L`Unione europea e il terrorismo

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L`Unione europea e il terrorismo
Istituto di Politica, Amministrazione, Storia, Territorio - PAST
PAST Monografie n. 2
Febbraio 2013
L'Unione europea e il terrorismo (1970-2010)
Storia, concetti, istituzioni
Stefano Quirico
UNIVERSITA’ DEL PIEMONTE ORIENTALE “Amedeo Avogadro”
Dipartimento di Giurisprudenza e Scienze Politiche, Economiche e Sociali
Stefano Quirico
L'Unione europea e il terrorismo.
Storia, concetti, istituzioni
ISBN 978-88-907893-1-1
Tutti i manoscritti pubblicati in questa collana sono sottoposti a peer review
Istituto di Politica, Amministrazione, Storia, Territorio – PAST
Via Cavour 84
15121 Alessandria
http://past.unipmn.it
Indice
Introduzione
4
Elenco delle principali sigle e abbreviazioni
14
1. I prodromi della lotta europea al terrorismo (1970-1989)
1.1 Le origini della cooperazione politica europea
15
1.2 La nascita della cooperazione operativa e il fallimento
dello spazio giudiziario europeo
24
1.3 La crisi degli ostaggi in Iran e i tentativi di riformare
la Comunità
31
1.4 La svolta del 1985-86: le nuove competenze della CPE
in materia di antiterrorismo
39
2. La fine della guerra fredda e i primi passi dell’Unione europea (1990-2001)
2.1 La vittoria del blocco occidentale e il Trattato di Maastricht:
l’Unione politica
50
2.2 I conflitti religiosi, etnici e nazionali: la lotta al terrorismo
nell’epoca delle “nuove guerre”
58
2.3 L’evoluzione dell’Unione europea dopo Amsterdam:
politica estera e politica interna
70
2.3.1 Excursus sul concetto di “spazio”
76
3. L’11 settembre, la reazione europea e lo spirito atlantico (2001-2002)
3.1 La “scoperta” di Al Qaeda: la politica di fronte al
terrorismo globale e fondamentalista
88
3.2 Il dibattito sulla guerra in Afghanistan e sull’uso della forza
contro il terrorismo
94
3.3 Il rilancio della cooperazione giudiziaria: una nuova nozione
di terrorismo
108
4. Gli Stati Uniti, l’Europa e le spaccature sulla guerra in Iraq (2002-2003)
4.1 La guerra al terrorismo fra politica e morale: la “dottrina Bush”
123
4.2 L’intervento in Iraq nel dibattito euroamericano
137
4.3 La “dottrina Solana”: un’alternativa al bellicismo messianico
148
5. Il ritorno del terrorismo in Europa: il difficile equilibrio tra sicurezza
e diritti (2004-2010)
5.1 La strage di Madrid e il terrorismo come problema “interno”
157
5.2 Lo status dei prigionieri di Guantánamo e l’ambigua concezione
del terrorismo
164
5.3 La lotta al terrorismo dalla “Costituzione europea” al Trattato
di Lisbona
169
Conclusione
179
Bibliografia
184
3
Introduzione
La radice etimologica del termine “terrorismo” va ricercata nell’esperienza storica
del “Terrore” nella Francia rivoluzionaria. Secondo la lettura più diffusa, il lemma appare
per la prima volta nel supplemento del Dictionnaire de l’Académie française del 17981.
Alcuni studiosi, tuttavia, retrodatano di qualche anno il suo utilizzo: sarebbero J.-L. Tallien
in un discorso pronunciato il 23 agosto 1794 e Babeuf in un intervento dell’11 settembre
1794 a introdurre nel lessico politico le rispettive nozioni di terrorisme e terroristes2, che
discendono dal verbo terroriser ed esprimono «la volontà determinata di ispirare il
terrore»3. Nel 1795, inoltre, al termine inglese terrorists fa ricorso Edmund Burke per
qualificare i rivoluzionari francesi4. L’elemento fondamentale, condiviso da tutte le
ricostruzioni, è che il concetto di terrorismo trae la propria origine da una manifestazione
di violenza dei detentori del potere a danno di una parte della popolazione civile. Il Terrore
si configura dunque come una forma di violenza interna allo Stato moderno, che si affianca
alla – e si distingue con nettezza dalla – guerra, intesa come esercizio della forza verso
l’esterno, nel conflitto con altri Stati5.
La premessa concettuale di questa divaricazione risiede nel pensiero politico di
Thomas Hobbes, la cui dottrina dello Stato si fonda sul presupposto che la paura (fear),
propria degli uomini allo stato di natura, riveli il proprio lato “creatore” e giustifichi la
costruzione razionale di un potere politico artificiale dotato del monopolio della violenza.
Il Leviatano così istituito è chiamato a svolgere – insindacabilmente – una duplice
funzione: mantenere la pace sociale all’interno dello Stato, garantendo l’obbedienza alla
legge mediante il terrore (terror); difendere la comunità dalle minacce esterne attraverso la
guerra contro gli altri Stati6. Questo impianto si conserva sostanzialmente intatto lungo la
linea prevalente del pensiero politico della modernità europea, in cui peraltro emergono
1
Si veda L. Bonanate, Terrorismo internazionale, Firenze, Giunti, 2001, p. 9.
Cfr. A. Colombo, La guerra ineguale. Pace e violenza nel tramonto della società internazionale, Bologna,
Il Mulino, 2006, p. 55.
3
B. Lerat, Le terrorisme rivolutionnaire. 1789-1799, Paris, Editions France-Empire, 1989, p. 13. Traduzione
del redattore.
4
G. Chaliand e A. Blin, L’invenzione del terrore moderno, in Iid. (a cura di), Storia del terrorismo.
Dall’antichità ad Al Qaeda (2006), Torino, Utet Libreria, 2007, p. 96.
5
Cfr. A. Cavarero, Orrorismo. Ovvero della violenza sull’inerme, Milano, Feltrinelli, 2007, pp. 107-108.
6
Per le recenti letture del binomio paura-terrore nella filosofia politica hobbesiana, si rinvia a S. Quirico,
Paura, terrore, ordine. Note sul pensiero politico di Thomas Hobbes, «Il Pensiero Politico», a. XLIII, n. 2,
2010, pp. 253-264. Per un’analisi storico-concettuale del termine “paura”, non sovrapponibile a “terrore”, cfr.
la sezione monografica dedicata al lessico politico europeo da «Filosofia politica», a. XXIV, n. 1, aprile
2010.
2
istanze volte a limitare il dispiegamento della violenza pubblica sia all’interno
(costituzionalismo liberale) che all’esterno (giuridificazione dei rapporti internazionali)
dello Stato. Al culmine della diffusione dei principi liberali e poi democratici, è Max
Weber a precisare che lo Stato è detentore di una forza “legittima”, espellendo
definitivamente il terrore dall’alveo della violenza propria degli ordinamenti liberaldemocratici7.
Come conseguenza di questa svolta dottrinale, nel Novecento la categoria del terrore
viene sempre più associata all’azione degli Stati autocratici e in particolare alla loro
variante totalitaria. È nota la riflessione con cui Hannah Arendt individua nel “terrore”,
inteso come violenza che i totalitarismi rovesciano sulla società e su alcune sue parti in
particolare – i nemici “oggettivi” –, uno dei tratti distintivi del nazionalsocialismo e del
comunismo sovietico rispetto ad altri sistemi politici genericamente autoritari8. Nell’età
contemporanea, tale filone della violenza statale descrive una traiettoria che si declina in
varie forme9, ma di norma separate dal percorso storico e concettuale intrapreso dal
termine “terrorismo”. A partire dalla metà dell’Ottocento, quest’ultimo finisce per indicare
in modo pressoché esclusivo alcune forme di violenza politica utilizzate da individui o
gruppi “contro” lo Stato. Sono considerati esempi di questa seconda e ormai prevalente
accezione alcune correnti dell’anarchismo10 e i gruppi antizaristi in Russia a cavallo fra
XIX e XX secolo11.
Questi soggetti armati e quelli destinati a comparire nel corso del Novecento si
relazionano con lo Stato in modo decisamente peculiare. Non sono riconducibili alla figura
del “nemico esterno”, che è in genere un altro Stato sovrano con cui si entra in guerra,
ricorrendo al contributo di eserciti regolari. Né sono avvicinabili, anche e soprattutto per
loro espressa volontà, ai criminali ordinari, che violano le leggi interne dello Stato,
7
Cavarero, Orrorismo, cit., pp. 110-111.
Cfr. H. Arendt, Ideologia e terrore (1958), in Ead., Le origini del totalitarismo, Torino, Comunità, 1999,
pp. 630-656. In termini più generali, Ead., Sulla violenza (1968), Parma, Guanda, 2001, ammonisce circa i
rischi legati a una spirale innescata dalla degenerazione del «potere» statale in «violenza», in risposta a quella
esercitata dal basso (pp. 83-84).
9
Interessanti panoramiche sulla violenza di massa esercitata dagli Stati sono offerte da M. Flores, Tutta la
violenza di un secolo, Milano, Feltrinelli, 2005 e J. Semelin, Purificare e distruggere. Usi politici dei
massacri e dei genocidi (2005), Torino, Einaudi, 2007.
10
O. Hubac-Occhipinti, I terroristi anarchici del XIX secolo, in Chaliand e Blin (a cura di), Storia del
terrorismo, cit., pp. 112-130, che attira l’attenzione sulla “propaganda del fatto” cara agli anarchici italiani.
Su questo aspetto, proprio del pensiero di Carlo Pisacane e poi di Errico Malatesta, cfr. G. Berti, Il pensiero
anarchico dal Settecento al Novecento, Manduria, Laicata, 1998, pp. 388 e ss.
11
Y. Ternon, Il terrorismo russo (1878-1908), in Chaliand e Blin (a cura di), Storia del terrorismo, cit., pp.
131-175. Sulla fase “terroristica” vissuta dal populismo russo a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento, si
veda F. Venturi, Il populismo russo (1952), 3 voll., Torino, Einaudi, 1972 (seconda edizione, con un nuovo
saggio introduttivo), vol. III, Dall’andata nel popolo al terrorismo.
8
5
mettendone a repentaglio il clima di pace e sicurezza, e vengono puniti secondo le
procedure e le sanzioni stabilite dall’autorità pubblica. Almeno nelle intenzioni, i terroristi
non sono semplicemente fattori di turbamento dell’ordine pubblico, attori che negano solo
con i fatti il principio secondo cui lo Stato è l’unico detentore della forza e, in tale veste,
impegnato a neutralizzare i conflitti e proteggere i cittadini12. I terroristi si ritengono
portatori di una critica più radicale, che colpisce le fondamenta teorico-politiche dello
Stato e delle sue istituzioni. Se la delinquenza comune, per quanto cruenta e organizzata
sul territorio, ricorre alla violenza per finalità economiche, patrimoniali e dunque “private”,
il terrorismo strettamente inteso rivendica scopi propriamente “politici”, nel senso di
“pubblici”13. La lotta armata dichiara infatti di perseguire obiettivi come il cambiamento di
un regime politico-istituzionale, il superamento di un assetto economico-sociale, la
ridefinizione dei confini di uno Stato o di una regione, l’attribuzione di territori contesi e
così via. Il terrorismo lancia alle autorità statali una “sfida” sul terreno della politica e non
dei rapporti fra privati.
Per queste ragioni, i terroristi hanno l’ambizione di presentarsi come “nemici
pubblici interni” e chiedono allo Stato di essere riconosciuti come tali. Così facendo,
tuttavia, le autorità statali ammetterebbero l’esistenza di una frattura interna alla società, di
una guerra civile tra “parti” o “fazioni” di rilevanza pubblica, determinando il crollo
dell’impalcatura ideale e istituzionale su cui si regge la propria legittimazione. Questo
ragionamento spiega la tendenza dello Stato a equiparare i terroristi a criminali comuni,
considerandoli soggetti da perseguire penalmente e processare nei tribunali, interpretando
le loro azioni nei termini di reati e infrazioni della legge. I detentori del potere rifiutano in
tal modo di concedere ai terroristi la dignità di attori politici animati da una causa
legittima. In modo un po’ paradossale, capita talvolta che la dimensione politica, negata in
termini di status, riemerga come strumento giuridico utile ad accrescere l’entità delle pene.
Alcune legislazioni contemplano in effetti la finalità politica come aggravante per i reati
12
Per questa immagine dello Stato, cfr. P.P. Portinaro, Stato, Bologna, Il Mulino, 1999, p. 49, che trae spunto
dal paradigma elaborato da Charles Tilly, che paragona le funzioni dello Stato a quelle tipiche di
un’organizzazione criminale dedita al protection racket: l’eliminazione dei rivali esterni che minacciano il
territorio (war making), la neutralizzazione dei rivali all’interno del territorio (state making), la
neutralizzazione dei nemici dei clienti dell’organizzazione (protection) e l’acquisto imperativo dei mezzi per
esercitare tali compiti (extraction). Cfr. C. Tilly, War Making and State Making as Organisation Crime, in P.
Evans, D. Rueschmeyer and T. Skocpol (eds.), Bringing the State Back In, Cambridge, Cambridge University
Press, 1985, pp. 170-186.
13
Su tutto ciò si veda P. Gilbert, Il dilemma del terrorismo. Studio di filosofia politica applicata (1993),
Milano, Feltrinelli, 1997, pp. 55-60 in particolare. Cfr. anche F. Furet, Terrorisme et démocratie, in Id., A.
Liniers et P. Raynaud (sous la direction de), Terrorisme et démocratie, Paris, Fayard, 1985, pp. 7-33, che
insiste sulla volontà terrorista di colpire il potere come costruzione giuridica astratta emersa nella modernità e
poi evolutasi in senso democratico (pp. 10-17).
6
che possono essere compiuti sia per fini terroristici, sia per ragioni “ordinarie”14. Il
corollario a questa impostazione è il rigetto di ogni richiesta di trattativa, negoziato,
accordo con i rappresentanti di un gruppo terroristico15. La “criminalizzazione” del
terrorismo accompagna peraltro il fenomeno fin dalle origini: risale infatti alla
normalizzazione termidoriana della Rivoluzione francese l’uso della categoria di
terroristes nell’ambito di una strategia retorica volta a escludere «retroattivamente dal
campo politico legale e legittimo» i vinti, cioè i protagonisti della fase del Terrore appena
conclusa16.
Tra le varie forme di violenza dal basso affiorate nella storia europea e occidentale
(la rivoluzione di massa, il tirannicidio, ecc.), il terrorismo si caratterizza per alcuni
elementi fondamentali. Pur avendo a che fare con un fenomeno decisamente eterogeneo al
proprio interno, al punto da rendere arduo non solo il tentativo di darne una definizione,
ma anche quello di classificarne le varianti17, la letteratura politologica sottolinea in
particolare il carattere “strumentale” insito nell’agire terroristico. Ogni attentato è
indirizzato contro un bersaglio, ma contestualmente produce effetti che lo trascendono.
Questo tratto è messo abilmente in luce dalla figura del “triangolo”18: oltre al soggetto che
agisce e a quello che subisce, l’azione terroristica – per essere tale – coinvolge un terzo
partecipante. È lo spettatore che assiste all’operazione o ne è informato a costituire il vero
interlocutore dell’attore. Mentre il bersaglio sconta le conseguenze fisiche dell’azione, il
14
Gilbert, Il dilemma del terrorismo, cit., pp. 79-84 e pp. 207-208.
Ivi, p. 217.
16
Si veda la riflessione di S. Wahnich, La liberté ou la mort. Essai sur la Terreur et le terrorisme, Paris, La
Fabrique, 2003, pp. 96-97 in particolare. Traduzione del redattore.
17
Alcune proposte, più o meno elaborate, sono avanzate da: L. Bonanate, Terrorismo politico, in N. Bobbio,
N. Matteucci e G. Pasquino, (a cura di), Il Dizionario di Politica, Torino, Utet Libreria, 2004, pp. 980-984,
che riprende gli spunti offerti in Id., Dimensioni del terrorismo politico, in Id. (a cura di), Dimensioni del
terrorismo politico, Milano, Angeli, 1979, pp. 99-179; M. Crenshaw (ed.), Terrorism in Context, University
Park (PA), Pennsylvania State University Press, 1995; D. Della Porta e L. Pellicani, Terrorismo, in AAVV,
Enciclopedia delle scienze sociali, vol. VIII, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1998, pp. 590-605; E.
Greblo, Terrorismo, in R. Esposito e C. Galli (a cura di), Enciclopedia del pensiero politico. Autori, concetti,
dottrine, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 489-491; P.L. Griset, Terrorism in Perspective, Thousand Oaks,
Sage, 2003; J.M. Lutz e B.J. Lutz, Global Terrorism, London-New York, Routledge, 2004, pp. 14-16 e Iid.,
Terrorism. Origins and Evolution, New York-Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2005, pp. 11-13; D.
Rapoport (ed.), Terrorism. Critical Concepts in Political Science, 4 voll., London-New York, Routledge,
2006, dove la ripartizione dei tomi fotografa le successive “ondate” del terrorismo; V. Ruggiero, La violenza
politica. Un’analisi criminologica, Roma-Bari, Laterza, 2003; D. Tosini, Terrorismo e antiterrorismo nel
XXI secolo, Roma-Bari, Laterza, 2007, in particolare pp. 23-51; C. Townshend, La minaccia del terrorismo
(2002), Bologna, Il Mulino, 2004; P. Wilkinson, Why Modern Terrorism? Differentiating Types and Distinguishing Ideological Motivations, in C.W. Kegley Jr. (ed.), The New Global Terrorism. Characteristics,
Causes, Controls, Upper Saddle River, Prentice Hall, 2003, pp. 106-138.
18
Si veda in particolare Colombo, La guerra ineguale, cit., pp. 40-43.
15
7
soggetto terzo è chiamato a coglierne il senso profondo e il rimando simbolico19. La storia
del pensiero politico e la scienza politica paiono concordare, in altri termini, sul fatto che le
operazioni terroristiche contengano un messaggio, inviato alle istituzioni o all’opinione
pubblica, ai governanti o ai governati20, che ha in ogni caso l’obiettivo di mettere in moto
un meccanismo volto a perseguire obiettivi politici. Va peraltro precisato che questa lettura
del fenomeno terroristico, sia dal punto di vista dinamico che definitorio, poggia
sull’assunto che, nella maggior parte dei casi, i suoi strateghi perseguano un disegno
definito e almeno parzialmente indagabile, in quanto rispondente a un rapporto razionale
tra mezzi e fini21. È noto, d’altra parte, che alcuni comportamenti tendono a sfuggire a
questo modello, esprimendo invece visioni nichiliste o apocalittiche, figlie di un mero
cupio dissolvi22.
Senza entrare nel merito di questo dibattito, occorre piuttosto porre l’accento sul fatto
che, in termini storico-politici, la concezione del terrorismo delineata nelle pagine
19
Il carattere “simbolico” dell’azione terroristica, in quanto evento destinato ad avere un impatto superiore
agli effetti prodotti sul bersaglio, è esplorato da J. Baudrillard, Lo spirito del terrorismo (2001), Milano,
Cortina, 2002, pp. 39-41, da L. Bonanate, Il terrorismo come prospettiva simbolica, Torino, Aragno, 2006 e
da P.P. Portinaro, Violenza, in Id. (a cura di), I concetti del male, Torino, Einaudi, 2002, p. 362.
20
J.C. Alexander, Dagli abissi della disperazione: l’11 settembre come performance culturale (2001), in Id.,
La costruzione del male. Dall’Olocausto all’11 settembre, Bologna, Il Mulino, 2006, pp. 193-222, legge gli
attacchi dell’11 settembre 2001 come una rappresentazione messa in scena da Al Qaeda e rivolta a un
pubblico di spettatori. Sull’attentato come performance si veda anche R. Eyerman, L’assassinio come
performance pubblica: l’omicidio di Theo Van Gogh, «Studi culturali», a. IV, n. 1, aprile 2007, pp. 27-53.
21
Questa tesi è sostenuta con chiarezza da P.R. Neumann e M.L.R. Smith, The Strategy of Terrorism. How It
Works and Why Does It Fails, London-New York, Routledge, 2008, p. 6 e pp. 31-55, e da Tosini, Terrorismo
e antiterrorismo nel XXI secolo, cit., pp. 94-111, che mette in luce – weberianamente – la razionalità
“strumentale” denotata dai pianificatori delle azioni. Una commistione tra quest’ultima e la razionalità
“rispetto al valore” spiegherebbe invece l’atteggiamento di sostenitori e simpatizzanti. Da un punto di vista
strategico, dunque, non è rilevante che un esecutore materiale come Mohammed Atta, capo del commando
responsabile dell’11 settembre, esprima una personalità disturbata (in questa luce lo ritrae M. Ruthven, Il
seme del terrore. L'attacco islamista all'America (2002), Torino, Einaudi, 2003, pp. 141-147).
22
Si veda in generale J.F. Rinehart, Apocalyptic Faith and Political Violence, New York-Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2006. Il terrorismo è considerato sostanzialmente in questi termini nei più recenti scritti di
W. Laqueur (Il nuovo terrorismo. Fanatismo e armi di distruzione di massa (1999), Milano, Corbaccio,
2002; No End to War. Terrorism in the Twenty-First Century, New York-London, Continuum, 2003). Una
lettura nichilista del jihadismo contemporaneo è proposta da: A. Glucksmann, Dostoevskij a Manhattan
(2002), Firenze, Liberal libri, 2002; M. Ignatieff, Il male minore. L'etica politica nell'era del terrorismo
globale (2004), Milano, Vita e Pensiero, 2006, pp. 170-192; S. Givone, Nichilismo e terrorismo, ovvero: i
quattro cavalieri dell’Apocalisse, «Iride», a. XIX, n. 47, gennaio-aprile 2006, pp. 69-75, che legge in questa
luce il terrorismo di sinistra italiano (tesi ribadita in forma narrativa, e un po’ surreale, in Id., Non c’è più
tempo, Torino, Einaudi, 2008). U. Beck, Un mondo a rischio (2002), Torino, Einaudi, 2003 accenna alla
categoria della “banalità del male” per sottolineare il relativismo morale che caratterizzerebbe l’agire
terroristico, il quale sembra però distinguersi per un volontarismo – talvolta ossessivo – che impedisce di
apparentarlo alla lettura arendtiana della Shoah (H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme
(1963), Milano, Feltrinelli, 2001). Rapportarsi alla sfera dei valori con una dose di relativismo o di scetticismo laico è anzi considerato da alcuni intellettuali un antidoto al fondamentalismo, cfr. rispettivamente V.
Mura, Il relativismo dei valori e gli squilibri del terrore, in M. Bovero ed E. Vitale (a cura di), Gli squilibri
del terrore. Pace, democrazia e diritti alla prova del XXI secolo, Torino, Rosenberg & Sellier, 2006, pp. 193210 e A. Asor Rosa, La guerra. Sulle forme attuali della convivenza umana, Torino, Einaudi, 2002, pp. 217233.
8
precedenti si basa su alcune premesse dottrinarie e istituzionali associate alla modernità
europea. Per un verso, l’idea che i terroristi muovano all’assalto del monopolio della
violenza statale presuppone che la loro minaccia sia considerata interna ai confini dello
Stato. Questo assunto perde consistenza nella seconda metà del Novecento. La diffusione
del terrorismo internazionale, che ha la sua punta di diamante nell’azione dei vari gruppi
collegati alla causa della popolazione palestinese, e, successivamente, del terrorismo
globale di Al Qaeda, dimostra che il fenomeno tende a sfuggire – dal punto di vista delle
modalità operative, ma anche da quello delle strategie, degli obiettivi e dunque del suo
significato complessivo – alla logica politica moderna e territoriale, fondata sull’esistenza
di frontiere rigide e sulla compartimentazione fra Stati nazionali.
Per altro verso, la considerazione secondo la quale il terrorismo mira a mettere in
causa il ruolo delle autorità legittime si accompagna per lo più all’idea dello Stato come
soggetto politico scaturito da un processo di “autorizzazione” tipicamente hobbesiano, nel
quale prendono vita un potere unitario, una sovranità monista e un assetto istituzionale
centralizzato23. È all’interno di questa “forma politica”, prevalente nella modernità
europea, che le autorità sono detentrici delle competenze necessarie tanto alla tutela
dell’ordine pubblico, quanto alla difesa militare, e possono ricorrervi senza difficoltà,
optando per quelle più coerenti con la prospettiva da cui guardano il terrorismo. Nella
tradizione politico-istituzionale di derivazione hobbesiana, l’agire dei terroristi rappresenta
un pericolo ambiguo e controverso, che richiede di scegliere fra strumenti civili/di polizia o
militari, ma si trova in ogni caso di fronte un soggetto unitario. Questo modello di Stato, e
la corrispondente idea di sovranità24, non sono però gli unici presenti nella storia
occidentale moderna.
La situazione si complica decisamente, infatti, se ci si pone dal punto di vista del
pensiero federalista, che rifiuta la visione monolitica della sovranità su cui si regge l’intera
costruzione hobbesiana. L’impostazione dottrinaria di un’opera come il Federalist di
Hamilton, Madison e Jay precede storicamente l’emergere del terrorismo come fenomeno
politico riconosciuto, ma contiene comunque elementi destinati a influenzare il modo in
cui le autorità statali e federali si pongono nei suoi confronti. La premessa logica del
disegno di Hobbes è la necessità di creare le condizioni della pace tra gli uomini, che
23
Per questa lettura del pensiero hobbesiano si veda G. Duso, La logica del potere, Roma-Bari, Laterza,
1999, pp. 67-74.
24
Cfr. in proposito N. Matteucci, Sovranità (1976), in Bobbio, Matteucci e Pasquino (a cura di), Il
Dizionario di Politica, cit., pp. 709-717, poi rifusa in Id., Lo Stato moderno. Lessico e percorsi, Bologna, Il
Mulino, 1993, pp. 81-99, che si caratterizza per l’ipostatizzazione della concezione hobbesiana della
sovranità. Su tale nozione, si veda in generale D. Quaglioni, La sovranità, Roma-Bari, Laterza, 2004.
9
giustifica la cessione al sovrano, tra gli altri, del diritto dei sudditi di farsi giustizia
autonomamente. Viceversa, il discorso hamiltoniano si muove in larga misura sul piano dei
rapporti fra gli Stati, che, tramite la costituzione, rinunciano alla possibilità di dichiararsi
reciprocamente la guerra, trasferendo alla Federazione le competenze inerenti alla difesa da
attacchi esterni, ma conservano il potere di governare il proprio territorio.
Il Federalist si riconosce in effetti nel filone della teoria delle relazioni internazionali
che, ponendo al centro il problema dell’anarchia internazionale, tende a enfatizzare la
dimensione della politica estera su quella interna. E anche laddove si occupano del rischio
della guerra civile – il tema che, nella fase storica che accompagna la genesi dell’opera,
anticipa in certa misura il terrorismo otto-novecentesco –, i suoi autori non teorizzano un
apporto continuativo della Federazione nel mantenimento della sicurezza interna degli
Stati. Si ammette infatti che una «salda unione sarà di grandissima importanza per la pace e
la libertà degli Stati, quale barriera contro la faziosità interna e le insurrezioni»25 e come
«protezione contro la violenza intestina»26. Si rileva inoltre che l’«esistenza di un diritto di
intervento generalmente preverrà la necessità di esercitarlo»27, fungendo da deterrente nei
confronti dello scoppio di rivolte e violenze dal basso. Ma la Federazione si mobiliterebbe
solo a patto che «il numero delle persone che vi [prendessero] parte [fosse] di una certa
rilevanza rispetto a quello degli amici del governo»28. È difficile immaginare che la
minaccia del terrorismo, perpetrata per lo più da individui o piccoli gruppi, possa rientrare
in tale casistica. Nei suoi confronti, viceversa, sarebbero con tutta probabilità utilizzati gli
strumenti della giustizia penale, la cui titolarità, per lo meno nell’idea originaria, resta
«quasi completamente [nelle mani] dei singoli governi»29.
Il contesto politico-istituzionale che fa da sfondo al terrorismo è dunque un fattore
decisivo per comprendere in quali termini l’autorità ne percepisce l’azione e con quali
mezzi cerca di ostacolarla. Il presente lavoro assume come quadro di riferimento il
processo di integrazione europea, ponendosi l’obiettivo di esaminare in quale modo le
istituzioni europee trattino il problema del terrorismo dal punto di vista concettuale e
istituzionale. Le considerazioni svolte in questa introduzione hanno dunque lo scopo di
fornire le coordinate indispensabili per esaminare i documenti prodotti dalle istituzioni
europee nell’arco di un quarantennio (dal 1970 ai giorni nostri). È l’analisi dei testi –
25
A. Hamilton, J. Madison e J. Jay, Il Federalista (1788), a cura di M. d’Addio e G. Negri, con un saggio di
L. Levi, Bologna, Il Mulino, 1988, p. 183.
26
Ivi, p. 407.
27
Ivi, p. 408.
28
Ibidem.
29
Ivi, p. 237.
10
trattati, documenti strategici o d’indirizzo, atti legislativi, relazioni, documenti di lavoro,
comunicati stampa, discussioni parlamentari – e delle condizioni storico-politiche che
concorrono alla loro elaborazione il filo conduttore di questa ricerca, che si concentra in
modo particolare sull’evoluzione del lessico politico e dell’impianto istituzionale propri del
processo di costruzione europea.
Pur distinguendosi sia dal modello dello Stato hobbesiano, sia dall’ortodossia
federale incarnata dal Federalist, è a questa seconda variante istituzionale che la Comunità
e poi l’Unione europea, in modo ibrido e attraverso un’elaborazione funzionalisticocomunitaria, tendono ad approssimarsi. Il progetto di integrazione prende le mosse da una
concezione della sovranità che rifiuta l’elemento dell’“esclusività” e teorizza la divisione
verticale delle competenze e dei poteri fra gli Stati membri e le istituzioni sovranazionali30.
A caratterizzare l’esperienza europea, rendendola un unicum nella storia delle dottrine e
delle istituzioni politiche occidentali, è l’idea che l’attribuzione delle competenze fra i
diversi livelli di governo non sia data una volta per tutte, ma destinata a evolversi nel
tempo. Il disegno dei padri fondatori prevede che il raggio d’azione degli organi
sovranazionali, inizialmente molto limitato, si estenda progressivamente, abbracciando
nuovi campi d’intervento. Questa impostazione contribuisce a spiegare il motivo per cui il
tema del terrorismo si affaccia solo negli anni Settanta, punto di partenza dell’analisi qui
condotta31. Ma l’esito di tale avvicinamento non è affatto scontato, alla luce di quanto
prescritto in tema di sicurezza interna dal Federalist hamiltoniano, dalla cui lettura trae
ispirazione l’anima più ambiziosa e istituzionalmente consapevole dell’europeismo
novecentesco. Non è casuale che i primi e forse prematuri tentativi di dotare le comunità di
competenze politiche – si pensi per esempio al progetto della Comunità politica europea
degli anni Cinquanta – privilegino il settore della politica estera rispetto a quello degli
affari interni32, il cui sviluppo è viceversa fondamentale per intraprendere una lotta
organica al terrorismo.
30
Per questa lettura della sovranità moderna si vedano C. Malandrino, Sovranità nazionale e pensiero critico
federalista. Dall’Europa degli Stati all’unione federale possibile, «Quaderni fiorentini per la storia del
pensiero giuridico moderno», n. 31, tomo I, 2002, pp. 169-244, Id., Federalismo. Storia, idee, modelli, Roma,
Carocci, 1998, pp. 12-19 e pp. 40-43, e M. Fioravanti, La forma politica europea (2008), in Id.,
Costituzionalismo. Percorsi della storia e tendenze attuali, Roma-Bari, Laterza, 2009, pp. 134-148 (in
particolare pp. 143-148).
31
Il problema del terrorismo, in verità, è affrontato anche prima dell’avvio dell’avventura comunitaria, come
dimostrano le convenzioni adottate in proposito dalla Società delle Nazioni nel novembre del 1937, il cui
testo è riprodotto in appendice a N. Ronzitti (a cura di), Europa e terrorismo internazionale. Analisi giuridica
del fenomeno e Convenzioni internazionali, Milano, Angeli, 1990, pp. 147-163 ed è commentato da M.R.
Marchetti, Istituzioni europee e lotta al terrorismo, Padova, Cedam, 1986, pp. 117-131.
32
Cfr. D. Preda, Sulla soglia dell’unione. La vicenda della Comunità politica europea (1952-1954), Milano,
Jaca Book, 1994, pp. 169-180 e pp. 321-332.
11
Questo studio si trova quindi ad abbracciare un approccio diacronico, che si sforza di
tenere presenti gli effetti delle trasformazioni avvenute nei decenni presi in considerazione.
Si tratta ovviamente dei mutamenti dei caratteri propri dei vari “terrorismi” che interessano
l’Europa a cavallo tra XX e XXI secolo. Del pari, non si può trascurare l’evoluzione
politico-istituzionale del processo di integrazione, fisiologicamente caratterizzato da
continui adattamenti e correzioni. Queste dinamiche vanno tuttavia ricondotte ai più
generali cambiamenti politici, sociali e ideologici intervenuti nel contesto in cui il concreto
operare degli individui e delle istituzioni è immerso. Un conto è osservare il fenomeno
terroristico e la risposta europea nell’ambito della guerra fredda, del confronto tra blocchi
di Stati, in cui il pericolo dominante è costituito dal ricorso all’arma nucleare. Vigente il
“terrore” paralizzante dello scontro atomico, che assicura un equilibrio precario, una
stabilità frutto della deterrenza, i “terrorismi” – interni agli Stati o transfrontalieri – si
ritagliano uno spazio autonomo nella misura in cui il loro dispiegarsi non interseca le linee
di funzionamento fondamentali del sistema internazionale bipolare.
Ben diverso è lo scenario seguito alla dissoluzione del mondo sovietico, che pone
fine a quel modello e apre le porte a una rinnovata conflittualità regionale, in cui
l’esperienza del terrorismo si contamina con altre forme di violenza politica, a partire dalla
guerra. Il processo di globalizzazione rende anacronistiche alcune distinzioni e categorie
politiche sulle quali fanno perno la versione più tradizionale del terrorismo e le sue
modalità d’azione. La ripartizione e la sequenza dei capitoli in cui si articola questo libro
risponde dunque alla necessità di rendere conto, sul piano storico, ideale e istituzionale, del
passaggio dalla politica territoriale e Stato-centrica della modernità europea, nella quale la
nozione di terrorismo vede la luce, a quella “globale” e deterritorializzata che si manifesta
tra il XX e il XXI secolo.
La presente ricerca è stata realizzata nell’ambito del Corso di Dottorato di ricerca in
«Istituzioni, idee, movimenti politici nell’Europa contemporanea» (curriculum in «Storia
del federalismo e dell’integrazione europea») presso l’Università di Pavia. La traduzione di
quel lavoro pluriennale dapprima nella dissertazione finale e poi in questo volume è stata
possibile grazie alla guida, al sostegno e alle indicazioni di Corrado Malandrino, cui mi
lega la riconoscenza dell’allievo. In questa veste ho avuto l’opportunità di esporre i risultati
della ricerca all’interno delle attività della cattedra «Jean Monnet» in Storia
dell’integrazione europea, dapprima presso la Facoltà di Scienze Politiche di Alessandria e
12
poi nel Dipartimento di Giurisprudenza e Scienze Politiche, Economiche e Sociali
(DIGSPES) dell’Università del Piemonte Orientale.
Un generale e sentito ringraziamento ho il piacere di esprimere, accanto a familiari e
amici, ai membri del DIGSPES e soprattutto alla sua anima storico-politica – riunita
nell’Istituto di Politica, Amministrazione, Storia e Territorio (PAST) –, sui cui libri mi
sono formato e i cui consigli ho cercato di assimilare, inizialmente come studente e quindi
come giovane ricercatore. Esprimo inoltre la mia gratitudine nei confronti dei componenti
del Collegio Docenti del dottorato pavese, del Comitato direttivo dell’Associazione
Universitaria di Studi Europei (AUSE), del Centro Studi sul Federalismo (CSF) di
Moncalieri, e in particolare del suo Direttore, prof. Umberto Morelli, e dello staff del
Centro di Ricerca sull’Integrazione Europea (CRIE) dell’Università di Siena per le
numerose e interessanti occasioni di studio e confronto promosse negli ultimi anni.
Non avrei potuto svolgere la mia ricerca prescindendo dalla cortesia e dalla
disponibilità del personale della Biblioteca interdipartimentale «Norberto Bobbio»
dell’Università del Piemonte Orientale (con una speciale citazione per il dott. Paolo Amici,
che ho vessato con le richieste di prestito interbibliotecario), della Biblioteca interdipartimentale «Gioele Solari» dell’Università di Torino, dell’Istituto Universitario di
Studi Europei di Torino e dell’Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Alessandria «Carlo Gilardenghi».
13
Elenco delle principali sigle e abbreviazioni
APE
Archivio on-line del Parlamento europeo
AUE
Atto Unico Europeo
BdCE
Bollettino delle Comunità europee
BR
Brigate rosse
CIG
Conferenza intergovernativa
CPE
Cooperazione politica europea
CSCE
Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa
ETA
Euskadi Ta Askatasuna
GAI
Giustizia e affari interni
GU
Gazzetta ufficiale delle Comunità europee
IRA
Irish Republican Army
LTTE
Liberation Tigers of Tamil Eelam
MAE
Mandato di arresto europeo
NSCT 2003
National Strategy on Combating Terrorism 2003
NSCT 2006
National Strategy on Combating Terrorism 2006
NSS 2002
National Security Strategy 2002
NSS 2006
National Security Strategy 2006
PESC
Politica estera e di sicurezza comune
PESD
Politica europea di sicurezza e difesa
PPE
Partito popolare europeo
PSE
Partito socialista europeo
RAF
Rote Armee Fraktion
RCE
Registro on-line della Commissione delle Comunità europee
RCUE
Registro on-line del Consiglio dell’Unione europea
SLSG
Spazio di libertà, sicurezza e giustizia
TCE
Trattato sulla Comunità europea
TREVI
Terrorisme, radicalisme, extrémisme et violence internationale
TUE
Trattato sull’Unione europea
WMDs
Armi di distruzione di massa (weapons of mass destruction)
1. I prodromi della lotta europea al terrorismo (1970-1989)
1.1 Le origini della cooperazione politica europea
Al termine di un decennio contraddittorio, scandito dalla progressiva realizzazione
del mercato comune, ma segnato profondamente dalla crisi istituzionale del 1965-661, la
Comunità europea trova nella conferenza dell’Aia (1-2 dicembre 1969) un’occasione di
rilancio. Il Comunicato emesso al termine del vertice risveglia antiche speranze di
unificazione politica: nel paragrafo 15, infatti, i capi di Stato e di governo conferiscono ai
ministri degli Esteri l’incarico di studiare il modo migliore per avventurarsi al di fuori
dell’integrazione meramente economica, anche nella prospettiva del primo allargamento2.
La relazione dei ministri degli Esteri – nota anche come Rapporto Davignon, dal nome del
ministro belga chiamato a presiedere il comitato che elabora il testo – viene presentata
nell’autunno del 1970. Il documento precisa che l’invito a ragionare sull’unione politica è
declinato in termini di relazioni esterne, dedicando quindi tutte le energie disponibili ai
«grandi problemi di politica internazionale» e alle «questioni importanti di politica
estera»3. Prende il via in questo modo la cooperazione politica europea (CPE), che prevede
riunioni semestrali dei ministri degli Esteri (o dei capi di Stato e di governo, se necessario)
e la possibilità di convocare vertici straordinari. Il lavoro di raccordo e preparazione delle
diverse riunioni è affidato a un comitato politico, composto dai direttori degli affari
politici, che può formare gruppi di lavoro incaricati di compiti particolari.
Il rapporto Davignon incontra un certo successo anche grazie al profilo non
ambizioso delle sue proposte. Fatto tesoro dell’esperienza dei piani Fouchet, gli europei
rinunciano all’ambizione di creare un “direttorio politico” sovraordinato alla CEE e si
limitano ad avviare una cooperazione intergovernativa, parallela rispetto al piano in cui si
muovono le istituzioni comunitarie. La nuova iniziativa si mantiene inoltre distante da
1
Per le premesse dello scontro istituzionale e le modalità del suo svolgimento, cfr. C. Malandrino, «Tut
etwas Tapferes»: compi un atto di coraggio. L’Europa federale di Walter Hallstein (1948-1982), Bologna, Il
Mulino, 2005, pp. 143-203. Per un inquadramento generale della storia dell’integrazione europea, che fa da
sfondo alla presente ricerca, si vedano B. Olivi, L’Europa difficile, Bologna, Il Mulino, 2001, Id. e R.
Santaniello, Storia dell’integrazione europea. Dalla guerra fredda alla costituzione dell’Unione, Bologna, Il
Mulino, 2010, P. Cacace e G. Mammarella, Storia e politica dell’Unione europea (1926-2005), Roma-Bari,
Laterza, 2005, M. Gilbert, European Integration. A Concise History, Lanham, Rowman & Littlefield, 2012.
2
Comunicato finale della conferenza, L’Aia, 2 dicembre 1969, riportato in «Bollettino delle Comunità
europee», a. III, n. 1, 1970, pp. 11-18 (il paragrafo 15 è a p. 16). D’ora in poi indicherò questa fonte come
«BdCE».
3
Relazione dei ministri degli Esteri degli Stati membri sul problema dell’unificazione politica, in «BdCE», a.
III, n. 11, 1970, pp. 9-14. Le espressioni citate sono a p. 11 e a p. 12.
questioni delicate come la politica economica, la cultura e il settore della sicurezza e della
difesa strettamente inteso4. In realtà, i vertici della CPE saranno usati anche per
programmare i lavori dei capi di Stato e governo e, dal 1974, del Consiglio europeo,
finendo per occuparsi di materie che non sarebbero di loro formale competenza5. Al di là
del significato attribuitole da Davignon, la nozione di “cooperazione politica” esprime
un’ambivalenza di fondo, alludendo sia al tentativo di elaborare una politica estera
comune, sia al più generale progetto di coordinare il dibattito sulle principali questioni
politiche che emergono all’interno dei confini della Comunità6. Fin dall’inizio, insomma,
la separazione fra CEE e CPE si presenta fittizia e artificiosa, ma comunque necessaria per
non urtare le sensibilità dei governi più scettici verso la rilettura in chiave politica
dell’integrazione comunitaria.
Nelle loro riunioni periodiche, che avvengono spesso a margine del Consiglio CEE7 o
di eventuali consessi internazionali, i ministri degli Esteri discutono per lo più dei rapporti
Est-Ovest – in preparazione della Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa
(CSCE) che porterà agli accordi di Helsinki del 1975 –, della situazione in Medio Oriente e
delle dinamiche interne alla regione mediterranea. Il terrorismo irrompe sulla scena
europea nel settembre 1972, con l’attacco del gruppo filopalestinese “Settembre Nero” alla
delegazione israeliana alle Olimpiadi di Monaco. L’immediata reazione delle istituzioni
comunitarie è affidata al telegramma di condoglianze inviato all’ambasciatore israeliano
presso la CEE da Sicco Mansholt, presidente della Commissione:
La Commissione delle Comunità europee ha appreso con profonda emozione la notizia
dell’attentato perpetrato contro la squadra israeliana ai giochi olimpici di Monaco. I miei
colleghi ed io condividiamo la costernazione del mondo intero di fronte a quest’atto atroce e
preghiamo Sua Eccellenza di porgere al governo israeliano e alle famiglie delle vittime le nostre
più vive condoglianze8.
Come si può notare, il telegramma non fa alcun riferimento diretto al terrorismo,
4
S. Nuttall, European Political Cooperation, Oxford, Clarendon Press, 1992, pp. 37-55.
Si veda per esempio il resoconto della riunione CPE di Roma del 5 novembre 1971, in «BdCE», a. IV, n.
12, 1971, pp. 23-27.
6
C. Hill, European Preoccupations with Terrorism, in A. Pijpers, E. Regelsberger and W. Wessels (eds.),
European Political Cooperation in the 1980s. A Common Foreign Policy for Western Union?, Dordrecht,
Martinus Nijhoff Publishers, 1988, pp. 166-167.
7
È celebre, in quanto sintomatico della volontà di tenere formalmente distinti i lavori del Consiglio dagli
incontri in ambito di cooperazione politica, il caso del vertice di Copenaghen del settembre 1973, che precede
la riunione del Consiglio avvenuta a Bruxelles nel pomeriggio dello stesso giorno, con i medesimi
partecipanti.
8
Il testo del telegramma (6 settembre 1972) è riportato in «BdCE», a. V, n. 10, 1972, p. 220.
5
16
limitandosi a descrivere l’episodio come «attentato» o «atto atroce», senza tra l’altro
formulare una condanna decisa: si parla solo di emozione e costernazione, come se si
trattasse di una calamità naturale. Di lì a poco, l’11-12 settembre 1972, si svolge a Frascati
una riunione dei ministri degli Esteri, che ha il compito principale di preparare la
conferenza al vertice (capi di Stato e governo) prevista a Parigi nel mese di ottobre, ma non
può esimersi dall’intervenire sul fenomeno terroristico. I ministri concordano quindi un
comunicato relativo alla prospettiva di collaborazione nella lotta al terrorismo, novità
assoluta nella storia della costruzione europea:
Avendo il ministro degli affari esteri della Repubblica federale di Germania richiamato
l’attenzione dei suoi colleghi su alcuni recenti atti di terrorismo perpetrati in territorio tedesco,
la conferenza dei ministri degli affari esteri si è soffermata sul grave problema costituito dagli
atti di terrorismo e dagli atti di rappresaglia, che tante vittime innocenti mietono in varie parti
del mondo. Essi concerteranno la loro posizione al momento della discussione all’Assemblea
generale delle Nazioni Unite, quando tale punto figurerà all’ordine del giorno come è stato
suggerito dal Segretario generale, sig. Waldheim. Per quanto riguarda i problemi della sicurezza
interna dei rispettivi paesi, i ministri hanno deciso d’incaricare il Comitato politico di elaborare
proposte per una concertazione tra i servizi nazionali responsabili9.
Il testo concordato a Frascati non dà una definizione precisa del terrorismo, ma è
interessante per vari motivi. A proposito della genesi della discussione, il documento
spiega che il ministro degli Esteri tedesco ha sollevato il problema non solo in relazione
all’attentato di Monaco, bensì a una pluralità di episodi verificatisi sul territorio della
Repubblica Federale. Si è così indotti a ritenere che, in questa fase storica, al centro
dell’attenzione non sia solo il terrorismo internazionale, ma anche quello di matrice
interna, in considerazione delle frequenti azioni compiute in Germania dalla Rote Armee
Fraktion (RAF). Merita un approfondimento anche l’accostamento fra «atti di terrorismo»
e «atti di rappresaglia», con cui gli europei sembrano voler scongiurare il rischio che il
proprio intervento sia percepito come una condanna inappellabile della causa palestinese.
Nel mirino finisce dunque anche la reazione militare israeliana, concretizzatasi in alcuni
raid aerei sui campi profughi palestinesi in Libano e Siria.
Sul piano propositivo, la prima idea esplorata è la concertazione di una posizione
europea condivisa in sede ONU, cioè il luogo d’elezione per un dibattito a tutto campo sul
terrorismo internazionale, che inevitabilmente finirà per sfociare in una discussione sulla
9
Il testo è riportato in «BdCE», a. V, n. 10, 1972, pp. 220-221.
17
situazione mediorientale, a proposito della quale sono note e radicate le divisioni
all’interno dell’Assemblea Generale. Nella parte finale del documento si affaccia inoltre
l’ipotesi di studiare forme di cooperazione operativa fra le autorità nazionali investite del
compito di contrastare il terrorismo. Tale proposta lascia da parte i grandi scenari
internazionali e si pone dal punto di vista del contenimento delle conseguenze degli
attentati, prefigurando una collaborazione fra le forze responsabili della «sicurezza
interna» e affidandone l’elaborazione al comitato politico della CPE. Il primo abbozzo di
risposta concreta alla minaccia terroristica, dunque, ha carattere tecnico e reca lo stigma
istituzionale della cooperazione politica appena varata, benché sia difficilmente
presentabile come un’iniziativa coerente con l’accezione di politica estera sposata dal
rapporto Davignon.
Il progetto non ha un seguito apprezzabile nel periodo successivo. Il tema del
terrorismo è assente dalla Conferenza dei Capi di Stato e di governo di Parigi (ottobre
1972) e dalla prassi della CPE, che continua a privilegiare altre questioni, eludendo il
problema anche laddove esisterebbero le condizioni per affrontarlo. Eclatante è il caso
della Dichiarazione sul Medio Oriente, adottata il 13 ottobre 1973 in seguito alla
recrudescenza del conflitto israelo-palestinese e allo scoppio della guerra dello Yom
Kippur. Il testo contiene i princìpi fondamentali – l’inammissibilità dell’acquisizione di
territori con la forza, la necessità che Israele ponga fine all’occupazione dei territori
iniziata con la guerra del 1967, il rispetto dei diritti di tutti gli Stati della regione a
conservare la propria integrità territoriale e a vivere in pace, la tutela dei diritti legittimi dei
palestinesi al momento di stabilire una pace giusta e duratura10 – a cui gli europei
ispireranno negli anni seguenti la loro politica verso l’area mediorientale. Non trova
spazio, viceversa, la considerazione che le ragioni della popolazione palestinese sono
invocate, strumentalmente o meno, da iniziative di stampo terroristico che trovano
nell’Europa occidentale uno dei teatri più frequentati. Almeno nei documenti politici
ufficiali, dunque, gli Stati CEE rinunciano a tracciare un collegamento esplicito fra la
questione palestinese e il ricorso a forme di violenza politica da parte di soggetti che a essa
si richiamano.
Tale scelta, che risponde con tutta probabilità a valutazioni di ordine diplomatico11, è
coerente anche con una più generale tendenza ad accendere i riflettori della CPE sulle
10
Dichiarazione dei Nove sul Vicino Oriente, 13 ottobre 1973, in «BdCE», a. VI, n. 10, 1973, p. 115.
Non si trascuri inoltre la tendenza di alcuni governi europei a tollerare le azioni palestinesi una volta
ricevuta l’assicurazione che esse non colpirebbero i loro paesi.
11
18
relazioni fra Stati sovrani. In questo senso si muove la Dichiarazione sull’identità europea,
documento di ampio respiro che tenta di individuare le basi su cui costruire una visione
condivisa della politica estera europea, in una fase decisamente turbolenta delle relazioni
transatlantiche, a causa delle divergenze sulla guerra arabo-israeliana e sulla crisi
energetica. Il paragrafo 8 riguarda la dimensione della sicurezza:
I Nove, uno scopo essenziale dei quali è il mantenimento della pace, non vi perverranno mai
trascurando la loro sicurezza. Quelli che sono membri dell’Alleanza atlantica ritengono che non
vi sia attualmente alternativa alla sicurezza che viene garantita dalle armi nucleari degli Stati
Uniti e dalla presenza delle forze dell’America del Nord in Europa; sono, insieme, convinti che,
data la sua relativa vulnerabilità militare, l’Europa deve, se intende preservare la sua
indipendenza, mantenere i propri impegni e vigilare, con uno sforzo costante, allo scopo di
disporre di una difesa adeguata12.
Segnali analoghi si ricavano anche degli interventi del Parlamento europeo, l’istituzione
che più rapidamente delle altre sa prendere coscienza dei mutamenti politici e sociali, e che
tuttavia in una risoluzione del luglio 1975 non si distacca da un approccio Stato-centrico,
esprimendo la volontà di «combattere risolutamente ogni causa di conflitto o di tensione,
onde contribuire al mantenimento della pace nella libertà» e di «partecipare agli sforzi
tendenti a ridurre le tensioni e a comporre le vertenze nel mondo per via pacifica, e, in
Europa, a sviluppare la cooperazione e la sicurezza tra gli Stati»13. Si considerino infine gli
accenti dedicati al tema della sicurezza dal Rapporto Tindemans del 29 dicembre 1975, in
cui il premier belga risponde all’invito – formulato dai capi di Stato e di governo nel
vertice di Parigi del 1974 – a sondare il consenso verso la prospettiva di un’unione
politica14. In una prima e dominante accezione, la sicurezza è presentata come il settore
delle relazioni esterne della nuova (possibile) Unione che incarna il profilo più tradizionale
della politica estera, a cui si affiancano i rapporti commerciali15. L’attenzione si concentra
sulla «sicurezza verso l’esterno», che riguarda cioè il piano dell’interazione fra gli Stati ed
è associata a concetti come «blocchi», «vita internazionale», «mondo esterno», «Alleanza
atlantica», «difesa comune», «distensione»16. In secondo luogo, in relazione all’«Europa
12
Dichiarazione sull’identità europea, 14 dicembre 1973, paragrafo 8, in «BdCE», a. VI, n. 12, 1973, p. 131.
Parlamento europeo, Risoluzione sull’Unione europea, Strasburgo, 10 luglio 1975, in «BdCE», a. VIII,
supplemento n. 9, 1975, pp. 11-13. I passi citati sono a p. 11.
14
L’Unione europea. Rapporto di Leo Tindemans, primo ministro del Belgio, al Consiglio europeo, in
«BdCE», a. IX, supplemento n. 1, 1976.
15
Ivi, pp. 17-18 in particolare.
16
Ivi, p. 12, p. 13, p. 17, p. 18.
13
19
dei cittadini», si affaccia l’idea di «sicurezza sociale» come obiettivo di politiche collegate
a lavoro, salari, pensioni, questione femminile, ecc. nella sezione sulla sensibilità sociale
della Comunità17.
L’analisi di questi testi fondamentali induce a concludere che, fatta eccezione per il
fugace accenno al terrorismo nei giorni immediatamente successivi alla strage di Monaco
’72, nelle istituzioni comunitarie e nella CPE prevale una visione della sicurezza che ne
enfatizza quasi esclusivamente la componente “esterna”: “sicurezza nazionale” sarebbe
probabilmente la formula più evocativa, se il suo accostamento all’esperienza comunitaria
non apparisse fuori luogo e paradossale. In un’ottica che ammette le categorie di guerra e
pace, di conflitto e cooperazione, solo in riferimento al sistema degli Stati, e che è spesso
impregnata della logica della deterrenza nucleare, i pericoli dipendono innanzi tutto dal
possibile attacco militare di una potenza nemica su un territorio chiaramente definito, per
fronteggiare il quale la protezione della NATO appare la soluzione più efficace. Non è
presa in esame, invece, l’ipotesi che il concetto di sicurezza debba essere aggiornato alla
luce degli ultimi avvenimenti internazionali, dilatandosi fino a comprendere insidie
provenienti da attori non statali, come i gruppi terroristici che operano a cavallo delle
frontiere nazionali. Ciò accade anche perché la dimensione del terrorismo domestico, che
alcuni degli Stati membri stanno sperimentando ormai da qualche anno, in questa fase resta
al di fuori del processo di integrazione europea, non essendo la sicurezza interna dei
singoli paesi materia di competenza della Comunità, né della CPE.
Esiste – in verità – un fronte delle relazioni esterne in cui lo spettro del terrorismo fa
la sua apparizione, seppur in forma indiretta e discussa. Si tratta dei rapporti fra l’Europa
comunitaria e la Spagna, che a metà degli anni Settanta assiste all’estinzione naturale del
regime franchista e all’avvio del processo di transizione verso la democrazia. Il crepuscolo
della dittatura militare richiama l’attenzione degli europei per l’elevato numero di
condanne a morte sancite dalle autorità spagnole18. Particolarmente discussa è la pena
capitale a carico di Salvador Puig Antich, giovane catalano coinvolto nelle azioni armate di
una formazione antifranchista rivoluzionaria. In un clima politico reso incandescente dal
quasi contemporaneo attentato mortale ai danni del primo ministro spagnolo, Carrero
Blanco, da parte dell’Euskadi Ta Askatasuna (ETA), Puig Antich è giustiziato, ignorando
gli appelli alla clemenza provenienti da più parti. Fra questi va menzionato quello del
17
Ivi, pp. 25-26.
Sulla violenza terroristica esplosa in Spagna a partire dagli ultimi anni del franchismo si veda F. Reinares,
Dittatura, democratizzazione e terrorismo: il caso spagnolo, in R. Catanzaro (a cura di), La politica della
violenza, Bologna, Il Mulino, 1990, pp. 117-172.
18
20
Parlamento europeo, che il 14 marzo 1974 vota una risoluzione in cui rifiuta di ricorrere al
termine “terrorismo”, manifestando invece la propria «riprovazione per il ricorso
all’assassinio anche per motivi politici sia da parte degli Stati che dei singoli cittadini»19.
Con tale formula le autorità politiche spagnole sono poste sullo stesso piano dei movimenti
rivoluzionari.
Dall’utilizzo della categoria di «avversari del regime imperante» processati dai
tribunali speciali introdotti dalle «dittature» traspare addirittura un sentimento di umana
vicinanza al condannato – ulteriormente testimoniato dalla scelta dell’aggettivo
«commosso» per connotare l’atteggiamento del Parlamento – contrapposto alla condanna
del regime franchista, le cui «reiterate violazioni […] contro i diritti fondamentali
dell’uomo e del cittadino e il disprezzo dei diritti democratici delle minoranze in
un’Europa che cerca la sua via libera e democratica verso l’unità, impediscono l’adesione
della Spagna alla Comunità europea»20. La priorità avvertita dai parlamentari europei
appare quindi la denuncia dell’autoritarismo franchista, di fronte al quale l’eventuale uso
della violenza politica dal basso – pur criticata dalla risoluzione – passa in secondo piano.
La decisione di non attribuire al condannato l’etichetta di terrorista, e anzi di accentuarne i
tratti di perseguitato politico, è figlia del particolare contesto nazionale con cui l’azione del
suo gruppo eversivo deve fare i conti.
La vicenda compare nell’agenda della Commissione per impulso di Altiero Spinelli,
in quel frangente titolare dei portafogli dell’Industria e della Ricerca, che nel Diario
dimostra di assumere una posizione analoga a quella della maggioranza parlamentare:
Chiedo alla Commissione di fare un intervento presso il governo spagnolo perché faccia un atto
di clemenza verso l’anarchico Puig Antich condannato a morte pochi giorni fa. Soames resiste,
dice che non si tratta di persecuzione politica ma di un crimine punito dalla legge e secondo la
legge spagnola. Gli rispondo che non è a un inglese che devo spiegare che un processo fatto da
un tribunale militare e con le procedure dubbie impiegate in Spagna è sheer persecution.
Simonet è troppo sotto elezioni belghe per lasciarsi andare al suo penchant conservatore e mi
sostiene. Così gli altri, e infine Soames cede21.
19
Parlamento europeo, Risoluzione sugli avvenimenti in Spagna, 14 marzo 1974, in «BdCE», a. VII, n. 3,
1974, p. 98.
20
Ibidem.
21
A. Spinelli, Diario europeo, 3 voll., Bologna, Il Mulino, 1989-1992, vol. II, 1970-1976, p. 569.
L’annotazione è del 20 febbraio 1974. Christopher Soames, conservatore britannico, è commissario alle
relazioni esterne e vice-presidente della Commissione. Spinelli annota l’assenza del presidente Ortoli e dei
commissari Haferkamp e Cheysson.
21
L’uso del termine «anarchico» e le considerazioni sulla situazione politico-istituzionale
spagnola sono segnali della preoccupazione del grande europeista nei confronti di un uso
estensivo della categoria di “terrorismo” come strumento retorico funzionale alla
repressione del dissenso interno al regime.
La questione si ripropone sul finire dell’estate del 1975 a proposito delle condanne a
morte comminate ad alcuni terroristi baschi. In quest’occasione i ministri degli Esteri
valutano l’ipotesi di assumere una posizione comune, impresa resa tuttavia complessa dalle
divergenze fra gli Stati dell’Europa settentrionale, sensibili all’istanza dei diritti umani, e
quelli mediterranei, più attenti agli sviluppi del ruolo della Spagna nell’equilibrio
regionale. Per queste ragioni, la riunione CPE di Venezia dell’11-12 settembre non trova
l’accordo su una dichiarazione condivisa. Gli europei raggiungono un principio di intesa il
24 settembre, ma solo tre giorni più tardi le condanne vengono eseguite. Di fronte a tale
accelerazione, la diplomazia olandese non attende una reazione concertata dei Nove e
richiama il proprio ambasciatore da Madrid: la cooperazione politica finisce così per
denunciare i limiti strutturali legati alla sua natura intergovernativa22.
Nella seduta parlamentare del 25 settembre va in scena un dibattito segnato da
momenti di tensione, nel quale si profilano posizioni differenti. Da un lato, democristiani,
liberali e conservatori chiedono espressamente di scindere la richiesta di carattere
umanitario – sospendere la condanna a morte – da valutazioni di ordine politico, che
andrebbero rimandate a un secondo momento. I gollisti, per bocca dell’on. de la Malène,
invocano il rispetto del principio di non interferenza nelle questioni interne di un paese
terzo. Dall’altro lato, i socialisti denunciano il ricorso alla tortura come sintomo di
debolezza delle ragioni del governo spagnolo e chiedono la sospensione dell’accordo
commerciale; il gruppo comunista afferma che le condanne hanno colpito uomini e donne
in lotta per la libertà. La linea socialista, più “politica” rispetto a quella di centro-destra, si
impone nella votazione plenaria. Nella risoluzione adottata23, il Parlamento europeo non si
accontenta di dirsi «indignato» per una serie di «processi svoltisi nel disprezzo dei diritti
dell’uomo e dei principi giuridici fondamentali», né di ricordare che il rispetto di diritti e
libertà fondamentali è l’unica via attraverso cui la Spagna può raggiungere «pace» e
«libertà», ma aggiunge che le nuove ferite inferte alla sfera dei diritti umani e civili sono
frutto di leggi promulgate «sotto il pretesto della lotta contro il terrorismo» e si unisce alla
22
Per una ricostruzione della vicenda, si veda Nuttall, European Political Cooperation, cit., pp. 125-127.
Parlamento europeo, Risoluzione sulla situazione spagnola, Strasburgo, 25 settembre 1975, in «BdCE», a.
VIII, n. 9, 1975, pp. 64-65.
23
22
lotta del mondo democratico che vuole «salvare la vita dei condannati e […] ottenere la
revisione dei processi politici». A tale scopo, chiede a Commissione e Consiglio di
congelare i rapporti commerciali tra Comunità e Spagna. Lungi dal limitarsi a una supplica
di carattere umanitario, la maggioranza del Parlamento muove un’accusa neppure troppo
velata di uso strumentale dell’antiterrorismo a fini di repressione di oppositori e non
allineati, processati al di fuori delle regole dello Stato di diritto, sulla base delle opinioni
politiche più che di comportamenti documentabili. Incisiva si rivela anche la proposta di
rispondere con una rappresaglia concreta, cioè l’interruzione dei negoziati commerciali,
che invece i gruppi di centro-destra chiedevano di lasciare in sospeso.
A mobilitarsi è anche la Commissione europea, che il 10 settembre rivolge al
governo spagnolo un appello imperniato su motivi umanitari e, a esecuzioni avvenute,
attira l’attenzione sulla «profonda emozione» suscitata dalla notizia delle esecuzioni e
«deplora» – con un linguaggio tipicamente diplomatico – la condotta delle autorità
spagnole, sorde ai numerosi appelli fondati su «principi di giustizia e umanità»24. La
conseguenza quasi inevitabile è la richiesta di sospensione delle relazioni tra Comunità e
Spagna, annunciata il 1° ottobre dal portavoce della Commissione25. Sul punto
intervengono i ministri degli Esteri, riuniti a Lussemburgo il 6-7 ottobre 1975. Sotto le
vesti della CPE, viene emesso un comunicato di condanna nei confronti del
comportamento spagnolo26. L’accento è posto sui «diritti dell’uomo», sui «principi dello
Stato di diritto e, in particolare, dei diritti della difesa» e su «considerazioni umanitarie».
Nel contempo, si auspica che alla popolazione spagnola sia risparmiato «un processo di
scalata della violenza». In formazione di Consiglio, invece, si annuncia che i colloqui con
la Spagna non possono riprendere, accogliendo la proposta della Commissione. Complice
la morte di Franco, le relazioni CEE-Spagna torneranno alla normalità già nel gennaio
1976, con una serie di incontri fra rappresentanti della Commissione e del governo
spagnolo, utili a instaurare un clima di reciproca fiducia in cui svolgere i futuri negoziati
sull’ingresso della Spagna nella Comunità27.
Quanto emerso suggerisce due ordini di riflessioni. Nel merito della discussione, si
contrappongono due linee chiaramente alternative. L’una, maggioritaria in Parlamento,
24
Cfr. «BdCE», a. VIII, n. 9, 1975, p. 64.
Ibidem.
26
Il testo è riportato ivi, p. 65.
27
Sui rapporti tra la Spagna post-franchista e le istituzioni comunitarie si veda J.C. Pereira Castañares e A.
Moreno Juste, Il movimento per l’unità europea e il processo di transizione e consolidamento democratico in
Spagna (1975-1986), in A. Landuyt e D. Preda (a cura di), I movimenti per l’unità europea 1970-1986,
Bologna, Il Mulino, 2000, tomo I, pp. 346-348.
25
23
affronta la dimensione politica dei problemi ed evoca il delicato piano del terrorismo per
denunciarne l’uso improprio a fini di repressione del dissenso interno. L’altra, condivisa
dalla Commissione, dal Consiglio e dai parlamentari di centro-destra, riconduce tutta la
questione all’intervento umanitario. Questa seconda linea sposa il tradizionale principio di
non ingerenza negli affari interni di uno Stato sovrano, evitando inoltre di stabilire
automatismi fra condanna di un comportamento e adozione di sanzioni o misure punitive
da parte della CEE.
Dal punto di vista istituzionale, invece, è interessante notare come le istituzioni
comunitarie finiscano per esprimersi su temi evidentemente politici, benché nascondendoli
sotto il velo dei rapporti commerciali. Tale considerazione ricorda quanto sia difficile
distinguere con chiarezza il piano economico da quello politico: per salvare le forme è
necessario ricorrere a un escamotage come la scelta di attribuire ai ministri degli Esteri – e
dunque alla CPE – una dichiarazione elaborata nel corso di un’ordinaria sessione del
Consiglio, come quella del 6 ottobre. Questo aspetto, che solleva perplessità sulla reale
consistenza della separazione fra Consiglio e riunioni CPE, si aggiunge alle difficoltà
incontrate della cooperazione politica, a lungo paralizzata da divergenze che impongono
agli Stati membri di muoversi individualmente attraverso le diplomazie nazionali.
