CLAUDE LÉVI-STRAUSS JEAN
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CLAUDE LÉVI-STRAUSS JEAN
CLAUDE LÉVI-STRAUSS JEAN - JACQUES ROUSSEAU, FONDATORE DELLA SCIENZA DELL’UOMO Invitando un etnologo alla celebrazione dei 250 anni della nascita di Rousseau, permettete a una giovane scienza di rendere omaggio al genio di un uomo che brilla in vasti settori (letteratura, poesia, filosofia, storia, morale, scienza politica, pedagogia, linguistica, musica, botanica, e altre ancora;)ma che fu anche un osservatore della vita contadina e un appassionato lettore di libri di viaggi, un acuto analista dei costumi e delle credenze esotiche. Insomma, l’etnologia lui l’aveva concepita con un secolo di anticipo, ponendola tra le scienze naturali e umane, indovinandone addirittura i primi passi, in un punto del “Discorso sull’origine della disuguaglianza”: «Stento a capacitarmi - scriveva - come mai in un secolo in cui ci si picca di belle conoscenze non si trovino individui disposti a fare un viaggio intorno al mondo,per studiarvi, non sempre pietre e piante ma una buona volta gli uomini e i costumi …. Supponiamo poi che, reduci da quelle spedizioni memorabili, facessero poi la storia naturale, morale e politica di quanto avessero visto: vedremmo a nostra volta un mondo nuovo uscire dalla loro penna, e impareremmo in tal modo a conoscere il mondo nostro .… ». Rousseau non si è limitato a prevedere l’etnologia: l’ha fondata. Sul piano pratico, ponendo il problema dei rapporti tra natura e cultura che induce a considerare il “Discorso” il primo trattato di etnologia generale. E inoltre sul piano teorico, distinguendo con chiarezza e concisione l’oggetto proprio dell’etnologo da quello del moralista e dello storico: «Quando si vogliono studiare gli uomini, bisogna guardare vicino a sé; ma per studiare l’uomo, bisogna imparare a guardare lontano; bisogna anzitutto osservare le differenze, per poter poi scoprire le proprietà» (dal “Saggio sull’origine delle lingue”). La regola del metodo che ne risulta, potrebbe essere considerato un duplice paradosso: da una parte riesce a preconizzare lo studio degli uomini più lontani, dedicandosi simultaneamente all’analisi particolare dell’uomo più vicino, cioè se stesso; dall’altra parte, la volontà sistematica di identificazione all’altro va di pari passo con un rifiuto ostinato dell’identificazione a sé. Ogni volta che è sul terreno, l’etnologo si vede alle prese con un mondo in cui tutto è estraneo, e spesso ostile. Solo quell’io, di cui ancora dispone, gli consente di sopravvivere e di compiere la sua ricerca. Ma è un io rattrappito e storpiato dal disagio, dallo scuotimento delle abitudini acquisite, dal sorgere di pregiudizi. Per cui nell’esperienza etnografica, l’osservatore si coglie come proprio strumento di osservazione, ma bisogna insegnargli a conoscersi: ogni carriera etnografica ha il suo principio in «confessioni», scritte o inconfessate. Infatti, per riuscire ad accettarsi negli altri, fine che l’etnologia assegna alla conoscenza dell’uomo, occorre anzitutto rifiutarsi in sé. A Rousseau dobbiamo la scoperta di questo principio (su cui possono fondarsi le scienze umane) inaccessibile per una filosofia che, avendo il cogito come punto di partenza, restava prigioniera delle pretese evidenze dell’io. Cartesio crede di passare direttamente dall’interiorità di un uomo all’esteriorità del mondo. Rousseau, che parla di sé in terza persona, è invece il grande inventore dell’obiettivazione radicale, quando definisce come suo scopo quello «di rendermi conto delle modificazioni della mia anima e del loro succedersi». E prosegue, nella “Prima passeggiata”: «Farò su me stesso in certo qual modo le operazioni che i fisici fanno sull’aria per conoscerne lo stato giornaliero». Cartesio credeva di poter dire che io so di essere, dato che penso. Rousseau, invece, esprime che esiste un «lui» che si pensa in me, e che mi fa dubitare se sono io a pensare (verità sorprendente, che la psicologia e l’etnologia ci hanno reso più familiare). E di quel «lui» così scoperto, Rousseau ha lucidamente iniziato l’esplorazione. «Ho un sentimento proprio della mia essenza, oppure la avverto attraverso le mie sensazioni? Ecco il primo dubbio che, almeno per ora, è impossibile risolvere». Ma in Rousseau il fondamento di questo dubbio consiste in una concezione dell’uomo che pone l’altro prima dell’io e in una concezione dell’umanità che, prima degli uomini, pone la vita. C’è una facoltà, contraddittoria, in pari tempo naturale e culturale, affettiva e razionale, animale e umana. Tale facoltà (che, nel diventare cosciente, passa dall’uno all’altro piano) è la pietà, che deriva dall’identificazione a un altro – non solo un parente, un vicino, un compatriota – ma un uomo, un vivente qualsiasi. L’uomo comincia con il sentirsi identico a tutti i suoi simili e non dimenticherà mai questa esperienza primitiva. Proponendo questa audace soluzione, Rousseau proclama nientemeno che la fine del cogito. Il suo pensiero prende dunque le mosse da due principi: quello dell’identificazione con l’altro, anzi con il più «altro» di tutti, l’animale (tutto ciò che vive e, anche, soffre); e il rifiuto di tutto ciò che può rendere «accettabile» l’io (un essere non già modellato, ma dato). La rivoluzione rousseauiana, preformando e avviando la rivoluzione etnologica, consiste nel rifiutare le identificazioni obbligate; allora l’io e l’altro, non più in antagonismo, recuperano la loro unità. Un legame originario, infine, ritrovato, permette di fondare insieme il noi contro lui, cioè contro una società nemica dell’uomo. Se è vero che la natura ha espulso l’uomo, e che la società persiste a opprimerlo, l’uomo può rovesciare i poli del dilemma a proprio vantaggio. Si è cominciato con il recidere l’uomo dalla natura, e con il costituirlo a regno sovrano; si è così creduto di cancellare il suo carattere più irrecusabile, ossia che egli è in primo luogo un essere vivente. Solo Rousseau ha saputo insorgere contro questo egoismo: preferiva ammettere che gli scimmioni d’Africa e d’Asia, malamente descritti dai viaggiatori, fossero uomini di una razza ignota, piuttosto che correre il rischio di contestare la natura umana a esseri che ne fossero dotati. E il primo errore sarebbe stato meno grave, poiché il rispetto altrui conosce un solo fondamento naturale che Rousseau scorge, nell’uomo, in «una ripugnanza innata a veder soffrire il suo simile» (“Discorso…”). Infatti, l’unica speranza, per ognuno di noi, di non essere trattato da bestia, sta nel fatto che tutti i suoi simili, e lui per primo, si colgano immediatamente come esseri sofferenti, e coltivino nell’intimo quell’attitudine alla pietà che, nello stato di natura, tiene luogo di «legge, di costumi, e di virtù», e senza il cui esercizio cominciamo a capire che, nello stato di società, non può esserci né legge, né costumi, né virtù. In una società incivilita, non potrebbe esserci scusa per il solo delitto davvero inespiabile dell’uomo: credersi superiore, e nel trattare gli altri uomini come oggetti: avvenga ciò in nome della razza, della cultura, della conquista, della missione, o semplicemente dell’espediente.