TESI DI DOTTORATO DALLA DECOSTRUZIONE ALLA CYBER

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TESI DI DOTTORATO DALLA DECOSTRUZIONE ALLA CYBER
DOTTORATO DI RICERCA IN
TECNOLOGIA DELL’ARCHITETTURA E DELL’AMBIENTE , XIV C ICLO
TESI DI DOTTORATO
DALLA DECOSTRUZIONE ALLA CYBER-A RCHITETTURA E OLTRE
L’USO DEL COMPUTER NELLA PROGETTAZIONE DEGLI SPAZI NONEUCLIDEI
Tutor Prof.ssa Maria BOTTERO
Co-tutor Prof.ssa Rossana RAITERI
Dottorando Paolo Vincenzo GENOVESE
SEDI:
FACOLTÀ DI ARCHITETTURA DEL POLITECNICO DI MILANO
FACOLTÀ DI ARCHITETTURA DEL POLITECNICO DI TORINO
FACOLTÀ DI ARCHITETTURA DELL’UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI GENOVA
FACOLTÀ DI ARCHITETTURA DELL’UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI
FACOLTÀ DI ARCHITETTURA DELLA II U NIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI
A mia Madre,
della quale mai ho dubitato
La condizione interiore del
senza-forma:
imperscrutabile, quella che
ha assunto una forma
precisa: ovvia.
L’imperscrutabile vince,
l’ovvio perde.
Sun Tzu
DALLA DECOSTRUZIONE
ALLA CYBER-A RCHITETTURA E OLTRE
L’USO DEL COMPUTER NELLA PROGETTAZIONE DEGLI SPAZI
NON-EUCLIDEI
Indice delle illustrazioni
PREFAZIONE
0. La ricerca geometrico-spaziale
decostruzione
Tavole del Cap. 0.
dal
costruttivismo alla
p. I
» III
PARTE PRIMA
1. Il decostruttivismo come precursore della Cyber-architettura »
1.1. Temi fondativi della decostruzione
» 1
1.2. Figure di passaggio dalla decostruzione verso la Cyberarchitettura
» 9
Tavole del Cap. 1.
» 15
2. La Cyber-architettura
» 31
2.1. Natura ed origini della cultura Cyber
» 31
2.2. Lo spazio nella Cyber-architettura
» 41
2.3. Spazi virtuali e spazi costruiti. Due nature della Cyber-architettura
Tavole del Cap. 2.
» 87
PARTE SECONDA
3. Studi di architetti contemporanei. Un matrimonio tra arte, scienza,
filosofia e tecnologia
» 157
3.1. Introduzione e caratteri generali del problema
» 157
3.2. La progettazione come scultura. Frank O. Gehry
» 158
3.3. L’architettura nata dalla virtualità. Greg Lynn
» 167
3.4. La generazione automatica degli spazi non-euclidei. Peter
Eisenman
» 176
Tavole del Cap. 3.
» 187
1
»
75
CONCLUSIONI GENERALI
4. Il rinnovamento della pratica operativa nella progettazione degli
spazi non-euclidei con il computer
» 213
Bibliografia generale
»
225
»
229
»
289
APPENDICE I
Schede di studio
Frank O. Gehry
Coop Himmelb(l)au
Günther Domenig
Greg Lynn
Asymptote
Reiser + Umemoto
Neil Denari
Marcos Novak
Dagmar Richter
Kunst und Technik
André Poitiers
Anton Markus Pasing
Peter Eisenman
APPENDICE II
Interviste
Kunst und Technik
André Poitiers
Anton Markus Pasing
Indice delle illustrazioni
Fig. 1: Alfred Neumann e Zvi Hecker, Natania City Hall and Civic Center
Fig. 2: Alfred Neumann e Zvi Hecker, Facoltà di Ingegneria Meccanica, Haifa
Fig. 3: Moshe Safdie, Habitat, Schema I, New York
Fig. 4: Moshe Safdie, Habitat ’67, Montreal, 1967
Fig. 5: Annie Griswold Tyng, Farm House, 1953
Fig. 6: Annie Griswold Tyng, Dormitorio per collegio, 1963
Fig. 7: Bernard Tshumi, Parc de la Villette, Parigi 1985
Fig. 8: Frank O. Gehry, Gehry House, Santa Monica, 1979
Fig. 9: Frank O. Gehry, Casa Wagner, 1978
Fig. 10: Frank O. Gehry, Casa Familian, 1978
Fig. 11: Frank O. Gehry, Wilton House, 1983-’87
Fig. 12: Zaha Hadid, Landesgartenschau, Weil am Rhein, 1997-’99
Fig. 13: Zaha Hadid, Museo d’arte contemporanea, Roma, 1998-2005
Fig. 14: Zaha Hadid, Grande Biblioteque du Quebecl, Montreal, 2000 Fig. 15: Toyo Ito, Vision of Japan, Londra, 1991
Fig. 16: Toyo Ito, Uovo dei Venti, Tokyo, 1990-’91
Fig. 17: Peter Eisenman, IBA, Berlino, 1981-’85
Fig. 18: Greg Lynn/Form, H2 House (Hydrogen House), Vienna, Austria, 1996.
Fig. 19: Reiser+Umemoto, Yokoama Port Terminal, Tokio, Giappone, 1994, progetto
Fig. 20: Neil M. Denari, Massey Residence, Los Angeles, California, 1995
Fig. 21: Makoto Sei Watanabe, The Induction Cities, 1991-’96, progetto
Fig. 22: Anton Markus Pasing, Genesis 9 - super tool, 1995-’96, progetto
Fig. 23: Anton Markus Pasing, Elektrochanger - Haus an der B 54, 1991, progetto
Fig. 24: Anton Markus Pasing, Das letzte Haus, 1995, progetto
Fig. 25: Peter Eisenmann, Aronoff Center, University of Cincinnati, Cincinnati, Ohio, 1988’96
Fig. 26: Marcos Novak, Paracube, 1997-’98, progetto
Fig. 27: Karl S. Chu, Phylux, 1999, progetto
Fig. 28: Asymptote, Virtual Guggenheim Museum, 1999-2002
Fig. 29: Kolatan/Mac Donald Studio, Resi-Rise (vertical mode), New York, 1999, progetto
Fig. 30: Kolatan/Mac Donald Studio, Housing, 1999
Fig. 31: Nastro di Möbius nell’interpretazione di Maurits Cornelius Escher, Striscia di
Möbius II
Fig. 32: Ben Van Berkel & Caroline Bos, Möbius House, Het Gooi, Olanda, 1993-’98
Fig. 33: Foreign Office Architects, Virtual House, 1997, progetto
Fig. 34: Foreign Office Architects, Azadi Cinepleh, Teheran, Iran, 1997, progetto
Fig. 35: Foreign Office Architects, Yokohama Port Terminal, Yokohama, Giappone, 1995
Fig. 36: Oosterhuis Associates, Trans_Ports 2001, Rotterdam, Olanda, 1999-2001,
progetto
Fig. 37: Oosterhuis Associates, Saltwaterpavilion, Neeltje Jans, Olanda, 1997, progetto
Fig. 38: NOX, V2 Lab, Rotterdam, Olanda, 1998, progetto parzialmente realizzato
Fig. 39: Herzog & De Meuron, Library of the Eberswalde Technical School, Eberswalde,
Germania, 1994-’99
Fig. 40: Massimiliano Fuksas, Europark, Salisburgo, Austria, 1994-’97
Fig. 41: Helmut Jahn, KU 70, Berlino, Germania
Fig. 42: dECOI, Boutique Missoni, Parigi, Francia, 1996, progetto
Fig. 43: NOX, Beachness, Noordwijk, Olanda, 1997, progetto
Fig. 44: Naga Studio Architecture, ESK House, Cairo, Egitto, 2000
Fig. 45: Naga Studio Architecture, Marina International Hotel Sharm Safari Gate, Los
Angeles, California, 1998
Fig. 46: Naga Studio Architecture, Sharm Safari Gate , Sharm El Sheikh, Sinai, 1997
Fig. 47: Naga Studio Architecture, Tetraedro
Fig. 48: Gregg Lynn/Form: Embriological Housing, 1998, progetto
Fig. 49: Gregg Lynn/Form: Embryologic Space, 1998, progetto
Fig. 50: René Thom, caduta di gravi nel liquido
Fig. 51: Gregg Lynn/Form: Cardiff Bay Opera House, Wales, 1994, progetto di concorso
Fig. 52: Frank O. Gehry, Casa Lewis, Lyndhurst, Ohio, 1989-’95
Fig. 53: Gregg Lynn/Form: Animated Form, progetto
Fig. 54: Gregg Lynn/Form: Port Authority Gateway, New York, USA, 1995, progetto
Fig. 55: Peter Eisenman, Staten Island Institute of Arts and Sciences,New York, 1997,
progetto
Fig. 56: Peter Eisenman, Biblioteca per la Piazza delle Nazioni,Ginevra, Svizzera, 1996’97
Fig. 57: Peter Eisenman, Una chiesa per l’anno 2000, Roma, 1996
Fig. 58: Peter Eisenman, Virtual House, Berlino, 1997, progetto
Fig. 59: NOX, Fresch H 2O eXPO, Neeltje Jans, Olanda, 1997
Fig. 60: Oosterhuis Associates, Garbage Transfer Station, Elhorst/Vloedbelt Zenderen,
Olanda, 1995
Fig. 61: Greg Lynn, Korean Presbyterian Church, Long Island, 1999
Fig. 62: Neil M. Denari, Massey Residence, Los Angeles, 1995
Fig. 63: Marco Galofaro, Progetto per il Teatro La Fenice di Venezia, Venezia, 1996
Fig. 64: Frank O. Gehry, Guggenheim Museum, Bilbao, Spagna, 1991-’97
Fig. 65: Frank O. Gehry, Uffici Chiat-Day-Mojo, Venice, California, 1986-’91
Fig. 66: Modelli di studio per il Guggenheim Museum di Bilbao di Frank O. Gehry
Fig. 67: Modelli tridimensionali del Guggenheim Museum di Bilbao
Fig. 68: Frank O. Gehry, Vila Olimpica, Barcellona, Spagna, 1989
Fig. 69: Frank O. Gehry, Childrens’s Museum, Boston, 1992-’96
Fig. 70: Greg Lynn, Port Authority Gateway, 1995
Fig. 71: Greg Lynn, Embriological House
Fig. 72: Greg Lynn, New York Presbyterian Church, 1999-2002
Fig. 73: Peter Eisenman, Laboratori Biologici dell’Università Goethe,i Francoforte sul
Meno, 1987
Fig. 74: Peter Eisenman, Klingelhofer Triangle, Berlino, 1995
Fig. 75: Peter Eisenman, Carnegie Mellon Research Center, Pittsburgh, 1987-’88
Fig. 76: Peter Eisenman, Chiesa a Roma per l’Anno 2000
Prefazione
Capitolo 0
La ricerca geometrico-spaziale dal costruttivismo alla
decostruzione
Oggi, in epoca post-moderna, ci interroghiamo sullo stato dell’arte in architettura e, in
particolare, sul progetto dello spazio in rapporto alla sempre più perfezionata tecnica del
computer.
Il pensiero moderno in architettura ha trovato il suo punto di crisi verso la metà del XX
secolo quando lo stile internazionale si è diffuso ovunque, generalizzando schemi
costruttivi, spaziali e urbanistici, senza alcun rispetto o concessione per le culture locali.
L’evidente matrice di questo modello era una forma di resistenza e di critica. Da un lato,
artisti isolati - come l’architetto americano Louis Kahn o l’architetto di origine austriaca
Frederick Kiesler - progettano edifici iconoclasti rispetto alla cultura dell’epoca, dall’altro
ingegneri strutturisti sperimentali - come il francese Robert Le Ricolais, l’americano
Richard Buckminster Fuller, o il tedesco Frei Otto -, studiano strutture leggere basate su
geometrie inedite, tali da mettere in crisi il sistema statico trave-pilastro dell’architettura
corrente.
In particolare Fuller, grazie alle sue capacità mediatiche, riesce a sviluppare una teoria
“onnicomprensiva” che si coniuga con il nascente pensiero ecologico e che influenza una
cerchia molto vasta di persone, dal gruppo di artisti dell’avanguardia newyorkese, al
popolo hippy della controcultura o cultura alternativa (soprattutto americana), al composito
quadro architettonico inglese che si riconosce nella rivista «Architectural Design», a una
serie di architetti di diversi paesi (fra cui molti israeliani) interessati soprattutto all’aspetto
della rifondazione geometrico-statico-spaziale della geometria sinergetica di Fuller. Questa
geometria (chiamata anche tensegrale in quanto le forze di compressione sono isolate
all’interno di un sistema che lavora in tensione) parte dalla rilettura critica della geometria
euclidea e dei solidi platonici per introdurre la triangolazione geodetica delle famose
cupole di Fuller.
Vogliamo a questo punto sottolineare che la ricerca morfologico-spaziale che avviene
oggi tramite l’uso del computer in un architetto come l’americano Greg Lynn (che fra l’altro
non è immemore dalla lezione di Kiesler), trova un precedente non peregrino nelle
ricerche spaziali degli anni ’60-’70 di cui quelle geometriche rappresentano un aspetto
notevole.
Le ricerche geometriche degli anni ’60 e ’70 si sono svolte in più direzioni che non è ora
il caso di indagare, se non per indicare i due filoni principali. Il primo è legato alla statica
strutturale - dove un chiaro esempio sono le cupole geodetiche di Fuller, i tubi automorfici
di Le Ricolais e le tensostrutture di Frei Otto; il secondo è legato al problema della
partizione omogenea dello spazio, con i lavori dell’inglese Keith Critchlow, gli israeliani
Alfred Neumann, Zvi Hecker (Figg. 1 e 2) e Moshe Safdie (Figg. 3 e 4). Comune a questi
due filoni di ricerca era l’obiettivo di trovare alternative valide al modello spaziale basato
sull’angolo retto e sulla struttura trilitica trave-pilastro. Nel primo caso la struttura portante
è generatrice spaziale; nel secondo, è la singola unità spaziale o mattone cavo poliedrico
che in assemblaggio close packing a generare lo spazio complessivo dell’edificio. In
entrambi i casi si prospettano architetture che sono profondamente e sostanzialmente
diverse dal modello tradizionale basato sull’angolo retto.
Accanto a questi due principali filoni vale la pena di citare anche il caso isolato
dell’americana Annie Griswold Tyng, allieva di Fuller e collaboratrice di Kahn, che si è
soprattutto dedicata a speculazioni teoriche sul ruolo della geometria nella crescita
biologica e nell’evoluzione storica della società (Figg. 5 e 6).
La ricerca geometrica degli anni ’60 e ’70, largamente sperimentale, contesta
l’architettura corrente dello stile internazionale attraverso specifiche teorie geometriche e
spaziali. Il pensiero soggiacente cui è plausibile riferirle è quello dello strutturalismo, una
filosofia trasversale che attraversa molti campi disciplinari ma che è utilmente riassumibile
in alcuni postulati dell’antropologia strutturale di Claude Lévy-Strauss, apertamente
polemica con la tradizione umanistica (primato del pensiero occidentale coltivato nei
confronti del pensiero non educato o “selvaggio” dei popoli cosiddetti primitivi; primato del
soggetto che parla nei confronti della struttura collettiva del linguaggio e quindi
dell’inconscio collettivo).
Lo strutturalismo propone un rinnovamento culturale a partire dalla rivalutazione delle
strutture dell’inconscio collettivo, degli archetipi mentali che sottendono il linguaggio, sia
esso parlato che figurativo o geometrico. Contro l’esercizio progettuale soggettivo, la
ricerca geometrica propone la reinterpretazione di un sistema di pensiero che ha antiche
radici archetipiche di matrice collettiva-sociale.
Se il bisogno di rinnovamento dei modelli architettonici correnti ha prodotto negli anni
’60 e ’70 un certo tipo di ricerca spaziale, legata alla rilettura e/o revisione della geometria
euclidea e platonica, oggi questo stesso bisogno di rinnovamento produce una ricerca
geometrico-spaziale avventurosa, che, avvalendosi delle prestazioni tecniche del
computer, si allontana definitivamente dalla geometria euclidea per approdare ad una
morfologia spaziale complessa e difficilmente descrivibile se non attraverso l’elaboratore
Se la legittimazione della ricerca geometrica degli anni ’60 e ’70 poteva essere trovata
nel pensiero strutturalista, che privilegiava il sistema collettivo del linguaggio alla libera
espressione soggettiva e individuale, la ricerca spaziale e geometrica attuale trova una
legittimazione nella teoria derridiana della decostruzione e della rimessa in discussione del
linguaggio assunto come prodotto collettivo vincolante e fondante.
Fig. 5: Annie Griswold Tyng, Farm House, 1953
Fig. 6: Annie Griswold Tyng, Dormitorio per collegio, 1963
Fig. 3: Moshe Safdie, Habitat, Schema I, New York
Fig. 4: Moshe Safdie, Habitat ’67, Montreal, 1967
Fig. 1: Alfred Neumann e Zvi Hecker, Natania City Hall and Civic Center
Fig. 2: Alfred Neumann e Zvi Hecker, Facoltà di Ingegneria Meccanica, Haifa
PARTE PRIMA
Capitolo 1
Il decostruttivismo come precursore
della Cyber-architettura
1.1. Temi fondativi della decostruzione
La parola «decostruzione» viene usata per la prima volta nello scritto Della
grammatologia del 1967 del filosofo francese Jacques Derrida. Il decostruttivismo nasce,
inizialmente, come teoria letteraria. Ma grazie alla sua particolare concezione si diffonde in
ogni aspetto dell’interpretazione dei fatti culturali. Essenzialmente Derrida parla di
decostruzione del “logocentrismo” o della metafisica, del bisogno di decostruire certe
opposizioni concettuali 1, di stabilire antinomie e cortocircuiti nella lettura e
nell’interpretazione dell’opera. Alcuni aspetti appaiono assai oscuri nell’analisi del
processo decostruttivista. Derrida stesso parla della necessità di «scomporre il costrutto di
una frase» o, prendendo definizioni da vocabolario, «smontare le parti di un tutto», o
ancora «perdere la propria costruzione» 2. La pratica decostruttivista si è rivolta da subito
verso un «pensare il proprio pensiero», verso un’autoriflessione che sanciva una sorta di
metacomunicazione 3. Tale atteggiamento - che peraltro è una costante in tutta la storia
della civiltà 4 - è stato interpretato come la fine di un’epoca. Si sanciva la perdita di senso
del pensiero Modernista verso qualcosa di assai diverso. La pratica che Derrida
proponeva superava la rigida griglia di strutture e sotto-strutture, poneva un limite alla
scomposizione dei problemi in infinite categorie. La nuova ipotesi di lavoro era basata
sulla trasversalità disciplinare e la disseminazione dei contesti. Lo strutturalismo, in
qualche modo, possedeva una miopia derivata da un’eccessiva attenzione alla forma, ai
codici e alle convenzioni letterarie, tralasciando il contenuto di ordine tematico e le vere
ragioni della creazione di un’opera.
La decostruzione opera per una distruzione delle griglie logiche, per un sovvertimento
delle gerarchie, mettendo in pratica un rovesciamento dell’opposizione classica e uno
spiazzamento generale del costrutto. Chi pratica la decostruzione lavora all’intero dei
termini del sistema ma al fine di lacerarlo 5. Qui nascono le prime ambiguità di questa
posizione così contorta. Decostruire significa lavorare all’interno di un sistema
1
Jonathan Culler, Sulla decostruzione, Bompiani, Milano, 1988, p. 1.
Jacques Derrida, Lettera a un amico giapponese, in «Rivista di estetica», n. 17, anno XXV, Torino 1984. Cit anche in Bianca
BOTTERO (a cura di), Decostruzione in architettura e in filosofia, Città Studi, Milano, 1991.
3
Jonathan Culler, op. cit., p. 11.
4
Maria Bottero, Decostruzione versus Postmoderno, in Bianca BOTTERO (a cura di), op. cit., p. 36.
5
Jonathan Culler, op. cit., p. 77.
2
riconoscendone l’intrinseca esattezza; ma a partire da questa coerenza intrinseca trovare
delle logiche che, verificando il sistema, lo invalidano. Jacques Derrida stesso, parlando
della decostruzione, dice che
“Decostruire” la filosofia diventa un pensare la genealogia strutturata dei suoi concetti nella
maniera più fedele e interna possibile, ma anche da un certo al di fuori che essa non può qualificare e
6
nominare [...].
In sostanza, lo scardinamento di una struttura avviene per una rinnovata posizione
interpretativa che tende a riconoscere le contraddizioni nascoste in ogni sistema perfetto e
a collocarle come germe di distruzione dell’insieme.
La decostruzione non fa appello a un principio logico o a una ragione superiore ma fa uso dello
7
stesso principio che decostruisce.
E altrove:
La decostruzione non consiste nello spostarsi da un concetto all’altro ma nel rovesciamento e nello
8
spiazzamento di un ordine concettuale, così come dell’ordine nonconcettuale a cui si articola.
Derrida, in qualche modo, sancisce una fusione che abolisce i contrari e le loro
differenze. Queste antinomie o opposizioni sulle quali si esercita l’operazione di
decostruzione ha come risultato finale non la decostruzione assoluta delle contraddizioni,
bensì la loro accettazione come parte integrante del sistema dialettico. Il risultato di questo
terremoto è certamente nuovo.
Invece di rivendicare la proposizione di un terreno solido per la costruzione di un nuovo ordine o di
una nuova sintesi, la decostruzione rimane implicata o attaccata al sistema che critica e si sforza di
9
spiazzare.
La decostruzione comporta, sempre, una mossa decisamente anticonvenzionale: «[...]
la logica dell’argomento usato per difendere una posizione contraddice la posizione che è
stata affermata» 10.
[...] il rapporto che la decostruzione svela non è la trasparenza del testo a se stesso in un atto di
riflessione, di descrizione di sé, o di autopossesso; è piuttosto l’inquietante simmetria che genera il
paradosso, un autoriferimento che alla fine mette in luce l’incapacità del discorso a dar conto di sé e il
11
fallimento a far coincidere [...] fare ed essere.
Come sottolinea anche Paul de Man,
una decostruzione ha sempre come obiettivo lo svelamento dell’esistenza di articolazioni e
12
frammentazioni nascoste all’interno di presunte totalità monadiche.
Un aspetto importante e centrale nella riflessione decostruttivista riguarda il
sovvertimento del logocentrismo. Derrida afferma la distruzione dell’orientamento filosofico
che, da sempre, era rivolto verso un ordine del significato. Si tratta, qui, dell’incanto della
rappresentazione di un’idea attraverso il Logos, cioè la realizzazione di funzioni
secondarie e subordinate come veicoli del discorso, ove il significato precede sempre ciò
6
Jacques Derrida, Posizioni , Bertani Editore, Verona, 1975, p. 46.
Jonathan Culler, op. cit., p. 79.
8
Jacques Derrida, cit. in, ivi, p. 128
9
Jonathan Culler, op. cit., p. 137.
10
Ivi, p. 141.
11
Ivi. p. 183.
12
Paul de Man, Allegories of Reading: Figural Language in Rousseau, Nietzsche, Rilke, and Proust, Yale University Press, New
Haven, 1979, p. 249. Tr. it., J. Culler, P. de Man, N. Rand, Allegorie della critica, Liguori Editore, Napoli, 1987.
7
che è significato. Nella disputa poetica, letteraria, artistica ed architettonica, nessun
elemento può funzionare come segno senza riferirsi ad un altro che non sia presente. Il
risultato di questa combinazione è che ogni elemento si muta in un segno che cambia altri
elementi del sistema. Ogni intreccio è un testo prodotto trasformando un altro testo.
Niente, né fra gli elementi, né all’interno del sistema, si rivela allora essere presente o
assente. Sempre, l’unica cosa di cui sia lecito parlare sono le Differenze. La natura
eterogenea di questa differenza non dovrebbe essere né universale né regolare. Ogni
elemento di lettura o di interpretazione di un testo (sia esso letterario, figurativo,
architettonico) necessita di una seconda lettura e, contemporaneamente, questa azione
produce ulteriore testo, dando vita ad un processo infinito di interpretazione.
Come sottolineato in precedenza, un’importante aspetto della decostruzione è la
trasversalità disciplinare. Non esistono confini tra saperi e ogni operazione di rile ttura e di
destrutturazione del testo può avvalersi di innumerevoli tecniche.
Credo sia importante questa apertura dei confini e soprattutto dei confini accademici fra testi e
discipline; e quando dico confini accademici non penso soltanto alle discipline umanistiche e alla
filosofia, ma anche all’architettura. Questo incrociarsi, questo andare attraverso i confini disciplinari è
una delle principali non solo strategie, ma necessità della decostruzione. L’aggancio di un’arte all’altra,
la contaminazione dei codici, la disseminazione dei contesti sono qualche volta metodi o strategie di
13
decostruzione.
Questa premessa è stata necessaria per via dello stretto rapporto che è sempre esistito
tra filosofia decostruttivista e architettura. Due sono le tappe essenziali di questo curioso
matrimonio. Il primo è l’invito da parte di Bernard Tschumi rivolto a Jacques Derrida a
lavorare al progetto del Parc de la Villette a Parigi. Tramite Tschumi, Derrida incontra
Peter Eisenman che rivedrà più volte a New York e con il quale inizia una collaborazione
teorica che ha il punto di partenza nella lettura del Timeo di Platone.
Ciò che interessa Derrida è l’ipotesi di un’architettura decostruita nel senso di non
essere subordinata al vincolo delle funzioni.
Quando scoprii quella che ore si chiama architettura decostruttivista mi interessava il fatto che
questi architetti decostruivano gli aspetti essenziali della tradizione e criticavano tutto ciò che
subordinava l’architettura a qualcos’altro - per esempio al valore dell’utile, del bello e dell’abitabile non per costruire qualcos’altro che fosse inutile, brutto o inabitabile, ma per liberare l’architettura da
tutti questi obiettivi esterni [...] e non per ricostruire un’architettura pura e originale, ma, al contrario,
proprio per mettere l’architettura in rapporto con gli altri media e le arti, per contaminare l’architettura
14
[...].
In realtà l’architettura è sempre stata concepita come abitazione. Secondo Derrida, una
simile interpretazione sottomette l’arte del costruire ad un valore che può essere opinabile.
Per questo il filosofo tenta di contestare questi assunti, domandandosi dove potrebbe
portare un’architettura che non fosse semplicemente subordinata a questi valori di abitare
e alloggiare. Architetti decostruttivisti, come Eisenman e Tshumi, hanno mostrato che ciò è
possibile; possibile non come fatto, come semplice dimostrazione, poiché è ovvio che la
loro architettura è ancora fatta per alloggiare dare riparo. Da questo punto di vista,
secondo Derrida, ciò che offre l’esperienza architettonica è precisamente l’occasione di
sperimentare la possibilità di queste invenzioni di una diversa architettura.
Gli assunti appena espressi sono fondamentali per capire alcune posizioni estreme
della Cyber-architettura. Non a caso, Eisenman - a cui Derrida pensa nei passi appena
citati - è stato uno degli ispiratori di alcuni progettisti che verranno analizzati nel capitolo
secondo. In questi casi, l’aspetto funzionale diviene secondario e, talvolta, tende
13
14
C. Norris, Intervista con Jacques Derrida, in «Architecture Design», n. 1/2, 1989, p. 9.
Ivi, p. 8.
addirittura a scomparire. La corrente più astratta della Cyber-architettura - quella rivolta
alla creazione di spazi della percezione destinati a vivere esclusivamente nella memoria
virtuale di un computer - traggono la loro ispirazione da questa provocazione derridiana
della perdita di funzionalità. Se Derrida dimostra la necessità di uno svincolamento tra
architettura e funzione di abitare, diviene lecito pensare all’architettura come puro spazio
di percezione, operazione che molti architetti Cyber affrontano. Personalmente riteniamo
che le due cose debbano essere ben distinte. L’architettura è - come sottolinea Aldo Loris
Rossi - esclusivamente spazio del vissuto. Il resto appartiene ad altro tipo di esperienza,
altrettanto importante ma distinto. È, però, importantissimo ai fini teorici stabilire una
comunanza tra le tendenze della pura virtualità e quelle dell’architettura costruita.
Entrambe le tendenze sono figlie di una stessa madre, presentano caratteri comuni e le
modalità di progettazione presentano numerosi punti di contatto. Differenti, semmai, sono
gli obiettivi e le risposte che intendono dare.
È fondamentale l’aver trovato nella decostruzione un momento di ispirazione dal punto
di vista della perdita della funzione dell’abitare. Così, le eredità che la Cyber-architettura
ha derivato da questo movimento sono di una duplice natura. Da una parte troviamo l’uso
di geometrie non convenzionali, la rottura dei sistemi figurativi precedenti, la necessità di
ampliare il concetto di forma - tutti aspetti potenziati dalle esperienze sulle geometrie
cristallografiche, analizzate nell’introduzione di questo scritto -, dall’altra parte esiste lo
scollamento del binomio architettura/funzione abitativa che da sempre ha caratterizzato la
progettazione.
Una domanda importante riguarda il fatto se possa esistere un architetto
decostruttivista. Si può dire che esistono disegni, dipinti e sculture basate sulla
decostruzione? Lo stesso Derrida sostiene che il pensiero architettonico Decostruttivista è
irrazionale. Riferendosi ai progetti di Bernard Tshumi per il Parc de la Villette di Parigi del
1985 (Fig. 7), Derrida si è staccato dalle basi della decostruzione mettendo in risalto il fatto
che, nonostante l’apparenza, la decostruzione non è una metafora architettonica, come
non è semplicemente un problema di demolizione, ma un atteggiamento affermativo,
positivo. Secondo Derrida, nella tradizione, il modo in cui l’architettura, l’habitat, lo spazio
visibile, viene compreso dal pensiero filosofico e architettonico è l’evidenza del pensiero
logocentrico. Tuttavia, il Logocentrismo, che può condurre alla decostruzione attraverso la
riarticolazione Metafisica, si incentra sull’architettura, seppur trascendendone le etichette.
Il pensiero architettonico
[...] può essere considerato decostruzionista solo nel seguente significato: come tentativo di
15
visualizzazione di ciò che stabilisce l’autorità che unisce architettura e filosofia.
L’idea che può essere sviluppata da questa partenza la si potrebbe definire come transarchitettura, un termine di origine derridiana che tuttavia vedremo usato anche in alcune
sperimentazioni legate alla cultura Cyber 16. L’idea di un’architettura avulsa dalla funzione
la si può osservare nelle “folies” che coprono il Parc de la Villette. Derrida ritiene che sia
necessario abbandonare le nozioni architettoniche post-moderniste a favore di un’idea
“Post-Umanista”, caratterizzata dalla dispersione del soggetto dal decentramento.
Nell’estate del 1988 Philip Johnson e Mark Wigley allestiscono una mostra al Museum
of Modern Art di New York intitolata Deconstructivism. Viene messo a confronto il lavoro di
sette architetti: Frank O. Gehry, Daniel Libeskind, Rem Koolhaas, Peter Eisenman, Zaha
Hadid, Coop Himmelb(l)au e Bernard Tshumi. Si tratta in realtà di una curiosa intersezione
di esperienze diverse. Ma tutti i lavori sono legati da alcune costanti che sono da
15
16
G. Broadbend, Deconstruction a Student Guide, Editor J. Glusberg Publisherl, Andrea Papadakis, New York, 1991, p. 8.
Cfr. con l’opera di Karl Chu, Cap. 2.
individuarsi nelle idee di dislocazione, deviazione, distorsione, dalla tensione verso
l’inesplorato potenziale della modernità.
La critica ha sempre riconosciuto una grande eredità di questo movimento tratta dal
Costruttivismo russo degli anni venti. I punti di riferimento sono personalità fondamentali
quali Iran Leonidov, Iakov Chernikov, Alexander Radichenco e altri ancora. Alcuni studiosi
tracciano questi paralleli citando l’interesse dei decostruttivisti per gli aspetti “macchinistici”
e sculturali dei precedenti sovietici. Persona lmente non abbiamo mai condiviso questa
visione, proprio perché l’aspetto più interessante della vicenda decostruttivista è legata
non tanto alle visioni scultoree degli oggetti macchina (certo presenti, ma di minor impatto
innovativo), bensì alla rivoluzione di carattere spaziale. Il legame che ritroviamo più
aderente ad una verità storica riguarda lo spazio Suprematista. Il campo Suprematista è
uno spazio di collisione e di eventi, piuttosto che di oggetti. Qualunque opera Suprematista
è senza scala e senza misura. La sua diversità, in relazione alla solidarietà tattile e agli
oggetti meccanicamente interconnessi dal Modernismo, offre un paradigma di un universo
spazio/tempo che si può definire, col senno di poi, Decostruttivista.
Una delle figure centrali della decostruzione è certamente Peter Eisenman, la cui
posizione è assolutamente anomala rispetto agli altri autori selezionati nella mostra. Il suo
apporto è contemporaneamente progettuale e metodologico, capace di creare dei veri e
propri rinnovamenti di metodo. La decostruzione, dice Eisenman, è ingannevole,
speculativa, cerca l’insieme, il brutto nel bello, l’irrazionale nel razionale per svelare il
represso, il reale nascosto, intaccare la testualità e rimuovere il sistema. Proprio per
questa sua filosofia, Eisenman vede i suoi progetti decostruttivisti emergere in progetti che
contrastano con l’insieme creando un’architettura per un uomo alienato, proprio come
Edward Munch aveva fatto in pittura. Eisenman afferma che gli architetti che frantumano,
come Gehry e SITE, non stanno realmente decostruendo. Essi sono semplicemente
illustrativi e non attaccano il sistema dell’architettura nel complesso. Il passo è
fondamentale. Ritornerà spesso in questo scritto l’idea del rinnovamento del metodo,
aspetto che vede Eisenman come figura di primissimo piano, anche se, sempre, ambigua.
Sulla stessa linea è anche Tshumi il quale affronta il problema della creazione in
architettura come problema di destabilizzazione dei processi creativi. Per lui l’architettura è
sempre transitoria. I nuovi concetti di spazio e di tempo hanno trasformato le nozioni della
stabilità edilizia. Il suo scopo è disfare le icone e le idee di città, da tempo radicate, per
mostrare il disfacimento della metropoli, non più basata su uno sviluppo organico o
quantomeno prevedibile, ma cresciuta per frammenti e crisi.
La mostra dell’88 è certamente un punto fondamentale per la promozione della
decostruzione, ma essa sancisce, più che altro, uno spirito che era iniziato almeno da un
decennio. Il caso certamente più emblematico è Gehry House a Santa Monica del 1979
(Fig. 8). Qui, la poetica cambia radicalmente in funzione di una logica più vicina al
Dadaismo che agli assunti del Movimento Moderno. È condivisibile l’opinione di numerosi
critici che leggono in quest’opera un vero atto di rivoluzione del discorso compositivo. Non
siamo ancora di fronte ad un ragionamento di carattere spaziale, bensì ad una riflessione
sui principi compositivi dell’architettura basati, da allora in poi, sulla poetica del frammento
e sulla perdita di unitarietà. Il precedente più diretto è, sempre in Gehry, il progetto non
realizzato di Casa Wagner e Casa Familian entrambe del ’78 (Figg. 9 e 10). L’idea di
frantumazione, nel primo Gehry17, è plurima. Ovvero, non si esaurisce in queste
componenti. Come dimostra la Wilton House (Fig. 11) del 1983-’87, il metodo
17
Questa dicitura è di fatto impropria. Frank O. Gehry, prima di questi eventi, aveva un nutrito curriculum professionale nel quale
nulla emergeva della futura sperimentazione sulla forma. Parliamo pertanto di “prima stagione creativa” in rif erimento a quel periodo nel
quale egli iniziò a divenire un innovatore della forma e della metodologia di progetto i architettura, approssimativamente tra gli anni 1978
e il 1989, data quest’ultima di completamento del Vitra Museum a Weil am Rhein.
decostruttivista di Gehry consiste nel ridurre in frantumi un edificio esistente e lasciare gli
elementi del suo lavoro incompiuti.
La dialettica di Gehry, come quella di Eisenman, è una forma di anticlassicismo. Questo
ci porta a un punto cruciale e cioè ad una probabile ipocrisia nascosta nella decostruzione:
essa dipende sempre, per il suo significato, da ciò che è costruito precedentemente. Pone
sempre un’ortodossia che sovverte , un passato da infrangere. Questa ipotesi è
certamente vera, ma in un aspetto fondamentale i decostruttivisti hanno portato
un’innovazione centrale: nell’idea di spazio. Esso è innovativo, offre l’immagine del caos e
della frantumazione della percezione. I luoghi dell’abitare sono disseminati, privi di un
centro, esplosi in modo da creare un’idea di geometria non riconducibile ad alcun
elemento precostituito.
Se analizziamo le diverse poetiche degli autori citati in precedenza nell’ambito della
decostruzione notiamo come esista una sostanziale differenza di concezioni, poetiche e
metodologie di generazione dell’organismo architettonico. Al contrario di Gehry, Zaha
Hadid sembra concepire un’operazione basata essenzialmente sul dinamismo. Fin dal
Peak di Hong Kong, l’idea è espressa in una serie di dipinti dinamici che sembrano esplosi
in livelli frantumati. Il progetto è basato su differenti strati che interpretano in modo molto
corretto la complessità di una città come Hong Kong. Il Peak Club è un “grattacielo
orizzontale” la cui struttura consiste in una sovrapposizione di tre travi lineari collocate ad
estremità differenti in modo da creare vuoti e spazi nel mezzo. Ad ognuna di esse è
affidata una funzione. La prima consiste in una serie di dodici studi a doppia altezza
ricavati dal pendio. La seconda trave appoggia sulla prima ed è composta da venti
appartamenti adibiti ad albergo. Il club stesso è collocato nel vuoto tra il tetto dell’hotel. La
terza trave sospesa ad angolo sopra di esso è infine concepita come appartamenti di
lusso. Il sistema di spazio si libra come un’astronave. Qui, la stratificazione comune a tutte
le anime della decostruzione viene usata come congegno antigravitazionale.
La dinamica, che è stata una costante di tutta la storia dell’architettura del Novecento,
diviene qui più radicale. In effetti, se in passato il movimento veniva alluso con elementi
linguistici che tendevano a sottolineare l’idea di linearità e di movimento, nella Hadid il
discorso si sposta a livello spaziale. È come se l’intera architettura venisse deformata per
soddisfare un’idea di spazio rivolto al movimento. Lo spazio accompagna il fruitore nel
movimento interno e tutta l’organismo edilizio sottolinea e guida una direzionalità.
L’opera di Zaha Hadid, in più, esprime la continuazione del Modernismo come
estrazione distorta. Il suo progetto per Kurfustendamm 70 (poi vinto da Helmuth Jahn),
riguardante un edificio per uffici a Berlino, è una lastra piegata, distorta, che si deforma
sull’angolo che deve completare imponendo dinamiche violente. Il progetto è composto da
mura boomerang e da pilastri inclinati, gli usuali cocktail sticks, il muro trasparente non
portante offre un rivestimento sottilmente incurvato che si inclina mentre sale. E la
sequenza dello spazio è contrassegnata da cunei stratificati e da travi a mensola. Qui, la
ricchezza di espressione dinamica è ottenuta distorcendo un blocco tipicamente Moderno.
Hadid propone, quindi, rotture epistemologiche che vanno ben al di là di un semplice
riferimento a movimenti d’avanguardia del passato. Ella
[...] preleva dai contesti linguistici originari parti, brani, frammenti, spogliandoli del significato che gli
stessi detenevano. Attraverso un’azione dirompente, li manipola con forza, li riplasma, trasformandoli
in altro. Dopo tale lavoro di smontaggio, si dedica a un assemblaggio, dove ogni «pezzo»,
recuperando un’indiscutibile intensità espressiva, torna a caricarsi di una significatività forte e
18
inedita.
18
Cesare De Sessa, Zaha Hadid. Eleganze dissonanti , Testo & Immagine, Torino, 1996, p. 11.
Hadid, in sostanza, opera essenzialmente sulla différence, sulla distanza che esiste tra
norma e realtà, sulla capacità innovativa di ogni singolo elemento di un sistema complesso
che si inserisce in altri sistemi complessi. A partire dal bar Moonsoon a Sapporo in
Giappone del 1990, Hadid vara una metodologia che rimarrà inalterata per tutta la sua
produzione, fino alle opere contemporanee. Il metodo di progettazione tende a esaltare e
drammatizzare la fluidificazione spaziale dell’invaso 19. Gli impianti planimetrici e gli alzati
sono
[...] come confusi, amalgamati l’uno con gli altri, innestati reciprocamente per dare vita a uno
20
spazio molteplice, «non rappresentabile», ma da fruire.
Gli aspetti legati all’opera della Hadid sono davvero molteplici, ma se volessimo
schematizzare le caratteristiche principali del suo pensiero potremmo dire che l’idea
centrale consiste in una sorta di conformazione spaziale sintetica. Con questa
affermazione intendiamo dire che, sempre, il suo disegno tende a creare un’architettura
dalla grande riconoscibilità, elementi fortemente identificabili e basati su una sintesi
formale all’interno di una complessità spaziale di grande intensità. Naturalmente,
nell’economia di questa tesi, interessano particolarmente le questioni legate allo spazio.
Hadid, ha un procedimento del tutto personale che la rende molto diversa dalla maggior
parte degli altri protagonisti. La forma generale dell’architettura è distorta a formare uno
spazio fortemente caratterizzato e direttamente derivato da tale articolazione volumetrica.
Se Gehry, ad esempio, tende ad un accartocciamento delle masse murarie che divengono
fogli leggerissimi poi arricciati, e lo spazio è illeggibile in forma razionale e non collegabile
a tale articolazione delle masse, la Hadid attua una sintesi molto forte tra tettonica e
spazio (Figg. 12, 13 e 14). In altre parole, Hadid crea uno spazio a partire dalla massa
dell’architettura. Poi tale spazio è prevalentemente rivolto alla fluidità, alla dinamica
suggerita e allusa.
Abbiamo deciso fin’ora di delineare i temi della decostruzione in architettura citando
solamente due autori particolarmente emblematici: Gehry e Hadid. In realtà, questo
movimento ha prodotto una numerosissima serie di contributi, alcuni particolarmente
originali ed interessanti e fondamentali per la nostra riflessione sullo spazio. Tuttavia,
l’approfondimento e la descrizione di altre opere nulla apporterebbe di nuovo al discorso di
carattere generale sullo spazio.
Come dimostrano i progetti sopra riportati, l’idea di spazio decostruttivista non
rispecchia uno spazio euclideo. Non descrive, più in generale, uno stato di ordine. Esiste
allora una duplice motivazione nella visione di uno spazio decostruito. Da una parte esso è
espressione di uno stato di inquietudine rivolto alla rappresentazione irrazionale, mentre
dall’altro esiste una volontà di delineare alcuni caratteri della contemporaneità.
Il primo aspetto è legato ad un cambiamento culturale, già posto in atto dalle ricerche
geometriche degli anni cinquanta e sessanta. La necessità era quella di indagare le nuove
possibilità dell’abitare connesse con le problematiche spaziali. La decostruzione ha offerto
un rinnovamento dei parametri spaziali partendo da una nuova cultura figurativa, non più
basata su solidi platonici o cristallografici ma sull’informale e sul caos. Il senso derivava
dalla consapevolezza della contaminazione, della perdita di senso di un pensiero forte e
logocentrico. Gli effetti erano sostenuti non tanto dall’arbitrio, bensì dalla volontà di
raggiungere una destabilizzazione assai poco rassicurante ma rispondente ad una nuova
filosofia di interpretazione della contemporaneità. La città post-moderna è il risultato di una
disintegrazione del concetto Moderno di pianificazione e l’effetto principale è una
distruzione del vecchio ordine.
19
20
Ivi, p. 14.
Ibid.
Il secondo motivo, più sotterraneo e meno esplicito nel campo della critica architettonica
è di carattere psicoanalitico. L’architettura decostruttivista è, altresì, uno specchio
dell’attuale crisi di identità, venutasi a creare con i rinnovamenti in ambito sociale. In tal
modo la creazione di uno spazio del vissuto manifesta alcune aberrazioni ed insicurezze
del sentire sociale.
Tale questione non deve apparire fuori luogo. Nella trattazione sulla cultura Cyber è
evidente come vi sia una stretta interconnessione tra aspetti legati alla sociologia e alla
progettazione degli spazi. Questo legame, già tradizionalmente stretto, è in questo caso
particolarmente evidente. Nel capitolo 2.1. risulterà evidente come la caratteristica
principale della Cyber-cultura sia la smaterializzazione. Questo effetto è presente nella
generazione degli spazi della percezione perché fa parte del vissuto contemporaneo. La
società attuale sposta progressivamente alcune modalità del vissuto dalla realtà fisica a
quella immateriale della virtualità. È, per così dire, una sorta di degenerazione della
presenza dei media nel vissuto quotidiano. Internet, la rete Web e l’uso del computer
hanno progressivamente abituato le persone ad accettare una sorta di esistenza parallela,
la prima fatta di materia, la seconda - davvero molto importante - fatta di virtualità.
Ma per poter capire questo mondo, attualmente in essere, occorre comprendere come
la decostruzione abbia sancito un rinnovamento sostanziale nei confronti del rapporto con
il reale. La deformazione delle geometrie è lo specchio della perdita di identità e del
desiderio di indagare forme del vissuto profondamente differenti alla tradizione.
1.2. Figure di passaggio dalla decostruzione verso la Cyber-architettura
La Cyber-cultura ha dato corso esattamente a quelle prefigurazioni di rinnovamento che
la decostruzione aveva delineato. La decostruzione è stata, altresì, un movimento
apocalittico capace di evidenziare le contraddizioni interne del precedente sistema e,
attraverso un procedimento interpretativo, di demolirlo. Quanto ne è uscito è una nuova
idea di società, basata su nuovi paradigmi, profondamente differente da quella attaccata.
Ogni momento di crisi pone in evidenza disparità esistenti tra reale e modalità
interpretative di questo status. La Cyber-cultura (analizzata in dettaglio nel prossimo
capitolo) non è stata la risposta alla crisi. Rappresenta, semmai, un nuovo assetto nato da
due rivoluzioni contemporaneamente in atto. La prima è stata determinata dal
cambiamento post-moderno, la seconda dalla rivoluzione informatica.
In questo quadro generale, è possibile dire che esistono nel panorama architettonico
internazionale alcuni autori che più di altri hanno intuito il cambiamento in atto. Non stiamo
parlando di architetti facenti parte di una o di un’altra corrente. Sono, semmai, personalità
che hanno capito le ragioni profonde di un nuovo assetto e in alcune opere hanno
manifestato con chiarezza questa posizione. In particolare, abbiamo trovato che Peter
Eisenman e Toyo Ito abbiano creato alcuni lavori particolarmente importanti per
sottolineare il cambiamento dalla decostruzione alla Cyber-cultura. Anche se in tutto lo
scritto abbiamo utilizzato l’escamotage di collocare i diversi autori in determinate correnti
di architettura per una maggiore comodità critica, in questo caso non lo faremo poiché
risulterebbe inesatto. In verità, il passaggio dalla decostruzione alla Cyber- cultura, non è
particolarmente chiaro. Non esiste nessun atto d’intenti, né alcuna opera emblematica che
costituisca una dichiarazione a tale riguardo. Tutt’al più, possiamo individuare alcuni lavori
nei quali è possibile cogliere temi maturi della decostruzione ma che, in qualche modo,
fanno uso di processi informatici.
Un primo ed essenziale riferimento è Toyo Ito. La vasta opera del maestro giapponese
non è da prendere in considerazione in questo caso. Né è possibile parlare di Ito come di
un autore appartenente alla decostruzione. Esistono, tuttavia, tre la vori assai importanti
nella sua produzione. Questi hanno la caratteristica di essere emblematici di un
cambiamento di fase. Nella mostra Visions of Japan al Victoria and Albert Museum di
Londra (Fig. 15), una ricchissima serie di immagini di Tokyo erano proiettate su pareti,
pavimento e soffitto, creando un grande caos visivo. Diversi amplificatori diffondevano a
gran volume i rumori della città. L’ambiente era confuso ed evanescente ma molto
esplicito della visione di Ito sulla realtà contemporanea. Il risultato, oggi, ci appare forse
scontato, ma nel 1991 (anno di realizzazione del progetto) certamente non lo era. La
sovrapposizione delle immagini non consente la loro piena registrazione da parte del
fruitore che, come consegue nza, non ha la facoltà di comprenderle. Questo fa sì che
l’immagine venga svuotata di ogni significato, bloccata in uno stadio che ha raggiunto i
sensi ma non si è focalizzata nell’intelletto. Le immagini sono flussi di informazioni che
attraversano la realtà senza colpirla. Esse sono illusorie e prive di significato. Quello che
sono in grado di comunicare è un senso generalizzato di caos e immaterialità. Anche
l’Uovo dei venti è collocabile nella medesima direzione (Fig. 16). Si tratta di
un’installazione costituita da una grande scultura-caleidoscopio rivestita di panne lli di
alluminio traforato. Al di fuori, una serie di immagini erano proiettate sulla scocca, mentre
dall’interno alcuni schermi mostravano immagini di varia natura. Il gioco di sovrapposizioni
era metafora, di nuovo, della compresenza delle informazioni che il quotidiano impone.
L’elettronica è, per Ito, come un mare, come le onde, come un soffio vitale. Lo spazio deve
riflettere l’idea della vita, e oggi essa è dominata dai flussi di dati. Questa è l’idea
fondamentale che ritroviamo anche in un’opera del 1986, la Torre dei venti. Questa
costruzione ovoidale costruita per Yokohama assume una forma fluida. L’involucro è in
grado di assumere aspetti differenti a seconda delle sollecitazioni sonore che registra al
suo intorno. Non siamo più nelle condizioni nelle quali la forma di un oggetto era
determinata dalla funzione o dal meccanismo interno. Ora l’involucro è indipendente e
diventano irriconoscibili i processi di funzionamento. Questo determina una progressiva
evanescenza della forma che, concettualmente, diviene indifferente. Ito interpreta queste
qualità con la trasparenza. Sia l’Uovo dei venti che la Torre dei venti sono schermi che
agiscono sulle sovrapposizioni di immagine, sulle alterazioni dei significati ultimi. Il valore
della parte è ridotto a nulla e persino il senso collettivo non si manifesta dalla somma.
L’uovo e la torre non sono più oggetti ma supporti, medium dai quali si diffondono le
informazioni.
Allora, l’immaterialità delle immagini, ipertroficamente ripetute sulle pareti della mostra
Visions of Japan o l’Uovo dei venti, o, ancora, la Torre dei venti, rappresentano nel loro
complesso, l’atto di nascita della cultura dell’immaterialità. Il messaggio chiarissimo che Ito
aveva offerto era quella di una società basata sulla sovrapposizione e sul caos, sulla
ripetizione incontrollata di messaggi che, in virtù della loro ridondanza, divenivano insignificanti. Il vero momento di grande novità riguarda il fatto che tale caos era espresso
non tanto da una grammatica architettonica, da un edificio, bensì da una selva di immagini
elettroniche. In questo notiamo il punto di contatto tra decostruzione e virtualità:
l’espressione attraverso il caos di un mondo di pure immagini. Le immagini generavano un
comportamento spaziale, con le medesime modalità che la cultura Cyber utilizza.
Peter Eisenman è una figura che accompagnerà tutto questo lavoro. Egli cavalca i
movimenti, talvolta li crea e ne diviene uno degli esponenti di punta. Ma sempre esiste il
problema di una sorta di estrema astrattezza delle sue composizioni che rischiano di
essere lavori programmatici e manifesti teorici di una posizione militante di una
determinata corrente.
Nessun architetto è più legato alla fede dello scetticismo dogmatico, all’importanza dei
divari e delle contraddizioni come Peter Eisenman. Nel 1978 egli è diventato un
decostruzionista, e nello stesso tempo si è sottoposto alla psicanalisi. I suoi scritti e i suoi
edifici contengono un’energia frenetica e sono costruttivamente fusi come se ciò potesse
produrre una breccia, una nuova non-architettura che è in parte costruzione, scrittura e
modello. Paradossalmente la sua estetica è rimasta la stessa della sua prima casa,
sebbene nuove tipologie siano state aggiunte al suo repertorio. Nella sua fase
decostruttivista, dall’epoca dei Five Architects non molto è cambiato. È presente una
pressoché totale assenza di decorazione, gli elementi linguistici sono basati su un
razionalismo de-strutturato e riassemblato in modo assai diverso, esiste sempre
un’immagine purista dell’architettura, negata esclusivamente dalla creazione di spazi
compenetrati e da una perdita della costruzione illuminista dell’architettura in funzione di
una negazione della razionalità compositiva. I suoi primi progetti, le House 1 e 2,
continuano anche la sintesi Modernità di Le Corbusier e Terragni, autore quest’ultimo di
grande importanza teorica per Eisenman. La House 3 e 6 erano un tardo esercizio,
esempi semplificati di un “puro formalismo”, influenzate da quello strutturalismo che, nel
capitolo precedente è stato accennato, e dal Minimalismo di Donald Judd. Il ciclo è
concluso dalla House 10 del 1978, l’ultimo lavoro formalista e, contemporaneamente il
primo esempio di decostruzione in Eisenman. Come sempre avviene, in Eisenman il
processo di concezione dell’edificio è estremamente complesso (o meglio complicato).
L’edificio è stato progettato sottraendo alcuni elementi con una serie di processi meccanici
che hanno distrutto il centro della casa. Così, Eisenman attua il concetto di decentramento
tipico della decostruzione. L’uso di una scala antropomorfica (scalatura dimensionale), i
materiali usati in modo ribaltato (come il caso del vetro utilizzato come pavimento) sono
tutti mezzi per attuare un processo anamorfico, un vero e proprio attacco alla
rappresentazione motivato dalla necessità di distanziarsi dalle tendenze umanistiche e
classiche.
Desideriamo evitare una descrizione dei tortuosi processi mentali che portano
Eisenman a comporre architettura, riservandoci un approfondimento nei capitoli
successivi. È fondamentale, tuttavia, indagare almeno un progetto, particolarmente
significativo per il processo compositivo di Eisenman: l’IBA di Berlino (Fig. 17). Questo
edificio, collocato vicino al Checkpoint Charlie, è un emblema del trauma attraversato dalla
città tedesca nei precedenti quarant’anni. Eisenman ha avuto l’opportunità di
rappresentare catastrofi e discontinuità del passato e del presente. Il primo progetto
(1982), postula il nuovo sviluppo con aggiunte ed eliminazioni, ma la versione realizzata è
una soluzione ridotta rispetto alla prima ipotesi. Infatti, solo trentasette unità di
appartamenti furono costruite dall’angolo nord occidentale. Con questo progetto egli aveva
intenzione di fornire un’alternativa allo storicismo Post-moderno, basandosi su una
composizione che sfruttasse in modo alternativo la stratificazione storica. Se in
quest’ultimo movimento, l’idea storia era fornita come collage ironico di stilemi del passato,
nell’operazione di Eisenman il trascorso diviene uno strumento per intessere maglie,
griglie dimenticate e riarticolate in un sistema complesso e sovrapposto. Il Post-modern è
respinto come tentativo di imbalsamare il tempo oppure di invertirlo con una forma di
nostalgia. Eisenman propone un’antimemoria neutralizzante.
Il problema, sia in questo progetto che in tutti i lavori di Eisenman, è che nessuno
sarebbe in grado di comprendere tutti i significati che l’autore stratifica senza leggere le
note accluse. Molte cose vengono intenzionalmente tenute all’oscuro, lasciate astratte
senza spunti o convenzioni visive. Questa difficoltà a comprendere è una parte essenziale
della sua teoria della totalità e non tiene conto che gli abitanti potrebbero fraintendere
l’edificio se solo lo guardassero o lo vivessero. La forma ad “L” dell’edificio berlinese, ad
esempio, si sovrappone e si deforma in funzione delle griglie scaturite dalle stratificazioni
storiche dell’intera città attraverso un processo che, sebbene diverso, ha utilizzato anche
Libeskind nella creazione della conformazione del Museo Ebraico per la stessa città. Le
griglie si sommano, entrano in crisi per poi annullare ogni identità e riconoscibilità
figurativa. L’edificio, inclinato, in grate frammentate verdi, griglie rosse e grigie, offre una
sorta di identità singolare ad ogni appartamento. Essendovi una negazione totale di ogni
forma di ritmo alterato da una specie di rumore di fondo che impedisce ogni affermazione
di natura ordinatrice, Eisenman compone un’architettura fatta di volumi, linee e grate
colorate che complessificano l’unitarietà di un blocco unitario. L’armonia che viene
contestata è esattamente ciò che l’architetto tenta di decostruire nella sua ricerca di un
anticlassicismo.
In Eisenman il problema della creazione è determinante a tal punto da prevalere
sull’opera realizzata. È possibile dire che il processo creativo di Eisenman si esaurisce con
la generazione di un metodo convincente al raggiungimento di un fine. L’architettura è una
conseguenza di quell’atto e come tale è un avvenimento occasionale che non ha,
pertanto, grande importanza. In questo paragrafo la nostra attenzione si concentra su
quegli autori che, più di altri, sono stati un tramite tra due momenti differenti nella cultura
architettonica contemporanea. Abbiamo inteso sottolineare quali fossero i legami più
profondi tra la decostruzione e la successiva Cyber-architettura. A partire dalle questioni
legate alle metodologie, alle filosofie soggiacenti i diversi movimenti, alle tematiche sociali,
al rinnovamento del concetto di geometria e, ancor di più, di spazio, esistono alcuni
progettisti che sono stati un tramite molto forte tra decostruzione ed epoca Cyber. Ogni
legame sottolineato nel Cap. 1.1. si ritrova in modo molto evidente in Peter Eisenman. In
altre parole questo significa che Eisenman incarna tutti gli aspetti sia della decostruzione
che della Cyber-architettura. Resta da vedere se questo avviene per una sua capacità
camaleontica, oppure perché questi movimenti lo trovano come protagonista attivo capace
di personalizzare le tendenze più in voga dell’architettura.
Il primo progetto che Eisenman realizza con il computer è nel 1987: il Carnegie-Mellon
Research Center di Pittsburgh21. Il progetto è largamente immaturo dal punto di vista
dell’uso dell’elaboratore elettronico nel processo creativo. È interessante capire come qui
si sia determinato un cambiamento. Eisenman non ha mai abbandonato i processi
decostruttivi nella creazione di un metodo progettuale e nella conseguente realizzazione di
un’opera. Con il Carnegie-Mellon Research Center questo viene ad essere affiancato ad
una procedura di nuovo tipo. Indagando le diverse personalità dell’architettura
decostruttivista, riteniamo che solamente due possano essere gli autori che possono
costituire un tramite tra i due movimenti: Frank O. Gehry e Peter Eisenman. Come
conclusione di questo paragrafo occorre dire che non è sufficiente utilizzare lo strumento
informatico per essere propositivi nell’ambito della Cyber-architettura. I parametri di questo
movimento hanno caratteristiche molto particolari che lo distinguono da tutto ciò che lo
precede. Così, figure quali Zaha Hadid o Daniel Libeskind, pur avendo fornito contributi
essenziali allo spirito della decostruzione internazionale, non hanno dato alcun contributo
innovativo nella creazione di spazi attraverso l’uso del computer. Il problema sostanziale è
esattamente questo. Non è tanto la creazione di spazi non-euclidei con il computer che
determina l’appartenenza di un autore alla corrente Cyber. Il problema è più profondo. Il
computer è e rimane, in ogni caso, uno strumento oggi indispensabile per realizzare un
certo tipo di sperimentazioni sulla forma e sullo spazio. Ma è la modalità di approccio al
problema che rende diversi gli autori. La logica Cyber, in sintesi, fa in modo di creare una
certa confusione tra realtà ed virtualità. In questi casi (certo estremi) la cultura Cyber è
chiara. Hadid o Libeskind, pur dovendo utilizzare il computer per il normale lavoro
professionale non hanno dato alcun apporto innovativo nella creazione di spazio noneuclideo. Essi continuano a creare organismi con procedimenti assolutamente simili a
quelli usati precedentemente. Per costoro, il computer non è uno strumento senza il quale
l’architettura non potrebbe venir concepita.
21
Cfr. Cap. 3.4. di questo scritto.
Il discorso è diverso per Gehry ed Eisenman. Rimandando gli approfondimenti ai
successivi capitoli 22 relativamente alle procedure operative della fase creativa, occorre dire
che per questi due maestri il problema della creazione di spazi con il computer ha una
valenza sostanzialmente nuova. È il processo che risulta rinnovato e non solamente il lato
rappresentativo. Il fare architettura è generato con l’elaboratore che lavora insieme
all’architetto. Questo avviene, secondo le nostre ricerche, in tre modalità differenti. Un
primo gruppo di architetti possono essere assimilati a degli scultori che, con l’uso
dell’elaboratore, trasferiscono e completano la conformazione dell’edificio nell’ambiente
virtuale. L’aspetto innovativo risulta dall’interazione tra la fase fisica e quella elettronica. In
questo caso, però, occorre distinguere tra quegli autori che, come Gehry, hanno apportato
un metodo di composizione che è esattamente a metà tra un processo fisico ed uno
elettronico, e altri architetti che, al contrario, utilizzano lo strumento come semplice metodo
di gestione degli aspetti realizzativi. Nei primi, la fase informatica è strettamente
compenetrata con quella fisica, mentre per i secondi esiste una grande differenza e la
digitalizzazione nulla aggiunge ad un processo che potrebbe tranquillamente avvenire
senza l’ausilio di software.
Il secondo gruppo di autori possiede una specificità molto maggiore. Essi creano spazi
non-euclidei solamente con l’elaboratore. Il processo di formazione dell’idea non avviene
senza di esso. Esistono, in più, alcuni caratteri che rendono questa progettazione
decisamente particolare. Il secondo gruppo di autori si inserisce con maggior precisione
nella Cyber-architettura. Qui, i progettisti tendono a confondere, volontariamente, la realtà
e la virtualità. In questi casi, i progetti hanno sempre una valenza astratta che tende a
dimenticare gli spetti fruitivi in funzione di quelli visivi. Non per questo tale progettazione
deve essere considerata priva di contatti con il reale.