1.2 La nascita della cooperazione operativa e il fallimento dello spazio giudiziario
europeo
Nella seconda metà degli anni Settanta il terrorismo è ormai un fenomeno diffuso in
molti paesi europei. Ai gruppi che rivendicano con le armi l’indipendenza dei Paesi Baschi
dalla Spagna o dell’Ulster dalla Gran Bretagna si aggiungono le formazioni terroristiche di
matrice ideologica e rivoluzionaria, tra cui si distinguono la RAF in Germania e le Brigate
Rosse (BR) in Italia. Su pressione del governo britannico, alle prese con l’offensiva
dell’Irish Republican Army (IRA), che ha prodotto 245 morti negli ultimi 12 mesi, il
Consiglio europeo di Roma del dicembre 1975 prende in considerazione l’ipotesi di dare
vita a un coordinamento fra le forze dell’antiterrorismo: «Il Consiglio europeo ha
approvato una proposta del primo ministro del Regno unito [sic] perché i ministri
dell’Interno della Comunità (o i ministri aventi responsabilità analoghe) si riuniscano per
discutere materie di loro responsabilità, particolarmente nel campo dell’ordine pubblico»28.
28
Consiglio europeo, Conclusioni della presidenza, Roma, 1°-2 dicembre 1975, in «BdCE», a. VIII, n. 10,
1975, pp. 7-11. Il passo citato è a p. 9. Cfr. in proposito P. de Schoutheete, La coopération politique européenne, Bruxelles, Labor, 1986, pp. 173-174.
24
Si creano così i presupposti per una nuova forma di cooperazione, che si distingue sia
dal piano dell’integrazione comunitaria, a causa del contenuto politico che travalica le
previsioni dei Trattati, sia dalla più recente esperienza della CPE, che riguarda – almeno
nominalmente – solo la politica internazionale e si dispiega attraverso la concertazione fra i
ministri degli Esteri. La cooperazione introdotta alla fine del 1975, che assumerà la
denominazione TREVI29, è finalizzata invece alla tutela dell’ordine pubblico e, in coerenza
con tale obiettivo, coinvolge i ministri dell’Interno o, per gli Stati i cui ordinamenti
costituzionali non prevedono tale figura (Danimarca, Lussemburgo, Irlanda), i ministri
della Giustizia. Si tratta quindi di un settore di cooperazione politica non riducibile al
quadro della CPE, rispetto alla quale manterrà a lungo un inferiore livello di
formalizzazione e perfino di notorietà, anche fra gli addetti ai lavori30. La prassi TREVI è
in effetti circondata da un alone di opacità e mistero che induce lo studioso britannico
Simon Nuttall a dipingerla come la «zona grigia» della cooperazione politica fra gli Stati
membri31.
L’aspetto centrale, in ogni caso, è che proprio nel filone TREVI vanno ricercate le
principali iniziative europee in chiave antiterroristica. Fino agli anni Ottanta, infatti, la lotta
al terrorismo occuperà in ambito CPE una posizione defilata, limitata a occasionali pour
parler32. Quale approccio seguono i ministri degli Interni e della Giustizia nella loro
29
Più fonti interpretano tale sigla come l’acronimo della formula francese “Terrorisme, Radicalisme,
Extrémisme et Violence Internationale”, ma de Schoutheete, La coopération politique européenne, cit., p.
174, sostiene che si tratta di un semplice omaggio all’omonima fontana romana, nei pressi del luogo in cui il
nuovo filone della cooperazione europea è stato inaugurato.
30
Si pensi alle risposte che Aldo Moro, presidente della Dc, ex presidente del Consiglio ed ex ministro degli
Esteri, fornisce ai carcerieri brigatisti durante gli “interrogatori” che si susseguono nei 55 giorni di prigionia
nella primavera del 1978. Ricevuta una richiesta di ragguagli circa le forme di contrasto del terrorismo
praticate a livello internazionale, lo statista pugliese spiega di essere vagamente a conoscenza di una
«collaborazione intereuropea o, se si vuole, intergovernativa e non in forma intercomunitaria», dal momento
che «la collaborazione intergovernativa in ogni campo è preferita per la sua facilità e mobilità, mentre quella
che si chiama intercomunitaria è molto più impegnativa, segue regole precise» (cfr. il cosiddetto Memoriale,
che raccoglie le risposte di Moro alle Br, ritrovato in circostanze controverse e pubblicato in diverse sedi e
occasioni, fra le quali S. Flamigni, «Il mio sangue ricadrà su di loro». Gli scritti di Aldo Moro prigioniero
delle Br, Milano, Kaos, 1997, pp. 301-304). Tale accenno – inserito in una più ampia trattazione che potrebbe
velatamente alludere all’attività di “Gladio”, programma militare segreto e volto a predisporre strumenti di
guerriglia da utilizzare in caso di invasione sovietica, la cui esistenza sarà confermata dalle autorità italiane
solo un decennio più tardi – è inteso da alcuni studiosi come un richiamo alla Convenzione europea sulla
repressione del terrorismo del 1977 (cfr. M. Clementi, La pazzia di Aldo Moro, Milano, BUR, 2008, pp. 249251 e Id., Storia delle Brigate rosse, Roma, Odradek, 2007, p. 219 e nota 53 a p. 224), di cui si dirà fra breve.
In realtà, accennando ai «viaggi del Ministro in alcuni Paesi» e alle «collaborazioni selettive di antiguerriglia,
realisticamente, allo stato sperimentale», è più probabile che il leader democristiano si riferisca proprio agli
incontri fra i ministri dell’Interno e della Giustizia, in corso già da alcuni anni.
31
Nuttall, European Political Cooperation, cit., p. 300. Cfr. anche Hill, European Preoccupations with
Terrorism, cit., pp. 172-173 e A. de Guttry, La circolazione transnazionale delle informazioni tra organi
inquirenti su fatti di terrorismo: problemi di coordinamento e tutela dei diritti umani con speciale riguardo
alla realtà europea, in Ronzitti (a cura di), Europa e terrorismo internazionale, cit., pp. 46-47.
32
Hill, European Preoccupations with Terrorism, cit., pp. 167-168.
25
attività? Una risposta giunge dalla prima riunione, tenuta il 29 giugno 1976 a
Lussemburgo, che istituisce due gruppi di lavoro, costituiti da funzionari ed esperti posti
alle dipendenze dei ministri degli Interni: l’uno è dedicato specificamente al terrorismo,
mentre l’altro ha per oggetto le tecniche di polizia e l’addestramento del personale. Dal
comunicato stampa emesso al termine della riunione emerge una visione del terrorismo
come fenomeno sostanzialmente ricondotto a forma particolare di criminalità organizzata
(«lutte contre la criminalité internationale organisée, en particulier contre le terrorisme»33),
da fronteggiare attraverso la consultazione e la collaborazione fra le autorità competenti dei
diversi Stati membri. Il programma concordato – incentrato su scambio di informazioni ed
esperienze, su equipaggiamento e formazione delle forze di polizia, sull’ipotesi di prestarsi
reciproca assistenza in caso di attacchi – restituisce una concezione meramente tecnicooperativa della minaccia terroristica e delle possibili risposte in termini di ordine pubblico,
scelta perfettamente in linea con il profilo istituzionale dei soggetti riuniti, cioè i ministri
dell’Interno34. Non deve quindi stupire l’assenza di una riflessione che esplori cause,
moventi, scopi del fenomeno.
Pur pura coincidenza, l’incontro di Lussemburgo si svolge mentre è in corso la crisi
di Entebbe (Uganda), dove un aereo della compagnia Air France, diretto da Tel Aviv a
Parigi, è stato dirottato da un gruppo armato palestinese (27 giugno). I passeggeri israeliani
o di origine ebraica sono tenuti in ostaggio fino all’intervento risolutivo delle forze militari
israeliane nella notte fra il 3 e 4 luglio. Si tratta di un avvenimento che non lascia
insensibili i leader europei, che in occasione del Consiglio europeo del 12-13 luglio
concordano una Dichiarazione sul terrorismo. Nel testo si legge che gli Stati giudicano
«totalmente inaccettabile il metodo inumano consistente nel prendere ostaggi al fine di
esercitare pressioni sui governi per qualsiasi scopo, politico o meno, o per qualsiasi altra
ragione»35. I capi di Stato e di governo, dunque, si spingono più in là di quanto fatto poche
settimane prima dai ministri TREVI. Da un lato, essi negano qualsiasi legittimazione alle
azioni terroristiche, comprese quelle presentate come finalizzate a realizzare i più nobili
ideali. Nel contempo, i governi europei lasciano trasparire la consapevolezza che il
terrorismo non può essere ridotto a mero esercizio della violenza, dal momento che trae
spesso origine dalla sfera dei rapporti politici e in tale contesto occorre individuare le
33
Communiqué de presse public lors de la première réunion des ministres de l’Interieur, Luxembourg, 29
june 1976, in de Schoutheete, La coopération politique européenne, cit., p. 184.
34
Ivi, pp. 185-186. Cfr. su questo Hill, European Preoccupations with Terrorism, cit., p. 168.
35
Consiglio europeo, Dichiarazione sul terrorismo internazionale, Bruxelles, 13 luglio 1976, in «BdCE», a.
IX, n. 7-8, 1976, pp. 132-133. Corsivo del redattore.
26
chiavi di lettura per interpretarlo. Poco oltre, si stabilisce un’interessante associazione tra
«atti di terrorismo», «sequestri di persone» e «atti di pirateria», che riflette le modalità
dell’azione palestinese di Entebbe e pare voler porre l’accento sullo status di irregolari che
accomuna i terroristi ai pirati, categoria che si affaccia ripetutamente nelle concezioni della
guerra elaborate nella storia del pensiero politico occidentale36.
Benché non sufficiente per consentire l’inserimento di un richiamo alla pratica
terroristica palestinese nei documenti sul Medio Oriente37, l’intervento è significativo
perché affianca la cooperazione giudiziaria a quella operativa avviata con TREVI. Il
Consiglio europeo incarica infatti i ministri della Giustizia di preparare una convenzione
che consenta di processare o estradare i soggetti considerati responsabili delle azioni
compiute ai danni di ostaggi. Invitati finora a prendere in esame le sole materie
contemplate dal diritto comunitario o chiamati a discutere di ordine pubblico in vece di un
ministro dell’Interno classico, ai ministri della Giustizia è per la prima volta affidato un
compito di un certo rilievo nell’ambito del diritto penale. Questo nuovo aspetto
dell’integrazione europea è destinato a intrecciarsi con il lavoro svolto in parallelo dai
membri del Consiglio d’Europa, che nel gennaio del 1977 firmano la Convenzione europea
per la repressione del terrorismo38. Vale dunque la pena soffermarsi brevemente sui
contenuti di tale documento.
L’obiettivo fondamentale è la semplificazione della procedura di estradizione, istituto
particolarmente sollecitato dal modus operandi del terrorismo internazionale. Catturare e
processare i soggetti sospettati degli attentati è particolarmente difficile nel momento in cui
sono coinvolti territori, cittadini e interessi di una pluralità di Stati e ordinamenti giuridici.
Secondo una tendenza comune a quasi tutti gli accordi internazionali relativi a queste
materie, anche il testo redatto dal Consiglio d’Europa rinuncia a proporre una definizione
compiuta del terrorismo. L’ostacolo viene superato elencando una serie di reati
comunemente associati alla condotta terroristica (art. 1), alcuni dei quali trattati da
precedenti convenzioni internazionali ad hoc: «illecita cattura di un aeromobile», «atti
illeciti compiuti contro la sicurezza dell’aviazione civile», «reato grave che comporta un
36
Cfr. E. Di Rienzo, «Bellum piraticum» e guerra al terrore. Qualche considerazione problematica,
«Filosofia politica», a. XIX, n. 3, dicembre 2005, pp. 459-470.
37
Si veda in particolare Consiglio europeo, Dichiarazione sul Medio Oriente, Londra, 29 giugno 1977, in
«BdCE», a. X, n. 6, 1977, pp. 71-72.
38
Convenzione europea per la repressione del terrorismo, Strasburgo, 27 gennaio 1977. Il testo è disponibile
in italiano, nella traduzione ufficiale effettuata dalla Cancelleria federale svizzera, all’indirizzo:
http://conventions.coe.int/Treaty/ita/Treaties/Html/090.htm. Si vedano in proposito D. Freestone, The EEC
Treaty and Common Action on Terrorism (1984), ora in E. Moxon-Browne (ed.), European Terrorism,
Aldershot, Darmouth, 1993, pp. 413-416 e Marchetti, Istituzioni europee e lotta al terrorismo, cit., pp.14-57.
27
attentato alla vita, all’integrità fisica o alla libertà di persone che godono di protezione
internazionale, ivi inclusi gli agenti diplomatici», «un rapimento, la cattura di un ostaggio o
un sequestro arbitrario», «ricorso a bombe, granate, razzi, armi automatiche, o plichi o
pacchi contenenti esplosivi ove il loro uso rappresenti un pericolo per le persone», oltre al
tentativo di commettere uno dei precedenti reati o parteciparvi come coautori o complici.
In sostanza, sono riassunte le principali azioni cui ricorrono i terroristi, senza poterle
tuttavia qualificare esplicitamente come terroristiche.
Dal punto di vista concettuale, l’aspetto più rilevante è l’affermazione che precede
l’elenco: «Ai fini dell’estradizione tra gli Stati contraenti, nessuno dei reati che seguono
verrà considerato come reato politico o reato connesso a un reato politico, o reato ispirato
da ragioni politiche». L’idea di fondo è che il meccanismo giuridico dell’estradizione
possa funzionare correttamente solo a condizione che ai reati in questione e ai soggetti che
li commettono venga negato un movente politico, che consentirebbe loro di presentarsi
come perseguitati politici e chiedere asilo a uno Stato europeo39. Per ottenere risultati
concreti sul piano giudiziario-processuale, il documento si trova a dover parificare, dal
punto di vista formale, gli atti terroristici ai crimini commessi da delinquenti comuni.
Ciò non di meno, la realizzazione dell’auspicio che gli Stati rinuncino a rintracciare
una dimensione politica in tali azioni rischia di essere inficiata da due articoli della
convenzione stessa. A tutela del diritto di asilo, minacciato dai nuovi accordi, l’art. 5
precisa che gli Stati hanno la facoltà di rifiutare l’estradizione a carico di soggetti
realmente vessati per motivi religiosi, razziali, nazionali o politici. Portando all’estremo
questa eventualità, l’art. 13 riconosce a ciascun contraente il diritto di allegare una
dichiarazione in cui si riserva di considerare come reato politico uno o più reati elencati
dall’art. 1, ponendosi dunque nelle condizioni di rifiutare le richieste di estradizione
relative a quei casi. Tale clausola, che discende dalla consapevolezza di non poter aggirare
lo scoglio della sovranità nazionale in queste materie, è evidentemente suscettibile di
rendere la Convenzione poco incisiva sul piano operativo, benché resti in carico agli Stati
che rifiutano l’estradizione l’obbligo di processare i responsabili, alla luce del principio aut
dedere aut judicare40. Questo decisivo corollario non sminuisce tuttavia la portata che il
documento assume in termini politico-ideali, dal momento che l’intenzione di espungere i
comportamenti terroristici dall’alveo di quelli ritenuti politicamente legittimi rimane carica
39
Cfr. B. Nascimbene, Terrorismo e diritti dell’uomo, in Ronzitti (a cura di), Europa e terrorismo
internazionale, cit., p. 110.
40
Ivi, p. 111.
28
di significati.
Nel dicembre del 1977 è la Francia a fornire un ulteriore stimolo alla discussione in
atto. Il presidente della Repubblica Giscard d’Estaing avanza al Consiglio europeo di
Bruxelles la proposta di creare uno spazio giuridico europeo41, che avrebbe una portata di
carattere generale e conterrebbe potenzialità non trascurabili soprattutto nella lotta contro i
terroristi e la loro tendenza ad annidarsi nelle pieghe della legislazione sull’estradizione.
Gli europei si trovano a questo punto a esaminare varie proposte, la cui compatibilità
dev’essere ancora verificata. Ad accelerare il processo in corso sono il sequestro e
l’omicidio dello statista italiano Aldo Moro a opera delle Br, nella primavera del 1978. Nel
mese di aprile, con Moro ancora prigioniero dei brigatisti, il Consiglio europeo di
Copenaghen diffonde un testo che traccia le linee guida dell’impegno europeo contro il
terrorismo. In termini analitici, i leader europei mettono a fuoco la minaccia che
l’inquietante diffondersi di tale fenomeno arreca ai «diritti degli individui e [alle]
fondamenta delle istituzioni democratiche», evocando indirettamente il carattere pacifico e
non violento su cui poggia l’intera costruzione teorica e istituzionale della democrazia
occidentale42. Sul piano propositivo, il Consiglio europeo riconosce «un’assoluta priorità al
proseguimento degli sforzi volti ad intensificare la cooperazione dei Nove per la difesa
delle nostre società dalla violenza terroristica». Questo obiettivo si concretizza nella
richiesta ai «ministri responsabili» di trarre le conclusioni dal dibattito sullo spazio
giuridico europeo.
La logica conseguenza di tutto ciò è la dichiarazione dei ministri della Giustizia,
riuniti a Lussemburgo il 9-10 ottobre 197843 per fare il punto sulle proposte sul tavolo. Due
sono i filoni di lavoro indicati per i mesi successivi. In primo luogo, si tratta di siglare un
accordo fra gli Stati membri al fine di garantire l’applicazione coerente della Convenzione
europea per la repressione del terrorismo adottata dal Consiglio d’Europa nel 1977, scelta
che per taluni accorda implicitamente una sorta di primato alle iniziative promosse dal
Consiglio d’Europa rispetto alla cooperazione politica dei Nove44. In secondo luogo, viene
41
Cfr. «BdCE», a. X, n. 11, 1977, p. 112.
Il testo è riprodotto in «BdCE», a. XI, n. 4, 1978, p. 91. Cfr. anche M. Dell’Omodarme, L’Europa dei
Nove, in R.H. Rainero (a cura di), Storia dell’integrazione europea, vol. II, L’Europa dai Trattati di Roma
alla caduta del muro di Berlino, Settimo Milanese-Roma, Marzorati-Editalia, 1997, p. 107 e de Schoutheete,
La coopération politique européenne, cit., p. 178.
43
Sui contenuti del vertice, condotto il 9 come sessione del Consiglio dedicata a questioni di diritto CEE e il
10 come conferenza dei Ministri della Giustizia volta a esaminare temi politici, cfr. «BdCE», a. XI, n. 10,
1978, pp. 11-13. Sul testo adottato in merito alla lotta al terrorismo attraverso la cooperazione giudiziaria, cfr.
Recommandations de la Conférence des ministres de la Justice, Luxembourg, 10 Octobre 1978, in de
Schoutheete, La coopération politique européenne, cit., pp. 188-190.
44
Si veda per es. Hill, European Preoccupations with Terrorism, cit., pp. 170-171.
42
29
preso in esame il progetto francese di spazio giuridico europeo, a partire dal tema
dell’estradizione in generale ed estendendo in seguito l’integrazione ad altri ambiti del
diritto penale, allo scopo di perseguire «les actes de violence grave en général et le
terrorisme en particulier»45. A complicare ulteriormente il quadro istituzionale, è la
circostanza per cui le trattative sull’applicazione della Convenzione sono di fatto gestite da
esperti legali indicati dai ministeri degli Esteri, che affiancano ed esautorano i ministri
della Giustizia, mentre lo spazio giuridico è di competenza esclusiva di questi ultimi46.
Le iniziative così abbozzate giungono a maturazione nel corso del 1979. Il primo
passo concreto è compiuto dai ministri della Giustizia a Dublino il 4 dicembre, con la firma
dell’accordo fra gli Stati membri per l’applicazione della Convenzione del 1977, in attesa
della ratifica di quest’ultima. In tal modo, i Nove anticipano l’impegno a estradare o
processare gli autori di reati terroristici assunto con la Convenzione, fatta eccezione per le
riserve formulate a livello nazionale47. La ratifica dell’accordo di Dublino si arena però in
pochi mesi. La data cruciale, in cui la situazione degenera, è il 19 giugno 1980, quando a
Roma si riuniscono informalmente i ministri della Giustizia. Il dibattito verte, fra l’altro,
sul progetto francese di spazio giuridico europeo, nel cui ambito si cerca di individuare un
approccio condiviso al tema complessivo dell’estradizione. Adducendo la propria
preoccupazione per il rispetto del diritto d’asilo, i rappresentanti olandesi rifiutano di
procedere su quella strada. L’immediata reazione francese è l’annuncio della mancata
ratifica dell’accordo di Dublino48.
A un passo dall’introduzione di innovazioni fondamentali per lotta al terrorismo,
dopo accanite discussioni anche all’interno del Parlamento europeo49, i Nove si trovano
improvvisamente a mani vuote, per effetto della rappresaglia dello Stato inizialmente più
dinamico sul fronte dell’integrazione giudiziaria. Il governo francese contribuisce in tal
modo a innescare una spirale distruttiva alimentata negli anni Ottanta dal nuovo presidente,
François Mitterrand, destinato a dare il nome a una dottrina fondata sulla concessione
dell’asilo politico ai soggetti accusati di reati terroristici, che pregiudicherà a lungo ogni
tentativo di rilanciare la cooperazione giudiziaria50.
45
Recommandations de la Conférence des ministres de la Justice, cit., p. 188.
Nuttall, European Political Cooperation, cit., p. 295.
47
Hill, European Preoccupations with Terrorism, cit., p. 171 e nota 6 a p. 190.
48
Cfr. «BdCE», a. XIII, n. 6, 1980, pp. 100-101. In argomento, si veda Nuttall, European Political
Cooperation, cit., p. 296, che sottolinea anche il peso crescente dell’opposizione socialista alla maggioranza
giscardiana.
49
Marchetti, Istituzioni europee e lotta al terrorismo, cit., pp. 90-93.
50
Freestone, The EEC Treaty and Common Action on Terrorism, cit., pp. 214-215. Sulla linea mitterrandiana
si vedano anche M. Gervasoni, François Mitterrand. Una biografia politica e intellettuale, Torino, Einaudi,
46
30
Se le iniziative in tal senso vengono abbandonate, non scompare, invece, l’esigenza
oggettiva che le ispira, vale a dire la crescente permeabilità delle frontiere, di cui possono
avvalersi criminali e terroristi, ma non le autorità giudiziarie chiamate a perseguirne i
reati51. A imbrigliare l’azione dei magistrati sono le insidie nascoste in ogni tentativo di
definizione o elaborazione intellettuale sul terrorismo, che non casualmente il gruppo
TREVI – l’unica forma di cooperazione europea coronata finora da un relativo successo,
anche se rimasta nell’ombra52 – continua a evitare, limitandosi a un’opera di contrasto
fondata sulla collaborazione pratica. Proprio alla luce di questa esperienza, non sembra del
tutto fondata la tesi secondo cui le iniziative a sfondo giuridico falliscono anche perché
realizzate al di fuori del quadro istituzionale formale della CPE53. A fine 1979 è anzi il
presidente di turno, il ministro degli Esteri irlandese O’Kennedy, a rilevare che «la parte
centrale della cooperazione politica è rivolta verso l’esterno ed il suo campo d’applicazione
è essenzialmente all’estero», ma «lo sforzo di elaborare posizioni comuni su problemi
esterni ha avuto il naturale effetto, con l’andare del tempo, di promuovere relazioni più
strette ed una comprensione tra i Nove» anche in politica interna54. Tale dinamica, che
incarna in modo quasi paradigmatico il principio funzionalista dello spill-over55, agisce
comunque con maggiore successo sulla cooperazione operativa finalizzata alla gestione
dell’ordine pubblico che sulla assai più complessa integrazione in materia di giustizia.
1.3 La crisi degli ostaggi in Iran e i tentativi di riformare la Comunità
All’inizio degli anni Ottanta cominciano a intravedersi i segnali della trasformazione
che interesserà l’approccio europeo al terrorismo a partire dalla metà del decennio. A
fornirli non è tanto l’esperienza TREVI, che procede sui binari consolidati nel periodo
precedente. La riunione di Londra del dicembre del 1981 conferma che al centro
2007, p. 104 e soprattutto Id., La sinistra italiana, i socialisti francesi e le origini della «dottrina
Mitterrand», in M. Lazar e M.-A. Matard-Bonucci (a cura di), Il libro degli anni di piombo. Storia e
memoria del terrorismo italiano (2010), Milano, Rizzoli, 2010, pp. 349-365.
51
De Schoutheete, La coopération politique européenne, cit., pp. 178-179.
52
Si vedano i risultati della riunione di Londra del 31 maggio 1977 («BdCE», a. X, n. 5, 1977, pp. 86-87) e,
in generale, R. Clutterbuck, Terrorism, Drugs and Crime in Europe after 1992, London, Routledge, 1990,
pp. 121-122.
53
Nuttall, European Political Cooperation, cit., p. 298.
54
Si veda la comunicazione sulla CPE presentata al Parlamento europeo il 24 ottobre 1979, riprodotta
integralmente in «BdCE», a. XII, n. 10, 1979, pp. 127-136. I passi citati sono a p. 127.
55
Su tale concetto cfr. E.B. Haas, The Uniting of Europe. Political, Social and Economical Forces. 19501957, London, Steven&Sons Limited, 1958, che lo sviluppa a partire dai primi anni di vita delle Comunità
europee, e Id., Beyond the Nation-State. Functionalism and International Organization, Stanford, Stanford
University Press, 1964, che si muove su un terreno teorico più generale.
31
dell’attenzione è il settore della «sécurité intérieure»56, al cui interno la «menace du
terrorisme» si caratterizza per l’uso della «violence à motif politique»57. Al terrorismo è
dunque riconosciuta quella specificità politica che, per vari motivi, i testi di matrice
squisitamente giuridica – per esempio la Convenzione del 1977 – sono costretti a negargli.
Nel corso del vertice di Londra del 1985, i ministri TREVI si soffermeranno per lo più sul
«terrorisme international»58, affrontando comunque le esigenze di repressione pratica e non
gli interrogativi diplomatici che tale fenomeno solleva.
Questi ultimi sono tradizionalmente competenza dei ministeri degli Esteri e dei loro
apparati. Perché la CPE, che ne è l’espressione sul piano europeo, sia interpellata in
proposito bisognerà attendere il 1985-86. Ciò non toglie che già un avvenimento del 197980 lambisca il tema della risposta diplomatica al terrorismo internazionale. Il 4 novembre
1979 le forze del neonato regime khomeinista occupano l’ambasciata americana a Teheran,
sequestrandone il personale e dando il via a una crisi destinata a protrarsi per più di un
anno. L’episodio è rilevante dal momento che la dichiarazione sul terrorismo adottata dal
Consiglio europeo del luglio 1976, dopo l’episodio di Entebbe, accostava chiaramente la
presa di ostaggi alle pratiche terroristiche e di pirateria. È quindi comprensibile che,
intervenendo sulle tensioni fra Iran e USA, i ministri CPE ricordino che «il Consiglio
europeo ha espressamente condannato la presa di ostaggi per esercitare una pressione sui
governi», facendo riferimento al documento del 197659. Dando prova di equilibrismo
diplomatico, tuttavia, gli europei evitano di indirizzare una formale accusa di terrorismo al
regime iraniano, limitandosi a sottolineare la violazione del diritto internazionale e a
chiedere la liberazione degli ostaggi.
In questo caso la CPE si muove su un crinale delicatissimo. Dal punto di vista delle
vittime, il sequestro a fini di ricatto rimane tale sia che lo promuovano gruppi di individui
irregolari – i terroristi classici dell’immaginario collettivo occidentale – sia che ne siano
responsabili soggetti che eseguono gli ordini di un governo o di un’autorità pubblica
internazionalmente riconosciuta. Sul piano politico, invece, addossare a uno Stato sovrano
l’accusa di terrorismo rischia di metterne in discussione lo status di detentore di un potere
legittimo. La scelta di giustapporre, in altri documenti di quel periodo, «la crescente ondata
56
Communiqué de presse public à l’issue de la 5me réunion ministérielle TREVI, Londre, 8 décembre 1981
(traduction libre de l’anglais), in de Schoutheete, La coopération politique européenne, p. 190.
57
Ivi, p. 191.
58
Déclaration de la 7me réunion ministérielle TREVI, Rome, 21 june 1985, in de Schoutheete, La coopération politique européenne, p. 194.
59
Si veda la dichiarazione dei ministri degli Esteri riuniti a Bruxelles il 20 novembre 1979, riportata in
«BdCE», a. XII, n. 11, 1979, p. 80. L’impostazione è ribadita dalla dichiarazione sull’Iran concordata dal
Consiglio europeo di Dublino del 29-30 novembre 1979, ivi, pp. 10-11.
32
di terrorismo che si è scatenata a livello internazionale» e «gli attentati diretti contro le
missioni diplomatiche, nonché contro l’integrità fisica, la libertà e la dignità dei
diplomatici»60 è interpretata da alcuni studiosi come segno del lento emergere della
prospettiva del terrorismo di Stato61. Non sarebbe casuale inoltre il passaggio della
dichiarazione sulla presa di ostaggi pronunciata in sede di Vertice economico occidentale
(antesignano del G8, in cui la CEE è rappresentata dalla Commissione), nel quale si
esprime preoccupazione «per i recenti fatti di terrorismo, con prese di ostaggi e assalti a
sedi e a personale diplomatico e consolare» e si ricorda che «ogni Stato ha il dovere di
astenersi dall’organizzare, istigare, fornire assistenza o partecipare ad atti terroristici in
altri Stati e dal tollerare nel proprio territorio attività organizzate allo scopo di commettere
tali atti»62. Resta però il fatto che il termine “terrorismo” non viene menzionato in nessuno
degli interventi della CPE sulla crisi iraniana63.
Quanto agli strumenti da utilizzare per favorire la liberazione dei sequestrati, gli
europei devono fare i conti con le pressioni americane per adottare sanzioni condivise e
minacciare, in ultima istanza, un intervento militare. In proposito si crea una divergenza fra
le istituzioni europee. Il Parlamento dà vita a un vivace dibattito che sfocia nell’adozione
di una risoluzione secondo la quale «il persistere della violazione degli obblighi che
derivano dai trattati internazionali provoca il rischio di un ricorso alla forza per perseguire
obiettivi legittimi» e impone di «adottare tutte misure necessarie e possibili […] per
obbligare le autorità iraniane a liberare gli ostaggi»64, avallando di fatto la prospettiva di un
attacco americano. Dal canto loro, i ministri degli Esteri, riuniti in formazione CPE a
Lussemburgo il 22 aprile 1980, prospettano esclusivamente una ritorsione di tipo
economico e diplomatico, indicando nel 17 maggio la data limite entro la quale gli iraniani
dovranno porre fine al sequestro65.
La crisi precipita due giorni dopo, quando l’amministrazione Carter, dopo aver
60
Si tratta della dichiarazione congiunta pronunciata dalla CEE e dal Gruppo Andino il 5 maggio 1980,
riprodotta integralmente in «BdCE», a. XIII, n. 5, 1980, pp. 103-106. Il passo citato è a p. 104, paragrafo 15.
61
Hill, European Preoccupations with Terrorism, cit., p. 175. Per una lettura di matrice americana, che pone
la vicenda iraniana alle origini del terrorismo di Stato e ne analizza gli sviluppi negli anni successivi, cfr.
N.C. Livingstone e T.E. Arnold, The Rise of State-Sponsored Terrorism, in Iid. (eds.), Fighting Back. Winning the War against Terrorism, Lexington, Lexington Books, 1986, pp. 11-24. Cfr. anche D. Byman,
Deadly Connections. States that Sponsor Terrorism, Cambridge, Cambridge University Press, 2005.
62
Il testo della dichiarazione è riportato in «BdCE», a. XIII, n. 6, 1980, p. 20. Sull’apporto dei vertici
occidentali alla lotta al terrorismo, si veda A. Massai, La cooperazione europea nella lotta al terrorismo, in
N. Ronzitti (a cura di), Europa e terrorismo internazionale, cit., pp. 85-93.
63
Cfr. anche la dichiarazione dei ministri degli Esteri sull’Iran, Lisbona, 10 aprile 1980, in «BdCE», a. XIII,
n. 4, 1980, p. 20.
64
Parlamento europeo, Risoluzione sull’Iran, Strasburgo, 17 aprile 1980, ivi, pp. 22-23.
65
Cfr. la dichiarazione sull’Iran adottata a Lussemburgo il 22 aprile 1980, ivi, pp. 23-24.
33
annunciato di voler rimandare all’estate il possibile intervento armato e dato così la
sensazione di accogliere l’invito europeo a temporeggiare, tenta un blitz militare per
liberare gli ostaggi, programmato da tempo, senza sortire risultati concreti66. Preso atto di
tale fallimento, gli europei mantengono fede alle promesse e nella riunione CPE di Napoli
del 17 maggio decidono di dare seguito unilateralmente al regime di sanzioni predisposto,
ma non approvato, in sede ONU nei mesi precedenti67. La procedura istituzionale
necessaria per approdare a tale risultato è oltremodo complessa, poiché coinvolge almeno
tre piani differenti: a) quello degli Stati nazionali, che adottano le sanzioni individualmente
e in modo differenziato; b) quello della CPE, che si sforza di coordinare le diverse misure,
inserendole in un quadro che consenta di applicarle «di concerto»68; c) quello comunitario,
dal momento che occorre evitare che i provvedimenti assunti producano distorsioni del
mercato comune, del cui funzionamento è custode la Commissione69. Le sanzioni saranno
ritirate in seguito alla liberazione degli ostaggi, nel gennaio 198170.
Su un piano più generale, la prima metà degli anni Ottanta è la fase in cui si
affacciano diversi progetti di riforma istituzionale delle Comunità, con alcune ricadute
anche sul terreno della sicurezza e del terrorismo. Il processo prende il via con l’iniziativa
assunta il 6 gennaio 1981 dal ministro degli Esteri tedesco Hans-Dietrich Genscher, che
mira a fondere in un unico trattato le norme relative all’ambito comunitario, alla CPE e al
Consiglio europeo, secondo un’ottica prevalentemente intergovernativa. A manifestare
interesse è soprattutto il suo omologo italiano Emilio Colombo, che tuttavia persegue un
disegno più orientato verso lo sviluppo degli aspetti economico-monetari e l’adozione di
una dichiarazione politica, in luogo di un testo giuridicamente vincolante71. Dopo un lungo
lavoro di armonizzazione fra le due proposte, a metà novembre i ministri Genscher e
Colombo sono in grado di presentare all’attenzione delle istituzioni comunitarie un testo
condiviso sull’Unione europea, denominato Progetto di Atto europeo e affiancato da una
breve dichiarazione dedicata all’integrazione economica72.
Rispetto ai documenti analoghi degli anni Settanta, la nozione di sicurezza che si
66
Hill, European Preoccupations with Terrorism, cit., p. 181 e Nuttall, European Political Cooperation, cit.,
pp. 268-271.
67
Si veda la dichiarazione sull’Iran concordata a Napoli il 17 maggio 1980, in «BdCE», a. XIII, n. 4, 1980, p.
25.
68
Cfr. la dichiarazione sull’Iran adottata a Lussemburgo il 22 aprile 1980 cit.
69
Cfr. «BdCE», a. XIII, n. 5, 1980, pp. 26-28 e Nuttall, European Political Cooperation, cit., pp. 261-262.
70
Si veda la dichiarazione sull’Iran approvata dai ministri CPE il 20 gennaio 1981, in «BdCE», a. XIV, n. 1,
1981, pp. 39-40.
71
Nuttall, European Political Cooperation, cit., pp. 184-186.
72
Progetto di Atto europeo e Progetto di dichiarazione sui temi dell’integrazione economica, entrambi in
«BdCE», a. XIV, n. 11, 1981, pp. 95-99.
34
ricava dal piano Genscher-Colombo è piuttosto articolata. Da un lato, si individua
l’obiettivo di «coordinare la politica di sicurezza ed adottare posizioni comuni europee in
questo campo, al fine di preservare l’indipendenza dell’Europa, proteggere i suoi interessi
vitali e rafforzare la sua sicurezza», che risponde a una logica classica di difesa dalle
minacce esterne di tipo militare. Dall’altro lato, tuttavia, l’Atto si sofferma sulla volontà di
«rafforzare ed ampliare le attività comuni degli Stati membri per far fronte, mediante
azioni concertate, ai problemi internazionali dell’ordine pubblico, agli atti di violenza
grave, al terrorismo e, in genere, alla criminalità transnazionale», che dimostra una visione
consapevole dell’intersezione fra sicurezza esterna e interna in cui opera il terrorismo.
Benché l’accostamento alla criminalità finisca per negare al fenomeno terroristico una vera
componente politica, il documento ha il merito di allargare l’orizzonte alle minacce non
riconducibili all’azione degli Stati e delle loro forze armate.
In termini istituzionali, l’Atto auspica che la CPE sia dotata di un segretariato e
diventi materia di formale competenza del Consiglio dei ministri, eliminando l’artificiosa
distinzione su cui più volte si è posto l’accento. Nel dettaglio, si prospetta l’eventualità che
il Consiglio assuma «una composizione diversa» se chiamato ad affrontare l’ambito della
sicurezza e dell’indipendenza dell’Europa con una lente molto specialistica, formula che
allude probabilmente all’opportunità di coinvolgere i ministri della Difesa accanto a quelli
degli Esteri73. Per l’ottica qui adottata, è tuttavia più rilevante l’accenno all’istituzione di
un Consiglio dei ministri della Giustizia, chiamato a sviluppare il fronte della cooperazione
giudiziaria e quindi contribuire – nonostante il testo non lo precisi espressamente – anche
alla lotta al terrorismo.
Su questa base di partenza si sviluppa un dibattito dominato dall’opposizione fra i
difensori dell’ortodossia comunitaria, animati dal timore che la nuova architettura politicoistituzionale proposta finisca per deviare il percorso funzionalista verso lidi
intergovernativi, e coloro che sono a disagio di fronte alla richiesta di avviare la
cooperazione anche nel delicato settore della sicurezza. A sbloccare lo stallo registrato nei
semestri belga e danese è l’arrivo alla presidenza dello stesso Genscher, che nei primi mesi
del 1983 imprime un’accelerazione in grado di produrre un accordo al Consiglio europeo
di Stoccarda del giugno 198374. La Dichiarazione solenne sull’Unione europea approvata
73
74
Nuttall, European Political Cooperation, cit., pp. 186-187.
Ivi, pp. 187-189.
35
in tale occasione delude molte aspettative75. Sul fronte delle istituzioni, sopravvive la
formale separazione fra il piano CEE e quello CPE, attraverso la sottile differenza fra «il
Consiglio», che si occupa delle materie comunitarie, e «i suoi membri», che discutono di
«qualsiasi altra materia dell’Unione europea», a partire dalla politica estera (paragrafo
2.2.1).
Nel merito delle questioni politiche, il Preambolo ricorda i «pericoli della situazione
mondiale» e il contributo della cooperazione politica per l’elaborazione di una politica
estera condivisa, che dovrebbe consentire all’Europa di «contribuire al mantenimento della
pace». In tema di sicurezza “esterna”, si segnala l’invito al «coordinamento delle posizioni
degli Stati membri sugli aspetti politici ed economici della sicurezza» (paragrafo 3.2,
quinto punto), con la speranza che la concertazione fra le politiche estere degli Stati non
arretri di fronte alle minacce presenti sulla scena internazionale. Nel contempo, si propone
di effettuare «un’analisi comune ed azioni concertate per far fronte ai problemi
internazionali dell’ordine pubblico, alle manifestazioni di grave violenza, alla criminalità
internazionale organizzata e, in generale, alla delinquenza internazionale» (paragrafo 1.4.3,
terzo trattino). A differenza dell’Atto del 1981, la Dichiarazione del 1983 fa i conti con il
fenomeno terroristico senza nominarlo direttamente, ma alludendovi con un lessico
curiosamente generico e seguitando a porlo sul medesimo piano della criminalità
organizzata. A ciò si aggiunge il ridimensionamento della cooperazione giudiziaria, che nel
testo iniziale era individuata come nuovo settore dell’azione del Consiglio, e ora si riduce
all’«identificazione dei settori del diritto penale e della procedura in cui una cooperazione
tra Stati membri potrebbe essere auspicabile» (paragrafo 3.4.3, terzo punto).
Un secondo prodotto dello spirito riformista degli anni Ottanta è il Progetto di
Trattato che istituisce l’Unione europea, adottato dal Parlamento europeo il 14 febbraio
198476 e altrimenti noto come “Progetto Spinelli”, in omaggio al suo principale fautore.
Dal punto di vista privilegiato in questa analisi, il testo è rilevante nella misura in cui tratta
le questioni legate all’ambito della sicurezza e del terrorismo. Va dunque posto l’accento
sull’inserimento dell’impegno per la pace e la sicurezza internazionale tra gli obiettivi
dell’Ue. Secondo l’art. 9, accanto ai tradizionali scopi rappresentati dallo sviluppo della
75
Consiglio europeo, Dichiarazione solenne sull’Unione europea, Stoccarda, 19-21 giugno 1983, in
«BdCE», a. XVI, n. 6, 1983, pp. 24-29.
76
Il testo integrale è riportato in «BdCE», a. XVII, n. 2, 1984, pp. 7-27. Si vedano in argomento N. Antonetti,
I progetti costituzionali europei: caratteri storici e istituzionali (1953-1994), in U. De Siervo (a cura di),
Costituzionalizzare l’Europa ieri ed oggi, Bologna, Il Mulino, 2001, pp. 55-65; F. Capotorti, M. Hilf, F.
Jacobs e J.-P. Jacqué, Le Traité d’Union européenne. Commentaire du projet adopté par le Parlement
européen, Bruxelles, Éditions de l’Université de Bruxelles, 1985; P.V. Dastoli e A. Pierucci, Verso una
costituzione democratica dell’Europa, Casale Monferrato, Marietti, 1984.
36
società europea (in termini di piena occupazione, eliminazione degli squilibri regionali e
territoriali, tutela dell’ambiente, progresso scientifico e culturale), dalla realizzazione del
progresso economico (mercato interno, crescita economica, stabilità monetaria,
adeguamento solidale alle trasformazioni economiche) e dal contributo al pieno sviluppo
politico, economico, sociale e culturale dei popoli e degli Stati più arretrati, è necessario
«promuovere nelle relazioni internazionali la sicurezza, la pace, la cooperazione, la
distensione, il disarmo e la libera circolazione delle persone e delle idee». Questa
dichiarazione d’intenti è ripresa dal Titolo III della Parte IV del Progetto, attraverso cui è
sancito il formale riconoscimento dell’esperienza della CPE, integrandola nell’Ue. In tale
sezione si precisa che saranno affrontate attraverso il metodo della cooperazione le
«questioni relative agli aspetti politici ed economici della sicurezza» (art. 66). Il Consiglio
europeo è l’istituzione responsabile della cooperazione, mentre il Consiglio dell’Unione
dovrebbe assicurare lo svolgimento effettivo (art. 67).
Nel complesso, i concetti menzionati dall’art. 9 a proposito degli obiettivi dell’Ue –
pace, distensione, disarmo – suggeriscono che la sicurezza sia qui intesa in senso
tradizionale, ponendosi cioè al livello in cui operano gli Stati e le organizzazioni
internazionali di cui essi fanno parte. L’attività di gruppi, individui, formazioni che
ricorrono alla violenza politica su un piano distinto da quello delle relazioni interstatali non
trova uno spazio autonomo in questa concezione, come testimonia la scelta di non inserire
alcun riferimento al terrorismo internazionale nella sezione dedicata alla politica estera.
Ciò non significa però che il Progetto ignori completamente il problema. Il documento
precisa che deve essere perseguito anche l’obiettivo di costruire uno spazio giuridico
omogeneo, mediante il coordinamento delle legislazioni nazionali con il metodo della
cooperazione. E prosegue spiegando che questa attività produrrebbe benefici alla lotta
contro «le forme internazionali di criminalità, ivi compreso il terrorismo» (art. 46).
Pur confinandola nella sfera della cooperazione, cioè in quel settore dell’integrazione
in cui l’Ue non avrebbe competenze esclusive o anche solo concorrenti per intervenire con
un’azione comune, e dovrebbe limitarsi a coordinare le politiche nazionali, il Progetto
recupera in parte l’esperienza dei tentativi di cooperazione giudiziaria falliti negli anni
precedenti77. Tuttavia, designare il metodo della cooperazione come strumento privilegiato
per questo settore significa assegnare il ruolo centrale al Consiglio europeo (cfr. l’art. 10
77
La letteratura sottolinea a questo proposito la distinzione tra gli aggettivi “giuridico” e “giudiziario”,
precisando che l’uno attiene al coordinamento delle legislazioni nazionali e l’altro riguarda la dimensione
esplicitamente processuale. Il “Progetto Spinelli” appare più linea con il primo che con il secondo. Cfr. Capotorti, Hilf, Jacobs e Jacqué, Le Traité d’Union européenne, cit., pp. 177-178.
37
che illustra il funzionamento di tale meccanismo). I capi di Stato e governo e il presidente
della Commissione, che lo compongono (art. 31), si troverebbero a essere le uniche figure
formalmente investite di un compito legato all’antiterrorismo, senza riconoscere invece un
ruolo definito ai ministri degli Interni, della Giustizia e degli Esteri, che se ne stanno
occupando – con differente intensità – da alcuni anni.
Come noto, il “Progetto Spinelli” è di fatto accantonato a favore di una riforma
istituzionale assai più limitata, di matrice classicamente intergovernativa. Una delle basi
per realizzarla è la relazione presentata al Consiglio europeo del 29-30 marzo dal comitato
Dooge, che elenca fra gli obiettivi prioritari «uno spazio giuridico omogeneo», precisando
che ne trarrebbe beneficio «la lotta contro il crimine organizzato su vasta scala e contro il
terrorismo, attraverso una maggiore collaborazione tra gli stati membri»78. Il concetto di
sicurezza è declinato invece esclusivamente sul piano della politica estera e di difesa, in
relazione alle «minacce esterne», alle «dottrine strategiche», al «controllo degli
armamenti», al «disarmo», al «potenziale difensivo»79, cioè a settori che rimandano alla
sfera militare tradizionale.
Il risultato finale del percorso è l’Atto Unico Europeo (AUE), siglato a Lussemburgo
il 17 febbraio 198680. Dopo vari tentativi, la CPE viene riconosciuta ufficialmente e dotata
di un segretariato permanente, che le conferisce un volto più strutturato. Il principio
fondamentale, sancito dall’articolo 30, prevede che le consultazioni fra i governi si
svolgano «prima che le Alte parti contraenti stabiliscano la loro posizione definitiva», cui
si aggiunge l’invito affinché ogni Stato membro, nel prendere posizione, «[tenga]
pienamente conto delle posizioni degli altri partner e [prenda] in debita considerazione
l’interesse che presentano l’adozione e l’attuazione delle posizioni europee comuni».
Soffermandosi sull’obiettivo di «una più stretta cooperazione in merito ai problemi
della sicurezza europea» e sullo «sviluppo di un’identità dell’Europa in materia di politica
esterna», disquisendo dell’«esistenza di una più stretta cooperazione nel settore della
sicurezza fra talune Alte parti contraenti nel quadro dell’Unione europea occidentale e
dell’Alleanza atlantica», l’AUE privilegia senza dubbio una visione della sicurezza
dominata dalle relazioni interstatali. La dimensione del terrorismo è evocata solo da due
dichiarazioni allegate al testo. La prima, nel ricordare l’obiettivo dell’abbattimento delle
78
Si veda la relazione riportata in «BdCE», a. XVIII, n. 3, 1985, p. 106.
Ivi, p. 107.
80
Atto Unico Europeo – Trattato, Lussemburgo-L’Aja, 17 febbraio-28 febbraio 1986, in GU n. L 169 del 29
giugno 1987. Cfr. anche R.A. Cangelosi, Dal progetto di Trattato Spinelli all’Atto Unico Europeo. Cronaca
di una riforma mancata, Milano, Angeli, 1987.
79
38
frontiere che la Comunità si è data, afferma che gli Stati membri conservano il diritto «di
adottare le misure che essi ritengano necessarie in materia di controllo dell’immigrazione
da paesi terzi nonché in materia di lotta contro il terrorismo, la criminalità, il traffico di
stupefacenti e il traffico delle opere d’arte e delle antichità». La seconda contiene un
generico riferimento al fatto che gli Stati «cooperano anche per quanto riguarda la lotta
contro il terrorismo, la criminalità, gli stupefacenti e il traffico delle opere d’arte e delle
antichità».
La lotta al terrorismo, insomma, pare essere letta come un’esigenza potenzialmente in
conflitto con la crescente di libertà di movimento accordata a cose e persone sul territorio
degli Stati membri, a cui è dunque riconosciuta la facoltà di adottare misure restrittive alla
circolazione per ragioni di ordine pubblico81. Accanto a queste misure di contrasto, che
dipendono da scelte autonome dei singoli governi, è auspicata una cooperazione fra di essi,
senza tuttavia precisare quali forme possa assumere. L’AUE, in altri termini, finisce per
ignorare il coordinamento fra i ministri dell’Interno/della Giustizia e i risultati del gruppo
TREVI, che restano al di fuori dall’integrazione comunitaria82.
1.4 La svolta del 1985-86: le nuove competenze della CPE in materia di antiterrorismo
Nel secondo semestre del 1985, le ricadute internazionali del terrorismo assumono
un’eco tale da indurre il premier britannico Thatcher a ipotizzare di sollevare il tema in
occasione del Consiglio europeo di Milano, ma le urgenze legate alle riforme istituzionali
hanno il sopravvento83. Il crescente numero di dirottamenti aerei spinge comunque i
ministri degli Esteri a considerare l’eventualità di ricorrere agli strumenti della CPE per
garantire la sicurezza dei trasporti aerei e degli aeroporti, troppo spesso teatro di attentati84.
Assai elevato è l’impatto dell’affaire Achille Lauro, che incarna in modo paradigmatico la
dimensione transnazionale in cui si muove il terrorismo. Alcuni militanti del Fronte per la
Liberazione della Palestina dirottano la nave italiana al largo della costa egiziana,
uccidendo brutalmente un cittadino americano di origine ebraica. La mediazione condotta
dalle autorità egiziane e dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP)
convince i responsabili alla resa in cambio dell’immunità, ma l’intervento delle forze
81
Non si dimentichi che ha da poco visto la luce, con un’iniziativa congiunta franco-tedesca (cfr. il testo
comune riportato in «BdCE», a. XVII, n. 7-8, 1984, pp. 117-119), il processo che porterà agli accordi di
Schengen sulla soppressione dei controlli di polizia alle frontiere interne.
82
Hill, European Preoccupations with Terrorism, cit., p. 172.
83
Nuttall, European Political Cooperation, cit., p. 303.
84
Si veda la dichiarazione su terrorismo e dirottamenti diffusa al termine del vertice CPE svolto a margine
del Consiglio di Bruxelles del 22-23 luglio, in «BdCE», a. XVIII, n. 7-8, 1985, p. 103.
39
americane impedisce di dare seguito agli accordi raggiunti fra le parti. L’aereo che
trasporta terroristi e mediatori è costretto ad atterrare nella base siciliana di Sigonella, dove
si apre un contenzioso fra Italia e Stati Uniti circa il destino dei dirottatori, risolto a favore
delle ragioni italiane.
Al di là del caso specifico, nessuno può più nascondere che i metodi di azione dei
gruppi terroristici che si riconoscono nella causa palestinese costituiscono un problema che
la comunità internazionale – e gli europei al suo interno – devono affrontare. Il passo
definitivo viene compiuto in seguito agli attentati perpetrati dal gruppo Abu Nidal negli
aeroporti di Roma e Vienna il 27 dicembre del 1985, che sono diretti contro uffici delle
compagnie aeree israeliane ma producono inevitabilmente vittime europee. La linea tenuta
per anni a proposito del conflitto mediorientale, rafforzata dalla Dichiarazione di Venezia
del 1980, che sorvolava ancora una volta fra terrorismo e questione palestinese85, non è più
sostenibile dopo gli ultimi avvenimenti. I Dieci, insieme a Spagna e Portogallo, ormai
prossimi all’ingresso nella Comunità, decidono allora di diramare una dichiarazione per
molti versi “rivoluzionaria”:
Simili atti terroristici, lungi dal servire gli interessi del popolo palestinese, non fanno che
ritardare il riconoscimento dei suoi diritti legittimi. Soltanto una soluzione globale, equa e
duratura della questione medio-orientale, di cui i Dieci, la Spagna e il Portogallo hanno più volte
sottolineato la necessità, potrà porre fine al clima di tensione imperante nella regione, che è
all’origine delle numerose manifestazioni di violenza e di terrorismo. […] I Dieci, la Spagna e il
Portogallo chiedono a tutti i governi, senza eccezione alcuna, di cooperare attivamente alla
ricerca degli organizzatori degli atti criminali di Roma e di Vienna e di fare in modo che, una
volta arrestati, siano consegnati alla giustizia e debitamente giudicati, senza che possano trovare
appoggio in nessuna parte86.
Sembra avviarsi alla conclusione l’epoca in cui gli interventi delle istituzioni europee
si riducevano ad auspicare che «il popolo palestinese [potesse] far valere le sue
rivendicazioni su basi politiche» e «[fosse] messo in condizioni di far valere le proprie
85
Consiglio europeo, Dichiarazione sul Medioriente, Venezia, 12-13 giugno 1980, il cui testo integrale si
trova in «BdCE», a. XIII, n. 6, 1980, pp. 9-10. Il documento è animato soprattutto dalla ricerca di una «giusta
soluzione» per il «problema palestinese», attraverso l’ammissione dell’OLP ai negoziati. In questa
prospettiva, il problema principale è rappresentato dagli insediamenti israeliani nei territori occupati a partire
dal 1967, che la dichiarazione invita a smantellare. Questo appello è accompagnato da un generico richiamo
alla «violenza» che si trascina da tempo, per interrompere la quale gli europei invocano «la rinunzia da parte
di tutte le parti alla forza ed alla minaccia all’impiego [sic] della forza», dove il ricorso al termine «forza»
evoca l’orizzonte della violenza statale. Sul significato di questa presa di posizione nell’ambito della politica
occidentale verso il Medio Oriente, cfr. Nuttall, European Political Cooperation, cit., pp. 158-168.
86
Il testo integrale è riportato in «BdCE», a. XVIII, n. 12, 1985, p. 109.
40
richieste con mezzi politici e attraverso i negoziati»87. Tali considerazioni, formulate sulla
scia dell’invasione del Libano da parte delle truppe israeliane nel 1982, apparivano
coerenti con la tesi per cui, fino a quando i rappresentanti palestinesi fossero stati esclusi
dalle trattative di pace, i loro metodi di azione, anche violenti, non sarebbero stati del tutto
ingiustificati, proprio perché gli unici disponibili. Ne discendeva, in ultima analisi, una
riformulazione dell’atavico cliché del terrorismo come arma dei deboli e dei disperati88. A
metà degli anni Ottanta, con un certo ritardo rispetto al Parlamento europeo, che già da
qualche tempo cerca di fugare questa impressione e di discutere del terrorismo senza
troppe preclusioni89, i governi degli Stati membri riconoscono dunque il ruolo che il
fenomeno terroristico riveste anche nelle relazioni internazionali, preparandosi a ospitarlo
nell’agenda della CPE.
Un’ulteriore spinta in tale direzione arriva nei primi mesi dell’anno successivo, con
l’inasprimento dei rapporti tra USA e Libia. La questione libica e la recrudescenza del
terrorismo internazionale sono messe in connessione da più parti: il governo di Gheddafi è
sospettato di finanziare e sostenere l’attività di vari gruppi armati. Tale tesi è sostenuta con
particolare convinzione dagli USA ed è alla base della strategia americana finalizzata
all’isolamento e poi al rovesciamento del dittatore arabo, obiettivo dell’amministrazione
Reagan fin dal suo insediamento90. Come accaduto con l’Iran nel 1980, gli USA esercitano
pressioni sui partner europei per convincerli a condividere una risposta comune ed efficace
alla condotta libica e alla minaccia terroristica.
Le trattative presentano alcune difficoltà: un primo vertice fra i ministri degli Esteri,
convocato per il 21 gennaio allo scopo di discutere dei temi sul tavolo, è rinviato
ufficialmente per problemi organizzativi. Tre giorni più tardi, il 24 gennaio, il presidente di
turno della CPE – l’olandese Van der Broek – incontra il sottosegretario di Stato USA per
87
Cfr. rispettivamente Consiglio europeo, Dichiarazione sul Medio Oriente, Bruxelles, 28-29 giugno 1982,
in «BdCE», a. XV, n. 6, 1982, p. 16 e l’intervento pronunciato all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, a
nome dei Dieci, dal ministro degli esteri danese Ellemann-Jensen, 28 settembre 1982, riportato in «BdCE», a.
XV, n. 9, 1982, pp. 77-78 in particolare.
88
Su questo aspetto si vedano le considerazioni di M. Ignatieff, Il male minore, cit., pp. 127-167 e R. Young,
Political Terrorism as a Weapon of the Politically Powerless, in I. Primoratz (ed.), Terrorism. The Philosophical Issues, New York-Basingstoke, Palgrave MacMillan, 2004, pp. 55-64. Cfr. inoltre la riflessione svolta
da Adriana Cavarero in alcuni recenti lavori (Per una storia della distruzione, «Filosofia politica», a. XXI, n.
1, aprile 2007, pp. 13-20; Orrorismo, cit.) per segnalare come si tenda a perdere di vista che, nelle dinamiche
della violenza contemporanea, il soggetto più debole è la vittima “inerme”, che resta tale sia quando a
colpirla sono azioni belliche tradizionali, sia quando intervengono attentati terroristici.
89
Marchetti, Istituzioni europee e lotta al terrorismo, cit., pp. 75-76, sottolinea come già nel 1975 il
Parlamento europeo si soffermi sugli attentati terroristici a Gerusalemme, senza tuttavia raggiungere un
accordo sull’inserimento di un accenno all’OLP nei documenti adottati.
90
A. Pardalis, European Political Co-operation and the United States, «Journal of Common Market Studies», vol. XXV, n. 4, June 1987, p. 282.
41
discutere della vicenda libica. Il 27 gennaio, a margine del Consiglio di Bruxelles, si
svolge finalmente la riunione dei ministri degli Esteri, che pronuncia una nuova
dichiarazione sulla lotta al terrorismo91, ricca di novità. In primo luogo, vengono messi nel
mirino «sia gli autori, complici e istigatori, sia i governi che li sostengono», e, in generale,
tutti coloro che forniscono «un sostegno ad attacchi terroristici». Questa impostazione, che
riconosce il problema del legame tra Stati e formazioni terroristiche, è confermata
dall’appello a tutti i paesi mediterranei – tra cui la Libia, non menzionata – affinché
rifiutino «ai terroristi qualsiasi appoggio, asilo o rifugio», circostanza verso la quale gli
europei non intendono mostrare «tolleranza», anche se non specificano l’entità di eventuali
ritorsioni.
In secondo luogo, viene elaborata un’embrionale strategia che dovrà governare
l’impegno dei Dodici contro il terrorismo, a partire dalla «necessità di colpirlo alla radice».
Dall’elenco delle misure assunte nei mesi precedenti nei campi dell’immunità diplomatica
e della sicurezza aerea (ambito CPE) e della repressione operativa (ambito TREVI), oltre
che da alcuni riferimenti al controllo dello spostamento delle persone e al rilascio dei visti,
scaturisce un approccio globale, che fonde competenze dei ministeri degli Interni e degli
Esteri, ponendo un’esigenza di coordinamento. A questo scopo, gli Stati membri decidono
«di costituire, nell’ambito della cooperazione politica europea, un Gruppo di lavoro
permanente».
In tal modo la CPE si ritaglia un ruolo ufficiale nella lotta al terrorismo92, affiancando
i filoni di cooperazione politica che già se ne occupano, secondo una divisione del lavoro
fra diversi ambiti istituzionali93. Il più antico è costituito dal confronto fra i ministri degli
Interni o della Giustizia, animato dalla volontà di porre rimedio alle turbolenze sociali e
civili causate dal terrorismo, che trova il proprio ambito d’intervento nella cooperazione di
polizia (TREVI). Vari tentativi sono stati compiuti per dare vita a forme di integrazione
legislativa e giudiziaria, attraverso le consultazioni fra i ministri della Giustizia, che
assumono il terrorismo nella sua dimensione di reato, di violazione di codici e leggi, e su
quello stesso piano ricercano le soluzioni, con accordi e convenzioni che ne garantiscano il
perseguimento penale. Sono stati tuttavia raccolti scarsi risultati, forse anche perché si
91
Il testo è riprodotto in «BdCE», a. XIX, n. 1, 1986, pp. 62-63.
Cfr. Nuttall, European Political Cooperation, cit., p. 303, E. Regelsberger, EPC in the 1980s: Reaching
Another Plateau?, in Pijpers, Regelsberger e Wessels (eds.), European Political Cooperation in the 1980s,
cit., p. 34 e Massai, La cooperazione europea nella lotta al terrorismo, cit., pp. 77-82.
93
Hill, European Preoccupations with Terrorism, cit., p. 167.
92
42
tratta della cooperazione meno strutturata in termini istituzionali94. Dal 1986 si aggiunge il
terzo approccio, il più vicino al nucleo fondamentale della CPE, che del terrorismo coglie
il tratto internazionale, cioè l’eventualità che i suoi responsabili possano essere in qualche
modo collegati a Stati, soggetti o interessi di paesi terzi ma nel contempo minacciare il
territorio o i cittadini degli Stati membri, e trova il suo campo d’elezione nella diplomazia.
Si tratta tuttavia di capire quanto possa funzionare il raccordo istituzionale fra le loro
attività, che si svolgono in parallelo, con strutture amministrative e gradi di
formalizzazione diversi. Il rischio è che si possa creare una competizione fra le varie anime
della lotta al terrorismo, con eventuali sovrapposizioni fra le rispettive competenze.
La crisi legata alla Libia si aggrava nel mese di aprile, in seguito all’attentato nella
discoteca «La Belle» di Berlino, che provoca morti e feriti fra i militari americani di stanza
nella zona e viene attribuita a un’iniziativa libica95. L’invocazione di una rappresaglia
militare da parte americana induce i ministri degli Esteri europei a convocare una riunione
straordinaria (L’Aia, 14 aprile 1986), dopo una settimana di colloqui bilaterali fra Vernon
Walters, ambasciatore USA all’ONU, e i governi dei cinque maggiori Stati membri della
Comunità96. L’incontro CPE produce una dichiarazione significativa sotto numerosi
profili97. La rappresentazione del terrorismo è in linea con quella emersa in altri recenti
interventi: i ministri rilevano infatti che gli autori di atti terroristici tendono a invocare una
«causa politica», che può forse permettere di distinguerne concettualmente le azioni da
quelle attribuite ai criminali comuni, ma di certo non comporta alcuna scusante o
assoluzione rispetto alla decisione ingiustificabile di ricorrere alla violenza.
La vera novità risiede nella decisione di additare esplicitamente la Libia come Stato
legato all’attività di gruppi terroristici. Nei confronti delle autorità libiche viene annunciata
una serie di ritorsioni diplomatiche – restrizioni alla libertà di movimento del personale
diplomatico e consolare, riduzione del personale nelle missioni diplomatiche e consolari,
condizioni meno favorevoli per la concessione dei visti – che si somma al divieto di
commerciare armi ed equipaggiamento militare, già in vigore da qualche tempo. A queste
iniziative dovranno essere affiancate misure che garantiscano la sicurezza europea e
l’intensificazione della cooperazione con paesi terzi, e in particolare il mondo arabo, per
contrastare il terrorismo e isolare gli Stati che non ne prendano le distanze.
94
Su questo punto si veda de Schoutheete, La coopération politique européenne, cit., p. 180.
Hill, European Preoccupations with Terrorism, cit., p. 176. Clutterbuck, Terrorism, Drugs and Crime in
Europe after 1992, cit., p. 23, non esclude invece un coinvolgimento siriano. Sull’episodio e sui suoi
sviluppi, cfr. anche Nuttall, European Political Cooperation, cit., pp. 303-305.
96
Pardalis, European Political Co-operation and the United States, cit., p. 283.
97
Il testo è riportato in «BdCE», a. XIX, n. 4, 1986, p. 106.
95
43
L’impostazione complessiva è frutto della volontà dei ministri degli Esteri di usare
congiuntamente tutta la propria “influenza”98 per indurre la Libia ed eventuali altri Stati ad
abbandonare i terroristi al proprio destino. Anche questa sfumatura, che si affianca
all’individuazione di mezzi esclusivamente economici e diplomatici, spiega che gli europei
hanno intenzione di fare leva sul soft più che sull’hard power99. La conferma definitiva è
fornita dall’ultimo paragrafo della dichiarazione, che auspica «una soluzione politica che
eviti una nuova escalation delle tensioni militari nella regione». È in questa presa di
posizione, coerente con un appello alla moderazione rivolto a tutti gli attori coinvolti, che
si possono scovare i motivi delle frizioni con gli USA, i quali – senza essere nominati –
rappresentano forse i principali destinatari del messaggio. Il repertorio di strumenti
suggeriti dagli europei, infatti, è del tutto incompatibile con l’idea americana di attaccare la
Libia, fondata sulla premessa che un’azione militare tradizionale sia adeguata a punire uno
Stato accusato di sostenere il terrorismo internazionale. Nel contempo, l’adozione di
sanzioni appare in grado di fugare i sospetti circa il carattere declamatorio della CPE100.
Il 15 aprile 1986 gli USA rompono gli indugi e bombardano Tripoli e Bengasi,
98
La versione francese contiene un riferimento all’«influence» a cui i ministri degli Esteri dovranno ricorrere
nei contatti con il governo libico (cfr. il documento riportato in de Schoutheete, La coopération politique
européenne, cit., p. 195), mentre il testo italiano parla semplicemente di agire «di concerto nei […] contatti
con la Libia».
