenica 10 aprile 2016 Pag 1 Per la crescita serve investire nelle imprese di Romano Prodi 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO di domenica 10 aprile 2016 Pag 9 Denuncia l’infedeltà del testimone di Geova. Il giudice: dovere morale di Gianluca Amadori Cameriera rivelò alla congregazione di aver visto un fratello di fede con una donna diversa dalla moglie IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 10 aprile 2016 Pag XI Cresce l’eredità di don Franco di Maurizio Dianese A quattro mesi dalla scomparsa del fondatore il Centro Don Milani apre a nuovi progetti LA NUOVA di domenica 10 aprile 2016 Pag 21 Il dottor Temperini se n’è andato a 97 anni di s.b. Aveva lavorato in ospedale come urologo poi medico di famiglia e volontario a Betania Pag 45 Riecco le tarsie del Sansovino, gli arredi perduti di S. Marco di Enrico Tantucci Ospiti nella Sala di Sant’Apollonia quattro delle sei opere della raccolta IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 9 aprile 2016 Pag XIII Mestre “capitale” del Bangladesh di Elisio Trevisan Cinquemila persone risiedono stabilmente in città attratte dagli appalti in Fincantieri LA NUOVA di sabato 9 aprile 2016 Pag 23 Metal detector all’ingresso della Basilica di Enrico Tantucci L’annuncio del Procuratore di San Marco Carlo Alberto Tesserin. Già installato anche un sistema di telecamere interne Pag 26 Testamento biologico, sospeso il registro di Mitia Chiarin Oltre 400 le persone già iscritte in due anni. La convenzione con i notai è scaduta ma il Comune non l’ha rinnovata 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO di domenica 10 aprile 2016 Pag 9 Lavoro, studio e sport nell’oasi dei profughi: “Le caserme? E’ follia” di Martina Zambon L’esperienza della Coop Olivotti CORRIERE DEL VENETO di sabato 9 aprile 2016 Pag 1 Il Nordest e l’Islam percepito di Vittorio Filippi Aria di moderazione Pag 7 Il Veneto degli “hub” mascherati: “Così fallisce l’accoglienza diffusa” di Sara D’Ascenzo In sei casermoni si concentrano oltre 1.500 profughi. La Caritas: colpa di chi non decide Pag 19 Vicenza, il vescovo contro gli ex vertici: “Restituiscano quanto hanno sottratto” di Andrea Alba … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 La spinta a farsi del male di Angelo Panebianco LA REPUBBLICA Pag 15 L'allarme sondaggi e quel salto nel buio chiamato Italicum di Stefano Folli Il premier e l'incubo della lenta erosione dei consensi IL GAZZETTINO Pag 1 Legge sulle lobby, arma contro gli intrallazzi di Massimo Teodori Pag 2 Grillo sotto accusa per la finta “comunione” Il comico al termine del suo show ha distribuito grilli essiccati: “Questo è il mio corpo” LA NUOVA Pag 1 Con Giulio oltre le leggi degli Stati di Vincenzo Milanesi Pag 1 Se Panama fa tremare il mondo di Maurizio Mistri Pag 3 I lumbard, la Nigeria e il petrolio di Giancesare Flesca CORRIERE DELLA SERA di domenica 10 aprile 2016 Pag 1 La fermezza e la dignità di un Paese di Franco Venturini Pag 5 Le prossime mosse dell’Italia di Fiorenza Sarzanini Le misure possibili: pressioni internazionali, limiti agli scambi, freni al turismo. Ma il timore è di colpire anche la nostra economia Pag 6 Per l’80% il governo ora è meno credibile ma i più condividono le parole del premier di Nando Pagnoncelli LA REPUBBLICA di domenica 10 aprile 2016 Pag 1 Le vette di Francesco e la palude dove Renzi annaspa di Eugenio Scalfari Pag 1 Il Paese dei veleni diviso e indeciso di Ilvo Diamanti Grillo ora tallona il Pd e vincerebbe al ballottaggio, è l’effetto delle inchieste AVVENIRE di domenica 10 aprile 2016 Pagg 20 – 21 Politica, vita, libertà. Sorella sinistra dove sei? di Alessandro Zaccuri I forum di Avvenire LA NUOVA di domenica 10 aprile 2016 Pag 1 L’eccessiva prudenza dell’Italia di Renzo Guolo Pag 1 Il bottino delle ruberie nella sanità di Francesco Jori CORRIERE DELLA SERA di sabato 9 aprile 2016 Pag 1 Lotta ai corrotti, non al mercato di Antonio Polito L’inchiesta, i tabù e gli alibi Pag 1 Renzi: non andrà come sui marò di Francesco Verderami L’Italia alza il muro contro l’Egitto AVVENIRE di sabato 9 aprile 2016 Pag 3 La Spagna senza governo sogna una via “italiana” di Marco Olivetti La ricerca di una mediazione per uscire dallo stallo Pag 9 Usare tutte le leve con giusta decisione IL GAZZETTINO di sabato 9 aprile 2016 Pag 1 Così muteranno gli equilibri nel Mediterraneo di Alessandro Orsini LA NUOVA di sabato 9 aprile 2016 Pag 1 Se il premier è costretto a difendersi di Bruno Manfellotto Torna al sommario IN PRIMO PIANO - “AMORIS LAETITA”, L’ESORTAZIONE DEL PAPA DOPO IL SINODO AVVENIRE di domenica 10 aprile 2016 Pag 1 Come tutto cambia di Stefania Falasca Non cambia niente, ma cambia tutto. Qui è il paradosso, profondamente cristiano, di questa Esortazione. Perché con l’Amoris laetitia tutto può effettivamente cambiare. Niente cambia in termini di dottrina, tutto cambia e può cambiare se di questa dottrina, per grazia, si assumono gli occhi e il cuore che sono quelli di Cristo in carne e ossa. Da qui il primato prorompente e attrattivo dell’Amore, da qui la potenza della laetitia. Da qui il realismo e la sapienza che sa ascoltare e recepire le istanze nelle pieghe di ogni vita, che si legge in ogni pagina. Da qui finalmente un linguaggio dell’esperienza, comprensivo e comprensibile, concreto e profondo, nel quale ogni esperienza familiare, umana e esistenziale può riflettersi e riconoscersi e può sentire risuonare come una carezza la voce di quella grazia che allarga il respiro e spinge a crescere, o a rinascere. Papa Francesco non ha scritto l’Esortazione per soddisfare le scelte editoriali del momento. Scompaginate, peraltro, da un testo che disinnesca naturaliter le stantie cospirazioni delle agende liberali o conservatrici e riconosce – come su questa prima pagina è stato subito evidenziato – che «i dibattiti che si trovano nei mezzi di comunicazione o nelle pubblicazioni e perfino tra i ministri della Chiesa vanno da un desiderio sfrenato di cambiare tutto senza sufficiente riflessione o fondamento, all’atteggiamento che pretende di risolvere tutto applicando normative generali o traendo conclusioni eccessive da alcune riflessioni teologiche» (Al 2). Così come riconosce che «per molto tempo abbiamo creduto che solamente insistendo su questioni dottrinali, bioetiche e morali, senza motivare l’apertura alla grazia, avessimo già sostenuto a sufficienza le famiglie, consolidato il vincolo degli sposi e riempito di significato la loro vita insieme» (Al 37). La scommessa da cui muove il testo papale è un’altra: abbandonata ogni idealizzazione e astrattismo guardare alle realtà e ai legami familiari «così come sono» e far intravedere il tesoro desiderabile di bellezza, grandezza umana e gratuità che vive almeno potenzialmente in ogni relazione familiare. E suggerire la sorgente che la alimenta a partire da un centro: l’amore. Non quello del sentimentalismo ma quello del «fare il bene». Quello dell’Inno alla carità di san Paolo, senza la quale nessun essere umano può dirsi tale. È questa la sorgente da cui scaturisce l’unità e l’apertura di sguardo, conforme al fondamento del suo intero magistero, con la quale Francesco snoda l’Esortazione, includendo e armonizzando i contributi dei due Sinodi sulla famiglia. Sguardo è una parola chiave che ricorre continuamente nel tessuto del testo. È «lo sguardo amabile», «lo sguardo di Cristo, la cui luce rischiara ogni uomo» dice citando la Gaudium et spes, che dispone a comprendere, discernere e accompagnare, che incoraggia soprattutto e orienta a percorsi nella consapevolezza di essere chiamati come Chiesa «a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle». L’espressione Amoris laetitia dice l’ispirazione positiva e aperta e il suo riferimento alla gioia, assonante nell’ispirazione alla Evangelii gaudium. Il «primo compito dei pastori deve essere quello di custodire questa gioia e di valorizzare ciò che è attrattivo nella vita familiare», senza catalogare e senza categorizzare, con quello sguardo di fondamentale benevolenza che ha che fare con gli occhi di Gesù che non escludono nessuno, che accoglie tutti e a tutti concede la gioia del Vangelo. Così la famiglia, come cifra e caleidoscopio della condizione umana, incrocia le 'strade di felicità» (Al 38). È una esperienza fragile e complessa che mette in gioco non le idee, ma le persone, perché «nessuna famiglia è una realtà perfetta e confezionata una volta per sempre, ma richiede un graduale sviluppo della propria capacità di amare» (Al 325). È la via propria di una Chiesa conformata a Cristo e su tale via, anche le parole della Chiesa sul matrimonio e la famiglia risultano efficaci solo quando ne sono riflesso chiaro. Questo significa assimilare la profonda trasformazione di atteggiamento mentale che ispira lo stile dell’esortazione, demolendo ogni malsana postura da «giusto incallito». E se l’Esortazione papale vuole imprimere un cambio di passo all’atteggiamento della Chiesa e la sua immersione nella concretezza storica, questa non è solo un nuovo punto di partenza per l’attuazione di una nuova logica pastorale, questa è la riforma dell’amore. Che può imprimersi solo da una coscienza rinata. L’Amoris laetitia è la maglia rotta nella rete, il punto di fuga per restituirci la divina letizia di quell’umanità perduta nel mare nostrum della società liquida, che sempre più rende relitti e profughi della vita. Pag 5 Paglia: una svolta storica per la famiglia di Luciano Moia “Discernere e integrare? Sì, ma caso per caso, in dialogo con il confessore” E ora la domanda che si fanno tutti è la stessa: concretamente cosa cambia? Che conseguenze avrà questa Esortazione nella vita delle nostre comunità? «C’è un evidente cambio di passo e di stile che va a toccare la forma stessa della Chiesa. Sono parole, quelle di Francesco, che segnano un cambio di prospettive. Una svolta che non dobbiamo avere paura di definire storica». L’arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente del Pontificio Consiglio per la famiglia, ha seguito passo dopo passo da protagonista il percorso sinodale, è intervenuto in molte occasioni, ha orientato il dibattito rilasciando interviste e dichiarazioni ai media di tutto il mondo. Insomma, quasi inutile sottolinearlo, conosce a fondo gli argomenti dell’Esortazione e li ha visti nascere molto da “vicino”. Eccellenza, perché dobbiamo considerare l’“Amoris laetitia” un passo decisivo della Chiesa nell’incontro con le famiglie? La differenza fra l’atteggiamento notarile e la responsabilità morale nei confronti delle vicissitudini della famiglia, da parte della Chiesa stessa, è un punto d’onore iscritto nella sua stessa dottrina, non un adattamento imposto dalle trasformazioni mondane. Non solo. Nella logica che ispira la sintesi che il Papa offre della maturazione sinodale della coscienza ecclesiale. La stessa consacrazione del ministero ecclesiastico è per la vita di fede della famiglia, e non viceversa. La Chiesa, dunque, non potrà svolgere il compito che le è assegnato da Dio nei confronti della famiglia, se non coinvolgerà le famiglie in questo stesso compito, secondo lo stile di Dio. E pertanto, senza assumere essa stessa i tratti di una comunione familiare. Quali sono nel testo papale i passaggi concreti che evidenziano questa trasformazione? I segni forti di questo raddrizzamento di rotta sono almeno due. Il matrimonio è indissolubile, ma il legame della Chiesa con i figli e le figlie di Dio lo è ancora di più: perché è come quello che Cristo ha stabilito con la Chiesa, piena di peccatori che sono stati amati quando ancora lo erano. E non sono abbandonati, neppure quando ci ricascano. Questo, come dice l’apostolo Paolo, è proprio un mistero grande, che va decisamente oltre ogni romantica metafora d un amore che rimane in vita soltanto nell’idillio di “due cuori e una capanna”. Il secondo segno è la conseguente piena consegna al vescovo di questa responsabilità ecclesiale sapendo che il supremo principio è la salus animarum (un’affermazione solenne che chiude il Codice di Diritto Canonico, ma che spesso viene dimenticata). Il vescovo è giudice in quanto pastore. E il pastore riconosce le sue pecore anche quando hanno smarrito la strada. Il suo scopo ultimo è sempre quello di riportarle a casa, dove può curarle e guarirle, mentre non lo può fare se le lascia dove sono abbandonandole al suo destino perché “se lo sono cercato”. Oggi la Chiesa, i vescovi, i sacerdoti, i nostri uffici di pastorale familiare, sono in grado di accogliere questa trasformazione? C’è davvero da sperare che tutti, vescovi, sacerdoti, fedeli sappiano aiutare e accompagnare. Questa trasformazione, se è accolta con fede, è destinata a rivoluzionare decisamente lo sguardo con il quale deve essere percepita la Chiesa dei credenti nel passaggio dell’epoca. La chiave di questa trasformazione non si trova, come è sembrato, nell’equivoca disputa che ha polarizzato gli inizi di questo cammino sinodale, nel presunto conflitto (o alternativa) fra rigore della dottrina e condiscendenza pastorale. Infatti, in questi anni di cammino sinodale si è parlato spesso della presunta contrapposizione tra dottrina e pastorale. Ora si dice che questo testo rafforza l’unità dottrinale nella pluralità pastorale. Ma è davvero così? Sì, le novità che il Papa introduce non significano rinunciare ad illuminare la verità del cammino della fede e le forti esigenze della sequela del Signore. Al contrario, significa assumere lo sguardo di Gesù e lo stile di Dio che egli ha chiaramente espresso nelle sue parole, nei suoi gesti, nei suoi incontri. Bisogna avere più audacia nel proporre l’ideale. La verità del Vangelo di Gesù è per la conversione all’amore di Dio, e la conversione dell’amore di Dio è l’interpretazione più esatta della verità del Vangelo. La dimostrazione dell’amore di Dio nella pratica della Chiesa è il cuore della verità della fede. L’interpretazione della dottrina che non è capace di onorare questa testimonianza nell’azione pastorale allontana la tradizione della fede dalla fedeltà alla rivelazione. Ritiene che questa Esortazione rifletta davvero le indicazioni emerse dal “doppio” Sinodo 2014-2015? Il testo papale è il frutto di un lungo e articolato cammino della Chiesa, della quale registra un cambio di passo e di stile. Il caloroso invito di papa Francesco a un confronto franco e aperto sui temi reali, non sulle questioni di scuola, lo ha poi visto attento e partecipe della trasformazione di approccio che ne è infine scaturita. Il cammino è stato segnato da una progressione di inconsueta ampiezza e coinvolgimento: una riunione programmatica di cardinali all’inizio, due assemblee sinodali a breve distanza – più volte il Papa sottolinea di aver «accolto» le indicazioni proposte dai vescovi –, un ciclo di catechesi papali di oltre un anno, due consultazioni universali sui temi della famiglia. L’interesse dell’opinione pubblica mondiale è stato di eccezionale vivacità e continuità, nell’ambito della storia dei Sinodi mondiali dei vescovi. Il testo non manca di accogliere gli insegnamenti del magistero in particolare di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Inutile negare che le attenzioni maggiori si concentreranno sul capitolo ottavo, quello sulla cura delle famigli ferite. Ci si attendeva un passo in avanti più concreto? Il Papa indica la pista di soluzione con tre verbi: accompagnare, discernere e integrare. In verità l’intero testo delinea un nuovo asse della vita pastorale della Chiesa che il Papa iscrive nell’orizzonte della Misericordia sulla scia della Evangelii gaudium: una Chiesa dedicata ad accompagnare e integrare tutti, nessuno escluso. Il discernimento deve scoprire ovunque ci sono i «segni di amore che in qualche modo riflettono l’amore di Dio» (294) per «integrare tutti» (297). Ogni persona deve trovare posto nella Chiesa per crescere sino alla piena incorporazione a Cristo. E «nessuno può essere condannato per sempre» (297). Il Papa non ritiene necessaria pertanto una «nuova normativa generale di tipo canonico» (300), ma chiede un «responsabile discernimento personale e pastorale dei casi particolari» (300). La parola d’ordine consegnata ai Vescovi è semplice e diretta: accompagnare, discernere, integrare nella comunità cristiana. Un compito non da poco. Ma concretamente a chi toccherà decidere la prassi del discernimento e dell’accompagnamento? E le modalità dell’integrazione? Il vescovo dovrà aiutare i confessori, i padri spirituali, perché si aprano alla misericordia, coniugando l’ideale con la pedagogia divina. Ma saranno poi confessore e fedele in dialogo a valutare serenamente i passi dell’integrazione, anche per ritessere una rete comunitaria. La salvezza non è mai “fai da te”. In questo itinerario, che dev’essere comunque sempre valutato caso per caso, si inserisce la via sacramentale. È questa la conversione pastorale auspicata dal Papa? La fede condivisa e l’amore fraterno possono fare miracoli, anche nelle situazioni più difficili. L’accesso alla grazia di Dio, che, accolta, genera la conversione del peccatore, è una cosa seria. La dottrina cattolica del giudizio morale, forse un po’ trascurata, è rimessa in onore: la qualità morale dei processi di conversione non coincide automaticamente con la definizione legale degli stati di vita. Non è un calcolo legale da applicare, né un processo da decidere ad arbitrio. Le indicazioni di Francesco sono chiare: «Oggi, più importante di una pastorale dei fallimenti è lo sforzo pastorale per consolidare i matrimoni e così prevenire le rotture» (307). CORRIERE DELLA SERA di domenica 10 aprile 2016 Pag 29 L’abbraccio del Papa a trans e prostitute di Luigi Accattoli Nuovo gesto di abbraccio ai tribolati da parte di Francesco, in linea con le aperture del documento sulla «Gioia di amare» pubblicato venerdì: ieri ha incontrato in Piazza San Pietro (al margine di un’udienza «giubilare») un gruppo di 50 donne e transessuali, provenienti da dieci Paesi, che hanno conosciuto l’esperienza della prostituzione e della tratta. Papa Bergoglio, scrive l’Osservatore Romano, ha avuto con loro un «significativo abbraccio» per incoraggiarli nell’impegno a «ritrovare una vita libera». Venivano da Reggio Emilia ed erano guidati dall’associazione Rabbuni (Maestro), diretta da don Daniele Simonazzi. Mercoledì, sempre a San Pietro, Francesco aveva incontrato 85 divorziati risposati appartenenti all’associazione di Fossano «L’anello perduto». Paolo Tassinari, coordinatore del gruppo ha riferito alcune parole dette loro dal Papa: «Bravi, continuate così. Leggete Amoris laetitia (la gioia dell’amore: l’esortazione pubblicata ieri) e seguitela». L’esortazione è infatti una magna charta per l’incontro della Chiesa con ogni esperienza di amore: sia quello felice sia quello tribolato e irregolare. Un testo (dice il Papa stesso) che si ispira alla «logica della misericordia pastorale», che mira a «integrare tutti» nella vita della Chiesa. È in forza di questo criterio che Francesco ha rivolto (nel suo documento) parole di accoglienza ai battezzati che vivono in una seconda unione: «Devono essere integrati e non esclusi». In «certi casi», ha scritto il Papa nel documento, possono essere ammessi ai sacramenti. C’è chi vi vede un mutamento della dottrina sul matrimonio, ma il Papa non la pensa così. In una lettera ai vescovi di tutto il mondo, inviata qualche giorno addietro dal segretario del Sinodo, il cardinale Baldisseri, così è presentata l’intenzione di Francesco: «Scopo del testo non è cambiare la dottrina ma ricontestualizzarla al servizio della missione pastorale della Chiesa. La dottrina va interpretata in relazione al cuore del kerygma cristiano (cioè del messaggio evangelico, ndr) e alla luce del contesto pastorale in cui verrà applicata, sempre ricordando che la suprema legge dev’essere la salute delle anime». La «ricontestualizzazione» di un’affermazione dottrinale è un concetto noto al dibattito teologico cattolico. Si tratta (per dirla con Hans Urs Von Balthasar, teologo svizzero fatto cardinale da Wojtyla) di «integrare in una totalità più grande un’affermazione dottrinale già definita» (Il complesso antiromano, 1974). Von Balthasar parlava di «nuova contestualizzazione» a proposito della dottrina della collegialità, intesa come «una totalità più grande» all’interno della quale comprendere il dogma dell’infallibilità del Papa. Ora Francesco ci invita a rileggere l’indissolubilità del matrimonio nel contesto più ampio della dottrina della misericordia come «architrave che sorregge la vita della Chiesa» e che può e deve raggiungere tutti e ognuno «in qualunque situazione si trovi». LA NUOVA di domenica 10 aprile 2016 Pag 10 La svolta spacca la Chiesa, Francesco non si ferma di Mariaelena Finessi “Amoris laetitia” è già best seller Roma. A poche ore dall’uscita ufficiale, “Amoris laetitia” è già un best seller, con una prima tiratura di 4 milioni di copie distribuite da 60 case editrici. C’era da aspettarselo: grande è stata l’attesa per la nuova esortazione apostolica, voluta da papa Francesco per provare a sanare le ferite di tante famiglie. Un documento che segna un passo storico per la Chiesa. «Leggo “Amoris laetitia” con gioia ed emozione perché sento che il discorso sulle situazioni difficili che si trovano a vivere alcune coppie sta cambiando». Scelto dal Vaticano per commentare il contenuto dell’esortazione, il cardinale di Vienna Cristoph Schonborn proviene da una famiglia segnata dal divorzio, «una famiglia patchwork», come dice. Se Schonborn appoggia la linea di Francesco, c’è chi invece nei sacri palazzi mette paletti ad ogni interpretazione allargata. Intervistato da Repubblica, il cardinale ultraconservatore Raymond Leo Burke spiega: «Amoris laetitia non ha lo scopo di cambiare la pastorale della Chiesa per quanto riguarda quelli che vivono in una unione irregolare, ma di applicare fedelmente la pastorale costante della Chiesa, quale espressione fedele della pastorale di Cristo stesso, nel contesto della cultura odierna». Detto così, sembrerebbe che nulla sia cambiato. Idem per il discorso sulla sessualità, «un dono meraviglioso» per papa Francesco. «È chiaro - continua il canonista statunitense che associa l’eros all’atto generativo - che il sesso è un dono di Dio come Dio stesso rivela nel Libro della Genesi. Il male negli atti sessuali viene dal cuore dell’uomo che non rispetta la sua propria natura». Eppure a tantissimi è sembrato che Francesco abbia detto se non qualcosa di diverso, almeno qualcosa di più. In un passo del corposo testo, sorta di vademecum per migliorare la vita familiare e di coppia, Bergoglio scrive infatti che il matrimonio «è un’amicizia che comprende le note proprie della passione» e che «non è stato istituito - qui cita san Roberto Bellarmino - soltanto per la procreazione», ma affinché l’amore reciproco «abbia le sue giuste manifestazioni, si sviluppi e arrivi a maturità». Quanto alla comunione ai divorziati e risposati, la soluzione che il Papa ha accolto - attirando le critiche dei cattolici conservatori - punta a un percorso penitenziale che renda possibile l’integrazione nella Chiesa perché «nessuno può essere condannato per sempre». Intanto, quando arriva l’annuncio del viaggio che il Papa farà in Armenia dal 24 al 26 giugno e in Georgia e Azerbaijan dal 30 settembre al 2 ottobre, Francesco è in piazza San Pietro per l’udienza giubilare. Ad attenderlo, un gruppo di donne e transessuali vittime della tratta e della prostituzione, sostenute dall’associazione Rabbunì, dall’aramaico “Maestro”, come si rivolse a Gesù la Maddalena. E così, mentre nella Chiesa ci si divide su cosa voglia dire “Amoris laetitia”, il papa argentino va avanti per la sua strada che è quella di non negare a nessuno la carezza di Gesù il Rabbunì. L’OSSERVATORE ROMANO di sabato 9 aprile 2016 Pag 1 Per il bene di tutti di g.m.v. Da tempo un testo papale non suscitava tanta attesa come quello che ora è il frutto maturo del cammino intrapreso sulla famiglia già dal primo anno del pontificato di Francesco. E il lunghissimo documento non delude le attese, per ampiezza, coralità, linguaggio: tutti elementi che concorrono alla sua novità di fondo, nella vitale continuità della tradizione cristiana, su un tema che interessa non soltanto i cattolici. Ed è poi la prima volta che a essere raccolte in un unico testo sono le linee, espresse a larghissima maggioranza, di due assemblee sinodali, a loro volta preparate con ampie consultazioni e poi succedutesi nel corso di un anno. Quale sia lo scopo dell’esortazione sulla «gioia dell’amore» è sottolineato dallo stesso Pontefice nel brevissimo chirografo, interamente di suo pugno, che la accompagna e dove si legge che il testo è «per il bene di tutte le famiglie e di tutte le persone, giovani e anziane». La circostanza è inusuale e conferma una volta di più quanto a Francesco, Papa missionario, stia a cuore la realtà umana delle famiglie. Un dato di fatto multiforme, questo, di fronte al quale proprio «a partire dalle riflessioni sinodali non rimane uno stereotipo della famiglia ideale», bensì un vero e proprio «mosaico», formato appunto «da tante realtà diverse» sottolinea con lucidità l’esortazione. Di questa situazione variegata tiene conto il documento sinodale, testo corale che esprime con grande equilibrio un cammino comune, secondo un metodo antico quasi come la Chiesa stessa. E almeno altrettanto antichi sono i principi che ispirano il testo e risalgono a radici ancor più antiche che s’intravvedono tra le linee di un testo piano e scorrevole: la condiscendenza (synkatàbasis) divina descritta dai Padri della Chiesa per esprimere l’attenzione di Dio e il suo abbraccio nei confronti della condizione umana, sempre imperfetta, fino alla sollecitudine e alle parabole di Gesù, il Signore che la liturgia chiama «amico degli uomini», e al principio dei «semi del Logos» che bisogna sforzarsi di riconoscere presenti in ogni realtà umana. L’esortazione è lunghissima e si svolge con larghezza toccando diversi punti: da una visione della Scrittura alla situazione attuale delle famiglie, il testo espone l’insegnamento della Chiesa e la sua traduzione nella vita quotidiana dei fedeli, soffermandosi sull’educazione dei figli, invitando «alla misericordia e al discernimento pastorale davanti a situazioni che non rispondono pienamente a quello che il Signore ci propone» e tracciando infine un abbozzo di spiritualità per le famiglie. Per l’estensione e la ricchezza del testo, a tratti suggestivo e felice anche nel ricorrere a fonti non abituali nei documenti pontifici, lo stesso Papa sconsiglia una «lettura generale affrettata» e ne suggerisce piuttosto un approfondimento paziente. Come per i due precedenti grandi testi del pontificato (Evangelii gaudium e Laudato si’) si può già ora prevedere che Amoris laetitia susciterà interesse e discussioni vivaci, non soltanto nella Chiesa, in particolare sugli aspetti cruciali dell’integrazione e della vicinanza ai fedeli in situazioni difficili. Questo interesse è un buon segno, come una buona notizia è senza dubbio la novità espressa dall’esortazione, in coerenza con la grande tradizione cristiana e con il suo rinnovamento voluto mezzo secolo fa dal concilio. Pag 4 La gioia dell’amore Presentata l’esortazione apostolica postsinodale “Amoris laetitia” sulla famiglia frutto delle assemblee tenute nel 2014 e nel 2015 È stata presentata venerdì mattina, 8 aprile, nella Sala stampa della Santa Sede, l’esortazione apostolica postsinodale «Amoris laetitia», sull’amore nella famiglia, che raccoglie i frutti dei due sinodi dei vescovi sull’amore nella famiglia celebrati nel 2014 e nel 2015. Di seguito pubblichiamo una sintesi del documento, articolato in nove capitoli per complessivi 325 paragrafi. Amoris laetitia (AL - “La gioia dell’amore”), l’Esortazione apostolica postsinodale “sull’amore nella famiglia”, datata non a caso 19 marzo, solennità di San Giuseppe, raccoglie i risultati di due sinodi sulla famiglia indetti da Papa Francesco nel 2014 e nel 2015, le cui relazioni conclusive sono largamente citate, insieme a documenti e insegnamenti dei suoi predecessori e alle numerose catechesi sulla famiglia dello stesso Papa Francesco. Tuttavia, come già accaduto per altri documenti magisteriali, il Papa si avvale anche dei contributi di diverse conferenze episcopali del mondo (Kenya, Australia, Argentina…) e di citazioni di personalità significative come Martin Luther King o Erich Fromm. Particolare una citazione dal film Il pranzo di Babette, che il Papa ricorda per spiegare il concetto di gratuità. Premessa - L’esortazione apostolica colpisce per ampiezza e articolazione. Essa è suddivisa in nove capitoli e oltre trecento paragrafi. Ma si apre con sette paragrafi introduttivi che mettono in piena luce la consapevolezza della complessità del tema e l’approfondimento che richiede. Si afferma che gli interventi dei Padri al sinodo hanno composto un «prezioso poliedro» (AL, 4) che va preservato. In questo senso il Papa scrive che «non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero». Dunque per alcune questioni «in ogni paese o regione si possono cercare soluzioni più inculturate, attente alle tradizioni e alle sfide locali. Infatti, “le culture sono molto diverse tra loro e ogni principio generale [...] ha bisogno di essere inculturato, se vuole essere osservato e applicato”» (AL, 3). Questo principio di inculturazione risulta davvero importante persino nel modo di impostare e comprendere i problemi che, aldilà delle questioni dogmatiche ben definite dal Magistero della Chiesa, non può essere «globalizzato». Ma soprattutto il Papa afferma subito e con chiarezza che bisogna uscire dalla sterile contrapposizione tra ansia di cambiamento e applicazione pura e semplice di norme astratte. Scrive: «I dibattiti che si trovano nei mezzi di comunicazione o nelle pubblicazioni e perfino tra i ministri della Chiesa vanno da un desiderio sfrenato di cambiare tutto senza sufficiente riflessione o fondamento, all’atteggiamento che pretende di risolvere tutto applicando normative generali o traendo conclusioni eccessive da alcune riflessioni teologiche» (AL, 2). Capitolo primo “Alla luce della Parola” - Poste queste premesse, il Papa articola la sua riflessione a partire dalle Sacre Scritture con il primo capitolo, che si sviluppa come una meditazione sul Salmo 128, caratteristico della liturgia nuziale ebraica come di quella cristiana. La Bibbia «è popolata da famiglie, da generazioni, da storie di amore e di crisi familiari» (AL, 8) e a partire da questo dato si può meditare come la famiglia non sia un ideale astratto, ma un «compito “artigianale”» (AL, 16) che si esprime con tenerezza (AL, 28) ma che si è confrontato anche con il peccato sin dall’inizio, quando la relazione d’amore si è trasformata in dominio (cfr. AL, 19). Allora la Parola di Dio «non si mostra come una sequenza di tesi astratte, bensì come una compagna di viaggio anche per le famiglie che sono in crisi o attraversano qualche dolore, e indica loro la meta del cammino» (AL, 22). Capitolo secondo “La realtà e le sfide delle famiglie” - A partire dal terreno biblico nel secondo capitolo il Papa considera la situazione attuale delle famiglie, tenendo «i piedi per terra» (AL, 6), attingendo ampiamente alle relazioni conclusive dei due sinodi e affrontando numerose sfide, dal fenomeno migratorio alla negazione ideologica della differenza di sesso (“ideologia del gender”); dalla cultura del provvisorio alla mentalità antinatalista e all’impatto delle biotecnologie nel campo della procreazione; dalla mancanza di casa e di lavoro alla pornografia e all’abuso dei minori; dall’attenzione alle persone con disabilità, al rispetto degli anziani; dalla decostruzione giuridica della famiglia, alla violenza nei confronti delle donne. Il Papa insiste sulla concretezza, che è una cifra fondamentale dell’esortazione. E sono la concretezza e il realismo che pongono una sostanziale differenza tra «teorie» di interpretazione della realtà e «ideologie». Citando la Familiaris consortio Francesco afferma che «è sano prestare attenzione alla realtà concreta, perché “le richieste e gli appelli dello Spirito risuonano anche negli stessi avvenimenti della storia”, attraverso i quali “la Chiesa può essere guidata ad una intelligenza più profonda dell’inesauribile mistero del matrimonio e della famiglia”» (AL, 31). Senza ascoltare la realtà non è possibile comprendere né le esigenze del presente né gli appelli dello Spirito, dunque. Il Papa nota che l’individualismo esasperato rende difficile oggi donarsi a un’altra persona in maniera generosa (cfr. AL, 33). Ecco una interessante fotografia della situazione: «Si teme la solitudine, si desidera uno spazio di protezione e di fedeltà, ma nello stesso tempo cresce il timore di essere catturati da una relazione che possa rimandare il soddisfacimento delle aspirazioni personali» (AL, 34). L’umiltà del realismo aiuta a non presentare «un ideale teologico del matrimonio troppo astratto, quasi artificiosamente costruito, lontano dalla situazione concreta e dalle effettive possibilità delle famiglie così come sono» (AL, 36). L’idealismo allontana dal considerare il matrimonio quel che è, cioè un «cammino dinamico di crescita e realizzazione». Per questo non bisogna neanche credere che le famiglie si sostengano «solamente insistendo su questioni dottrinali, bioetiche e morali, senza motivare l’apertura alla grazia» (AL, 37). Invitando a una certa “autocritica” di una presentazione non adeguata della realtà matrimoniale e familiare, il Papa insiste che è necessario dare spazio alla formazione della coscienza dei fedeli: «Siamo chiamati a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle» (AL, 37). Gesù proponeva un ideale esigente ma «non perdeva mai la vicinanza compassionevole alle persone fragili come la samaritana o la donna adultera» (AL, 38). Capitolo terzo “Lo sguardo rivolto a Gesù: la vocazione della famiglia” - Il terzo capitolo è dedicato ad alcuni elementi essenziali dell’insegnamento della Chiesa circa il matrimonio e la famiglia. La presenza di questo capitolo è importante perché illustra in maniera sintetica in trenta paragrafi la vocazione alla famiglia secondo il Vangelo così come è stata recepita dalla Chiesa nel tempo, soprattutto sul tema della indissolubilità, della sacramentalità del matrimonio, della trasmissione della vita e della educazione dei figli. Vengono ampiamente citate la Gaudium et spes del Vaticano II, la Humanae vitae di Paolo VI, la Familiaris consortio di Giovanni Paolo II. Lo sguardo è ampio e include anche le «situazioni imperfette». Leggiamo infatti: «“Il discernimento della presenza dei semina Verbi nelle altre culture (cfr. Ad gentes, 11) può essere applicato anche alla realtà matrimoniale e familiare. Oltre al vero matrimonio naturale ci sono elementi positivi presenti nelle forme matrimoniali di altre tradizioni religiose”, benché non manchino neppure le ombre» (AL, 77). La riflessione include anche le «famiglie ferite» di fronte alle quali il Papa afferma - citando la Relatio finalis del Sinodo del 2015 - che «occorre sempre ricordare un principio generale: “Sappiano i pastori che, per amore della verità, sono obbligati a ben discernere le situazioni” (Familiaris consortio, 84). Il grado di responsabilità non è uguale in tutti i casi, e possono esistere fattori che limitano la capacità di decisione. Perciò, mentre va espressa con chiarezza la dottrina, sono da evitare giudizi che non tengono conto della complessità delle diverse situazioni, ed è necessario essere attenti al modo in cui le persone vivono e soffrono a motivo della loro condizione» (AL, 79). Capitolo quarto “L’amore nel matrimonio” - Il quarto capitolo tratta dell’amore nel matrimonio, e lo illustra a partire dall’“inno all’amore” di San Paolo in 1 Cor 13, 4-7. Il capitolo è una vera e propria esegesi attenta, puntuale, ispirata e poetica del testo paolino. Potremmo dire che si tratta di una collezione di frammenti di un discorso amoroso che è attento a descrivere l’amore umano in termini assolutamente concreti. Si resta colpiti dalla capacità di introspezione psicologica che segna questa esegesi. L’approfondimento psicologico entra nel mondo delle emozioni dei coniugi - positive e negative - e nella dimensione erotica dell’amore. Si tratta di un contributo estremamente ricco e prezioso per la vita cristiana dei coniugi, che non aveva finora paragone in precedenti documenti papali. A suo modo questo capitolo costituisce un trattatello dentro la trattazione più ampia, pienamente consapevole della quotidianità dell’amore che è nemica di ogni idealismo: «non si deve gettare sopra due persone limitate - scrive il Pontefice - il tremendo peso di dover riprodurre in maniera perfetta l’unione che esiste tra Cristo e la sua Chiesa, perché il matrimonio come segno implica “un processo dinamico, che avanza gradualmente con la progressiva integrazione dei doni di Dio”» (AL, 122). Ma d’altra parte il Papa insiste in maniera forte e decisa sul fatto che «nella stessa natura dell’amore coniugale vi è l’apertura al definitivo» (AL, 123), proprio all’interno di quella «combinazione di gioie e di fatiche, di tensioni e di riposo, di sofferenze e di liberazioni, di soddisfazioni e di ricerche, di fastidi e di piaceri» (AL, 126) che è appunto il matrimonio. Il capitolo si conclude con una riflessione molto importante sulla «trasformazione dell’amore» perché «il prolungarsi della vita fa sì che si verifichi qualcosa che non era comune in altri tempi: la relazione intima e la reciproca appartenenza devono conservarsi per quattro, cinque o sei decenni, e questo comporta la necessità di ritornare a scegliersi a più riprese» (AL, 163). L’aspetto fisico muta e l’attrazione amorosa non viene meno ma cambia: il desiderio sessuale col tempo si può trasformare in desiderio di intimità e “complicità”. «Non possiamo prometterci di avere gli stessi sentimenti per tutta la vita. Ma possiamo certamente avere un progetto comune stabile, impegnarci ad amarci e a vivere uniti finché la morte non ci separi, e vivere sempre una ricca intimità» (AL, 163). Capitolo quinto “L’amore che diventa fecondo” - Il quinto capitolo è tutto concentrato sulla fecondità e la generatività dell’amore. Si parla in maniera spiritualmente e psicologicamente profonda dell’accogliere una nuova vita, dell’attesa propria della gravidanza, dell’amore di madre e di padre. Ma anche della fecondità allargata, dell’adozione, dell’accoglienza del contributo delle famiglie a promuovere una “cultura dell’incontro”, della vita nella famiglia in senso ampio, con la presenza di zii, cugini, parenti dei parenti, amici. L’Amoris laetitia non prende in considerazione la famiglia «mononucleare», perché è ben consapevole della famiglia come rete di relazioni ampie. La stessa mistica del sacramento del matrimonio ha un profondo carattere sociale (cfr. AL, 186). E all’interno di questa dimensione sociale il Papa sottolinea in particolare sia il ruolo specifico del rapporto tra giovani e anziani, sia la relazione tra fratelli e sorelle come tirocinio di crescita nella relazione con gli altri. Capitolo sesto “Alcune prospettive pastorali” - Nel sesto capitolo il Papa affronta alcune vie pastorali che orientano a costruire famiglie solide e feconde secondo il piano di Dio. In questa parte l’esortazione fa largo ricorso alle relazioni conclusive dei due sinodi e alle catechesi di Papa Francesco e di Giovanni Paolo II. Si ribadisce che le famiglie sono soggetto e non solamente oggetto di evangelizzazione. Il Papa rileva «che ai ministri ordinati manca spesso una formazione adeguata per trattare i complessi problemi attuali delle famiglie» (AL, 202). Se da una parte bisogna migliorare la formazione psicoaffettiva dei seminaristi e coinvolgere di più la famiglia nella formazione al ministero (cfr. AL, 203), dall’altra «può essere utile (…) anche l’esperienza della lunga tradizione orientale dei sacerdoti sposati» (AL, 202). Quindi il Papa affronta il tema del guidare i fidanzati nel cammino di preparazione al matrimonio, dell’accompagnare gli sposi nei primi anni della vita matrimoniale (compreso il tema della paternità responsabile), ma anche in alcune situazioni complesse e in particolare nelle crisi, sapendo che «ogni crisi nasconde una buona notizia che occorre saper ascoltare affinando l’udito del cuore» (AL, 232). Si analizzano alcune cause di crisi, tra cui una maturazione affettiva ritardata (cfr. AL, 239). Inoltre si parla anche dell’accompagnamento delle persone abbandonate, separate o divorziate e si sottolinea l’importanza della recente riforma dei procedimenti per il riconoscimento dei casi di nullità matrimoniale. Si mette in rilievo la sofferenza dei figli nelle situazioni conflittuali e si conclude: «Il divorzio è un male, ed è molto preoccupante la crescita del numero dei divorzi. Per questo, senza dubbio, il nostro compito pastorale più importante riguardo alle famiglie è rafforzare l’amore e aiutare a sanare le ferite, in modo che possiamo prevenire l’estendersi di questo dramma nella nostra epoca» (AL, 246). Si toccano poi le situazioni dei matrimoni misti e di quelli con disparità di culto, e la situazione delle famiglie che hanno al loro interno persone con tendenza omosessuale, ribadendo il rispetto nei loro confronti e il rifiuto di ogni ingiusta discriminazione e di ogni forma di aggressione o violenza. Pastoralmente preziosa è la parte finale del capitolo: «Quando la morte pianta il suo pungiglione», sul tema della perdita delle persone care e della vedovanza. Capitolo settimo “Rafforzare l’educazione dei figli” - Il settimo capitolo è tutto dedicato all’educazione dei figli: la loro formazione etica, il valore della sanzione come stimolo, il paziente realismo, l’educazione sessuale, la trasmissione della fede, e più in generale la vita familiare come contesto educativo. Interessante la saggezza pratica che traspare a ogni paragrafo e soprattutto l’attenzione alla gradualità e ai piccoli passi «che possano essere compresi, accettati e apprezzati» (AL, 271). Vi è un paragrafo particolarmente significativo e pedagogicamente fondamentale nel quale Francesco afferma chiaramente che «l’ossessione non è educativa, e non si può avere un controllo di tutte le situazioni in cui un figlio potrebbe trovarsi a passare (…). Se un genitore è ossessionato di sapere dove si trova suo figlio e controllare tutti i suoi movimenti, cercherà solo di dominare il suo spazio. In questo modo non lo educherà, non lo rafforzerà, non lo preparerà ad affrontare le sfide. Quello che interessa principalmente è generare nel figlio, con molto amore, processi di maturazione della sua libertà, di preparazione, di crescita integrale, di coltivazione dell’autentica autonomia» (AL, 261). Notevole è la sezione dedicata all’educazione sessuale, intitolata molto espressivamente: «Sì all’educazione sessuale». Si sostiene la sua necessità e ci si domanda «se le nostre istituzioni educative hanno assunto questa sfida (…) in un’epoca in cui si tende a banalizzare e impoverire la sessualità». Essa va realizzata «nel quadro di un’educazione all’amore, alla reciproca donazione» (AL, 280). Si mette in guardia dall’espressione “sesso sicuro”, perché trasmette «un atteggiamento negativo verso la naturale finalità procreativa della sessualità, come se un eventuale figlio fosse un nemico dal quale doversi proteggere. Così si promuove l’aggressività narcisistica invece dell’accoglienza» (AL, 283). Capitolo ottavo “Accompagnare, discernere e integrare la fragilità” - Il capitolo ottavo costituisce un invito alla misericordia e al discernimento pastorale davanti a situazioni che non rispondono pienamente a quello che il Signore propone. Il Papa qui usa tre verbi molto importanti: “accompagnare, discernere e integrare” che sono fondamentali nell’affrontare situazioni di fragilità, complesse o irregolari. Quindi il Papa presenta la necessaria gradualità nella pastorale, l’importanza del discernimento, le norme e circostanze attenuanti nel discernimento pastorale, e infine quella che egli definisce la «logica della misericordia pastorale». Il capitolo ottavo è molto delicato. Per leggerlo