L’ultimo esempio di progettazione con l’elaboratore ci riporta a Peter Eisenman. Egli
instaura una sorta di progettazione automatica nella quale il ruolo dell’architetto è, se non
secondario, subordinato ad alcune decisioni della macchina.
Queste tre tendenze sono sempre rivolte verso la creazione di uno spazio non-euclideo,
verso uno spazio che non è compiutamente comprensibile e, soprattutto, gestibile senza
l’ausilio del computer. Tutto questo nasce dalla decostruzione come momento conclusivo
di una lunga serie di sperimentazioni geometriche nate dal rifiuto delle configurazioni
trilitiche tradizionali, ricercando una nuova modalità di rappresentazione dello spazio più
rispondente ad alcune inquietudini della contemporaneità.
22
Cfr. Cap. 3
Fig. 7: Bernard Tshumi, Parc de la Villette, Parigi 1985
Fig. 8: Frank O. Gehry, Gehry House, Santa Monica, 1979
Fig. 9: Frank O. Gehry, Casa Wagner, 1978
Fig. 10: Frank O. Gehry, Casa Familian, 1978
Fig. 11: Frank O. Gehry, Wilton House, 1983-’87
Fig. 12: Zaha Hadid, Landesgartenschau, Weil am Rhein, 1997-’99
Fig. 13: Zaha Hadid, Museo d’arte contemporanea, Roma, 1998-2005
Fig. 14: Zaha Hadid, Grande Biblioteque du Quebecl, Montreal, 2000 -
Fig. 15: Toyo Ito, Vision of Japan, Londra, 1991
Fig. 16: Toyo Ito, Uovo dei Venti, Tokyo, 1990-’91
Fig. 17: Peter Eisenman, IBA, Berlino, 1981-’85
Capitolo 2
La Cyber-architettura
2.1. Natura ed origini della cultura Cyber
L’analisi dell’architettura virtuale deve essere condotta attraverso parametri interpretativi
che si riallacciano alla Cyber-cultura. Senza questo strumento è impossibile capire alcuni
caratteri che distinguono la radicale novità dell’architettura virtuale dalla tradizione del
Movimento Moderno. Essa si pone come una frattura generata dalla tecnologia che ha
determinanti ripercussioni a livello sociale.
Il punto di svolta non è tanto l’invenzione o il perfezionamento delle tecnologie
informatiche, quanto la loro diffusione a scala globale, situazione che ha reso l’elaboratore
un nuovo sistema mass-mediologico.
In una conferenza svoltasi presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano 23,
Hani Rashid del gruppo Asymptote ha offerto una lettura estremamente feconda
dell’attuale produzione architettonica realizzata con il computer. Egli ha ricordato come
non sia stato ancora individuato con precisione un movimento che riunisca le attuali
proposte realizzate con l’ausilio del computer. Questo significa che, per Rashid, è
possibile individuare una serie di personalità dell’architettura contemporanea i cui tratti
comuni possono essere ascritti all’uso del computer nella progettazione. Egli, insieme ad
alcuni critici d’architettura della scuola americana, ha chiamato le sperimentazioni di Greg
Lynn/Form (Fig. 18), Reiser+Umemoto (Fig. 19), Neil M. Denari (Fig. 20) e altri ancora,
come Blob Architecture. Il termine, derivato da un cult-movie del 1958 dal titolo The Blob24,
è stato associato a tutta quella produzione artistico/architettonica che prefigura forme
avvolgenti e membranose. Questo riferimento è assai più importante di quanto non appaia
a prima vista, poiché sancisce l’ingresso nella produzione architettonica dei mass-media e
della cultura underground. È assai frequente trovare numerose contaminazioni nel campo
di ricerca che andiamo ad affrontare, tali da rendere sfumati i confini dell’ambito
architettonico.
Sarebbe infatti assai riduttivo pensare alla Blob Architecture [...] o ai recenti progetti di Peter
Eisenman e Frank Gehry come a un’espressione autonoma, prodotta unicamente da un rapporto
‘artistico’ e individuale con il progetto. Credo sia invece molto più importante mettere in luce la
capacità che ha avuto parte della cultura architettonica americana di riflettere su se stessa e sulle
ragioni del progetto contemporaneo generando alcune delle esperienze intellettuali e creative più
25
rilevanti di questa fine secolo.
23
Hani Rashid, Asymptote, conferenza presso la Sala Rogers, Facoltà di Architettura, Politecnico di Milano, 1 giugno 2001. La
registrazione della conferenza è in possesso dell’autore di questo scritto.
24
The Blob , Usa, 1958. Regia di Irvin S. Yeaworth jr. Titolo italiano: Fluido mortale.
25
Luca Molinari, Tendenze dell’architettura nordamericana. Gli anni Novanta, Skira, Milano, 2001, p. 186.
Riteniamo tuttavia imprecisa o quantomeno non completa la definizione di Blob
Architecture proposta dalla scuola critica americana, poiché non tiene nel giusto conto
alcune complessità ed eredità di questo genere di architettura. Dapprima un chiarimento
dal punto di vista critico/metodologico. È scorretto pensare che la grande massa di
produzione che abbiamo analizzato si possa racchiudere in un unico movimento
d’architettura. È pertanto impreciso tentare di definire regole chiare per delineare caratteri
universali dei diversi apporti. Anche dal punto di vista puramente formale le distanze sono
notevoli: le esperienze di Asymptote, Toyo Ito, Frank O. Gehry, o dei minori come Marcos
Novak, Leeser Architecture, Anton Markus Pasing ed altri, sono decisamente
inconfrontabili. Esiste, però, un comune denominatore che è l’utilizzo del computer nella
generazione dello spazio in architettura.
Nelle pagine precedenti ho individuato alcune direzioni principali che determinarono lo
sviluppo degli ambiti figurativi e delle tracce filosofiche delle attuali correnti che
personalmente definiamo come Cyber-architettura. Ebbene, è indispensabile
puntualizzare che l’unica, reale, forma di comunanza tra queste sperimentazioni è
esclusivamente l’utilizzo del computer come strumento di concezione dello spazio in
architettura.
Ma perché abbiamo imposto il termine Cyber-architettura in virtù di quello più
diffusamente accettato di Blob Architecture? Cyber è un termine di più ampio respiro che
coinvolge maggiori tematiche e variabili legate ad alcuni aspetti della cultura
contemporanea. La Cyber-architettura è esattamente questo, una frammentazione di
esperienze differenti senza confini di carattere metodologico o disciplinare. Per
comprendere meglio questo assunto occorre analizzare alcuni caratteri essenziali della
cultura Cyber e tentare, parallelamente, di riconoscerli in opere di architettura
particolarmente evocative. Una scelta che riteniamo opportuno svolgere, in questo
paragrafo, è affrontare la lettura di esempi minori di progettazione di spazi virtuali noneuclidei, rimandando al successivo opere di respiro maggiore. Il motivo è duplice. Esempi
di notevole spessore abbisognano di una lettura più dettagliata che appesantirebbero il
delineare le linee principali della cultura Cyber. L’altro aspetto è l’adesione alla teoria
critica di Heinrich Wölfflin il quale suggeriva il riconoscimento dei caratteri stilistici di
un’opera d’arte nella lettura dei dettagli più che nei temi principali 26.
Il termine Cyber deriva dal greco κυβερνητης che significa «pilota della nave». Dal
punto di vista strettamente tecnico la cibernetica, da cui deriva il termine “cyber”, è la
27
scienza che studia comparativamente o sinteticamente enti complessi capaci di autogoverno .
Interessante è l’estensione di questo termine, non esclusivamente riferito ad aspetti tecnici
o relativi al mondo informatico, ma anche ai sistemi creati per governare in ambito sociale
od economico. Pur partendo da discipline legate alle scienze umane, la cibernetica è per
noi importante poiché correlata, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, alle
sperimentazioni sui processi di autogoverno delle macchine belliche e, successivamente,
ai sistemi meccanici complessi. L’evoluzione del problema teorico venne sancito
dall’introduzione di sistemi di rilevamento capaci di fornire informazioni al sistema che,
conseguentemente, era in grado di reagire.
Per estensione, si può considerare la cibernetica come l’associazione di un sistema
matematico ad un sistema meccanico e, questi due, ad un problema fisiologico. In qualche
modo, fin dalle iniziali sperimentazioni sui cannoni di bombardamento (basati sui principi di
26
Heinrich Wölfflin, Kunstgeschichtliche Grundbegriffe, 1915, trad. it., Concetti fondamentali della storia dell’arte, TEA, 1994. A tale
riguardo vedasi anche Edgar Wind, Arte e anarchia, Adelphi, Milano, 1986, pp. 41 e sgg.
27
Voce «Cibernètica», Enciclopedia Multimediale Rizzoli Laorusse, RCS Libri, Milano, 2000.
estensione della percezione e di reazione delle macchine alla volontà dell’uomo), la
cibernetica si pone il problema di come
[...] organismi viventi o macchine trasmettono le informazioni necessarie al proprio funzionamento,
e della loro quantità. Successivamente il campo d’indagine si estese dalle informazioni agli effetti che
28
esse potevano produrre sul comportamento della macchina .
In queste ipotesi iniziali sono presenti una serie di implicazioni che non
abbandoneranno più la cibernetica come scienza, divenendo tratti comuni a tutta la cultura
Cyber contemporanea. L’autogoverno implica come corollario l’automatismo generativo di
informazioni, insieme all’autoregolazione di sistemi, e, per estensione al campo
dell’architettura, delle forme e, finalmente, dello spazio. Makoto Sei Watanabe29 ha
sviluppato tra il 1991 e il ‘96 un progetto di autogenerazione di insediamento urbano a
grande scala chiamato The Induction Cities (Fig. 21). Il senso di questo programma è il
ribaltamento consueto dei processi di disegno di piano urbano. Egli disegna un
“meccanismo” per generare i risultati. Il processo è, dunque, evolutivo, «design without
design». In qualche modo Watanabe propone un sistema di progettazione che non ha
come risultato un insediamento o un’architettura ma un sistema per il progetto.
This might otherwise be described as a higher-level approach to design, designing the system of
30
the process of design [...].
Il risultato è un meta-design possibile esclusivamente attraverso l’uso del computer che
travalica il significato di semplice strumento di progettazione. Esso diviene “attore”
principale della progettazione capace di influire sulle scelte finali. Quando una parte di
questa città virtuale è modificata, le relazioni tra tutti gli altri elementi sono alterati. Le
interrelazioni sono complesse ed intrecciate, dinamiche dipanabili esclusivamente con
l’utilizzo dell’elaboratore. Conclude Watanabe: questo progetto è un territorio
quadridimensionale di città virtuale. Il riferimento alla quarta dimensione non è casuale
poiché rispecchia un tipico approccio della produzione della cultura Cyber, ovvero la
perdita di dimensionalità del fattore tempo e la contemporaneità dell’evento. In questo
caso, quindi, il tentativo è quello di porre lo strumento informatico come autore della
progettazione, evidenziando l’aspetto di reazione automatica ad una serie di informazioni
in ingresso.
Un tema determinante riguarda il fatto che
in generale, e sia pure praticamente entro limiti determinati, la capacità di autogoverno può essere
attribuita a una macchina tutte le volte in cui sia possibile dotarla di organi rivelatori, che raccolgono
informazioni sullo stato del sistema e sulla sua evoluzione nel tempo, e di altri organi che siano capaci
di comandare, in base alle informazioni ricevute, la variazione di elementi determinanti il suo
funzionamento in modo da conseguire la prestabilita finalità. Essenziale a tal fine è dunque il concetto
di feed back o retroazione che consiste essenzialmente nell’indagare le caratteristiche dell’effetto
prodotto dalla macchina e, in base a esse, nell’inviare un messaggio “all’indietro”, correggendo i
31
singoli elementi o fattori, in modo che il risultato conseguito nel complesso rimanga quello voluto.
Il brano qui riportato contiene un dato fondamentale per comprendere la poetica Cyber. I
citati «organi rivelatori» hanno dato luogo ad una feconda serie di interpretazioni, sia a
livello poetico che applicativo. È infatti possibile affermare come in questo mondo ci sia
stata una progressiva perdita dei confini disciplinari. Se Norbert Wiener nel 1947 tentò di
28
Ibid.
Makoto Sei Watanabe è nato in Giappone nel 1952. Si è laureato nel 1974 a Yokohama. Insegna in questa città e a Kyoto a
partire dal 1997.
30
Frédéric Migayrou e Marie-Anne Brayer, ArchiLab , Thames & Hudson, London, 2001, p. 480.
31
Voce «Cibernètica», Enciclopedia Multimediale Rizzoli Laorusse, op. cit.
29
unificare concezioni diverse che aleggiavano intorno alla scienza cibernetica per farne una
disciplina unitaria, occorre tuttavia dire che i risultati si dimostrarono così fecondi da
influenzare retroattivamente tutte le diverse branche di partenza. Ciò si traduce nella
consapevolezza che la complessità del tema necessita di apporti diversi ed eterogenei
che, a prescindere dalla loro natura, possono coesistere in un senso ancorché
inafferrabile, ma coerente e sistemico. Analizzando l’opera di un giovanissimo autore
tedesco, Anton Markus Pasing 32, possiamo mettere a fuoco alcune osservazioni appena
fatte. Egli è architetto di formazione, ma i suoi progetti sono crogiuoli di intuizioni sempre
estremamente polemiche con la cultura architettonica e figurativa del suo paese. Citiamo,
volontariamente, un progetto che, ben lungi dall’essere architettura, affonda pienamente
nel vortice della Cyber-culture internazionale. Genesis 9 - super tool (Fig. 22) è un
progetto di androide ideato nel 1995-’96 con evidenti intenti di sfida. Il discorso che Pasing
sottolinea è come la progressiva spersonalizzazione causata dalla cultura dei media ha
generato un’intima fusione tra uomini e tecnologie. Se la teoria cibernetica propone
l’interazione e persino l’integrazione tra uomo e macchina attraverso sensori reattivi e
retroattivi in grado di modificare i processi di azione delle macchine, la cultura ha reagito in
modo estremo producendo una non chiara distinzione tra essere umano ed “essere
tecnologico”. L’individuo non può più essere definito completamente umano; nello stesso
momento la tecnologia raggiunge un grado di complessità talmente elevato da sconfinare
nell’organico, accettandone l’infinita mutevolezza di forme, logiche e tipi. Il primo passo in
questa direzione è, come sempre, di carattere poetico. Si sono avuti molti esempi letterari
o cinematografici nei quali sono stati immaginati addizioni su corpi biologici di parti
meccaniche capaci di “amplificare” funzioni umane. Il concetto è, ricordiamo, direttamente
derivato dalla teoria della cibernetica attuata durante le sperimentazioni sugli armamenti
nel periodo bellico. Il progetto di Anton Markus Pasing non è altro che l’ultimo episodio di
una lunghissima serie di esempi futuribili. Ma questo caso e per noi particolarmente
significativo. Esso è ideato da un architetto che ha condotto ulteriori ampliamenti della
metafora del corpo cibernetico e della creazione di organismi architettonici di chiara
ispirazione biologica facendo confluire in un unico mondo figurativo ambiti separati di
architettura, design e mondo organico, attraverso la lente della cibernetica (Figg. 23 e 24).
Il progetto Ektochanger - Haus an der B 54 del 1991 è un significativo caso di polemica
condotta al limite dell’immaginifico. Si tratta di un edificio residenziale ai margini di una
grande arteria urbana posizionata in un «continuum spazio/temporale» 33. Il progetto
intende contenere il senso del movimento che si attua nelle grandi vie di comunicazione
all’interno dell’edificio, strutturato, formalmente e spazialmente, come un grande
organismo di ispirazione zoomorfa. Sono lontane da Pasing le ispirazioni bioniche. La sua
formazione è diversa; egli arriva a questi risultati a partire da un’estetica tipicamente Cyber
di fusione organico/inorganico. A tal riguardo, anche il secondo esempio di “pseudoarchitettura” che propongo risulta essere di interesse per chiarire il processo che la cultura
Cyber ha apportato all’interno dell’architettura. Das letzte Haus (L’ultima casa) si pone al
di là di un convenzionale progetto di architettura. Se Ektochanger, pur nell’anomalia
formale, poteva essere ricondotto a matrici linguistiche e tettoniche tipiche dell’architettura,
Das letzte Haus è assai più vicino ad un progetto elettronico con scarsi contatti con
l’aspetto realizzativo. Il metodo che Pasing utilizza per la genesi della forma architettonica
è il morphing, tecnica cinematografica capace di alterare una morfologia iniziale in una
finale completamente diversa. È interessante notare come il medesimo processo venga
utilizzato anche da Peter Eisenman, fatto che conferma una sorta di comunità di intenti
derivati dall’utilizzo del computer come sistema globale di azione. Pasing trasforma un
32
Anton Markus Pasing è nato nel 1962 a Greven a.d. Ems in Germania. Si è formato alla Facoltà di Architettura di Münster
(Germania) e si è perfezionato a Düsseldorf in Kunstwissenschaft, filosofia e sociologia. Ha iniziato la sua attività di progetto a partire
dal 1990.
33
Anton Markus Pasing, Remote Controlled Architecture, Verlag H. M. Nelte, Wiesbaden, 1998, p. 18.
teschio umano in architettura attraverso una serie di alterazioni formali dissonanti ma
coerenti. L’effetto finale è di straneamento poiché il passaggio da un oggetto organico ad
un organismo che vorrebbe essere architettonico offre un disorientamento anche di
carattere metodologico. È chiaro come la tradizionale cultura del progetto qui è assente.
L’unica forma di generazione dell’architettura è la reiterazione di cicli di modificazione
esclusivamente formale effettuata dal computer; questi richiamano, a ben pensare, i
processi di retroazione su cui la cibernetica è basata. È possibile affermare che i risultati
intermedi di questa trasformazione sono elementi essenziali nel processo di sviluppo della
forma e dello spazio verso il prodotto finale, determinanti a tal punto da creare una
estetica della forma assolutamente particolare ma tipica della cultura Cyber. Abbiamo
insistito su questo progetto poiché racchiude processi e metodologie tipiche della cultura
Cyber. Se il punto di partenza era la fusione uomo/macchina verso una nuova forma di
organismo interattivo, il risultato è quello della creazione di sistemi né organici né artificiali,
incarnati in modo chiaro, a nostro parere, dai progetti di Anton Markus Pasing.
Tale processo non deve sembrare arbitrario o concettuoso. In realtà ciò rispecchia una
delle più rigorose ed innovative teorizzazioni della cibernetica. I sistemi complessi
cibernetici possono essere catalogati come «sistemi a effetti determinati, incapaci di
adattare il proprio funzionamento a circostanze impreviste» oppure «sistemi a effetti
organizzati, che possono sempre agire in modo da perseguire una data finalità» 34. Questo
comporta una sorta di indipendenza del sistema dai dati iniziali inseriti dal programmatore.
Ma la conseguenza più importante è che si stabilisce «in modo concettualmente nuovo la
classificazione dei sistemi viventi e delle macchine». La fusione che Pasing effettua tra
sistemi organici e inorganici, tra mondo vivente e non vivente è derivata da una teoria
molto difficile della cibernetica che, a partire dagli anni Settanta, ha introdotto nella scienza
dell’informazione sistemi “pseudo-viventi” di natura algoritmica. È possibile affermare che
la cultura cibernetica ha ampliato il concetto di “vivente” estendendolo anche a forme nonorganiche. La sociologa americana Sherry Turkle nel volume La vita sullo schermo parla di
sperimentazioni su “sistemi viventi” matematici all’interno dei computer. Alcuni software
evoluti sono basati su parametri decisionali, algoritmi di calcolo che sanciscono delle
priorità. Verso la metà degli anni Ottanta, il biologo americano Richard Dawkins sviluppò
un applicativo informatico per illustrare alcuni principi evolutivi naturali. Il programma,
chiamato Blind Watchmaker crea dei disegni al tratto soggetti a variazioni governate da
nove parametri random 35. Le combinazioni casuali di queste variabili possono essere
considerate come geni soggetti a mutazione, trasmessi successivamente alla nuova
“generazione” di disegni creati dal programma.
36
Dawkins considerava i disegni analoghi agli organismi e li ha per questo definiti biomorfi .
Le mutazioni sono automatiche e l’intervento dell’operatore umano è limitato ad alcune
decisioni collaterali. Tali variazioni avvengono all’interno del programma. Questo esempio
andò ben al di là delle iniziali previsioni. Le evoluzioni previste da Dawkins sarebbero
dovute consistere in strutture aventi forme diagrammatiche ad albero. Ben presto,
inaspettatamente, il risultato di una di queste evoluzioni finì per assomigliare, formalmente,
ad un insetto 37. Questi programmi vengono utilizzati per studiare le forme viventi reali,
oppure certi comportamenti collettivi 38. La vita artificiale assume allora un’importanza che
va ben al di là della semplice metafora. Alcuni ricercatori, infatti,
34
Voce «Cibernètica», Enciclopedia Multimediale Rizzoli Laorusse, op. cit.
Ricordiamo che un parametro random è un algoritmo matematico basato sulla generazione casuale di numeri, utilizzati
successivamente come variabili indipendenti all’interno di equazioni o di programmi informatici.
36
Sherry Turkle, La vita sullo schermo, Apogeo, Milano, 1997, p. 213.
37
Richard Dawkins, Accumulating Small Change, in The Blind Watchmaker, W. W. Norton and Co., New York, 1986, cit. in Sherry
Turkle, op. cit., p. 214.
38
Sherry Turkle, op. cit., p. 216.
35
sostengono che, per gran parte della loro vita, gli uomini si comportano molto più come formiche
39
alla ricerca di cibo che come grandi giocatori di scacchi.
Un secondo caso interessante che conferma quanto detto sono i cosiddetti uccelloidi di
Reynolds. Craig Reynolds, esperto di animazione computerizzata, voleva verificare il fatto
che gruppi di individui (pesci, uccelli o insetti che fossero) non richiedesse né un capobranco né l’intenzione di riunirsi.
Reynolds scrisse un programma informatico che spingeva degli uccelli virtuali a formare stormi,
40
dove ogni “uccello” agiva “solamente sulla base della sua locale percezione del mondo” [...].
Seguendo semplici istruzioni, dopo qualche iniziale aggiustamento, Reynolds ottenne sullo
schermo stormi virtuali di uccelloidi che mostravano comportamenti alquanto realistici. La
conclusione che Sherry Turkle propone è che le strutture matematiche, come i programmi
di Dawkins e Reynolds, sono in grado di descrivere i complicati fenomeni naturali e i
comportamenti complessi degli animali 41.
Quanto descritto serve a giustificare come il mondo dell’intelligenza artificiale, della
cibernetica e, più in generale, della cultura Cyber crei un substrato culturale in cui
informatica e forme organiche siano strettamente connessi. Anche le proprietà
autoregolatrici degli uccelloidi di Reynolds richiamano molto da vicino il progetto, descritto
più sopra, di Makoto Sei Watanabe The Induction Cities. Inoltre, è possibile riconoscere un
contatto più diretto con il lavoro di Anton Markus Pasing nella perdita di confini netti tra
vivo e non vivo. Reynolds e Dawkins hanno infatti individuato esempi estremamente
concreti di sistemi artificiali (matematici) che offrono comportamenti ed evoluzioni tipici dei
sistemi viventi.
Proprio come la vivace interattività dei giocattoli computerizzati ha stimolato i bambini a rivedere il
criterio che stabilisce che cosa vada considerato vivo o no, tali oggetti ci sfidano a rimettere in
42
discussione i limiti e le categorie tradizionali della vita stessa.
In questa direzione le ipotesi di Pasing ci appaiono plausibili. Esse sono l’interpretazione
in chiave architettonica della simbiosi uomo/macchina e della perdita di definizione tra
naturale e artificiale.
Abbiamo premesso come in questo capitolo sia utile inserire esempi di progettisti
minori, il cui interesse è relegato nell’anomalia della ricerca o in alcuni aspetti paradossali
della progettazione con il computer. Facciamo un’unica deroga citando Peter Eisenman
riguardo ad un aspetto determinante sulle componenti che strutturano la cultura Cyber.
Parlo del concetto di simulazione strettamente connesso, come vedremo fra breve, con
l’operazione del bricolage. Eisenman è un progettista capace di reinventare le proprie
metodologie di progettazione in funzione del tema. Il suo atteggiamento è, pertanto,
antidogmatico e basato maggiormente sul lavoro di “aggiustamento” e di scoperta tipico
del bricoleur. Bricolage deriva dal francese ed indica il «fare con le mani», il processo del
dilettarsi teorico in cui gli individui e le culture usano gli oggetti sparsi intorno per lo
sviluppo e l’assimilazione dei concetti 43. Gli individui, così, utilizzano materiali eterogenei
che possono essere talvolta non-funzionali ed avere prettamente qualità estetiche 44.
Eisenman, nella sua opera di progettazione con lo strumento informatico, opera in questa
39
Ivi, p. 219
Ivi, p. 233.
41
Ivi, p. 234.
42
Ivi, pp. 215-216.
43
Cfr. con Claude Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio, Il Saggiatore, 1996.
44
Peter Caws, Significant Structures , in AA. VV., Structures Implicit and Explicit, Graduate School of Fine Arts, University of
Pennsylvania, 1973, p. 43.
40
direzione: verso una commistione di operazioni e di materiali che estraniano parzialmente
le diverse componenti iniziali in funzione di un risultato finale inaspettato e sorprendente. Il
discorso, pur avendo forti componenti astratte, è soprattutto operativo. Eisenman utilizza
in modo realmente innovativo l’elaboratore; esso diviene strumento per controllare da una
parte le sovrapposizioni e le reinterpretazioni delle memorie visuali espresse dalla
frantumazione dei mezzi espressivi della modernità e, dall’altra, il continuo sommarsi di
questi infiniti segmenti in movimento. L’operazione del bricoleur di utilizzare parti
composite si traduce, in Eisenman, in frammenti della cultura elettronica con cui, come nel
caso dell’Aronoff Center (Fig. 25), egli lavora per piani sovrapposti, e con spazi che solo
successivamente sono razionalizzati. L’interesse è incentrato su una complessità molto
profonda: il metodo di espressione. Il processo di lavoro dell’ultima produzione di
Eisenman è, parimenti, tipica del bricoleur. Essa è basata su plastici, i modelli
diagrammatici e i plastici informatici45, secondo dinamiche molto ricche che verranno
riprese nel paragrafo dedicato al metodo di lavoro dello studio Eisenman. Ciò che importa
ora è capire come il mondo della simulazione sia essenzialmente empirico. È innegabile
che ci sia stato un passaggio sostanziale dalla «[...] cultura moderna del calcolo alla
cultura postmoderna della simulazione» 46. Questo implica un atteggiamento di
sperimentalità e di perdita di un metodo basato sulla cultura della previsione, esattamente
come accade nel bricolage. La simulazione, un altro dei temi fondativi della
contemporaneità, è uno strumento necessario
quando un mondo [...] diventa troppo complesso per poter essere compreso in termini di principi
originari, o meglio, quando il mondo è troppo complicato perché la mente umana sia in grado di
47
realizzarlo come costruzione mentale a partire dai principi originari[...].
La simulazione, in conclusione, è vista come possibilità di raggiungere una maggiore
comprensione. L’operazione del bricolage e della simulazione sono quindi assai simili
poiché espressione di un tentativo estremamente flessibile di prefigurazione. In entrambi i
casi, parafrasando Lévi-Strauss, è possibile operare attraverso un pensiero «associativo»;
si tende ad usare un elemento, fare un passo indietro, riconsiderare la situazione, e
provarne un altro in un processo di azioni, retroazioni e correzioni continue e dinamiche 48.
Analizzando l’opera di Marcos Novak 49 ritroviamo molti concetti appena espressi. Novak
non può definirsi propriamente un architetto poiché il suo lavoro è, fino ad oggi, di
carattere esclusivamente teorico. La sua produzione è limitata a sculture virtuali nelle quali
è presente certamente una grande cultura estetica, ma un senso astratto che costringe le
sue concezioni nel regno della pura fantasia. Il delirio formale è frutto di una ipertrofia
formalista che sovente risulta vuota o priva di contatti con la possibile fruizione spaziale
(Fig. 26). Egli propone, evidentemente, non-luoghi privi di qualità tettoniche e spaziali.
Nonostante la critica che è possibile muovere a questo autore, egli è certamente
interessante poiché incarna il lato estremo del processo di simulazione, un momento in cui
questo atteggiamento nasce e muore senza possibilità di applicazioni concrete. È lecito
catalogarlo come puro sperimentatore di forme in cui ritroviamo il tema della commistione
e dell’aggiunta cieca di frammenti della contemporaneità. La complessità della morfologia
è per Novak un cammino verso la pura ricerca senza ricadute sul piano fisico o materiale.
Non a caso la sua architettura si chiama trans-architettura. Qui avviene quel processo, per
molti versi perverso, di perdita di realtà. La simulazione è un mondo autoreferenziale privo
45
Luca Galofaro, Eisenman digitale, Testo & Immagine, Torino, 1999. Cfr. anche con Cap. 2.4. di questo scritto.
Sherry Turkle, op. cit., p. XXIV.
47
Ivi, p. 26.
48
Cfr. con Claude Lévi-Strauss, op. cit., in particolare il Cap. I, La scienza del concreto.
49
Marcos Novak è un autore molto conosciuto nell’ambito della Cyber-architettura essenzialmente per il progetto Paracube del
1997-’98. Ha conseguito il dottorato di ricerca presso l’University of California di Los Angeles, il certificato di specializzazione in CAAD,
il Master of Architecture e il Bachelor of Science in Architecture nell’Ohio State University.
46
di contatti con la fisicità, ma nondimeno capace di assumere un ruolo fascinatore per il
fruitore. Novak, tuttavia, non ha complessità spaziale, ma al massimo qualità scultoree.
Questo caso estremo è indispensabile per comprendere come l’architettura possa essere
intesa anche come virtualità. Questo sistema teorico/operativo crea degli imbarazzi di
notevole entità sia nei fruitori che negli autori;
[...] la cultura architettonica ufficiale, uno dei naturali referenti nel rapporto tra società e forma
costruita, risponde con una difficoltà ormai evidente esibendo atteggiamenti che fluttuano tra la
costruzione di figure inedite, spettacolari, e la presa di coscienza di un progressivo diradarsi della
50
forma costruita all’interno della città contemporanea.
Pur non creando spazio del vissuto, Novak dà origine ad un mondo virtuale. Ed è nella
contrapposizione tra reale/virtuale che si apre il problema fondamentale della cultura
Cyber. Tutti i sociologi della realtà elettronica da me indagati sono concordi sul fatto che il
mondo Web ha generato una sorta di realtà immateriale con la quale il mondo fisico deve
confrontarsi. La Turkle parla di essi come «micromondi simulati»51, luoghi immateriali nei
quali si opera con la convinzione della loro efficacia. Questi sono “spazi” e “oggetti” senza
alcun referente fisico, senza origine ne fondamenta, la cui «[...] estetica ha a che fare con
la manipolazione e la ricombinazione»52. Il problema del rapporto reale/virtuale va ben al
di là della rappresentazione e della riconoscibilità di oggetti. Affrontato in questi termini
esso è superficiale e inseribile, nella migliore delle ipotesi, nell’ambito gestaltico. Non
tratterò pertanto i casi di evidenza formale e di rendering di un oggetto elettronico a partire
dalla sua perfezione simulativa del reale. Ben più interessante sono quei casi in cui esiste
una sorta di “confusione concettuale” tra verità e simulazione, fattore che si sprigiona
indipendentemente dalla similarità percettiva di un oggetto o di un mondo elettronico.
Giuseppe O. Longo parla delle trappole della simulazione capaci di generare confusione
sia dal punto di vista temporale che spaziale.
[...] Oggi la storia tende a svolgersi non nella e per la società bensì per una e in una virtualità
53
simulativa dilatabile o contraibile a piacimento nel suo parametro cronologico.
La dimensione di spersonalizzazione e di progressiva perdita di oggettività del tempo e
dello spazio è evidente e deve essere tenuta in primo piano in tutte le opere che abbiamo
ed andremo in seguito ad analizzare. La conseguenza estrema è la perdita totale di
rapporto con la realtà. Gli spazi virtuali sono oggi considerati nella Cyber-culture come
appartenenti al dominio dell’esperienza, ma per quanto riguarda questo scritto essi hanno
interesse limitatamente al problema delle sperimentazioni sulle geometrie non-euclidee. Il
caso di H-Kavya, studio di architettura capeggiato da Karl S. Chu54, è emblematico nella
sua anomalia. Il progetto Phylux (Fig. 27) è un sistema di grande complessità teorica e
matematica che dev’essere citato per le potenzialità espressive e filosofiche delle
sperimentazioni connesse all’uso del computer. Egli è interessato alla progettazione di
sistemi architettonici come serie di insiemi adattabili. Il riferimento diretto sono le monadi di
Leibniz, interpretate come centri di forza e di attività spirituali, fondamento della realtà
corporea. La mescolanza delle unità monadiche attraverso il calcolo combinatorio genera
la complessità dei disegni di Chu che, tuttavia, non riescono a scostarsi da semplici
50
Luca Molinari, Tendenze dell’architettura nordamericana. Gli anni Novanta, op. cit., p. 186.
Sherry Turkle, op. cit., p. 40. Cfr. anche con Douglas R. Hofstadter, Concetti fluidi e analogie creative, Adelphi, Milano, 1996, p.
17 e sgg. per il concetto di micromondo della simulazione. Hofstadter usa questi elementi all’interno dell’intelligenza artificiale come
particelle elementari per la soluzione automatica di problemi semplici. La sua teoria cibernetica si svolge all’interno di domini di limitate
dimensioni e di elevata complessità strutturale, ma autenticamente dotata di autonomia solutiva di problemi reali in ambiti limitati.
52
Sherry Turkle, op. cit., p. 27.
53
Giuseppe O. Longo, Il nuovo Golem, Editori Laterza, Roma-Bari, 1998, p. 7.
54
Karl S. Chu è nato nel 1950 conseguendo nel 1977 il Bachelor of Architecture all’University of Houston nel Texas, il Master of
Architecture alla Cranbrook Academy of Art, Bloomfield Hills nel Michigan. Attualmente insegna al Southern Design Institute of
Architecture di Los Angeles e alla Columbia University di New York.
51
diagrammi di forza, fallendo il compito di generare spazio architettonico, ancorché virtuale.
Tutto, nell’opera di H-Kavya si traduce in termini di calcolo all’interno di mondi virtuali. Le
monadi, che è possibile interpretare come punti pesanti dotati di autonomia concettuale,
hanno capacità aggregative che si che si evolvono in forme autorganizzate. Questi sono
sistemi evolutivi, da intendersi come organizzazioni dinamiche, in grado di automodificarsi
con un’infinita potenzialità di differenziazione 55. Tale processo è ripreso in modo molto
simile da Greg Lynn dello Studio Form nella morfogenesi di organismi cellulari, modificati
attraverso attrattori situati lungo un percorso nel progetto Embryologic Space del 199856.
La realtà virtuale teorizzata da Chu è, al contrario del lavoro di Lynn, poco convincente se
non per la fascinazione formale e di procedimento concettuale. Gli obiettivi sono
assolutamente al di fuori delle effettive potenzialità del processo di sviluppo di forma. Egli
è convinto, infatti, di poter cambiare, attraverso Phylux, le attuali nozioni di costo o energia
grazie alle capacità comunicative di questo sistema che, leggiamo tra le righe dei suoi
scritti teorici, sono simili a opere d’arte capaci di suscitare emozioni 57.
Douglas R. Hofstadter, una delle personalità di maggior spicco nella ricerca
sull’intelligenza artificiale, suggerisce uno magnifico esempio di cosa significhi virtuale 58.
Egli identifica la virtualità con la mobilità dei concetti della mente. Nell’analisi dei giochi di
prestigio inconsci, dei motti verbali, degli anagrammi e della soluzione dei problemi
matematici (in particolare le successioni numeriche 59), egli si interroga su come la
soluzione ad un problema di questo genere venga a formarsi nella mente degli individui. Il
nocciolo di tali “oggetti mentali provvisori”, costantemente mutevoli e dis-ordinati, sono
sostanzialmente inspiegabili. Le illuminazioni istantanee e i repentini cambi di rotta verso
la soluzione (bricoleur?) sono per Hofstadter assolutamente stupefacenti e non legati a
memoria né ad intuizione; sono libere fantasie che richiamano alla mente il fluire della
matita sul foglio di carta bianco che Alvar Aalto aveva canonizzato come personale antimetodo progettuale 60.
In fin dei conti, non stiamo parlando della costruzione di strutture fisiche che si muovono - in senso
letterale - dentro il cervello, [...]; parliamo di oggetti virtuali, che fluttuano sul substrato fisico neurale,
ma non è facile descriverli in termini di neuroni o di reti di neuroni. Tali «oggetti» esistono in uno
spazio virtuale - la memoria di lavoro - in cui sono liberi di vagare, mescolarsi, associarsi, formare
61
aggregati, separarsi, ecc.
Hofstadter parla, in sostanza, di una sorta di «mescolanza inconscia»62 capace di creare
quello che egli chiama concetti fluidi, tema dalle vaste implicazioni che verrà ripreso
poiché centrale nella trattazione del concetto di forma e di fluenza spaziale nell’architettura
Cyber.
La virtualità, in sintesi, è qualcosa «che ha la possibilità di essere, che è potenzialmente
ma non ancora in atto» (concetto derivato dalla filosofia scolastica)63. Virtuale è un termine
antico che ha assunto significati coerenti rispetto al suo uso classico, ma anche
radicalmente nuovi. In particolare, come sottolinea la Turkle, virtuale è visto
essenzialmente come contrapposizione a reale, come un mondo che sfugge
55
Christian Pongratz e Maria Rita Perbellini, Nati con il computer, Testo & Immagine, Torino, 2000, pp. 32-35 e Frédéric Migayrou e
Marie-Ange Brayer (a cura di), op.cit., pp. 490-498.
56
Cfr. con il successivo Cap. 2.2.
57
Christian Pongratz e Maria Rita Perbellini, Nati con il computer, op. cit., pp. 34-35.
58
Douglas R. Hofstadter, Concetti fluidi e analogie creative, op. cit.. In particolare vedasi il Cap. I, Prefazione II e Cap. II.
59
In matematica le successioni numeriche sono insiemi ordinati di numeri o di elementi di altra natura (per es. funzioni o punti)
contrassegnati da un indice che assume soltanto valori interi, cioè a1, a2, a3, ... an (definizione tratta da Enciclopedia Multimediale
Rizzoli Larousse 2001, op. cit.). Numerose possono essere i tipi di successioni (convergente, divergente, di Cauchy, indeterminate), ma
carattere comune è l’individuazione di una legge più o meno complessa che regoli l’andamento dei fattori conseguenti ad una data
sequenza, stabilita come generatrice dei fattori successivi.
60
Cfr. Alvar Aalto, Idee di architettura. Scritti scelti 1921-1968, Zanichelli Editore, Bologna, 1987.
61
Douglas R. Hofstadter, Concetti fluidi e analogie creative, op. cit, p. 104.
62
Ivi, p. 108.
63
Voce «Virtuale», Enciclopedia Multimediale Rizzoli Laorusse, op. cit.
all’insicurezza del contingente. La virtualità, nell’immaginario collettivo, dà e offre di più
poiché le possibilità (reali o, più spesso immaginarie, aggiungiamo noi) e le “flessibilità”
sono maggiori 64. Ne consegue che anche tale apertura e indeterminatezza offre alla
personalità una sorta di moltiplicazione del sé 65 che tuttavia non ha nulla di patologico.
Così, l’analisi - comprendendo la dimensione psicoanalitica - si apre al grande problema di
capire cosa è reale e cosa non lo è 66. Tutto diventa più sfumato e indeterminato
esattamente come avviene nel capo dell’architettura. Ancora una volta l’indeterminatezza
tra reale e virtuale in architettura non dev’essere banalizzato all’aspetto visivo o fruitivo.
Desideriamo porre il problema dal punto di vista geometrico/spaziale. Le velleità
modellatrici di Karl S. Chu e gli spazi virtuali di Greg Lynn sono reali o virtuali? Sono
potenzialità derivate da un uso strumentale del computer e dei programmi di modellazione
solida o sono in qualche modo legati ad una “realtà” difficile da percepire perché aderente
alle matematiche superiori? Se i fisici suggeriscono l’ipotesi che l’universo che noi
conosciamo è solamente il dieci percento di quello effettivamente esistente, e che ciò che
possiamo vedere è solo una sorta di aggregazione di materia simile alla rugiada mattutina
di fenomeni superiori, diventa difficile stabilire una definizione netta tra reale e virtuale. Il
reale è il visibile, l’intellegibile o il dimostrabile 67. Chu, Lynn, Reiser+Umemoto e altri,
sembrano dire che la virtualità rende possibile sperimentazioni geometriche in grado di
descrivere luoghi che solo la matematica di Hilbert68 o gli spazi topologici complessi69
possono suggerire. Il discorso sulla geometria non-euclidea ha l’obbligo di interessarsi
anche di queste forme estreme che, pur non essendo architettura, utilizzano i medesimi
strumenti di altri autori maggiormente rivolti alla realizzazione.
2.2. Lo spazio nella Cyber-architettura
Il problema principale di questo scritto riguarda il concetto di spazio non-euclideo nella
progettazione architettonica attraverso il computer. Per poter affrontare l’argomento è
stato necessario individuare alcune coordinate interpretative del mondo della cultura
Cyber in grado di chiarire alcuni aspetti apparentemente paradossali di queste esperienze.
Il compito da seguire, ora, è quello di illustrare con maggior dettaglio quelle esperienze
progettuali che, basandosi sui presupposti sopra descritti, indagano in modo innovativo le
idee di spazio riemanniano. Per giungere a ciò, tuttavia, è necessaria una piccola
premessa su cosa si intenda per spazio e, più dettagliatamente, per spazio non-euclideo.
Spazio deriva dal latino spatium ed indica un campo disponibile per gli oggetti della
realtà individuati in una collocazione o posizione 70. Anche altre definizioni pongono
l’accento sul problema del rapporto tra campo e oggetti. Così recita una seconda
definizione:
64
Sherry Turkle, op. cit., p. 357, 364.
Ivi, p. 392.
66
Ivi, p. 69.
67
Una delle implicazioni del teorema di Gödel sanciva il fatto che solo una limitata porzione di teoremi “veri” può essere dimostrata.
Questa è una particolare versione del celebre Teorema di incompletezza di Gödel, alla quale aderiva poeticamente anche il matematico
ungherese Paul Erdos. Cfr. anche con John L. Casti e Werner DePauli, Gödel, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2001.
68
David Hilbert (1862-1943) è considerato uno dei più grandi matematici di tutti i tempi. I ventitré problemi che presentò al
congresso di matematica di Parigi del 1900 sono uno dei fondamenti della riflessione matematica del XX secolo. La sua concezione
delle dimensioni di ordine superiore in matematica è un problema strettamente connesso con le geometrie non-euclidee formulate da
Bólyai, Lobacevskij e Riemann. Si avrà modo di parlare di questi autori nei paragrafi successivi nell’ambito delle geometrie noneuclidee.
69
La topologia è stata canonizzata come scienza autonoma da Henri Poincaré, in virtù del famoso problema dei ponti di Königsberg
di Eulero. Una visione più dettagliata, insieme alle implicazioni in architettura, verrà data nelle prossime pagine. Cfr. Cap. 2.2. di questo
scritto.
70
Voce «Spazio», in Giacomo Devoto, Gian Carlo Oli, Dizionario della lingua italiana, Le Monnier, Firenze, 1971.
65
estensione indefinita, luogo senza limiti che contiene tutte le estensioni finite e in cui appaiono
71
collocati i corpi
Come espresso nel paragrafo precedente, i legami tra le sperimentazioni della Cyberarchitettura e la matematica sono estremamente stretti. Gioverà, allora, estendere lo
sguardo a definizioni di «spazio matematico». Questo è un
ente geometrico primitivo in cui si immaginano immersi determinati enti geometrici (per es. punti,
72
linee, superfici, ecc.) e le cui proprietà sono implicitamente definite da quelle degli enti che contiene.
Tali generiche definizioni acquistano una particolare importanza se interpretate alla luce
di determinanti sperimentazioni matematiche avvenute nella prima metà dell’ottocento.
L’esperienza comune si basa su quelle che vengono chiamate «geometrie e spazi
eucidei». In estrema sintesi lo spazio euclideo è quello spazio nel quale sono collocabili
alcuni enti geometrici studiati dal più famoso matematico dell’antichità classica, il greco
Euclide (III sec. a.C.)73. Geometria euclidea non riguarda, quindi, geometrie solide o
platoniche, bensì spazi matematici algebrici e aritmetici, ovvero luoghi
[...] in cui si immaginano immersi gli enti geometrici studiati dalla geometria euclidea e che traduce
in termini geometrici precisi l’immagine intuitiva che noi abbiamo dell’ambiente in cui si svolge la
74
nostra esperienza sensibile
e nulla di più.
Nel campo che ci riguarda, la rivoluzione sostanziale è avvenuta con la messa in
discussione del celeberrimo quinto postulato di Euclide, altresì conosciuto come il
Teorema delle Parallele75. Porre un dubbio su un postulato di Euclide ha, per i matematici,
un’importanza tutta speciale. Ciò significa la perdita delle certezze assolute che gli
Elementi di Euclide hanno significato per tutta l’antichità classica e la modernità. Obiettare
anche uno solo dei suoi principi significa aprire il varco all’arbitrio, sancire la perdita di
corrispondenza tra mondo perfetto della matematica ed esperienza comune. Per questo
l’introduzione delle geometrie non-euclidee ha così tanta importanza per la cultura
moderna e per la fisica.
La scoperta delle geometrie non euclidee mise chiaramente in luce la differenza tra spazio
matematico e spazio fisico: i postulati che definiscono le proprietà dello spazio matematico e degli altri
enti geometrici fondamentali sono di per sé arbitrari; l’unica cosa che la matematica richiede è che
questi postulati non siano tra loro contraddittori; il fatto che i postulati di Euclide siano più intuitivi e
quindi abbiano avuto un ruolo privilegiato dipende dalla constatazione che l’immagine mentale che
l’esperienza comune ci suggerisce per gli enti geometrici fondamentali costituisce un modello in cui si
verificano i postulati della geometria euclidea. In altre parole lo spazio fisico, o per lo meno la porzione
di spazio fisico in cui si svolge la nostra esperienza, si può descrivere come uno spazio euclideo, ma è
71
Voce «Spazio», Enciclopedia Multimediale Rizzoli Laorusse, op. cit.
Ibid.
73
Egli non era originale o, per lo meno, non lo fu nel suo libro più famoso: gli Elementi . Noto come il più importante testo di
matematica per più di duemila anni, esso non brillò mai per genialità. L’importanza risiede nel fatto che Euclide espresse i principi ivi
contenuti con grande chiarezza e metodo. Il fraintendimento che ancor oggi ci accompagna riguarda il fatto che questo fu
essenzialmente un trattato di canonizzazione di matematica elementare nel quale venivano espressi concetti relativi all’algebra e
all’aritmetica. Le matematiche superiori, già esistenti ed espresse da altri autori della scuola alessandrina contemporanei o precedenti a
Euclide, erano raccolti in altri trattati, quali, ad esempio, i Fenomeni sulla geometria sferica e i Luoghi solidi sulle sezioni di coniche. Per
offrire chiarezza di idee occorre dire che il trattato sui Luoghi superficiali dedicato, probabilmente, alle figure elementari note all’antichità
(sfera, cono, cilindro, toro, ellissoide di rivoluzione, paraboloide di rivoluzione e l’iperbolide di rivoluzione a due falde) andò perduto. Cfr.
con Carl B. Boyer, Storia della matematica, Mondadori, Milano, 1990, pp. 119-124.
74
Voce «Spazio», Enciclopedia Multimediale Rizzoli Laorusse, op. cit.
75
Il postulato delle parallele di Euclide stabilisce che data una retta R ed un punto P esterno ad R è possibile tracciare una sola
retta R’ parallela alla prima retta. Per una bella spiegazione di questo postulato e delle conseguenze connesse, vedasi Douglas R.
Hofstadter, Gödel, Eschen, Bach: un’Eterna Ghirlanda Brillante, Adelphi, Milano, 1990, p. 101 e sg.
72
possibile pensare che per una più profonda comprensione dei fenomeni naturali sia più utile
76
descrivere lo spazio fisico con un modello matematico di spazio diverso da quello euclideo.
Il punto di partenza di questa rivoluzione è l’opera giovanile del matematico russo
Nicolaj Ivanovic Lobacevskij (1769-1836) che già dal 1823 minò la rigorosa dimostrabilità
del quinto postulato delle parallele. Nel 1826 egli si convinse che questo teorema potesse
essere dimostrato in base ai primi quattro (ed era pertanto inutile) e nel ’29 egli compì il
passo rivoluzionario di pubblicare una nuova geometria (non-euclidea iperbolica) costruita
specificamente su un’ipotesi in diretta contraddizione con il postulato delle parallele 77.
Questa era una nuova geometria che non aveva alcuna contraddizione interna, era
elegante, anche se contrastava con il senso comune negando Euclide. Egli chiamò questa
scoperta «geometria immaginaria» e poi «pangeometria universale o completa». Alla
stessa conclusione arrivò anche il matematico ungherese János Bólyai (1802-1860), pochi
anni dopo ed in modo indipendente da Lobacevskij. Per concludere questa breve nota
sulla natura della geometria non-euclidea occorre citare il più importante autore che vi si
dedicò: Georg Friedrich Bernhard Riemann (1826-1866) 78. Lo spazio di Riemann non è
basato sulle tradizionali coordinate cartesiane tridimensionali, ma si apre ad un cosiddetto
«spazio sferico o curvo» 79, ovvero di un luogo geometrico nel quale le figure insistono non
su superfici piane ma sferiche appunto. Dimenticando le altre questioni legate alle
teorizzazioni sulle geometrie riemanniane 80 è possibile effettuare finalmente un parallelo
con gli spazi non-euclidei utilizzati dall’architettura. Per estensione rispetto ai problemi
matematici è possibile dire che ogni qualvolta ci troviamo di fronte ad uno spazio
informale, ideato attraverso una non riconoscibilità delle geometrie elementari, è allora
possibile parlare di spazio non-euclideo. Questo ha, però, recentemente assunto un
significato confuso. Ogni qualvolta si debba descrivere un’architettura o uno spazio non
direttamente ispirato alla geometria dei solidi platonici elementari, indipendentemente dalla
sua natura, dalle fonti di ispirazione, dal processo generativo, dalla filosofia, e in barba alle
varie correnti culturali, tutto viene messo nel gran calderone delle geometrie non-euclidee,
dimenticando che la natura di questa branca della matematica superiore è essenzialmente
riferita agli spazi curvi. Nella confutazione del postulato delle parallele si deve ammettere
l’esistenza di un nuovo ordine di idee, di un nuovo “spazio” assolutamente diverso dal
primo. Ciò viene chiamato geometria ellittica e geometria iperbolica81. A rigore sono noneuclidei gli spazi che non hanno matrici geometriche piane e, soprattutto - in osservanza
alla vera natura delle geometrie riemanniane - quegli spazi architettonici “avvolti su se
stessi”, che non possono essere rappresentati con la consueta terna di assi cartesiani, ma
76
Voce «Spazio», Enciclopedia Multimediale Rizzoli Laorusse, op. cit.
«Per un punto C che giace al di fuori della retta AB si può tracciare nello stesso piano più di una retta che non incontri la AB», in
Carl B. Boyer, op. cit., p. 622.
78
«Le geometrie di Riemann sono non-euclidee in un senso molto più generale di quella di Lobacevskij, dove si tratta
semplicemente di stabilire quante rette parallele sono possibili per un punto. Secondo la concezione di Riemann la geometria non
dovrebbe neppure necessariamente trattare di punti o di rette o di spazio nel senso ordinario, ma di insiemi di ennuple ordinate che
vengono raggruppate secondo certe regole», ivi, p. 625.
79
«Un modello di questa geometria è dato dalla interpretazione di “piano” come superficie di una sfera e di “retta” come cerchio
massimo della sfera stessa. In questo caso la somma degli angoli di un triangolo e maggiore di due angoli retti [...]», ivi, pp. 625-626.
80
Per completezza di trattazione occorre aggiungere che, dal punto di vista del calcolo, le geometrie non-euclidee sono quelle che
soddisfano l’equazione: y = a + i x, dove il termine in “i” è un punto di coordinate immaginarie.
81
«[...] La ragione per cui tali variazioni vengono ancora chiamate “geometrie” è che vi si trova incorporato il nucleo centrale della
geometria, cioè la geometria dei quattro postulati o assoluta. Proprio per la presenza di questo nucleo minimo è ragionevole pensare
che queste strutture descrivano anch’esse le proprietà di un qualche tipo di spazio geometrico, sia pure non così intuitivo come lo
spazio ordinario.
«In realtà, la geometria ellittica può essere visualizzata facilmente: si devono semplicemente considerare i “punti”, le “rette”, e così
via come parti della superficie di una comune sfera. Conveniamo di scrivere “PUNTO” quando vogliamo indicare il termine tecnico e
“punto” quando si intende il significato quotidiano. Possiamo dire allora che il PUNTO consiste in una coppia di punti diametralmente
opposti sulla superficie della sfera. Una RETTA è un cerchio massimo della sfera [...]. Con questa interpretazione, le proposizioni della
geometria ellittica, sebbene contengano parole come “PUNTO” e “RETTA”, parlano di ciò che avviene su una sfera, non su un piano. Si
noti che due RETTE si intersecano sempre esattamente in due punti antipodali della superficie sferica, cioè in uno e un solo PUNTO! E
proprio come due RETTE determinano un PUNTO, così due PUNTI determinano una RETTA», cit. in Douglas R. Hofstadter, Gödel, Eschen,
Bach: un’Eterna Ghirlanda Brillante, op.cit., p. 101-102.
77
si riferiscono a spazi con dimensioni di ordine superiore. Un esempio chiarificherà il
problema.
Il gruppo di architettura Asymptote ha recentemente ideato due progetti centrali per la
nostra discussione. Il primo è il Guggenheim Virtual Museum e il secondo il Virtual Trading
Floor, di cui parleremo in seguito. Il primo progetto è destinato al mondo della rete Web e,
quindi, non avrà alcuna realizzazione fisica, mentre il secondo ha una controparte fisica a
quella virtuale. I progetti sono tuttavia importanti dal punto di vista architettonico poiché
utilizzano il naturale senso spaziale dell’uomo per ideare luoghi destinati ad una funzione.
Abbiamo già descritto mondi elettronici capaci di offrire il medesimo “coinvolgimento” di
luoghi reali. La conclusione è che la partecipazione emotiva verso un luogo non deve
essere necessariamente legata alla sua materialità. L’immaginazione umana sembra
essere così “potente” da trascendere i limiti della fisicità. Queste osservazioni confermano
la liceità dei due progetti di Asymptote. Esiste un’ulteriore conferma di natura economica.
Se due tra le più grandi istituzioni finanziarie americane come la Guggenheim Foundation
e la Borsa Valori di New York hanno investito svariati milioni di dollari per realizzare questi
spazi virtuali, ciò significa che il progetto avrà un successo sicuro, forse addirittura un
trionfo progettato. Il Guggenheim Virtual Museum (Fig. 28) non è altro che un luogo
virtuale che accoglie alcune importanti opere d’arte di proprietà Guggenheim. La richiesta
del Guggenheim Museum di New York era quella di creare «[...] the first important virtual
building of the 21st Century» 82. Esso doveva essere negli intenti dei committenti «[...] a
fusion of “information space, art, commerce and architecture”» 83. Nei voleri dei finanziatori
questo progetto è ben più di un gioco virtuale, ma rappresenta una sorta di evoluzione del
museo tradizionale. Questo funziona come luogo esperibile via Internet e aggiornabile in
tempo reale dalle diverse sedi internazionali della Guggenheim Foundation. Il progetto è
concepito come un oggetto virtuale interattivo capace di mostrare alcune opere d’arte della
collezione Guggenheim. Il sistema è ideato come una successione di scatole cinesi,
ognuna delle quali è un settore tematico contenente la riproduzione di alcune opere d’arte.
Il tutto non è dissimile dal normale funzionamento di un sito Internet, aspetto che rende
questo progetto non particolarmente innovativo. È, altresì, nuova l’idea della mutazione
morfologica dell’oggetto virtuale. Il Guggenheim Virtual Museum non si struttura come una
sequenza di finestre, ma come un oggetto topologicamente complesso la cui forma varia a
seconda dei contenuti. Così, all’apertura di una certa sezione del museo, tutta la forma
trasmuta dinamicamente in un’altra profondamente diversa secondo un processo che
abbiamo più sopra definito morphing e da alcuni critici descritto come «liquidity, flux and
mutability» 84. Due le brevi notazioni da fare. Dapprima occorre dire che le morfologie
ideate da Asymptote denunciano un’eredità derivata dalla decostruzione ma alterata dalle
forme organiche ed avvolgenti tipiche della Cyber-architettura.
La seconda osservazione riguarda il concetto di topologia. Questa è una branca della
matematica che studia insiemi «[...]invarianti per omeomorfismi, cioè per corrispondenze
biunivoche e bicontinue» 85. Questo, detto in parole comuni, significa che la topologia
studia funzioni matematiche e loro rappresentazioni dotate di una continuità di superficie
costante. Per la topologia non è importante la forma, bensì il fatto che questa abbia o
meno “interruzioni”, buchi o alterazioni. In questo senso, una sfera è esattamente identica
ad un cubo poiché, idealmente, si può alterare la forma dell’una nell’altra senza effettuare
perforazioni e senza modificarne la continuità. Analogamente un toro è topologicamente
identico ad un dado poiché entrambi hanno un unico foro passante 86.
82
Cit. in Philip Jodidio, Architecture Now!, Taschen, Köln-London-Madrid-New York-Paris-Tokio, 2001, p. 94.
Ibid.
84
Frédéric Migayrou e Marie-Ange Brayer (a cura di), op. cit., p. 51.
85
Voce «Topologìa», Enciclopedia Multimediale Rizzoli Laorusse, op. cit. Cfr. anche con Carl B. Boyer, op. cit., pp. 691-693 e 709711.
86
Più rigorosamente occorre dire che «tra i concetti base della topologia porremo innanzitutto quello di spazio topologico, a cui è
strettamente legata la nozione di omeomorfismo. In termini intuitivi diremo che sono omeomorfismi tutte quelle trasformazioni che
83
Le forme del Guggenheim Virtual Museum sono esattamente questo. Le mutazioni di una
forma in un’altra permesse dal computer rispondono alle leggi topologiche di alterazione.
La forma di partenza (sembrerebbe quasi un esterno scharouniano di edificio) si deforma
in un’altra, completamente diversa ma esattamente coerente dal punto di vista topologico.
Sono forme senza strappi o aventi discontinuità (singolarità) costanti. Sicuramente questo
progetto convince per alcuni aspetti ma offre anche il fianco a leciti dubbi. Tra gli aspetti
positivi giudichiamo esserci la maturità linguistica di Asymptote (mai venuta meno, del
resto, nella loro produzione) e l’innovazione del concetto di museo virtuale. È
fondamentale anche la coerenza con cui lavorano sull’idea di mutazione topologica del
concetto di forma. Anche l’idea di voler innovare la tematica di spazio dell’arte risulta per
alcuni versi di buon livello. Asymptote propongono un oggetto che ha forti connotazioni
visive e capace di interagire in modo potente con le opere d’arte che espone. D’altro canto
il risultato non va al di là di un ottimo sito Internet, anche se coinvolgente. Lo spazio è
progettato in modo attento e maturo, ma non esiste quella partecipazione emotiva totale
che solo gli spazi fisici riescono a dare. L’espressività dei luoghi elettronici risente di un
problema abbastanza diffuso nei progetti studiati: esiste una sorta di distanza insita in ogni
progetto nel momento del coinvolgimento sensoriale dell’individuo nei luoghi virtuali.
Quanto detto non rende pienamente giustizia a questi progetti. In realtà, la partecipazione
dei sensi è assai più forte rispetto a quello che bozzetti e progetti cartacei hanno sempre
offerto. Pur non avendo la potenza evocativa dei luoghi reali, questi progetti elettronici si
pongono ad un livello parallelo, “altro”, rispetto ai luoghi fisici. La partecipazione che
offrono è molto simile a ciò che Sherry Turkle descriveva quando parlava della cultura del
cyberspazio nell’ambito sociologico. Personalmente riteniamo di individuare in questi
luoghi elettronici una sorta di coinvolgimento ipnotico offerto dalla potenza del medium
informatico. Del resto anche la più semplice televisione è in grado di offrire sensazioni
potenti ed estranianti.
Non dissimile dalla natura del progetto appena presentato sono due elaborazioni fatte
dallo studio americano Kolatan/Mac Donald Studio 87. Resi-Rise (vertical mode) e Housing,
entrambi del 1999, sono da inserirsi nello stesso ambito di ricerca, ma con risultati
decisamente meno interessanti anche se significativi. Il delirio formale del progetto ResiRise (Fig. 29) è sconcertante e, in genere, poco convincente anche se fascinoso dal punto
di vista della pura ricerca formale. Riteniamo questi effetti importanti non tanto per la
ricerca spaziale come nel caso di Asymptote, quanto per la generazione di forme
organiche di stampo Cyber. È fondamentale la proliferazione di matrici elementari e
l’ipertrofia a-modulare di questa struttura. Se Resi-Rise, nelle intenzioni, vorrebbe essere
un esempio di «vertical urbanism», non riesce a staccarsi da un formalismo che, tuttavia,
presenta caratteri di interesse. Il primo lo abbiamo già espresso: l’ipertrofia pseudoorganica degli elementi modulari. Ma esiste un altro aspetto. Le singole unità incorporano
le restrizioni e i caratteri del luogo (viste, altezze degli edifici adiacenti e così via). Questo
è fondamentale. In qualche modo, la visionarietà del risultato cerca di non esser arbitrio
ma tenta di nascere dal luogo con un linguaggio anticonvenzionale. È una interessante
interpretazione del concetto di spazio. Esso non è visto, come nel caso precedente, come
luogo astratto anche se fortemente caratterizzato. Qui lo spazio è luogo. L’organismo si
inserisce in un preciso sito e da esso si genera. Il luogo è, in altre parole, tradotto alla luce
di una cultura visionaria che, per certi aspetti, ricorda i mostri di Anton Markus Pasing.