99
Tale distinzione è introdotta nel dibattito internazionalistico, in riferimento alla politica estera americana,
da J.S. Nye, Bound to Lead. The Changing Nature of American Power, New York, Basic Books, 1990, pp.
188 e sgg., poi sviluppata in Id., Il paradosso del potere americano. Perché l’unica superpotenza non può
più agire da sola (2002), Torino, Einaudi, 2002 e Id., Soft power. Un nuovo futuro per l’America (2004),
Torino, Einaudi, 2005. Lo studioso ammette apertamente di ispirarsi alla nozione di “egemonia” di Antonio
Gramsci, da questi trattata nei Quaderni del carcere (1929-1935), 4 voll., a cura di V. Gerratana, Torino,
Einaudi, 2001. Gramsci è considerato il prototipo dell’intellettuale consapevole dell’importanza di
«condizionare le preferenze», determinare le modalità di un dibattito, plasmare la volontà altrui (cfr. Nye, Il
paradosso del potere americano, cit., p. 13). L’affinità tra il soft power e l’egemonia gramsciana è
evidenziata anche da G. Carnevali, Quale egemonia mondiale?, in A. d’Orsi (a cura di), Egemonie, Napoli,
Dante & Descartes, 2008, pp. 341-354, cui tuttavia sfugge l’omaggio di Nye al pensatore sardo. Il punto di
contatto fra i due concetti è individuato nella ricerca del consenso come componente dell’azione politica, che
dunque impedisce di ridurre l’egemonia a mera riedizione della leniniana dittatura del proletariato (tesi
invece sostenuta da L. Gruppi, Il concetto di egemonia in Gramsci, Roma, Editori Riuniti, 1977, pp. 9-15).
D’altra parte, l’ambivalenza della nozione di egemonia, oscillante – per lo più nelle relazioni internazionali,
dove il termine ha una traiettoria autonoma rispetto all’eredità gramsciana e al suo interesse per la “società
civile” nazionale – fra i due poli antagonisti e complementari della “forza” e del “consenso” è rimarcata da L.
Bonanate e B. Bongiovanni, Egemonia, in AAVV, Enciclopedia delle scienze sociali, vol. III, Roma,
Edizioni dell’Enciclopedia Italiana, 1993, pp. 461-478. Negli studi internazionalistici, in effetti, dell’egemonia convivono tanto una lettura soft (cfr. l’accezione di “direzione” in H. Triepel, L’egemonia (1938),
Firenze, Sansoni, 1949), quanto un’interpretazione hard, ben testimoniata, per esempio, da L. Dehio,
Equilibrio o egemonia. Considerazioni sopra un problema fondamentale della storia politica moderna
(1948), Bologna, Il Mulino, 1988, che censisce i tentativi di “dominio” di alcune grandi potenze nella storia
europea. A proposito della corrente neogramsciana delle relazioni internazionali si vedano i lavori di R.W.
Cox, Production, Power, and World Order, New York, Columbia University Press, 1987 e (with T.J.
Sinclair), Approaches to World Order, Cambridge, Cambridge University Press, 1996.
100
R. Rummel, Speaking with One Voice – and beyond, in Pijpers, Regelsberger e Wessels (eds.), European
Political Cooperation in the 1980s, cit., pp. 120-121.
44
giovandosi dell’assistenza della Gran Bretagna, che concede l’uso delle proprie basi aeree.
Spagna e Francia, invece, negano all’aviazione americana il diritto di transitare nel proprio
spazio aereo. Si crea in tal modo una spaccatura non solo tra le due sponde dell’Atlantico,
ma anche dentro la CPE, ulteriormente accentuata dalla retromarcia della Grecia sulle
sanzioni alla Libia, dovuta all’impossibilità di dimostrarne l’effettivo coinvolgimento nei
fatti che le sono contestati101. Nel caso specifico, la letteratura spiega la posizione
britannica ricorrendo sia alla special relationship con gli USA, sia al ricordo di un episodio
di sangue avvenuto un paio d’anni prima nei pressi dell’ambasciata libica a Londra102.
Due ulteriori riunioni CPE (il 17 aprile in occasione del Consiglio OCSE di Parigi e il
21 aprile a margine del Consiglio di Lussemburgo) sono convocate in pochi giorni sulla
base del meccanismo di emergenza introdotto dal vertice CPE di Londra del 1981, che
conferisce alla cooperazione un grado di flessibilità prima sconosciuto, rendendo più
rapida la preparazione e meno ampollosi i lavori103. Oltre che ad aggiungere qualche altra
sanzione diplomatica, tali vertici mirano anche a contenere le dimensioni delle divergenze,
almeno sul piano dell’immagine. Non è infatti sfuggito, tanto ai ministri quanto agli
osservatori, che nell’incontro del 14 aprile il ministro degli Esteri britannico – sir Geoffrey
Howe – non ha minimamente accennato alla prospettiva di un bombardamento che si
sarebbe svolto appena il giorno dopo e con l’uso delle basi britanniche. La versione
ufficiale è che il 14 Howe non aveva notizie certe sulle intenzioni USA104, comunicazione
che da un lato salva la forma dei rapporti intereuropei, ma dall’altro – se presa sul serio –
solleverebbe dubbi sull’utilità di riunioni fra ministri che appaiono all’oscuro di scelte
fondamentali assunte dai loro governi proprio in politica estera. Buona parte della
letteratura giudica l’atteggiamento britannico nei termini di una forzatura della procedura,
ancor più vistosa alla luce del richiamo alle consultazioni preventive previsto dall’AUE
101
Hill, European Preoccupations with Terrorism, cit., p. 177. Clutterbuck, Terrorism, Drugs and Crime in
Europe after 1992, cit., p. 106, pone l’accento sulla tradizionale vicinanza della Grecia alla causa palestinese,
che la porta ad avere contatti con la Libia a proposito della consegna di individui appartenenti alla
formazione di Abu Nidal e accusati per l’attentato terroristico del 1982 alla sinagoga centrale di Roma.
102
Hill, European Preoccupations with Terrorism, cit., pp. 176-177. Durante una manifestazione organizzata
da un gruppo di oppositori del regime di Gheddafi, i dimostranti raggiungevano l’ambasciata libica
londinese, da cui provenivano alcuni colpi di pistola che uccidevano una poliziotta britannica impegnata ad
assicurare il regolare svolgimento dell’evento (cfr. Clutterbuck, Terrorism, Drugs and Crime in Europe after
1992, cit., p. 91 e Nuttall, European Political Cooperation, cit., pp. 302-303).
103
Report on European Political Co-operation Issued by the Foreign Ministers of the Ten on 13 October
1981 (London Report), in Pijpers, Regelsberger e Wessels (eds.), European Political Cooperation in the
1980s, cit., pp. 321-327, punto 13: si prevede la convocazione entro 48 ore di riunioni d’emergenza, in
seguito alla richiesta di almeno tre Stati. Cfr. inoltre Hill, European Preoccupations with Terrorism, cit., pp.
182-183.
104
Cfr. «BdCE», a. XIX, n. 4, 1986, pp. 106-107.
45
appena firmato105. A ciò va aggiunto, peraltro, che neppure Francia, Spagna e forse
Germania hanno avvisato i partner della richiesta americana relativa a basi e spazio aereo,
da cui si potevano trarre conclusioni sull’imminenza dell’attacco106.
Questa vicenda anticipa alcune dinamiche che si verificheranno nel 2002-2003,
quando la reazione americana all’11 settembre prenderà una piega controversa. In primo
luogo, la crisi libica mostra che i rapporti transatlantici non godono di buona salute: dopo
le divergenze emerse a proposito del caso iraniano a inizio decennio, e una distensione fra
il 1983 e il 1985, un nuovo conflitto mette in discussione la compattezza dell’alleanza
occidentale107. In secondo luogo, la situazione è complicata dalle divisioni fra gli stessi
Stati membri, con gli estremi rappresentati da una Gran Bretagna schierata su posizioni
filoamericane e la Grecia orientata a rifiutare anche il nucleo minimo di sanzioni alla Libia.
In terzo luogo, il principale oggetto del contendere appare l’interpretazione del terrorismo
internazionale e del metodo per contrastarlo. Si confrontano infatti le posizioni di chi lo
assimila alla guerra e individua in un intervento militare tradizionale una soluzione
praticabile, e chi viceversa tiene distinti i piani, prediligendo una lotta al terrorismo
condotta con strumenti politici, diplomatici ed economico-commerciali. In quarto luogo,
sul piano istituzionale, va rilevata la tendenza generalizzata dei governi europei a stabilire
la propria condotta internazionale prescindendo dalla consultazione prescritta dalle
procedure della CPE, come testimoniano le scelte di Gran Bretagna, Francia e Spagna sulla
concessione delle basi e dello spazio aereo all’aviazione americana.
Il tema del terrorismo internazionale resta vivo anche nell’attività della CPE
dell’autunno 1986. Due interventi si rendono necessari poiché la compagnia Libyan Arab
Airlines è accusata di complicità in azioni terroristiche da svolgere nel Regno Unito108 e i
combattenti palestinesi compiono un attentato presso il Muro del pianto di Gerusalemme,
stigmatizzato dagli europei109. A questi si aggiunge un nuovo caso decisamente spinoso,
legato all’esito del processo Hindawi, dal nome del cittadino giordano condannato in Gran
105
Si vedano Regelsberger, EPC in the 1980s, cit., p. 35 e, in riferimento all’art. 30 dell’AUE, A. Pijpers,
The Twelve out-of-Area: A Civilian Power in an Uncivil World?, in Pijpers, Regelsberger e Wessels (eds.),
European Political Cooperation in the 1980s, cit., pp. 157-158.
106
Hill, European Preoccupations with Terrorism, cit., pp. 183-184.
107
H. Wyatt-Walter, The European Community and the Security Dilemma, 1979-1992, HoundmillsBasingstoke, MacMillan, 1997, p. 93 e S. Nuttall, Two Decades of EPC Performance, in E. Regelsberger, P.
de Schoutheete de Tervarent and W. Wessels (eds.), Foreign Policy of the European Union. From EPC to
CSFP and Beyond, Boulder-London, Lynne Rienner, 1997, p. 22. Nuttall, European Political Cooperation,
cit., p. 285, ricorda che, proprio in risposta a quei dissidi, viene rapidamente introdotta una procedura più
formalizzata di consultazione transatlantica, da cui peraltro gli europei vogliono escludere i gruppi di lavoro.
108
Si veda la dichiarazione diffusa dalla presidenza della CPE il 4 ottobre 1986, in «BdCE», a. XIX, n. 10,
1986, p. 76.
109
Si veda il comunicato pubblicato dalla presidenza CPE il 22 ottobre, ivi, pp. 76-77.
46
Bretagna per aver cercato di far esplodere – nel pieno della crisi libica di aprile – un aereo
della compagnia El Al diretto da Londra a Tel Aviv. Le autorità giudiziarie accertano che il
terrorista disponeva di un passaporto diplomatico siriano, che gli consentiva una libertà di
movimento assai elevata110. Come conseguenza della sentenza, la Gran Bretagna rompe le
relazioni con la Siria, ne espelle il personale diplomatico e chiede agli altri Stati membri di
votare un pacchetto di misure contro il paese mediorientale, forte anche del fatto di
detenere la presidenza semestrale della CPE.
Nel vertice di Lussemburgo del 27 ottobre, i ministri degli Esteri discutono le
modalità di una risposta comune, raffinata dal vertice CPE di Londra del 10 novembre111.
Senza nascondere il dissenso della Grecia, che non accetta di affermare la responsabilità
delle autorità siriane, i ministri degli Esteri definiscono «del tutto inaccettabile» l’episodio
e concordano alcune misure sanzionatorie (interruzione della vendita di armi, sospensione
delle visite ad alto livello in Siria, valutazione delle attività diplomatiche e consolari siriane
in Europa), ma non il richiamo degli ambasciatori, invocato dalla Gran Bretagna.
All’interno della CPE, dunque, si ripropongono le divisioni già emerse nell’affaire
libico. Da un lato, l’oltranzismo del Regno Unito fa proprie alcune argomentazioni
americane e propone ritorsioni diplomatiche particolarmente gravi, dovute probabilmente
alla consapevolezza di essere bersaglio privilegiato del terrorismo. All’estremo opposto si
distingue la Grecia, che dubita del coinvolgimento siriano e sottolinea l’importanza che la
Siria riveste nella gestione della questione libanese e mediorientale in generale. A
quest’ultima considerazione, condivisa da altri Stati membri112, la Francia aggiunge una
valutazione legata al proprio interesse nazionale: il governo siriano è infatti visto come una
potenziale risorsa nella lotta che i francesi stanno conducendo contro la campagna
terroristica in corso a Parigi. Sarebbe quindi opportuno mantenere buoni rapporti con le
autorità siriane per riceverne la preziosa assistenza.
Gli studiosi riconducono a due ordini di ragioni le difficoltà incontrate dalla CPE
quando viene chiamata a confrontarsi con la piaga del terrorismo. In primo luogo, la lotta
al terrorismo internazionale condotta sul piano della diplomazia implica la necessità di
110
Per i dettagli della vicenda, cfr. Clutterbuck, Terrorism, Drugs and Crime in Europe after 1992, cit., pp.
23-24 e p. 91. Si consideri inoltre l’accertamento della complicità di funzionari siriani nel reperimento degli
esplosivi utilizzati in un attentato compiuto a Berlino Ovest nel marzo 1986 (cfr. la dichiarazione dei Dodici
del 29 novembre 1986, in «BdCE», a. XIX, n. 11, 1986, p. 99).
111
Cfr. il comunicato stampa diffuso dalla presidenza CPE a Londra il 10 novembre 1986, ivi, pp. 98-99. Cfr.
inoltre Hill, European Preoccupations with Terrorism, cit., pp. 178-179.
112
Regelsberger, EPC in the 1980s, cit., pp. 32-33. Nuttall, European Political Cooperation, cit., p. 307,
riconduce tuttavia la prudenza del documento – come già nel caso della Libia – alla necessità di trovare un
compromesso fra posizioni anche molto distanti, più che a una visione omogenea degli Stati membri.
47
urtare la sensibilità e le prerogative di Stati sovrani, prospettiva assai più complicata
rispetto alla cooperazione tutta operativa di cui si occupa il settore TREVI113. In secondo
luogo, la CPE si rivela incapace di contenere le divergenze fra gli Stati membri, che siano
legate al conflitto fra interessi particolari o a quello fra visioni alternative delle relazioni
internazionali114. Per la verità, il Consiglio europeo di dicembre si sforza di enucleare tre
linee-guida su cui sviluppare una condotta comune contro il terrorismo: rifiuto di fare
concessioni ai terroristi e ai loro sostenitori; solidarietà fra gli Stati nelle prevenzione del
terrorismo e nella persecuzione giudiziaria dei responsabili delle azioni; risposta concertata
ad attacchi portati sul territorio di uno Stato membro115. Si tratta, com’è evidente, di
principi talmente generali da non poter produrre un’effettiva armonizzazione degli
atteggiamenti nazionali.
Nella fase finale degli anni Ottanta, che si annuncia come un periodo di cambiamenti
epocali sul piano delle relazioni internazionali, in cui si consuma il superamento della
guerra fredda e del paradigma politico-strategico che la caratterizza, la CPE torna a
occuparsi di lotta al terrorismo in varie occasioni. L’aggravarsi delle tensioni nello Sri
Lanka, che coinvolgono l’India e sono alimentate anche da una serie di attentati terroristici
compiuti dalle Liberation Tigers of Tamil Eelam (LTTE), è interpretato in sede CPE come
il progressivo avvicinamento a una possibile «guerra civile» su basi etniche116, di cui
dunque il terrorismo può rivelarsi il detonatore. Questa lettura presenta curiose assonanze
con l’idea propugnata dal terrorismo di sinistra europeo e italiano in particolare, a lungo
impegnato a teorizzare la necessità di creare artificialmente, con mezzi violenti, le
condizioni per una rivoluzione destinata a travolgere i rapporti di classe nelle società
occidentali industrializzate117. Grande impatto in Europa ha, inoltre, l’attentato che il 21
dicembre 1988 colpisce il volo n. 103 della Pan Am, precipitato nella cittadina scozzese di
113
Hill, European Preoccupations with Terrorism, cit., p. 179
Ivi, p. 185. A proposito del rapporto conflittuale tra CPE, da un lato, e politiche estere nazionali e interessi
particolari, dall’altro, in relazione ai casi di Libia e Siria, cfr. anche C. Hill, The Actors Involved: National
Perspectives, in Regelsberg, De Schoutheete e Wessels (eds.), Foreign Policy of the European Union, cit., p.
90 e S. Bulmer, Analysing European Political Cooperation: The Case for Two-tier Analysis, in M. Holland
(ed.), The Future of European Political Cooperation. Essays on Theory and Practice, Houndmills, Macmillan, 1991, p. 70.
115
Consiglio europeo, Conclusioni, Londra, 5 dicembre 1986, in «BdCE», a. XIX, n. 12, 1986, p. 10.
116
Cfr. la dichiarazione sullo Sri Lanka, riportata in «BdCE», a. XX, n. 4, 1987, p. 61. Si vedano inoltre la
dichiarazione CPE su India e Sri Lanka del 5 giugno 1987 e la risoluzione del Parlamento europeo (15-19
giugno 1987), in «BdCE», a. XX, n. 6, 1987, p. 100 e p. 110 rispettivamente, e la dichiarazione CPE del 23
ottobre 1990, in «BdCE», a. XXIII, n. 10, 1990, pp. 96-97.
117
Su questo progetto, rivendicato da formazioni terroristiche come le BR italiane, e sulla sua compatibilità
con l’ortodossia rivoluzionaria del marxismo-leninismo, rinvio a S. Quirico, Il modello organizzativo delle
Brigate rosse in una prospettiva comparata, «Quaderno di storia contemporanea», a. XXXI, n. 44, 2008, pp.
68-69.
114
48
Lockerbie. La condanna espressa dai Dodici si sofferma sulla «solidarietà fra gli Stati
membri nel loro impegno per impedire i crimini terroristici e consegnare i colpevoli alla
giustizia»118.
La questione del terrorismo è sempre al centro del lavoro silenzioso coordinato dai
ministri dell’Interno, sulla cui prassi inizia peraltro a filtrare un po’ di luce. Dopo averla
spesso trascurata, il «Bollettino delle Comunità europee» contempla dal 1987 una rubrica
dedicata alla cooperazione intergovernativa non riconducibile alla CPE, anche se nei
resoconti emergono distinzioni, invero bizantine, fra le riunioni dei ministri responsabili di
immigrazione, lotta alla droga e antiterrorismo, e i vertici TREVI, che hanno una
competenza generale sull’ordine pubblico e la cooperazione di polizia (si veda per esempio
la scelta di svolgere due sedute separate a Bruxelles il 28 aprile 1987119). Si tratta in ogni
caso del segnale di un avvicinamento tra questa prassi di consultazione interministeriale e
l’ambito comunitario, come conferma l’ipotesi di coinvolgimento della Commissione nei
vertici TREVI120. È in corso, insomma, un processo di formalizzazione di tale
cooperazione, che condurrà alla nascita del terzo pilastro di Maastricht e creerà le
condizioni perché l’integrazione europea propriamente detta si accolli l’onere di questa
azione, senza delegarla all’oscura opera degli esperti e degli apparati di sicurezza121.
Nella medesima ottica si pone un tentativo di rilancio della cooperazione giudiziaria,
avviato dalla conferenza dei ministri della Giustizia del 23 maggio 1987, che cerca – fra
l’altro – di recuperare l’accordo di Dublino sull’applicazione della Convenzione sul
terrorismo del 1977122. Un primo risultato è raggiunto a San Sebastian, il 26 maggio 1989,
quando i ministri della Giustizia trovano un’intesa per la semplificazione della
trasmissione delle domande di estradizione123, che tuttavia non comporta alcun impegno a
facilitare la consegna di ricercati e condannati. Fra molti ostacoli e resistenze, qualche cosa
torna a muoversi anche sul fronte giudiziario, emarginato da circa un decennio ma cruciale
per la lotta europea al terrorismo.
118
Si veda la dichiarazione CPE del 31 dicembre 1988, riprodotta in «BdCE», a. XXI, n. 12, 1988, p. 138.
Cfr. «BdCE», a. XX, n. 4, 1987, pp. 59-60.
120
Cfr. «BdCE», a. XXIII, n. 12, 1990, p. 140.
121
J. Lodge, Internal Security and Judicial Co-operation Beyond Maastricht (1992), in E. Moxon-Browne
(ed.), Europan Terrorism, cit., p. 384. Alla fine degli anni Ottanta, TREVI conta su quattro gruppi di lavoro:
1) TREVI I, che si occupa di terrorismo; 2) TREVI II, dedicato a varie questioni di ordine pubblico (es.
hooligans); 3) TREVI III, che combatte la criminalità organizzata di particolare gravità, in particolare il
traffico di droga; 4) TREVI ’92, che è nato da poco per affrontare i problemi di polizia e sicurezza sollevati
dalla prospettiva di libera circolazione delle persone.
122
Cfr. «BdCE», a. XX, n. 5, 1987, p. 79.
123
Cfr. «BdCE», a. XXII, n. 5, 1989, p. 73.
119
49
2. La fine della guerra fredda e i primi passi dell’Unione
europea (1990-2001)
2.1 La vittoria del blocco occidentale e il Trattato di Maastricht: l’Unione politica
La caduta del muro di Berlino e la disgregazione del sistema sovietico, tra il 1989 il
1991, aprono una fase di transizione nelle relazioni internazionali. Conclusa l’epoca del
bipolarismo, il mondo occidentale e la Comunità al suo interno devono fare i conti con un
cambio di paradigma, che rischia di rendere obsoleti gli strumenti e le procedure che negli
ultimi decenni dominavano la scena. L’esigenza di rinnovamento è avvertita innanzi tutto
dalla Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, come testimonia la Carta di
Parigi adottata nel vertice del 19-21 novembre 1990. Dopo aver operato per più di un
decennio con l’intento di salvaguardare la pace e la stabilità politica nell’Europa divisa
dalla cortina di ferro, tale organizzazione deve ridefinire i termini del proprio impegno,
delineando i futuri scenari della sicurezza europea. È molto rilevante che la Carta
approvata alla fine del 1990 inserisca nelle previsioni sullo sviluppo della cooperazione di
sicurezza un paragrafo sulla minaccia del terrorismo: «Condanniamo senza riserve come
criminosi tutti gli atti, i metodi e le pratiche del terrorismo ed esprimiamo la nostra
determinazione ad adoperarci per eliminarlo sia bilateralmente sia mediante la
cooperazione multilaterale»1.
L’idea che sia in atto un mutamento interno alla concezione europea e occidentale
della sicurezza è suffragata, negli stessi giorni, da due dichiarazioni congiunte firmate dalla
CEE con Stati Uniti e Canada, in cui si tracciano le linee programmatiche per la
cooperazione transatlantica in ambito politico, economico, culturale, militare2. In entrambi
i documenti, accanto alla nozione di sicurezza, declinata in senso tradizionale e quindi in
connessione con «l’aggressione e la coercizione» o «la composizione dei conflitti nel
mondo», si trova un catalogo di «sfide transnazionali che incidono sul benessere dell’intera
umanità», fra le quali «lotta e prevenzione del terrorismo». Il fenomeno terroristico è
dunque indicato come una minaccia di portata universale, che richiede – al pari dell’azione
della criminalità organizzata, della protezione dell’ambiente e della proliferazione di armi
1
Il testo della Carta di Parigi è riprodotto integralmente in «BdCE», a. XXIII, n. 11, 1990, pp. 124-130. Il
passo citato è a p. 127.
2
Si vedano le dichiarazioni siglate dalla Comunità e dagli Stati membri con Stati Uniti e Canada, 22
novembre 1990, ivi, pp. 87-89 e pp. 89-91 rispettivamente.
nucleari – un impegno transatlantico comune. Il documento concordato da europei e Stati
Uniti, in particolare, è significativo perché cerca di porre fine a un periodo di
incomprensioni, esplose nella gestione della crisi libica a metà degli anni Ottanta. Il testo
enuncia una collaborazione nella lotta al terrorismo senza specificare con precisione quali
casi siano contemplati in tale formulazione. Tuttavia, la volontà di istituzionalizzare le
consultazioni transatlantiche che si svolgono a vari livelli (capi di Stato, ministri degli
Esteri, funzionari di gabinetto) testimonia la consapevolezza che l’epoca dei dissidi debba
essere superata nell’interesse generale3.
Da un punto di vista concettuale, il dato più interessante è la convinzione che la
comunità internazionale dovrà fronteggiare insidie decisamente meno definite rispetto al
pericolo di un’invasione da parte delle truppe sovietiche (in opposizione alla quale sarebbe
intervenuta la NATO), ma comunque in grado di turbare la vita quotidiana dei cittadini. Il
riferimento alle sfide ambientali e a possibili disastri nucleari, in particolare, evoca
indirettamente la nozione di “rischio” usata a metà degli anni Ottanta dal sociologo tedesco
Ulrich Beck per descrivere i caratteri delle minacce a cui sono sottoposte le società
industriali nella “seconda modernità”. I possibili disastri atomici e ambientali, su cui Beck
pone l’accento, rappresentano le conseguenze di lungo periodo dello sviluppo industriale –
cioè della modernità euro-occidentale – che si riflettono sui soggetti che ne hanno favorito
l’emergere4. Pur senza contemplare espressamente la prospettiva del terrorismo, che sarà al
centro di successivi interventi5, il sociologo tedesco sottolinea come, in uno scenario del
genere, la domanda di sicurezza diventi uno dei moventi fondamentali dell’agire umano6.
Si tratta però di un concetto di sicurezza molto esteso, che travalica la sfera degli affari
militari dello Stato e si pone sul piano degli individui, caratterizzandosi come sicurezza
“umana” o “globale”, poiché si rapporta con le minacce politiche, sociali, economiche,
ambientali, ecc. che affliggono i cittadini del mondo sviluppato7.
Quest’evoluzione della nozione di sicurezza, di cui i documenti europei del 1990 si
3
Si vedano C. Monteleone, Le relazioni transatlantiche e la sicurezza internazionale, Milano, Giuffrè, 2003,
pp. 139-144 e, in generale, G. Mammarella, Destini incrociati. Europa e Stati Uniti 1900-2003, Roma-Bari,
Laterza 2003.
4
U. Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità (1986), Roma, Carocci, 2000.
5
Id., Un mondo a rischio cit. e Id., Conditio humana. Il rischio nell’età globale (2007), Roma-Bari, Laterza,
2008, pp. 233-253 in particolare, che risentono in modo evidente di quanto avvenuto a partire dall’11
settembre 2001.
6
Id., La società del rischio, cit., pp. 64-65.
7
Cfr. in proposito E. Rothschild, What is Security?, «Daedalus», vol. CXXXV, n. 3, pp. 53-98; O. Wæver,
European Security Identities, «Journal of Common Market Studies», vol. XXXIV, n. 1, March 1996, pp.
103-132 e C. Zwierlein, R. Graf and M. Ressel (eds), The Production of Human Security in Premodern and
Contemporary History. Die Produktion von Human Security in Vormoderne und Zeitgeschichte, «Historical
Social Research. Historische Sozialforschung», Special Issue, vol. XXXV, n. 4, 2010.
51
mostrano consapevoli, ha una delle ragioni principali nella scomparsa dell’URSS come
nemico credibile sul piano strategico-militare. L’estinzione della tensione Est-Ovest
innesca un ampio dibattito sullo sviluppo delle relazioni internazionali, in cui si
confrontano differenti elaborazioni teorico-politiche8. Fra le più note è la tesi dello
studioso americano Francis Fukuyama sulla “fine della storia”, che legge la vittoria
dell’Occidente e dei suoi valori di fondo sull’alternativa comunista come una cesura
epocale, ben più significativa della semplice conclusione della guerra fredda9. Declinando
in chiave liberale la filosofia hegeliana e soprattutto la sua rivisitazione a opera di
Alexandre Kojève10, Fukuyama ritiene che il crollo sovietico ponga fine al rapporto
dialettico tra regimi alternativi, presentato sotto forma della hegeliana lotta per il
riconoscimento e terminato con l’incoronazione della miglior forma di governo: la
democrazia liberale. La proliferazione di Stati democratici, tra loro tradizionalmente in
rapporti pacifici, determinerebbe l’estinzione del confronto violento come motore del corso
storico11. Anche nella visione del politologo americano, peraltro, è contemplata la
possibilità che appaiano turbolenze orientate a mettere in discussione il nuovo ordine, dal
momento che la storia intesa come flusso di fatti ed eventi non si arresterà, ma nessuna di
esse sarebbe in grado di invertire il senso di marcia imboccato dopo il 1989. In linea con
questa convinzione, declinata su un terreno meno filosofico e più strettamente politologico,
nel 1990 Charles Krauthammer teorizza la nascita di un sistema “unipolare” delle relazioni
internazionali, che trova il proprio fulcro negli Stati Uniti, la cui forza politica, economica
e militare è inavvicinabile da parte degli altri attori12.
Meno ottimistiche sono invece le previsioni di altri studiosi che, nei primi anni
Novanta, attirano l’attenzione sui risvolti più problematici del nuovo assetto internazionale.
8
Si veda in generale la panoramica condotta da V. Coralluzzo, Oltre il bipolarismo. Scenari e interpretazioni
della politica mondiale a confronto, Perugia, Morlacchi, 2007.
9
F. Fukuyama, The End of History, «The National Interest», n. 16, 1989, pp. 3-18, poi sviluppato da Id., La
fine della storia e l’ultimo uomo (1992), Milano, BUR, 2007.
10
Per una critica a questo utilizzo del pensiero di Kojève, cfr. G. Barberis, Il regno della libertà. Diritto,
politica e storia nel pensiero di Alexandre Kojève, Napoli, Liguori, 2003, pp. 129-132.
11
La tesi sulla “fine della storia” è accostata alla teoria della “pace democratica” (secondo cui le democrazie
non combattono guerre fra loro), di ispirazione kantiana e abbozzata da C. Streit nel 1938 ed elaborata per
successive approssimazioni da D. Babst, M. Doyle e R. Rummel tra gli anni Settanta e Ottanta. Entrambe le
interpretazioni sono infatti espressione di una visione liberale delle relazioni internazionali. Su tutto questo,
cfr. A. Panebianco, Guerrieri democratici. Le democrazie e la politica di potenza, Bologna, Il Mulino, 1997,
pp. 94-114 e pp. 266-272, e A. Gamble, Dalla pace liberale al ritorno della storia: l’Unione europea e
l’ordine mondiale in trasformazione, in G. Laschi e M. Telò (a cura di), L’Europa nel sistema internazionale.
Sfide, ostacoli e dilemmi nello sviluppo di una potenza civile, Bologna, Il Mulino, 2009, pp. 54-64. La teoria
di Fukuyama non contiene alcun riferimento alla dimensione della sovranità e porge il fianco alla classica
obiezione federalista all’internazionalismo democratico (si veda per esempio L. Levi, Globalizzazione, crisi
della democrazia e ruolo dell’Europa nel mondo, «Il Federalista», a. LI, n. 1, 2009, pp. 32-35).
12
C. Krauthammer, The Unipolar Moment, «Foreign Affairs», vol. LXIX, n. 1, 1990, pp. 23-33.
52
Celebre è la formula dello “scontro di civiltà” con cui Samuel P. Huntington riassume –
prima in forma dubitativa e poi in termini più assertivi13 – la dinamica per cui la comunità
internazionale tenderà a raccogliersi in nuovi blocchi macroregionali, definiti in termini
prevalentemente religioso-culturali, per nulla rassegnati ad accettare la supremazia e
l’espansione progressiva della superpotenza uscita vincitrice dalla guerra fredda. Pur con
accenti assai differenti, il rischio di un conflitto tra la vocazione omologatrice del modello
occidentale, fondato su libero mercato e consumismo, e la reazione identitaria e localistica
dei soggetti e delle comunità che si sentono minacciate dalla globalizzazione è presa in
esame da Benjamin Barber14. Preoccupato dalla prospettiva di una rinnovata tensione
internazionale è anche Zbigniew Brzezinski, che individua l’area cruciale nell’«Eurasia»,
vale a dire la regione che comprende l’Europa e il Medio Oriente, nei confronti della quale
gli Stati Uniti dovrebbero mantenere un’attenzione privilegiata anche dopo il crollo
sovietico15.
In realtà, in quest’epoca di transizione, l’Europa comunitaria, prima ancora che a
ridiscutere i termini del proprio ruolo nel mondo, è impegnata in una complessa
rivisitazione della propria struttura politico-istituzionale. Il Trattato di Maastricht, firmato
il 7 febbraio 1992 ed entrato in vigore il 1° novembre 1993, ridisegna l’architettura del
processo di integrazione europea. Le Comunità nate nell’epoca della guerra fredda, e
cresciute al riparo dell’ombrello atlantico, lasciano spazio alla più complessa Unione
europea, che non nasconde le proprie ambizioni politiche. Il nuovo soggetto raccoglie i
frutti della cooperazione intergovernativa svolta prevalentemente al di fuori del quadro
comunitario e li valorizza inserendoli in un edificio istituzionale modellato secondo la
metafora dei “pilastri”, rigidamente separati per competenze e meccanismi di
funzionamento. Quello dedicato alla “Politica estera e di sicurezza comune” (PESC),
disciplinato dal titolo V del Trattato ed erede della CPE16, si pone come obiettivi «il
rafforzamento della sicurezza dell’Unione e dei suoi Stati in tutte le sue forme», «il
mantenimento della pace e il rafforzamento della sicurezza internazionale» (art. J.1),
13
S.P. Huntington, The Clash of Civilization?, «Foreign Affairs», vol. LXXII, n. 3, 1993, pp. 22-49 e Id., Lo
scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale (1996), Milano, Garzanti, 1997.
14
B. Barber, Guerra santa contro McMondo. Neoliberismo e fondamentalismo si spartiscono il pianeta
(1995), Milano, Pratiche, 1998. Si noti che, nel ricorrere al temine “jihad” per qualificare le pulsioni
antioccidentaliste, Barber precisa di volerlo utilizzare in modo estensivo, fino a ricomprendere tutte le
pulsioni particolaristiche e nazionalistiche, per esempio quella serba (p. 17).
15
Z. Brzezinski, La grande scacchiera. Il mondo e la politica nell’era della supremazia americana (1997),
Milano, Longanesi, 1998. Di Brzezinski cfr. anche il precedente Il mondo fuori controllo. Gli sconvolgimenti
planetari all’alba del XXI secolo (1993), Milano, Tea, 1995.
16
Cfr. Regelsberger, de Schoutheete de Tervarent and Wessels (eds.), Foreign Policy of the European Union,
cit.
53
concentrandosi anche sull’eventualità di una «difesa comune» (art. J.4). L’accezione di
“sicurezza” che qualifica la PESC è dunque molto tradizionale, senza risvolti che ne
consentano l’utilizzo a fini antiterroristici, come testimoniano anche i primi documenti
strategici elaborati in questi anni:
La politica estera e di sicurezza abbraccia tutti gli aspetti della sicurezza. La sicurezza europea
sarà in particolare intesa a ridurre i rischi e le incertezze che possono compromettere l’integrità
territoriale e l’indipendenza politica dell’Unione e degli Stati membri, il loro carattere
democratico, la loro stabilità economica, nonché la stabilità delle regioni vicine17.
Benché il ricorso alla categoria dei «rischi» possa alludere alla riflessione di Beck, il
linguaggio che pone l’accento sull’«integrità territoriale» e sull’«indipendenza politica
dell’Unione e degli Stati membri» è ancora fortemente intriso di una logica Stato-centrica,
che fatica a concentrarsi su minacce sfuggenti e informali come quelle terroristiche. Una
delle rare eccezioni è la relazione sullo sviluppo della PESC esaminata dal Consiglio
europeo di Lisbona del giugno 1992, che cita il terrorismo fra i temi al centro della
cooperazione internazionale, in particolare nei rapporti dell’Europa con Maghreb e
Medioriente18.
Più promettente sul fronte della lotta al terrorismo appare invece il terzo pilastro,
denominato “Giustizia e Affari Interni” (GAI) e regolato dal titolo VI del Trattato di
Maastricht, nel quale confluiscono la cooperazione operativa fra le forze dell’ordine
(TREVI) e gli abbozzi di integrazione fra gli ordinamenti giudiziari19. A coronamento di
una rincorsa iniziata negli anni Settanta, la prevenzione e la repressione del terrorismo
sono indicate fra gli obiettivi della cooperazione di polizia (art. K.1). Una delle forme
concrete in cui tale principio si traduce è l’attività dell’agenzia Europol, chiamata a
favorire lo scambio di informazioni nelle materie relative alla tutela dell’ordine pubblico. Il
modo di procedere è quello classico della tradizione Ue e, in generale, delle organizzazioni
internazionali: si effettuano analisi e si concertano posizioni, ma non si svolge alcun
17
Consiglio europeo, Conclusioni della presidenza, Bruxelles, 29 ottobre 1993, in «BdCE», a. XXVI, n. 6,
1993, p. 8.
18
Id., Conclusioni della presidenza, Lisbona, 26-27 giugno 1992, allegato I, in «BdCE», a. XXV, n. 6, 1992,
pp. 17-21.
19
Su genesi e sviluppi del pilastro GAI si vedano D. Bigo, Polices en réseaux. L’expérience européenne, Paris, Presses de la Fondation National de Sciences Politiques, 1996, C. Chevallier-Govers, De la coopération à
l’intégration policière dans l’Union européenne, Bruxelles, Bruylant, 1999, W. de Lobkowicz, L’Europe et
la sécurité intérieure. Une élaboration par étapes, Paris, La documentation française, 2002, J.D. Occhipinti,
The Politics of EU Police Cooperation: Towards a European FBI?, Boulder, Lynne Rienner, 2003
54
intervento congiunto. Il potere di polizia resta saldamente nelle mani degli Stati20. Nella
convenzione istitutiva, firmata formalmente nel giugno 1995, tra le competenze assegnate
c’è anche quella relativa ai «crimini commessi nel corso di attività terroristiche contro la
vita, l’incolumità fisica, la libertà personale o la proprietà»21. In realtà, il contesto nel quale
Europol vede la luce è dominato dal problema della lotta al traffico di stupefacenti. Su
pressione della Germania, si stabilisce fin dal 1991-92 che i primi sforzi del nuovo
soggetto dovranno essere destinati alla lotta alla droga, creando al proprio interno un’unità
specializzata in tale materia, congelando per qualche tempo l’apporto alla lotta al
terrorismo22. Solo al momento dell’entrata in vigore della convenzione, il 1° ottobre 1998,
preoccupato per l’azione dell’ETA, il Consiglio riterrà necessario precisare che Europol
deve dedicarsi fin dall’inizio anche alle mansioni antiterroristiche23.
Un ulteriore contributo è fornito dalla “nuova agenda transatlantica”, concordata da
Ue e Stati Uniti in attuazione della dichiarazione del 1990. Accanto alla collaborazione
volta a promuovere la pace e la stabilità mondiale, l’espansione del commercio e lo
sviluppo culturale e scientifico, i partner individuano alcune “sfide mondiali” che
necessitano di risposte condivise. Vengono accostati la criminalità internazionale e il
traffico di droga, il terrorismo e i bisogni dei rifugiati, la protezione dell’ambiente e la
difesa da malattie come la malaria. La cooperazione di polizia transatlantica è
espressamente indicata come il repertorio di mezzi ed esperienze cui attingere per
combattere la minaccia terroristica24.
Grazie ai nuovi strumenti legislativi previsti dal Trattato sull’Unione europea (TUE),
nell’ottobre del 1996 il Consiglio è in grado di adottare un’azione comune in base alla
quale ciascuno Stato è tenuto a creare e ad aggiornare periodicamente un inventario di
conoscenze, competenze e specializzazioni acquisite nella propria attività di contrasto del
terrorismo, mettendole a disposizione degli altri paesi Ue25. Questo è uno dei pochi casi in
20
Cfr. in proposito M.C. Bassiouni, Strumenti giuridici per il contrasto del terrorismo internazionale:
un’analisi di carattere politico, in Id. (a cura di), La cooperazione internazionale per la prevenzione e la
repressione della criminalità organizzata e del terrorismo, Milano, Giuffrè, 2005, pp. 109-110.
21
La versione consolidata della Convenzione di Europol è disponibile sul sito: www.europol.europa.eu. Il
passo citato si trova nell’art. 2, p. 5 (traduzione del redattore).
22
Consiglio europeo, Conclusioni della presidenza, Lussemburgo, 28-29 giugno 1991, in «BdCE», a. XXIV,
n. 6, 1991, pp. 9-10 e pp. 14-15, Id., Conclusioni della presidenza, Maastricht, 9-10 dicembre 1991, in
«BdCE», a. XXIV, n. 12, 1991, p. 9, Id., Conclusioni della presidenza, Lisbona, 26-27 giugno 1992, in
«BdCE», a. XXV, n. 6, 1992, p. 12 e Id., Conclusioni della presidenza, Edimburgo, 11-12 dicembre 1992, in
«BdCE», a. XXV, n. 12, 1992, p. 12.
23
Si veda la decisione pubblicata in GUCE C 26 del 30 gennaio 1999.
24
Il testo del Piano d’azione transatlantico si trova in Consiglio europeo, Conclusioni della presidenza,
Madrid, 15-16 dicembre 1995, in «BdCE», a. XXVIII, n. 12, 1995, allegato 10.
25
Si veda l’azione comune 96/610/JAI del 15 ottobre 1996 in GUCE L 273, del 25.10.1996.
55
cui le iniziative di cooperazione fra le polizie nazionali sono specificamente finalizzate alla
lotta al terrorismo. In linea di massima, infatti, tendono a prevalere altri ambiti
d’intervento. C’è una forte carica simbolica nel fatto che, riuniti finalmente nelle vesti di
Consiglio Giustizia e Affari Interni, dopo decenni di acrobazie istituzionali e distinzioni
formali per non sconfinare nel terreno comunitario, i ministri dell’Interno e della Giustizia
delineano nel 1993 un piano d’azione per il settore GAI che si sofferma su asilo,
immigrazione, pubblica sicurezza, traffico di droga, lotta alla criminalità internazionale,
senza concedere spazio autonomo al terrorismo, a parte un riferimento incidentale
all’interno di una dichiarazione sul tema dell’estradizione26.
La situazione non è molto diversa quattro anni dopo, quando il Consiglio stabilisce le
nuove priorità del terzo pilastro. La lotta al terrorismo guida la lista dei settori GAI di
interesse europeo, ma il testo precisa che nei mesi seguenti la maggior parte delle energie
dovranno essere destinate a creare le condizioni per l’integrazione degli accordi di
Schengen nei trattati27. Questa osservazione si inserisce nella più generale dinamica per la
quale, in seguito all’abbattimento delle frontiere fisiche fra gli Stati membri, la gestione
dell’ordine pubblico nell’Ue impone di affrontare una serie di fenomeni tra loro in parte
intrecciati. La libertà di circolazione delle persone aumenta in modo esponenziale la
capacità di movimento di migranti e delinquenti, perseguitati politici e terroristi, turisti e
lavoratori, senza che le differenze fra tali categorie – ovvie in termini astratti – siano
immediatamente percepibili sul piano concreto. Si crea, almeno in potenza, un “continuum
delle minacce” nel quale è arduo enucleare misure assunte in chiave esclusivamente
antiterroristica28. A ciò si aggiunge la circostanza per cui, nei documenti relativi alla
cooperazione di polizia, il terrorismo è costantemente associato alla criminalità
organizzata. Ne è una dimostrazione il passo della relazione del gruppo ad alto livello sulla
26
Si veda la bozza di Piano d’azione elaborata a Bruxelles dal Consiglio GAI del 29-30 novembre 1993, in
«BdCE», a. XXVI, n. 11, 1993, pp. 97-99. Lo stimolo proviene da Consiglio europeo, Conclusioni della
presidenza, Bruxelles, 29 ottobre 1993, in «BdCE», a. XXVI, n. 10, 1993, p. 9.
27
Cfr. la risoluzione del Consiglio riportata in «BdCE», a. XXX, n. 12, 1997, punto 1.4.2.
28
Bigo, Polices en réseaux, cit., che declina tale espressione in due sensi: l’esito del processo di deterritorializzazione delle dinamiche politiche, economiche, sociali e di transnazionalizzazione dei flussi, che rende i
controlli alle frontiere sempre più complessi, ma anche la retorica che si serve di quella pretesa indistinzione
per giustificare politiche securitarie onnicomprensive (pp. 258-266). Si veda anche Id., L’impact des mesures
anti-terroristes sur l’équilibre entre liberté et securité et sur la cohésion sociale, in E. Bribosia et A.
Weyembergh (sous la direction de), Lutte contre le terrorisme et droits fondamentaux, Bruxelles, Bruylant,
2002, che accenna al continuum d’(in)sécurité (p. 234). La sostanza del concetto, benché talvolta espressa
con un lessico alternativo, è ripresa da altri studiosi, per es. M. Anderson, What Future for CounterTerrorism as an Objective of European Police Co-operation?, in Id. and J. Apap (eds.), Police and Justice
Co-operation and the New European Borders, The Hague-London-New York, Kluver Law International,
2002, p. 229. Sull’eventualità che i terroristi approfittino delle disposizioni di Schengen, si veda il grido
dall’allarme lanciato dal Parlamento europeo con una risoluzione del 21 settembre 1995 (GUCE C 269 del
16.10.1995).
56
criminalità organizzata che inserisce il terrorismo, a fianco di traffico di droga, tratta,
corruzione e riciclaggio, fra le attività delle «organizzazioni criminali» che «minacciano
l’integrità di tutta la società»29.
Dal punto di vista dell’azione di polizia, dunque, non sembra avere grande rilevanza
la componente di rivendicazioni politiche o ideologiche da cui le formazioni terroristiche
sono in genere animate. A conclusioni analoghe approda anche la cooperazione in campo
giudiziario, che a metà degli anni Novanta vive una stagione di apparente rilancio. Il
Consiglio si fa infatti promotore di due convenzioni tese a facilitare le procedure di
estradizione, conclamato tallone d’Achille della lotta europea contro il terrorismo negli
anni precedenti. Il 10 marzo 1995 viene firmato un accordo che mira a ridurre i tempi
dell’estradizione tra gli Stati membri, conferendo maggiore incisività alla convenzione
generale sull’estradizione del 1957. Nel settembre dell’anno successivo segue un’altra
convenzione Ue, che individua nel terrorismo una delle fattispecie che gli Stati membri
non potranno trattare come “reati politici”, depotenziando quindi la clausola sopravvissuta,
seppur in termini residuali, anche nella convenzione del Consiglio d’Europa del 1977 sulla
repressione del terrorismo30. Come già accaduto in passato, tali accordi non saranno
ratificati, lasciando inalterato il problema dell’estradizione dei terroristi31.
Coerente con l’impostazione delle convenzioni è la Dichiarazione sul terrorismo
approvata dai ministri della Giustizia nel corso del vertice di La Gomera del 23 novembre
1995. Il testo conferma che il terrorismo «mette in opera strategie e assume forme della
criminalità organizzata internazionale» e si presenta come «una delle forme più gravi di
criminalità»32. La sensazione complessiva è che, anche dopo l’ingresso a pieno titolo nel
perimetro Ue, l’impostazione della cooperazione giudiziaria e di polizia contro il
terrorismo conservi come elemento decisivo il rifiuto di esaminarne la dimensione
strettamente politica, che si traduce nell’equiparazione con la criminalità spoliticizzata.
Tale scelta certifica l’esistenza di alcune analogie riscontrate dagli apparati di sicurezza e
dai responsabili delle indagini nel modo in cui terroristi e criminali costruiscono le proprie
strutture organizzative o reperiscono finanziamenti. Ma la ragione fondamentale di questa
impostazione sta nella premessa per cui interpretare il terrorismo come un reato ordinario,
29
Cfr. in proposito le conclusioni del Consiglio di Lussemburgo del 28 aprile 1997, riprodotte in «BdCE», a.
XXX, n. 4, 1997, punto 1.5.1.
30
Si vedano i testi delle due convenzioni pubblicati rispettivamente in GUCE C 78 del 30.3.1995 e C 313 del
21.10.1996.
31
Su questo mancato sviluppo, cfr. J. Friedrichs, Fighting Terrorism and Drugs. European and International
Police Cooperation, London-New York, Routledge, 2008, pp. 99-100.
32
Il testo della dichiarazione è riportato in «BdCE», a. XXVIII, n. 11, 1995, punto 1.5.10.
57
punibile sulla base del codice penale, consente di scansare l’insidia rappresentata dall’asilo
politico, sotto il cui ombrello i responsabili di atti terroristici tendono eternamente a
rifugiarsi. Rivendicare il diritto di arrestare, processare e condannare tali individui secondo
le modalità valide per qualsiasi tipo di infrazione della legge è un modo per rafforzare la
posizione delle autorità degli Stati membri, detentrici del monopolio della forza legittima e
fortemente interessate a distinguere la propria posizione da coloro che ricorrono alla
violenza al di fuori del processo di legittimazione del potere.
2.2 I conflitti religiosi, etnici e nazionali: la lotta al terrorismo nell’epoca delle “nuove
guerre”
Nonostante la PESC sia concentrata su altre minacce, al di fuori dell’Ue il terrorismo
è ancora un fenomeno discretamente diffuso. Nell’area mediterranea, la posizione della
Libia torna a farsi critica quando la magistratura britannica accerta il coinvolgimento di
alcuni agenti e funzionari libici nell’attentato di Lockerbie (1988), chiamando ancora una
volta in causa il regime di Gheddafi, non tanto per la sua acquiescenza verso il terrorismo,
ma piuttosto per la fattiva partecipazione alla realizzazione delle azioni33. Su queste basi,
gli europei varano nel 1993 un programma di sanzioni che durerà fino al 1999, quando il
governo libico aderirà alla proposta di processare i presunti responsabili in Olanda secondo
il diritto scozzese, a garanzia di tutte le parti coinvolte34. Si noti peraltro che proprio a
proposito della Libia (e dell’Iran) si consuma nell’estate del 1996 una frizione tra Ue e
Stati Uniti. Allo scopo di punire i due paesi, ritenuti ancora legati al terrorismo
internazionale, l’amministrazione Clinton decide infatti di colpire con un piano di sanzioni
i soggetti che vi investono più di 40 milioni di dollari, indipendentemente dalla loro nazionalità, finendo per penalizzare gli interessi economici europei in quegli Stati35.
La vera novità degli anni Novanta, tuttavia, è l’emergere di un terrorismo con
caratteristiche differenti da quelle del recente passato, in cui la parabola della Libia è
invece inscritta. Un fenomeno inedito, per la politica estera europea, è la violenza a sfondo
religioso che si manifesta in Algeria anche attraverso attentati terroristici. In realtà, la
dimensione terroristica del fondamentalismo islamista era nota agli osservatori per lo meno
33
Si vedano la dichiarazione CPE del 2 dicembre 1991 in «BdCE», a. XXIV, n. 12, 1991, p. 115 e la
dichiarazione CPE del 17 febbraio 1992 in «BdCE», a. XXV, n. 1-2, 1992, p. 110, che invocano la consegna
dei responsabili.
34
Cfr. la dichiarazione della presidenza Ue del 28 agosto 1998 («BdCE», a. XXXI, n. 7-8, punto 1.4.25),
quella del 5 aprile 1999 («BdCE», a. XXXII, n. 4, punti 1.4.9) e la posizione comune 1999/261/PESC del
Consiglio del 16 aprile 1999 (GUCE L 103 del 20 aprile 1999).
35
Cfr. la dichiarazione della presidenza sulla legislazione d’Amato, Dublino-Bruxelles, 21 agosto 1996, in
«BdCE», a. XXIX, n. 7-8, punto 1.4.14.
58
dal 1981, data dell’uccisione del presidente egiziano Sadat da parte di un gruppo
estremista. La connessione fra integralismo e terrorismo fatica però a trovare spazio negli
interventi dei ministri degli Esteri europei, compresi quelli sulla situazione algerina. In
regime di CPE, dopo l’annullamento delle elezioni favorevoli ai gruppi fondamentalisti, la
dichiarazione del 17 febbraio 1992 si limita a invocare «il ripristino del processo
democratico» e il «rispetto dei diritti dell’uomo, della tolleranza e del pluralismo
politico»36. Quella del 27 ottobre 1993 esprime una netta e reiterata condanna per
«violenza» e «terrorismo», ma non fa menzione dell’ispirazione fondamentalista di quelle
azioni37. Nel giugno del 1994, il Consiglio europeo di Corfù «condanna tutti gli atti di
terrorismo e le violazioni dei diritti dell’uomo che siano commessi contro algerini o contro
stranieri»38. Solo nei documenti dei mesi successivi, a cavallo tra la fine del 1994 e l’inizio
del 1995, si trova qualche riferimento più esplicito: per un verso, si accenna
favorevolmente alle disposizioni assunte dal governo algerino «per associare al dialogo i
dirigenti politici del movimento islamista»; per l’altro, si afferma che «il rispetto dei diritti
dell’uomo s’impone a ogni forza politica e a ogni individuo, indipendentemente da
convinzioni politiche o credenze religiose»39.
La situazione algerina è tra i fattori che suggeriscono ai leader europei di dare vita a
una politica regionale nel Mediterraneo. In occasione del Consiglio europeo di Cannes
(giugno 1995) viene concordata una linea comune in vista dell’apertura di un dialogo con i
paesi dell’area mediterranea. Il progetto prevede una cooperazione articolata su tre livelli:
politico e di sicurezza, economico e commerciale, sociale e umano40. La questione del
terrorismo è affrontata nel primo e nel terzo settore. Il documento spiega infatti che le
azioni terroristiche possono essere contrastate sia diffondendo lo Stato di diritto e
l’adesione dei partner alle convenzioni internazionali che regolano la materia (punto 1), sia
intensificando lo scambio di informazioni, migliorando la formazione del personale
dell’antiterrorismo, studiando l’organizzazione e il funzionamento dei gruppi terroristici
(punto 3). Se ne ricava l’idea che la lotta al terrorismo debba essere condotta su due fronti
36
Cfr. la dichiarazione CPE sull’Algeria del 17 febbraio 1992, in «BdCE», a. XXV, n. 1-2, 1992, p. 109.
Si veda la dichiarazione CPE del 27 ottobre 1993, in «BdCE», a. XXVI, n. 10, 1993, pp. 93-94.
38
Consiglio europeo, Conclusioni della presidenza, Corfù, 24-25 giugno 1994, in «BdCE», a. XXVII, n. 6,
1994, punto I.10.
39
Si vedano le dichiarazioni della presidenza Ue sull’Algeria del 23 settembre 1994 («BdCE», a. XXVII, n.
9, 1994, punto 1.3.3) e del 23 gennaio 1995 («BdCE», a. XXVIII, n. 1-2, 1995, punto 1.4.6). Molto più
diretto è invece il Parlamento europeo, come dimostrano le risoluzioni adottate 17 settembre 1993 (GUCE C
268 del 4 aprile 1993), il 16 dicembre 1993 (GUCE C 20 del 24 gennaio 1993), del 16 marzo 1995 (GUCE C
89 del 10 aprile 1995) e del 6 aprile 1995 (GUCE C 109 del 1° maggio 1995).
40
Consiglio europeo, Conclusioni della presidenza, Cannes, 26-27 giugno 1995, in «BdCE», a. XXVIII, n. 6,
1995, punto I.48.
37
59
paralleli: quello della “politica” nel senso più alto, che riguarda le riforme interne ai regimi
politici e gli accordi internazionali, e si muove attraverso i canali della diplomazia, e quello
della “polizia”, intesa come insieme di strumenti a disposizione delle autorità per ordinare
e regolare la società41. L’aspetto innovativo – già esperito dagli Stati membri nei loro
rapporti reciproci – è la volontà di trasferire alcuni profili di questa seconda attività, nata
nel contesto degli Stati territoriali dell’Europa moderna come risorsa tipica della politica
interna, sul piano delle relazioni internazionali.
Il progetto diventa operativo in seguito alla conferenza di Barcellona del 27-28
novembre 1995, che conferma l’impianto appena visto. La lotta al terrorismo passa
attraverso il «dialogo politico» fra gli Stati, che cerca di favorire la stipulazione di accordi
internazionali. Ma non si può nel contempo trascurare la società civile, in cui entrano in
contatto «le culture e le religioni», e proprio per questo motivo il suo sviluppo deve
conformarsi alle misure necessarie per «prevenire e combattere insieme» il terrorismo42. Il
programma di lavoro approvato contestualmente chiarisce che quest’ultimo impegno
impone, in concreto, un’azione che favorisca la cooperazione giudiziaria e di polizia, a
partire da ambiti classici dell’esperienza europea: lo scambio di informazioni e la
procedura di estradizione43.
Oltre alle minacce terroristiche relative all’area del Maghreb44, il partenariato
euromediterraneo può rivelarsi utile anche a proposito del conflitto mediorientale, dal
momento che Israele e l’Autorità nazionale palestinese sono tra i 12 soggetti inseriti nel
progetto. A cavallo degli anni Ottanta e Novanta, il terrorismo di matrice palestinese,
responsabile di alcuni degli attentati più sconvolgenti per l’opinione pubblica europea,
cambia natura. L’Europa cessa di essere il proscenio preferito già a partire dal 198545 e dal
decennio successivo le azioni tendono a localizzarsi stabilmente nell’area descritta da
Israele e dai territori occupati. La violenza politica resta uno strumento cui le formazioni
palestinesi, al di là delle promesse46, non rinunciano, ma assume contorni differenti rispetto
41
Sulla nozione di “polizia” cfr. P. Schiera, Stato di polizia, in Bobbio, Matteucci e Pasquino (a cura di), Il
Dizionario di Politica, cit., pp. 947-950.
42
Conferenza euro-mediterranea, Dichiarazione sul partenariato euro-mediterraneo, Barcellona, 27-28
novembre 1995, in «BdCE», a. XXVIII, n. 11, 1995, punto 2.3.1.
43
Ead., Programma di lavoro, Barcellona, 27-28 novembre 1995, ivi, punto 2.3.2.
44
F. Faria e A. Vasconcelos, Security in Northern Africa: Ambiguity and Reality, Paris, Institute for Security
Studies, Chaillot Paper n. 25, September 1996.
45
Si veda l’analisi sviluppata in L. Weinberg and L. Richardson, Conflicting Theory and the Trajectory of
Terrorist Campaigns in Western Europe, in A. Silke (ed.), Research on Terrorism. Trends, Achievements and
Failures, London-New York, Frank Cass, 2004, pp. 147-150.
46
Consiglio europeo, Conclusioni della presidenza, Madrid, 26-27 giugno 1989, in «BdCE», a. XXII, n. 6,
1989, p. 16.
60
al passato, come testimoniano anche i documenti delle istituzioni europee.
Discutendo del problema, il Consiglio europeo di Dublino del 25-26 giugno si
rammarica per «i mezzi violenti», «lo spargimento di sangue» e «la violenza contro la
popolazione civile» senza indicarne i responsabili47. Quello di Roma, nel mese di ottobre,
denuncia i «tragici atti di violenza contro i cittadini israeliani»48, ma non li qualifica come
terroristici. Solo nel successivo vertice, sempre a Roma, i leader europei tornano a
pronunciarsi con precisione contro «i ripetuti atti di terrorismo e di violenza»49. Le
oscillazioni lessicali dipendono con tutta probabilità dalla tendenza a interpretare le azioni
palestinesi come reazioni all’atteggiamento israeliano, che si presenta come il «ricorso ad
una forza eccessiva per reprimere le manifestazioni dell’insurrezione palestinese nei
territori occupati»50 e «l’uso eccessivo della forza da parte delle truppe d’occupazione»51.
Nel momento in cui si considera la condotta palestinese finalizzata all’insurrezione contro
l’invasore, si delinea una lettura politica dello scontro in atto che consiglia di ricorrere al
termine “terrorismo” con prudenza. A causa della connotazione negativa che il lemma ha
acquisito, la scelta di accostare con frequenza la lotta palestinese ai repertori terroristici
rischierebbe di screditare la stessa rivendicazione di indipendenza e autodeterminazione
che viceversa gli europei dimostrano di considerare più che legittima, pur conservando
obiezioni su certi metodi.
La tendenza si conferma anche in occasione del successivo picco di violenza, toccato
dal terrorismo palestinese tra il 1994 e il 1996, dopo la strage di Hebron compiuta da un
colono ebraico52. In questa fase, per la verità, si affaccia un nuovo protagonista – Hamas,
sigla che si richiama all’islamismo fondamentalista – ma gli interventi europei tendono a
leggerne le azioni sulla falsa riga dei gruppi laici:
[Questo] attentato e gli altri atti di violenza commessi in questi ultimi tempi da terroristi sotto il
nome di Hamas, in particolare il rapimento e l’assassinio del caporale Nachshon Wachsman,
oltre che l’attentato con armi da fuoco perpetrato il 9 ottobre a Gerusalemme Ovest, che ha fatto
numerosi morti e feriti, mostrano che il loro scopo principale è la neutralizzazione del processo
47
Id., Conclusioni della presidenza, Dublino, 25-26 giugno 1990, in «BdCE», a. XXIII, n. 6, 1990, p. 21.
Id., Conclusioni della presidenza, Roma, 27-28 ottobre 1990, in «BdCE», a. XXIII, n. 10, 1990, p. 12.
49
Id., Conclusioni della presidenza, Roma, 14-15 dicembre 1990, in «BdCE», a. XXIII, n. 12, 1990, p. 16.
50
Si veda la dichiarazione adottata in sede CPE il 22 maggio 1990, riportata in «BdCE», a. XXIII, n. 5, 1990,
p. 84.
51
Cfr. la dichiarazione approvata dalla CPE il 9 ottobre 1990, riprodotta in «BdCE», a. XXIII, n. 10, 1990, p.
96.
52
Si veda la dichiarazione diffusa in proposito dalla presidenza Ue il 27 febbraio 1994, in «BdCE», a.
XXVII, n. 1-2, 1994, punto 1.4.15.
48
61
di pace53.
Secondo gli europei, Hamas non introduce il problema religioso come nuova dimensione
del conflitto, ma opera nel quadro delle rivendicazioni territoriali che dal 1967 sono al
centro delle ostilità fra Israele e la popolazione palestinese, sostenuta dai paesi arabi della
regione. Dal punto di vista Ue, dunque, ogni iniziativa terroristica promossa in Medio
Oriente è da ricondursi a quel dissidio fondamentale, che ha ricadute politiche, economiche
e sociali54. La lotta contro l’occupante muove infatti anche dalle condizioni materiali cui è
ridotta la popolazione palestinese, verso le quali i governi europei non hanno mai nascosto
la propria solidarietà. La conseguenza di tale approccio è duplice. Da un lato, si tratta di
condannare gli attentati terroristici che sviliscono la causa palestinese, vestendola di abiti
“criminali” che non rendono merito all’impegno profuso dalla maggior parte dei dirigenti e
dei militanti a vantaggio del dialogo con Israele e della pacificazione della regione55.
Dall’altro, occorre trovare una soluzione concordata che risolva il problema della
spartizione dei territori, disinnescando anche il crescente terrorismo di matrice ebraica56.
Al conflitto si può porre fine solo attraverso negoziati che abbiano per oggetto
l’attribuzione delle aree contese, lasciando sullo sfondo gli argomenti e le ragioni che gli
opposti fondamentalismi religiosi cercano di introdurre nella vicenda e che difficilmente
possono essere al centro di trattative orientate a individuare un compromesso57. È con i
nazionalismi secolari e con gli interessi concreti da essi agitati che l’Unione europea
intende confrontarsi. Anche di fronte agli attentati suicidi in cui si esplica il contributo
dell’integralismo religioso alla seconda Intifada, avviata nel 2000, gli europei prendono
posizione contro gli atti «odiosi e ripugnanti», ribadendo la linea tradizionale, cioè un
invito alla moderazione rivolto a entrambe le parti come premessa per il dialogo che,
attraverso un percorso laico, razionale e condiviso, le porti verso un accordo politico58.
53
Dichiarazione della presidenza Ue sugli attentati in Israele adottata il 20 ottobre 1994, in «BdCE», a.
XXVII, n. 10, 1994, punto 1.3.11.
54
Cfr. su questo punto Consiglio europeo, Conclusioni della presidenza, Firenze, 21-22 giugno 1996, in
«BdCE», a. XIX, n. 6, 1996, punto I.22.
55
Si rintracciano accenti analoghi in numerosi interventi, tra cui la dichiarazione dell’Ue sull’attentato a
Netanya (23 gennaio 1995, in «BdCE», a. XXVIII, n. 1-2, 1995, punto 1.4.15), quella sugli attentati a
Gerusalemme e Ashkelon (25 febbraio 1996, in «BdCE», a. XXIX, n. 1-2, 1996, punto 1.4.13), quella
sull’attentato a Gerusalemme (3 marzo 1996, in «BdCE», a. XXIX, n. 3, 1996, punto 1.4.10) e quella
sull’adozione della Carta palestinese (26 aprile 1996, in «BdCE», a. XXIX, n. 4, 1996, punto 1.4.13).
56
Si veda lo studio di L. Ozzano, Fondamentalismo e democrazia. La destra religiosa alla conquista della
sfera pubblica in India, Israele e Turchia, Bologna, Il Mulino, 2009, pp. 133-220.
57
Cfr. a questo proposito B. Tibi, Il fondamentalismo religioso (1995), Torino, Bollati Boringhieri, 1997, pp.
108-116 in particolare.
58
Si vedano le dichiarazioni concordate dall’Unione europea il 20 novembre 2000 «BdCE», a. XXXIII, n.
11, 2000, punto 1.6.15), il 14 febbraio 2001 («BdCE», a. XXXIV, n. 1-2, 2001, punto 1.6.26), il 29 marzo
62
Giova a questo punto esaminare quale atteggiamento assume l’Ue in relazione ad
alcuni altri conflitti locali o regionali che, in questa fase storica, fanno spesso da sfondo ad
azioni terroristiche. È, per esempio, il caso dell’Afghanistan, abbandonato a se stesso dopo
il crollo dell’URSS e il ritiro dell’Armata rossa, che lascia spazio a un conflitto fra le
diverse etnie presenti nel paese, cui si somma l’elemento islamista incarnato dai talebani.