si deve ricordare che «spesso il lavoro della Chiesa assomiglia a quello di un ospedale da campo» (AL, 291). Qui il Pontefice assume ciò che è stato frutto della riflessione del Sinodo su tematiche controverse. Si ribadisce che cos’è il matrimonio cristiano e si aggiunge che «altre forme di unione contraddicono radicalmente questo ideale, mentre alcune lo realizzano almeno in modo parziale e analogo». La Chiesa dunque «non manca di valorizzare gli “elementi costruttivi in quelle situazioni che non corrispondono ancora o non più” al suo insegnamento sul matrimonio» (AL, 292). Per quanto riguarda il “discernimento” circa le situazioni “irregolari” il Papa osserva: «sono da evitare giudizi che non tengono conto della complessità delle diverse situazioni, ed è necessario essere attenti al modo in cui le persone vivono e soffrono a motivo della loro condizione» (AL, 296). E continua: «Si tratta di integrare tutti, si deve aiutare ciascuno a trovare il proprio modo di partecipare alla comunità ecclesiale, perché si senta oggetto di una misericordia “immeritata, incondizionata e gratuita”» (AL, 297). Ancora: «I divorziati che vivono una nuova unione, per esempio, possono trovarsi in situazioni molto diverse, che non devono essere catalogate o rinchiuse in affermazioni troppo rigide senza lasciare spazio a un adeguato discernimento personale e pastorale» (AL, 298). In questa linea, accogliendo le osservazioni di molti Padri sinodali, il Papa afferma che «i battezzati che sono divorziati e risposati civilmente devono essere più integrati nelle comunità cristiane nei diversi modi possibili, evitando ogni forma di scandalo». «La loro partecipazione può esprimersi in diversi servizi ecclesiali (…) Essi non devono sentirsi scomunicati, ma possono vivere e maturare come membra vive della Chiesa (…) Questa integrazione è necessaria pure per la cura e l’educazione cristiana dei loro figli» (AL, 299). Più in generale il Papa fa una affermazione estremamente importante per comprendere l’orientamento e il senso dell’Esortazione: «Se si tiene conto dell’innumerevole varietà di situazioni concrete (…) è comprensibile che non ci si dovesse aspettare dal Sinodo o da questa Esortazione una nuova normativa generale di tipo canonico, applicabile a tutti i casi. È possibile soltanto un nuovo incoraggiamento ad un responsabile discernimento personale e pastorale dei casi particolari, che dovrebbe riconoscere che, poiché il “grado di responsabilità non è uguale in tutti i casi”, le conseguenze o gli effetti di una norma non necessariamente devono essere sempre gli stessi» (AL, 300). Il Papa sviluppa in modo approfondito esigenze e caratteristiche del cammino di accompagnamento e discernimento in dialogo approfondito fra i fedeli e i pastori. A questo fine richiama la riflessione della Chiesa «su condizionamenti e circostanze attenuanti» per quanto riguarda la imputabilità e la responsabilità delle azioni e, appoggiandosi a san Tommaso d’Aquino, si sofferma sul rapporto fra «le norme e il discernimento» affermando: «È vero che le norme generali presentano un bene che non si deve mai disattendere né trascurare, ma nella loro formulazione non possono abbracciare assolutamente tutte le situazioni particolari. Nello stesso tempo occorre dire che, proprio per questa ragione, ciò che fa parte di un discernimento pratico davanti a una situazione particolare non può essere elevato al livello di una norma» (AL, 304). Nell’ultima sezione del capitolo: «La logica della misericordia pastorale», Papa Francesco, per evitare equivoci, ribadisce con forza: «Comprendere le situazioni eccezionali non implica mai nascondere la luce dell’ideale più pieno né proporre meno di quanto Gesù offre all’essere umano. Oggi, più importante di una pastorale dei fallimenti è lo sforzo pastorale per consolidare i matrimoni e così prevenire le rotture» (AL, 307). Ma il senso complessivo del capitolo e dello spirito che Papa Francesco intende imprimere alla pastorale della Chiesa è ben riassunto nelle parole finali: «Invito i fedeli che stanno vivendo situazioni complesse ad accostarsi con fiducia a un colloquio con i loro pastori o con laici che vivono dediti al Signore. Non sempre troveranno in essi una conferma delle proprie idee e dei propri desideri, ma sicuramente riceveranno una luce che permetterà loro di comprendere meglio quello che sta succedendo e potranno scoprire un cammino di maturazione personale. E invito i pastori ad ascoltare con affetto e serenità, con il desiderio sincero di entrare nel cuore del dramma delle persone e di comprendere il loro punto di vista, per aiutarle a vivere meglio e a riconoscere il loro posto nella Chiesa» (AL, 312). Sulla “logica della misericordia pastorale” Papa Francesco afferma con forza: «A volte ci costa molto dare spazio nella pastorale all’amore incondizionato di Dio. Poniamo tante condizioni alla misericordia che la svuotiamo di senso concreto e di significato reale, e questo è il modo peggiore di annacquare il Vangelo» (AL, 311). Capitolo nono “Spiritualità coniugale e familiare” - Il nono capitolo è dedicato alla spiritualità coniugale e familiare, «fatta di migliaia di gesti reali e concreti» (AL, 315). Con chiarezza si dice che «coloro che hanno desideri spirituali profondi non devono sentire che la famiglia li allontana dalla crescita nella vita dello Spirito, ma che è un percorso che il Signore utilizza per portarli ai vertici dell’unione mistica» (AL, 316). Tutto, «i momenti di gioia, il riposo o la festa, e anche la sessualità, si sperimentano come una partecipazione alla vita piena della sua Risurrezione» (AL, 317). Si parla quindi della preghiera alla luce della Pasqua, della spiritualità dell’amore esclusivo e libero nella sfida e nell’anelito di invecchiare e consumarsi insieme, riflettendo la fedeltà di Dio (cfr. AL, 319). E infine la spiritualità «della cura, della consolazione e dello stimolo». «Tutta la vita della famiglia è un “pascolo” misericordioso. Ognuno, con cura, dipinge e scrive nella vita dell’altro» (AL, 322), scrive il Papa. È profonda «esperienza spirituale contemplare ogni persona cara con gli occhi di Dio e riconoscere Cristo in lei» (AL, 323). Nel paragrafo conclusivo il Papa afferma: «Nessuna famiglia è una realtà perfetta e confezionata una volta per sempre, ma richiede un graduale sviluppo della propria capacità di amare (…). Tutti siamo chiamati a tenere viva la tensione verso qualcosa che va oltre noi stessi e i nostri limiti, e ogni famiglia deve vivere in questo stimolo costante. Camminiamo, famiglie, continuiamo a camminare ! (…). Non perdiamo la speranza a causa dei nostri limiti, ma neppure rinunciamo a cercare la pienezza di amore e di comunione che ci è stata promessa» (AL, 325). L’Esortazione apostolica si conclude con una preghiera alla Santa Famiglia (AL, 325). Come è possibile comprendere già da un rapido esame dei suoi contenuti, L’Esortazione apostolica Amoris laetitia intende ribadire con forza non l’“ideale” della famiglia, ma la sua realtà ricca e complessa. Vi è nelle sue pagine uno sguardo aperto, profondamente positivo, che si nutre non di astrazioni o proiezioni ideali, ma di un’attenzione pastorale alla realtà. Il documento è una lettura densa di spunti spirituali e di sapienza pratica utile a ogni coppia umana o a persone che desiderano costruire una famiglia. Si vede soprattutto che è stata frutto di esperienza concreta con persone che sanno per esperienza che cosa sia la famiglia e il vivere insieme per molti anni. L’esortazione parla infatti il linguaggio dell’esperienza. Pag 6 Semplice come un buonasera di Christoph Schönborn L’intervento dell’arcivescovo di Vienna Di seguito il testo dell’intervento svolto dal cardinale arcivescovo di Vienna durante la conferenza stampa di presentazione dell’esortazione apostolica. La sera del 13 marzo 2013, le prime parole che il nuovo Papa eletto Francesco rivolse alle persone in piazza San Pietro e in tutto il mondo sono state: «Buona sera!» Semplici come questo saluto sono il linguaggio e lo stile del nuovo scritto di Papa Francesco. L’esortazione non è proprio così breve come questo semplice saluto, ma così aderente alla realtà. In queste duecento pagine Papa Francesco parla di «amore nella famiglia» e lo fa in modo così concreto, così semplice, con parole che scaldano il cuore come quel buona sera del 13 marzo 2013. Questo è il suo stile, ed egli si augura che si parli delle cose della vita nel modo più concreto possibile, soprattutto se si tratta della famiglia, di una delle realtà più elementari della vita. Per dirlo in anticipo: i documenti della Chiesa spesso non appartengono a un genere letterario dei più accessibili. Questo scritto del Papa è leggibile. E chi non si lasci spaventare dalla lunghezza, troverà gioia nella concretezza e nel realismo di questo testo. Papa Francesco parla delle famiglie con una chiarezza che difficilmente si trova nei documenti magisteriali della Chiesa. Prima di entrare nello scritto vorrei dire, a titolo molto personale, il perché io lo abbia letto con gioia, con gratitudine e sempre con forte emozione. Nel discorso ecclesiale sul matrimonio e sulla famiglia c’è spesso una tendenza, forse inconscia, a condurre su due binari il discorso su queste due realtà della vita. Da una parte ci sono i matrimoni e le famiglie che sono “a posto”, che corrispondono alla regola, dove tutto “va bene”, è “in ordine”, e poi ci sono le situazioni “irregolari” che rappresentano un problema. Già il termine stesso “irregolare” suggerisce che si possa effettuare una tale distinzione con tanta nitidezza. Chi dunque viene a trovarsi dalla parte degli “irregolari”, deve convivere con il fatto che i “regolari” si trovino dall’altra parte. Come ciò sia difficile per quelli che provengono, essi stessi, da una famiglia patchwork, mi è noto di persona, a causa della situazione della mia propria famiglia. Il discorso della Chiesa qui può ferire, può dare la sensazione di essere esclusi. Papa Francesco ha posto la sua esortazione sotto la frase guida: «Si tratta di integrare tutti» (AL, 297) perché si tratta di una comprensione fondamentale del Vangelo: noi tutti abbiamo bisogno di misericordia! «Chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra» (Gv 8, 7). Tutti noi, a prescindere dal matrimonio e dalla situazione familiare in cui ci troviamo, siamo in cammino. Anche un matrimonio in cui tutto “vada bene” è in cammino. Deve crescere, imparare, superare nuove tappe. Conosce il peccato e il fallimento, ha bisogno di riconciliazione e di nuovo inizio, e ciò fino in età avanzata (cfr. AL, 297). Papa Francesco è riuscito a parlare di tutte le situazioni senza catalogare, senza categorizzare, con quello sguardo di fondamentale benevolenza che ha qualcosa a che fare con il cuore di Dio, con gli occhi di Gesù che non escludono nessuno (cfr. AL, 297), che accoglie tutti e a tutti concede la «gioia del Vangelo». Per questo la lettura di Amoris laetitia è così confortante. Nessuno deve sentirsi condannato, nessuno disprezzato. In questo clima dell’accoglienza, il discorso della visione cristiana di matrimonio e famiglia diventa invito, incoraggiamento, gioia dell’amore al quale possiamo credere e che non esclude nessuno, veramente e sinceramente nessuno. Per me Amoris laetitia è perciò soprattutto, e in primo luogo, un “avvenimento linguistico”, così come lo è già stato l’Evangelii gaudium. Qualcosa è cambiato nel discorso ecclesiale. Questo cambiamento di linguaggio era già percepibile durante il cammino sinodale. Fra le due sedute sinodali dell’ottobre 2014 e dell’ottobre 2015 si può chiaramente riconoscere come il tono sia divenuto più ricco di stima, come si siano semplicemente accolte le diverse situazioni di vita, senza giudicarle o condannarle subito. In Amoris laetitia questo è divenuto il continuo tono linguistico. Dietro di ciò non c’è ovviamente solo un’opzione linguistica, bensì un profondo rispetto di fronte ad ogni uomo che non è mai, in primo luogo, un “caso problematico” in una “categoria”, ma una persona inconfondibile, con la sua storia e il suo percorso con e verso Dio. In Evangelii gaudium Papa Francesco diceva che dovremmo toglierci le scarpe davanti al terreno sacro dell’altro (EG, 36). Quest’atteggiamento fondamentale attraversa tutta l’esortazione. Ed esso è anche il motivo più profondo per le altre due parole chiave: discernere e accompagnare. Tali parole non valgono solo per le “cosiddette situazioni irregolari” (Papa Francesco sottolinea questo “cosiddette”!), ma valgono per tutti gli uomini, per ogni matrimonio, per ogni famiglia. Tutti, infatti, sono in cammino e tutti hanno bisogno di “discernimento” e di ”accompagnamento”. La mia grande gioia per questo documento sta nel fatto che esso coerentemente superi l’artificiosa, esteriore, netta divisione fra “regolare” e “irregolare” e ponga tutti sotto l’istanza comune del Vangelo, secondo le parole di san Paolo: «Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per usare a tutti misericordia!» (Rom, 11, 32). Questo continuo principio dell’“inclusione” preoccupa ovviamente alcuni. Non si parla qui in favore del relativismo? Non diventa permissivismo la tanto evocata misericordia? Non esiste più la chiarezza dei limiti che non si devono superare, delle situazioni che oggettivamente vanno definite irregolari, peccaminose? Quest’esortazione non favoreggia un certo lassismo, un everything goes? La misericordia propria di Gesù non è invece, spesso, una misericordia severa, esigente? Per chiarire ciò: Papa Francesco non lascia nessun dubbio sulle sue intenzioni e sul nostro compito: «Come cristiani non possiamo rinunciare a proporre il matrimonio allo scopo di non contraddire la sensibilità attuale, per essere alla moda, o per sentimenti di inferiorità di fronte al degrado morale e umano. Staremmo privando il mondo dei valori che possiamo e dobbiamo offrire. Certo, non ha senso fermarsi a una denuncia retorica dei mali attuali, come se con ciò potessimo cambiare qualcosa. Neppure serve pretendere di imporre norme con la forza dell’autorità. Ci è chiesto uno sforzo più responsabile e generoso, che consiste nel presentare le ragioni e le motivazioni per optare in favore del matrimonio e della famiglia, così che le persone siano più disposte a rispondere alla grazia che Dio offre loro» (AL, 35). Papa Francesco è convinto che la visione cristiana del matrimonio e della famiglia abbia anche oggi un’immutata forza di attrazione. Ma egli esige “una salutare reazione autocritica”: «Dobbiamo esser umili e realisti, per riconoscere che a volte il nostro modo di presentare le convinzioni cristiane e il modo di trattare le persone hanno aiutato a provocare ciò di cui oggi ci lamentiamo» (AL, 36). «Abbiamo presentato un ideale teologico del matrimonio troppo astratto, quasi artificiosamente costruito, lontano dalla situazione concreta e dalle effettive possibilità delle famiglie così come sono. Questa idealizzazione eccessiva, soprattutto quando non abbiamo risvegliato la fiducia nella grazia, non ha fatto sì che il matrimonio sia più desiderabile e attraente, ma tutto il contrario» (AL, 36). Mi permetto di raccontare qui un’esperienza del Sinodo dell’ottobre scorso: che io sappia, due dei tredici circuli minores hanno iniziato il loro lavoro facendo in primo luogo raccontare ad ogni partecipante la propria situazione familiare. Ben presto è emerso che quasi tutti i vescovi o gli altri partecipanti del circulus minor si sono confrontati, nelle loro famiglie, con i temi, le preoccupazioni, le “irregolarità” di cui noi, nel Sinodo, abbiamo parlato in maniera un po’ troppo astratta. Papa Francesco ci invita a parlare delle nostre famiglie “così come sono”. Ed ora la cosa magnifica del cammino sinodale e del suo proseguimento con Papa Francesco: questo sobrio realismo sulle famiglie “così come sono” non ci allontana affatto dall’ideale! Al contrario: Papa Francesco riesce, con i lavori di ambedue i sinodi, a rivolgere alle famiglie uno sguardo positivo, profondamente ricco di speranza. Ma questo sguardo incoraggiante sulle famiglie richiede quella “conversione pastorale” di cui l’Evangelii gaudium parlava in maniera così entusiasmante. Il testo seguente dell’Amoris laetitia ricalca le grandi linee di tale “conversione pastorale”: «Per molto tempo abbiamo creduto che solamente insistendo su questioni dottrinali, bioetiche e morali, senza motivare l’apertura alla grazia, avessimo già sostenuto a sufficienza le famiglie, consolidato il vincolo degli sposi e riempito di significato la loro vita insieme. Abbiamo difficoltà a presentare il matrimonio più come un cammino dinamico di crescita e realizzazione che come un peso da sopportare per tutta la vita. Stentiamo anche a dare spazio alla coscienza dei fedeli, che tante volte rispondono quanto meglio possibile al Vangelo in mezzo ai loro limiti e possono portare avanti il loro personale discernimento davanti a situazioni in cui si rompono tutti gli schemi. Siamo chiamati a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle» (AL, 37). Papa Francesco parla da una profonda fiducia nei cuori e nella nostalgia degli uomini. Lo esprimono molto bene le sue esposizioni sull’educazione. Si percepisce qui la grande tradizione gesuitica dell’educazione alla responsabilità personale. Egli parla di due pericoli contrari: il lassez-faire e l’ossessione di volere controllare e dominare tutto. Da una parte è vero che «la famiglia non può rinunciare ad essere luogo di sostegno, di accompagnamento, di guida... C’è sempre bisogno di vigilanza. L’abbandono non fa mai bene» (AL, 260). Ma la vigilanza può diventare anche esagerata: «L’ossessione non è educativa, e non si può avere un controllo di tutte le situazioni in cui un figlio potrebbe trovarsi a passare (...). Se un genitore è ossessionato di sapere dove si trova suo figlio e controllare tutti i suoi movimenti, cercherà solo di dominare il suo spazio. In questo modo non lo educherà, non lo rafforzerà, non lo preparerà ad affrontare le sfide. Quello che interessa principalmente è generare nel figlio, con molto amore, processi di maturazione della sua libertà, di preparazione, di crescita integrale, di coltivazione dell’autentica autonomia» (AL, 261). Trovo che sia molto illuminante mettere in connessione questo pensiero sull’educazione con quelli che riguardano la prassi pastorale della Chiesa. Infatti, proprio in questo senso Papa Francesco torna spesso a parlare della fiducia nella coscienza dei fedeli: «Siamo chiamati a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle» (AL, 37). La grande questione ovviamente è questa: come si forma la coscienza? Come pervenire a quello che è il concetto chiave di tutto questo grande documento, la chiave per comprendere correttamente le intenzioni di Papa Francesco: “il discernimento personale”, soprattutto in situazioni difficili, complesse? Il “discernimento” è un concetto centrale degli esercizi ignaziani. Questi, infatti, devono aiutare a discernere la volontà di Dio nelle situazioni concrete della vita. È il “discernimento” a fare della persona una personalità matura, e il cammino cristiano vuole essere di aiuto al raggiungimento di questa maturità personale: non a formare automi condizionati dall’esterno, telecomandati, ma persone maturate nell’amicizia con Cristo. Solo laddove è maturato questo “discernimento” personale è anche possibile pervenire a un “discernimento pastorale”, il quale è importante soprattutto «davanti a situazioni che non rispondono pienamente a quello che il Signore ci propone» (AL, 6). Di questo “discernimento pastorale” parla l’ottavo capitolo, un capitolo probabilmente di grande interesse per l’opinione pubblica ecclesiale, ma anche per i media. Devo tuttavia ricordare che Papa Francesco ha definito come centrali i capitoli 4 e 5 (“i due capitoli centrali”), non solo in senso geografico, ma per il loro contenuto: «Non potremo incoraggiare un cammino di fedeltà e di reciproca donazione se non stimoliamo la crescita, il consolidamento e l’approfondimento dell’amore coniugale e familiare» (AL, 89). Questi due capitoli centrali di Amoris laetitia saranno probabilmente saltati da molti per arrivare subito alle cosiddette “patate bollenti”, ai punti critici. Da esperto pedagogo, Papa Francesco sa bene che niente attira e motiva così fortemente come l’esperienza positiva dell’amore. “Parlare dell’amore” (AL, 89) - ciò procura chiaramente una grande gioia a Papa Francesco, ed egli parla dell’amore con grande vivacità, comprensibilità, empatia. Il quarto capitolo è un ampio commento all’“Inno alla carità” del tredicesimo capitolo della prima lettera ai Corinzi. Raccomando a tutti la meditazione di queste pagine. Esse incoraggiano a credere nell’amore (cfr. 1 Gv, 4, 16) e ad avere fiducia nella sua forza. È qui che crescere, un’altra parola chiave dell’Amoris laetitia, ha la sua “sede principale”: in nessun altro luogo si manifesta così chiaramente, come nell’amore, che si tratta di un processo dinamico nel quale l’amore può crescere, ma può anche raffreddarsi. Posso solo invitare a leggere e a gustare questo delizioso capitolo. Ci tengo a far notare un aspetto: Papa Francesco parla qui, con una chiarezza che è rara, del ruolo che anche le passiones, le passioni, le emozioni, l’eros, la sessualità hanno nella vita matrimoniale e familiare. Non è un caso che Papa Francesco si riallacci qui in modo particolare a san Tommaso d’Aquino, il quale attribuisce alle passioni un ruolo così importante, mentre la morale moderna, spesso puritana, le ha screditate o trascurate. È qui che il titolo dell’esortazione del Papa trova la sua più piena espressione: Amoris laetitia! Qui si capisce come sia possibile riuscire «a scoprire il valore e la ricchezza del matrimonio» (AL, 205). Ma qui si rende anche dolorosamente visibile quanto male facciano le ferite d’amore, come siano laceranti le esperienze di fallimento delle relazioni. Per questo non meraviglia che sia soprattutto l’ottavo capitolo ad attirare l’attenzione e l’interesse. Infatti la questione di come la Chiesa tratti queste ferite, di come tratti il fallimento dell’amore, è diventata per molti una questione-test per capire se la Chiesa sia davvero il luogo in cui si possa sperimentare la Misericordia di Dio. Questo capitolo deve molto all’intenso lavoro dei due Sinodi, alle ampie discussioni nell’opinione pubblica ed ecclesiale. Qui si manifesta la fecondità del modo di procedere di Papa Francesco. Egli desiderava espressamente una discussione aperta sull’accompagnamento pastorale di situazioni complesse e ha potuto ampiamente fondarsi sui testi che i due Sinodi gli hanno presentato per mostrare come si possa «accompagnare, discernere e integrare la fragilità» (AL, 291). Papa Francesco fa esplicitamente sue le dichiarazioni che ambedue i Sinodi gli hanno presentato: «I Padri sinodali hanno raggiunto un consenso generale, che sostengo» (AL, 297). Per quanto riguarda i divorziati risposati con rito civile egli sostiene: «Accolgo le considerazioni di molti Padri sinodali, i quali hanno voluto affermare che (...) la logica dell’integrazione è la chiave del loro accompagnamento pastorale... Essi non solo non devono sentirsi scomunicati, ma possono vivere e maturare come membra vive della Chiesa, sentendola come un madre che li accoglie sempre...» (AL, 299). Ma cosa significa ciò concretamente? Molti si pongono, a ragione, questa domanda. Le risposte decisive si trovano in Amoris laetitia 300. Esse offrono certamente ancora materia per ulteriori discussioni. Ma esse sono anche un importante chiarimento e un’indicazione per il cammino da seguire: «Se si tiene conto dell’innumerevole varietà di situazioni concrete (...) è comprensibile che non ci si dovesse aspettare dal Sinodo o da questa Esortazione una nuova normativa generale di tipo canonico, applicabile a tutti i casi». Molti si aspettavano una tale norma. Resteranno delusi. Che cosa è possibile? Il Papa lo dice con tutta chiarezza: «È possibile soltanto un nuovo incoraggiamento ad un responsabile discernimento personale e pastorale dei casi particolari». E come possa e debba essere questo discernimento personale e pastorale è tema dell’intera sezione di Amoris laetitia 300-312. Già nel Sinodo del 2015, in appendice agli enunciati del Circulus germanicus fu proposto un Itinerarium del discernimento, dell’esame di coscienza che Papa Francesco ha fatto suo. «Si tratta di un itinerario di accompagnamento e di discernimento che orienta questi fedeli alla presa di coscienza della loro situazione davanti a Dio». Ma Papa Francesco ricorda anche che «questo discernimento non potrà mai prescindere dalle esigenze di verità e di carità del Vangelo proposte dalla Chiesa» (AL, 300). Papa Francesco menziona due posizioni erronee. Una è quella del rigorismo: «Un pastore non può sentirsi soddisfatto solo applicando leggi morali a coloro che vivono in situazioni “irregolari”, come se fossero pietre che si lanciano contro la vita delle persone. È il caso dei cuori chiusi, che spesso si nascondono perfino dietro gli insegnamenti della Chiesa» (AL, 305). D’altro canto, la Chiesa non deve assolutamente «rinunciare a proporre l’ideale pieno del matrimonio, il progetto di Dio in tutta la sua grandezza» (AL, 307). Si pone naturalmente la domanda: e cosa dice il Papa a proposito dell’accesso ai sacramenti per persone che vivono in situazioni “irregolari”? Già Papa Benedetto aveva detto che non esistono delle “semplici ricette” (AL, 298, nota 333). E Papa Francesco torna a ricordare la necessità di discernere bene le situazioni nella linea della Familiaris consortio (1984) di san Giovanni Paolo II (AL, 298). «Il discernimento deve aiutare a trovare le strade possibili di risposta a Dio e di crescita attraverso i limiti. Credendo che tutto sia bianco o nero, a volte chiudiamo la via della grazia e della crescita e scoraggiamo percorsi di santificazione che danno gloria a Dio» (AL, 305). E Papa Francesco ci ricorda una frase importante che aveva scritto nell’Evangelii gaudium 44: «Un piccolo passo, in mezzo a grandi limiti umani, può essere più gradito a Dio della vita esteriormente corretta di chi trascorre i suoi giorni senza fronteggiare importanti difficoltà» (AL, 304). Nel senso di questa via caritatis (AL, 306) il Papa afferma, in maniera umile e semplice, in una nota (351), che si può dare anche l’aiuto dei sacramenti in «certi casi». Ma allo scopo egli non ci offre una casistica, delle ricette, bensì ci ricorda semplicemente due delle sue frasi famose: «Ai sacerdoti ricordo che il confessionale non dev’essere una sala di tortura bensì il luogo della misericordia del Signore» (EG, 44) e l’Eucarestia «non è un premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli» (EG, 44). Non è una sfida eccessiva per i pastori, per le guide spirituali, per le comunità, se il «discernimento delle situazioni» non è regolato in modo più preciso? Papa Francesco conosce questa preoccupazione: «comprendo coloro che preferiscono una pastorale più rigida che non dia luogo ad alcuna confusione» (AL, 308). Ad essa egli obietta dicendo: «poniamo tante condizioni alla misericordia che la svuotiamo di senso concreto e di significato reale, e quello è il modo peggiore di annacquare il Vangelo» (AL, 311). Papa Francesco confida nella «gioia dell’amore». L’amore sa trovare la via. È la bussola che ci indica la strada. Esso è il traguardo e il cammino stesso, perché Dio è l’amore e perché l’amore è da Dio. Niente è così esigente come l’amore. Esso non si può avere a buon mercato. Per questo nessuno deve temere che Papa Francesco ci inviti, con Amoris laetitia, a un cammino troppo facile. Il cammino non è facile, ma è pieno di gioia! Pag 7 Buona notizia per le famiglie di Lorenzo Baldisseri La presentazione del segretario generale del Sinodo dei Vescovi Pubblichiamo il testo della presentazione svolta dal cardinale segretario generale del Sinodo dei vescovi. Sono lieto e onorato di presentare oggi l’esortazione apostolica post-sinodale Amoris laetitia che Papa Francesco ha firmato il 19 marzo scorso, solennità di San Giuseppe, e che oggi si rende pubblica. Anzitutto mi è gradito esprimere viva riconoscenza al Santo Padre, per aver donato alla Chiesa il prezioso documento sull’amore nella famiglia. Ringrazio inoltre tutti coloro che a vario titolo hanno offerto il loro contributo; in particolare i padri sinodali delle due assemblee, il relatore generale e il segretario speciale, il Pontificio Consiglio per la famiglia e il suo presidente. È significativo che Amoris laetitia esca in pieno giubileo della misericordia: il testo vi fa riferimento tre volte e cita direttamente la bolla di indizione sei volte. Il documento corona il lavoro biennale del sinodo, la cui grande riflessione ha investito tutte le dimensioni dell’istituto familiare, che oggi risente di una forte crisi nel mondo intero. Le società umane, segnate da conflitti e violenze, hanno bisogno di riconciliazione e di perdono a cominciare dal loro nucleo vitale: la famiglia. Il giubileo della misericordia è davvero una buona notizia per le famiglie di ogni continente, specialmente per quelle ferite e umiliate. Il titolo - Il titolo Amoris laetitia è in piena continuità con l’Esortazione apostolica Evangelii gaudium: dalla gioia del Vangelo alla gioia dell’amore nella famiglia. Il cammino sinodale ha presentato la bellezza della famiglia parlando dell’amore: esso costituisce il fondamento dell’istituto familiare, perché Dio è amore tra persone, è Trinità e non solitudine. In questo documento il Santo Padre approfondisce il «Vangelo del matrimonio e della famiglia» (AL, 89) e offre concreti orientamenti pastorali che, nella continuità, acquistano un valore e una dinamica nuova. «L’insieme degli interventi dei Padri, che ho ascoltato con costante attenzione, mi è parso un prezioso poliedro» (AL, 4) - scrive il Santo Padre, riprendendo la figura geometrica già impiegata in Evangelii gaudium (cfr. 236). Infatti, il risultato del lavoro sinodale dei Padri raccoglie la pluralità delle esperienze e dei punti di vista delle Chiese particolari. Il confronto tra opinioni diverse è avvenuto con libertà e franchezza, che ha permesso di pervenire ad un risultato quasi unanimemente condiviso. Il principio secondo il quale «il tempo è superiore allo spazio» (EG, 222-225; AL, 3, 261) indica che occorre tempo ed esistono modalità diverse mediante le quali trovare soluzioni più adatte alle differenti situazioni. Al riguardo, l’esortazione dice: «Nella Chiesa è necessaria una unità di dottrina e di prassi, ma ciò non impedisce che esistano diversi modi di interpretare alcuni aspetti della dottrina o alcune conseguenze che da essa derivano» (AL, 3). Ad esempio, il testo fa riferimento a tre situazioni emblematiche in cui il trascorrere del tempo è necessario: nella preparazione al matrimonio (cfr. AL, 205-216); nell’educazione dei figli (cfr. AL, 261); nel superamento del lutto in famiglia (cfr. AL, 255). La chiave di lettura - In pieno accordo con il tempo giubilare che la Chiesa sta vivendo, l’adeguata chiave di lettura del documento è «la logica della misericordia pastorale» (AL, 307-312). Il Santo Padre afferma chiaramente la dottrina sul matrimonio e la famiglia, specialmente nel capitolo terzo, e la propone come ideale irrinunciabile. Riferendosi ai giovani, egli afferma: «Per evitare qualsiasi interpretazione deviata, ricordo che in nessun modo la Chiesa deve rinunciare a proporre l’ideale pieno del matrimonio, il progetto di Dio in tutta la sua grandezza. [...] Oggi, più importante di una pastorale dei fallimenti è lo sforzo pastorale per consolidare i matrimoni e così prevenire le rotture» (AL, 307). D’altra parte, il Papa non dimentica di rivolgere la sua attenzione alle fragilità delle famiglie e persino al loro fallimento, e riprende un passo di Evangelii gaudium (n. 44): «“senza sminuire il valore dell’ideale evangelico, bisogna accompagnare con misericordia e pazienza le possibili tappe di crescita delle persone che si vanno costruendo giorno per giorno”, lasciando spazio alla “misericordia del Signore che ci stimola a fare il bene possibile”» (AL, 308). La struttura - L’esortazione è composta di nove capitoli, suddivisi in 325 numeri, con 391 note, e la preghiera finale alla Santa Famiglia. Il Santo Padre spiega lo sviluppo del documento (cfr. AL, 6): l’ouverture, ispirata alla Sacra Scrittura (capitolo I), dà il tono adeguato al documento, per passare poi a considerare la situazione attuale delle famiglie (capitolo II), alla luce dell’insegnamento della Chiesa sul matrimonio e la famiglia (capitolo III). All’amore nel matrimonio (capitolo IV), che diventa fecondo nella famiglia (capitolo V), spetta il posto centrale nel documento. Seguono alcuni orientamenti pastorali per costruire famiglie solide e feconde, secondo il piano di Dio (capitolo VI), e per fortificare l’educazione dei figli (capitolo VII). Il capitolo VIII è un invito alla misericordia e al discernimento pastorale di fronte a situazioni che non rispondono pienamente all’ideale che il Signore propone. L’esortazione si conclude con alcune linee di spiritualità familiare (capitolo IX). Nell’introduzione, Papa Francesco stesso spiega la ragione della inevitabile estensione del testo. La riflessione del cammino sinodale ha fatto sì che l’esortazione apostolica post-sinodale comprendesse non solo le questioni strettamente inerenti alla famiglia, ma anche molti e diversi temi. La lunghezza e l’articolazione del testo richiedono una lettura non affrettata, non necessariamente continua, anche a seconda dell’interesse dei diversi lettori (cfr. AL, 7). Le fonti - Amoris laetitia è una ulteriore eminente espressione del pontificato di Papa Francesco; rappresenta una splendida sintesi e proiezione verso ulteriori orizzonti. La base fondamentale dell’esortazione è costituita dai documenti conclusivi delle due assemblee sinodali sulla famiglia: 52 citazioni della Relatio synodi 2014 e 84 della Relatio finalis 2015, per un totale di 136. In tal modo il Santo Padre attribuisce una grande importanza al lavoro collegiale e sinodale, accogliendolo e integrandolo. Inoltre, il testo è corredato di numerosi riferimenti ai Padri della Chiesa (san Leone Magno e sant’Agostino), ai teologi medioevali e moderni (san Tommaso, citato 19 volte; san Domenico; beato Giordano di Sassonia; Alessandro di Hales; sant’Ignazio di Loyola, 3 volte; san Roberto Bellarmino; san Giovanni della Croce); agli autori contemporanei (Joseph Pieper, Antonin Sertillanges, Gabriel Marcel, Erich Fromm, Santa Teresa di Lisieux, Dietrich Bonhoeffer, Jorge Luis Borges, Octavio Paz, Mario Benedetti, Martin Luther King). Tra i documenti pontifici dei predecessori vengono citati, ad esempio: Casti connubii di Pio XI; Mystici corpori Christi di Pio XII; Humanae vitae del beato Paolo VI (2 volte più 4 volte in altri documenti citati nel testo); le Catechesi sull’amore umano (23 volte) e Familiaris consortio (21 volte più 6) di san Giovanni Paolo II; Deus caritas est di Benedetto XVI (9 volte più 1). Il concilio Vaticano II viene citato ben 22 volte più 6; il Catechismo della Chiesa cattolica 13 volte più 2. Inoltre, oltre a 16 più 1 citazioni di Evangelii gaudium, spiccano le Catechesi sulla famiglia di Papa Francesco pronunciate in occasione delle udienze generali, che vengono citate 50 volte. Infine, vengono citati 12 volte altri documenti della Santa Sede e 10 volte documenti di conferenze episcopali. Degne di nota sono le espressioni che il Santo Padre usa per attribuire rilevanza al lavoro condotto per due anni dai vescovi di tutto il mondo con le loro Chiese, quando dice: «sostengo» (AL, 297), «accolgo» (AL, 299), «considero molto appropriato» (AL, 302). Sono una ventina le volte in cui nel testo l’autore si riferisce esplicitamente al sinodo o ai padri sinodali. Alcuni punti salienti 1) Il documento porge uno sguardo positivo sulla bellezza dell’amore coniugale e sulla famiglia, in un’epoca di crisi globale di cui soffrono principalmente le famiglie. Lo spazio dedicato all’amore e alla sua fecondità, in particolare nei capitoli IV-V, rappresenta un contributo originale, sia per il contenuto generale sia per il modo di esporlo. Ogni espressione dell’amore nell’inno alla carità di san Paolo (cfr. 1 Cor 13, 4-7) è una meditazione spirituale ed esistenziale per la vita degli sposi, tratteggiata con sapiente introspezione, propria di un’esperta guida spirituale, che conduce alla crescita nella carità coniugale. 2) Al vescovo è affidato il compito di condurre il Popolo di Dio, sull’esempio di Gesù buon pastore che «chiama le sue pecore una per una e le conduce fuori» (Gv 10, 3). Il servizio pastorale del vescovo comporta anche l’esercizio del potere giudiziale che, attraverso i due motu proprio Mitis iudex Dominus Iesus e Mitis et misericors Iesus, il Santo Padre ha così definito: «Attraverso di essi ho anche voluto rendere evidente che lo stesso Vescovo nella sua Chiesa, di cui è costituito pastore e capo, è per ciò stesso giudice tra i fedeli a lui affidati» (AL, 244). Ne consegue che il vescovo, attraverso presbiteri e operatori pastorali adeguatamente preparati, disponga servizi appropriati per coloro che sono in condizioni di disagio familiare, di crisi e di fallimento. 3) Come ogni pastore, Papa Francesco rivolge la sua sollecitudine paterna alla «innumerevole varietà di situazioni concrete» (AL, 300). Pertanto, egli afferma: «è comprensibile che non ci si dovesse aspettare dal Sinodo o da questa Esortazione una nuova normativa generale di tipo canonico, applicabile a tutti i casi» (ib.). Dal momento che — come il Sinodo ha affermato — «il grado di responsabilità non è uguale in tutti i casi», occorre procedere con «un responsabile discernimento personale e pastorale dei casi particolari» (ib.). I battezzati che vivono in una seconda unione devono essere integrati e non esclusi. L’esortazione al riguardo è molto chiara: «La loro partecipazione può esprimersi in diversi servizi ecclesiali: occorre perciò discernere quali delle diverse forme di esclusione attualmente praticate [...] possano essere superate» (AL, 299). Per accompagnare e integrare le persone che vivono in situazioni cosiddette “irregolari” è necessario che i pastori le guardino in faccia una per una. Il documento dice: «I presbiteri hanno il compito di “accompagnare le persone interessate sulla via del discernimento secondo l’insegnamento della Chiesa e gli orientamenti del Vescovo”» (AL, 300). In questo processo di discernimento «sarà utile fare un esame di coscienza, tramite momenti di riflessione e di pentimento. I divorziati risposati dovrebbero chiedersi come si sono comportati verso i loro figli quando l’unione coniugale è entrata in crisi; se ci sono stati tentativi di riconciliazione; come è la situazione del partner abbandonato; quali conseguenze ha la nuova relazione sul resto della famiglia e la comunità dei fedeli; quale esempio essa offre ai giovani che si devono preparare al matrimonio» (ib.). Il discernimento avviene attraverso il «colloquio col sacerdote, in foro interno, [che] concorre alla formazione di un giudizio corretto su ciò che ostacola la possibilità di una più piena partecipazione alla vita della Chiesa e sui passi che possono favorirla e farla crescere» (ib.). 4) Nella prospettiva del compimento dell’ideale del matrimonio, l’esortazione ha innanzitutto messo in grande rilievo la preparazione dei fidanzati al sacramento, al fine di fornire «loro gli elementi necessari per poterlo ricevere con le migliori disposizioni e iniziare con una certa solidità la vita familiare» (AL, 207). Il Papa afferma che, in questa preparazione, occorre attingere alle «convinzioni dottrinali» e alle «preziose risorse spirituali» della Chiesa, come anche ricorrere a «percorsi pratici, consigli ben incarnati, strategie prese dall’esperienza, orientamenti psicologici» (AL, 211). L’esortazione indica, inoltre, la necessità che questo cammino prosegua anche dopo la celebrazione, specialmente nei primi anni di vita coniugale. Ai giovani sposi il Papa ricorda che «il matrimonio non può intendersi come qualcosa di concluso. [...] Lo sguardo si rivolge al futuro che bisogna costruire giorno per giorno con la grazia di Dio» (AL, 218). 5) Il documento ricorda che «i Padri hanno anche considerato la situazione particolare di un matrimonio solo civile o, fatte salve le differenze, persino di una semplice convivenza in cui, «quando l’unione raggiunge una notevole stabilità attraverso un vincolo pubblico, è connotata da affetto profondo, da responsabilità nei confronti della prole, da capacità di superare le prove, può essere vista come un’occasione da accompagnare nello sviluppo verso il sacramento del matrimonio» (AL, 293). 