Questo progetto, in teoria, nasce da una precisa collocazione, e l’idea di spazio
dall’interpretazione di questi luoghi. I discorsi proposti crollano, tuttavia, a causa di una
sorta di inguaribile indeterminatezza che molti progetti di questo genere hanno.
possono operarsi su un oggetto geometrico mediante deformazioni graduali senza strappi. In questo senso la superficie di una sfera è
omeomorfa a quella di un cubo o a quella di una piramide. Viceversa la superficie di un anello non può trasformarsi in quella di una
sfera senza tagli e saldature», in ibid.
87
Questo studio è composto da Sulan Kolatan (1956) e William J. Mac Donald (1958). Entrambi operano a new York.
The morphology, size, programme, functions, materials, servicing and furnishing of each pod are
indeterminate and depend on the options of the users and on the programmatic scenarios and
88
parameters laid down the architects.
Al contrario, Housing (Fig. 30) si presenta come una forma astratta più simile al
progetto del museo virtuale di Asymptote, anche se di qualità decisamente minore. La
forma è avvolta su se stessa e si pone a metà tra la ricerca di spazio e un progetto di
scocca modulare. Non è tuttavia un semplice gioco formale. Housing è un progetto di
abitazione basata su una precisa normativa per abitazioni unifamiliari a tre camere da
letto. I progettisti hanno indagato in modo interessante il problema della serialità e delle
variazioni della tipologia a partire da un modello base. L’ipotesi della variazione non è da
leggersi come sperimentazione sulla forma, bensì come capacità adattativa dello spazio
architettonico alle esigenze del fruitore, del contesto sociale, culturale, economico,
ecologico, geologico e climatico89.
L’indagine sulle superfici topologiche e sulla geometria non-euclidea crea, con il senso
comune, apparenti contrasti derivati dalla complessità della materia e dalla forte
astrazione che questa implica. In particolare occorre riferirsi a due campi della matematica
che poi faremo convergere in due architetture di notevole livello spaziale e concettuale. Il
primo, breve, discorso di carattere teorico riguarda il tema delle pseudosfere, corollario
derivato dalle geometrie non-euclidee di Riemann e di Eugenio Beltrami. In sintesi, essi
mostrarono che era possibile creare una particolare figura geometrica priva di
contraddizioni avente curvatura costante negativa 90. Questo significava che le geometrie
euclidee sono, di fatto, solo un caso estremamente limitato di geometria possibile. Il
secondo aspetto che desideriamo sottolineare è il problema della continuità nelle superfici
topologiche. La topologia (in particolare la topologia combinatoria) «[...] è lo studio degli
aspetti qualitativi intrinseci delle configurazioni spaziali che rimangono invarianti rispetto
alle trasformazioni biunivoche o continue». Pertanto la topologia viene spesso chiamata
“geometria delle figure elastiche”: essa descrive in forma matematica le deformazioni di
alcune figure in altre senza effettuare fori o alterazioni della superficie iniziale. Ogni forma
di deformazione deve avvenire in modo invariante 91. Intuiamo che, oltre a quelle appena
espresse, esiste un’ulteriore interpretazione di queste superfici a curvatura negativa: il
paradosso contenuto nel celebre nastro di Möbius (Fig. 31). Non a caso August Ferdinand
Möbius si occupò di problemi connessi alla topologia quando ancora questa non era stata
individuata come disciplina a sé. Il nastro di Möbius ha subito due significative
interpretazioni, la prima ad opera di UN Studio (Ben van Berkel e Caroline Bos) con la
Möbius House a Het Gooi (Olanda) del 1993-’98, e la seconda, meno nota e più
direttamente legata alla cultura Cyber, dello studio inglese Foreign Office Architects con il
progetto Virtual House del 1997.
Molti sono i progetti interessanti di Ben van Berkel e Caroline Bos, ma essi sono celebri
per il progetto di villa unifamiliare denominata Möbius House (Fig. 32). Essa è ascrivibile al
movimento decostruttivista per una serie di frammentazioni e scardinamenti tipici di questa
corrente architettonica. Abbiamo tuttavia visto come la distinzione tra decostruzione e
Cyber sia sfumata e le due correnti tendano a scorrere le une nelle altre. Certamente
l’ambito figurativo e la ricerca spaziale estrema ne fa un progetto decostruito, ma il punto
di ispirazione è certamente l’ambito matematico superiore. Come noto, il nastro di Möbius
è ottenuto prendendo un anello di carta, tagliandolo e invertendo uno dei due lati
dall’interno all’esterno. Ciò che si ottiene è una figura paradossale nella quale l’interno del
88
Frédéric Migayrou e Marie-Ange Brayer (a cura di), op. cit., p. 212.
Ivi, p. 214.
90
Carl B. Boyer, op. cit., p. 626.
91
Ivi, p. 692.
89
nastro scorre all’esterno e per poi ritornare all’interno. Van Berkel e Bos hanno interpretato
questo difficile concetto spaziale all’interno dell’architettura creando un organismo avvolto
su se stesso. Esso si basa su una forma ad “otto” che passa da interno ad esterno in una
spirale continua e senza interruzioni, esattamente come il nastro di Möbius. Pur essendovi
errori concettuali nell’interpretazione della figura matematica originale, l’abitazione è
decisamente convincente per maturità formale e spaziale. Non desidero, tuttavia,
soffermarmi troppo su questo progetto perché esso non è direttamente ispirato alla Cyberarchitettura.
Il progetto Virtual House di Foreign Office Architects 92 (Fig. 33) è fondato sull’idea di
una serie di nastri ripiegati che generano una continuità tra livelli differenti dell’edificio. Il
principio è esattamente quello utilizzato da Möbius nella creazione del suo nastro. La nota
interessante riguarda la fluidità dei luoghi che raggiunge livelli altissimi poiché il rapporto
tra i diversi piani non è mediato da scale o partizioni di nessun genere. Lo spazio si
avvolge su se stesso e ogni ambiente è fuso con gli altri. Nelle intenzioni degli autori, si è
prodotta un’organizzazione alternativa dello spazio domestico attraverso l’orientazione
delle superfici93. Le relazioni tra i diversi luoghi sono reversibili e non esistono né gerarchie
tra gli spazi né discontinuità topologiche di sorta. La figura di partenza è un anello nel
quale sono stati effettuati tagli. Piegature opportune hanno deformato le lingue di
superficie creando continuità spaziale tra i diversi livelli generati dalle increspature.
Riteniamo che questo progetto abbia alcuni sostanziali difetti, ma almeno un pregio
eccezionale. L’errore maggiore è che non si riesce a creare architettura, relegando questa
idea nel campo della pura sperimentazione di spazi alternativi di vita. Tuttavia, la qualità
davvero notevole risiede nella capacità, con poche operazioni, di creare uno spazio di
enorme complessità, coerentissimo con gli assunti derivati dalla topologia. Questo è un
uso estremamente maturo dello strumento informatico. Certamente il progetto poteva
essere realizzato attraverso nastri di carta fisici; tuttavia, il computer ha permesso una
gestione della complessità generale del sistema. Infatti, Virtual House più che un progetto
singolo può essere considerato un metodo progettuale applicabile a moltissimi casi. I
risultati possono essere ritenuti buoni, anche se limitatamente alla questione dell’indagine
sullo spazio del vissuto. Conferma di quanto detto è anche il progetto di concorso Azadi
Cinepleh (Teheran, Iran) del 1997 (Fig. 34), nel quale l’idea di continuità tra i diversi livelli
è applicata (in modo non del tutto convincente e con meno maturità spaziale) ad un
progetto di edificio per esposizione ed affari. In questo esempio possiamo trovare un tema
di riflessione che si ripresenta in tutti i casi che andremo a descrivere. L’ipotesi: è
impossibile generare luoghi architettonici o di Cyber-architettura simili a quelli appena
descritti senza un ambiente culturale matematico adeguato. Questo non significa che i
progettisti indagati abbiano un diretto interesse verso le questioni tecniche o filosofiche
delle matematiche superiori. Il problema è quello dell’esistenza di un humus culturale che,
in qualche modo, influenza questi progetti. Nel caso che stiamo studiano il rapporto è
ancor più diretto. I programmi di CAAD e i modellatori solidi utilizzati dai progettisti sono
essenzialmente basati su operazioni matematiche di alto grado di complessità che
utilizzano procedimenti basati sulla topologia o, almeno, su operazioni booleane di somma
o sottrazione di figure geometriche primitive. Così, lo strumento è in grado di lavorare
grazie a regole matematiche fondate sulla teoria delle forme non-euclidee e su operatori e
funzioni coerenti con la continuità di superficie derivata dalla topologia. In verità, i processi
di interazione tra software e progettista non sono mai stati indagati da nessun autore di
nostra conoscenza. L’ipotesi appena formulata è, pertanto, assolutamente personale,
92
Lo studio è formato da Farshid Moussavi (1965) e Alejandro Zaera-Polo (1963) ed opera a Londra dal 1995. Il primo autore si è
formato a Londra, mentre il secondo a Madrid. Entrambi hanno conseguito il Master di architettura ad Harvard.
93
Frédéric Migayrou e Marie-Ange Brayer (a cura di), op. cit., p. 146.
basata anche sulla nostra pratica operativa con tali software e su alcune interviste
realizzate ad alcuni progettisti.
Un fatto comune a tutti gli autori indagati e a tutte le interviste fatte è che la natura dello
spazio generato con il computer è essenzialmente poetica. Non è spazio logico, né teso a
dimostrare verità programmatiche. Anton Markus Pasing è, come nella sua natura,
estremo. Egli parla addirittura di «brama» (Sehnsucht) nella generazione dell’architettura.
Il discorso che egli compie all’interno della progettazione è di semplice realizzazione di
un’idea e lo strumento informatico non è altro che un semplice mezzo. La sua visione è
assai vicina a quella di Peter Eisenman. Dice Pasing: «[...] i difetti e le possibilità dei
diversi programmi possono talvolta dare apparizioni inattese o notevoli nella nascita
dell’architettura». Gli aspetti sorprendenti possono essere insiti nel progetto o derivare
dallo strumento 94. Eisenman ha un atteggiamento pressoché identico. Il computer indaga
le possibili forme e sovrapposizioni. La pratica della decostruzione è qui verificata ed
ampliata. Le sue ideologie antigerarchiche rivolte alla rottura della continuità lineare sono
potenziate attraverso un procedimento basato su diagrammi elettronici95. Il dialogo
incessante tra modelli reali e virtuali è rivolto a favore di una «creazione-invenzione» di
forme a partire da una configurazione dinamica di forze e finalità 96. In più. È famosa la
polemica suscitata da Eisenman in una delle sue conferenze: egli espresse come
personale metodo di progettazione attraverso il computer la prassi di elaborare la forma,
sovrapporla, mutarla, girarla nello spazio virtuale e, alla fine, portare a termine
quell’immagine bidimensionale che a lui sembrava meno chiara delle altre. Il processo di
sorpresa e di invenzione totale è tipico della pratica decostruttivista e qui, nell’ambito
dell’architettura virtuale è ben presente e addirittura potenziato. Questo sviluppo di idee
«[...] alimenta il virtuale stesso»97. Altrove leggiamo:
L’utilizzo degli strumenti informatici [nello studio Eisenman] non è importante quanto le modalità di
questa cultura, nella quale la sovrapposizione, il collage e il montaggio sono prima di tutto strumenti
98
volti al raggiungimento del limite da oltrepassare.
Il computer è esclusivamente il mezzo per potenziare intuizioni di carattere poetico o
programmatico. Un simile atteggiamento è legato anche alla posizione del gruppo di
architettura tedesco Kunst und Technik. In un intervista effettuata dall’autore di questo
scritto, Jan e Tim Edler, i due fondatori dello studio, affermano che nello spazio elettronico
si cerca di simulare, di sostituire il reale, di riprodurre i sentimenti (sic!). Essi,
intelligentemente, sottolineano un aspetto che era rimasto assolutamente latente nelle
indagini fin’ora condotte. Riguardo allo spazio virtuale
[...] molta gente è affascinata dalla possibilità di riprodurre spazi, avvenimenti, situazioni del mondo
reale. Ma se riflettiamo un po’ più approfonditamente questo alla fine può risultare la cosa meno
interessante, poiché i limiti del mondo reale - come ad esempio la forza di gravità, la logica dello
spazio, il fatto di dover entrare ed uscire dall’unica porta presente in una stanza - sono limitazioni che
non dovrebbero essere assolutamente presenti nello spazio elettronico. Ed è quindi interessante
utilizzare la libertà che ci offre lo spazio elettronico. Penso comunque che sotto questo punto di vista,
ovvero il concetto del senso dello spazio e spazio elettronico, siamo ancora all’inizio. Il problema è
come collegare i due spazi. I tentativi in questa direzione sono innumerevoli, ma la cosa più
importante è il concetto della geometria nello spazio e nello spazio elettronico in modo che si vada al
94
Intervista effettuata da Paolo Vincenzo Genovese ad Anton Markus Pasing. Trad. dell’autore. Cfr. Appendice II.
Luca Galofaro, op. cit., p. 39.
96
Ivi, p. 40.
97
Ibid.
98
Ivi, p. 41.
95
di là di quello che viene definito dai tecnici, i quali si limitano a rispecchiare nello spazio elettronico la
99
geometria dello spazio materiale.
Tale discorso porta la nostra trattazione in una direzione centrale per la cultura Cyber.
Per Kunst und Technik è insito nel mezzo elettronico una maggiore libertà formale.
Lo spazio elettronico non dev’essere geometrico. Lo spazio geometrico può essere senza forma.
E’ tuttavia importante capire dove si colloca il punto d’incontro dello spazio reale con lo spazio
elettronico; in più deve esserci un contatto logico con lo spazio reale ed elettronico, in modo che il
secondo offra un ampliamento della realtà. Non è infatti detto che lo spazio elettronico sia
geometricamente strutturabile o configurabile. [...] Il fatto che lo spazio elettronico sia geometrico, non
100
è altro che un caso particolare, cioè uno modo speciale di completamento dello spazio reale.
Ciò conferma l’ipotesi che avevo espresso. Grazie ai comandi, la libertà formale è
contenuta nello strumento software. Ma Kunst und Technik dicono qualcosa di più. Anche
se limitatamente alla problematica dello spazio elettronico, essi affermano che l’assenza di
vincoli strutturali e di materiali permette (e quasi obbliga) una libertà formale/spaziale
assoluta. Tale componente è da leggersi in parallelo con quelle sperimentazioni sulla
forma destinate, al contrario, alla realizzazione. È nostra convinzione che le due strade
dell’architettura Cyber e della progettazione di derivazione virtuale destinata alla
realizzazione siano figlie di una stessa cultura, si influenzino reciprocamente e siano
aspetti diversi di una medesima realtà. Sarebbe errato, infatti, immaginarle come due
realtà contrapposte o impermeabili.
A tale riguardo possiamo citare un secondo progetto di Foreign Office Architects.
Accanto alla pura sperimentazione di organismi avvolti in superfici di Möbius, essi hanno
vinto il primo premio per il concorso del Yokohama Port Terminal del 1995, progetto in
corso di realizzazione (Fig. 35). L’idea generale non è lontana da quella per la Virtual
House. Si tratta di una immensa copertura sovrastante gli spazi adibiti alle funzioni di
interscambio e di smistamento passeggeri del porto di Yokohama in Giappone. Lo spazio
a quota inferiore è continuamente variato e articola le diverse funzioni a seconda del
programma di concorso. Ma quanto ci interessa è la gigantesca copertura, realizzata con
un piano tagliato e dolcemente ondulato in modo che le fenditure fungano da raccordi tra
la copertura ed il livello sottostante contenente le funzioni. La soluzione è perfetta per
comprendere come funzionino le alterazioni dei piani topologici. In sintesi: la copertura
piana, senza tagli è, in topologia, una superficie di grado 0. Ogni taglio o buco che si
realizza fa aumentare di una unità la complessità topologica della forma. Il progetto ha 5
tagli di superficie e pertanto ha complessità topologica pari a 5. Secondo quanto illustrato
prima è possibile alterare questa forma ripiegandola su se stessa, compenetrandola. Essa
rimarrà di complessità 5 indipendentemente dalla forma finale. Queste operazioni,
facilmente realizzabili con un modellatore solido (ad esempio Form-Z o 3D-Studio Max per
citare solo i più famosi), sono insite nelle possibilità dello strumento software. Ma non
siamo davanti ad un gioco reso possibile esclusivamente dalla potenza della macchina. In
qualche modo questi comandi sono frutto delle scoperte della matematica. Sarebbe errato
pensare alla sola potenzialità tecnica. L’elaborazione di geometrie non-euclidee e
topologicamente complesse deriva anche da una cultura della forma che si è sviluppata a
partire dalla decostruzione e dalla Cyber-cultura.
La riflessione sulle superfici topologiche trova altri due notevoli esempi in autori che, pur
lontani per formazione e risultati, hanno prodotto lavori basati sui concetti di superficie
continua avvolta su se stessa. Un aspetto che desideriamo sottolineare è l’importanza
della somiglianza formale di alcuni lavori. Ciò non è una banale adesione a modelli
99
Intervista effettuata da Paolo Vincenzo Genovese a Kunst und Technik. Trad. di Maria Antonietta Fidale. Cfr. Appendice II.
Ibid.
100
estetici. La forma non è mai estetica, bensì riflessione sulla matrice matematica di questa.
In altre parole, gli autori si riferiscono alla forma non dal punto di vista della bellezza o di
soggezione ad un modello; l’attenzione è sempre concettuale e il riferimento alle
matematiche superiori implica sempre forme complesse o di forte impatto visivo e
concettuale. Il nostro sforzo è quello di sottolineare questo aspetto e di trovare temi
comuni che siano estetico/concettuali. I due esempi che seguono sono la dimostrazione di
come le idee topologiche siano diffuse e interpretate in un’architettura sì visionaria ma
realizzabile. Pur ammettendo che molti esempi di cui trattiamo hanno una forte
componente astratta, divenendo veri manifesti Cyber, esistono casi nei quali la coerenza
con le idee più estreme trova sbocco in un progetto estremamente razionale. I casi di
Oosterhuis Associates e di NOX sono culturalmente affini poiché lavorano ed operano in
Olanda. Il progetto Trans_Ports 2001 per Rotterdam del 1998-2001 (Fig. 36) di Oosterhuis
Associates101 è un padiglione di ridotte dimensioni che ricorda un “uovo” deformato. Il
progetto è originale non tanto per la sua forma. La Cyber-architettura produce dozzine di
questi oggetti in modo più o meno riuscito. Quello che desta il nostro interesse riguarda
l’uso di superfici avvolte che vengono utilizzate, dagli stessi progettisti, come base per
architetture reali. Le “strutture mutanti” dell’organismo - basate sulla deformazione di un
oggetto primitivo -, le trasformazioni continue della percezione del visitatore all’interno del
luogo e le divisioni dello spazio effettuate senza partizioni aggiuntive ma esclusivamente
con l’alterazione della superficie della scocca esterna, abbia corrispondenza con altri
progetti da loro costruiti. Nel caso di Trans_Ports 2001 troviamo in forma più estrema e
programmatica le medesime idee del Saltwaterpavilion (Fig. 37) edificato a Neeltje Jans in
Olanda nel ’97. Come altri critici ammettono, in quest’ultimo caso siamo di fronte ad una
scultura o, nella migliore delle ipotesi, ad un luogo di esposizione che, pertanto, ha
caratteristiche di spazio del vissuto assolutamente particolari. Esso implica sempre un
attraversamento e, pertanto, una percezione dinamica. Tuttavia troviamo che questo
esempio sia la significativa applicazione, anche se con minor intensità intellettuale rispetto
ad altri lavori, degli spazi avvolti che abbiamo visto in precedenza.
Il gruppo NOX 102 presenta un livello sostanzialmente differente. In questo caso stiamo
parlando di uno dei gruppi di architettura più talentuosi del momento, capaci di rinnovare la
progettazione architettonica in modo interessante. Questi autori torneranno più volte nel
nostro scritto con esempi diversi poiché il loro lavoro tocca tutti i campi che ci riguardano.
Ora ci soffermiamo solamente su un progetto direttamente connesso alle ricerche sugli
spazi topologici. In modo non dissimile dal Saltwaterpavilion e dal Trans_Ports 2001 di
Oosterhuis Associates, il progetto V2 Lab (1998) è anch’essa una superficie topologica
avvolta su se stessa, deformata in modo organico ma aderente ad un’estetica Cyber (Fig.
38). In ogni “sogno” di NOX esiste sempre un’attenzione alla realizzabilità. Anche questo
progetto, apparentemente simile a tanti altri della Cyber-cultura, presenta qualcosa di più.
Pur essendo figurativamente aggressivo, esso contiene una maggiore razionalità
d’approccio. Ora è importante sottolineare come V2 Lab sia parzialmente realizzato e solo
in un secondo tempo esso verrà completato con la complessa geometria di facciata. Per
ora, tutto è limitato ad uno spazio interno comprendente book-shop, caffetteria e sala di
lettura di questo edificio espositivo a Rotterdam. Ancora una volta troviamo un’estetica
basata sulle membrane deformate, a metà strada tra l’organicismo di Kiesler e l’estetica
Web (sic!). Il progetto della facciata, non ancora realizzato, è basato su una membrana
traslucida e serigrafata che dovrebbe sfondare l’edificio preesistente per dare nuova
101
Has Oosterhuis (1951) è il titolare di questo studio. La sua formazione è olandese, poiché si è laureato a Delft nel 1079. Un
interessante legame lo troviamo anche con la Francia, avendo egli operato negli anni 1987-’88 in questo paese. La Francia, insieme
all’Olanda, è uno dei paesi europei nel quale la riflessione sulle relazioni tra spazi complessi ed architettura è più forte.
102
NOX è diretto da Lars Spuybroek (1959), diplomatosi, come Has Oosterhuis, all’università di Delft. Dal 1998 al 2000 ha
insegnato alla Columbia University di New York, alla Technical University di Delft e di Eindhoven e al Berlage Institute di Amsterdam.
vitalità all’organismo. Due sono i punti di interesse in questo caso. Il primo è l’utilizzo della
componente dello sfondamento del prospetto, la seconda deriva della tecnica della
serigrafia su vetro. Entrambe queste operazioni non sono originali della cultura
architettonica contemporanea se non limitatamente al concetto di “sovrapposizione di
immagini”. Attraverso la fusione d’immagine ottenuta con il morphing (la stessa tecnica
utilizzata da Eisenman per fondere una forma nell’altra), si opera una “confusione
controllata” dei due o più soggetti con sovrapposizioni e confusioni. Il risultato è una
accumulazione di significato basata non più sulla forma ma sulla complessità che
scaturisce da significati involontari. Questo significa che l’accavallarsi di più soggetti
dovrebbe esprimere significati che trascendono la somma degli originali in virtù di un
nuovo senso. Questo procedimento è stato eccezionalmente utilizzato da Toyo Ito nel
padiglione espositivo Visions of Japan, mostra al Victoria and Albert Museum di Londra
(1991). Dal punto di vista più strettamente architettonico la mente corre a due casi
interessanti. Il primo, poco conosciuto, è il progetto originale (realizzato poi in una versione
più cauta) del negozio di abbigliamento Rikki Reiner a Klagenfurt in Austria del 1983-’84 di
Günther Domenig. L’idea iniziale voleva che l’intero edificio storico che ospitava la
boutique fosse aggredito. Dal suo ventre doveva erompere una forza distruttrice che
avrebbe lacerato l’intero corpo architettonico preesistente. Il progetto venne bloccato
poiché eccessivamente invasivo su uno dei più importanti palazzi storici della città 103. Il
secondo riferimento riguarda un’opera basata sulla tecnica della serigrafia in facciata. Si
tratta della Library of the Eberswalde Technical School a Eberswalde in Germania di
Herzog & De Meuron (Fig. 39) nella quale gli autori hanno decorato i prospetti dell’edificio
con fotografie del tedesco Thomas Ruff. Qui, la collezione di immagini di Ruff è un’insieme
di immagini storiche che ha forte valenza comunicativa. La facciata diviene comunicazione
utilizzando gli strumenti tipici dei mass-media. Ritroviamo un’idea centrale della cultura
Cyber, ovvero la perdita di profondità della comunicazione. Tutto diviene un «mondo di
superficie». Al di sotto di essa non esiste alcun significato, oppure esiste un senso che
non saremo mai in grado di apprendere. I teorici postmoderni sostengono che il modo
privilegiato di conoscere può avvenire solamente attraverso l’esplorazione delle
bidimensionalità 104 che divengono reattive e autoreferenziali. Questo concetto è certo
presente in opere come quella di Herzog & De Meuron o in altri lavori simili quali il
complesso Europark che Massimiliano Fuksas ha edificato a Salisburgo nel 1994-’97 (Fig.
40) o, ancora, l’edificio KU 70 di Helmut Jahn in Kurfürstendamm a Berlino (Fig. 41). In
tutti questi casi, troviamo elementi di facciata che tendono a sovrapporsi alla consistenza
volumetrica e spaziale dell’architettura, includendo la comunicazione di superficie. Siano
esse serigrafie di foto (Herzog & De Meuron), grandi scritte (Fuksas) o semplici
decorazioni frangisole su vetro smerigliato (Jahn), il concetto non cambia: l’aspetto
comunicativo bidimensionale rimane uno dei punti di interesse dell’architettura. Ritornando
all’opera V2 Lab di NOX riconosciamo in modo più chiaro ed emblematico anche la
tematica della comunicazione di superficie. Nello sfondamento di facciata (non ancora
realizzato) troviamo, su una lastra topologica accartocciata, la trasparenza e le incisioni
serigrafate con elementi grafico/comunicativi che rinnovano il messaggio attraverso la
sovrapposizione e la trasparenza. L’edificio, così, diviene testo letterario.
Un secondo edificio di NOX ci offre l’occasione per analizzare un’ulteriore filo
conduttore nella generazione dello spazio attraverso il computer. Anche nell’ultimo
progetto presentato era evidente come una superficie topologica potesse essere generata
attraverso la deformazione «senza strappi» di una membrana elettronica. Tale essenza è
una specie di fondamento nella progettazione con il computer. L’operazione è quella di
103
104
Cfr. con Paolo Vincenzo Genovese, Günther Domenig, Testo & Immagine, Torino, 1998.
Sherry Turkle, op. cit., p. 28.
prendere un elemento bidimensionale base, elaborarlo formalmente e poi estruderlo nella
terza dimensione dandogli consistenza. A tale riguardo citiamo il progetto di dECOI105 (non
si tratta di un errore di battitura; è il vero nome del gruppo) per una boutique Missoni a
Parigi (Fig. 42). Lo sviluppo del progetto di fatto non va al di là di un arredo che, per
quanto complesso, ha i limiti di un intervento di questo genere. Per la nostra trattazione è
interessante l’uso che essi fanno di superfici accartocciate capaci di creare l’ambiente del
vissuto. Questo, pur essendo in diretto collegamento con le precedenti sperimentazioni
sulle superfici topologiche, ha una differente logica. La sostanza del progetto si articola su
una serie di fogli (elettronici) avvolti su se stessi che involucrano lo spazio del vissuto.
L’operazione non è molto dissimile da quella che Frank O. Gehry adotta quando progetta
avvolgendo carta intorno alle funzioni. In questo caso le forme sono di matrice organica,
fluida, ma riferita ad un mondo figurativo Cyber. Il legame con Gehry è strumentale per
capire uno dei procedimenti per la realizzazione di queste opere elettroniche. Invece di
modellare dei fogli di carta, dECOI e altri autori che più tardi leggeremo prendono “fogli”
virtuali bidimensionali e li deformano con gli strumenti contenuti nei modellatori solidi fino
ad ottenere la forma voluta. Simile il procedimento ma differenti i mezzi. Riteniamo che,
nonostante i processi non siano molto dissimili, esista una notevolissima distanza tra i due
approcci. Gehry è un epigono del Movimento Moderno che, in qualche modo, chiude
sancendone la fine. dECOI, al contrario, appartengono ad un mondo molto diverso che,
pur nutrendosi di un organicismo che ricorda Bruce Goff, Kendrick Bangs Kellogg 106, John
Lautner e altri, si radica nell’estetica Cyber.
In modo più maturo troviamo gli stessi contenuti nel progetto Beachness di NOX del
1997 (Fig. 43). Qui riconosciamo alcuni tratti tipici del caos formale di derivazione
decostruttivista, ma interpretati in una nuova ottica. Qui compare assai poco l’immagine di
forma organica. Ritengo, tuttavia, che l’adesione all’organicismo sia di natura più profonda
e radicale. Se per esso intendiamo l’imitazione delle forme naturali, ne abbiamo dato una
definizione del tutto parziale. L’organicismo è, essenzialmente, un’ottica che intende
interpretare i sistemi di funzionamento della natura e adattarne i modi di comportamento
all’architettura. Due sono i riferimenti utilizzabili a riguardo. Il primo è la scienza bionica
che utilizza lo studio delle strutture animali e vegetali al fine di trasporre i principi formali e
strutturali all’interno delle costruzioni dell’uomo. Il secondo ramo di studi, più recente, può
essere fornito dalla matematica frattale.
La bionica deriva dal greco βιος che significa «elemento vitale, vita di esseri
ragionevoli». Questa disciplina tende a studiare i principi di funzionamento della natura,
analizza i sistemi viventi per comprenderne l’uso. La bionica, al contrario della botanica o
della zoologia, utilizza questi studi
[...] al fine di usare le conoscenze che ne derivano nella progettazione di sistemi artificiali. Fare
della bionica significa: studiare i sistemi viventi per imparare a conoscere come funzionano; imparare
107
ad applicare alla soluzione di problemi tecnici ciò che si è imparato a conoscere dei sistemi viventi.
La bionica, in generale, ha l’obiettivo di capire la logica delle strutture naturali e viventi per
applicare tali conoscenze a protesi artificiali per gli esseri umani, per l’ingegneria
aerospaziale e persino per l’architettura. Così, lo studio della struttura alveolare delle
ossa108, il volo radente degli insetti 109 e la distribuzione delle tensioni sulle bolle di
105
dECOI è un gruppo di architettura francese composto da Mark Goulthorpe (1963) diplomato a Liverpool, Inghilterra e Yee Pin
Tan (1962).
106
Se l’opera di Bruce Goff è molto conosciuta e celebrata, è utile ricordare un breve riferimento all’opera di Kendrick Bangs
Kellogg. Per leggere e consultare quattro notevoli opere di questo autore americano, vedasi «L’Architettura - Cronache e Storia», n.
376, febbraio 1987. Vedasi anche il sito Internet: http://www.sandiegoart.com/KKellogg/index.html.
107
Giorgio Scarpa (a cura di), Modelli di bionica, Zanichelli, Bologna, 1985, p. 6.
108
Cfr. con James E. Gordon, Strutture, ovvero perché le cose stanno in piedi , Mondadori, Milano, 1979.
109
Cfr con J. Gray, Come si muovono gli animali, Feltrinelli, Milano, 1959.
sapone 110, sono tutti campi di ricerca rivolti allo studio di come i sistemi naturali
organizzino la loro forma per una perfetta distribuzione di forze e tensioni e, più in
generale, di come essi siano sistemi ideali di funzionamento 111. Il proverbio Moderno «la
forma segue la funzione», lascia il posto ad una nuova sintesi: forma e funzione sono un
unicum inscindibile. Per la bionica la forma è strettamente connessa alla funzione e,
pertanto, non esiste un termine subordinato all’altro. La bionica è una fonte di ispirazione
per almeno due motivi: il primo è di natura logico/formale, il secondo di natura
statico/strutturale.
Modelli per lo studio bionico sono le piante che devono resistere a sforzi meccanici di diversa
natura, che crescono, consolidandosi dall’interno, nella direzione precisa delle forze che agiscono su
112
di esse.
Molti sono i casi che possono essere citati, e forse il più aderente è quello del tedesco Frei
Otto. Aldo Capasso fa osservare come
[...] l’accostarsi alla natura non significa progettare edifici dall’aspetto di organi animali, che, quindi,
113
appaiono simili alla natura senza per nulla essere naturali.
Nelle opere di Otto
[...] prevalgono la leggerezza, la trasparenza, l’essenzialità, ed in particolare la tensione energetica
propria delle strutture naturali, con le quali tali costruzioni sembrano armonizzarsi in maniera anche
suggestiva. La suggestione e la qualità delle opere dell’architetto tedesco sta dunque proprio in
114
questa logica che governa le strutture e lo spazio che ne deriva.
In quest’ultimo passo troviamo uno dei centri di interesse di questo scritto, ovvero la
questione spaziale. L’armonizzarsi alle forme della natura non dev’essere imitativo, bensì
derivare dalle logiche tensionali e d’uso. Così, il risultato sarà certamente, in quest’ottica,
armonizzato alla natura perché derivato dalle stesse logiche. Un caso assolutamente
affine è quello dell’italiano Sergio Musmeci115, i cui studi sulle membrane resistenti sono
chiarissimi esempi di come lo studio dell’andamento delle tensioni sulle strutture naturali
(bolle di sapone, membrane tese, etc.) abbia dato origine a forme di chiara derivazione
naturale. La bionica è per noi anche utile poiché è stata utilizzata come materia per la
creazione di protesi meccaniche per esseri umani, discorso che ci riconduce a quanto
detto nel capitolo 2.1.
La bionica è, accanto all’organicismo di stampo wrightiano (nelle interpretazioni di Goff,
Kellogg e Lautner) uno spunto fondamentale per capire alcuni lavori dell’architettura
Cyber. Le forme zoomorfe che spesso si incontrano in quest’ultimo ambito sono in parte di
ispirazione poetica (o polemica come nel caso di Pasing), mentre dall’altro lato si nutrono
dei contributi della cibernetica e della bionica. Questi hanno una storia di almeno
quarant’anni. Quello che avviene attualmente è un rinnovamento dovuto anche ad alcune
scoperte importanti nel campo della matematica. Tutto questo dev’essere letto oggi alla
luce delle scoperte che Benoît B. Mandelbrot ha realizzato con la sua matematica frattale.
L’assunto del ragionamento frattale è che le forme geometriche platoniche studiate da
Euclide sono l’eccezione piuttosto che la regola nel mondo della nostra esperienza. Sassi,
nuvole e montagne non sono riconducibili a nessuna geometria particolare 116. Ogni forma
110
Cfr. con Boys, Le bolle di sapone, Zanichelli, Bologna, 1963.
Uno dei riferimenti fondamentali per le scienze bioniche è il saggio D’Arcy Wentworth Thompson, Crescita e forma, Bollati Boringhieri,
Torino, 1992, nel quale tutte le principali direzioni di questa disciplina sono tracciate con la chiarezza di un autentico pioniere.
112
Giorgio Scarpa (a cura di), op. cit., p. 7.
113
Aldo Capasso, Introduzione, in Aldo Capasso (a cura di), Architettura e leggerezza, Maggioli Editore, Milano, 1998, p. 15.
114
Ibid.
115
Manfredi Nicoletti, Sergio Musmeci, Testo & Immagine, Torino, 1999.
116
Luca Peliti e Angelo Vulpiani, Prefazione all’edizione italiana, in Benoît B. Mandelbrot, Gli oggetti frattali, Einaudi, Torino, 1987,
p. IX.
111
di analisi del passato è volta alla ricerca di armonia che, suggeriamo, era una forzatura di
carattere filosofico od etico. I fenomeni che non rientravano in questo ordine armonico non
avevano diritto ad essere chiamati scientifici117. I frattali studiano gli oggetti naturali da un
punto di vista matematico. Questi studi accolgono tutti quei fenomeni che hanno la
caratteristica di essere irregolari. La terra, il cielo, la forma delle nuvole e delle turbolenze,
sono caratterizzati da proprietà così complesse che solamente la matematica
contemporanea ha avuto la forza di affrontare. Mandelbrot stesso parla di una rivoluzione
che ha avuto come esito una «nuova geometria della natura». I risultati sono applicabili ad
una enorme quantità di discipline diverse, quali la geomorfologia, l’astronomia, la teoria
delle turbolenze, e altro ancora 118. Per far questo si è dovuto adottare un sistema
geometrico descrittivo basato su dimensioni frazionarie. Ma i discorsi si fanno di natura
tecnica e dobbiamo, per ora, rimandarne l’analisi al momento in cui parleremo delle
geometrie di ordine superiore di Hilbert. Resta importante dire che la geometria frattale è
caratterizzata da problemi scelti in seno al caos della natura 119, ricercando delle leggi
ricorsive che ne spieghino la natura e proprietà geometriche arbitrarie solo in apparenza.
Sintetizzando questa lunga digressione sul problema dell’organicismo interpretato dal
punto di vista della bionica e della matematica frattale, troviamo alcuni punti interessanti
che ci permettono di leggere meglio alcune opere di architettura. Organicismo, bionica e
frattali, sono tre aspetti che si integrano per generare un’interpretazione dello spazio
architettonico basato sulle forme irregolari, di ispirazione biomorfa o zoomorfa, la cui
morfogenesi si fonda sulle logiche di accrescimento dei sistemi viventi o di organizzazione
molecolare di rocce e cristalli.
Riprendiamo il progetto Beachness di NOX (Fig. 43) che avevamo lasciato in sospeso.
Possiamo finalmente riconoscere tutte le ispirazioni appena descritte. Esso si articola
come una narrazione spaziale basata sulla geometria del caos. Ma ora abbiamo alcuni
chiavi interpretative adatte per comprendere come tale progetto non sia frutto del
capriccio, ma basi la sua forma su studi organici e matematici sempre riconducibili alla
natura. Beachness è uno «stato di mobilità». Esso si ispira alla spiaggia;
[...] the beach should be primarily conceived as a field in which everything is in a state of openness
120
and non-fixation.
È un hotel-boulevard basato sulla compresenza di differenti tipi di movimento formalizzati
in una somma che genera risultati descrivibili con le geometrie non-euclidee e con la
matematica del caos di René Thom. Tra edifici preesistenti, NOX inseriscono una
costruzione a-formale con sviluppo verticale. L’analisi della genesi di questo progetto
denuncia come esso sia basato su flussi di percorrenza, idea che viene conservata anche
nella soluzione finale. I rendering, infatti, offrono l’aspetto di percezione dinamica. Tutta
l’opera è un percorso che si dipana a mo’ di narrazione. È, altresì, chiaro come questo
progetto sia nato dall’inviluppo di percorsi, di fusioni spaziali; esso è una struttura che si
compone di parti deformate ponendosi al di là della semplice potenzialità tecnica dello
strumento. È l’idea di flusso che genera lo spazio, il tutto supportato da una teoria della
forma organica. Scorgiamo ancora due punti di interesse. Ritroviamo anche in questo
progetto l’idea della pelle dell’architettura utilizzata come supporto comunicativo. Come il
precedente V2 Lab di NOX, anche questo modello ha un involucro nel quale sono
impresse lettere, scritte o diagrammi. La pelle dell’architettura diventa supporto
comunicativo, verificando la profezia di McLuhan «il medium è il messaggio»121. Esiste
una corrispondenza tra mezzo e messaggio, tra strumento comunicativo e contenuto.
117
Ibid.
Benoît B. Mandelbrot, op. cit., p. 7.
119
Ivi, p. 12.
120
Frédéric Migayrou e Marie-Ange Brayer (a cura di), op. cit., p. 326.
121
Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano, 1999.
118
Entrambe le categorie, tradizionalmente separate, tendono nella società contemporanea a
coincidere. Il supporto dell’informazione tende a coincidere con il contenuto. L’edificio
diviene testo comunicativo che però comunica gli aspetti estetici e superficiali del discorso
narrativo. Ciò non è negativo poiché la teoria postmoderna della comunicazione afferma
l’importanza della superficialità dell’informazione o, in altre parole, l’informazione senza
messaggio. In tal modo le parole incise sulle superfici da NOX e da altri non sono
importanti in quanto espressivi di contenuto, bensì divengono citazioni nelle quali non
esiste significato ma solamente significante. La citazione nasce e finisce lì. L’operazione
non è originale ma abbondantemente utilizzata da Daniel Libeskind in numerosi progetti
degli anni Ottanta e Novanta 122. Il secondo aspetto di riflessione riguarda la
complicatissima struttura portante di Beachness. Essa è generata dal caos e qualunque
strutturista avrebbe seri problemi nel compito di calcolare la statica dell’organismo. In
realtà questa difficoltà oggettiva nasconde una problematica più vasta. Strutture calcolabili
stanno in piedi, ma riescono a resistere anche strutture non calcolabili. Anche sistemi
strutturali dotati di altissima complessità sono in grado di resistere alle leggi della statica.
Sono i consueti strumenti di analisi degli sforzi (software di ingegneria compresi) ad
essere inadeguati. Nondimeno queste strutture resistono. Il problema è stato sollevato da
Francesco Cocco 123 in una conversazione privata tra lui e l’ing. Giandomenico Cocco,
strutturista di Afra e Tobia Scarpa124. Il problema è: esistono strutture non-razionali che
nonostante la loro complicazione sono perfettamente in grado di resistere alle
sollecitazioni dovute ad un normale utilizzo. Compito del progettista è quello di affinare
strumenti di calcolo in grado di affrontare strutture “non discrete” dal punto di vista degli
sforzi. Una possibile risposta può essere data da Frei Otto con il suo metodo del
rilevamento delle deformazioni minimali su modelli. È importante citare un’interessante
scritto di Mick Eekhoust sui sistemi di calcolo e verifica delle tensioni che Otto utilizzò nelle
coperture dello Stadio Olimpico di Monaco di Baviera125. L’analisi sarebbe eccessivamente
lunga e rimandiamo sicuramente allo scritto. Basti l’accenno che il principio si basa sulla
consapevolezza che simili strutture sono impossibili da calcolare con i tradizionali
strumenti della scienza delle costruzioni. Otto ha pertanto ideato un metodo basato sulla
creazione di modelli in scala fotografati dapprima in stato di quiete e successivamente
soggetti ai carichi. Fatto questo, le immagini sono sovrapposte e gli spostamenti dei
diversi punti sono rilevati da un computer che ricostruisce gli stati tensionali interni derivati
dagli spostamenti relativi dei diversi punti.
Ci siamo soffermati su questi aspetti poiché una delle critiche classiche che vengono
rivolte a un certo tipo di architettura riguarda la visionarietà contenuti nel rapporto tra lo
spazio del vissuto e la pelle comunicativa, e, in seconda analisi, la questione strutturale.
Le nostre enunciazioni non possono essere delle risposte definitive, bensì personali
interpretazioni del problema.
Questo impegno è stato reso necessario perché nell’architettura che abbiamo indagato
compaiono spesso lavori che presentano un aspetto mass-mediologico e strutturistico
estremo che tende a porsi in modo nuovo verso il fare architettura. Per chiarire è
122
Lo stesso progetto del Museo Ebraico di Berlino del 1989-’96 è stato strutturato nella sua linea zigzagante con un procedimento
molto complesso. Libeskind ha preso il lungo elenco di ebrei berlinesi deportati nella seconda guerra mondiale e connettendo con delle
linee immaginarie i diversi luoghi di residenza. Le fasi iniziali del progetto avevano conservato questo processo ed era possibile vedere
nei primi plastici questi elenchi di nomi che ricoprivano il corpo dell’edificio. L’infinità dei nomi presenti in quell’elenco era una citazione
assolutamente eloquente delle migliaia di vite troncate. Dietro quella lista non si celava alcuna storia, nulla era trascritto, ed esso era
significativo come semplice elenco di nomi. È un caso in cui il significato sia contenuto nel significante o meglio in cui esista un’assenza
di significato e l’elemento comunicativo sia dato esclusivamente dal significante.
123
Per la conoscenza dell’opera dell’architetto italiano Francesco Cocco vedasi Bruno Zevi, Storia e controstoria dell’architettura in
Italia, Newton & Compton, Roma, 1997, pp. 602-607 e 728. In più: «L’Architettura - Cronache e storia» n. 439, pp. 326-337 e n. 446, p.
849; n. 471, pp. 6-15; ed infine «VilleGiardini», n. 337, pp. 13-21.
124
L’ing. Giandomenico Cocco ha progettato per Afra e Tobia Scarpa la Fabbrica Benetton a Castrette (TV) nel 1992.
125
Mick Eekhout, Frei Otto and the Munich Olympic Games (from the measuring experimental models to the computer
determination of the pattern), in «Zodiac» n. 21, settembre 1972, pp. 12-73.
opportuno citare un gruppo di architettura che personalmente riteniamo di grande valore
spaziale e di forte maturità espressiva: Naga Studio Architecture 126. La motivazione è data
dal fatto che, in questo caso, esiste una fortissima sintesi tra decostruzione, Cyberarchitettura e plastica scultorea, una sorta di compendio di questo scritto sulle questioni
spaziali. È infatti nostro interesse indagare la genesi delle spazialità non-euclidee a partire
dai diversi modi di creazione della forma. Naga Studio presenta una sintesi a mio parere
molto interessante perché la forma nasce da modellini fisici che vengono successivamente
elaborati con lo strumento informatico. Ma il processo non è unidirezionale, bensì oscilla
tra un estremo e l’altro. Al contrario dei precedenti esempi nei quali l’elaboratore era
strumento principe di azione, qui esiste una fusione di diversi modi, motivo che lega questi
esperimenti più alla decostruzione di Asymptote che alla visionarietà folle di Novak e Chu.
Tre sono i progetti di Naga Studio di cui desidero parlare. I primo è un semplice plastico di
studio per un’abitazione privata, mentre gli altri due sono progetti completi di buon livello
figurativo e spaziale.
ESK House (progettata nel 2000) ha come principio poetico l’idea di sospensione,
espressa dalla perdita di peso in assenza di gravità e dalla leggerezza del peso corporeo
nell’acqua (Fig. 44). La perdita delle tradizionali limiti della tettonica dell’architettura è
emblematico. Non è il primo caso di architettura Cyber che rifiuta di prendere in
considerazione il problema del peso e della “massa” dell’edificio. Tutto sembra fluttuare
nel nulla, rispettando la più diffusa idea di spazio virtuale. In questo caso, però, esiste una
deroga dalla norma dei casi precedenti. La perdita di peso non è il rivolgersi ad
architettura astratta, o non realizzabile, o ideazione di spazio Web. Siamo di fronte ad una
scelta poetica volta a ideare un corpo architettonico che suggerisca l’idea di assenza di
peso. Questo progetto, pur essendo fortemente improntato ad essere manifesto poetico
dell’autore, ha sempre un pensiero rivolto all’architettura reale. Esso nasce come plastico
architettonico e non come progetto che deve vivere esclusivamente nello spazio virtuale
della memoria di un computer. ESK House si sviluppa a partire da assi cartesiani
(interessante paradosso: la generazione di spazi non-euclidei avviene a partire da uno
spazio ordinatore). La retta delle ordinate rappresenta una traiettoria, un’emergenza
dall’acqua; un asse discendente genera lo spazio domestico. L’utilizzo di percorsi dinamici
in cui la materia organica o spaziale si deforma secondo forze attrattive o pesi è comune
anche ad un progetto che vedremo in seguito di Greg Lynn. Le elaborazioni elettroniche di
ESK House hanno forti analogie con il metodo di dECOI utilizzato nella boutique Missoni:
una serie di lastre deformate e accartocciate su se stesse secondo un disegno capace di
creare uno spazio organico. La differenza tra i due esempi è sostanziale: Naga riesce a
creare un involucro complesso rivolto alla fruizione fisica (anche se il progetto risulta
essere ancora in fase preliminare) - fatto testimoniato anche dagli schizzi a matita che
indagano i percorsi spaziali del fruitore -; dECOI immaginano qualcosa che non riesce a
scostarsi da un elaborazione teorica incapace di generare vero spazio del vissuto. In
qualche modo questi ultimi sono succubi dello strumento informatico.
Nelle altre due opere di Naga (che presentiamo insieme poiché generate da uno stesso
spirito compositivo) ritroviamo le medesime tematiche ma approfondite da un maggior
sviluppo in termini di logica edilizia. In Marina International Hotel del 1998 (Fig. 45) e nello
Sharm Safari Gate del 1997 (Fig. 46) l’idea di sviluppo topologico senza fratture è
presente: le diverse membrane che fanno parte della struttura sono superfici senza strappi
che, assommate, contorte ed intersecate, danno luogo all’architettura.
126
Lo studio è gestito da Tarek Naga, nato nel 1953. Si è laureato in Urban Planning (1977) e ha conseguito il Bachelor of Science
of Architecture all’università Aim Shams al Cairo, nel 1982 ha conseguito il Master of Architecture all’Università del Minnesota a
Minneapolis. Lo studio Naga a sede a Los Angeles in California. La sua data di nascita incuriosisce. I suoi risultati espressivi ci fanno
capire come le elaborazioni elettroniche siano derivate da modelli “reali” realizzati come sculture in modo non dissimile da quello usato
da Frank O. Gehry nelle sue opere.
Fixity and stasis may occur only at a thresholding instance (a point of suspension) where flows are
moving in opposing vectors: a subversive counter-state to the point of inflection in a topological
continuum. [...] Architectonic volumes (imploding or exploding) that intersect with topological
127
conditions, effectively become turbulences in the flow of continuous surfaces.
Ma, mentre in altri casi le elaborazioni informatiche lasciavano luogo ad interpretazioni, qui
le idee architettoniche sono più esplicite. Ci troviamo di fronte non ad immagini virtuali ma
ad un uso del CAAD rivolto alla prefigurazione di un progetto che sembra di per sé finito.
Molto spesso abbiamo incontrato luoghi virtuali dotati di un alto livello di astrazione, spazimanifesto, elaborazioni programmatiche di un’idea filosofica intesa ad applicare una nuova
visione della società o del modo di relazionarsi con lo spazio del vissuto. Chu, Novak o
Kolatan/Mac Donald Studio, per citarne solo alcuni, danno l’impressione di utopie
intellettuali, anche se di stampo ben diverso dal senso classico di questa parola 128. Pur
avendo una forte componente spaziale, i risultati sono ancora al di là di una ideale linea di
demarcazione che separa le astrazioni da luoghi effettivamente esperibili, anche se solo
dal punto di vista virtuale. In sostanza, alcune opere sembrano più oggetti virtuali che
“spazi del vissuto informatico”. In Naga Studio Architecture questo non accade poiché le
opere citate sono anticipazioni di architetture realizzabili nelle quali anche l’aspetto statico
e funzionale è stato considerato. Ma sarebbe semplicistico collocare questo autore nella
direzione di un progettista di architettura. Egli è nutrito della cultura decostruttivista e
Cyber, fatto dimostrato dai progetti di Marina International Hotel e Sharm Safari Gate. Il
primo è un grande edificio a corte con una torre posta ad angolo. Questa presenta un
andamento spiraliforme che si evolve e muta con l’altezza attraverso un moto acceleratore
verticale 129 che dà luogo ad un vortice di setti deformati. Anche qui ritroviamo la poetica
delle superfici topologiche avvolte su se stesse e dell’organicismo, non espresso da forme
zoomorfe bensì dalla fluidità dei percorsi e degli spazi interni. Anche il Sharm Safari Gate
presenta spunti poetici di grande forza evocativa derivati dal movimento. Il progetto è una
metafora del nomadismo e del movimento, filtrati dalla grande ricchezza che il deserto del
Sinai ha significato per la cultura egiziana. L’esplorazione ha una complessità simbolica
profondissima sia dal punto di vista mentale che fisico. Il progetto, allora, è narrazione di
un tempo biblico che testimonia un’evoluzione (ancora una spirale ascendente, stavolta di
carattere mistico). Il senso di creazione e dissoluzione del gruppo nomade è evocato da
membrane che avviluppano lo spazio, e dalla struttura portante che esplode nell’intorno
suggerendo il percorso aperto delle carovane nel deserto. Ma, nonostante il forte senso
poetico di queste due opere, rimane inequivocabile che entrambi i progetti hanno, pur
nella visionarietà delle scelte stilistiche, una forte concretezza. Come conferma la
descrizione del progetto tratta dalle parole di Tarek Naga, le elaborazioni si compongono
essenzialmente di funzioni, divisioni di spazi principali e secondari, elementi funzionali,
scale e corti, riflessioni tipologiche e quant’altro ancora fa parte della più tradizionale
127
Frédéric Migayrou e Marie-Ange Brayer (a cura di), op. cit., p. 282.
Le utopie sono, nelle parole di Bronislav Baczko, «[...] progetti e descrizioni dettagliate di società ideali che implicano
un’intenzione provocatoria palese o dissimulata» (cfr. Bronislaw Baczko, L’utopia, Einaudi, Torino, 1979). Questa definizione si adatta al
nostro caso. Tuttavia, la distanza tra le utopie classiche e moderne e il caso della Cyber-architettura è enorme. Tanto per cominciare le
utopie sono essenzialmente scritti letterari, giochi intellettuali delle elite colte. Ogni qualvolta esse tendono ad essere realizzate nascono
problematiche di ordine sociale e filosofico fondamentali che ne inquina l’idea iniziale. Nello scritto Paolo Vincenzo Genovese, I
navigatori del sogno, Dispensa del corso di Progettazione Ambientale, 1999, si dimostra come le utopie realizzate abbiano attuato solo
alcuni ideali estetici delle utopie letterarie, fallendo grossolanamente su altre importanti questioni. Occorre pertanto dire che le utopie
urbane e sociali sono esclusivamente di natura teorico/filosofica. Ma un punto di contatto molto forte tra questo movimento e
l’argomento che stiamo trattando in questo scritto riguarda il fatto che la Cyber-architettura propone progetti per una rinnovata società
contemporanea. Esattamente come i filosofi illuministi del XVII secolo, gli autori Cyber attuano progetti di società e teorizzano luoghi
ideali rinnovati in cui l’umanità rinnovata troverà un mondo migliore (!). Ritengo tuttavia che il concetto di utopia possa essere applicato
a queste sperimentazioni solo in senso molto lato. Esse sono di fatto applicazioni spaziali di un’idea di forma o di architettura o di
filosofia. Ma sempre la componente principale ed ineludibile è quella spaziale o quantomeno compositiva, fattori del tutto assenti nelle
utopie intese in senso stretto. Lasceremo quindi l’idea di utopia poiché inapplicabile al nostro caso, e utilizzeremo questa parola solo nel
significato di “sogno” o di “progetto astratto”.
129
Frédéric Migayrou e Marie-Ange Brayer (a cura di), op. cit., p. 284.
128
pratica progettuale architettonica130. Riteniamo, però, che progetti di questo genere
soffrano del medesimo difetto di molti progetti di Zaha Hadid. Le sue opere nascono come
disegni artistici e talvolta falliscono sul piano realizzativo. Se la Hadid convince nel caso
della Stazione dei pompieri al Campus Vitra del 1990-’93 o nel Landscape Formation One
del 1996-’99 (entrambi a Weil am Rhein presso Basilea) nel senso che esiste una
corrispondenza poetica tra disegno e realizzazione, tra idea progettuale e risultato finale,
nel caso dell’edificio per appartamenti all’IBA di Berlino (1987-’93) la soluzione costruttiva
è decisamente avvilita rispetto all’impeto iniziale. Anche per Naga occorrerebbe vedere
una realizzazione pratica e dobbiamo aspettare che questi due ultimi progetti siano finiti e
pubblicati, poiché i cantieri sono ancora aperti.
Un ultimo punto di interesse verso Tarek Naga ci aiuterà ad introdurre un fondamentale
problema nella nostra trattazione: gli spazi di ordine superiore in matematica e la loro
applicazione nell’architettura contemporanea. Analizzando le procedure compositive di
Naga scorgiamo una metodologia di generazione di forma e di spazio basata sul processo
«Tetra-Vectors» 131. Questo è un sistema di coordinate che impiega quattro vettori spaziali
derivati dalla figura del tetraedro. In luogo dei tre assi cartesiani, Naga ha ideato il sistema
tetraedrico per comprendere le trasformazioni spazio-temporali della morfogenesi dello
spazio. La quarta dimensione, in architettura, ha antecedenti molto forti; basti pensare
all’importanza che la variabile tempo ha assunto nell’architettura di Frank Lloyd Wright e di
Erich Mendelsohn. Naga ha concepito un sistema di rappresentazione che riesca ad
includere in un’unica visione anche il fattore tempo. «Tetra-Vectors» (Fig. 47) impiega in
uno spazio tetraedrico quattro vettori spaziali e quattro coordinate denominate Vt1, Vt2, Vt3
e Vtn.
In this system, spatio-temporal Vt values are imputed to each of the four vectors. Thus each point
in space falls within a particular tetra-quadrant. The fourth vector carries an intrinsic potential (t) value
for that point to vibrate, to become activated into motion (i.e. Vt1, Vt2, Vt 3, Vt n and Vt1, Vt2, Vt3, Vtn+x).
Within those Vt vectors, a planomenon of architectonic fragments or topological continuums is imbued
whit a projective becoming. An inherent instability and fragile equilibrium permeates the behaviour
space. This architecture aspires to creating space that is simultaneously emergent and convergent,
imploding and exploding. Space that is physically and metaphysically charged with the desire to
132
transform, transmutate and transfold itself.
Il metodo basato sul tetraedro di Naga ha l’ambizione di generare un sistema di
rappresentazione e generazione di continuità spaziale, di movimento e di ogni aspetto
connesso allo spazio-tempo di matrice einsteiniana in ambito architettonico. In qualche
modo si cerca un metodo per raffigurare complessità concettuali impossibili da
visualizzare con i metodi cartesiani, nati nel settecento quando la variabile tempo non era
un elemento incluso nella realtà fisica.
Il sistema «Tetra-Vectors» richiama alla mente due problematiche distinte che devono
essere trattate separatamente. La prima riguarda i sistemi di rappresentazione basati sulle
geometrie evolute che, negli anni Cinquanta del XX secolo, aveva elaborato Richard
Buckminster Fuller133. Il secondo ambito di problemi tratta delle dimensioni di ordine
superiore in matematica e l’influenza che queste hanno avuto nel campo dell’architettura.
«Tetra-Vectors» racchiude una questione ben più vasta di quanto non appaia ad un
primo sguardo. Esso non è un semplice procedimento progettuale o poetico utilizzato per
generare spazi o per interpretare l’idea di movimento in architettura. Esso esprime una
brillante soluzione ad un problema annoso: la rappresentazione di spazi matematici e fisici
130
Cfr. ibid.
Questo metodo è talmente importante per il suo autore che è stato addirittura brevettato.
132
Frédéric Migayrou e Marie-Ange Brayer (a cura di), op. cit., p. 282.
133
Cfr. Cap. 0, Studi sulla cristallografia. Un’introduzione alle geometrie non-euclidee in questo scritto.
131
di ordine superiore. Per descrivere questo è opportuno riferirci, ancora una volta, alla
matematica ed in particolare agli spazi di Hilbert. Desidero impostare la discussione a
partire dalle conquiste di Georg Ferdinand Ludwig Cantor sugli insiemi transfiniti. Egli
dimostrò che l’infinito si presenta con diverse “quantità” o, in altre parole, che esistono
infiniti di grado diverso 134. Gli «insiemi transfinti» sono ben più grandi degli infiniti normali,
tema che aprì voragini assai drammatiche sia in seno alla matematica sia nello stesso
equilibrio psichico di Cantor. Ma grazie a lui, possiamo trattare gli infiniti alla stessa
stregua dei numeri ed utilizzarli come concetti nella realtà del calcolo 135. In verità la
questione non è così banale come potrebbe apparire. Il dibattito sugli infiniti vede posizioni
contrapposte 136. La maggior parte dei matematici, comunque, ammette l’esistenza del
confronto tra insiemi qualsiasi e, pur tralasciando per motivi di scarso interesse il caos
assoluto, essi si rivolgono, nell’ambito della teoria degli insiemi - la teoria più generale
della matematica -, anche al confronto tra sistemi infiniti 137. Ora, l’ammissione di sistemi
infiniti ha aperto il problema di esistenza di infinite dimensioni nell’ambito della geometria.
Il problema può essere esposto in questo modo: noi siamo abituati a pensare il mondo
fisico attraverso le tre dimensiono cartesiane. Tuttavia, seguendo certe ipotesi
settecentesche, i fisici hanno sentito l’esigenza di introdurre il fattore tempo come quarta
dimensione 138.
Questa era una dimensione non visualizzabile che includeva la variazione di una realtà
fisica tridimensionale nel tempo. La fisica di Einstein, Poincaré e Lorentz ha fatto dell’idea
di Minkowski 139 - secondo cui il tempo deve considerarsi una quarta coordinata -140 una
realtà dimostrata per la quale, oggi, è necessario pensare in termini di spazio/tempo141.
Questo significa che tempo e spazio sono direttamente connessi e, pertanto, al variare di
un fattore varia anche l’altro. Lo spazio viene curvato dal tempo e il tempo curvato dallo
spazio142. Come lo spazio, anche il tempo viene ad essere contratto e quindi a non essere
costante. Per noi il discorso deve essere deviato verso l’apertura alle dimensioni plurime.