Risale al 1991 l’intervento europeo che sollecita l’istituzione a Kabul di «un governo
pienamente rappresentativo», aperto ai «rappresentanti della resistenza» e accompagnato
da «un accordo sulla sospensione delle forniture ai combattenti»59. Solo nel 1996, la crisi,
che non accenna a risolversi, viene messa in connessione con la sfera del terrorismo:
«L’Unione europea rileva con inquietudine che il proseguire del conflitto in Afghanistan
aumenta il potenziale di terrorismo internazionale e di traffico di stupefacenti con effetti
destabilizzanti nella regione e oltre i suoi confini. L’Unione europea invita pertanto tutte le
parti in causa a cessare tali attività in Afghanistan»60. Due anni dopo, tornando
sull’argomento, l’Unione nota che la «guerra civile favorisce […] pratiche contrarie alle
norme internazionali: traffico e abuso di stupefacenti, favoreggiamento ed esportazione del
terrorismo. Essa minaccia la stabilità e lo sviluppo economico dell’intera regione»61.
Le citazioni contengono due passaggi che sembrerebbero anticipare gli scenari dello
jihadismo globale resi evidenti dagli eventi dell’11 settembre 2001. L’ipotesi che il
terrorismo possa produrre conseguenze oltre i confini regionali, rendendosi protagonista
dell’«esportazione» della violenza rispetto a un’area spazialmente determinata, rivela che
alcune delle dinamiche qaediste sono forse intuibili già a metà degli anni Novanta.
Tuttavia, l’ottica con cui gli europei guardano al problema afghano è ancora
prevalentemente regionale, in linea con quanto già sottolineato nel caso del conflitto
mediorientale. Lo spauracchio che turba i sonni degli osservatori europei è innanzi tutto la
deflagrazione delle tensioni tra Afghanistan e Iran62.
Ciò non toglie che, tra il 1999 e il 2000, i rapporti tra il regime talebano e Osama Bin
2001 («BdCE», a. XXXIV, n. 3, 2001, punto 1.6.25), il 18 aprile («BdCE», a. XXXIV, n. 4, 2001, punto
1.6.14) e il 13 agosto 2001 («BdCE», a. XXXIV, n. 8, 2001, punto 1.6.24).
59
Cfr. la dichiarazione CPE sull’Afghanistan del 10 giugno 1991, in «BdCE», a. XXIV, n. 6, 1991, pp. 104105. Si vedano inoltre le dichiarazioni CPE del 16 e del 30 aprile 1992, in «BdCE», a. XXV, n. 4, 1992, pp.
82-83, e del 14 agosto 1992, in «BdCE», a. XXV, n. 7-8, 1992, p. 110.
60
Consiglio dell’Unione europea, Dichiarazione sull’Afghanistan, Lussemburgo, 28 ottobre 1996, in
«BdCE», a. XXIX, n. 10, 1996, punto 1.4.7.
61
Dichiarazione della presidenza Ue sull’Afghanistan del 16 aprile 1998, in «BdCE», a. XXXI, n. 4, 1998,
punto 1.3.7.
62
Si vedano le dichiarazioni della presidenza Ue dell’11 settembre 1998, relativa all’uccisione di alcuni
diplomatici iraniani in terra afghana («BdCE», a. XXXI, n. 9, 1998, punto 1.3.2) e del 23 settembre 1998, che
mette in guardia circa il pericolo rappresentato dalla destabilizzazione della regione, con particolare
attenzione per il ruolo dell’Iran («BdCE», a. XXXI, n. 9, 1998, punto 1.3.3).
63
Laden – la cui figura e le cui azioni sono peraltro più note alle autorità americane che a
quelle europee – destino qualche preoccupazione anche presso l’Ue. Lo suggeriscono due
posizioni comuni PESC con cui vengono introdotte sanzioni a carico del governo talebano,
che si rifiuta di consegnare il miliardario saudita, accusato di vari attentati compiuti negli
anni precedenti. In tali occasioni si accenna al fatto che il territorio afghano è utilizzato per
addestrare terroristi e si pongono particolari restrizioni ai collegamenti aerei tra il territorio
europeo e l’Afghanistan63. Non ci sono però elementi sufficienti per affermare che questi
documenti contengano – in nuce – le riflessioni sulla deterritorializzazione del terrorismo
che saranno una componente fondamentale del dibattito politico successivo al crollo delle
torri gemelle. Si può infatti supporre che tali prese di posizione siano frutto della volontà di
adeguarsi alle richieste dell’alleato occidentale e soprattutto alla linea affermatasi in sede
ONU, nei confronti della quale l’Ue si pone sempre con grande deferenza.
Un conflitto ormai di lungo corso è quello che mette di fronte, nello Sri Lanka, il
governo e la minoranza tamil, la quale ricorre con frequenza all’opzione del terrorismo. Si
tratta di una vertenza di origine etnico-nazionale non molto diversa da quella che oppone
israeliani e palestinesi in Medio Oriente e ispira l’azione della minoranza basca in Spagna.
Come noto, tuttavia, queste situazioni sono trattate in modo assai differente dalle istituzioni
europee, pronte a riconoscere la legittimità delle rivendicazioni palestinesi ma decisamente
meno aperte nei confronti delle istanze autonomiste o indipendentiste presenti all’interno
degli Stati membri dell’Ue. I leader europei non sono neppure sfiorati dall’idea che il
governo spagnolo debba trattare su un piano di parità con l’ala politica dell’ETA, come
prevede invece il modello di negoziato lungamente sostenuto in relazione al conflitto
mediorientale. La simmetria tra le “parti” in lotta è uno dei requisiti indispensabili per
avviare il processo di pace e tale metodo viene esteso anche allo Sri Lanka:
L’Unione europea esprime la sua profonda soddisfazione di fronte all’entrata in vigore l’8
gennaio 1995 di un accordo di cessazione delle ostilità tra il governo cingalese e il LTTE. […]
Essa manifesta la viva speranza che questa tappa significativa sarà seguita dall’apertura rapida
di negoziati per la ricerca di una soluzione politica al conflitto attuale64.
La scena del governo di Madrid che tratta con i capi dell’ETA una sorta di tregua,
63
Cfr. la posizione comune 1999/727/PESC adottata dal Consiglio il 15 novembre (GUCE L 294 del
16.11.1999) e quella 2000/55/PESC approvata dal Consiglio il 24 gennaio 2000 (GUCE L 21 del 26.1.2000).
64
Dichiarazione della presidenza Ue sulla situazione in Sri Lanka del 30 gennaio 1995, in «BdCE», a.
XXVIII, n. 1-2, 1995, punto 1.4.19.
64
ricevendo le congratulazioni delle ambasciate di mezzo mondo, non è neppure
immaginabile. Per quale motivo, allora, le istituzioni europee non provano imbarazzo a
pronunciare queste parole sulle autorità dello Sri Lanka? Una risposta si può arguire dal
ragionamento svolto in una dichiarazione dell’agosto 1995:
Dall’inizio, l’Unione europea ha appoggiato il governo dello Sri Lanka nei suoi sforzi per
trovare una soluzione pacifica al problema etnico. L’Unione europea ha già condannato la
violazione, da parte del LTTE il 19 aprile, dell’accordo sulla cessazione delle ostilità. Una reale
occasione di pervenire a una soluzione negoziata è stata così perduta. Dopo i bombardamenti
che hanno avuto luogo il 7 agosto, l’Unione europea deplora una volta di più le perdite di vite
umane e le distruzioni provocate dalla guerra e invita sia il governo che il LTTE a fare di tutto
per evitare di fare vittime civili. L’Unione europea si felicita delle assicurazioni date dal
governo cingalese, secondo cui il suo obiettivo risiede in una soluzione politica duratura e
onorevole, e invita tutte le parti a riconoscere rapidamente che è il solo mezzo per pervenire a
una pace duratura. In questo contesto, l’Unione europea si felicita vivamente degli sforzi
compiuti dal governo per elaborare una serie di proposte di decentramento volto a rispondere
alle aspirazioni di tutti i cingalesi. L’Unione europea spera che le proposte saranno esaminate da
tutte le parti in modo attento e costruttivo. Ciò potrà aprire la via a un ritorno rapido alla pace,
alla normalità e allo sviluppo complessivo del paese65.
Il punto davvero dirimente è che – agli occhi degli europei – la violenza in atto nel paese,
anche nelle sue versioni indubitabilmente terroristiche, assume le fattezze di una guerra
civile, nella quale è difficile distinguere compiutamente le autorità legittime da quelle che
non lo sono. Per questo, fatta salva la presa di distanza dal terrorismo e dalla violenza in
generale come strumenti di lotta politica, le istituzioni europee si spingono su terreni che in
altre occasioni sono loro preclusi. Nel caso in questione, la dichiarazione europea arriva
perfino a sbilanciarsi sul merito delle riforme istituzionali attorno alle quali sarebbe
possibile riscontrare il consenso della minoranza. La premessa per cui lo Sri Lanka non
presenta tutti i requisiti dello Stato sovrano per antonomasia consente all’Unione europea,
in successivi interventi, di ricordare che i negoziati «dovranno tener conto in maniera
sostanziale delle aspirazioni della minoranza tamil nel rispetto della diversità culturale e
religiosa dello Sri Lanka senza tuttavia ledere il principio intangibile dell’integrità
territoriale e dell’unità del paese»66. Ugualmente, l’Ue non ha esitazioni nel biasimare in
65
Dichiarazione della presidenza sullo Sri Lanka del 9 agosto 1995, in «BdCE», a. XXVIII, n. 8, 1995, punto
1.4.15. Il corsivo è del redattore.
66
Dichiarazione della presidenza sullo Sri Lanka del 9 novembre 2000, in «BdCE», a. XXXIII, n. 11, 2000,
punto 1.6.15.
65
modo speculare le «ripetute violazioni dei diritti dell’uomo perpetrate da elementi
dell’esercito, della polizia e delle organizzazioni paramilitari nei territori controllati dal
governo», chiedendo che «i responsabili di questi crimini siano arrestati e processati», e gli
«atti di terrorismo e [le] violazioni dei diritti dell’uomo nonché del diritto umanitario
internazionale perpetrate dall’LTTE»67.
Un’altra situazione controversa si verifica nel conflitto in Cecenia, che si manifesta
tramite scontri fra l’esercito russo e il movimento indipendentista locale. I documenti
europei si pongono anche qui in una posizione di sostanziale equidistanza, rallegrandosi
per il cessate-il-fuoco concordato fra le parti ma rapidamente superato dalla ripresa dei
combattimenti68. A questo profilo della vicenda, già di per sé complicato perché
contrappone uno Stato sovrano a una sua regione intenzionata a distaccarsene, si aggiunge
a un certo punto il problema del terrorismo. Il Consiglio Affari Generali del 25 marzo 1996
annota che da parte cecena si tende a ricorrere a tattiche (es. la presa di ostaggi)
tipicamente terroristiche, che comportano la violazione dei diritti umani. A queste tuttavia
Mosca risponde con bombardamenti di entità tale da sollevare altrettanti dubbi e
polemiche, attirandosi la censura dell’Ue69. Si viene così a determinare un conflitto nel
quale una delle parti continua a mettere in campo l’esercito e strategie di combattimento
più o meno tradizionali, mentre l’altra alterna metodi di guerriglia ad azioni terroristiche.
Di fronte alle difficoltà incontrate nel dare una precisa definizione di quanto sta accadendo,
l’Unione decide infine di chiedere «risolutamente ad entrambe le parti di desistere da
ulteriori azioni militari»70, con una formula che tuttavia non sembra in grado di esprimere
la complessità della questione, a maggior ragione dal momento in cui il terrorismo ceceno
assumerà anche un volto religioso.
Si consideri ora il caso della Colombia, la cui stabilità interna è da tempo sconvolta
da fenomeni prevalentemente criminali – il narcotraffico – e fratture di tipo politico. Da
quest’ultimo punto di vista va segnalata l’attività di gruppi guerriglieri, come l’Esercito di
Liberazione Nazionale (ELN) e le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (FARC), il
cui repertorio di azioni contempla un elevato numero di rapimenti, attentati e sabotaggi,
67
Dichiarazione della presidenza sullo Sri Lanka del 18 dicembre 2000, in «BdCE», a. XXXIII, n. 12, 2000,
punto 1.6.22.
68
Si vedano le dichiarazioni della presidenza Ue sulla Cecenia del 17 e del 23 gennaio 1995 («BdCE», a.
XXVIII, n. 1-2, 1995, punti 1.4.20 e 1.4.21) e quella del 1° aprile 1995 («BdCE», a. XXVIII, n. 4, 1995,
punti 1.4.14).
69
Consiglio dell’Unione europea, Dichiarazione sulla Cecenia, Bruxelles, 25 marzo 1996, riportata in
«BdCE», a. XXIX, n. 3, 1996, punto 1.4.12.
70
Cfr. la dichiarazione della presidenza Ue sulla Cecenia del 22 agosto 1996, riportata in «BdCE», a. XXIX,
n. 7-8, 1996, punto 1.4.22.
66
sconfinando dunque nel terrorismo. Come accaduto in altre circostanze già esaminate, il
lessico utilizzato dalle dichiarazioni dell’Unione europea è orientato a favorire
l’avvicinamento fra il governo colombiano e i gruppi rivoluzionari, che, nella miglior
tradizione della guerriglia latinoamericana71, controllano alcune porzioni di territorio. È
questa condizione di fatto, incompatibile con il modello di Stato e di sovranità familiare
agli europei, che spiega perché i negoziati politici, le trattative formali e gli accordi
umanitari tra le parti in lotta sono soluzioni percorribili nel contesto colombiano72. Esiste
una distanza incolmabile, insomma, fra soggetti e movimenti che mirano dichiaratamente a
obiettivi politici, cercano il consenso della popolazione e in sostanza amministrano una
parte del territorio, e organizzazioni criminali anche molto potenti, come i cartelli della
droga colombiani. Se con gli uni si può prendere in considerazione di dialogare, purché
pongano fine alle campagne terroristiche, le altre sono composte da individui che si devono
catturare e processare. È curioso che a stabilire questa distinzione – il processo negoziale
con i guerriglieri-terroristi, l’«arresto» dei narcotrafficanti73 – sia proprio l’Unione
europea, che al suo interno tende a ricondurre anche il terrorismo a fattispecie criminali,
come si è rilevato descrivendo l’evoluzione del terzo pilastro.
Le incertezze palesate dall’Unione europea nel tematizzare i “terrorismi” degli anni
Novanta sono la spia di una trasformazione della violenza politica che, nel corso del
Novecento, vive diverse tappe. Il secolo si apre con la codificazione del diritto
internazionale bellico, elaborato dalla consuetudine nel corso del tempo. Con le
Conferenze dell’Aia del 1899 e del 1907, la comunità internazionale intende riconoscere
giuridicamente i lineamenti caratteristici della guerra. Essa si mostra sotto le vesti di un
conflitto fra Stati, animato da eserciti titolari in via esclusiva dello status di combattenti
legittimi, negato in linea di massima ai soggetti irregolari (insorti, resistenti, civili in armi,
ecc.). Nel giro di qualche decennio, l’ecatombe di civili nelle guerre mondiali e coloniali, e
il loro coinvolgimento come parte attiva nella lotta (si pensi ai movimenti di resistenza),
inducono un ripensamento dell’impianto giuridico, che si traduce nella firma delle
Convenzioni di Ginevra del 1949 e dei Protocolli aggiuntivi del 197774.
71
Si vedano E. Guevara, Guerra per bande (1961), Milano, Mondadori, 2005 e Id., Diario del Che in Bolivia
(1968), Milano, Feltrinelli, 2005.
72
Si vedano le dichiarazioni della presidenza Ue sulla Colombia del 25 ottobre 2000 («BdCE», a. XXXIII, n.
10, 2000, punto 1.6.10), del 19 gennaio 2001 («BdCE», a. XXXIV, n. 1-2, 2001, punto 1.6.17) e dell’8
giugno 2001 («BdCE», a. XXXIV, n. 6, 2001, punto 1.6.12).
73
Cfr. l’entusiamo europeo per la cattura di Gilberto Rodriguez Orejuela nel giugno del 1995 («BdCE», a.
XXVIII, n. 6, 1995, punto 1.4.12).
74
Per una sintesi dell’evoluzione del diritto bellico si veda A. Cassese, Il diritto internazionale nel mondo
contemporaneo, Bologna, Il Mulino, 1984, pp. 283-320.
67
Questo primo passaggio evidenzia una tendenza destinata ad accentuarsi nella
seconda metà del Novecento: il paradigma della guerra moderna, intesa sostanzialmente
come metodo estremo di risoluzione delle controversie internazionali, regolata da norme
condivise e nata nel ricordo delle sanguinose guerre di religione europee75, lascia
gradualmente spazio a forme di conflitto meno lineari, tanto nelle cause scatenanti, quanto
nelle modalità di svolgimento. Il concetto di “nuove guerre”, utilizzato da più parti alla fine
del XX secolo76, sintetizza alcuni mutamenti decisivi. In primo luogo, gli Stati non sono
più i soli attori in grado di esercitare la violenza sulla scena internazionale. Una serie di
soggetti non statali, che agiscono autonomamente o su mandato statale77, sono in grado di
produrre danni consistenti e, in generale, effetti non trascurabili per gli analisti. Le guerre
civili, tra cui quelle prese in considerazione nelle pagine precedenti, sono forse i casi più
evidenti di privatizzazione della violenza, perpetrata da milizie mercenarie, fazioni,
formazioni paramilitari, guerriglieri che non disdegnano – come si è visto – il ricorso al
terrorismo. In secondo luogo, il movente etnico-nazionale diviene uno dei maggiori fattori
di instabilità e violenza, come dimostrato anche dalle esperienze balcaniche e dai massacri
consumati in alcune aree africane (es. Ruanda) negli anni Novanta. In terzo luogo, la
centralità della dimensione identitaria rende meno praticabile l’individuazione di
compromessi e il rispetto di limiti nell’esercizio della violenza, diversamente da quanto
accade nel momento in cui la discussione riguarda per lo più gli interessi materiali delle
parti. La matrice etnica innesca una spirale di brutalità testimoniata dal numero delle vittime occorse. In quarto luogo, nei casi in cui si verifica, la reazione della comunità
internazionale implica la nascita di vastissime coalizioni guidate dagli Stati maggiori,
impegnati a reprimere – con un intervento “umanitario” improntato a una spinta etica – una
controparte neppure paragonabile per risorse e influenza, enfatizzando l’asimmetria del
75
Sulla versione ottocentesca della guerra moderna, teorizzata in particolare dal generale prussiano Carl von
Clausewitz, cfr. G.E. Rusconi, Clausewitz, il prussiano, Torino, Einaudi, 1999. Un bilancio sulla validità di
tale modello a cavallo tra XX e XXI secolo è tracciato da L. Bonanate, È ancora attuale Clausewitz? e M.
Kaldor, Clausewitz e le guerre di oggi, interventi ospitati da un dibattito sulla rivista «Contemporanea», a.
XI, n. 2, aprile 2008, pp. 305-309 e pp. 310-314 rispettivamente. Per un’introduzione al tema della guerra in
generale, si veda L. Bonanate, La guerra, Roma-Bari, Laterza, 1998.
76
Si vedano in particolare: M. Kaldor, Le nuove guerre. La violenza organizzata nella società globale
(1999), Roma, Carocci, 2001, la cui analisi è ripresa esplicitamente da V. Coralluzzo, Nuovi nomi per nuove
guerre, in A. d’Orsi (a cura di), Guerre globali. Capire i conflitti del XXI secolo, Roma, Carocci, 2003, pp.
54-63 e G. De Luna, Il corpo del nemico ucciso. Violenza e morte nella guerra contemporanea, Torino,
Einaudi, 2006, pp. 253-282; P. Gilbert, New Terror, New Wars, Washington, Georgetown University Press,
2003; H. Münckler, The New Wars (2002), Cambridge-Malden, Polity Press, 2005 (cfr. in lingua italiana un
articolo su temi affini: Id., Politica e guerra. Le nuove sfide della decomposizione di stati, del terrore e delle
economie di guerra civile, «Filosofia politica», a. XVI, n. 3, dicembre 2002, pp. 435-456).
77
In questo secondo caso si tratta della cosiddetta “guerra per procura”, cui gli Stati Uniti fanno
frequentemente ricorso secondo J.K. Cooley, Una guerra empia. La CIA e l'estremismo islamico (1999),
Milano, Eleuthera, 2000.
68
confronto e trasgredendo ai dettami del canonico calcolo realista sul bilanciamento della
potenza78.
Per effetto di queste dinamiche entrano in crisi alcune distinzioni sulla base delle
quali il pensiero politico moderno ha lungamente elaborato la dimensione della violenza
politica79. Si determinano infatti situazioni di guerra civile o “strisciante” che sono
irriducibili tanto al concetto di guerra tradizionale, combattuta fra Stati che riconoscono la
comune appartenenza allo jus publicum Europaeum, quanto al suo opposto, rappresentato
dalla pace come assenza di ostilità80. Allo stesso modo, viene messa in discussione la
rigida separazione fra la dimensione civile e quella militare, come conferma la
constatazione che i soldati di professione sono ormai solo una delle categorie di
combattenti che prendono parte alla guerra e spesso trovano di fronte a sé avversari
improvvisati, volontari, partigiani o mercenari81. Si pensi inoltre al tentativo di presentare
come azione di polizia o intervento umanitario – e dunque in fondo “civile” – una guerra
condotta con mezzi e tattiche squisitamente militari come quella della NATO contro la
Serbia nel 1999, in seguito alle violenze in Kosovo82.
Questo è, in sintesi, l’orizzonte politico e concettuale con cui l’Unione europea deve
confrontarsi allorché si esprime sulla conflittualità degli anni Novanta. I suoi interventi
78
Ciò non significa che le guerre del passato fossero sempre combattute fra avversari del medesimo livello.
Tuttavia, lo scarto rilevabile in quelle più recenti, decisamente elevato, è uno dei profili del modello di guerra
“asimmetrica” reso celebre da L. Qiao e X. Wang, Guerra senza limiti. L’arte della guerra fra terrorismo e
globalizzazione (1999), Gorizia, Leg, 2004, che gli autori ricavano dalla guerra del Golfo del 1991. Da tale
volume prende spunto anche il concetto di “guerra ineguale” (cfr. Colombo, La guerra ineguale, cit.).
79
Un utile strumento per ripercorrerne le tappe è l’antologia di C. Galli (a cura di), Guerra, Roma-Bari,
Laterza, 2004.
80
Sui significati assunti dalla guerra civile nel XX secolo cfr. P.P. Portinaro, L’epoca della guerra civile
mondiale?, «Teoria politica», a. VIII, n. 1-2, 1992, pp. 65-77. Per la nozione di “guerra strisciante” si veda
Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, cit., p. 318. L’individuazione dello jus
publicum Europaeum come paradigma delle relazioni internazionali nella modernità eurocentrica risale a C.
Schmitt, Il nomos della terra. Nel diritto internazionale dello «jus publicum Europeaum» (1950), Milano,
Adelphi, 2003, pp. 163-173 in particolare. Sull’estinzione tendenziale del binomio oppositivo guerra-pace,
cfr. anche U. Beck, Lo sguardo cosmopolita (2004), Roma, Carocci, 2005, pp. 171-210, che recupera lo
slogan orwelliano «la guerra è pace», e A. Appadurai, La civiltà degli scontri (2002), in Id. Sicuri da morire.
La violenza nell'epoca della globalizzazione, Roma, Meltemi, 2005, pp. 86-88, che dichiara decaduta la
distinzione fra pace come condizione ordinaria e guerra come eccezione.
81
La figura del “partigiano” è al centro della riflessione di C. Schmitt, Teoria del partigiano. Integrazione al
concetto di politico (1963), Milano, Adelphi, 2005. Sulle diverse categorie di combattenti irregolari, cfr.
M.C. Fowler, Amateur Soldiers, Global Wars. Insurgency and Modern Conflict, Westport-London, Praeger,
2005 e R.A. Shultz e A.J. Dew, Insurgents, Terrorists and Militias. The Warrior of Contemporary Combat,
New York, Columbia University Press, 2006. Su questa evoluzione si vedano anche le prospettive adottate da
F. Heisbourg, Il futuro della guerra (1997), Milano, Garzanti, 1999 e F. Gros, États de violence. Essai sur la
fin de la guerre, Paris, Gallimard, 2006.
82
Circa il dibattito fra gli intellettuali europei sulle nuove forme di guerra e il linguaggio utilizzato per
legittimarle di fronte all’opinione pubblica, cfr. Asor Rosa, La guerra, cit., A. d’Orsi, I chierici alla guerra.
La seduzione bellica degli intellettuali da Adua a Baghdad, Torino, Bollati Boringhieri, 2005, pp. 181-214 e
R. Gherardi, Il futuro, la pace, la guerra. Problemi della politica moderna, Roma, Carocci, 2007, pp. 108136.
69
prendono atto dell’esistenza dell’articolato e inedito intreccio fra guerra civile e terrorismo,
violenza etnica e religiosa, motivazioni politiche e identitarie, che si registra, seppur con
accentuazioni differenti, nei numerosi scontri armati esplosi o radicalizzatisi con il venir
meno della guerra fredda e della sua carica stabilizzatrice. Ciò che preme sottolineare in
questa sede è la tendenza dei documenti Ue a leggere questi conflitti in chiave regionale,
cioè come crisi che rispondono a logiche locali e che in quei contesti sono destinate a
svilupparsi e, possibilmente, a risolversi. Il discorso vale anche per un dissidio, come
quello israelo-palestinese, che solo pochi anni prima ha mostrato una propensione
fortemente transnazionale, o per il disfacimento delle istituzioni afghane, le cui potenziali
ricadute in Occidente non allarmano più di tanto gli europei. Ancora parzialmente immersa
nell’ottica della politica territoriale, degli spazi delimitati, della rigida distinzione fra
“interno” ed “esterno” che connota la modernità83, e impreparata all’irruzione sulla scena
della globalizzazione a tutti i livelli, l’analisi dell’Ue non sembra concepire l’eventualità
che la violenza – anche terroristica – apparsa in molte parti del mondo possa costituire una
minaccia diretta per l’Europa, il suo territorio, la sua popolazione.
2.3 L’evoluzione dell’Unione europea dopo Amsterdam: politica estera e politica interna
La prova più evidente della persistenza di un’impostazione ancora poco “globale”
dell’azione dell’Unione è fornita dalla sua struttura istituzionale, che continua a riflettere la
separazione ideale fra l’ambito della politica estera e quello degli affari interni.
L’immagine dei “pilastri” costituisce la bussola con cui affrontare l’esame dei progressi
realizzati dal processo di integrazione europea in materia di sicurezza prima dell’11
settembre 2001. L’assetto istituzionale subisce alcune variazioni in seguito alla conferenza
intergovernativa (CIG) programmata per il 1996, che prende il via con il Consiglio europeo
di Torino del 29-30 marzo. Le conclusioni dei capi di Stato e di governo lasciano intendere
che l’impostazione della lotta al terrorismo decisa a Maastricht è ancora attuale: nella
classificazione delle sfide che l’Ue dovrà affrontare in futuro, il terrorismo è affiancato al
traffico di droga e alla criminalità organizzata internazionale. Le istituzioni europee hanno
il compito di arginare tali minacce e garantire «una migliore tutela dei cittadini
dell’Unione»84. Nella sezione dedicata alla PESC, viceversa, del terrorismo non c’è traccia.
Sulla medesima scia si pone il Consiglio europeo di Firenze di giugno, che è
83
Si vedano le considerazioni di C. Galli, Spazi politici. L’età moderna e l’età globale, Bologna, Il Mulino,
2001.
84
Consiglio europeo, Conclusioni della presidenza, Torino, 29-30 marzo 1996, in «BdCE», a. XXIX, n. 3,
1996, punto I.4.
70
particolarmente limpido nel distinguere due concezioni della “sicurezza”. Esiste, da un
lato, quella relativa alla sfera della cittadinanza, che esige «un sostanziale potenziamento
dei mezzi e degli strumenti di lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata e al traffico di
droga, nonché delle politiche in materia di asilo in tutte le sue forme, di visti e di
immigrazione nella prospettiva di uno spazio giudiziario comune in questo ambito»85. Si
tratta insomma della sicurezza “interna”, che è attualmente materia del terzo pilastro ed
eredita il corpus di iniziative e risultati raggiunti dalla cooperazione di polizia, oltre ai
classici obiettivi per cui si spendono da sempre i sostenitori dell’armonizzazione dei
sistemi giuridici/giudiziari europei. Allo sviluppo di questi settori dell’integrazione la lotta
al terrorismo ha ampiamente contribuito in passato, conservando ancora una posizione di
rilievo, anche se meno centrale rispetto ai decenni precedenti. I leader europei si
concentrano poi sulla seconda accezione di sicurezza, che concerne la politica estera:
Il Consiglio europeo sottolinea la crescente importanza dell’aspetto “sicurezza” nelle iniziative
dell’Unione europea nell’ambito della PESC, nota con soddisfazione il sempre maggior rilievo
che viene di conseguenza attribuito alla sicurezza nel dialogo con i suoi partner e accoglie con
favore l’impulso dato di recente alle relazioni UE-UEO, che devono essere ulteriormente
sviluppate. Si rallegra per la decisione presa a Berlino dal Consiglio dell’Atlantico del Nord
tenutosi in giugno di sviluppare l’identità europea in materia di sicurezza e di difesa86.
Nel settore delle relazioni internazionali classiche, che coniugano la dimensione della
sicurezza con la difesa militare, il fenomeno terroristico gode di scarsa attenzione. Se ne
trae la sensazione che l’Ue operi una separazione concettuale fra due categorie di minacce,
dedicando gli strumenti PESC a quelle classiche della politica internazionale – la guerra,
l’invasione straniera, i conflitti fra forze armate – che sono rivolte contro lo Stato e le sue
istituzioni. Per converso, è significativa la scelta di discutere di terrorismo e criminalità nel
capitolo sui cittadini e sulle loro esigenze, come se tali insidie condividessero la peculiarità
di agire esclusivamente nell’ambito della società civile, nella sfera degli interessi privati e
dei rapporti interpersonali. Le azioni dei terroristi sono parificate a quelle di criminali, o
anche di immigrati irregolari, poiché non costituirebbero un pericolo effettivo per
l’esistenza dello Stato, per le sue fondamenta, ma semplici turbolenze che rendono
problematico l’ordinato fluire della vita comunitaria. Sul piano istituzionale questo
discorso si traduce nella tendenza a combattere il terrorismo con i tradizionali strumenti
85
86
Id., Conclusioni della presidenza, Firenze, 21-22 giugno 1996, in «BdCE», a. XXIX, n. 6, 1996, punto I.7.
Ivi, punto I. 19.
71
con cui le autorità, e in particolare i ministri dell’Interno e della Giustizia, assicurano la
tutela dell’ordine pubblico.
La minaccia terroristica può servirsi anche di canali internazionali:
Il Consiglio europeo condanna incondizionatamente tutti gli attentati terroristici e continua a
seguire con grande attenzione la minaccia costituita dal terrorismo interno ed esterno. L’Unione
europea coopera pertanto strettamente con altri partner e organizzazioni internazionali per
riesaminare ed aggiornare le misure già prese contro tale minaccia e, ove necessario, adottare
ulteriori misure. Questa è la ragione per cui gli Stati membri ribadiscono la loro volontà di
cooperare strettamente in questo settore; il Consiglio europeo sottolinea la necessità di tale
cooperazione87.
Lo scambio di informazioni e la stipulazione di convenzioni sono i terreni privilegiati su
cui realizzare la collaborazione ordinaria con i paesi terzi. L’adozione di sanzioni,
restrizioni o altre misure punitive rappresenta invece una soluzione eccezionale, che
coinvolge le diplomazie e può intaccare gli svariati interessi economici e commerciali degli
stessi Stati membri. In ogni caso, anche questo secondo piano di intervento si presenta
come un intervento di natura “civile”. Nonostante il terrorismo abbia ripetutamente
mostrato la tendenza a intrecciarsi con le guerre civili, i conflitti etnici e la violenza di
massa, i documenti del Consiglio europeo finiscono per escludere che la necessità di
contrastarlo imponga il ricorso a strumenti, risorse o strategie di tipo militare.
Dopo aver raggiunto un accordo sostanziale nel mese di giugno, i capi di Stato e
governo firmano il 2 ottobre 1997 ad Amsterdam un nuovo Trattato che modifica alcune
parti del testo del 1992. Le sezioni relative al secondo e al terzo pilastro sono interamente
riscritte. Il Titolo V istituisce la figura dell’Alto Rappresentante PESC e sancisce un
ulteriore avvicinamento tra l’Ue e l’Unione dell’Europa Occidentale (UEO). Grazie agli
strumenti mutuati da quest’ultima, l’Ue acquisisce le competenze per trattare «le missioni
umanitarie e di soccorso, le attività di mantenimento della pace e le missioni di unità di
combattimento nella gestione delle crisi, ivi comprese le missioni tese al ristabilimento
della pace» (art. 17.2 del testo consolidato del TUE). Si tratta delle cosiddette “missioni di
Petersberg”, adottate dall’UEO nel 1992 nel corso di un vertice svolto nell’omonima
località situata nei pressi di Bonn88. In tal modo l’Unione europea promuove la creazione
87
Id., Conclusioni della presidenza, Dublino, 13-14 dicembre 1996, in «BdCE», a. XXIX, n. 12, 1996, punto
I.12.
88
Western European Union – Council of Ministers, Petersberg Declaration, Bonn, 19 June 1992, p. 6
(documento reperibile all’indirizzo web: http://www.weu.int/index.html).
72
di unità militari poste sotto la responsabilità dall’autorità UEO e impegnate in operazioni
umanitarie, di peacekeeping e di gestione di crisi (tra cui il peacemaking). Benché nella
pratica i due ultimi compiti tendano a confondersi, con il riferimento al peacekeeping si
pone l’accento sull’interposizione di forze neutrali, di natura civile o militare, per separare
i belligeranti e ricercare condizioni favorevoli alla conciliazione diplomatica; il
peacemaking, invece, contempla l’uso di mezzi non militari per indurre le parti a deporre le
armi e negoziare89. Non si fa alcun cenno all’eventualità che queste nuove risorse –
decisamente utili nel periodo dominato dai conflitti regionali – siano utilizzate in funzione
antiterroristica.
Il
Titolo
VI cambia
addirittura
denominazione.
Ciò
non
dipende
solo
dall’integrazione degli accordi di Schengen nei Trattati, con un apposito protocollo.
L’ampia nozione di “Giustizia e Affari Interni” viene ridotta a “Cooperazione di polizia e
giudiziaria in materiale penale” perché i settori relativi alla circolazione delle persone
(asilo, immigrazione, controllo delle frontiere) e alla cooperazione giudiziaria in materia
civile sono trasferiti nel primo pilastro. Il nuovo orizzonte istituzionale di riferimento è lo
«spazio di libertà, sicurezza e giustizia» (d’ora in poi indicato con l’acronimo SLSG), la
cui costruzione diventa l’obiettivo primario di questo versante dell’integrazione europea,
da perseguire «prevenendo e reprimendo la criminalità, organizzata o di altro tipo, in
particolare il terrorismo, la tratta degli esseri umani ed i reati contro i minori, il traffico
illecito di droga e di armi, la corruzione e la frode» (art. 29). Secondo la lettura ormai
consolidata, il terrorismo non è altro che una variante della criminalità, seppur fra quelle
più gravi90.
89
Cfr. M. Roscini, L’art. 17 del Trattato sull’Unione europea e i compiti delle forze di pace, in N. Ronzitti (a
cura di), Le forze di pace dell’Unione europea, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2005, p. 52. Nella
classificazione dell’autore, risultano ulteriormente distinti il peacebuilding, relativo all’eliminazione delle
cause scatenanti del conflitto e all’introduzione di programmi su diritti umani, elezioni, disarmo, ecc., in
funzione della costruzione della pace nel lungo periodo, e il peace enforcement, insieme di misure coercitive
assunte per imporre e mantenere il cessate-il-fuoco.
90
Si veda anche Commissione europea, Verso uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia, Bruxelles, 14 luglio
1998, doc. COM (1998) 459, che associa in modo sistematico terrorismo e criminalità: «Il trattato di
Amsterdam fornisce piuttosto un quadro istituzionale nel cui ambito sviluppare un’azione comune fra gli
Stati membri in settori indissociabili dalla cooperazione in materia di polizia e di giustizia penale. L’obiettivo
dichiarato è prevenire e combattere, al livello appropriato, la criminalità organizzata o di altro tipo, in
particolare il terrorismo, la tratta degli esseri umani e i reati contro i minori, il traffico illecito di droga e di
armi, la corruzione e la frode. […] Parallelamente ai progressi registrati nel settore giudiziario, la
cooperazione a livello dell'Unione europea ha consentito la creazione di reti europee fra le autorità operative
incaricate dell’applicazione della legge negli Stati membri, consentendo loro di condurre operazioni comuni
di vigilanza, nonché di consolidare l’esperienza e la formazione specializzata in un certo di numero di settori
quali la tossicodipendenza, il riciclaggio di denaro, il terrorismo, il furto di autovetture, la violenza negli
stadi, la criminalità legata alle nuove tecnologie e la violenza urbana. […] Concretamente, ciò significa
anzitutto adottare la stessa impostazione di fronte ai comportamenti criminali in tutta l’Unione. Fenomeni
come terrorismo, corruzione, tratta degli esseri umani e crimine organizzato devono costituire oggetto di
73
Dal nostro punto di vista, l’aspetto più rilevante del Trattato di Amsterdam è la messa
a fuoco di un nuovo filone di sviluppo dello SLSG. Se la cooperazione di polizia e quella
giudiziaria restano fattori imprescindibili, la lotta al terrorismo potrà avvalersi anche del
“ravvicinamento” fra le legislazioni degli Stati membri, che passa attraverso «la
progressiva adozione di misure per la fissazione di norme minime relative agli elementi
costitutivi dei reati e alle sanzioni, per quanto riguarda la criminalità organizzata, il
terrorismo e il traffico illecito di stupefacenti» (art. 31, paragrafo e). Si creano dunque i
presupposti per una definizione europea comune di reato terroristico, impresa che a livello
internazionale non è stata ancora coronata dal successo91. Non si trascuri infine la riforma
della procedura decisionale, che prevede ora la partecipazione della Commissione,
chiamata ad avanzare proposte e a verificare l’attuazione delle misure assunte, e del
Parlamento, l’incisività del cui contributo dipende tuttavia dalla materia su cui si legifera.
In attesa della ratifica del Trattato, Consiglio e Commissione elaborano un piano
d’azione che fissa i criteri per la realizzazione dello SLSG92, fornendo anche alcune
preziose indicazioni sul modo in cui gli architetti dell’integrazione concepiscono i tre
valori che qualificano il nuovo progetto. La “libertà” ha un duplice significato: accanto alla
«libera circolazione delle persone attraverso le frontiere interne», risultato di quarant’anni
di progressi in ambito comunitario, si pone anche «la “libertà” di vivere in un contesto di
legalità, consapevoli che le autorità pubbliche utilizzano tutti i mezzi in loro potere […]
per combattere e limitare l’azione di chi cerca di negare tale libertà o di abusarne»93.
Coesistono dunque una libertà “di” movimento e una libertà “dal” pericolo, l’una garantita
dall’abolizione di norme e restrizioni, l’altra assicurata da interventi attivi delle istituzioni.
È la seconda ad avere attinenza con la lotta al terrorismo. Quanto alla “sicurezza”, il
documento precisa che essa non esprime la volontà di sottrarre agli Stati membri la
competenza di «far rispettare la legge, mantenere l’ordine e garantire la sicurezza interna»,
ma solo l’esigenza di rafforzare la cooperazione fra di essi nei settori fondamentali per i
cittadini e l’Unione nel suo complesso94. I governi nazionali conservano dunque la
misure che istituiscano regole minime per quanto riguarda gli elementi costituitivi delle violazioni penali e
dovrebbero essere perseguiti ovunque con lo stesso vigore».
91
Nell’alveo delle Nazioni Unite sono in vigore numerose convenzioni che affrontano diversi profili del
fenomeno terroristico – tra cui finanziamento, dirottamento, uso di esplosivi – ma manca un testo che se ne
occupi nella sua globalità. Per una panoramica dell’attività svolta e dei problemi emersi, cfr. P.J. Van Krieken, Terrorism and the International Legal Order. With Special Reference to the UN, the EU and CrossBorder Aspects, The Hague, T. M. C. Asser Press, 2002, pp. 111-304.
92
Il documento è adottato dal Consiglio GAI di Vienna del 3 dicembre 1998 ed è pertanto noto anche come
Piano d’azione di Vienna. Il testo è pubblicato in GUCE C 19 del 21 gennaio 1999.
93
Ivi, punto 6.
94
Ivi, punti 10 e 11.
74
responsabilità primaria nell’opera di pacificazione della società, restando sovrani nella
gestione dei propri affari interni. Con il termine “giustizia”, infine, si intende l’obiettivo di
«facilitare la vita quotidiana dei cittadini e far sì che quanti mettono a repentaglio la libertà
e la sicurezza dei singoli e della società rendano conto dei loro atti»95, rispecchiando
l’equilibrio fra certezza della pena e garanzie individuali che caratterizza ogni Stato di
diritto.
Dal punto di vista istituzionale, il piano d’azione auspica che la struttura dei gruppi di
lavoro sia oggetto di una revisione che ne assicuri la razionalizzazione, la semplificazione,
la specializzazione, la responsabilizzazione, la coerenza, la trasparenza e la flessibilità96.
Lo SLSG si trova in effetti a ereditare la selva di organismi creati a partire dalla metà degli
anni Settanta e dall’esperienza TREVI, confluiti con Maastricht nella sfera amministrativa
del Consiglio. In quest’ambito è da tempo attivo un gruppo di lavoro sul terrorismo, che
deve ridefinire il proprio raggio d’azione97. Il lavoro dei vari gruppi è coordinato dal
“Comitato dell’articolo 36” (o CATS), previsto dal nuovo art. 36 TUE ed erede del
comitato K4 istituito a Maastricht. Come il predecessore, il CATS ha il compito di
preparare le discussioni del Consiglio in tema di cooperazione di polizia e giudiziaria in
materia penale, contribuendo anche con opinioni e proposte, e si distingue dal COREPER
per la competenza tecnica dei suoi membri, funzionari appartenenti ai ministeri degli
Interni e della Giustizia degli Stati membri98. Allo SLSG fa riferimento anche Europol, di
cui il piano d’azione ricorda il contributo allo scambio di informazioni e alla cooperazione
operativa fra gli Stati membri nella lotta al terrorismo99. Nella medesima direzione sono
ribaditi gli impegni a facilitare l’estradizione e raggiungere entro due anni dall’entrata in
vigore del Trattato un’intesa sulla definizione comune dei reati tipicamente terroristici100.
Ratificato il Trattato, l’Ue può dare il via all’operazione di costruzione dello SLSG.
L’architrave di tale edificio è il Programma di Tampere, che prende il nome dal Consiglio
95
Ivi, punto 15.
Ivi, punto 23.
97
A testimonianza della permeabilità dei settori, si veda per esempio la proposta di riassetto avanzata dalla
Francia, che attribuisce al gruppo di lavoro sul terrorismo non solo i compiti di valutare la minaccia e
individuare nuovi strumenti di cooperazione, ma anche – in ipotesi – quello di tracciare un bilancio degli atti
di razzismo e xenofobia. Cfr. Consiglio dell’Unione europea, Nota della delegazione francese, Bruxelles, 25
febbraio 1999, in Registro on-line del Consiglio dell’Unione europea (d’ora in poi: RCUE, disponibile
all’indirizzo
web:
http://register.consilium.europa.eu/servlet/driver?typ=&page=Simple&lang=IT&cmsid=638), doc. 6350/99,
p. 2.
98
Cfr. F. Hayes-Renshaw and H. Wallace, The Council of Ministers, New York-Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2006, pp. 86-100.
99
Piano d’azione di Vienna, cit., punto 42.iv.
100
Ivi, punti 45.c e 46.a rispettivamente.
96
75
europeo dell’ottobre del 1999 in cui è varato, durante il semestre di presidenza
finlandese101. Il testo si apre con un’introduzione incaricata di chiarire come lo “spazio” di
cui si parla debba essere inteso in senso inclusivo, in particolare nei confronti dei «cittadini
di Paesi terzi», accordando loro – nei limiti del possibile – quella “libertà” che per i
cittadini europei è viceversa scontata102. Secondo elemento cardine è la “giustizia”, che
riassume l’esigenza di migliorare l’efficacia dei vari ordinamenti giudiziari e soprattutto di
raccordarli, nella prospettiva di dare esecuzione uniforme ai provvedimenti assunti dalle
autorità nazionali103. L’ultimo tassello è costituito dalla necessità di fronteggiare il crimine,
nelle sue diverse forme, e garantire così la “sicurezza”, premessa essenziale per le altre due
dimensioni menzionate104.
2.3.1 Excursus sul concetto di “spazio”
L’uso del termine “spazio” merita un approfondimento perché appare emblematico di
un lessico giuridico e politico che si sforza di illustrare caratteristiche e funzionamento di
un soggetto dotato di istituzioni autonome, senza tuttavia poter ricorrere alle categorie e al
linguaggio propri della statualità euro-occidentale. Il processo di costruzione europea è
costantemente associato alla dimensione della spazialità, benché i Trattati ne prendano atto
solo negli ultimi decenni. Il progetto di mercato comune avviato negli anni Cinquanta
configura l’esistenza di uno spazio europeo-comunitario, anche se limitato alla sfera
economica105. L’abolizione delle frontiere interne, come effetto combinato dell’azione
101
Il testo è contenuto in Consiglio europeo, Conclusioni della presidenza, Tampere, 16 ottobre 1999, in
«BdCE», a. XXXII, n. 10, 1999. D’ora in poi farò riferimento a questo documento come Programma di
Tampere. Sulla nascita e sullo sviluppo dello SLSG si vedano in generale N. Walker (ed.), Europe’s Area of
Freedom, Security and Justice, New York, Oxford University Press, 2004 e S. Garcia-Jourdan, L’émergence
d’un espace européen de liberté, de securité et de justice, Bruxelles, Bruylant, 2005.
102
Programma di Tampere, cit., punto 3. Sull’accoglienza connaturata allo spazio Ue, cfr. M. Abélès,
Politica gioco di spazi, Roma, Meltemi, 2001. L’autore, antropologo attento ai caratteri delle istituzioni
europee (in particolare Parlamento e Commissione), rileva che l’Unione si presenta come uno «spazio aperto
[…] e non centrato», perché sempre suscettibile di allargamento e privo di una vera capitale (Bruxelles la è
più di altre, ma non unanimemente riconosciuta come tale, soprattutto in una fase in cui il Consiglio europeo
tende a riunirsi sul territorio dello Stato che a rotazione svolge la funzione di Presidenza), e nel contempo
«inglobante e indeterminato», in opposizione alla rigida separazione territoriale su cui fonda il sistema degli
Stati moderni (p. 36).
103
Programma di Tampere, cit., punto 5. Per approfondire questo profilo dello SLSG, che qui sarà trattato
solo nella misura in cui si riveli pertinente alla lotta al terrorismo, si veda A. Weyembergh, L’harmonisation
des législations: condition de l’espace pénal européen et révélateur de ses tensions, Bruxelles, Editions de
l’Université de Bruxelles, 2004.
104
Programma di Tampere, cit., in particolare punto 6.
105
B. De Giovanni, L’ambigua potenza dell’Europa, Napoli, Guida, 2002, pp. 25-26. Cfr. su questo anche P.
Bonavero, E. Dansero e A. Vanolo, Geografie dell’Unione europea, Novara, Utet, 2006.
76
riformatrice di Jacques Delors106 e dell’avvio della cooperazione di Schengen al di fuori
dei Trattati107, è il segnale che le dinamiche di integrazione comunitaria non sono
inscrivibili entro la sfera dei rapporti economici, ma hanno inevitabili ricadute sul piano
politico. Se l’esistenza dei confini fra gli Stati rappresenta la cifra della modernità europea,
il superamento – anche solo parziale – della ripartizione territoriale su base statal-nazionale
proietta l’Europa in una nuova e inesplorata dimensione spaziale e istituzionale.
La svolta impostata a Maastricht, sancita ad Amsterdam e concretizzatasi a Tampere,
con la creazione dello SLSG, pone le fondamenta per la realizzazione di uno spazio
politico in senso proprio, destinato a sostanziare le istituzioni europee che vi operano e a
caratterizzarsi come «spazio dei diritti», o regolato dal diritto, e come embrione di «società
civile europea»108. Non è affatto detto che questo percorso si concluda con l’approdo a un
«territorio» europeo,
cui
il
Programma
di
Tampere
accenna
senza
ulteriori
approfondimenti109. Ancor meno probabile è l’ipotesi che la dimensione “territoriale”
dell’Unione politica ricalchi la scia tracciata nella storia europea dal modello di Stato
hobbesiano. Più promettente sembra invece un’elaborazione politico-istituzionale che
sviluppi il concetto di “spazio a matrice”, differenziato al proprio interno sulla base dei
compiti e degli obiettivi (difesa, fisco, istruzione, ecc.), affidati a diversi livelli
istituzionali110. In questa direzione si muovono le riflessioni sulla riformulazione di alcuni
assunti del federalismo hamiltionano alla luce del recupero dell’impianto filosoficopolitico di un autore moderno come Johannes Althusius, anche sulla scorta della sua
rilettura a opera di Daniel J. Elazar111.
Con l’intenzione di rimarcare le profonde differenze esistenti fra l’assetto
istituzionale dell’Ue e l’archetipo statale, alcuni studiosi ricorrono alla suggestiva
immagine dell’“impero”. Lungi dal richiamarsi all’eredità storica dell’imperialismo ottonovecentesco, o a recenti e fortunate teorie tese a interpretare la natura politica, economica
106
Sul pensiero politico e sul contributo dello statista francese all’evoluzione del processo di costruzione
europea si veda C.G. Anta, Il rilancio dell’Europa. Il progetto di Jacques Delors, Milano, Angeli, 2004.
107
Su questo punto attira in particolare l’attenzione F. Longo, Unione europea e scienza politica. Teorie a
confronto, Milano, Giuffrè, 2005, pp. 68-72.
108
De Giovanni, L’ambigua potenza dell’Europa, cit., pp. 19-30 e pp. 123-127.
109
Ivi, pp. 100-110 e Programma di Tampere, cit., punto 3, dove si fa esplicito riferimento al «nostro
territorio».
110
Cfr. Galli, Spazi politici, cit., pp. 70-73.
111
Si vedano in proposito il saggio introduttivo di C. Malandrino all’edizione critica latino-italiana di J.
Althusius, La politica. Elaborata organicamente con metodo, e illustrata con esempi sacri e profani, 2 voll.,
a cura di C. Malandrino, Torino, Claudiana, 2009, vol. I, pp. 9-121, e il dibattito cui danno vita i contributi
ospitati in G. Duso e A. Scalone (a cura di), Come pensare il federalismo? Nuove categorie e trasformazioni
costituzionali, Monza, Polimetrica, 2010.
77
e sociale dell’età globale112, l’utilizzo della metafora imperiale ha in questo caso la
funzione di evidenziare le peculiarità del soggetto politico scaturito dal processo di
integrazione europea. Per un verso, esso può riportare alla memoria la complessa vicenda
del Sacro Romano Impero di nazione tedesca, con cui condivide la flessibilità decisionale e
la vocazione a mantenere la pace interna attraverso il diritto113. Il sistema “neo-medievale”
proprio dell’Ue si distinguerebbe tuttavia dal SRI per la dimensione dichiaratamente
“civile” dell’azione internazionale: per quanto abbozzata e in parte ambigua, la politica
estera europea è estranea a ogni intento di sopraffazione, tipico invece del SRI, immerso
nella realtà permanentemente conflittuale del suo tempo114.
Per altro verso, l’Ue è descritta in termini di impero «cosmopolitico» e
«postmoderno», in quanto struttura spazialmente aperta, socialmente ed etnicamente
plurale e orientata alla costruzione della pace internazionale mediante la diffusione del
diritto e dell’ideale repubblicano kantiano115. La soluzione cosmopolitica, in alcune sue
declinazioni, si pone in alternativa alla dottrina federalista classica, rifiutando la
prospettiva di un governo centrale formalizzato e titolare di un potere coercitivo di ultima
istanza116. Per il punto di vista qui adottato – la lotta al terrorismo – non è indifferente
l’osservazione di matrice realista, secondo cui l’approccio cosmopolitico, portando
all’estremo l’intento di affermare valori universali, indurrebbe i soggetti che vi si
riconoscono a compiere ingerenze, presentate come “umanitarie”, a danno degli
interlocutori che non li condividono. Come reazione a tale processo potrebbe in ultima
analisi fare la propria comparsa un «terrorismo anti-cosmopolitico»117, impegnato a
rivendicare con la violenza l’autonomia delle periferie rispetto a un centro percepito come
interventista e leviatanico, per quanto i teorici del cosmopolitismo si sforzino di smussarne
gli spigoli più autoritari. Anziché una soluzione alla minaccia terroristica118, l’impero
112
Il riferimento è soprattutto a A. Negri e M. Hardt, Impero (2000), Milano, BUR, 2005. Sui concetti di
“impero” e “imperialismo” cfr. in generale G.M. Bravo (a cura di), Imperi e imperialismo. Modelli e realtà
imperiali nel mondo occidentale, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2009.
113
Uno spunto in questo senso è fornito da J. Zielonka, Europe as Empire. The Nature of the Enlarged European Union, Oxford, Oxford University Press, 2006. Si veda in proposito P.P. Portinaro, Il labirinto delle
istituzioni nella storia europea, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 104 e pp. 184-185.
114
Un confronto puntuale fra i due modelli è tracciato da E. Gallo, Verso un impero europeo?, «Teoria
politica», a. XXI, n. 1, 2005, pp. 63-76.
115
U. Beck ed E. Grande, L’Europa cosmopolita. Società e politica nella seconda modernità (2004), Roma,
Carocci, 2006, pp. 71-122 in particolare. Cfr. l’analisi di Portinaro, Il labirinto delle istituzioni nella storia
europea, cit., pp. 128-133.
116
Si veda per esempio D. Archibugi, Cittadini del mondo. Verso una democrazia cosmopolitica (2008),
Milano, Il Saggiatore, 2009, pp. 105-107.
117
D. Zolo, Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale, Milano, Feltrinelli, 1995, p. 182.
118
In questi termini ragiona M. Kaldor, L’altra potenza. La società civile. Diritti umani, democrazia,
globalizzazione (2003), Milano, Bocconi, 2004, pp. 170-173, che articola la sua proposta in cinque punti: a)
78
cosmopolitico – e più in generale il tentativo di ridurre le divisioni e i particolarismi, in cui
si inserisce la logica che governa la costruzione di un possibile “spazio europeo” –
potrebbe fornire al terrorismo nuovi motivi e argomenti.
Tornando allo specifico apporto del Programma di Tampere, va detto che uno dei
principali obiettivi da esso indicati è lo “spazio di giustizia europeo”, in cui sono accostati i
due principi destinati a dominare la futura evoluzione della cooperazione giudiziaria
europea. Da un lato, emerge l’intenzione di armonizzare o ravvicinare il più possibile le
legislazioni degli Stati membri; dall’altro, si introduce il meccanismo del reciproco
riconoscimento delle decisioni assunte dalle autorità giudiziarie, indicando come prioritaria
la sua applicazione nei casi di estradizione, sequestro probatorio o confisca di beni e
raccolta delle prove119. In termini concettuali, i due principi esprimono la contraddittorietà
propria dell’intera costruzione europea: da un lato, si manifesta la volontà di uniformare
ciò che appare eterogeneo, assecondando la spinta verso l’unità; dall’altro, si prende atto di
un’irriducibile diversità, di una particolarità nazionale attenuabile solo attraverso correttivi
tecnico-giuridici (come il riconoscimento delle decisioni). Tale situazione, che denuncia
una condizione quasi schizofrenica per cui un principio prevale sull’altro a seconda delle
circostanze120, è in realtà la conseguenza inevitabile della difformità di vedute che
contraddistingue i maggiori Stati membri, con la Francia incline a sostenere l’impegno per
il ravvicinamento e la Gran Bretagna favorevole al reciproco riconoscimento come
massima concessione ipotizzabile da parte di un paese che non intende vedere pregiudicata
la propria sovranità121.
In ottemperanza a quanto stabilito a Tampere, il bienno 1999-2001 risulta
particolarmente prolifico di iniziative nei campi della cooperazione in materia di polizia e
giustizia. Nel primo settore va segnalata l’esistenza di una task force dei capi di polizia,
rafforzamento del diritto internazionale umanitario, rendendolo vincolante anche per gli USA; b) costruzione
di una forza multilaterale per il rispetto del diritto umanitario e per la protezione dei civili; c) risoluzione
delle «guerre locali al terrorismo» (Medioriente, Kashmir, Cecenia) attraverso l’applicazione imparziale della
legge internazionale, il sostegno agli attori moderati e democratici e la garanzia della sicurezza; d) incentivo
a sostituire i leader illegittimi o criminali a favore di gruppi alternativi; e) impegno a favore della giustizia
sociale globale.
119
Programma di Tampere, cit., sezione B.
120
A. Weyembergh, L’impact du 11 septembre sur l’équilibre sécurité/liberté dans l’espace pénal européen,
in Bribosia et Weyembergh (sous la direction de), Lutte contre le terrorisme et droits fondamentaux, cit., secondo cui le fortune di un principio dipendono quasi esclusivamente delle sconfitte subite dall’altro (p. 187).
121
Su questo punto, cfr. Occhipinti, The Politics of EU Police Cooperation, cit., pp. 82-83 e Friedrichs,
Fighting Terrorism and Drugs, cit., pp. 101-105.
79
con il compito essenziale di rendere più fluidi i rapporti fra Europol e le forze dell’ordine
degli Stati membri. Nel 2000 viene istituita l’Accademia europea di polizia (CEPOL), i cui
allievi frequenteranno negli anni successivi anche corsi finalizzati ad acquisire competenze
in chiave antiterroristica122. Nell’ambito della giustizia penale, è in funzione dal 1998 la
rete giudiziaria europea, volta a favorire la cooperazione contro la criminalità organizzata e
dunque anche il terrorismo123. Su questa impalcatura si innestano nel 2000 la convenzione
sull’assistenza giudiziaria in materia penale124 e Pro-Eurojust, versione provvisoria di
un’agenzia destinata a coordinare le indagini e le azioni delle autorità giudiziarie degli
Stati membri, invitati a designare un proprio funzionario come componente del nuovo
organismo125. Nel dibattito che accompagna la nascita dell’agenzia e i suoi primi mesi di
vita, la lotta al terrorismo riveste un ruolo abbastanza residuale, concedendo spazio a
preoccupazioni giudicate più urgenti – si pensi per esempio ai timori legati alla
falsificazione dell’euro, la cui introduzione è ormai imminente126.
Negli stessi anni, l’Unione europea compie progressi anche sul piano della politica
estera127, che tuttavia, prima dell’11 settembre 2001, non riguardano specificamente il
terrorismo. Quella più appariscente è l’enucleazione della PESD, sulla spinta dell’iniziativa
di Francia e Gran Bretagna, che nella Dichiarazione di Saint Malo del dicembre 1998
122
Cfr. Consiglio dell’Unione europea, Nota dell’Accademia europea di polizia (CEPOL), Bruxelles, 9
dicembre 2003, in RCUE, doc. 15722/03, p. 39 e p. 42 in particolare.
123
Si veda l’azione comune 98/428/GAI del 29 giugno 1998 in GUCE L 191 del 7 luglio 1998. In concreto,
l’attività riguarda la procedura delle rogatorie internazionali, le informazioni sul diritto di altri Stati e, in
misura minore, l’estradizione e il trasferimento temporaneo di detenuti.
124
Il testo è riportato in Consiglio dell’Unione europea, Atti legislativi e altri strumenti, Bruxelles, 22 maggio
2000, in RCUE, doc. 7846/1/00 REV 1. I contenuti spaziano dallo scambio di informazioni alla restituzione
dei beni provenienti da reati, dal trasferimento di detenuti all’istituzione di squadre investigative comuni,
ponendo quindi in relazione aspetti giudiziari e di polizia
125
Id., Atti legislativi ed altri strumenti, Bruxelles, 28 novembre 2000, in RCUE, doc. 13282/00.
126
È significativo che, fra i da documenti presentati dalla Commissione, dalla Germania e, congiuntamente,
da Francia, Danimarca, Portogallo e Svezia per concorrere alla creazione dell’agenzia, solo quest’ultimo si
sofferma sulle sue eventuali funzioni antiterroristiche (Id., Nota di trasmissione, Bruxelles, 13 luglio 2000, in
RCUE, doc. 10355/00, p. 6). Cfr. inoltre Id., Nota di trasmissione, Bruxelles, 25 maggio 2000, in RCUE,
doc. 8777/00 (compresa la Nota esplicativa, in RCUE, doc. 8777/00 ADD 1), che riporta l’iniziativa tedesca,
e Commissione delle Comunità europee, Comunicazione della Commissione in merito alla costituzione di
Eurojust, Bruxelles, 22 novembre 2000, doc. COM (2000) 746.
127
Si vedano F. Bordonaro, La politica comune europea di sicurezza e difesa: un bilancio storico (19902004), in M.R. Allegri, G. Anzera e F. Bordonaro, La potenza incompiuta. Scenari di sicurezza europea nel
XXI secolo, Milano, Franco Angeli, 2005.; L. Bonanate, Politica e diritto nella formazione della politica
estera dell’Unione europea, Torino, Giappichelli, 2002; M. Clementi, L’Europa e il mondo. La politica
estera, di sicurezza e di difesa europea, Bologna, Il Mulino, 2004; J. Howorth, From Security to Defence:
The Evolution of the CFSP, in C. Hill e M. Smith (eds.), International Relations and the European Union,
Oxford, Oxford University Press, 2005, pp. 179-204; A. Missiroli, La difesa europea: politica, obiettivi,
strumenti, in Id. e A. Pansa, La difesa europea, Genova, Il Melangolo, 2007, pp. 13-87; P. Rosa, La politica
estera e di sicurezza comune, in S. Fabbrini e F. Morata (a cura di), L’Unione europea. Le politiche
pubbliche, Roma-Bari, Laterza, 2002, pp. 276-305; W. Wallace, Foreign and Security Policy. The Painful
Path from the Shadow to Substance, in H. Wallace, W. Wallace and M.A. Pollack (eds.), Policy-Making in
the European Union, Oxford, Oxford University Press, 2005, pp. 429-456.
80
esprimono con chiarezza l’esigenza di dotare l’Ue di «forze armate credibili» e
«appropriate strutture e capacità» di difesa e pianificazione strategica128. Alla fine del 1999
lo spirito dell’iniziativa è raccolto dal Consiglio europeo di Helsinki, che individua
l’obiettivo principale della PESD. Gli Stati membri stabiliscono infatti di creare entro il
2003 una forza di reazione rapida (attivabile in 60 giorni), composta da 50-60 mila uomini,
in grado di dare attuazione alle missioni di Petersberg129. In occasione del Consiglio
europeo di Nizza e della firma dell’omonimo Trattato, sono poi introdotti nuovi organismi
titolari di funzioni cruciali: il Comitato politico e di sicurezza (COPS), composto da alti
funzionari; il Comitato militare, che riunisce i Capi di Stato maggiore degli Stati membri;
lo Staff militare, formato da esperti nominati dai governi nazionali130. I tre nuovi attori si
aggiungono a quelli già attivi in ambito PESD, tra cui Consiglio, presidenza di turno,
COREPER, Alto Rappresentante, oltre agli Stati membri individualmente intesi, che
mantengono comunque il potere decisionale di ultima istanza e le competenze operative
per agire in concreto131. Si consideri infine che afferisce al secondo pilastro anche il
COTER, evoluzione del gruppo di lavoro permanente creato dalla CPE nel 1986 in risposta
alla crisi libica.
Il moltiplicarsi di crisi e conflitti dopo la fine della guerra fredda, di cui si è dato
conto, spinge inoltre l’Ue a rafforzare i propri sforzi in chiave preventiva. Il principale
risultato di tale impostazione è il Programma di Göteborg sulla prevenzione dei conflitti,
approvato dal Consiglio europeo nel giugno del 2001132, che individua varie categorie di
strumenti utili allo scopo prefissato: in campo strettamente militare, l’attenzione si
concentrata sugli sviluppi della PESD, a partire dall’opera di profilassi svolta con i compiti
di Petersberg. A essi sono tuttavia stati accostati interventi di natura politica, economica e
diplomatica, fra i quali la stipulazione di accordi commerciali, l’adeguamento di Paesi terzi
a normative comunitarie, la cooperazione regionale, gli aiuti umanitari e allo sviluppo, le
sanzioni di vario genere, il dialogo politico, la mediazione dell’Alto Rappresentante, la co128
British-French Summit, Joint Declaration, Saint Malo, 3-4 December 1998, in M. Rutten (ed.), From StMalo to Nice. European Defence: Core Documents, Paris, Institute for Security Studies, Chaillot Paper n. 47,
May 2001, pp. 8-9.
129
Consiglio europeo, Conclusioni della Presidenza, Helsinki, 10-11 dicembre 1999, in «BdCE», a. XXXII,
n. 12, 1999.
130
Id., Conclusioni della Presidenza, Nizza, 7-9 dicembre 2000, in «BdCE», a. XXXIII, n. 12, 2000.
131
In merito si vedano le considerazioni di A. Missiroli, L’Unione fa la forza: l’evoluzione della Pesd, in G.
Vacca (a cura di), L’unità dell’Europa. Rapporto 2003 sull’integrazione europea, Roma, Nuova Iniziativa
Editoriale, 2003, pp. 258-259 e V.E. Parsi, L’alleanza inevitabile. Europa e Stati Uniti oltre l’Iraq, Milano,
Egea, 2003, pp. 175-176.