6) Nell’accompagnare le fragilità e curare le ferite, il principio della gradualità nella pastorale riflette la pedagogia divina: come Dio si prende cura di tutti i suoi figli, a cominciare dai più deboli e lontani, così «la Chiesa si volge con amore a coloro che partecipano alla sua vita in modo imperfetto» (AL, 78), poiché tutti devono essere integrati nella vita della comunità ecclesiale (cfr. AL, 297). Il Papa afferma, infatti, che «nessuno può essere condannato per sempre, perché questa non è la logica del Vangelo!» (ib.). Non limitandosi alle situazioni cosiddette “irregolari”, l’esortazione, quindi, dischiude l’ampio orizzonte della grazia immeritata e della misericordia incondizionata per «tutti, in qualunque situazione si trovino» (ib.). Di fronte ai grandi avvenimenti che sconvolgono il mondo odierno, si scopre la grandezza di Dio e il suo amore per l’uomo che, ferito costantemente, ha bisogno di essere accolto e curato da Cristo, buon samaritano dell’umanità. Dalla consapevolezza che Dio offre e regala misericordia e che «la città dell’uomo non è promossa solo da rapporti di diritti e di doveri, ma ancor più e ancor prima da relazioni di gratuità, di misericordia e di comunione» (CV, 6), emerge la necessità di oltrepassare l’orizzonte umano della giustizia con uno scatto, un salto in avanti. Questo viene soltanto dall’amore, che diventa misericordioso dinanzi alle fragilità umane, ed è capace di infondere coraggio e speranza. In tale contesto si colloca l’esortazione apostolica, che con questa espressione tocca il cuore del Vangelo e risana quello dell’uomo ferito: «la misericordia è la pienezza della giustizia e la manifestazione più luminosa della verità di Dio» (AL, 311). Torna al sommario AVVENIRE di sabato 9 aprile 2016 Pag 1 Lo speciale sigillo di Pierangelo Sequeri Amore, famiglia, vita vera «I dibattiti che si trovano nei mezzi di comunicazione o nelle pubblicazioni e perfino tra i ministri della Chiesa vanno da un desiderio sfrenato di cambiare tutto senza sufficiente riflessione o fondamento, all’atteggiamento che pretende di risolvere tutto applicando normative generali o traendo conclusioni eccessive da alcune riflessioni teologiche» (Amoris laetitia, n.2). Ben detto, tanto per cominciare. E pazienza, aggiungo io, per i giornalisti, che tengono famiglia. Ma gli ecclesiastici, che non la tengono neppure (però ci devono tenere!), per quale motivo si consegnano all’eccitazione mediatica degli opposti fondamentalismi? Come se, invece che un profondo ripensamento sulla famiglia, la Chiesa avesse semplicemente convocato un tavolo di discussione sulle regole del divorzio. L’autorevole 'restituzione' papale dei lavori sinodali, imprime il sigillo del suo speciale 'valore aggiunto' già con questa puntualizzazione. Il matrimonio e la famiglia sono una speciale benedizione di Dio per la condizione umana, decisiva per la qualità della umana convivenza, fondamentale per la testimonianza della fede. E questo è il punto. Il cambio di passo che l’esortazione papale imprime all’atteggiamento della Chiesa è la sua immersione nella concretezza storica di questa benedizione. Non si tratta di mettere a punto un’ipotesi di laboratorio, che ignora le variabili storiche e scarta le sue applicazioni imperfette (siamo perfetti, noi?). Il pensiero e la prassi cristiana devono abitare e ospitare una realtà che è già vivente, per riconoscere e sostenere in essa i doni della grazia e le incongruenze della storia. L’alleanza della Chiesa e delle famiglie è indissolubile, di diritto e di fatto. La famiglia è parte integrante e preponderante del popolo di Dio: la Chiesa non esisterebbe, e non sarebbe quello che deve essere, senza la famiglia. Questa complicità – che si dovrà vedere, sentire, toccare – decide il nostro passaggio del Mar Rosso, che ci libera dalla schiavitù degli imperi mondani, restituendoci pienamente, in questa congiuntura di fondamentalismi religiosi, fondamentalismi politici, fondamentalismi tecno-economici, la libertà nella quale «Cristo ci ha liberati». Questa libertà è libertà dalla fatalità del peccato e dalla rassegnazione al male. Di fatto, oggi, vuol dire libertà di rimanere umani, non solo cristiani. L’alleanza d’amore, durevole e feconda, dell’uomo e della donna, riguarda l’intero del legame sociale. E fa la storia vera del mondo, non la cronaca rosa dei settimanali. Per assimilare la profonda trasformazione di atteggiamento mentale che ispira lo stile dell’esortazione, mi limito per ora a due cenni. (Con ragione il Papa ha avvertito che il testo andrà ripreso con calma, più volte, per essere interiorizzato nel respiro e nel ritmo della sua meditazione: proprio come deve fare l’interprete di alto profilo con una partitura musicale). In primo luogo, questo testo è 'un grande racconto', non 'un grande trattato'. Esso si immerge totalmente nella realtà umana della famiglia, facendo lievitare da questa concreta frequentazione la bellezza della forma cristiana che la manifesta e della misericordia divina che la ispira. Non da fuori. Dal cuore. Il cambio di stile, anche in rapporto alla Relatio finale dei Sinodi, è definitivo. L’andamento sapienziale, la concretezza delle dinamiche, la temporalità dei processi, l’atteggiamento di fronte ai fallimenti. È di qui, e dentro questa storia, che parla il Vangelo (Gesù fece così!): lo scriba evangelico, fedele «discepolo del regno di Dio», è capace di trarre da questo tesoro «cose antiche e cose nuove» (Mt 13, 52). In secondo luogo, esiste un passaggio a sorpresa, in questa meditazione di papa Francesco, che segna il climax dell’intero testo. Ed è destinato a produrre effetti di lunga durata. Il capitolo quarto, intitolato «L’amore nel matrimonio», è occupato dal luminoso commento, parola per parola, dell’Inno all’amore della Prima Lettera ai Corinzi (13, 4-7), non dal commento al Cantico dei Cantici. Nel passo di san Paolo si evoca la perfezione suprema dell’amore (la partecipazione dell’agape di Dio) al quale ogni eros deve attingere, per non distruggersi e non distruggere. «L’amore – sintetizza papa Francesco – può mostrare tutta la sua fecondità quando ci permette di sperimentare la felicità del dare, la nobiltà e la grandezza del donarsi in modo sovrabbondante, senza misurare, senza esigere ricompense, per il solo gusto di dare e di servire » (n. 94). Il matrimonio e la famiglia, nella visione cristiana, non sono un compromesso sentimentale per il quieto vivere: sono la matrice generativa e il banco di prova dell’amore che ci salva la vita. Ogni vita. In qualunque circostanza. La mossa di questo commento, a sorpresa, è tutta di Francesco. Ma non è un espediente retorico. La mossa rimette la barra della dottrina e della pratica cristiana sulla rotta della rivelazione autentica. E della grazia che l’accompagna, fin dall’alba della creazione dell’uomo e della donna. Una vera rivoluzione profetica, per le nostre abitudini mentali (laiche, ma anche ecclesiastiche) in tema di estetica e di drammatica dell’amore (e del matrimonio). Lo sguardo dell’agape di Dio, sulla bellezza e sulle contraddizioni di eros, è incomparabilmente più profondo, più concreto, più fine del nostro. Pagg 4 – 5 La rivoluzione di Francesco. Un abbraccio senza esclusioni di Luciano Moia L’originalità di un testo che rovescia le prospettive pastorali. Il vescovo Fragnelli: “E adesso ridefiniamo la pastorale” La famiglia ricomincia da Francesco. Ricomincia dal suo abbraccio sorridente che fin dal titolo dell’Esortazione postsinodale, La gioia dell’amore, indica un percorso e segna un proposito. Ricomincia da suo invito a rileggere la Sacra Scrittura (primo capitolo). Ricomincia soprattutto, al di là di tutto quanto scrive nelle altre sezioni del documento, dalla sua straordinaria rilettura in chiave familiare dell’Inno alla carità di san Paolo che occupa buona parte del quarto capitolo. PAZIENZA, AMABILITÀ, DIALOGO - Dai suoi consigli su come esercitare in famiglia la pazienza, la benevolenza, l’amabilità. Su come tenere a freno l’invidia, come guarire dall’orgoglio e coltivare l’umiltà. Come rallegrarsi con moglie, marito e figli, come infondere fiducia e stabilire relazioni di autentica libertà, come alimentare speranza e come vivere nella gioia e nella bellezza. Come sostenere il dialogo, «modalità privilegiata e indispensabile per vivere, esprimere e maturare l’amore nella vita coniugale e familiare ». Quattro paragrafi esemplari (n. 136139) che andrebbero proposti a tutti i percorsi di preparazione al matrimonio come sintesi efficace di come si parla, si tace, si ascolta in coppia e, soprattutto, come «bisogna cercare di mettersi nei panni » dell’altro, come «individuare quello che lo appassiona e prendere quella passione come punto di partenza per approfondire il dialogo». Tutto questo, e molto altro ancora, nel capitolo centrale dell’Amoris laetitia, forse il più bergogliano dell’intero documento. Pochissime le note di riferimento e nessuna che rimanda al Sinodo, come a voler sottolineare l’originalità di riflessioni che scorrono via agevoli e discorsive, come le indicazioni che ogni buon padre di famiglia rivolge ai figli intorno al tavolo di cucina, dopo una cena nell’intimità domestica. Toni e parole che potrebbe apparire sorprendenti per un documento magisteriale, se Francesco non ci avesse abituati a sovvertire gli stereotipi di certa pastorale. SESSUALITÀ, EROTISMO, FECONDITÀ - Con gli stessi criteri di familiarità e di immediatezza, nel medesimo capitolo, il Papa si rivolge ai coniugi per parlare di sessualità e di erotismo. Anche in questo caso nessuna indulgenza a certa teologia nuziale per specialisti, un po’ aggrovigliata nelle sue contorsioni intellettuali, ma un discorso franco e diretto che parte da una visione positiva della sessualità. No quindi al sesso come violenza e manipolazione, come logica di dominio e annullamento della dignità. Ma guai «a intendere la dimensione erotica dell’amore come un male permesso, o come un bene da sopportare per il bene della famiglia, bensì come dono di Dio che abbellisce l’incontro tra gli sposi». La bellezza e quindi la fecondità dell’amore è anche il tema del capitolo successivo, il quinto, che quindi forma un saldo nucleo con il precedente. Anche in questo caso non mancano i passaggi di autentica originalità. Come quelli che il Papa concentra nei paragrafi 168171 che rappresentano una bella sintesi di pastorale dell’attesa: «Ad ogni donna in gravidanza desidero chiedere con affetto: abbi cura della tua gioia, che nulla ti tolga la gioia interiore della maternità». Parole bellissime che dovrebbero far riflettere su certi vuoti della nostra teologia familiare. Oggi la mamma in attesa che vuole approfondire la spiritualità della propria condizione ha a disposizione davvero poco. PADRI CON CHIARA IDENTITÀ MASCHILE - Ma le sorprese non finiscono qui. Poco più avanti, siamo al paragrafo 173, Francesco di apprezzare il femminismo, quando però non «pretende l’uniformità né la negazione della maternità». Poi, nella logica della reciprocità, qualche considerazione sulla figura paterna indispensabile, insieme alla madre, per creare l’ambiente familiare «più adatto alla maturazione del bambino ». Ma questo padre, osserva Francesco, deve avere «una chiara e felice identità maschile». Come a sottolineare l’inopportunità di alcune teorie che esaltano la confusione dei ruoli. In precedenza, al n. 56, aveva parlato esplicitamente dell’«ideologia genericamente chiamata gender», includendola nell’elenco degli elementi di crisi della famiglia. BRACCIA APERTE AI DIVORZIATI RISPOSATI - Ma al di là degli argomenti toccati – davvero tanti in questa sorta di enciclopedia familiare – la novità in qualche modo rivoluzionaria, è l’archiviazione di una certa pastorale dei “divieti e degli obblighi”. Nell’ottavo capitolo, su «Accompagnare, discernere e integrare le fragilità», le parole di Francesco non si prestano a interpretazioni fuorvianti: «Non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta “irregolare” vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante» (n. 301). E ancora: «È meschino soffermarsi a considerare solo se l’agire di una persona risponda o meno a una legge o a una norma generale, perché questo non basta a discernere e ad assicurare piena fedeltà a Dio nell’esistenza concreta di un essere umano». Si spezza così la correlazione ferrea che, negli ultimi trent’anni aveva stabilito un’equazione quasi inderogabile tra divorziati risposati e vita di peccato. Dove il “quasi” va riferito alla postilla che invitava coloro che aveva contratto un nuovo matrimonio a vivere come fratello e sorella. Nella Gioia dell’amore questa specificazione non compare più. E anzi si prendono le distanze da legalismi distanti anni luce dalla realtà, spiegando che «un Pastore non può sentirsi soddisfatto solo applicando leggi morali a coloro che vivono in situazioni “irregolari”, come se fossero pietre che si lanciano contro la vita delle persone». Da notare che il termine “irregolare” è sempre messo tra virgolette, come se il Papa non se la sentisse di esprimere una sentenza definitiva sulla “regolarità” o meno di un’esistenza. Anzi, «la strada della Chiesa è quella di non condannare eternamente nessuno» (n. 296), «si tratta di integrare tutti, si deve aiutare ciascuno a trovare il proprio modo di partecipare alla comunità ecclesiale» (n. 297). INDISSOLUBILITÀ, UN PUNTO DI ARRIVO - La direzione è quella già indicata dalla Relazione finale 2015. Una via del discernimento in cui vescovi e presbiteri sono invitati ad accompagnare la persona intenzionata a verificare le proprie scelte. Non si parla di “comunione ai divorziati risposati”. Non avrebbe senso, proprio perché si tratta di un percorso personalizzato, che deve tenere presente la varietà delle situazioni concrete e di cui sarebbe impossibile fin d’ora anticipare l’esito. Ma non la si esclude neppure. Appunto perché nell’integrazione esiste una gradualità che – spiega ancora il Papa – va rispettata e non può essere sancita a priori. Una rottura rispetto alla dottrina tradizionale dell’indissolubilità? Niente affatto. Il Papa ribadisce più volte che l’ideale dell’amore fedele, unico, fecondo e, appunto, indissolubile rimane un punto d’arrivo indiscutibile. Quello la Chiesa cattolica indica come traguardo per gustare pienamente «la gioia dell’amore» tra uomo e donna. Ma le prospettive sono rovesciate. Non un punto di partenza, perché le condizioni sempre più difficili di una crescente complessità culturale e sociale, impediscono di caricare sulle spalle dei giovani pesi di cui non conoscono più neppure il significato. Ma un traguardo, una meta a cui tendere, secondo appunto la legge della gradualità. Insomma, una prospettiva che sorride alle famiglie e incoraggia chi, nonostante tutto, crede e spera in un amore stabile e duraturo, che dia senso alla vita. «Tutto questo ci scomoda perché obbliga a ridefinire il quadro e gli obiettivi generali della vita pastorale. Ma a cosa serve mantenere un quadro stretto, obsoleto, che non abbraccia più la realtà in movimento?». Il presidente della Commissione episcopale Cei per la famiglia, la vita e i giovani, Pietro Maria Fragnelli, vescovo di Trapani, scorre le pagine dell’Amoris laetitia con grande soddisfazione, consapevole però del grande lavoro che attenderà nei prossimi anni vescovi e operatori di pastorale familiare. «Sì, è necessario un cambiamento della mentalità pastorale», ammette. Integrazione, discernimento, misericordia. Lungo le oltre 260 pagine dell’Esortazione sono le parole che ricorrono più spesso. Che distanza esiste tra la nostra pastorale ordinaria e queste sollecitazioni di Francesco? Il capitolo ottavo dell’Esortazione (“Accompagnare, discernere e integrare la fragilità”) contiene una prolungata riflessione sulla 'misericordia pastorale' (n. 307312), che non si limita a riproporre l’immagine della misericordia come «architrave che sorregge la vita della Chiesa», ma indica «un quadro e un clima» che «ci impedisce di sviluppare una teologia morale fredda da scrivania nel trattare i temi più delicati e ci colloca piuttosto nel contesto di un discernimento pastorale carico di amore misericordioso, che si dispone sempre a comprendere, a perdonare, ad accompagnare, a sperare, soprattutto a integrare» (n. 312). La nostra pastorale ordinaria è invitata a rivelare sempre più e sempre meglio «il volto della Sposa di Cristo, che fa suo il comportamento del Figlio di Dio che a tutti va incontro senza escludere nessuno» (Misericordiae vultus, 12). «Una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna e accarezza», ha detto papa Francesco a Firenze nel novembre 2015. Siamo chiamati a uscire con più decisione dal ruolo di controllori ed entrare in quello di facilitatori della grazia, annunciatori del «primato della carità come risposta all’iniziativa dell’amore gratuito di Dio» (n. 311). Una rinnovata pastorale della misericordia chiede un rinnovamento della riflessione teologico- morale, che – non rinunciando all’integralità dell’insegnamento morale della Chiesa – pone speciale attenzione nel mettere in evidenza e incoraggiare i valori più alti e centrali del Vangelo (n. 311). Una “rivoluzione” impegnativa o l’inizio di un percorso che non sappiamo dove ci porterà? Insomma, come pastore, è più soddisfatto e più preoccupato? Il Papa, esperto in umanità, chiede a tutta la Chiesa di entrare più chiaramente nelle «circostanze attenuanti» che il «discernimento pastorale» porta con sé (n. 301-306). In pratica come pastori e come comunità cristiana siamo invitati a frequentare di più gli “ambienti” nei quali si evidenziano situazioni spesso totalmente nuove e imprevedibili. Bisogna portarvi il lievito del Vangelo, non prontuari o ricette. Il Papa incoraggia tutta la Chiesa a uscire per essere sempre più pronta a portare nella mente e nel cuore l’esperienza umana ferita degli uomini e delle donne del nostro tempo. Le esigenze del Vangelo non hanno timore di confrontarsi con i “condizionamenti” e i “fattori che limitano la capacità di decisione”. Qui la frase netta di Francesco: «Non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta “irregolare” vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante » (n. 301). Il cammino pastorale che ci è proposto offre soddisfazioni e preoccupazioni insieme: dobbiamo tornare a formare le coscienze, a dedicare attenzione alla direzione spirituale e alla sana pratica della confessione, a combattere i conformismi pastorali modellati fondamentalmente su schemi sacramentali e non di evangelizzazione. Tutto questo ci scomoda perché obbliga a ridefinire il quadro e gli obiettivi generali della vita pastorale. Ma a cosa serve mantenere un quadro stretto, obsoleto, che non abbraccia più la realtà in movimento? A Gesù interessano tutte le “cento pecore” dell’ovile: il suo Spirito è all’opera e suscita nuovi carismi per la grande avventura della consegna del Vangelo della gioia alle famiglie di oggi. Anche a costo di fare l’esperienza della «letizia di essere giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù» (cfr. At 5,41). Il capitolo quinto è tutto una “traduzione familiare” dell’inno alla carità di san Paolo, in cui emerge un Papa che conosce nel dettaglio le buone abitudini che cementano la vita familiare. Non crede che anche le nostre comunità dovrebbero fare proprio in modo più sistematico questo sguardo positivo? I due capitoli centrali dedicati a “L’amore nel matrimonio“ e a “L’amore che diventa fecondo” sono una straordinaria sintesi di tutto ciò che si vorrebbe ricevere e donare in fatto di «Letizia dell’amore». La “casa” che Gesù e gli apostoli invitano a costruire con la famiglia cristiana è ricca del «nostro amore quotidiano». Una trentina di paragrafi (n. 89-119) offrono l’alfabeto dell’amore applicando le pregnanti espressioni del capitolo 13 della prima Lettera ai Corinzi all’esistenza concreta di ogni famiglia. Lo “sguardo positivo” delinea un orizzonte di grande speranza. È l’amore che tutto sopporta: il Papa cita l’amore «malgrado tutto » di Martin Luther King (n. 118) e del coniuge che, costretto alla separazione fisica, sa andare oltre i sentimenti e continua ad amare in forza della «carità coniugale» (n. 119). Un amore che cresce e diventa sempre più «icona dell’amore di Dio per noi» (n. 121), capace di non cedere alla «cultura del provvisorio» (n. 124). Nei paragrafi sulla preparazione al matrimonio, il Papa insiste sulla valenza educativa del cammino, sia prossimo, sia soprattutto, remoto. E noi, in Italia, siamo in linea con queste indicazioni? Il Papa incoraggia ogni Chiesa locale a discernere il modo migliore per organizzare la preparazione al matrimonio, evitando però di ridursi alla consegna di tutto il Catechismo o di «saturarli con troppi argomenti» (n. 207). Ma evitando anche di proporre «idealizzazioni» indebite, che crollano di fronte alla scoperta della realtà. Citando il documento della Conferenza episcopale italiana circa gli “Orientamenti pastorali sulla preparazione al matrimonio e alla famiglia”, curato dalla Commissione episcopale per la famiglia e la vita, papa Francesco invita a cogliere la «preziosa risorsa» e l’«amicizia contagiosa» che coloro che si sposano portano nella Chiesa e nella società. Di grande interesse anche i paragrafi dedicati all’educazione sessuale (n.280 e seguenti), in cui – tra tante sottolineature forti – invita alla riscoperta del «sano pudore»… Non crede sia una riscoperta che meriterebbe di essere rilanciata con qualche evidenza? Sì, dopo aver riconosciuto la necessità di ricercare «le influenze positive» e «un adeguato linguaggio» per introdurre i ragazzi e i giovani alla sessualità, papa Francesco richiama la grande importanza di ritrovare un «sano pudore» un «valore immenso», attuale anche oggi come «difesa naturale della persona », protezione della sua interiorità e argine ad ogni banale cosificazione dell’amore. È grande e urgente il lavoro culturale e pastorale da fare in questo campo. CORRIERE DELLA SERA di sabato 9 aprile 2016 Pag 5 Paglia e il nodo dei sacramenti: “Dobbiamo curare le ferite, non agire come un tribunale” di Gian Guido Vecchi «Tempo fa parlavo al Santo Padre della necessità di andare oltre il recinto, in cerca della pecorella smarrita, con l’atteggiamento di Gesù che va a recuperare tutti, anche i divorziati risposati. Francesco mi ha corretto dicendomi: l’esempio non va bene, può essere equivocato, si potrebbe pensare che queste persone stiano fuori dal recinto. E invece no, sono nella Chiesa: non sono scomunicati». L’arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente del pontificio Consiglio per la Famiglia, sorride: «A coloro che criticano in nome dell’intangibilità delle dottrina, rispondo con le parole di Giovanni XXIII: non è il Vangelo che cambia, siamo noi che lo comprendiamo meglio». Qual è il cuore del testo? «L’Esortazione apre profeticamente una prospettiva: la famiglia non riguarda semplicemente la storia degli individui e dei loro desideri di amore, che pure ci sono, ma la storia stessa del mondo. Si potrebbe dire che è la madre di tutti i rapporti. Il testo parla della dimensione di familiarità nel creato, nella storia, nella società. La Chiesa è famiglia, i popoli devono essere famiglia. Un cambio di passo e di stile». In che senso, eccellenza? «La vita delle famiglie, per la Chiesa, non deve essere prima di tutto un insieme di questioni morali da risolvere, ma piuttosto la sorgente della vitalità della fede. La Chiesa è madre, non osserva e giudica dal di fuori. Le famiglie non sono i suoi sudditi, sono i figli tra i quali vive, con i quali affronta gli ostacoli e le contraddizioni inevitabili della vita. La concretezza: anche dell’amore, descritto seguendo l’inno alla carità di San Paolo, si parla in chiave tutt’altro che mistica o romantica». Francesco premette un «cosiddette» quando parla delle coppie che finora si definivano «irregolari»... «Appunto. Può darsi che sia così in astratto, ma non nella singola situazione concreta. Per dire: una donna è stata abbandonata dal marito, ha dei figli, incontra un uomo con il quale li cresce, magari ne nascono altri, l’unione è stabile da anni... Ma come si fa a chiamare questo solo un adulterio? Stiamo lì a fare il tribunale? La Chiesa non è un pm né un notaio, ma è stata impegnata dal Signore nella protezione dei deboli, nel riscatto dei debiti, nella cura delle ferite di padri, madri, figli...» Che succederà, ora? «Io mi auguro che tutti, sacerdoti e semplici fedeli, sappiano accompagnare, aiutare a discernere e integrare: un itinerario di amore che diventa la prima regola. Ogni famiglia ferita ha dietro a sé drammi, dolori, afflizioni. Non è la regola che salva o accompagna, ma l’amore. Un amore che chiama malattia la malattia ma è proteso a guarire». E l’indissolubilità? «Il matrimonio è indissolubile, ma il legame della Chiesa con i figli e le figlie di Dio lo è ancora di più: perché è come quello che Cristo ha stabilito con la Chiesa, piena di peccatori che sono stati amati quando ancora lo erano. E non sono abbandonati, neppure quando ci ricascano». In concreto, che si fa? «Non c’è la regola che i divorziati possano fare la comunione. Oggettivamente non possono. Però non è detto che soggettivamente sia lo stesso. Non esiste la situazione in astratto, ne esistono milioni. Il vescovo dovrà aiutare i padri spirituali, i confessori, perché esercitino la misericordia del Signore coniugando l’ideale con la gradualità della pedagogia di Dio. Il testo parla di esami di coscienza, itinerari di penitenza, amore per i poveri: il discernimento. In questo itinerario la partecipazione cresce e può diventare piena». Compresi i sacramenti? «Sì, la via sacramentale è in questo itinerario perché la legge suprema della Chiesa è condurre tutti alla salvezza». E chi decide? «Il confessore in dialogo col fedele... La salvezza non è mai individuale, “un fai da te”, si tratta di ritessere un tessuto comunitario del quale i sacramenti sono insieme segno e strumento. Il vescovo garantisce questo itinerario: è importante che in ogni chiesa locale si affinino i criteri di discernimento già indicati nel testo». Pag 5 Nelle diocesi: giusto aiutare chi ha sofferto di Fabrizio Caccia Il teologo Forte: c’è attenzione verso la fede “incarnata” Roma. Si annunciano giornate di studio e ampi dibattiti nelle diocesi di tutto il mondo, sui temi posti ieri dall’esortazione «Amoris Laetitia» di Francesco, la famiglia, il matrimonio, il sesso, «perché bisogna guardare a Cristo e alla dottrina della Chiesa, ci dice il Papa, ma anche alla vita concreta delle persone», spiega il vescovo di BolzanoBressanone, Ivo Muser. Un Papa che «vuole essere vicino all’umano in tutte le sue espressioni», aggiunge il teologo e arcivescovo di Chieti-Vasto, Bruno Forte, un Papa che indica la fede per quella che è - «incarnata» - e non solo come una serie di princìpi astratti. Ma non solo: «Il documento è una meraviglia - esulta il diacono Paolo Tassinari, della diocesi di Fossano-Cuneo, paladino del progetto «L’anello perduto» per i separati e i divorziati risposati -. Perché l’Amoris Laetitia manifesta un tono che non è più di rimprovero ma di stima nei confronti della storia di ogni famiglia, di quelle felici ma anche di quelle che non hanno avuto fortuna». Verso di loro Bergoglio sembra tendere una mano: «Sì ma attenzione — avverte Tassinari —. Il Papa non offre l’assoluzione, non dà a tutti la comunione. Non dice: prego, accomodatevi. Francesco piuttosto “mette” in comunione, parla infatti di “discernimento”, di “accompagnamento” delle persone, caso per caso, nelle singole diocesi. È un cammino lungo, non bisogna creare illusioni». Pure il ministro con delega alla Famiglia, Enrico Costa, loda Francesco: «Come governo, davanti al suo richiamo, dobbiamo impegnarci in futuro perché ogni norma sia concepita a misura di famiglia...». «L’opera è anche di gradevole lettura», dice don Giovanni Cereti, rettore della confraternita di San Giovanni Battista de’ Genovesi, buon amico del Papa. E il cardinale Lorenzo Baldisseri, segretario generale del Sinodo, trova infine «significativo che Amoris Laetitia esca in pieno Giubileo della misericordia», perché «importante», dice, è lo «sforzo pastorale per consolidare i matrimoni», ma «il Papa non dimentica di rivolgere la sua attenzione alle fragilità delle famiglie e persino al loro fallimento». Pag 6 La Chiesa e il sesso. Quando Paolo disse: “Le donne siano sottomesse ai mariti” di Aldo Cazzullo Il confronto con le parole del Pontefice Il matrimonio è un dono di Dio. Tale dono include la sessualità (Jorge Mario Bergoglio, papa Francesco, d’ora in poi semplicemente Francesco). «Vi sono infatti eunuchi che sono nati così dal ventre della madre; ve ne sono alcuni che sono stati resi eunuchi dagli uomini; e vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca» (Matteo 19,12). Dio stesso ha creato la sessualità, che è un regalo meraviglioso per le sue creature (Francesco). «La donna è un tempio costruito su una cloaca. Tu, donna, sei la porta del diavolo, tu hai circuìto quello stesso (uomo) che il diavolo non osava attaccare di fronte. È a causa tua che il figlio di Dio ha dovuto morire; tu dovrai fuggire per sempre in gramaglie e coperta di cenci» (Tertulliano). L’erotismo più sano, sebbene sia unito a una ricerca di piacere, presuppone lo stupore, e perciò può umanizzare gli impulsi. In nessun modo possiamo intendere la dimensione erotica dell’amore come un male permesso o come un peso da sopportare per il bene della famiglia, bensì come dono di Dio che abbellisce l’incontro tra gli sposi (Francesco). «Se è un bene non toccare una donna, allora è un male toccarla: gli sposati vivono come le bestie, infatti nel coito con le donne gli uomini non si distinguono in nulla dai porci e dagli animali irrazionali» (San Gerolamo). L’unione sessuale, vissuta in modo umano e santificata dal sacramento, è a sua volta per gli sposi via di crescita nella vita della grazia. È il mistero nuziale (Francesco). «Maria fu pura, santa, senza macchia, risplendente, dai sentimenti divini, santificata, libera da tutte le lordure del corpo, del pensiero, dell’anima» (Sofronio da Gerusalemme). La Bibbia è popolata da famiglie, da generazioni, da storie di amore e di crisi familiari (Francesco). «Se fosse amico il re dell’universo / noi pregheremmo lui della tua pace / poi c’hai pietà del nostro mal perverso» (Dante Alighieri, Inferno, V canto, episodio di Paolo e Francesca). «Le donne siano sottomesse ai mariti» (San Paolo, Lettera agli Efesini 5, 22). È importante essere chiari nel rifiuto di qualsiasi forma di sottomissione sessuale. Perciò è opportuno evitare ogni interpretazione inadeguata della Lettera agli Efesini. San Paolo qui si esprime in categorie culturali proprie di quell’epoca, ma noi non dobbiamo assumere tale rivestimento culturale, bensì il messaggio… (Francesco). Desideri, sentimenti, emozioni, quello che i classici chiamavano «passioni», occupano un posto importante nel matrimonio… L’essere umano è un vivente di questa terra e tutto quello che fa e cerca è carico di passioni (Francesco). «Sì, dalla volontà perversa si genera la passione, e l’ubbidienza alla passione genera l’abitudine, e l’acquiescenza all’abitudine genera la necessità» (Sant’Agostino, Confessioni, Libro VIII). Provare un’emozione non è qualcosa di moralmente buono o cattivo per sé stesso. Incominciare a provare desiderio o rifiuto non è peccaminoso né riprovevole (Francesco). «I desideri della carne portano alla morte, mentre i desideri dello Spirito portano alla vita e alla pace. Infatti i desideri della carne sono in rivolta contro Dio, perché non si sottomettono alla sua legge e neanche lo potrebbero» (San Paolo, Lettera ai Romani 8,21). Provare piacere per qualcuno non è di per sé un bene. Se con tale piacere io faccio in modo che quella persona diventi mia schiava, il sentimento sarà al servizio del mio egoismo. Credere che siamo buoni solo perché «proviamo dei sentimenti» è un tremendo inganno. Ci sono persone che si sentono capaci di un grande amore solo perché hanno una grande necessità di affetto, però non sono in grado di lottare per la felicità degli altri e vivono rinchiusi nei propri desideri (Francesco). «Le donne sono destinate principalmente a soddisfare la lussuria degli uomini. Dove c’è la morte ivi c’è il matrimonio, dove non c’è matrimonio ivi non c’è morte» (San Giovanni Crisostomo). Più che parlare della superiorità della verginità sotto ogni profilo, sembra appropriato mostrare che i diversi stati di vita sono complementari, in modo tale che uno può essere più perfetto per qualche aspetto e l’altro può esserlo da un altro punto di vista (Francesco). «Maria, per la grazia di Dio, è rimasta pura da ogni peccato personale durante tutta la sua esistenza» (Catechismo della Chiesa cattolica, punto 493). D’altra parte, i momenti di gioia, il riposo o la festa, e anche la sessualità, si sperimentano come una partecipazione alla vita piena della sua Risurrezione di Cristo (Francesco). «Cristo non rideva mai» (Jorge da Burgos, da «Il nome della rosa» di Umberto Eco). Un vero amore sa anche ricevere dall’altro, è capace di accettarsi come vulnerabile e bisognoso, non rinuncia ad accogliere con sincera e felice gratitudine le espressioni corporali dell’amore nella carezza, nell’abbraccio, nel bacio e nell’unione sessuale (Francesco). Nei duemila anni di discussione tra le massime intelligenze della cristianità sull’amore e sul sesso si trova tutto e il contrario di tutto. Le interpretazioni mutano con il mutare delle condizioni storiche e delle sensibilità. Ma bastano questi pochi cenni per realizzare che l’esortazione «Amoris Laetitia», a cominciare dal titolo, rappresenta una grande innovazione nella storia della Chiesa (per quanto ovviamente la sessualità sia concepita dal Papa all’interno del matrimonio); e basterebbe questa per far capire perché Francesco sia molto amato da tanti ma anche molto detestato da qualcuno; e perché, comunque prosegua il suo pontificato, questo Papa è destinato a entrare nella storia, e dopo di lui nulla sarà più come prima. Pag 32 Quella porta aperta sull’amore che accoglie di Michela Marzano Le leggi morali non sono pietre che si possono lanciare contro la vita delle persone, scrive papa Francesco nell’esortazione apostolica post-sinodale Amoris Laetitia. Invitando la Chiesa ad avere «una cura speciale per comprendere, consolare e integrare chiunque», e a evitare tutti quei giudizi di valore che non tengano conto dell’estrema complessità dell’esistenza umana. La carità vera infatti, scrive sempre il Papa, è «immeritata», «incondizionata» e «gratuita». Una novità? Forse no. Visto che era stato proprio papa Francesco, a proposito delle persone omosessuali, a chiedersi chi fosse lui per giudicarle. E che, nel volume Il nome di Dio è misericordia, aveva ricordato come l’unica verità - quella con la «v» maiuscola che in tanti invocano ogniqualvolta si tratti di scagliarsi contro coloro che non corrispondono al «bene» o al «giusto» - fosse proprio la misericordia divina. Eppure è proprio di novità che si deve parlare leggendo l’Amoris Laetitia. A cominciare proprio da quest’esortazione a non lanciare pietre e ad essere umili. A valutare caso per caso le situazioni «irregolari» perché il «grado di responsabilità non è uguale in tutti i casi». A riscoprire la dimensione erotica dell’amore e a non immaginare che la sessualità debba sempre e comunque essere finalizzata alla procreazione visto che anche il sesso è un «meraviglioso dono di Dio». Certo, ancora una volta viene ribadito che solo l’unione esclusiva tra un uomo e una donna svolge una funzione sociale piena rendendo possibile la fecondità: «La coppia che ama e genera vita è una scultura vivente», scrive Bergoglio. Ma poi, parlando della fecondità, papa Francesco spiega anche che questa fecondità non si esaurisce nella procreazione o nell’adozione, e che ci sono modi diversi di vivere la fecondità dell’amore. «La maternità non è una realtà esclusivamente biologica», scrive il Pontefice, e la forza di una famiglia risiede essenzialmente nella sua «capacità di amare e di insegnare l’amore». Ma di quale amore, appunto, ci parla papa Francesco? Di un idillio o di un dovere? Di una realtà naturale o di uno sforzo? Di un destino o di una fatalità? In realtà, la «gioia dell’amore» su cui si sofferma il Papa sembra un amore che non ci chiede di essere diversi da quello che siamo e che non ci giudica, che attraversa le pieghe delle fratture e delle contraddizioni che ci portiamo dentro e che non ci costringe a cambiare o a fare sforzi per meritare cura e attenzioni. Sembra essere un amore che accoglie e che riconosce. Ma per accogliere e riconoscere non si dovrebbe poi anche mettere da parte ogni giudizio di valore e ogni dogmatismo? Certo, l’amore di cui ci parla il Papa si realizza prima di tutto tra l’uomo e la donna che, amandosi, diventano una sola carne. Ma quando Bergoglio chiede autocritica per le rigidità del passato, non sta suggerendo anche che quest’amore deve poter rispettare l’alterità, riconoscendo l’esistenza di un’autonomia individuale e di una necessaria e salutare distanza all’interno della coppia? Certo, è un amore fecondo. Ma la fecondità non è anche, e forse prima di tutto, simbolica? Esattamente come la sessualità, che è un modo di prendersi cura dell’altro e di dialogare, sapendo che nessun dialogo è possibile se non si aprono in sé spazi vuoti capaci di accogliere l’alterità altrui. L’amore di papa Francesco è un amore che si realizza pienamente nel progetto matrimoniale di un uomo e di una donna. Ma nell’invito a non giudicare e a non scagliare norme - «Non mi riferisco solo ai divorziati che vivono una nuova unione, ma a tutti, in qualunque situazione si trovino» - non emerge in fondo la possibilità per tutti e tutte, anche indipendentemente dal proprio orientamento sessuale, di vedere riconosciuto il proprio amore? Coppie di fatto e coppie omosessuali, quindi. Che il Pontefice non equipara mai al matrimonio, anzi - forse non può, forse è chiedere troppo. Ma la cui dignità non sembra mai essere negata, soprattutto quando il Papa ci invita a crescere nell’amore inteso come reciproco aiuto, senza «un accento quasi esclusivo sul dovere di procreazione». Conosciamo il prologo del Vangelo di san Giovanni, in cui l’evangelista non solo scrive che in principio era il Verbo e che il Verbo era Dio, ma anche che il Verbo si è fatto carne e che è venuto ad abitare in mezzo a noi. Se è vero come è vero che l’amore è carità e che la carità non giudica, è paziente, riconosce e accudisce, allora l’ Amoris Laetitia non è anche, e forse soprattutto, un amore che diventa verbo e che, non facendo più distinzione tra le persone in base alla propria appartenenza («in qualunque situazione si trovino»), spalanca la porta a una misericordia immeritata, incondizionata e gratuita per tutti e tutte? Perché ci dovrebbe essere d’altronde chi la merita e chi non la merita in base a caratteristiche, come l’identità o l’orientamento sessuale, che di fatto non si scelgono? Perché dovrebbe essere «condizionata» e, poi, condizionata a cosa? A figli che arrivano «naturalmente» talvolta senza averli nemmeno desiderati? A un matrimonio che talvolta si sfascia senza che nessuno lo avrebbe mai potuto immaginare? Ci sono cose che papa Francesco dice chiaramente, altre che vengono solo suggerite, altre ancora che forse, in tanti, abbiamo sperato di trovare e che invece sono assenti. Ma in fondo la porta è aperta, e va bene così. Visto che, come ricorda il Pontefice, nella Chiesa è necessaria un’unità di dottrina e di prassi. «Ma ciò non impedisce che esistano diversi modi di interpretare alcuni aspetti della dottrina o alcune conseguenze che da essa derivano». Pag 33 La volontà di riforme e il magistero della Chiesa di Massimo Franco Il tono è inclusivo, problematico, disponibile a prendere in considerazione i punti di vista eccentrici, le situazioni-limite, le esperienze locali. Ma quello che Francesco definisce, in puro lessico bergogliano, «un prezioso poliedro», figura geometrica che tiene insieme cose molto diverse e in apparenza incompatibili, ha un nucleo duro, in qualche misura intoccabile: una dottrina cattolica che sulla famiglia può rivelarsi più o meno flessibile; può ammettere la possibilità del matrimonio ai divorziati caso per caso; esalta il ruolo della coscienza. Eppure non intacca nessuno dei suoi cardini fondamentali. Il documento con quale Francesco ieri ha sintetizzato i risultati dei due sinodi sulla famiglia riflette fedelmente il suo approccio. E in parallelo rispecchia l’esigenza di mediare e accogliere le preoccupazioni di una nomenklatura ecclesiastica che non vuole apparire di retroguardia. Ancora meno, però, è incline a assecondare posizioni progressiste che metterebbero in discussione certezze e principi ai quali si aggrappa in una fase di grande confusione. Le circa duecento pagine di «esortazione apostolica post-sinodale» risentono delle tensioni emerse negli ultimi mesi nella Chiesa. E mostrano la determinazione del Papa a tenerne conto. La rivendicazione di una linea che, fuori dal mondo religioso, si potrebbe definire «centrista», è il suo modo per garantire un’unità altrimenti assai precaria. Non si possono dimenticare gli attacchi, alcuni al limite della provocazione, avvenuti prima e durante il Sinodo per piegarne i risultati in una direzione o nell’altra. Documenti di cardinali conservatori dai contorni un po’ opachi; fughe di notizie su conclusioni iperprogressiste che in realtà non erano state ancora tirate. E, intorno, una curiosità mista a speranza ma anche a resistenza sulla strategia che Jorge Mario Bergoglio stava perseguendo. Il Pontefice ha lasciato che la discussione fosse libera. Voleva che ci si esprimesse anche criticamente, per poi tirare le sue conclusioni. E le conclusioni rese note ieri sono una miscela di ortodossia e aperture. Le sue riserve verso chi tra gli ecclesiastici invoca troppo l’autorità del magistero, finendo per trasmettere una «dottrina fredda e senza vita», sono un richiamo implicito a fare i conti con la realtà. E l’invito a prendere atto che oggi non esiste solo la Famiglia con la f maiuscola, ma situazioni familiari frammentate, complesse, lacerate, è rivolto all’interno di un corpo ecclesiastico disorientato. Anche la rivalutazione della sfera sessuale delle coppie sposate fa un certo effetto: soprattutto se si pensa alle posizioni più tradizionaliste e «pubbliche» del mondo cattolico. Francesco sembra voler bacchettare il clericalismo che usa i principi religiosi come strumenti assoluti e un po’ ossificati. E c’è molto Bergoglio nella difesa degli immigrati «rifiutati e inermi», dei disabili e delle loro famiglie, dei bambini e delle bambine orfani. Si ritrova nel suo sdegno per la pedofilia, e nell’attacco alla «famiglia perfetta» e astratta raccontata dalla società del consumismo. Ma quando si parla di aborto, eutanasia, accanimento terapeutico, pena di morte, il primato del magistero della Chiesa viene ribadito in modo tranquillo, non arcigno, eppure inequivocabile. Su quello che chiama eufemisticamente «matrimonio imperfetto», alludendo alle coppie divorziate, il Papa accenna alla possibilità che si risposino «dove è possibile», delegando alle chiese locali il compito di giudicare. E il richiamo al valore della famiglia tra uomo e donna si inserisce pienamente nel solco della tradizione. Francesco esalta quella allargata e i nuclei con molti figli, facendo probabilmente felici i cattolici del Family day e correggendo l’impressione sbagliata che nutrisse qualche riserva in proposito. Soprattutto, declina con una modernità culturale non scontata il rapporto di parità tra uomo e donna: ad esempio ricordando che i problemi della famiglia non nascono dall’emancipazione della donna. È una tesi «maschilista», secondo il pontefice argentino. Ma essere un Papa tutt’altro che retrivo non significa rinunciare alla difesa della famiglia «naturale fondata sul matrimonio». La sfida alla Chiesa di quella che definisce «ideologia genericamente chiamata gender» è affrontata con durezza. Il giudizio papale è radicalmente negativo, perché a suo avviso si tratta di un’ideologia che «nega la differenza e la reciprocità naturale di uomo e donna. Essa svuota la base antropologica della famiglia». Francesco si dice preoccupato dai «progetti educativi e orientamenti legislativi» che ne derivano. E soprattutto dichiara la propria inquietudine perché «alcune ideologie di questo tipo» cercano «di imporsi come un pensiero unico che determini anche l’educazione dei bambini». Insomma, per quanto sfaccettato, a tratti sorprendente, il «poliedro» di Bergoglio rimane fortemente ancorato al magistero della Chiesa. Glielo impone l’esigenza di tenerla unita, più forte della sua volontà di riforma. LA REPUBBLICA di sabato 9 aprile 2016 Pagg 6 – 7 La svolta del Papa: “Ostia ai divorziati, ma caso per caso. Il sesso dono di Dio” di Marco Ansaldo Pubblicata l’esortazione “Amoris laetitia”, le nuove guida per i pastori e le famiglie Città del Vaticano. Duecentosessantatrè pagine, scritte in più lingue, con tiratura iniziale di 3 milioni e mezzo di copie, destinate a 60 Paesi nel mondo, divise in 9 capitoli densi, pieni di aperture, attacchi ai prelati conservatori, ma pure di autocritiche e ammissioni sull'importanza del sesso non solo a fini procreativi. E il punto cruciale del documento, quello sulla comunione adesso possibile anche per i divorziati risposati, messo in una semplice nota a piè di pagina: la numero 351. Sette brevi righe, che danno però una svolta alla Chiesa cattolica, in modo prudente ma inequivocabile, pur senza toccare la dottrina. È questa la scelta fatta da Papa Francesco nel presentare la sua Esortazione apostolica Amoris Laetitia, il documento che raccoglie i risultati dei due Sinodi sulla famiglia indetti nell'ottobre 2014 e 2015, portando una serie di «novità», come le definisce il cardinale Christoph Schoenborn, arcivescovo di Vienna; o di «passi avanti», come preferisce dire il cardinale Lorenzo Baldisseri, segretario generale del Sinodo. L'ottavo dei nove capitoli, intitolato "Accompagnare, discernere e integrare la fragilità" è quello più ricco di spunti di riflessione. «Non è più possibile - scrive il Pontefice - dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta "irregolare" vivano in stato di peccato mortale». È uno dei momenti più significativi dell'Esortazione, un passaggio atteso da molti fedeli. E Francesco lo completa più avanti, nel punto più delicato del documento. «È possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l'aiuto della Chiesa». E qui appare la nota numero 351, che in basso recita: «In certi casi, potrebbe essere anche l'aiuto dei Sacramenti. Per questo, ai sacerdoti ricordo che il confessionale non dev'essere una sala di tortura bensì il luogo della misericordia del Signore». Il Papa chiede a chi ha sbagliato un cammino di pentimento. «Nessuno può essere condannato per sempre». E afferma: «I battezzati che sono divorziati e risposati civilmente devono essere più integrati nelle comunità cristiane nei diversi modi possibili, evitando ogni forma di scandalo. Essi non devono essere scomunicati, ma possono maturare come membra vive della Chiesa». Francesco accentua l'importanza di coloro che hanno il compito di accompagnare le "famiglie ferite": «Invito i fedeli che stanno vivendo situazioni complesse ad accostarsi a un colloquio con i loro pastori o con laici che vivono dediti al Signore. Riceveranno una luce che permetterà di comprendere meglio quello che sta