Se esiste una quarta dimensione, può esisterne una quinta od una sesta, e così via? La
134
Una divertente e chiarissima dimostrazione di questo fatto è contenuta in Paul Hoffman, L’uomo che amava solo i numeri,
Mondadori, Milano, 1999, pp. 201-205. L’esposizione si basa su un metodo di diagonalizzazione di numeri frazionari interi posti in
corrispondenza biunivoca. Il risultato è che si possono creare associazioni biunivoche di numeri in modo molto interessante. Ad
esempio: Cantor dimostrò che esiste corrispondenza tra numeri quali 1? 1/1, 2? 2/1, 3? 1/2, 4? 1/3, 5? 3/1, 6? 4/1, 7? 3/2, 8? 2/3, 9? 1/4,
..., la cui formalizzazione in termini matematici è: ?0 + 1 = ?0 . Tale aspetto sembra paradossale ma è una delle più grandi conquiste della
matematica poiché sancisce che se all’infinito aggiungiamo un numero intero positivo otteniamo sempre se stesso ovvero infinito.
Inoltre (ed è la massima conquista di Cantor) egli dimostrò secondo un procedimento intuitivamente molto semplice ma assai
complesso nei suoi termini formali che esiste un insieme infinito più grande dell’infinità dei numeri reali. Anche questa dimostrazione era
basata sulla corrispondenza biunivoca tra numeri reali e numeri naturali. Egli scoprì che anche se esistono tanti numeri reali quanti sono
i numeri naturali, sarà sempre possibile trovare un numero reale non compreso nell’elenco. Ci sono pertanto numeri reali che non sono
messi in corrispondenza dei numeri reali. Questo insieme di infiniti numeri reali è allora più grande dell’insieme dei numeri naturali.
Cantor chiamò questo infinito di ordine superiore ?1 o insiemi transfiniti.
135
A tal proposito è possibile dedurre alcune implicazioni molto interessanti ma di grande difficoltà nel caso degli assunti predicativi
di von Neumann in Ettore Casari, Questioni di filosofia della matematica, Feltrinelli Editore, Milano, 1976, pp. 59-60.
136
Se alcuni, come Bertrand Russell, accettano l’esistenza esclusivamente di infiniti numerabili (gli infiniti dei numeri naturali, per
intenderci) rifiutando l’esistenza dei transfiniti, altri autori rifiutano persino l’esistenza degli infiniti, almeno secondo una particolare
angolatura Sulle questioni relative alla matematica Predicativa di Poincaré-Russell e le concezioni intuizioniste che negano gli infiniti di
Cantor, vedasi anche Ettore Casari, op. cit., pp. 138-139. Una interessante confutazione dell’idea di infinito ci viene da Ernst Zermelo
che così diceva: «[...] una molteplicità può essere fatta in modo che l’ipotesi di un “essere assieme” di tutti i suoi elementi porti ad una
contraddizione, cosicché è impossibile concepire la molteplicità come una unità, come “una cosa compiuta”. Tali molteplicità le chiamo
assolutamente infinite o inconsistenti» (cit. in Ettore Casari, op. cit., p. 57.
137
Giuliano Spirito, Matematica senza numeri, Newton & Compton, Roma, 1995, p. 9.
138
Su questo problema vedasi Rudy Rucker, La quarta dimensione, Adelphi, Milano, 1994.
139
I punti dello spazio-tempo di Minkowski sono “eventi”, cioè vanno caratterizzati non solo da una serie di coordinate spaziali, ma
anche da una coordinata temporale che specifica l’attimo in cui si svolge l’evento. In questo senso un aeroplano in volo non è un
evento, bensì una serie continua di eventi che si snoda nello spazio-tempo di Minkowski. Da Voce «Spazio», Enciclopedia Multimediale
Rizzoli Laorusse, op. cit.
140
Ibid.
141
Albert Einstein, Relatività: esposizione divulgativa, Paolo Boringhieri, Torino, 1967. Su altre questioni di spazio/tempo cfr con il
classico di divulgazione Stephen Hawking, Dal Big Bang ai buchi neri, Rizzoli, Milano, 1988 e Paul Davies, Sull’orlo dell’infinito,
Mondadori, Milano, 1985. Sul problema del tempo vedasi anche Paul Davies, I misteri del tempo, Mondadori, Milano, 1997 e Ilya
Prigogine, Dall’essere al divenire, Einaudi, Torino, 1986 e dello stesso autore La nascita del tempo, Theoria, Roma-Napoli, 1988, ed
infine Dall’essere al divenire: Tempo e complessità nelle scienze fisiche, Einaudi, Torino, 1986.
142
Solo un esempio: in presenza di masse di enorme rilievo (un pianeta, una stella) lo spazio subisce una contrazione facendo
variare anche il tempo.
domanda è fondamentale. Dovendo interpretare il concetto di spazio in architettura la
domanda assume un significato centrale. La risposta al quesito è sconcertante: esistono
un numero infinito di dimensioni. Personalmente ritengo che sia lecito poter parlare di un
numero transfinito di dimensioni se prendiamo in considerazione ili problema matematico
posto da Mandelbrot143.
Il problema, per essere compreso adeguatamente, può essere delineato con il fatto che
in matematica è possibile parlare di geometria astratta, ovvero una geometria nella quale
non sono presenti operazioni su figure geometriche bizzarre o complesse, bensì azioni
sulle proprietà di insiemi di punti 144. Questi possono essere trattati secondo una serie di
operazioni invarianti valide per un numero qualsiasi di dimensioni. Se sono rispettate
queste operazioni base il sistema è coerente e quindi valido 145. Il nodo dolente deriva dal
fatto che ci si scollega dal problema della visualizzazione. Una delle remore maggiori per
quanto riguarda i fatti di architettura è il rifiuto di concepire spazi che non possano essere
visualizzati; trattare il problema della visualizzazione come aspetto secondario è
determinate: gli spazi astratti sono reali, dimostrabili e coerenti, indipendentemente dal
fatto che possano essere disegnati o meno. La questione è rilevata anche dal matematico
cinese Hao Wang, il quale ammette che la scoperta delle geometrie non-euclidee ha fatto
sorgere il desiderio di separare la matematica astratta dall’intuizione spaziale:
poiché gli assiomi non sono più necessariamente veri nel mondo fisico, si mira a rendere le
deduzioni indipendenti dall’intuizione spaziale evitando di fare affidamento sui diagrammi e sul
146
significato dei concetti geometrici .
Ciò sancisce la separazione tra il mondo perfetto e vero della matematica e l’intuizione
comune. Ma il vero collegamento che a noi interessa è sancito dal fatto che le geometrie
astratte di Hilbert hanno rinnovato la geometria proiettiva rinascimentale, sopravvissuta
fino all’ottocento. Il rinnovamento è accaduto grazie alla maturazione dell’idea di iperspazi
a più di tre dimensioni e con l’ampliamento del concetto di omografia147. Prestare
attenzione alle questioni matematiche ha, per noi, una ricaduta sulle problematiche
relative allo spazio in architettura come verifica di concezioni astratte 148. Il rinnovamento di
Hilbert era il momento conclusivo di un processo che durava da almeno cinquant’anni. La
diffusione delle geometrie non-euclidee ha apportato in tutta la seconda metà
dell’ottocento una revisione così sostanziale del concetto di spazio da poter affermare che
le geometrie tradizionali non dettero più contributi di rilievo alla matematica149, mentre gli
143
Nella geometria frattale è stata dimostrata la possibilità di esistenza di dimensioni frazionarie, pari, ad esempio, a D = log3 4
(circa 1,26). Queste sono dimensioni reali (al pari di quelle cartesiane) che assumono valori frazionari. In sintesi, possiamo dire che
sono dimensioni che pur non potendosi limitare alla dimensione 1, non sono in grado di esaurire la dimensione 2, ovvero non possono
riempire tutto il piano che costituisce la seconda dimensione. Questo apre tra le dimensioni un baratro, poiché tra la dimensione 1 e la
dimensione 2 possono esistere un numero infinito di dimensioni, e lo stesso dicasi per tutti gli intervalli tra tutte le infinite dimensioni.
144
Nel 1899 il matematico David Hilbert mise a punto in Grundlagen der Geometrie una serie di assiomatizzazioni fondamentali.
Collegati alla teoria dei gruppi, tali principi sono validi sia per la «[...] geometria metrica che in geometria euclidea, in geometria affine e
in geometria proiettiva e arriva, per generalizzare, al concetto di geometria astratta». Questo è un ambito assai generale che «[...]
corrisponde a quello delle proprietà di una varietà qualunque di elementi (chiamati punti) a cui si applica un gruppo di operazioni,
invarianti per le operazioni di gruppo» (Maurice Daumas, a cura di, Storia della scienza, Laterza, Bari, 1969, p. 530). Cfr. anche con
Carl B. Boyle, op. cit., p. 699.
145
Tale apertura, ancorché di carattere astratto, ha conseguenze fondamentali poiché consente di immaginare dimensioni di natura
intangibile, nelle quali sono possibili solo operazioni su insiemi di punti.
146
Hao Wang, Dalla matematica alla filosofia, Bollati Boringhieri, Torino, 1984, p. 47.
147
L’omografia è una «corrispondenza biunivoca tra due spazi proiettivi S e S’ n-dimensionali. [...] La più semplice omografia è una
corrispondenza biunivoca tra due forme geometriche di seconda specie dello stesso tipo F e F’ (cioè tra due piani punteggiati, o due
piani rigati, o due stelle di rette o di piani) che a ogni forma di prima specie appartenente a F associa una forma di prima specie
appartenente a F’. [...] Hanno particolare interesse le omografie tra spazi sovrapposti: in questo caso esistono in generale n+1 elementi
uniti, cioè elementi che coincidono con i propri corrispondenti». Voce «Omografia», Enciclopedia Multimediale Rizzoli Laorusse, op. cit.
148
Per rigore, occorre dire che la metodologia scelta presenta una pecca rilevata, in altri ambiti, da G. Kessler. Egli afferma che le
aggregazioni astratte presentano una sostanziale differenza da quelle reali: le seconde hanno estensione spazio-temporale. La
soluzione è però offerta dallo stesso Kessler che afferma che i paralleli tra i due ambiti sono ammessi per ragioni di carattere
epistemologico (cit. in Pieranna Garavaso, op. cit., p. 124).
149
Maurice Daumas (a cura di), op. cit., p. 529.
spazi di Hilbert dimostrarono concrete applicazioni in campo quantistico150. Ma è possibile
andare ancora oltre. Maurice Fréchet portò all’estremo l’idea di Hilbert di spazi a più
dimensioni. In effetti, Hilbert non fece mai espliciti riferimenti a spazi ad infinite
dimensioni 151, ma i suoi ragionamenti implicavano quelle conclusioni e pertanto egli è noto
come l’inventore degli spazi pluridimensionali. Fréchet ampliò ulteriormente l’astrazione di
questi spazi e ideò dimostrazioni nel campo della «topologia degli insiemi di punti» 152.
Ancora una volta ci troviamo dinnanzi alla topologia, branca implicita in tutte le righe
precedenti, aspetto che ci riporta alle ricerche sulle ipersuperfici nella Cyberarchitettura 153.
Tutto questo fa correre la mente e verifica un esempio che abbiamo incontrato all’inizio
di questo paragrafo: il Guggenheim Virtual Museum di Asymptote. Se quelle elaborazioni
ci apparivano come costruzioni basate sulla fantasia, ora, in base alle analisi fatte delle
ipersuperfici di Möbius e degli iperspazi di Riemann, tali idee architettonico/spaziali si
scoprono applicazioni di una vasta teoria nel campo della matematica. Né vale la critica
che per operare in questi ambiti occorra padroneggiare tecnicamente gli strumenti
matematici. Simili operatori matematici possono essere gestiti solo da specialisti versati in
quel particolare ambito della matematica (diciamo cento persone al mondo). Noi, insieme
agli architetti progettisti, siamo interessati all’aspetto più direttamente filosofico e alle
potenzialità concettuali di queste scoperte.
Abbiamo in precedenza visto come gli spazi organici di NOX, Oosterhuis e di Tarek
Naga avessero delle componenti organiche molto forti. Ed anzi, abbiamo rivolto la chiave
interpretativa verso questa direzione. In realtà quelle forme non sono pienamente
comprensibili senza la discussione sugli spazi pluridimensionali di Hilbert-Riemann. Tali
esempi di architettura, allora, non sono solamente forme ambigue avvolte su se stesse,
deformate come stracci bagnati o ideate ad imitazione di organismi naturali. Esse
assumono un’identità nuova grazie al rimando alle superfici non visibili o non pienamente
visualizzabili. L’attenzione verso la forma non è fine a se stessa. Questa è sempre
allusiva. Lo spazio non è mai pienamente comprensibile, razionale. Le acquisizioni della
matematica, per questi autori, sono uno spunto per creare “luoghi” che offrono sempre
rimandi all’invisibile; non un invisibile magico o di fantasia, bensì uno spazio di ordine
superiore non visualizzabile poiché al di fuori dell’esperienza sensibile, egualmente reale
come le tre dimensioni cartesiane.
La figura di Greg Lynn/Form 154 ha uno spessore molto diverso rispetto agli altri gruppi
presentati. Egli accoglie in sé molte delle esperienze che abbiamo in precedenza visto
separate. Un collegamento diretto con quanto appena detto ci è offerto da una serie di
progetti che Lynn ha elaborato partendo dall’idea di morfologia. Non a caso il suo studio si
150
Voce «Spazio», Enciclopedia Multimediale Rizzoli Laorusse, op. cit.
Egli si limitò a sviluppare il concetto di continuità di una funzione di infinite variabili. Cfr. Carl B. Boyle, op. cit., p. 709.
152
Ibid.
153
Un punto di contatto molto forte tra queste applicazioni sono le concezioni di Möbius che interpreteremo alla luce degli spazi di
Riemann. Questi ultimi studiano geometrie riguardanti «[...] le proprietà di spazi dove si conserva la nozione euclidea di distanza,
mentre scompare il concetto di figure uguali». Ciò è possibile solo attraverso l’introduzione di uno spazio n-dimensionale (Maurice
Daumas, a cura di, op. cit., p. 531.). Il legame diretto con le superfici studiate in architettura ci deriva da un applicazione in topologia
delle geometrie riemanniane. Scompare l’idea di omeomorfismo (vedi nota 117 di questo capitolo) poiché non esiste corrispondenza tra
due figure, fatto che si lega fortemente con le ipersuperfici quali il nastro di Möbius. Ma questo è un esempio facile. È possibile ottenere
un’elaborazione simile al nastro di Möbius anche su superfici più complesse: «Sia S¹ × S¹ il toro da cui è stato ritagliato un quadrato
aperto OPQR. Identifichiamo i lati opposti del buco quadrato. Con una certa dose di immaginazione ci possiamo rendere conto che tale
operazione ha come risultato l’inserimento di un “manico” sul toro che è così diventato uno spazio più complesso. La stessa operazione
eseguita sulla sfera S² ci ridarebbe il toro. Possiamo inoltre ripeterla più volte ottenendo una serie infinita di spazi sempre più
complessi» (Voce «Spazio», Enciclopedia Multimediale Rizzoli Laorusse, op. cit.).
154
Greg Lynn (1964) nasce come filosofo. Egli si laurea in questa disciplina a Miami, prendendo solo successivamente il diploma in
Design nella stessa università. Successivamente frequenta il Master of Architecture all’Università di Princeton a New York e fonda il suo
studio nel 1994 a Los Angeles. Ha insegnato in numerose università americane ed europee, quali l’Università dell’Illinois a Chicago,
l’Ohio State University, l’Architectural Association School of Architecture di Londra, il Berlage Institute di Amsterdam e la Columbia
University sempre a New York.
151
chiama Form. Egli è interessato principalmente alla forma, ma ciò è da intendersi come
indagine sulla forma e non come vuota estetica. Questo lo si comprende dalle complesse
metodologie che egli utilizza per creare i suoi oggetti attraverso il computer. In osservanza
alla teoria della Relatività einsteiniana, egli concepisce l’architettura come insieme di
tensioni nate dal contesto. Così come masse di grandi dimensioni sono in grado di alterare
lo spazio/tempo, i suoi oggetti si fanno carico «[...] dei condizionamenti e delle forze
esterne fra loro dissimili, in un continuum fluttuante che incorpora dolcemente le differenze
esterne» 155. Questa potrebbe essere una risposta a coloro che accusano questo tipo di
architettura di essere decontestualizzata. In realtà, nelle intenzioni dei progettisti, le
metodologie di adesione al contesto sono così forti e strutturate da rendere impossibile
qualunque serialità della forma. In altre parole, il luogo genera la forma in modo
inequivocabile attraverso operazioni certo molto complicate, ma che lasciano chi scrive
decisamente convinto. Lynn utilizza metodi di morfogenesi della forma e dello spazio
basati sul tempo e sul movimento, «[...] attraverso un processo animato di progettazione
formale» 156. Gli strumenti sono software utilizzati nell’industria degli effetti speciali, gli unici
in grado di offrire sia una forte flessibilità di forma che metodi di generazione e
cristallizzazione del movimento. Le forme che egli crea nascono da un processo che può
essere definito di indeterminatezza ordinata 157. Questo si basa, ancora una volta, su un
problema matematico, fatto che ci conforta nel nostro interesse verso questa disciplina e
la sua trasposizione in architettura. Una branca della matematica del caos è chiamata
«stocastica». In parole povere, la matematica stocastica indaga i fenomeni casuali che
avvengono all’interno di limitato ventaglio di possibilità. Se la matematica del caos si
occupa dei fenomeni catastrofici in sistemi complessi formati da innumerevoli elementi
variabili, le serie stocastiche si occupano di interazioni casuali con un numero limitato di
oggetti. Nei sistemi stocastici non può accadere tutto, ma solo una piccola serie di
combinazioni che però hanno un alto grado di indeterminatezza 158. Quindi, i processi di
mutazione, trasformazione e crescita di Lynn si basano su queste serie che, pur
prevedendo un’ampia casistica di invenzione di forma, non consentono la libertà assoluta.
Un interessante esempio di applicazione è il progetto Embriological Housing (Fig. 48) a cui
fa da contraltare Embryologic Space (Fig. 49).
Embriological Housing è un progetto del 1998 e desidera studiare la possibilità
d’apertura della superficie senza la perforazione o il taglio di porte e finestre159. È la forma
che, attraverso la sua deformazione, comprende l’esterno nell’interno senza tagli.
Abbiamo sufficientemente descritto i problemi topologici che sottendono questi
ragionamenti. Le deformazioni di una forma sono anche qui senza “strappi” o tagli. La
superficie è continua e lo spazio è generato solamente dalla deformazione e
dall’arrotolamento dello spazio topologico. La differenza di deformazione delle superfici
topologiche di Embriological Housing sono dovute alle differenti “sollecitazioni” che
l’ambiente esterno ha imposto alla materia elettronica. Non dobbiamo dimenticare, infatti,
155
Christian Pongratz e Maria Rita Perbellini, op. cit., p. 39.
Ibid.
157
Ivi, p. 46.
158
Più rigorosamente, « I processi stocastici sono modelli matematici che descrivono l’evoluzione di quei sistemi per i quali è
impossibile individuare delle leggi deterministiche che consentano di prevedere con esattezza il comportamento futuro del sistema una
volta noto il suo stato in un dato istante. Un semplice esempio di processo stocastico è quello che descrive il guadagno di un giocatore
in una partita di testa o croce. [...] L’insieme di tutte le variabili aleatorie f t (t = 1, 2... n) che descrivono l’andamento o la “storia” di tutte
156
le partite di n giocate costituisce per definizione il processo stocastico. [...] Esistono altri tipi di processi stocastici [...]: tra questi si
ricordano i processi markoviani che sono i processi stocastici più diffusi e più studiati. Nei processi markoviani discreti o catene di
Markov, le variabili aleatorie possono assumere un insieme discreto di valori E1, E2,... E N, che conviene pensare come “stati” in cui il
sistema può trovarsi nella sua evoluzione temporale. Una catena di Markov è completamente caratterizzata dalle probabilità iniziali a1,
a2,... A N [...]» (Voce «Stocastica», Enciclopedia Multimediale Rizzoli Laorusse, op. cit ). Quest’ultimo passo ci indica come le
probabilità che un certo evento si possa concretizzare non sono infinite o libere, ma sono vincolate. Ne consegue che la libertà dei
fenomeni è limitata da una situazione iniziale e pertanto non può assumere qualunque valore.
159
Christian Pongratz e Maria Rita Perbellini, op. cit., p. 40.
che Lynn ha esordito nello Star System dell’architettura proprio come creatore di oggetti
virtuali. Questo progetto è il suo primo maturo risultato; risente però dell’entusiasmo verso
lo strumento. Le forme, disposte in serie, le une accanto alle altre, offrono un’immagine
non chiara, non completamente espressiva dell’interessante metodo che Lynn ha ideato.
Esse appaiono più come sperimentazioni fini a se stesse della morfogenesi della forma.
Molto più interessante è l’aver scoperto che tali deformazioni corrispondono alla natura del
sito sul quale l’oggetto si inserisce: le vedute, la circolazione, la topografia del luogo, crea
le aperture e deforma i volumi che vi si adattano nel modo più congeniale. Embryologic
Space è un altro aspetto dello stesso progetto. È sostanzialmente uno studio del puro
spazio interno. Non mi sembra che questi oggetti possano essere considerati come cellule
abitative, attuale interpretazione delle sperimentazioni degli anni Settanta sulle
macrostrutture. Sono, al contrario, modelli di interpretazione della forma generata dal
contesto. Come Embriological Housing anche questo secondo caso è uno studio di una
forma nata dal luogo di intervento. La forma muta a seconda delle sollecitazioni
dell’esterno.
This domestic interior is enclosed in a surface composed of over 2048 panels, all of which are
unique in their shape and size. These individual panels are networked to one another so that a change
in any individual panel is transmitted throughout every other panel in the set. The variations to this
surface are virtually endless, yet in each variation there is always a constant number of panels with a
consistent relationship to their neighbouring panels. The volume is defined as a soft flexible surface of
160
curves rather than as a fixed set of rigid points.
In questo caso, dunque, il processo di generazione della forma è parzialmente
indipendente dalla volontà del progettista. I pannelli reagiscono in funzione delle
sollecitazioni esterne e, tra loro, attraverso una logica sistemica e sinergica. La
generazione dello spazio avviene secondo le modalità delle serie stocastiche. Non tutto è
permesso, ma esiste una regola generatrice data dall’esterno. Non è lecito concordare in
toto con il passo appena citato. Quando si parla di «variations to this surface virtually
endless» si commette un’improprietà. Sono variazioni certamente molto numerose ma
sempre derivate da condizionamenti esterni ben precisi. Un’ulteriore conferma ci viene dal
fatto che i modelli proposti da Lynn sembrano tutti “fratelli” di una medesima matrice. La
forma, o per meglio dire lo spazio, non assume qualunque natura; essa è sempre
riconducibile ad una stessa radice. Trovo questa limitazione non una debolezza, bensì una
forza. Il caos assoluto è ingovernabile e, sostanzialmente, poco interessante. Le variazioni
entro un ventaglio di soluzioni danno la possibilità di libere interpretazioni, ma con regole
in grado di offrire una precisa determinazione di una filosofia, tracciando una linea di stile
riconoscibile e matura. È interessante citare come Lynn agisce nel momento di
realizzazione “fisica” di questi modelli. Egli utilizza macchine a controllo numerico
comandate da un computer. Il progetto delle diverse “uova” è inserito in un programma
che le gestisce come forme complesse. Il software invia i dati ad una fresa che scolpisce
legno, polimeri o acciaio, generando il modellino del progetto con estrema precisione. È
quello che Greg Lynn ha fatto nella 7a Mostra Internazionale di Architettura alla Biennale di
Venezia nel 2000 161. I modelli di Embriological Housing sono stati riprodotti in materiali
plastici. L’effetto che personalmente ricordiamo non era completamente positivo.
Nonostante il personale interesse per il problema teorico che giudico maturo e molto
avanzato dal punto di vista concettuale, denunciamo un sostanziale impoverimento di
certe idee nel momento della realizzazione. Queste opere non riuscivano ad essere
architettura, ma si limitavano ad avere la consistenza di grandi oggetti di design o, nella
migliore delle ipotesi, di sculture zoomorfe. Il problema penso risieda nel fatto che lo
160
161
339.
Frédéric Migayrou e Marie-Ange Brayer (a cura di), op. cit., p. 262.
Cfr. con AA. VV., 7. Mostra internazionale di architettura. Less Aesthetics More Ethics, Marsilio, Venezia, 2000, vol. I, pp. 336-
strumento informatico suggerisce una perdita di materialità. Se il lavoro dell’architetto
consiste anche nella sapienza dei materiali e nel saper prevedere i risultati che il tempo
disegna sulle sue opere, nel caso della architettura figlia del computer questo non accade
poiché la cultura visuale dei colori acidi prevale su tutto il resto. Con questo dico che
l’estetica Cyber ha delle coordinate ben precise: forme organiche, senso di inquietudine,
colori estremamente violenti, velocità di sequenze di immagini, e altro ancora.
L’architettura Cyber risente fortemente di questo. Così, gli sforzi e l’attenzione, molto
spesso, sono rivolti verso l’effetto video, senza considerare che nella realtà quelle idee
risulteranno assai diverse o quantomeno non inserite nel fascinoso mondo Web. La
maturità dei materiali non è ancora stata raggiunta dai giovani progettisti del computer. Per
concludere la lettura di questo progetto occorre citare una ricerca molto interessante
effettuata da René Thom. Nel fondamentale saggio Stabilità strutturale e morfogenesi162,
tra i tanti argomenti importanti, egli affronta dal punto di vista matematico il tema delle
increspature dei liquidi soggetti a caduta di gravi. Una conseguenza importante riguarda la
forma. Analizzando una sequenza di immagini scattate ad alta velocità (Fig. 50), si può
notare come un grave in caduta su un liquido increspi la forma creando un cratere. In
istanti successivi, le pareti laterali della corona di liquido tendono a richiudersi su se stesse
secondo un moto descrivibile come una spirale logaritmica. In questo caso è possibile
notare come, nel momento in cui questo “guscio” tende a richiudersi, si crea l’interessante
paradosso che una forma esterna divenga interna. Infatti, la pellicola che creava il filo
superiore del liquido - il pelo dell’acqua - tende a rivolgersi verso l’interno e poi a divenire
l’intradosso della caverna creata dal liquido che si chiude avvolge su di sé. Da estradosso
essa diventa intradosso. Mi sembra di leggere nei progetti di Lynn appena esposti una
somiglianza davvero formidabile tra questi studi di matematica e l’inclusione dello spazio
nei modelli elettronici. Se il processo generativo è diverso questo non allontana i risultati
finali. In entrambi i casi siamo di fronte allo studio di superfici topologiche di grado 0 che si
arrotolano su se stesse senza strappi. Così, appare coerente lo sforzo di Lynn di crear
forme che offrono spazio interno senza bisogno di inserire porte e finestre o, usando un
linguaggio ora a noi familiare, senza generare strappi che alterino il grado della superficie
topologica.
Ma se i progetti gemelli di Embriological Housing e Embryologic Space possono dare
adito alla critica di essere astrazioni pure, sperimentazioni formali fini a se stesse (idea
che mi sento di contestare in virtù della stretta relazione esistente tra contesto e forma e
tra queste e le sensazioni percettive del fruitore), assai più “architettonico” appare un altro
progetto di Greg Lynn/Form: il Cardiff Bay Opera House (Fig. 51). Pur essendo un
progetto del ’94 (e pertanto ideato quattro anni prima della compiuta definizione del
programma Embryologic), si nota facilmente come esso contenga tutte le componenti
della riflessione che Lynn compie sulla topologia dei gusci. Embryologic è semmai una
definizione di metodo, partito certamente qualche anno prima in modo più intuitivo. Cardiff
Bay Opera House si compone di alcuni padiglioni che coprono sale da concerto. Lo
sviluppo altimetrico degli auditorium ha suscitato nel progettista il desiderio di differenziare
in modo evidente le diverse quote. Memore della lezione di Scharoun alla Philharmonie di
Berlino, egli ha concepito i padiglioni della musica come coperti da tende. Il riferimento è
diretto. In Scharoun, l’idea di edificio collettivo è essenziale fin dai tempi degli schizzi della
resistenza (1939-’45).
Nel ciclo della Resistenza, gli spunti che poi saranno utilizzati nella Philharmonie sono molteplici:
163
c’è già l’idea della grande tenda che «copre» le attività dell’uomo [...].
162
163
Cfr. René Thom, Stabilità strutturale e morfogenesi, Einaudi, Torino, 1980.
Alessandro Sassu, La Philharmonie di Hans Scharoun, Dedalo libri, Bari, 1980, p. 6.
Accettiamo tutta la distanza tra questi due progettisti. Le differenze sono sostanziali e
assai più numerose rispetto ai punti di contatto. Un punto di riflessione è la diversità nel
trattamento della copertura. Se l’architetto tedesco aveva l’idea di un grande spazio
centrale coperto da un unico ambiente, Lynn sfrangia gli ambienti facendone un discorso
narrativo, meno intenso spazialmente, ma disseminato planimetricamente su una più
vasta superficie. L’elemento unificante è la copertura che assume la forma di un grande
straccio bagnato che connette gli spazi sottostanti. Anche formalmente, l’idea non è per
nulla originale poiché Frank O. Gehry nella terza versione della Casa Lewis (1989-’95)
utilizza lo stesso procedimento (Fig. 52). Una serie di padiglioni separati, legati da una
zona filtro molto complessa e coperta con lo stesso metodo: un morbido tessuto informe.
Lynn non limita questo ai soli spazi connettivi, ma ne fa una matrice accorpante. Qui
risiede l’interesse. La copertura è una sorta di variazione continua della topologia di una
superficie. Gehry ragiona in termini scultorei mentre Lynn ne è lontanissimo. Anche se i
risultati possono essere formalmente confrontati il processo di generazione dell’idea è
diverso. Gehry utilizza fogli di carta che incolla creando modellini fisici, Lynn crea processi
trasformativi di superfici topologiche che vengono alterate attraverso lo strumento
informatico sia con operazioni manuali sia automatiche.
Per concludere in questa sezione la descrizione dei lavori di Lynn, occorre parlare di
due progetti che, pur molto distanti, hanno il comune denominatore di integrare il moto
come struttura portante nella composizione della forma o dello spazio. Il primo è Animated
Form164. Non è importante il risultato in questo caso. Ciò che appare sono semplicemente
delle bolle (Fig. 53) che, come olio in un liquido poco denso, si aggregano in forme
bizzarre. Greg Lynn ha individuato una metodologia di generazione della forma coerente
con quanto visto prima, anche se basato su un altro genere di azione. Se in Embryologic
Space la deformazione della superfici topologiche avviene attraverso i condizionamenti del
luogo in cui l’oggetto si inserisce, in Animated Form il senso generale è dato dal
movimento, dai punti pesanti e dalla disgregazione e riaggregazione di particelle di
materia elettronica.
Questo non è propriamente un progetto di spazio o di Cyber-architettura. Ci serve,
tuttavia, per introdurre il progetto Port Authority Gateway del 1995 (Fig. 54), basato su
architettura scaturita dalle traiettorie seguite da palline elastiche. Ammettiamo che il
metodo utilizzato possa apparire arbitrario se confrontato con «il libero gioco dei volumi
sotto la luce» di Le Corbusier, o il poetico motto di Frank Lloyd Wright il quale diceva che
l’architettura deve avere la stessa bellezza di un cigno che si specchia nell’acqua. Ma i
mondi culturali di questi amati maestri e degli autori che abbiamo preso come soggetti
della nostra trattazione sono notevolmente diversi e il paragrafo dedicato alla Cybercultura ha tentato di dimostrarlo. Port Authority Gateway è un progetto di concorso per una
pensilina con sistema di illuminazione per una stazione degli autobus a New York. Il
progetto cristallizza diversi movimenti che accadono contemporaneamente: il cammino dei
pedoni, il moto degli autobus che attraversano il luogo e quello veloce delle automobili.
These various forces of movement established a gradient field of attraction across the site. To
discover the shape of this invisible field of attraction, Lynn introduced geometric particles that change
their position and shape according to the influence of the forces. [...] He captured a series of phase
portraits of the cycles of movement over a period of time. These phase portraits are swept with a
secondary structure of tubular frames linking the ramps, existing buildings and the Port Authority Bus
Terminal. Eleven tensile surfaces are stretched across these tubes as an enclosure and projection
165
surface.
164
Il progetto è pubblicato senza data, ma è sicuramente anteriore al 2000 poiché presentato alla 7a Biennale di Architettura di
Venezia che ha avuto luogo, appunto, in quell’anno.
165
Frédéric Migayrou e Marie-Ange Brayer (a cura di), op. cit., p. 260.
Non è tanto la forma a onda quella che deve essere notata, non tanto l’informalità o la
perdita di parametri figurativi ciò che deve suscitare interesse. Tutto è generazione di una
forma involucrando direttrici di moto generativo del progetto. In questo caso, le
problematiche di natura teorica rimangono più in sottofondo, mentre emergono quelli di
natura poetica e di gestione del progetto attraverso l’elaboratore. In effetti, risulta
pressoché impossibile gestire una simile architettura senza di esso. Greg Lynn utilizza un
software ideato per l’industria cinematografica delle animazioni. Risulta, dunque,
connaturato alla tipo di programma l’aspetto del movimento. Simili strumenti permettono
non solo di creare una forma libera, ma anche di applicarvi il movimento, con tutta una
vasta gamma di opzioni molto interessanti. In ciò risiede la connessione tra architettura e
movimento in Lynn. Egli utilizza strumenti informatici ad esso dedicati. Pertanto,
l’esplosione delle sfere che incarnano il movimento nello spazio di persone, autobus e
automobili, sono conseguenza diretta dello strumento. In altre parole, sarebbe impossibile
senza lo strumento immaginare il tipo di elaborazione e, parallelamente, è lo stesso
strumento che suggerisce le soluzioni. Le potenzialità degli elaboratori solidi che Lynn usa
danno molte possibilità. Compito dell’architetto è quello di sfruttarli in modo coerente per la
generazione di opere che diano risultati maturi.
Abbiamo tentato di presentare l’opera di Lynn attraverso due chiavi di lettura. La prima
riguarda la derivazione delle sue sperimentazioni dal terreno della topologia e della
matematica del caos, la seconda da quella del movimento. Riteniamo essere la prima una
sorta di substrato più o meno consapevole, la seconda una vera e propria dichiarazione di
poetica che ritroviamo pressoché costante in ogni suo lavoro. Sia esso derivato dalle
reazioni elastiche di una sfera elettronica, o il moto di una “ameba” elettronica soggetta a
campi attrattivi lungo un percorso o, ancora, le deformazioni topologiche generate dal
luogo su un oggetto iniziale, sempre compare un’azione deformatrice dinamica 166.
Quello che, tuttavia, è importante sottolineare è che autori come Greg Lynn o Karl S.
Chu o Kolatan/MacDonald Studio, fanno parte di una generazione di autori che sono
espressione di un cambio generazionale avvenuto nella seconda metà degli anni Novanta.
Essi esprimono un delicato rapporto tra architettura, comunicazione, virtualità e New
Economy167.
Non si tratta, come spesso si è ironizzato, di raffinati disegnatori di pagine web, ma dell’affacciarsi
di una differente dimensione del fare architettura a fronte di una domanda sociale ed economica
soggetta a una forte metamorfosi. Il progetto per il Virtual Guggenheim di Asymptote oppure gli
organismi abitativi delle Embryologic Houses di Greg Lynn esprimono i primi incerti passi di una
disciplina che guarda alla propria rifondazione attraverso la riforma degli strumenti di progetto e
rappresentazione, e una riflessione sul rapporto tra uomo e virtualità. Il vero rischio di questa fase
risiede piuttosto in una dimensione formale autoreferenziale che dimentica la città reale rifugiandosi in
un Eden di forme perfette e irrealizzabili. Ci troviamo spesso di fronte a opere che guardano più
all’effetto spettacolare e mediatico, coscienti di una inevitabile, rapida deperibilità e in cui il rapporto tra
forma costruita e tecnologia costruttiva appare ancora molto debole, come se la separazione tra
168
guscio/pelle e struttura fosse una questione da non affrontare.
Desideriamo concludere questo ampio paragrafo dedicato alla Cyber-architettura con
un autore emblematico: Peter Eisenman. Egli è la più classica star nel panorama
dell’architettura internazionale; la sua scaltrezza gli consente di cavalcare le diverse
correnti di architettura con estrema disinvoltura. Ci chiediamo, addirittura, se sia lui stesso
a creare le mode o se abbia un gran fiuto nell’individuare le correnti destinate alla maggior
166
Per approfondire la questione della generazione dinamica delle forme in Lynn rimandiamo alla lettura di Frédéric Migayrou e
Marie-Ange Brayer (a cura di), op. cit., p. 258. Tale argomento, pur interessante e fondamentale, non è strettamente connesso alla
generazione degli spazi non-euclidei in architettura.
167
Luca Molinari, Tendenze dell’architettura nordamericana. Gli anni Novanta, op. cit., 187.
168
Ibid.
diffusione. Dobbiamo tracciare alcune coordinate essenziali capaci di collocare questo
autore nella Cyber-architettura. Il compito si presenta non troppo difficile per il fatto che
Eisenman è una sorta di summa degli autori precedenti. Non neghiamo che sia un
personaggio ambiguo, un geniale voltafaccia che ha la capacità di piegare i tempi alla
propria autoaffermazione. Ma se questo, personalmente, ci irrita in figure come quella di
Philip Johnson, la genialità e l’estremo coraggio di Eisenman fanno parzialmente scusare
un imperdonabile difetto: l’assenza di sincerità.
Con la sua consueta sperimentalità, tende ad abbandonare le idee sulla decostruzione
dalla fine degli anni Ottanta per dedicarsi allo studio del caos. Il suo spostamento di rotta è
emblematico e noi lo registriamo come cambiamento del gusto internazionale. A partire da
questo periodo
comincia ad esser attratto verso la geometria non-euclidea e la teoria del caos: studia i frattali, il
Dna [...], gli atomi leibniziani [ricordo qui l’interesse di Karl Chu per le monadi di Leibniz, N.d.R.], la
169
geometria booleana.
Occorre dire che le operazioni booleane sono un processo nel quale avvengono somma e
sottrazione di figure della geometria elementare. Esse rappresentano un punto di inizio
importante per le geometrie deformate contemporanee. È possibile dire che l’algebra di
Boole è il vero punto di partenza per le conquiste illustrate nelle pagine precedenti. Dopo
una serie di opere di “assestamento” nelle quali la ricerca sulle geometrie non-euclidee
aveva iniziato ad esprimersi con difficoltà 170, Eisenman approda ad una metodologia del
tutto personale che fa di un concetto assolutamente estraneo all’architettura il punto
iniziale per generare spazi. Riteniamo che questo strumento sia, seppur ambiguo, di
grande interesse poiché permette di rompere i confini disciplinari e ridefinire la materia
architettonica. Come ci siamo sforzati di illustrare, uno dei motivi di maggior interesse della
Cyber-architettura riguarda l’acquisizione di sollecitazioni dall’esterno della materia e dalla
contaminazione di diverse aree della cultura, non necessariamente “nobili”. L’interesse di
Eisenman verso il Dna o i frattali ha questo significato: dissolvere la materia architettonica
per acquisire stimoli imprevisti rivolti al rinnovamento dell’ideare spazi. Eisenman soffre di
un grande difetto: egli, anche nei progetti realizzati, dà sempre l’impressione di fare
architettura programmatica con una forte componente teorica. Ciò possiede, però, un
aspetto positivo. Nelle opere più recenti, Eisenman ídea il puro spazio del vissuto,
situazione pericolosissima che lo fa sovente scivolare in un eccesso di ideologia, ma che
ha l’innegabile vantaggio di spingere all’estremo l’idea di luogo. Dalle ricerche degli anni
ottanta, facendo un salto di circa quindici anni, è opportuno citare il progetto per lo Staten
Island Institute of Arts and Sciences a New York, progettato a partire dal 1997 (Fig. 55).
Un’idea che ci siamo fatti è che questa non sia propriamente architettura: gli spazi del
vissuto sono conseguenza di operazioni concettuali molto serrate. Siamo di fronte, innanzi
tutto, ad una organizzazione spaziale nella quale l’interesse per la consistenza volumetrica
dell’edificio e per qualunque risultato formale diventa ininfluente. L’esito, in altre parole, è
teso esclusivamente alla ricerca di luoghi della percorrenza e della percezione; perde
qualunque significato ragionare per fronti, masse, materiali, etc. Ogni sforzo è rivolto ad
organizzare lo spazio; è quanto basta. Eisenman stesso parla di necessità di riconfigurare
il sistema di visione contemporaneo. I media hanno apportato novità sostanziali di
percezione ed il computer ha accentuato ancor più questo fenomeno. Nella maggior parte
dei casi, dice Eisenman, l’architettura viene progettata secondo i criteri prospettici
rinascimentali, fatto che ha come conseguenza l’organizzazione spaziale secondo assi,
punti e simmetrie, capaci di orientare il corpo verso la centralità dell’osservatore 171. Grazie
169
170
171
Antonino Saggio, Peter Eisenman, Testo & Immagine, Torino, 1996, p. 46.
Citiamo a tal riguardo il Carnegie Mellon Research Center a Pittsburgh del 1987-’88.
Luca Galofaro, op. cit., p. 70.
al computer, oggi è possibile visionare l’architettura secondo angolature assolutamente
inedite. La verifica spaziale avviene in tempi ridottissimi e, in più, aprendo possibilità
dapprima impensabili. Riteniamo che tale libertà di rappresentazione abbia deformato lo
stesso modo di concepire lo spazio in architettura. Quegli autori che hanno come punto di
partenza la generazione dello spazio non-euclideo in architettura hanno avuto una sorta di
“malattia degenerativa” della visione che è, ora, incapace di concepire luoghi secondo i
canoni tradizionali. La macchina ha reso possibile diverse metodologie compositive che gli
architetti hanno assorbito in modo indelebile. Progettare nel vecchio modo sarebbe
impossibile poiché diverso è il modo di vedere. Questo concetto è, a nostro parare, una
delle chiavi di volta del problema. Si comprende come, oggi, non vi sia la volontà di forzare
la forma o aderire ad un’avanguardia. Il problema è ben più sostanziale. Oggi si vede in
modo diverso rispetto al passato.
L’acquisizione della complessità del reale, l’apertura della scienza alle dinamiche del
caos, ha fatto parzialmente perdere in certi autori la ricerca della razionalità del progetto,
poiché la realtà è, di fatto, incontrollabile. Sintetizzando i due precedenti concetti necessità di una nuova visione e perdita di razionalità -,
Eisenman propone di cercare uno spazio altro riuscendo a frapporre una distanza fra ciò che si
vede rispetto a ciò che si conosce. [...] Ripensare l’iscrizione dello spazio significa riuscire a
rovesciarlo non meccanicamente, ma concettualmente, usando strumenti nuovi [...]. Eisenman cerca
uno strumento che gli consenta di rompere gli schemi, cerca una continuità ininterrotta fra esterno e
interno, cerca cioè di superare il prestabilito sistema d’iscrizione, e lo trova nell’idea di ripiegatura di
172
Deleuze.
La piegatura è un’idea importante poiché l’autentica generatrice di molti progetti di
Eisenman (e di altri autori). Ha essenzialmente un’interpretazione filosofica che noi
tralasceremo. Ci interessa maggiormente la conseguenza di carattere architettonico.
Questa operazione (chiamata folding in inglese) si propone
[...] come una operazione geometrica di configurazione dell’oggetto, che appare effettivamente
come attraversato da scosse e piegature, e come chiave ideologico-cosmologica, segno della sua
appartenenza a un mondo delle idee proprio delle ricerche sullo spazio anticartesiano di Deleuze
173
[...].
Nello Staten Island Institute si perde qualunque assialità in funzione di una «torsione di
una massa addensata»174. Eisenman riesce a creare il movimento attraverso increspature
del terreno e stratificazioni non connesse ad alcun asse continuo. In quale modo, le
percorrenze e le stesse logiche distributive sono sempre spezzate in funzione di una
fusione spaziale che nega qualunque continuità. Il computer, in questo caso, è utilizzato
come sistema vettoriale che organizza i diversi stati, le diverse percorrenze funzionali,
sovrapponendo le une alle altre. Quest’opera è uno degli ultimi progetti realizzati con
l’ottica delle griglie sovrapposte e deformate. La deformazione delle griglie mette in
relazione le dinamiche dei flussi, gestibili solo attraverso lo strumento informatico che
diviene non solo un sistema indispensabile di prefigurazione e di gestione dell’estrema
complicazione spaziale, ma anche generatore del caos. Staten Island Institute è, allora,
un’architettura della pura forma, qualcosa che va al di là della sua rappresentazione per
divenire nuova metodologia di progetto e di attuazione del reale. Se questo appare un
intento gigantesco e persino sfacciato, occorre considerare che parte del successo di
Eisenman deriva da questa volontà di eccedere e di riformare le discipline. E, talvolta,
forse con capacità derivate più dal suo potere che dal suo talento, egli vi riesce. La
172
173
174
Ivi, p. 72.
Pippo Ciorra, Peter Eisenman: opere e progetti, Electa, Milano, 2000, p. 22.
Luca Galofaro, op. cit., p. 76.
necessità di questo metodo deriva degli scopi del progetto che dev’essere
contemporaneamente un ferry terminal, un museo, un nodo di scambio con bus,
automobili, traghetti, attraversato da più di diciotto milioni di persone all’anno. Esso
accoglie essenzialmente movimento. Ed è al flusso congelato di persone che Eisenman
dà forma. La sala di attesa del terminal diventa un museo facendo in modo che i diversi
flussi di persone si confondano e si attraversino 175. Se l’architettura sembra emergere dal
suolo, essa diviene poi puro spazio attraverso un percorso che va dalla materialità alla
sottigliezza dei rimandi non-visivi. Nessuna parte è connotata formalmente, per cui le
gerarchie sono distrutte. Eisenman lavora, secondo Luca Galofaro, in una direzione
basata su un «informale diagramma teorico arbitrario»176 per dar forma ad uno spazio che
rompa i confini fra reale e virtuale. Secondo una bella intuizione dello stesso Luca
Galofaro, Eisenman abbandona il disegno rivolgendosi alla modellazione 177, di cui la
«piegatura» utilizzata nello Staten Island Institute è un esempio. In questo senso sono da
interpretare le poetiche parole di Anton Markus Pasing quando dice, nell’intervista da noi
condotta, che solo dentro ad un’idea di spazio aprioristico noi siamo nella condizione di
intraprendere una divisione, sfumare e fare formulazioni. L’architettura, pertanto, è solo
una possibile espressione all’interno dello spazio178.
L’aspetto di sorpresa in Eisenman è fondamentale. Egli stesso parla di una
indipendenza dei diagrammi dalla sua volontà creativa. Essi si trasformano
autonomamente nella realtà fisica in modo non dissimile da quello utilizzato da Greg
Lynn/Form.
The external diagram provided a series of formal relationships and organizations that when given
179
form, structure, and function in an architectural context.
Attraverso un procedimento molto complesso, i diagrammi sono generati come griglie di
deformazione che alterano la consistenza dell’edificio. Tali deformazioni sono così radicali
che l’architettura diviene puro spazio o espressione concettuale dell’idea sottesa al
progetto. Il metodo di Eisenman parte sempre dalla teoria, passa successivamente
all’analisi del contesto e della cultura nel quale l’edificio si deve inserire, applicando infine
le deformazioni di griglia scaturite dal contesto. La fase finale è, pertanto, parzialmente
indipendente dalla volontà del progettista poiché derivata dalle deformazioni che il luogo
impone al nuovo intervento.
Lo stesso accade in altri due lavori precedenti che intendiamo illustrare brevemente per
completare questo discorso. Il primo è il progetto della Biblioteca per la Piazza delle
Nazioni a Ginevra del 1996-’97 e il secondo e il concorso internazionale svoltosi a Roma
per Una chiesa per l’anno 2000 del 1996 (Figg. 56 e 57). Entrambi i progetti utilizzano i
diagrammi a maglia, deformati secondo diversi e (volontariamente) arbitrari concetti. La
biblioteca di Ginevra si basa su una griglia deformata secondo
le operazioni dell’attività neurologica umana per produrre condizioni architettoniche capaci di
modellare lo spazio. I diagrammi delle funzioni celebrali si sovrappongono alla maglia del sito.
Eisenman registra diversi elementi e li trasforma in vincoli progettuali, incorporandoli nel processo
meccanico che genera l’oggetto direttamente dal sito. Il nuovo edificio si genera fra il paesaggio e gli
oggetti, sfocando entrambe le condizioni in un unico spazio eterogeneo. [...] È un eterogeneo sistema
180
autorganizzato, dominato da combinazioni arbitrarie.
175
Marco Galofaro, Note su Staten Island, in Ivi, p. 78.
Luca Galofaro, op. cit., p. 73.
Ivi, p. 75.
178
Intervista effettuata da Paolo Vincenzo Genovese ad Anton Markus Pasing. Trad. dell’autore. Cfr. Appendice II
179
Peter Eisenman, Diagram Diaries , Universe, New York, 1999, p. 209.
180
Luca Galofaro, op. cit., pp. 32-33.
176
177
Successivamente, una volta che le frequenze sono stabilite, vengono messe in relazione
con le griglie preesistenti e deformate per interferenza. La griglia si altera dando luogo
all’architettura. In questa fase creativa Eisenman ragiona su un’architettura la cui
consistenza deriva da ragioni di carattere teorico, quali le griglie e, soprattutto, gli spazi
interstiziali (between) che nascono dalle deformazioni dei reticoli. È possibile dire che il
punto di maggior interesse riguarda lo spazio di connessione che Eisenman chiama
between. Il concetto è molto complesso, ma basti qui ricordare che esso non è altro che
uno spazio di relazione tra gli elementi funzionali. Il fatto importante è che tale spazio di
relazione è di grande complessità perché capace di imbastire relazioni. Esso è informale e
come tale oggetto del nostro interesse. Lo spazio between collega ed è esso stesso
tramite tra le funzioni; è elemento principale di relazione, importante a tal punto da divenire
ben più essenziale degli elementi funzionali 181. La differenza tra Scharoun ed Eisenman,
dal punto di vista dello space between, risiede nel fatto che il primo fa scaturire da esso la
sua architettura, mentre Eisenman genera l’organismo e la consistenza spaziale da matrici
esterne alla materia architettonica.
Lo spazio di relazione in Eisenman appartiene a quel genere di complessità che noi
stiamo ricercando. Essa si forma grazie al computer poiché le deformazioni di griglia si
svolgono attraverso di esso. Egli, agendo sulle maglie, ottiene la deformazione dei corpi
edilizi che, spaccandosi e richiudendosi su se stessi, generano quello spazio di relazione.
Ancora una volta abbiamo uno spazio informale, non-euclideo, impossibile da ricondurre a
matrici figurative note, perché ottenuto da un processo estraniante e perturbante 182.
Questo è chiarissimo nella Chiesa per l’anno 2000 di Roma, progetto che parte dal
semplice affiancamento di due barre parallele e dalla deformazione del vuoto al loro
interno. A partire dal rapporto tra distanza e vicinanza (uomo/Dio, pellegrinaggio),
Eisenman inserisce l’idea della trasformazione sospesa dei cristalli liquidi che,
deformandosi, alterano gli spazi. Riteniamo che entrare nel processo di ideazione della
forma non sia tra i compiti di questo capitolo che, al contrario, deve illustrare alcune ipotesi
di pensiero di progettisti contemporanei nell’ambito degli spazi non-euclidei con il
computer. Le immagini che illustrano il processo evolutivo della chiesa per Roma e della
biblioteca ginevrina saranno, per ora, sufficienti per comprendere il senso generale del
discorso
Al contrario, è importante parlare di un altro progetto di Eisenman, ben più estremo ma,
proprio per questo, determinante per comprendere sia il suo rapporto con la progettazione
computerizzata, sia la sua riflessione sul problema reale/virtuale. Nel 1997 Eisenman
iniziò la progettazione di uno dei più emblematici e programmatici progetti della sua
recente produzione. Stiamo parlando di Virtual House “collocata” a Berlino (Fig. 58).
Normalmente, il computer diviene per Eisenman la materializzazione del pensiero, la sua
visualizzazione 183. Il progetto Virtual House è un caso del tutto particolare. Pur avendo
spesso ragionato su architetture senza forma, qui l’architetto americano agisce in
profondità sull’idea teorica di virtualità. La casa parte, come in tutte le opere recenti, da
una griglia base, costituita in questo caso da nove cubi che si relazionano. Ogni
collegamento tra loro è espresso da un vettore che ha un «campo di influenza». Questo
sta a significare che il vettore è dotato delle proprietà tipiche dei vettori di forza (direzione,
intensità e verso). Attraverso una variazione temporale, i vettori di forma agiscono sui cubi
iniziali deformandoli. Si associano, così, proprietà dinamiche a proprietà geometriche. Ad
un’intensità di forza corrisponde una variazione di forma. Questo sistema è, ovviamente,
181
Per un’analisi più dettagliata dello space between in Scharoun vedasi Michael Hellgardt, Dentro l’architettura di Scharoun, in
«Housing 6», Etas Libri, Milano, 1994, p. 107 e sg. e anche Paolo Vincenzo Genovese, Hans Scharoun. Scuola a Lünen, Testo &
Immagine, Torino, 2001. Anche il critico inglese Peter Blundell Jones ha dedicato molti scritti e studi su questo difficile argomento.
Queste idee sono però sparse in molti volumi che è inutile citare qui.
182
Uso quest’accezione anche dal punto di vista psicoanalitico. Cfr. con Sigmund Freud, Il perturbante, in Psicoanalisi dell’arte e
della letteratura, Newton & Compton, Roma, 1997.
183
Luca Galofaro, op. cit., p. 59.
gestito dal computer ed i risultati finali sono largamente imprevedibili poiché troppo
complessi per essere immaginati dalla mente umana. L’orientamento dei vettori dà luogo
alla conformazione spaziale dell’edificio. Ciò che deve destare stupore è come il formare
l’architettura è assolutamente indipendente dalla volontà dell’architetto che si limita ad
impostare il metodo di evoluzione. La casa perde le coordinate volumetriche e di
consistenza materica. Molti dei progetti di Eisenman possiedono un “difetto” molto
interessante. Essi sono, nella maggior parte dei casi, dei manifesti teorici di una poetica
filosofica. Ciò è particolarmente per la Virtual House. Se nei casi analizzati in precedenza
esisteva una netta differenza tra progetti destinati alla realizzazione ed elaborazioni virtuali
che indagavano la forma o destinati ad un uso sulla rete Web, in quest’ultimo caso le cose
sono più sfumate. Egli, in altre parole, crea un progetto immateriale, con le stesse
caratteristiche di un Web-project, che potrebbe tuttavia essere costruito. Per essere più
precisi, il problema della realizzazione è ininfluente per Eisenman. Essenzialmente, le sue
opere sono delle elucubrazioni filosofiche soggette, talvolta, ad essere edificate. Questa è
una sua vecchia abitudine che ritroviamo inalterata fin dall’epoca dei Five Architects.
L’architettura della Virtual House estremizza questa relazione tra reale/virtuale, dicotomia
che si spinge ben oltre il contemporaneo problema del computer. Virtuale, in Eisenman, si
spinge fino al punto di una completa smaterializzazione della tettonica, la luce penetra fin
nel cuore dell’edificio, nella sua pelle 184 e nei punti in cui la forma tende ad essere
ambigua.
Chiariamo. Leggendo i disegni computerizzati di questo progetto si coglie una scarsa
chiarezza della consistenza volumetrica, della forma della casa. Questo deriva
dall’approccio di Eisenman verso il concetto di virtuale: esso assume sempre di più un
significato di incompletezza o, meglio, di ipotesi di forma. L’architettura perde gravità
perché generata dalle interferenze tra due piani paralleli, senza prendere in
considerazione le condizioni di vivibilità. Egli sembra confermare la provocazione di Gilles
Deleuze: «il virtuale possiede piena realtà in quanto virtuale».
Per concludere facciamo una considerazione generale, partendo da questo caso.
Notiamo che nella Virtual House esiste un aspetto programmatico che va al di là del
progetto in sé. Questa è una vera e propria provocazione ben più violenta, a nostro
parere, delle sperimentazioni degli anni settanta dello stesso Eisenman. Il graffio risiede
nel negare all’architettura consistenza materica, abitabilità, principi direttori ed
organizzatori, minarla fin nelle fondamenta. Pur avendo analizzato numerosi fenomeni di
quella che abbiamo definito Cyber-architettura, abbiamo individuato diverse possibili linee
di interpretazione di questo termine. Sicuri punti in comune sono l’adesione alla cultura
Cyber e ai nuovi modelli (volontari od involontari) di socialità connesse, l’utilizzo del
computer come strumento di progettazione, l’adesione ad una cultura dello spazio di alto
valore di complessità geometrica generalmente derivato da parallele ricerche nel campo
della matematica, l’uso di forme derivate dallo zoomorfismo e dall’antropomorfismo.
Ma, tra tanti ed essenziali punti comuni, esistono differenze talvolta insanabili che,
riteniamo, forniscano un quadro articolato del fenomeno. Una prima ed essenziale
diversità riguarda il modo di intendere l’architettura. Per alcuni autori (Naga Studio
Architecture, Ben Van Berkel & Caroline Bos, Neil M. Denari), il computer è uno strumento
di prefigurazione dell’architettura, una sorta di strumento potente capace di visualizzare
forme complesse di un’architettura altrimenti difficilmente immaginabile. Essi ídeano
architettura tradizionale e l’unica novità riguarda la visualizzazione e, semmai,
l’estremizzazione di forme di spazio già presenti nella decostruzione.
Altrove (Kolatan/Mac Donald Studio, Oosterhuis Associates, Greg Lynn/Form), la
ricerca è più spinta. In questi esempi, è la stessa natura dell’architettura ad essere
184
Ivi, p. 67.
rivoluzionata. Spesso essa diventa pura forma, progettando esempi che sono da ascriversi
più nel campo della scultura che nel baukunst. Essi mantengono, tuttavia, caratteri
linguistici tipici dell’architettura. In questo caso, la ricerca risiede nel carattere di
innovazione formale e spaziale e nella ridefinizione delle possibilità poetiche e tecniche
dell’architettura; anche le questioni di carattere compositivo/linguistico divengono primarie
nella caratterizzazione di spazi non-euclidei.
Infine notiamo altri autori che sono persino indifferenti al problema di edificare uno
spazio reale (Karl S. Chu, Asymptote). L’architettura può esaurirsi nel territorio della
virtualità e questo nulla toglie alla sua liceità, al suo carattere di spazio del vissuto.
In questo panorama, riteniamo Peter Eisenman una figura unificante poiché capace di
toccare in modo del tutto personale ed originale tutti questi aspetti. Egli non è certamente
un autore esente da critiche. La nostra adesione al suo lavoro presenta larghe falle,
poiché la sua opera risulta essere eccessivamente affaticata da una teoria artificiosa e
parzialmente inutile. L’opera creativa è sovente estemporanea e non razionale, priva di
pesanti filosofie.
2.3. Spazi virtuali e spazi costruiti. Due nature della Cyber-architettura
Fin’ora abbiamo concentrato l’attenzione sulla natura degli spazi virtuali, ovvero quei
“luoghi” elettronici basati sulle elaborazioni nate sia dagli sviluppi della topologia in
matematica, sia dalla potenza degli strumenti informatici. In altre parole, il desiderio è stato
quello di mostrare alcune sperimentazioni - forse estreme - che avessero più diretto
contatto con la natura dell’ipertrofia delle elaborazioni spaziali condotte con l’uso
dell’elaboratore. Il compito più profondo, allora, è stato quello di individuare il perché di
queste elaborazioni, apparentemente arbitrarie e frutto di una sorta di “neobarocco
ipertecnologico”. Come si è tentato di far emergere, gli sforzi progettuali sono
essenzialmente derivati da una sorta di libertà creativa derivata dalla rivoluzione in campo
geometrico negli ambiti della matematica. Le scoperte fondamentali di Hilbert e Fréchet, le
conquiste della topologia e altri simili ambiti, hanno apportato alla cultura geometrica una
libertà interpretata come detto nel Cap. 2.2.
A questo punto ci rimane un ultimo compito di grande delicatezza. Tentare, attraverso
esempi, di dimostrare come questi casi estremi in ambito virtuale abbiano esercitato una
sostanziale influenza anche sul costruito. In altre parole, la domanda che occorre farsi è
se le ambiziose mete della progettazione virtuale degli spazi non-euclidei siano state in
grado di realizzare architettura, opere fisiche con caratteristiche derivate dalle elaborazioni
virtuali. Il compito, già parzialmente illustrato nel precedente paragrafo, racchiude in realtà
un obiettivo ancora più difficile: verificare che lo spazio virtuale possa essere, almeno nel
semplice ambito percettivo, avvicinato a quello costruito. Per fare questo occorre porre dei
confini estremamente precisi. Non desideriamo affermare che spazi virtuali e spazi fisici
siano la stessa cosa; e nemmeno che possa esistere una confusione tra i due. È chiaro il
fatto che spazi virtuali e fisici abbiano una diversissima natura. L’obiettivo è, semmai,
vedere quanto di comune esiste tra i due e tentare di ricostruire le radici di queste vie che
intuiamo procedere per continue intersezioni e reciproche influenze.