132
Per il testo del Programma, cfr. Consiglio dell’Unione europea, Nota di trasmissione al Segretariato,
Bruxelles, 7 giugno 2001, in RCUE, doc. 9537/1/01 REV 1.
81
operazione nell’ambito di giustizia e affari interni, fino a comprendere gli incentivi
collegati alla politica di allargamento dell’Unione, praticabili – evidentemente – solo nei
confronti di alcuni particolari Stati terzi133.
Si crea così la prospettiva della coesistenza fra mezzi civili e militari, suscettibile di
tradursi nella nascita di una “potenza civile”, per usare l’espressione coniata negli anni
Settanta da François Duchêne e più recentemente ripresa e approfondita da Mario Telò134.
Occorre però intendersi sul significato di tale locuzione. I suoi propugnatori assegnano
particolare importanza alla possibilità di ricorrere a strumenti anche militari per svolgere
mansioni prevalentemente civili, come nel caso delle missioni di pace (peacekeeping,
peace enforcement, ecc.). Avvalorando questa interpretazione, l’Ue sfuggirebbe alla necessità di schierarsi apertamente sul versante della politica di potenza in senso classico o, in
alternativa, su quello del soft power, vale a dire la capacità di ottenere dagli interlocutori
ciò che si vuole attraverso la forza dell’esempio, sfruttando il proprio carisma, facendo
leva su fascino e capacità di attrazione, senza attingere alle risorse militari in senso stretto
(legate invece all’hard power). Il successo della formula ibrida, insomma, dipende dalla
capacità di eludere i vincoli teorici posti dal realismo politico, secondo il quale l’Unione
dovrebbe decidere se attrezzarsi per far prevalere la dimensione della “potenza”,
trasformandosi in uno Stato dotato di una politica estera e di un esercito di tipo
tradizionale, o – più verosimilmente – favorire l’affermazione della componente ideale e
“civile”, con l’appiattimento su un soft power del tutto privo di ambizioni militari135. In
nessun passo dei testi europei che discutono di questo potenziale sviluppo dell’integrazione
si trovano però considerazioni sulle agevolazioni che ne trarrebbe la lotta al terrorismo.
133
Per una panoramica sui mezzi di prevenzione disponibili, si veda C. Monteleone, L’Unione europea tra
prevenzione dei conflitti e intervento militare, in S. Giusti e A. Locatelli (a cura di), L’Europa sicura. Le
politiche di sicurezza dell’Unione europea, Milano, Egea, 2008, pp. 141-163.
134
M. Telò, L’Europa potenza civile, Roma-Bari, Laterza, 2004, poi aggiornato in lingua inglese da Id.,
Europe: A Civilian Power? European Union, Global Governance, World Order, New York-Basingstoke,
Palgrave-Macmillan, 2006, in particolare pp. 50-58. Il termine “potenza” è associato all’evoluzione
dell’Unione europea anche da altri autori, che tuttavia sembrano sottolineare principalmente l’acquisizione di
un peso rilevante nel sistema economico mondiale (si legga in questo senso, per esempio, il discorso condotto
da C. Saint-Étienne, L’Europa forte (2003), Milano, Egea, 2004).
135
Non casualmente, secondo P.P. Portinaro, L’Europa civile davanti alle sfide del XXI secolo, in Laschi e
Telò (a cura di), L’Europa nel sistema internazionale, cit., il concetto di potenza civile corrisponde «con
accettabile approssimazione» a quello di soft power (pp. 322-323, in particolare nota 7). In argomento, si
vedano nella medesima raccolta le repliche di M. Telò, L’Unione europea nel mondo: scenari alternativi tra
declino, impero e potenza inedita, pp. 40-45 e S. Lucarelli, L’Ue potenza civile: ossimoro o animale
bicefalo?, pp. 253-272. In riferimento al possibile rafforzamento militare della PESD, che non snaturerebbe i
tratti “civili” dell’Ue, cfr. anche Ead., La politica di sicurezza e difesa: fine della potenza civile?, in G.
Laschi e M. Telò (a cura di), Europa potenza civile o entità in declino? Contributi ad una nuova stagione
degli studi europei, Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 237-253. Sul tema generale si veda infine H.G. Ehrhart,
What Model for CFSP?, Paris, Institute for Security Studies, Chaillot Paper n. 55, October 2002.
82
L’elaborazione teorico-strategica diventa uno dei tratti caratterizzanti della
PESC/PESD con la creazione dell’Istituto per gli Studi sulla Sicurezza. Si tratta, per la
verità, di un centro studi con sede a Parigi già da tempo attivo, ma riconosciuto come
agenzia Ue solo nell’estate del 2001 e reso operativo in questa veste dal 1° gennaio 2002.
Nonostante gli analisti dell’Istituto attirino da tempo l’attenzione sul terrorismo come
problema delle relazioni internazionali136, l’opinione prevalente nelle istituzioni europee è
che tale fenomeno sia in questa fase territorialmente localizzato. Il discorso vale per i
terrorismi emersi nei conflitti regionali, che l’Unione osserva con un certo distacco, e per il
terrorismo interno all’Europa, che pare tornare d’attualità per iniziativa dell’ETA137.
Qualche spunto di segno parzialmente differente proviene dal dibattito sul terrorismo del 5
settembre 2001 nel Parlamento europeo, che – proprio in virtù della collocazione
temporale – può rappresentare una fotografia abbastanza fedele di quale sia la concezione
del terrorismo in Europa prima degli attacchi di Al Qaeda agli Stati Uniti. L’Assemblea è
chiamata a pronunciarsi sulla Relazione sul ruolo dell’Unione europea nella lotta al
terrorismo, preparata dalla Commissione per le libertà e diritti dei cittadini, la giustizia e
gli affari interni, presieduta dal liberale britannico Graham Watson138. In virtù della natura
istituzionale di tale organismo, che ha competenze relative allo SLSG, il documento e la
discussione vertono soprattutto sul terrorismo interno all’Unione, che coinvolge alcuni
Stati membri e in particolare la Spagna. Si riscontrano tuttavia alcuni elementi che
distinguono questo contributo da quelli esaminati finora. L’aspetto centrale è sicuramente
la decisione di adottare, limitatamente al testo in questione, una definizione di terrorismo,
mutuata dai lavori del Consiglio d’Europa, che considera terroristico
136
Cfr. per esempio: R. Aliboni, European Security across the Mediterranean, Paris, Institute for Security
Studies, Chaillot Paper n. 2, March 1991, p. 20; R. Zadra, European Integration and Nuclear Deterrence after the Cold War, Paris, Institute for Security Studies, Chaillot Paper n. 5, November 1992, p. 13; D. Mahncke, Parameters of European Security, Paris, Institute for Security Studies, Chaillot Paper n. 10, September
1993, pp. 13-14; S. Silvestri, The Ramifications of War, in N. Gnesotto (ed.), War and Peace: European
Conflict Prevention, Paris, Institute for Security Studies, Chaillot Paper n. 11, October 1993, p. 39; A. Politi,
European Security: The New Transnational Risks, Paris, Institute for Security Studies, Chaillot Paper n. 29,
October 1997; Id., Why Is European Intelligence Policy Necessary, in Id. (ed.), Towards a European Intelligence Policy, Paris, Institute for Security Studies, Chaillot Paper n. 34, December 1998, p. 11; S.R. Sloan,
The United States and European Defence, Paris, Institute for Security Studies, Chaillot Paper n. 39, April
2000, p. 54.
137
Cfr. per esempio Consiglio europeo, Conclusioni della presidenza, Santa Maria de Feira, 19-20 giugno
2000, in «BdCE», a. XXXIII, n. 6, 2000, punto I.40.
138
Commissione per le libertà e diritti dei cittadini, la giustizia e gli affari interni, Relazione sul ruolo
dell’Unione europea nella lotta al terrorismo, Bruxelles, 12 luglio 2001, relatore on. G. Watson, in Archivio
on-line del Parlamento europeo (APE, disponibile all’indirizzo http://www.europarl.europa.eu/activities/
archives/staticDisplay.do;jsessionid=1BBE64ABAD1BF61B3E3174F14D1C179A.node2?id=120&language=i
t), Relazioni, doc. A5-0273/2001.
83
qualsiasi crimine commesso da individui o da gruppi che ricorrono o minacciano di ricorrere
alla violenza nei confronti di un paese, delle sue istituzioni, della sua popolazione in generale o
di individui specifici, e che, motivati da aspirazioni separatiste, da concetti ideologici estremisti,
dal fanatismo o ispirati da moventi irrazionali e soggettivi, mirano a sottomettere il potere
pubblico, taluni individui o gruppi della società, o in modo generale l’opinione pubblica, a un
clima di terrore139.
Il terrorismo è visto come una minaccia rivolta non solo verso la società e gli individui, la
popolazione, l’opinione pubblica o una sua parte – elementi riassumibili nella nozione di
“cittadini” sui cui insistono i documenti istitutivi dello SLSG –, ma anche verso un
«paese», le sue «istituzioni», il «potere pubblico»140. La relazione, dunque, ammette che le
azioni terroristiche non restano confinate nella sfera dei rapporti fra privati, ma mirano a
«modificare le strutture politiche, economiche, sociali e ambientali dello Stato di
diritto»141. In alcuni casi esse intendono «destabilizzare i sistemi politici», in altri,
addirittura, rappresentano «una minaccia per la democrazia, le istituzioni parlamentari e
l’integrità territoriale degli Stati»142.
Nel dipingere l’immagine del terrorismo, le istituzioni Ue paiono confrontarsi con
l’orizzonte teorico e concettuale che ruota intorno all’opposizione “società civile-Stato”,
elaborata nell’ambito del pensiero politico di scuola hegeliana e riformulata dalle analisi
marxiane e gramsciane143. Le definizioni di terrorismo che pongono l’accento sui risvolti
penali del fenomeno, individuandone i bersagli nei cittadini e nelle persone (o in loro
specifici gruppi), finiscono per considerare l’azione dei terroristi contenuta entro il
perimetro della società civile. Il Parlamento europeo dimostra invece di avere una visione
più “politica” del terrorismo, nella misura in cui ne sottolinea la tendenza a indirizzarsi
contro le forme organizzative, gli organi rappresentativi e l’universo simbolico della
comunità politica di riferimento. D’altra parte, le iniziative dei terroristi restano
«criminali» perché colpiscono le istituzioni di paesi democratici, civili e garantisti,
«distinguendosi pertanto dalle azioni di resistenza compiute nei paesi terzi contro strutture
139
Ivi, p. 14, che si ispira alla raccomandazione 1426 (1999) del Consiglio d’Europa.
Questa impostazione è raccolta in particolare dal “considerando” M della relazione.
141
Ivi, “considerando” T.
142
Ivi, p. 14.
143
Su tutto ciò si veda N. Bobbio, Stato, governo, società. Frammenti di un dizionario politico, Torino,
Einaudi, 1995, pp. 23-42. Il volume raccoglie voci enciclopediche stese originariamente tra il 1978 e il 1981.
140
84
statali caratterizzate esse stesse da una dimensione terroristica»144. La relazione
parlamentare separa così il piano della violenza utilizzata dai movimenti che si oppongono
a governi autoritari, su cui il giudizio deve essere più articolato e tenere conto delle ragioni
scatenanti, e quello del terrorismo messo in atto in Europa e in Occidente, che non trova
alcuna giustificazione. Questo è il motivo per cui il testo enfatizza il carattere pretestuoso
delle rivendicazioni avanzate dai gruppi terroristici europei, ricordando che – «vista la
struttura democratica e costituzionale del processo decisionale degli Stati membri» – i moti
di violenza che vi si svolgono «vanno perseguiti in sede penale»145.
La relazione Watson non nega la possibilità che anche in Europa sorgano dissensi
politici o sociali, ma essi vanno affrontati e risolti con mezzi pacifici, tramite un impegno
alla nonviolenza da parte dei contestatori e l’apertura delle autorità alle riforme
eventualmente necessarie. Questo passo del documento si rivela particolarmente delicato
nel corso del dibattito parlamentare, poiché alcuni deputati di origine basca manifestano la
volontà di inserire un riferimento esplicito alla necessità che il governo spagnolo si mostri
ricettivo verso le istanze autonomiste-indipendentiste. Si vorrebbe insomma veder
riconosciuta l’esistenza di un «conflitto» da neutralizzare attraverso il «dialogo
democratico fondato sul reciproco rispetto» fra le parti146. La maggioranza dell’Aula si
dichiara però contraria a questa opzione, che costituirebbe un riconoscimento europeo dei
movimenti politici che si battono pacificamente per la causa basca, e non certo dell’ETA,
ma rischierebbe di tratteggiare pericolose analogie fra il caso spagnolo e quello delle
regioni del mondo in cui l’Ue assume una posizione di terzietà rispetto ai contendenti. La
relazione formula dunque a tutti gli Stati membri la generale raccomandazione «di
elaborare, nel contesto della prevenzione del terrorismo, politiche sociali e di altro tipo
volte a combattere l’esclusione sociale, economica e culturale»147, ma si astiene da
considerazioni in merito alle questioni identitarie, sub-nazionali e territoriali, che sarebbe
interpretato come un avviso per il governo spagnolo. Vince dunque la linea dei
parlamentari iberici – protagonisti assoluti della discussione – che sottolineano con vigore
la necessità di arginare, isolare e delegittimare l’ETA e i suoi obiettivi148.
144
Commissione per le libertà e diritti dei cittadini, la giustizia e gli affari interni, Relazione sul ruolo
dell’Unione europea nella lotta al terrorismo, cit., “considerando” T.
145
Ivi, “considerando” AA.
146
Parlamento europeo, Discussioni, in APE, seduta del 5 settembre 2001, intervento dell’on. Ortuondo
Larrea. Si vedano anche i toni assai meno concilianti dell’on. Gorostiaga Atxalandabaso.
147
Commissione per le libertà e diritti dei cittadini, la giustizia e gli affari interni, Relazione sul ruolo
dell’Unione europea nella lotta al terrorismo, cit., “considerando” Q.
148
Parlamento europeo, Discussioni, in APE, seduta del 5 settembre 2001, in particolare il durissimo
intervento della on. Díez González (basca) che non accenna minimamente al contenuto delle rivendicazioni e
85
Il contributo in esame mostra un profilo innovativo anche nella misura in cui si
sofferma sul «profondo cambiamento della natura del terrorismo nell’Unione europea»149,
espressione dell’«attività di reti organizzate su scala internazionale, aventi sedi in vari
paesi»150. Viene quindi esplorata anche la dimensione transnazionale del fenomeno, che
richiede «sanzioni sul piano diplomatico, politico ed economico nonché misure di
dissuasione contro i paesi terzi che sostengono, apertamente o meno, atti e gruppi
terroristici»151. Tale aspetto è ulteriormente sviluppato dal dibattito parlamentare, per
effetto di due interventi peraltro assai diversi fra loro. Da un lato, il popolare austriaco
Hubert Pirker, muovendo dal ricordo degli scontri verificatisi in estate nelle manifestazioni
dei gruppi no-global in occasione del Consiglio europeo di Göteborg e del G8 di Genova,
paventa la nascita di «un terrorismo internazionale, globalizzato, che in realtà non è
interessato al dibattito sulla globalizzazione, che va portato avanti, bensì lo utilizza soltanto
come veicolo per compiere atti di terrore contro governi e Stati, ovvero contro i nostri
sistemi democratici»152. Egli immagina un moto di violenza transnazionale, ma
sostanzialmente interno al mondo occidentale e sviluppato, che ne prenda di mira
strumentalmente l’assetto politico, economico e sociale. Dall’altro lato, il socialista turcotedesco Ozan Ceyhun pone l’accento sul terrorismo come «fenomeno con strutture
organizzate su scala mondiale», avendo in mente soprattutto quello «internazionale,
sostenuto da dittatori o da regimi islamici fondamentalisti, [che] può essere combattuto in
misura adeguata solo a livello europeo»153.
Il pericolo descritto in astratto da Ceyhun si adatta per molti versi ad Al Qaeda, le cui
azioni di lì a pochi giorni traumatizzeranno l’opinione pubblica mondiale. Al momento,
tuttavia, questo genere di terrorismo è considerato una minaccia periferica dalla maggior
parte degli europei. Anche le principali misure suggerite dalla relazione approvata dal
Parlamento – l’enucleazione di una definizione condivisa di reato terroristico e la
sostituzione della procedura di estradizione con il mandato di arresto europeo – sono
ritagliate innanzi tutto sul modello di terrorismo che l’Europa conosce in questa fase, cioè
quello dell’ETA e degli altri gruppi armati storici. È un fenomeno dotato di un evidente
carattere transfrontaliero, ma nel contempo inscritto quasi per intero entro i confini
accusa i terroristi baschi di violare «i diritti umani» e commettere «crimini xenofobi», di attuare la «pulizia
ideologica» e di presentare echi «fascisti», essendo «l’ultimo strascico del franchismo».
149
Commissione per le libertà e diritti dei cittadini, la giustizia e gli affari interni, Relazione sul ruolo
dell’Unione europea nella lotta al terrorismo, cit., “considerando” F.
150
Ivi, “considerando” G.
151
Ivi, “considerando” DD.
152
Parlamento europeo, Discussioni, in APE, seduta del 5 settembre 2001, intervento dell’on. Pirker.
153
Ivi, intervento dell’on. Ceyhun.
86
dell’Unione. Dopo che l’azione palestinese si è localizzata in Medio Oriente, il terrorismo
che preoccupa le istituzioni europee può certamente avere dei collegamenti internazionali
di tipo operativo154, ma le sue cause e i suoi obiettivi sono logicamente e territorialmente
situati in Europa. Anche per questa ragione gli eventi dell’11 settembre rappresentano un
shock di notevoli proporzioni.
154
È lo stesso Watson a rammentare la scoperta di contatti tra terroristi nordirlandesi e colombiani, ivi,
intervento dell’on. Watson.
87
3. L’11 settembre, la reazione europea e lo spirito atlantico
(2001-2002)
3.1 La “scoperta” di Al Qaeda: la politica di fronte al terrorismo globale e
fondamentalista
La violenza distruttrice che si abbatte su New York e Washington la mattina dell’11
settembre 2001 ha un impatto dirompente sull’opinione pubblica mondiale. Il fatto stesso
che un’organizzazione, con base in Afghanistan, sia in grado di colpire la costa orientale
del continente americano suggerisce che la minaccia del terrorismo non è inquadrabile
all’interno della classica ripartizione fra competenze di politica interna e di politica estera.
Al Qaeda svela, anzi, il volto più sanguinoso del processo di globalizzazione, che mina alle
fondamenta la distinzione interno-esterno cui l’Ue appare ancora affezionata1.
Alcune delle dinamiche già intuibili nel corso degli anni Novanta – la commistione
tra violenza politica e religiosa, la convergenza fra guerra e terrorismo, la difficoltà nel
definire con esattezza il volto e gli obiettivi degli attori che minacciano la sicurezza –
diventano plasticamente evidenti nel modo di agire di Al Qaeda. Tale formazione si
inserisce nel solco ormai pluridecennale del fondamentalismo islamico2 e si caratterizza
per un’organizzazione a rete, che garantisce collegamenti fra unità operanti in luoghi assai
distanti fra loro3. Non per questo Al Qaeda è priva di una struttura per certi aspetti
gerarchica, composta da un leader assistito da un nucleo di consiglieri ed esperti (tra le 10
e le 15 persone) e da quattro comitati specializzati in questioni militari, finanziarie,
1
Si vedano le riflessioni svolte da D. Held e A. McGrew, Globalismo e antiglobalismo (2002), Bologna, Il
Mulino, 2003, p. 29, che aggiorna – alla luce degli eventi del settembre 2001 – l’edizione pubblicata nel
2000, e T. Delpech, Politique du chaos. L'autre face de la mondialisation, Paris, La République des IdéesSeuil, 2002, p. 6. La letteratura sulla globalizzazione è sterminata: per un’introduzione agli aspetti politicodottrinali sviluppati dagli autori che se ne sono occupati nel periodo immediatamente precedente all’11
settembre, cfr. – oltre a Galli, Spazi politici, cit., pp. 131-172 – R. Gherardi, I concetti della politica nell’era
della globalizzazione, «Il Pensiero Politico», a. XXXIV, n. 3, 2001, pp. 494-501 e alcuni dei saggi raccolti in
G. Cavallari (a cura di), Comunità, individuo e globalizzazione. Idee politiche e mutamenti dello Stato
contemporaneo, Roma, Carocci, 2001.
2
Tra i numerosi volumi relativi alla storia di Al Qaeda e dei suoi rapporti con il fondamentalismo islamico, si
segnalano: G. Kepel, Jihad. Expansion et décline de l’islamisme, Paris, Gallimard, 2003 (in lingua italiana è
stata pubblicata in più occasioni l’edizione francese del 2000); P.L. Bergen, Holy War, Inc. (2001), Milano,
Mondadori, 2001; J.L. Esposito, Guerra santa? Il terrorismo nel nome dell’islam (2002), Milano, Vita e
Pensiero, 2004; R. Gunaratna, Inside Al Qaeda. Global Network of Terror, London, Hurst, 2002; Ruthven, Il
seme del terrore, cit.; P. Migaux, Le radici dell’islamismo radicale e Al Qaeda, in Chaliand e Blin (a cura
di), Storia del terrorismo, cit., pp. 265-327 e pp. 328-367 rispettivamente.
3
La metafora della rete è largamente prevalente tra gli studiosi: si veda per esempio Beck, Un mondo a
rischio, cit., che per il profilo organizzativo assimila Al Qaeda alle ONG. A questa ipotesi – tratta da M.
Castells, La nascita della società in rete (1996), Milano, Bocconi, 2002 – Appadurai, La civiltà degli scontri,
cit., pp. 77-86, oppone quella alternativa della conformazione cellulare.
dottrinali e mediatiche4. Nell’organizzazione, dunque, convivono a un tempo un volto
strutturato e un blando coordinamento di movimenti esterni ai confini formali, legati
talvolta da una mera spinta ideale, ma decisivi per comprendere le modalità d’azione del
gruppo5. L’impianto organizzativo è decisivo nella preparazione dell’11 settembre,
avvenuta in territorio afghano, dove Al Qaeda può contare quanto meno sulla compiacenza
delle autorità talebane, allestendo campi di addestramento e pianificando con tranquillità la
strategia. Una prevalente destrutturazione caratterizzerà viceversa la fase in cui
all’organizzazione verrà a mancare il santuario prediletto – l’Afghanistan – e la costruzione
di un movimento volatile, unito da vincoli virtuali come internet, diventerà una necessità6.
La forma reticolare di Al Qaeda si dimostra utile sotto diversi profili. In termini operativi, i
terroristi qaedisti sono in grado di dividersi in varie unità, concordare il luogo d’azione,
comparire all’improvviso, convergere sul bersaglio e dileguarsi rapidamente7. Dal punto di
vista dei finanziamenti, l’organizzazione beneficia dei proventi di attività criminali
collaterali a quella terroristica e attira finanziamenti da parte di enti, fondazioni e persone
fisiche (i “simpatizzanti”), raccogliendo un flusso di denaro e risorse che scorre in larga
parte attraverso canali apparentemente legali (elemosina, enti assistenziali o religiosi, ecc.)
e attraversa le giurisdizioni di diversi Stati8.
4
Cfr. Gunaratna, Inside Al Qaeda, cit., pp. 54-58, ripreso da V. Pisano e A. Piccirilli, Aggregazioni
terroristiche contemporanee. Europee, mediorientali e nordafricane, Roma, Adnkronos libri, 2005, p. 179, e
M. Sageman, Understanding Terror Networks, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 2004, pp.
137-173.
5
La natura organizzativa spuria di Al Qaeda è evidenziata da J. Stern, Terrore nel nome di Dio. Perché i
militanti religiosi uccidono (2003), Roma, Luiss University Press, 2005, pp. 391-454, secondo cui sono
combinati due modelli: quello comandante-quadri, rigido e preponderante in occasione delle azioni più
rilevanti, e quello del «network di network», più leggero e flessibile. Con questa visione complessiva
concordano Gunaratna, Inside Al Qaeda, cit., p. 95 e B. Hoffman, Inside Terrorism, New York, Columbia
University Press, 2006, pp. 282-295, che affianca alla leadership altri tre livelli: gruppi affiliati, gruppi
debolmente collegati, gruppi che traggono solo ispirazione.
6
In questo ambito si collocano le analisi che enfatizzano l’immaterialità dell’organizzazione: R. Gunaratna,
Il nuovo volto di Al Qaeda: la minaccia del terrorismo islamista dopo l’11 settembre, in Chaliand e Blin (a
cura di), Storia del terrorismo, cit., afferma che Al Qaeda si trasforma progressivamente in «un’ideologia» o
«uno stato d’animo» (p. 447); M. Sageman, Leaderless Jihad. Terror Networks in the Twenty-First Century,
Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 2008, spiega che il versante del «movimento sociale», che
collega il centro declinante alla periferia, è ormai più pericoloso del gruppo strutturato (pp. 29-32 e pp. 109146); Z. Bauman, Paura liquida (2006), Roma-Bari, Laterza, 2008, attira l’attenzione sulla dimensione
«liquida» di Al Qaeda, la cui struttura appare assai più flessibile, leggera, sinuosa e inafferrabile rispetto a
quella delle organizzazioni tipiche del «passato solido-moderno» (pp. 127-138). Sul ruolo di internet, inteso
tanto come strumento per accentuare l’impatto “pubblicitario” dell’azione, quanto come canale di
comunicazione interna, cfr. D. Tosini, Terrorismo online. Internet e violenza politica nel XXI secolo,
«Equilibri», a. XII, n. 2, agosto 2008, pp. 193-206.
7
Sul punto interviene B. Berkovitz, The New Face of War. How War Will Be Fought in the 21st Century,
New York, The Free Press, 2003, pp. 100-118, che qualifica tale tattica con il termine swarming, traducibile
in italiano con “brulicare”, “pullulare”.
8
Su questi temi, cfr. D. Masciandaro, La finanza internazionale, la criminalità e il terrorismo, in B.
Biancheri (a cura di), Il nuovo disordine globale. Dopo l’11 settembre, Milano, Università Bocconi, 2002,
pp. 129-137 e L. Napoleoni, Terrorismo S.p.a. (2005), Milano, Il Saggiatore, 2008. Sugli ostacoli che
89
La formazione di Osama Bin Laden costituisce una minaccia alla sicurezza
occidentale per vari motivi. In primo luogo, essa coniuga la rivendicazione di una visione
fondamentalista della religione islamica con l’esercizio della violenza su scala
internazionale. Questo approccio la distingue non solo dalla schiera di fedeli musulmani
moderati, che hanno operato una sintesi tra tradizione religiosa e modernità, ma anche dal
generico filone del salafismo (da salaf, termine che indica gli antenati pii), che difende le
origini e i fondamenti dell’Islam dalla corruzione del tempo e dalla contaminazione con
altre culture, ma senza per questo abbracciare le armi9. Il richiamo alla religione esercita
peraltro un notevole fascino sui potenziali seguaci, sedotti dalle immagini vivide, dalla
narrazione di scontri epocali, dal confronto fra opposizioni assolute10. In secondo luogo, in
linea con la tradizione dell’estremismo islamico mediorientale, gli strateghi qaedisti
indirizzano la propria lotta contro nemici definiti sul piano politico-statuale. Oltre al
patrimonio di valori e costumi riconducibili all’astratta nozione di “Occidente”, bersaglio
delle azioni terroristiche sono – in termini assai più concreti – alcuni Stati e regioni del
mondo. Per il tramite di Ayman al-Zawahiri, Al Qaeda eredita lo schema duale proprio del
fondamentalismo egiziano, elaborato da Mohammed Abd al-Salam Faraj tra gli anni
Settanta e Ottanta. Secondo questa impostazione, esistono due tipi di nemici: quello
“vicino”, rappresentato dai governi moderati dell’area mediorientale, accusati di “empietà”
per aver sacrificato l’unità della comunità musulmana sull’altare del nazionalismo arabo e
aver consentito la diffusione di ideali occidentali, nonché l’insediamento israeliano in
Medio Oriente; quello “lontano”, individuato nello Stato d’Israle e, in un secondo
momento, nelle potenze occidentali, e negli Stati Uniti in particolare, che sostengono i
regimi giudicati corrotti11.
concretamente si frappongono alle autorità che perseguono il finanziamento del terrorismo, si veda in
particolare S. Dambruoso, Milano-Bagdad. Diario di un magistrato in prima linea nella lotta al terrorismo
islamico in Italia, Milano, Mondadori, 2004, pp. 108-112.
9
La terminologia varia a seconda degli autori: B. Lewis, Il suicidio dell'islam. In che cosa ha sbagliato la
civiltà mediorientale (2002), Milano, Mondadori, 2002, si concentra sulla polemica tra fondamentalisti e
moderati; O. Roy, Global muslim. Le radici occidentali nel nuovo islam (2002), Milano, Feltrinelli, 2003,
ritaglia all’interno del salafismo la categoria del jihadismo, connotata dell’accostamento di tradizionalismo e
violenza (pp. 103-111); R. Guolo, Il partito di Dio. L’Islam radicale contro l’Occidente, Milano, Guerini,
2004, parla di un generico islamismo, in cui sono compresi i neotradizionalisti, che sposano la via pacifica e
il parlamentarismo, e i radicali, che puntano a conquistare il potere con le armi (pp. 65-69); Migaux, Le
radici dell’islamismo radicale, cit., separa il fondamentalismo, ispirato al rispetto letterale dei testi sacri,
dall’islamismo, che ne teorizza le conseguenze politiche (p. 269).
10
Questa specifica funzione della religione è posta in rilievo da M. Juergensmeyer, Terroristi in nome di Dio.
La violenza religiosa nel mondo (2000), Roma-Bari, Laterza, 2003, pp. 159-163.
11
F.A. Gerges, The Far Enemy. Why Jihad Went Global, Cambridge, Cambridge University Press, 2005, pp.
43-79. Sul fondamentalismo egiziano cfr. G. Kepel, Il profeta e il faraone. I fratelli musulmani alle origini
del movimento islamista (1984), Roma-Bari, Laterza, 2006. Sulla sua confluenza in Al Qaeda e sulle ragioni
90
In questo senso, l’emergere della dimensione transnazionale del terrorismo qaedista
sarebbe determinato dall’alleanza fra vari gruppi jihadisti (egiziani, sauditi, afghani, ecc.)
che condividono il progetto di superare il frazionamento della Umma islamica in Stati
nazionali, attraverso la ricostruzione dell’antico califfato che riunisca l’intera comunità dei
fedeli. La difficoltà di raggiungere l’obiettivo rovesciando dall’interno i governi filooccidentali, riscontrata negli anni Novanta, indurrebbe Al Qaeda a colpire gli Stati Uniti
per indebolire i regimi moderati. Una lettura alternativa, per la verità, assegna una funzione
meno strumentale al cambio di strategia. L’attacco all’America, realizzato con
un’escalation che va dagli attentati alle ambasciate in Kenya e Tanzania del 1998 all’11
settembre, sarebbe l’effetto di una reazione contro il paese che ha osato violare i confini
della terra consacrata all’Islam. Nel corso della guerra del Golfo del 1991, infatti, l’Arabia
Saudita ha acconsentito a ospitare sul proprio territorio truppe statunitensi, rifiutando
invece l’offerta di protezione avanzata dalle milizie di Bin Laden. In quest’ottica, gli Stati
Uniti non sono semplicemente un partner del nemico principale, ma assumono le fattezze
della potenza occupante, come lo stesso sceicco saudita li descrive nei propri interventi12.
L’interpretazione di Al Qaeda richiama elementi diversi e per certi versi antinomici,
dal cui intreccio scaturisce un’immagine complessa del terrorismo contemporaneo.
L’appartenenza all’universo fondamentalista implica la condivisione di una battaglia
condotta sul piano dei princìpi e dei costumi, della cultura e della società, che ha come
bersaglio lo stile di vita dell’Occidente secolarizzato e in particolare i suoi tratti più
libertari, consumistici, edonistici13. Con questo motivo si interseca un ragionamento più
propriamente politico, collegato ai rapporti fra i governi laici del mondo arabo e gli Stati
Uniti. In una prima e più moderata accezione, questi ultimi sono nemici del
fondamentalismo nella misura in cui concorrono a sostenere e a mantenere in vita i regimi
che impediscono la riunificazione della comunità musulmana. Secondo una tesi più
della leadership del saudita Bin Laden, si veda D. Cook, Storia del jihad. Da Maometto ai giorni nostri
(2005), Torino, Einaudi, 2007, pp. 205-209.
12
Si vedano gli interventi di Bin Laden raccolti in O. Saghi, Osama Bin Laden, l’icona di un tribuno, in G.
Kepel e J.-P. Milelli (a cura di), Al-Qaeda. I testi (2005), Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. 5-84. Secondo
Esposito, Guerra santa?, cit., per Bin Laden l’episodio del 1991 è tanto significativo da «trasformare
completamente la sua vita» (p. 12).
13
Cfr. I. Buruma e A. Margalit, Occidentalismo. L’occidente agli occhi dei suoi nemici (2004), Torino,
Einaudi, 2004, che – specularmente a quanto fatto dal celebre E. Said, Orientalismo (1978), Torino, Bollati
Boringhieri, 1991 – denuncia l’opera di manipolazione subita dall’immagine occidentale, mistificata da parte
orientale sulla scia di stereotipi coniati in passato da pensatori antilluministi occidentali (per una critica a
questa lettura, cfr. C. Pasquinelli, Occidentalismi, introduzione a Ead. (a cura di), Occidentalismi, Roma,
Carocci, 2005, pp. 10-11). A. Appadurai, La globalizzazione dal basso nell’epoca dell’ideocidio (2002), in
Id., Sicuri da morire, cit., pp. 111-133, legge l’11 settembre attraverso la categoria dell’«ideocidio» e dunque
come tentativo di annullamento della diversità, del pluralismo, dei valori occidentali.
91
radicale, gli Stati Uniti sono direttamente responsabili dell’oppressione delle masse
islamiche, perpetrata attraverso un’effettiva occupazione militare di parte del territorio in
cui esse vivono e, più in generale, con politiche imperialistiche verso il mondo arabo14.
L’ideologia e l’azione qaedista recano i segni di una visione fortemente globale delle
dinamiche politiche, sociali, economiche, militari15. Gruppi armati nati in contesti
territorialmente localizzati, come le guerre civili e regionali scoppiate dopo il 1989, sono
ora in condizione di esportare la violenza al di fuori dei confini entro cui la si credeva
contenuta16. Il modo in cui Al Qaeda opera e recluta militanti denuncia l’anacronismo del
“partigiano”, inteso schmittianamente come figura esemplare del combattente delle “nuove
guerre” degli anni Novanta, guerriero irregolare ma pur sempre portatore di un elemento
“tellurico” (tellurisch) che lo connette a un territorio17. Coerenti con questa
caratterizzazione del fenomeno qaedista, irrispettoso delle frontiere geografiche e ideali,
sono anche il ricorso a mezzi ipertecnologici e concepiti nei paesi avanzati per diffondere il
terrore18, e la prossimità del jihadismo con alcuni concetti tipici del pensiero politico
occidentale (“avanguardia”, “totalitarismo”, “fascismo”, ecc.), su cui insistono alcuni
14
Con questa opinione convergono di fatto gli intellettuali occidentali che, con toni e argomenti differenti,
accusano l’amministrazione americana di aver provocato la reazione jihadista: C. Johnson, Gli ultimi giorni
dell'impero americano (2000), Milano, Garzanti, 2001 elabora la nozione di «contraccolpo» (blowback),
ribadita in Id., Le lacrime dell’impero. L’apparato militare industriale, i servizi segreti e la fine del sogno
americano (2004), Milano, Garzanti, 2005, e su cui tornano P.M. Thornton e T.F. Thornton, Contraccolpo, in
J. Collins e R. Glover (a cura di), Linguaggio collaterale. Retoriche della «guerra al terrorismo» (2002),
Verona, Ombre corte, 2006, pp. 56-63 e, criticamente, Sageman, Understanding Terror Networks, cit., pp.
56-59; S. Zunes, La scatola esplosiva. La politica americana in Medio Oriente e le radici del terrorismo
(2003), Milano, Jaca Book, 2003; M. Crenshaw, Why Is America the Primary Target? Terrorism as a Globalized Civil War?, in Kegley (ed.), The New Global Terrorism, cit., pp. 165-172. Cfr. anche la nozione di
“sindrome autoimmunitaria” sviluppata da J. Derrida, Fede e sapere. Le due fonti della «religione» nei limiti
della semplice ragione, in Id. e G. Vattimo (a cura di), La religione, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 3-72, e
rievocata dal filosofo francese nell’ottobre del 2001, sottolineando come l’11 settembre appaia doppiamente
suicida: per il sacrificio degli attentatori, ma anche per i danni prodotti agli Stati Uniti da militanti islamisti
addestrati, armati, finanziati, sfruttati per anni dalle autorità americane (G. Borradori, La filosofia del terrore.
Dialoghi con Jurgen Habermas e Jacques Derrida, Roma-Bari, Laterza, 2003, pp. 102-108). Si veda infine
M. Scheuer, L'arroganza dell'impero (2004), Milano, Tropea, 2005, che viceversa – da “falco” – imputa alla
hybris statunitense la sottovalutazione del nemico e gli errori nella politica mediorientale, eccessivamente
prudente. Il medesimo concetto utilizza L. Bazzicalupo, Superbia. La passione dell’essere, Bologna, Il
Mulino, 2008, pp. 116-117, per qualificare la “superbia” della superpotenza americana dopo l’11 settembre.
15
Cfr. in argomento C. Galli, Guerra globale, Roma-Bari, Laterza, 2002, Roy, Global Muslim, cit., pp. 118125, Id., L’impero assente. L’illusione americana e il dibattito strategico sul terrorismo (2002), Roma,
Carocci, 2004, pp. 57-73 e F. Khosrokhavar, I nuovi martiri di Allah (2002), Milano, B. Mondadori, 2003,
pp. 177-250.
16
Allo shock che questa scoperta produce nell’opinione pubblica occidentale, abituata a ragionare in termini
di spazi chiusi e protetti e a disinteressarsi di ciò che accade al di fuori del proprio vicinato, dedica alcune
considerazioni D. Gregory, The Colonial Present. Afghanistan, Palestine, Iraq, Oxford, Blackwell, 2004, pp.
248-262.
17
Schmitt, Teoria del partigiano, cit.
18
R. Scruton, L'Occidente e gli altri. La globalizzazione e la minaccia terroristica (2002), Milano, Vita e
Pensiero, 2004, p. 99.
92
studiosi19. La deterritorializzazione che la logica globale porta con sé sembra tuttavia
attenuata dalla presenza, nel linguaggio qaedista, di retoriche politiche imperniate sull’idea
di sovranità su un territorio e di liberazione dall’occupante20. Si tratta di una lettura che,
applicando disinvoltamente le categorie tipiche della modernità europea alla cultura
politica islamista, corre il rischio di produrre effetti distorcenti, ma si rivela comunque
preziosa poiché ammonisce circa la scarsa linearità del processo di globalizzazione del
terrorismo.
Per completezza, è opportuno dare conto della tesi dell’economista Loretta
Napoleoni, che declina il motivo della lotta di liberazione in chiave prevalentemente
economica. L’islamismo violento di gruppi come Al Qaeda sarebbe il veicolo attraverso
cui una neonata classe imprenditoriale mediorientale, a lungo vessata dalla dominazione
coloniale, cercherebbe di rovesciare i rapporti economici internazionali. Attraverso il
finanziamento delle formazioni terroristiche, essa tenterebbe di costruire un sistema economico alternativo e competitivo con quello occidentale. Si assisterebbe cioè alla saldatura
fra una nuova e spregiudicata élite economica e le masse, agli occhi delle quali il
riferimento religioso appare un potente fattore identitario, sfruttato come strumento di
propaganda e reclutamento da parte della leadership21.
19
Sulle analogie con la teoria rivoluzionaria marxista-leninista attirano l’attenzione G. Kepel, The War for
Muslims Minds. Islam and the West, London, Belknap Press of Harvard University Press, 2004, p. 5; Beck,
Lo sguardo cosmopolita, cit., pp. 148-149; Roy, Global Muslim, cit., pp. 21-24. Di «totalitarismo senza
stato» parla V.E. Parsi, Introduzione a Townshend, La minaccia del terrorismo, cit., p. 9. Il parallelismo fra
islamismo e fascismo è tracciato da P. Berman, Terrore e liberalismo. Perché la guerra al fondamentalismo
è una guerra antifascista (2003), Torino, Einaudi, 2004. Secondo J. Gray, Al Qaeda e il significato della
modernità (2003), Roma, Fazi, 2004, questo accostamento ha senso solo a patto di non di ridurre il fascismo
a espressione di interessi conservatori, cogliendone anzi la componente rivoluzionaria e collocandolo in
continuità con il nucleo della modernità – la fiducia incondizionata nella capacità del soggetto di intervenire
sul mondo e adeguarlo alla propria visione della realtà – che si rintraccia anche nel fondamentalismo qaedista
(pp. 23-28).
20
Su questo tasto batte R. Pape, Morire per vincere. La logica strategica del terrorismo suicida (2005),
Bologna, Il Ponte, 2007, che assimila l’esperienza di Al Qaeda a quella di tutte le altre formazioni
terroristiche che utilizzano l’arma del suicidio per indurre il nemico ad allontanarsi da un territorio (pp. 73-81
e pp. 135-163). Sul punto concordano nella sostanza: D. Zolo, Le ragioni del «terrorismo globale», «Iride»,
a. XVIII, n. 46, settembre-dicembre 2005, pp. 487-489; S. Holmes, Al Qaeda, in D. Gambetta (ed.), Making
Sense of Suicide Missions, Oxford, Oxford University Press, 2005, p. 164; G. Kepel, Fitna. Guerra nel cuore
dell’Islam (2004), Roma-Bari, Laterza, 2006, secondo cui gli islamisti accusano l’Occidente di occupazione
materiale o simbolica (p. 135); B. Lewis, La crisi dell’islam. Le radici dell’odio contro l’Occidente (2003),
Milano, Mondadori, 2005, a giudizio del quale una parte dei militanti di Al Qaeda uscirebbe di scena una
volta respinto l’invasore, non avendo altri obiettivi da perseguire (pp. 147-148). La solidarietà verso la
condizione dei palestinesi – popolazione oppressa per antonomasia – si riscontra massicciamente nelle parole
dei qaedisti maghrebini intervistati da F. Khosrokhavar, Quand al-Qaïda parle. Témoignages derrière les
barreaux, Paris, Grasset, 2006.
21
Napoleoni, Terrorismo S.p.a., cit., pp. 138-147 e pp. 162-183.
93
3.2 Il dibattito sulla guerra in Afghanistan e sull’uso della forza contro il terrorismo
Questo è l’inedito e sfaccettato scenario di fronte al quale la comunità internazionale
si ritrova quasi improvvisamente nel settembre del 200122. In un sistema tanto
interdipendente da indurre alcuni commentatori a sviluppare il concetto di “politica interna
del mondo”23, la circostanza che l’attacco sia geograficamente limitato agli Stati Uniti non
mette al riparo gli altri attori dalle conseguenze imprevedibili che esso è suscettibile di
determinare. Si comprende facilmente la solerzia con cui le istituzioni dell’Unione europea
intervengono sul tema. La prima occasione utile è il dibattito parlamentare straordinario
tenuto all’indomani degli attentati. È il ministro degli Esteri belga Louis Michel, presidente
di turno del Consiglio, a leggere in aula a Bruxelles la dichiarazione adottata dall’Unione:
Il Consiglio dell’Unione europea, riunitosi oggi in sessione straordinaria alla presenza del
Segretario generale dell’Alleanza atlantica, ha espresso orrore per gli attentati terroristici
perpetrati ieri ai danni degli Stati Uniti. Il Consiglio ha ribadito al governo degli Stati Uniti e al
popolo americano la sua piena e totale solidarietà in questi tragici momenti e ha espresso la sua
più sentita partecipazione a tutte le vittime e alle loro famiglie. Noi chiediamo a tutti gli europei
di osservare tre minuti di silenzio venerdì 14 settembre alle 12.00, dichiarando inoltre il 14
settembre 2001 giornata di lutto. Questi atti esecrabili costituiscono un attacco non solo contro
gli Stati Uniti, ma contro tutta l’umanità ed i valori e le libertà che tutti ci accomunano. La vita e
il funzionamento delle nostre società aperte e democratiche proseguiranno senza vacillare.
L’Unione condanna con la massima fermezza gli autori e i mandanti di questi atti di barbarie.
L’Unione e i suoi Stati membri si impegneranno al massimo per contribuire ad identificare,
portare dinanzi alla giustizia e punire i responsabili. I terroristi e i loro mandanti non troveranno
rifugio in alcun luogo. L’Unione agirà in stretta collaborazione con gli Stati Uniti e con tutti
coloro che li appoggiano per combattere il terrorismo internazionale. Dovranno partecipare a
tale lotta tutte le organizzazioni internazionali, ed in particolare le Nazioni Unite. Devono altresì
trovare pieno impiego tutti gli strumenti internazionali pertinenti, compresi quelli che affrontano
la questione del finanziamento del terrorismo. La Comunità e i suoi Stati membri hanno offerto
agli Stati Uniti tutta l'assistenza possibile nelle operazioni di ricerca e salvataggio. Sono in corso
22
Secondo Z. Sardar e M.W. Davies, Perché il mondo detesta l’America? (2002), Milano, Feltrinelli, 2003,
la scoperta che sulla scena internazionale si muovono attori portati a disprezzare a tal punto gli Stati Uniti e i
loro valori è sconvolgente innanzi tutto per i cittadini americani, infatuati dell’idea che il modello USA si
concili senza attriti con l’esigenza della pacifica convivenza umana. Essi non coglierebbero la natura artificiale di tale costruzione ideologica.
23
L’espressione è introdotta nel dibattito pubblico dal fisico e filosofo tedesco Carl Friedrich von Weiszäcker
e divulgata da J. Habermas, L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica (1996), Milano, Feltrinelli, 1998,
p. 139, p. 163 e p. 169 e Id., La costellazione postnazionale. Mercato globale, nazioni e democrazia (1998),
Milano, Feltrinelli 2000, pp. 24-26 e pp. 90-101. Si veda in proposito la discussione ospitata sulla rivista
«Teoria politica» nel 2001-2002 (L. Bonanate, 2001: la politica interna del mondo, a. XVII, n. 1, 2001, pp.
3-25; L. Ferrajoli, Per una sfera pubblica del mondo, a. XVII, n. 3, 2001, pp. 3-21; A. Caffarena,
Considerazioni sulla politica interna del mondo, a. XVIII, n. 2, 2002, pp. 85-103).
94
discussioni per stabilire quali forme di aiuto siano più utili. Ricordando i forti legami che da
lungo tempo uniscono l’Unione europea e gli Stati Uniti, il Consiglio ha chiesto alla Presidenza
di restare in stretto contatto con il governo americano per trasmettergli questo messaggio di
solidarietà24.
Il testo concordato dai leader europei è rilevante soprattutto nel passaggio in cui interpreta
le azioni di Al Qaeda come «atti di barbarie» rivolti contro «tutta l’umanità» e «i valori e le
libertà» in cui tutti si riconoscono. L’idea di fondo, rafforzata dagli interventi dei
capigruppo delle principali forze politiche, è che con gli Stati Uniti sia stato
contemporaneamente sfregiato il «mondo civile» in cui i popoli si sforzano di vivere
pacificamente, attraverso istituzioni democratiche. Lungi dal ricercare motivazioni
politiche o cause strutturali che possano spiegarli, gli europei si trovano sostanzialmente
concordi sulla “mostruosità” degli avvenimenti. Quanto ai rimedi, va sottolineato il
riferimento di Michel alla necessità di «identificare», «portare dinanzi alla giustizia» e
«punire» i responsabili degli attentati, secondo un’impostazione chiaramente giudiziaria
della lotta al terrorismo. Anche su questo punto assentono i rappresentanti dei partiti
europei, alcuni dei quali – per lo più a sinistra – precisano di considerare fuori luogo e
addirittura controproducente l’eventualità che gli Stati Uniti decidano di «rispondere al
terrore con il terrore»25, attaccare paesi sospetti «aggiungendo torto a torto»26 o reagire
«con una risposta folgorante, ma dalle conseguenze incalcolabili»27.
Lo spettro che si aggira per l’Europa, su cui i gruppi di centro-destra non prendono
una posizione esplicita, è la possibilità che l’amministrazione Bush – convinta che i vertici
di Al Qaeda non si potranno catturare con tradizionali operazioni di polizia – decida di
rispondere all’azione dei terroristi sferrando un attacco militare contro l’Afghanistan (base
logistica dell’organizzazione di Bin Laden), come pare suggerire l’accenno di Michel alla
presenza del segretario generale della NATO al vertice europeo. Un’indicazione nella
medesima direzione viene dalle analisi che individuano nell’attacco dell’11 settembre un
atto di “guerra”, intendendo con tale termine una forma inedita di violenza, esercitata da un
soggetto non statale ma di portata così elevata (si pensi ai 3000 morti delle torri gemelle)
da non potersi classificare come un qualsiasi atto di terrorismo28.
24
Parlamento europeo, Discussioni, in APE, seduta del 12 settembre 2001, intervento di Louis Michel.
Ivi, intervento dell’on. Barón Crespo (PSE).
26
Ivi, intervento dell’on. Hautala (Verdi).
27
Ivi, intervento dell’on. Wurtz (Sinistra europea).
28
Ivi, intervento dell’on. Cox (liberaldemocratici). Sul piano scientifico-accademico, cfr. A. Panebianco, Di
fronte alla guerra, «Il Mulino», a. L, n. 6, novembre-dicembre 2001, pp. 1000-1001, che ribadisce una
definizione inclusiva di guerra – confronto fra «organizzazioni politico-militari» – già proposta altrove
25
95
Un intervento più articolato è il Piano d’azione adottato in occasione del Consiglio
europeo straordinario del 21 settembre, che costituisce una pietra miliare nella storia della
lotta europea al terrorismo, benché la lettura dell’11 settembre, in linea con quella emersa a
caldo, non ne esplori le ragioni politiche: la minaccia del terrorismo fondamentalista è
inaccettabile innanzi tutto sul piano etico, poiché tocca «la coscienza di ciascun essere
umano» e ricorre ad «atti inumani»29. È tuttavia significativo che i capi di Stato e governo,
raccogliendo spunti affacciatisi nei documenti degli anni precedenti ma rimasti sulla carta,
riconoscano di fatto i limiti dell’ingessata struttura istituzionale a pilastri e sanciscano
l’esigenza che l’Ue «intensifich[i] il suo impegno contro il terrorismo mediante un
approccio coordinato e interdisciplinare che abbracci tutte le politiche dell’Unione», nel
«rispetto delle libertà fondamentali su cui si fonda la nostra civiltà»30. Il Piano d’azione
comprende i settori della cooperazione giudiziaria e di polizia e l’azione esterna, affianca
strumenti giuridici ed economici, postula la convivenza di mezzi civili e militari, grazie
allo sviluppo della PESC e della PESD per «prevenire e stabilizzare i conflitti regionali»31.
Pur eludendo formalmente l’ostacolo della definizione del terrorismo, l’approccio del
Consiglio europeo lascia intendere di considerarlo sia come minaccia “interna”, sia come
pericolo per la sicurezza “esterna”. Si rendono quindi indispensabili misure operative,
giudiziarie, di polizia sul territorio dell’Unione, ma anche una forma di profilassi di tipo
diplomatico e – se necessario – di carattere militare nei confronti di alcune aree del mondo,
da cui possono partire offensive contro gli Stati membri e la loro popolazione. Sul piano
istituzionale, in virtù della complessità del compito e forse dell’idea che al momento sia
preminente la dimensione esterna della minaccia, è il Consiglio Affari Generali – che
riunisce i ministri degli Esteri – a ricevere l’incarico «di svolgere un ruolo di
coordinamento e di impulso in materia di lotta contro il terrorismo»32.
(sezione politologica di A. Cassese, A. Panebianco e M. Silvestri, Guerra, in AAVV, Enciclopedia delle
scienze sociali, vol. IV, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1994, p. 466), e W. Sofsky, Rischio e
sicurezza (2005), Torino, Einaudi, 2005, p. 10.
29
Consiglio europeo, Conclusioni della Presidenza e Piano d’azione, Bruxelles, 21 settembre 2001, doc. SN
140/01, p. 1 (http://www. consilium.europa.eu/cms3_applications/applications/newsroom/LoadDocument.asp
?directory=it/ec/&filename=concl-bxl.i1.pdf). Sviluppo in questa sede alcune considerazioni svolte in S.
Quirico, Il Consiglio europeo e la lotta al terrorismo. L’evoluzione politico-istituzionale (2001-2005), in F.
Di Sarcina, L. Grazi e L. Scichilone (a cura di), Res Europae. Attori, politiche e sfide dell’integrazione
europea, Firenze, CET, 2010, pp. 229-240.
30
Consiglio europeo, Conclusioni della Presidenza e Piano d’azione, cit., p. 1
31
Ivi, p. 3.
32
Ibidem. Sul rilancio dell’azione antiterroristica europea a partire dall’autunno del 2001, si vedano in
generale: D. Spence (ed.), The European Union and Terrorism, London, J. Harper, 2007; J. Monar, The
European Union as an International Security Actor: Challenge and Response in the Fight against Terrorism,
in U. Morelli (ed.), A Constitution for the European Union: Sovereignty, Representation, Competences,
Constituent Process. Proceedings of the International Conference, Torino, November 22nd and 23nd, 2002,
96
A livello interno il Piano d’azione fa riferimento ai progetti di provvedimenti sulla
definizione di reato terroristico e sul mandato di arresto europeo, già annunciati dal
commissario Vitorino il 5 settembre, di cui si dirà nel prossimo paragrafo. In termini di
relazioni internazionali la scena è dominata dalla sempre più probabile guerra in
Afghanistan. Il Consiglio europeo decide di rifarsi alla risoluzione delle Nazioni Unite del
12 settembre 2001, che richiede un impegno comune per assicurare i responsabili alla
giustizia e annuncia la disponibilità a compiere i «passi necessari» per rispondere agli attacchi, con una formula che pare ammettere l’eventualità dell’intervento armato33. I leader
europei riconoscono che «[in] base alla risoluzione 1368 del Consiglio di sicurezza una
reazione americana è legittima», offrendo l’appoggio degli Stati membri per «azioni […]
mirate e […] dirette anche contro gli Stati che aiutassero, sostenessero o ospitassero
terroristi»34. Pur facendosi scudo con un linguaggio generico, gli europei non si oppongono
alla prospettiva di un’azione militare in Afghanistan, di cui le autorità americane parlano
da giorni e a cui i singoli paesi europei sono disponibili a prendere parte, «ciascuno
secondo i propri mezzi»35. Attorno ai valori comuni e sotto l’egida delle Nazioni Unite, si
tratta inoltre di dare vita a una coalizione con gli altri Stati che si assumano l’onere di
lottare a tutto campo contro il terrorismo.
A questo scopo, già enunciato dall’Alto Rappresentante PESC Javier Solana in un
articolo del 13 settembre36, le istituzioni europee si prodigano senza sosta. Accanto a
Solana, il presidente della Commissione Romano Prodi, il commissario alle Relazioni
esterne Chris Patten e il ministro degli Esteri belga Michel sono protagonisti di una serie di
viaggi e incontri con gli interlocutori interessati a partecipare alla lotta al terrorismo, in cui
si esprime la componente «volontaristica» dell’impegno europeo37. Su pressione dei
Milano, Giuffrè, 2005, pp. 207-233, poi aggiornato in Id., Anti-Terrorism Law and Policy: the Case of the
European Union, in V.V. Ramraj, M. Hor e K. Roach (eds.), Global Anti-Terrorism Law and Policy, Cambridge, Cambridge University Press, 2005, pp. 425-452; M. Den Boer, 9/11 and the Europeanisation of AntiTerrorism Policy: a Critical Assessment, Groupement d’Études et de Recherches «Notre Europe», Policy Paper n. 6, September 2003 (http://www.notre-europe.eu). Il lettore italiano può consultare anche i preziosi
Rapporti sull’integrazione europea curati annualmente dalla Fondazione Istituto Gramsci e dal Centro Studi
di Politica Internazionale (CeSPI).
33
United Nations – Security Council, Resolution 1368 (2001), 12 September 2001, doc. S/RES/1368 (2001),
disponibile all’indirizzo web: http://www.studiperlapace.it/view_news_ html?news_id=20050122123225.
34
Consiglio europeo, Conclusioni della Presidenza e Piano d’azione, cit., p. 1.
35
Ibidem.
36
J. Solana, A Broad Consensus against Terrorism, «Financial Times», 13 September 2001, ora in M. Rutten
(ed.), From Nice to Laeken. European Defence: Core Documents. Volume II, Paris, Institute for Security
Studies, Chaillot Paper n. 51, April 2002, pp. 145-146.
37
L’espressione è utilizzata al cospetto del Parlamento europeo dal ministro belga Annemie NeytsUyttenbroek, cfr. Parlamento europeo, Discussioni, in APE, Strasburgo, seduta del 24 ottobre 2001. Si
vedano inoltre Consiglio dell’Unione europea, Nota di trasmissione del Comitato dei Rappresentanti
Permanenti, Bruxelles, 5 ottobre 2001, in RCUE, doc. 12515/01 e Id., Nota di trasmissione del Comitato dei
97
governi europei, gli Stati Uniti accettano inoltre di applicare, per prima volta nella storia
atlantica, le disposizioni previste dall’articolo 5 del Trattato NATO, relativo all’assistenza
da parte di tutti gli alleati a favore dello Stato colpito da un attacco armato sul proprio
territorio. Il che non è irrilevante, poiché implica l’assimilazione tra l’azione di Al Qaeda e
gli atti di guerra, avvenuta su richiesta dei paesi europei38. In cambio, l’amministrazione
Bush ottiene dagli alleati l’adozione di alcune misure operative, grazie alle quali i mezzi
NATO potranno trovare ospitalità sul territorio europeo, varcarne liberamente lo spazio
aereo e accedere a porti e aeroporti39.
Preso atto dell’armonia regnante nelle relazioni transatlantiche, anche il Parlamento
fornisce il proprio avallo all’iniziativa militare. La risoluzione approvata il 4 ottobre si
premura solo di ricordare come «tutte le azioni debbano essere adeguate e mirate, onde
evitare danni a civili innocenti e ai loro beni»40. Ancor più significativa risulta la
sostanziale assenza – anche a sinistra – di un reale dissenso nei confronti dell’ormai
imminente attacco. Nel gruppo socialista, il presidente Barón Crespo si dichiara soddisfatto
del clima collaborativo in sede NATO; il deputato greco Katiforis definisce addirittura
«scontato» il sostegno del PSE alla linea complessiva scelta dal Consiglio europeo;
l’olandese Van den Berg si accontenta di auspicare una reazione «proporzionata»
all’offesa41. A nome dei Verdi, l’on. Lannoye si compiace per l’ampiezza della
coalizione42. I dubbi sollevati nella seduta parlamentare del 12 settembre sembrano
superati, una volta ricevute garanzie sulle modalità dell’azione. L’unico intervento critico è
svolto dal greco Alyssandrakis, deputato della sinistra radicale, che, distinguendosi dalla
maggior parte dei suoi stessi compagni, si scaglia contro la scelta americana di ricorrere
alla guerra, attingendo tuttavia a una serie di argomentazioni – tra cui le accuse di
terrorismo di Stato e imperialismo – più compatibili con un aprioristico antiamericanismo
Rappresentanti Permanenti, Bruxelles, 15 ottobre 2001, in RCUE, doc. 12853/01. Nella coalizione così
costituita il sociologo americano Amitai Etzioni intravede l’embrione di una possibile Autorità globale per la
sicurezza (Global Security Authority), in grado di affrontare con successo le minacce transnazionali (From
Empire to Community. A New Approach to International Relations, New York-Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2004, p. 109 e p. 123 in particolare).
38
Si noti che, in documenti stilati negli anni precedenti, i due livelli erano considerati distinti: il summit
atlantico del 1999 indicava infatti le azioni terroristiche come fattispecie differenti dagli attacchi armati cui si
riferivano gli accordi del 1949, e considerava le forze NATO un potenziale bersaglio del terrorismo, anziché
uno strumento per combatterlo. Cfr. North Atlantic Council Summit, Final Comuniqué, Washington (DC),
24 April 1999, in M. Rutten (ed.), From St-Malo to Nice. European Defence: Core Documents, Paris, Institute for Security Studies, Chaillot Paper n. 47, May 2001, p. 28 e p. 36.
39
Statement to the Press by NATO Secretary-General, Lord Robertson, Brussels, 4 October 2001, in Id. (ed.),
From Nice to Laeken, cit., p. 155.
40
Parlamento europeo, Risoluzione del Parlamento europeo sulla riunione straordinaria del Consiglio
europeo del 21 settembre 2001 a Bruxelles, in APE, Strasburgo, 4 ottobre 2001.
41
Id., Discussioni, in APE, seduta del 3 ottobre 2001.
42
Ivi, intervento dell’on. Lannoye.
98
che con una valutazione circostanziata della vicenda43.
L’azione da tempo programmata ha inizio il 7 ottobre 2001 con una serie di
bombardamenti aerei del territorio afgano44. A dispetto dell’evidenza, i documenti ufficiali
Ue conservano una certa ritrosia nell’impiegare il termine “guerra”, preferendogli
locuzioni più sfumate, come «operazioni militari»45. Tale tendenza risponde probabilmente
alla volontà di non urtare, per lo meno sul piano lessicale, la suscettibilità dei settori
dell’opinione pubblica europea assestati su posizioni pacifiste, figlie della speranza che il
XX secolo si sia congedato trascinando con sé, nella pattumiera della storia, gli orrori che
lo hanno segnato, a partire dai lutti provocati dalle (o associati alle) due guerre mondiali46.
L’appoggio delle istituzioni europee alla condotta americana non è tuttavia in discussione,
come confermerà il Parlamento nel settembre 2002, con una risoluzione che rimarcherà il
carattere «necessario» dell’intervento in Afghanistan47.
In realtà, nella società civile europea e occidentale il dibattito sulla guerra afghana è
assai articolato e destinato a trascinarsi per mesi, delineando uno spettro di posizioni più
ampio e plurale rispetto a quello delle istituzioni Ue. Problematica, agli occhi di numerosi
osservatori,
si
presenta
infatti
l’espressione
“guerra
al
terrorismo”,
adottata
dall’amministrazione Bush nella fase successiva agli attentati per mobilitare la popolazione
contro il nuovo pericolo, dipinto come piaga sociale da combattere senza tregua e con
strumenti complementari (di politica estera, di politica interna e di carattere ideologico48).
In questo senso, la formula appare sì una metafora modellata sulla nixoniana “guerra alla
43
Ivi, intervento dell’on. Alyssandrakis. Cfr. la parziale consonanza di queste osservazioni con quelle di A.
Burgio, Guerra. Scenari della nuova grande trasformazione, Roma, DeriveApprodi, 2004, pp. 37-81.
44
M. Shaw, L'occidente alla guerra. La tentazione dell'interventismo (2004), Milano, Egea, 2006, spiega la
scelta della guerra aerea alla luce del nuovo approccio bellico occidentale, volto a minimizzare le perdite
umane fra le forze militari (pp. 110-115 in particolare). Le modalità dell’attacco all’Afghanistan forniscono
al politologo Christopher Coker lo spunto per discutere la plausibilità di una guerra «senza guerrieri»: si
vedano Waging War without Warriors? The Changing Culture of Military Conflict, Boulder-London, Lynner
Rienner, 2002 e The Future of War. The Re-Enchantment of War in the Twenty-First Century, Oxford,
Blackwell, 2004.
45
Cfr. Dichiarazione dei Capi di Stato e di Governo dell’Unione europea e del Presidente della
Commissione. Il seguito degli attentati dell’11 settembre e la lotta contro il terrorismo, Bruxelles, 19 ottobre
2001, doc. 4296/2/01 REV 2, p. 1, disponibile all’indirizzo web: http://www.consulium.europa.eu/cms3_
applications/applications/newsroom/LoadDocument.asp?directory=it/ec/&filename=ACF7C2.pdf.
46
Sulla volontà di “uscire dal Novecento”, motivata innanzi tutto dalla memoria della violenza che lo ha
dominato e orientata alla ricerca delle tracce di una nuova solidarietà umana, si veda M. Revelli, Oltre il
Novecento. La politica, le ideologie e le insidie del lavoro, Torino, Einaudi, 2001, in particolare la parte I.
47
Parlamento europeo, Risoluzione del Parlamento europeo sulla situazione in Afghanistan, Strasburgo, 5
settembre 2002, in APE, doc. P5_TA (2002) 0407, punto A.
48
Si veda la tripartizione tra «guerra interna», «guerra esterna» e «guerra delle idee» teorizzata da D. Frum e
R. Perle, Estirpare il male. Come vincere la guerra contro il terrore (2003), Torino, Lindau, 2004.
99
droga”49, ma possiede nel contempo una consistenza reale, testimoniata dalle operazioni
compiute principalmente in Afghanistan50. Suscita perplessità la decisione di attaccare
un’organizzazione terroristica ricorrendo a un repertorio di azioni tipicamente militari, la
cui potenza di fuoco, per quanto chirurgico possa risultarne l’uso, si rovescia
sull’Afghanistan e sulla sua popolazione più che sulle strutture e i responsabili di Al
Qaeda. Nella lettura dello studioso Benjamin Barber, la strategia statunitense pare ridursi
alla sostituzione dei bersagli «appropriati ma invisibili», i terroristi, con quelli «impropri
ma visibili», vale a dire Stati come l’Afghanistan o, in modo ancora meno giustificato,
l’Iraq nel 200351. Secondo il sociologo Zygmunt Bauman, l’impossibilità di collegare la
minaccia a un territorio definito, effetto del processo di globalizzazione, indurrebbe
l’amministrazione Bush a compiere il tentativo estremo – la guerra a uno Stato – di
radicare e ingabbiare in una logica locale e territoriale un nemico che a quel giogo intende
sfuggire52.