succedendo». In un altro passo ricorda: «Sappiano i pastori che sono obbligati a ben discernere le situazioni». Ecco che il punto del giudicare caso per caso e non con "ricette facili", diviene un momento fondamentale. Il Papa esige «una salutare reazione autocritica». E spiega: «Abbiamo presentato un ideale teologico di matrimonio troppo astratto, quasi artificiosamente costruito, lontano dalla situazione concreta e delle effettive possibilità delle famiglie così come sono». CONSERVATORI "CUORI CHIUSI" - Le parole del Pontefice argentino diventano ferme. «Un pastore non può sentirsi soddisfatto solo applicando leggi morali a coloro che vivono in situazioni 'irregolari', come se fossero pietre che si lanciano contro la vita delle persone. E il caso dei cuori chiusi, che spesso si nascondono perfino dietro gli insegnamenti della Chiesa per sedersi sulla cattedra di Mosè e giudicare, qualche volta con superiorità e superficialità, i casi difficili e le famiglie ferite». Nel quarto capitolo Francesco approfondisce la dimensione erotica dell' amore, con un contributo che non ha finora paragoni in precedenti documenti papali. La sessualità «è un regalo meraviglioso» che Dio ha fatto alle sue creature e nella vita dei coniugi non può essere limitato alla necessità della procreazione. Il Pontefice sostiene la sua necessità e si domanda «se le nostre istituzioni educative hanno assunto questa sfida». «I giovani - spiega Francesco devono potersi rendere conto che sono bombardati da messaggi che non cercano il loro bene e la loro maturità». La persona omosessuale «va rispettata nella sua dignità, con la cura di evitare ogni marchio di ingiusta discriminazione» ma «non esiste fondamento alcuno per stabilire analogie tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio su matrimonio e famiglia». Nel paragrafo conclusivo il Papa afferma: «Nessuna famiglia è una realtà perfetta e confezionata una volta per sempre, ma richiede un graduale sviluppo della propria capacità di amare». Il Papa abbraccia globalmente la famiglia: non quella "ideale" della pubblicità, come lui stesso in diversi passaggi sottolinea, ma quella «così come è». E termina: «Camminiamo, famiglie, continuiamo a camminare!». Roma. Non nasconde la sua delusione Andrea Rubera, omosessuale e cattolico, sposato, padre di tre bambini, portavoce di "Cammini di speranza", movimento italiano di gay credenti. «Se lascio parlare la mia parte emotiva devo dire che mi aspettavo di più, tutti noi ci aspettavamo di più. In certi passaggi Bergoglio prova ad aprire, ma poi conferma subito la dottrina tradizionale. Ma forse con il tipo di Chiesa che lo circonda non poteva fare di più». Rubera, di famiglie omogenitoriali non c'è traccia nel documento. «È vero, ed è triste. La Chiesa continua a negare l'accoglienza alle nostre famiglie, facendo finta di non vedere la bellezza del nostro percorso d'amore. Però non chiude le porte». In che senso? «Non c' è la "restaurazione" auspicata da quella Curia che sta tentanto in tutti i modi di frenare Bergoglio. E il Papa sottolinea il suo rispetto per le persone omosessuali». Non è poco? Come gay cattolici speravate molto in Francesco. «Sì, è poco, perché impedisce a noi e ai nostri figli di vivere la fede in modo comunitario. Questo testo dimostra la profonda spaccatura della Chiesa. Poco coraggio verso tutte le nuove forme di famiglia, ma grande considerazione per il nostro cammino individuale. E' uno spiraglio». Roma. «Le parole di papa Francesco esprimono grande misericordia. Ma la dottrina della Chiesa non cambia, anzi si rafforza». Massimo Gandolfini, portavoce del "Family day", non vede nell'Amoris Laetitia alcuna apertura "laica" su temi come il divorzio, la sessualità, l'omosessualità. Gandolfini, il Papa però invita ad esaminare caso per caso. Diventerà possibile, per alcuni divorziati, accedere alla comunione. «Per alcuni appunto, e a discrezione del sacerdote. Un esempio: il coniuge debole, colui o colei che è stato lasciato, è certamente in una posizione diversa rispetto a chi invece ha abbandonato e tradito». Dunque pur essendo divorziato avrà diritto alla comunione? «Sì, credo che questo sia il senso». Ma nessuno dei predecessori di papa Bergoglio era arrivato fin qui «Infatti la misericordia per la persona è la cifra di questo pontefice». E la sessualità? Il Papa sottolinea la dimensione erotica dell'amore. «Certo, nessuno lo nega. Ma un conto è riconoscere l'esistenza dell'eros, altro è separare la sessualità dalla procreazione. Anzi il Papa esalta enormemente la famiglia naturale. È inutile tentare di far dire a Bergoglio ciò che lui non dice». Francesco chiede rispetto al di là dell'orientamento sessuale. I gay, ad esempio. «Noi cattolici rispettiamo tutti. Anche gli omosessuali. Ma questo non vuol dire certo un'apertura della Chiesa al loro modo di vita». Pag 9 Schönborn: “Io, figlio di separati, felice per l’apertura della comunione alle coppie risposate”. Burke: “L’eros non è il male, ma non deve mai essere in contrasto con la procreazione” di Paolo Rodari Città del Vaticano. «Leggo Amoris laetitia con gioia ed emozione perché sento che il discorso sulle situazioni difficili che si trovano a vivere alcune coppie sta cambiando. Penso, ad esempio, alla situazione in cui è un mio seminarista, un bravo ragazzo, figlio di una coppia di risposati. Ha fratelli e sorelle da parte di madre e da parte di padre. È l' unico figlio della nuova coppia. Come si dovrebbe sentire se il discorso che sente fare dalla Chiesa è: tu sei un irregolare? Credo vi sia bisogno di chiarezza e di accoglienza. In questo senso Amoris laetitia è un testo bellissimo». A margine della presentazione in sala stampa vaticana di Amoris laetitia, è il cardinale Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna, figlio di una famiglia che ha vissuto il divorzio, a spiegare a Repubblica le emozioni per un testo «atteso da tanto». Eminenza, fino a oggi la Chiesa poteva dare l'impressione di escludere alcune persone, in particolare gli irregolari? «Francesco chiede di integrare tutti. Perché tutti necessitiamo di misericordia. "Chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra", dice Gesù. Nessuno deve sentirsi condannato. Il documento supera l'artificiosa, esteriore divisione fra "regolare" e "irregolare" e pone tutti sotto l'istanza comune del Vangelo, secondo le parole di san Paolo: "Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per usare a tutti misericordia"». Amoris laetitia non dà nuove disposizioni canoniche. Eppure è un passo nuovo? «Ci sono situazioni dove non è possibile trovare una soluzione canonica. Ma laddove in coscienza si ha la certezza morale che un primo matrimonio non è sacramentale, anche senza chiarimenti canonici, si può ammettere ai sacramenti. Questa cosa né Giovanni Paolo II né Benedetto XVI l'hanno mai esplicitamente messa in dubbio. Già Wojtyla diceva che se non c'è scandalo si può, in questo caso, ammettere ai sacramenti. Queste sfumature sono sempre esistite. Francesco continua un solco già aperto». Se il discernimento non riesce a trovare una soluzione come si deve agire? «Il discernimento comporta una certa incertezza, perché i princìpi sono evidenti e chiari ma quanto più si scende nell'azione, nelle situazioni concrete, tanto più diventa delicato discernere. Il discernimento è un concetto classico centrale degli esercizi ignaziani. Questi devono aiutare a discernere la volontà di Dio nelle situazioni concrete della vita. Magari un sacerdote avrà una visione più larga e un altro una più chiusa. Ma è sempre stato così. È il difficile e delicato lavoro del discernimento». Il testo apre nuove strade anche se canonicamente non ci sono novità? «Proprio in Vaticano, nel lontano 1981, un cardinale tedesco famoso per la sua chiarezza dottrinale, il cardinale Joseph Höffner, disse: "I casi vanno valutati dai rispettivi confessori". Nel senso che c'è una responsabilità personale nella valutazione. Non si può giocare coi sacramenti e con la coscienza. Per questo ciò che conta è chiedere alle coppie in difficoltà: come siete davanti a Dio e davanti alla vostra coscienza? A questa operazione né la regola canonica né il prete possono rispondere. Perché, ad esempio, il caso di una coppia risposata che ritiene in coscienza che il proprio precedente matrimonio sia non valido è del tutto diversa da chi ha invece rotto il proprio matrimonio per leggerezza. Sono due situazioni moralmente diverse davanti a Dio e davanti alla Chiesa. Francesco in questo senso non innova, ma resta nella grande tradizione pastorale prudenziale della Chiesa. È il ricorso alla prudenza pastorale che ogni sacerdote e vescovo devono esercitare». Amoris laetitia è un testo che va oltre il mero caso dei divorziati risposati. «È così. Francesco vuol esporre una visione d'insieme e non fossilizzarsi su un punto particolare, importante certo, ma particolare. Ripeto: la comunione ai divorziati risposati deve avvenire con un giusto e serio discernimento. Senza i criteri complessivi del discernimento anche i sacramenti cadrebbero dal cielo e senza connessione con l'insieme». Roma. « Amoris laetitia non ha lo scopo di cambiare la pastorale della Chiesa per quanto riguarda quelli che vivono in una unione irregolare, ma di applicare fedelmente la pastorale costante della Chiesa, quale espressione fedele della pastorale di Cristo stesso, nel contesto della cultura odierna». Il cardinale Raymond Leo Burke, canonista statunitense, autore de La santa Eucaristia sacramento di Carità (Cantagalli), ritiene che «l' unica chiave giusta per interpretare Amoris laetitia sia «la costante dottrina e disciplina della Chiesa per quanto riguarda il matrimonio». Papa Francesco ricorda "Evangelii gaudium" che dice che la comunione non è un premio per i perfetti. Come interpreta questa frase? «La comunione non è un premio per i perfetti nel senso che nessun uomo è degno del dono della vita propria del Dio Figlio incarnato offerta nel sacrificio eucaristico. Per questa ragione, prima di ricevere la comunione preghiamo: "O Signore, non sono degno di partecipare alla tua mensa: ma dì soltanto una parola e io sarò salvato." Ma, allo stesso tempo, come anche esprime la preghiera, per accedere alla comunione dobbiamo essere rettamente disposti, cioè pentiti ed assolti dei nostri peccati con la risoluzione di non peccare più. Dobbiamo essere sulla via di perfezione, come il Signore stesso ci insegna nel Discorso sulla Montagna: "Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste"». Francesco ricorda che il sesso non è un male ma un dono di Dio. Cosa pensa in merito? «È chiaro che il sesso è un dono di Dio come Dio stesso rivela nel Libro della Genesi. Il sesso è integro alla nostra identità personale. Il male negli atti sessuali viene dal cuore dell' uomo che non rispetta la sua propria natura ma utilizza il dono del sesso in un modo che contraddice il buono e giusto ordine della creazione. Il Signore ci insegna questo nel Vangelo secondo Matteo». Schönborn ha detto che la dottrina è sempre stata rinnovata nella Chiesa. Ha citato Giovanni Paolo II che legò l'amore fra uomo e donna all'immagine di Dio. Lei è difensore del rito antico e critico verso le novità del Concilio. Non ritiene la sua visione figlia di una Chiesa impaurita e che vede nel mondo sempre e soltanto un nemico? «Non commento sull'affermazione del cardinale Schönborn, che merita una accurata e profonda risposta, ma rispondo alla sua domanda. Io ho fatto tutti i miei studi teologici in base agli insegnamenti del Concilio e mi riferisco ai testi del Concilio. Quello che io critico non è l'insegnamento del Concilio ma la manipolazione di quell'insegnamento per avanzare idee e proposte, secondo il cosiddetto "Spirito del Concilio", che non hanno niente a che fare con l'insegnamento del Concilio e spesso lo contraddicono. Come mai la Chiesa possa essere impaurita quando è il Corpo Mistico di Cristo che è solo la nostra salvezza? La Chiesa non vede il mondo come il nemico. Infatti, la Chiesa deve lavorare giorno per giorno a servire il mondo, trasformandolo secondo il disegno eterno di Dio e così servendo il bene comune, la pace nel mondo che è il frutto della giustizia. Il nemico è il secolarismo, la visione mondana del mondo che esclude Dio ed è infatti ostile a Lui e al Suo disegno». Il Sinodo è stato descritto come un momento di confronto fra due anime della Chiesa. Lei è stato più volte inserito fra i cosiddetti conservatori e antagonisti alle riforme. Si sente tale? «Rifiuto di essere classificato come membro di un partito nella Chiesa. Vorrei essere soltanto un buon cattolico, un fedele sacerdote. Con tutti i miei difetti, ho provato sempre di avanzare la vera riforma della Chiesa, secondo il magistero. È infatti una prospettiva mondana, che è entrata nella Chiesa, che vuol dividere vescovi, sacerdoti e laici in campi politici. La vera prospettiva si trova nel Vangelo quando il Signore ci dichiara: "Io sono la vite, voi i tralci", o nell'analogia ispirata della Chiesa quale Corpo mistico di Cristo, proposta da san Paolo». Pag 33 Francesco e la riforma dell’amore di Alberto Melloni Per spostare l'asse attorno al quale ruotava da cinque secoli la storia del matrimonio bisognava ripensare una parola: "amore". La parola con cui inizia l'esortazione postsinodale di papa Francesco da ieri affidata ai suoi tre destinatari: il tempo, i vescovi e le chiese locali che entrano così in uno stato sinodale. "Amoris Laetitia", partendo da una lettura biblica profonda, non evade i temi su cui la chiesa era attesa al varco: la comunione dei divorziati risposati, la dignità delle persone omosessuali, la visione della sessualità. Sul primo punto Francesco difende la propria posizione nella cruciale nota 336. La chiesa di Bergoglio non s'affida a un divieto o a un permesso, ma al discernimento: col quale si può capire quando in una situazione «particolare, non c' è colpa grave». Le coppie "cosiddette irregolari" (quel "cosiddette" vale tutta l'esortazione...) cessano di essere un "caso", e diventano i destinatari dell'eucarestia, che non è l'onorificenza dei presuntuosi, ma "l'alimento dei deboli". Francesco non offre una "apertura" paternalistica: dice a quei preti che hanno comunicato i divorziati risposati sapendo cosa facevano che non hanno agito contro la norma, ma secondo il vangelo. E riconsegna ai vescovi la loro funzione di giudici: non devolvere loro una grana, ma riconosce che nella funzione di "pastore e capo della sua chiesa" del vescovo c'è la grazia necessaria ad ascoltare, accogliere, perdonare e insegnare a perdonare. Sulle persone omosessuali "Amoris Laetitia" non ripete l'errore compiuto nel primo sinodo dei vescovi: quando si fecero aperture rivelatesi immature e che oggi il papa recupera con qualche cautela. Francesco bada soprattutto a non creare ostacoli per un progresso nella fede che passerà dal tempo, dai vescovi e dalle chiese: ripete dunque la formula del catechismo vigente che proibisce "ogni marchio di ingiusta discriminazione" contro gay e lesbiche: senza però cassare quella limitazione ("ingiusta") che è ingiusta in sé. Dichiara che una eguale "dignità" della persona esige "rispetto": anche se adotta il linguaggio ambiguo della "tendenza". Fa sua la contrarietà dei vescovi del sud del mondo al gay marriage senza però porre una questione di "natura": e così non pregiudica il discorso sulla "amoris laetitia" che anche lesbiche e gay sperimentano. Infine, pur elogiando i metodi naturali di Paolo VI, condanna la contraccezione di Stato, ma non quella dei singoli: e apre a parti inattese, come l'elogio della gioia erotica che non appare più come un male, neutralizzato dal suo esito procreativo, ma un dono di Dio come tale, letto senza astrazioni irrealistiche e senza spiritualismi. Sbaglierebbe, però, chi pensasse che "Amoris Laetitia" si riduca all'ultimo rigore di un derby fra rigoristi e possibilisti finito in parità ai tempi supplementari, e tirato dal papa a porta vuota. L'atto ha qualcosa di epocale proprio perché sposta l'asse del discorso sul coniugio, che dal concilio di Trento in qua era chiuso in una gabbia giuridico-filosofica strettissima. Talmente solida che perfino la secolarizzazione aveva inventato un "matrimonio civile" prigioniero degli stessi paradigmi del matrimonio tridentino: autorità, norma e fini di ordine sociale e di procreazione che placavano la forza eversiva del desiderio. Questa concezione aveva superato il matrimonio di "puro consenso" (in cui era possibile perfino qualche matrimonio gay) e aveva resistito fino a ieri: lo dimostra il recente e debolissimo dibattito italiano sulle unioni civili, incagliatosi sui figli, senza percepire quei valori che "Amoris Laetitia" riconosce in unioni che vuole equiparate al matrimonio, ma non vuole ridurre ad atto privato. Dato che quella gabbia concettuale di un matrimonio fatto di fini era nata nella chiesa, toccava dunque alla chiesa ricominciare a dire che l'esperienza dell'amore - minaccia o tomba del matrimonio secondo i bigotti religiosi e i bigotti irreligiosi - è la sola su cui risplenda la luce del Regno, la sola redenta dalla croce, la sola a cui soccorre il perdono e la pazienza, la sola per cui valga la pena di affrontare la fragilità della relazione e il dolore che dalla sua stessa intensità può scaturire. Rimettere l'amore al primo posto liberandosi di astrazioni "fredde" che non corrispondono né alla rivelazione né alla relazione è il compito che s'è dato questo lungo documento. «Non consiglio una lettura generale affrettata», raccomanda sornione Francesco. Che, anziché farsi intrappolare nella falsa dicotomia di un moralismo permissivo e un moralismo proibitivo, ha fatto un passo avanti nella sua riforma del magistero e del papato. Il magistero, secondo Francesco, deve rinunciare ad essere onnivoro: «Non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero»; deve liberarsi dall'idea che l'astrazione sia un bene in sé (perché la norma è tanto più incerta quanto più si avvicina al caso concreto); deve dare l'esempio di essere "umile e realista" davanti agli errori della chiesa che Bergoglio elenca in una di quelle liste impietose, tipiche della sua predicazione: errori nel presentare le "convinzioni cristiane", nel "trattare le persone", nel proporre un "ideale teologico", nel praticare una "idealizzazione" del matrimonio mistificante, che alla fine ha ingenerato una sfiducia "nella grazia" (proprio così: "nella grazia"!) che ha fatto sì che anziché rendere il matrimonio "più desiderabile e attraente" ha fatto "tutto il contrario". Il papato - che esce più forte non per motivi politici o geopolitici, ma per la bellezza evangelica di alcuni passaggi sui bambini disabili, per la descrizione così vera della pazienza e delle crisi coniugali, per la fermezza con cui chiede quel rispetto per l' altro che la chiesa non aveva mai insegnato agli ex coniugi - scrive con questo atto un altro capitolo della propria riforma. L'esortazione post-sinodale - inventata da Paolo VI davanti alle impasse del sinodo del 1974, usata per fini disciplinari o teologici da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI - cambia Dna con "Amoris Laetitia". Davanti a un documento che Francesco ha fatto votare ai vescovi e che ha raggiunto sempre i 2/3 dei voti si muove con libertà e rispetto: cita, trascrive, glossa, integra, corregge. Lo intreccia con la propria teologia e con le citazioni delle Conferenze episcopali, rovesciando la diffidenza romana per questi organi di comunione (che vent'anni fa raggiunse il proprio apice, e generò disastri). Riplasmando il genere della esortazione Francesco restaura un altro pezzo di sinodalità come principio del cattolicesimo latino. Documenta che la collegialità episcopale - cioè quel carattere che per diritto divino rende i vescovi "cum et sub Petro" successori del collegio apostolico - non diminuisce il ministero papale, ma lo esalta liberandolo da una concezione "monarchica" del pontificato di stampo medievale. Che una riforma del papato di questo tipo fosse l'agenda della chiesa lo dicevano molto da molto tempo. Peter Hünermann - teologo tedesco impegnato per decenni in una disputa senza esclusione di colpi con Ratzinger - aveva scritto che il papa doveva diventare un "notarius publicus" della chiesa: un "papa notaio", che registrava e armonizzava le voci episcopali, senza affidare al centralismo della sua corte decisioni frettolose, destinate a diventare inciampo (interessante da questo punto di vista il trattamento della contraccezione di "Amoris Laetitia"). Francesco dimostra che chi, come Ratzinger, per negare quella prospettiva vedeva nelle conferenze episcopale una minaccia alla solitudine del potere petrino aveva torto; e che la figura "notarile" immaginata da Hünermann era insufficiente. Con "Amoris Laetitia" il papato si propone come la guida di un "coro" - l'antico titolo di Pietro era proprio "corypheus apostolorum". Il papa "corifeo" mette a disposizione di tutti il tempo, il carisma dei vescovi, la sinodalità delle chiese, per una maturazione necessaria. Necessaria perché l' amore reale vissuto dalle ragazze e dai ragazzi che non si sposano (e anche da quelli che la chiesa non vuole che si sposino perché omosessuali) sentano il tepore della luce del Regno nella loro vita vissuta. Necessaria perché il magistero inizi a "trasfigurarsi" per non essere più «mera difesa di una dottrina fredda e senza vita» che indossa il cristianesimo senza averlo dentro ma diventi testimonianza credibile dell' amore "malgrado tutto". Pag 33 Ma sulla famiglia la Chiesa è ferma di Chiara Saraceno Neli linguaggio amorevole e compassionevole cui ci ha ormai abituati, sollecitando anche qualche ingenua aspettativa, il pontefice ha ribadito la immodificabilità delle posizioni della chiesa cattolica in merito alla famiglia. L'amore e il sesso sono dimensioni positive dell'agire umano, purché avvengano entro il matrimonio tra un uomo e una donna. Bisogna evitare di mettere al mondo figli cui non si è in grado di provvedere, ma gli unici strumenti contraccettivi legittimi sono quelli naturali, ovvero l'astensione dai rapporti sessuali nei periodi in cui la donna è fertile. Le persone omosessuali vanno accolte e non discriminate, ma i loro rapporti di amore e la loro sessualità non ha nulla a che fare con il «disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia». Il che è perfettamente accettabile per chi crede esista un tale disegno. Non si capisce però perché, in nome di questo, la chiesa e lo stesso pontefice ostacolino e condannino chi vuole inserire queste coppie in una configurazione della famiglia che non trovi il proprio fondamento nel disegno di Dio, ma nella legislazione civile e nel principio di uguaglianza e non discriminazione, che include anche il diritto a farsi una famiglia. Non manca, nel documento papale, neppure un accenno di condanna alla fantomatica teoria del genere, da cui dovrebbero essere protetti i bambini, ribadendo la più o meno intenzionale incomprensione degli obiettivi cui mira una educazione critica sul genere. L'unica parziale apertura riguarda i divorziati risposati e la possibilità che possano essi accedere ai sacramenti. Facendo propria e persino andando oltre la posizione espressa dalla maggioranza dei padri sinodali, il pontefice sostiene che non tutti i casi sono uguali, che la condizione di peccato non è necessariamente per sempre, ma va valutata caso per caso. È ciò che avviene già di fatto in molte parrocchie, ma l'affermazione del papa può essere letta come una vera e propria modifica dottrinale, nella misura in cui toglie il divorzio e i divorziati dalla condizione di essere una categoria omogenea, e irreversibile, di peccato e peccatori, per tornare ad essere singoli, con le loro specifiche ragioni e circostanze, che possono o meno essere perdonate e superate. Non è un passaggio di poco conto. Così come non lo è l'autocritica per le durezze che la chiesa ha manifestato in passato. Ma, pur senza sottovalutare l' attenzione per le difficoltà che incontrano molte famiglie in condizioni di disagio, la persistente discriminazione nei confronti delle donne e il richiamo all'importanza di politiche sociali adeguate, sono gli unici due passaggi che presentano qualche apertura, su cui può continuare a lavorare l' opera di riflessione collettiva messa in moto dai due sinodi. IL FOGLIO di sabato 9 aprile 2016 Pag 1 Gli eufemismi non veritativi di Francesco di Giuliano Ferrara C'è spirito eufemistico nell'esortazione apostolica sulla letizia dell'amore licenziata da Papa Francesco. In parte è anche comprensibile: un'attività pastorale benedicente e misericordiosa ha bisogno di un linguaggio buono, inclusivo. In spirito di verità uno direbbe: l'amore e i suoi luoghi familiari, tra questi il matrimonio indissolubile, è a pezzi. Il divorzio civile ha ovviamente slegato la famiglia. La contraccezione artificiale dietro l'angolo e l'aborto di massa hanno offeso la procreazione. L'ingegneria genetica ha infine rovesciato ogni schema genealogico di sesso e di genere, rendendo tecnicamente possibile l'impossibile creaturale. L'occidente sviluppato è il vertice di questo esito tragico, ateo materialista e sentimentale, il suo compimento. Va bene, avevamo capito. La chiesa cattolica vuole redimere il mondo redimendosi agli occhi del mondo, è il progetto che parte dalla fatale abdicazione di un Papa teologo, successore di un Papa moralista e profeta, e dall'elezione di un Papa callejero, sociale, ecologico, pastorale, infermiere nell' ospedale da campo. Ma per far questo bisogna opacizzare la realtà, sostituirla con un discorso integralmente relativista, proporre il discernimento come soluzione gesuita e casuistica adatta a ciascuna situazione particolare? Bisogna cancellare la teoria del peccato originale in Agostino e definire il sesso, che qui ovviamente non è l'amore sponsale o anche l' eros capace di muovere il mondo nell'agape cristiana, come un magnifico dono di Dio, il gioioso contrario di un male necessario? Io avevo letto che quanto si configurava come innocente e divino atto d' unione nello stato edenico dell'uomo e della donna, dopo il morso alla mela divenne una fonte di angoscia bisognosa della foglia di fico. Ma forse ho letto male. Sono favole. Accademismi biblici. Allegorie che la chiesa cattolica si ostinò sempre a considerare pericolose, sconsigliando per secoli la lettura libera della Bibbia. Pazienza per le mie letture e per il destino dei padri della chiesa nella nuova ermeneutica dell'ottimismo sociologico. Amatevi gli uni sugli altri. Non è l'eventuale infrazione dottrinale che mi preoccupa, quando la leva sacramentale si diluisce a strumento di consolazione di afflitti e peccatori. Il Papa ha pieno diritto di statuire, senza rivoluzioni canoniche e dottrinali, un passo nuovo della presenza apostolica nel mondo. Fra i suoi compiti c'è la condotta misericordiosa del gregge, non si può non riconoscerlo. Non è neanche affar mio, che sono fuori della chiesa. Mi preoccupa invece il profilo culturale della cosa, il fatto che per arrivare a questa redenzione autoredentiva della chiesa si debba scegliere un percorso obliquo, se non fosse irrispettoso direi surrettizio. Bisogna dire il mondo per come il mondo non è più. Bisogna mettere tutto a posto, apparentemente confermando i criteri di vita e di amore che sono sempre stati quelli della chiesa e dei cristiani, per meglio aderire al disordine intrinseco delle cose, delle leggi, dei dettati tecnico-scientifici, e anche ai disordini delle anime, dei comportamenti sociali diffusi. Forse non si poteva fare altrimenti. Ma non è un bel vedere né un bel leggere, per quanto lo si voglia fare con attenzione e con anticipi di comprensione. Avrei preferito che l'esortazione apostolica di Francesco dicesse che siamo in un'impasse, che il tempo (superiore allo spazio) dovrà aiutarci a uscire dalla notte più buia, che quel che hanno detto i predecessori era fondato su un'analisi realistica del pansessualismo e della crisi strutturale della famiglia e dell'amore, che ora bisogna riflettere, ritrovare una chiave di comprensione e di contraddizione alla ideologia mondana del sentimento e della carne che non hanno genere e non sopportano codificazioni, e intanto si possono curare le cicatrici. Ma questo fatto di negare il reale, di passare sopra le inquietudini e le rivolte contro l'umano da Nietzsche a Freud a Foucault, bè, ha tutta l'aria di una escogitazione appunto eufemistica e non veritativa. Quanto restava del lungo combattimento della chiesa con il mondo moderno e le sue idee, nella predicazione dei pontefici che avevano rimesso sulle sue gambe il Concilio Vaticano II, mi sembrava più importante e meno banale. Pag 1 Ma l’attesa rivoluzione non c’è stata di Matteo Matzuzzi Roma. L'esortazione post sinodale Amoris laetitia, la "gioia dell'amore", presentata ieri in Vaticano recepisce in gran parte le conclusioni della grande assemblea ordinaria dello scorso ottobre convocata sul tema della famiglia. Nessuna rivoluzione si scorge nelle 259 pagine che compongono il testo, suddiviso in 325 paragrafi. Non era possibile fare altrimenti, anche in virtù della profonda spaccatura che si era manifestata nell'Aula nuova del Sinodo tra i padri. L'ammissione è messa nero su bianco nel documento, quando si afferma che "se si tiene conto dell' innumerevole varietà di situazioni concrete (...) è comprensibile che non ci si dovesse aspettare dal Sinodo o da questa esortazione una nuova normativa generale di tipo canonico, applicabile a tutti i casi". Dal Papa arriva una severa condanna della "inquietante ideologia del gender" e dell'eutanasia, ribadisce che "solo l'unione esclusiva e indissolubile tra un uomo e una donna svolge una funzione sociale piena, essendo un impegno stabile e rendendo possibile la fecondità", sottolinea che "le unioni di fatto o tra persone dello stesso sesso non si possono equiparare semplicisticamente al matrimonio" e che "nessuna unione precaria o chiusa alla trasmissione della vita ci assicura il futuro della società". La novità è contenuta nel capitolo ottavo, quello che tratta la questione più delicata e dibattuta nel biennio di aspro confronto - e che non mancherà di creare ulteriori discussioni riguardo a certi suoi passaggi che si prestano a più interpretazioni, come dimostra già la corsa tutta mediatica a festeggiare per la presunta svolta epocale la quale - come aveva detto Kasper qualche settimana fa - segnerebbe il più grande cambiamento negli ultimi 1.700 anni: la possibilità di riaccostare ai sacramenti i divorziati risposati. Un tema che riguarda pochi individui - qualche giorno fa il cardinale arcivescovo di New York, Timothy Dolan, diceva "vorrei avere gente fuori dalla cattedrale che chiede di essere riammessa alla comunione, ma purtroppo non è così" - ma che ha lacerato le conferenze episcopali lungo la semplicistica linea di frattura "conservatori" e "progressisti". Francesco, in nome delle due parole chiave che segnano l'esortazione (discernimento e integrazione), apre alla possibilità di individuare percorsi di recupero per quanti sono andati incontro a un fallimento, ma chiarisce subito che "ciò che fa parte di un discernimento pratico davanti a una situazione particolare non può essere elevato al livello di una norma. Questo prosegue il documento - non solo darebbe luogo a una casuistica insopportabile, ma metterebbe a rischio i valori che si devono custodire con particolare attenzione". La soluzione è di valutare caso per caso, perché "la strada della chiesa è quella di non condannare eternamente nessuno" e per il fatto che "nessuno può essere condannato per sempre". Servirà un percorso penitenziale, con un esame di coscienza e sviluppato "tramite momenti di riflessione e di pentimento. I divorziati - si precisa - dovrebbero chiedersi come si sono comportati verso i loro figli quando l'unione coniugale è entrata in crisi; se ci sono stati tentativi di riconciliazione; come è la situazione del partner abbandonato; quali conseguenze comporta la nuova relazione sul resto della famiglia e la comunità dei fedeli; quale esempio essa offre ai giovani che si devono preparare al matrimonio". Un percorso che dovrà essere guidato da un sacerdote e concorrerà "alla formazione di un giudizio corretto su ciò che ostacola la possibilità di una più piena partecipazione alla vita della chiesa e sui passi che possono favorirla e farla crescere". E' il recepimento (annunciato e atteso) della relazione del circolo minore tedesco, che proponeva una sorta di mediazione tra la via ben più "coraggiosa" perorata da decenni da Walter Kasper e la conferma dello status quo. IL GAZZETTINO di sabato 9 aprile 2016 Pag 1 Il cambio di passo che il Pontefice chiede alla Chiesa di Franco Garelli Come essere fedeli alla visione cristiana del matrimonio e nello stesso tempo farsi carico della fragilità delle famiglie anche di quelle credenti, nella società contemporanea? Come evitare che la ricchezza dell’amore cristiano venga da un lato svilita dallo spirito libertario del nostro tempo e dall’altro imprigionata in norme ecclesiastiche estranee alle attuali condizioni di vita? Ecco la quadratura del cerchio che anima l’esortazione apostolica “Amoris laetitia” con cui Papa Francesco mette la sua firma sui due anni di dibattito dedicato dalla Chiesa intera al tema della famiglia nel mondo di oggi. Con questo documento Bergoglio non introduce delle particolari novità rispetto a quanto emerso nei due Sinodi dei Vescovi dedicati all’argomento, pur schierandosi sulle posizioni più aperte e dialoganti con quanti (nella Chiesa e fuori di essa) vivono situazioni familiari difficili e controverse. La fedeltà alla tradizione è evidente in un Papa che ribadisce che la chiesa «non deve rinunciare a proporre l’ideale pieno del matrimonio»; che il primato spetta ad una famiglia composta da un uomo e una donna e aperta alla procreazione; che le convivenze non sono equiparabili al matrimonio (anche se alcune di esse offrono segni di amore che richiamano orizzonti più ampi); che nei confronti degli omosessuali ci vuole accoglienza e rispetto, pur evitando di assimilare le loro unioni al disegno di Dio su matrimonio e famiglia. Tuttavia, fatta salva la distinzione cristiana su questi temi, sono molte le aperture che attraversano un testo papale che più che concludere la riflessione interna alla Chiesa intende rilanciarla; per far sì che il “vangelo della famiglia” sia una risorsa che viene offerta all’insieme degli uomini e delle donne del nostro tempo e non un principio di condanna dei molti (anche tra i fedeli) che vivono a questo livello situazioni “irregolari”. L’apertura maggiore non riguarda tanto il via libera all’accesso ai sacramenti per i divorziati risposati, quanto l’insistenza con cui Papa Francesco chiede alla Chiesa stessa un cambio di passo e di mentalità circa il modo di affrontare i drammi della famiglia nell’epoca contemporanea; e sul modello partecipato e organizzativo che egli propone per coinvolgere tutte le diocesi e le comunità cristiane del mondo nella ricerca di soluzioni tese più all’inclusione di chi soffre ed è in difficoltà che alla loro esclusione. Nel primo caso, il Pontefice parla di «leggi morali che non sono pietre»; dell’impossibilità di stabilire regole canoniche generali, valide per tutti; di quel metodo del discernimento «caso per caso» che la Chiesa deve far proprio per manifestare più il suo volto di madre che quello di giudice. Come a dire che la Chiesa oggi - per essere fedele alla logica del vangelo - non può condannare nessuno in partenza. Per cui occorre guardare con occhi diversi quanti vivono a questo livello delle situazioni “irregolari”, perché il fine supremo delle leggi della Chiesa è il recupero delle anime, non la loro condanna. È all’interno delle comunità ecclesiali che si possono aiutare i fedeli a superare le difficoltà, a vivere il progetto cristiano della famiglia, a riprendere un cammino di coppia e di fede sovente non lineare e incerto. Emerge qui, su una questione particolare, quell’indirizzo al decentramento delle responsabilità pastorali che Papa Bergoglio da tempo predica per tutta la cattolicità. Tra i molti stimoli offerti da questo documento papale vi è anche l’esplicita - e per vari aspetti inattesa - rivalutazione del ruolo dell’eros nella vita di coppia. «Il sesso è un dono per gli sposi, non un male permesso». È una dimensione costitutiva della vita dei coniugi, che quindi va oltre la necessità della procreazione. Anche con questo riconoscimento il Pontefice richiama tutti i pastori e i fedeli della Chiesa a una visione armonica e allo stesso tempo concreta della vita di coppia, all’interno della quale il linguaggio del corpo si mescola a quello dello spirito ed è fonte di arricchimento reciproco. LA NUOVA di sabato 9 aprile 2016 Pag 1 La famiglia secondo Bergoglio di Andrea Sarubbi Ci sono vescovi, e ci sono stati anche dei Papi, abituati a rivolgersi a una società ideale: autori di omelie, discorsi, lettere, encicliche così alti da passare sopra molte teste senza mai incrociare uno sguardo. Il gesuita Bergoglio, in questi tre anni, ha adottato invece l’approccio contrario: un volo costante ad altezza d’uomo, per cercare di intercettare il maggior numero possibile di destinatari. Così è stato anche stavolta, per l’esortazione postsinodale che raccoglie gli spunti di uno dei dibattiti più divisivi all’interno della Chiesa: quello sul ruolo della famiglia e sui suoi stessi confini. Senza mai derogare ai principi di fondo, Francesco parte dalla fotografia della società contemporanea. Che anche tra i cattolici praticanti - basterebbe un questionario anonimo a fine Messa per confermarlo - incide moltissimo sulle tipologie di vita familiare. Metà dei bambini che vanno a catechismo per la prima comunione non hanno in casa una situazione da Mulino Bianco, metà delle coppie che si sposano (anche di più, in certi Paesi) finiscono per divorziare. Persino gli aspiranti padrini o madrine dei battesimi - ossia persone che si impegnano personalmente ad assicurare un’educazione cattolica ai loro figliocci - sono spesso reduci da fallimenti matrimoniali. La Chiesa ci ha ragionato parecchio, trovando spiegazioni sociologiche («In un momento della precarietà lavorativa e sociale, nessuno è più in grado di prendere decisioni definitive per la propria esistenza») e pastorali («Vengono da noi a sposarsi senza essere preparati, senza sapere quello che fanno»); ha anche cercato delle soluzioni che tenessero insieme la dottrina e lo stato dell’arte, facilitando i processi per il riconoscimento della nullità. Ma restava sempre quel nodo dei divorziati risposati che, alla fine, era diventato la soglia di tutte le soglie: per alcuni la linea di confine tra verità e relativismo, per altri tra condanna e misericordia. Bergoglio lo ha risolto alla sua maniera, cioè da gesuita: trovatosi di fronte a un muro, non lo ha buttato giù ma ci ha scavato un tunnel, perché è nella profondità la soluzione di ogni dilemma. Senza mancare di rispetto all’importanza della dottrina in una religione, verrebbe da dire che questa apertura ai divorziati risposati aiuta la Chiesa a mettere da parte un tema sovradimensionato (anche dai media) per concentrarsi sui problemi veri: se c’è una cosa che preoccupa davvero Francesco, infatti, è proprio la crisi della famiglia come istituzione, ed è su questo che si sta concentrando dall’inizio del pontificato, cercando di raggiungere anche chi non va più in parrocchia dal giorno della cresima e ci rimetterà piede, forse, per qualche funerale. Sa di parlare a una società a misura di single, in cui avere figli significa pagare un prezzo caro dal punto di vista economico e spesso lavorativo; a donne e uomini più fragili delle generazioni che li hanno preceduti e, per questo, più propensi ad arrendersi; a un contesto culturale in cui il sesso vive di vita autonoma e non ha più bisogno del matrimonio per essere praticato. Se fra i trentenni di ieri l’eccezione era quello non sposato, oggi è invece chi si sposa ad andare controcorrente: almeno nei Paesi occidentali, ossia nei luoghi il cristianesimo fa più fatica. È proprio alla società più secolarizzata, allora, che Bergoglio si rivolge in molti passaggi del documento. Accostando il libro del Siracide («Regala e accetta regali e divertiti») al film “Il pranzo di Babette” per descrivere la gioia del cibo fatto in casa, parlando apertamente della dimensione erotica dell’amore, spiegando che San Valentino è una festa bellissima ma compresa più dai commercianti che dai vescovi, invitando i fidanzati a feste di nozze più sobrie e soprattutto ripetendo quelle tre parole d’ordine che, secondo lui, sono il segreto per una famiglia felice: permesso, grazie e scusa. «È la normalità la vera rivoluzione», direbbe Gabriele Muccino nell’Ultimo bacio, e se Francesco lo avesse visto probabilmente citerebbe anche lui. Pag 7 “Il sesso è un meraviglioso dono di Dio” di Mariaelena Finessi e Paolo Sacredo Il testo è stato più volte limato compromesso tra varie anime Roma. Francesco lo aveva scritto già scritto nell’Evangelii gaudium: «Un piccolo passo, in mezzo a grandi limiti umani, può essere più gradito a Dio della vita esteriormente corretta di chi trascorre i suoi giorni senza fronteggiare importanti difficoltà». Chiamato a commentare la esortazione apostolica Amoris Laetitia, frutto dei due sinodi sulla famiglia del 2014 e del 2015, è il cardinale Christoph Schönborn. Il porporato austriaco dice che lì, in quel passo dell’altra esortazione di Bergoglio, è racchiuso anche il senso del nuovo documento a firma del Papa argentino, presentato ieri in Vaticano. Francesco, che non ha mai fatto mistero di avercela con i cattolici-a-parole, quelli per cui la fede è ritualità e apparenza, alla sua Chiesa chiede due compiti. Il primo è l’autocritica per aver reso meno «attraente» l’ideale del matrimonio cristiano. Il secondo compito ha a che fare con il «discernimento», rendendosi necessaria la valutazione del vissuto di ciascun uomo: caso per caso, senza essere duri con chi si trova in situazioni “irregolari”. Come a dire, senza averlo detto però esplicitamente - sebbene in una nota si fa riferimento ai «sacramenti» - che anche i divorziati e risposati possono essere ammessi alla comunione. In altri termini, come aveva già scritto sempre Francesco, «dovremmo toglierci le scarpe davanti al terreno sacro dell’altro», alle sue sofferenze, ed evitare di usare le leggi morali come «pietre» che si scagliano. Ciò a cui pensa il Pontefice non è una famiglia perfetta ma una famiglia «così come è». L’esortazione apostolica, che si compone di 9 capitoli e 300 paragrafi, accoglie infatti i suggerimenti dei fedeli di tutto il mondo, interrogati tramite questionario su temi come i rapporti tra coniugi, ad esempio, l’educazione dei figli o il lutto per la perdita di una persona cara. Per questo ha molto di pratico ed è diretta a tutti, perché tutti «siamo in cammino». Amoris Laetitia prova così a ridare vigore all’istituto matrimoniale ma, se non sono frutto di «pregiudizi o resistenze nei confronti dell’unione sacramentale», offre uno spiraglio anche alle convivenze. Deludendo invece chi sperava, forse con azzardo, in un’apertura alle unioni omosessuali, nel corposo documento si ribadisce invece che il matrimonio cristiano «si realizza pienamente nell’unione tra un uomo e una donna». Un’unione che contempla anche l’erotismo, non essendo sinonimi, la «paternità responsabile» e la «procreazione illimitata». Anzi, il Papa richiama Giovanni Paolo II per spiegare che «la retta coscienza degli sposi» può orientarli alla «decisione di limitare il numero dei figli per motivi sufficientemente seri». Quanto alla sessualità, questa «è un regalo meraviglioso» che il Signore ha fatto alle sue creature e «in nessun modo possiamo intendere la dimensione erotica dell’amore un male permesso o come un peso da sopportare». Nel quarto capitolo, innovativo, Francesco offre consigli di coppia, affinché il matrimonio possa funzionare, purché si abbandoni la pretesa che l’altro sia perfetto. Un no deciso, invece, all’utero in affitto, all’aborto, all’eutanasia