Un esempio davvero molto chiaro a tal riguardo è rappresentato dal gruppo NOX, già
affrontato in precedenza. NOX approcciano la progettazione con la medesima libertà sia in
casi virtuali che fisici. Abbiamo già precedentemente analizzato i casi di Beachness e di
V2 Lab, come esempi di grande libertà sia concettuale che formale. Apparentemente
questo poteva essere attribuito all’assenza di vincoli strutturali e d’uso che ha l’architettura
virtuale. Questa ipotesi è tuttavia negata da un progetto del 1997 intitolato Fresch H2O
eXPO a Neeltje Jans, Olanda (Fig. 59). Non troviamo sostanziali difformità di logica
funzionale e di ispirazione formale. La conformazione è identica a quella già illustrata nei
progetti non realizzati. Fresch H2O eXPO si presenta come un grande tubo deformato nel
quale è presente un’installazione di luci e proiezioni. Uno degli aspetti di maggior interesse
è la forma morbida con cui gli interni sono trattati. Nel complesso, il padiglione è un luogo
ideato con una forte continuità spaziale tra i diversi momenti espositivi. Non esistono
divisioni di sorta tra le varie parti poiché tutto il progetto è concepito nell’ottica di un
continuum spazio/temporale derivato dagli spazi organico/espressionisti. Un carattere di
forte interesse riguarda l’uso di superfici morbide anche nelle pavimentazioni. I percorsi si
configurano, così, come una serie di “dune High-Tech” che presentano una totale
continuità tra pareti e soffitto del padiglione. Il progetto è, per NOX, «a complete fusion of
body, environment and technology» 185. L’influenza degli spazi complessi a più dimensioni
è ben più di una supposizione. Se le forme ci fanno intuire una stretta derivazione dalle
forme topologiche e dalle deformazioni degli spazi pluridimensionali di Hilbert/Fréchet,
esiste una conferma derivata dai processi di generazione di questo spazio. La forma,
infatti, è derivata da una deformazione fluida di quattordici ellissi sviluppati lungo un
percorso di 65 metri 186. La deformazione continua dei pavimenti, delle pareti e dei soffitti
attraverso una totale continuità formale è un’interpretazione del concetto di spazio fluido in
continua metamorfosi ed espressione dello sviluppo dei processi naturali. L’adesione alla
natura non è più solamente un’ispirazione poetica. La matematica frattale di Mandelbrot
altro non è che il tentativo di interpretare secondo leggi algoritmiche i fatti della natura,
comprendendo che la loro infinita mutevolezza presenta, al contrario, una regolarità
profonda ancorché complicatissima.
Come fa notare Cesare De Sessa in un fondamentale capitolo sull’analisi delle nuove
concezioni spaziali a partire da discipline non architettoniche, il mondo dei frattali è
connesso al problema dei sistemi dinamici aventi, per loro natura, enormi livelli di
complessità.
Lo studio dei frattali indaga altresì questo tipo di molteplicità, dei numerosi fattori ed elementi che si
accavallano e incrociano, influenzandosi reciprocamente, e determinando, in questo inestricabile
intreccio di azione e retroazione, l’accadere degli eventi che, un lessico ancora incapace di
187
comprendere e spiegare, attribuiva tout court al caso.
Il caso dei frattali di Mandelbrot può essere sviluppato in senso spaziale in altre direzioni di
fecondissima portata. In particolare mi riferisco a questo problema: i frattali sviluppano
sistemi dimensionali frazionari, aspetto che tende a dimostrare la natura transfinita del
problema delle dimensioni 188. Esiste anche un’implicazione più direttamente legata
all’architettura che, tuttavia, accenneremo solamente poiché nessun architetto indagato ha
effettuato sperimentazioni legate a questo aspetto. Il problema è contenuto nel fatto che la
geometria frattale si sviluppa in modo assolutamente particolare. In altre parole essa non
esaurisce lo spazio, ma definisce nelle prime battute un’area tridimensionale di massimo
sviluppo per poi implodere ed arrivare a livelli infinitesimi al suo interno. Questo è
dimostrato dall’attrattore strano di Edward Lorenz. Dopo una prima fase di assestamento
che disegna i confini essenziali di questa figura che si svolge nello spazio, il processo di
sviluppo dell’attrattore tende a percorrere strati sempre più piccoli di spazio all’interno dello
spessore del grafico di sviluppo. In altre parole, lo sviluppo della curva si rivolge su se
stesso. Esso si svolge entro uno spessore limitato ed ogni passaggio dello sviluppo della
curva dimezza continuamente lo spessore della figura spaziale. Questo significa che inizia
un processo infinito di dimezzazione dello spessore che ha come conseguenza un
rivolgimento della curva matematica al suo interno più che al suo esterno. I frattali, allora,
sono una vera e propria caduta nel baratro. Lo sviluppo dei diagrammi ha un volume
185
Frédéric Migayrou e Marie-Ange Brayer (a cura di), op. cit., p. 324.
Ibid.
187
Luciana Finelli e Cesare De Sessa, Conversazioni sul contemporaneo, Officina Edizioni, Roma, 2001, p. 154.
188
Cfr. con questo scritto, Cap. 2.2.
186
limitato all’esterno, ma provoca una caduta infinitesima verso l’interno, un avvolgimento
verso strati infinitamente piccoli dello spazio.
Ma, accanto al problema dell’autosomiglianza, questo è un tema dei frattali che occorre
lasciar cadere. È stato fondamentale accennarne la natura perché esso ha fondamentali
implicazioni spaziali nella nostra trattazione, tuttavia è superfluo approfondirlo ora poiché
non esistono sperimentazioni architettoniche o di progettazione si spazi virtuali che hanno
una coerente applicazione di questo tema.
Al contrario, l’uso della matematica frattale per spiegare le forme della natura può
essere un riferimento diretto al caso di NOX sopra studiato. Ritengo che Fresch H2O
eXPO non sia da riferire tanto alla tradizione organico/espressionista, quanto ad una più
recente adesione ad un’“estetica del computer”. Infatti l’organicismo che abbiamo più volte
incontrato è una sorta di delirio formale che ritroviamo in molti aspetti dell’estetica Cyber.
Fresch H2O eXPO è esattamente questo. La particolarità riguarda il fatto che esso è un
edificio costruito e le atmosfere interne, la forma, l’idea di percorrenza fluida tra gli spazi
appartiene allo stesso dominio formale, alla stessa capacità visionaria di uno spazio
virtuale che vive nella memoria di un computer. Esiste, parallelamente, un curioso
paradosso. È estremamente difficile, anche per un occhio allenato, distinguere con
precisione la differenza tra un rendering ben fatto di un’elaborazione virtuale e uno spazio
effettivamente costruito. Questo deriva solo in parte dalla perfezione dello strumento, dalla
complessità delle rese fotorealistiche dei programmi. Queste sono le componenti più
esteriori del tema che non costituiscono un problema culturale. Il punto di riflessione è
contenuto nel fatto che alcuni progetti virtuali sono ben più che prefigurazioni di ciò che
verrà costruito. La difficoltà di distinguere le due cose comporta la volontà dei progettisti di
mantenere volutamente confuse e glissate le due realtà. Quanto emerge sembra negare
una divisione tra le due sfere: spazi virtuali e spazi fisici sono la medesima cosa.
Naturalmente questa è una visione programmatica da parte dei progettisti. È nostro
compito definire limiti e proporre delle chiavi interpretative in grado di gettare una
prospettiva su questi manifesti Cyber talvolta deliranti. Il problema è, come sempre, di
natura percettiva. Se l’occhio può essere ingannato da una serie di quadri dai colori
accesi, questo muta profondamente con la percezione fisica dei luoghi. Tale questione
non è banale come può sembrare a prima vista proprio per la particolarissima natura della
cultura Cyber. Essa, infatti, si nutre di una nuova qualità dello spazio che è appunto la
simulazione. In questo mondo esiste una confusione volontaria tra virtualità e realtà, tema
sottolineato da molta produzione contemporanea sia in ambito artistico che
cinematografico o letterario. Per completare il discorso su NOX occorre notare come le
elaborazioni tridimensionali preliminari che hanno portato alla realizzazione del progetto
sono sostanzialmente identiche a quei lavori che, di partenza, sono stati ideati per essere
esclusivamente luoghi virtuali. Questo significa che Fresch H2O eXPO ha avuto la stessa
genesi di Beachness, avendo avuto, al contrario del secondo, un esito realizzativo. Le
immagini preliminari del padiglione espositivo potrebbero essere prese, al pari di altre,
come manifesti Cyber.
Un caso direttamente analogo è quello di Oosterhuis Associates, anch’essi già trattati in
precedenza. Nel Garbage Transfer Station (Fig. 60) costruito a Elhorst/Vloedbelt Zenderen
in Olanda nel 1995 ritroviamo quanto appena detto. La forma generale di questo hangar
che contiene diverse funzioni sembra nato involucrando una struttura base con diverse
“pelli” metalliche che aprono grandi vetrate. La continuità di superfici non è dissimile da
Saltwaterpavilion. Appare la stessa forma avulsa dal contesto e calata nel territorio in
modo decontestualizzato. L’assonanza è evidente e medesime le influenze. Del resto
anche nei progetti virtuali, la logica era identica: una struttura metallica reticolare portante
ricoperta da un involucro metallico. Questo è certamente un caso minore poiché il
ragionamento che viene fatto riguarda essenzialmente la forma dell’edificio e meno gli
aspetti spaziali. Se in questo paragrafo l’attenzione deve essere maggiormente posta sulle
comunanze tra spazio virtuale e spazio reale, nondimeno occorre riflettere anche sui
semplici aspetti formali poiché essi fanno parte di quell’insieme di elementi su cui la
progettazione Cyber indaga. L’oggetto, infatti, non è mai pura forma “di design”, bensì
racchiude sempre, a nostro avviso, una riflessione sullo spazio non-euclideo. Forme
complesse generano spazi complessi, se non altro poiché richiamano aspetti della
geometria topologica. Gli strati del Garbage Transfer Station che costituiscono la pelle
esterna possono essere assimilati a superfici topologiche che avvolgono una struttura
portante razionalmente intesa.
Ho già parlato con sufficiente ampiezza dell’opera di Greg Lynn nell’ambito della
virtualità. I suoi lavori, in questo campo, sono per noi di grande interesse poiché egli arriva
alla generazione della forma da speculazioni filosofiche di grande intensità. Al contrario di
molti autori analizzati, egli propone per le sue creazioni un metodo. In molti casi analizzati
non esistono motivi reali per la conformazione degli spazi; in altre parole la creazione è
sovente dettata da un gusto estetico aderente all’estetica Cyber. Lynn, in ogni suo lavoro,
si avvicina ai complicati processi di elaborazione del suo più diretto maestro: Peter
Eisenman. Tuttavia, la grande libertà formale e di elaborazione delle opere già viste in
precedenza non è riconoscibile nell’unica architettura da lui realizzata. Stiamo parlando
della Korean Presbyterian Church costruita a Long Island nello stato di New York tra il
1995 e il 1999 (Fig. 61). Non crediamo si possa parlare di una caduta di qualità rispetto
alla vivacità formale, spaziale ed intellettuale dei lavori virtuali. Analizzando le date dei
diversi lavori scopriamo che tutti appartengono ad un’unica stagione creativa. Port
Authority Gateway è del 1995, Embryologic Space del ’98 e la Cardiff Bay Opera House
del ’94. Non è nemmeno possibile parlare di compromesso. In questo lavoro, Greg Lynn in collaborazione con altri due importanti architetti americani della nuova generazione,
Garofalo Architects e Michael McInturf Architects - adotta una strategia differente di
progettazione, solo apparentemente più cauta dal punto di vista formale e spaziale. La
dimostrazione di questa ipotesi è duplice. Se Michael McInturf è un autore di minore rilievo
architettonico, Garofalo Architects ha apportato alla progettazione architettonica un
notevole vigore. Anch’esso è un autore che possiamo collocare nel medesimo ambito
culturale di Lynn e questo fa di questo gruppo di progettazione un coerente team avente
medesimi obiettivi e facente parte di un movimento culturale compatto. Occorre, tuttavia,
trovare una giustificazione di carattere linguistico/spaziale all’ipotesi che essa non sia
un’opera di compromesso. Troviamo, nella conformazione spaziale degli esterni, una sorta
di alterazione della regolarissima sagoma del prospetto principale. Una serie di padiglioni
sembrano aprirsi come petali su uno dei lati minori. Essi contengono la scalinata
d’ingresso e un ballatoio di distribuzione. Quello che dev’essere notato è la continua
mutevolezza di questi padiglioni. La forma è una sorta di “serie variata” di un elemento
base, tronchi di piramide irregolare che si incastrano le une nelle altre. Il processo
progettuale si basa sulla reiterazione automatica per serie varata di una forma base,
processo tipico nella progettazione Cyber. Un parallelo potrebbe essere trovato in ResiRise di Kolatan/Mac Donald Studio189. In forma ipertrofica e visionaria, utopistica e
delirante, siamo in presenza del medesimo processo: l’ideazione di un modulo base e la
sua ripetizione in forma variata al fine di generare un sistema globale che assume una
forma articolata. I paralleli, naturalmente, finiscono qui. Non siamo di fronte a due opere
analoghe; ritroviamo semmai una matrice comune nella forma reiterata e variata, utilizzata
da Lynn-Garofalo-McInturf in modo più cauto e aderente ai problemi di carattere statico e,
naturalmente, economico. Esiste una conferma ancora più decisa dell’ipotesi che vede la
Korean Presbyterian Church inserita nel medesimo filone Cyber delle altre opere virtuali. I
189
Cfr. Cap. 2.2.
padiglioni appena descritti non sono elementi aggiunti a corredo, orpelli esterni privi di
qualunque valore spaziale. Questi sono, al contrario, il vero centro del progetto. Gli spazi
non-euclidei, apparentemente estranei ad un lavoro del genere, sono presenti in modo
cauto ma assolutamente sostanziale. Se osserviamo la conformazione del soffitto della
sala assembleare notiamo delle costolature, un increspamento della superficie piana che
altera la regolarità delle pareti laterali. Il motivo è evidente. Queste alterazioni sono il frutto
di una sorta di interferenza nella forma che, su scala più grande, viene manifestata
all’esterno con i grandi padiglioni. Le grandi “orecchie” esterne sono in qualche modo una
sorta di amplificazione delle interferenze interne della forma. Minime variazioni interne
possono causare una grande distorsione verso l’esterno. Il concetto è stato prima
espresso in riferimento all’attrattore strano di Lorenz: variazioni infinitesime di un sistema
possono dare risultati imprevisti nel loro evolversi. Qui, in modo analogo, minimi
arricciamenti non-geometrici della conformazione del soffitto generano all’esterno una
deformazione sostanziale dell’unità della scatola edilizia. Il sistema architettonico, allora,
muta la sua conformazione geometrica verso un qualcosa di sostanzialmente ageometrico. Se la forma generale può essere definita in modo abbastanza elementare,
esiste al contrario un’anomalia molto profonda basata su deformazioni poco evidenti ma
sostanziali. L’occhio è attratto da queste increspature che si amplificano dall’intero verso
l’esterno distruggendone la regolarità. Sembra, allora, che questa deformazione, questa
irregolarità di struttura, sia in grado di bucare la scatola, passando dall’interno verso
l’esterno e creando, in tal modo, una dissoluzione molto profonda della scatola euclidea.
Un aspetto importante dev’essere sottolineato. Pur non avendo la vivacità espressiva di
altre opere ideate per lo spazio virtuale, la Korean Presbyterian Church è un ottimo
esempio di come i principi della matematica e delle geometrie non-euclidee possano dar
luogo ad un’architettura coerente con gli assunti teorici del movimento. In più, i mezzi
tecnologici per realizzare queste idee non si basano su soluzioni complesse. Il sistema
statico è elementare e i mezzi espressivi per realizzarli sono piuttosto ridotti. Questo
significa che l’ipertrofia espressiva “dai colori acidi” della grafica computerizzata, può
essere tradotta attraverso una limitata gamma di materiali e forme in un sistema certo
meno esplosivo ma ugualmente coerente rispetto agli assunti delle geometrie noneuclidee. Una maggiore rispondenza tra progetto virtuale e architettura la ritroviamo,
invece, nel progetto dei NOX. Trattandosi di un padiglione espositivo, la sua logica
strutturale e il suo sviluppo spaziale sono tali da non destare eccessive difficoltà di
articolazione. È probabilmente questa la ragione per la quale ritroviamo una minore
distanza tra la fase progettuale e quella realizzativa. I materiali devono rispondere ad una
limitata gamma di prestazioni statiche e di durata.
Pensiamo sia inutile inserire ulteriori esempi che tendano a confermare l’idea appena
espressa di un diretto legame tra spazio virtuale e architettura nell’ambito delle geometrie
non-euclidee. Le linee essenziali del discorso sono state espresse in modo sufficiente. È
tuttavia importante inserire a corredo di questo paragrafo due ultimi esempi che, sebbene
anomali rispetto ai casi già presentati, presentano alcune caratteristiche originali che
possono ulteriormente chiarificare il complesso rapporto tra spazio virtuale e sue
applicazioni all’interno dell’architettura. Entrambi sono progetti non realizzati. Ma per la
loro particolare natura essi sono un caso a parte rispetto a quelli descritti nel capitolo
dedicato agli spazi virtuali, poiché il loro grado di realismo li colloca in un territorio a metà
tra il Web e il costruito.
Il primo progetto è stato realizzato nel 1995 da Neil M. Denari 190. Si tratta di un’opera
molto nota: il Massey Residence a Los Angeles (Fig. 62). Si tratta di un progetto molto
significativo per numerose ragioni. Innanzi tutto esso rinnova in modo sostanziale le
modalità di rappresentazione del progetto di architettura. Questo non è un problema
secondario, specialmente in casi nei quali la complessità dell’organismo edilizio è così
alta. Uno dei problemi che abbiamo sovente rilevato in questa trattazione riguarda la
difficoltà di comprendere compiutamente la natura dello spazio progettato. Il problema
nasce dalla sua complessità. Spazi topologici, non-euclidei, curve matematiche avvolte su
se stesse, spazi di Hilbert e di Möbius, sono di fatto impossibili da restituire in forma
grafica. Solamente l’aspetto dinamico ed evolutivo nello sviluppo della forma può dare un
contributo (sebbene talvolta modesto) nella comprensione della natura di questi luoghi.
Denari, con questo progetto, riesce a sviluppare un sistema di rappresentazione e di
quotatura tridimensionale di ottimo livello per uno spazio complesso. Sebbene il grado di
astrazione di questo spazio sia abbastanza contenuto, sarebbe necessaria una grande
elaborazione grafica per restituire con sufficiente chiarezza la conformazione delle
superfici continue e il raumplan dell’opera.
Il progetto è una elaborazione della tipologia classica dell’abitazione unifamiliare
losangelena. La dimensione del lotto, il programma degli spazi funzionali interni è
assolutamente all’intero della tradizione. Denari ha ribaltato le strategie di progettazione
ideando un edificio costituito da «multi-unità» i cui spazi slittano gli uni negli altri. Gli spazi
interni, pur assumendo una complessità controllata, si sviluppano tutti intorno alle scale
che diventano elementi generatori di tutta la distribuzione della villa. La casa è infatti
articolata su sette livelli, aspetto determinante per il rinnovamento della tipologia classica
della villa suburbana del nord america. La critica feroce è supportata da un’innovazione
che non desidera porsi come manifesto dell’architettura, come nei casi precedenti.
L’autentica anomalia si sviluppa nello spazio interno che appare unico ma perfettamente
distinto nei diversi aspetti funzionali. Per la prima volta ci troviamo a parlare, in questo
scritto, di funzioni connesse allo spazio architettonico. Il motivo di questo deriva dall’alto
grado di astrazione dei primi esempi illustrati derivato dalla loro natura programmatica.
Questo caso risulta allora significativo poiché si pone a metà strada tra i due estremi: gli
spazi virtuali e l’architettura costruita. È possibile, allora, individuare tutta quella gamma di
sfumature che connettono questi due poli. Qui, allora, ritroviamo problematiche legate agli
aspetti distributivi, funzionali, dimensionali e statici. L’attenzione per i materiali diviene un
elemento strutturante l’architettura. Tuttavia la sua natura di luogo complesso rende
necessaria una meditazione sullo spazio. Notiamo come la scala non sia l’unico elemento
generatore di spazio. Certamente essa è essenziale per la conformazione della
disposizione dei sette livelli all’interno del lotto e dell’organizzazione planimetrica. È
possibile quindi dire che la struttura dell’abitazione è una sorta di spazio unico a multipla
altezza nel quale la divisione dei livelli organizzano funzionalmente i diversi ambienti. La
scala, come elemento distributore, è il momento nel quale tutto diviene razionalmente
funzionante. In effetti non esiste un luogo dedicato alla scala, ma è come se tutto lo spazio
venisse costruito attorno ad essa. I diversi ambienti sembrano essere ritagliati all’interno
dell’involucro edilizio che assume sempre la conformazione di una scatola tecnologica
prefabbricata. Un elemento determinante per la comprensione dell’intero edificio è la
copertura. Essa è coerentemente collegabile con i discorsi fatti sulle superfici topologiche.
Si può leggere chiaramente dai disegni tridimensionali che copertura e pareti laterali
formano un tutto continuo. La soluzione non è collegabile direttamente alla Endless House
di Kiesler191 o alle strutture a guscio di John Johansen192. In questi casi, entrambi
190
Neil M. Denari è un architetto americano nato nel 1957. Ha conseguito nel 1980 la laurea in architettura all’università di Houston
e il Master nell’82. Ha insegnato a Tokyo dal 1990 al ’92, a Londra nel 1994, nell’università del Texas dal 1993 al ’95, alla Columbia
sempre nel 1995 e anche in due università di Los Angeles. Dal 1988 ha uno studio di progettazione a Los Angeles.
191
Cfr. con Maria Bottero, Frederick Kiesler. Arte Architettura Ambiente, Electa, Milano, 1995.
storicamente definiti in ambiti temporali ben precisi, l’utilizzo della forma a guscio ha
matrici di carattere zoomorfo. In Denari la componente di continuità tra soffitto e pareti è
espressione di un continuum spazio/temporale legato alle superfici topologiche che
avvolgono lo spazio unico dell’abitazione, successivamente ritagliato da elementi unitari ivi
disseminati. Si può infatti notare da un esploso prospettico che i diversi livelli sono separati
visivamente da corpi in aggetto nel vuoto complessivo dell’interno. Allora, lo spazio è
racchiuso da una pellicola che definisce i confini volumetrici del complesso,
successivamente strutturato nell’interno grazie allo sviluppo delle scale e all’inserimento di
corpi fluttuanti.
Resta essenziale, in tutto questo ragionamento, le modalità di rappresentazione,
strutturata in modo tale da rendere possibile la comprensione di tale complessità. Questo
non è un discorso secondario. In realtà il modo di strutturare il processo logico di
comprensione dell’architettura è strettamente connesso alla sua natura. Più volte abbiamo
suggerito come il sistema di progettazione legato allo strumento informatico renda
possibile una serie di operazioni inedite. In qualche modo, in questo ambito è connesso il
tema della rappresentazione. Denari è stato in grado di elaborare un sistema di
rappresentazione tecnico capace di essere sia strumento di restituzione dimensionale
dell’architettura, sia sistema in grado di comunicare la conformazione dello spazio. Quello
che appare, allora, è qualcosa che si pone al di là del suo essere progetto per divenire
sistema globale di comprensione del sistema architettonico, spaziale ed esecutivo.
Il secondo caso di cui vogliamo parlare conclude lo studio di quei casi che si pongono a
metà strada tra il progetto virtuale di spazi non-euclidei e architettura costruita. Insieme al
Massey Residence di Denari, è opportuno parlare di un curioso esperimento effettuato in
Italia per la ricostruzione del teatro La Fenice di Venezia (Fig. 63). Insistiamo sul fatto che
questo progetto, insieme al precedente, abbia un grado di realismo assolutamente
maggiore rispetto a quelli descritti nel precedente paragrafo. Pur essendo progetti virtuali,
essi possiedono un grado di realtà assolutamente elevato. Il caso di Venezia è
emblematico. La distruzione del teatro veneziano avvenuta nel 1996 a causa di un
incendio è stata l’occasione per l’architetto italiano Marco Galofaro di suggerire un’ipotesi
basata sul restauro, consolidamento e conservazione delle rovine e progettazione dei
nuovi corpi all’interno del grande vano oramai vuoto 193. È evidente che il progetto assume i
connotati di un manifesto programmatico di una ben precisa corrente architettonica. Non a
caso Galofaro ha lavorato presso lo studio di Peter Eisenman e la medesima elaborazione
intellettuale è presente in questo progetto. Ritengo il problema interessante. Il progetto
può essere suddiviso in due grandi ambiti: il ripristino delle parti sopravvissute - con un
forte accento filologico - e il nuovo cuore del teatro direttamente ispirato ad una corrente
architettonica da situarsi all’intero di un’avanguardia di ispirazione americana.
Poniamo la nostra attenzione sulla nuova sala teatrale. Questa viene completamente
riprogettata. La geometria dell’intervento su presenta come un nastro che invade i corpi
principali del teatro (Sale Apollinee e palco) attraverso un andamento continuo e
avvolgente, eliminando la distinzione fra pareti e pavimento in una soluzione di continuità
fra interno ed esterno, divenendo infine copertura 194. Tutto il nuovo intervento non si
appoggia mai alle murature perimetrali divenendo un corpo a se stante che conquista lo
spazio vuoto esclusivamente grazie alla sua forma. L’esplosione dei corpi che culmina
nella copertura, capace di includere lo spazio esterno all’intero del teatro, è supportato da
una grande attenzione per le funzioni del teatro, tutte accuratamente rispettate. Il progetto
192
193
194
In particolare si veda la Spray House a Weston, Conn del 1956.
Cfr. con Marco Galofaro, Riscatto virtuale. Una nuova Fenice a Venezia, Testo & Immagine, Torino, 2000.
Ivi, pp. 60-61.
prende spunto dalle tradizionali forme e funzioni dell’impianto del teatro italiano del
settecento per ritrasformarne la forma, rispettandone però le funzioni.
La struttura statica dell’impianto all’italiana si deforma, si incurva divenendo una struttura
complessa e articolata, in un continuo gioco di visione e movimento. Le pareti, che contengono i
palchetti e le rampe di accesso a essi, si separano e, torcendosi l’una nell’altra, invadono lo spazio
residuale, sono collegate al ridere soltanto attraverso passerelle che mettono in comunicazione le
scale delle ali laterali con l’impianto della sala.
Il continuo movimento della struttura della sala vuole abolire le pareti di chiusura, negando così la
corporeità dell’involucro edilizio. Le superfici che prima componevano la sala all’italiana sono ora
leggibili soltanto nel frammento. La scatola teatrale entra in relazione diretta con l’involucro esistente
195
attraverso la negazione della sua unità [...].
L’interesse fondamentale è, anche in questo caso, per la rappresentazione del caos in
forma architettonica. Lo spazio degli spettatori perde il senso di unitarietà per divenire un
luogo il cui senso più stretto è dato dalla natura fluida del continuum spazio/temporale.
L’azione teatrale è narrativa; la medesima ispirazione è suggerita dall’intervento.
L’aver insistito sulla descrizione del funzionamento di questo progetto è assai
importante per comprenderne la natura. La sua ispirazione è dichiaratamente riferibile a
quanto detto in passato. In estrema sintesi, esiste il riferimento alle superfici topologiche
avvolte, alla scomposizione puridimensionale dei piani di visione, alla rappresentazione
del caos in forma spaziale, l’utilizzo di geometrie non-euclidee per la creazione dello
spazio del vissuto. Questo lo rende un progetto collocabile nell’ambito della progettazione
Cyber. Le componenti linguistiche e teoriche dello spazio teatrale della nuova Fenice sono
perfettamente assimilabili ai casi nei quali le componenti di deformazione spaziale non
sono direttamente riferibili alla deformazione scultorea delle componenti architettoniche,
bensì alla progettazione di queste attraverso l’uso del computer. Questo sta a significare
che la progettazione della nuova Fenice di Galofaro è il frutto di una cultura che si basa
sull’uso del computer come elemento di generazione di spazi non-euclidei altrimenti non
prefigurabili e non immaginabili. Il computer diviene lo strumento essenziale per la
concezione di questi luoghi, fatto che ne determina in modo deciso le caratteristiche e la
natura.
Esiste, tuttavia una qualità che distingue questo progetto dagli altri: la sua perfetta
aderenza ad un caso reale di intervento. Pasing, Kolatan/Mc Donald Studio, Foregin Office
Architects, hanno una componente di maggiore astrazione che rende i loro progetti come
frutto di una cultura Web dai scarsi connotati materiali. Le loro sperimentazioni sono a
pieno titolo ideazioni di spazi non-euclidei, ma rimangono comunque legati ad un mondo
virtuale. Nel caso di Denari e, ancor più, di Galofaro, la cultura Cyber e della virtualità, con
la sua grande espressività ed anomalia nella conformazione di spazi non-euclidei, trova un
aspetto di grande realismo e verosimiglianza. La libertà dello spazio non è sospesa in un
luogo virtuale indifferente alle leggi della statica o ai vincoli della contestualizzazione. Il
progetto è, al contrario, studiato per una precisa collocazione in quel determinato luogo
attraverso un linguaggio ed una concezione spaziale assai distante con la tradizione
veneziana ma, nondimeno, inserita in una corrente di rinnovamento architettonico molto
precisa. Non giudichiamo, pertanto, il progetto di Galofaro come concettuoso o
inopportuno. Se consideriamo i più recenti concorsi banditi dall’amministrazione Cacciari
per Venezia, vediamo una decisa tendenza verso un’architettura di stampo decostruttivista
o, almeno, un interesse verso una progettazione che sia maggiormente specchio di una
cultura progettuale internazionale 196. Il progetto di Galofaro racchiude una grande
complessità di eventi. L’aspetto riguardante le geometrie non-euclidee è solamente l’ultimo
di una lunga serie di considerazioni che nascono da una volontà di realizzare un progetto
195
196
Ivi, pp. 62-63.
A tal riguardo vedasi Marco De Michelis (a cura di), Venezia. La Nuova Architettura, Skira, Milano, 1999.
che possa aderire perfettamente allo stato di fatto di un teatro quasi interamente
compromesso nella sua natura. In effetti gli studi preliminari condotti sull’esistente
testimoniano una grande attenzione al manufatto originale. Il progetto, opponendosi alla
scelta finale condotta seguendo la filosofia del “com’era, dov’era”, interpreta in modo non
ortodosso il concetto di intervento sull’esistente. Nel far questo l’autore “cuce” indosso al
manufatto uno spazio che ricalca perfettamente le esigenze di un teatro, reinterpretandone
tuttavia la tipologia. Questo rinnovamento del concetto di teatro è decisamente
convincente poiché istituisce un percorso assai coraggioso di sperimentazione sullo
spazio scenico. Questo avviene in due direzioni separate. Da un lato il teatro diviene
percorso, generando una percezione dinamica dell’interno direttamente ispirata alla spirale
wrightiana del Guggenheim Museum di New York. Dall’altra si attua una perdita del
concetto tradizionale di separazione interno/esterno. I gusci e le spirali evolutive del nuovo
teatro penetrano nel caveau ed agiscono come elemento di interpretazione di un vuoto. In
altre parole, quello che ora rappresenta un vuoto a cielo aperto (la sala distrutta) rimane
tale poiché la nuova architettura scava attraverso essa suggerendo una fluenza continua
tra interno ed esterno. L’interno, così, rimane in qualche modo esterno poiché le spirali
accartocciate che costruiscono il volume deformato offrono uno sfondamento volumetrico.
Tale idea di continuità è offerta dalla matematica di René Thom. I suoi studi sulle bolle e
sulle equazioni a coda di rondine 197 possono essere coerentemente applicati
all’architettura attraverso un processo che si basa sulla considerazione che per alcuni casi
di equazioni a quattro dimensioni (dominio R elevato alla quarta potenza) le curve
possono avere curvatura opposta o doppio andamento nel loro sviluppo. Se analizziamo i
grafici di Thom, scopriamo come una superficie di curva può essere contemporaneamente
interna ed esterna. Lo stesso accade per lo studio dei moti laminari delle superfici di liquidi
soggetti a caduta dei gravi. In questi casi è possibile dimostrare come l’esterno di una
pellicola d’acqua (quella a contatto con l’aria) possa trovarsi racchiusa all’intero di una
bolla nel caso in cui questa sia soggetta a caduta di un grave 198. Coerentemente, il caso di
Galofaro è uno dei casi che può ben interpretare questo concetto matematico di inclusione
di esterno all’intero dell’architettura. Esiste una perdita della tradizionale distinzione tra
interno ed esterno nell’architettura.
Questa considerazione finale è in grado di farci comprendere come una ricerca
coerente con gli assunti della matematica avanzata possa trovare un alto grado di
realismo nella sua applicabilità in spazi che non sono solamente di natura virtuale e quindi
relegati nell’ambito percettivo. Il progetto per la Fenice di Venezia ha un alto grado di
complessità sia dal punto di vista geometrico/spaziale, sia dal punto di vista della sua
realizzabilità.
Per tirare alcune conclusioni di questo paragrafo occorre dire che gli spazi ispirati alle
geometrie non-euclidee non sono sperimentazioni possibili esclusivamente nell’ambito
degli spazi virtuali. Certamente in quel campo trovano un momento di maggiore libertà
espressiva, determinata anche dal fatto che non esistono problemi legati alle funzioni o
alla tettonica. Abbiamo tuttavia percorso anche il campo degli spazi fisicamente realizzati,
siano essi architetture, spazi espositivi o progetti dotati di un alto grado di completezza. In
questi casi, la realizzazione nulla toglie alla coerenza delle sperimentazioni. Le
elaborazioni tridimensionali sono coerentemente derivate dalle medesime matrici
matematiche e le applicazioni hanno sempre un alto grado di coerenza strutturale, insieme
197
Cfr. René Thom, Stabilità strutturale e morfogenesi, op. cit. In particolare vedasi il Cap. VII, Dinamica delle forme, per lo studio
delle increspature delle superfici liquide e il Cap. V, Le catastrofi elementari sullo spazio R4 associate a conflitti di regime, per quanto
riguarda le funzioni a coda di rondine.
198
Per un’analisi più dettagliata del problema cfr. con Paolo Vincenzo Genovese, Considerazioni sulle forme incluse in matematica
e in architettura, in «L’Architettura - Cronache e storia», n. 560, giugno 2002, pp. 404-407 e Paolo Vincenzo Genovese, Gli “ombelichi”
di Thom. Ovvero come increspare le superfici generando architettura, in «L’Architettura - Cronache e storia», n. 561-562, luglio/agosto
2002, pp. 508-511.
ad un alto grado di complessità spaziale. A nostro parere questa osservazione può essere
ricondotta al fatto che gli spazi non-euclidei virtuali e architettonici abbiano una radice
comune e siano, per così dire, figli di una stessa “madre”. Non è possibile allora parlare di
due strade parallele percorse contemporaneamente. Meglio suggerire l’immagine di due
insiemi che subiscono continue e reciproche influenze o, in alternativa, due ambiti culturali
che propongono diverse espressioni a partire da una comune radice culturale.
Certamente il problema non può esaurirsi qui. Se appare evidente la disparità dei
risultati, questo significa che esiste una diversità sostanziale degli intenti. Ci sembra di
intuire che in questi due mondi siano differenti gli obiettivi perseguiti. Nel caso dello spazio
virtuale i toni sono certamente più radicali e il tutto può essere ricondotto, riducendo il
discorso all’osso, ad una serie di schizzi visionari che, in passato, più volte hanno fatto
capolino nel corso della storia dell’architettura. Non credendo nei paralleli storici troppo
diretti, dobbiamo sottolineare che le differenze rispetto a quegli esempi sono maggiori che
non i punti di contatto. Certamente è vero il desiderio di proporre, attraverso gli spazi
virtuali, un manifesto delle nuove idee legate alle prefigurazioni dell’architettura; è altresì
evidente la loro natura di avanguardia dilaniante, espressa attraverso un’ipermodernità
fascinosa quanto esaltata. Ma la sostanziale discordanza con il passato che rende
impossibile e criticamente errato qualunque forma di parallelismo riguarda il fatto che
questi esempi sono concepiti come autonomi rispetto alla fase realizzativa. Se le visioni
futuriste di Sant’Elia o quelle Pop di Archigram vivevano pienamente la contraddizione di
essere momenti di prefigurazione di architetture impossibili, nel caso della Cyberarchitettura il discorso è sostanzialmente differente. Grazie all’alto grado di realismo di
questi lavori, l’occhio ne è conquistato a tal punto che, anche se limitatamente all’aspetto
di fruizione visiva, la componente di verosimiglianza è così forte da suggerire una vera e
propria confusione nell’osservatore tra opera virtuale e immagine di architettura reale.
Anche nei casi più estremi come quelli di Karl S. Chu il discorso spaziale si configura
come manifesto programmatico di una nuova realtà in grado, secondo gli intenti degli
autori, di coinvolgere l’osservatore come un’architettura vera e propria.
Per questo abbiamo ritenuto opportuno parlare di quegli esempi realizzati che si
pongono a metà strada tra il manifesto e l’architettura calata nella realtà dei fatti ed in un
contesto fisico. Sarebbe tuttavia criticamente scorretto voler verificare in essi quanto
l’architettura virtuale può fare, o, in altra maniera, vedere quali sono gli scarti tra le
sperimentazioni Cyber e l’edilizia. Questo perché i due ambiti non si pongono in diretta
continuità, ma divengono aspetti diversi di una stessa stagione culturale. In questa
duplicità sta la completezza e la complessità del movimento Cyber.
Fig. 18: Greg Lynn/Form, H2 House (Hydrogen House), Vienna, Austria, 1996.
Fig. 19: Reiser+Umemoto, Yokoama Port Terminal, Tokio, Giappone, 1994, progetto.
Fig. 20: Neil M. Denari, Massey Residence, Los Angeles, California, 1995
Fig. 21: Makoto Sei Watanabe, The Induction Cities, 1991-’96, progetto.
Fig. 22: Anton Markus Pasing, Genesis 9 - super tool, 1995-’96, progetto.
Fig. 23: Anton Markus Pasing, Elektrochanger - Haus an der B 54, 1991, progetto.
Fig. 24: Anton Markus Pasing, Das letzte Haus, 1995, progetto.
Fig. 25: Peter Eisenmann, Aronoff Center, University of Cincinnati, Cincinnati, Ohio, 1988’96.
Fig. 26: Marcos Novak, Paracube, 1997-’98, progetto.
Fig. 27: Karl S. Chu, Phylux, 1999, progetto.
Fig. 28: Asymptote, Virtual Guggenheim Museum, 1999-2002.
Fig. 29: Kolatan/Mac Donald Studio, Resi-Rise (vertical mode), New York, 1999, progetto.
Fig. 30: Kolatan/Mac Donald Studio, Housing, 1999.
Fig. 31: Nastro di Möbius nell’interpretazione di Maurits Cornelius Escher, Striscia di
Möbius II.
Fig. 32: Ben Van Berkel & Caroline Bos, Möbius House, Het Gooi, Olanda, 1993-’98.
Fig. 33: Foreign Office Architects, Virtual House, 1997, progetto.
Fig. 34: Foreign Office Architects, Azadi Cinepleh, Teheran, Iran, 1997, progetto.
Fig. 35: Foreign Office Architects, Yokohama Port Terminal, Yokohama, Giappone, 1995,
progetto di concorso, primo premio.
Fig. 36: Oosterhuis Associates, Trans_Ports 2001, Rotterdam, Olanda, 1999-2001,
progetto.
Fig. 37: Oosterhuis Associates, Saltwaterpavilion, Neeltje Jans, Olanda, 1997, progetto.
Fig. 38: NOX, V2 Lab, Rotterdam, Olanda, 1998, progetto parzialmente realizzato.
Fig. 39: Herzog & De Meuron, Library of the Eberswalde Technical School, Eberswalde,
Germania, 1994-’99.
Fig. 40: Massimiliano Fuksas, Europark, Salisburgo, Austria, 1994-’97.
Fig. 41: Helmut Jahn, KU 70, Berlino, Germania.
Fig. 42: dECOI, Boutique Missoni, Parigi, Francia, 1996, progetto.
Fig. 43: NOX, Beachness, Noordwijk, Olanda, 1997, progetto.
Fig. 44: Naga Studio Architecture, ESK House, Cairo, Egitto, 2000.
Fig. 45: Naga Studio Architecture, Marina International Hotel Sharm Safari Gate, Los
Angeles, California, 1998, in corso di costruzione.
Fig. 46: Naga Studio Architecture, Sharm Safari Gate , Sharm El Sheikh, Sinai, 1997, in
corso di costruzione.
Fig. 47: Naga Studio Architecture, Tetraedro.
Fig. 48: Gregg Lynn/Form: Embriological Housing, 1998, progetto.
Fig. 49: Gregg Lynn/Form: Embryologic Space, 1998, progetto.
Fig. 50: René Thom, caduta di gravi nel liquido.
Fig. 51: Gregg Lynn/Form: Cardiff Bay Opera House, Wales, 1994, progetto di concorso.
Fig. 52: Frank O. Gehry, Casa Lewis, Lyndhurst, Ohio, 1989-’95.
Fig. 53: Gregg Lynn/Form: Animated Form, progetto.
Fig. 54: Gregg Lynn/Form: Port Authority Gateway, New York, USA, 1995, progetto.
Fig. 55: Peter Eisenman, Staten Island Institute of Arts and Sciences,New York, 1997,
progetto.
Fig. 56: Peter Eisenman, Biblioteca per la Piazza delle Nazioni,Ginevra, Svizzera, 1996’97
Fig. 57: Peter Eisenman, Una chiesa per l’anno 2000, Roma, 1996
Fig. 58: Peter Eisenman, Virtual House, Berlino, 1997, progetto.
Fig. 59: NOX, Fresch H2O eXPO, Neeltje Jans, Olanda, 1997
Fig. 60: Oosterhuis Associates, Garbage Transfer Station, Elhorst/Vloedbelt Zenderen, Olanda, 1995
Fig. 61: Greg Lynn, Korean Presbyterian Church, Long Island, 1999
Fig. 62: Neil M. Denari, Massey Residence, Los Angeles, 1995
Fig. 63: Marco Galofaro, Progetto per il Teatro La Fenice di Venezia, Venezia, 1996
PARTE SECONDA
Capitolo 3
Studi di architetti contemporanei.
Un matrimonio tra arte, scienza, filosofia e tecnologia
3.1. Introduzione e caratteri generali del problema
L’ideazione degli spazi non-euclidei presenta, nella progettazione contemporanea, un
aspetto del tutto nuovo. Abbiamo più volte sottolineato in questo scritto come questo tipo
di ricerche non siano espressione derivata dall’uso delle tecnologie informatiche. Esse
sussistono precedentemente alla diffusione degli elaboratori nella pratica professionale.
Quello che è sostanzialmente cambiato riguarda le procedure operative per raggiungere
quei risultati. Se nelle pagine precedenti avevamo intenzione di illustrare i caratteri e le
motivazioni che spingono i diversi autori a creare geometrie anomale e non-razionali, il
compito di questa seconda parte è maggiormente rivolto alla pratica operativa. In altre
parole, l’intenzione è quella di delineare alcune specifiche operazioni progettuali che
possano chiarificare il come avviene la generazione degli spazi precedentemente descritti.
In qualche modo si desidera dare uno sguardo “dietro alle quinte” per riuscire a cogliere i
trucchi del mestiere dei vari autori.
La lettura linguistico/filosofica offerta in precedenza è un’arma potentissima per
l’individuazione delle matrici generative di un pensiero. Questa dev’essere completata da
una descrizione delle pratiche procedurali, operazione che presenta due grandi vantaggi:
quella di approfondire la nostra comprensione degli aspetti culturali sopra descritti e,
contemporaneamente, illustrare come effettivamente il computer rivesta ancora il carattere
di strumento operativo. Esso è utilizzato, in tutti i casi indagati, per realizzare un’idea
poetica o filosofica nell’ambito dell’architettura.
Concentrandoci sul problema specifico di questa tesi, è possibile affermare come sia
possibile individuare almeno tre differenti modi di utilizzare il computer nella progettazione
degli spazi non-euclidei. È evidente che tali differenze comportano una sostanziale
diversità di risultati. Sarebbe tuttavia errato separare le discordanze procedurali,
scollegandole dagli assunti filosofici dei diversi autori. In qualche modo, la poetica dello
spazio sfrutta le potenzialità dell’elaboratore e dei programmi software per ideare un
proprio sistema. Così, è necessario, in questo momento, vedere che relazione sussiste tra
l’ambito poetico e quello operativo, intendendo suggerire l’idea - che rimarrà latente in
questo scritto - di come tra questi due ambiti esistano relazioni sostanziali.
Un primo punto determinante che comparirà sovente in queste pagine riguarda il fatto di
come negli studi di architettura indagati sia possibile individuare una numerosa serie di
influenze estranee alla stretta disciplina dell’architettura. In tal maniera, arte, scienza,
filosofia, tecnologia e altro ancora, sono parte sostanziale della generazione
dell’architettura. Noi, nei più ristretti ambiti che intendono studiare la generazione dello
spazio non-euclideo, desideriamo dimostrare come queste discipline siano parte
integrante della natura della progettazione; il computer diviene, allora, un mezzo per
portare verso livelli talvolta estremi le idee che, tratte da altri ambiti, ispirano la
generazione dello spazio non-euclideo. Queste scelte sono ben più che fonti di ispirazione
collaterali; divengono, altresì, momenti di profonda analisi della realtà e parametri
interpretativi del contemporaneo in grado di generare visioni di carattere spaziale. Il
computer rientra in tutto questo in modo sostanziale poiché strumento in grado di
prefigurare, di gestire o di elaborare una grande quantità di dati altrimenti non utilizzabili.
Le tre categorie individuate riguardano:
a. l’architettura come scultura;
b. la Cyber-architettura;
c. il computer generatore di idee per l’architettura.
Ognuno di questi punti non dev’essere naturalmente letto come perfettamente separato
dagli altri due. È impossibile, oltre che errato, individuare in modo esatto gli ambiti
poetico/procedurali. Certo è che alcune personalità possono essere citate come
particolarmente esemplificative in ognuno di questi casi. È per tale motivo che abbiamo
scelto di prendere ad esempio solamente tre autori, le cui metodologie sono
particolarmente chiare in queste tre “regioni di pensiero”. Altri progettisti saranno utilizzati
per verificare o approfondire temi contenuti in questi spiriti guida che abbiamo scelto nella
nostra narrazione. Così, prendiamo Frank O. Gehry come esempio degli architetti scultori
(a), Greg Lynn per la progettazione Cyber (b) e Peter Eisenman per quegli aspetti, più
misteriosi, della progettazione “automatica” (c).
3.2. La progettazione come scultura. Frank O. Gehry
Una delle principali chiavi interpretative del rapporto di Frank O. Gehry con la
progettazione è certamente la componente artistica. Questa diviene indispensabile nel
momento della ricerca delle motivazioni che spingono l’architetto statunitense ad
affrontare i compiti creativi in ambito architettonico. Dovendo individuare le modalità con le
quali Gehry affronta il progetto degli spazi non-euclidei, sarebbe scorretto non passare,
dapprima, attraverso gli ambiti di carattere poetico.
Dapprima una considerazione fondamentale. Al contrario di molti autori analizzati nei
capitoli precedenti, Gehry si pone sempre di fronte al problema architettonico. Il suo
sforzo, quindi, non è tanto rivolto alla generazione di uno spazio, bensì alla realizzazione
di un’architettura dalle forti componenti spaziali. Questo è determinante per distinguere le
diverse nature del problema che stiamo studiando. Se Karl S. Chu o Marcos Novak non si
pongono l’obiettivo di realizzare spazi non-euclidei realizzabili (e, al contrario, giocano
sull’ambiguità di spazi non-euclidei virtuali), in Gehry questa incertezza non esiste. Egli
progetta architettura e lo spazio si inserisce sempre all’interno di un programma edilizio
ben preciso. Non riteniamo essere questo un problema di carattere generazionale. Pur
essendo direttamente legato agli insegnamenti del Movimento Moderno, Gehry propone
una differente filosofia, un approccio metodologico che nega negli assunti quei risultati. Un
autore a lui quasi coetaneo, Peter Eisenman, è diametralmente opposto nella sua
concezione, fatto che svincola il problema del rapporto tra spazio e architettura da una
questione di carattere anagrafico.
Il punto di partenza dell’analisi della metodologia progettuale dello spazio in Gehry deve
tuttavia partire dalla sua visione dell’architettura come fenomeno artistico. Egli stesso
ammette che nel suo lavoro è costantemente presente un supporto derivato da pittori e
scultori 199 che partecipano attivamente alla formazione dell’idea spaziale, ammettendo,
tuttavia, che gli approcci sono sostanzialmente differenti;
[...] How you get to that moment of truth is different and the end result is different.
200
In verità questo significa che l’interesse di Gehry si rivolge verso una fusione tra operare
artistico ed architettonico. Tale dimensione assume un’importanza del tutto particolare se
analizzata alla luce di una questione implicita ma non troppo sotterranea all’intero
dell’architettura di Gehry. Egli, così come avvenne nel caso di Frank Lloyd Wright, genera
opere che si fondono con la soggettività dell’architetto. Gehry - come Wright - crea
un’architettura assolutamente personalizzata, quasi un autoritratto del creatore che con
essa si identifica. Questo è sottolineato dalla particolare natura degli spazi gehriani nel
caso di Bilbao. Il Guggenheim Museum (Fig. 64) incarna una contraddizione
fondamentale: esso esibisce se stesso. Non siamo di fronte a quanto auspicato da Daniel
Buren201, il quale immaginava per gli edifici espositivi la semplicità assoluta di un cubo nel
quale l’artista può fare ciò che desidera e proiettare in questo luogo neutro ciò che
vuole 202. Gehry esprime la sua personale idea di arte e piega all’interno di essa l’evento
espositivo e la performance artistica. Tutto ciò sta a significare che l’opera d’architettura
diviene una sorta di espressione diretta della personalità dell’artista e non un prodotto
funzionalistico.
Se trasportiamo questo aspetto all’evento spaziale possiamo notare come lo spazio
non-euclideo creato da Gehry sia sostanzialmente una sua personale interpretazione del
concetto di spazio, indifferente dalla funzione o dai programmi di carattere economico 203.
Gli aspetti legati alla questione spaziale erano presenti, come accennato, anche in Wright.
Quello che rende particolarmente significativa la vicenda di Gehry è il suo rapporto con la
questione artistica. Se Wright era interessato esclusivamente agli aspetti di carattere
architettonico, Gehry tende a rompere i confini tra progetto di architettura e performance
artistica204. In riferimento al museo Guggenheim di Bilbao è possibile dire che
the cutouts suggested that the boat gallery, and the three leaflike galleries, having gone through an
endless process of refining the same shapes, needed that sense of awkwardness, giving the effect of
a more casual disposition of form. In addition, “the mutation of architecture into sculpture” has enticed
205
Gehry as well, as exemplified in his own fish and snake designs.
Oltre al caso più eclatante di Bilbao in cui la stessa architettura diviene scultura e oggetto
d’arte, esiste una ulteriore conferma di questo aspetto di fusione arte/architettura. Gli Uffici
Chiat-Day-Mojo a Venice in California (1986-’91) testimoniano in che modo un progetto
possa accludere come elemento basilare un oggetto artistico (Fig. 65). Il gigantesco
cannocchiale che Claes Oldenburg inserisce come portale all’edificio è una vera e propria
parte di edificio trasformata in oggetto artistico o, viceversa, è un oggetto artistico che
diviene parte integrante dell’architettura. Il processo di progettazione diviene come un
199
Frank O. Gehry, cit. in, Coosje van Bruggen, Frank O. Gehry, Guggenheim Museum Bilbao, The Solomon R. Guggenheim
Foundation, New York, 1997, p. 95.
200
Ibid.
201
Daniel Buren è un artista francese nato a Boulogne-Billancourt, Hauts-de-Seine nel 1938. Le sue performance hanno
costantemente un’attenzione per lo spazio architettonico che viene interpretato da pellicole colorate sui vetri delle finestre o dal disegno
elementare di partizoni quadrate realizzate sulle pareti neutre dei musei. Una bella lettura in lingua italiana di questo autore è presente
nel sito Internet: http://www.pinerolo-cultura.sail.it/Tucci%20russo/buren%20page.htm. Un’interessante rassegna di lavori e di
esposizioni è pubblicata in: http://www.art-contemporain.eu.org/base/noms/76.html
202
Cit. in Coosje van Bruggen, Frank O. Gehry, Guggenheim Museum Bilbao, op. cit., p. 115.
203
Questa affermazione è comprovata dalla vicenda legata alla Walt Disney Concert Hall. Il contenzioso giuridico è nato dai
problemi di carattere economico derivati dai continui cambiamenti in fase progettuale dell’autore. Queste variazioni, continuate anche in
fase di cantiere, hanno fatto levitare il costo dell’intervento oltre misura.
204
Coosje van Bruggen, Frank O. Gehry, Guggenheim Museum Bilbao, op. cit., p. 116.
205
Ibid.
“gioco comune” 206, perdendo i connotati di risultato razionale di un processo dettato da
esigenze di carattere funzionalistico. Ciò tende a rompere i parametri generativi tipici
dell’architettura del Movimento Moderno. In qualche modo si sancisce la rottura di uno
status di regole, ridefinendo la metodologia di progetto.
Questa metodologia anomala è uno dei punti centrali della poetica di Gehry. Le
collaborazioni con Claes Oldenburg o con Richard Serra207 dimostrano come il processo
creativo di Gehry sia essenzialmente artistico e non, al contrario, rivolto alla fusione dei
due ambiti. L’inserimento di opere d’arte a grande sala in architettura è di fatto un
processo non nuovo. Gehry elabora un metodo che parte da una composizione artistica
per approdare ad uno spazio di carattere architettonico. Un riferimento diretto delle ultime
opere dell’architetto statunitense è, come egli stesso dice, Umberto Boccioni 208. Tale
affermazione è di centrale importanza per ricostruire il mondo figurativo di Gehry e per
capire la genesi della forma. Non esiste, tuttavia, solamente un’ispirazione di carattere
formale. Il riferimento più profondo è l’adesione all’idea di movimento che Boccioni crea
nelle sue opere. In riferimento alla scultura Sviluppo di una bottiglia nello spazio del 1912,
è possibile parlare di una stretta connessione all’idea di sviluppo temporale dell’idea
spaziale. Ovvero, l’oggetto rappresentato è ideato a partire da un «principio di durata» che
van Bruggen fa risalire a Henry Bergson209 e che ricollega il discorso
artistico/architettonico a quello temporale di matrice cubista.
Certamente il processo di fusione tra architettura e scultura non è semplice. Non si
tratta infatti di un’influenza o di un’osmosi, ma di una volontaria unione tra due ambiti
diversi. Il procedimento è, allora, rivolto ad estrarre dai limiti di ciascuna disciplina un
qualcosa di nuovo e che, però, necessita di nuove modalità di approccio.
To say that a building has to have a certain kind of architectural attitude to be a building is too
limiting, so the best thing to do is to make the sculptural functional in terms of use. If you can translate
the beauty of sculpture into building ... whatever it does to give movement and feeling, that’s where
210
the innovation in architecture is.
L’opera di architettura, allora, diventa il crogiuolo di una serie numerosa di esigenze che
tendono ad ampliare il concetto di architettura. Riteniamo che l’idea di spazio assuma, in
quest’ottica, un valore del tutto particolare. Esso non diventa una conseguenza
dell’architettura, ma assume, al contrario, un ruolo primario nella composizione e
nell’ideazione dell’oggetto architettonico. Allora, «solving all the functional problems is an
intellectual exercise» 211, e la composizione formale assume un’importanza del tutto
preponderante 212. La metafora del fiore è sovente presente nelle composizioni di Gehry.
Gli edifici sfogliati assumono conformazioni a corolla con caratteri tipicamente scultorei.
Il sospetto che questo tipo di approccio possa essere un arbitrio artistico dimenticando
gli aspetti più rigorosi dell’architettura, è fugato dal fatto che il progetto ha avuto una
gestione assai complessa di tutti le componenti di programmazione e di relazione con il
territorio. Citando l’esempio più importante, il Museo Guggenheim di Bilbao, possiamo
notare come esso sia una realizzazione molto convincente di progetto in grado di
206
Ivi, p. 119.
Richard Serra diviene particolarmente importante nella progettazione degli Uffici nazionali olandesi a Praga (1992-’97). Serra
ammette di essere a sua volta stato influenzato nelle sue opere da Casa Lewis a Cleveland (Ohio), progetto del 1989-’95.
208
Coosje van Bruggen, Frank O. Gehry, Guggenheim Museum Bilbao, op. cit., pp. 112-113.
209
Ibid.
210
Ivi, p. 119.
211
Frank O. Gehry, cit. in, ivi, p. 95.
212
Il rapporto tra forma e funzione in Gehry è chiaramente contenuto nel problema delle torri d’ingresso del Museo Guggenheim di
Bilbao. Il problema del fatto se queste abbiano una funzione o meno e riguardo la loro eccessiva scala, diviene essenziale per
comprendere come Gehry agisca in modo sostanziale sulla funzione simbolica dell’elemento architettonico. Questo aspetto sembra
divenire preponderante ed assumere un’importanza fondamentale. La rappresentatività di un oggetto o dell’intera architettura diviene
“funzione” al pari dei più tradizionali aspetti sanciti dal pensiero Moderno sull’architettura.
207
rivitalizzare il sistema economico regionale. Per confermare che il progetto di architettura
diviene una summa di diverse discipline è opportuno far notare che accanto alle questioni
di carattere artistico troviamo una serie molto complessa di studi di management.
Attraverso la GESTEC, IBS S.A. e la KPMG Peat Marwick e la Solomon R. Guggenheim
Foundation, nel 1992 sono stati inclusi art programming e management service, analisi di
impatto economico e demografico e stime assai accurate dei costi tecnici.
L’aver insistito sull’importanza degli aspetti artistici del lavoro di Gehry ha una funzione
fondamentale. La libertà formale e spaziale che deriva da questo approccio è tale che i
risultati presentano una enorme difficoltà realizzativa. In tal modo, lo studio associato di
Gehry ha dovuto sviluppare una metodologia di “razionalizzazione” del progetto
assolutamente rigorosa ed innovativa basata, appunto, sull’elaboratore elettronico. In
relazione al Museo Guggenheim,
functional problems of the building are worked out in schematic models in which pragmatic
solutions to the building prevail over aesthetic decisions, followed by sculptural study models to and
fro leading up to the final scheme. Six main models of the Bilbao project summarize the development
phase: 1) the sculptural competition model in a scale of 1:500, made of basswood and paper; 2) the
presentation model [...] in a scale 1:200, made of plaster and metal [...]; 3) the schematic design
model, in a scale of 1:200, made of wood and metal [...]; 4) the schematic model [...], made of wood
and paper; 5) the design model, in a scale of 1:100, made of basswood and paper that Gehry was
working on all along from the fall of 1992 until December 1993; 6) [...] a verification model in a scale of
1:100, whose refined, computer generated-shapes derived from the design model were milled out of
213
an industrial foam representing metal and wood blocks standing in for Spanish limestone [...].
La creazione dell’organismo architettonico avviene per modelli successivi, elaborati con
diversi materiali ed in scale via via più dettagliate. Solamente nelle fasi finali il progetto
viene verificato attraverso l’elaboratore. I modelli (Fig. 66), allora, rappresentano per
Gehry il momento principale della creazione dell’organismo architettonico e dello spazio
non-euclideo. Anche il disegno è, per il maestro americano, uno strumento effimero,
mentre solamente al modello sono demandati compiti più specifici214. Riteniamo questo
quadro del processo creativo di Gehry particolarmente significativo per la comprensione
del suo particolare spazio. I primi modelli per Bilbao erano fatti di carta. Ritroviamo nella
soluzione finale la caratteristica di questo materiale. Più volte abbiamo notato come i più
recenti progetti di Gehry avessero la sembianza di corolle di fiori. I paramenti esterni non
dimenticano il materiale con cui sono stati ideati. In questo caso, allora, il materiale di
formazione dell’idea è determinante per la resa finale, aspetto che influisce in modo
decisivo anche sullo spazio interno. La concettualizzazione del modello avviene sempre a
piccola sala, della dimensione di una scultura molto intima. «You forget about it as
architecture, because you’re focused on this sculpting process» 215. Jim Glymph, il
principale collaboratore di Gehry nel settore informatico, suggerisce come il metodo
progettuale di questo architetto faccia parte della tradizione americana del
creatore/inventore che lavora nel proprio garage 216.
Come contraltare di questo empirismo e questa sperimentalità quasi incosciente
troviamo una società di progettazione di enorme livello. Per rendere possibile la grande
libertà formale e spaziale di Gehry lo staff che si occupa della parte informatica si deve
avvalere di un programma estremamente sofisticato chiamato CATIA. Questo software,
213
Coosje van Bruggen, Frank O. Gehry, Guggenheim Museum Bilbao, op. cit., pp. 106-107.
Ivi, p. 103.
215
Frank O. Gehry, in Ibid.
216
Ivi, p. 250.
214
inizialmente sviluppato per l’industria aerospaziale francese 217, è un modellatore solido a
blocchi. Questo significa che è stato studiato per elaborare forme virtuali tridimensionali
attraverso funzioni che rendono estremamente verosimile la forma illustrata a video. Esso
agisce esattamente come uno strumento in grado di “scolpire” forme elettroniche
attraverso opportune periferiche, quali mouse o tavolette grafiche di varia natura. La
gestione del modello virtuale tridimensionale ha effetti di grande verosimiglianza e
permette una visione realistica dell’oggetto immaginato. La sua natura “a blocchi” sta a
significare che esso è composto da numerosi pacchetti, ognuno dei quali ha specifiche
funzioni. È pertanto assolutamente inutile in questo tipo di strumenti possedere l’intero
programma poiché, a seconda del gruppo di lavoro, verranno assemblati diversi blocchi
che rispondono a determinate esigenze. Il campo dell’architettura e del design, pertanto,
necessita di pochi blocchi di CATIA, appositamente studiati per quel settore applicativo.
Questo strumento, si sposa molto bene con il processo progettuale di Gehry. Egli,
infatti,
[...] è solito iniziare a progettare da pochissimi schizzi dell’idea, talvolta anche abbastanza confusi;
solo in un secondo momento passa alla costruzione volumetrica utilizzando i materiali più strani ma
218
sicuramente adatti ad esprimere quello che ha in mente.