Altre critiche sono rivolte al linguaggio che accompagna la preparazione e lo svolgimento del conflitto. L’utilizzo del termine “crociata”, di cui Bush è costretto a scusarsi
attraverso i propri collaboratori53, e di una retorica particolarmente assertiva lasciano
trasparire l’impressione che il governo USA veda nella guerra non tanto il mezzo per
punire i responsabili di un atto specifico, quanto l’occasione per affermare la superiorità di
un modello sociale, di uno stile di vita, di una tradizione culturale rispetto a cui il nemico –
proprio come i barbari nell’immaginario della polis greca o della Roma imperiale – è
49
R. Glover, Guerra a…, in Collins e Glover, Linguaggio collaterale, cit., pp. 119-132. In tutt’altro contesto,
l’espressione è ripresa dal magistrato Gian Carlo Caselli per designare l’attività svolta dalle autorità italiane
contro il terrorismo di sinistra negli anni Settanta e Ottanta (Le due guerre. Perché l’Italia ha sconfitto il
terrorismo e non la mafia, Milano, Melampo, 2009).
50
L’ambivalenza del concetto – in parte metafora, in parte guerra in senso stretto – è evidenziata da K. Roth,
The Law of War in the War on Terror, «Foreign Affairs», vol. LXXXIII, n. 1, January-February 2004, pp. 27, M. Bovero, Introduzione. Pensare gli squilibri del terrore, in Id. e Vitale (a cura di), Gli squilibri del
terrore, cit., pp. 18-19 e A.M. Macleod, The War against Terrorism and The «War» against Terrorism, in
S.P. Lee (ed.), Intervention, Terrorism, and Torture. Contemporary Challenger to Just War Theory,
Dordrecht, Springer, 2007, pp. 187-202. Mezzi e risorse militari sono utilizzati anche in altre aree del mondo,
attraverso missioni svolte nel Mediterraneo orientale (dal 2001), nelle Filippine (2002), in Georgia (20022004), nel Corno d’Africa (dal 2002), oltre a pattugliamenti lungo le frontiere con Canada e Messico (dal
2001). Cfr. A. Politi, Gli aspetti strategico-militari della lotta al terrorismo, in A. Colombo e N. Ronzitti (a
cura di), L’Italia e la politica internazionale. Edizione 2005, Bologna, Il Mulino, 2005, pp. 62-67. Ho
volutamente espunto dall’elenco il caso iracheno, di cui mi occuperò più avanti.
51
B. Barber, L’impero della paura. Potenza e impotenza dell’America nel nuovo Millennio (2003), Torino,
Einaudi, 2004, p. 11.
52
Z. Bauman, La società sotto assedio (2002), Roma-Bari, Laterza, 2003, pp. 97-101.
53
B. Woodward, La guerra di Bush (2002), Milano, Sperling & Kupfer, 2003, p. 88. Il volume, che rievoca
in chiave giornalistica le prime fasi della “guerra al terrorismo”, è giudicato da parte della critica oltremodo
benevolo nei confronti dell’operato delle autorità americane.
100
inevitabilmente estraneo e in condizione di minorità e soggezione54. L’attivismo internazionale americano, in cui tale orientamento si traduce, pare smentire l’impressione suscitata dai primi mesi di presidenza repubblicana, durante i quali il gruppo dirigente mostrava
scarsa attenzione per la politica estera, se non per svincolarsi da impegni assunti dai
predecessori democratici in varie sedi multilaterali (gli accordi di Kyoto, il trattato sulla
non proliferazione dei missili balistici, ecc.)55. La trasformazione di Bush in “presidente di
guerra”, nonostante le critiche indirizzate in campagna elettorale all’eccessivo
internazionalismo di Clinton, è uno degli effetti più evidenti dell’11 settembre56.
Oggetto del contendere è, infine, la legittimità stessa dell’intervento armato in
Afghanistan. Alcuni giuristi mettono in causa la compatibilità di quella guerra con il diritto
internazionale, non essendo intercorsa un’evidente legittimazione da parte dell’ONU e
apparendo discutibile la prassi di considerare lo Stato afghano un aggressore57. In
quest’ottica, sarebbe stato preferibile un intervento diretto delle Nazioni Unite, immaginato
come operazione di polizia internazionale e finalizzato a consegnare gli artefici
dell’attentato alla Corte penale internazionale58. Su questa dimensione del problema, pur in
54
Sull’autorappresentazione degli Stati Uniti come campioni della civiltà contrapposta alla barbarie, si veda
soprattutto P. Hassner, The United States: The Empire of Force or the Force of Empire, Paris, Institute for
Security Studies, Chaillot Paper n. 54, September 2002, p. 12, testo successivamente raccolto nell’antologia
La terreur et l’empire. La violence et la paix II, Paris, Seuil, 2003, pp. 160-206. L’argomentazione era già
presentata in Id., La violence et la paix. De la bombe atomique au nettoyage ethnique, Paris, Esprit, 1995, p.
15, che rimandava a J.-C. Rufin, L’Empire et les nouveaux barbares, Paris, J.-C. Lattès, 1991. In proposito,
cfr. anche M.A. Llorente, Civiltà contro barbarie, in Collins e Glover (a cura di), Linguaggio collaterale,
cit., pp. 44-54.
55
Per una sintesi di quel periodo, si veda I.H. Daalder e J.M. Lindsay, America senza freni. La rivoluzione di
Bush (2003), Milano, Vita e Pensiero, 2005, pp. 83-103. A cavallo del cambio di amministrazione, si
registrava inoltre una certa sottovalutazione del potenziale pericolo terroristico (cfr. R. Clarke, Contro tutti i
nemici (2004), Milano, Longanesi, 2004, p. 256).
56
Sulla linea anticlintoniana della campagna repubblicana, cfr. C. Rice, Compaign 2000: Promoting the
National Interest, «Foreign Affairs», vol. LXXIX, n. 1, January-February 2000, pp. 45-62. Secondo R.
Cagliero, Prefazione a Collins e Glover (a cura di), Linguaggio collaterale, cit., i tratti assunti dal Presidente
USA dopo l’11 settembre appartengono più propriamente all’idealtipo del «padre di famiglia» – caratteristico
della destra paternalistica e tradizionale che chiede sacrifici alla cittadinanza in cambio di protezione –
anziché a quello strettamente militare del «comandante in capo», su cui numerosi interpreti insistono (p. 14 e
nota 25 a p. 17).
57
Si vedano i ragionamenti di A. Di Blase, Guerra al terrorismo e guerra preventiva nel diritto
internazionale, in L. Bimbi (a cura di), Not in my name. Guerra e diritto, Roma, Editori riuniti, 2003, pp.
142-151; A. De Guttry e F. Pagani, Sfida all’ordine mondiale. L’11 settembre e la risposta della comunità
internazionale, Roma, Donzelli, 2002, pp. 55-78; M.R. Allegri, Dopo l’11 settembre: diritto internazionale e
Unione Europea, in Ead., G. Anzera e F. Bordonaro, La potenza incompiuta, cit., pp. 103-110, che distingue
chiaramente fra giustificazione giuridica e consenso politico (p. 109).
58
L. Ferrajoli, La guerra e il futuro del diritto internazionale, in Bimbi (a cura di), Not in my name, cit., pp.
233-238. Sul punto si mostra critico M. Walzer, Dopo l’11 settembre: cinque domande sul terrorismo (2002),
ora in Id., Sulla guerra (2004), Roma-Bari, Laterza, 2006, sottolineando che la celebrazione di un processo
penale prima dello smantellamento totale della rete terroristica moltiplicherebbe eccessivamente i rischi di
una escalation di attentati, rapimenti e altre azioni cruente (pp. 135-136).
101
presenza di voci dissonanti, tra cui Noam Chomsky59, una rappresentanza consistente del
mondo intellettuale americano si schiera a sostegno dell’amministrazione Bush. Sul piano
simbolico, l’atto più tangibile è l’elaborazione di un documento firmato da sessanta
personalità di differente formazione e orientamento, tra cui Jean B. Elshtain, Amitai
Etzioni, Francis Fukuyama, Samuel Huntington, Michael Novak e Michael Walzer60. Il
paradigma filosofico-politico di riferimento è quello della “guerra giusta”, all’interno del
quale sono individuati i principali argomenti a favore dell’azione militare. Walzer, tra i
maggiori esperti della materia, spiega in un breve saggio del 2002 che l’individuazione
della responsabilità di Al Qaeda e il legame tra quest’ultima e i talebani rendono la guerra
afghana «certamente giusta»61. In un volume del 2003, Elshtain sottopone l’intervento del
2001 alla verifica del modello teorico, traendone confortanti conclusioni. Da un lato, esso
rispetta i criteri validi per lo jus ad bellum: l’obiettivo è punire gli ideatori dell’11
settembre e prevenire nuovi attacchi; il Consiglio di Sicurezza dell’ONU è stato avvertito;
la guerra si presenta come risorsa estrema, dopo che gli altri mezzi sono stati vagliati –
solo sul piano logico-strategico, non essendo obbligatorio esperirli sul campo – e scartati.
Dall’altro, in termini di jus in bello, le operazioni in Afghanistan rendono omaggio al
principio di proporzionalità e osservano, per quanto possibile, le distinzioni tra civili e
militari, combattenti e non combattenti, circostanza che le legittima nel confronto con il
terrorismo indiscriminato di Al Qaeda62.
Fra queste potenziali obiezioni, l’unica che preoccupa le istituzioni Ue è il rischio che
la campagna antiterroristica – a causa di un’eccessiva ruvidezza e semplificazione della
comunicazione – finisca per incrinare i rapporti con gli interlocutori arabi e musulmani. Il
monito a non demonizzare l’intero mondo islamico, ricorrente nei testi del Consiglio e
nelle discussioni parlamentari fin dai primi giorni successivi agli attentati, è teso a evitare
che la raffigurazione del terrorismo come forma di “barbarie” possa trasformarsi in
un’arma retorica funzionale al temuto “scontro di civiltà”.
59
La produzione del noto linguista e polemista statunitense subisce un’impennata in seguito all’11 settembre,
benché le pubblicazioni – in alcuni casi raccolte o riedizioni di singoli interventi – risultino nel complesso
ridondanti e ripetitive. Si vedano fra gli altri: N. Chomsky, 11 settembre (2001), Milano, Tropea, 2001, Id.,
Linguaggio e politica. Riflessioni sul mondo dopo l'11 settembre, Roma, Di Renzo, 2002, Id., Dopo l’11
settembre. Potere e terrore (2003), Milano, Tropea, 2003, Id., Pirati e imperatori. Reagan, Bush I, Bush II,
la guerra infinita al terrorismo (2002), Milano, Tropea, 2004 e Id., Egemonia o sopravvivenza (2003),
Milano, Tropea, 2005. Altri testi saranno specificamente richiamati in seguito.
60
What We’re Fighting For, New York, Institute for American Values, February 2002, pubblicato anche in
appendice a J.B. Elshtain, Just War against Terror. The Burden of American Power in a Violent World, New
York, Basic Books, 2003, pp. 193-218.
61
M. Walzer, Dopo l’11 settembre, cit., p. 135.
62
Elshtain, Just War against Terror, cit., pp. 57-70.
102
La conduzione della guerra, che produce una vittoria militare relativamente rapida e
forse ingannevole, si rivela meno collegiale del previsto. In virtù del marcato divario
tecnologico tra gli alleati, è quasi fisiologico che le decisioni strategiche principali siano
assunte dagli USA in sostanziale autonomia, anche nei confronti della Gran Bretagna, la
cui aviazione partecipa attivamente ai bombardamenti63. A fronte della tanto celebrata
invocazione dell’art. 5 NATO, l’offerta europea di cooperazione militare resta priva di
conseguenze pratiche64. A ciò si aggiunge, stando alla denuncia del capogruppo popolare al
Parlamento europeo Hans-Gert Pöttering, la tentazione dei grandi Stati membri di
convocare vertici ristretti durante la crisi afghana, coinvolgendo anche il presidente del
Consiglio di turno, Guy Verhofstadt, e dando così l’idea di favorire una deriva direttoriale
della politica europea di difesa65.
Nel giro di poche settimane, le potenze occidentali si trovano a dover gestire un
complicato dopoguerra. L’iniziale rinuncia a truppe di terra è indicata dagli esperti come
uno di vizi di origine di una situazione destinata a divenire nel tempo drammatica: i capi di
Al Qaeda, nonché parte delle milizie talebane, riescono a scampare agli attacchi aerei e a
riparare in zone meno accessibili, rimaste sotto il loro controllo66. Di conseguenza, il
territorio afghano è quasi immediatamente immerso in una guerra non convenzionale,
scandita da azioni di guerriglia e terrorismo, in opposizione alle quali le forze occidentali
sono chiamate a operazioni di controinsurrezione67. In ottemperanza agli accordi di Bonn
63
Sulle ragioni dell’asimmetria tra i partner atlantici, cfr. A. Locatelli, La Rivoluzione negli Affari Militari e
le relazioni transatlantiche: tendenze, problemi, prospettive, in V.E. Parsi, S. Giusti e A. Locatelli (a cura di),
Esiste ancora la comunità transatlantica?, Milano, Vita e Pensiero, 2006, pp. 163-185. Sulle sue
conseguenze in occasione della guerra afghana, si vedano i rilievi di C. Jean, La guerra in Afghanistan, in
Biancheri (a cura di), Il nuovo disordine globale, cit., p. 67 e C. Kupchan, La fine dell’era americana.
Politica estera americana e geopolitica nel ventunesimo secolo (2002), Milano, Vita e Pensiero, 2003, pp.
277-278.
64
Cfr. Missiroli, L’Unione fa la forza, cit., p. 255 e R. Menotti e P. Brandimarte, L’iniziativa europea nelle
aeree di crisi: l’ora delle decisioni più difficili, in R. Gualtieri e F. Pastore (a cura di), L’Unione europea e il
governo della globalizzazione. Rapporto 2008 sull’integrazione europea, Bologna, Il Mulino, 2008, p. 63.
65
Si veda l’intervento di Pöttering in Parlamento europeo, Discussioni, in APE, Bruxelles, seduta del 14
novembre 2001. Per la verità, come emerge nel corso del dibattito, alle riunioni partecipa anche la
delegazione dei Paesi Bassi, non esattamente una potenza di rilevanza mondiale. Il presidente Verhofstadt,
inoltre, dichiara di aver preventivamente consultato gli altri Stati membri, ricevendo il mandato di accettare
l’invito e recarsi agli incontri in compagnia dell’Alto Rappresentante Solana.
66
W. Clark, Vincere le guerre moderne. Iraq, terrorismo e l’impero americano (2003), Milano, Bompiani,
2004, pp. 151-153. Di «capolavoro difettoso» parla M.E. O’Hanlon, A Flawed Masterpiece, «Foreign
Affairs», vol. LXXXI, n. 3, May-June 2002, pp. 47-63.
67
Si veda in merito H.S. Rothstein, Afghanistan and the Future of Unconventional Warfare, New Dehli,
Manas, 2006, secondo cui il passaggio dalla guerra convenzionale a quella non convenzionale coincide con il
crollo talebano a metà del dicembre 2001 (pp. 12-13). Sulla guerra al terrorismo come confronto fra tattiche
insurrezionali e controinsurrezionali, cfr. R.M. Cassidy, Counterinsurgency and the Global War on Terror.
Military Culture and Irregular War, Stanford, Stanford University Press, 2008. Il medesimo problema è
affrontato anche da W. Chin, «Enduring Freedom». A Victory for a Conventional Force Fighting an Uncon-
103
del 5 dicembre 2001, una coalizione di Paesi – che nel corso degli anni supererà le venti
unità, annoverando i principali Stati membri dell’Unione europea, tuttavia afferenti uti
singuli – invia forze militari nell’ambito della missione denominata ISAF (International
Security Assistance Force), finalizzata alla protezione delle amministrazioni locali e internazionali e all’addestramento della nuova polizia e del futuro esercito afghani68. Tale
contingente affianca quello a guida americana, incaricato di reprimere i riflussi terroristici
e insurrezionali. Si determina così una ripartizione delle mansioni tra le forze ISAF e la
rappresentanza militare statunitense69. In questo contesto, il terrorismo assume la forma di
violenza territorialmente localizzata e adoperata da fazioni che non riconoscono il governo
provvisorio filo-occidentale, il quale a sua volta rifiuta ogni accordo o trattativa con il
nemico politico.
Dal punto di vista economico, l’Ue stanzia 360 milioni di euro (di cui 106
provenienti dal bilancio CE) per gli aiuti umanitari70. Nel complesso, secondo le prime
stime della Banca Mondiale, la ricostruzione del Paese comporterà investimenti per una
cifra compresa tra i 14,6 e i 18,1 miliardi di dollari71. A tali previsioni si aggiungono gli
scompensi legati alla coltivazione e al commercio di oppio, combattuti dalle autorità
talebane per motivi ideologici e rifioriti nella fase di transizione postbellica. Vari
osservatori individuano una possibile via di uscita nell’offerta di attività agricole
alternative, scenario nell’ambito del quale la PAC comunitaria potrebbe ritagliarsi un certo
margine d’azione72.
ventional War, in T.R. Mockaitis e P.B. Rich (eds.), Grand Strategy in the War against Terrorism, London,
Cass, 2003, pp. 57-76.
68
Consiglio europeo, Conclusioni della Presidenza, Laeken, 14-15 dicembre 2001, doc. SN 300/1/01 REV 1,
pp. 4 (http://www.consilium.europa.eu/App/NewsRoom/loadDocument.aspx?id=347&lang=it&directory=it/
ec/&fileName=68836.pdf).
69
Si veda il resoconto dell’Informal Meeting of the Defence Ministers, Wiesbaden, 1º-2 March 2007, in C.
Glière (ed.), EU Security and Defence. Core Documents 2007. Volume VIII, Paris, Institute for Security Studies, Chaillot Paper n. 112, October 2008, pp. 54-55. La divisione dei compiti, soprattutto in vista
dell’assunzione da parte afghana della responsabilità dell’ordine pubblico, è sostenuta con convinzione da O.
Roy, Afghanistan: la difficile reconstruction d’un État, Paris, Institut d’Études de Sécurité, Cahier de
Chaillot n. 73, Décembre 2004, pp. 67-69. L’esiguità del contingente americano è rimarcata da R. Redaelli,
Iraq e Afghanistan: i due dopoguerra, in Colombo e Ronzitti (a cura di), L’Italia e la politica internazionale,
cit., p. 237. Sul tema dello state building in Afghanistan, cfr. M. Ignatieff, Impero light. Dalla periferia al
centro del nuovo ordine mondiale (2003), Roma, Carocci, 2003, pp. 89-124.
70
Consiglio europeo, Conclusioni della Presidenza, Laeken, 14-15 dicembre 2001, cit., p. 4.
71
W. Maley, The Reconstruction of Afghanistan, in K. Booth and T. Dunne (eds.), Worlds in Collision. Terror and the Future of Global Order, New York, Palgrave Macmillan, 2002, pp. 185-187.
72
Si vedano Redaelli, Iraq e Afghanistan, cit., pp. 238-239, G. Giacomello, La lotta al terrorismo
nell’Unione europea, in S. Giusti e A. Locatelli (a cura di), L’Europa sicura. Le politiche di sicurezza
dell’Unione europea, Milano, Egea, 2008, p. 137, che cita una proposta di matrice britannica (A Double
Spring Offensive, «The Economist», 24 February 2007, pp. 24-26), e M.S. Navias, Finance Warfare as a
Response to International Terrorism, in L. Freedman (ed.), Superterrorism. Policy Responses, Oxford,
Blackwell, 2002, pp. 57-79.
104
La ricostruzione del paese e delle sue istituzioni trascende il problema della lotta al
terrorismo e impone alcune scelte di valore, tra le quali ha un significato peculiare il ruolo
delle donne nella società afghana. Il tema schiude le porte al classico dissidio fra i
sostenitori dell’universalità dei diritti, dei principi della democrazia liberale e dei valori
faticosamente affermatisi nella cultura occidentale, e i fautori di un’impostazione di fatto
relativista. In quest’ultima finiscono per riconoscersi tanto gli approcci sinceramente
preoccupati dal carattere imperialistico insito nell’esportazione acritica degli standard occidentali, quanto quelli ispirati a una visione pragmatica e realista dei rapporti internazionali,
per definizione poco interessata alla natura e alle dinamiche interne ai singoli regimi. In
questo senso, è abbastanza diffuso il convincimento che, di fronte a rischi per la sicurezza
e la stabilità collettiva, generati dal tentativo di educare al rispetto della donna un popolo
che lo disconosce, tale progetto sarebbe sacrificato sull’altare degli interessi più generali,
con buona pace – fra le altre – di Emma Bonino e delle parlamentari europee più entusiaste
davanti alla prospettiva di una modifica degli equilibri di genere nel mondo araboislamico73. L’Afghanistan, in altri termini, non elude il principale nodo affrontato da ogni
processo di ricostruzione nazionale condotto da potenze occidentali: il dilemma fra
l’obiettivo di dare vita a una democrazia plurale, effettiva e riconoscibile, da un lato, e la
necessità di assicurare la sopravvivenza e la stabilità del sistema, per esempio attraverso
l’esclusione delle fazioni più violente dal governo provvisorio e dalla competizione
elettorale, dall’altro74.
La situazione afghana costituisce un incentivo affinché le istituzioni europee diano
seguito a uno dei propositi più significativi contenuti nel Piano d’azione del settembre
2001, cioè l’utilizzo della PESD a fini antiterroristici. Il collegamento, effettivo o
potenziale, fra instabilità regionale e terrorismo globale è uno degli elementi che rende
particolarmente minacciosa l’azione di gruppi come Al Qaeda, che si insinuano nelle aree
73
Si veda in particolare Parlamento europeo, Discussioni, in APE, Bruxelles, seduta del 14 novembre 2001,
intervento di Emma Bonino. Nella parte finale della seduta, una replica indiretta giunge dal deputato
popolare Elmar Brok, presidente della Commissione per gli affari esteri, i diritti dell’uomo, la sicurezza
comune e la politica di difesa, che invita genericamente i colleghi a rispettare le scelte operate da un
autonomo governo afghano, «senza intrometter[si] nei dettagli», frase che può alludere – per la verità, in
modo alquanto brutale – alle rivendicazioni del mondo femminile. Un invito alla prudenza, alla luce delle
tradizioni culturali del Paese interessato, arriva anche da Roy, Afghanistan, cit., pp. 7-8. Un po’
provocatoriamente, E. Todd, Dopo l’impero. La dissoluzione del sistema americano (2002), Milano, Tropea,
2003, individua nel disprezzo manifestato dal femminismo anglosassone verso il mondo arabo-musulmano
uno dei motivi che indurrebbero gli Stati Uniti a guardare con particolare interesse all’Afghanistan e
all’intera regione (pp. 125-127).
74
Tale antinomia, da cui ne discendono svariate altre, è trattata da A.K. Jarstad and T.D. Sisk (eds.), From
War to Democracy. Dilemmas of Peacebuilding, Cambridge, Cambridge University Press, 2008: i curatori
giungono alla conclusione che l’opzione democratica costituisca il metodo migliore per ottenere una pace
duratura nel lungo periodo.
105
critiche del pianeta – Stati in disfacimento, teatri di guerre civili, ecc. – per utilizzarle come
covi in cui pianificare le proprie strategie e basi da cui sferrare gli attacchi. La gestione
delle crisi locali e la stabilizzazione delle regioni turbolente, cui la PESC/PESD da qualche
tempo ha l’ambizione di dedicarsi, non sono più concepiti come obiettivi a se stanti, ma
come misure preventive contro l’insorgere del terrorismo75. Secondo quanto affermato da
Solana e dal commissario Patten, l’Ue deve saper cogliere le insidie di tipo terroristico che
si celano in piaghe come povertà, disuguaglianza, disagio sociale, instabilità, assenza di
democrazia e dello Stato di diritto, insorgenza di conflitti76. Si tratta in sostanza di
abbracciare una concezione della sicurezza più ampia, multidimensionale, eterodossa
rispetto al tradizionale ruolo della difesa77.
Per evitare che le riflessioni sulla trasversalità della lotta al terrorismo rispetto alle
politiche europee assumano solo carattere declamatorio78, occorre trasporle nel corpus
giuridico e procedurale dell’Ue. I leader europei esaminano l’opportunità di aggiornare il
catalogo delle missioni di Petersberg, arricchendolo della lotta al terrorismo, come
richiesto con insistenza dalla Spagna79. Il Consiglio europeo di Laeken ne prefigura un
rafforzamento, senza tuttavia soffermarsi sul terrorismo80. Nell’aprile del 2002, è la proprio
la presidenza spagnola a dover prendere atto che le divergenze fra gli Stati membri
impongono di mantenere distinto l’ambito di Petersberg da quello dell’antiterrorismo81.
Anche grazie alla pervicacia del primo ministro belga Verhofstadt, una delle figure più
spiccatamente europeiste di questa fase storica, e al suo appello a recuperare lo «spirito di
75
Consiglio europeo, Conclusioni della Presidenza e Piano d’azione, cit., p. 3.
Si vedano gli interventi di Patten in Parlamento europeo, Discussioni, in APE, Strasburgo, sedute del 12
dicembre 2001 e del 23 ottobre 2002 e J. Solana, «CFSP: The State of the Union», Paris, 1 July 2002,
discorso alla Conferenza annuale organizzata dall’Istituto per gli Studi sulla Sicurezza, ora in J.-Y. Haine
(ed.), From Laeken to Copenhagen. European Defence: Core Documents. Volume III, Paris, Institute for Security Studies, Chaillot Paper n. 57, February 2003, pp. 108-109. Cfr. inoltre Consiglio dell’Unione europea,
Nota di trasmissione del Consiglio, Bruxelles, 11 dicembre 2001, in RCUE, doc. 15193/01, in cui anche la
presidenza belga rimarca i vantaggi in termini di prevenzione e controllo del terrorismo derivanti da un
miglioramento degli strumenti PESC/PESD nella gestione delle crisi (p. 3).
77
Si vedano Clementi, L’Europa e il mondo, cit., pp. 119-125 e R. Menotti, La politica di sicurezza europea
tra la prima e la seconda amministrazione Bush: oltre l’alleanza atlantica, in G. Vacca (a cura di), Dalla
Convenzione alla Costituzione. Rapporto 2005 della Fondazione Istituto Gramsci sull’integrazione europea,
Bari, Dedalo, 2005, pp. 284-287. Cfr. inoltre G. Mounier, Civilian Crisis Management and the External Dimension of JHA: Inceptive, Functional and Institutional Similarities, «Journal of European Integration», vol.
XXXI, n. 1, January 2009, pp. 45-64.
78
M. Clementi, L’Unione europea come attore della politica internazionale, in M. Ferrera e M. Giuliani (a
cura di), Governance e politiche nell’Unione europea, Bologna, Il Mulino, 2008, pp. 315-317.
79
Cfr. Informal Meeting of Defence Ministers, Brussels, 12 October 2001, in Rutten (ed.), From Nice to Laeken, cit., pp. 156-157.
80
Consiglio europeo, Conclusioni della Presidenza, Laeken, 14-15 dicembre 2001, cit., p. 3 e p. 23.
81
Parlamento europeo, Discussioni, in APE, Strasburgo, seduta del 9 aprile 2002. Si veda anche Id.,
Risoluzione del Parlamento europeo sull’attuale situazione della politica europea di sicurezza e di difesa
(PESD) e le relazioni tra l’UE e la NATO, Strasburgo, 10 aprile 2002, in APE, doc. P5_TA (2002) 0171, che
invece chiede l’istituzione di un collegamento formale fra i due aspetti (punto 22).
76
106
Saint-Malo»82, la revisione dei compiti di Petersberg alla luce delle nuove minacce alla
sicurezza sarà discussa all’interno della Convenzione chiamata a elaborare il progetto di
Trattato costituzionale. Alla fine del travagliato percorso di quel testo, il Trattato di
Lisbona firmato nel 2007 preciserà che tali missioni – disarmo, azioni umanitarie,
prevenzione dei conflitti, stabilizzazione, ecc. – forniranno un contributo “indiretto” alla
lotta al terrorismo, che si affiancherà alla possibilità di aiutare i Paesi impegnati a
combattere il terrorismo sul proprio territorio (art. 28 B)83.
Dal punto di vista istituzionale, in realtà, a conferire alla PESD un’effettiva
competenza in materia di antiterrorismo è la Dichiarazione di Siviglia del giugno 2002. Si
tratta infatti del documento che, almeno a livello di principio, scioglie in modo definitivo il
nodo del rapporto fra lotta al terrorismo e mezzi militari. In tale occasione il Consiglio
europeo autorizza il ricorso alle risorse PESD per combattere il fenomeno terroristico, alla
luce dell’idea che «[promovendo] la stabilità […] l’UE contribuisce a impedire alle
organizzazioni terroristiche di radicarsi»84. Per il futuro, si indicano sei settori prioritari per
la dimensione esterna della lotta al terrorismo: a) la prevenzione dei conflitti; b) il dialogo
politico e l’assistenza a Paesi terzi, coinvolgendo i temi del rispetto dei diritti umani, della
democrazia e della non proliferazione degli armamenti; c) lo scambio di intelligence; d) la
valutazione comune delle minacce; e) la protezione di forze impegnate nella gestione di
crisi; f) la protezione delle popolazioni civili85. Il vertice di Siviglia certifica una nuova
mutazione nell’approccio europeo al terrorismo: diventata ormai da tempo materia delle
relazioni internazionali e della diplomazia, da questo momento in poi l’azione del terroristi
è considerata una minaccia che si pone a cavallo degli ambiti civile e militare e che, di
82
Letter from Guy Verhofstadt, Brussels, 18 July 2002, in Haine (ed.), From Laeken to Copenhagen, cit., pp.
112-114. Di Verhofstadt si veda anche il successivo pamphlet Gli Stati Uniti d’Europa. Manifesto per una
nuova Europa (2006), Roma, Fazi, 2006 e cfr. in proposito S. Quirico, La spiga più alta: l’idea di Europa di
Guy Verhofstadt, «Storia e Politica», a. III, n. 3, 2011, pp. 925-947.
83
Unione europea, Trattato di Lisbona che modifica il Trattato sull’Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea, in GU C 306, 17 dicembre 2007, pp. 34-35. Sui principali interventi istituzionali
del Trattato di Lisbona in ottica PESC/PESD, cfr. L.S. Rossi, Coerenza ed efficacia dell’azione esterna
dell’Unione europea: le innovazioni previste dal Trattato di Lisbona, in Laschi e Telò (a cura di), L’Europa
nel sistema internazionale, cit., pp. 289-303. Sull’approccio del Trattato costituzionale del 2004 alle missioni
di Petersberg, si vedano: R. Matarazzo, Le strutture istituzionali della PESD, in Ronzitti (a cura di), Le forze
di pace dell’Unione europea, cit., p. 43; Menotti, La politica di sicurezza europea fra la prima e la seconda
amministrazione Bush, cit., pp. 284-287; Id. e P. Brandimarte, Il difficile cammino della Pesd: sviluppi e
prospettive, in G. Vacca (a cura di), Il dilemma euroatlantico. Rapporto 2004 della Fondazione Istituto
Gramsci sull’integrazione europea, Roma, Nuova Iniziativa Editoriale, 2004, che rilevano comunque la
tendenza del testo a non affrontare in termini specifici le due principali minacce (il terrorismo e le armi di
distruzioni di massa), perdendosi in discorsi eccessivamente generici sulla PESD (p. 247).
84
Consiglio europeo, Dichiarazione del Consiglio europeo sul contributo della PESC, compresa la PESD,
alla lotta contro il terrorismo, allegato a Id., Conclusioni della Presidenza, in Consiglio dell’Unione europea,
Nota di trasmissione alla Presidenza, Bruxelles, 24 ottobre 2002, in RCUE, doc. 13463/02, p. 33.
85
Ivi, pp. 33-34.
107
conseguenza, deve essere fronteggiata con strumenti che appartengono a entrambe le
dimensioni.
L’ultimo tassello necessario per completare il mosaico è il reperimento dei mezzi
materiali con cui realizzare i progetti così tratteggiati. Negli ultimi mesi del 2002, Javier
Solana – in passato segretario generale NATO – è incaricato di negoziare con l’Alleanza
atlantica un accordo che consenta di utilizzare strumenti atlantici per le missioni PESD.
L’intesa, che prende il nome di Berlin Plus, è ratificata dal Consiglio europeo di
Copenaghen di dicembre, una volta chiarita la posizione di Paesi come la Turchia, membri
a pieno titolo della comunità atlantica ma esterni all’Ue e protagonisti di un processo di
adesione dagli esiti incerti86. A facilitare in qualche misura l’operazione è il parallelo
allargamento delle due realtà: in occasione del vertice di Praga del novembre 2002, la
NATO sollecita l’ingresso di Bulgaria, Estonia, Lituania, Lettonia, Romania, Slovacchia e
Slovenia, ampliando la rappresentanza dell’Europa dell’Est e finendo per tracciare, su quel
fronte, un confine identico a quello dell’Ue, ridisegnata fra il 2004 e il 200787. In concreto,
all’Unione europea è garantito l’accesso alle capacità di pianificazione NATO, con cui
potrà assumere il controllo e la direzione strategica dei dispositivi nel corso delle missioni.
Al contrario, il comando formale di tali strumenti è posto presso il Supreme Headquarter
Allied Powers Europe (SHAPE), rimanendo così espressione dell’autorità atlantica88. Ue e
NATO avviano contestualmente forme di consultazione e coordinamento specifiche sulla
lotta al terrorismo, che si concretizzano nelle riunioni fra comitati di funzionari ed esperti
nel 2002-200389.
3.3 Il rilancio della cooperazione giudiziaria: una nuova nozione di terrorismo
Sul fronte interno della lotta al terrorismo, che si inquadra nello SLSG, i governi
86
Consiglio europeo, Conclusioni della Presidenza, in Consiglio dell’Unione europea, Nota della
Presidenza, Bruxelles, 29 gennaio 2003, in RCUE, doc. 15917/02, allegato II. Sul piano politico, la trattativa
è sbloccata dalla nascita del governo Erdogan, che guida la Turchia su posizioni meno ostili alla
contaminazione fra NATO e Ue (cfr. Missiroli, La difesa europea, cit., pp. 50-51). La denominazione Berlin
plus è dovuta alla sede del summit NATO del 1996 che ha dato inizio al progetto.
87
Cfr. S. Frölich, L’Espansione della Comunità euroatlantica, in Parsi, Giusti e Locatelli (a cura di), Esiste
ancora la comunità transatlantica?, cit., pp. 182-196 e Clementi, L’Europa e il mondo, cit., pp. 183-184.
Sull’Alleanza atlantica in generale, cfr. Id., La NATO, Bologna, Il Mulino, 2002.
88
Si veda Monteleone, L’Unione europea tra prevenzione dei conflitti e intervento militare, cit., pp. 159-160.
89
Si vedano Consiglio dell’Unione europea, Nota di trasmissione del Consiglio, Bruxelles, 22 giugno 2002,
in RCUE, doc. 10160/2/02 REV 2, p. 7, Id., Nota di trasmissione del Consiglio, Bruxelles, 18 dicembre
2002, in RCUE, doc. 15428/1/02 REV 1, p. 4 e Id., Nota del Consiglio, Bruxelles, 17 giugno 2003, in RCUE,
doc. 10598/03, p. 5. Di terrorismo si tratta anche nei periodici vertici ministeriali Ue-NATO, cfr. per esempio
NATO-EU Ministerial Meeting, Madrid, 3 June 2003, in A. Missiroli (ed.), From Copenhagen to Brussels.
European Defence: Core Documents. Volume IV, Paris, Institute for Security Studies, Chaillot Paper n. 67,
December 2003, pp. 97-98.
108
europei rispondono all’11 settembre proseguendo nello sviluppo del versante “operativo”,
cioè il filone che – da TREVI in poi – si presenta come settore consolidato della
cooperazione europea. Rientra in questo ambito l’opera di contrasto del finanziamento dei
gruppi terroristici90, discussa nel corso del Consiglio GAI-Ecofin del 16 ottobre 2001:
vertice la cui ibrida natura istituzionale dimostra la trasversalità della questione rispetto
alla separazione fra politica ed economia su cui si regge l’Ue91. Accanto all’utilizzo a
scopo di antiterrorismo della Task Force Azione Finanziaria (Financial Action Task Force,
FATF), la principale misura è costituita dalla redazione e dal periodico aggiornamento di
liste contenenti i nomi di persone fisiche e giuridiche sottoposte al congelamento dei beni
collocati sul territorio dell’Unione92. Vale la pena precisare che l’approccio scelto prevede
una differenziazione fra i gruppi prevalentemente attivi al di fuori dell’Ue, per cui le
sanzioni finanziarie sono automatiche, e quelli “interni” – come l’ETA o l’IRA – nei
confronti dei quali l’ultima parola resta agli Stati membri. La motivazione risiede con ogni
probabilità nella volontà di concedere ai governi nazionali una certa libertà d’azione nei
confronti degli esponenti del terrorismo domestico, a testimonianza della riluttanza a
trasferire all’Ue le quote di sovranità legate alla sicurezza interna93. Il “metodo delle liste”
sarà ben presto sottoposto a contestazione per la segretezza che, almeno nella prima fase,
circonda la compilazione degli elenchi94 e per i ridotti strumenti detenuti dai soggetti
coinvolti per dimostrare la propria estraneità95. Negli anni successivi saranno introdotti
nuovi provvedimenti, tra cui si segnaleranno l’enucleazione di “un potere esteso di
90
Cfr. in generale: K.E. Davis, The Financial War on Terrorism, in Ramraj, Hor e Roach (eds.), Global AntiTerrorism Law and Policy, cit., pp. 179-198; M. Fiocca, Il terrorismo islamico come emergenza complessa:
quali risposte e O. Cucuzza, Criminalità e terrorismo: l’impatto sull’economia, entrambi in Iid. e C. Jean,
Terrorismo: impatti economici e politiche di prevenzione, Milano, F. Angeli, 2006, pp. 127-171 e pp. 173206 rispettivamente; V. FitzGerald, Global Financial Information, Compliance Incentives and Terrorist
Funding, in T. Brück (ed.), The Economic Analysis of Terrorism, London-New York, Routledge, 2007, pp.
246-261; Napoleoni, Terrorismo S.p.a., cit.
91
Occhipinti, The Politics of EU Police Cooperation, cit., p. 157 e F. Pastore, The Asymmetrical Fortress:
The Problem of Relations between Internal and External Security Policies in the European Union, in Anderson e Apap (eds.), Police and Justice Co-operation and the New European Borders, cit., p. 68.
92
Si vedano le posizioni comuni 2001/930/PESC e 2001/931/PESC, il regolamento 2580/2001 e la decisione
2001/927/CE del 27 dicembre 2001, tutti pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale del 28 dicembre 2001.
93
L’unica eccezione è rappresentata dall’Hofstadgroep, cellula islamista olandese autrice dell’assassinio del
regista Theo Van Gogh (su tale episodio cfr. L. Vidino, Al Qaeda in Europe. The New Battleground of
International Jihad, Amherst, Prometheus Books, 2006, pp. 337-364), inserita nella lista che comprende le
formazioni extra-Ue.
94
Occhipinti, The Politics of EU Police Cooperation, cit., pp. 157-160 e pp. 179-180 e J.-C. Paye, La fine
dello Stato di diritto (2004), Roma, Manifestolibri, 2005, p. 57.
95
Si vedano le diverse posizioni assunte da P. Bonetti, Terrorismo, emergenza e costituzioni democratiche,
Bologna, Il Mulino, 2006, pp. 91-101, S. Dambruoso, Le basi normative della lotta al terrorismo
internazionale, in F. Cappè, F. Marelli e A. Zappala (a cura di), La minaccia del terrorismo e le risposte
dell'antiterrorismo, Milano, Angeli, 2006, pp. 147-150 e R. Barberini, Il giudice e il terrorista. Il diritto e le
sfide del terrorismo globale, Torino, Einaudi, 2008, pp. 121-125.
109
confisca” (che consentirà di sequestrare beni non provenienti da reati, ma comunque
funzionali allo svolgimento di attività terroristiche)96 e una più ampia strategia di lotta al
finanziamento del terrorismo97.
Un campo d’azione classico della cooperazione europea contro il fenomeno
terroristico è lo scambio di informazioni. Grazie a decisioni assunte nel corso del decennio
precedente, nel 2001-02 l’Unione può contare su due agenzie specializzate in queste
funzioni. Europol ed Eurojust, quest’ultima operativa dalla primavera del 2002,
contribuiscono a rendere più fluida la circolazione di dati e notizie fra le autorità
giudiziarie e di polizia degli Stati membri. Dopo l’11 settembre, Europol – i cui poteri una
maggioranza bipartisan del Parlamento europeo vorrebbe estendere98 – rivoluziona
l’agenda dei propri impegni e istituisce una task force specializzata nell’antiterrorismo: la
percentuale di informazioni relative a tale materia crescerà del 76% nel 200399, ma di lì a
pochi mesi la task force sarà curiosamente smantellata. Anche nel caso di Eurojust il
terrorismo diventa rapidamente una delle questioni prioritarie per l’agenzia, scontrandosi
però con le difficoltà legate agli scarsi poteri di cui i suoi funzionari godono nei confronti
dei loro interlocutori nazionali, che tendono talvolta a sottrarsi all’impegno alla
condivisione delle informazioni100.
L’aspetto da evidenziare è tuttavia un altro. Il grande impatto politico e mediatico
degli attentati dell’11 settembre offre alle istituzioni Ue l’occasione per colmare due lacune
che da tempo affliggono il processo d’integrazione: l’assenza di una definizione condivisa
di terrorismo e l’impossibilità di assicurare l’estradizione dei responsabili di atti
terroristici. Si è già notato come le misure destinate a risolvere le due aporie siano inserite
96
Il riferimento è al duplice progetto presentato dalla Danimarca nel giugno del 2002 (Consiglio dell’Unione
europea, Nota di trasmissione, Bruxelles, 14 giugno 2002, in RCUE, doc. 9955/02 e Id., Nota di trasmissione, Bruxelles, 17 giugno 2002, in RCUE, doc. 9956/02), adottato – dopo serrate trattative – tra il 2005 e il
2006.
97
Id., Nota del Segretario generale/Alto Rappresentante e della Commissione, Bruxelles, 14 dicembre 2004,
in RCUE, doc. 16089/04.
98
Parlamento europeo, Discussioni, in APE, Bruxelles, sedute del 19 settembre 2001, del 12 novembre 2001
e del 12 dicembre 2001. Si noti che il confronto fra forze europeiste (popolari e socialisti) ed euroscettiche fa
premio sulle divisioni definite sull’asse destra-sinistra.
99
Consiglio dell’Unione europea, Nota dell’Europol, Bruxelles, 27 aprile 2004, in RCUE, doc. 8858/04, p. 5.
100
Cfr. su questo D. Flore, D’un reseau judiciaire européen à une juridiction pénale européenne: Eurojust et
l’émergence d’un système de justice pénale, in G. De Kerchove et A. Weyembergh (éds.), L’espace pénal européen: enjeux et perspectives, Bruxelles, Editions de l’Université de Bruxelles, 2002, pp. 9-30. Nel 2002 la
classifica dei reati vede in testa la frode (30%), seguita da traffico di stupefacenti (16%) e terrorismo (9%),
cfr. Consiglio dell’Unione europea, Nota del Segretario generale, Bruxelles, 8 maggio 2003, in RCUE, doc.
9124/03, pp. 11-12. L’anno successivo, l’ordine cambia: i casi di traffico di stupefacenti raggiungono quelli
di frode (22%) e gli interventi sul riciclaggio (8%) scavalcano quelli legati al terrorismo (6%), in presenza
comunque di una crescita notevole (50%) del numero totale di reati trattati dall’agenzia (Id., Nota del
Segretario generale, Bruxelles, 26 aprile 2004, in RCUE, doc. 8284/1/04 REV 1, pp. 31-34).
110
in calendario indipendentemente dall’offensiva di Al Qaeda, ma è indubbio che l’irruzione
sulla scena del gruppo di Bin Laden abbia l’effetto di accrescerne la desiderabilità e
accelerarne l’adozione101. La lotta europea al terrorismo abbandona così la veste di
cooperazione prevalentemente tecnico-operativa e prende finalmente di petto alcune
ambiguità politiche, giuridiche e ideali che ne hanno a lungo condizionato lo sviluppo.
La definizione di terrorismo è oggetto di un progetto di decisione quadro presentata
dalla Commissione il 19 settembre 2001, che manifesta l’intenzione di pronunciarsi non
solo sugli «atti terroristici diretti contro gli Stati membri», ma anche sui «comportamenti
adottati sul territorio dell’Unione europea che possono contribuire alla preparazione o alla
realizzazione di atti terroristici in paesi terzi»102. Il terrorismo è introduttivamente
tratteggiato come una minaccia per le libertà e i diritti fondamentali, come un «fenomeno
antico» che recentemente ha però assunto forme inedite. La «crescente sofisticazione» e
l’«ambizione feroce» dei terroristi, «gli sviluppi tecnologici» delle armi di offesa e
l’«attività di reti che operano a livello internazionale»103 sono gli assi portanti di un “nuovo
terrorismo” responsabile di attentati sempre più cruenti e sconcertanti. L’evoluzione in
senso transnazionale del terrorismo mette una volta di più a nudo le «differenze di
trattamento giuridico nei diversi Stati membri», dovute a legislazioni nazionali fra loro
eterogenee. L’obiettivo essenziale della proposta è «rafforzare le misure di diritto penale
relative alla lotta contro il terrorismo» e così «ravvicinare» gli ordinamenti degli Stati
membri104. La Commissione procede dunque nel solco tracciato vent’anni prima dagli
embrionali tentativi di cooperazione giudiziaria in materia penale, arrestatisi di fronte
all’assenza di una volontà politica sufficiente a vincere le resistenze nazionali.
Pur dividendosi sostanzialmente in due categorie – quelli che riconoscono il
terrorismo come reato autonomo e quelli che lo riconducono a reati comuni –, i sistemi
giuridici degli Stati concordano in fondo nell’assegnare un peso decisivo alle
«motivazioni» degli attori105. Questo è il punto che la Commissione intende sviluppare per
giungere a una definizione condivisa. La decisione quadro riconosce infatti l’esistenza di
101
Si vedano su questo G. De Kerchove, Préface a Bribosia e Weyembergh (éds.), Lutte contre le terrorisme
et droits fondamentaux, cit., p. 9, Occhipinti, The Politics of EU Police Cooperation, cit., pp. 182-183 e F.
Pastore, L’Europa della sicurezza interna. Sviluppi e problemi, in Vacca (a cura di), L’unità dell’Europa,
cit., pp. 225-226.
102
Commissione delle Comunità europee, Proposta di decisione quadro del Consiglio sulla lotta contro il
terrorismo, Bruxelles, 19 settembre 2001, in Registro on-line della Commissione europea (RCE, disponibile
all’indirizzo web: http://ec.europa.eu/transparency/regdoc/recherche.cfm?CL=it), doc. COM (2001) 521, p.
2.
103
Ivi, p. 3.
104
Ibidem.
105
Ivi, p. 7.
111
una serie di comportamenti che possono essere tenuti a fini terroristici oppure presentarsi
come reati comuni: omicidio, lesioni personali, sequestro, estorsione, rapina, vandalismo
urbano, possesso o fornitura di armi, diffusione di sostanze pericolose, interruzione di
servizi fondamentali, manomissione dei sistemi di informazione (e la minaccia di tutte le
precedenti azioni). L’elemento discriminante è la volontà di chi li compie: sono
terroristiche le azioni commesse «contro uno o più paesi, contro le loro istituzioni e
popolazioni, a scopo intimidatorio e al fine di sovvertire o distruggere le strutture politiche,
economiche o sociali del paese». Sono contestualmente enucleati – come reati specifici – la
direzione, la creazione, il sostegno e la partecipazione a organizzazioni che mirino a tali
obiettivi (art. 3)106.
Si opera in tal modo una netta divaricazione fra terrorismo e criminalità ordinaria,
fugando le incertezze che viceversa albergavano nelle formulazioni presenti nei Trattati e
nei testi sullo SLSG elaborati nel corso degli anni Novanta107. La Commissione non arriva
ovviamente a sdoganare l’interpretazione del terrorista come “perseguitato politico”, né a
riconoscere o legittimare le ragioni profonde e le cause scatenanti del terrorismo. Ma la
presa di coscienza che tale fenomeno si distingue dal crimine comune, proprio perché
colpisce – accanto ai cittadini, alle persone, agli interessi privati – le «istituzioni» e punta a
rovesciare «le strutture politiche, economiche e sociali», rappresenta in qualche modo
un’attestazione della “politicità” dell’agire e degli scopi dei terroristi. In termini penali,
però, questo elemento si traduce in un’aggravante, che implica l’adozione di sanzioni più
dure di quelle comminate per i corrispondenti reati ordinari108.
Riprendendo le considerazioni svolte nel capitolo precedente, si potrebbe affermare
che la Commissione propone una nozione di terrorismo posta a cavallo fra società civile e
Stato. È nella società civile che il fenomeno vede la luce, per le ragioni più varie, e si
consolida fino a sentirsi in grado di sferrare un attacco allo “Stato”, qui inteso
genericamente come la sfera politico-istituzionale i cui equilibri i terroristi cercano di
alterare o ribaltare. Si noti peraltro come questa prima redazione del testo si muova entro
l’orizzonte dominato dallo Stato-nazione: l’accento si posa sui «paesi» e sulle loro
«popolazioni», ignorando i soggetti politico-istituzionali, economici e sociali di ordine
106
Ivi, p. 17.
C. Fijnaut, Police Co-operation and the Area of Freedom, Security and Justice, in Walker (ed.), Europe’s
Area of Freedom, Security and Justice, cit., p. 272.
108
Ciò non toglie che nella pratica la distinzione fra terrorismo e criminalità possa apparire più sfumata. Cfr.
su questo: M. Anderson, What Future for Counter-Terrorism as an Objective of European Police Cooperation?, in Id. e Apap (eds.), Police and Justice Co-operation and the New European Borders, cit., p.
237; S. Dambruoso, Le basi normative della lotta al terrorismo internazionale, cit., pp. 143-144; Barberini, Il
giudice e il terrorista, cit., pp. XVI e p. 181.
107
112
sovra- o transnazionale.
Erigendo una barriera nei confronti del crimine comune, questa definizione di
terrorismo scopre il fianco a critiche e rischi di segno opposto, emersi nel corso dell’iter di
approvazione del provvedimento. Una casistica così ampia di reati, il cui tratto essenziale è
la connessione con obiettivi fondamentalmente politici, potrebbe finire per ricomprendere
(e quindi perseguire penalmente) fenomeni politici che con quelli terroristici non
vorrebbero essere confusi. Tale scenario è messo in luce nel corso della riunione del CATS
del 5-6 novembre 2001: per un verso, appare incerto il confine fra terrorismo e alcune attività belliche inserite in conflitti internazionali; per l’altro, la definizione potrebbe essere
riferita anche a certe forme di pressione e contestazione esercitate nei confronti delle
istituzioni dai movimenti politici o sociali che, soprattutto nelle loro versioni più estreme,
si situano talvolta ai limiti della legalità, ma non per questo sono necessariamente
etichettabili come terroristici109.
Quanto al primo versante del problema, si affaccia immediatamente l’intenzione di
integrare il testo con un passaggio volto a escludere esplicitamente l’accostamento tra terrorismo e operazioni di varia natura tipiche dei conflitti armati o delle aree militarmente
occupate. Il secondo aspetto si annuncia più delicato, per di più in un frangente storico
segnato dall’espansione dell’antagonismo sociale e dei gruppi che raccolgono e mobilitano
il dissenso verso gli squilibri della globalizzazione110. Gli animi sono ulteriormente
esacerbati dalla richiesta britannica di inserire un richiamo alla nozione di “dolo
terroristico” contenuta nelle convenzioni ONU, che allude al generico «scopo di intimidire
o di costringere un governo o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal
compiere qualsiasi atto». Alla ricerca di un compromesso, la presidenza belga suggerisce
di introdurre avverbi che restringano il campo, contemplando cioè gli obiettivi di
«intimidire seriamente la popolazione», «costringere indebitamente i poteri pubblici o
un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere qualsiasi atto» e
109
Consiglio dell’Unione europea, Risultati dei lavori del Comitato dell’articolo 36, Bruxelles, 8 novembre
2001, in RCUE, doc. 12647/2/01 REV 2, p. 2 e p. 9.
110
Si vedano, pur con accenti diversi: A. Dal Lago, Polizia globale. Guerra e conflitti dopo l’11 settembre,
Verona, Ombre Corte, 2003, che contesta il concetto di «netwar», o guerra alle reti, con cui l’autorità
costituita esalta un’asserita esigenza di sicurezza, tutelata attraverso l’assimilazione di terrorismo e
antagonismo come questioni di ordine pubblico (pp. 71-90); Paye, La fine dello Stato di diritto, cit., pp. 4585; Occhipinti, The Politics of EU Police Cooperation, cit., pp. 133-135, Burgio, Guerra, cit., pp. 133-134;
S. De Biolley, Liberté et sécurité dans la construction de l’espace européen de justice pénale, in De
Kerchove e Weyembergh (sous la direction de), L’espace pénal européen, cit., p. 172 e pp. 183-186, che
insiste sull’uso del diritto penale come strumento di controllo sociale e denuncia il tentativo compiuto nel
2002 dalla presidenza spagnola per connettere le sfere dell’antagonismo sociale e del terrorismo attraverso un
formulario comune per lo scambio di informazioni (cfr. Consiglio dell’Unione europea, Nota della
Presidenza, Bruxelles, 29 gennaio 2002, in RCUE, doc. 5712/02).
113
«compromettere gravemente, in altro modo o distruggere le strutture politiche, economiche
o sociali di un paese o di un’organizzazione di diritto internazionale pubblico», senza
eliminare con ciò una certa indeterminatezza di fondo111.
Al termine di varie di oscillazioni lessicali, l’impasse è sbloccato da un intervento di
carattere politico. Il Consiglio GAI del 16 novembre 2001 raggiunge l’accordo su una
dichiarazione da allegare al testo del provvedimento:
Il Consiglio dichiara che la decisione quadro sulla lotta contro il terrorismo riguarda atti che tutti
gli Stati membri dell'Unione europea reputano essere gravissime violazioni delle loro
legislazioni penali perpetrate da persone i cui obiettivi costituiscono una minaccia per le loro
società democratiche che rispettano lo stato di diritto e i valori su cui si fondano dette società.
Essa deve essere intesa in questo senso e non può essere interpretata in modo da sostenere che i
comportamenti di coloro che hanno agito per preservare o ripristinare i suddetti valori
democratici, come è avvenuto in particolare in taluni Stati membri durante la seconda guerra
mondiale, possano ora essere considerati come atti di terrorismo. E nemmeno si può interpretare
nel senso di giungere ad incriminare, per motivi di terrorismo, le persone che esercitano il loro
legittimo diritto a manifestare le loro opinioni anche qualora esse commettano reati
nell'esercitare detto diritto112.
Si persegue così un duplice scopo: da un lato, si distingue il terrorismo dalle operazioni
tipiche dei movimenti di resistenza, evocando l’esperienza dell’opposizione europea al
nazifascismo113; dall’altro, ci si propone di venire incontro alle ragionevoli obiezioni di chi
111
Consiglio dell’Unione europea, Risultati dei lavori del Comitato dell’articolo 36, Bruxelles, 8 novembre
2001, cit., p. 9 (corsivi del redattore). Cfr. anche A. Weyembergh, L’impact du 11 septembre sur l’équilibre
sécurité/liberté dans l’espace pénal européen, in Bribosia e Weyembergh (sous la direction de), Lutte contre
le terrorisme et droits fondamentaux, cit., p. 167.
112
Consiglio dell’Unione europea, Risultati dei lavori del Consiglio GAI, Bruxelles, 19 novembre 2001, in
RCUE, doc. 12647/4/01 REV 4, p. 3.
113
Dambruoso, Le basi normative della lotta al terrorismo internazionale, cit., voce isolata in un coro di
consensi, prende le distanze da questo passaggio, che escluderebbe alcune condotte proprie della guerriglia e
della guerra di liberazione che fanno leva sulla paura della popolazione e assumono quindi tratti terroristici
(pp. 143-144). Tale considerazione è condivisibile sul piano concettuale, perché ricorda il possibile intreccio
fra le tattiche terroristiche e quelle della guerra civile, della resistenza armata, ecc. D’altra parte, si tratta di
valutare fino a che punto un’interpretazione di tipo storico-politico debba essere tradotta in termini giuridici:
emerge cioè la distanza che separa l’attività dello studioso da quelle del legislatore e del giudice. Questo
aspetto è indagato da C. Ginzburg, Il giudice e lo storico. Considerazioni a margine del processo Sofri,
Milano, Feltrinelli, 2006 (aggiornamento della precedente edizione: Torino, Einaudi, 1991) che, muovendo
dal caso concreto del processo a carico di Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani e Ovidio Bompressi per
l’omicidio del commissario Luigi Calabresi, mette autorevolmente in luce le affinità e le divergenze fra il
modo di operare della storiografia e quello della giustizia penale nella ricostruzione dei fatti, nella ricerca
delle prove, nell’utilizzo delle fonti. Il punto che qui si vuole sottolineare è però un altro, che Ginzburg si
limita a sfiorare, rilevando en passant il diritto dello storico a «scorgere un problema là dove un giudice
deciderebbe un “non luogo a procedere”» (p. 20) e cioè che le discipline scientifiche individuano nessi di
causa ed effetto, registrano dinamiche, raggruppano oggetti, soggetti ed eventi, attribuiscono patenti ed etichette secondo i criteri di valutazione e il linguaggio che paiono meglio descrivere la realtà, senza
114
difende strenuamente il diritto a manifestare il dissenso nell’arena pubblica. Nella
medesima ottica devono essere interpretate alcune modifiche o integrazioni linguistiche
apportate all’elenco dei reati nel testo finale, approvato formalmente solo nel giugno 2002:
le lesioni inflitte devono essere «gravi» e i danneggiamenti a cose si trasformano in
«distruzioni di vasta portata» che, al pari della diffusione di sostanze pericolose o degli
incendi, devono «mettere a repentaglio vite umane o causare perdite economiche
considerevoli»114. Vengono così accolte le considerazioni svolte dal Parlamento europeo
sulla necessità di contenere gli effetti potenzialmente dirompenti del progetto iniziale sull’insieme delle libertà civili115. Di fronte alle critiche provenienti dalla Sinistra Europea, il
commissario Vitorino difende il provvedimento, sottolineando che, alla luce degli
emendamenti, l’impossibilità di ricorrere alla decisione quadro per perseguitare
l’antagonismo sociale è ormai di «una chiarezza cartesiana» e intercettando su questa
lettura il consenso della maggioranza dei parlamentari europei116. A completare il quadro
definitorio arriverà qualche anno dopo una precisazione – implicita nella decisione quadro
del 2002, che parla di «singoli individui» e «gruppi di individui» – volta a negare la
sussistenza del concetto di “terrorismo di Stato”117.
In parallelo con il processo decisionale appena descritto si compie anche la parabola
del mandato di arresto europeo (d’ora in poi MAE), cioè lo strumento legislativo
individuato come rimedio alla piaga della mancata estradizione dei terroristi. La storia
degli ultimi decenni mostra come l’assenza di una definizione comune di reato terroristico
abbia ricadute sulla possibilità di estradare i soggetti coinvolti negli attentati, le cui
domande di asilo politico fanno leva sulla benevola disponibilità dei governi a riconoscere
come dogma inviolabile il principio della “doppia incriminazione”, secondo cui uno Stato
preoccuparsi dell’eventualità che le condotte studiate corrispondano o meno a reati punibili sulla base di un
certo codice, prospettiva che, al contrario, vincola strettamente il giudice e il legislatore (nel nostro caso,
l’Unione europea). Lo studioso, a differenza del giudice, può dunque permettersi di definire “terroristiche” le
azioni di un soggetto senza che da ciò discendano conseguenze penali.
114
Consiglio dell’Unione europea, Atti legislativi e altri strumenti. Decisione quadro sulla lotta al
terrorismo, Bruxelles, 18 aprile 2002, in RCUE, doc. 6128/02, pp. 6-7.
115
Parlamento europeo, Relazione sulla proposta della Commissione concernente la decisione quadro del
Consiglio sulla lotta contro il terrorismo e sulla proposta della Commissione concernente la decisione
quadro del Consiglio relativa al mandato d'arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri,
Commissione per le libertà e i diritti dei cittadini, Relatore: G. Watson, 14 novembre 2001, in APE, doc. A50397/2001.
116
Id., Discussioni, in APE, Bruxelles, seduta del 28 novembre 2001, si vedano in particolare gli interventi di
Vitorino e del deputato italiano Di Lello Finuoli in rappresentanza della Sinistra Unitaria Europea. Cfr.
inoltre le valutazioni di taglio eminentemente giuridico, secondo cui occorre discernere fra le previsioni della
decisione quadro e dei suoi articoli, e la dichiarazione politica d’indirizzo, il cui valore è decisamente più
ridotto se non nullo (Bonetti, Terrorismo, emergenza e costituzioni democratiche, cit., pp. 101-107).
117
Consiglio dell’Unione europea, Nota del Segretariato, Bruxelles, 26 maggio 2003, in RCUE, doc.
9864/03, parzialmente declassificato con il doc. 9864/03 EXT 1 del 14 febbraio 2008, punto 9.
115
può rifiutare l’estradizione per un reato non previsto nel proprio ordinamento. Questo è
anche il caso del terrorismo, almeno fino all’entrata in vigore della decisione quadro del
2002. Operando sinergicamente con quest’ultima, il MAE si propone di sottrarre ogni
scappatoia ai terroristi e ai governi con loro solidali.
Il progetto ha in realtà un raggio d’azione molto più ampio e generale, poiché nasce
come misura destinata a intervenire su svariate categorie di reati, la maggior parte dei quali
attribuiti alla delinquenza ordinaria. Dopo l’11 settembre, tuttavia, il testo acquisisce
inevitabilmente una marcata carica antiterroristica, al punto da essere licenziato dalla
Commissione insieme a quello sul reato di terrorismo118. L’elemento-cardine del
provvedimento è l’applicazione del principio del reciproco riconoscimento, nel quale da
più parti si individua non a torto la «pietra angolare»119 o la «chiave di volta»120 della
costruzione dello spazio giuridico europeo all’inizio del nuovo millennio. L’esito di tale
impostazione sarebbe la creazione di un canale diretto fra le autorità giudiziarie degli Stati
membri, che gestirebbero la posizione degli imputati e dei condannati in autonomia
pressoché totale dalle istituzioni politiche o amministrative degli Stati coinvolti.
In concreto, la magistratura di uno Stato membro emetterebbe una richiesta di arresto
(o consegna, nel caso la persona sia già detenuta) che i colleghi degli altri Stati Ue
dovrebbero eseguire obbligatoriamente sul proprio territorio, in virtù dell’impegno
generale a riconoscere le decisioni giudiziarie assunte negli altri ordinamenti europei. Il
rifiuto dell’esecuzione sarebbe opponibile solo in alcuni casi determinati a priori, tra cui
l’intervento di provvedimenti di amnistia, la sussistenza di immunità, il mancato rispetto
del principio di competenza territoriale o di non duplicazione del giudicato (ne bis in idem)
e la carenza di informazioni tecniche richieste dalla procedura. Nell’idea della
Commissione, infine, il MAE sarebbe utilizzabile per tutti i reati, salvo quelli che ciascuno
Stato decida di escludere per mezzo di un elenco preventivamente stilato (metodo della
lista negativa). Tale possibilità è immaginata soprattutto in riferimento a questioni
eticamente sensibili, come aborto o eutanasia, che alcuni paesi considerano reati e altri
118
Commissione delle Comunità europee, Proposta di decisione quadro del Consiglio relativa al mandato
d''arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri, Bruxelles, 19 giugno 2001, in RCE, doc.
COM (2001) 522. Una bozza di riforma della procedura di estradizione è stata precedentemente redatta dalla
Svezia, allo scadere del proprio semestre di presidenza (Consiglio dell’Unione europea, Nota di trasmissione,
Bruxelles, 13 giugno 2001, in RCUE, doc. 9750/01), ma ben presto superata dagli eventi.
119
Si veda in particolare l’intervento del commissario Vitorino in Parlamento europeo, Discussioni, in APE,
Strasburgo, seduta dell’11 febbraio 2004.
120
Commissione delle Comunità europee, Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento
europeo sul reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie in materia penale e il rafforzamento della
reciproca fiducia tra Stati membri, Bruxelles, 19 maggio 2005, in RCE, doc. COM (2005) 195, p. 2.
116
hanno invece liberalizzato in seguito ad ampi dibattiti pubblici. Fatta salva questa clausola,
non è contemplato alcun potere discrezionale per i governi. L’unico modo in cui questi
ultimi potrebbero conservare la facoltà di decidere caso per caso sul destino dei terroristi
sarebbe la decisione di menzionare il terrorismo tra i reati esclusi dal MAE, ipotesi che –
nelle settimane immediatamente successive all’11 settembre – appare politicamente
insostenibile.
La riforma prospettata è così radicale e ambiziosa che non si può escludere il rischio
che, nelle trattative fra istituzioni europee e Stati nazionali, venga fortemente
ridimensionata, se non abbandonata, come avvenuto in passato in casi analoghi. Il
Consiglio GAI del 20 settembre si sente dunque in dovere di ribadire che – a prescindere
dalla sorte che toccherà al progetto del MAE nel suo insieme – esiste una ferma volontà
politica «di soprassedere al requisito della doppia incriminabilità per i reati di
terrorismo»121, salvando il principio di reciproco riconoscimento per lo meno in relazione
all’urgenza del momento. E in effetti il cammino del provvedimento risulta accidentato. Le
prime divergenze si registrano a proposito del metodo della lista negativa, sostenuta da
Spagna e Gran Bretagna, ma osteggiata dalla Francia, che ottiene di veder rovesciato
l’impianto del MAE. La presidenza belga elabora così una lista di reati cui si applicherà il
meccanismo automatico sopra descritto, mentre per tutti gli altri resteranno in vigore le
tradizionali regole sull’estradizione. A metà novembre 2001, il nuovo elenco arriva a
contenere 32 reati, fra cui il terrorismo, per la cui definizione si rimanda alla decisione
quadro su cui le istituzioni europee stanno nel frattempo lavorando. Quando lo scoglio
sembra aggirato, l’Italia comunica la propria contrarietà, sostenendo che il MAE dovrebbe
limitarsi, almeno inizialmente, ai reati più gravi, identificati con i primi sei della lista122.