e al «gender» quale «ideologia che nega la differenza e la reciprocità naturale di uomo e donna». Sulla durata del matrimonio, Bergoglio ammette che a volte, a causa della «violenza verbale, fisica e sessuale» contro i figli o contro le donne in alcune coppie, separarsi è inevitabile. Persino «moralmente necessario». Con sincero realismo Francesco scrive pure che «la mancanza di una abitazione dignitosa o adeguata porta spesso a rimandare la formalizzazione di una relazione». Una «famiglia e una casa sono due cose che si richiamano a vicenda». Roma. Un testo che è stato più volte limato nell’ultimo mese, frutto di un compromesso per venire incontro alle varie anime della Chiesa universale. L’Esortazione Apostolica Amoris Laetitia non è nata come l’abbiamo conosciuta ieri. Il punto più discusso, quello sui divorziati risposati, almeno in un paio di occasioni è stato riscritto, i condizionali si sono moltiplicati, e alla fine la discrezionalità dei vescovi e dei parroci nel valutare ogni singola situazione ha vinto. Un modo per tenere a bada i conservatori, che non volevano nessuna apertura; ma anche per decentrare la gestione della Chiesa, differenziando caso dopo caso e avvicinando il Magistero ai fedeli che vivono situazioni di difficoltà. D’altronde, il punto più discusso al Sinodo per la famiglia dell’ottobre scorso fu proprio quello sui sacramenti a chi sposato in chiesa si è poi rifatto una famiglia: la mozione a favore infatti passò per soli due voti. Un aspetto questo affrontato nel capitolo VIII, quando si dice che «è possibile soltanto un nuovo incoraggiamento ad un responsabile discernimento personale e pastorale dei casi particolari... Il grado di responsabilità non è uguale in tutti i casi. Le conseguenze o gli effetti di una norma non necessariamente devono essere sempre gli stessi». Ma la concessione della Comunione, o la possibilità di essere padrini e madrine solo se non c’è colpa grave nel fallimento del precedente matrimonio, è stata relegata in una nota in fondo all’Esortazione. In una delle prime bozze del documento, questa invece figurava nella parte principale del testo. Anche il punto secondo cui il discernimento è un passaggio fondamentale per evitare «il grave rischio di messaggi sbagliati, come l’idea che qualche sacerdote possa concedere rapidamente eccezioni, o che esistano persone che possano ottenere privilegi sacramentali in cambio di favori» sarebbe stato inserito in un secondo momento, su spinta dei settori più tradizionalisti. Contenti a metà i credenti che appunto hanno affrontato un divorzio. Per il presidente dell’Associazione famiglie separate cristiane, Ernesto Emanuele, «questo documento ha il merito di muovere le acque. Fino a poco tempo fa pubblicamente di questi temi si parlava molto a fatica. È anche vero che l’Esortazione su tanti aspetti è un testo troppo vago, teorico. La discrezionalità di parroci e vescovi dovrà essere analizzata fino in fondo. D’altronde, sa quanti separati hanno partecipato ai Sinodi per la Famiglia del 2015 e del 2014 da cui è poi scaturita l’Esortazione? Zero». Il cammino comunque è tracciato e sarà difficile tornare indietro, seppure le esitazioni non saranno poche. Torna al sommario 1 – IL PATRIARCA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XI In 2500 al “ritmo” del Patriarca di g.bab. Jesolo: responsabilità e libertà al centro della riflessione con i ragazzi. Folla per la festa diocesana dei giovani con Moraglia Jesolo - «Ognuno di noi ha un proprio ritmo di vita che ci lega con gli altri: è un ritmo gioioso, che ci permette di abbracciare il vero direttore d'orchestra della nostra vita». È uno dei passaggi più significativi pronunciati ieri mattina dal Patriarca Francesco Moraglia di fronte a oltre 2.500 giovani che hanno partecipato alla festa dei ragazzi della diocesi. Si tratta di uno degli appuntamenti diocesani più attesi e dedicati ai giovani con un'età compresa tra 11 e 14 anni. Una giornata di festa e gioco ma anche riflessione a partire dalla messa celebrata dal Patriarca, assieme ai seminaristi e a don Fabio Mattiuzzo, responsabile della pastorale giovanile e seguita anche dal sindaco Valerio Zoggia e dagli assessori Daniela Donadello e Luigi Rizzo. Proprio il sindaco, a margine dell'evento, ha ricordato l'intenzione del Comune di portare il presepe di sabbia di Jesolo in piazza San Pietro. L'omelia del Patriarca ha dunque seguito il tema della manifestazione "Altuoritmo, vivere al ritmo del cuore di Dio": leggendo alcuni brani tratti dagli Atti degli apostoli il Patriarca si è rivolto direttamente ai ragazzi, avviando una serie di riflessioni sul senso della responsabilità e della libertà. Ma anche sul rispetto verso gli altri e sull'accoglienza. «Quando Gesù si rivolgeva agli apostoli è come se si fosse rivolto a tutti noi - ha sottolineato Moraglia - questo perché vuole avere un ritmo di amicizia e amore con ognuno di noi, da vivere nella piena liberta: questo è un grande atto di responsabilità». Il Patriarca ha poi sottolineato l'importanza di mettersi in gioco con gli altri: «Accogliendo gli altri - ha detto sempre Moraglia - la nostra vita diventa un "Noi"». Dopo la messa la giornata si è sviluppata con momenti di animazione, gioco, visita agli stand e attività, compresa l'esecuzione in anteprima di alcune canzoni del Grest 2016. A concludere la festa è stato l’intervento con la coppia di comici veneziani Carlo e Giorgio che hanno dialogato con i ragazzi. LA NUOVA Pag 16 Festa diocesana, oltre 2500 ragazzi con il Patriarca di Alessio Conforti Jesolo: è stata una giornata intensa e di grande allegria. Moraglia: “Siete all’inizio del magnifico libro della vita” Jesolo. Un’intensa giornata di preghiera, scandita da momenti di divertimento e condivisione di esperienze comuni. Festa diocesana al gran completo ieri al Pala Arrex di piazza Brescia, riempito per l’occasione da oltre 2500 ragazzi dagli 11 ai 14 anni, giunti dall’ intera provincia, tutti vestiti con una vivace t-shirt granata realizzata per l’evento. Il tema dell’incontro (“al ritmo del cuore di Dio”) è stato ben rappresentato attraverso spettacoli e testimonianze dal palco, ma anche con laboratori appositamente allestiti per dar sfogo alla creatività dei giovani in un’età, quella preadolescenziale, sicuramente centrale nella crescita rispettiva del singolo individuo. A prendere parte alla messa anche il Patriarca Francesco Moraglia, che, dopo la preghiera ,si è recato a Padova per l’ordinazione episcopale di monsignor Renato Marangoni, vescovo eletto di BellunoFeltre. «In qualsiasi momento della vostra giornata», ha detto il Patriarca ai giovani, «Dio vi assiste: nelle interrogazioni, nei momenti difficili e anche nelle simpatie che provate per i vostri amici. Siete all’inizio del magnifico libro della vita: dovete cogliere “il suo ritmo” e farlo entrare nella vostra quotidianità». Particolarmente toccante l’esperienza simbolica di una ragazza testimone della perdita del lavoro del padre e che nel racconto, di fronte al Patriarca, ha confidato la difficoltà nel riuscire a trovare il sorriso. «L’apertura verso Dio», ha risposto Moraglia, «è la chiave di volta per superare ogni momento, dal più bello al più brutto. C’è la necessità», ha aggiunto poi il Patriarca citando la parabola dei due discepoli di Emmaus, «di dare spazio nella nostra vita a un noi che non incontra solo l’altro ma che nel volto dell’altro scopre la presenza di Dio». Nel pomeriggio, dopo il pranzo al sacco, è stata quindi la volta dei giochi all’aperto (calcio e volley) e delle attività culturali, tutto realizzato grazie alla collaborazione dell’ ufficio catechistico diocesano e del coordinamento pastorale. Presente alla giornata anche il sindaco Valerio Zoggia, che prima della messa si è intrattenuto con il Patriarca per un caloroso saluto. Nell’occasione è stata ribadita l’intenzione di voler allestire anche in piazza San Pietro a Roma alcune sculture natalizie con la sabbia di Jesolo, tutte dedicate al Santo Padre per il servizio reso al mondo intero. Una sorta di mini Sand Nativity nel cuore del Vaticano. E i contatti, in questo senso, sono già stati posti in essere. Moraglia, tenendo fede alle promesse, avrebbe già scritto all’attenzione di Papa Francesco per trasformare il sogno in realtà. Torna al sommario 2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 10 aprile 2016 Pag XIX Chiesa di Borbiago: da oggi all’opera due nuove suore di l.gia. Mira - La parrocchia di Borbiago accoglie oggi due suore originarie del Brasile. La nuova comunità religiosa dell'ordine della "Copiosa Redenzione" entrerà a far parte della parrocchia aiutando il parroco don Carlo Gusso, monsignor Angelo Centenaro e i diaconi Alberto Saccoman e Tiziano Scatto nelle varie attività. Nel corso della messa delle 9.30 le suore della Copiosa Redenzione verranno accolte dal vicario generale Angelo Pagan, in rappresentanza del Patriarca Francesco Moraglia, e dai parrocchiani. Le due suore (una terza arriverà nei prossimi mesi) vivranno nell'appartamento sopra la scuola materna di Borbiago e aiuteranno il parroco nell'animazione delle liturgie, della catechesi e nelle varie esperienze di carità e missione in un anno particolare che ha visto, nel santuario di S. Maria Assunta di Borbiago, la collocazione di una delle Porte Sante del Giubileo. «Accogliamo queste nuove sorelle con gioia, con generosità, aprendo loro la nostra comunità e le nostre famiglie - ha sollecitato don Carlo - perché da subito possano sentirsi a casa». Le religiose consacrate all'ordine della Copiosa Redenzione nascono in Brasile per aiutare i giovani dipendenti da sostanze psicoattive. AVVENIRE di sabato 9 aprile 2016 Pag 18 A Jesolo la festa diocesana rivolta agli adolescenti Sono circa 2.500 gli iscritti la Festa diocesana dei ragazzi in programma domani dalle 9.30 alle 16.30, al Pala Arrex in piazza Brescia a Jesolo. Il tema della giornata - rivolta alla fascia d’età dagli 11 ai 14 anni - sarà «Altuoritmo… vivere al ritmo del cuore di Dio», per far cogliere ai ragazzi come «poter vivere concretamente la misericordia nell’avventura grande della vita». In mattinata, alle 10.45 il patriarca di Venezia Francesco Moraglia presiederà la Messa. Momenti di animazione, gioco, pranzo al sacco, visita agli stand e attività varie costelleranno l’intera giornata. «La festa – spiegano gli organizzatori – è pensata principalmente per i ragazzi: tutto cercherà di favorire la loro partecipazione e un sano protagonismo. Sarà il segno visibile dell’attenzione educativa di tutta la comunità cristiana e in questa giornata si prodigherà affinché ogni gesto ed esperienza vissuto sia significativo e favorisca l’incontro con Cristo, nella comunità dei fratelli». IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 9 aprile 2016 Pag XXIII Jesolo: in 2500 alla festa diocesana dei ragazzi di G.Bab. Jesolo - Sono 2500 gli iscritti alla Festa dei ragazzi che si terrà domani, dalle 9.30 alle 16.30, al Pala Arrex. Si tratta del principale evento diocesano per gli 11-14enni, che quest'anno avrà il tema "Vivere al ritmo del cuore di Dio". Tra i momenti più attesi, alle 10.45, la messa presieduta dal Patriarca Francesco Moraglia che nel pomeriggio parteciperà a Padova all'ordinazione episcopale di mons. Renato Marangoni. Durante la giornata sono previsti dei momenti di animazione, gioco e musica; nel pomeriggio show dei comici veneziani Carlo e Giorgio. LA NUOVA di sabato 9 aprile 2016 Pag 43 Tornano a Treporti le spoglie di don Giorgio di Francesco Macaluso Giovedì 14 la cerimonia: al sacerdote sarà intitolato il patronato Treporti. La comunità parrocchiale Santissima Trinità di Treporti intitolerà il salone del patronato a don Giorgio Barzan. La salma del parroco 67enne, scomparso un anno fa in un incidente stradale, giovedì tornerà nella sua amata frazione di Cavallino-Treporti a cui aveva dedicato gli ultimi 19 anni della sua missione pastorale. Il suo ritorno, dopo essere stato tumulato al cimitero di Eraclea proprio in questo periodo di un anno fa, è frutto di un raro intreccio di eventi. Sul litorale si racconta di un sogno fatto dalla sorella del parroco nel quale don Giorgio le è apparso chiedendole di tornare a Treporti. Anche ammessa l'apparizione onirica, la sua famiglia originaria della frazione di Valcasoni ha poi dimostrato particolare rispetto verso la memoria di don Giorgio e generosamente ha autorizzato il trasferimento grazie anche alla speciale intercessione di don Alessandro Panzanato, parroco di Ca’ Savio e Treporti, vicario per Jesolo e Cavallino-Treporti, che ha fatto comprendere l’importanza del gesto per i suoi parrocchiani, e alla collaborazione per la parte logistica delle imprese di servizi funebri Walter Gusso di Eraclea e Facco di Cavallino-Treporti per l’esumazione, il trasporto e la nuova sepoltura. I suoi fedeli parrocchiani e tutta la comunità del litorale attendono trepidanti giovedì quando potranno accogliere la salma del parroco che, con i suoi modi burberi ma sinceri, è stato per molti un’importante guida spirituale e morale. «Si era creato una sorta di pellegrinaggio di parrocchiani da Treporti verso la sua tomba al cimitero di Eraclea», racconta don Alessandro Panzanato, «chi a portare un fiore, chi a recitare una poesia o a portargli un ricordo. Un affetto profondo e sincero della sua famiglia spirituale di Treporti che ha commosso i suoi famigliari terreni che posso solo ringraziare per la grande sensibilità dimostrata. Lo rispetteremo anche nella sobrietà delle cerimonia che rispecchierà il suo carattere mai propenso alle autocelebrazioni». La salma arriverà al cimitero di Treporti alle 13.30 di giovedì. Seguirà alle 16.30 l’accoglienza del feretro in piazza SS. Trinità, dalle 17 il santo rosario in suffragio con la nuova sepoltura alle 17.30. Le celebrazioni si concluderanno con la santa messa, alle 19 l’intitolazione del patronato alla sua memoria. Pag 43 Jesolo: festa dei ragazzi con il Patriarca domani al Pala Arrex di g.ca. Jesolo. Festa dei ragazzi, 2.500 giovani con il patriarca Moraglia, «al ritmo del cuore di Dio». È in programma domani, dalle 9.30 alle 16.30 al Pala Arrex, la Festa diocesana dei Ragazzi, che ha raggiunto 2.500 iscritti. Il tema della giornata, evento diocesano principale dell’anno per la fascia d’età che va dagli 11 ai 14 anni, sarà «Altuoritmo, vivere al ritmo del cuore di Dio». Atteso in mattinata il patriarca Francesco Moraglia che presiederà la Santa Messa alle 10.45. Ci saranno giochi, pranzo al sacco, visita agli stand e attività varie, tra cui anche l'esecuzione dal vivo e in anteprima di alcune canzoni del Grest 2016. La festa proseguirà per l’intera giornata, nel pomeriggio uno spettacolo di Carlo & Giorgio. Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO di domenica 10 aprile 2016 Pag 8 Capaci di guardare negli occhi All’udienza giubilare Francesco spiega il significato e il valore dell’elemosina Fare l’elemosina «può sembrare una cosa semplice», ma «dobbiamo fare attenzione a non svuotare questo gesto del grande contenuto che possiede». Lo ha detto Papa Francesco ai fedeli riuniti in piazza San Pietro sabato 9 aprile per l’udienza giubilare. «L’elemosina — ha spiegato - è un gesto d’amore che si rivolge a quanti incontriamo; è un gesto di attenzione sincera a chi si avvicina a noi e chiede il nostro aiuto». Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Il Vangelo che abbiamo ascoltato ci permette di scoprire un aspetto essenziale della misericordia: l’elemosina. Può sembrare una cosa semplice fare l’elemosina, ma dobbiamo fare attenzione a non svuotare questo gesto del grande contenuto che possiede. Infatti, il termine “elemosina”, deriva dal greco e significa proprio “misericordia”. L’elemosina, quindi, dovrebbe portare con sé tutta la ricchezza della misericordia. E come la misericordia ha mille strade, mille modalità, così l’elemosina si esprime in tanti modi, per alleviare il disagio di quanti sono nel bisogno. Il dovere dell’elemosina è antico quanto la Bibbia. Il sacrificio e l’elemosina erano due doveri a cui una persona religiosa doveva attenersi. Ci sono pagine importanti nell’Antico Testamento, dove Dio esige un’attenzione particolare per i poveri che, di volta in volta, sono i nullatenenti, gli stranieri, gli orfani e le vedove. E nella Bibbia questo è un ritornello continuo: il bisognoso, la vedova, lo straniero, il forestiero, l’orfano... è un ritornello. Perché Dio vuole che il suo popolo guardi a questi nostri fratelli; anzi, dirò che sono proprio al centro del messaggio: lodare Dio con il sacrificio e lodare Dio con l’elemosina. Insieme all’obbligo di ricordarsi di loro, viene data anche un’indicazione preziosa: «Dai generosamente e, mentre doni, il tuo cuore non si rattristi» (Dt 15, 10). Ciò significa che la carità richiede, anzitutto, un atteggiamento di gioia interiore. Offrire misericordia non può essere un peso o una noia da cui liberarci in fretta. E quanta gente giustifica sé stessa per non dare l’elemosina dicendo: “Ma come sarà questo? Questo a cui io darò, forse andrà a comprare vino per ubriacarsi”. Ma se lui si ubriaca, è perché non ha un’altra strada! E tu, cosa fai di nascosto, che nessuno vede? E tu sei giudice di quel povero uomo che ti chiede una moneta per un bicchiere di vino? Mi piace ricordare l’episodio del vecchio Tobia che, dopo aver ricevuto una grande somma di denaro, chiamò suo figlio e lo istruì con queste parole: «A tutti quelli che praticano la giustizia fa’ elemosina. [...] Non distogliere lo sguardo da ogni povero e Dio non distoglierà da te il suo» (Tb 4, 7-8). Sono parole molto sagge che aiutano a capire il valore dell’elemosina. Gesù, come abbiamo ascoltato, ci ha lasciato un insegnamento insostituibile in proposito. Anzitutto, ci chiede di non fare l’elemosina per essere lodati e ammirati dagli uomini per la nostra generosità: fa’ in modo che la tua mano destra non sappia quello che fa la sinistra (cfr. Mt 6, 3). Non è l’apparenza che conta, ma la capacità di fermarsi per guardare in faccia la persona che chiede aiuto. Ognuno di noi può domandarsi: “Io sono capace di fermarmi e guardare in faccia, guardare negli occhi, la persona che mi sta chiedendo aiuto? Sono capace?”. Non dobbiamo identificare, quindi, l’elemosina con la semplice moneta offerta in fretta, senza guardare la persona e senza fermarsi a parlare per capire di cosa abbia veramente bisogno. Allo stesso tempo, dobbiamo distinguere tra i poveri e le varie forme di accattonaggio che non rendono un buon servizio ai veri poveri. Insomma, l’elemosina è un gesto di amore che si rivolge a quanti incontriamo; è un gesto di attenzione sincera a chi si avvicina a noi e chiede il nostro aiuto, fatto nel segreto dove solo Dio vede e comprende il valore dell’atto compiuto. Ma fare l’elemosina dev’essere per noi anche una cosa che sia un sacrificio. Io ricordo una mamma: aveva tre figli, di sei, cinque e tre anni, più o meno. E sempre insegnava ai figli che si doveva dare l’elemosina a quelle persone che la chiedevano. Erano a pranzo: ognuno stava mangiando una cotoletta alla milanese, come si dice nella mia terra, “impanata”. Bussano alla porta. Il più grande va ad aprire e torna: “Mamma, c’è un povero che chiede da mangiare”. “Cosa facciamo?”, chiede la mamma. “Gli diamo dicono tutti e - gli diamo!” - “Bene: prendi la metà della tua cotoletta, tu prendi l’altra metà, tu l’altra metà, e ne facciamo due panini” - “Ah no, mamma, no!” - “No? Tu da’ del tuo, dà di quello che ti costa”. Questo è il coinvolgersi con il povero. Io mi privo di qualcosa di mio per darlo a te. E ai genitori dico: educate i vostri figli a dare così l’elemosina, ad essere generosi con quello che hanno. Facciamo nostre allora le parole dell’apostolo Paolo: «In tutte le maniere vi ho mostrato che i deboli si devono soccorrere lavorando così, ricordando le parole del Signore Gesù, che disse: “Si è più beati nel dare che nel ricevere!”» (At 20, 35; cfr. 2 Cor 9, 7). Grazie! AVVENIRE di domenica 10 aprile 2016 Pag 3 L’ecumenismo dell’accoglienza di Riccardo Maccioni Lesbo e i “corridoi”: gesti comuni dei cristiani Il peso delle lacrime. Le ragioni del cuore. La decisione del Papa di andare a Lesbo, ad incontrare i migranti parcheggiati dalla disperazione e dalla paura sull’isola greca, è una chiara denuncia dell’incapacità europea di governare un’emergenza diventata tragica quotidianità. Un grido di dolore contro l’indifferenza del ricco Occidente verso ciò che accade nel Mediterraneo e nel mar Egeo diventati, per citare la preghiera del Venerdì Santo, 'insaziabili cimiteri'. Soprattutto, è un richiamo al cuore del Vangelo, interpella la ragione stessa dell’essere uomini, persone. Il viaggio, allora, non potrà che essere un pellegrinaggio condiviso da chi, pur nelle differenze, si riconosce nello stesso Cristo, nei medesimi principi di solidarietà e di attenzione all’altro, soprattutto se povero e abbandonato. Non sarà solo un gesto simbolico il mostrarsi insieme di papa Francesco, del patriarca ecumenico Bartolomeo I e dell’arcivescovo ortodosso di Atene Hieronimus II. Nessuna, seppur nobile, passerella nei discorsi di sabato prossimo, ma la chiara consapevolezza che di fronte a una politica preoccupata soltanto di blindare i propri confini, la coscienza del credente non può più tacere. E se è vero che servono analisi, confronti, ancora più necessaria è la forza della testimonianza, parola che ha la stessa radice di martirio, estremo dono di chi ancora oggi, cacciato dalla propria terra, perseguitato per il suo credo, ha il coraggio di confessare Gesù fino al momento della morte. Alla paura che traccia fili spinati alle porte d’ingresso, che alza muri nel cuore dell’Occidente, che adotta il credo dei respingimenti, i cristiani, pur senza rinnegare le ragioni della sicurezza e della legalità, rispondono con la difesa dei diritti dei più deboli, con la logica della protezione umanitaria. È il principio evangelico dell’ospitalità, è l’ecumenismo dell’accoglienza. Quello che, grazie alla collaborazione tra la Comunità di Sant’Egidio e la Federazione delle Chiese evangeliche in Italia (Fcei) ha avviato il progetto dei 'corridoi umanitari' con il previsto arrivo in Italia, nell’arco di due anni, di mille profughi dal Libano, per lo più siriani in fuga dalla guerra, dal Marocco, tappa di chi parte dai Paesi subsahariani, dall’Etiopia crocevia della speranza anche per eritrei, somali e sudanesi. Non iniziative velleitarie quindi, ma gesti concreti. Come i territori rinati grazie al contributo dei migranti, come le strutture religiose trasformate in case per chi non ha più niente. Come gli uomini e le donne che il Papa e Bartolomeo incontreranno a Lesbo, persone in fuga da una terra che non sa trattenerle verso Paesi che le rifiutano. L’isola greca come Lampedusa allora, meta del primo viaggio di Francesco, come Ciudad Juárez terra di confine, piagata dalla violenza, tra il Messico dei migranti in fuga e gli Stati Uniti aurea e spesso irraggiungibile 'meta'. Luoghi tragicamente simbolici, punti cardinali di un triangolo disegnato dalla disperazione, spine conficcate nella carne viva dell’umanità, stazioni di una Via Crucis infinita. Un pellegrinaggio della disperazione che va misurato non in numeri, in cifre, in statistiche, ma in nomi e cognomi, in storie vere. «L’attuale ondata migratoria – ha detto il Papa lo scorso 11 gennaio – sembra minare le basi di quello 'spirito umanistico' che l’Europa da sempre ama e difende». L’iniziativa di Lesbo – ha sottolineato il Patriarcato ecumenico di Costantinopoli annunciando il viaggio – «sosterrà e rafforzerà le migliaia di profughi provati e spingerà l’assunzione di iniziative idonee per proteggere le particolari comunità cristiane e per affrontare correttamente la questione di massima importanza dei profughi». Toni diversi, vocaboli differenti per esprimere una comune consapevolezza, che cioè non ci si può permettere – sono ancora parole di Francesco – di perdere i valori e i princìpi di umanità, di rispetto per la dignità di ogni persona, di sussidiarietà e di solidarietà reciproca, «quantunque possano costituire un fardello difficile da portare». Non sono ingenui sognatori il Papa e il Patriarca, né utopici idealisti. Sanno che per arginare l’emergenza migratoria, per trasformare il problema in risorsa, bisognerà ritrovare il senso di una politica alta, non più ostaggio di facili slogan, ma capace di mettere al centro la persona. Per questo occorre più che mai una spinta dal basso, si deve riscoprire la compassione, è necessario reimparare a commuoversi. A Lampedusa prima, a Ciudad Juarez poi, ma anche a Manila e in molte altre occasioni, papa Francesco ha invocato con forza il «dono», la «grazia» delle lacrime. Che non sono un segno di resa o di disperazione, ma collirio per purificare lo sguardo, chiavi per aprire la strada del cambiamento, medicine per ammorbidire il cuore. Fili d’argento con cui chiudere le ferite aperte dell’umanità che sanguina. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO IL GAZZETTINO di domenica 10 aprile 2016 Pag 1 Per la crescita serve investire nelle imprese di Romano Prodi Ogni anno la presentazione del Documento di Economia e Finanza (il così detto Def) primeggia nelle notizie, nei commenti e nei dibattiti del nostro paese. Quest'anno, al contrario, lo troviamo invece più nelle seconde pagine che nei titoli di testa. Una prima spiegazione può derivare dal fatto che nei media si leggono argomenti rispetto ai quali l'opinione pubblica mostra maggiore attenzione, come il caso Regeni, i dossier di Panama e le riflessioni di Papa Francesco sulla famiglia. Una seconda ragione trova spiegazione nel fatto che le incertezze della politica mondiale e il flusso incessante di nuovi dati economici obbligano continuamente a cambiare interpretazioni e previsioni per cui, alla fine, anche un osservatore attento finisce col capirci ben poco e, quindi, interessarsi ancor meno dell'argomento. A tutte queste buone ragioni se ne aggiunge una terza, a mio parere assai più importante, che la centralità della gestione dell'economia italiana si è sempre più spostata verso il confronto con Bruxelles. Questo confronto è stato solo aperto dalla presentazione del documento ma si protrarrà fino ad ottobre quando esso dovrà avere l'approvazione definitiva degli organi comunitari. A questo obiettivo guarda visibilmente il Def presentato dal ministro Padoan, documento che corregge al ribasso le prospettive di crescita del nostro paese per il 2016 ma che rende ugualmente possibile il raggiungimento dei nostri obblighi nei confronti dell'Unione Europea. Per l'anno in corso viene quindi prevista una crescita del PIL nell'ordine dell'1,2%, crescita inferiore a quella che il Governo prospettava nello scorso ottobre (che era dell'1,6%), un poco superiore a quella che presentano i centri di ricerca più autorevoli come Prometeia (1,0%) ma ugualmente compatibile con gli aggiustamenti necessari per raggiungere il doveroso compromesso con Bruxelles. Si è trovato quindi un punto di equilibrio che non entusiasma nessuno, che produce qualche punto interrogativo ma che, proprio per la crescente dipendenza da fattori esterni da parte della nostra economia, non può nemmeno suscitare drastiche opposizioni. Naturalmente i controllori europei hanno già messo le mani avanti e il commissario Katainen si è affrettato a dichiarare che l'Italia ha già avuto sufficienti concessioni e non potrà ottenere maggiore flessibilità in futuro. Il nostro paese dovrà quindi, secondo Katainen, portare avanti un'unica priorità, quella di tenere fede agli impegni di rigore assunti in sede europea. Impegni che sono possibili ma non certo facili da raggiungere perché, per evitare imposte aggiuntive, essi implicano cospicui tagli alla spesa pubblica e un introito di otto miliardi di privatizzazioni che, anche secondo le stesse dichiarazioni di coloro che le dovrebbero mettere in atto come nel caso delle ferrovie, appaiono di assai complessa attuazione. Non è inoltre scontato un tasso di sviluppo dell'1,2% per l'anno in corso, data la diminuzione della crescita mondiale e il cattivo andamento del commercio internazionale che è stato, negli ultimi anni, uno degli elementi di maggior sostegno dell'economia italiana. In secondo luogo si dovranno prendere in considerazione le modalità e gli effetti della politica monetaria europea che, come ha messo in rilievo il governatore della Banca d'Italia, ha dato un sostanziale contributo positivo alla crescita italiana. Anche se non vi sono accenni al cambiamento di questa politica non si può infatti pensare che la Banca Centrale Europea possa ulteriormente aumentare il proprio contributo al sostegno della zona Euro. Non che la Bce abbia esaurito tutte le sue munizioni ma, quando si entra in un quadro di tassi di interesse negativi come è la situazione attuale, diventa sempre più difficile che essa possa inventare nuovi interventi utili alla crescita dell'economia europea. In questa situazione di incertezza lo strumento di maggiore efficacia in mano al governo per accelerare la crescita diventa l'uso di misure interne, a partire dagli investimenti che devono essere portati dall'attuale 16,50% del PIL intorno al 20%, come era la situazione nel periodo precedente la crisi. Un obiettivo non certo facile ma possibile innanzitutto attraverso le riforme che abbiamo il dovere di compiere. La prima riforma è quella di innovare la legislazione in corso, a partire dalla legge sulla concorrenza che soggiorna da tempi infiniti nelle aule del parlamento. Sarà inoltre utile accelerare la messa in atto gli interventi previsti dal piano Junker e incentivare gli investimenti dedicati all'aumento di produttività delle nostre imprese. Con la presentazione del DEF non si è quindi chiuso un ciclo ma si è compiuta solo una tappa di un processo che durerà a lungo e richiederà l'impegno di tutti. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO di domenica 10 aprile 2016 Pag 9 Denuncia l’infedeltà del testimone di Geova. Il giudice: dovere morale di Gianluca Amadori Cameriera rivelò alla congregazione di aver visto un fratello di fede con una donna diversa dalla moglie L’albergo per cui lavorava come cameriera addetta alle colazioni l’ha licenziata per aver violato la privacy di un cliente, in quanto avvisò la congregazione dei Testimoni di Geova, alla quale entrambi appartengono, di averlo incontrato in compagnia di una donna diversa dalla moglie. Un dovere morale e religioso a cui non poteva sottrarsi, si è difesa la donna, negando di aver divulgato dati sensibili e pure di aver creato un danno al cliente e al datore di lavoro. E il Tribunale ha annullato il licenziamento, in quanto ritenuto illegittimo per insussistenza del fatto contestato, e ha disposto la reintegra della dipendente nel proprio posto di lavoro. L’hotel è stato anche condannato al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata al suo stipendio(dal giorno del licenziamento all’effettiva reintegra), oltre alla rifusione di 3500 euro di spese di lite. La sentenza sulla singolare vicenda è stata emessa dal giudice Anna Menegazzo, della sezione lavoro del Tribunale di Venezia, a conclusione della causa promossa dal legale della cameriera, l’avvocato Leonello Azzarini. Con molte probabilità il legale dell’hotel, l’avvocato Enrico Tonolo, presenterà reclamo. Teatro dell’insolito episodio è un albergo veneziano a tre stelle, a poca distanza da piazza San Marco. Tutto accade una mattina del novembre 2014: la cameriera, che da 11 anni lavora nella struttura senza alcun problema, incontra casualmente nella sala colazioni un uomo che conosce bene in quanto appartiene allo stesso gruppo religioso dei Testimoni di Geova e con il quale, assieme alle rispettive famiglie, ha condiviso in passato numerose riunioni. Si accorge che è al tavolo assieme ad una donna diversa dalla moglie e, in osservanza ai precetti religiosi, confida la circostanza al ministro di culto della propria congregazione con l’obiettivo del «ristabilimento spirituale», affinché possa intervenire per aiutarlo. Passano alcuni mesi e alla direzione dell’hotel arriva una lettera di reclamo del cliente, il quale lamenta la privacy violata e i danni patiti, anche perché è in corso un divorzio dalla moglie. Parte una lettera di spiegazioni e, successivamente scatta il licenziamento, alla quale la cameriera si oppone presentando ricorso al Tribunale. Il suo legale sostiene che non è stato fornito alcun dato sensibile, ma semplicemente comunicata la presenza del cliente in hotel, e che ciò è stato fatto dalla sua assistita per rispettare le regole dei Testimoni di Geova, i precetti morali. La segnalazione, a cui non poteva sottrarsi, ha tra l’altro vincolo di segretezza: ne fu depositario soltanto il ministro di culto, che a sua volta ha obbligo di convocare il "fratello di fede" in difficoltà, senza coinvolgere nessun altro. Il giudice ha ritenuto che il fatto di comunicare agli anziani della Chiesa una circostanza appresa casualmente, seppure sul posto di lavoro, non concretizzi una violazione meritevole di licenziamento. Anzi «assume valenza disciplinare veramente minima», anche perché non è stato provato alcun danno subito né dal cliente, né dall’hotel. IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 10 aprile 2016 Pag XI Cresce l’eredità di don Franco di Maurizio Dianese A quattro mesi dalla scomparsa del fondatore il Centro Don Milani apre a nuovi progetti «È stata dura, soprattutto dal punto di vista psicologico, ma ce l’abbiamo fatta. Proseguiamo e allarghiamo l’attività, sviluppando la parte delle comunità dedicata al recupero dei dipendenti da gioco d’azzardo e alle nuove tossicomanie. La nostra “impresa sociale” è una delle più importanti a livello europeo, ormai. Del resto la grandezza di don Franco sta anche in questo, e cioè nell’aver visto lontano e aver saputo delegare per tempo la gestione di tutte le attività. E parliamo di una “azienda” che ha 170 dipendenti e assiste oltre 250 persone tra richiedenti asilo e minori non accompagnati, tossicomani e dipendenti da gioco d’azzardo». Un’"industria della solidarietà", come la definisce Angelo Benvegnù, presidente della cooperativa Coges, il braccio operativo del Centro don Milani, alla cui presidenza è stato nominato Paolo Cibin, il fratello di don Franco De Pieri, scomparso il 23 dicembre scorso. «Diciamo che non esiste altra struttura in giro per il mondo che abbia queste competenze. Grazie a don Franco, che è scomparso troppo presto, quando la sua figura di garante e di padre spirituale era ancora importante, e grazie anche a tutti coloro che ci lavorano, continuiamo a svilupparci». Don Franco è riuscito a trasformare Forte Rossarol in un esempio unico di aiuto a chi è in difficoltà, che si tratti di un minorenne che arriva dall’Afghanistan o di un eroinomane all’ultimo stadio. Negli ultimi anni poi c’è stato un salto di qualità nel settore del recupero dei cocainomani e dei giocatori d’azzardo, al punto che Forte Rossarol si candida a diventare punto di riferimento europeo proprio per il superamento di queste due dipendenze. «Lo slogan che sintetizza il nostro modo di lavorare nel post-don Franco è “diventare più professionali senza perdere il cuore” – spiega Angelo Benvegnù -. Vuol dire che stiamo man mano allargando il nostro intervento, senza perdere di vista i nostri ideali per cui ci allarghiamo al privato, ma continuiamo a lavorare molto nel pubblico e devo dire che ormai siamo talmente conosciuti che abbiamo liste di attesa infinite sia nel settore privato, e cioè fra chi è disposto a pagare una retta molto alta per farsi seguire da noi, sia nel settore pubblico. Teniamo in piedi i servizi anche più complicati, quelli richiesti da Comuni e Ulss, da Ministero e Regioni. Alla fine pagano tutti, in ritardo, ma pagano. Anche perché siamo spesso l’ultima risorsa per tanti Enti pubblici che, altrimenti, non saprebbero che cosa fare con i profughi o con i minori non accompagnati, ma che sono in difficoltà anche con i tossicomani o i dipendenti da gioco d’azzardo» Entro luglio verranno trasferiti i minori stranieri in una nuova struttura all’esterno del Forte, mentre al Rossarol proseguirà l’opera di ristrutturazione. «Lavoriamo in collaborazione con l’Università di Padova per quanto riguarda la parte pedagogica sui minori - conclude Benvegnù - e con l’Università di Verona e il Gemelli di Roma per le neuroscienze perché ci sono le nuove tossicomanie da affrontare, quelle multiple, fatte di cocaina e gioco d’azzardo, con contorno di alcol e pastiglie». Non è stata abbandonata neanche la parte missionaria di don Franco perché continua il sostegno alla missione sudamericana di Nadal in Brasile. «Si è deciso che i proventi del 5 per mille destinati al centro don Milani, saranno destinati ad attività sociali», sottolinea Angelo Benvegnù. E sul sito www.monsignorvecchi.it è stata aperta una sezione dedicata a don Franco. Quanti vogliono continuare a sostenere le iniziative avviate dal sacerdote scomparso possono destinare il 5 per mille indicando nella dichiarazione dei redditi il codice fiscale 90013950275, oppure è possibile utilizzare il conto corrente con Iban IT05 M033 5901 6001 0000 0135 964. Insomma non si ferma l’opera di don Franco De Pieri. Il cuore del sacerdote ha cessato di battere quattro mesi fa, ma pulsa ancora nelle mille attività di sostegno ai più deboli che ha costruito, sostenuto e promosso. LA NUOVA di domenica 10 aprile 2016 Pag 21 Il dottor Temperini se n’è andato a 97 anni di s.b. Aveva lavorato in ospedale come urologo poi medico di famiglia e volontario a Betania Venezia. Ha dedicato la sua vita alla cura delle persone, e ha saputo farsi amare e apprezzare in tanti anni di professione. Il dottor Italo Temperini si è spento venerdì sera nella sua abitazione in centro storico all'età di 97 anni. Nato a Venezia il 5 settembre 1918, aveva studiato ai Cavanis prima di laurearsi in medicina a Padova. Era chirurgo e urologo, e fino agli anni Sessanta aveva lavorato all'Ospedale Civile, ma esercitando anche come medico di famiglia. Poi, con i problemi causati dall'influenza asiatica, scelse di dedicarsi esclusivamente alla medicina di famiglia, fino al 1988 quando andò in pensione all'età di 70 anni. Ma non lasciò la cura delle persone, perché assieme alla moglie si dedicò a lungo al volontariato, assistendo i senza dimora e i meno fortunati che si recavano al centro Betania di Venezia. Un animo gentile e devoto, il suo, che lo spinse a collaborare spesso anche con la parrocchia. Amava molto lo sport, e da giovane praticò lo sci, utilizzando la bicicletta ad ogni occasione utile. «Era una persona molto generosa», ricordano i figli Francesca e Mauro, «anche estremamente positiva e che fino all'ultimo ha ripetuto la parola “pazienza”. Per la famiglia era stato un autentico faro, un punto di riferimento con la sua saggezza. Ha amato tanto la natura, la montagna e infondeva il sorriso». I funerali saranno celebrati mercoledì alle 11 a San Felice. Pag 45 Riecco le tarsie del Sansovino, gli arredi perduti di S. Marco di Enrico Tantucci Ospiti nella Sala di Sant’Apollonia quattro delle sei opere della raccolta Le tarsie lignee del Sansovino alla portata di tutti. Si è inaugurata nella Sala di Sant’Apollonia, alla presenza, tra gli altri, del primo procuratore di San Marco Carlo Alberto Tesserin, del comandante dei carabinieri del nucleo di tutela del patrimonio artistico e del proto della Basilica uscente architetto Ettore Vio e di quello da poco nominato architetto Mario Piana - la mostra dedicata proprio ai preziosi arredi che erano andati perduti e che nel 2014 sono stati invece recuperati. In particolare, si tratta di quattro sui sei che costituivano la raccolta: la Prudenza, la Temperanza, la Speranza e San Teodoro. La mostra, che è stata curata proprio dall’architetto Vio, resterà aperta sino al prossimo 24 aprile (a ingresso libero). Le tarsie che ornavano il presbiterio della Basilica di San Marco sono dovute a due grandi protagonisti della Venezia del XVI secolo, Andrea Gritti (1523-1538) il doge della renovatio urbis e Jacopo Sansovino proto di San Marco (1527-1570). Questi conferì al presbiterio un’impronta per i tempi moderna, con due loggette per i cori polifonici della cappella marciana, l’altarino con il tabernacolo, la porta del paradiso verso la sacrestia e il completo arredo ligneo con le tarsie per ospitare il doge e la sua signoria. Negli anni Cinquanta in tutta Italia si punta alla valorizzazione delle parti originarie di ogni monumento rimuovendo le incrostazioni successive. Il proto Ferdinando Forlati (1948-1971) libera il presbiterio dalle tarsie e da altri elementi che ritiene superflui come le tribune lignee per i cantori e gli stalli per i canonici di San Marco. La Chiesa povera auspicata dal Concilio Vaticano II rimuove i segni della ricchezza e del potere. Le tarsie delle virtù vengono accantonate in qualche magazzino, più volte rimosse e dimenticate, alcune non più ritrovate. Le quattro tarsie erano sparite presumibilmente nel 1966, dopo un restauro della Basilica. I carabinieri del Nucleo veneziano tutela del patrimonio culturale le hanno recuperate due anni fa, due da un antiquario di Roma, altre due nella villa di un collezionista di Prato. All’appello mancano le altre due, la “Carità” e “San Marco”, di cui sono esposte le foto. A far scattare la curiosità degli investigatori dell’Arma lagunare era stata la pubblicazione di uno studioso, il quale segnalava che due delle quattro opere poi recuperate erano inserite sul sito di un antiquario della capitale. Tuttavia, né il commerciante romano sné il collezionista toscano non sono finiti sul registro degli indagati perché entrambi avevano comprato le tarsie a un’asta, a Firenze a villa Imperialino, nel lontanissimo 1969. Che sia stato l’architetto rinascimentale a disegnarle e commissionarle non ci sono dubbi: è lui, infatti, che nel 1536, restaura la Basilica e piazza le nove tavole, scolpite in legno di noce, acero, ebano, pero, palissandro e melo, per conto del doge Andrea Gritti. Sono le virtù cardinali e quelle teologali, più il primo e più antico patrono della città e l’evangelista, patrono dell’epoca. Sono state ordinate proprio per essere sistemate nel presbiterio di San Marco, dove sedeva il doge con i suoi ospiti, spesso ambasciatori di altri Stati, quando doveva assistere alla messa. Quindi, nel 1956, in occasione di nuovi restauri, vengono smontate, finiscono nei magazzini e da là nessuno più le vedrà, spariscono. Stando ai carabinieri, potrebbero essere appunto state portate via un decennio dopo, nel 1966, nei giorni immediatamente successivi all’alluvione di novembre, quando Venezia viene sconvolta dalla marea che supera i 190 centimetri sul mediomare. Come detto, le tarsie ricompaiono solo tre anni dopo, all’asta di Firenze, per scomparire nuovamente fino a qualche giorno fa, recuperate grazie alle indagini dei carabinieri. E ora restituiti alla gente. IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 9 aprile 2016 Pag XIII Mestre “capitale” del Bangladesh di Elisio Trevisan Cinquemila persone risiedono stabilmente in città attratte dagli appalti in Fincantieri Mestre è la città del Bangladesh in Veneto. La comunità più numerosa vive proprio qui, circa 5 mila persone registrate ufficialmente all’Anagrafe, un numero stabile da circa 5 anni a questa parte, da quando cioè la media di 1500, 1800 bangladesi si è improvvisamente quasi triplicata. Numero stabile non significa che la situazione sia ferma da cinque anni, anzi è sempre in fermento. Perché ci sono continuamente gruppi di persone del Bangladesh che abbandonano Mestre per andare a Londra o comunque all’estero. Il numero di 5.386 per il 2015 per la precisione, rimane però pressoché invariato perché per ognuno che varca la frontiera ce n’è un altro che arriva. Com’è possibile se i flussi nazionali sono bloccati? Con il meccanismo dei ricongiungimenti familiari: famiglie molto numerose che tendono a riunirsi qui in Italia e che lo fanno non appena si libera un posto. Il fermento che sta dietro al numero costante è anche fonte di una certa preoccupazione per il Comune che sta ricevendo