Successivamente il computer e il programma CATIA sviluppa le idee iniziali. Con questi
strumenti elettronici, infatti, si può passare direttamente e con estrema facilità dalla
costruzione dei plastici di studio ai disegni architettonici e viceversa. Quindi, in sintesi, i
modelli scultorei sono da considerarsi, per Gehry, al pari di schizzi iniziali senza i quali la
complessità dell’architettura non potrebbe scaturire. Il principio, seppur non originale, è
interessante per i risultati. Il processo di generazione dell’idea spaziale non diviene più il
disegno ma la scultura (di modellini). Il risultato finale è, ovviamente, influenzato da questo
procedimento, denunciando il processo creativo. È possibile quindi affermare che Gehry
genera un’architettura scultorea scaturita da un pensiero plastico. Gli spazi non-euclidei
che nascono sono frutto non tanto di uno strumento informatico quanto, al contrario, di uno
plastico.
Indagando più approfonditamente il lavoro di Jim Glymph nello studio Gehry, possiamo
dire che egli ha determinato un rinnovamento sostanziale nella pratica esecutiva dello
studio. La ricerca da lui condotta
[...] ebbe inizio nel settore delle industrie aerospaziali e automobilistiche, le quali progettavano e
realizzavano da tempo in tre dimensioni piuttosto che in sezioni stratificate a due dimensioni e, come
Gehry, iniziavano un processo progettuale dall’esterno della membrana e procedevano verso l’interno.
Infine, lo studio scelse di adottare il sistema Catia di Dassault Systèmes di Parigi, un programma
elaborato originariamente per la progettazione di aerei da caccia Mirage, distribuito da Ibm e usato su
sistemi Ibm. In studio, le dimensioni dei modelli reali furono digitalizzate con l’uso di un dispositivo
laser sviluppato da neurochirurgi per mappare il cranio umano, collegato a un digitalizzatore
tridimensionale alto circa due metri. I dati vennero poi inseriti nel Catia e elaborati in termini progettuali
219
e strutturali.
Questo ci fa capire come il sistema progettuale consentito dai digitalizzatori e dal
programma non agisca più, secondo la tradizione, per piante, prospetti e sezioni, ma per
organismi discreti, ovvero aventi continuità strutturale. L’oggetto, allora, è immaginato
come entità tridimensionale e come tale è gestito e realizzato.
La libertà del software deriva dalla possibilità di modellare facce e volumi architettonici
con la massima flessibilità. Come è stato fatto notare, il processo di generazione del
217
Questo programma, non a caso, è utilizzato anche dall’industria automobilistica FIAT per la progettazione del design delle auto e
per la realizzazione dei modelli tridimensionali da sottoporre a prove aerodinamiche.
218
Giorgio Romoli, Frank O. Gehry. Museo Guggenheim, Bilbao, Testo & Immagine, Torino, 1999, p. 62.
219
Francesco Dal Co, Kurt W. Forster, Hadley Soutter Arnold, Frank O. Gehry. Tutte le opere, Electa, Milano, 1998, pp. 431-433.
modello del Guggenheim, e di altre opere di architettura dell’ultima stagione di Gehry,
passa continuamente dall’elaborazione di modellini alla loro traduzione in oggetti virtuali e
viceversa. In altre parole esiste un percorso altalenante tra modello fisico ed elettronico.
Entrambi questi strumenti servono per la definizione della forma e lo studio dei processi
realizzativi. Il dialogo costante tra questi due estremi rende necessario l’utilizzo di
apparecchiature che siano in grado di tradurre un oggetto reale in uno virtuale e un
modello computerizzato in una scultura fisica. Il programma utilizzato dallo studio di Gehry
permette questo attraverso opportuni strumenti hardware.
Gehry (e il suo studio) genera decine e decine di modelli e vi opera, per certi versi, come uno
scultore. Concepisce in rapidi schizzi e in successivi bozzetti plasma la materia, verifica gli spazi, gli
effetti tridimensionali, il gioco dei cavi e dei pieni. Realizzato un modello soddisfacente, si può
digitalizzarlo (cioè leggerlo per punti con una penna elettronica) e realizzare un nuovo modello, questa
220
volta elettronico, che sarà la base di migliaia di altre verifiche e modifiche.
Una volta realizzato il primo modellino fisico, quindi, esso viene “tradotto” in un modello
virtuale grazie ad una penna ottica. Il procedimento è estremamente semplice dal punto di
vista operativo. Il modello fisico viene posizionato su una piattaforma munita di sensori
ottici capaci di rilevare fonti luminose nello spazio. Una penna ottica munita di una piccola
lampadina in punta viene collocata sui punti notevoli del modellino. Attraverso un pulsate, i
rilevatori individuano e registrano la posizione di questa lampadina nello spazio fornendo
una terna di punti cartesiani di quel determinato punto. L’operazione viene ripetuta per tutti
i punti che costituiscono il modello e quindi collegati attraverso comandi software. Quello
che si ottiene è uno “scheletro” del modellino fisico tradotto nella memoria del computer
(Fig. 67).
La grande intercambiabilità tra i modelli virtuali e quelli fisici ha generato un nuovo tipo
di progettazione.
Se si volesse ricercare un indice per la collocazione storica di questo edificio [il Museo
Guggenheim di Bilbao], sarebbe sufficiente considerare l’impiego inusitato di tecnologie
computerizzate nella sua realizzazione. Per il museo di Bilbao, Gehry ha utilizzato in pieno il
potenziale della progettazione assistita da elaboratore. Tralasciando il suo ruolo ausiliare, lui e i suoi
collaboratori hanno utilizzato dei programmi originariamente elaborati per la progettazione di fusoliere
di aeroplani ma che, in questo caso, sono serviti da matrice con la quale dar forma a ogni parte e
raffinare ogni elemento della progettazione e della costruzione del museo. È stata superata la divisone
secolare tra le mani che progettano e gli strumenti che eseguono: le fasi e le tecniche separate di
221
concezione e realizzazione sono state intrecciate in un “loop” ininterotto.
Il brano appena citato è molto importante per la concezione di una nuova realtà
progettuale che si basa sul rinnovamento metodologico derivato dall’uso del computer. Per
questo motivo abbiamo deciso di inserire lo studio dei metodi gehriani in questo scritto.
Pur essendo un autore che realizza spazi attraverso modelli fisici, il processo elettronico
diviene fondamentale e capace, anzi, di rinnovare la pratica progettuale. In sostanza,
quello che accade in Gehry è la perdita di distinzione tra processo immaginativo e
processo realizzativo. L’ideazione di un’idea spaziale è strettamente connessa con la sua
realizzazione, poiché la tradizionale distinzione tra le diverse fasi è stata compressa in
tempi ridottissimi fino a cadere completamente.
In making use of the new computer program, the layout process was accelerated and, as sculptural
shapes could be computed, a more time-saving, economic way of building was devised, affecting, for
instance, the structuring of a steel frame, or figuring out what it takes to fit panels together on a wall.
220
221
Antonino Saggio, Frank O. Gehry, Testo & Immagine, Torino, 1997, p. 74.
Kurt W. Forster, Coreografia architettonica, in Francesco Dal Co, Kurt W. Forster, Hadley Soutter Arnold, op.cit., p. 31.
The new process could work for both high technology in terms of construction, such as numerically
222
controlled machines, and traditional craft equally well [...].
Le macchine a controllo numerico, allora, possono restituire il modello computerizzato
“scolpendo” la materia. Il computer, in altre parole, comanda una fresa che modella legno
e altri materiali facilmente lavorabili al fine di creare l’oggetto fisico desunto dal modello
virtuale. Così avviene l’interscambio. L’aspetto molto interessante dal punto di vista teorico
riguarda il fatto che l’architettura possa essere direttamente derivata da equazioni
polinominali 223, generate automaticamente dal computer nella fase di acquisizione del
modello fisico con le penne ottiche. Le libere curve scultoree create da Gehry non hanno
una matrice matematica; è il computer che, attraverso CATIA, genera strutture
matematiche complesse per restituire la complessità del reale. Queste equazioni sono
espressive dello sviluppo delle forme dello spazio, restituite attraverso coordinate di punti
nella memoria del computer che, uniti, generano le strutture a guscio virtuali del modello
tridimensionale.
Molti autori hanno sottolineato come il computer per Gehry sia uno strumento
indispensabile, non solamente nella concezione della forma e degli spazi. Se questo ruolo
è centrale in questa trattazione, occorre sottolineare come gli effetti più pragmatici della
gestione del progetto siano vantaggi altrettanto fondamentali ed imprescindibili nei progetti
gehriani. Attraverso il computer,
si potranno, naturalmente, avere nuove infinite visioni tridimensionali, simulare l’effetto dei diversi
materiali, ricavare piante, prospetti e sezioni, studiare contemporaneamente l’insieme e il più minuto
dettaglio. Ma un modello elettronico è per sua natura qualcosa di estremamente diverso e più duttile
rispetto a uno tradizionale. [...] Vi si potrà modificare un elemento architettonico e verificare
simultaneamente l’effetto non solo su tutte le visioni desiderate, ma anche sulla normativa, sul costo,
sui calcoli statici, sulle dispersioni termiche. Si potrà verificare quando un materiale, rispetto a un altro,
incide non soltanto in tutti gli altri aspetti quantitativi, ma anche come reagisce alla luce naturale o
artificiale. Si potrà mandare le informazioni a chi deve costruire l’opera e questi (magari utilizzando
frese collegate al calcolatore) potrà realizzare al vero quanto serve. [...] Il modello diventa, in questa
224
accezione, uno strumento per studiare, verificare, simulare, realizzare e in parte costruire.
Tale metodo è particolarmente chiaro e sofisticato nel caso del Guggenheim di Bilbao.
Esso è stato, tuttavia, utilizzato fin dal 1989 nel progetto Vila Olimpica a Barcellona (Fig.
68). In questo albergo, situato nel villaggio Olimpico, è presente un elemento simbolico di
grande importanza nella poetica di Gehry: il pesce.
Nella progettazione strutturale del pesce lo studio Gehry impiegò per la prima volta un elaboratore
elettronico nel processo costruttivo. A causa dei limiti di budget e di tempo di esecuzione, la ricerca di
software e hardware adatti fu dettata dalla necessità di assistere i fabbricanti e le imprese coinvolti nel
progetto a costruire la struttura il più velocemente ed economicamente possibile. L’elaboratore non
servì come strumento progettuale o di rappresentazione, ma piuttosto per facilitare la produzione,
ampliando un processo di progettazione tridimensionale che si era dimostrato adeguato e sufficiente
per trent’anni. Benché lo studio Gehry avesse già in precedenza realizzato pesci e altre strutture
curvilinee complesse, la loro rappresentazione si era limitata ai tradizionali elaborati grafici
bidimensionali. Nella ricerca del mezzo tridimensionale appropriato, lo studio cercò un sistema che gli
permettesse di continuare a lavorare con modelli concreti e, al tempo stesso, di specificare alle
imprese come realizzare strutture del tutto uniche, demistificando il comportamento materiale, la
geometria superficiale e i principi strutturali di curve complesse, in modo che i tempi e il denaro spesi
sul progetto riflettessero il costo reale dell’assemblaggio e non i costi associati all’incomprensione. [...]
Lavorando in stretta collaborazione con l’impresa su modelli a scala reale della scultura del pesce di
Barcellona ed estraendo i dati dal modello computerizzato, furono elaborate delle serie di nodi
standardizzati ma flessibili e adattabili alle diverse geometrie e ai diversi angoli di rotazione dei vari
componenti. Il database fornì all’impresa la posizione e l’orientamento di ciascun nodo, rendendo
222
223
224
Coosje van Bruggen, Frank O. Gehry, Guggenheim Museum Bilbao, op. cit., pp. 251-252.
Ivi, p. 250.
Antonino Saggio, Frank O. Gehry, op. cit., pp. 74-75.
quella che altrimenti era una struttura complessa relativamente facile da assemblare. Catia fu anche
impiegato nella progettazione e nella preparazione degli esecutivi per la Disney Concert Hall ed è
225
rimasto da allora una parte integrante dell’iter progettuale di tutti i progetti successivi.
All’inizio, tuttavia, Gehry era restio ad utilizzare tecnologie informatiche all’interno della
sua progettazione.
The program seemed to limit architecture to symmetries, mirror imagery, and “simple Euclidean
geometries”, as Glymph put it, but questions of how to visualize gestural moves resulting in sculptural
three-dimensional forms while retaining the immediacy of a sketch, or how to translate them into a
226
very large scale, were unresolved.
Gehry si è presto reso conto della necessità e dei vantaggi dell’utilizzo di questo
strumento, giustificando successivamente l’adozione con le parole: «I just didn’t like the
images of the computer, but as soon as I found a way to use it to build, then I
connected» 227.
Per voler sintetizzare, come lo stesso Glymph ammette, i vantaggi derivati
dall’introduzione delle tecnologie informatiche nel processo di sviluppo gehriano sono
[...] the layout porcess was accelerated and, as sculptoral shapes could be computed, a more timesaving, economic way of building was devised, affecting, for instance, the structuring of a steel frame,
228
or figuring out what it takes to fit panels together on a wall.
In effetti, i problemi derivati dall’esecuzione di un progetto così grandemente complesso
non sarebbero potuti essere superati senza un adeguato controllo delle diverse fasi di
progetto, e il Guggenheim di Bilbao non sarebbe potuto essere costruito.
Un altro caso interessante è il progetto, non realizzato, del Childrens’s Museum di
Boston (Massachusetts) del 1992-’96 (Fig. 69). Il progetto è stato elaborato
contemporaneamente al Guggehneim di Bilbao, ma, al contrario di quest’ultimo, presenta
una tecnica mista di sviluppo delle forme non-euclidee.
Sono stati adoperati vari metodi per documentare le geometrie scultoree del progetto. Le superfici
e le forme complesse sono state modellate con l’uso del programma computerizzato Catia e poi
trasferite sul Cad per essere usate dall’architetto incaricato degli elaborati grafici esecutivi e della
direzione dei lavori, mentre l’onda è stata rigorosamente controllata attraverso geometrie circolari e
calcoli manuali tradizionali. Questi differenti sistemi descrittivi hanno riportato l’informazione
229
tridimensionale al formato standard dell’elaborato grafico d’architettura.
Analizzando quest’ultima citazione, è lecito domandarsi come mai sia stata fatta una
scelta così curiosa. Il brano ci dice che è stato scelto un metodo di sviluppo
computerizzato per alcuni settori dell’edificio, mentre per altri ci si è basati su
un’elaborazione più tradizionale. Senza indulgere in inutili fantasie alla ricerca delle
motivazioni profonde, occorre rilevare come tale approccio abbia dato risultati
profondamente differenti. Questo giustifica la tesi che metodi differenti di rappresentazione
offrono differenti risultati. Si può infatti notare come l’onda presente sul molo, elaborata
con tecniche di rappresentazioni tradizionali, abbia una conformazione decisamente più
semplice rispetto ai blocchi deformati immersi nell’acqua. L’onda è costituita da due setti
separati e tamponati da una vetrata. Tali curve sono conformate secondo una doppia
curvatura. Queste, pur complesse, sono tali da poter essere gestite con un sistema di
rappresentazione derivante dalle geometrie proiettive. Ed in qualche modo il risultato finale
è espressivo di questa scelta. Questo caso, quindi, è particolarmente interessante poiché
225
Francesco Dal Co, Kurt W. Forster, Hadley Soutter Arnold, op.cit., p. 431-433.
Coosje van Bruggen, Frank O. Gehry, Guggenheim Museum Bilbao, op. cit., pp. 251.
227
Ibid.
228
Ibid.
229
Francesco Dal Co, Kurt W. Forster, Hadley Soutter Arnold, op.cit., p. 503.
226
dimostra come la scelta del modo di sviluppare una geometria sia determinate per la
soluzione finale. La generazione di uno spazio complesso dipende essenzialmente da
come questo è immaginato, ma, soprattutto, dalle scelte metodologiche utilizzate per lo
sviluppo della conformazione di queste geometrie. Le forme degli involucri, come
facilmente comprensibile, hanno dato vita ad una differente conformazione dello spazio
interno. In entrambi i casi essi appartengono alle geometrie non-euclidee, ma se nell’onda
questo spazio appare di una certa semplicità e riconducibile ad un luogo definibile
dall’immaginazione, l’utilizzo di tecniche computerizzate per la generazione di luoghi di
alta complessità, dà come risultato la formazione di uno spazio impossibile da ricostruire
mentalmente. Evidentemente questo significa che l’adozione di tecniche computerizzate
estremamente sofisticate, amplia l’immaginazione del progettista offrendo la possibilità di
concretizzare spazi non ricostruibili dal fruitore con la sua immaginazione se non
attraverso uno sforzo plastico di notevole entità. Nel caso di Gehry, ripetiamo, essendo lo
spazio derivato da un pensiero scultoreo sulla forma, esso è in qualche modo una
conseguenza dell’involucro. Come altrove sottolineato, egli agisce dall’esterno verso
l’interno, adottando una pratica compositiva degli involucri che conseguentemente
generano spazio. La matrice generatrice è la forma, e lo spazio ne è conseguenza.
3.3. L’architettura nata dalla virtualità. Greg Lynn
Greg Lynn è un architetto particolarmente interessante perché rappresenta il prototipo
di tutta quella generazione di architetti americani nati negli anni sessanta. L’aspetto
generazionale è particolarmente significativo. Come sottolinea Hani Rashid del gruppo
Asymptote, questo determina l’appartenenza di questi progettisti ad una scuola diversa
rispetto a coloro che, come Eisenman, Gehry e tanti altri, sono in diretto contatto con i
“grandi padri” del Movimento Moderno. I giovani, infatti, subiscono in minima parte
l’autorità di quei maestri e ne sono, pertanto, indipendenti 230. Il risultato è quello di
rivolgersi verso un’architettura parzialmente svincolata dai canoni del Novecento,
sforzandosi di trovare una propria strada indipendente.
Per questo, in sintesi, è importante sottolineare alcuni temi di riflessione comuni a molti
giovani progettisti che, soprattutto nella scuola americana, rappresentano un po’ i nuovi
canoni della ricerca architettonica intorno allo spazio non-euclideo. Questi i punti:
§ perdita della riconoscibilità formale del progetto architettonico o dello spazio del
vissuto;
§ tendenza alla deterritorializzazione, allo sradicamento dell’oggetto architettonico, alla
perdita della tettonica, alla mobilità, alla temporaneità e precarietà;
§ da questo ne consegue una ricerca verso la rappresentazione del movimento e della
fluidità nella forma e nello spazio dell’architettura o dell’organismo spaziale;
§ l’adesione ad una sorta di neo-espressionismo che, pur nell’inesattezza del
neologismo, offre chiaramente la volontà di rappresentare forme zoomorfe, fitomorfe
od antropomorfe nella esasperazione di una visionarietà formale;
§ la scelta di trattare la virtualità come uno dei paradigmi fondamentali della ricerca
spaziale e formale contemporanea, utilizzandola talvolta come termine esaustivo della
progettazione (spazi virtuali), talvolta come momento di inizio per una progettazione
che arriva fino all’architettura realizzata;
§ infine, la scelta di radicare il progetto con il contesto ampiamente inteso, fino a
trasformarlo in un oggetto reattivo alle sollecitazioni dell’intorno e, più in generale,
dell’informazione.
230
Cit. in Christian Pongratz e Maria Rita Perbellini, Nati con il computer, Testo & Immagine, Torino, 2000, p. 15.
È possibile notare come, tra essi, non compaiano assolutamente i precetti funzionalisti
del razionalismo. Troviamo, al contrario, riflessioni originali e facenti parte della cultura
artistica contemporanea, contaminata dall’influsso che l’informatica ha avuto anche nel
terreno dell’arte.
Riteniamo che tale novità sia resa possibile, anche, dall’uso dello strumento informatico,
il quale necessita di logiche di progettazione assolutamente diverse rispetto alla
tradizionale matita. La maggior parte di questi giovani autori utilizza l’elaboratore in tutte le
fasi della progettazione, dall’idea concettuale iniziale 231 fino alla gestione del cantiere.
Come abbiamo sostenuto per tutto questo scritto, il problema della creazione di uno
spazio non-euclideo va oltre la sua possibilità realizzativa. Alcuni progettisti
volontariamente scelgono di generare forme che devono rimanere solamente luoghi
virtuali. Questa non è una limitazione della capacità di generare luoghi, bensì un
“ampliamento” del concetto di spazio. Il pericolo è sempre in agguato. Pur avendo
legittimato, con fatica, la possibilità di esistenza e di liceità degli spazi virtuali, è opportuno
sottolineare come un pericolo intrinseco derivi dal fatto di produrre solamente immagini
suggestive, senza alcuna consistenza spaziale, fisica o virtuale che sia.
Questa premessa è indispensabile nello studio del lavoro di Greg Lynn. Egli insegna e
pratica la necessità della generazione spaziale fugando ogni suggestione formalista. In
questo egli si discosta, come abbiamo visto, dal pensiero di Eisenman che, sovente,
utilizza la tecnica dell’estraneamento nella progettazione architettonica, elaborando
immagini caotiche e prive di senso fino a condurle ad essere architettura. Lynn nella sua
progettazione, impone delle regole al contorno che, in qualche modo, limitano la libertà
assoluta che il computer offre. L’elaboratore, allora, è usato per la generazione di forme e
modelli e per la definizione di un metodo progettuale diverso, novità resa necessaria dalle
nuove pratiche operative dettate dallo strumento. In verità, la complessità dei nuovi ruoli
assunti dallo strumento è notevolissima. Lynn, nella ricerca di un metodo progettuale che
sia conforme allo Zeitgeist contemporaneo, è conscio del fatto che l’elaboratore riveste un
ruolo assolutamente complesso che va al di là del suo essere medium. Esso può essere
anche finalità ed elemento generatore di architettura. Questo aspetto è dato dalla natura
particolarissima del nostro tempo, basato sull’informazione. Allora, «l’atto di progettare e
costruire un edificio crea nuove informazioni»232, e pertanto l’utilizzo del computer è
chiamato ad assolvere un compito di generazione di informazioni e non di semplice
strumento attuativo.
Ma qual è la ragione per cui la tecnologia dell’informazione sta diventando così vitale per
l’architettura? [...] L’informazione è la materia prima dell’era attuale, condizione preliminare e basilare
per la programmazione, progettazione, costruzione e gestione degli edifici. Le tecnologie
dell’informazione e della comunicazione mettono in collegamento tutti i membri di uno studio di
233
architettura durante il processo ideativo e creativo.
Anche Schmitt, appena citato, evidenzia un aspetto determinante nel quale, noi,
individuiamo un pericolo. Egli, parlando delle fasi operative della progettazione assistita,
ammette come l’immersione del soggetto nella realtà virtuale e la sua interazione con i
comandi offre una disinvoltura molto elevata nella generazione di forme. Individuiamo la
problematica dell’eccessiva libertà formale che diviene arbitrio, perdendo così di vista
l’obiettivo della creazione di uno spazio formalmente complesso, oggetto del nostro
discorso. Questa pericolosa china porta necessariamente verso la smaterializzazione
dell’architettura e l’errore del riconoscere come architettura anche uno spazio virtuale. In
verità, il problema non sussiste. Aldo Loris Rossi sottolinea come l’architettura sia
231
232
233
Ivi, p. 18.
Gerhard Schmitt, Information Architecture, Testo & Immagine, Torino, 1998, p. 11.
Ivi, p. 7.
solamente quella dello spazio del vissuto e che il resto è esclusivamente suggestione
formale.
Occorre chiarire definitivamente una cosa. L’errore è considerare come architettura ogni
forma di elaborazione di spazio o di forma effettuata con il computer. Il fraintendimento è
confondere quelle azioni intese a generare spazi non-euclidei con le immagini
bidimensionali che, pur suggestive ed appartenenti ad una medesima famiglia culturale,
non generano alcun tipo di spazio, ancorché virtuale. Parallelamente dobbiamo
riconoscere alcuni valori intrinseci della progettazione assistita. È infatti possibile parlare di
diversi livelli di astrazione nella progettazione con l’elaboratore. Questo significa che
tramite questo strumento è possibile creare architettura in diversi gradi, dall’opera
concettuale fino agli aspetti più tecnici. È, in sostanza, una natura molteplice che accresce
le possibilità e le interrelazioni tra le diverse fasi creative, rafforzate, in più, da una
continuità molto forte tra l’aspetto ideativo e quello esecutivo. Le differenti operazioni
avvengono con un medesimo mezzo e attraverso una continuità logica molto forte. Lynn e
altri autori della medesima scuola americana, operano generando spazi virtuali e reali che,
pur differenti, possiedono caratteri comuni. Questo è vero per un duplice motivo. Il primo
deriva da una sorta di riconoscibilità formale tra luoghi fisici e virtuali. Essi nascono, in
Lynn, con medesimo strumento e filosofia, pur nella differenza di obiettivi. Il secondo
risiede nella natura per così dire logica degli spazi. Spazi astratti della rete Web, spazi
non-euclidei virtuali e fisici, possiedono tutti una natura comune che possiamo individuare
nel concetto di continuum. La successione dei luoghi virtuali della rete e la continuità
spaziale dei progetti tendono a negare lo schema ad albero caratterizzato dai processi
logici strutturalisti in virtù di una interconnessione molto più attiva. In altre parole, è
possibile dire che l’incrocio “trasversale” tra i diversi ambienti ha abituato il fruitore ad una
libertà e a possibilità connettive assolutamente maggiori che in passato. Questo lo
ritroviamo anche negli spazi di Lynn e degli altri autori analizzati in precedenza.
Quel che più conta nell’analisi di Lynn e delle sue procedure è, tuttavia, l’aspetto
formale, da non confondersi con un superficiale formalismo.
La decostruzione dell’organismo architettonico, alla ricerca di una forma fluida, flessibile, tanto più
corporea e vitale quanto più disorganica, è l’obiettivo centrale della ricerca di Greg Lynn.
Liberata dalla rigidità euclidea, la materia si ripiega su se stessa, alla ricerca di quelle linee di
involuzione che riconducono l’organismo verso una direzione opposta a quella della differenziazione
delle specie, e cioè verso l’indifferenziato, verso il fatto comune [...] fra edificio e suolo, fra geometria
234
architettonica e orografia del terreno.
L’aspetto più interessante per l’analisi dell’operare di Lynn risiede nell’importanza del
contesto. Il delirio formale non è una gratuita modellazione di materia elettronica, ma, in
osservanza a quanto detto, Lynn si impone dei vincoli per la generazione delle forme,
regole intrinseche dettate dalla conformazione, dalla natura, dalle dinamiche dell’intorno.
Pur nell’anomalia figurativa, la conformazione delle forme prende avvio da dinamiche
intrinseche del luogo. L’operazione che Lynn segue per interpretare queste dinamiche
risiede nella deformazione topologica. Il concetto, sul quale non torneremo, diviene
fondamentale alla luce delle possibilità intrinseche in questo nuovo campo di genesi
morfologica.
Se alla forma architettonica non è ancora concessa la possibilità di mutazione né la capacità di
trasformazione con cui le forme naturali interagiscono con l’ambiente e la sua variabilità, un primo
passo per la liberazione della forma dalla sua immobilità è possibile attraverso la deformazione
235
topologica [...].
234
235
Maria Luisa Palumbo, Nuovi ventri, Testo & Immagine, Torino, 2000, p. 61.
Ibid.
Questo brano, pur ammettendo l’influenza del contesto sull’architettura, non approfondisce
granché la genesi della forma. Non è chiaro se Lynn abbia la volontà di deformare la
forma spaziale assorbendo le caratteristiche del terreno o se, come avviene in Günther
Domenig, facendo scaturire le forze telluriche dal suolo per poi trasformare la materia.
Sicuramente i due procedimenti sono distanti e non paragonabili e, pertanto, occorre
indagare più approfonditamente la questione per capirne il senso. Lo studio di alcuni lavori
di Lynn ci permette di capire che egli, come Eisenman, parte nella definizione di un
progetto da un’idea poetica o concettuale forte e da questa evolve la generazione della
forma con il computer. Pertanto è possibile dimostrare che ogni forma di morfologia in
Lynn è la rappresentazione di un’idea, sia essa movimento, topografia, spiritualità, o altro
ancora. Anche la topologia è solamente un mezzo per poter arrivare alla rappresentazione
di quell’idea poetica iniziale utilizzata come spunto concettuale. Così, lo stirare una forma,
il piegarla, storcerla, ha l’obiettivo di creare geometrie non-euclidee al limite della
rappresentabilità per trasformarle, successivamente, in spazio del vissuto con diversi tipi di
tecniche. La forma in Lynn e sempre non-figurativa divenendo, pertanto, informale. Ecco il
punto di partenza fondamentale. Per fare questo, però, è indispensabile il computer. Esso
è utilizzato per la concezione stessa delle forme e non, come accade in Gehry, per la loro
razionalizzazione. Gehry è uno scultore, mentre Lynn è un vero innovatore della
metodologia progettuale con l’elaboratore. L’ambiente elettronico è ovviamente assai
sofisticato; i segni sono riconosciuti come tali e cioè dotati di un significato che è possibile
manipolare nel tempo 236. L’ambiente virtuale diviene una natura fondamentale per la
creazione di questo tipo di spazi. Un punto di chiarezza. Lynn è una sorta di figura
intermedia tra coloro che creano spazi destinati a vivere nella virtualità e quegli autori che
progettano luoghi fisici. Interessante notare come egli si ponga a metà strada tra questi
due estremi. Lo spazio di navigazione (virtuale) consiste in un volume chiuso e
deformabile (blob), generato da un’unica superficie ripiegata. La forma è creata da un
equilibrio fluido tra forze di attrazione e repulsione che agiscono sulla sua superficie. Il
risultato, come ogni oggetto topologico, non è comprensibile facilmente. Occorre tirare in
ballo una componente di carattere temporale, il cui svolgimento rende la forma percorribile
e pertanto esperibile 237. In più, le forme generate topologicamente non presentano inizio e
fine ma sono avvolte su se stesse senza alcuna interruzione 238. Se si rivolge solo per un
attimo l’attenzione alla matematica, possiamo notare come lo studio delle superfici
topologiche di grado tre e quattro ha la facoltà di generare superfici dotate di una
sottigliezza del tutto particolare. Se prendiamo una superficie topologica di Hoffmann,
possiamo notare come il suo sviluppo possieda tre bucature senza alcuna interruzione tra
le diverse superfici 239. Questa proprietà delle superfici avvolte della topologia, ha un
corrispettivo di grande interesse in architettura. La continuità di superficie è, in quest’ultimo
campo, una delle costanti del Novecento e ad essa Lynn si rivolge. Le risposte date a
questo problema fondamentale sono state diverse e l’attuale corrente Cyber ne offre una
particolarmente interessante: la stretta fusione tra matematiche superiori e architettura.
Un’interpretazione dell’opera di Lynn che non condividiamo riguarda l’uso delle forze
primigenie per involvere la forma in qualcosa di non razionale 240. Non notiamo in Lynn
questa irrazionalità; questa lettura sembra legare Lynn all’espressionismo e, pertanto, ad
una cultura tedesca e austriaca. Lynn è pur sempre figlio dell’ambiente americano e deve
la sua concezione dell’architettura prevalentemente all’opera di Eisenman. La ragione la
ritroviamo nel fatto che
236
Ibid.
Cfr. con Paolo Vincenzo Genovese, Sistemi spaziali pluridimensionali. Il problema del tempo, in «L’Architettura - Cronache e
storia» n. 565, novembre 2002, pp. 772-773.
238
Gerhard Schmitt, Information Architecture, op. cit., p. 82.
239
Ivars Peterson, Il turista matematico, Sansoni, 1998, pp. 88-91.
240
Maria Luisa Palumbo, Nuovi ventri, op. cit., p. 62.
237
attraverso le tecniche computerizzate è infatti possibile sostituire alla logica delle forme e delle
geometrie precostituite una logica basata sulla simulazione dei processi morfologici che, a partire da
un nucleo embrionale, evolvono nella formazione di un organismo.
Si tratta, cioè, di sviluppare la capacità di autogenerazione e auto-organizzazione delle forme, in un
241
processo di interazione molteplice con le informazioni che caratterizzano un determinato ambiente.
Questo è un primo accenno sul processo del fare spazio attraverso il computer.
Abbiamo appena appreso come il processo sia quasi bionico, capace di individuare nello
studio di forme naturali un principio organizzatore ed evolutivo di forma. La natura
evolutiva comporta la perdita di equilibrio, aspetto perfettamente coerente con la topologia
delle forme e la natura temporale dello spazio. Ricollegandosi ai più recenti progetti di
Lynn (prodotti tra gli anni 1994 e il 2002), possiamo notare come l’idea di mutazione non
sia solamente una metafora per descrivere la morfogenesi della forma. Negli ultimi anni
Lynn ha lavorato sul concetto di Animation, un principio poetico che implica movimento e
visione. In realtà le definizioni con cui Lynn lavora sono molto sottili e, quindi, preferiamo
riportare le esatte parole da lui usate.
Animation is a term that differs form, but is often confused with, motion. While motion implies
movement and action, animation implies the evolution of a form and its shaping forces; it suggests
animalism, animism, growth, actuation, vitality and virtuality. In its manifold implications, animation
touches in many of architecture’s most deeply embedded assumptions about its structure. What
makes animation so problematic for architects is that they have maintained an ethic of statics in their
discipline. More than even its traditional role of providing shelter, architects are expected to provide
culture with stasis. Because of its dedication to permanence, architecture is one of the last modes of
thought based on the inert.
Challenging these assumptions by introducing architecture to models of organization that are not
inert will not threaten the essence of the discipline, but will advance it. Just as the development of
calculus drew upon the historical mathematical developments that preceded it, so too will an animate
approach to architecture subsume traditional models of statics into a more advanced system of
dynamic organizations as subset. The uses for an animate approach to architecture might be in its
conception and design while more conventional tools remain in force for modelling and fabrication.
Traditionally, in architecture the abstract space of design is conceived as an ideal neutral space of
equivalent Cartesian coordinates. In other design fields, however, design space is conceived as an
environment of forces rather than as an inert neutral vacuum. In naval design, for example, the
abstract space of design is imbued with the properties of flow, turbulence, viscosity and drag so that
particular form of a hull can be thought of in terms of in terms of its motion though water. [...] An ethic
of motion neither implies that architecture must be literally moveable, nor does it preclude actual
motion. The contours and profiles of form can be shaped by collaboration between an envelope and
the active context in which it situated. While physical form can be defined in terms of static
coordinates, the virtual force of the environment in which it is designed should also contribute to its
shaping. In this way, topology allows for not just the incorporation of a single moment but rather a
242
multiplicity of vectors and therefore a multiplicity of times, in a single continuous surface.
La nozione di «animation» diventa il punto di riflessione intellettuale sulla generazione di
forme topologiche dotate di grande complessità. Quello che intendiamo sottolineare è
come la riflessione matematica, trattata nelle precedenti pagine, non sia distinta dalla
pratica progettuale con l’elaboratore. Se si affiancano le curve di Hoffmann alle
architetture di Foreign Office Architects, troviamo una sostanziale corrispondenza. In Lynn
questo è particolarmente interessante poiché è il metodo a divenire fondativo di una nuova
relazione tra progettista e strumento informatico. La nozione di forma diviene evolutiva, nel
senso di costruzione derivata da sollecitazioni dinamiche, facenti riferimento a matrici
organiche di crescita di forma. Lynn possiede “una marcia in più” rispetto ad altri architetti
analizzati. Come sarà possibile confrontare nel paragrafo successivo in relazione all’opera
di Eisenman, Lynn pensa sempre all’architettura, ovvero all’opera realizzata o realizzabile.
241
242
Ibid.
Frédéric Migayrou e Marie-Ange Brayer (a cura di), ArchiLab , Thames & Hudson, London, 2001, p. 258.
Eisenman assume una posizione più programmatica e fortemente orientata verso la
costituzione di una teoria filosofica. In Lynn la forma dinamica crea architettura e non
solamente spazio astratto.
Uno dei metodi che Lynn utilizza per realizzare queste opere è quella del morphing.
Questa tecnica, presa in prestito dall’industria cinematografica, consente il passaggio da
un’immagine ad un’altra completamente diversa senza che il passaggio soffra di alcun
salto. È, quindi, una sorta di metamorfosi della forma che risulta particolarmente
interessante per la nostra trattazione. Come nota l’ambiguo Marcos Novak, uno dei punti
essenziali di passaggio culturale nella tecnica della rappresentazione dell’architettura è
l’uso della tecnica morphing che ha sostituito il vecchio collage 243. In realtà, questa nota
sulla tecnica morphing è molto importante. La trasmutazione di un elemento figurativo in
un altro comporta un cambiamento decisivo nella cultura figurativa contemporanea. Quello
che il cinema degli ultimi anni ci propone è una raffinata serie di sequenze che
propongono allo spettatore il continuo mutare di forme le une nelle altre. Il risultato è di
aver ottenuto una capacità figurativa estremamente flessibile nell’immaginario collettivo,
cosa che ha influito in modo determinante sulla cultura iconografica degli ultimi anni.
Accanto ai vari pupazzi futuribili alla Terminator, si è creata una capacità di comprensione
figurativa molto flessibile e basata sulle forme fluide 244. Allora diviene comprensibile come
si attiva il processo progettuale di Lynn. Egli utilizza la trasmutazione delle forme per
generare spazio. Questo, pur nella estrema libertà linguistica, è sempre realizzabile,
aspetto che lo distingue nettamente da altri autori quali Karl Chu.
Nel caso del progetto di concorso per il Port Authority Gateway del 1995 (Fig. 70), è
interessante notare gli aspetti generativi della forma. Il tema è costituito dalla realizzazione
di una pensilina per autobus, collocata nei pressi di una grande arteria stradale nella città
di New York.
The site was modelled using forces that simulate the movement and flow pedestrians, cars and
buses across the site, each with differing speeds and intensities of movement along Ninth Avenue,
42nd and 43rd streets and the four elevated bus ramps emerging from below the Hudson River. These
various forces of movement established a gradient field of attraction across the site. To discover the
shape of this invisible field of attraction, Lynn introduced geometric particles that change their position
and shape according to the influence of the forces. From the particle studies, he captured a series of
phase portraits of the cycles of movement over a period of time. These phase portraits are swept with
a secondary structure of tubular frames linking the ramps, existing buildings and the Port Authority Bus
Terminal. Eleven tensile surfaces are stretched across these tubes as an enclosure and projection
245
surfaces.
Come appare chiaro, il processo generativo delle forme è di natura dinamica. Sembra che
Lynn abbia cristallizzato differenti flussi di movimento dando forma all’architettura. La
forma nasce dal movimento. Analizzando le immagini che corredano questo scritto,
scopriamo qualcosa di più. Alcuni rendering mostrano una serie di sfere che, rimbalzando,
formano un percorso. Questa forma temporalizzata, ovvero generata da una particella
elementare “fotografata” in istanti successivi, diverrà poi l’andamento delle strutture
tubolari. Il processo, allora, è semi-automatico. Lynn, attraverso l’elaboratore, offre un
comando di espulsione di una pallina soggetta a moto elastico. I rimbalzi stabiliscono la
forma finale. Ritroviamo quanto riportato in precedenza sul metodo di Lynn. Egli opta per
una libertà controllata, una libera generazione di forme limitata da regole ben precise. In
questo caso le regole sono stabilite dalla necessità di basarsi sulla contemporanea
presenza ed armonizzazione di diversi flussi di movimento, mentre l’aspetto più visionario
è dato dall’accettazione della forma finale, assai libera ed espressiva. Occorre citare,
243
Marcos Novak, cit. in Christian Pongratz e Maria Rita Perbellini, Nati con il computer,, op. cit., p. 17.
Per ampliare questa idea di architettura fluida cfr. con Paolo Vincenzo Genovese, Concetti fluidi e architettura liquida, in
«L’Architettura - Cronache e storia», n. 563, settembre 2002, pp. 626-627.
245
Frédéric Migayrou e Marie-Ange Brayer (a cura di), ArchiLab , op. cit., p. 260.
244
solamente come accenno, ad una teoria matematica soggiacente a tutto questo. La
matematica stocastica si occupa di sviluppi caotici all’interno di un range limitato. Il caos
assoluto è privo di interesse, mentre presenta un alto grado di veridicità lo sviluppo delle
possibilità casuali in un sistema governato da numeri finiti e da limitate possibilità
combinatorie. Lynn fa esattamente questo: pone libertà in sistemi limitati, solo
parzialmente governati dall’arbitrio. La coordinazione di condizionamenti di forze esterne
fra loro dissimili sono gli input per formare, attraverso software creati per l’industria
cinematografica e per l’animazione, un’architettura dinamica e flessibile, grazie ad un
processo animato di progettazione formale 246. Lynn, al contrario di Eisenman, è convinto
che il computer non abbia facoltà di creare alcunché indipendentemente dalla volontà
dell’uomo, il quale rimane l’ultimo artefice dell’architettura. L’elaboratore è allora un
medium e nulla più. Il metodo progettuale di Lynn
[...] può essere inteso come la presenza combinata di due caratteristiche fondamentali: per prima
cosa, l’impiego di una metodologia progettuale che procede secondo una dimensione temporale e
parametri sperimentali non lineari; in secondo luogo, la necessità di controllare e guidare i sistemi
247
organizzativi [...] nei loro processi spesso imprevedibili di trasformazione, mutazione e crescita.
Queste brevi descrizioni del lavoro applicativo di teorie architettoniche contemporanee
dimostra come
il processo stesso di creazione di un’architettura si avvicina idealmente all’applicazione di strumenti
248
e metodi astratti.
È semmai la sintesi con gli aspetti funzionali che rende l’opera di Lynn un caso
particolarmente significativo della progettazione contemporanea. In realtà questo sistema
fortemente integrato tra processi automatici e creativi non è assolutamente nuovo. Nel
1967 Nicholas Negroponte aveva fondato un laboratorio (l’Architecture Machine Group)
con l’intento di riformare il processo di progettazione architettonica attraverso
l’associazione di uomo e macchina 249. Questo progetto, poi degenerato in una sorta di
“programma Cyber”, ha dimostrato i suoi limiti. Infatti ha tramutato l’intento iniziale nella
ricerca di possibilità di connessione tra corpo, architettura e informazione. Questo aspetto,
pur visionario, riconduce la ricerca di Negroponte con le sperimentazioni di Anton Marcus
Pasing analizzate in precedenza. Tale approccio, seppur risibile negli aspetti più estremi,
presenta una interpretazione interessante. È infatti possibile pensare che questa relazione
intenda esaltare l’individualità della persona (o ad individualizzare la macchina) all’interno
della progettazione architettonica assistita. In altre parole questo significa che i processi
standard di progettazione CAAD o modellatori solidi hanno la tendenza a cucirsi addosso
al fruitore per creare un prodotto software in “simbiosi” - per quanto minima - con l’utente.
Esiste, quindi, una informatizzazione del corpo e dello spazio. Ciò è un’affermazione molto
importante nell’economia della nostra tesi. Questo ragionamento ci porta a pensare che,
attraverso i processi di fusione e di interattività tra uomo e macchina, si possa arrivare ad
una contemporanea “umanizzazione della macchina” e ad una “informatizzazione della
natura umana”. Pertanto lo spazio virtuale (di qualunque natura esso sia) non diviene un
sistema astratto e lontano dalla capacità sensibile umana. Esso è un nuovo tipo di
comprensione che si viene ad aggiungere a quelli esistenti. Tali affermazioni non sono
apologetiche di un sistema che, personalmente, condividiamo solo in parte. È, semmai,
l’accettazione di un mondo nel quale persone in totale buonafede credono fermamente. Il
nostro compito, allora, è quello di registrare un evento e di porlo in chiave critica. Siamo
246
Christian Pongratz e Maria Rita Perbellini, Nati con il computer, op. cit., p. 45-46.
Ivi, p. 46.
248
Gerhard Schmitt, Information Architecture, op. cit., p. 6.
249
Cfr. con Nicholas Negroponte, Soft Machine Architecture, MIT Press, Cambridge, 1975.
247
convinti che sia assolutamente impossibile ideare sistemi esperti in grado di generare
architettura in modo automatico. Anche i cosiddetti “sistemi esperti” - cioè quelli capaci di
svolgere funzioni diverse rispetto a quelle per cui sono state programmate - sono per il
momento estremamente limitati. In un saggio fondamentale sull’intelligenza artificiale,
anche Douglas Hofstadter sancisce l’attuale impossibilità di ideare programmi di
intelligenza artificiale forte, ovvero capaci di operare in ambiti complessi.
Nell’analisi delle tattiche belliche di Sun Tzu, Thomas Cleary estrapola un principio
fondamentale del Tao, a cui lo stratega cinese si riferisce. Egli afferma che la non-forma e
la fluidità sono strumenti per preservare il potenziale dinamico, l’energia; questa verrebbe
cristallizzata, morendo, se assumesse una forma definita.
La forza è paragonata all’acqua che, come osserva il TaoTe Ching, non avendo forma precisa
prevale su ogni cosa a dispetto dell’apparente cedevolezza. Sun Tzu scrive: “La forza non ha
schieramento costante, l’acqua non ha forma costante. La capacità di assicurarsi la vittoria cambiando
250
e adeguandosi al nemico è chiamata genialità”.
Questo parallelo con la cultura cinese è di fondamentale importanza per comprendere la
natura di alcuni recenti lavori di Greg Lynn. A partire dal 1998, Lynn ha iniziato alcune
sperimentazioni che, altrove, abbiamo chiamato Blob Architecture. L’aspetto esteriore è
quello di bolle di materia informe che assumono forme bizzarre nello spazio. Lynn utilizza
queste sperimentazioni per riflessioni su cellule abitative variabili nella forma e nella
dimensione. La ricerca è rivolta alla formazione di unità base ripetibili ma sempre diverse.
L’idea della serie variata, così importante nel design, è qui applicata all’architettura. Un
elemento base viene deformato, creando una serie pressoché infinita di possibilità formali
e aggregative. Lo spazio abitato nasce dalla realizzazione fisica di queste forme. Il
concetto Tao di assenza di forma è centrale in questo ambito. L’importante non è tanto il
risultato, quando il processo per arrivare ad essa. Rispondendo alla necessità di
analizzare i metodi di formazione dell’idea, occorre approfondire di più le modalità
operative sulla forma.
Una massa di materia elettronica viene posta nell’ambiente virtuale (Fig. 71). Questo è
disseminato con una sorta di “punti pesanti” capaci di attrarre secondo diverse forze le
figure iniziali. I nodi iniziano ad interagire fra loro, secondo una forza gravitazionale a loro
conferita. Come è facilmente comprensibile le interazioni possibili sono infinite. Le forze
attrattive deformano le figure iniziali, le quali, a loro volta, influenzano la disposizione dei
punti pesanti in una sorta di azione e retroazione. I nodi si fondono e si alterano a vicenda
e le figure sono deformate secondo combinazioni infinite. Il programma di lavoro approda
alla creazione dello studio di unità abitative. L’elaborazione formale non è fine a se stessa
come avviene nelle monadi di Chu. L’obiettivo è quello di arrivare allo studio di sistemi di
prefabbricazioni in serie variata. I pannelli che formano le diverse soluzioni sono stati
studiati per essere di unica forma e dimensione, ma assemblati in modo infinitamente
vario. L’apertura di porte e finestre avviene esclusivamente attraverso una distorsione
topologica in modo tale che non si debba tagliare la superficie precedentemente formata.
L’approfondimento su Lynn deve necessariamente chiudersi con una riflessione sulla
New York Presbyterian Church, progetto iniziato nel 1999 e terminato negli ultimi mesi del
2001 (Fig. 72). Anche se il risultato formale non è allo stesso livello dei precedenti progetti,
presenta alcuni elementi di notevole interesse che convalidano gli aspetti più teorici e
coraggiosi dell’opera di Lynn. La composizione è basata su una serie di piegature si
superfici topologiche che sono state precedentemente richiamate in questo scritto.
L’importante è riflettere ora sui processi generativi. Lynn, qui, lavora accanto ad altri tre
autori, Michael McInturf e Garofalo Architects.
250
Thomas Cleary, Introduzione, in Sun Tzu, L’arte della guerra, Ubaldini Editore, Roma, 1990, p. 27.
Along with the constant flow of information via simple email programs with attachments, the three
architects envisioned the project with the aid of animation software. This allowed the architects to
define coordinates and surfaces in motion-based environments, where time is a factor. Core volumes
were defined using an early “blob modeler” software (no longer on the market), and subsequently
aggregated into a singular surface, generated from the interacting subunits. The resulting virtual model
was thought of as “live” for practical reasons: as the parameters of the project changed (budget,
material, client needs), the three architects could easily modify the scheme without sacrificing the
251
initial ideas.
Ogni forma di progettazione che Lynn intraprende parte, allora, da quelli che potremo
definire sistemi semi-automatici di generazione della forma. Ciò sta a significare che, pur
parzialmente indipendente dalla volontà del progettista, la forma finale dell’architettura è
composta con una perfetta consapevolezza creatrice da parte dell’autore. In questo senso
possiamo dire che Greg Lynn è a metà strada tra lo stampo modernista di Gehry nella
creazione della forma (intendendo con ciò un uso consapevole della creatività) e alcuni
aspetti inconsapevoli nell’opera di Eisenman, ottenuti grazie ad un uso estremo
dell’elaboratore nel processo progettuale.
3.4. La generazione automatica degli spazi non-euclidei. Peter Eisenman
Nell’indagine sulle modalità di progettazione degli spazi non-euclidei attraverso l’uso del
computer, un posto del tutto particolare va riservato a Peter Eisenman. Ci siamo più volte
soffermati su questo autore nei capitoli precedenti; questa è l’occasione per approfondire
di più i processi metodologici che egli utilizza per creare le sue opere.
Occorre non dimenticare che Eisenman parte sempre da un’elaborazione intellettuale
altamente filosofica. Anticipando alcune conclusioni, è possibile dire che i suoi progetti
sono essenzialmente realizzazioni di un’idea astratta o, in altre parole, la sua architettura
tende a “dimostrare” un’operazione intellettuale. Fondamentale, per comprendere questi
ambiti di pensiero, è il fatto che Eisenman tenda ogni volta a reinventare la metodologia
progettuale. Non desideriamo dare giudizi di valore su questo approccio; certamente il
metodo filosofico è estremamente complesso e denso di risultati teorici di grande rilievo.
Un aspetto poco convincente che tendiamo a rilevare un po’ in tutti i suoi progetti è la loro
estrema astrattezza. Questo accade soprattutto nei lavori non realizzati, ma anche nelle
opere architettoniche il risultato non sfugge quasi mai ad una sorta di programmaticità, di
inconsistenza che tende a lasciar sullo sfondo il senso materiale dell’architettura: essa,
quindi, sembra l’applicazione di una teoria.
Negli anni più recenti, Eisenman ha utilizzato un sistema concettuale basato, con
sfumature diverse, sulla teoria della complessità 252. Per lui, la complessità diviene un
sistema di espressione, più che un semplice ambito culturale e di pensiero 253. Questo
significa che, secondo una formula estremamente celebre e rivoluzionaria, il medium è il
messaggio254. Egli non utilizza questa teoria per trarre spunti concettuali per
un’elaborazione filosofica al servizio dell’architettura. In qualche modo tende a confondere
fini e mezzi e a rendere espressiva la teoria stessa. Essa, altresì, si giustifica da sé, è
sistema di espressione e non ambito di interpretazione. Questo rende l’approccio di
Eisenman radicalmente polemico. L’architettura e l’urbanistica non solo sono affrontati in
termini complessi, ma, ancor più, vengono decostruiti nella loro essenza; queste discipline
si evolvono su se stesse e si rinnovano distruggendo di volta in volta il traguardo
251
Peter Cachola Schmal (a cura di), DigitalReal, Birkhäuser, Basel-Boston-Berlin, 2001, p. 113.
L’argomento, oramai celebre, non ha bisogno di approfondimenti. Basti in questa nota ricordare alcuni dei testi fondamentali per
la comprensione dell’argomento. In particolare: Mario Ceruti (a cura di), La sfida della complessità, Feltrinelli, Milano, 1997; Daniel
Pierre Bovet e Pierluigi Crescenzi, Introduction to the theory of complexity, Prentice Hall, New York [etc.], 1994.
253
Luca Galofaro, Eisenman digitale, Testo & Immagine, Torino, 1999, p. 18.
254
Cfr. con Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano, 1999.
252
raggiunto 255. La pratica della decostruzione è in Eisenman radicale. I sistemi di evoluzione
concettuale che fondano il proprio pensiero critico su processi non lineari 256 e persino
arbitrari. In generale Eisenman non configura luoghi o architetture. Egli si rivolge alla
creazione di spazi (da qui il nostro particolare interesse) che non sono direttamente rivolti
alla creazione di luoghi per l’abitare, bensì sono materializzazioni di idee e concetti astratti.
Questa soluzione è per Eisenman l’espressione della complessità di uno spazio257. In
qualche modo, possiamo affermare che la sua è architettura concettuale, ovvero
progettazione rivolta alla realizzazione non di opere significanti in sé, bensì facenti parte di
un sistema teorico che diviene principale per la comprensione del lavoro. Egli fa propri i
temi dell’arte concettuale che prevede l’attività dell’artista essenzialmente come lavoro
intellettuale, e la cui realizzazione non aggiunge alcunché di significativo. Eisenman
giustifica questo approccio con la perdita progressiva di materialità del mondo
contemporaneo, atteggiamento che abbiamo osservato e tentato di verificare nei capitoli
precedenti 258.
Il processo fondamentale di quest’era consiste nella dissoluzione degli oggetti: essi perdono
materialità e si trasformano in informazioni che, dopo essere state trattate, si traducono in una nuova
259
materialità, nuovi oggetti.
Come verificato in altri autori, e come ci hanno confermato le parole di Luca Molinari
utilizzate come critica alla Cyber-achitettura 260, è possibile dire che il sistema della visione
rappresenta un momento particolarmente significativo per comprendere questo genere di
sperimentazioni. Essa, infatti, non è limitata ad una pura comunicazione di contenuti, ma
sovente incarna il significato. La rappresentazione coincide con i contenuti. La forma
(architettonica) è sempre stata legata al significato che deve avere l’architettura. Questo
legame appare oggi mutato. Il significato sembra essere stato sostituito dagli strumenti
della comunicazione, ostacolo al discorso simbolico e significante 261. La visione, per
Eisenman, è
[...] il sistema di relazioni che definisce le condizioni tipologiche dell’architettura, ed è il modo di
definire una relazione fra un soggetto e un oggetto, un modo di organizzare lo spazio e gli elementi di
262
uno spazio.
Seguendo una lettura semiologica, è possibile affermare che «il meccanismo della visione
forma l’architettura e la sua rappresentazione». Una delle contraddizioni che Eisenman
coglie nel contemporaneo riguarda la sopravvivenza della forma di rappresentazione
prospettica. Essa, quindi, condiziona in senso negativo la visione, relegando lo spazio e
l’architettura in canoni rinascimentali oggi inadeguati. La prassi di rappresentare lo spazio
su una superficie bidimensionale ha influenzato la prassi architettonica tanto da imporre
un’organizzazione spaziale intorno ad assi, punti e simmetrie263. La teoria di Eisenman,
allora, è rivolta a rifondare i modelli di visione dello spazio. Se uno dei punti di maggior
rinnovamento viene dall’introduzione della quarta dimensione temporale all’interno del
sistema di concezione spaziale, Eisenman cerca di attualizzare tale visione al sistema
culturale contemporaneo. Per fare questo, egli introduce la virtualità. «Il suo manipolare le
forme si realizza attraverso lo spazio e non attraverso la materia inerte» 264. Le logiche
255
Luca Galofaro, Eisenman digitale, op. cit., p. 22.
Ibid.
Ivi, p. 58-59.
258
Cfr. Cap. 2, parte prima, di questo scritto.
259
Luca Galofaro, Eisenman digitale, op. cit., p. 59.
260
Cfr. Cap. 2.2., parte prima; in particolare vedasi nota 145.
261
Luca Galofaro, Eisenman digitale, op. cit., p. 10.
262
Ivi, p. 70.
263
Ibid.
264
Ivi, p. 18.
256
257
sono antigerarchiche e tese alla dissoluzione del monocentrismo di carattere prospettico.
Qui ritroviamo un concetto fondamentale di ripiegatura di cui abbiamo già parlato in
precedenza.
Lo spazio ripiegato costruisce un nuovo rapporto fra orizzontale e verticale, figura e piano, interno
ed esterno. L’idea di spazio ripiegato si sottrae all’inquadramento e punta invece su una modulazione
temporale. Lo spazio ripiegato non privilegia più la proiezione planimetrica, ma si traduce in un
265
curvatura variabile.
Sull’idea di piegatura, Eisenman ha composto alcuni dei più recenti progetti con esiti
davvero interessanti, in particolare lo Staten Island di New York 266. Ogni scelta, i risultati
spaziali sono obiettivamente antigerarchici, anche se il risultato finale non riesce mai a
raggiungere la consistenza dell’architettura. Di certo, questa composizione è per la nostra
trattazione fondamentale, poiché ragiona in termini assai propositivi sul concetto di spazio,
uno spazio ripiegato appunto. Insistiamo su questi aspetti teorici perché tutti fanno parte di
una metodologia estremamente importante della creazione. Basta infatti approfondire le
procedure di analisi che l’architetto americano utilizza per lo studio dei frattali e del DNA
come strumenti di generazione di spazio per comprendere come egli intenda rifondare la
procedura operativa di ideazione di luogo 267. Se la concezione razionale dell’architettura
ha dominato l’approccio progettuale del Movimento Moderno, in questo caso Eisenman si
rivolge alle conquiste attuali della scienza e della biologia molecolare. Ma Eisenman và
anche oltre. Egli supera le operazioni booleane di composizione di forma. All’algebra di
Boole si sostituisce una geometria biologica268. Il DNA e i frattali assumono nel loro
sviluppo casuale una metodologia di funzionamento del sistema di relazioni progettuali e
di generazione di uno spazio. L’interesse è verso la ricorsività e la molteplicità. Egli
dimentica lo stato perfetto dell’essere per rivolgersi a quello imperfetto del divenire 269.
Ancora una volta riconduciamo questo paragrafo alla pratica del fare. Eisenman in questa
stagione creativa opera, attraverso la poetica del DNA e dei frattali, attraverso tre
procedure operative: replica, trascrizione e translazione. Il risultato si trova nella
progettazione dei Laboratori Biologici dell’Università Goethe di Francoforte sul Meno del
1987 (Fig. 73). Su una spina centrale, egli articola geometrie complesse che si sviluppano
a “U” e a “V”. Essa è una vera e propria metodologia di sviluppo. Aderendo allo sviluppo
biologico, egli indica «[...] la regola della futura crescita dell’organismo [...]» 270 ed elabora
le necessarie eccezioni. La metafora biologica è, quindi, una metodologia operativa
analoga al procedimento bionico, ma basato su operazioni intellettuali più funamboliche e
concettuali. In realtà, non siamo di fronte ad un vero e proprio metodo progettuale. Il
compito dello studio Eisenman è, dapprima, quello di ricercare di volta in volta possibili
significati da cui far scaturire il progetto. Davanti ad un compito di carattere architettonico,
il processo di progettazione inizia da molto lontano. La ricerca avviene in libri, architettura
locale e quant’altro. Tutto si tramuta nella ricerca di soluzioni di carattere teorico che
dovrebbero indicare una nuova metodologia progettuale. In sostanza, siamo di fronte ad
un problema di traduzione271 in cui l’apparato teorico desunto dalla cultura del luogo viene
ad essere trasformato in processo di progetto. Solo successivamente a questa parte
teorica l’attenzione si concentra sulla questione della localizzazione. I modelli dell’area
sono sia strategia conoscitiva e sia strategia creativa. Non è un’operazione meccanica di
supporto, bensì costituisce un momento fondamentale di ogni fase di progetto.
265
Peter Eisenman, Vision Unfolding: Architecture in the Age of Electronic, in «Domus», n. 734, gennaio 1992.
Cfr. la descrizione del progetto nel Cap. 2.2., parte prima.
267
Cfr. con Luca Galofaro, Eisenman digitale, op. cit., Antonino Saggio, Peter Eisenman, Testo & Immagine, Torino, 1996 e
soprattutto il difficile scritto Peter Eisenman, Diagram Diaries , Universe, New York, 1999.
268
Antonino Saggio, Peter Eisenman, op. cit., p. 47.
269
Ibid.
270
Ibid.
271
Luca Galofaro, Eisenman digitale, op. cit., p. 27.
266
L’elaborazione attraverso il computer è, in verità, un’estensione di questo procedimento.
Il modello informatico è da considerarsi al pari di un modello di studio e capace di portare
senso all’architettura. È fondamentale analizzare il processo (certo concettuoso e forse
inutilmente complicato) di progettazione attraverso l’elaboratore. Se Gehry agiva con il
computer come strumento di traduzione dell’idea scultorea in ambito virtuale, Eisenman lo
utilizza come elemento dotato di imprevedibilità. Il computer offre soluzioni impreviste
ampliando le possibilità creative. Questo, per Eisenman, potrà cambiare lo spazio in cui
viviamo272. Progettare con il computer tramuta il processo dal «disegnare assi» al
«disegnare vettori». Questi hanno la capacità di esprimere concetti e modellare spazio,
attraverso un processo spesso imprevedibile 273.
[...] La macchina trascrive i vettori aggiornando i parametri temporalmente, legandoli fra loro e
raggiungendo traguardi espressivi inaspettati. Nel progetto per una casa virtuale, per esempio,
s’individua come sito di progetto un campo a intensità variabile. La condizione del campo è un
assemblaggio di punti e linee, i cui contorni risultano da un’azione-reazione di vincoli interni prodotti
dalla macchina. Con queste condizioni si produce la figura in relazione ai vettori e al tempo.
[...]
Nella quotidianità della progettazione il dialogo avviene fra due differenti modelli di sviluppo
progettuale; i modelli tridimensionali sono costantemente prodotti, ma sempre dopo la
concettualizzazione, che avviene al computer in un processo di affinamento continuo. Il computer
diventa la materializzazione del pensiero, che è ancora lontano da una possibile realizzazione
274
architettonica, ma che necessita di essere visualizzato [...].