Questa proposta di riformulazione non influisce direttamente sulla possibilità di
estradare i terroristi, perché il loro capo di imputazione fa parte anche dell’elenco ristretto.
Verrebbero tuttavia espunte alcune condotte potenzialmente collaterali all’azione dei
gruppi terroristici (riciclaggio di denaro, omicidio volontario, rapimento, traffico di materie
nucleari e radioattive, dirottamento e sabotaggio), che potrebbe essere difficile perseguire
avendo a disposizione solo la – pur ampia – nozione di reato terroristico esaminata in
precedenza. A ciò si sommano le perplessità sulla retroattività del MAE, proposta dalla
Commissione e accolta dalla maggioranza del Consiglio, e che trova tuttavia l’opposizione
121
Consiglio dell’Unione europea, Risultati dei lavori del Consiglio (Giustizia e Affari interni), Bruxelles, 25
settembre 2001, in RCUE, doc. 12156/01, p. 2.
122
Id., Nota del Comitato dei Rappresentati Permanenti, Bruxelles, 4 dicembre 2001, in RCUE, doc.
14867/01.
117
di almeno tre paesi, propensi a stabilire un termine a quo per l’applicazione del nuovo
strumento. Francia e Austria suggeriscono di adottarlo solo per reati commessi dopo
l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht, che definisce l’impalcatura giuridica,
procedurale e istituzionale entro cui il MAE si troverebbe a operare. L’Italia ipotizza che
tale limite coincida con la data di entrata in vigore del provvedimento stesso. La sostanza è
che, se il Consiglio sposasse l’idea di contenere la retroattività, con la prima opzione
potrebbero sfuggire al MAE tutti i soggetti attivi nella stagione del terrorismo “storico”
(anni Settanta-Ottanta); della seconda, in linea teorica, potrebbero addirittura beneficiare
gli attentatori dell’11 settembre.
Nell’esporre le ragioni delle proprie richieste, i governi dissenzienti – e in particolare
quello italiano – attingono a diversi registri retorici. A un primo livello, le perplessità sul
MAE vengono sviluppate attraverso argomenti di carattere politico-ideale, che affondano
alternativamente le proprie radici nelle convinzioni euroscettiche o antieuropeiste di alcune
forze politiche123, nel richiamo allo scarso rispetto che il nuovo istituto giuridico
accorderebbe alle garanzie dei soggetti interessati, oppure nell’affermazione del “primato
della politica” e degli organi elettivi rispetto alla magistratura. Si noti peraltro che, mentre
l’enfasi sul garantismo raccoglie l’eredità del pensiero costituzionale e liberale, e della sua
critica ai possibili abusi da parte dei detentori del potere nei confronti degli individui, i
quali trovano nella divisione dei poteri (e di fatto in quello giudiziario) il principale
baluardo della propria libertà, la tesi che sostiene la prevalenza dell’autorità politica su
quella giudiziaria si muove in direzione diametralmente opposta. Essa dipinge infatti una
sorta di “dispotismo elettivo”, assai più vicino alla dottrina di Rousseau che a quella di
Montesquieu124.
A un secondo livello, sono invece più direttamente invocati alcuni pretesi interessi
nazionali. A causa della conclamata eterogeneità dei sistemi giuridici europei e in vista
dell’allargamento a Est, cioè a paesi nei quali gli organi politici tenderebbero a controllare
quelli giudiziari, il MAE potrebbe diventare uno strumento di persecuzione politica
123
Si pensi alla Lega Nord, particolarmente polemica nel confronti dell’europeismo del ministro degli Esteri
Renato Ruggiero, su cui si veda V. Castronovo, L’avventura dell’unità europea, Torino, Einaudi, 2004, pp.
218-220. Sull’atteggiamento leghista verso l’Ue cfr. in generale M. Piermattei, «Più lontani da Roma più
vicini all’Europa»: la Lega Nord e l’integrazione europea (1988-1998), in F. Di Sarcina, L. Grazi e L.
Scichilone (a cura di), Europa vicina e lontana. Idee e percorsi dell’integrazione europea, Firenze, CET,
2008, pp. 113-124.
124
P. Pasquino, Uno e trino. Indipendenza della magistratura e separazione dei poteri. Perché le
maggioranze possono rappresentare una minaccia per la libertà, Milano, Anabasi, 1994, pp. 21-39. Cfr. in
argomento i punti di vista di A. Pizzorno, Il potere dei giudici. Stato democratico e controllo della virtù,
Roma-Bari, Laterza, 1998 e C. Guarnieri, Giustizia e politica. I nodi della Seconda Repubblica, Bologna, Il
Mulino, 2003, pp. 28-44
118
indebitamente utilizzato dal governo di uno Stato membro contro tutti i cittadini Ue125. Le
modifiche relative alla lista dei reati e soprattutto sui tempi di applicazione, infine,
inducono alcuni osservatori a ritenere che l’atteggiamento italiano risponda anche a
interessi personali di alcuni esponenti politici. Il MAE sarebbe inapplicabile, tra gli altri, ai
reati di corruzione – settimo della lista, cioè la prima vittima della sforbiciata italiana – e di
razzismo e xenofobia, che per motivi diversi appaiono potenzialmente associabili ai
comportamenti di alcuni membri del governo126.
Che sia soprattutto l’Italia a porre il veto al MAE appare con chiarezza all’inizio di
dicembre, quando una nota del Consiglio specifica che quattordici delegazioni e la
Commissione sono ormai d’accordo sul testo, scaricando indirettamente su quella italiana
le colpe della mancata adozione del provvedimento127. Come spesso accade in questi mesi
cruciali, è la presidenza belga a lavorare per ricucire lo strappo, sia nelle sedi istituzionali
Ue, sia in occasione della visita del premier Verhofstadt a Roma l’11 dicembre, in
preparazione del Consiglio europeo di Laeken128. La soluzione è rappresentata dalla
valorizzazione di una proposta formulata nei mesi precedenti dal Lussemburgo, in base alla
quale ciascuno Stato membro, al momento della formale adozione della decisione quadro
125
Questo pericolo è ipotizzato dal ministro della Giustizia italiano Roberto Castelli (cfr. R. Polato, Mandato
di arresto Ue, l’Italia non cede, «Corriere della Sera», 7 dicembre 2001, p. 11). Per un inquadramento del
problema, si vedano V. Grevi, Il «mandato di arresto europeo» tra ambiguità politiche e attuazione
legislativa, «Il Mulino», a. LI, n. 1, gennaio-febbraio 2002, pp. 119-130, e – più in generale – P. Borgna e M.
Cassano, Il giudice e il principe. Magistratura e potere politico in Italia e in Europa, Roma, Donzelli, 1997,
in particolare pp. 107-183.
126
Tracce di razzismo o xenofobia sono da taluni individuati in alcuni passaggi di discorsi pronunciati da
personalità affiliate alla Lega Nord e la possibilità che il MAE sia utilizzato per colpirle penalmente è
paventata anche dai ministri Castelli (cfr. E. Caiano, Castelli: non svenderò né l’Italia né la Padania,
«Corriere della Sera», 9 dicembre 2001, p. 12) e Buttiglione (G. Fregonara, Buttiglione: vogliono ricattarci
ma hanno sbagliato i loro calcoli, «Corriere della Sera», 8 dicembre 2001, p. 2). L’ipotesi della corruzione è
stata invece sollevata, in anni precedenti, a proposito dell’attività di imprenditore svolta in Spagna dal
presidente Silvio Berlusconi, ma a tale scenario le fonti governative non accennano esplicitamente. A
distanza di qualche tempo, la questione sarà lambita da B. Garzón, Un mondo senza paura (2005), Milano,
Baldini Castoldi Dalai, 2005, volume in cui il magistrato spagnolo – protagonista di numerose inchieste sulla
corruzione della politica spagnola e di un’indagine su società legate al gruppo Fininvest – tratta sia della
posizione di Berlusconi, illustrando i motivi tecnico-giuridici che gli consentiranno di evitare la chiamata in
giudizio in Spagna (pp. 40-41), sia della vicenda del MAE (pp. 176-177), ma senza stabilire una connessione
diretta tra le due. Questo aspetto della vicenda è evocato ripetutamente nel Parlamento europeo, in cui si
svolgono animati scontri dialettici tra destra e sinistra (cfr. Parlamento europeo, Discussioni, in APE,
Strasburgo, seduta del 12 dicembre 2001, in particolare gli interventi degli onorevoli M. Schulz, socialista
tedesco, e A. Tajani, popolare italiano).
127
Consiglio dell’Unione europea, Nota del Consiglio, Bruxelles, 10 dicembre 2001, in RCUE, doc.
14867/1/01 REV 1. Nella relazione Watson su lotta al terrorismo e MAE, più volte citata, il Parlamento
europeo avanza la richiesta di prendere in considerazione l’ipotesi della cooperazione rafforzata nel caso
l’accordo a 15 non sia praticabile, opzione non esclusa dal commissario Vitorino né, per certi versi
sorprendentemente, da alcuni parlamentari del PPE, cioè il gruppo cui fanno riferimento alcuni partiti della
coalizione di governo in Italia (Parlamento europeo, Discussioni, in APE, Bruxelles, seduta del 28 novembre
2001).
128
Cfr. De Lobkowicz, L’Europe et la sécurité intérieure, cit., pp. 184-185.
119
sul MAE, avrà la possibilità di allegare una dichiarazione in cui rendere nota l’introduzione
di un termine a quo che limiti la retroattività del dispositivo. L’Italia – al pari dell’Austria
– sceglie di indicare la data di entrata in vigore del MAE, cioè l’estate del 2002. La Francia
opta invece per il 1° novembre 1993129.
Lasciando da parte ogni valutazione sul cambio di linea dell’Italia, che baratta
l’accettazione della lista completa di 32 reati con la garanzia sulla mancata retroattività, da
tutto ciò consegue che – come taluni fin dall’inizio temevano – dal punto di vista dei
soggetti accusati o condannati per reati terroristici degli “anni di piombo”, e riparati in
Francia, la riforma del regime di estradizione sarà presumibilmente ininfluente. Pur
fornendo confortanti garanzie per il futuro, il MAE non è in grado di chiudere i conti con il
tormentato passato dell’Europa e della sua lotta armata130.
Nello stesso arco temporale, il problema dell’estradizione è oggetto della fattiva
collaborazione transatlantica avviata subito dopo l’11 settembre. Sfuggendo alla tentazione
dell’unilateralismo, accarezzata nei mesi precedenti e denunciata anche dalla Commissione
europea131, l’amministrazione Bush è protagonista di un fitto dialogo con le istituzioni
dell’Unione, che ha nella lotta al terrorismo uno dei settori privilegiati. Il 20 settembre il
segretario di Stato Colin Powell incontra a Washington una troika europea composta da
Solana, dal commissario Patten e dalla presidenza belga, rappresentata dal ministro degli
Esteri Michel. La riunione partorisce una dichiarazione congiunta che dedica ampio spazio
alle prospettive di cooperazione in ambito di giustizia e affari interni132. Sulla base di
queste premesse, nel febbraio 2002 il Consiglio GAI dà mandato alla presidenza di
129
Consiglio dell’Unione europea, Nota del Segretario generale, Bruxelles, 18 giugno 2002, in RCUE, doc.
10085/02 e Id., Nota del Segretario generale, Bruxelles, 18 giugno 2002, in RCUE, doc. 10085/02 ADD 1.
Per il testo definitivo del MAE, approvato il 13 giugno 2002, si veda Id., Atti legislativi ed altri strumenti,
Bruxelles, 7 giugno 2002, in RCUE, doc. 7253/02 (con l’errata corrige, doc. 7253/02 COR 7 del 12 giugno
2002).
130
L’impossibilità di usufruire del MAE per colpire accusati e condannati per terrorismo latitanti in Francia
era in qualche misura messa nel conto dal portavoce del commissario Vitorino già nel corso della
presentazione alla stampa della proposta di provvedimento, preventivando che non tutti gli Stati ne avrebbero
accettato la retroattività e citando come caso esemplare quello degli ex terroristi italiani fuggiti in Francia
(cfr. I. Caizzi, In Europa ci sarà un mandato d’arresto unico, «Corriere della Sera», 20 settembre 2001, p.
13). Il ricorso francese alla deroga è spiegato da Friedrichs, Fighting Terrorism and Drugs, cit., con il
riferimento al principio per cui un presidente della Repubblica non assume posizioni tali da incidere sugli
effetti di decisioni prese da suoi predecessori (pp. 104-105). Nel caso in questione, la scelta da rispettare è
quella operata negli anni Ottanta da François Mitterrand, che ha costantemente rifiutato l’estradizione di
persone accusate di azioni terroristiche.
131
Commissione delle Comunità europee, Comunicazione della Commissione al Consiglio. Per un
potenziamento delle relazioni transatlantiche imperniate sulla strategia e il conseguimento dei risultati,
Bruxelles, 20 maggio 2001, in RCE, doc. COM (2001) 154, pp. 8-9.
132
Joint EU-US Ministerial Statement on Combating Terrorism, Brussels, 20 September 2001, in Rutten
(ed.), From Nice to Laeken, cit., p. 149. Gli altri filoni sono la sicurezza dei trasporti, la lotta al
finanziamento e ad altre forme di sostegno del terrorismo, il controllo su esportazione/non proliferazione di
armi e la sorveglianza su frontiere e documenti.
120
negoziare i contenuti di due convenzioni su estradizione e assistenza giudiziaria con gli
Stati Uniti133.
Gli accordi, siglati nell’aprile del 2003, permettono di rendere più agevole la
formazione di squadre investigative comuni, la richiesta di informazioni, gli accertamenti
bancari, ma soprattutto la consegna di soggetti sospettati o condanni per terrorismo134. Le
parti conservano il diritto di rigettare la domanda di estradizione per motivi generali –
principi costituzionali, interessi essenziali, ordine pubblico – o in virtù di ragioni più
specifiche, come il principio della doppia incriminazione. Le convenzioni incontrano un
«ampio consenso» all’interno del Consiglio135. Più cauto si rivela il Parlamento, che
esprime un giudizio complessivamente favorevole, lamentando tuttavia di essere stato
troppo a lungo ignorato nel corso delle trattative e sottolineando la necessità di rendere
«veramente reciproca» la cooperazione. Il sospetto è che gli USA possano fare un uso
egoistico degli accordi sottoscritti, conservando le informazioni in loro possesso e
abusando delle domande di estradizione per potersi occupare direttamente dei sospettati ed
evitare che siano indagati e/o processati in Europa136. Questo ipotetico scenario, secondo
alcuni commentatori, sarebbe frutto della volontà degli USA di affermare la propria
sovranità extraterritoriale, non tanto attraverso la pura esibizione della forza, quanto
favorendo la codificazione nel diritto internazionale della propria supremazia. Consentendo
la stipulazione di accordi come quelli appena esaminati, in cui le parti contraenti sono
caratterizzate da un’oggettiva asimmetria di ambizioni, risorse e potenzialità, l’Ue non
farebbe fatto altro che arrendersi alla presunta vocazione imperiale americana, contribuendo a formalizzarla137.
133
Per una discussione sulle competenze a trattare accordi internazionali in ambito GAI si veda S. Marquart,
La capacité de l’Union européenne de conclure des accords internationaux dans le domaine de la coopération policière et judiciaire en matière pénale, in G. De Kerchove e A. Weyembergh (sous la direction de),
Sécurité et justice: enjeu de la politique extérieure de l’Union européenne, Bruxelles, Editions de
l’Université de Bruxelles, 2003, cit., pp. 179-194. La decisione di redigere due testi distinti ma paralleli è
assunta solo nel novembre 2002 (Consiglio dell’Unione europea, Declassificazione parziale del documento
6438/1/02 REV 1, Bruxelles, 23 maggio 2002, in RCUE, doc. 6438/1/02 REV 1 EXT 1 e Id.,
Declassificazione parziale del documento 15726/02, Bruxelles, 13 ottobre 2005, in RCUE, doc. 15726/02
EXT 1).
134
Consiglio dell’Unione europea, Atti legislativi e altri strumenti, Bruxelles, 3 giugno 2003, in RCUE, doc.
9153/03 (e gli errata corrige del 6 giugno 2003 e 17 giugno 2003). Cfr. anche G. Stessens, The EU-US
Agreements on Extradition and on Mutual Legal Assistance: How to Bridge Different Approaches, in De
Kerchove e Weyemberg (sous la direction de), Sécurité et justice, cit., pp. 263-273.
135
Consiglio dell’Unione europea, Nota della Presidenza, Bruxelles, 2 giugno 2003, in RCUE, doc.
8296/2/03 REV 2, p. 1.
136
Parlamento europeo, Raccomandazione del Parlamento europeo al Consiglio sugli accordi tra UE e USA
in materia di cooperazione giudiziaria penale e di estradizione, Strasburgo, 4 giugno 2003, in APE, doc.
P5_TA (2003) 0239, punto D. Cfr. anche Id., Discussioni, in APE, Strasburgo, seduta del 14 maggio 2003,
interventi dei deputati Hernández Mollar (PPE) e Terrón i Cusí (PSE).
137
È la tesi di Paye, La fine dello Stato di diritto, cit., pp. 141-179.
121
Comunque la si voglia interpretare, la vicenda dà conto di una sostanziale identità di
vedute fra le due sponde dell’Atlantico circa gli aspetti giudiziari della lotta al terrorismo,
che acquista ancora più valore in una fase in cui i rapporti transatlantici si guastano per
altri motivi. A partire dall’estate del 2002 il dibattito sulla lotta al terrorismo cambia
natura, concentrandosi su questioni e prospettive che gli europei faticano a condividere, e
sfocia nella guerra in Iraq della primavera 2003. Il prossimo capitolo verterà sulle ragioni e
sulle modalità attraverso cui si incrina la forte solidarietà umana e politica mostrata dall’Ue
verso gli Stati Uniti colpiti duramente da Al Qaeda.
122
4. Gli Stati Uniti, l’Europa e le spaccature sulla guerra in
Iraq (2002-2003)
4.1 La guerra al terrorismo fra politica e morale: la “dottrina Bush”
L’autunno del 2002 rappresenta un momento di svolta nella lotta internazionale al
terrorismo, fino ad allora condotta su binari multilaterali. Un primo segnale si ha nel mese
di settembre, con la pubblicazione della nuova Strategia per la sicurezza nazionale (NSS
2002) da parte dell’amministrazione Bush1. Per certi versi, in questo testo trovano una sistematizzazione le mosse compiute nei primi mesi della “guerra al terrorismo” e sono
confermati alcuni dei tratti emersi nell’immediata reazione all’attacco: la risposta
coinvolge necessariamente mezzi di diversa natura e ha una durata non definibile a priori,
come riconosce il presidente Bush nell’introduzione2.
Il documento – destinato a porre le fondamenta per la cosiddetta “dottrina Bush” –
contiene d’altra parte aspetti innovativi, che riguardano soprattutto l’analisi delle minacce e
l’impostazione per affrontarle. Accanto ai conflitti regionali di lungo corso, tra cui quelli
israelo-palestinese e indo-pakistano, sono presi in esame con particolare rilievo il
terrorismo e l’uso di armi di distruzione di massa (weapons of mass destruction, concetto
espresso in seguito con l’acronimo WMDs). Si tratta di due pericoli originariamente
indipendenti, l’uno identificando la «violenza premeditata, ispirata a ragioni politiche ed
esercitata contro innocenti»3, l’altro richiamando la storia cinquantennale della deterrenza
nucleare. L’asse portante dell’intero documento, tuttavia, è costituito dall’eventualità che i
due fenomeni si intreccino, a causa di due dinamiche: da un lato, è ritenuta credibile la
volontà di acquisire o produrre WMDs espressa da alcuni gruppi terroristici; dall’altro, gli
strateghi americani paventano il rischio che la contiguità di alcuni Stati con il terrorismo
internazionale, fino a quel momento declinata in termini di sostegno finanziario e logistico,
possa contemplare in futuro anche la fornitura di materiali e sostanze utilizzabili per
attacchi con armi non convenzionali4. Anche per questo motivo, gli Stati Uniti annunciano
1
The National Security Strategy of the United States of America, Washington, September 2002. D’ora in poi
il documento sarà citato tramite la sigla NSS 2002.
2
Ibidem. L’anticipazione dei principali contenuti della NSS 2002 a un uditorio europeo si ha in occasione di
un discorso tenuto dal sottosegretario alla Difesa, Paul Wolfowitz, nel febbraio 2002 a Monaco (cfr. Speech
by Paul Wolfowitz, Munich, 2 February 2002, in Haine (ed.), From Laeken to Copenhagen, cit., pp. 22-29).
3
NSS 2002, p. 5 («premeditated, politically motivated violence perpetrated against innocents»). La traduzione, come per tutte le citazioni dalla NSS 2002, è del redattore.
4
L’eventualità è presa in considerazione anche in letteratura, cfr. per esempio M. Ignatieff, Libertà e
apocalisse, in Id. Il male minore, cit., pp. 209-240 e P. Cotta-Ramusino e M. Martellini, Il terrorismo con
armi di distruzione di massa, in Biancheri (a cura di), Il nuovo disordine globale, cit., pp. 79-88. In generale,
che non opereranno alcuna distinzione fra i terroristi e chiunque garantisca loro un aiuto5.
Dato il carattere inedito della minaccia – l’azione terroristica, compresa la sua
potenziale connessione con le WMDs, trascende la dimensione dell’equilibrio del terrore
tipico della guerra fredda, fondato sulla premessa di comportamenti razionali da parte di
tutti gli attori coinvolti – la strategia deve esplorare strade nuove. Il concetto centrale è
l’impegno a prevenire attacchi potenzialmente più sanguinosi dell’11 settembre: in questo
senso, il testo esprime con chiarezza l’intento di agire prima che gruppi terroristici o “Stati
canaglia” (rogue states) abbiano la possibilità di colpire obiettivi americani. L’opzione
della prevenzione (preemption) è da tempo patrimonio della politica estera statunitense6,
ma occorre ridefinire il significato di “minaccia imminente” che la giustifica7. Il fatto che i
voli di linea, eventualmente corredati di WMDs, possano diventare vettori del terrore
sconsiglia di ridurre la nozione di minaccia imminente a un tradizionale attacco militare
lanciato contro il proprio territorio. Al contrario, tale categoria deve annoverare anche i
semplici tentativi dei nemici di dare vita a un’organizzazione, addestrare i militanti in vista
di azioni terroristiche, procurarsi o sviluppare armi di offesa: con le parole di Bush, si tratta
di agire contro le minacce emergenti «prima che siano pienamente formate»8. Come
preciserà la successiva Strategia nazionale per la lotta al terrorismo, negli obiettivi della
prevenzione rientra anche quello di impedire che gruppi terroristici entrino in possesso di
WMDs9. Secondo la letteratura specialistica, questa svolta configurerebbe lo slittamento
teorico dal concetto di preemption (termine ancora utilizzato nella NSS 2002) a quello di
prevention, con il quale si indica appunto un intervento che, in termini temporali, può
precedere di molto il presunto attacco10.
sul tema delle armi di distruzione di massa si veda C. Stefanachi, La proliferazione di armi di distruzione di
massa: calcolo strategico e agenda internazionale, in Colombo e Ronzitti (a cura di), L’Italia e la politica
internazionale, cit., pp. 47-58.
5
NSS 2002, p. 5.
6
Cfr. J.L. Gaddis, Attacco a sorpresa e sicurezza. Le strategie degli Stati Uniti (2004), Milano, Vita e
Pensiero, 2005, secondo cui la dottrina della prevenzione risale al primo Ottocento e in particolare alle teorie
di John Quincy Adams, figlio del secondo presidente degli USA e a sua volta eletto per un mandato fra il
1825 e 1829 (pp. 15-38). L’approccio preventivo rappresenta cioè uno degli elementi di continuità della
politica estera americana, con l’eccezione del periodo dominato dalla figura di F.D. Roosevelt (pp. 39-65). In
riferimento alla lotta al terrorismo, si veda il precedente costituito da N. Livingstone, Proactive Responses to
Terrorism: Reprisals, Preemption, and Retribution, in Id. (ed.), Fighting Back, cit., pp. 109-131, che già
negli anni Ottanta ponderava la possibilità di interventi militari chirurgici per rimuovere la fonte della
minaccia terroristica (pp. 124-126).
7
NSS 2002, p. 15.
8
Ibidem.
9
National Strategy for Combating Terrorism, Washington, February 2003, p. 15. In seguito farò riferimento
a questo documento con la sigla NSCT 2003.
10
Si vedano la voce entusiastica di R. Kagan, Il diritto di fare la guerra. Il potere americano e la crisi di
legittimità (2004), Milano, Mondadori, 2004, in particolare la nota 2 a p. 71, e quella assai critica di M.W.
Doyle, Striking First. Preemption and Prevention in International Conflicts, Princeton-Oxford, Princeton
124
Sulle forme assunte dalla prevenzione, i testi sono in certa misura evasivi, riferendosi
genericamente alla necessità di «fermare» con «decisioni forti» e «tutte le risorse»
disponibili i terroristi o gli Stati individuati11. Accennando all’esigenza di dotarsi delle
risorse adatte a «condurre operazioni rapide e precise», e spiegando tuttavia che «[gli] Stati
Uniti non useranno la forza in tutti i casi»12, si lascia intendere che la soluzione privilegiata
è di carattere militare. Lo scenario della guerra preventiva, mai citato esplicitamente nei
documenti, inizia così ad aleggiare nel dibattito suscitato dalla nuova strategia
dell’amministrazione Bush13. Nel suo classico studio degli anni Settanta sul tema della
“guerra giusta”, Michael Walzer dedica un capitolo all’intervento preventivo,
subordinandone l’accettabilità a tre condizioni: i) l’intenzione manifesta di arrecare un
danno; ii) un certo grado di preparazione attiva che trasformi l’intento in un pericolo
imminente; iii) la sussistenza di una situazione in cui assumere una posizione di attesa, o
qualsiasi altro atteggiamento diverso dalla guerra, accresca enormemente i rischi14. La NSS
2002 sembra spingersi ben al di là di quanto ipotizzato dal filosofo americano, poiché
l’azione preventiva diventa, dopo l’11 settembre, una prassi standardizzabile, la linea
prevalente in politica estera, l’architrave di una nuova visione delle relazioni internazionali
più che una possibilità residuale cui ricorrere in momenti eccezionali (e condizionata
dall’imminenza dell’attacco). Questa impostazione ha inoltre la conseguenza di accentuare
l’incertezza in cui operano gli attori della comunità internazionale, riassunta dalla teoria
internazionalistica nella locuzione security dilemma. Per definizione, infatti, nessun
soggetto è nelle condizioni di stabilire con sicurezza le intenzioni dei propri interlocutori
nell’arena internazionale, dovendosi accontentare di raccogliere impressioni e formulare
previsioni sul loro comportamento. Su tale base, ogni attore si sforza di enucleare le
University Press, 2008, p. 25 e p. 55. In linea con quest’ultimo, Daalder e Lindsay, America senza freni, cit.,
evidenziano come la “dottrina Bush” si serva del termine preemptive per intendere in realtà preventive (pp.
164-167), resi in italiano rispettivamente dagli aggettivi «precauzionale» e «preventivo» per effetto della
scelta del traduttore Andrea Locatelli (cfr. nota 2 a p. 10).
11
NSS 2002, p. 14 e NSCT 2003, p. 18 e p. 29.
12
NSS 2002, pp. 15-16.
13
In tema si vedano le opinioni contrastanti di E.E. Dais, Just War Theory Post-9/11: Perfect Terrorism and
Superpower Defense e S.P. Lee, Preventive Intervention, entrambi in Lee (ed.), Intervention, Terrorism, and
Torture, cit., pp. 105-118 e pp. 119-133. L’uno promuove l’impostazione della “dottrina Bush”, affermando
l’esistenza di un «diritto al primo colpo protettivo» da parte della superpotenza egemone (gli USA), la cui
funzione di stabilizzazione del sistema internazionale sia insidiata dal terrorismo dotato di WMDs. L’altro,
viceversa, nega ogni legittimità a tale considerazione, poiché fondata essenzialmente su sospetti e ipotesi di
minacce e gravida di conseguenze pericolose per la convivenza internazionale.
14
M. Walzer, Guerre giuste e ingiuste. Un discorso morale con esemplificazioni storiche (1977), Napoli,
Liguori, 1990, p. 116.
125
minacce potenziali e scegliere gli strumenti più adatti per fronteggiarle15. Lo sdoganamento
della guerra preventiva – vale a dire della possibilità teorica che uno Stato decida di
attaccarne un altro basandosi esclusivamente sulla presunzione che quest’ultimo stia
preparando un’offensiva ai suoi danni – può moltiplicare le variabili di cui tenere conto,
essendo a sua volta interpretabile come una minaccia potenziale ai danni degli Stati messi
pubblicamente all’indice. In astratto, dunque, non si può escludere il ricorso alla guerra
preventiva da parte di uno Stato canaglia, destinato a innescare una spirale di violenza e
conflitti fondata sulla labile percezione delle intenzioni della controparte16.
Il secondo elemento decisivo della NSS 2002 è la rivendicazione dell’intervento
unilaterale degli USA a tutela della propria sicurezza. Il testo chiarisce infatti che, una
volta individuato un pericolo, l’amministrazione Bush non esiterà a operare in solitudine
per neutralizzarlo. Quanto meno a parole, la prima alternativa è ancora rappresentata dalla
ricerca del consenso e dalla costruzione di ampie coalizioni, ma ciò non esclude in alcun
modo azioni solitarie in caso di divergenze di opinioni all’interno della comunità internazionale. Benché in parte smorzata da alcuni passaggi volti a enfatizzare la recente
solidarietà ricevuta dai tradizionali alleati e da paesi storicamente distanti come Russia e
Cina17, la scelta di progettare soluzioni unilaterali è carica di significato, innanzi tutto nei
confronti del ruolo rivestito dalle Nazioni Unite. L’appoggio del Consiglio di Sicurezza,
pur accolto con favore quando se ne creino i presupposti, è giudicato sostanzialmente
ininfluente all’atto di decidere sulla necessità di un’azione. Ne scaturisce un modello
secondo cui gli USA, in assoluta autonomia, individueranno una minaccia e gli strumenti
per affrontarla, limitandosi a osservare l’atteggiamento degli altri attori: chi concorderà con
obiettivi e mezzi indicati potrà partecipare senza preclusioni alla «coalizione dei
volenterosi» (coalition of willing nations) impegnata ad agire18. L’idea di costruire alleanze
a geometria variabile, determinate dalle caratteristiche di ciascuna missione, è dovuta a una
profonda sfiducia nei confronti delle Nazioni Unite e del funzionamento delle loro
istituzioni. A causa della spiccata eterogeneità di valori e interessi fra i loro affiliati, esse
non sono in grado di raggiungere l’intesa su iniziative mirate a garantire la stabilità internazionale, denunciando tanto un deficit di efficienza, quanto l’assenza di legittimazione
15
Si veda K. Booth and N.J. Wheeler, The Security Dilemma. Fear, Cooperation and Trust in World Politics,
New York-Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2008, pp. 4-5.
16
Doyle, Striking First, cit., pp. 25-28.
17
NSS 2002, pp. 25-28. Cfr. in proposito Gaddis, Attacco a sorpresa e sicurezza, cit., p. 90, che sottolinea il
tentativo di dialogo con le grandi potenze planetarie, contrapponendolo alla decisione dell’amministrazione
Clinton di dare il via alla guerra in Kosovo del 1999 senza il consenso della Russia.
18
NSCT 2003, p. 19.
126
democratica, per la presenza di Stati autoritari19.
A queste carenze, la “dottrina Bush” oppone la convinzione di abbracciare una
«causa giusta»20. Nell’ottica dell’amministrazione americana, il richiamo alla componente
morale, che pervade l’intero documento, permette di giustificare una violazione del diritto
internazionale e della prassi ONU, espressioni della legalità formale in cui alcuni
commentatori situano il centro della tradizione politico-istituzionale occidentale21. Lo
stesso concetto di “Stato canaglia” è diretta emanazione di tale visione, peraltro non
esclusiva del nuovo gruppo dirigente. È largamente condivisa, infatti, l’idea che paesi
come Iraq e Corea del Nord, per limitarsi a quelli citati nella NSS 2002, appartengano a
una sorta di ghetto internazionale in ragione dell’inaccettabilità etica e politica del loro
comportamento interno ed esterno. I cinque caratteri elencati nel testo per designare uno
Stato canaglia – oppressione della popolazione, indifferenza al diritto internazionale, determinazione ad acquisire WMDs, sostegno al terrorismo e rifiuto dei valori fondamentali
dell’umanità, incarnati dagli USA22 – colgono i frutti di valutazioni morali già formulate da
precedenti amministrazioni, anche democratiche23. Perfino un filosofo non assimilabile
all’humus politico e culturale della destra americana, come John Rawls, discute di
categorie concettuali per certi versi analoghe. Trasferendo sul piano dei rapporti internazionali il modello elaborato nella sua celebre Teoria della giustizia24, l’intellettuale liberale
individua diversi tipi di regime, distinti sulla base del coinvolgimento dei cittadini
nell’assunzione delle decisioni politiche, attraverso l’adozione di una costituzione adatta
19
Per una critica al sistema ONU si vedano F. Fukuyama, Does «the West» Still Exist?, in T. Lindberg (ed.),
Beyond Paradise and Power. Europe, America and the Future of a Troubled Partnership, London-New
York, Routledge, 2005, pp. 137-161, Id., America al bivio. La democrazia, il potere, l’eredità dei
neoconservatori (2006), Torino, Lindau, 2006, pp. 171-197 e M.J. Glennon, Why the Security Council
Failed, «Foreign Affairs», vol. LXXXII, n. 3, May-June 2003, pp. 16-35. Cfr. inoltre R.J. Lieber, The
American Era. Power and Strategy for the XXI Century, New York, Cambridge University Press, 2005,
secondo cui, poste tali premesse, l’attivismo USA sulla scena globale diventa «una necessità, non qualche
cosa di cui scusarsi» (p. 7). Secondo indagini empiriche riferite al periodo 2002-03, tuttavia, la maggioranza
della popolazione americana è tendenzialmente favorevole a ricevere conferme da altri governi sulla bontà
delle scelte compiute da quello americano. Tale inclinazione, che sembra negare il sostegno a una prassi
integralmente unilaterale, non è però interpretata da tutti gli analisti come apertura al multilateralismo
dell’ONU, dal momento che l’agognato riscontro alle decisioni dell’amministrazione Bush può essere fornito
anche dai componenti di una “coalizione dei volenterosi”, creata a prescindere dal parere delle Nazioni Unite
(cfr. J.M. Grieco, In cerca di un riscontro: gli alleati, l’ONU e l’opinione pubblica americana di fronte alla
guerra, in Parsi, Giusti e Locatelli (a cura di), Esiste ancora la comunità transatlantica?, cit., pp. 123-161).
20
NSS 2002, p. 16.
21
Si veda in proposito G. Preterossi, L’Occidente contro se stesso, Roma-Bari, Laterza, 2004, p. 56.
22
NSS 2002, p. 14.
23
Sull’origine della definizione cfr. R.S. Litwak, Rogue States and the U. S. Foreign Policy. Containment
after the Cold War, Washington, Woodrow Wilson Center Press, 2000, pp. 47-73, che esamina i contributi
delle amministrazioni Carter, Reagan, Bush sr. e Clinton, individuando l’elemento essenziale nel
comportamento internazionale minaccioso, a causa del potenziale utilizzo di WMDs o della sponsorizzazione
del terrorismo.
24
J. Rawls, Una teoria della giustizia (1971), Milano, Feltrinelli, 1999.
127
allo scopo. I «popoli bene ordinati» assolverebbero a tale requisito con differente grado di
soddisfazione (pieno per quelli «liberali», parziale per quelli «decenti»), ma ciò sarebbe
sufficiente per renderli oggetto della «teoria ideale» e partecipi del «diritto dei popoli». Su
un piano separato, e gerarchicamente inferiore, si porrebbero invece altre tre categorie di
attori, per vari motivi non in grado di rispettare il criterio fondamentale: tra queste,
figurano gli Stati «fuorilegge» (traduzione dell’inglese outlaw). La loro condotta –
esemplificata da alcuni casi storici, tra cui alcune fasi delle vicende spagnola, francese e
asburgica nella modernità e l’esperienza della Germania nazista nel XX secolo – non
mostrerebbe «il carattere morale e la natura ragionevolmente giusta, o decente» propri dei
popoli bene ordinati25.
L’elemento
dirimente
non
è
rappresentato
dalla
presenza
di
istituzioni
liberaldemocratiche. Mitigando l’idealismo che ispira la sua teoria, attraverso la nozione di
“decenza” Rawls riconosce la legittimità di regimi con tratti autoritari o gerarchici, ma
privi di mire aggressive e portati a rispettare un nucleo minimo di diritti fondamentali.
L’esistenza di una società internazionale come quella immaginata dal filosofo liberale non
presuppone dunque l’esportazione sistematica del modello democratico al di fuori del
mondo occidentale. In ogni caso, l’impianto rawlsiano è avvicinabile alla NSS 2002 per la
tentazione di avvalorare distinzioni etiche fra gli Stati e per il ricorso alla forza cui i popoli
liberali e decenti avrebbero diritto in caso di minaccia portata da uno Stato fuorilegge
(guerra di autodifesa) o di una sua palese violazione dei diritti umani ai danni di minoranze
interne (diritto di ingerenza)26. Lo scenario cui Rawls allude, affermando la facoltà dei
popoli bene ordinati di non tollerare gli Stati fuorilegge27, è implicitamente sviluppato
nella strategia bushiana, soprattutto nei punti in cui essa pretende di screditare alcuni attori
25
Id., Il diritto dei popoli (1999), Torino, Comunità, 2001, in particolare pp. 3-5 e pp. 30-38, che mutua da
Bodin la locuzione «bene ordinati» (cfr. nota 6 a p. 4) e riprende un saggio dall’omonimo titolo pubblicato in
S. Shute e S. Hartley (eds.), On Human Rights, New York, Basic Books, 1993. Sul possibile collegamento tra
la dimensione “liberale” descritta dal filosofo americano e i tratti “civili” di una potenza distante dalla
prospettiva realista tradizionale, cfr. Portinaro, L’Europa civile davanti alle sfide del XXI secolo, cit., p. 326.
Per un inquadramento della riflessione internazionalistica nell’opera complessiva di Rawls, cfr. P.B.
Lehning, John Rawls. An Introduction (2006), Cambridge, Cambridge University Press, 2009, pp. 173-208, e
S. Maffettone, Introduzione a Rawls, Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. 137-160. L’aggettivo “fuorilegge” è
utilizzato anche per rendere in italiano l’inglese rogue in N. Chomsky, Egemonia americana e stati
fuorilegge (2000), Bari, Dedalo, 2001. Lo stesso Chomsky formula alcune considerazioni sulle intersezioni
fra i concetti di failed states, rogue states, outlaw states, terrorist states (Id., Failed States. The Abuse of
Power and the Assault on Democracy, London, Penguin Books, 2007, pp. 107-110, trad. it., Stati falliti.
Abuso di potere e assalto alla democrazia in America, Milano, Il Saggiatore, 2007).
26
Rawls, Il diritto dei popoli, cit., p. 106 e pp. 121-140. Sulle analogie tra questo ragionamento e la guerra
preventiva, si veda L. Baccelli, Rawls e le sfide della globalizzazione, in A. Punzi (a cura di), Omaggio a
John Rawls (1921-2002), Quaderni della Rivista internazionale di filosofia del diritto, n. 4, Milano, Giuffrè,
2004, pp. 466-469.
27
Rawls, Il diritto dei popoli, cit., nota 6 a p. 125.
128
«decidendo [della loro] indecenza»28. In altri termini, il documento replica l’atto con cui i
detentori del potere, in ogni epoca e luogo, tendono da sempre a designare come “canaglie”
i ribelli, i rivoltosi, i terroristi e tutti i contestatori dell’ordine costituito29. Nell’asimmetria
morale fra la propria posizione e quella dei nemici, inoltre, gli Stati Uniti rilevano
l’antidoto all’uso indiscriminato della guerra preventiva, potenziale strumento di
aggressione: solo chi dimostri di agire in vista di scopi e in nome di valori eticamente
accettabili avrebbe diritto a intraprenderla30.
L’accostamento tra le riflessioni ralwsiane e la “dottrina Bush”, ingeneroso sotto
molti altri aspetti, a partire dalla diversa considerazione della Carta delle Nazioni Unite31,
permette comunque di cogliere la complessità dei motivi ispiratori della politica estera
degli Stati Uniti. L’11 settembre, inoltre, finisce per risvegliare caratteri tipici della società
americana, su tutti la peculiare commistione fra dimensione religiosa e secolare. Nella
reazione all’offensiva terroristica, incarnata da alcuni gesti altamente simbolici del
presidente – i discorsi nelle chiese, la sacralizzazione della bandiera, lo spazio dedicato alla
memoria delle vittime, il linguaggio a tratti messianico –, gli Stati Uniti mostrano al mondo
la rinnovata vitalità della “religione civile” che ne permea le istituzioni e il dibattito pubblico32. Sul piano internazionale, sembra tornare a nuovo splendore la tesi dell’“eccezionalismo” americano, secondo cui gli USA godrebbero, rispetto alle altre nazioni,
di una superiorità morale radicata nella storia mitica della fondazione delle comunità
28
A.C. Amato Mangiameli, Sul diritto dei popoli. A proposito della teoria non ideale di John Rawls, in Punzi
(a cura di), Omaggio a John Rawls, cit., pp. 412-413.
29
J. Derrida, Stati canaglia. Due saggi sulla ragione (2003), Milano, Cortina, 2003, pp. 99-107. Dopo aver
scavato fra le suggestioni etimologiche insite nel termine francese voyou, il filosofo francese si appoggia ai
già citati scritti di Noam Chomsky per evidenziare come l’attore impegnato ad attribuire ad altri l’etichetta
della canaglia finisca per ricadere a sua volta nell’atteggiamento contestato, a causa della presunzione di
trovarsi al di sopra dell’ordine internazionale (pp. 149-152).
30
NSS 2002, p. 15.
31
J. Ballesteros, El conflicto entre pueblos satisfechos y Estados criminales. Una lectura crítica de The Law
of Peoples, in Punzi (a cura di), Omaggio a John Rawls, cit., pp. 484-485. Decisamente ostile alle tesi
rawlsiane è invece E. Vitale, Rawls e il «diritto dei popoli», «Teoria politica», a. XIX, n. 2-3, 2003, pp. 285298, che nota in particolare come lo stesso Rawls – dopo aver dichiarato di considerare la procedura illustrata
nella Teoria della giustizia intrinseca al mondo occidentale – decida negli anni Novanta di estenderne il
dominio di validità ai rapporti fra le culture e le civiltà. Pur senza conoscere Il diritto dei popoli, che uscirà
l’anno successivo, in un volume del 1998 Danilo Zolo traccia un parallelismo tra Rawls, Habermas, Bobbio,
Lyotard, Dahrendorf e Küng, in quanto appartenenti alla schiera di pensatori politici che ritengono valida la
domestic analogy secondo cui l’ordine internazionale può essere garantito trasferendo sul piano globale gli
strumenti regolativi emersi nella storia degli Stati nazionali moderni (giurisdizione, polizia, ecc.), cfr. D.
Zolo, I signori della pace. Contro il globalismo giuridico, Roma, Carocci, 1998, p. 15 e sgg.
32
Su questi temi si veda E. Gentile, La democrazia di Dio. La religione americana nell’era dell’impero e del
terrore, Roma-Bari, Laterza, 2006, in particolare pp. 179-188. Sul concetto di “religione civile” e la sua
declinazione americana, come fenomeno distinto rispetto alle chiese e ai culti ufficiali, il punto di riferimento
è lo studio di R.N. Bellah, Al di là delle fedi. Le religioni in un mondo post-tradizionale (1970), Brescia,
Morcelliana, 1975, pp. 185-209. Si veda in generale anche G. Paganini ed E. Tortarolo (a cura di),
Pluralismo e religione civile. Una prospettiva storica e filosofica, Atti del Convegno di Vercelli (Università
del Piemonte Orientale), 24-25 giugno 2001, Milano, B. Mondadori, 2004.
129
d’oltreoceano, destinate a confluire nel popolo eletto e costantemente supportato dalla
benevolenza divina. La difesa e la promozione dei valori della libertà e della democrazia,
trasposizione politica dell’intrinseca vocazione verso il “bene” della società americana,
sono la sintesi del messaggio lanciato alla comunità internazionale, come ribadito dalla
prima sezione della NSS 2002, da cui traspare con grande evidenza la fusione di
suggestioni provenienti dal liberalismo politico e dal puritanesimo33.
Come già rilevato a proposito dei toni preparatori della guerra in Afghanistan, esiste
il pericolo che la retorica utilizzata sia letta come manifesto di una campagna avviata da un
Occidente orgogliosamente cristiano per ricondurre all’ordine una parte di mondo – quella
arabo-islamica – che non ne riconosce la superiorità sul piano culturale, né ne accetta
l’indubbia preminenza politica, economica e militare. Dichiarando guerra al “male” in
quanto tale, con la volontà di portare la luce nei «luoghi di tenebra»34, gli Stati Uniti
rischiano di rimanere intrappolati in uno scontro tra opposti fondamentalismi, rispondendo
all’islamismo integralista e violento con le sue stesse armi: l’assolutizzazione dei propri
valori (che Bush nell’introduzione alla NSS 2002 definisce «non negoziabili»), il
disconoscimento delle possibili ragioni altrui35, la negazione di un terreno di confronto
veramente laico e neutrale rispetto alle confessioni religiose36. La violenza della
33
NSS 2002, pp. 3-4. Per un inquadramento storico di questo tratto della politica estera americana, cfr. A.
Stephanson, Destino manifesto. L’espansionismo americano e l’impero del bene (1995), Milano, Feltrinelli,
2004. Sul senso di “missione” condiviso da classe dirigenti e masse, in contrapposizione al pragmatismo
europeo, si veda M. Teodori, L’Europa non è l’America. L'Occidente di fronte al terrorismo, Milano,
Mondadori, 2004. Sui legami tra sfera politica e religiosa nella storia e nella cultura americane cfr. inoltre:
M. Walzer, La rivoluzione dei santi. Il puritanesimo alle origini del radicalismo politico (1965), Torino,
Claudiana, 1996, che indaga sulla venatura radicale insita nel calvinismo europeo e poi americano; T.
Bonazzi, Il sacro esperimento. Teologia e politica nell’America puritana, Bologna, Il Mulino, 1970, che
illustra le modalità di elaborazione e realizzazione del progetto puritano di rigenerazione umana, politica e
sociale nel caso del Massachusetts; C. Malandrino, Teologia federale, «Il Pensiero Politico», a. XXXII, n. 2,
1999, pp. 427-446, che individua nel concetto di foedus l’elemento di continuità fra il covenantalism
religioso caratteristico dei primi insediamenti e l’elaborazione politico-dottrinale del federalismo
hamiltoniano (p. 430); G. Buttà (a cura di), Politica e religione nell’età della formazione degli Stati Uniti
d’America, Torino, Giappichelli, 1998, che presenta le posizioni di alcune fra le principali personalità
politiche e intellettuali della nascente Federazione americana.
34
L’espressione è usata da Frum e Perle, Estirpare il male, cit., p. 142. Sul “manicheismo” americano cfr.
anche S. Chan, Fuori dal male. Nuove politiche internazionali e vecchie dottrine di guerra (2005), Torino,
Einaudi, 2005, pp. 95-132. La strumentalità di tale linguaggio è sottolineata da L.J. Rediehs, Male, in Collins
e Glover, Linguaggio collaterale, cit., pp. 146-156: la polarizzazione tra “bene” e “male” sarebbe un mero
artificio propagandistico, funzionale alla giustificazione delle operazioni militari e alla neutralizzazione del
dissenso interno, anziché l’espressione un po’ ingenua ma autentica di una visione del mondo.
35
Cfr. NSCT 2003, p. 19 e p. 29, dove si ritorna sull’immagine dello scontro fra la civiltà e chi la vuole
distruggere, attribuendo così a se stessi il ruolo di paladini del mondo civilizzato e al nemico (chiunque non
si allinei alle posizioni americane) un intento nichilista, privo di qualsiasi obiettivo politico o interesse
legittimo.
36
Si vedano l’intervista a Jacques Derrida in Borradori, Filosofia del terrore, cit., pp. 125-127, T. Ali, Lo
scontro dei fondamentalismi. Crociate, Jihad e modernità (2002), Roma, Fazi, 2006 e D. Losurdo, Il
linguaggio dell’Impero. Lessico dell’ideologia americana, Roma-Bari, Laterza, 2007, pp. 43-90.
130
contrapposizione, unita alla richiesta a tutti i soggetti dell’arena internazionale di schierarsi
senza incertezze a favore di uno dei contendenti, è tale da suscitare in alcuni commentatori
la tentazione di ricorrere alle categorie schmittiane di “amico” e “nemico”37. Altri, nella
sottolineatura della specificità della nazione americana e dei suoi valori, oltre che nel
fascino esercitato dalla prospettiva bellica, leggono una riscoperta della cultura
romantica38.
Si tratta di suggestioni per certi versi giustificate. L’elaborazione teorica e l’azione
concreta dell’amministrazione Bush sono i prodotti inediti della combinazione di elementi
provenienti da filoni politico-culturali differenti e talvolta alternativi. L’enfasi posta sui
principi e sulla moralità della politica estera non è sufficiente per collocare il nuovo
approccio sul versante esclusivo dell’idealismo, il cui massimo precedente storico è
rappresentato dall’internazionalismo liberale e interventista del presidente Wilson a cavallo
fra gli anni Dieci e Venti39. Prendere alla lettera l’archetipo wilsoniano, infatti,
significherebbe mobilitarsi per porre rimedio a qualunque violazione dei diritti umani,
delle libertà fondamentali o delle procedure democratiche si verifichi sulla scena
internazionale, con l’inevitabile sacrificio di risorse, tempo ed energie rinfacciato da ampi
settori della destra repubblicana all’amministrazione Clinton. L’impressione ricavata dalla
NSS 2002 è invece quella di una superpotenza che non si risparmierebbe nel combattere i
nemici di libertà e democrazia, guidando la battaglia dalla prima linea, ma lo farebbe solo
alla luce di una minaccia diretta alla propria sicurezza, in ossequio all’immagine dello
“sceriffo riluttante”40. Accanto allo scarso entusiasmo per le istituzioni internazionali, è
questo ancoraggio all’interesse nazionale a mantenere vivo un influsso realista, che porta il
gruppo dirigente a selezionare le priorità sulla base di un calcolo razionale di costi e
benefici41.
37
A. de Benoist, Terrorismo e «guerre giuste». Sull’attualità di Carl Schmitt, Napoli, Guida, 2007, pp. 2151.
38
G.P. Fletcher, Romantics at War. Glory and Guilt in the Age of Terrorism, Princeton, Princeton University
Press, 2002.
39
Secondo la classificazione elaborata da W.R. Mead, Il serpente e la colomba. Storia della politica estera
degli Stati Uniti d’America (2001), Milano, Garzanti, 2002, i “wilsoniani” di ogni tempo, pur
differenziandosi al loro interno, condividono una vocazione missionaria che si traduce nell’impegno attivo a
esportare i valori americani nel mondo (pp. 163-208).
40
R.N. Haass, The Reluctant Sheriff. The United States after the Cold War, New York, Council of Foreign
Relations, 1997. Si veda anche Id., Intervention. The Use of American Military Force in the Post-Cold War
World, Washington, Brookings Institution, 1999, che aggiorna la precedente edizione del 1994 ribadendo la
necessità di un approccio flessibile e discrezionale.
41
La revisione del documento confermerà l’intenzione di essere «idealisti nei fini e realisti nei mezzi» (The
National Security Strategy of The United States of America, Washintgton, March 2006, p. 49. D’ora in poi
richiamerò questo documento con la sigla NSS 2006). Sulla compresenza di entrambi gli spunti
nell’amministrazione Bush, si vedano: L. Bonanate, La politica internazione fra terrorismo e guerra, Roma-
131
Tale
intreccio
è
dovuto
alla
coesistenza
di
almeno
quattro
anime
nell’amministrazione Bush42. Le figure del vicepresidente Dick Cheney e del segretario
alla Difesa Donald Rumsfeld, già titolari di incarichi in precedenti governi repubblicani,
esprimono la posizione dei classici conservatori, nazionalisti e a tratti militaristi, in quanto
sostenitori del ricorso alla forza di fronte a minacce per il territorio americano, senza
alcuna velleità di convincere il mondo a condividere i propri valori43. Il segretario di Stato
Colin Powell, invece, incarna l’istanza moderata dei “realisti manageriali” à la Kissinger,
estremamente prudenti nei giudizi e nelle azioni e non insensibili al dialogo multilaterale44.
Il sottosegretario alla Difesa Paul Wolfowitz è considerato esponente degli influenti circoli
e centri studi neoconservatori (neocon, abbreviazione di neoconservative), che
rappresentano l’ala più dinamica ed entusiasta del rinnovato impegno internazionale, al
punto da essere definiti “wilsoniani di destra” e associati – ma senza una completa
identificazione – alla cerchia dei “Vulcani” (Vulcans) che animano l’amministrazione
Bush45. L’ultima componente è rappresentata dalla destra cristiana, che, pur esprimendo il
Bari, Laterza, 2004, pp. 87-92, che sviluppa la nozione di «neo/neorealismo»; P. Foradori, Rambo
democrazia e politica estera americana. Un contributo al dibattito sulla dimensione internazionale dei
processi di democratizzazione, «Teoria politica», a. XXII, n. 3, 2006, pp. 84-88; A. Caffarena, A mali
estremi. La guerra al terrorismo e la riconfigurazione dell’ordine internazionale, Milano, Guerini, 2004, pp.
62-70; M. Del Pero, Libertà e impero. Gli Stati Uniti e il mondo. 1776-2006, Roma-Bari, Laterza, 2008, pp.
425-435; T. Carothers, Promoting Democracy and Fighting Terror, «Foreign Affairs», vol. LXXXII, n. 1,
January-February 2003, pp. 84-97. Di “realismo egemonico” parlano Daalder e Lindsay, America senza freni,
cit., pp. 56-62. Sul concetto di realismo politico, cfr. P.P. Portinaro, Il realismo politico, Roma-Bari, Laterza,
1999, che ne illustra l’accezione tipica delle relazioni internazionali, riconducendola al più ampio e datato
uso nella storia del pensiero politico (pp. 119-125) e, in un’ottica prevalentemente americana, K.W.
Thompson, Schools of Thought in International Relations. Interpreters, Issues, and Morality, Baton RougeLondon, Louisiana State University Press, 1996.
42
In tema si vedano: M. Del Pero, I neoconservatori e l’Europa, in Vacca (a cura di), Il dilemma
euroatlantico, cit., p. 72; W.I. Cohen, Gli errori dell’impero americano. Le relazioni internazionali
americane dopo la guerra fredda (2005), Roma, Salerno, 2007, pp. 170-172 in particolare; S. Hoffman,
Chaos and Violence. What Globalization, Failed States, and Terrorism Mean for U.S. Foreign Policy,
Lanham, Rowman & Littlefield, 2006, pp. 120-121 (in cui è ripubblicato Id., American Exceptionalism – The
New Version: «The National Security Strategy of the United States of America», September 2002, in M. Ignatieff (ed.), American Exceptionalism and Human Rights, Princeton, Princeton University Press, 2005, pp.
115-131).
43
Si tratta di un orientamento analogo a quello che, secondo Mead, Il serpente e la colomba, cit., designa la
categoria dei “jacksoniani”, nel ricordo dell’esperienza del presidente Andrew Jackson tra il 1829 e il 1837
(pp. 257-305).
44
Si veda P. Hassner e J. Vaïsse, Washington e il mondo. I dilemmi di una superpotenza (2003), Bologna, Il
Mulino, 2004, p. 40.
45
In quei termini si autodefiniscono – inizialmente in chiave ironica e poi con crescente convinzione – i
principali consiglieri di G.W. Bush durante la campagna elettorale presidenziale del 1999/2000, dipingendo a
tinte forti i valori in cui si riconoscono: potenza (power), durezza (toughness), resistenza (resilience) e durata
nel tempo (durability), tutti evocati da Vulcano, dio romano del fuoco e forgiatore di metalli, la cui
gigantesca statua domina da una collina la città di Birmingham (Alabama), luogo di nascita di Condoleezza
Rice (J. Mann, Rise of the Vulcans. The History of Bush’s War Cabinet, New York, Viking, 2004, pp. ix-x).
Cfr. anche Daalder e Lindsay, America senza freni, cit., pp. 32-42. L’origine e l’uso della definizione ne
impediscono la perfetta sovrapposizione con l’etichetta di neocons, assai più risalente nel tempo e
caratterizzante un nucleo più ristretto di persone, come si vedrà fra poco.
132
segretario alla Giustizia (John Ashcroft) e non i responsabili della politica estera, ha una
responsabilità non trascurabile nell’adozione del linguaggio messianico dei documenti
strategici, anche grazie alla solida fede evangelica esibita frequentemente dal presidente
Bush46. A giudizio di alcuni studiosi, peraltro, il comportamento internazionale degli Stati
Uniti non è comprensibile sottovalutando l’incidenza di un quinta componente, quella degli
“amici di Israele”47, che tuttavia non appare del tutto distinta dalle altre, in particolare dalla
posizione di numerosi neocons.
Le quattro anime non hanno in realtà la medesima influenza sulle decisioni
fondamentali. Il margine d’azione del “moderato” Powell, infatti, si riduce nel tempo, fino
alla sua esclusione dalla squadra di governo nominata da Bush per il secondo mandato
presidenziale, a favore di Condoleezza Rice, madrina dei “Vulcani”. Si verifica, invece,
una saldatura fra gli interessi e i progetti di altre componenti: nella contingenza del post-11
settembre, i nazionalisti “all’antica”, come Cheney e Rumsfeld, si trovano a condividere
alcune idee basilari dei neocons, che dunque possono circolare negli ambienti governativi
nonostante i loro sostenitori non siano titolari di cariche di primissimo piano48. La visione
idealista della politica internazionale propria dei neocons è l’esito di una genealogia
politico-intellettuale che vede la luce negli anni Cinquanta, con l’opposizione alla dottrina
del contenimento del comunismo, introdotta da George Kennan nella prospettiva realista
della necessaria e prolungata convivenza con il mondo sovietico49. A contestarla è James
Burnham, secondo il quale il mondo occidentale, anziché limitarsi a conservare gli
equilibri esistenti, confidando in una graduale e lenta riforma del sistema politico e sociale
46
Sulla coalizione dei movimenti cristiani e la loro prossimità al partito repubblicano, si vedano G.
Paraboschi, Leo Strauss e la destra americana, Roma, Editori Riuniti, 1993, pp. 13-15 e G. Borgognone, La
destra americana. Dall’isolazionismo ai neocons, Roma-Bari, Laterza, 2004, pp. 171-180.
47
Hoffman, Chaos and Violence, cit., p. 121.
48
Cohen, Gli errori dell’impero americano, cit., p. 247 e Daalder e Lindsay, America senza freni, cit., pp.
25-26. Che la linea di condotta dell’amministrazione Bush sia assimilabile a quella del tradizionale
conservatorismo americano è invece la tesi di: Johnson, Le lacrime dell’impero, cit., che vi riconosce lo
stigma guerrafondaio di gran parte dell’élite USA, sorda ai richiami dell’internazionalismo liberale ed
eternamente proiettata nella dimensione dei ragionamenti geopolitici, economici e inevitabilmente
imperialistici (pp. 255-299); M. Zaborowski, Bush’s Legacy and America’s Next Foreign Policy, Paris,
Institute for Security Studies, Chaillot Paper n. 111, September 2008, che pone la personalità del presidente
Bush in continuità con l’atavica tendenza statunitense all’unilateralismo e ridimensiona il contributo degli
ambienti neocon (pp. 17-42); L. Canfora, Esportare la libertà. Il mito che ha fallito, Milano, Mondadori,
2007, che rilegge l’azione dell’amministrazione secondo la consueta dottrina della politica di potenza (pp.
63-79). Su quest’ultima nozione cfr. J.J. Mearsheimer, La logica di potenza. America, le guerre, il controllo
del mondo (2001), Milano, Università Bocconi, 2003.
49
Si veda la citazione di Kennan riportata in S. Hoffman, Introduction: The State of the World and the State
of the Discipline, in Id. Chaos and Violence, cit., secondo cui la «politica estera è più una forma di
giardinaggio che di ingegneria» (p. 2), in virtù dei tempi lunghi richiesti dalle trasformazioni internazionali.
133
nemico, si dovrebbe attivare per eliminare alla radice l’oppressione totalitaria50.
Ulteriori sviluppi si rilevano nel dibattito degli anni Settanta e in particolare
nell’evoluzione interna al partito democratico. In questo caso il bersaglio della polemica è
duplice. Da un lato, desta preoccupazione la campagna della “nuova sinistra” di matrice
sessantottina contro l’autorappresentazione degli Stati Uniti come portatori di pace, diritti e
libertà, macchiata dalle notizie sugli orrori della guerra in Vietnam. Dall’altro, risulta
inaccettabile il pragmatismo di Henry Kissinger, che conduce la politica estera americana
sulla via della distensione con l’antagonista sovietico, ispirata a una visione delle relazioni
internazionali favorevole ad assicurare la stabilità del sistema più che ad accertarsi della
presentabilità dei suoi attori, al relativismo più che alla promozione dei valori e al senso
del limite più che agli slanci ideali e ambiziosi51. Una corrente del partito democratico
manifesta la volontà di difendere la limpidezza dell’azione americana dalle accuse di
sinistra e il primato del modello liberaldemocratico dal disincanto kissingeriano52. Rispetto
alla maggioranza del partito e degli ambienti liberal, quella minoranza si scopre
conservatrice, come racconta Irving Kristol – tra i capofila dei neocons –
nell’autobiografia. La differenza strategica ed etica rispetto ai repubblicani e ai
conservatori tradizionali, tuttavia, spinge quel gruppo di democratici dissidenti a volgere in
positivo una sprezzante definizione ricevuta dagli ex compagni, rivendicando la nuova
identità di “neoconservatori”53.
Si produce così uno scarto incolmabile fra vecchi e nuovi conservatori, destinato a
condurre personalità eterodosse della sinistra europea come Christopher Hitchens a condividere lo spirito di alcune campagne dei neocons, a partire dalla condanna morale – prima
che politica – dell’operato di Kissinger54. Per converso, alcuni esponenti della destra
moderata americana avvertiranno l’esigenza di prendere le distanze dagli scomodi
50
Borgognone, La destra americana, cit., che individua nel teorico della rivoluzione manageriale un
precursore dei neocons (p. 132).
51
M. Del Pero, Henry Kissinger e l’ascesa dei neoconservatori. Alle origini della politica estera americana,
Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. 59-70.
52
H. Kissinger, Between the Old Left and the New Right, «Foreign Affairs», vol. LXXVIII, n. 3, May-June
1999, pp. 99-116.
53
I. Kristol, Memoria autobiografica (1995), in Id., Neoconservatorismo. Autobiografia di un’idea, Roma,
Idee Nuove, 2005, traduzione parziale di Neoconservatism: The Autobiography of an Idea, New York, The
Free Press, 1975, che raccoglie scritti del periodo 1949-1995. Cfr. anche Del Pero, Henry Kissinger e
l’ascesa dei neoconservatori, cit., pp. 107-144. Le differenze con alcuni intellettuali sessantottini sono
appianate dal tempo e dagli sconvolgimenti geopolitici: dopo il 1989, numerosi epigoni della contestazione si
tramutano in ferventi custodi dell’ortodossia liberaldemocratica, aderendo ad antiche battaglie
neoconservatrici (cfr. P. Berman, Sessantotto. La generazione delle due utopie (1996), Torino, Einaudi,
2006).
54
Si vedano per esempio alcune argomentazioni utilizzate in C. Hitchens, Processo a Kissinger (2001),
Roma, Fazi, 2005 e, in argomento, C. Rocca, Cambiare regime. La sinistra e gli ultimi 45 dittatori, Torino,
Einaudi, 2006.
134
neocons55. Negli anni Ottanta, le diverse posizioni della destra sono oggetto di un tentativo
di conciliazione da parte dell’amministrazione Reagan, la cui strategia della confrontation
con l’URSS riceve l’imprimatur degli analisti neoconservatori, tra i più accesi esorcisti
dell’“Impero del Male”. In seguito alla scomparsa del nemico sovietico, gli interessi dei
neocons sono dirottati verso lo studio della nuova conformazione dello scenario
internazionale: Charles Krauthammer, Samuel P. Huntington e Francis Fukuyama – le cui
tesi sono state illustrate nei capitoli precedenti – sono a vario titolo annoverati fra i teorici
neoconservatori56.
Nel pantheon del pensiero neocon una posizione centrale è occupata da Leo Strauss,
filosofo tedesco di origine ebraica, ma adottato dal mondo accademico americano negli anni Trenta. In qualità di allievi diretti o indiretti, numerosi neocons si abbeverano a
entrambe le fonti del sapere occidentale individuate da Strauss: la rivelazione divina,
simbolicamente rappresentata dalla città di “Gerusalemme” e posta alla base della cultura
giudaico-cristiana, e la filosofia greca, evocata dal riferimento ad “Atene” e destinata a
scandire la successiva evoluzione del pensiero politico occidentale57. La familiarità con
l’orizzonte religioso, riconosciuta da Kristol58, induce i neoconservatori a rifiutare il
relativismo etico, sulla scorta della polemica antistoricista dell’antico maestro, convinto
oppositore della tendenza a legare anche i diritti e i valori alla variabile temporale. In tal
modo si negherebbe infatti il senso del trascendente e, con esso, la possibilità di compiere
scelte morali e di distinguere il giusto dall’ingiusto59. Recuperando questo aspetto, i
neocons creerebbero i presupposti per la convergenza con la destra cristiana, trovando
nella Bibbia un’ispirazione tanto potente da condurli su posizioni di fatto
fondamentaliste60.