da tempo segnalazioni numerose di appartamenti abitati da tre o quattro, o anche cinque nuclei familiari. Per questo l’Amministrazione Brugnaro, dopo aver approfondito la questione, ha deciso di intervenire cominciando dalle verifiche negli alloggi e dall’applicazione rigorosa delle norme sull’agibilità. È il primo passo per riportare la situazione alla normalità. Le cinquemila persone censite sono solo quelle ufficiali, quindi iscritte all’anagrafe, e residenti nel nostro Comune, perché in Provincia ce ne sono molti altri, e in questo numero non rientrano tutti coloro che ottengono la cittadinanza italiana. Nel centro città, come ha rilevato anche la ricerca del Servizio tecnico della Municipalità di Mestre Carpenedo che abbiamo pubblicato il mese scorso, sono l’etnia più numerosa rispetto agli altri stranieri extracomunitari, primi davanti ai moldavi, ai cinesi e agli albanesi. Perché Mestre è la "capitale" del Bangladesh? Principalmente per la Fincantieri, poi per il turismo a Venezia e in piccola parte per il commercio abusivo. Lo stabilimento navale di Marghera è un potente attrattore di lavoro, non tanto per i poco più di mille dipendenti diretti che sono quasi tutti veneziani, chioggiotti e in genere della provincia, quanto per gli oltre tremila indiretti, ossia i lavoratori delle decine di imprese di appalto. Secondo i sindacati un buon 60% di quei lavoratori (circa 1.800 dunque) è del Bangladesh, e il resto si divide tra operai del Sud Italia e una grossa fetta dell’Est Europa. Più o meno l’80% delle persone provenienti dal Bangladesh che vive in città lavora alla Fincantieri in una di queste tantissime imprese di appalto o subappalto o sub-sub appalto. Gli altri sono impiegati più o meno stabilmente nel settore del turismo e un centinaio in quella che a Venezia chiamano la "cooperativa ufficiosa" dei venditori abusivi di fiori, giocattoli in silicone e "elicotteri" luminosi che lanciano in continuazione verso il cielo con le fionde davanti alla stazione di Santa Lucia o a San Marco, in Riva degli Schiavoni o comunque nei luoghi più frequentati dai turisti. Una volta finito il lavoro in Fincantieri, nei ristoranti di Venezia o per le calli, tornano a casa a Mestre. E, stagionalmente, molti di loro appunto partono improvvisamente per andare a lavorare all’estero, subito rimpiazzati da altri connazionali legati da vincoli familiari. Un tempo Porto Marghera era la "città" del lavoro di Venezia, lavoro stabile per 40 mila persone provenienti dal centro storico, da Mestre, Marghera e dalla Riviera del Brenta e anche più lontano. Oggi, svuotata di dipendenti e fabbriche e con un futuro sconosciuto, è diventata la cittadella del lavoro a termine. Come in Fincantieri: dopo essere uscita da una crisi che qualche anno fa aveva visto ridurre il numero delle navi ordinate, ora è fortunatamente piena di commesse. E gli oltre 3 mila operai delle imprese di appalto sono la fetta più grossa della forza lavoro, dove i sindacati, che chiamano il settore la «giungla dei cartellini di riconoscimento», arrivano con molta fatica, e gli stipendi che soprattutto i bangladesi si portano a casa, si riducono a ben poca cosa rispetto ai 1400 euro nominali in busta paga: perché con quei soldi devono pagare l’affitto di casa, e spesso il compenso a chi li ha portati in Italia e a chi li fa lavorare. LA NUOVA di sabato 9 aprile 2016 Pag 23 Metal detector all’ingresso della Basilica di Enrico Tantucci L’annuncio del Procuratore di San Marco Carlo Alberto Tesserin. Già installato anche un sistema di telecamere interne Metal detector in arrivo anche per l’ingresso in Basilica di San Marco, per aumentare così i controlli di sicurezza. A annunciarlo ieri - a margine dell’inaugurazione delle mostre di tarsìe lignee del Sansovino a Sant’Apollonia, è stato il primo procuratore di San Marco Carlo Alberto Tesserin con il nuovo proto marciano, l’architetto Mario Piana. «Dobbiamo anche noi attrezzarci sul piano della sicurezza - ha spiegato Tesserin - e per questo stiamo studiando con attenzione in questi giorni il funzionamento dei metal detector all’ingresso di Palazzo Ducale e del museo Correr per capire come possiamo introdurli anche noi». Per San Marco c’è un problema in più. «A differenza che nei musei - osserva ancora Tesserin - da noi non si paga un biglietto d’ingresso e la coda quindi fluisce continua e senza interruzioni. Dobbiamo perciò cercare di introdurre i dispositivi di controllo senza rallentare troppo la fila, specie nei giorni di maggiore affluenza. Per questo stiamo studiando la situazione, ma l’introduzione dei controlli di sicurezza è ormai indispensabile che San Marco, che è tra l’altro il luogo più visitato della città, anche perché appunto non si paga il biglietto». L’introduzione dei metal detector - come abbiamo già riferito in questi giorni - sta però creando già qualche problema soprattutto a Palazzo Ducale, perché rallenta notevolmente l’afflusso dei visitatori e provoca quindi il formarsi di lunghe code, Un problema legato a un numero di addetti alla sicurezza non sufficiente rispetto alla quantità di turisti da controllare. Per questo in Procuratoria aspettano di avere qualche dato in più prima di partire. Non è però l’unica misura di sicurezza prevista per i visitatori della Basilica. «Sono già installate telecamere interne ed esterne lungo tutto il perimetro di San Marco - spiega ancora il primo procuratore che ci permetteranno in ogni momento di avere il controllo della situazione rispetto a chi è presente all’interno della chiesa. Non sono ancora entrate in funzione, perché aspettiamo l’ultimo via libera per gli aspetti legati alla privacy». Altra novità in arrivo per il controllo dei flussi turistici dei monumenti marciani sono l’introduzione ai tornelli all’ingresso. «All’ingresso Campanile di San Marco sono già stati installati - spiega l’architetto Piana - e abbiamo già avuto il via libera della Soprintendenza. Si sta verificando il loro funzionamento e anche i tempi di passaggio e poi entreranno in funzione nei prossimi giorni». Sarà una sperimentazione utile anche in vista della loro possibile introduzione anche agli ingressi della Basilica di San Marco. «Qui i problemi sono maggiori - dichiara ancora Tesserin - perché le entrate in Basilica sono più d’una e inoltre dobbiamo sempre garantire il libero accesso ai fedeli per le funzioni religiose. Per questo la sperimentazione dei tornelli all’ingresso del Campanile di San Marco ci sarà molto utile, perché ci permetterà di capire quali problemi il loro uso comporta. Pag 26 Testamento biologico, sospeso il registro di Mitia Chiarin Oltre 400 le persone già iscritte in due anni. La convenzione con i notai è scaduta ma il Comune non l’ha rinnovata È stato sospeso da inizio marzo il registro delle Dat, le dichiarazioni anticipate di trattamento ovvero il testamento biologico che hanno depositato in Comune, da due anni a questa parte, 407 persone. Cittadini che hanno così messo nero su bianco le loro volontà sui trattamenti sanitari ai quali essere sottoposti in caso di impossibilità di espressione autonoma in situazione di fine vita. Un servizio partito il 19 marzo 2014 con un boom di prenotazioni di cittadini: 282 le dichiarazioni depositate il primo anno. Ora il servizio è sospeso, perché è scaduta a inizio marzo la convenzione con il consiglio notarile di Venezia, che garantiva la presenza di notai per la firma delle dichiarazioni dei cittadini da depositare nel registro comunale, strumento utile anche per i medici di base. Ora la preoccupazione è alta tra quanti si sono battuti, con petizioni, prese di posizione, interventi per spingere la commissione e il consiglio comunale nel luglio 2013 ad approvare a maggioranza la delibera che istituiva il registro e poi firmare la convenzione. Finora la giunta Brugnaro non è intervenuta per ripristinare il servizio, riconfermando la convenzione. Ed è passato più di un mese. «Visto che da oltre un mese è sospeso questo servizio», dice la consigliera comunale del Partito Democratico, Monica Sambo, presidente della prima commissione, «abbiamo fatto un’interrogazione al sindaco ed all’assessore per comprendere i motivi alla base del ritardo del rinnovo della convenzione. Moltissimi cittadini hanno depositato le loro DAT presso questo servizio del Comune e questo dimostra che è utile alla cittadinanza». L’interrogazione è sostenuta dagli altri consiglieri Pd e anche dalla Lista Casson. «Il Registro comunale delle DAT», aggiunge Cristiano Samueli, presidente dell’Associazione italiana per le decisioni di fine vita, «è stato un atto di grande civiltà da parte del Consiglio comunale di Venezia. Ricordo che questa delibera era stata fortemente voluta da moltissimi cittadini ed associazioni e ringrazio la consigliere Sambo per essersi attivata appena le abbiamo comunicato la sospensione del servizio». Samueli spiega di aver saputo della sospensione dalle telefonate di cittadini che non hanno potuto prenotare l’appuntamento. Sambo e Samueli concordano: «Questo importante servizio del Comune deve continuare ad essere offerto alla cittadinanza e ricevere la pubblicità che merita». Anche l’associazione Luca Coscioni, che aveva sostenuto la mobilitazione per il Registro, torna a mobilitarsi rivolgendosi direttamente a Brugnaro: «Ricordiamo al sindaco, il quale ancora una volta dimostra scarso interesse per i diritti civili, che come avvenuto in passato i veneziani sono pronti a tornare a reclamare quel diritto che la costituzione mette a loro disposizione e che una classe politica spesso retrograda ritiene di poter ignorare». Le 407 dichiarazioni depositate nel Registro sono conservate anche in versione informatica e riportano i dati anagrafici del dichiarante. Il Consiglio notarile, sulla base della convenzione, ha finora garantito la presenza con cadenza mensile nelle sedi comunali di Venezia e Mestre di un notaio per le informazioni e per fornire la copia autentica delle dichiarazioni, conservate poi nel Registro. Un servizio gratuito che consente, a chi vuole scegliere come essere trattato in punto di morte, di depositare il proprio testamento biologico, senza sopportare la spesa di un notaio privato o senza l’incertezza di non veder rispettate le proprie scelte. Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO di domenica 10 aprile 2016 Pag 9 Lavoro, studio e sport nell’oasi dei profughi: “Le caserme? E’ follia” di Martina Zambon L’esperienza della Coop Olivotti Mira. I peschi sono carichi di rosa nel giardino di una villetta a due piani, non un filo d’erba fuori posto, la legna accatastata messa a seccare per l’inverno e, a due passi, un campo che ospiterà l’ennesimo orto bio della Cooperativa Olivotti. La «casa di via Molinella», fra i campi che dividono Mira e Dolo lungo la Riviera del Brenta, ospita una decina di richiedenti asilo, afghani e pakistani soprattutto. L’attenzione a mettere insieme etnie omogenee è solo una delle mille sviluppate negli anni da questo sistema di accoglienza diffusa. Oltre a via Molinella ci sono la Casa delle donne, in via Bologna, sempre a Mira, la Casa Rossa e la Casa Bianca nel cuore della cooperativa nata nel 1980 e che i miresi conoscono da sempre per l’ottimo servizio di carrozzeria e per il laboratorio di ceramiche artistiche da cui sono uscite bomboniere per battesimi, comunioni e cresime di intere generazioni. Accoglienza diffusa, appunto, l’esatto opposto delle caserme-dormitorio gestite in condizioni di perenne emergenza. «Quei luoghi sono una follia – taglia corto Monica Lazzaretto, responsabile del Centro Studi di quella che per tutti è semplicemente «Casa Olivotti» – gli snodi di una giusta accoglienza partono dal riconoscere queste persone che arrivano qui devastate e senza identità». Donato Diamanti, che coordina i nove operatori della cooperativa, li chiama «i nessuno» perché insieme ai documenti si è tolta loro anche la dignità. Qui, fra un turno di cucina e un corso di alfabetizzazione si inizia a ricostruire. Il tema è serio, serissimo. Eppure capita anche di ridere quando una giovane eritrea rischia il coccolone davanti a un aspirapolvere in funzione: non ne aveva mai visto uno. «L’alfabetizzazione delle donne è imprescindibile – racconta Lazzaretto – visto che da lì intere famiglie si aprono alla società in cui vivono. Tutto iniziò anni fa, quando il nostro lavoro si limitava a un’intensa attività di mediazione culturale. Un maestro elementare di Mira si presentò con un giovane allievo cinese particolarmente dotato chiedendo aiuto perché la madre comprendesse le potenzialità del figlio. Credo che quel bambino si sia poi laureato». La Olivotti ha lavorato anni su progetti di accoglienza prima di accettarne uno su richiesta del Comune di Mira. «Non ci si improvvisa su questi temi perché l’integrazione è il futuro, sbagliare rischia di compromettere ciò che sarà – prosegue Lazzaretto – la nostra esperienza è nata con il reinserimento di persone appena uscite dal carcere, si è ampliata fino alla nascita della comunità di recupero per tossicodipendenti, siamo arrivati alla mediazione linguistica e solo poi, con operatori estremamente formati, ci siamo approcciati alla prima accoglienza. Amareggia leggere di cooperative che ignorano l’abc di questo che non è un mercato bensì un servizio, ma non ignoriamo il problema. Confcooperative si è data, non a caso, un decalogo molto preciso che va dall’assistenza giuridica a quella sanitaria passando per l’educazione civica e il lavoro. Altro ingrediente della polveriera di luoghi iperaffollati è proprio l’inattività che farebbe saltare i nervi a chiunque». E così i «ragazzi della Olivotti» incontrano e si fanno abbracciare dai bambini di una quinta elementare di Salzano più interessati a parlare di calcio che di tragedie, sistemano i parchi degli asili, ridipingono il patronato di Dolo e così via. Integrazione a tutti i livelli. Anche per Shaukat Zada, pakistano quarantenne che dopo anni passati a guidare taxi a Dubai ha tentato di tornare da moglie e 4 figli in patria. «Abbiamo scelto l’Italia – racconta Shaukat – perché dovevo salvarmi la vita, con i Talebani non era possibile restare, ora voglio far arrivare qui la mia famiglia». CORRIERE DEL VENETO di sabato 9 aprile 2016 Pag 1 Il Nordest e l’Islam percepito di Vittorio Filippi Aria di moderazione L’Isis, il sedicente Stato islamico, è geograficamente lontano da noi. Molto lontano. Ma è anche molto vicino, anzi è addirittura qui. Perché – come stabilito dalle indagini di magistratura e carabinieri – diversi «foreign fighter» sono materialmente partiti dal Veneto alla volta della Siria. Ma anche perché diffonde a piene mani paura ed insicurezza, due sentimenti con i quali convivere è notoriamente fastidioso. La Swg di Trieste, una società di ricerca sociale, ha appena effettuato un sondaggio che cerca di dare un volto a questi sentimenti quantificandoli. Tanto per cominciare, due terzi degli abitanti del Nordest hanno francamente paura dell’Isis. Addirittura uno su due si «sente in guerra» con il cosiddetto Stato islamico. Un terzo si percepisce limitato nelle proprie libertà da questa presenza minacciosa. Gli attentati di Parigi e nel parco giochi a Lahore in Pakistan sono i due eventi che più ci hanno colpito emotivamente, dice la ricerca. Due luoghi diversissimi, ma percepiti nello stesso sfregio prodotto dalla globalizzazione del terrore. Tuttavia per un abitante del Nordest su due siamo di fronte ad uno scontro tra barbarie e civiltà ma non tra islam e occidente (cristiano). Così come viene rifiutata – sempre dalla maggioranza del campione – l’idea che il terrorismo integralista sia semplicemente il frutto velenoso della globalizzazione occidentale. Piuttosto l’opinione prevalente nelle regioni del Triveneto è che le azioni dell’Isis mirino a tenere alto il livello del terrore e dell’insicurezza. Una insicurezza tale che per il 75 per cento del campione consultato il rischio di attentati in Italia esiste concretamente mentre per il 54 per cento la possibilità che possa scoppiare addirittura una terza guerra mondiale (che per qualcuno di fatto è già scoppiata) non è da sottovalutare. Occorre agire seriamente, afferma il campione preso in considerazione dal sondaggio di Swg, nei confronti del terrorismo islamico – e non in generale nei confronti del mondo islamico – creando finalmente una intelligence europea. Dice la ricerca Swg che a livello di psicologia collettiva l’Isis ha ormai prodotto quattro conseguenze. La prima: rompe le sensazioni di serenità e di spensieratezza, specie negli spazi pubblici come locali di divertimento ed aeroporti. La seconda: fiacca la voglia di resistere aumentando i sentimenti di tristezza impotente. La terza: ci fa sentire dentro uno scontro grandioso, epocale, di civiltà più che di religione. La quarta: evoca nella nostra mente la guerra, il sentirsi in guerra, una guerra dai contorni oscuri e per questo ancora più paurosa. Una osservazione, in conclusione, che si può trarre dall’indagine, per il Nordest. Comparando le risposte del campione nazionale con quello delle nostre aree - spesso evocate come frontiera «calda» dello «scontro fra civiltà», emerge per così dire una maggior moderazione nel vivere l’allarme che la situazione pone, una moderazione che ad esempio tiene bassi quei toni che oggi tendono ad essere facilmente populistici ed islamofobici. Non è una cosa da poco, a queste latitudini, con i tempi che corrono. Pag 7 Il Veneto degli “hub” mascherati: “Così fallisce l’accoglienza diffusa” di Sara D’Ascenzo In sei casermoni si concentrano oltre 1.500 profughi. La Caritas: colpa di chi non decide Venezia. Non sono «hub», perché la parola ha un significato preciso: e indica un centro di raccolta e smistamento profughi. Ma è difficile non vedere negli otto centri maggiori che accolgono (o hanno in previsione di accogliere) migranti in fuga dai Paesi d’origine dei centri simili a quelli chiamati hub. Se non fosse che quelli veneti, anche e soprattutto quelli dove l’accoglienza è a tre cifre, finiscono per essere centri stanziali, non certo di smistamento. Il caso di Cona, in provincia di Venezia, sollevato dal Corriere del Veneto con un inviato che ha vissuto lì tre giorni facendosi assumere come dipendente, è solo uno. Ma di centri con quei numeri nella regione ce ne sono sei, più due che arriveranno: quello di Fonte, dove tutto è ancora in forse perché l’ex convento dovrebbe ospitare 228 profughi ma per l’Usl ce ne stanno solo 70 e quello dell’ex caserma Zanusso di Oderzo, dove i profughi in arrivo sono 144. La mappa dei giganti dell’accoglienza certifica, in sostanza, il fallimento della strategia dell’accoglienza diffusa, come ha dovuto ammettere, nei fatti, anche il prefetto di Venezia Domenico Cuttaia di fronte alla scarsa partecipazione all’ultimo bando: 498 posti assegnati su 973 necessari. «C’è un’effettiva diminuzione nei numeri della disponibilità - ha spiegato don Dino Pistolato, vicario episcopale della Diocesi di Venezia, per anni direttore della Caritas veneziana e ancora oggi punto di riferimento per le politiche dell’immigrazione - come ha ammesso il prefetto. Così è chiaro che si crea una criticità. Determinata anche dal fatto che chi si è reso disponibile si è esposto economicamente. Quanto al fatto che questi centri abbiano i numeri degli hub è evidente: il governo dà dei numeri su quanti devono essere i profughi, se nessuno risponde è chiaro che si creano queste concentrazioni. Il problema è che l’hub è efficace se è veloce, sennò diventa residenzialità. Ma questo è inevitabile perché si è creato un cortocircuito: non tutte le amministrazioni rispondono come dovrebbero o si disinteressano, altre si sovraccaricano». E quando le strutture si sovraccaricano qualche problema lo possono creare. Lo ha detto anche il presidente della cooperativa che gestisce il centro di Cona: «Se arriva una testa calda e scoppia una rivolta, qui scoppia tutto». «Il pericolo è diffuso - dice però don Dino -, una testa calda è sempre un problema. Certo, più sono più la situazione è rischiosa. E in vista dell’estate, in cui tradizionalmente i numeri aumentano perché aumentano gli sbarchi, se non si troveranno altre strutture pronte ad accogliere, centri come quello di Cona sono destinati a “esplodere”, a meno che non si creino altri “hub” o simili». In questo clima forse la Chiesa potrebbe fare di più? Don Dino è risoluto nella difesa d’ufficio: «Noi stiamo accogliendo nelle parrocchie, ma tante volte proponiamo delle soluzioni d’accoglienza e ci vengono bloccate da sindaci o prefetture: le nostre sono zone turistiche...». Pag 19 Vicenza, il vescovo contro gli ex vertici: “Restituiscano quanto hanno sottratto” di Andrea Alba Vicenza. Il vescovo di Vicenza Beniamino Pizziol contro i «responsabili del dissesto» di Banca Popolare di Vicenza. In una lettera che ha il sapore di un anatema, il presule chiede loro di «restituire il denaro sottratto, con un sussulto di dignità». Pizziol si schiera a favore dei «piccoli risparmiatori che hanno visto sfumare all’improvviso i risparmi di una vita». E dalla Curia è aperta l’adesione a un’eventuale futura azione di responsabilità, conferma l’economo, monsignor Renato Dovigo: «Del resto, l’indicazione del vescovo è chiara». Pizziol ha atteso giorni dall’assemblea del 26 marzo – tra no all’azione di responsabilità e quadro degli emolumenti anche agli ex, come l’ex presidente Gianni Zonin – per prendere carta e penna. Il presule si è informato sul caso, parlando con piccoli azionisti in difficoltà e professionisti. «La Chiesa vicentina soffre per le conseguenze di una grave crisi di fiducia e di valori, in seguito alle vicende finanziarie che hanno travolto la Popolare» inizia la nota. «Alla già pesantissima crisi economicofinanziaria - riprende il presule - si aggiunge questo ulteriore dissesto che, oltre le perdite materiali, sta generando sconforto, delusione e sfiducia. Ancora una volta i più deboli hanno pagato il prezzo più caro. Come Chiesa vicentina non possiamo tacere oltre - insiste Pizziol -. Coloro che sono responsabili devono sentire l’obbligo morale di porre rimedio a tale dissesto, trovando le modalità concrete per restituire il denaro illecitamente sottratto». Pizziol non fa mai nomi, ma è inevitabile accostare la lettera diocesana al recente appello a donare metà degli averi ai poveri rivolto da un prete di Vicenza, don Marco Bedin, a Gianni Zonin nel bollettino parrocchiale. «Ciò che più è risultato eticamente ingiusto – riprende la nota vescovile - è che proprio mentre i risparmiatori e lavoratori della Banca venivano maggiormente danneggiati, dirigenti e manager ricevevano compensi spropositati». Infine, il presule annuncia una riflessione interna alla stessa diocesi: «Chiedo agli organismi diocesani di verificare i criteri con cui le nostre comunità cristiane e la diocesi stessa investono i propri risparmi negli istituti bancari». Nella nota, Pizziol non nomina le azioni Bpvi – 26.255, pari fino a due anni fa a circa 1,6 milioni di euro – della diocesi. Volutamente, spiegano dalla Curia: «La lettera è a favore dei più poveri, non di quel che abbiamo in casa». L’acquisto «risale al 1984» osserva monsignor Dovigo. Come pure i 30.945 titoli dei frati dell’Ordine dei Servi di Maria, di Monte Berico, come spiega padre Giuseppe Zaupa, ex priore da pochi giorni: «Condivido la lettera del vescovo». Sia loro che la Curia non hanno partecipato alle assemblee. «Troppa la delusione – avverte Dovigo – non so se andremo alla prossima; ma nel caso siano proposte azioni di responsabilità la linea è chiara. Due anni fa avevamo chiesto di vendere parte delle azioni, senza ottenere risposta. Una fortuna: sarebbe stato ingiusto verso i tanti che hanno perso tutto». Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 La spinta a farsi del male di Angelo Panebianco Che cosa è successo al centrodestra? Che cosa se ne può fare il Paese di un centrodestra ridotto così? Sembra che coloro che guidano (?) quello schieramento non abbiano ancora capito che il loro vero nemico non è Matteo Renzi ma il movimento Cinque Stelle: l’unico che - domani a Roma e dopodomani sul piano nazionale - potrebbe mettere il centrodestra alla porta, escluderlo definitivamente dalla festa. Viviamo al momento in un assetto tripolare (Partito democratico, Cinque Stelle, centrodestra) che ha sostituito il precedente bipolarismo Berlusconi-sinistra. Ma gli assetti tripolari sono per definizione instabili e transitori. Presto si tornerà, plausibilmente, al bipolarismo. Ma di quale bipolarismo si tratterà? Democratici/Cinque Stelle o democratici/centrodestra? Al momento, il primo scenario sembra più probabile del secondo. E il centrodestra, con le sue scelte, dà l’impressione di volere solo farsi del male e favorire così i Cinque Stelle. Consideriamo alcuni dei suoi comportamenti autolesionistici. Si prenda il caso del referendum sulle trivelle. Voci contrarie ce ne sono, naturalmente, ma la parte di quello schieramento che si è unita all’esercito anti industriale e pseudo-ecologista sostenitore del referendum, è consistente, sembra preponderante. Quando è avvenuta questa conversione alle ragioni dell’ideologia anti industriale? C’ è poi il caso Guidi. L’uso delle intercettazioni è sempre stato contestato dal centrodestra. Ma le reazioni sono di altro tenore nel momento in cui vengono colpiti gli avversari politici. Più in generale, sono pochi, nel centrodestra, ad avanzare dubbi sull’inchiesta di Potenza. A cominciare da quello strano reato denominato «traffico di influenze illecite». Dopo tutte le battaglie condotte nel corso degli anni dal centrodestra sulla giustizia sembra che esso sia oggi vittima di un’impressionante metamorfosi. Prendiamo poi il caso delle riforme costituzionali. Dopo avere dedicato decenni a contestare la Costituzione in vigore, il centrodestra si schiera contro le riforme Renzi. Con gli stessi argomenti (sull’autoritarismo incombente) usati da sempre dai nemici di Berlusconi contro di lui. È come se gli esponenti di quello schieramento fossero andati a lezione di giustizialismo da Marco Travaglio, di costituzionalismo dai fan della «Costituzione più bella del mondo», e di «decrescita felice» dai teorici dell’anti industrialismo. Insomma, c’è un centrodestra in stato confusionale: non ha capito che fare un’opposizione così non gli conferisce alcuna credibilità. Inseguire i Cinque Stelle, opporsi a Renzi «a prescindere», non gli porterà neanche un voto. La controprova è Milano. Lì il candidato del centrodestra ha chance contro la sinistra, proprio perché nulla ha a che spartire con la destra confusamente estremista che prevale sul piano nazionale. Berlusconi (che resta il più intelligente di quella compagnia) queste cose le ha ovviamente capite e, infatti, di tanto in tanto le sue dichiarazioni sembrano smarcarsi dagli orientamenti prevalenti. Ma è evidente che il vecchio capo non ha più un vero controllo, neppure sul suo stesso partito. Come tutti sanno, la condizione agonizzante in cui versa da anni il centrodestra è figlia della incapacità/impossibilità di risolvere la crisi di successione, di trovare un leader che sostituisca Berlusconi. L’inventore di quello schieramento non ha al momento eredi politici. Per questo il centrodestra è in dissoluzione. Nessuno sa oggi se e come quella crisi di successione potrà essere risolta, se e come un nuovo leader capace di federare il centrodestra infine emergerà. Non è colpa degli esponenti del centrodestra che quella leadership non sia ancora emersa: i capi non si creano a tavolino, ottengono i gradi sul campo, nel corso delle battaglie politiche. È invece proprio colpa loro, degli attuali dirigenti, se, in nome di un’opposizione purchessia a Renzi, si sbarazzano persino degli aspetti positivi della loro tradizione (la scelta decisa a favore della modernizzazione socio-economica, il revisionismo costituzionale, l’opposizione agli aspetti illiberali del nostro sistema di giustizia). Corriamo un bel rischio, quello di un bipolarismo Renzi/Cinque Stelle. Come ai tempi della Dc e del Pci. Senza alternanza e senza alternative. LA REPUBBLICA Pag 15 L'allarme sondaggi e quel salto nel buio chiamato Italicum di Stefano Folli Il premier e l'incubo della lenta erosione dei consensi Il sondaggio curato da Ilvo Diamanti e pubblicato ieri da "Repubblica" rappresenta uno straordinario segnale d'allarme per Renzi e il vertice del Pd. Per meglio dire, è un incubo che prende forma: quello di una lenta, inesorabile erosione dei consensi popolari come conseguenza dell'opacità nel rapporto fra politica e affari. Non importa quanto estesa sia l'area grigia, quel che conta è come essa viene percepita dall'opinione pubblica. Forse non ha torto il premier quando ammonisce su "l'aspetto mediatico" dei recenti scandali, ma il fatto è - al di là dell' esito delle inchieste - che proprio il "renzismo" ha fatto dei messaggi mediatici l'asse strategico della sua politica. Diamanti fotografa una crisi che potrebbe essere passeggera se fosse limitata alla vicenda dei petroli, ma che invece rischia di essere strutturale se si somma alla ripresa economica effimera, all'immigrazione ancora priva di una risposta efficace da parte dell'Unione, ai tanti dubbi sul futuro. Anche qui i problemi sono quelli "percepiti" dall'opinione pubblica: ma è su questo che si determinano le scelte elettorali. Ora, in vista delle prossime elezioni politiche, il sondaggio di Diamanti rende chiara l'eventualità che al secondo turno previsto dall'Italicum si affermi il candidato dei Cinque Stelle. Ne deriva che il disegno del premier- segretario fondato su se stesso e sull'affermazione progressiva del "partito del premier" rischia di essere vanificato dalle circostanze. Così lo strumento principe di questa operazione, appunto l'Italicum, passa rapidamente dallo status di "modello elettorale che tutta l'Europa presto vorrà imitare" alla condizione di drammatico salto nel buio. Sarebbe davvero un singolare scherzo del destino se il sistema concepito per consolidare il trionfo della nuova era renziana servisse per agevolare i campioni dell'antipolitica nella loro ascesa nazionale. A questo punto correggere la legge finora mai applicata diventa una priorità. Ma è una priorità anomala, nel senso che non se ne parla e non s'intravedono per ora iniziative in Parlamento. Si capisce perché. L'Italicum è stato presentato per mesi come il fiore all'occhiello del riformismo governativo. Non è per nulla facile ammettere di aver commesso un errore politico; a maggior ragione prima del referendum di ottobre sulla riforma costituzionale, passaggio cruciale per la maggioranza. Rimetter mano oggi alla legge elettorale trasmetterebbe all'opinione pubblica un'idea di debolezza e frenerebbe lo slancio in vista del voto sul Senato elettivo. Quindi si aspettano gli sviluppi in un crescendo di ansia. Anche perché il tempo a disposizione è limitato. Pochi credono che la legislatura si concluderà alla scadenza naturale nella primavera del 2018. Nessuno si stupirebbe se il capo dello Stato decidesse di mandare gli italiani alle urne con un anno d'anticipo, nel 2017. Dipenderà dalle circostanze alla fine dell'anno in corso. Comunque sia, l'Italicum appare invecchiato precocemente e la politica, una volta di più, non sa come muoversi. Gli occhi sono rivolti alla Corte Costituzionale, proprio come accadde con la precedente legge elettorale, il Porcellum. C'è il tribunale di Messina che ha sollevato una questione di legittimità e il neo presidente della Consulta, Paolo Grossi, ha detto che non dovremo aspettare molto tempo per conoscere il verdetto. Vedremo. Se la Corte confermerà l'Italicum le responsabilità saranno rinviate nel campo della politica. Ma se, al contrario, dovesse dichiararlo almeno in parte incostituzionale, ecco che si tornerebbe a un sistema proporzionale con alcuni limiti (il cosiddetto Consultellum). Potrebbe piacere molto all'arcipelago centrista che ha bisogno di tornare in Parlamento con una forza autonoma. Piacerebbe perciò ai naufraghi di Forza Italia, sia che si tratti di scissionisti sia che lo stesso Berlusconi decida di giocare un' ultima partita contro la Lega di Salvini. Sono in molti ad avere interesse alla fine dell' Italicum. Il sondaggio di Diamanti fa capire che anche per il Pd renziano è giunta l'ora della riflessione. IL GAZZETTINO Pag 1 Legge sulle lobby, arma contro gli intrallazzi di Massimo Teodori Come nasce il pasticciaccio del petrolio della Basilicata in cui si intrecciano interessi legittimi e pressioni occulte, fidanzati profittatori e ministre colpite nei sentimenti, politici furbastri e faccendieri intraprendenti? A quale logica risponde, oltre che alla individuazione dei reati, la pubblicazione di telefonate che offendono la privacy personale? Al di là della cronaca, è utile capire l’origine di un fenomeno che ancora una volta getta un’ombra sul Paese. Certo, l’Italia è la patria della raccomandazione e della corruzione negli affari che si intrecciano con la pubblica amministrazione e la politica. Ma all’origine del nostro caso c’è anche un elemento “culturale” che viene da lontano. È la diffidenza per le regole dell’economia di mercato che sono alla base del benessere dell’Occidente nel quadro delle istituzioni liberaldemocratiche: regole incompatibili con l’assistenzialismo e il corporativismo tipici delle culture tuttora da noi dominanti, la cattolica e la comunista, alquanto estranee al moderno capitalismo. Sotto l’affaire lucano appaiono in filigrana queste sottoculture che distorcono il rapporto tra economia e politica quale insieme di regole trasparenti. Di canali istituzionali e di protagonisti legittimati che si confrontano nel dibattito pubblico per mediare tra interessi in una società pluralista. Il fatto è che in Italia non è stato mai accettato il quadro istituzionale che, più o meno bene, domina nelle democrazie occidentali. Esso è stato sostituito da un ambiguo maneggio che emerge quando interviene la magistratura inquirente che può così disporre di sempre maggiore potere. Quando in Italia si parla di lobby, spesso si dà al termine il significato di invettiva per demonizzare l’avversario. Ma lobby non indica altro che un soggetto collettivo che difende interessi di qualsiasi tipo - oltre che economici, sindacali, etici, ambientali, religiosi, sociali, eccetera - al fine di influenzare l’opinione pubblica e le istituzioni. La questione discriminante è se l’attività di lobbying avviene in maniera legittima o illegittima, usando mezzi chiari o oscuri, se è trasparente in chi la fa, per cosa la si fa e verso chi è diretta, o se, invece, si svolge senza regole e limiti. Gli affari alla luce del sole sono parte della vita collettiva; l’affarismo sotterraneo ne è la degenerazione. L’idea distorta del mercato è l’anomalia italiana rispetto all’Occidente. Negli Stati Uniti, il Paese per eccellenza del capitalismo, l’attività lobbistica è ufficialmente regolata fin dal 1946: tutti conoscono chi sono i lobbisti, per quali interessi lavorano, a chi e in che misura contribuiscono finanziariamente. Questa è la democrazia pluralistica che funziona non solo con i partiti e le elezioni, ma anche con le lobby esplicite. Anche presso l’Unione europea di Bruxelles sono attivi quindicimila lobbisti nel quadro di un Registro della trasparenza depositato presso le istituzioni comunitarie. In Italia, invece, vige la regola del “tengo famiglia” o “tengo partito”. Dal 1948 sono stati presentati cinquantotto disegni di legge di regolamentazione delle lobby, ma nessuno è andato in porto, compreso quello preparato nel 2007 dal governo Prodi. Il fatto è che per cultura o per volontà dei politici, dei funzionari e dei faccendieri, pochi hanno interesse a varare una legge che riduca la discrezionalità largamente pratica a scapito dei diritti dei cittadini. Questa non è l’ultima delle ragioni per cui seguitano a circolare fiumi di denaro illegale attraverso vie oscure, ad esempio nella sanità pubblica in mano alle regioni, o nelle fondazioni di capi e capetti partitici che oggi assorbono il finanziamento indiscriminato della politica. Una legge sulle lobby (come tutte le leggi che in Italia sono troppe) non è certo la panacea, ma forse servirebbe per porre un argine al brulichio intorno alle attività economiche, e per frenare l’utilizzazione di reati come il “traffico di influenze illecite”. E, forse, eviterebbe anche le polemiche tra il vertice politico e il vertice della magistratura. Pag 2 Grillo sotto accusa per la finta “comunione” Il comico al termine del suo show ha distribuito grilli essiccati: “Questo è il mio corpo” Torino - «Non c'è più spiritualità». Così Beppe Grillo sabato sera al Lingotto di Torino prima di concludere il suo show 'Grillo vs Grillo'. Il comico genovese ha chiamato accanto a sè alcuni militanti del Movimento 5 Stelle per quello che ha definito «un piccolo rituale», ossia la distribuzione di grilli essiccati offerti come ostie. «Sei pronto a ricevere il mio corpo?», ha chiesto Grillo a un militante mentre gli offriva un grillo dopo averne messo in bocca lui stesso uno. A un altro ha detto «ricevi il mio corpo», a un terzo «la pace sia con te». Poi rivolto al pubblico che rideva e applaudiva, nel congedare i militanti ha concluso: «Questo è un rituale di comunione e di liberazione per me». Scontate e dure le critiche. «Grillo che dà la prima comunione al senatore Airola e alla candidata sindaco Appendino. Sono una setta pericolosa», ha scritto il senatore del Pd Stefano Esposito su Twitter. «Assolutamente vergognoso - ha detto la senatrice democratica Rosa Maria Di Giorgi - Al di là della polemica politica voler scherzare sulla comunione, irridendola addirittura con l'uso di insetti come ostie, mi sembra veramente mancare di rispetto a tanti italiani. Ma questo la dice lunga sulla responsabilità e sulla coscienza civile di quel movimento e del suo leader». «La finta comunione grillina sarebbe rubricata a pessimo gusto se non fossimo in un tempo difficile per i cristiani», ha detto il deputato democratico Michele Anzaldi. «Da cattolico provo disgusto per la indecorosa sceneggiata di Grillo e dei parlamentari cinque stelle - ha scritto sul suo profilo Facebook il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Luca Lotti - Da padre mi domando se sia giusto ironizzare su quello che per me è un sacramento. Da cittadino mi domando come fanno a essere credibili questi signori che stanno riducendo la politica a un teatrino». «La finta comunione data da Grillo, con relativi grilli, rappresenta una pagina veramente indecorosa e bassa - ha commentato l'europarlamentare pugliese Raffaele Fitto, leader dei Conservatori e Riformisti - Non occorre essere credenti per capire che si tratta di una offesa grave e gratuita». «Si sapeva che M5S fosse una sorta di setta più che un movimento politico, ma questa volta si è oltrepassato il limite della decenza», ha denunciato la deputata di Forza Italia Elvira Savino. LA NUOVA Pag 1 Con Giulio oltre le leggi degli Stati di Vincenzo Milanesi Verità per Giulio Regeni. Lo chiedono non solo i familiari e gli amici, non solo l’Italia ma anche l’Europa, e un po’ in tutto il mondo, anche di là dall’Atlantico, è un coro di richieste di verità. Segno che un’uccisione così atroce, così barbara, dopo terribili torture inflitte ad un giovane ricercatore impegnato come studioso della società egiziana con attività sul campo, per estorcergli chissà quale segreto, ha commosso il mondo. Facendo crescere l’indignazione ogni giorno di più, quanto più vergognose si rivelavano le false verità, i depistaggi. Lasciando intravvedere una verità agghiacciante di altre torture e di altre morti, non di cittadini stranieri ma di sudditi (perché ad essere tali sono ridotti) di un Paese tra i più importanti del Medio Oriente, che si proclama amico dell’Italia e dell’Occidente, e che anzi si erge a baluardo contro l’oscurantismo di regimi intrisi di fanatismo religioso. Gli incontri dei giorni scorsi a Roma di alcuni esponenti autorevoli della magistratura egiziana e delle autorità di governo di quel Paese non hanno fatto fare alcun passo avanti nella ricerca della verità, e si allontana sempre più la possibilità che sia fatta giustizia. La tragica vicenda di quello sfortunato, coraggioso ragazzo va al di là del caso personale. Perché pone una questione di capitale importanza non solo per le persone ed i Paesi coinvolti. Perché sono in gioco valori e principi fondanti la convivenza civile. Ogni Stato si definisce tale per il fatto di potersi definire come Stato “sovrano”, cui viene riconosciuta una serie di prerogative che lo rendono, appunto, tale, e che non è qui il caso di enumerare dettagliatamente. Tra di esse vi è il fatto di poter pretendere il rispetto di leggi da esso emanate, nell’esercizio concreto di tale sovranità, all’interno dei suoi confini di Stato. Leggi definite come “positive” nel senso che sono poste in essere dallo Stato medesimo come valevoli all’interno dei suoi confini. Talora, specie in regimi politici di un certo tipo, a queste leggi positive si accompagnano procedure non codificate che tuttavia autorizzano, anche se spesso implicitamente e non ufficialmente, comportamenti diciamo così particolari di suoi apparati di Stato. Che le leggi di quel Paese non impediscono né, di fatto, sanzionano. Possiamo noi accettare che quelle leggi siano le uniche cui fare riferimento, e quindi da applicarsi? O ci sono anche altre leggi, che possono essere invocate, in nome delle quali chiedere che siano improntati non solo gli ordinamenti giuridici ma anche i comportamenti da essi non esplicitamente regolati ma purtuttavia permessi all’interno dell’orizzonte di norme e di principi che stanno a fondamento di un singolo particolare Stato? Tocchiamo qui un problema di enorme importanza e complessità, che era ben chiaro fin dai tempi della Grecia antica. Basta pensare ad Antigone, protagonista di una delle grandi tragedie di Sofocle, composta a metà del V secolo prima di Cristo. Antigone si oppone ad un editto del tiranno di Tebe, Creonte, contrapponendo alla legge da lui posta in essere un’altra legge, quella eterna ed incrollabile voluta dagli dei, e quindi dà sepoltura al corpo del fratello Polinice contravvenendo alla legge positivamente sancita dall’editto di Creonte. Pagando con la condanna a morte questa sua riaffermazione di un diritto di resistenza alla legge dello Stato (l’editto di Creonte) che viene da una legge che va al di là di quella dello Stato. La civiltà dell’Europa moderna nasce da una ripresa della posizione sostenuta da Antigone, con la riaffermazione che esistono “leggi non scritte” che hanno valore al di là dei confini degli Stati “sovrani”. Superando norme positive, quali che esse siano, e condannando comportamenti da quelle norme implicitamente ammessi in nome di leggi superiori che sanciscono diritti inalienabili degli uomini in quanto uomini, diritti per questo definiti come diritti umani. Battersi per ottenere verità e giustizia per Giulio Regeni significa schierarsi dalla parte di Antigone. Dalla parte giusta, dunque. E non solo per la sua memoria e la sua famiglia. Ma per tutti gli uomini, cittadini del mondo. Pag 1 Se Panama fa tremare il mondo di Maurizio Mistri Sta montando uno scandalo politico-finanziario che potrebbe travolgere molti esponenti della politica mondiale, dopo che si sono aperte le cataratte dei dossier trafugati dallo studio legale Mossack Fonseca di Panama City. Certamente dobbiamo plaudire al lavoro di chi ha pazientemente raccolto informazioni su certi opachi movimenti di capitali. Che nell’epoca della interdipendenza tra le economie del mondo, soprattutto nel settore finanziario, ci sia bisogno di trasparenza è indubbio. Si tratta di una “buona notizia” per le persone oneste, ma come a volte accade nella vita una buona notizia si accompagna ad una “cattiva notizia”. Mi riferisco ad un fatto che può apparire paradossale, e cioè che la pubblicazione di una lunga lista di personalità politiche di livello mondiale può avere un effetto destabilizzante proprio su quel sistema economico mondiale che si vorrebbe rilanciare. A mio avviso la personalità politica più rilevante è il leader cinese