Il passo appena citato, descrivendo i processi creativi (peraltro un po’ oscuri) di
Eisenman, risulta essere particolarmente interessante perché suggerisce alcune regole
procedurali nella prassi operativa dell’architetto americano. Il computer diviene strumento
che suggerisce possibili soluzioni. Esso è capace di suscitare sorpresa nel progettista,
relegato al ruolo di co-autore dell’architettura. Non occorre soffermarsi eccessivamente
sulla descrizione di questa particolare operazione concettuale. Ciò che è importante
rilevare è il metodo operativo con il computer. Il comEsso appartiene ad un nuovo modello
di pensiero e anche le opere che possono scaturire posseggono una nuova tipologia di
possibilità. In altre parole, le opere generate con l’ausilio del “computer creatore” hanno
una natura diversa da quella tradizionale. Il computer può inserire alcuni elementi di
disturbo che alterano la volontà iniziale (e le possibilità) del progettista. La macchina pone
vincoli, indipendenti dalle condizioni iniziali; con essi il progettista interagisce. La domanda
ora è: come mai introdurre vincoli aggiuntivi a quelli già imposti dalla normale pratica
edilizia? La risposta non è chiara, né contenuta negli scritti di Eisenman o in altre
trattazioni. Posso qui suggerire un’ipotesi. Il computer, come nuovo strumento, genera
pratiche operative di nuovo tipo capaci di ideare, per Eisenman, un nuovo mondo e nuove
modalità interpretative della realtà. Il generare vincoli, quindi, da parte del computer può
essere letto come necessità di stabilire inedite regole di composizione, nelle quali i vincoli
reali sono sostituiti da quelli virtuali imposti dalla macchina come arma per eludere la
libertà assoluta nella composizione . Tale interpretazione è confermata anche da un altro
aspetto della filosofia di Eisenman. Il computer è destinato a rivoluzionare il sistema di
visione. Una buona definizione è quella che stabilisce la visione come un processo per
mezzo del quale un soggetto ha una rappresentazione del mondo situato davanti ai suoi
occhi 275. Senza entrare nei dettagli di questo processo, Eisenman, giustamente, sottolinea
come il processo di visione sia stato sostanzialmente alterato dall’introduzione dello
strumento informatico. Infatti, in ambito architettonico, la visione è il modo di definire le
relazioni fra un soggetto e un oggetto , un modo di organizzare lo spazio e gli elementi
272
Ivi, p. 59.
Ibid.
274
Ibid.
275
Voce «Visione», Enciclopedia Multimediale Rizzoli Laorusse, op. cit.
273
dello spazio 276. Il modello informatico, in qualche modo, porta alle estreme conseguenze la
teoria benjaminiana di riproducibilità. Il filosofo berlinese per primo colse il carattere della
nuova sociologia dell’arte nella società di massa. La perdita dell’«aura» (ossia del venir
meno della qualità magico-rituale del prodotto estetico) fa sprofondare ogni opera estetica
in oggetto di consumo in quando perde il suo carattere di unicità. Una conseguenza più
sottile della mera riproducibilità è da considerarsi nell’abitudine alla visione 277. La
moltiplicazione di un’immagine o di un oggetto avvilisce l’impatto emotivo che, soggetto ad
una continua sollecitazione, perde il carattere di rarità per uniformarsi a quello di
omologazione. Se questo è vero nell’ambito artistico e nella società moderna, la questione
informatica ha posto il problema su scale sostanzialmente diverse e di portata ben più
vasta. Come sottolinea Galofaro, anche la visione segue i processi di perdita dell’«aura»
evidenziati da Benjamin. Nella visione, l’interazione tra uomo e oggetto si svaluta;
[...] Il paradigma elettronico svaluta l’originale, produce la copia, creando nuovi parametri, un nuovo
278
modo di interpretare e leggere la realtà.
La riflessione di Eisenman è riguardo alla natura della percezione attraverso i media.
Egli sottolinea la differente natura della percezione della realtà:
i media mettono in forse il come e il cosa noi vediamo.
279
In base a questa affermazione di Eisenman, riteniamo il suo contributo fondamentale per
la nostra trattazione. In effetti, egli coglie fra i primi il problema della nuova natura della
visione nell’epoca informatica. Il senso di spazio che ci ha accompagnato per tutto questo
scritto non è più limitato alla percezione del fisico, ma estende, al contrario, il suo influsso
anche al virtuale. Eisenman pone le basi per un’apertura del sistema percettivo anche a
ciò che fisico non è, collocandolo sullo stesso livello del primo termine e considerandolo
anch’esso come reale. L’aspetto rivoluzionario è in Eisenman molto forte. Egli dipinge il
passaggio all’epoca informatica con i toni di un profeta e, pertanto, lontano dall’asciuttezza
e dalla credibilità dello studioso. Ecco perché le sue parole devono essere prese con una
certa cautela. Nonostante la visionarietà delle sue parole, ritengo valide alcune
implicazioni contenute nel suo lavoro teorico. Eisenman ci conduce all’idea che il computer
altera le realtà oggettive trasformandole in qualcosa di nuovo del tutto differenti da ciò che
è conosciuto, aprendo nuovi orizzonti all’immaginazione.
Azzardiamo ad una conclusione parziale. Se Gehry concepisce il computer come
strumento al servizio della realizzazione, Eisenman lo vede come strumento filosofico. Per
questo motivo le procedure operative appaiono tanto complicate (e non complesse, come
sottolinea Umberto Galimberti in alcuni saggi dedicati alla cultura contemporanea).
Implicite nelle affermazioni di Peter Eisenman sono alcune posizioni estreme. La sua
pratica operativa e i suoi scritti portano direttamente alla conclusione che il «paradigma
elettronico lancia una sfida all’architettura»280, volontariamente confondendo la divisione
tra architettura reale e spazio virtuale. Tuttavia non è questo che importa. Certe posizioni
sono certamente programmatiche e, come tali, utilizzate per fondare implicazioni
ideologiche. Nelle precedenti pagine ho accennato ad un nuovo sistema di visione che lo
strumento elettronico ha fatto scaturire. Il problema, in Eisenman, nasce dallo studio della
prospettiva in Piranesi, capitolo molto vasto e importante nella produzione del Maestro.
Egli rileva come il sistema di rappresentazione rinascimentale abbia influenzato
cinquecento anni di pratica progettuale, determinandone la natura. Ora
276
Luca Galofaro, Eisenman digitale, op. cit., p. 70.
Cfr. Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 1991.
278
Luca Galofaro, Eisenman digitale, op. cit., p. 70.
279
Cfr. Peter Eisenman, intervista ne «Il Progetto», n. 1, 1997.
280
Luca Galofaro, Eisenman digitale, op. cit., p. 70.
277
[...] la prospettiva non è più il mezzo che guida il fare architettura. Le nuove tecnologie forniscono
281
la chiave del cambiamento [...].
Esse non soltanto influenzano l’atto creativo con le nuove potenzialità, bensì plasmano le
forme di edifici e città, gestendone funzionalmente gli spazi. Contemporaneamente il
computer ci permette di creare, gestire, pensare, disegnare. In Eisenman il computer è
uno dei punti di partenza per concepire forme e, contemporaneamente, strumento pratico
per gestire la complessità di superfici altrimenti non misurabili 282. Il concetto parte dal fatto
che l’elaboratore è l’unico strumento capace di rappresentare correttamente la
complessità della forma. Per espressa dichiarazione di Eisenman (ma della quale
personalmente metto in dubbio la sincerità) uno dei punti della sua architettura è il
coinvolgimento del corpo nella progettazione degli spazi. Il passaggio interessante è
l’ammissione che anche l’interattività è contatto.
[...] Si devono ripensare tutti i significati delle estensioni tecnologiche, che non devono più essere
considerate come semplici ausili al nostro progettare, ma come forme e sistemi di pensiero capaci di
283
generare spazio attraverso la simulazione.
L’idea di spazio di Eisenman è continuamente rovesciata. Studiando lo spazio
piranesiano, egli nota come l’osservatore sia posto nello spazio. Eisenman, al contrario,
decostruisce questa gerarchia ponendosi contemporaneamente all’interno e all’esterno. Il
computer gli permette di seguire percorsi paralleli che si influenzano reciprocamente. Il
metodo seguito è il movimento, consentito dallo strumento elettronico. Dal punto di
osservazione monocentrico, Eisenman elabora piani successivi di sequenze temporali.
Questo non significa tuttavia creare un effetto cinematografico. Egli si indirizza, al
contrario, su una tecnica di “variazione della forma” ottenuta attraverso il morphing
(tecnica, come visto, usata anche da Greg Lynn). Il movimento, allora, non è cinematica,
ma trasmutazione di una forma in un’altra. Nel progetto del Klingelhofer Triangle di Berlino
(1995), Eisenman mette in relazione figure diverse e decisamente sorprendenti
(dadaismo?): un orologio e un chip per computer (Fig. 74). Successivamente, attraverso la
tecnica del morphing, la prima tende a mutare nell’altra, senza che nessuna delle due
prevalga o sia perfettamente riconoscibile. Il dinamismo è considerato attraverso una
nuova natura, la trasformazione di forme. Insistiamo su questo processo perché
rappresenta uno dei procedimenti essenziali nella produzione di Eisenman nella
generazione dello spazio.
Eisenman propone un sistema urbanistico che si basa sul concetto piranesiano di relazione tra
figure nel suo progetto per il Klingelhofer Triangle a Berlino, ma a differenza dell’invenzione
piranesiana per Campo Marzio il suo sistema non è basato sulla reinterpretazione di forme classiche
romane; prende invece spunto dallo sviluppo del pensiero contemporaneo, e in particolar modo da
quella che può essere considerata la profonda trasformazione delle forme dell’era meccanica all’era
dell’informazione. [...]
Piranesi si serve dell’architettura romana, Eisenman di una tecnica usata nel cinema
contemporaneo chiamata morphing, che è adottata come tecnica di trasformazione, un sistema
capace di modificare le figure scelte in modo che nessuna risulti dominante sull’altra; non più un
284
rapporto tra figura e terreno [...].
281
Ivi, p. 15.
È quanto avvenuto nella realizzazione dell’Aronoff Center. Adottando un sistema di puntatori al laser, l’impresa costruttrice è
riuscita a posizionare la complessa planimetria dell’edificio sul territorio. Il sistema di puntatori è solo un esempio della gestione del
progetto utilizzata da Eisenman con l’ausilio del computer. Tale sistema non è certo nuovo. Solo un esempio: Reima Pietilä nella
residenza presidenziale Mica Moraine nei pressi di Helsinki del 1985-’93, utilizzò un analogo sistema di puntatori. Eisenman non è in
questo particolarmente innovativo, se non nel fatto che il computer diviene uno strumento globale di ideazione dell’architettura, sia
come strumento di generazione spaziale, sia dal punto di vista realizzativo.
283
Luca Galofaro, Eisenman digitale, op. cit., p. 58.
284
Ivi, p. 19.
282
Ci siamo imposti il compito di indagare i processi formativi dell’idea di spazio e, ora, di
indagare le pratiche operative. Eisenman ha iniziato il progetto per Klingelhofer Triangle di
Berlino con la tecnica della trasmutazione di forme dal moderno al contemporaneo. Il
significato è da ricercarsi nella volontà di far rinascere l’architettura fuori dai dogmi
riconosciuti 285. Il progetto è sviluppato a partire da diagrammi 286 che agisce sul luogo a
partire da due scale di intervento: la prima è al livello della città, dove il morphing è
utilizzato per creare nuove relazioni con i centri fondamentali della città. Così, sovrapposta
alla realtà materiale urbana, Eisenman individua nuove trame. La seconda scala avviene a
livello dell’isolato, processo che coinvolge nuovi modi dell’abitare. Egli ripensa il rapporto
tra spazio pubblico e privato, ottimizzando lo sfruttamento delle aree libere. Il metodo offre
una flessibilità totale e un metodo che agisce direttamente sulle altezze, sulla trasparenza, sulla
287
densità e sul programma piuttosto che sulla forma.
Un analogo processo di elaborazione è stato utilizzato nel raddoppiamento della
consistenza nell’Aronoff Center (il primo progetto che ha utilizzato la gestione elettronica
dei diagrammi in un progetto architettonico di Eisenman) ottenendo come risultato un
sistema dotato di grande fluidità. Morphing e diagrammi di collegamento offrono come
effetto il passaggio armonioso di una forma in un’altra, di uno spazio in qualcosa di
diverso.
Più in generale, Eisenman segue una tendenza abbastanza comune che vede la
diffusione delle forme non-euclidee grazie alla facilità offerta dal computer. Le geometrie
intuitive e topologiche, quindi, rappresentano un po’ i due poli di questo problema.
L’utilizzo da parte di Eisenman delle seconde è una scelta dettata dalla volontà di giungere
ad una chiara percezione degli oggetti implicati nella relazione spaziale. L’interesse è
verso le relazioni reciproche tra forme, tra sistemi che interagiscono tra loro. In effetti, se si
volesse trovare un aspetto particolarmente importante in Eisenman, questo riguarda la
volontà, sempre, di creare relazioni. Ciò avviene nel momento della contestualizzazione
del progetto, nella ricerca degli aspetti culturali che soggiacciono alla creazione
dell’architettura, alla volontà di definire trame complesse che pongono la semplice
architettura all’interno di una maglia di maggiori dimensioni. Tale aspetto - che appartiene,
per inciso, anche a Daniel Libeskind 288 - intende inserire in maniera inequivocabile un
progetto nel contesto, non limitandosi ad aspetti formalisti o di interpretazione della cultura
locale o delle tipologie esistenti. L’operazione di Eisenman (e Libeskind) è di natura
intellettuale, ma non per questo priva di suggestione, anche se non si allontana mai da
una certa concettuosità. Se il processo generativo è comune tra Eisenman e Libeskind,
completamente differente è la gestione delle fasi successive al progetto. Qui troviamo la
grande novità di Eisenman che utilizza il computer come elemento determinante nella
creazione di forma. Al contrario di Libeskind - che utilizza un approccio decostruttivo al
progetto, ma con un uso Moderno degli strumenti di progettazione -, Eisenman demanda
quasi tutto l’aspetto compositivo al computer;
I suoi spazi coinvolgono emotivamente l’uomo costretto a reinventare i propri riferimenti, e
quest’invenzione è preordinata in ogni fase del processo ed è modificata dal computer, che amplifica il
289
tentativo di destabilizzare.
285
Ivi, p. 22.
Cfr. Peter Eisenman, Diagram Diaries , op. cit.
287
Luca Galofaro, Eisenman digitale, op. cit., p. 22.
288
Cfr. con Livio Sacchi, Daniel Libeskind. Museo ebraico, Berlino, Testo & Immagine, Torino, 1998, in particolare vedasi la
descrizione delle trame che Libeskind effettua nella generazione della forma del Museo ebraico. Le matrici generative delle linee sono
molto simili a quelle che Eisenman utilizza nel progetto del Klingelhofer Triangle sempre a Berlino. Cfr. anche Daniel Libeskind,
Between the Lines, in Erweiterung des Berlin Museums mit Abteilung Jüdisches Museum, Feireiss, Kirstin, Berlin, 1992.
289
Luca Galofaro, Eisenman digitale, op. cit., p. 75.
286
Per approfondire di più la pratica di Eisenman con l’uso del computer occorre
brevemente riferirsi alle operazioni booleane che egli utilizza nella composizione di forme.
L’algebra binaria della geometria booleana è alla base dell’utilizzo dei computer. Con essa
si possono creare molteplici sistemi di assi derivati dall’unione di vertici e lati, effettuare
translazioni, sommare o sottrarre 290 qualunque forma primitiva euclidea per ottenere altre
figure non classificate tra i solidi platonici. È importante in questo momento rilevare come
l’algebra booleana non abbia ancora la complessità delle geometrie non-euclidee. In
realtà, la libertà intrinseca nell’elaborazione topologica delle forme, non appartiene alla
geometria booleana. In effetti, per semplicità di trattazione, si possono considerare le
geometrie booleane come il primo passo compiuto nell’informatica verso l’elaborazione di
forme complesse.
Come sottolinea Antonino Saggio, l’algebra di Boole venne utilizzata da Eisenman nella
creazione del Carnegie Mellon Research Center di Pittsburgh del 1987-’88 (Fig. 75). In
questi anni l’utilizzo del computer era ancora grandemente immaturo e l’uso della
“semplice” algebra di Boole rappresentava, allora, la punta più avanzata della ricerca
dell’elaborazione di forma con il computer. Il procedimento di addizione, sottrazione e
intersezione è assolutamente chiaro nella lettura del progetto. Di questo lavoro è
interessante la prima elaborazione che
[...] si confrontava con la sinuosità del fiume (attraverso due linee di cubi di scala e di altezza
diverse, che si sovrapponevano parzialmente in un doppio spessore), si riduce progressivamente di
dimensione e, al contempo, diviene più complesso plasticamente (con una serie di operazioni di
sottrazione, incastro e intersezione e una serie di strutture filiformi a ricordare le forme degli altri prismi
291
virtuali) [...].
Non occorre andare oltre in questa descrizione. La metodologia è talmente elementare
che non richiede ulteriori approfondimenti.
Procediamo oltre nell’indagine sul modus operandi di Eisenman considerando le attuali
implicazioni con l’uso del computer. Una delle fondamentali categorie che Eisenman
utilizza è certamente lo spazio. Ma esso è elaborato in maniera duplice attraverso modelli
fisici e modelli elettronici che dialogano costantemente. La modellazione è strategia
creativa e conoscitiva e costituisce un ponte teorico della massima importanza.
Più in dettaglio. I modelli utilizzati da Eisenman sono di tre tipi: plastici, modelli
diagrammatici e plastici informatici. L’analisi dettagliata di queste pratiche è importante per
comprenderne la pratica operativa. In sostanza, i modelli servono, come ovvio, per
visualizzare e per seguire l’evoluzione dell’edificio da realizzare. Inizia così un circuito
creativo tra atto cognitivo-percettivo e intervento figurativo-operativo. L’importanza di
questa fase è sottolineato dal fatto che Eisenman tende ad eliminare la differenza tra
modelli e architettura, confondendone la natura. Questo aspetto, pur criticabile, fa parte di
una metodologia stimolante nel suo insieme. I plastici fisici sono accostati a quelli digitali
e, grazie all’uso della fotografia digitale e della microfotografia, si può offrire un’indagine
estremamente verosimile dell’idea di spazio elaborata. Occorrere fare una breve nota a
quanto detto. Come sottolineano continuamente le aziende software nel momento della
presentazione di un CAAD, uno dei fattori principali che può determinare l’appetibilità di un
programma è la capacità che questo ha di offrire immagini fotorealistiche dell’architettura
digitale. La ricerca della verosimiglianza è, allora, un fatto puramente tecnico e, come tale,
assai poco interessante per questa trattazione. Eisenman, infatti, intende la
verosimiglianza in tutt’altro modo. Il suo interesse riguarda la possibilità di prefigurare
spazio non-euclideo in modo comprensibile, e non come apparato fotorealistico.
290
291
Le operazioni booleane sono essenzialmente tre: incastro, sottrazione e intersezione.
Antonino Saggio, Peter Eisenman, op. cit., p. 46.
L’utilizzo dei plastici è affiancato a quello dei modelli diagrammatici non iconici. Essi
sono strumenti che non hanno alcuna attinenza rispetto alla figuratività dell’architettura,
non rappresentano nulla, ma sono strumento teorico di composizione. I modelli
diagrammatici sono elaborati per raffigurare analiticamente questioni attinenti alla
localizzazione delle funzioni di un edificio e alle connessioni fra esse. In questo caso
l’interesse è rivolto alle logiche di funzionamento, ma (rigorosamente) ininfluenti in fatto di
forma. Gli altri diagrammi filosofico-scientifici o matematici costituiscono la struttura
formale del progetto. Ci sembra di intuire (siamo abituati alla nebulosità delle parole di
Eisenman) come questi ultimi due diagrammi siano utilizzati come diagrammi di
deformazione. Di volta in volta, essi sono basati sui frattali, sui cristalli liquidi, sul DNA,
sulla teoria del caos o delle catastrofi, sugli atomi di Leibniz. Nel caso, ad esempio, del
progetto di concorso per una Chiesa a Roma per l’Anno 2000 (Fig. 76), Eisenman utilizza
dei diagrammi di deformazione generati dall’alterazione dei cristalli liquidi nella loro
condizione di sospensione tra cristallo statico e stato liquido. Queste alterazioni sono
capaci di modellare lo spazio, seguendo, tuttavia, le implicazioni filosofiche insite nei
concetti poetici di rapporto tra vicinanza e distanza contenuti nell’idea di pellegrinaggio
Cristiano e, in altri termini, del rapporto tra Dio e la Natura. Così, una volta definiti, i
diagrammi di deformazione (siano essi derivati dai cristalli liquidi o da altro ancora) sono
sovrapposti a quelli tipologici, e dalla reciproca influenza nasce la forma dello spazio. Il
computer, quindi, è utilizzato per la gestione di questi sistemi di autorganizzazione, di
disposizione caotica dei cristalli. Essi delineano lo spazio del vissuto. L’ultima fase
nell’elaborazione riguarda i modelli informatici, utilizzati nell’ottica di un’architettura rivolta
ad inventare forme e spazi. Il computer è, contemporaneamente, strumento comunicativo
e di gestione delle elaborazioni. Esso agisce, in pratica, sui diagrammi, mentre l’operatore
ne stabilisce sviluppi e genesi. L’elaboratore controlla le forme, stabilisce criteri di sintesi,
modifica e confronta in tempi estremamente brevi le differenti soluzioni in un processo di
lavoro che continua a ritornare su se stesso.
La conclusione sull’opera di Eisenman coinvolge l’idea di architettura elettronica. Essa è
una «sperimentazione raggiunta in architettura attraverso le tecniche elettroniche» 292.
Come sottolineato in precedenza, il punto cruciale riguarda il sistema di rappresentazione.
Eisenman tenta di adeguare le nuove possibilità rappresentative dello spazio attraverso
l’ausilio del computer con una adeguato rinnovamento concettuale e nell’uso metodologico
dello strumento. Il computer, per Eisenman, può diventare un nuovo sistema concettuale,
con le proprie regole e potenzialità. Il virtuale in architettura non deve essere letto come
una trasposizione o simulacro della realtà o, peggio, simulazione della fisicità
dell’architettura. Egli opta per una prefigurazione di una possibilità fisica futura. La forma è
una possibilità futura, non il contrario del reale, una seconda natura che anticipa le
possibilità di costruzione, mantenendo in sé tutta la teoria che, all’atto della costruzione,
verrebbe a cadere.
292
Luca Galofaro, Eisenman digitale, op. cit., p. 50.
Fig. 64: Frank O. Gehry, Guggenheim Museum, Bilbao, Spagna, 1991-‚97
Fig. 65: Frank O. Gehry, Uffici Chiat-Day-Mojo, Venice, California, 1986-’91
Fig. 66: Modelli di studio per il Guggenheim Museum di Bilbao di Frank O. Gehry
Fig. 67: Modelli tridimensionali del Guggenheim Museum di Bilbao
Fig. 68: Frank O. Gehry, Vila Olimpica, Barcellona, Spagna, 1989.
Fig. 69: Frank O. Gehry, Childrens’s Museum, Boston, 1992-’96.
Fig.70: Greg Lynn, Port Authority Gateway, 1995
Fig. 71: Greg Lynn, Embriological House
Fig. 72: Greg Lynn, New York Presbyterian Church, 1999-2002
Fig. 73: Peter Eisenman, Laboratori Biologici dell’Università Goethe,i Francoforte sul Meno, 1987
Fig. 74: Peter Eisenman, Klingelhofer Triangle, Berlino, 1995
Fig. 75: Peter Eisenman, Carnegie Mellon Research Center, Pittsburgh, 1987-’88
Fig. 76: Peter Eisenman, Chiesa a Roma per l’Anno 2000
CONCLUSIONI GENERALI
Capitolo 4
Il rinnovamento della pratica operativa nella
progettazione degli spazi non-euclidei con il computer
Per comprendere compiutamente il senso generale di questo scritto occorre
considerare come il problema della progettazione degli spazi non-euclidei attraverso l’uso
del computer non sia un processo di matrice moderna. I criteri di soluzione di questo
problema utilizzano logiche sostanzialmente differenti e le soluzioni sono apparentemente
molto distanti da un consueto processo di progettazione architettonica. I risultati, infine,
posseggono una sorta di inquietante straneamento che tende a far perdere le consuete
coordinate consolatorie di un progetto di architettura. Questo aspetto così difficile da
comprendere risiede non tanto nelle potenzialità insiste nello strumento informatico. Il
computer è solamente un mezzo - più sofisticato di altri forse - per raggiungere un fine.
Riteniamo che la motivazione più profonda risieda nella generazione di una nuova cultura
che diviene sistema all’interno del quale la progettazione di spazi viene ad essere
collocata.
Uno dei concetti più pregnanti, allora, è da ritrovarsi nel fatto che non è più possibile
parlare di architettura costruita come unico luogo nel quale si manifesta l’esperienza dello
spazio della percezione. Esso può essere individuato anche in tutta quella numerosa serie
di esperienze di luoghi virtuali. La difficoltà di questo aspetto è fondamentale. In sostanza,
è possibile dire che l’idea di spazio con il quale l’individuo si confronta non è più limitabile
a luoghi fisici, ma anche a sistemi che vivono solamente nella memoria di un computer o
nelle immagini di uno schermo. Esse sono, senz’ombra di dubbio, due cose differenti, ma
facenti parte di un unico sistema culturale che noi, in questo scritto, abbiamo definito come
cultura Cyber. Essa non è solamente capace di produrre videogiochi o assurdità virtuali,
bensì è un contenitore più ampio che raccoglie tutte le infinite manifestazioni di una cultura
globale.
Tale situazione è in grado di suggerire la grande varietà del fenomeno. L’analisi
condotta ha evidenziato come alcune poetiche di architetti e artisti siano strettamente
connesse con ricerche in campo aerospaziale, militare o matematico. E tutto si manifesta
anche nell’impossibilità di individuare un unico movimento di architettura che racchiuda in
un calderone unificante tutte le esperienze in precedenza citate. In altre parole, quando si
parla di Cyber-architettura si pongono l’uno accanto all’altro autori con poetiche, linguaggi,
visioni, differenti. Non troviamo più un sistema di -ismi di stampo framptoniano. Il
problema, quindi, diviene di individuare tracce comuni per approcci diversi. Il filo rosso che
abbiamo individuato rimane esclusivamente l’uso del computer per creare spazi noneuclidei.
Pertanto, gli esiti e i percorsi per poter arrivare a questo obiettivo sono molto distanti gli
uni dagli altri. Se analizziamo i differenti autori che hanno progettato e anche costruito
spazi non-euclidei, scopriamo risultati diversissimi, talvolta di grande disparità qualitativa.
L’importante è aver individuato un sistema di pensiero soggiacente.
Uno particolarmente importante è la perdita di forma. Con questa definizione abbiamo
inteso individuare una corrente che si rivolge prepotentemente verso l’informale. Questo
termine individua una precisa categoria in campo artistico, ma può essere usata con
profitto anche nel nostro ambito. Ciò perché la Cyber-architettura utilizza
approfonditamente sia processi derivati dalla scienza, dall’arte, ma anche da una nuova
cultura visiva assolutamente particolare; essa tende a non proporre distinzioni tra gli
aspetti più banali della comune produzione di massa da quelli più colti ed elitari. Un
parallelo estremamente fecondo per la comprensione di questi processi di azione sulla
forma deriva dal bricolage, analizzato nel capitolo 2. Tale approccio al fare è oramai un
classico nei processi in interpretazione della cultura di un luogo. In questo scritto, è stato
ampiamente utilizzato per comprendere i processi operativi di molti autori. Qui, i materiali
eterogenei, le tecniche composite, l’apparente disordine che sfocia, poi, in un ordine a
sorpresa, è tradotto in termini di frammenti elettronici, immagini digitali, deformazioni
generate con il computer, l’uso del morphing e quant’altro l’elaboratore consente di
utilizzare. In entrambi i casi troviamo un atteggiamento manipolativo di particelle
decontestualizzate. Il risultato è un oggetto composto alla somma di parti differenti,
riaggregate nella generazione di un nuovo senso.
Il processo, particolarmente interessante nel lavoro di Eisenman, si basa sulla perdita di
metodo nella cultura della previsione. Tale atteggiamento parte dalla considerazione che il
mondo contemporaneo sia assolutamente imprevedibile a causa della sua complessità.
Bricolage e simulazione sono strumenti assai simili e capaci di essere un mezzo potente di
prefigurazione di un sistema complesso. La possibilità di prefigurare è essenziale in
questo mondo concettuale basato sulla produzione di forme. Tuttavia, giudicare l’attuale
generazione di spazi non-euclidei semplicemente come forma rappresenta un aspetto
puramente superficiale che nasconde un problema ed una complessità maggiori. La
prefigurazione, dicevamo, diviene una necessità laddove esista una articolazione
morfologica di alto livello. Questo aspetto suggerisce come esista un sistema concettuale
capace di supportare una simile produzione, ben lungi dall’essere un superficiale delirio
visionario.
Non a caso, uno dei problemi essenziali che ci siamo trovati a dipanare riguarda il
definire i risultati prodotti dalla Cyber-architettura. Un giudizio finale è quello di un sistema
di pensiero filosofico e figurativo rivolto alla definizione di una nuova natura di spazio. Il
caso non è molto dissimile da quelle esperienze di architettura classificate nella storia
della critica come utopie. Senza entrare nel dettaglio, è possibile stabilire una regola
generale che identifica tutti i periodi utopici con alcuni caratteri simili. Il punto sostanziale è
l’aver ereditato una serie di inquietudini nate dalla fine di un mondo culturale non più
attuale ed incapace di rispondere alle mutate esigenze di una società in rapido
cambiamento. Gli architetti visionari del tardo Settecento, o alcune avanguardie storiche
dell’inizio del Novecento, le utopie Radical degli anni settanta del XX secolo, avevano tutti
manifestato un disagio espresso da architetture volutamente impossibili o bizzarre.
Desideriamo evitare ogni forma di discussione sul fatto se esse fossero o meno
architettura. Il nodo che rimane inequivocabile è che ogni epoca sopra citata ha introdotto,
attraverso questi sogni (o incubi che siano), un’innovazione della concezione
dell’architettura che ha generato un nuovo sistema figurativo che si è riversato su una
radicale rivoluzione del mondo architettonico.
La Cyber-architettura presenta alcuni caratteri che tendono a collocarla in queste forme
di delirio che anticipano sostanziali innovazioni in ambito culturale. Non è possibile dire,
allo stato attuale della critica architettonica, se sia lecito parlare di rivoluzione prossima
ventura manifestata dalle invenzioni dell’architettura virtuale. Un aspetto certo che è stato
più volte confermato dallo studio svolto è che l’ambito della cultura Cyber presenta
un’unità molto forte. La Cyber-architettura è una delle espressioni di un sistema più ampio,
dotato di grande complessità, e di incoerenza. La produzione di tutti gli autori analizzati
rientra in un unico mondo, fortemente articolato e dotato di diverso spessore. Lo sforzo è
stato quello di dimostrarne l’unicità.
Un punto che in modo inequivocabile caratterizza tutte le diverse manifestazioni è
l’immaterialità. Sia per gli autori che propongono forme destinate a rimanere virtuali, sia
per gli architetti che, attraverso elaborati processi mentali, arrivano a creare architetture
costruite, esiste come punto comune il desiderio di costituire un nuovo repertorio formale
basato su un’estrema elaborazione di principi impliciti nel Decostruttivismo. Non siamo
parlando di un mondo figurativo, quindi, ma di un sistema filosofico basato sulla destrutturazione di processi di pensiero e sull’alterazione dei processi logici in funzione di
una creatività basata sul corto circuito. Da qui, esistono dei fili conduttori che il mondo
post-moderno ha sviluppato in modo autonomo generando, appunto, il sistema culturale
Cyber. Una delle tesi sottese a questo scritto è che esista una continuità fortissima tra
decostruzione e Cyber-cultura. Le forme generate attraverso l’elaboratore presentano una
complessità estrema. Questo mondo figurativo, pur presentando matrici autonome, è in
diretta continuità con il decostruttivismo in architettura. Non è un caso che molto autori,
storicamente collocabili come maestri del decostruttivismo, siano divenuti figure cardine
nella comprensione della Cyber-architettura. Questi maestri hanno apportato un contributo
fondamentale a tutti coloro che, più giovani, costituiscono l’attuale Nouvelle Vogue
dell’architettura internazionale. Costoro presentano caratteri di forte autonomia nei
confronti dei maestri, ma non sono pienamente comprensibili senza la considerazione
delle matrici culturali e figurative dalle quali essi traggono ispirazione.
La differenza maggiore tra maestri ed allievi - indipendentemente dalle eredità stilistiche
e linguistiche - risiede nel rapporto assai diverso con la virtualità. Ma il problema non può
essere semplificato con una semplice adesione o rifiuto. È il mondo contemporaneo ad
imporre un rapporto obbligato con l’immaterialità. Non esistono scelte, ed anche i più
elementari comportamenti quotidiani devono fare i conti con ciò. La virtualità è uno degli
aspetti sostanziali della cultura Cyber, un sistema di relazione che tende a dimenticare la
fisicità delle relazioni in funzione di una forte immaterialità. La confusione che non si deve
generare riguarda il fatto che virtualità non è un termine riferibile esclusivamente alla
generazione di spazi, ma coinvolge ogni aspetto delle relazioni umane. La sociologia ci ha
insegnato come ogni forma di comunicazione contemporanea sia influenzata dalla
virtualità della rete Web. Virtualità è un concetto ancora più generale che Hofstadter
riconosce essere generato dalla mobilità dei concetti della mente. La virtualità è la
consapevolezza di esistenza riferita ad oggetti non fisici. La prospettiva del tutto nuova
che la Cyber-cultura ha offerto è la confusione tra reale e virtuale. Se questa distinzione
risulta essere chiara in termini generali, le cose tendono a complicarsi sotto la lente
dell’analisi. Nella produzione di cultura e - nel caso da noi analizzato in questo scritto - di
architettura, la differenza tra reale e virtuale non risulta essere così chiara. Una risposta
possibile è quella che interpreta “architettura” come la realizzazione fisica di un manufatto
e “virtuale” l’elaborazione elettronica di una forma. L’aspetto fondamentale è che il
problema spaziale tende a riconnettere questi due estremi. Pur rimanendo chiara la
distinzione, è stato definito come gli spazi non-euclidei generati con il computer e gli spazi
di architettura (realizzata) siano figli di una stessa madre. Il fatto positivo di certe forme
estreme è quella di aver ampliato in modo esponenziale le possibilità figurative degli spazi
in architettura. In qualche modo, i deliri di alcuni autori hanno avuto l’indiscusso vantaggio
di essere stati terreno fecondo per quei progettisti che sono stati in grado di realizzare
architettura.
La conclusione intende richiamare un problema importante: le comuni matrici figurative
dell’architettura virtuale e di quell’architettura costruita di derivazione Cyber. L’ottava
Mostra Internazionale di Architettura di Venezia svoltasi nel 2002 è un evento di
particolare significato. Essa segue una precedente manifestazione (2000) nella quale la
presenza dell’architettura virtuale era preponderante ed eccessiva. L’ultima mostra,
intitolata Next, era dedicata all’architettura prossima ventura. Come sottolineato dai
curatori, l’interesse principale era rivolto a quelle opere in corso di realizzazione o in
avanzata fase di progettazione. Il significato è molto profondo. In contrapposizione alla
libertà assoluta e, francamente, un po’ vuota della precedente esposizione, l’attenzione
era in questo caso rivolta alla complessità dell’architettura nel farsi luogo, nel rapporto con
il cantiere. Così, ogni sogno gratuito era bandito. Ciò sancisce un preciso cambiamento di
rotta ed un ritorno all’ordine che condividiamo. L’analisi comprova che molte opere
presenti, pur rispondendo ai criteri stabiliti dai curatori, avevano un indiscutibile debito con
la precedente stagione. Molte architetture presenti offrivano un uso maturo dello strumento
informatico, utilizzato come apertura figurativa per un uso non-euclideo delle forme, poi
razionalizzate per l’edificazione. In questi termini, diviene molto più sottile il problema del
comprendere cosa è reale e cosa virtuale. Pur avendo una chiara immagine della
distinzione presente tra opere che vivono nella memoria di un computer e lo spazio del
vissuto, esiste una sfumatura assai meno evidente di come possano essere distinguibili
esperienze la cui matrice figurativa è unica e le cui problematiche legate alla
virtualità/realtà rappresentano solamente un problema di scala.
Un utile fattore che abbiamo utilizzato per comprendere questi sottili problemi è
rappresentato dalla lettura delle forme e dello spazio del vissuto attraverso lo strumento
della morfologia. L’obiettivo principale di questa tesi è individuare il modo in cui il computer
ha generato un’alterazione del modus operandi degli architetti nella creazione di quegli
spazi che abbiamo chiamato non-euclidei. L’esigenza di occuparsi di questo esclusivo
ambito è stata una drastica riduzione del problema. Il computer negli ultimi vent’anni ha
rivoluzionato ogni ambito legato alla progettazione e all’esecuzione dell’architettura.
L’insistere con la massima energia sul problema dello spazio non-euclideo ha
un’importanza determinante poiché fa comprendere come il computer abbia saputo
cambiare il modo di concepire la geometria.
La storia della matematica dell’Ottocento e del Novecento fa comprendere in che modo
l’idea di spazio matematico ha influenzato le concezioni dello spazio nella fisica. Le
conquiste di Cantor, di Hilber e Fréchet nell’ambito delle dimensioni plurime si intrecciano
con le elaborazioni della geometria topologica. L’aver inserito uno studio sulle
matematiche superiori ha avuto l’obiettivo di individuare un ambito di pensiero che è stato
determinante per comprendere l’attuale modo di intendere lo spazio. Tali conquiste, pur
relegate nel regno di pochi specialisti, hanno contribuito a mutare il concetto di spazio e di
forma complessa nella cultura contemporanea. Gli studi sulle matematiche superiori e
sulle geometrie topologiche hanno fornito un terreno fertile sul quale effettuare alcune
considerazioni in materia di forma. Se si considerano quelle magnifiche elaborazioni
intellettuali in ambito matematico, è possibile comprendere come l’attuale cultura
architettonica della decostruzione e della Cyber-architettura abbia radici ben fondate. Non
si capirebbe altrimenti l’uso disinvolto di certe geometrie. Un compito molto importante era
quello di riuscire a stabilire la genesi della forma, aspetto che non poteva assolutamente
essere spiegato da un’invenzione intuitiva, da un’eredità storica (aspetto quest’ultimo che
non spiega un bel nulla), o da un uso maturo di uno strumento potente quale il computer è.
La ragione più intrinseca risiede nella capacità di alcuni architetti di captare le inquietudini
derivate dalla scoperta di nuovi territori di confine negli ambiti scientifici. L’Espressionismo
degli anni trenta e quaranta del Novecento ha saputo esternare un desiderio di forma
capace di interpretare le teorie sulla deformazione spazio/temporale di Einstein, e tale
discorso si è dipanato nei decenni successivi in una coerente ricerca di nuove applicazioni
di quel mondo. Tali complesse geometrie rappresentavano un superamento dei postulati
di Euclide, per riferirsi agli spazi avvolti di natura topologica o, ancor più, degli spazi
immaginari delle geometrie di Lobacevskij. La natura degli spazi Cyber non è tanto una
complicazione di forma dovuta all’ipertrofica deformazione di forme base. Questa, pur
complessa, rientra nell’ambito di una geometria cartesiana. Il significato più profondo di ciò
risiede nel fatto di alterare la natura stessa dello spazio. Così come la matematica di
Lobacevskij e, poi, di Fréchet aveva ampliato a dismisura la natura dello spazio facendolo
divenire immaginario e pluridimensionale, allo stesso modo troviamo delle analoghe
rivoluzioni negli autori che abbiamo analizzato. Essi non aggrediscono la forma, ma
progettano spazi avvolti, alterati, attorcigliati, pluridimensionali. Così, le forme virtuali o le
architetture contorte non sono un desiderio di forma ma l’espressione di quel particolare
tipo di spazio la cui natura è, appunto, non-euclidea. Non-euclideo non significa pertanto
formalmente complesso, bensì desidera aderire ad un concetto più profondo che si trova
nella natura pluridimensionale dello spazio in fisica e matematica. Le forme non sono
avvolte e magmatiche perché sono modellate in base a concetti scultorei, ma perché
esprimono il deformarsi dello spazio su se stesso, in osservanza ai principi della fisica e
della matematica. Questa è una conclusione fondamentale nell’economia del nostro
scritto. Tende a dare una spiegazione chiara di quali siano i riferimenti dell’attuale
produzione Cyber.
Il mondo contemporaneo è caratterizzato da una pluralità di linguaggi e da una
molteplice interpretazione della realtà. Non è possibile riferirsi ad una sorta di nuovo
International Style che fornisca un quadro unitario delle poetiche e del modo di fare
architettura. Se questo era vagamente possibile nel periodo dello strutturalismo - nel quale
l’ideologia dominante era derivata da un’interpretazione chiara della realtà organizzata
secondo sistemi e sottosistemi -, l’attuale polisemia del mondo non consente questa
semplificazione. Per questo motivo abbiamo sempre parlato di ottica Cyber nella
descrizione delle geometrie non-euclidee. La volontà di creare organismi spaziali di questo
genere non è una tendenza universale, bensì una delle tante possibili tra quelle in atto.
Anche all’interno dei casi indagati raramente è possibile trovare qualcosa che caratterizzi
unitariamente lo stile, il linguaggio o l’approccio metodologico. Tutto risulta essere molto
diverso e fortemente individuale. Per tale motivo, l’unico modo che riteniamo valido per
interpretare questo contesto è leggerlo attraverso la generazione di spazi non-euclidei,
astenendosi dall’offrire giudizi di valore e proponendo questa interpretazione come
superiore ad altre.
Il desiderio è individuare delle categorie operative e capire sia la genesi della forma, sia
le motivazioni che spingono certi autori a riferirsi ad un mondo così bizzarro. Una risposta
è stata individuata nell’adesione alle teorie matematiche e fisiche. Questo, però, avviene in
modo non sempre consapevole. Nella maggior parte dei casi ci troviamo di fronte ad uno
spirito del tempo, le cui idee girano e si mescolano tra loro. Così, sarebbe illecito attribuire
ai vari architetti delle competenze in campo matematico, o interpretare le forme avvolte
come direttamente riferite alle geometrie lobacevskiane. Crediamo che esista una cultura
figurativa che tragga spunto da queste aperture, fornite in ambiti paralleli e, magari,
separati. Teorie così difficili sono, pertanto, abbastanza ermetiche e relegate in settori
specialistici. Ma non esiste alcun ambito della cultura che rimanga assolutamente
impermeabile.
Esiste, in più, un aspetto ancora più chiaro e che agisce secondo canali molto meno
sotterranei rispetto a quelli appena descritti. È l’uso del computer. I software e le
procedure di calcolo utilizzate dai sistemi hardware sono basati su operatori matematici.
Esiste una sorta di natura intrinseca del modo di lavorare dei calcolatori che
necessariamente porta verso certi risultati. Questa affermazione racchiude una duplice
verità. Da una parte esiste la questione della libertà compositiva offerta dai vari comandi di
CAAD e modellatori solidi. Gli strumenti di composizione sono intuitivi e consentono di
generare e aggregare forme con la massima libertà, senza doversi confrontare con
problemi di carattere proiettivo. Una conclusione fondamentale riguarda il fatto che
l’organismo è immaginato nella sua forma tridimensionale. Ci siamo più volte soffermati
sul problema della visione. Il computer ha determinato una rivoluzione dei sistemi
percettivi contemporanei, esattamente come cinema e televisione hanno rivoluzionato la
concezione del mondo, divenendo media. Anche l’elaboratore ha cambiato la visione, ora
basata su icone e sulla metamorfosi della forma. La facilità con la quale un software
permette di visualizzare anche le geometrie più articolate è un invito a sperimentazioni
sempre più estreme. La sua espressione sarà elementare e priva della storica difficoltà di
delineare con chiarezza un oggetto. Tale facilità, dicevamo, è una sorta di liberazione dalle
difficoltà del disegno, fatto che, unito alla possibilità di concepire un oggetto nella sua
completezza, fa comprendere il necessario passaggio verso un ambito figurativo differente
e più ampio dal punto di vista formale e concettuale.
Esiste una seconda ragione che lega matematica e generazione di forma con il
computer. L’elaboratore, nel suo normale uso, utilizza sistemi di calcolo binario. Questa
elementare grammatica gli fornisce un’anima profondamente matematica. Egli, in altre
parole, non può far altro che operare processi di natura matematica. Così, l’uso di
operatori booleani e altri processi legati alle matematiche superiori, divengono parte
integrante del modello di funzionamento del computer. Essi, altresì, sono strutturati in
modo tale da avere una sorta di natura matematica che non potrebbe funzionare
altrimenti.
Quanto detto non porta l’interpretazione del problema verso una soluzione meccanica.
In verità, ogni progetto indagato, ogni forma elaborata, ha una natura essenzialmente
poetica. Anche nei casi in cui gli autori sono tesi nello sforzo di elaborare una teoria della
progettazione computerizzata, il risultato non sfugge mai all’arbitrio. Così, è di fatto inutile
richiamare le «Monadi» di Leibniz da parte di Chu, o le teorie del caos e dei cristalli liquidi
per Eisenman. Il processo ed i risultati saranno sempre operazioni creative più o meno
riuscite.
Sempre è possibile riconoscere una sorta di ipnosi e di esuberanza che il computer
trasmette ai suoi utilizzatori. Ogni autore che usa in modo creativo l’elaboratore ha
l’indiscutibile difficoltà di frenare la sua mano nella creazione di spazi. L’ipertrofia che ne
consegue ha creato uno dei maggiori difetti che abbiamo individuato in questo movimento:
la perdita di costruibilità in funzione di un autocompiacimento formalista. Riprendendo
un’osservazione fatta nel capitolo secondo, osserviamo come le coordinate interpretative
della Cyber-architettura siano profondamente differenti rispetto all’architettura tradizionale.
È lecito parlare di spazi di percezione indipendentemente dalla loro consistenza fisica. In
analogia con le grandi prospettive di Giuseppe Galli Bibiena, il cui fascino risultava intatto
anche nella pura percezione visiva delle sue incisioni, anche nel caso degli spazi noneuclidei della cultura Cyber ci troviamo di fronte ad un processo di godimento estetico
assai potente anche nella semplice visione a schermo. Riteniamo, tuttavia, che in
quest’ultimo caso il coinvolgimento sia assolutamente maggiore e capace di una forma più
estrema di seduzione. In sintesi, possiamo affermare come potenza dello strumento e
seduzione che questo offre agli operatori, sono due aspetti che tendono a mischiarsi. Non
siamo di fronte ad un vano gioco di forme rese possibili dalla flessibilità dello strumento
informatico o da una smaliziata cultura dell’immagine elettronica. I risultati raggiunti sono
una conseguenza della contemporanea azione tra cultura d’immagine e substrato
scientifico di derivazione matematica. L’elaborazione di forme non-euclidee e
topologicamente complesse non è una semplice elaborazione formale, bensì presenta una
radicata cultura dello spazio che, a partire dalle matrici organico/espressioniste, ha
raggiunto una piena maturazione nella decostruzione in architettura per poi passare, come
ultima fase, alla Cyber-architettura. Pertanto, se alcuni autori cadono nella trappola del
virtuosismo formalistico, la corrente nel suo insieme dev’essere registrata come facente
parte di una rivoluzione sana nell’ambito della sperimentazione sugli spazi.
Grazie all’utilizzo del computer, anche le metodologie di generazione della geometria
hanno assunto una complessità tutta particolare. Eisenman e Lynn (ma accanto a loro
anche molti altri) sono dei paradigmi molto importanti per comprendere il problema. In
entrambi i casi, la nascita della forma non avviene mai in modo artistico, ma esiste sempre
una “giustificazione” di carattere metodologico. L’analisi degli scritti dedicati ai due autori
hanno dimostrato che queste pretese teoriche hanno una grande base di astrazione e di
arbitrio. È fondamentale considerare il fatto che il computer è usato per generare la forma.
Per entrambi, l’obiettivo principale è quello di radicare il progetto al luogo. Per far questo
Lynn ed Eisenman creano dei processi nei quali lo strumento informatico subisce delle
sollecitazioni dal contesto e, reagendo, crea forma. La complessità del processo necessita
di una grande potenza di elaborazione dati, aspetto supportabile solo con l’elaboratore.
Tali variazioni hanno un preciso riferimento alla matematica stocastica gestita tramite il
computer. Quanto detto dimostra una fortissima unità tra poetica, matematica ed
informatica, vertici di un problema rivolto ad una soluzione nuova della ricerca sullo
spazio.
La trattazione si orienta verso una sintesi che tende ad individuare due distinti approcci
al problema della generazione degli spazi non-euclidei con l’utilizzo del computer. Una
strada è quella della creazione di spazi esclusivamente virtuali, destinati a rimanere come
pura forma di percezione sullo schermo. La seconda soluzione è quella di spazi costruiti
che divengono, pertanto, architettura. Queste due direzioni sono figlie di una stessa
cultura, influenzandosi reciprocamente, traendo le une dalle altre spunti di riflessioni. In
altre parole, questi sono aspetti diversi di una medesima realtà poliedrica e complessa.
In effetti, analizzando le architetture costruite notiamo due cose. Primo: molto spesso le
matrici figurative e formali sono esattamente identiche. Nella fase di elaborazione, i
risultati sono uguali e solo nel tempo della costruzione si possono notare alterazioni
dovute alle necessità di cantiere. I processi di generazione degli spazi non-euclidei sono in
entrambi i casi molto simili, per non dire coincidenti. Il secondo aspetto riguarda il fatto
che, sovente, gli autori che creano architettura costruita sono gli stessi che hanno creato
importanti manifesti programmatici della Cyber-architettura. Questo testimonia
un’indivisione tra i due tipi di approccio. È evidente che gli architetti minori sono da
considerarsi come fasce estreme di un movimento. Essi sono interessanti solo dal punto di
vista di una concezione militante della corrente. È opportuno guardarsi indietro e porre
l’attenzione principalmente su quei progettisti che, pur ideando articolate teorie, sono in
grado, al momento opportuno, di rifondere questo apparato concettuale in spazio del
vissuto.
Un aspetto molto importante da sottolineare in queste conclusioni è che il computer,
dallo stretto punto di vista operativo, non è affatto uno strumento utilizzato da tutti nel
medesimo modo. Per alcuni (Naga Studio Architecture, Ben Van Berkel & Caroline Bos,
Neil M. Denari) esso è un mezzo di prefigurazione dell’architettura, capace con la sua
grande velocità di calcolo di visualizzare forme altrimenti impossibili da rendere in modo
chiaro. Questi autori sono coloro che maggiormente sono indirizzati verso la creazione di
uno spazio costruito. Per loro, il punto fondamentale non riguarda la fantasia e l’apertura
consentita dalla rivoluzione informatica. L’essenziale è la capacità di gestione dell’idea
architettonica complessa. La tradizione decostruttivista ha trovato nell’uso del computer
uno mezzo ottimale di gestione di materiali, forme e costi. Un secondo gruppo di architetti
(Kolatan/Mac Donald Studio, Oosterhuis Associates, Greg Lynn/Form) prevede nell’atto
ideativo una maggiore libertà. Gli aspetti innovativi e rivoluzionari sono assai più spinti ed
è la stessa natura dell’architettura ad essere condizionata. Siamo in un campo che confina
tra architettura e scultura e la creazione può essere essenzialmente rivolta verso la
generazione di una pura forma, tenendo in minimo conto le problematiche di carattere
statico, costruttivo ed esecutivo. Essi, tuttavia, non si allontanano eccessivamente dai
caratteri linguistici dell’architettura. L’innovazione formale e spaziale è certamente molto
più accentuata rispetto ai precedenti, ma non abbandonano mai la realizzabilità. Ciò che
intendiamo dire è che questo gruppo di progettisti tende ad innovare l’architettura pur
rimanendo all’interno di una possibile realizzabilità dell’opera. Quanto viene prodotto ha le
caratteristiche di un progetto di spazio architettonico all’interno di una visionarietà che fa di
questi progetti dei manifesti di un’avanguardia contemporanea. L’ultimo gruppo di
progettisti che individuano una corrente unitaria sono coloro che, come Karl S. Chu e
Asymptote, sono assolutamente indifferenti al problema della realizzabilità. Per questi
autori la generazione di spazio del vissuto può esaurirsi nella virtualità, ed esiste una
sostanziale noncuranza verso le problematiche dello spazio fisico della percezione. Tale
tendenza rappresenta la vena più estrema di quelle appena descritte. Tutte le componenti
finora riscontrate sono estremizzate. Per comprendere le motivazioni di simili costrutti
teorici occorre non dimenticare i parametri di lettura della cultura Cyber. Poiché essa ha
creato un sistema organico e funzionante basato essenzialmente sull’immaterialità, questa
architettura ne diviene una delle possibili espressioni. Al pari del Web, gli spazi di Chu
sono coerenti nel loro essere pura forma visibile. Rimangono collocati nella virtualità ma la
loro percezione è sempre non contraddittoria e reale, esattamente come gli spazi fisici.
Qui scaturisce una fondamentale difficoltà interpretativa. Un simile mondo risulta
convincente solo ad una lettura effettuata all’interno della cultura Cyber. Adottare una
chiave interpretativa di carattere architettonico ne rivela tutta l’ambiguità (e la pericolosità).
I due ambiti non devono essere confusi. Ricordiamo che anche le forme più estreme di
elaborazione degli spazi non-euclidei, quelli destinati ad un’esistenza puramente virtuale,
hanno una funzione fondamentale: generare una feconda rivoluzione in quegli architetti
che hanno dirottato queste energie verso la realizzazione.
Le parole appena spese per individuare le linee generali entro cui collocare le diverse
esperienze trattate, non completano il quadro generale. È possibile, altresì, rivoltare la
lettura delle differenti tendenze attraverso un’interpretazione che privilegi lo strumento. Il
computer è dotato di grande flessibilità e potenzialità. La lettura del come esso è usato dai
diversi autori è un mezzo fondamentale per interpretare l’attuale sistema di pensiero.
Poiché l’obiettivo principale è quello di individuare le modalità con le quali nasce l’idea di
spazio non-euclideo, è stato necessario capirne l’utilizzo. Ma lo studio ha portato ad un
variegato panorama. Pur con notevoli differenze, è possibile individuare tre categorie
principali di uso del computer: gli architetti-scultori, i cyber-architetti e quegli autori che
usano il computer in modo pressoché automatico nella generazione degli spazi.
Il primo gruppo di architetti non offre un quadro sostanzialmente nuovo della
progettazione. Tutti gli autori indagati usano il computer come strumento razionalizzante,
capace di gestire progetto e cantiere in modo efficiente. I processi creativi sono
tendenzialmente tradizionali ed il computer entra solo in una seconda fase nell’atto
creativo. Generalmente questi autori sono personalità che si sono formate prima della
diffusione del computer. Pertanto esiste un certo impaccio nell’utilizzo di uno strumento
che si è sommato ai tradizionali metodi di progettazione. Questi progettisti usano
essenzialmente plastici scultorei, schizzi, disegni, e sono tendenzialmente restii ad
ammettere un effettivo vantaggio nel progettare con lo strumento informatico. Resta
indiscutibile un fatto: in uno stesso autore, esiste una differenza molto evidente tra i
progetti realizzati con e senza il computer. L’architettura immaginata in una stessa
stagione creativa presenta una notevole diversità e, tendenzialmente, esiste
un’elaborazione di forma molto più complessa nel caso in cui il computer sia entrato come
partner di studio. È il caso del Childrens’s Museum di Boston di Frank O. Gehry. Qui, parti
differenti sono state realizzate con e senza il computer. Si nota in modo chiaro come
esista una diversa complessità della forma, ma soprattutto dello spazio del vissuto. In
generale, il computer ha apportato un sistema di gestione di forma che ha permesso al
progettista una maggiore libertà. In questo primo gruppo di autori, le cose sono piuttosto
semplici. Essi hanno una grande maturità nella creazione di spazio non-euclideo ed il
computer è solamente un mezzo capace di fornire aiuto ad un processo già lungamente
ed autonomamente sviluppato.
Il caso è differente per quei giovani autori che si sono formati con il computer. Per
costoro l’elaboratore non diviene uno strumento conquistato lungo il percorso di
formazione. La loro pratica è radicalmente legata ad un utilizzo creativo della macchina. Il
progetto nasce con il computer ed esso ne fa parte in modo indissolubile. Questi autori
sono giovani, spesso non ancora quarantenni, con poche fabbriche realizzate.
Rappresentano un gruppo di persone che possiedono una vena avanguardistica più
spinta, una carica visionaria più estrema e soffrono di un tendenziale difetto: l’astrattezza.
Al contrario di quegli autori che ragionano solamente in termini di spazio virtuale, i cyberarchitetti hanno una concretezza maggiore. Essi non si perdono in spazi astratti, privi di
legame con il reale. Le loro opere, pur estreme, presentano una certa realizzabilità anche
se tendono a negare i precetti più classici del Movimento Moderno. Questo è abbastanza
ovvio. La loro tradizione culturale è post-moderna e, perciò, differente rispetto al passato.
Sono autori che riflettono sulla cultura informatica, sulla contaminazione tra le arti e sulla
tendenziale perdita di dogmi. Esistono nei loro processi creativi, forme di automazione che
risultano assai suggestive dal punto di vista metodologico. Il progetto ha sempre una certa
dose di indeterminazione, una variabile indipendente risolta dal computer. I processi
automatici sono estremamente stimolanti poiché sono una concretizzazione della teoria
del caos e dell’imprevedibilità all’interno del progetto di architettura.
Senza rischiare di andare troppo oltre, è necessario sottolineare come gli apparati
teorici che abbiamo incontrato sono caratterizzati da una grande sofisticatezza. Possiamo
notare che, ogni qualvolta ci avviciniamo a degli spazi non costruiti, ci troviamo di fronte a
delle teorie complicate e concettuose. Gehry, per fare un esempio, non ha mai elaborato
una sovrastruttura intellettuale per giustificare le sue creazioni. Esattamente il contrario
capita in coloro che, sul filo del rasoio, tendono a giustificare la mancanza di realtà con un
costrutto che tenda a tappare i buchi di elaborazioni immature. Questo secondo estremo
ha, per noi, un interesse del tutto secondario. Abbiamo studiato quelle personalità solo per
avere un quadro completo del fenomeno e dimostrare come il sistema di relazione sia
estremamente stretto.
Il frammentato panorama che abbiamo richiamato in queste pagine presenta più
discordanze che punti in comune. Siamo di fronte, pertanto, ad un composito gruppo di
progettisti che non è possibile inquadrare in nessun movimento omogeneo. Certamente
essi si sono formati sulle eredità della decostruzione internazionale, elaborando una
diversa poetica scaturita dalla novità dello strumento utilizzato: il computer.
In questo mondo, scorgiamo essere solamente due i punti di contatto che rendono
lecito l’accostare personaggi, esiti e qualità così difformi: l’uso dell’elaboratore nel
processo progettuale e la generazione di spazi non-euclidei. Questo duplice indirizzo
possiede una forte coerenza. Non è data sperimentazione sulle geometrie non-euclidee
senza l’uso dell’elaboratore. Certamente, il processo di uno spazio formalmente
complicato non è una scoperta recente. Ma questa tendenza, già chiaramente delineata
da diversi autori del Movimento Moderno, possiede nel mondo contemporaneo un più alto
grado di complessità, divenuta ingestibile senza l’uso del computer. Questo dimostra la
necessità, per questa corrente di derivazione decostruttivista, dell’uso dell’elaboratore per
la gestione dell’idea spaziale. Tale presupposto ha creato la possibilità per i progettisti di
spingersi verso territori più estremi, così arditi da far immaginare una macchina che fosse
in grado di generare autonomamente l’idea spaziale. Tale fenomeno è da collocarsi
accanto alla cultura Cyber che vede una fiducia incrollabile nella rivoluzione digitale.
Possiamo notare in questo quadro conclusivo come le geometrie non-euclidee siano un
punto di approdo molto preciso, con ragioni storiche fondate e ineluttabili. Sia
interpretando il fenomeno come evoluzione della visione organico/espressionista, sia
come risultato delle influenze dello Zeitgeist contemporaneo che permea la cultura
contemporanea anche delle teorie matematiche e fisiche, la sintesi tra spazio non-euclideo
e computer è una scelta obbligata per il sentire contemporaneo.
La conclusione verso cui tutto sembra convergere è che spazio virtuale e architettura
costruita, nell’ambito delle geometrie non-euclidee, appartengano esattamente alla
medesima famiglia di sperimentazioni. Esse sono espressioni diverse di un’unica cultura,
fatta di spazio informale, mondo cyber e uso disinvolto dell’elaboratore elettronico. Esiste
solo un differente grado di verosimiglianza. Lo spazio virtuale non descrive affatto un
mondo lontano. Così come la rete internet è una metafora dello spazio reale, composto di
un territorio immateriale, una mappa strettamente fitta di interconnessioni e di rivolgimenti,
allo stesso modo lo spazio non-euclideo che abbiamo descritto in queste pagine è
un’“allegoria” della quotidiana esperienza dello spazio fisico. Anche lo spazio elettronico è
spazio del vissuto, presenta caratteristiche del tutto simili e il fruitore non si trova dinnanzi
ad un universo del tutto nuovo. Medesime sono le esperienze visive, identiche sono le
logiche di connessione. Ci troviamo di fronte ad una percezione assai simile a quella reale.