Xi Jinping il cui entourage è nel mirino dei “Panama papers”. Il leader cinese tra l’altro è impegnato in una non facile opera di contrasto alla corruzione. A volte in Cina la lotta alla corruzione viene utilizzata, a fini politici interni, da una fazione del partito di governo contro un’altra fazione. Non è da escludere che i “Panama papers” possano essere utilizzati da una fazione avversa a Xi Jinping proprio per scalzare il leader cinese. Gli effetti potrebbero essere destabilizzanti per l’economia cinese e, di conseguenza, per l’intera economia mondiale. A sua volta la presenza del nome del primo ministro del Pakistan nei “Panama papers” potrebbe avere effetti sulla stabilità politica di un paese che si colloca all’epicentro dell’integralismo di tipo islamico. Infine, è da prendere in considerazione la posizione di David Cameron, “incastrato” dalla presenza, nella lista, dal nome del padre. Dalla vicenda Cameron uscirà indebolito politicamente in una fase delicata per la politica inglese. In effetti già si manifestano timori che un indebolimento di Cameron, o la sua uscita dalla scena politica, potrebbero dar forza ai fautori della Brexit, evento temuto da molti in Europa perché considerato pericoloso per la stessa stabilità dell’Unione europea. Naturalmente ci sono altri nomi, come quelli di alcuni cugini di Bashar al Assad, il rais della Siria, o quelli di alcuni collaboratori di Marine Le Pen, oppure quelli di alcuni amici di Putin. C’è chi ritiene che tali capitali siano addebitabili ad Assad, a Marine Le Pen ed a Putin, anche se i nomi di questi leaders politici non figurano direttamente. Si tratta, in larga parte di persone che manifestano posizioni avverse a quelle degli Usa, mentre non figurano politici degli Usa. Di una manovra orchestrata dagli Usa, assieme al miliardario George Soros, soprattutto contro la Russia ha parlato Julian Assange, animatore di Wikileaks. A questo proposito un personaggio che a suo tempo è stato attore nel rendere pubblica una lista di possessori di fondi occultati, e cioè Hervé Falciani, in una intervista rilasciata a Il Sole 24 Ore Online ritiene che quanto va accadendo vada a favore degli Usa. In altri termini, secondo Falciani, i detentori di capitali occultati, braccati dalle magistrature dei propri paesi, finiranno per portare i loro quattrini “sporchi” nel Delaware. Come è noto il Delaware è uno stato membro degli Usa, oggi campioni della trasparenza finanziaria in casa altrui. A quanto pare, secondo Falciani il Delaware è uno stato molto ospitale nei confronti della società finanziarie di comodo. Così gli Usa potrebbero rastrellare soldi oggi nascosti in qualche paradiso fiscale, parcheggiandoli nel tranquillizzante paradiso del Delaware. Faccio fatica a credere ad una cosa del genere. Ma se fosse vera? Pag 3 I lumbard, la Nigeria e il petrolio di Giancesare Flesca Ora che la via dei Balcani si fa sempre più impraticabile per migliaia di sventurati costretti a fronteggiare filo spinato, lacrimogeni, ingiurie del tempo, alla borsa degli scafisti prende quota la traversata del Canale di Sicilia, favorita anche dal tempo quasi estivo. Ci troveremo presto a fronteggiare migliaia e migliaia di migranti ansiosi di approdare sulle nostre coste per poi trasferirsi nell’Europa del Nord. A differenza dei migranti bloccati al confine fra Grecia e Macedonia, i nostri profughi non saranno però in maggioranza richiedenti asilo legittimati a farlo perché provenienti dalla Siria, ma africani in arrivo dai paesi rivieraschi del Mediterraneo e ancor più dall’area sub sahariana e dalla Nigeria, popolata dalla bellezza di 180 milioni di persone, divise fra quelle di religione cristiano animista e quelle di obbedienza musulmana, unificate tuttavia da un’inequivocabile pelle nera, proprio quella che in Europa (ma anche altrove) viene considerata una specie di peccato originale. Va detto subito che i nigeriani sparsi per il mondo fanno poco per integrarsi o farsi accettare. Arroccati in comunità strutturate in modo gerarchico e maschilista (qualcuno dice: “mafiose”) in molti si dedicano alacremente ad ogni specialità del crimine, con una netta preferenza per il traffico di eroina e per lo sfruttamento della prostituzione. Non a caso nel settembre scorso il leader leghista Matteo Salvini tentò di recarsi in Nigeria, per convincere non si sa bene chi della sua teoria: «Gli africani vanno aiutati a casa loro». Alla vigilia della partenza, l’ambasciata nigeriana gli negò il visto, con grande tripudio del web sul quale apparvero post come questo: «I padani vanno aiutati a casa loro». Scherzi a parte, quali elementi avrebbe trovato a suffragio delle sue tesi divenute ormai, con qualche levigatura politicamente corretta, moneta corrente nella nostra Europa? Vediamo. Sbarcando ad Abuja, il segretario del Carroccio si sarebbe imbattuto in una prima contraddizione del proprio mantra, una contraddizione made in Italy dovuta alla grande azienda di Stato fondata da Enrico Mattei, la potentissima Eni. Alle sue imprese in Nigeria, paese che produce petrolio più di ogni altro paese africano ed è all’ottavo posto della lista mondiale dei produttori di oro nero, spesso e volentieri manca la benzina. A spiegarne il perché sono fra gli altri i procuratori aggiunti di Milano che scavano su una presunta tangente da 1,2 miliardi di dollari per mettere le mani sul giacimento Op245 dove i ricavi petroliferi finiscono quasi interamente all’estero perché, (perché?) a fronte di tanta abbondanza, non c’è neppure una raffineria. Ma si diceva l’Eni. Fra il 2011 e il 2014 per ottenere l’esplorazione del giacimento senza gara d’appalto e con cospicui benefici fiscali l’attuale ad Claudio Descalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni, assieme ad altri manager del gruppo avrebbero elargito 483 milioni di dollari a un certo Abubaker Aliyu, un “facilitatore” locale, che avrebbe provveduto a incanalare mezzo miliardo di dollari all’allora presidente Jonathan Goodluk, al ministro del petrolio, a quello della difesa e all’Attorney general, la massima autorità giudiziaria del paese. Gli ingordi “baluba”,avrebbe sicuramente commentato Salvini. Al tempo, però. Secondo la Procura duecento milioni di dollari residuati dal miliardo e due stanziati dall’Eni sono tornati a Milano. E chi ne avrebbe beneficiato? Tanto per dire agli atti della Procura c’è il nome di Luigi Bisignani, il faccendiere di vecchie e nuove repubbliche. Ma ci sarebbe anche un bonifico di circa 900mila dollari (eredità Armanna, dice la causale) depositati su un conto Ubi intestato a Giuseppe Armanna, ex capo di Agip Nigeria. Così aiutiamo la Nigeria, realtà che a metà secolo scorso fu teatro di un pauroso genocidio, la secessione del Biafra (gli inglesi ne sanno qualcosa) e che adesso deve fronteggiare i sanguinosi attacchi degli islamisti di Boko Aram, che impazzano nel nord-est del paese. E se Salvini volesse saperne di più sulla loro guerriglia, potrebbe chiedere chiarimenti a rispettabili fabbriche d’armi dislocate nel cuore della sua amata Padania. Torna al sommario CORRIERE DELLA SERA di domenica 10 aprile 2016 Pag 1 La fermezza e la dignità di un Paese di Franco Venturini Non deve sorprenderci il tono di sfida adottato dalla magistratura egiziana al cospetto di una Italia che non intende rinunciare alla verità sulla barbara uccisione di Giulio Regeni. Piuttosto, gli argomenti utilizzati ieri dalla Procura del Cairo ci spiegano con inedita chiarezza quel che accadrà: la documentazione richiesta dai giudici italiani non sarà fornita per non violare «la legge e la Costituzione egiziane». Una affermazione categorica che alza il livello del confronto e tende a renderlo irreversibile, compiendo nel contempo una nuova provocazione nei nostri confronti dal momento che contribuire a far luce sulle atrocità di cui è rimasto vittima Regeni dovrebbe rientrare a pieno titolo nella legge e nella Costituzione egiziane, non violarle. Ora abbiamo la certezza formale di quel che in realtà già si intuiva. I giudici egiziani, lo si è visto in tante occasioni, hanno una indipendenza molto limitata nei confronti del potere politico. Più che mai quando si fanno affermazioni tanto impegnative. E allora ieri è accaduta una cosa molto semplice: è come se il presidente Al Sisi ci avesse detto di persona che lui certe carte non le può mostrare. Forse perché l’assassinio di Regeni rientra davvero in una lotta di potere sotterranea, e qualche apparato dello Stato egiziano, torturando e uccidendo proprio un italiano, ha voluto indebolire il Presidente colpendo i corposi interessi bilaterali che proprio Al Sisi aveva consolidato e allargato. Di sicuro perché l’uomo forte del Cairo non vuole svelare a tutti la sua debolezza, ammettere di non controllare tutte le frange dei servizi di sicurezza, riconoscere che in Egitto ogni efferatezza è diventata possibile persino nei confronti di uno straniero la cui nazionalità è legata agli interessi del Paese e a quelli di un Presidente che ha da poco smesso la divisa. Fare una simile confessione pubblica in un Egitto dove gli oppositori scompaiono con una certa regolarità, dove i Fratelli musulmani sono stati criminalizzati in massa, dove l’ex presidente Morsi dopo la condanna a morte giace in prigione, dove il vero e assoluto potere continua a risiedere nel Consiglio superiore delle Forze armate più che nella figura del Presidente ex generale, significherebbe per Al Sisi rischiare la poltrona. E se questo è vero, ne discendono conseguenze di cui l’Italia e la sua opinione pubblica devono essere sin d’ora consapevoli. Noi che su altri temi siamo stati talvolta critici delle scelte governative consideriamo ineccepibile la linea di serietà e di dignità nazionale che Matteo Renzi e Paolo Gentiloni hanno adottato sul caso Regeni. Non possono e non devono esserci opportunismi o tentennamenti di sorta nei confronti di chi ha provato a depistarci e si rifiuta ora di collaborare per stabilire la verità. Tra interessi e valori uno Stato degno di questo nome deve talvolta scegliere i secondi, e il cadavere straziato di un giovane connazionale è motivo più che sufficiente per avere, sorprendendo forse anche noi stessi, un rigenerante soprassalto di dignità. Ma il prezzo, ne abbiamo avuta la conferma ieri, sarà alto, e di questo tutti devono essere coscienti. Il richiamo per consultazioni dell’ambasciatore Maurizio Massari, che ha benissimo operato al Cairo, è un passo obbligatorio che il ministro Gentiloni aveva implicitamente annunciato in Parlamento. Esistono altre misure non troppo dure, come il congelamento di certi scambi culturali oppure la rinuncia a contatti diplomatici di alto livello, che possono ancora essere varate. Ma poi, se il Cairo resterà fermo nella sua vergognosa trincea, l’Italia dovrà aprire capitoli che fanno male. All’Egitto, se si trattasse di frenare il turismo italiano. E anche a noi, se si dovesse arrivare all’interscambio commerciale, agli investimenti, alle aziende che operano in Egitto, agli interessi energetici dopo la scoperta da parte dell’Eni del più grande giacimento del Mediterraneo al largo delle coste egiziane. Dovremmo cambiare linea, se dalle misure più che altro simboliche la resistenza di Al Sisi ci obbligasse a passare a quelle ben diversamente sostanziali? Tale è l’interrogativo che si pone in queste ore, dopo che per bocca dei magistrati egiziani il loro capo ci ha fatto sapere che non avremo la verità che reclamiamo. La nostra risposta è un no categorico. Per due motivi. Il principale riguarda l’Italia, la sua sacrosanta fermezza, la necessità a questo punto di dimostrare che siamo capaci di coerenza e di rivolta contro un crimine orrendo quale che ne sia il prezzo. E anche perché, se Roma terrà duro, la posizione di Al Sisi si andrà indebolendo all’interno come sulla scena internazionale, la trincea forse non reggerà, e allora potrebbe apparire ragionevole persino a lui un cambiamento di strategia. Contro questa speranza depongono gli ingenti aiuti economici che l’Egitto riceve dalle monarchie del Golfo, che tengono materialmente a galla una economia disastrata assai più di quanto facciano gli Stati Uniti o i partner europei. Non a caso il re dell’Arabia Saudita è stato in visita al Cairo proprio in questi giorni, per discutere di nuove elargizioni. Esiste insomma il pericolo che Al Sisi possa continuare a fare orecchi da mercante alle esigenze italiane appoggiandosi ad altri salvagente. Ma è qui che deve intervenire una intensa azione diplomatica italiana che Gentiloni ha peraltro preannunciato. Se non vogliamo mandare a picco quella che sin qui è stata la partnership italo-egiziana, se non si vuole che l’Egitto cada in una fase di lotte interne dalle imprevedibili conseguenze, se si paventa che una nuova instabilità possa favorire i jihadisti che già agiscono nel Sinai, se fa paura la destabilizzazione ulteriore dell’area mediterranea che dall’Egitto potrebbe partire, allora servono pressioni diplomatiche internazionali per convincere gli egiziani a fare quel che è semplicemente il loro dovere. Dall’Europa, dagli Usa, ma anche dai Paesi del Golfo. E anche da quella Russia che malgrado la crisi, ora superata, per l’aereo abbattuto dai terroristi nel Sinai mantiene una discreta influenza sui militari egiziani grazie alle vendite di armi. Dobbiamo provare a innescare una mobilitazione mirata nella ricerca della verità su Giulio Regeni. Ma se non ci riusciremo, o se le eventuali pressioni su Al Sisi non avranno esito, dovremo tenere duro da soli, prima di tutto dentro ognuno di noi. Pag 5 Le prossime mosse dell’Italia di Fiorenza Sarzanini Le misure possibili: pressioni internazionali, limiti agli scambi, freni al turismo. Ma il timore è di colpire anche la nostra economia Roma. Uno «sconsiglio» formale a recarsi per turismo in Egitto e la sospensione di alcuni accordi bilaterali, compresi quelli tra università. Ma anche la richiesta a organismi internazionali come l’Onu o la Banca Mondiale affinché stigmatizzino l’atteggiamento del Cairo riguardo al rispetto dei diritti umani. Sono queste le «prossime mosse» che saranno esaminate dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni nel corso delle «consultazioni» con l’ambasciatore italiano Maurizio Massari. È la strada tracciata alla Farnesina dopo il fallimento del vertice tra magistrati e investigatori che doveva portare a una collaborazione reale per sapere chi ha rapito, catturato e ucciso Giulio Regeni. In attesa che l’Egitto fornisca un segnale concreto sulla volontà di riprendere la cooperazione. L’ambasciata «vuota» - La «misura» che dà maggiormente il senso di quanto forte sia la frattura tra i due Paesi è comunque quella visibile dell’ambasciata vuota. La decisione di richiamare a Roma il rappresentante diplomatico non comporta infatti la chiusura della sede, ma il fatto che il responsabile sia assente perché deve decidere con il suo governo quali scelte compiere per «tenere alta la nostra dignità» - come aveva detto nei giorni scorsi Gentiloni e poi ha ribadito il presidente del Consiglio Matteo Renzi - è un messaggio che le autorità del Cairo certamente hanno colto. E non gradito. Anche perché è presumibile che la missione di Massari possa durare una settimana o addirittura di più, comunque fino a che non ci sarà un cambio di rotta del Cairo, per marcare ulteriormente l’irritazione dell’Italia per un atteggiamento del regime guidato dal generale Abdel Fattah al Sisi ritenuto «ostile». Le «consultazioni» cominceranno martedì mattina, al ritorno di Gentiloni dal G7 in Giappone. E serviranno a valutare tutti i provvedimenti possibili e attuabili in tempi brevi per reagire in maniera efficace alla situazione di grave crisi che si è creata dopo il rifiuto degli inquirenti egiziani a fornire ai colleghi italiani i documenti originali del fascicolo d’inchiesta, primi fra tutti i tabulati telefonici relativi alle persone coinvolte nell’indagine, ma anche quelli che hanno «impegnato» le celle della zona dove Giulio Regeni è stato sequestrato e di quella dove è stato ritrovato il suo cadavere martoriato. Proprio per scoprire se ci fossero appartenenti agli apparati di sicurezza o comunque utenze presenti in entrambi i luoghi. Gli accordi economici - Ci si muove su due tavoli. L’Italia tiene al momento separata l’azione diplomatica da quella strettamente economica, consapevole del rischio altissimo che numerose aziende possano essere danneggiate da una rottura definitiva dei rapporti commerciali. Ma l’intenzione - almeno a leggere le parole che il ministro pronuncia mentre è in missione in Giappone per il G7 - è quella di mantenere una linea dura, di onorare l’impegno preso con la famiglia del ricercatore catturato il 25 gennaio scorso e ritrovato cadavere in un fossato il 3 febbraio. E di evidenziare il mancato rispetto da parte delle autorità egiziane delle istituzioni italiane, visto che il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone aveva accettato di recarsi al Cairo con il sostituto Sergio Colaiocco per incontrare il procuratore generale Nabil Ahmed Sadek e in quella sede aveva ricevuto assicurazioni sulla volontà di fornire massima cooperazione, mentre due giorni fa c’è stata una clamorosa retromarcia. Ecco perché ci si rivolgerà all’Onu, ma anche all’Unione Europea affinché affianchino l’Italia nella denuncia della violazione sistematica dei diritti umani degli stranieri da parte degli appartenenti al regime. E perché si sospenderanno le intese nei settori della cultura, dell’università, del turismo. Sperando che questo serva ad ottenere un risultato nella ricerca della verità. Pag 6 Per l’80% il governo ora è meno credibile ma i più condividono le parole del premier di Nando Pagnoncelli La vicenda che ha portato alle dimissioni il ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi è stata seguita dagli italiani con più attenzione del solito: il 57% la conosce nei dettagli (11%) o nelle sue linee generali (46%), il 32% ne ha solo sentito parlare mentre una stretta minoranza (11%) la ignora. Si tratta di una vicenda che suscita attenzione non tanto per le dimissioni di un ministro (non è un fatto inedito, neppure in un governo come quello attuale nato all’insegna del cambiamento), quanto per il tema che tocca (l’ambiente) e per il discusso rapporto tra lobby e politica, cioè le pressioni che i portatori di interessi economici esercitano su chi è chiamato a prendere le decisioni. Infine, dato che al centro dell’inchiesta della procura di Potenza ci sono le attività estrattive nel sito di Tempa Rossa, si ritiene che la vicenda potrebbe avere riflessi sul referendum «delle trivelle» che si terrà il 17 aprile e fino a poche settimane fa non risultava molto conosciuto. Tutti questi aspetti inducono a credere che l’inchiesta della procura di Potenza potrà intaccare la credibilità del governo Renzi in misura significativa (il 39% è di questa opinione) o almeno in parte (41%). Sono soprattutto gli elettori dei partiti di opposizione a prefigurare (o auspicare) che la vicenda possa ripercuotersi negativamente sull’immagine dell’esecutivo. Questo rischio sembra avere indotto Renzi ad esporsi in prima persona mettendoci la faccia, come ama ripetere, accollandosi ogni responsabilità ed adottando una strategia comunicativa «d’attacco». In particolare, il premier ha respinto l’accusa di aver sostenuto interessi lobbistici, affermando che l’emendamento adottato dal governo è stata una decisione utile per il Paese perché sbloccava lavori fermi da anni. Inoltre, ha espresso valutazioni critiche sulla magistratura, invitandola a indagare senza indugio, giungendo rapidamente a una sentenza senza metterci degli anni. Sono due argomenti che hanno convinto la maggioranza di coloro che hanno seguito la vicenda, infatti il 58% si dichiara molto (21%) o almeno in parte (37%) d’accordo con quanto detto da Renzi. Come a dire «il governo rischia di uscirne male ma gli argomenti di Renzi mi convincono». E il premier sembra avere fatto breccia anche presso gli elettori dei partiti di opposizione: tra quelli di Forza Italia il 10% si dichiara molto d’accordo e il 40% lo è almeno parzialmente; tra i leghisti il 14% e il 37% e tra i pentastellati il 19% e il 22%. D’altra parte Renzi ha toccato due temi «sensibili» presso l’opinione pubblica, ciascuno caratterizzato da convinzioni largamente diffuse: il primo riguarda l’immobilismo del Paese, le pastoie burocratiche, i freni alla crescita, il decidere di non decidere. Pur con le riserve sul ruolo delle lobby e sui rapporti personali tra portatori di interesse e il ministro Guidi messi in luce dalle intercettazioni, i provvedimenti che sbloccano le situazioni sono ben visti dai cittadini. Il secondo riguarda il tema della giustizia: un tema per lungo tempo fortemente «politicizzato», associato al conflitto tra Berlusconi e i giudici. Gli italiani tifavano per l’uno o per gli altri indipendentemente dal merito delle questioni. Dopo il declino politico di Berlusconi si è registrato un cambiamento di prospettiva: i cittadini si mostrano sempre più insofferenti nei confronti dei tempi lunghi dei processi, delle prescrizioni dei reati, della imprevedibilità delle sentenze. Non a caso la fiducia nella magistratura oggi è scesa sotto il 50% mentre fino al 2010 si attestava al di sopra del 70%. La comunicazione di Renzi quindi è apparsa nel complesso efficace e i giudizi sul governo, nonostante i pronostici degli italiani, al momento non sembrano aver risentito dell’inchiesta di Potenza. Il barometro settimanale di Ipsos sui giudizi positivi fa segnare solo una lieve flessione dal 40,8 al 40,4. E anche le intenzioni di voto per i partiti non hanno fatto registrare cambiamenti di rilievo. Insomma, il premier sembra aver limitato i danni. LA REPUBBLICA di domenica 10 aprile 2016 Pag 1 Le vette di Francesco e la palude dove Renzi annaspa di Eugenio Scalfari Dell’esortazione apostolica post sinodale di papa Francesco diffusa venerdì in tutto il mondo cristiano con il titolo "Amoris Laetitia" sull'amore nella famiglia, il nostro giornale ha ampiamente parlato. Ne hanno scritto Alberto Melloni, Marco Ansaldo, Paolo Rodari, cogliendone gli aspetti essenziali che distinguono quelle pagine ancor più di altre che le hanno precedute nei tre anni di pontificato di Jorge Mario Bergoglio. A me resterebbe ben poco da aggiungere perché condivido i resoconti di quel documento e l'analisi e l'interpretazione che quei colleghi ci hanno dato. Ma il significato, a mio avviso, è assai più ampio del tema ed è questo che desidero esaminare. Di papa Francesco sono amico e ancora quattro giorni fa ha avuto la bontà di telefonarmi poiché compivo i miei 92 anni e lui lo sapeva e ne ha detto delle parole molto affettuose; ma non è per questo nostro legame sentimentale che oggi scelgo la sua Esortazione come primo tema di cui occuparmi. Questo documento è un ulteriore passo avanti della Chiesa, che Francesco rappresenta e guida, verso l'ammodernamento, quello che lui chiama l'inculturazione. La citazione è questa: «Non tutte le discussioni dottrinali, morali e pastorali devono esser risolte con interventi del Magistero. In ogni paese o regione si possono cercare soluzioni più inculturate perché le culture sono molto diverse tra loro, sicché perfino il modo di impostare e comprendere i problemi, al di là delle questioni dottrinali definite dal Magistero della Chiesa, non può essere globalizzato…». «Le norme generali presentano un bene che non si deve mai disattendere, ma non possono assolutamente abbracciare tutte le soluzioni particolari che non si risolvono a livello d'una norma». La prima e preliminare constatazione è che l'Esortazione parla il linguaggio dell'esperienza e della realtà così come Francesco la vede. Quasi tutti i suoi predecessori hanno usato lo stesso metodo ma, come la storia del Papato ci insegna, la loro realtà mirava soprattutto a rafforzare il potere di Pietro e l'episodio storicamente più rilevante lo dette Alessandro III quando ricevette Federico Barbarossa, da lui scomunicato nel corso della lotta per le investiture. Federico Barbarossa fu costretto a baciargli il piede in ginocchio davanti a lui e obbligato a quel bacio mormorò: «Non tibi, sed Petro» e Alessandro rispose: «Et mihi et Petro». Ebbene, al contrario papa Francesco usa la sua esperienza a favore della Chiesa missionaria, dei poveri, degli esclusi, della struttura orizzontale e sinodale da lui ascoltata e guidata. Questa è la conclusione preliminare che emerge dalla sua Esortazione: ascolta, non comanda ma guida verso il futuro. Il documento che stiamo esaminando parla molto della famiglia e di quest'aspetto che ha dato il tema ai due Sinodi del 2014 e 2015, i miei colleghi hanno già scritto ieri. Noterò soltanto, a questo proposito, che la famiglia ha una lunga storia, in parte biblica ed in parte scientifica e storica. Dalla Bibbia apprendiamo che Giuseppe e i suoi fratelli avevano due ed anche tre mogli. Quanto alle altre religioni, i musulmani prevedono due o tre mogli, i cinesi della classe dei mandarini prevedevano a quel tempo fino a cinque mogli. Quanto alla scienza e alla storia, ricordo che il matriarcato, del quale si occupò anche Lévi-Strauss, prevedeva un "marito visitante" che metteva incinta la donna sposata, la quale viveva a casa della propria madre. Il figlio restava con lei e, avendo bisogno anche di un uomo che esercitasse la patria potestà, lo trovava nel fratello della madre. Il vero padre genetico poteva certamente vedere il proprio figlio ed amarlo, ma esercitava a sua volta la funzione di padre in favore dei figli della sorella, con il titolo di "avuncolo locato". Era insomma lo zio a fare da padre al nipote. Questo fu (e ancora in varie tribù aborigene in America del Sud e nell'Asia delle grandi isole) il matriarcato. Quanto alla civiltà classica greco-latina, tra i coniugi esisteva la cerimonia del "ripudio", parzialmente analoga al divorzio con la differenza che soltanto l'uomo poteva ripudiare la donna, motivando con le più varie ragioni. La donna poteva coniugarsi ancora, ma non contestare il ripudio che aveva subito. La storia della famiglia, come si vede, è molto complessa. Quella sacramentale della Chiesa cattolica non somiglia a quella protestante così come i sacerdoti celibi non somigliano ai pastori che possono coniugarsi ed avere figli. Ma anche la famiglia cattolica, legata dal sacramento del matrimonio, non è quella dei primi secoli, dove infatti il celibato dei presbiteri non era ancora una condizione obbligata. Infine voglio ricordare che Gesù di Nazareth aveva una singolare visione della famiglia. Ne parlava positivamente nella sua predicazione, ma per quanto riguardava gli altri e non se stesso. I Vangeli raccontano addirittura che un giorno, nei pressi di Tiberiade, mentre era riunito con i suoi seguaci in una casa ospitale fu avvertito che fuori di quella casa erano arrivati sua madre e i suoi fratelli perché da alcuni mesi lui aveva abbandonato la casa materna senza più dare notizie di sé. Gesù - dicono quei Vangeli - rispose che lui non aveva né madre né fratelli e che semmai i suoi parenti erano tutti quei seguaci lì riuniti e disse a chi l'aveva informato di rimandare a casa loro quelli che avrebbero voluto vederlo. In un'altra occasione - anch'essa riferita da alcuni evangelisti - ad uno dei suoi seguaci che gli aveva chiesto licenza di tornare a casa propria per un paio di giorni perché doveva partecipare al funerale di suo padre, negò solidarietà e volle che restasse con lui con la frase: «I morti debbono seppellire i morti». Detto tutto ciò bisogna aggiungere che amò con grandissimo sentimento la madre quando anch'essa abbandonò la propria casa e lo seguì fino alla morte sulla croce. Fu infatti Maria, stando alla tradizione e ai Vangeli, che lo seppellì insieme con le altre donne che facevano parte dei suoi fedeli. Inutile dire che nessuna donna aveva partecipato all'Ultima Cena con gli apostoli. Tutto ciò è perfettamente comprensibile: Gesù fondava una religione e questo era il compito che aveva assunto, essendo Figlio di Dio per la tradizione ma anche Figlio dell'uomo o Messia per gli apostoli o semplicemente uomo per i non credenti. Comunque fondatore d'una religione, cioè d'un Regno in un altro mondo, come si racconta abbia detto nel suo dialogo con Pilato. L'Esortazione di Francesco parla molto anche di Cristo in vari capitoli di quel documento, a cominciare dall'inizio, e vorrei dire perfino dal titolo che comincia appunto con la parola Amoris. E che cos'è per la Chiesa e per Francesco l'Amore se non Gesù Cristo? Ecco. Qui siamo ad un punto fondamentale. Cristo è Amore, Cristo è l'articolazione cattolica dell'Unico Dio. Un'articolazione trinitaria condivisa anche da gran parte delle chiese protestanti, ma non da tutte. E non condivisa da nessun'altra religione monoteistica, ebrei e musulmani. In che cosa consiste quest'affermazione, anzi questa fede, per la Seconda Persona della Trinità? Se è il Figlio che partecipa in modo distinto al Dio Unico denominato Padre, significherebbe che il Padre, oltre all'Amore rappresentato dal Figlio, ha anche altre funzioni, altri attributi. Quali? Giudice del bene e del male? No, perché secondo la tradizione al Giudizio universale i tre elementi della divinità partecipano al completo e semmai è proprio Cristo che giudica, in presenza del Padre e dello Spirito Santo. Allora il Padre è vendicativo? No, la religione esclude questo attributo. È dunque il Creatore? Sì, il Creatore è il Padre e non il Figlio. Ma se il Figlio è soltanto un'articolazione della Divinità trinitaria, non può non essere anche lui partecipe della creazione. Né si può separare il perdono dalla Misericordia. Tutti questi attributi stanno insieme. La Misericordia soprattutto e l'Amore che ad essa è strettamente collegato. A questo punto - ma qui esprimo un mio pensiero che non so se posso attribuire anche a papa Francesco - Cristo è semplicemente un modo di chiamare l'Amore. Amore degli uomini verso Dio e Amore di Dio verso gli uomini e Amore degli uomini verso il prossimo. Lo chiamano Cristo, ma è soltanto un nome che significa Amore. Papa Francesco la pensa così? Non gliel'ho mai chiesto e mai glielo chiederò ma secondo me sì, pensa questo poiché la sua ovvia verità e fede è nel Dio Unico. Non solo per i monoteisti ma per tutte le religioni esistenti. Per tutto l'universo del quale facciamo parte. La sua fede è il Creatore e le cose create, dalle stelle alle particelle elementari, allo spazio e al tempo, all'eternità e al costante mutamento, alla nascita e alla morte. Il Creatore è tutto e la fede, per chi ce l'ha, è nel Creatore. Mi azzardo a dire che se leggete con attenzione alcuni passi dell'Esortazione, questo è il pensiero e la fede di papa Francesco. Ed è questo tipo di fede che a tutti lo rende caro. Affronterò ora, più brevemente, il secondo tema di questo mio esercizio domenicale, interamente diverso dal primo ma forse più vicino a ciò che accade intorno a noi: Matteo Renzi dopo le dimissioni della Guidi e quel che le ha precedute e seguite. Renzi è sempre forte? Sempre insostituibile? Sempre imbattibile? Oppure sta attraversando una fase di turbamento e indebolimento? Una fase che potrebbe determinare gravi sconfitte alle prossime elezioni amministrative, con conseguenze importanti anche sui referendum, sulle riforme, sulla popolarità del Pd e del suo Capo? Ricordo che domenica scorsa parlai a lungo di questi problemi e anche di altri: l'Europa, il terrorismo, la Libia ma anche la corruzione, l'affarismo, le clientele. E paragonai per certe assonanze manipolatorie Renzi a Giovanni Giolitti. Quest'ultima parte del mio sermone domenicale è stata molto criticata soprattutto per la statura di padre della Patria che alcuni (studiosi?) attribuiscono a Giolitti. Ho già risposto ad alcuni di loro, ma poiché non si sono fatti vivi pubblicamente, eviterò di rispondergli oggi e qui. Riservo le risposte se formuleranno in pubblico le loro obiezioni. Dunque il Renzi di questi giorni. È più debole? Sì, lo è. Per quale motivo? Direi con una parola l'affarismo che viene attribuito al suo modo di governare. Ne ha parlato Stefano Folli sulle nostre pagine e Antonio Polito sul Corriere della Sera di ieri. Sì, l'affarismo c'è nel governo Renzi ed è un affarismo connesso con la corruzione. Non credo che riguardi Renzi personalmente, ma certo permea molto da vicino il governo da lui guidato e per di più con uno stile di comando molto diffuso nell'Occidente democratico ma con scarsi e deboli contropoteri. Al Renzi dopo oltre due anni di governo che ha attraversato varie fasi nel bene e nel male, meritando giudizi positivi e negativi (più i secondi che i primi) faccio oggi le seguenti osservazioni e pongo le seguenti domande: 1. È al corrente del malaffare che pervade alcuni settori del suo governo e delle sue immediate vicinanze. E perché se è al corrente, non ha preso i necessari provvedimenti? Il caso Guidi è parlante da questo punto di vista e non basta relegarlo in un episodio ben risolto dalla stessa protagonista. Sarà forse senza reato, ma non è certo senza peccato e la politica i reati li lascia ai magistrati ma i peccati spetta a lei impedirli e sanzionarli. 2. La politica della flessibilità ha raggiunto punte molto alte ma ormai non oltrepassabili. Era sembrato di capire che Renzi avesse accettato la creazione del ministro del Tesoro dell'Eurozona, con poteri propri ed una politica orientata verso la crescita. Renzi aveva accolto quella proposta e l'aveva anche "consacrata" in un apposito documento, inviato a tutte le Autorità europee e illustrato al Partito socialista europeo. Ma poi non ne ha più fatto cenno proprio nei giorni in cui Draghi ne ha riproposto la necessità e insieme a lui il governatore della Banca centrale francese in un'intervista di ieri sul nostro giornale. Come si spiega questo silenzio renziano? 3. Il dilagante terrorismo del Califfato richiede con la massima urgenza una polizia federale europea sul solco del Fbi americano e con un ministro dell'Interno europeo con tutte le attribuzioni che quella carica comporta. Renzi, da me interrogato domenica scorsa, non ha risposto, sembra che il tema non lo interessi. Come mai? Continuiamo ad andare avanti alla cieca sul terrorismo? 4. Renzi ha insultato più volte in questi giorni la procura di Potenza che sta indagando su eventuali reati inerenti alle trivellazioni e agli scavi per il petrolio in Basilicata e nelle costiere della Puglia. È un buon comportamento insultare la magistratura? 5. Infine: le notizie più recenti sull'andamento del deficit di bilancio, sull'occupazione, sul debito pubblico, non sono delle migliori. Molte previsioni ottimistiche sono state smentite dai fatti. Per quali ragioni? Con quali provvedimenti che consentano una via d'uscita? Personalmente avevo registrato alcuni miglioramenti della politica interna ed estera di questo governo e ne avevo dato atto. Oggi vedo un logoramento che non dipende dagli avversari che sono sempre gli stessi, ma da un auto-affievolirsi della forza di spinta. Auguro necessari interventi che ridiano forza al Paese e all'Europa di cui facciamo e dobbiamo far parte perseguendone l'unità e la federazione, almeno nell'Eurozona. Dobbiamo ampliare il respiro della nostra politica nazionale per poter dire che siamo europei e sempre lo saremo e che su questo terreno chi non è con noi peste lo colga. Pag 1 Il Paese dei veleni diviso e indeciso di Ilvo Diamanti Grillo ora tallona il Pd e vincerebbe al ballottaggio, è l’effetto delle inchieste Testo non disponibile AVVENIRE di domenica 10 aprile 2016 Pagg 20 – 21 Politica, vita, libertà. Sorella sinistra dove sei? di Alessandro Zaccuri I forum di Avvenire L’episodio risale alla metà degli anni Ottanta. Roma, Botteghe Oscure, riunione del Comitato centrale del Partito comunista italiano. Viene presentata una mozione sul tema dell’eutanasia, ma il segretario di allora, Alessandro Natta, suggerisce di accantonare l’argomento, che richiederebbe di essere meglio approfondito. Cesare Luporini, Nicola Badaloni e gli altri intellettuali presenti alla seduta concordano. Allora forse era troppo presto per parlarne. Oggi, sotto certi aspetti, sembrerebbe quasi troppo tardi. Bioetica, biopolitica, identità personale e visione della famiglia sono questioni che interrogano tutto il Paese, sottolinea il direttore di “Avvenire”, Marco Tarquinio, nella sua introduzione al forum tenutosi martedì 5 aprile presso la redazione romana del nostro quotidiano, pochi giorni prima della pubblicazione dell’esortazione apostolica Amoris laetitia. Eppure, prosegue Tarquinio, è in particolare la sinistra italiana a essere interpellata dall’intreccio, sempre più complesso, fra solidarietà e libertà, fra cultura del limite e vertigine della possibilità. Vale per la normativa sulle unioni civili, vale per le nuove forme di adozione, spesso indistinguibili dalla maternità surrogata, vale per la manipolazione genetica e per l’eutanasia. Quattro gli interlocutori riuniti attorno al tavolo. Anzitutto lo storico Giuseppe Vacca, presidente dell’Istituto Gramsci, a lungo deputato Pci e firmatario, nel 2011, dell’appello che proponeva di rileggere “da sinistra” il quadro dell’emergenza antropologica tracciato con estrema precisione da Benedetto XVI. Tra i “marxisti ratzingeriani” (così li definì la stampa) che sottoscrissero il documento c’era anche un altro degli interlocutori del forum di “Avvenire”, il sociologo Paolo Sorbi, docente di Psicologia politica all’Università Europea di Roma. Due, infine, i rappresentanti del Partito Democratico: il deputato Gianni Cuperlo (è lui a rievocare l’aneddoto di cui abbiamo dato conto all’inizio) e il senatore Stefano Lepri. Sensibilità politiche e personali differenti, tutte ugualmente chiamate in causa dall’incalzare di trasformazioni che, dai laboratori del pensiero e della ricerca scientifica, hanno ormai invaso la nostra quotidianità. AVVENIRE: Partiamo dalla cronaca: sul tema della maternità surrogata si sta registrando una singolare convergenza fra le posizioni dei cattolici e quelle di molti (e molte) intellettuali di sinistra. Come spiegarlo? È la premessa di una fase nuova o l’eredità di una tradizione altrimenti trascurata? Vacca: «Di sicuro ci stiamo misurando con temi che non nascono oggi, ma che sono l’effetto di un processo più che trentennale. Alla base della globalizzazione sta, come sappiamo, la messa in discussione delle frontiere nazionali. Con un duplice effetto: da un lato una maggior circolazione di ricchezze, merci e persone; dall’altro una forte asimmetria tra cultura globalizzata e culture locali. Una delle conseguenze di questo assetto è la crisi dell’obbligazione, ossia del patto, che si configura come crisi della libertà. Pur rimanendo intimamente connesse l’una all’altra in punto di dottrina, obbligazione e libertà risultano ormai sconnesse nella prassi. L’orizzonte attuale rimanda a una libertà senza fondamento, in una prospettiva per cui risulta del tutto accettabile l’idea di esigere una qualunque libertà senza contrarre una corrispondente forma di obbligazione. Rescisso questo legame, è il concetto stesso di sovranità a entrare a sua volta in crisi. In una democrazia funzionante l’obiettivo specifico della politica dovrebbe consistere nel mettere i cittadini nella condizione di esercitare la loro sovranità in relazione alla tutela della vita in ogni sua fase: origine, conservazione, riproduzione. I modi di questa tutela evolvono e con essi dovrebbe evolvere anche la nostra responsabilità nel decidere. Ma per fare questo occorre riferirsi a un punto di partenza condiviso, occorre stabilire con chiarezza i termini della questione. Ciò che non avveniva, per essere chiari, nella stesura originaria del decreto Cirinnà, nella quale la pratica dell’utero in affitto finiva per essere introdotta in modo surrettizio, senza essere minimamente dibattuta. Fatto ancora più grave se si considera che opporsi alla maternità surrogata non significa soltanto denunciare la mercificazione del corpo femminile, ma difendere nel loro insieme le conquiste di quello che è stato giustamente definito “il secolo delle donne”». Cuperlo: «Nell’addentrarmi in punta di piedi in una discussione tanto delicata, avverto l’esigenza di un altro chiarimento preliminare. Di che cosa stiamo parlando, esattamente? Del modo in cui emergenza antropologica e crisi della politica si intrecciano nella riflessione a proposito della vita? Oppure di un contesto più vasto, comprendente tematiche comunque sensibili dal punto di vista etico, ma non direttamente connesse a vita e morte? Penso alla ricerca sulle cellule staminali embrionali, che in Italia è regolata dalla legge 40 del 2004. Ma quali sono le effettive implicazioni di una normativa nazionale a fronte di una situazione internazionale che vede, nella fattispecie, la Cina molto avanti in questo tipo di sperimentazione? Ci rendiamo conto che il conflitto fra cittadinanza nazionale e cittadinanza globale è destinato a degenerare in un classismo di nuovo tipo? Chi ha i mezzi si cura, anche all’estero. Chi non dispone di risorse deve invece rinunciare. Mi sto facendo molte domande, me ne rendo conto. Ne aggiungo un’altra, in forma retorica: tutto ciò che è possibile è anche lecito? Da uomo di sinistra rispondo di no, nel modo più categorico. Bisogna contrastare la mercificazione in ogni sua forma e nella maternità surrogata, così come viene praticata in molti Paesi, è presente un intollerabile elemento di violenza. Ma che cosa succede quando alla logica della compravendita subentra quella del dono? Siamo sicuri di poter escludere con la stessa determinazione l’eventualità che una donna, per libera scelta, porti a termine la gravidanza a posto di un’altra? Non esistono invece occasioni ancora inesplorate nelle quali il dono si realizza come servizio reso a una nuova vita?» Lepri: «Così come la crisi attuale non può essere ricondotta a un’unica origine, anche la sinistra italiana non si riduce un solo filone. Lo abbiamo constatato proprio in occasione del dibattito sul decreto Cirinnà, il quale è emerso il ruolo di quanti all’interno del Pd si richiamano alla lezione del cattolicesimo democratico. Ed è grazie a questo apporto che in Italia la vicenda della maternità surrogata ha avuto un esito in parte diverso da quanto è avvenuto altrove. Non dobbiamo dimenticare, però, che su questioni tanto articolate anche il vecchio Pci era solito tenere un atteggiamento di grande prudenza. Fra tanti temi e tante sfide che competono alla sinistra, credo che vada sottolineata con forza la necessità di tutelare lo spazio intermedio che, frapponendosi tra lo Stato e l’individuo, delinea la dimensione comunitaria e sociale, dalla quale discende la qualità della vita di ciascuno di noi. Ecco, la mia impressione è che molte delle fragilità e dei fallimenti di oggi dipendano dall’assenza di questo contesto comunitario che, da ultimo, si identifica con la famiglia. L’insicurezza dei giovani, il loro estraniarsi dalla realtà, l’indifferenza davanti alla vita sono questioni di cui la politica non può non farsi carico e che, nello stesso tempo, invocano l’autodeterminazione dei corpi intermedi ai quali facevo riferimento prima e tramite i quali è ancora possibile un legame efficace tra Stato e cittadini. La famiglia è il luogo in cui si impara a praticare la giustizia e a rispecchiarsi nella fraternità, in primo luogo. E un discorso analogo si potrebbe fare per quanto riguarda la sfera dei diritti, anch’essi strettamente connessi alla vita familiare. Il diritto del figlio ad avere un padre e una madre non può essere delegato all’intesa tra coniugi o conviventi. È di questa visione dei diritti in chiave relazionale che la sinistra dovrebbe preoccuparsi nel momento stesso in cui esige una maggior equità sul piano economico. In caso contrario, corriamo il rischio di essere travolti e vanificati». Crisi della sovranità, contesto sovranazionale, eredità cattolico-democratico: come è possibile fare sintesi di tutto questo? Sorbi: «Forse ammettendo che in questo momento in Italia convivono due sinistre, una di impianto più tradizionale e l’altra ormai postideologica. Realtà diverse tra loro, certo, ma per la nostra discussione è più importante concentrarsi sui possibili punti d’intesa e di contatto. Si tratta di un obiettivo che, all’interno del Pd, è stato affrontato a più riprese anche prima dell’attuale segreteria, sempre con l’intento di ridefinire i contorni di un umanesimo condiviso. Il dissidio è quello che conosciamo e che giustamente è già stato richiamato: la cultura del limite contrapposta alla spinta potenziale che sembra trascinarci oltre ogni limite. È un problema di sinistra? Certo che sì, se non altro perché il mondo della scienza è sempre più contaminato da una visione affaristica che, per comodità, possiamo riassumere nella figura del biologo e magnate Craig Venter. Brevettare il codice genetico, cioè brevettare la vita, è l’apice dell’alienazione, ed è un processo impressionante, con il quale molti di noi non avrebbero mai immaginato di doversi misurare. Nel suo complesso, inoltre, la sinistra europea sta dimostrando una sensibilità molto minore rispetto a quella della sinistra italiana. Da noi al centro del dibattito non c’è più il problema di classe, ma l’attenzione al dilagare di fenomeni biopolitici che interessano il singolo individuo, la famiglia e, in definitiva, il popolo stesso. Frangente cruciale, perché c’è sempre il rischio che da una laicità correttamente intesa si passi a un laicismo esasperato, che non intende e non produce ragioni al di fuori delle proprie. E questo, insisto, è un dato che dovrebbe mettere in allarme proprio la sinistra, come ho avuto modo di constatare di recente. Se si sceglie il punto di osservazione del sindacato, ci si accorge subito quanto la cosiddetta “cultura dei diritti” sia percepita come elemento borghese e conservatore, che coinvolge anche i ceti meno abbienti. La disparità di censo non gioca, a mio avviso, un ruolo determinante. Viene prima la crisi della famiglia e prima ancora è stata la crisi della persona ad aver scatenato il fenomeno: rinnegata la centralità della persona, i diritti perdono il loro assetto organico». Dai vostri interventi emerge un elemento che ricorre spesso anche nel magistero di papa Francesco: il predominio delle tecnoscienze, che in alleanza con l’economia finiscono per commissariare la stessa agenda politica. È questa la nuova forma di egemonia dalla quale dobbiamo stare in guardia quando affrontiamo i temi della vita? Vacca: «Il dramma è che non esiste alcuna egemonia. Bene, si dirà, allora chiunque può fare quello che vuole. Non è neppure così. Solo chi può fa quello che vuole, quale che sia il suo desiderio del momento. Non si riesce più a comprendere un principio che suona del tutto elementare per un comunista togliattiano come me: la manipolazione della vita non si consuma in sé, ma è l’altra faccia, solitamente nascosta, della guerra. Togliatti stesso lo afferma con chiarezza nel 1963, con il celebre discorso di Bergamo al quale sarebbe bene ritornare di questi tempi. Non è più e forse non è mai stato un problema di destra o di sinistra. Quello che sta accadendo chiama in causa la nostra comune umanità e, di conseguenza, la visione della politica. Perché l’alternativa non lascia scampo: o la politica ha a che fare con la pace e con la vita, oppure è destinata ad occuparsi degli aspetti residuali della convivenza tra gli esseri umani. Forse qualcuno non se n’è ancora accorto, ma in questo momento l’Europa (la stessa Europa tanto impegnata dal dibattito sui diritti civili) è accerchiata dal fuoco delle guerre di sterminio, del terrorismo, delle pulizie etniche. Possibile che non si avverta l’urgenza di partire da qui? La logica sovranazionale, se ha un senso, lo ha appunto nella prospettiva per cui i problemi della vita, come quelli della pace, richiedono una straordinaria ampiezza di visione. Quanto alla categoria del dono, mi pare che per sua stessa natura si sottragga alla necessità della norma. Ciò che viene donato è destinato a non sottostare alle regole e non vedo come questo potrebbe avvenire in materia di maternità surrogata. Non diversamente dagli altri processi ai quali abbiamo fatto riferimento, poi, anche la crisi dei corpi intermedi non è una novità. La politica ha da tempo smesso di occuparsene, camuffando il proprio disinteresse sotto la formula dell’autonomia, che fuori dall’ambito amministrativo a me pare francamente priva di senso. D’accordo, abbiamo capito che il socialismo ha fallito. Motivo per cui dovremmo tornare a parlare di comunismo, credo». Lepri: «E magari anche di proletariato. Per Marx l’unica ricchezza dei poveri era rappresentata dai figli, dalla prole. I poveri di adesso non ha neppure questo. Non hanno figli perché non sanno come sfamarli oppure, quando li fanno, li cedono ad altri. La bassa natalità è un’emergenza che la sinistra non sta prendendo abbastanza sul serio. Bene gli aiuti economici e benissimo gli 80 euro, intendiamoci, ma per il resto non ci si può limitare a fare appello alla discrezionalità della coppia. Allo stesso modo, i due milioni di bambini che oggi in Italia vivono sotto la soglia di povertà rappresentano per la sinistra una sfida senza precedenti. Prendersi cura dei figli è un compito che coinvolge l’intera comunità e in questa affermazione non c’è nulla di “democristiano” o di “cattolico”, come ancora si insinua a volte. Nessuno obietta quando ci sono da affrontare, in astratto, le grandi sfide antropologiche, ma nella concretezza quotidiana i problemi assumono un altro aspetto. È possibile nascere oggi? Ed è possibile crescere? L’aspetto economico non va sottovalutato, torno a dirlo, ma da solo non basta. In questo periodo si discute spesso degli strumenti che le amministrazioni comunali stanno mettendo a disposizione dei cittadini in vista del cosiddetto “divorzio breve”. Non si vede perché un impegno analogo non possa essere speso per la creazione di consultori familiari, centri d’aiuto per coppie in difficoltà, sportelli psicologici e di mediazione del conflitto. Per la politica il sostegno alla famiglia non è un fatto discrezionale. Ce ne rendiamo conto, per contrasto, quando passiamo in rassegna i costi, umani ed economici, derivanti dal fallimento di un matrimonio». Sorbi: «Giusto, ma della politica fa parte il principio di sussidiarietà. Dove non arriva lo Stato, può arrivare l’iniziativa dei cittadini e delle associazioni. Penso, nello specifico, all’attività a sostegno della famiglia svolta a Milano dal Centro Aiuto alla Vita Mangiagalli e ad altre esperienze simili presenti in varie città del nostro Paese. Concordo, in ogni caso, sulla centralità della famiglia. La secolarizzazione ha preso a galoppare proprio quando è venuto meno il sistema di valori condivisi di cui la famiglia è espressione. In assenza di questo, ognuno fa legge a se stesso, con le conseguenze che conosciamo. Non è un caso che la famiglia sia diventata oggi oggetto di disputa e di desiderio, senza che si trovi il tempo e il coraggio per interrogarsi su che cosa sia veramente una famiglia. Non in termini teorici, perché da questo punto di vista potrebbe anche essere, poniamo il caso, che nulla osti all’ipotesi dell’omogenitorialità. Ma l’evidenza statistica ci restituisce un quadro molto diverso ed è al dato di realtà che dobbiamo riferirci». Cuperlo: «Nel dibattito sulla famiglia si intrecciano questioni in apparenza lontane tra loro, ciascuna delle quali ha una sua storia e, di nuovo, una sua complessità. Per quanto riguarda il calo della natalità, per esempio, non mi pare che si consideri abbastanza l’effetto che potrebbe derivare da una politica più capillare di incentivi all’occupazione femminile. In generale, tutto il versante degli aiuti economici andrebbe ripensato in profondità. Non discuto il provvedimento degli 80 euro, ma siamo sicuri che i criteri con cui queste risorse sono stati distribuiti siano i più adeguati alla situazione attuale? Quanto all’omogenitorialità, non è in questione il diritto a pensare che per un bambino sia meglio essere cresciuto da un padre e una madre anziché da due padri o due madri. Sono convinto che pensarlo è legittimo, ma imporre il proprio pensiero agli altri non lo è. Non sono in grado di dire se questo dipenda dalla mia incapacità di distinguere tra laicità e laicismo. Del resto, confesso di non essere ancora venuto a capo della diatriba sul nuovo umanesimo di cui avremmo bisogno per far fronte all’emergenza antropologica di cui stiamo dibattendo. È un mio limite, non me ne vanto. Resto persuaso che il “vecchio umanesimo”, se così volgiamo chiamarlo, offra ancora strumenti adeguati per la comprensione del presente. Basta riandare alla stagione dell’Illuminismo italiano, nella sua duplice declinazione milanese e napoletana: Beccaria e Genovesi, nascita del diritto moderno e della moderna economia civile. La centralità della persona, di cui tanto si sente la mancanza, è già qui. E nella regolamentazione europea, per inciso, sono già presenti i dispositivi che salverebbero la vita ai tanti piccoli Aylan che muoiono ogni giorno nel Mediterraneo. Abbiamo dimenticato troppi elementi della nostra tradizione. Parole come “conflitto” e “compromesso” sono evitate, perché caricate di una connotazione negativa che andrebbe rimossa. Il conflitto fa parte della nostra esistenza, infatti. E il compromesso è un modo più che ragionevole per superarlo». Anche in materia di maternità surrogata? In sede parlamentare non si potrebbe arrivare a una decisione che, pur salvaguardando le situazioni ormai consolidate, impedisca a chiunque di comprare un bambino affittando il grembo in cui viene portato? Cuperlo: «Capisco la domanda, ma in assenza di uno specifico testo di legge non è possibile rispondere». Lepri: «D’acchito temo che una sanatoria di questo tipo sarebbe difficilmente applicabile. I genitori dei bambini nati dopo l’entrata in vigore della norma potrebbero fare ricorso contro la disparità di trattamento. Detto questo, continuo a pensare che neppure il ricorso alla logica del dono scioglierebbe il nodo relativo all’origine dell’identità personale». LA NUOVA di domenica 10 aprile 2016 Pag 1 L’eccessiva prudenza dell’Italia di Renzo Guolo Come si era compreso sin dall’inizio, il caso Regeni è diventato anche il caso Egitto. Dopo il fallimento del vertice romano tra magistrati e apparati di sicurezza italiani e egiziani- null’altro che un tentativo di prendere tempo, ammantato da comportamenti provocatori e dilatori, da parte della delegazione egiziana -, è evidente che la vicenda non solo ha i risvolti penali ma investe le stesse relazioni diplomatiche tra Roma e il Cairo. Relazioni che, sino a pochi mesi fa, erano positive. Come ricordano i numerosi incontri tra Renzi e al-Sisi; le parole di apprezzamento del presidente del Consiglio per l’azione di stabilità e di contrasto al terrorismo svolto dal presidente egiziano; la presenza di una delegazione di imprenditori accompagnata da un ministro negli stessi giorni dell’omicidio Regeni. Un’apertura, quella italiana, che mirava a influire sull’Egitto in funzione della crisi libica oltre che a tutelare gli investimenti Eni nel Paese: in particolare quelli relativi al giacimento di gas Zohr, il più grande del Mediterraneo. La tragica fine del ricercatore italiano ha messo in discussione quei rapporti. Il richiamo dell’ambasciatore seguito all’inutile vertice, è il segnale che l’Italia non potrà voltarsi dall’altra parte in nome del realismo politico. Una politica estera è fatta da interessi e valori. I primi sono molti ed evidenti; ma non sino al punto da mettere da parte la necessità di difendere i valori. In questo caso, la tutela dei diritti umani fondamentali. L’Italia è stata , sin qui, anche troppo prudente. È evidente, infatti, che quanto accaduto al nostro giovane connazionale non è, solo, il prodotto di un’operazione andata male o l’azione di una “squadretta” fuori controllo; ma l’esito di un “modello di sicurezza” fondato sulla persecuzione sistematica degli oppositori. Si tratti di gruppi jihadisti o dei Fratelli musulmani, di democratici e liberali o di giovani bloggers. In Egitto, infatti, è in corso una repressione su vasta scala, che ha colpito decine di migliaia di persone, detenute senza imputazione o, peggio, accusate genericamente di “terrorismo” per il solo fatto di opporsi al governo. Altre centinaia sono sparite nel nulla. Una repressione condotta da diversi centri di sicurezza che dall’intensità della “lotta al Nemico” traggono potere. Come i servizi del ministero dell’Interno, specializzato nel perseguire l’opposizione; come il servizio che si occupa delle minacce esterne, il Gid; come il servizio militare, legato alle forze armate. È probabile che non solo il presidente egiziano ma anche i vertici militari e della sicurezza siano perfettamente a conoscenza di come sono andate le cose nell’assassinio di Regeni, ma non siano in grado- pena il far deflagrare la resa dei conti tra apparati, con tanto di rivelazioni su altre scomode sparizioni interne- di offrire all’Italia una soluzione che consenta davvero di fare giustizia a al contempo di garantire gli equilibri interni agli apparati della forza. Al Cairo alcuni puntano il dito in direzione del ministero dell’Interno, e in particolare del generale Khaled Shalaby, già condannato nel 2003 per aver torturato a morte un arrestato e falsificato i rapporti di polizia, reintegrato dopo la sospensione della sentenza. Ma le “vacanze romane” della delegazione egiziana mostrano che, almeno sin qui, il Cairo fa muro. Magari in attesa di dare in pasto all'Italia, dopo la farsa della “banda di rapitori” comunque brutalmente eliminata, un uomo di secondo piano del servizio “perdente”. Quanto a Roma, dopo il richiamo dell’ambasciatore Massari deve decidere quali siano le ulteriori misure “proporzionali” da adottare. Posto che la rottura delle relazioni diplomatiche non è consigliabile, se passasse una linea minimalista, a essere sospesi sarebbero i programmi culturali e di collaborazione universitaria; se si agisse con più forza, l’Egitto potrebbe essere dichiarato «Paese non sicuro»: il che avrebbe effetto sul turismo, già in crisi per effetto dello jihadismo interno. Difficile, invece, che vengano adottate misure commerciali come le sanzioni: sarebbero contrari sia le grandi imprese come l’Eni sia i molti imprenditori medi e piccoli che hanno investito nel Paese. In ogni caso si apre una crisi in cui nessuna delle parti sa dove si colloca il punto di caduta. Pag 1 Il bottino delle ruberie nella sanità di Francesco Jori Il corpo umano ridotto a bancomat di un’anonima malfattori pubblici e privati. Avvilisce ed indigna, il quadro sul saccheggio della sanità proposto da Raffaele Cantone, presidente dell’Anticorruzione: perché rivela che la salute è diventata, per ricorrere alle sue testuali parole, «il terreno di scorribanda da parte di delinquenti di ogni risma». I quali lucrano con spietato cinismo sull’intera filiera della vita, dalla culla alla bara. Ogni passaggio è buono per gonfiarsi le tasche: le liste d’attesa, l’acquisto di materiali, gli appalti, le attrezzature, i farmaci, le pulizie, il cibo, gli interventi operatori inutili ma redditizi. La spoliazione del malato e della sua famiglia non si arresta di fronte a nulla: apre perfino le porte delle camere mortuarie, come hanno rivelato pochi mesi fa le impietose cronache romane. Le cifre di Cantone parlano da sole. Negli ultimi cinque anni, nel 37 per cento delle Asl, le aziende sanitarie locali, si sono registrati episodi di corruzione: come dire una su tre. Tre dirigenti su quattro segnalano il rischio concreto che altri se ne verifichino nelle loro strutture. Le ruberie in serie costano allo Stato 6 miliardi di euro l’anno. Per non parlare del miliardo che le Asl continuano a sprecare, alla faccia del controllo della spesa. Non è un virus recente, tutt’altro. La cronistoria della Grande Abbuffata della salute viene da lontano e pullula di predoni: qualcuno racconti ai ventenni di oggi, che non possono conoscerlo, chi era Duilio Poggiolini, il “grand commis” dei farmaci nella cui casa di Napoli, nascosti tra un divano e un materasso, vennero trovati lingotti, gioielli e soldi in quantità tale che ci vollero dodici ore per catalogarli; per non parlare dei 15 miliardi di lire custoditi in un conto svizzero della moglie. Il banchetto continua: basta digitare su Google la voce “scandali sanità” per trovare 298mila risultati, cui se ne aggiungono altri 308mila alla specifica “scandali Asl”. Un bottino incamerato grazie a una serie di fanti e fantaccini cresciuti all’ombra della peggior partitocrazia, e senza neppure lasciar stare i santi: da Sant’Andrea a Santa Rita, da San Carlo a San Raffaele, da San Giuseppe a San Pio X, l’elenco delle cliniche finite sotto inchiesta rappresenta un turpe martirologio arrivato ad inquinare financo il Paradiso. Giocare con i nomi è diventato del resto un malvezzo che finisce per cedere a un’involontaria autoironia. Come successo in Lombardia, dove le Asl sono state ribattezzate Ats, aziende per la tutela della salute. Di quale tutela si tratti, lo rivelano le millanta inchieste sulla sanità di una Regione dove dalla giunta Formigoni a quella Maroni le flebo di denaro sporco sono andate - è il caso di dirlo - letteralmente a ruba; e dove c’è chi è riuscito a farsi assegnare titoli ben poco onorifici, tipo quello di Lady Dentiera, la “dama delle gengive” che in una telefonata intercettata spiega di avere «alle spalle 30 anni di marchette»: i beneficiari ringraziano. Di quale portata sia il caso lombardo, l’ha comunque delineato in modo netto qualche giorno fa il pubblico ministero di Milano del processo Maugeri, la Fondazione accusata di avere versato all’ex presidente Formigoni quelle che la procura chiama tangenti e che lui ha derubricato a gentili omaggi: «Un gruppo di criminali ha guidato la Regione Lombardia; ha rubato soldi alla sanità pubblica destinati ad accorciare le liste d’attesa e migliorare le prestazioni. Soldi rubati da chi avrebbe dovuto tutelarla». Ats, appunto. Sono episodi che tristemente si ripetono, giù giù per questo malconcio e sdrucito stivale che è l’Italia. Dove ci si vede costretti perfino a riabilitare il vituperato sceriffo di Nottingham. Quello, rubava ai poveri per dare ai ricchi. Questi, per il proprio tornaconto deprederebbero perfino la mamma. Torna al sommario CORRIERE DELLA SERA di sabato 9 aprile 2016 Pag 1 Lotta ai corrotti, non al mercato di Antonio Polito L’inchiesta, i tabù e gli alibi A leggerli così, mescolati in quella secrezione delle nostre vite che sono le nostre peggiori telefonate (tanto quelle belle, corrette, trasparenti, nel faldone di un’inchiesta non ci arrivano, e dunque nessuno le conoscerà mai) viene da pensare che gli affari siano sempre affarismo. Non è vero. E dovremmo dirlo, perché già viviamo in un Paese pieno di pregiudizi contro il business. Già sembriamo una repubblica di Banana (Build Absolutely Nothing Anywhere Near Anything) ostile a ogni calcestruzzo, in cui la produzione di qualsiasi forma di energia, dal nucleare alle pale eoliche, dal gas agli inceneritori, solleva proteste e veti ecologisti. E invece tutte quelle parole che ci fanno sobbalzare nelle intercettazioni, contratto, gara, appalto, soldi, non sono lo sterco del demonio, non sono sinonimi di imbroglio e truffa. Gli affari fanno girare il mondo, o non lo fanno girare. Quando a fine anno piangiamo per lo scarso Pil o la forte disoccupazione, quando ci lamentiamo perché il Sud è vent’anni indietro, non facciamo altro che tirare le somme di troppi pochi affari, transazioni, vendite, acquisti, opere pubbliche e private. Per questo è difficile dare torto a Renzi quando rivendica al governo, con quell’aria di sfida ai magistrati di Potenza, la responsabilità politica di sbloccare gli investimenti, accelerarne l’iter, produrre lavoro. La corruzione va combattuta senza quartiere e senza riguardi, perché è distruttiva del mercato. Ma guai se pensassimo di stroncarla stroncando gli affari. La qualità della nostra vita e il nostro stesso reddito dipendono dal livello di sviluppo e di tecnologia del Paese in cui viviamo. Non diamo alibi a chi sogna di sostituire il mito del regresso a quello del progresso. Però proprio un governo che vuole finalmente rompere il tabù degli affari deve cercare antidoti più forti all’affarismo. Non basta la giustificazione del «fare» per esorcizzarlo. L’inchiesta di Potenza, facendoci guardare dal buco della serratura nelle stanze dove si decide, demolisce l’idea che centralizzare e personalizzare il potere possa tagliare le unghie all’affarismo. Se mai c’è stata, l’illusione dell’uomo solo al comando della nave si è dimostrata incapace di eliminare il caotico affollarsi degli interessi giù nella sala macchine, dove ministri, sottosegretari e capi di gabinetto restano esposti, e forse anche più esposti quanto minore è la loro personalità e il loro peso nella collegialità del governo, alla pressione delle lobby. E così finiscono per combattersi, rubarsi competenze, costruire cordate, perfino in un governo del premier, virtualmente monocolore, come è quello Renzi. C’è poi una seconda lezione da apprendere. La riduzione del Parlamento a votificio non semplifica le cose. Tutti gli emendamenti, ad progettum, aziendam o personam, cercano disperatamente un treno legislativo su cui saltare, e di solito finiscono per trovarlo nel maxi emendamento alla legge di Stabilità, patchwork che la maggioranza deve approvare in pochi minuti, in piena notte e a occhi chiusi. È vero che le Camere sono un ricettacolo di clientele, e l’assalto alla diligenza di un tempo non era preferibile, ma il Parlamento è anche un filtro degli interessi. Sempre meglio farli passare allo scrutinio di una commissione, che trovarseli riversati sul tavolo di un ministero, dove si decide certamente con maggiore opacità e discrezionalità, e dove il potere di un funzionario vale più dell’opinione di un deputato eletto dal popolo. Infine bisogna regolamentare il lavoro dei gruppi di pressione. Questo Gemelli era un lobbista? Allora doveva essere iscritto a un registro della professione, dichiarare i propri interessi, e il ministro con cui conviveva doveva a sua volta dichiarare il legame al momento di assumere un incarico nel governo, e il presidente del Consiglio doveva sapere che il suo ministro dello Sviluppo economico aveva questo ulteriore interesse, diciamo così, familiare. L’esito più infausto del clamore di questa storia, insomma, sarebbe un ritorno al passato, quando non si combinava niente e si corrompeva anche di più. Ma per evitarlo non ci sono scorciatoie autoritarie o dirigiste, bisogna seguire la strada maestra di una democrazia funzionante, fatta di pesi e contrappesi, check and balance; e adeguarsi così, un po’ alla volta, agli standard etici dei Paesi puritani. Pag 1 Renzi: non andrà come sui marò di Francesco Verderami L’Italia alza il muro contro l’Egitto C’è un giudice a Roma, «per fortuna abbiamo Pignatone»: se per una volta Renzi ha parlato bene di un magistrato, è perché su Regeni «il governo non accetta compromessi». E c’è un motivo se in Consiglio dei ministri il premier ha tributato i complimenti al capo della Procura di Roma, se - annunciando il richiamo dell’ambasciatore italiano dal Cairo - gli ha riconosciuto il merito di aver salvaguardato l’onore e la dignità del Paese, nel drammatico vertice con i magistrati egiziani sulla morte del giovane italiano: quel braccio di ferro tra verità e ragion di Stato non poteva ammettere conclusioni giudiziarie di comodo, senza che il compromesso si ritorcesse poi contro il governo. Il caso Regeni «non sarà un altro caso marò», ha promesso Renzi. Non si ripeteranno cioè quei balbettii diplomatici con l’India che da quattro anni umiliano l’Italia insieme ai due fucilieri della Marina. E siccome era questa la piega che stavano prendendo gli eventi sull’assassinio e la tortura del giovane ricercatore di Udine, «siccome non sono state date ai magistrati di Roma informazioni sufficienti e utili all’inchiesta, non esistono interessi economici o di altra natura che reggano». Il passo diplomatico era «inevitabile», com’è stato spiegato al presidente della Repubblica, informato costantemente della situazione. La mossa del governo era stata peraltro già messa nel conto giovedì sera, e per certi versi si è trattato di un’apertura di credito ad Al Sisi rispetto al modo in cui si è conclusa ieri la riunione giudiziaria. Perché a fronte di una richiesta di collaborazione più attiva rivolta ai magistrati egiziani, Pignatone aveva dovuto riscontrare che il salto di qualità non c’era stato. E più veniva sottolineata una profonda insoddisfazione rispetto alla qualità, alla bontà e all’efficacia delle informazioni, più si evidenziavano le difficoltà degli inviati africani. Tutte questioni che sono state rese presenti nell’ambito della cooperazione istituzionale tra gli organi giudiziari e l’esecutivo, e che sono state al centro delle valutazioni di Palazzo Chigi e della Farnesina. Renzi non poteva restare fermo, sebbene sia cosciente della delicatezza del dossier anche per i suoi riflessi geopolitici, per i riverberi che provoca nelle cancellerie internazionali. A partire dagli Stati Uniti, che temono gli effetti del «caso Regeni» nei complicati equilibri dell’area mediorientale: l’Egitto gioca un ruolo importante in quello scacchiere e un discredito internazionale potrebbe compromettere la stabilità di quel regime, impegnato anche sul fronte libico. Il richiamo in Italia per consultazioni dell’ambasciatore è al momento un grado di risposta che cerca di tenere insieme la «dignità nazionale» e le preoccupazioni della comunità occidentale. In attesa che al Cairo lo strappo venga interpretato per quel che è, cioè una mano tesa, sperando che l’Egitto colga l’occasione per rivedere l’atteggiamento fin qui tenuto, Renzi ha compattato intanto l’opinione pubblica che chiedeva «un gesto forte», una prova muscolare dinnanzi a un fatto considerato inaccettabile. È un equilibrismo politico che contempla sia l’azione diplomatica, sia l’esigenza di mostrarsi intransigenti davanti al «caso Regeni». Così il premier - in affanno per le questioni interne - trova occasione di riscattarsi e di riscattare il governo, al quale anche le forze di opposizione riconoscono la bontà della decisione. «Non sarà un altro caso marò» è una promessa che andrà mantenuta per non veder precipitare l’esecutivo nelle critiche del Palazzo e del Paese. Nel frattempo, i complimenti rivolti da Renzi a Pignatone «per il suo lavoro puntuale» sono stati un modo per dare al Paese garanzie sul prosieguo giudiziario della vicenda. Il magistrato è diventato insomma una sorta di marchio di qualità, tanto che in Consiglio dei ministri il premier ha sottolineato come «siamo stati fortunati che l’inchiesta si sia radicata a Roma. In futuro andrà studiata una norma che attribuisca alla Procura della Capitale casi come questo che coinvolgono cittadini italiani all’estero. Non può esserci una gara tra Procure a chi apre per primo un fascicolo». AVVENIRE di sabato 9 aprile 2016 Pag 3 La Spagna senza governo sogna una via “italiana” di Marco Olivetti La ricerca di una mediazione per uscire dallo stallo A ormai più di cento giorni dalle elezioni legislative dello scorso 21 dicembre, la Spagna è ancora senza governo ed è retta da un esecutivo in carica per gli affari correnti, presieduto da Mariano Rajoy. E la soluzione della crisi – ormai la più lunga dall’entrata in vigore della Costituzione del 1978 – appare ancora lontana (malgrado continui tentativi di disgelo tra vecchie e nuove forze politiche), mentre il termine per la convocazione di ulteriori elezioni ha una data ben precisa: se entro il 2 maggio nessun candidato otterrà l’investitura del Congresso, le elezioni anticipate saranno automaticamente convocate per il 26 giugno. Per la Spagna sarebbe il primo caso di early elections, vale a dire di scioglimento della Camera per impossibilità di formare un governo a inizio legislatura: una eventualità sempre possibile nei regimi parlamentari, anche se improbabile. Con in più un’ulteriore incognita: è possibile, infatti, che dalle nuove elezioni esca un Parlamento simile a quello attuale, con la conseguenza che i veti incrociati fra i principali partiti potrebbero permanere. Ma com’è possibile che il sistema parlamentare più stabile d’Europa – divenuto negli ultimi vent’anni quasi l’archetipo del bipartitismo (ancorché imperfetto, per la presenza di varie formazioni locali) – si sia sciolto come neve al sole nelle elezioni di dicembre? E, soprattutto, perché i principali partiti non sono sinora riusciti a trovare una via d’uscita per interpretare le istanze degli elettori, i quali, sia pur in modo confuso, hanno espresso un mandato chiaro, quello in favore di un governo di coalizione? La prima domanda – nella sua dimensione strettamente politica – trova la sua risposta nel sistema elettorale spagnolo: un sistema proporzionale che adotta come circoscrizione elettorale la provincia, senza recupero dei resti a livello nazionale. E siccome la Camera è composta da appena 350 deputati e gran parte delle province elegge da 2 a 6 deputati, in tali circoscrizioni elettorali si produce un netto effetto maggioritario, che privilegia i due principali partiti. Ciò è accaduto anche lo scorso dicembre. Tuttavia questo effetto ha dei limiti: in presenza di un quadro politico frammentato e di un assetto quadripartitico (Pp, Psoe, Podemos e Ciudadanos) non solo nessun partito arriva da sé alla maggioranza, ma – salvo che per una grande coalizione fra i due partiti storici, cioè tra popolari e socialisti – per formare un governo non basta neppure una coalizione a due partiti sul centrodestra o sul centrosinistra. E il sistema è ora diviso, oltre che dal tradizionale cleavage destra-sinistra (fino a ieri, Pp e Psoe, oggi Pp più Ciudadanos versus Psoe più Podemos), anche fra forze vecchie e destinatarie, fra l’altro, di gravi accuse di corruzione (Pp e Psoe), e nuove (Podemos e Ciudadanos) anche se non immacolate come dimostra il caso appena emerso del (presunto) cospicuo finanziamento degli ex indignados di Podemos da parte del Venezuela bolivariano del defunto etno-caudillo Hugo Chávez. Con queste ultime pronte a lanciare la sfida ai partiti tradizionali in ciascuno dei due campi storici: in particolare la sfida di Podemos ai socialisti per l’egemonia a sinistra rende problematica sia una grande coalizione Pp/Psoe, sia un governo stile Fronte Popolare fra Psoe e Podemos stesso. Se a ciò si aggiunge che entrambi i due principali partiti (Pp e Psoe) hanno perso molti voti e hanno leader contestati, sia pure in forme diverse, all’interno della loro stessa casa politica (e se si considera che anche all’interno di Podemos stanno affiorando divisioni fra il leader, Iglesias, più intransigente, e il numero 2, Errejón, più possibilista sul dialogo coi socialisti), si ha un panorama nel quale le considerazioni tattiche sono state sinora prevalenti su quelle strategiche e ciascuno degli attori politici ha scommesso sulle debolezze e sui possibili errori dell’altro, evitando qualsiasi opzione costruttiva. Così Mariano Rajoy si è rifiutato di sottoporsi al voto di investitura parlamentare, malgrado un formale invito del Re, e il leader del Psoe Pedro Sanchez ha tentato di ottenere il via libera parlamentare pur partendo da una base assai fragile – l’accordo 'social-liberale' con Ciudadanos, per un totale di appena 130 seggi su 350 – che infatti si è risolto in un nulla di fatto. Fin qui il lettore italiano non troverà ragioni di stupore: il tatticismo e la scarsa propensione a investimenti 'di sistema' è infatti tratto comune a molti politici delle due penisole latine d’Europa. Ma vi sono almeno due differenze fra Roma e Madrid che emergono chiaramente in questa crisi. In primo luogo la Spagna non ha un potere moderatore capace di funzionare in caso di crisi come lo è stata la Presidenza italiana negli anni di Scalfaro e di Napolitano. Questo ruolo in Spagna spetta al Re, ma il monarca, per ragioni storiche (l’attivismo di Alfonso XIII, che negli anni 30 del XX secolo portò alla caduta della monarchia e poi alla guerra civile), non ha la forza per proporre formule di compromesso (tipo governi Dini o Monti) capaci di superare lo stallo prodotto dalle elezioni. Ma vi è una seconda ragione: la cultura politica spagnola degli ultimi quattro decenni, proprio perché ha prodotto governi stabili ed efficienti, ha sviluppato un approccio iper-maggioritario che considera inaccettabile una grande coalizione destrasinistra. In dicembre El Pais ha pubblicato un divertente editoriale intitolato «Andreotti, illuminaci!», invocando la capacità di mediazione dei politici italiani della Prima Repubblica. Un Parlamento italiano, se non balcanico, a Madrid, ma senza politici italiani: senza Scalfaro, Napolitano, Andreotti e Berlinguer. E forse anche senza Renzi e Verdini. Sono le delizie del maggioritario. Pag 9 Usare tutte le leve con giusta decisione Se c’era ancora bisogno di una conferma, ieri è arrivata. È ufficiale: l’Egitto ha qualcosa da nascondere sul delitto di Giulio Regeni e non ha interesse a che la verità emerga e i colpevoli siano puniti. E l’Italia non può far finta di niente. Deve agire, perché l’interesse nazionale coincide esattamente con quello della giustizia. C’è da garantire verità alla famiglia del giovane torturato e assassinato e a noi tutti, suoi concittadini. Non è più il momento di mediare e spingere sui tasti della cosiddetta 'moral suasion', per dare al Cairo una via di uscita morbida ma non assolutoria. Con la beffa della visita quasi turistica degli investigatori egiziani a Roma, attesi invece con carte complete, precisi elementi di indagine e chiara volontà di fare chiarezza, la vicenda compie un drammatico salto di qualità. E ora è necessario far sì che l’Egitto abbia preciso interesse a trovare e indicare i responsabili del delitto. Ci si può riuscire con la pressione diplomatica: il richiamo per consultazioni del nostro ambasciatore è un primo passo; con la pressione economica: si pensa a misure per scoraggiare il flusso turistico verso Mar Rosso e Piramidi; con la politica in senso pieno: agendo sui fronti cui il regime del presidente alSisi è più sensibile, a partire dall’immagine internazionale in materia di diritti umani (l’omicidio Regeni rientra in un panorama di sparizioni ed esecuzioni su cui finora si è sorvolato per motivi di 'alleanze obbligate'). C’è chi teme che per questo perderemo affari. C’è chi pensa che addirittura favoriremo l’islamismo radicale e ci creeremo problemi ulteriori anche in Libia. Non è detto. Ma è vero che si sono sempre prezzi da pagare quando una democrazia affronta una sfida. Prezzi che alla lunga possono rivelarsi guadagni per tutti. Anche per chi cammina sulla strada di un mondo arabo (e islamico) più libero, trasparente e giusto. IL GAZZETTINO di sabato 9 aprile 2016 Pag 1 Così muteranno gli equilibri nel Mediterraneo di Alessandro Orsini I Paesi possono interrompere le relazioni diplomatiche, ma conservare i rapporti commerciali. Accade spesso e, molto probabilmente, accadrà anche tra l’Italia e l’Egitto che, attraverso lo scontro sulla tragica morte di Giulio Regeni, stanno cercando di definire i loro rapporti di forza nel Mediterraneo, in vista della ricostruzione della Libia. Dal momento che il problema tra l’Egitto e l’Italia è un problema di politica di potenza, in cui ogni Stato cerca di sottrarre quote di potere all’altro, Al Sisi non può aiutare l’Italia a individuare il responsabile della morte di Regeni per due ragioni. La prima è che Regeni non è stato ucciso da una singola persona, ma da una squadra di professionisti. Studiando le torture sui prigionieri politici, ho trovato che i torturatori si compongono di unità che non sono mai inferiori alle quattro persone. Ho inoltre trovato che, più è lungo il tempo della detenzione, maggiore è il numero dei torturatori, i quali devono vegliare sul torturato per impedirgli di dormire. Il fatto che i torturatori debbano darsi il cambio per coprire le ventiquattr’ore, accresce il loro numero. Regeni è stato sequestrato per almeno dieci giorni. Rimanendo solo, sarebbe caduto in un sonno rigenerante che avrebbe vanificato il lavoro dei suoi carnefici. Se Regeni è stato ucciso da una cellula della polizia egiziana, Al Sisi non può consegnare un numero così elevato di torturatori senza essere travolto dalla reazione dei governi dell’Unione Europea. Governi che si sono schierati in favore dell’Italia attraverso la risoluzione del Parlamento Europeo del 10 marzo 2016. Senza considerare che i torturatori di Regeni, data l’esperienza che emerge dall’autopsia, hanno certamente fatto pratica su altri Regeni e, pertanto, sono custodi di segreti pericolosi per il regime. La seconda ragione per cui Al Sisi non può aiutare l’Italia a individuare i carnefici di Regeni è che, così facendo, dimostrerebbe che l’Italia è più forte dell’Egitto. Le regole immutabili della politica internazionale dicono che, quando un Paese consente alla magistratura di un altro Paese di operare al suo interno, si sta spogliando di quote di sovranità nazionale. Detto più semplicemente, se Al Sisi consegnasse i colpevoli all’Italia, si indebolirebbe sul piano interno, giacché nessun dittatore può fare il dittatore senza che la polizia si senta sicura di poter uccidere impunemente. Quando le polizie smettono di uccidere, i dittatori smettono di vivere. Inoltre, un’eventuale collaborazione indebolirebbe Al Sisi anche sul piano estero, dal momento che, nel codice simbolico della politica internazionale, sarebbe un inchino al governo italiano. Queste sono le ragioni per cui non avremo i nomi dei numerosi assassini di Regeni. Avendo chiarito che il governo italiano si muove all’interno di un campo di forze oggettive, che non può modificare attraverso un atto della volontà, occorre comprendere quale sarà il futuro delle relazioni tra l’Italia e l’Egitto che riassumo nella formula: «Inimicizia amichevole». Dal momento che l’Italia e l’Egitto sono coinvolti in una sfida che nessuno dei due può vincere in un colpo solo, manterranno le relazioni commerciali, ma approfitteranno di tutte le occasioni per sottrarsi quote di potere nel Mediterraneo. Le tensioni tra l’Italia e l’Egitto sono una delle tante conseguenze negative, per l’Italia, del crollo di Gheddafi, che ha scatenato gli appetiti di chi vuole sedersi a capotavola nella ricostruzione della Libia. E siccome gli Stati Uniti, e i principali paesi europei, hanno già stabilito che quel posto sarà occupato dall’Italia, Al Sisi espone il suo ventre famelico. Nessuno pensi che quest’uomo, essendo un generale truculento, sia un politico inetto perché non lo è affatto. Mentre l’Italia discute eventuali misure da prendere contro l’Egitto, Al Sisi incontra - si presti attenzione - in Egitto, e non in Arabia Saudita, il potente re Salman, con il quale sta intensificando, a ogni piè sospinto, le relazioni politiche e commerciali. Re Salman è grato ad Al Sisi per averlo affiancato nei bombardamenti contro i ribelli filo-iraniani in Yemen e, guarda caso, Al Sisi lo incontra proprio nel giorno in cui invia i magistrati egiziani a scontrarsi con quelli italiani a Roma. Inutile dire che l’Arabia Saudita ha firmato un accordo da 20 miliardi di dollari per rifornire l’Egitto di petrolio per i prossimi 5 anni, e un accordo di 1,5 miliardi di dollari per lo sviluppo del Sinai. Quando due Paesi iniziano il gioco dell’ “amichevole inimicizia”, i rispettivi governi sanno che esiste soltanto un modo di migliorare la propria posizione strategica che è quello di stringere alleanze. Ecco perché la risoluzione del Parlamento Europeo, in nostro favore, ci aiuta a comprendere quali grandi vantaggi abbia l’Italia nel fare parte dell’Unione Europea e dell’area euro. Il problema del governo italiano non è soltanto la verità sulla morte di Regeni, ma la difesa degli interessi di sessanta milioni di italiani. LA NUOVA di sabato 9 aprile 2016 Pag 1 Se il premier è costretto a difendersi di Bruno Manfellotto Se l’onda dell’opposizione si abbatte con particolare violenza su un ministro del governo in carica, può essere l’indizio di una più ampia manovra che ha per obiettivo il premier. Sospetto di spallata. Se poi la risacca cerca di trascinare via un secondo ministro - Giulio Andreotti lo ricordava con il solito sorrisetto - potrebbe trattarsi di una semplice coincidenza. Ma se a lungo andare i ministri sotto tiro diventano tre, allora è la prova che il tentativo in atto è deciso e robusto, che chi si dà da fare pensa che questo sia il momento di attaccare perché per la prima volta la vittima designata gli appare in difficoltà, sull’orlo di una crisi di nervi, perfino un po’ logorata. Da qui la decisione di affondare. Prima della reazione, del colpo di coda, della mossa a sorpresa. Il petrolio ci ha messo pochi giorni a defluire minaccioso dalla Basilicata fino a Palazzo Chigi. Prima è toccato a Federica Guidi, e meno male che in poche ore ha fatto i bagagli e che i pm la considerano parte lesa, sottoposta alle pressioni svergognate del suo compagno, uno spregiudicato faccendiere di provincia. Poi l’attenzione si è spostata su Maria Elena Boschi, faccia d’angelo e carattere di ferro, ma non ci sono evidenze per incastrarla. Infine, e forse questo è l’elemento più inquietante, è stata la volta di Graziano Delrio, personaggio di snodo, uomo politico al confine tra il cerchio magico del premier e la nomenklatura del Pd, per il quale è stato rispolverato un dossier di accuse che già era stato squadernato e poi ritirato per inconsistenza di prove. Che se ne riparli è indizio, il terzo, di qualcosa d’altro. Era successo più o meno in coincidenza con la decisione del premier di sacrificare uno dei suoi collaboratori più stretti, il sottosegretario alla Presidenza, l’uomo macchina del governo. Allora Matteo Renzi lo aveva allontanato per rafforzare i suoi collaboratori più stretti, Maria Elena Boschi e Luca Lotti. Ma mentre Delrio si trasferiva da Palazzo Chigi al ministero per le Infrastrutture, ecco circolare le voci di una sua gita di anni prima a Cutro, Crotone, per partecipare, sindaco assieme ad altri sindaci, a una processione in odore di inchino ai boss della ’ndrangheta. La storia era stata poi smontata dagli stessi magistrati e di fatto archiviata, ma è tornata utile più avanti, prima nei conversari tra lobbisti intercettati, evocata come possibile arma di ricatto e di pressione nei confronti del ministro e del governo, e poi dalle opposizioni contro Renzi & C.: «A questo punto voglio sapere se davvero un carabiniere ha preparato dei dossier falsi contro un ministro della Repubblica», ha commentato Delrio. Anche lui pensa che tre indizi facciano una prova... Dunque si capisce bene il nervosismo del premier, costretto stavolta ad andare in tv non solo per passare al contrattacco, ma anche per difendersi («Questo non è il governo delle lobby»). Forse, dopo due anni di lavoro e molte cose comunque condotte a termine, Renzi si accorge che non è così facile affondare il coltello ovunque voglia: incontra ostacoli, non riesce ad arginare la marea di accuse, e il gioco degli interessi incrociati - politici, economici, locali - non si può sbrogliare solo accentrando su di sé ogni decisione. La solitudine rischia di divenire isolamento (Galli della Loggia), e l’assunzione di responsabilità la calamita per attirarsi addosso tutte le colpe, anche quelle non sue. Non è un caso, dunque, che le opposizioni lancino l’operazione sfiducia adesso, vigilia delle Amministrative e del Trivella day, ma anche nel pieno della campagna alla quale il premier tiene di più, quella per il referendum sulla riforma costituzionale, l’occasione in cui il Paese dovrà scegliere tra il nuovo che lui vuole incarnare («cambiare verso») e la conservazione dell’esistente. Ecco perché ciò che Renzi teme di più è finire in un’ondata denigratoria tesa a dimostrare che anche il governo del Rottamatore, dell’uomo nuovo, del nemico di ogni comoda convenzione può finire in una brutta storia di politica e affari. Per questo deve riconquistare il centro del campo. E subito. Torna al sommario