Lo spazio virtuale e quello reale è identicamente comunicativo. È un qualcosa all’interno
del quale l’individuo, con la sua coscienza e con la sua percezione, vi si trova immerso. Al
pari dello spazio reale, lo spazio virtuale presenta delle caratteristiche comuni:
§ deve essere percepibile;
§ deve comunicare;
§ deve essere dotato di logica;
§ deve essere biunivoco, ovvero consentire una fruizione in avanti ed indietro;
§ è uno spazio nel quale l’individuo proietta il proprio inconscio;
§ è uno spazio stimolante nel quale riconoscersi o nel quale riconoscere un gruppo di
appartenenza;
§ deve avere profondità, ovvero deve offrire la sensazione di poter essere scoperto ed
esplorato;
§ deve esprimere l’idea di libertà;
§ deve essere complesso;
§ formalmente deve essere espressione di una cultura.
Questi caratteri danno un’idea della grande massa di implicazioni che la creazione di
uno spazio virtuale necessita. Quindi, il problema di uno spazio non-euclideo virtuale non
può assolutamente essere ridotto ad una pura questione formale. Quello che importa è
che esso sia in qualche modo metafora del reale. Se questo non accade, la costruzione
elettronica non è spazio ma qualcosa d’altro (ad esempio una semplice pagina video priva
di profondità). Lo spazio, al contrario, dà sempre l’impressione di avere una
polidimensionalità. Davanti ad uno spazio fisico e ad uno spazio virtuale, si ha sempre la
precisa sensazione di avere un intero mondo da esplorare, fatto di diversi ambienti che
sono lì in attesa di essere scoperti. Questo intendiamo quando parliamo di spazio
complesso, virtuale e reale. In entrambi i casi, ci troviamo di fronte ad un sistema che non
esaurisce la propria comunicazione con un’immagine immediatamente esperibile. Ogni
forma di spazio deve essere interpretato, ha un suo mistero che non può essere decifrato
istantaneamente. Questo rende così importante l’invenzione dello spazio virtuale noneuclideo. Non è solo una riproduzione figurativa delle sperimentazioni in architettura;
nemmeno è un motore che influenza lo spazio antigeometrico della percezione fisica.
Queste influenze biunivoche certamente esistono, ma hanno ragione d’essere
esclusivamente perché la natura dello spazio fisico e dello spazio virtuale è identica.
Queste parole non devono essere fraintese. Ciò non significa che spazio virtuale e
spazio reale sono la stessa cosa. Le differenze sono fondamentali e numerose.
§ lo spazio reale coinvolge tutti i sensi dell’individuo, mentre lo spazio virtuale implica
prevalentemente sensazioni visive;
§ lo spazio reale è continuo e, pertanto, non esistono divisioni tra ambienti diversi;
§ nello spazio reale troviamo problematiche legate alla tettonica, alla realizzabilità, alla
natura dei materiali, alle necessità realizzative, tutti aspetti assenti nello spazio
virtuale. Nella virtualità, questi elementi, se presenti, sono di natura biecamente
imitativa e non forniscono alcun interesse alla nostra trattazione;
§ lo spazio reale è imperfetto ed imprevedibile, mentre quello virtuale, essendo frutto di
un progetto, è ordinato e privo di qualunque forma di sorpresa.
Quanto detto dimostra analogie e differenze, ma tende a verificare un aspetto in modo
inequivocabile. Dal punto di vista della pura percezione visiva, le due specie di spazi sono
identici. La progettazione dello spazio virtuale presenta delle somiglianze culturali rispetto
a quello fisico e, viceversa, ne subisce i caratteri stilistici e le idee sulla sua natura.
Non crediamo che ci possano essere confusioni tra i due tipi di spazio. Tutti e due
hanno caratteristiche precise e distinte. In nessun caso possono essere confondibili ed
intercambiabili. Né crediamo in ipotesi futuristiche nelle quali si potrà, un giorno, tentare
una sovrapposizione. Le variabili del mondo reale sono infinite e nessuna elaborazione
tridimensionale sarà in grado di riprodurle. Ed in omaggio alla matematica ci permettiamo
di riconoscere che la complessità del mondo presenta un fascino derivato dagli infiniti di
ordine superiore di Georg Cantor.
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Andrea MAFFEI (a cura di), Toyo Ito, Electa, Milano, 2001.
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Fabio METITIERI e Giuseppina Manera, Incontri virtuali, Apogeo, Milano, 1997.
Frédéric MIGAYROU e Marie-Ange BRAYER (a cura di), ArchiLab, Thames & Hudson,
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Manfredi NICOLETTI , Sergio Musmeci, Testo & Immagine, Torino, 1999.
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2000.
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1998.
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Torino, 2000.
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«Il Progetto», n. 7, aprile 2000.
«Zodiac», n. 16, luglio 1966.
«Zodiac», n. 19, luglio 1969.
«Zodiac», n. 21, settembre 1972.
«Zodiac», n. 22, ottobre 1973.
PARTE PRIMA
Capitolo 2
Paragrafo 1 e 2
Autore
Asymptote Architecture
Luogo di formazione e di professione
Categoria
New York - USA
Cyber-architetti
Software usato
Modellatore solido
Aspetti poetici e tecnologici
Forma architettonica che emerge dall’interpretazione delle stratificazioni del contesto e della cultura;
generazione di forme con il computer, poi completate dagli elementi suggeriti dal contesto; ricerca fondata
sulla gratuità, l’indeterminazione e l’irragionevolezza della forma; trasgressione; immaterialità; architettura fra
il concettuale e il concretizzabile; architettura tra statica e dinamica; contaminazioni derivate dalla cultura
d’immagine contemporanea; distorsione dei flussi di energia; cercare la nuance della contraddizione;
fondazione di un nuovo senso degli spazi senza ostacoli.
Nell’attuale produzione con lo strumento informatico: spazio come flusso di informazioni; frammentazione del
visibile a partire dagli attuali strumenti ottici ed informatici; radicale riconfigurazione dell’architettura
attraverso una mutazione radicale delle sue relazioni con lo spazio; l’architettura dovrà supportare innesti e
sovrapposizioni; deformazioni delle sue coordinate attraverso interpretazioni simboliche della realtà; oggi
l’architettura si deve svincolare dai tradizionali vincoli politici, economici e sociali; le nuove configurazioi
sono rese possibili dai nuovi media; nuove modalità per il mondo; riflessione sul tempo e sul concetto di
“ora”; l’edificio dovrebbe essere autonomo, senza che tuttavia si liberi dai suoi tradizionali contenuti che però
non devono più determinare forma e funzione; concetto fondamentale di autonomia: libertà di pensare e
lavorare entro la complessa sfera del reale; l’architettura riceve un’infinità di oggetti, un continuum di progetti
che impongono nuovi limiti di definizione; architettura come non-evento; architettura in costante
rinnovamento; l’architettura può essere esclusivamente virtuale; essa può essere costruita, esperita,
compenetrata e manipolata attraverso la rete Web; nell’architettura esiste nuova “liquidità” e mutabilità che
deriva e soddisfa il naturale desiderio dell’ignoto; con The Virtuale Guggenheim Museum è fondato un nuovo
paradigma architettonico: tradizionali funzioni di un museo attraverso uno spazio virtuale in costante
mutamento; lo spazio digitale include esperienze spaziali per chiarificare l’uso complesso di funzioni, ovvero
lo spazio virtuale è strumento per l’uso di funzioni complesse (Virtual Nyse).
Riferimenti bibliografici essenziali
The Difference-Scape, Princeton Architectural Press, New York, 1998AA. VV., Architecture for the Future,
Asymptote Architecture, Pierre Terrail Editions, Paris, 1996
Asymptote, Asymptote: Architecture at the Interval. Rashid+Couture, Rizzoli International, New York, 1995
Philip Jodidio, Architecture Now! , Taschen, Köln-London-Madrid-New York-Paris-Tokyo, 2001
Frédéric Migayrou e Marie-Ange Brayer, ArchiLab, Thames & Hudson, London, 2001
Siti Web
http://www.asymptote.net
Opera
Titolo
Piano urbanistico, Lanciano, Italia
Tipo
Tipologia
Sistemazione urbanistica Progetto
Anno di progettazione
Anno di realizzazione
1988
-
Piante, schemi diagrammatici e teorici
Foto
Opera
Titolo
Los Angeles Wers Coast Gateway, Los Angeles, USA
Tipo
Tipologia
Progetto
Passaggio
attraversamento
Anno di progettazione
Anno di realizzazione
1989
-
Piante, schemi diagrammatici e teorici
Foto
di
Opera
Titolo
Libreria, Alessandria, Egitto
Tipo
Tipologia
Progetto
Libreria
Anno di progettazione
Anno di realizzazione
1989
-
Piante, schemi diagrammatici e teorici
Foto
Opera
Titolo
Virtual Nyse - 3DTFV project
Tipo
Tipologia
Spazio virtuale Web
Spazio scambio titoli di
borsa
Anno di progettazione
Anno di realizzazione
1998
1998-2002
Piante, schemi diagrammatici e teorici
Foto
Opera
Titolo
The Virtual Guggenheim Museum
Tipo
Tipologia
Spazio virtuale Web
Spazio museale interattivo
Anno di progettazione
Anno di realizzazione
1998
1998
Piante, schemi diagrammatici e teorici
Foto
PARTE PRIMA
Capitolo 2
Paragrafo 2
Autore
Jesse Reiser e Nanako Umemoto - RUR Architecture
Luogo di formazione e di professione
Categoria
New York - USA
Cyber-architetti
Software usato
Non identificato. Modellatore solido
Aspetti poetici e tecnologici
Architettura dell’incompletezza; sistemi caotici e complessi; architettura fluida; organismi costantemente
modificabili; progettazione attraverso schemi differenti e con infinite variazioni; progettazione attraverso
sezioni e prospetti; sistemi strutturali capaci di generare complessità e flessibilità; uso della geodetica;
connessioni tra interno ed esterno attraverso superfici complesse; uso di diagrammi dinamici senza origine
definita; uso di diagrammi-forza digitali 3D generati dalla continua interazione tra modelli reali e modelli
computerizzati; coinvolgimento dei flussi dei sistemi viventi e non viventi; invenzione formale indifferente alla
funzione; la funzione viene introdotta dopo che l’oggetto è costruito; concetto di curvatura e piega; poetica
del non-finito; idea delle turbolenze applicate anche ai sistemi strutturali; luoghi come acenti parte della
struttura.
Riferimenti bibliografici essenziali
Andrew Benjamin, Reriser+Umemoto, Recents Projects, Academy Editions, London, 1998
Christian Pongratz, Maria Rita Perbellini, Nati con il computer, Testo & Immagine, Torino, 1999
Siti Web
Opera
Titolo
Yokohama Port Terminal, Tokyo
Tipo
Tipologia
Progetto
Areoporto
Anno di progettazione
Anno di realizzazione
1994
Piante, schemi diagrammatici e teorici
Foto
Opera
Titolo
Kansai Library, Kansai
Tipo
Tipologia
Progetto
Biblioteca
Anno di progettazione
Anno di realizzazione
1996
Piante, schemi diagrammatici e teorici
Foto
Opera
Titolo
Austria Music Theatre, Graz, Austria
Tipo
Tipologia
Progetto di concorso
Teatro
Anno di progettazione
Anno di realizzazione
1998
Piante, schemi diagrammatici e teorici
Foto
PARTE PRIMA
Capitolo 2
Paragrafo 2
Autore
André Poitiers
Luogo di formazione e di professione
Categoria
Hamburg, Braunschweig Cyber-architetti
(Germania), London (GB)
Software usato
Microstation-J (CAAD), Microstation-Modeler
(modellatore solido), Photoshop (videografica)
Aspetti poetici e tecnologici
Nuovo modo di sperimentare attraverso l’uso del computer; computer come estensione delle possibilità e
capace di offrire soluzioni inaspettate; fusione delle esigenze funzionali, di uso, di forma e di invenzione
spaziale nella nuova architettura; compimento del volume e degli spazi interni in modo automatico e
contemporaneo; libertà di invenzione di forme, di tagli e compenetrazioni; fasi del lavoro: scelta dei vincoli
del contesto, coordinate bidimensionali del progetto in base a tali vincoli, tale griglia e poi riempita dalla
massa dell’involucro che interagisce con l’involucro, la struttura spaziale emerge dal “lancio” degli elementi
volumetrici iniziali, da tale struttura spaziale emergono gli elementi funzionali e servizi, progetti di parti
funzionali, integrazioni finali; legame tra design e architettura: sono la stessa cosa e si influenzano
reciprocamente; ispirazioni da trarre dal quotidiano, dal “qui e ora” e non dalle utopie; indifferenza delle
funzioni nella forma architettonica: la Plasma House può essere abitazione, aeroporto o centro acquisti; gli
spazi sono contenitori di forma; opposizione alla forma blob: l’architettura deve essere lo sviluppo di una
forma autonoma ma pienamente funzionale; la progettazione deve essere subordinata ad una severità
funzionale effettata al di fuori della forma; scambio dell’architettura con altre discipline; l’architettura è un
evento.
Riferimenti bibliografici essenziali
Architektur in Hamburg, Jahrbuch der Architektenkammer Hamburg, Hamburg, 1999
Austellungskatalog des Nai, Rotterdam, 1998
Dirk Meyhöfer, Hamburg/Rotterdam - Veränderungen am Storm, Austellungskatalog, 1997
Angelika Schnell, Junge Deutsche Architekten, Birkhäuser, Basel-Berlin-Boston, 2000
Siti Web
Opera
Titolo
Plasma House
Tipo
Tipologia
Progetto
Studio di
abitazioni
Anno di progettazione
Anno di realizzazione
-
-
Piante, schemi diagrammatici e teorici
Foto
spazi
per
Opera
Titolo
Doughnut, Berlin
Tipo
Tipologia
Progetto
Centro per la cultura
ecologica
Anno di progettazione
Anno di realizzazione
1998
-
Piante, schemi diagrammatici e teorici
Foto
PARTE PRIMA
Capitolo 2
Paragrafo 2
Autore
Anton Markus Pasing
Luogo di formazione e di professione
Categoria
Münster (Germania),
Rotterdam (Olanda)
Cyber-architetti
Software usato
Cinema 4d, Vector Works (MiniCad), Photoshop,
Strata Studio Pro, Swivel 3d, 3d Max, Quark X-Press
Aspetti poetici e tecnologici
Spazio come elemento primario e come concetto aprioristico; concezione vasta di spazio: l’architettura è
solo un modo possibile di espressione dello spazio; le rappresentazioni del mondo vengono trasmesse
anche attraverso la matrice spaziale dell’architettura; spazio architettonico come medium di molti; legame
indissolubile tra forma e materiali: la forma non esiste senza materiali; forma come impronta dell’anima;
l’architettura esiste solamente legata all’uomo; computer come strumento incapace di generare idee: esso
non rimpiazza nessuna idea e nessun concetto; tuttavia è possibile trarre spunti e sorprese dallo strumento
informatico; fusione tra arti: architettura, cyborg, robot, cloni, macchine domestiche, mutanti, videografica;
uso di oggetti tecnologici; tema dell’invisibile della forma e dell’informazione; cultura tecnologica e dei media;
indagine sulle conseguenze spaziali delle nuove tecnologie, inclusa la cinematografia di fantascienza e la
cultura cyber; progettazione estesa al design, all’architettura e al disegno urbano; l’immagine della città è
mutata a causa delle automobili e della attuale tecnologia: questo comporta una rinnovata metodologia di
intervento sulle città effettuata non più con le tradizionali tecniche di intervento, bensì con i nuovi media e
basata sulla cultura cyber e virtuale; sperimentazioni radicali basati sulla fusione uomo-macchina o uomoelettronica; automatismi; acquisizione del consumismo; ridefinizione della professione di architetto.
Riferimenti bibliografici essenziali
Erotische Museum Berlin, Katalog zum Ausstellung in der Aedes Galerie, Berlin, 1996
Förderprise des Landes Nordrhein-Westfalen für junge Künstlerinnen und Künstler 1999, Katalog, 1999
Anton Markus Pasing, Remote controlled architecture, Verlag H.M. Nelte, Wiesbaden, 1998
Angelika Schnell, Junge Deutsche Architekten, Birkhäuser, Basel-Berlin-Boston, 2000
Siti Web
Opera
Titolo
Genesis 9, super tool
Tipo
Tipologia
Progetto
Progetto di cyborg
interattivo
Anno di progettazione
Anno di realizzazione
1995/’96
-
Piante, schemi diagrammatici e teorici
Foto
Opera
Titolo
Invisible Tower, Rio de Janeiro
Tipo
Tipologia
Progetto
Progetto di grattacielo
Anno di progettazione
Anno di realizzazione
1995/’97
-
Piante, schemi diagrammatici e teorici
Foto
Opera
Titolo
Ektochanger, Deutschland
Tipo
Tipologia
Progetto
Edificio d’abitazione
Anno di progettazione
Anno di realizzazione
1991
-
Piante, schemi diagrammatici e teorici
Foto
Opera
Titolo
Erotisches Museum, Berlin
Tipo
Tipologia
Progetto
Edificio museale
multimediale
Anno di progettazione
Anno di realizzazione
1996
-
Piante, schemi diagrammatici e teorici
Foto
Opera
Titolo
Das letztes Haus (L’ultima casa), Graz
Tipo
Tipologia
Progetto
-
Anno di progettazione
Anno di realizzazione
1995
-
Piante, schemi diagrammatici e teorici
Foto
PARTE PRIMA
Capitolo 2
Paragrafo 2 e 3
Autore
Marcos Novak
Luogo di formazione e di professione
Categoria
Los Angeles e Parigi
Cyber-architetti
Software usato
Non identificato. Utilizzo di diversi media per grafica,
modellazione e musica
Aspetti poetici e tecnologici
Formazione di non-luoghi elettronici; architettura come interfaccia dell’immaginazione; riflessioni sul
cyberspazio; il cyberspazio come luogo per creare spazi per l’abitare umano; uso di programmi generatori di
vita artificiale; indefinitezza; architettura ridefinibile sostituendo le costanti con altrettante variabili; mutabilità
della forma e conseguente “architettura e città liquida”; tempo come elemtno attivo dell’architettura;
“Transarchitettura”; intersezioni e curvature delle superfici; trasformazioni evolutive imprevedibili; costruzione
di modelli matematico-algoritmici; procedure generative determinate da molte variabili senza alcuna
preoccupazione spaziale; variabili come possibilità di introdurre le influenze esterne; fenditure danno vita al
progetto; variabili determinate da alcuni particolari del mondo reale; forma ome elemento conclusivo del
progetto; ipersuperfici.
Riferimenti Bibliografici Essenziali
Christian Pongratz, Maria Rita Perbellini, Nati Con Il Computer, Testo & Immagine, Torino, 1999
Marcos Novak, Tierra Trans Form, In «Medien, Kunst Passagen, n. 3, 1994
AA. VV., Architecture as a Translation of Music, Pamphlet Architecture 16, Priceton Architectural Press, New
York, 1994
AA. VV., Cyberspace: First Steps, MIT Press, Cambridge, 1991
Siti Web
http://www.aud.ucla.edu/~marcos
Rivista elettronica Centrifuge
Opera
Titolo
Paracube
Tipo
Tipologia
Spazio virtuale
-
Anno di progettazione
Anno di realizzazione
Piante, schemi diagrammatici e teorici
Foto
PARTE SECONDA
Capitolo 3
Paragrafo 3
Autore
Greg Lynn (Form)
Luogo di formazione e di professione
Categoria
Venice, California - USA
Cyber-architetti
Software usato
Alias. Modellatore e animatore film e industria
automobili
Aspetti poetici e tecnologici
Computer come strumento generatore di forma; processi di progettazione basati sulla deformazione di corpi
elettronici; morfogenesi; attenzione alla forma; inclusione dei condizionamenti esterni nel progetto; inclusione
del tempo e del movimento nell’architettura; dinamicità e flessibilità; computer come medium; concezione
non-lineare del tempo; controllo del progettista sui sistemi autogeneranti di forma; studio delle geometrie
topologiche; studio della forma a prescindere dall’architettura; uso di “vettori di trasformazione” per le
superfici topologiche e segmenti; uso di software diversi per i processi generativi; improvvisazione e filtro
critico; tecnica “Blob” e “Metaballs”; sconfinamenti dell’architettura nel design e nella produzione industriale;
studio dei processi di produzione in tempi brevi.
Riferimenti bibliografici essenziali
a
AA. VV., 7 mostra internazionale di architettura - Less Aesthetics More Ethics, Marsilio - La Biennale di
Venezia, Venezia, 2000
Greg Lynn, Projects, Sites and Stations, Provisional Utopias, Lusitania Press, New York, 1995
Greg Lynn, Animate Form, Princeton Press, New York, 1999. Libro e CD interattivo
Christian Pongratz, Maria Rita Perbellini, Nati con il computer, Testo & Immagine, Torino, 1999
Siti Web
http://www.a-node.net
http://www.basilisk.com
Opera
Titolo
Embriological Housing
Tipo
Tipologia
Progetto
Studio di
abitazioni
Anno di progettazione
Anno di realizzazione
1998
-
Piante, schemi diagrammatici e teorici
Foto
spazi
per
Opera
Titolo
Korean Presbyterian Church, New York
Tipo
Tipologia
Architettura realizzata
Chiesa presbiteriana
Anno di progettazione
Anno di realizzazione
1995
In corso di realizzazione
Piante, schemi diagrammatici e teorici
Foto
PARTE PRIMA
Capitolo 2
Paragrafo 3
Autore
Matthias Loebermann
Luogo di formazione e di professione
Categoria
Stuttgardt (Germania),
Londra (GB), Nürberg
(Germania)
Cyber-architetti
Software usato
ArchiCAD
Aspetti poetici e tecnologici
Integrazione tra media e architettura; nuove modalità di relazione tra architettura e questione pubblica
effettuate anche grazie ai nuovi media; necessità di un’architettura concreta; ricerca di nuove idee, ma anche
ipotesi per nuovi prodotti industriali riesaminati alla luce delle attuali esigenze industriali; progetti leggeri:
molti padiglioni e sistemi espositivi; l’architettura deve avere una struttura elementare e fondamentale; contro
il formalismo; neutralità della forma; flessibilità, capacità di accettare modificazioni, adattabilità: grazie a ciò
gli edifici riescono a sopravvivere nel tempo; trasparenza: possibilità di relazionare l’interno all’esterno; la
trasparenza non è una condizione ma una funzione dinamica; contro la rigidezza monolitica poiché nega la
complessità e la capacità di relazione; gioco di sovrapposizioni, mobilità e permeabilità negli elementi di
facciata; trasparenza è forma di virtualità.
Riferimenti bibliografici essenziali
Mattias Loebermann, Sequenzen, Verlag der Buchhandlung Walter König, Köln, 1998
Angelika Schnell, Junge Deutsche Architekten, Birkhäuser, Basel-Berlin-Boston, 2000
Siti Web
Opera
Titolo
RID Pavillon, Hannover
Tipo
Tipologia
Progetto
Padiglione espositivo per
Raumfahrt Initiative
Deutschland
Anno di progettazione
Anno di realizzazione
2000
-
Piante, schemi diagrammatici e teorici
Foto
PARTE PRIMA
Capitolo 2
Paragrafo 2 e 3
Autore
Kunst und Technik
Luogo di formazione e di professione
Categoria
Berlino (Germania)
Cyber-architetti
Software usato
Non identificato.CAAD e videografica
Aspetti poetici e tecnologici
Fusione tra architettura, design, arte; investigazione degli spazi di confine tra persone, discipline e spazi e
ridefinizione dei confini disciplinari; riflessione sulla virtualità indirizzata per indagare temi quali l’accessibilità,
la connessione, l’usabilità e altre forme di comunicazione; la generazione culturale di Internet rappresenta
una nuova interpretazione del pensiero di Benjamin; lo spazio virtuale non è più una fantasia ma può essere
architettonicamente investigata; al centro della sperimentazione non ci sono emergenze spaziali, bensì
percezioni espanse della realtà e del significato della tecnologia; sperimentazione sull’uso simultaneo di più
spazi o realtà; progetti su estensioni della percezione sensoriale; uso attraverso la percezione; la
sperimentazione sugli spazi virtuali non consiste nella riproduzione di spazi usuali con l’informatica, bensì
l’ideazione di spazi invisualizzabili nel cyberspace e il tentativo di una loro traduzione nello spazio reale;
produzione di immagini e loro riproduzione; costruzione di spazio attraverso la luce; produzione di spazi
disorientanti; percezione della corporeità e non solo della visione; compresenza di tutti i sensi nella
comunicazione e nella percezione; l’architettura, come i media tecnologici, devono avere funzione e
significanza e devono essere relazionati alla realtà contemporanea e all’uso quotidiano.
Riferimenti bibliografici essenziali
Angelika Schnell, Junge Deutsche Architekten, Birkhäuser, Basel-Berlin-Boston, 2000
Siti Web
http://www.realities-united.de
http://www.kut-berlin.de
http://www.multi.mind.de
Opera
Titolo
[multi mind], Hamburg
Tipo
Tipologia
Performance
Installazione d’arte
Anno di progettazione
Anno di realizzazione
1999
1999
Piante, schemi diagrammatici e teorici
Foto
Opera
Titolo
[lichtwaage], Berlino
Tipo
Allestimento
Tipologia
Installazione multimediale
Anno di progettazione
Anno di realizzazione
1997
1997
Piante, schemi diagrammatici e teorici
Foto
Opera
Titolo
[flussbad], Berlino
Tipo
Tipologia
Progetto
Sistemazione della riva
della Sprea nell’Isola dei
musei
Anno di progettazione
Anno di realizzazione
1998
-
Piante, schemi diagrammatici e teorici
Foto
Opera
Titolo
Zentrum der Tierzucht, Hannover
Tipo
Tipologia
Progetto
Allestimento fieristico
Anno di progettazione
Anno di realizzazione
1999
-
Piante, schemi diagrammatici e teorici
Foto
PARTE SECONDA
Capitolo 3
Paragrafo 2
Autore
Frank O. Gehry
Luogo di formazione e di professione
Categoria
Los Angeles - USA
Architetti-scultori
Software usato
CATIA. Modellatore solido a blocchi
Aspetti poetici e tecnologici
Espressione del caos urbano nell’architettura; architettura scultorea; sperimentazione nell’uso semantico dei
materiali; fluidità; espressività; architettura come arte; poetica del non-finito; grado zero dell’architettura;
annullamento delle differenze tra colto e quotidiano; decostruzione; collisione tra blocchi edilizi; geometrie
irregolari; movimento figurativo in architettura; creazione per “sommatorie”; architettura tesa alla creazione di
una “scena urbana” di ispirazione barocca; operazioni di tranciamento, separazione, divisione;
trasfigurazione degli elementi figurativi; Pop Art; collisione fra volumi; indifferenza del sistema statico da
quello espressivo/architettonico; uso espressivo di materiali.
Riferimenti bibliografici essenziali
Francesco Dal Co, Kurt W. Forster, Hadley Soutter Arnold, Frank O. Gehry. Tutte le opere, Electa, Milano,
1998
Alessandro Rocca, Bilbao: studio di fattibilità per un museo di arte moderna e contemporanea, e Dalla
spirale alla rete: Gehry, Gwathmey & Siegel, Isozaki, Wright, in «Lotus International», n. 85, maggio
1995
Coosje van Bruggen, Frank O. Gehry, Guggenheim Museum Bilbao, The Solomon R. Guggenheim
Foundation, New York, 1997
Siti Web
http://www.sectionweb.com/jp/design/fr-gehry.htm
http://fly.to/decostruttivismo
http://www.arcspace.com/gehry_new/ (in particolare Link dedicato a CATIA)
Opera
Titolo
Guggenheim Museum, Bilbao
Tipo
Tipologia
Architettura realizzata
Museo
Anno di progettazione
Anno di realizzazione
1991
1997
Piante, schemi diagrammatici e teorici
Foto
Opera
Titolo
Edificio per la «Nationale-Nederlanden, Praga
Tipo
Tipologia
Architettura realizzata
Edificio per uffici
Anno di progettazione
Anno di realizzazione
1992
1996
Piante, schemi diagrammatici e teorici
Foto
PARTE SECONDA
Capitolo 3
Paragrafo 4
Autore
Peter Eisenman
Luogo di formazione e di professione
Categoria
New York - USA
Computer come architetto
Software usato
Software morphing
Aspetti poetici e tecnologici
Computer come sistema globale di azione; generazione dell’architettura è la reiterazione di cicli di
modificazione esclusivamente formale effettuata dal computer; idea di simulazione; dialogo incessante tra
modelli reali e virtuali; prassi di elaborare la forma, sovrapporla, mutarla, girarla nello spazio virtuale e
portare a compimento quella “meno” chiara; uno della sovrapposizione, collage e montaggio; uso del
Morphing; decostruzione in architettura; studio ed utilizzo della teoria del caos in architettura; uso di
geometria booleane; ideare il puro spazio del vissuto; organizzazione spaziale nella quale l’interesse per la
consistenza volumetrica dell’edificio e per qualunque risultato formale è ininfluente; uso dei media come
strumento comunicativo in campo architettonico; rinnovamento dell’architettura in funzione delle nuove
metodologie di percezione introdotte dal computer; perdita della razionalità del progetto; torsione di una
massa addensata: idea di piegatura; sovrapposizioni funzionali e spaziali generate dal computer;uso di
griglie sovrapposte e deformate; uso degli gli spazi interstiziali (between); idea della deformazione sospesa
dei cristalli liquidi; uso di sistemi vettoriali di deformazione; impostazione di un metodo di deformazione
indipendente dalla volontà dell’architetto.
Riferimenti bibliografici essenziali
Pippo Ciorra, Peter Eisenman: opere e progetti, Electa, Milano, 2000
Peter Eisenman, Diagram Diaries, Universe, New York, 1999
Luca Galofaro, Eisenman digitale, Testo & Immagine, Torino, 1999
Antonino Saggio, Peter Eisenman, Testo & Immagine, Torino, 1996
Siti Web
http://guardiolahouse.interfree.it/
http://www.greatbuildings.com/architects/Peter_Eisenman.html
http://www.greatbuildings.com/buildings/Frank_House-Eisenman.html
http://prelectur.stanford.edu/lecturers/eisenman/
http://www.epdlp.com/eisenman.html
Opera
Titolo
Carnegie-Mellon
Pennsylvania
Research
Center,
Tipo
Tipologia
Progetto
Università
Anno di progettazione
Anno di realizzazione
1987-’88
-
Pittsburgh,
Piante, schemi diagrammatici e teorici
Foto
Opera
Titolo
Casa Guardiola, Santa Maria del Mar, Cadice,
Spagna
Tipo
Tipologia
Progetto
Casa d’abitazione
Anno di progettazione
Anno di realizzazione
1988
-
Piante, schemi diagrammatici e teorici
Foto
Opera
Titolo
Facoltà di Architettura, Cincinnati, Ohio
Tipo
Tipologia
Progetto
Università
Anno di progettazione
Anno di realizzazione
1988-’91
-
Piante, schemi diagrammatici e teorici
Foto
Opera
Titolo
Rebstock Park, Francoforte, Germania
Tipo
Tipologia
Progetto
Quartiere d’abitazione
Anno di progettazione
Anno di realizzazione
1998
1998-2002
Piante, schemi diagrammatici e teorici
Foto
Opera
Titolo
Biblioteca per la Piazza delle Nazioni, Ginevra,
Svizzera
Tipo
Tipologia
Progetto
Biblioteca
Anno di progettazione
Anno di realizzazione
1996-’97
-
Piante, schemi diagrammatici e teorici
Foto
Opera
Titolo
Staten Island Institute of Arts and Sciences, New York
Tipo
Tipologia
Progetto
Spazio museale e nodo
d’interscambio
Anno di progettazione
Anno di realizzazione
1997-2002
-
Foto
PARTE PRIMA
Capitolo 2
Paragrafo 2 e 3
Autore
Günther Domenig
Luogo di formazione e di professione
Categoria
Graz - Austria
Architetti-scultori
Software usato
ArchiCAD. CAAD per architettura
Aspetti poetici e tecnologici
Aggressione della forma; fusione edificio-territorio; architettura-scultura; legame tra la parte e il tutto;
penetrazione di corpi architettonici; il corpo e lo spazio interposto; introspezione psicologica; unità tra intero e
contesto; opere che scaturiscono da un punto interno esplodendo; scelta dei materiali determinata dagli
schizzi iniziali; architettura come organizzazione estetica; disegno come fondamento dell’architettura; senso
di leggerezza e del volo; dissoluzione dell’architettura come scatola ed elemento concluso; sintesi fra arte e
architettura, uso luministico dei materiali.
Riferimenti bibliografici essenziali
Paolo Vincenzo Genovese, Günther Domenig. Lanci di masse diroccate, Testo & Immagine, Torino, 1998
Raffaele Raja, Günther Domenig. Werkbuch, Residenz Verlag, Salisburgo-Vienna, 1991
Günther Domenig, Steinhaus, Ritter Verlag, Klagenfurt, 1993
Siti Web
http://www.iic.wifi.at/Graz/standard/bereiche/domenig.htm
http://www.bldgsite.com/journal/bauen.htm
Opera
Titolo
Zentralsparkasse in Favoritenstrasse, Vienna
Tipo
Tipologia
Architettura realizzata
Edificio bancario e centro
culturale
Anno di progettazione
Anno di realizzazione
1974
1974-’79
Piante, schemi diagrammatici e teorici
Foto
Opera
Titolo
Steinhaus, Steindorf, Carinzia, Austria
Tipo
Tipologia
Architettura realizzata
Casa per abitazione
Anno di progettazione
Anno di realizzazione
1986
In corso di realizzazione
Piante, schemi diagrammatici e teorici
Foto
PARTE PRIMA
Capitolo 2
Paragrafo 2 e 3
Autore
Neil M. Denari Architects
Luogo di formazione e di professione
Categoria
New York, Los Angeles - Cyber-architetti
USA
Software usato
Non identificato. CAAD di architettura
Aspetti poetici e tecnologici
Azione progettuale volta a disegnare mappe del mondo, fogli su cui registrare i territori; uso di superfici
avvolte su se stesse per creare geometrie 3D; architettura fluida; il mondo è visto come un foglio ripiegato su
se stesso; architettura che nasce da una sovrapposizione tra diversi elementi quali funzione, forma, testo,
materiali; idea di architettura nata da una “proiezione ininterrotta”.
Riferimenti bibliografici essenziali
Neil M. Denari, Gyroscopic Horizons, Princeton Press, Cambridge, 1999
Neil M. Denari, Recents Work , E.S.P. Publications Co.Ldt, Bangkok, 1996
Christian Pongratz, Maria Rita Perbellini, Nati con il computer, Testo & Immagine, Torino, 1999
Siti Web
http://japan.park.org/Japan/Sony/3DWorld/Neil_Denari
Opera
Titolo
Massey Residence, Los Angeles
Tipo
Tipologia
Progetto
Villa unifamiliare
Anno di progettazione
Anno di realizzazione
1994
Piante, schemi diagrammatici e teorici
Foto
PARTE PRIMA
Capitolo 2
Paragrafo 2
Autore
Coop Himmelb(l)au
Luogo di formazione e di professione
Categoria
Vienna - Austria
Architetti-scultori
Software usato
Non identificato. CAAD per architettura
Aspetti poetici e tecnologici
Biomorfismo; distruzione della scatola e consistenza muraria; rinnovamento della concezione dell’abitare;
linguaggio; coniugazione tra tecnologia e linguaggio; dissonanza, caos, instabilità, dissoluzione, corruzione
della forma architettonica e della tipologia; contributi extradisciplinari all’intero dell’architettura; fusione tra
arte, architettura e performance; indeterminatezza dello spazio; poetica del frammento; uso di materiali
economici; dinamica spazio/temporale; dissoluzione della purezza linguistica; materiali poveri per
l’esaltazione del frammento; decostruzione; progettazione come divertissement; concetto di “stratificazione”.
Riferimenti bibliografici essenziali
Coop Himmelb(l)au, Architektur ist jetzt: Projekt, Gerd Hatje, Stoccarda, 1983
Coop Himmelb(l)au, Die Faszination der Stadt, Verlag der Georg Buechner, Darmstadt, 1988
Cesare De Sessa, Coop Himmelb(l)au, Testo & Immagine, Torino, 1998
Sara S. Richardson, Coop Himmelb(l)au: Wolf Prix and Helmuth Swiczinsky: a bibliography, Vance Bibliogr.,
1989
Siti Web
http://www.t0.or.at/~kfricke/kanal2.htm
http://db.nextroom.at/nextroom/profil/11617.html
http://stud2.tuwien.ac.at/~e8725259/P2.htm
Opera
Titolo
Cinema multisala UFA, Dresda
Tipo
Tipologia
Architettura realizzata
Multisala cinematografica
e caffetteria
Anno di progettazione
Anno di realizzazione
1993
1998
Piante, schemi diagrammatici e teorici
Foto
Opera
Titolo
Museo, padiglione Est, Groningen, Olanda
Tipo
Tipologia
Architettura realizzata
Museo
Anno di progettazione
Anno di realizzazione
1993
1995
Piante, schemi diagrammatici e teorici
Foto
Opera
Titolo
Fabbrica Funder 3, St. Veit an der Glan, Carinzia,
Austria
Tipo
Tipologia
Architettura realizzata
Fabbrica
Anno di progettazione
Anno di realizzazione
1988
1989
Piante, schemi diagrammatici e teorici
Foto
PARTE PRIMA
Capitolo 2
Paragrafo 2
Autore
Dagmar Richter Studio
Luogo di formazione e di professione
Categoria
Stuttgardt, Frankfurt am
Cyber-architetti
Main (Germania),
Kopenhagen (Danimarca),
Los Angeles (USA)
Software usato
Modellatore solido
Aspetti poetici e tecnologici
Adesione alla corrente femminista; riflessione sul rapporto tra pensiero femminista e pratica di progetto postmoderna; riflessioni sull’autonomia dell’autore nel processo di progettazione; miniaturizzazione come
acquisizione di flessibilità anche attraverso i suoi significati politici; problematizzazione dei concetti di
“traduzione”, “copia”, “canto corale” in rapporto ai problemi di progetto; intersezioni tra ricerca e attività di
progetto; continue riletture e nuove interpretazioni della realtà; riconfigurazione della sfera infrastrutturale a
livello territoriale; apertura verso nuove possibilità spaziali e architettoniche; dissoluzione delle grandi masse
architettoniche; prevalenza delle strutture leggere; controllo elettronico della progettazione è in grado di
soddisfare le complesse domande della società contemporanea; pensiero complessivo e funzione tra
architettura, territorio, trasporti e pensiero sostenibile; integrazione tra zone agricole ed infrastrutture; nuova
leggerezza dell’architettura, nuova flessibilità, nuove libertà grazie ai nuovi materiali; forme non
predeterminate; fluidità come nuova forma simbolica per il nuovo millennio; complessità e non-linearità.
Riferimenti bibliografici essenziali
ArchiLab, Katalog zur Austellung in Orléans
Empty Space, Austellungskatalog zum 6, Wienerarchitekturseminar 1995, Wien-NewYork, 1996
Francesca Hughes, The Architect. Reconstructing her Practice, MIT Press, Cambridge MA
Angelika Schnell, Junge Deutsche Architekten, Birkhäuser, Basel-Berlin-Boston, 2000
Siti Web
Opera
Titolo
Neue Bürolandschaft, concorso per Shinkenshiku
Tipo
Tipologia
Progetto
Sistemazione urbanistica
di contorno nodo
autostradale
Anno di progettazione
Anno di realizzazione
1994
-
Piante, schemi diagrammatici e teorici
Foto
Opera
Titolo
Zeitkapsel
Tipo
Tipologia
Progetto
Oggetto di design e
sistemazione di paesaggio
Anno di progettazione
Anno di realizzazione
-
-
Piante, schemi diagrammatici e teorici
Foto
Kunst und Technik
Berlino
Domanda: Il mio lavoro riguarda gli influssi del computer sullo spazio, ovvero
sull’architettura, sulla progettazione. Che cos’è lo spazio? Che cos’è lo spazio elettronico e
lo spazio reale, ci sono differenze?
Risposta: Sicuramente si vuole arrivare al punto in cui queste due realtà si integrano a
vicenda. Potrei cominciare a descrivere quello che percepisco. Nello spazio elettronico si
cerca di simulare, con il computer si cerca di sostituire, riprodurre i sentimenti. Nei giochi
elettronici vediamo una ricerca dell’ambiente realistico. E molta gente è affascinata dalla
possibilità di riprodurre spazi, avvenimenti, situazioni del mondo reale. Ma se riflettiamo un
po’ più approfonditamente, questo alla fine può risultare la cosa meno interessante, poiché
i limiti del mondo reale - come ad esempio la forza di gravità, la logica dello spazio, il fatto
di dover entrare ed uscire dall’unica porta presente in una stanza - sono limitazioni che
non dovrebbero essere assolutamente presenti nello spazio elettronico. Ed è quindi
interessante utilizzare la libertà assoluta che ci offre lo spazio elettronico. Penso
comunque che sotto questo punto di vista, ovvero il concetto del senso dello spazio e
spazio elettronico, siamo ancora all’inizio. Il problema è come collegare i due spazi. I
tentativi in questa direzione sono innumerevoli, ma la cosa più importante è il concetto che
la geometria possiede nello spazio e nello spazio elettronico in modo che si vada al di là di
quello che viene definito dai tecnici. Essi si limitano a rispecchiare nello spazio elettronico
la geometria dello spazio materiale.
D: La geometria è importante nello spazio elettronico?
R: Lo spazio elettronico non dev’essere geometrico. Lo spazio geometrico può essere
senza forma. E’ tuttavia importante capire dove si colloca il punto d’incontro dello spazio
reale con lo spazio elettronico; in più deve esserci un contatto logico con lo spazio reale
ed elettronico, in modo che il secondo offra un ampliamento della realtà. Non è infatti detto
che lo spazio elettronico sia geometricamente strutturabile o configurabile. Ad esempio,
nello spazio elettronico a cui accedo, clicco su un cuscino perché voglio sapere di che
materiale è fatto, ma invece mi si visualizza un testo che non corrisponde ovviamente ad
una forma geometrica; l’importante è il testo in se stesso. Il fatto che lo spazio elettronico
sia geometrico, non è altro che un caso particolare, cioè uno modo speciale di
completamento dello spazio reale. Che oggetti materiali geometrici e oggetti elettronici
vengano simulati elettronicamente è un dato di fatto specifico.
D: Ci sono delle nuove linee di pensiero sulla forma in questi ultimi anni nella cultura
elettronica?
R: C’è la speranza che questa cultura ci sia. Con l’avvento del computer è possibile
pensare a spazi più complessi rispetto a prima. Quando abbiamo in mano un oggetto
complesso è difficile “penetrarlo” con il pensiero, capirne il senso. Quindi sarebbe positivo
se il computer potesse aiutarci in questa fase, ma ho la sensazione che per noi ciò non sia
ancora diventato una realtà. Devo anche aggiungere che noi non dedichiamo molto tempo
alla realizzazione della forma, ma ci fermiamo ad un livello più concettuale. Quindi è
difficile arrivare ad una concretizzazione della forma. Sotto questo punto di vista noi non
siamo dei “ricercatori/scienziati della forma”. Altre persone sono molto più avanti di noi
nell’utilizzo del computer come “mezzo/attrezzo” di pensiero. Ma penso che questo sia un
punto dove noi tutti vogliamo arrivare. Questa è una componente.
L’altra componente per me essenziale, anche se può sembrare un po’ pragmatica, è
che la nostra idea/rappresentazione si può discostare un po’ da quello che poi potremo
realizzare, sempre se parliamo di architettura.
Ad esempio una determinata forma angolare non sarebbe realizzabile senza l’impiego
del computer. Nessuno sarebbe in grado di realizzare i progetti per questo singolo
particolare se nel computer non ci fosse già il modello. Quindi il computer deve essere un
“utensile” di pensiero e cultura, ma noi non siamo “studiosi della forma”. Anche noi
abbiamo installato in poco tempo i programmi, ma non abbiamo attuato nessun tipo di
ricerca di una nuova forma
D: Si può parlare di forma senza spazio materiale?
R: Sì, assolutamente. Quello che manca a tutto questo mondo virtuale, ai giochi
elettronici è una lingua autonoma della forma. Quello che vediamo in questo mondo
virtuale deriva dal mondo materiale, si tratta di un’architettura legata alla forza di gravità, di
un’architettura conosciuta. Non è un’architettura elettronica. Essa dovrebbe essere
tridimensionale, come minimo! Ci deve essere quindi una forma specificamente sviluppata
nello spazio elettronico, ed è la cosa che oggi ancora manca.
Forse ciò è da attribuire al fatto che si vuole arredare lo spazio elettronico con oggetti
del mondo reale, ben conosciuti per rafforzare il senso di “immersione”. Ma saranno cose
che prima o poi dovranno scomparire perché, ad esempio, non ha senso costruire una
volta in uno spazio elettronico perché non ci sono pesi da sostenere o sostegni necessari
per il soffitto.
D: Spazio senza forma o forma senza spazio?
R: Dipende da come la si pensa. Ci sono persone che riescono a vedere una forma
estraniandola dallo spazio. Questo è comunque possibile solamente nello spazio virtuale,
non in quello reale.
D: Qual è il punto iniziale nella progettazione? Quali sono i primi passi nello spazio
architettonico?
R: Beh, questo dipende da quello che si vuole raggiungere. E’ necessaria una
riflessione. Ci succede infatti che l’oggetto realizzato sia diverso da quello pensato.
L’architettura, gli spazi sono una possibilità. A volte realizziamo macchine o software, ma
non mi posso immaginare che il primo passo nel senso di architettura come spazio reale
possa essere il primo a nascere. Prima deve esserci sempre un altro pensiero e poi
giungo alla conclusione che per realizzare questa idea ho bisogno dell’architettura.
Il grande cambiamento che avverrà nei prossimi anni, o decenni, sarà la possibilità di
avere spazi virtuali. Se voglio, potrò andare a fare la spesa nello spazio virtuale, cosa di
cui si sta ora molto parlando. Quindi mi sembra chiaro che una delle conseguenze sarà
che la funzione si sposterà dallo spazio reale a quello virtuale. Non vado più in negozio a
comprare, bensì attraverso il computer mi muoverò tra spazi virtuali (Webpage). Ma cosa
succede allo spazio reale? Verrà meno una determinata funzione reale? Molte persone
hanno paura, ma in fondo proprio in questo c’è una possibilità; non tutte le funzioni devono
essere materializzate, ma avrò la possibilità di decidere: costruisco il grande magazzino
realmente o virtualmente? Quindi in futuro si arriverà alla decisione che tutto quello che
oggi si vuole simulare con il computer, cambierà direzione. Invece di pensare che cosa
posso sostituire della realtà, si arriverà ad una osservazione più uniforme. Un certo
oggetto lo voglio reale, mentre un altro lo vorrò virtuale ed il mio mondo si comporrà
egualmente di cose materiali e virtuali. Un esempio: posso immaginare una stanza con tre
pareti ed una parete monitor, in modo tale da creare una realtà mediale che simuli il
tridimensionale. Si giungerà ad una maggiore livellamento. Avrò la libertà di decidere di
non costruire tutto in cemento, e ne consegue una maggiore libertà di rappresentazione
della realtà. Nell’architettura questo si manifesterà nel modo seguente; diremo: «questo lo
voglio in cemento senza dover pensare o passare attraverso l’architettura materiale,
questo sarà il secondo passo o forse il terzo».
D: Che cosa significa ora il computer, i software, l’intero mondo informatico?
R: Il computer è semplicemente un supporto operativo, se devo scrivere un testo, ad
esempio, non posso più immaginare di farlo senza l’aiuto di un programma di elaborazione
testi. Specialmente con testi lunghi. Il computer ti permette in parte di lavorare in modo
indisciplinato, ma a volte è estremamente autoritario e ti costringe in strutture di pensiero
molto rigide assolutamente non volute dall’operatore. D’altra parte ci permette di gestire e
amministrare le cose in modo completamente diverso da un supporto operativo
convenzionale che non è in grado di essere alla stregua del computer. Il computer facilita
certe operazioni, mentre in altri casi le rende più difficili. Sicuramente oggigiorno il lavoro
eseguito con il computer si contraddistingue. Dieci anni fa si usavano i modelli
architettonici in polistirolo, mentre oggi viene tutto eseguito con modelli eseguiti al
computer. L’influsso del computer non è così neutrale come si pensi.
D: La cultura architettonica viene influenzata dal computer?
R: Indubbiamente. La maggior parte dei software proviene dall’America e sicuramente
influenzano in modo diverso l’architettura rispetto ai software prodotti in altre nazioni.
André Poitiers
Hamburg
Domanda: Che utilità ha il software nella costruzione di Plasma House?
Risposta: Il programma, con la sua struttura, rende possibile e risveglia tutto un nuovo
modo di sperimentare.
I moderni software CAD offrono a chi elabora il progetto e al costruttore uno strumento
con il quale si possono generare tutte le forme immaginabili. La immissione dei dati segue
il rapporto 1/1. Esiste allora un cambiamento di direzione, una violazione delle esigenze
funzionali e costruttive con l’umanizzazione della scala [Maßstab] che è possibile trovare
un ambiente pseudoreale.
Le strutture di Plasma House nascondono in un processo cooperativo uno spazio
tridimensionale dei programmi CAD sotto la considerazione della forma, della funzione e
delle esigenze di utilizzazione intorno allo spazio.
Il programma CAD genera le forme con l’aiuto delle operazioni booleane.
In questa prassi matematica il modo di eseguire i modelli 3D non segue solo la
visualizzazione, bensì anche vengono impiegate e seguite le decisioni legate alle
coordinate spaziali e alle “strutture a griglia” [Gitternetzstrukturen].
Ogni punto nello spazio tridimensionale è esattamente stabilito.
Questo potenziale programma è la condizione fondamentale per l’analisi, la
modificazione e il compimento di un volume e delle strutture interne ad esso subordinate.
Gli effetti primari dei volumi si generano attraverso la combinazione di cinque numeri
elaborati dallo strumento di lavoro: per esempio le primitive 3D (quali cubo, sfera, cilindro,
ecc.) si possono estrudere attraverso rotazioni o sviluppi lineari.
Il volume si può tagliare in parti a proprio piacimento, differenziare o riunire insieme
attraverso procedimenti di fusione.
Attraverso operazioni di scomposizione si decompongono i volumi in superfici. Queste
diventano, attraverso assegnazioni opportune, muri solidi di elementi costruttivi guidati per
essere prodotti.
Il software offre accanto agli strumenti costruttivi e di modellizzazione una serie di
possibilità di visualizzazione. Queste serie vanno dalle rappresentazioni fotorealistiche fino
ai modelli tridimensionali interattivi con più attori.
D: Quali software utilizza?
R: Microstation-J, Microstation-Modeler, Photoshop.
D: Può, attraverso otto fasi, descrivere lo sviluppo di Plasma House, il suo lavoro più
rapporesentativo?
R:
Fase 1
Libera scelta di volumi, dipendenti dal tipo di direttive edilizie della città.
Fase 2
Ordinamento bidimensionale della struttura spaziale risultante in base agli esami
riguardo le profondità d’uso degli spazi e al piano delle altezze.
Fase 3
Questa struttura spaziale deve riempirsi con la massa architettonica. Da ciò si esercita
una pressione negativa utile allo spazio dell’involucro nei singoli piani esposti a tali forze.
Fase 4
Sulla base di questi requisiti spaziali i volumi sviluppati sono eliminati, dopodiché
sussistono operazioni di lancio al di fuori dell’organismo in opposte direzioni, cosicché una
nuova struttura spaziale emerge, questa volta differenziata, in modo che, ora, le capacità
funzionali possono essere analizzate.
Fase 5
Un ulteriore processo del lancio segue: i nuovi corpi spaziali emergono nuovamente;
questi dipendono da funzione e posizione e sono collegati attraverso elementi secondari
come ponti, scale, passaggi, ecc.
Fase 6
I singoli volumi sono suddivisi in grande densità di intrecci con reti funzionali.
Fase 7
Le singole parti sono articolate in tutti i piani nelle tre dimensioni e quattro livelli.
Fase 8
Integrazioni del modello completo.
D: Può, per cortesia, descrivere passo per passo il suo procedimento di costruzione
della Plasma House?
R: Uno un oggetto d’uso quotidiano - in questo caso l’imballaggio dell’orologio G-Shock
Casio - deve essere costruito in funzione di particolari obiettivi che vengono posti, scelto
nella produzione di massa; questo viene dapprima digitalizzato e conseguentemente con
uno speciale software elaborato.
D: Quali paralleli vede tra gli oggetti di design e l’architettura?
R: Non c’è nessuna distinzione per me tra design e architettura. Ambedue hanno un
fine da raggiungere: loro devono portare una domanda funzionale in una forma. Per dirla
più semplicemente significa: la funzione in una casa è nell’abitare, nel lavorare o qualcosa
nel portare a conoscenza. Prendendo ad esempio un cavatappi, questo deve essere
appropriato all’uso, ovvero estrarre un tappo dalla bottiglia. In entrambi i casi affermano,
nella forma, un legame tra finalità ed estetica. L’estetica del design e dell’architettura è
inoltre la maggiore espressione dello spirito del tempo o dimostra il presente.
Uscendo al di fuori di questi semplici paralleli possiamo trarre la conclusione che è
insensato definire una distinzione tra design e architettura.
D: Perché lei parte con la sua prima fase?
R: Poiché c’è una profonda analogia tra design e architettura, perché non ci si deve
servire della creatività, infilando le forme? Tali influssi trasversali non sono eccezionali:
musica e moda si ispirano l’un l’altro, lo sport influenza la moda e così via. Per me questa
è una causa pressoché inevitabile, di come un oggetto di design come l’imballaggio
dell’orologio G-Shock si sviluppa in una casa. Per questo l’imballaggio dell’orologio GShock non ha un carattere astratto e autonomo nella forma, bensì essa è anche
multifunzionale nelle sue possibilità - si dimostra con ciò fuori dall’architettura tradizionale.
Esso è accatastabile e più il suo imballaggio è comunicativo, rappresentativo. Inoltre
l’imballaggio si può alleare con altri elementi per generare una nuova struttura: più
imballaggi possono essere riuniti in uno schermo a formare una grande pila. E alla fine
superano anche le loro possibilità, gli imballaggi alienano il loro originario scopo e possono
essere riempiti da qualsiasi cosa. Precisamente così nel futuro si lavorerà con i moduli
dell’architettura. Con ciò appare ovvio che le cose non hanno alcuna comune finitezza, e
solo le pareti si possono spostare o al più scegliere la forma delle coperture. Tutto va
verso un nuovo e radicale sbocco: le forme base relative e astratte possono dipendere dal
contesto e dalla funzione differenziandosi in base ai contenuti.
D: Cosa vuole dimostrare con le sue idee sulla Plasma House?
R: L’architettura degli ultimi vent’anni si è occupata principalmente delle sue radici
storiche. Un esempio di questo è l’architettura industriale formata dall’estetica dell’acciaio
e del vetro. La stagnazione creativa fu il risultato. È perciò tempo che l’architettura guardi
fuori di sé. Questo sta facendo e, mentre percorre questi passi uno dopo l’altro, trasforma
il territorio annettendolo a sé e sfruttandolo.
Questo territorio è divenuto il disegno di un oggetto d’uso. In un certo qual modo,
sussiste una nuova importanza per un simile processo [di rapporto con il territorio],
esattamente come il territorio ha influito sulla visione nel periodo successivo agli anni
sessanta. Attraverso le fantasie sulla navigazione spaziale, Archigram, Superstudio e J.
Friedmann hanno provocato in modo esemplare l’entusiasmo tecnologico. E loro furono
naturalmente influenzati dalle avanguardie russe. Nelle sue forme estreme questi schizzi
architettonici di stazioni spaziali potevano atterrare in qualsiasi luogo. Questi luoghi
possiedono perciò una nuova funzione e una nuova definizione. La classica edilizia
urbana avrebbe trovato in questi modelli un carattere solitario. Non si sarebbe classificato
come ambiente, bensì vi si sarebbe subordinato.
L’ingenuo entusiasmo per la navigazione spaziale e per il progresso tecnologico è
passato da molto.
Oggi è il mondo è sufficientemente occupato con il suo “qui e ora”. Le utopie sono
qualcosa del passato millennio.
Le utopie hanno corrisposto allo spirito del tempo, si sono occupate di vuote presenze.
La vita quotidiana e i temi dei nostri giorni sono le vere ispirazioni.
D: Qual è la relazione concettuale tra Plasma House e il design di oggetti?
R: Plasma House ha relazioni tra oggetto e architettura, tra forma e funzione.
Plasma House ha le stesse qualità di una confezione. Essa è accatastabile in fila e può
essere integrata in strutture superiori. Inoltre può essere usata per scopi diversi: come
abitazione, centro di acquisti, come terminal di aeroporto, eccetera. La sua costruzione
segue il concetto «la funzione segue la forma»: gli spazi vengono classificati nelle forme
prestabilite [gli spazi vengono classificati come contenitori di forma (MIO )]. Questo è un
compito assai impegnativo, ma d’altro lato questa è una vera innovazione per la forma.
Esso è un passo verso un incerto avvenire.
D: Che paralleli ci sono tra Plasma House e l’architettura sperimentale degli anni
sessanta?
R: Il primo parallelo è: entrambi sono esperimenti e con ciò sono salti in un nuovo
mondo di pensiero. La prima cosa fu che tutto divenne un gioco improvvisamente senza
più ruoli. Le referenze nascono invece sui fenomeni, sugli sviluppi, sulle correnti fuori
dall’architettura. Allora, negli anni sessanta, l’architettura era influenzata dalle navigazioni
spaziali, dalla fantascienza e dalla Pop Art. Oggi c’è un ardente desiderio verso le realtà
comprensibili, aspetto indicato ovunque nella società (il successo delle Soap-opera
televisive è un sintomo), e verso le illimitate possibilità dei software per computer e la loro
del tutto singolare estetica. Oltre a ciò abbiamo anche qualcosa in più: il reale esiste
anche agli oggetti d’uso comune elaborati con il computer.
D: Fino a che punto la sua Plasma House è collegata alla cultura Blob? È una nuova
definizione del Blob?
R: La genesi del blob è sfuggita alla genesi della Plasma House. Il Blob ha - come
anche le strutture biomorfe alla moda - forme arbitrarie e per ultimo anche non funzionali.
Nelle sue varianti delle prove costruttive essa è una forma senza contenuto. Plasma
House, al contrario è lo sviluppo di una struttura esistente, essa ha una funzionalità
autentica. Essa è vuota, ma questo è anche un nuovo sbocco per l’architettura. Un
ulteriore differenza è la giocosità, e con questo l’ultima facoltà del Blob, Plasma House
sostiene una severità funzionale sviluppata al di fuori.
D: I moderni software inaugurano nuove vie nello sviluppo dei progetti?
R: Si. Il software diventa un costruttore digitale sotto il controllo degli architetti umani.
Esso interpreta i vantaggi e procure quindi un risultato, questo ha una speciale
permanenza nella coscienza.
D: Perché lei procede così?
R: Molto semplice: le possibilità tecniche stabiliscono oggi il nostro pensiero. Pochi anni
fa nessuno comunicava tramite messaggi SMS con i telefono cellulari, perché questa
possibilità non c’era. Ora si spediscono notizie, immagini, pezzi musicali tra le persone con
questi sistemi digitali. La comunicazione trova con ciò una nuova maniera di esprimersi.
Anche l’architettura si comporta così. I nuovi software-CAD e la nuova estetica digitale
aprono alla configurazione degli edifici una nuova dimensione.
Anton Markus Pasing
Münster
Domanda: Cosa significa per lei spazio in architettura? Che ruolo gioca per lei?
Risposta: Lo spazio è la “pre-essenza”, nel senso di “esistenza a priori”. È un concetto
aprioristico.
Solo dentro questa ipotesi di spazio noi siamo nella condizione di intraprendere una
divisione, di considerarlo come entità a se stante, sfumarlo e fare delle formulazioni.
L’architettura è solo una delle possibili espressioni all’interno dello spazio. Per quanto
concerne gli ambiti sconfinati, lo spazio calma le nostre piccole anime con la creazione di
un sotto-spazio simulato, verificabile e chiaro. Uno spazio non può essere diviso. Esso
rimane sempre tale.
L’architettura ci aiuta a trovare un luogo.
Attraverso l’architettura, noi trasmettiamo nella matrice spaziale le nostre
rappresentazioni di mondo e molto altro ancora.
Lo spazio architettonico non è altro che un medium usato da molti.
D: Brevemente, quale relazione esiste tra la sua architettura e la forma?
R: La forma non esiste senza materiale. La forma non è solo la formulazione di materiali
con lo scopo di soddisfare i sensi (in senso erotico), o per richieste di carattere estetico o
funzionale.
La forma è un’auto-soddisfazione materiale e visuale. La forma è un’impronta
dell’anima. L’architettura è, a tal riguardo, solo una variante della forma.
La forma segue i sogni (Form follows Dream).
D: Qual è il punto di inizio, il primo passo nella genesi dell’organismo architettonico?
R: La brama, il desiderio è il punto di inizio. Successivamente noi costruiamo un’idea
per mezzo di un concetto che può diventare architettura. L’architettura può essere definita
organismo solo finché l’umanità con essa comunica o usa l’architettura.
L’architettura senza umanità è morta. Architettura e uomo costruiscono una famiglia.
D: Quale ruolo gioca il supporto del computer nella costruzione dei suoi progetti?
R: Il supporto informatico è, nella regola, solo uno strumento. Esso non rimpiazza
nessuna idea e nessun concetto. Tuttavia, i difetti e le possibilità dei diversi programmi
possono talvolta inserire apparizioni inattese o notevoli nella nascita dell’architettura.
Questi sbocchi possono essere dentro il progetto. Il computer può dare impulsi.
D: Quali software utilizza?
R: Cinema 4d, Vector Works (MiniCad), Photoshop, Strata Studio Pro, Swivel 3d, 3d
Max, Quark X-Press.