La guida di Strauss nello studio delle origini della filosofia occidentale, e in
55
C.V. Prestowitz, Stato canaglia. La follia dell'unilateralismo americano (2003), Roma, Fazi, 2003.
In generale, trovano terreno fertile le analisi e gli interventi di numerosi think tank e istituti di analisi
politica, creati nel corso degli anni dagli intellettuali neoconservatori, una sintesi dei quali è presentata in J.
Lobe e A. Olivieri (a cura di), I nuovi rivoluzionari. Il pensiero dei neoconservatori americani, Milano,
Feltrinelli, 2003.
57
L. Strauss, Gerusalemme e Atene. Studi sul pensiero politico dell’Occidente, Torino, Einaudi, 1998,
raccolta italiana di scritti straussiani, il cui titolo è desunto da un omonimo saggio del 1967 (ivi, pp. 3-36).
Sui principali tratti del complesso pensiero dell’autore, si vedano l’Introduzione di R. Esposito (pp. VIIXLIV) e l’ulteriore saggio di G. Giorgini, Leo Strauss: un profilo tematico (pp. XLV-LIX) che
accompagnano la pubblicazione. Sulla ricezione di Strauss da parte della cultura italiana, cfr. R. Cubeddu,
Strauss in Italia, «Il Politico», a. LXXI, n. 1, 2006, pp. 46-85.
58
Kristol, Memoria autobiografica, cit., p. 59.
59
Paraboschi, Leo Strauss e la destra americana, cit., pp. 64-65. In tema si veda anche F. Monceri, La
filosofia politica fra relativismo e nichilismo. La critica di Leo Strauss a Friedrich Nietzsche e Max Weber,
«Filosofia politica», a. XVI, n. 2, agosto 2002, pp. 223-247.
60
Losurdo, Il linguaggio dell’Impero, cit., p. 50.
56
135
particolare del Platone della Repubblica, rafforza l’aspirazione a ricercare la “giustizia”
nella vita associata e – su un piano più strettamente politico – a scegliere la migliore
costituzione, dopo aver analizzato le differenze fra di esse61. L’enfasi posta sulla nozione
di “regime”62 contribuisce ad accrescere la distanza dottrinale fra i neoconservatori e la
famiglia dei realisti, incline a sostenere la preminenza della politica estera (e dunque dei
rapporti “fra” gli attori) rispetto alla natura dei diversi regimi. La rivendicazione del diritto
a segnalare l’insopprimibile distanza fra la forma di governo dei paesi liberaldemocratici e
il modello del socialismo reale costituisce un elemento irrinunciabile del pensiero neocon
durante, ma anche dopo, la guerra fredda63.
Per chiudere la parentesi storica e volgere nuovamente lo sguardo alla situazione di
inizio millennio, i neocons dell’amministrazione Bush si presentano come i principali
artefici dell’impostazione assiologica mostrata dalla NSS 2002. La concezione del
terrorismo e della lotta intrapresa per combatterlo risente in modo consistente di una
tradizione filosofico-politica incentrata sull’idea che la diffusione di libertà e democrazia
implichi un salto di qualità nelle relazioni internazionali, oltre che nella sicurezza
nazionale statunitense. Le opzioni del “cambio di regime” e dell’“esportazione della
democrazia”, tra loro intimamente correlate ma non menzionate esplicitamente nel
documento strategico, occupano dal 2002 il centro della scena. Dal punto di vista dei
neoconservatori – e dei loro alleati più tradizionalisti che vedono in quelle teorie un utile
appoggio ai propri progetti – il modo migliore per neutralizzare uno Stato canaglia è
favorirne la trasformazione in senso democratico. Si tratta di decidere con quali mezzi procedere. Da un lato, si possono scegliere gli strumenti che Condoleezza Rice ricondurrà
successivamente al concetto di transformational diplomacy, alludendo alla necessità di
agire su uno Stato con incentivi, pressioni e anche ingerenze, per indirizzarne le decisioni
61
Si veda l’intervista a Francis Fukuyama (30 gennaio 2004) realizzata da A. Frachon e D. Vernet,
L’Amérique messianique. Les guerres des néo-conservateurs, Paris, Seuil, 2004, p. 67.
62
È la traduzione straussiana della platonica politeia, per designare «quella forma di governo, intesa come
forma della città stessa, che conferisce alla città il suo carattere, determinando il fine che la città in questione
persegue, o ciò che rispetta, in quanto è la più elevata, e cooriginariamente indica anche il tipo di uomini che
la governano» (L. Strauss, Platone, in Id. e J. Cropsey (a cura di), Storia della filosofia politica (1963), 3
voll., Genova, Il Melangolo, 1993-2000, vol. I, p. 140).
63
Si veda N. Tarcov e T.L. Pangle, Leo Strauss e la storia della filosofia politica, capitolo dedicato al
filosofo tedesco nella terza edizione americana (1987) di Strauss e Cropsey (a cura di), Storia della filosofia
politica, cit., pp. 9-53. Nel testo, i due allievi di Strauss conducono la critica dell’approccio
«internazionalistico» che tende a sminuire le differenze ed accentuare i punti di contatto e gli interessi
comuni fra i blocchi (pp. 43-47). Il lessico è con tutta probabilità fuorviante: bersaglio della polemica sono
infatti i realisti kissingeriani, portati sostanzialmente a ignorare i caratteri dei diversi tipi di regime (e le loro
conseguenze sulle relazioni internazionali), e non gli “internazionalisti” in senso tecnico, assai attenti alla
matrice ideologica delle varie forme di governo.
136
fondamentali64. Dall’altro, si affaccia l’ipotesi che la guerra possa diventare il canale
privilegiato per ottenere un cambiamento di regime, assicurando il trionfo dell’opzione
liberaldemocratica e accrescendo nel contempo la sicurezza americana. L’intervento
militare può essere dunque interpretato anche come mezzo per diffondere la democrazia,
ben al di là da quanto scritto nella NSS 2002 e immaginato qualche decennio prima da
Strauss65. La guerra si tramuterebbe così in un’occasione per mostrare la propria moralità
in contrapposizione all’immoralità dei nemici, intesi non come soggetti portatori di
interessi e mire configgenti con quelli americani, ma veri e propri «mostri da distruggere»,
per ricorrere a un’espressione usata polemicamente dal futuro presidente John Quincy
Adams nel 182166. La prospettiva di esportare i valori con la forza è tanto originale da far
guadagnare ai neocons gli epiteti di «neotrockisti» e «neotimocratici»67. Il dibattito sulla
crisi in Iraq del 2002-03 è il terreno concreto in cui la “dottrina Bush” è messa in pratica,
determinando la rottura fra gli Stati Uniti e una parte dell’Unione europea.
4.2 L’intervento in Iraq nel dibattito euroamericano
Il regime di Saddam Hussein è al centro dell’attenzione internazionale almeno dagli
anni Ottanta. Nello scontro con l’Iran sciita e integralista, durato otto anni e caratterizzato
dal ricorso ad armi chimiche, l’Iraq riceve l’appoggio degli Stati Uniti, inquieti per la
carica espansiva della rivoluzione khomeinista. Viceversa, l’amministrazione di Bush sr. è
l’architetto della vasta coalizione impegnata nella guerra del Golfo del 1991, combattuta
per costringere le forze irachene ad abbandonare il Kuwait (invaso nell’estate precedente) e
conclusa dalla decisione di non rovesciare il governo baathista. Nel decennio che precede
64
J. Vaïsse, États-Unis: le temps de la diplomatie transformationelle, Paris, Institute d’études de sécurité,
Cahier de Chaillot, n. 95, Décembre 2006.
65
Fukuyama, America al bivio, cit., pp. 38-39 in particolare. Sull’irriducibilità dei neocons contemporanei al
pensiero straussiano, cfr. anche R. Cubeddu, Ma l’esportazione della democrazia non faceva per lui,
«Reset», n. 81, Gennaio-Febbraio 2004, pp. 29-32 e de Benoist, Terrorismo e «guerre giuste», cit., pp. 7-19.
66
I. Chernus, Monsters to Destroy. The Neoconservative War on Terror and Sin, Boulder-London, Paradigm
Publishers, 2006, che descrive l’ideologia neoconservatrice (ma anche quella dell’internazionalismo liberale)
nei termini di una “narrazione” (story) di sé, del nemico e del mondo.
67
Si vedano rispettivamente T. Todorov, Il nuovo disordine mondiale. Le riflessioni di un cittadino europeo
(2003), Milano, Garzanti, 2003, che accosta la dottrina dell’esportazione della democrazia a quella della
rivoluzione permanente di Trockij, rivangando la militanza giovanile nell’estrema sinistra di alcuni neocons
(pp. 19-21), e H. Gardner, American Global Strategy in the «War on Terrorism», Aldershot, Ashgate, 2005,
che trae spunto dalla riflessione di Socrate-Platone sugli uomini – e sulla corrispondente costituzione, la
“timocrazia” – attirati da onore, ricchezze, potere e naturalmente portati alla guerra (pp. 46-49). Cfr. anche
Platone, La Repubblica, in Id., Opere complete, vol. VI, Roma-Bari, Laterza, 1996, libro VIII, 543c-550c
(pp. 259-267). La definizione, tuttavia, non sembra allontanarsi granché da quella dei “jacksoniani” di Mead,
indirizzata invece ai conservatori più tradizionali: non casualmente, lo stesso Gardner ritiene necessario correggere il riferimento all’«uomo timocratico» con l’inserimento di un elemento ideale, tratto dalla tradizione
kantiana, che produrrebbe l’originale miscela di cui si nutrono i neocons.
137
l’11 settembre, il paese è oggetto di sanzioni economiche e diplomatiche, nonché di
limitazioni alla propria sovranità e di ripetute operazioni militari delle potenze occidentali,
che danno vita a una situazione ibrida di pace guerreggiata68.
Già dai primi mesi del 2001 l’amministrazione Bush individua nel regime iracheno
una delle principali fonti di pericolo. L’idea acquisisce nuovo vigore dopo l’11 settembre,
quando i servizi di intelligence sono invitati a prendere in seria considerazione l’ipotesi di
un legame tra Saddam Hussein e Al Qaeda69. È da più parti condivisa la tesi che il dittatore
si stia adoperando da anni per sviluppare WMDs con cui sferrare attacchi agli USA,
progetto che spiegherebbe l’allontanamento dal territorio iracheno degli ispettori ONU
incaricati di verificare gli impegni sul disarmo (1998). Per questo motivo, forse a titolo
precauzionale e indipendentemente dall’irruzione sulla scena del terrorismo qaedista, i
programmi per un eventuale intervento militare in Iraq sono costantemente aggiornati.
La decisione di concentrare gli sforzi in Afghanistan congela per qualche mese la
questione, che torna ad affacciarsi nel dibattito pubblico nei primi mesi del 2002, allorché
il presidente Bush seguita con una certa insistenza a porre l’accento sui paesi costituenti il
cosiddetto “asse del Male”70. In tal modo, con largo anticipo rispetto alla pubblicazione
della NSS 2002 (avvenuta a settembre), prende il via un’intensa campagna massmediatica
che riunisce – quanto meno sul piano concettuale, visto che non esistono riscontri empirici
certi – i temi del terrorismo, dell’utilizzo delle WMDs, degli Stati canaglia, della necessità
di diffondere i principi liberali e democratici al di là del mondo occidentale. I confini della
“guerra al terrorismo” si dilatano fino a racchiudere la generica categoria del “terrore”, che
più adeguatamente traduce il bushiano terror e rende conto dell’eterogeneità delle minacce
poste in relazione dall’amministrazione. Il passaggio semantico consente di prendere in
esame non solo la violenza perpetrata da formazioni non statali nel mondo globalizzato (il
“nuovo terrorismo” qaedista), ma anche le dinamiche interne e internazionali legate
all’esistenza di modelli statali e istituzionali irriducibili alla democrazia liberale, cui fa
riferimento la nozione di “terrore”.
Quest’evoluzione risulta problematica per il punto di vista europeo. L’Ue non ha
difficoltà a condividere la lista delle priorità americane finché esse rimangono confinate
nella sfera del terrorismo in senso stretto, ma fatica ad accettare che la comune lotta perda
la sua specificità anti-qaedista e si trasformi, senza troppe discussioni, in una campagna
68
Per una sintetica ricostruzione del periodo precedente all’11 settembre, si veda Gregory, The Colonial
Present, cit., pp. 144-179.
69
Clarke, Contro tutti i nemici, cit., pp. 46-49 e pp. 276-279.
70
La prima occasione di un certo livello è il discorso sullo stato dell’Unione pronunciato il 29 gennaio 2002.
138
generosa ma indiscriminata contro ogni potenziale pericolo – diretto o indiretto – per la
sicurezza dei paesi occidentali. Ne è testimonianza l’assenza di qualsiasi cenno alla
minaccia qaedista nella discussione sull’Iraq svoltasi nel maggio 2002 al Parlamento
europeo: tracciando un bilancio a undici anni di distanza dalla guerra del 1991, i
rappresentanti delle varie istituzioni e forze politiche si soffermano sulla brutalità del
regime di Saddam e perfino sul suo apporto finanziario all’estremismo palestinese, ma in
nessun passaggio delineano un collegamento con i problemi sollevati dall’11 settembre71.
In quella fase, le autorità dell’Ue si limitano ad appoggiare le risoluzioni sul disarmo
iracheno assunte in sede ONU72.
A fine estate, mentre si rincorrono voci e indiscrezioni sulle intenzioni americane, la
presidenza danese dell’Ue espone al Parlamento europeo la posizione del Consiglio circa le
«congetture» della stampa a proposito di «un possibile, imminente attacco americano in
Iraq», in seguito alla «richiesta molto precisa» di un cambio di regime formulata da Bush,
nel quadro di una consultazione con gli alleati73. Ribadendo la linea adottata nei mesi
precedenti e senza poter assumere impegni precisi per il futuro, la presidenza rileva un
largo consenso sulla necessità di ripristinare il sistema di ispezioni, poiché Saddam è
sospettato di aver ripreso a interessarsi di armi chimiche, biologiche, radiologiche o
nucleari (CBRN). Dal canto suo, il commissario Patten confessa le proprie incertezze sulla
possibilità che l’Iraq possieda realmente WMDs e solleva dubbi sulla legittimità giuridica e
sull’opportunità politica di un’azione militare riparatrice74. Al pari di molti leader europei,
Patten non esclude a priori il ricorso alla forza, opzione in astratto praticabile per la classe
dirigente europea che pochi anni prima ha in larga parte condiviso l’intervento NATO
contro la Serbia75.
L’aspetto dirimente è viceversa il significato di una specifica e ipotetica guerra, che,
alla luce dell’impianto strategico americano, spazierebbe dal versante dalla lotta al
71
Cfr. Parlamento europeo, Discussioni, in APE, Strasburgo, seduta del 14 maggio 2002 e Id., Risoluzione
del Parlamento europeo sulla situazione in Iraq undici anni dopo la guerra del Golfo, Strasburgo, 15 maggio
2002, in APE, doc. P5_TA (2002) 0248, in particolare punto H.
72
Si veda Consiglio dell’Unione europea, Atti legislativi e altri strumenti, Bruxelles, 16 luglio 2002, in
RCUE, doc. 11005/02, che aggiorna la posizione comune sull’embargo attuato ai danni dell’Iraq.
73
Cfr. l’intervento del ministro danese degli Affari europei, Bertel Haarder, in Parlamento europeo,
Discussioni, in APE, Strasburgo, seduta del 4 settembre 2002.
74
Ibidem, intervento di Patten.
75
Si vedano le due Dichiarazioni sul Kosovo in Consiglio europeo, Conclusioni della Presidenza, Berlino,
24-25 marzo 1999, doc. 100/1/99 (http://www.consilium.europa.eu/uedocs/cms_data/ docs/pressdata/it/ec/
00100.i9.html), in cui si fa leva sull’«obbligo morale» dell’Europa di fermare la «catastrofe umanitaria al suo
interno». Cfr. inoltre il discorso del commissario Patten in Parlamento europeo, Discussioni, in APE, Bruxelles, seduta del 9 ottobre 2002, che tuttavia fornisce un’interpretazione discutibile dell’intervento del 1999,
presentato come precedente di guerra umanitaria e “preventiva”, nonostante la pulizia etnica da parte delle
milizie serbe fosse già in corso al momento dell’avvio delle operazioni NATO.
139
terrorismo a quello della neutralizzazione preventiva degli Stati canaglia, fino a prefigurare
l’utilità della guerra come mezzo di diffusione dei valori occidentali. Nell’autunno del
2002 la partita si trasferisce nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, dove emergono fratture
interne al fronte Ue. Le certezze degli Stati Uniti e, a ruota, della Gran Bretagna,
favorevoli a un’azione incisiva contro l’Iraq, si scontrano con le riserve degli altri membri
permanenti: Francia, Russia e Cina, dotati di diritto di veto. L’Unione europea, rappresentata in tale frangente anche da Spagna (filo-USA) e Germania (alquanto scettica), si
trova così impossibilitata a esprimere una posizione comune sul progetto di una nuova
risoluzione76. A fronte di un generale consenso sulla richiesta di riprendere le ispezioni, il
punto controverso è la minaccia di ricorso alla forza in caso di inadempienza da parte irachena, che il versante americano vorrebbe esplicitare. Accogliendo l’istanza di numerose
delegazioni, tra cui la maggioranza di quelle europee77, l’8 novembre il Consiglio di
Sicurezza approva la risoluzione 1441 che prevede il ritorno degli ispettori in Iraq con un
ampio mandato, senza tuttavia sancire alcun automatismo – ma solo «gravi conseguenze»
– in seguito al prolungarsi dell’ostruzionismo del regime baathista78. La soluzione è accolta
positivamente dal Consiglio Ue della settimana successiva, che la interpreta come l’«unico
modo in cui l’Iraq può evitare un ulteriore confronto», espressione artatamente concepita
per evitare di prendere posizione sulla plausibilità della guerra79. La prospettiva militare
resta dunque impregiudicata, ma è la sua plausibilità come “minaccia concreta” a
convincere Saddam Hussein ad accogliere gli ispettori ONU per scongiurare conseguenze
peggiori80.
La missione internazionale inizia il 27 novembre, ma incontra qualche difficoltà
76
Sulle divergenze fra gli Stati Ue all’interno del Consiglio di Sicurezza si vedano M. Farrell, EU
Representation and Coordination with the United Nations e C. Hill, The European Powers in the Security
Council: Differing Interests, Differing Arenas, entrambi in K.V. Laatikainen and K.E. Smith (eds.), The
European Union at the United Nations. Intersecting Multilateralism, New York-Basingstoke, Palgrave
Macmillan, 2006, pp. 33-36 e pp. 53-54 rispettivamente.
77
Cfr. l’intervento di Javier Solana in Parlamento europeo, Discussioni, in APE, Bruxelles, 6 novembre
2002, che presenta come successo dell’Ue la momentanea esclusione della guerra come punizione inevitabile
per l’Iraq.
78
United Nations – Security Council, Resolution 1441, New York, 8 November 2002, doc. S/RES/1441
(2002), reperibile all’indirizzo web: http://daccess-ods.un.org/TMP/8688477.html, punto 13.
79
Consiglio dell’Unione europea, Nota del Segretariato generale del Consiglio, Bruxelles, 15 novembre
2002, in RCUE, doc. 14341/02, p. 2. Il mese successivo si pronuncerà in tal senso anche il Consiglio europeo
di Copenaghen (cfr. Dichiarazione del Consiglio europeo sull’Iraq, in Consiglio dell’Unione europea, Nota
della Presidenza, Bruxelles, 29 gennaio 2003, in RCUE, doc. 15917/02, p. 16). Le parole della risoluzione
saranno testualmente riprese in occasione del vertice NATO di Praga del 21-22 novembre 2002 (NATO
Summit, Statement on Iraq by the Heads of State and Government, Prague, 21-22 November 2002, in Heine
(ed.), From Laeken to Copenhagen, cit., p. 164).
80
Su questa particolare dinamica si vedano Beck, Lo sguardo cosmopolita, cit., pp. 156-169 e Walzer, Sì agli
ispettori, no alla guerra (2002), in Id., Sulla guerra, cit., pp. 147-148, a giudizio dei quali la minaccia
avrebbe molta più credibilità se gli Stati europei la sostenessero compattamente.
140
dovuta alla scarsa collaborazione degli iracheni. Anche in virtù di questi inconvenienti,
l’amministrazione Bush rimane ferma sulle proprie posizioni, lasciando intendere di essere
pronta a procedere unilateralmente sulla strada dell’intervento, se le Nazioni Unite
continueranno a escluderlo. Il dissidio assume contorni sempre più formali dal gennaio del
2003. In una conferenza stampa congiunta del 22 gennaio (40° anniversario della firma del
Trattato tra Francia e Germania del 1963), il presidente Jacques Chirac e il cancelliere
Gerhard Schröder auspicano il prolungamento delle ispezioni, considerando il disarmo
dell’Iraq realizzabile in pochi mesi. Opponendosi alle pressioni americane, essi indicano
nel Consiglio di Sicurezza l’unica istituzione legittimata a decidere la guerra,
preannunciando un voto contrario di Francia e Germania a qualsiasi nuovo progetto di
risoluzione che accenni all’intervento armato81. Si rinverdiscono così i tempi dell’asse
franco-tedesco, antico motore dell’integrazione europea ma incrinato dalle divergenze sulla
riforma dell’Ue a fine anni Novanta82. La sua ricomposizione in funzione antiamericana è
letta come la convergenza fra il ritorno dell’“eurogollismo” francese83 e la volontà tedesca
di svincolarsi dalla “tutela” statunitense che dura dal secondo dopoguerra84.
Trovandosi a mediare fra posizioni ormai poco conciliabili, il Consiglio Ue trova un
punto d’intesa nella precisazione che la «responsabilità del Consiglio di sicurezza delle
Nazioni Unite nel mantenimento della pace e della sicurezza internazionale deve essere
rispettata»85. Per evitare che questa considerazione sia letta come appoggio alla linea
franco-tedesca e sconfessione di quella americana, i capi di governo di otto Stati membri (o
candidati all’ingresso) – Gran Bretagna, Spagna, Italia, Portogallo, Danimarca, Repubblica
Ceca, Polonia e Ungheria – diffondono il 30 gennaio una lettera che sollecita il Consiglio
di Sicurezza a non tollerare ulteriormente il comportamento di un dittatore e di uno Stato
indifferenti alle risoluzioni che li riguardano. Escludendo nuovi provvedimenti e
sfuggendo alle proprie responsabilità, le Nazioni Unite intaccherebbero sensibilmente la
81
Per un resoconto, si veda M. Nava, Francia e Germania, insieme contro la guerra, «Corriere della Sera»,
23 gennaio 2003, p. 6. Cfr. inoltre Entretien du Président de la République, M. Jacques Chirac, et du Chancelier de la République Fédérale d’Allemagne, M. Gerhard Schröder, Paris, 22 January 2003, in Missiroli
(ed.), From Copenhagen to Brussels, cit., pp. 340-341 (trascrizione parziale dell’intervista a «France 2» e
«ARD»).
82
A. Missiroli, L’asse franco-tedesco, l’Iraq e l’Europa, in Vacca (a cura di), Il dilemma euroatlantico, cit.,
pp. 97-116.
83
T. Garton Ash, Free World. America, Europa e il futuro dell'Occidente (2004), Milano, Mondadori, 2005,
pp. 53-91.
84
Si vedano in proposito V.E. Parsi, Europe and America: Still an Inevitable Alliance?, in M. Evangelista e
V.E. Parsi (eds.), Partners or Rivals? European-American Relations after Iraq, Milano, Vita e Pensiero,
2005, pp. 23-24 e G. Timmins, Germany: Solidarity Without Adventures, in R. Fawn and R. Hinnebusch
(eds.), The Iraq War. Causes and Consequences, Boulder-London, Lynne Rienner, 2006, pp. 62-65.
85
Consiglio dell’Unione europea, Risultati dei lavori del Consiglio «Affari generali» e relazioni esterne,
Bruxelles, 28 gennaio 2003, in RCUE, doc. 5798/03, p. 2.
141
propria credibilità86. Leader di questo gruppo di paesi, che offrono sostegno ai progetti di
Bush, è la Gran Bretagna, la cui posizione è forzata. Dopo aver aiutato Colin Powell a
convincere Bush dell’opportunità di esperire la via dell’ONU, il premier Tony Blair si vede
obbligato a rispettare l’impegno preso nel «patto faustiano» di Camp David (settembre
2002) e cioè seguire la scia americana in caso di mancato accordo nel Consiglio di
sicurezza87.
A questo punto gli schieramenti in campo sono definiti e la rottura fra gli Stati
membri è di dominio pubblico, anche se per effetto di interventi esterni al perimetro
istituzionale Ue. Alla luce della situazione che si va configurando, Javier Solana è costretto
a puntualizzare in Parlamento che «[la] pace e la guerra, la vita e la morte sono decisioni
che competono agli Stati e mai uno Stato sarà disposto a permettere che un altro Stato gli
imponga di partecipare a una guerra, né al contrario potrà imporre ad altri di prendere parte
a una guerra»88. Tale affermazione contiene la più evidente manifestazione di pessimismo
sui futuri scenari della politica di difesa europea, poiché esclude ogni possibilità che il
metodo sovranazionale arrivi a coinvolgere anche quel settore, indicandolo come il nucleo
più intimo e intangibile della sovranità.
Quando, il 5 febbraio, il segretario di Stato Powell presenta all’Assemblea generale
delle Nazioni Unite le presunte prove raccolte dai servizi di intelligence occidentali sulle
responsabilità dell’Iraq nella produzione delle WMDs e sul collegamento con il terrorismo
internazionale89, i ministri degli Esteri del gruppo Vilnius, che riunisce i paesi dell’Europa
orientale in procinto di entrare nella NATO, adottano una Dichiarazione che riconosce
l’«evidenza» degli argomenti e offrono la propria disponibilità a partecipare a una
coalizione chiamata a far rispettare le decisioni già assunte dall’ONU90. Tale atto conferma
che gli Stati dell’ex blocco sovietico, intravedendo la prospettiva di entrare a far parte del
“mondo libero”, si sentono più filo-americani di alcuni fra i fondatori del patto atlantico91.
86
Per il testo, cfr. Missiroli (ed.), From Copenhagen to Brussels, cit., pp. 343-344. In Italia la lettera è
pubblicata sul «Il Giornale» del 30 gennaio 2003.
87
A. Romano, The Boy. Tony Blair e i dilemmi della sinistra, Milano, Mondadori, 2005, pp. 192-207. Cfr.
anche Id., Tony Blair, la «special relationship» e l’Iraq, in Vacca (a cura di), Il dilemma euroatlantico, cit.,
pp. 129-135.
88
Si veda la replica finale di Solana in Parlamento europeo, Discussioni, in APE, Bruxelles, seduta del 29
gennaio 2003.
89
Cfr. E. Caretto, «Credetemi, Saddam è colpevole e va fermato», «Corriere della Sera», 6 febbraio 2003, p.
3.
90
Statement of the Vilnius Group Countries, in Missiroli (ed.), From Copenhagen to Brussels, cit., p. 345.
91
Si vedano in proposito: R. Di Leo, Lo strappo atlantico. America contro Europa, Roma-Bari, Laterza,
2004, pp. 42-56; A. Ghecin, When the «New Europeans» Encountered «the Old Continent». Redefinig
Europe, Re-imagining the World in the Context of the War against Iraq, in Evangelista e Parsi (eds.),
Partners or Rivals?, cit., pp. 71-201; S. Giusti, Le relazioni transatlantiche: la prospettiva dell’Europa
142
Sull’altro versante, gli Stati europei raccolti intorno a Francia e Germania incontrano la
solidarietà della Russia, cioè proprio la potenza alla cui influenza le nuove democrazie
post-sovietiche cercano di sfuggire92.
La posizione franco-tedesca trova un sostegno esplicito nell’opinione pubblica
europea, in larga misura contraria alla guerra. La manifestazione pacifista del 15 febbraio,
svolta nelle principali metropoli del continente, è immediatamente letta da alcuni
intellettuali come segnale incoraggiante verso l’approdo a una coscienza e a un’identità
comuni ai popoli europei. Nel ricordo delle tragedie del XX secolo, essi affermerebbero il
rifiuto della violenza e la propensione alla cooperazione internazionale e alla
giuridificazione dei rapporti fra i gli Stati93. I cittadini europei, dunque, paiono più
disinvolti e compatti dei loro governi nell’opposizione all’intervento in Iraq. Non è casuale
che l’istituzione deputata a esprimerne gli umori – il Parlamento europeo – ne condivida
l’orientamento di fondo, adottando una Risoluzione decisamente critica sulla prospettiva di
una guerra. Con il voto contrario del gruppo popolare, convinto sostenitore dell’opzione
bellica di fronte alle inadempienze irachene, una maggioranza di centro-sinistra (dai
liberali alla Sinistra Europea) riconosce la natura nefasta del regime iracheno, tale da far
ipotizzare la consegna del dittatore al Tribunale penale internazionale, ma nel contempo
evidenzia la necessità di portare a termine le ispezioni, astenendosi da interventi militari, a
maggior ragione se unilaterali94. Seri dubbi affiorano anche negli ambienti culturali
americani in precedenza benevoli verso l’azione in Aghanistan. Benché compaia una
nuova lettera-manifesto favorevole alla guerra irachena, studiosi di prestigio come Walzer
avvertono ora l’esigenza di prendere le distanze dal secondo possibile conflitto95.
centro-orientale, in Parsi, Giusti e Locatelli (a cura di), Esiste ancora la comunità transatlantica?, cit., pp.
197-231.
92
Joint Declaration by Russia, Germany and France on Iraq, Paris, 10 February 2003, in Missiroli (ed.),
From Copenhagen to Brussels, cit., p. 346.
93
Cfr. in particolare J. Habermas e J. Derrida, «Il 15 febbraio, ovvero: ciò che unisce gli europei» (2003), in
seguito raccolto in J. Habermas, L’occidente diviso (2004), Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 19-30, considerato
il manifesto culturale per la costruzione di un comune sentire europeo in contrapposizione alla tendenza
militarista americana. Nella medesima direzione si muovono Richard Rorty, Umberto Eco, Gianni Vattimo,
Fernando Savater e Adolf Muschg. A favore delle ragioni americane si schierano invece A. Glucksmann,
Occidente contro Occidente (2003), Torino, Lindau, 2004 e R. Dahrendorf, L’Europa e l’Occidente: vecchie
e nuove identità (2003), in Id., La società riaperta. Dal crollo del muro alla guerra in Iraq (2004), RomaBari, Laterza, 2005, pp. 374-390.
94
Si vedano Parlamento europeo, Risoluzione del Parlamento europeo sulla situazione in Iraq, Bruxelles, 30
gennaio 2003, in APE, doc. P5_TA (2003) 0032 e Id., Discussioni, in APE, sedute del 4 settembre 2002
(Strasburgo), 9 ottobre 2002 (Bruxelles), 6 novembre 2002 (Bruxelles), 29 gennaio 2003 (Bruxelles), 12
febbraio 2003 (Strasburgo), 12 marzo 2003 (Strasburgo), 20 marzo 2003 (Bruxelles, seduta straordinaria).
95
L’approvazione alla condotta dell’amministrazione Bush è sancita in Pre-Emption, Iraq, and Just War: a
Statement of Principles, 14 November 2002, reperibile all’indirizzo web: http://www.americanvalues.org
/html/1b_pre-emption.html, su cui cfr. Elshtain, Just War against Terror, cit., pp. 182-183 e, criticamente, E.
Balibar, L’Europa, l’America, la guerra (2003), Roma, Manifestolibri, 2003, pp. 81-86. Sull’atteggiamento
143
Un estremo tentativo di conciliazione è compiuto con il Consiglio europeo
straordinario del 17 febbraio, sotto gli auspici della presidenza greca, che sostiene
l’esigenza di riportare la politica e la sua arte della mediazione al centro di un dibattito che
scivola pericolosamente verso il conflitto96. Le delegazioni degli Stati membri concordano
sul fatto che le WMDs costituiscono una minaccia reale, che il rapido e completo disarmo
dell’Iraq è l’obiettivo fondamentale, che l’ONU rappresenta la via maestra e la guerra
l’ultima, e «non inevitabile», risorsa97. Sfrondate dei tratti più marcati, tra cui la
prospettiva di iniziare una guerra per abbattere un regime sgradito, agli europei le richieste
degli Stati Uniti non appaiono del tutto irragionevoli o infondate. Il disaccordo riguarda
soprattutto la valutazione sul grado di maturazione del processo in atto98. Riunito alle
Azzorre a metà marzo, il fronte filoamericano comunica di aver esaurito la pazienza e di
considerare “imminente” – nel senso illustrato qualche pagina addietro – la minaccia99.
La guerra scoppia il 20 marzo 2003 ed è letta come manifestazione di un contrasto
quasi “antropologico” fra europei e americani. Per un verso, giunge a tali conclusioni chi
pone l’accento sull’antiamericanismo prodotto da atavici pregiudizi, da una forma di disprezzo verso il nuovo mondo, che le élites europee avrebbero alimentato nell’età moderna
e solo recentemente divenuto fattore di mobilitazione delle masse, per la costruzione di
un’identità alternativa al modello americano100. Altri rimarcano, specularmente,
l’antieuropeismo militante di alcuni neocons, che nasconderebbe sotto un linguaggio
maschilista – si pensi all’uso dei rimandi mitologici a Marte e Venere – un risentimento
verso l’Ue, potenziale ostacolo al protagonismo americano sulla scena internazionale101. Si
di Walzer si vedano Walzer, Sì agli ispettori, no alla guerra, cit., pp. 141-149, Id., Allora, è una guerra
giusta? (2003), in Id., Sulla guerra, cit., pp. 159-161 e Id., La libertà e i suoi nemici. Nell’età della guerra al
terrorismo, intervista di M. Molinari, Roma-Bari, Laterza, 2003, pp. 44-45 e p. 89.
96
Cfr. l’intervento di Tassos Yannitsis, viceministro greco per gli Affari Esteri, Parlamento europeo,
Discussioni, in APE, Strasburgo, seduta del 12 febbraio 2003.
97
Consiglio europeo, Conclusioni della Presidenza, in Consiglio dell’Unione europea, Nota della
Presidenza, Bruxelles, 21 febbraio 2003, in RCUE, doc. 6466/03.
98
Si veda l’intervento di Patten in Parlamento europeo, Discussioni, in APE, Bruxelles, seduta straordinaria
del 20 marzo 2003.
99
Il vertice delle Azzorre, che si svolge il 15 e 16 marzo e coinvolge Stati Uniti, Gran Bretagna, Spagna e
Portogallo, dà all’ONU ventiquattr’ore di tempo per assumere una posizione più energica sull’Iraq. In caso
contrario, prenderebbe il via l’azione unilaterale (cfr. R. Fawn, The Iraq War: Unfolding and Unfinished, in
Id. and Hinnebusch (eds.), The Iraq War, cit., p. 6).
100
A.S. Markovits, La nazione più odiata. L’antiamericanismo degli europei (2007), Torino, Einaudi, 2007,
pp. 267-269 e nota 2 a p. 294. Il titolo adottato per la traduzione italiana, peraltro, travisa parzialmente il
messaggio di quello originale, Uncouth Nation. Why Europe Dislikes America, e cioè, alla lettera: “La
nazione rozza. Perché all’Europa non piace l’America”.
101
Si vedano Di Leo, Lo strappo atlantico, cit., pp. IX-X e p. 15 e M. Nolan, Antiamericanismo e
antieuropeismo, in Vacca (a cura di), Il dilemma euroatlantico, cit., pp. 57-58. Sulla dimensione storica della
conflittualità transatlantica cfr. M. Dembinski, Still Hanging Togheter? Reflections on the Harmonious Past,
144
consideri in proposito la nota distinzione di Robert Kagan fra gli americani, depositari
della consapevolezza di vivere in un mondo hobbesiano in cui la guerra e le altre “arti
marziali” sono ancora necessarie, e gli europei, “venusiani” convinti di trovarsi in un
paradiso kantiano e portati a negare la legittimità dell’uso della forza per il solo fatto di
non possedere i mezzi per esercitarla102.
Quest’ultima
interpretazione
corre
il
rischio
di
veicolare
un’immagine
eccessivamente irenica dell’Europa e specificamente dell’Unione europea. La mancanza di
mezzi e risorse militari sovranazionali – che sarebbero in grado di incidere sui destini del
mondo in modo più profondo di quanto sia concesso alle forze armate nazionali – risponde
solo in parte alle istanze non violente sedimentate in ampi settori dell’opinione pubblica
europea dopo l’epoca delle guerre mondiali. Il profilo “kantiano” dell’Ue è anche il frutto
delle logiche che governano il processo di integrazione. Le istituzioni europee hanno
scarsa familiarità con la dimensione bellica non tanto per una convinta scelta “pacifista”,
che pretenderebbero di estendere su scala globale, quanto piuttosto per la contrarietà degli
Stati membri a cedere all’Unione le quote di sovranità relative agli ambiti della politica
estera e di sicurezza.
Una siffatta esaltazione della dicotomia America-Europa trascura inoltre le divisioni
emerse all’interno di quest’ultima, riconosciute invece dal segretario alla Difesa Rumsfeld,
teorico della distinzione fra “vecchia” e “nuova” Europa. Prima ancora di entrare in
collisione con gli alleati, l’Ue si accartoccia su se stessa, mettendo in discussione i
progressi nei campi PESC e PESD, faticosamente maturati nel decennio precedente e tradotti, pur senza particolari entusiasmi, nel progetto di Trattato costituzionale. I problemi
non riguardano solo i rapporti con l’Europa centro-orientale, protagonista di un
allargamento ormai imminente. A destare inquietudine è soprattutto la distanza – e, in certe
fasi, l’incomunicabilità – fra i principali Stati membri, da cui si attenderebbe qualche
sacrificio in vista di un avanzamento dell’integrazione. Viceversa, si registra
l’arroccamento di ciascuno di essi sulle proprie esigenze e priorità, alle quali il valore
dell’unità europea cede decisamente il passo, come conferma il prolungato susseguirsi di
documenti e prese di posizione al di fuori delle sedi istituzionali e nel disinteresse per le
opinioni degli altri. Il discorso vale tanto per il versante filoamericano, quanto per quello
Crisis-ridden Present and Uncertain Future of the Transatlantic Relationship, in Evangelista e Parsi (eds.),
Partners or Rivals?, cit., pp. 61-63 in particolare.
102
R. Kagan, Paradiso e potere. America ed Europa nel nuovo ordine mondiale (2003), Milano, Mondadori,
2003, che riprende Id., Power and Weakness, «Policy Review», n. 113, June-July 2002, pp. 13-28.
145
franco-tedesco103. Tale dinamica centrifuga è peraltro favorita dal comportamento degli
Stati Uniti, che giudicano conveniente instaurare rapporti bilaterali o a geometria variabile
con gli Stati membri anziché riconoscere all’Ue un ruolo effettivo di rappresentanza. Si
tratta del metodo cherry picking, letteralmente “cogliere la ciliegina”104.
Come nel caso dell’Afghanistan talebano, il rovesciamento del regime baathista in
poche settimane apre le porte alla gestione del complesso dopoguerra. Pur non avendo
appoggiato la scelta di ricorrere alle armi, l’Ue contribuisce a finanziare la ricostruzione
del paese, della sua economia, delle sue istituzioni, stanziando 1,25 miliardi di euro
nell’ottobre del 2003 e avviando in seguito la missione Eujust Lex (2005), finalizzata a
formare funzionari iracheni incaricati di svolgere indagini penali105. Il mantenimento della
sicurezza è affidato alla Coalitional Provisional Authority guidata da Paul Bremer, cui
succederà il governo provvisorio di Iyad Allawi (giugno 2004) fino alle elezioni legislative
del dicembre 2005, ma proseguono gli scontri fra le milizie locali e le truppe occidentali,
che assumono spesso le forme dell’attentato terroristico. Nonostante non abbia timore nel
qualificare come «occupanti» le forze della coalizione operante in Iraq106, l’Ue è assai
meno esplicita nel riconoscere una funzione di “resistenza” all’azione dei gruppi che le
combattono, evitando un linguaggio che contribuirebbe in un certo senso a legittimare lo
status degli insorti. Qualche segnale in direzione opposta giunge da parte della compagine
socialista al Parlamento europeo, che accenna in più occasioni all’emergere di «qualcosa
che si potrebbe paragonare a una resistenza», a «una rivolta popolare» e all’opera dei
«resistenti»107. A rendere problematica la lettura della guerriglia e del terrorismo
postbellici come forme di lotta di liberazione nazionale è anche la consapevolezza che lo
scontro con le truppe di occupazione richiama in Iraq militanti jihadisti di varie nazionalità,
poco interessati al futuro del paese in quanto tale e invece animati da pulsioni
genericamente antioccidentali.
103
J. Howorth, France: Defender of International Legitimacy, in Fawn and Hinnebusch (eds.), The Iraq War,
cit., legge il comportamento francese come sintomo di arroganza nei confronti degli altri Stati membri (pp.
57-58).
104
J.C. Hulsman, «Cogli la ciliegina»: l’America sfrutta la debolezza europea, «Limes», a. XI, n. 1, 2003,
pp. 141-150.
105
Cfr. Commissione delle Comunità europee, Comunicazione della Commissione al Consiglio e al
Parlamento europeo. L’Ue e l’Iraq. Quadro per l’impegno, Bruxelles, 9 giugno 2004, in RCE, doc. COM
(2004) 417, pp. 2-3 e Consiglio dell’Unione europea, Atti legislativi ed altri strumenti, Bruxelles, 1° marzo
2005, in RCUE, doc. 6328/05, pp. 5-6.
106
Commissione delle Comunità europee, Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento
europeo. Conferenza di Madrid sulla ricostruzione in Iraq, 24 ottobre 2003, Bruxelles, 1° ottobre 2003, in
RCE, doc. COM (2003) 575, p. 3 e p. 5.
107
Parlamento europeo, Discussioni, in APE, Strasburgo, seduta del 3 settembre 2003, intervento di Barón
Crespo, e Id., Discussioni, in APE, Strasburgo, seduta del 6 luglio 2005, interventi di Véronique De Keyser e
Lilli Gruber.
146
Il dopoguerra è anche l’occasione per verificare la consistenza delle accuse rivolte al
regime di Saddam. Non serve molto tempo per scoprire che delle WMDs non c’è traccia e
che i presunti legami con Al Qaeda – possibile acquirente delle armi non convenzionali
irachene – non hanno alcun riscontro effettivo, come sostenuto da tempo da personalità
politiche e analisti europei108. Questo insieme di circostanze induce le autorità americane a
ridimensionare, fra le molteplici ragioni addotte per giustificare l’intervento, quelle che a
posteriori non appaiono più sostenibili. La crescente enfasi sulla natura autoritaria,
immorale e criminale del governo iracheno, e sulla necessità di abbatterlo, ha lo scopo di
occultare il fallimentare tentativo di dimostrarne responsabilità specifiche. In quest’ottica,
che porta all’estremo la filosofia neoconservatrice, l’esistenza di regimi “corrotti” diventa
la radice di ogni riflessione sulle dinamiche internazionali. Come suggerirà la revisione
strategica americana del 2006109, anziché accertare la sussistenza di comportamenti
effettivi dei presunti nemici, è opportuno ragionare in termini di pericoli “potenziali”, i cui
principali vettori sono gli Stati canaglia, per definizione ostili all’Occidente liberale. La
presenza di dittature e tirannie, che negano alle fondamenta i valori della civiltà
democratica, è di per sé motivo di inquietudine per la sicurezza nazionale e ragione
sufficiente per provocare un’azione preventiva.
Di fronte a queste analisi, che prendono lo spunto dal problema del terrorismo per
formulare considerazioni decisamente più generali sulla dimensione della sicurezza e della
violenza politica, intrecciando in modo originale piani lessicali fra loro teoricamente
distinti (guerra, terrorismo, terrore, armi di distruzione di massa, democrazia, libertà,
morale, prevenzione, ecc.), i governi europei si trovano per molti versi spiazzati. Il
discorso vale tanto per gli Stati membri che assecondano la condotta americana, quanto per
quelli che la contestano. Nessuno di essi ha ritenuto di fondare le proprie scelte su
un’elaborazione politico-dottrinale tesa a ridefinire in termini teorici le categorie
concettuali e istituzionali evocate un po’ confusamente nel dibattito internazionale. Dal
momento che alcune delle incomprensioni interne all’Ue sembrano attribuibili all’assenza
di un approccio strategico almeno parzialmente condiviso, è su tale progetto che –
108
Si vedano per esempio l’intervento di Patten in Parlamento europeo, Discussioni, in APE, Bruxelles, seduta del 9 ottobre 2002, che sottolinea l’assenza di «prove pubbliche convincenti», e i contributi di: P. Cornish, P. van Ham and J. Krause (eds.), Europe and the Challenge of Proliferation, Paris, Institute for Security
Studies, Chaillot Paper n. 24, May 1996; B. Schmitt (ed.), Nuclear Weapons: A New Great Debate, Paris, Institute for Security Studies, Chaillot Paper n. 48, July 2001; H. Müller, Terrorism, Proliferation: A European
Threat Assessment, Paris, Institute for Security Studies, Chaillot Paper n. 58, March 2003, pp. 70-74; G.
Lindstrom and B. Schmitt (eds.), Fighting Proliferation – European Perspectives, Paris, Institute for Security
Studies, Chaillot Paper n. 66, December 2003.
109
NSS 2006, pp. 23-24.
147
dall’estate del 2003 – le diplomazie europee cominciano a lavorare.
4.3 La “dottrina Solana”: un’alternativa al bellicismo messianico
È il Consiglio europeo di Salonicco a innescare la procedura che porterà all’adozione
di una strategia europea in materia di sicurezza. Accogliendo l’invito formulato dal vertice
informale dei ministri degli Esteri a Kastellorizo e dall’Alto Rappresentante PESC, i capi
di Stato e governo avviano i lavori per la preparazione di un testo che non avrà solo il
compito di riordinare gli strumenti per la protezione del territorio Ue da attacchi esterni,
ma anche l’ambizione di far progredire i rapporti all’interno della comunità internazionale:
La nostra Unione è impegnata a far fronte alle sue responsabilità, garantendo un’Europa sicura e
un mondo migliore. A tal fine contribuiremo risolutamente a rafforzare e rimodellare le
istituzioni di governance mondiale e cooperazione regionale e ad estendere la portata del diritto
internazionale. Sosterremo la prevenzione dei conflitti, promuoveremo la giustizia e lo sviluppo
sostenibile, contribuiremo ad assicurare la pace e difenderemo la stabilità nella nostra regione e
nel mondo110.
Benché in questa fase la lotta al terrorismo e le conseguenze della guerra irachena siano
senza dubbio i temi cruciali della politica estera europea, il progetto varato a Salonicco ha
l’obiettivo più generale di definire un quadro organico delle priorità e delle modalità
d’azione dell’Unione sul piano internazionale. La volontà di far convivere nel nuovo
documento, approvato nel dicembre del 2003, un richiamo agli interessi fondamentali
dell’Ue e una vocazione ideale che dovrebbe guidare le iniziative europee nel mondo è
evidente fin dal titolo. La formula Un’Europa sicura in un mondo migliore111 – scelta al
termine del paziente lavoro di tessitura svolto dall’Alto Rappresentante, da cui deriva l’uso
di indicare la strategia europea come “dottrina Solana” – accenna tanto alle necessità
immediate degli Stati membri, quanto alla “qualità” complessiva delle relazioni
internazionali, echeggiando peraltro il passo del testo strategico americano che enuncia
l’impegno a «contribuire a rendere il mondo non solo più sicuro ma anche migliore»112.
Europa e Stati Uniti sembrano dunque concordare sulla tesi secondo cui le relazioni
internazionali non possono ridursi a un’arena dominata dalla forza bruta e dagli interessi
110
Consiglio europeo, Conclusioni della Presidenza, in Consiglio dell’Unione europea, Nota di trasmissione
della Presidenza, Bruxelles, 1° ottobre 2003, in RCUE, doc. 11638/03, p. 17.
111
Consiglio europeo, Un’Europa sicura in un mondo migliore. Strategia europea in materia di sicurezza,
Bruxelles, 12 dicembre 2003 (http://www.consilium.europa.eu/uedocs/cmsUpload/031208ESSIIIT.pdf).
112
NSS 2002, p. 1.
148
egoistici degli attori che la popolano. Il comune riferimento alla sfera dei valori non può
tuttavia celare le differenze fra le due strategie. La “dottrina Solana” appare più lucida nel
distinguere le minacce alla sicurezza: nonostante il terrorismo, la proliferazione delle armi
di distruzione di massa, i conflitti regionali, il fallimento degli Stati, ecc. possano
sovrapporsi parzialmente, si tratta di fenomeni concettualmente separati e dovuti a cause
complesse. In cima alla lista è il terrorismo:
Il terrorismo mette in pericolo la vita delle persone, comporta costi ingenti, cerca di minare
l’apertura e la tolleranza delle nostre società e costituisce una minaccia strategica crescente per
l'intera Europa. Sempre più, i movimenti terroristici possono contare su risorse finanziarie
ingenti, sull’allacciamento in reti telematiche e sono disposti a usare una violenza illimitata per
causare un numero enorme di vittime.
La più recente ondata di terrorismo ha portata globale ed è connessa all'estremismo religioso
violento. Essa scaturisce da cause complesse, tra cui la pressione della modernizzazione, le crisi
culturali, sociali e politiche e l’alienazione dei giovani che vivono in società straniere. Questo
fenomeno è anche insito nella nostra stessa società.
L’Europa è per tale terrorismo un obiettivo e nel contempo una base: i Paesi europei sono degli
obiettivi e sono stati attaccati. Basi logistiche di cellule di al Qaeda sono state scoperte nel
Regno Unito, in Italia, in Germania, in Spagna e in Belgio. Un’azione europea concertata è
indispensabile113.
In primo luogo, dunque, la strategia europea prende in esame il terrorismo come fenomeno
generale e astratto, che colpisce le «persone» ma nel contempo si accanisce contro il
patrimonio ideale e simbolico delle società liberaldemocratiche del mondo occidentale. La
possibilità di accedere a tecnologie, finanziamenti e armi di nuova generazione mette
l’azione terroristica nelle condizioni di provocare danni sempre più devastanti, alla luce dei
quali essa non può più essere considerata un’insidia fastidiosa ma irrilevante per le grandi
dinamiche della vita internazionale. Il terrorismo acquisisce dunque lo status di «minaccia
strategica», nell’ambito di una trasformazione della sfera della sicurezza secondo cui
l’Europa è chiamata sempre meno a confrontarsi con «un attacco su vasta scala contro uno
degli Stati membri» e sempre più con «minacce nuove, più svariate, meno visibili e meno
prevedibili»114. La loro possibile sovrapposizione metterebbe gli europei «di fronte a una
minaccia estremamente grave»115, in grado di eguagliare i danni tipici di un ormai
113
Consiglio europeo, Un’Europa sicura in un mondo migliore, cit., p. 3.
Ibidem.
115
Ivi, p. 5.
114
149
improbabile attacco da parte di «Stati dotati di grandi forze armate»116.
In secondo luogo, viene posto l’accento sulla più innovativa forma di terrorismo,
caratterizzata dalla capacità di muoversi assecondando le dinamiche globali e dallo stretto
legame con il fondamentalismo religioso di tipo violento. Questo terrorismo è ricondotto a
cause interne ed esterne all’Europa – gli scompensi della modernizzazione, lo
sradicamento dei giovani che vivono in paesi diversi da quello d’origine, ecc. – ma
comunque di tipo “sociale”. Non c’è alcun cenno alla possibilità che il terrorismo sia
alimentato da scelte politico-militari delle potenze occidentali. L’insieme dei territori degli
Stati membri offre ai terroristi una duplice opportunità: lo si può scegliere come bersaglio,
anche se negli ultimi tempi gli attentati più cruenti lo hanno risparmiato, oppure utilizzare
per preparare azioni destinate a colpire altre aree del mondo, come avvenuto nel caso
dell’11 settembre.
Quanto alle altre sfide, la “dottrina Solana” riconosce che l’uso di armi non
convenzionali, eventualmente anche da parte di gruppi terroristici, costituisce
«potenzialmente la più importante minaccia alla nostra sicurezza»117. Il documento è
altrettanto categorico nello spiegare che la proliferazione di WMDs deve essere combattuta
con armi esclusivamente diplomatiche, rafforzando l’Agenzia internazionale per l’energia
atomica e i controlli sulla circolazione e sul traffico di materiali sensibili. Lo strumento
privilegiato sono i «trattati multilaterali»118 e non certo un intervento militare come quello
in Iraq. La ragione di questa posizione, assai distante da quella teorizzata dagli Stati Uniti,
risiede in ultima analisi nel rifiuto europeo di porre al centro della propria visione delle
relazioni internazionali la nozione di “Stato canaglia”. Attraverso la nuova strategia l’Ue
dimostra di non condividere l’idea che il regime illiberale, non democratico, moralmente
inaccettabile di uno Stato sia un motivo valido per attribuirgli intenzioni bellicose nei
confronti dei paesi “civili” e della comunità internazionale in generale, imboccando una
china che conduce fino alla giustificazione di un attacco armato ai suoi danni.
Ciò non significa che gli europei pongano tutti i paesi terzi sullo stesso piano. A fare
la differenza, tuttavia, non è tanto la natura intrinseca, l’essenza della loro forma di
governo, per molti versi insondabile, poiché oggetto di speculazioni filosofiche, quanto il
rispetto delle regole minime di convivenza adottate a livello internazionale:
116
Consiglio dell’Unione europea, Nota del Segretariato generale, Bruxelles, 10 giugno 2003, cit., p. 2.
Consiglio europeo, Un’Europa sicura in un mondo migliore, cit., p. 3.
118
Ivi, p. 6.
117
150
La qualità della società internazionale dipende dalla qualità dei governi che ne costituiscono le
fondamenta. La miglior protezione della nostra sicurezza è un mondo di stati democratici ben
amministrati. La diffusione del buon governo, il sostegno alle riforme politiche e sociali, il
contrasto della corruzione e dell’abuso di potere, lo stabilimento dello stato di diritto e il rispetto
dei diritti dell’uomo rappresentano i mezzi più efficaci per il rafforzamento dell’ordine
internazionale. […] Molti paesi si sono collocati al di fuori della società internazionale. Alcuni
hanno cercato l’isolamento, altri violano insistentemente le norme internazionali. È auspicabile
che questi paesi si riuniscano alla comunità internazionale e l’UE dovrà essere pronta a fornire
loro assistenza. Coloro che non lo vogliono dovranno capire che hanno un prezzo da pagare,
anche nelle relazioni con l’Unione europea.
La diffusione della democrazia, dello stato di diritto, della tutela dei diritti umani sono
ovviamente indicatori della «qualità» del sistema internazionale, ma la verifica della loro
esistenza effettiva non è affidata alle valutazioni di un singolo Stato, che si arroghi la
facoltà di stabilire metafisicamente la distinzione fra bene e male, giusto e ingiusto, morale
e immorale, e di punire i soggetti devianti. L’Ue lascia intendere di giudicare i paesi in
base all’aderenza alle «norme internazionali», che può portare a considerare un governo
“fuorilegge” – per usare il lessico rawlsiano – e farne l’oggetto di ritorsioni, ma tale
etichetta dipende da specifici e documentabili comportamenti, e non da antipatie o scarse
affinità elettive. Rispetto alla “dottrina Bush”, inoltre, la strategia europea sembra dare più
peso alle crisi locali e regionali che portano al dissolvimento delle istituzioni statali e alla
lotta senza quartiere tra fazioni armate, cioè a un conflitto di cui fanno immediatamente le
spese le popolazioni dell’area ma che, nel lungo periodo, sul modello dell’Afghanistan
talebano, può diventare fonte di minaccia per l’intera comunità internazionale119.
Anche il metodo d’azione individuato dalla “dottrina Solana” è chiaramente
alternativo a quello americano. È vero che, soprattutto in relazione all’insorgenza di ostilità
e tensioni nelle aree a rischio, anche la strategia europea si sofferma sulla necessità di un
«impegno preventivo»120, ma l’espressione è declinata in un’accezione differente da quella
bushiana. Come mostra la versione inglese del documento, gli europei ricorrono al termine
preventive per alludere alla necessità di scongiurare le minacce molto distanti nel tempo.
Ma tale scopo è perseguito con una profilassi di tipo diplomatico, amministrativo,
economico, che in alcuni casi può spingersi fino ad azioni ibride come il peacekeeping,
119
Ivi, p. 1 e p. 4. Il punto è evidenziato da Caffarena, A mali estremi, cit., pp. 107-110 e M. Del Pero, La
politica estera e di sicurezza dell’Unione, in Vacca (a cura di), Il dilemma euroatlantico, cit., pp. 221-225.
L’assenza di una strategia americana di ampio respiro sul fallimento degli Stati è rimarcata da C.A. Crocker,
Engaging Failing States, «Foreign Affairs», vol. LXXXII, n. 5, September-October 2003, pp. 32-44.
120
Consiglio europeo, Un’Europa sicura in un mondo migliore, cit., p. 11.
151
mentre la guerra e i mezzi militari classici sono riservati a pericoli immediati e rientranti
nel concetto di “prevenzione” codificato nella tradizione internazionalistica (cioè gli
attacchi armati, che appaiono peraltro in via di estinzione). Si tratta di un’impostazione
inconciliabile con quella americana, che rifiuta la distinzione fra pericoli imminenti e
potenziali e afferma la liceità del ricorso alle armi pesanti per sgominare gli uni e gli altri,
indipendentemente da quanto previsto da convenzioni e trattati121.
L’impressione di una divaricazione fra le sensibilità politico-strategiche emerse sulle
due sponde dell’Atlantico è ulteriormente rafforzata dall’insistenza con cui la “dottrina
Solana” fa riferimento alla dimensione del «multilateralismo efficace»122. Le Nazioni
Unite, la NATO e i vari partenariati esistenti sono le sedi formali entro cui l’Ue e i suoi
Stati membri ritengono di dover discutere dei temi transnazionali in agenda, andando alla
ricerca di soluzioni e misure accompagnate da un ampio consenso. L’Unione è chiamata a
sviluppare i propri rapporti con i grandi attori del sistema internazionale – Stati Uniti,
Russia, Cina, India ecc. – ma anche con le aggregazioni nate, come la stessa Ue, per
favorire la cooperazione all’interno di alcune macroregioni e divenute soggetti
imprescindibili per la costruzione di un ordine globale pacifico, economicamente efficiente
ma possibilmente meno squilibrato, favorevole allo sviluppo sociale e culturale, grazie al
concorso di procedure e istituzioni multilaterali123. Almeno nelle intenzioni, gli europei si
fanno dunque promotori di un modello di governance policentrica e rappresentativa degli
interessi delle diverse parti del pianeta, tra loro in dialogo per rintracciare principi e metodi
condivisi nella gestione delle risorse, delle sfide e delle prospettive che riguardano tutti gli
attori. Ne scaturisce, com’è evidente, una linea di condotta diametralmente opposta a
quella seguita dall’amministrazione Bush a partire dal 2002. Le coalizioni di “volenterosi”,
sul modello di quella responsabile della guerra in Iraq, sono frutto di iniziative individuali
della principale potenza mondiale e dell’adesione pressoché incondizionata dei governi
che, per varie ragioni, si allineano alle sue richieste, contribuendo a imporre
unilateralmente a tutta la comunità internazionale le conseguenze di quelle decisioni.
Le ambizioni europee così tratteggiate devono tuttavia essere tradotte in pratica,
offrendo un’alternativa effettiva alla “guerra al terrore” intrapresa dagli Stati Uniti. Per
dare credibilità al proprio inno al multilateralismo, l’Ue è chiamata a fornire risposte e
121
Cfr. Missiroli, La difesa europea, cit., p. 56.
Consiglio europeo, Un’Europa sicura in un mondo migliore, cit., pp. 11-15.
123
Si legga in questo senso il dibattito in corso sul “neoregionalismo” e in particolare M. Telò (ed.),
European Union and New Regionalism. Regional Actors and Global Governance in a Post-Hegemonic Era,
Aldershot-Burlington, Ashgate, 2007.
122
152
proposte convincenti in merito ai problemi più urgenti, a partire dall’intensificazione delle
missioni civili e militari all’estero, che richiede una maggiore disponibilità di strumenti
tecnici e finanziari. L’avanzamento dell’integrazione nei settori PESC/PESD e della
cooperazione operativa con la NATO è il principale obiettivo enucleato dalla “dottrina
Solana”, che conferisce ampio rilievo all’«indissolubile interconnessione degli aspetti
interni ed esterni della sicurezza»124 e alla conseguente obsolescenza dei principi strategici
della guerra fredda, in cui il maggiore pericolo era rappresentato da un’invasione armata.
Concordando con quanto già rilevato da parte americana, la strategia europea prende
definitivamente atto di quanto sia anacronistico – nell’era globale – declinare l’attività di
difesa in senso puramente “territoriale”. La protezione delle istituzioni, delle società, dei
cittadini degli Stati membri presuppone anche un’azione volta a disinnescare le minacce
prima che siano portate entro i confini, sulla scorta della consapevolezza che «la prima
linea di difesa sarà spesso all’estero»125.
Dall’analisi della strategia del dicembre 2003 emerge, in sintesi, la tendenza a
interpretare il terrorismo come un fenomeno da combattere in vari modi. Lo si può
contrastare promuovendo la diffusione dei valori democratici e nonviolenti, dello Stato di
diritto, del rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo, evitando accuratamente di svolgere
tale compito attraverso forzature e imposizioni. L’Ue si riconosce nel rifiuto della «forza
rozza delle armi e dell’istinto» a favore di quella «gentile del diritto e della civiltà»126.
L’esportazione verso paesi terzi della cultura giuridica europea, dai grandi principi alle
singole norme che amministrano i diversi settori delle società sviluppate, può essere
proficuamente condotta tramite la costruzione di partenaritati a tutto tondo – si pensi al
processo di Barcellona, destinato di fatto a confluire nella nuova Politica europea di
Vicinato (PEV)127 –, la tessitura di dialoghi politici e diplomatici, l’inserimento di clausole
“condizionali” negli accordi commerciali, la consultazione periodica su specifiche
questioni. L’insieme di queste azioni, rientranti a grandi linee nella più generale nozione di
soft power, è considerato il segnale che l’Ue rispecchia il modello della “potenza
124
Consiglio europeo, Un’Europa sicura in un mondo migliore, cit., p. 2.
Ivi, p. 7.
126
T. Padoa-Schioppa, Europa, forza gentile, Bologna, Il Mulino, 2001, p. 7. Cfr. anche J. Rifkin, Il sogno
europeo. Come l'Europa ha creato una nuova visione del futuro che sta lentamente eclissando il sogno
americano (2004), Milano, Mondadori, 2004.
127
Sul contributo che questo versante della politica europea fornisce alla lotta al terrorismo cfr. C. Sassi, Le
politiche dell’Unione europea per la lotta al terrorismo internazionale: la lotta al terrorismo nelle relazioni
euro-mediterranee, CSF Papers, Moncalieri, Centro Studi sul Federalismo, 2007 e S. Wolff, The
Mediterranean Dimension of EU Counter-terrorism, «Journal of European Integration», vol. XXXI, n. 1,
January 2009, pp. 137-156.
125
153
normativa” (normative power), inducendo pacificamente gli interlocutori ad adeguare i
loro ordinamenti a norme o procedure europee128. Nel contempo, la “dottrina Solana” offre
nuovi spunti ai teorici del paradigma della “potenza civile”, che vi leggono un invito
esplicito a combinare, a seconda delle esigenze, i mezzi civili e militari di pertinenza della
PESC e della PESD per fronteggiare la minaccia terroristica e le dinamiche che le sono
direttamente o indirettamente propedeutiche.
Attraverso questa impostazione ostentatamente dialogante e tollerante, determinata
nell’evidenziare la bontà delle proprie ragioni ma aperta alle quelle altrui, l’Ue pare voler
allontanare da sé ogni sospetto di vocazione “imperiale”, categoria tornata d’attualità dopo
la fine del sistema internazionale bipolare. Numerosi commentatori ricorrono alla metafora
dell’impero per descrivere la posizione dominante assunta dagli Stati Uniti con la
dissoluzione dell’URSS. In virtù dell’evidente asimmetria che la separa da tutti gli altri
attori, e dell’inevitabile gerarchizzazione dei rapporti internazionali che ne consegue,
l’unica superpotenza può teoricamente fungere da fattore di stabilizzazione del sistema129.
Se gli studiosi benevoli nei confronti della leadership imperiale americana auspicano che
essa si adoperi per “pilotare” l’avanzamento delle aree arretrate del mondo verso la
democrazia e lo sviluppo economico130, la letteratura critica mette in evidenza la tendenza
degli Stati Uniti ad autoproclamarsi detentori della “verità” e alfieri di valori universali,
che mal si concilia con il rispetto della pluralità di tradizioni e culture che chiedono di
essere riconosciute131.
In altri termini, gli europei non accettano di apparire semplici cortigiani, acquiescenti
128
I. Manners, Normative Power Europe: A Contraddiction in Terms, «Journal of Common Market Studies»,
vol. XL, 2002, n. 2, pp. 235-258. In proposito si veda anche D. Sicurelli, Il paradigma della potenza
normativa nelle relazioni internazionali. Un nuovo nome per un vecchio concetto?, «Teoria politica», a.
XXII, 2007, n. 3, pp. 125-144.
129
V.E. Parsi, L’impero come fato? Gli Stati Uniti e l’ordine globale, «Filosofia politica», a. XVI, n. 1, aprile
2002, pp. 83-113, dove “impero” ed “egemonia” sono utilizzati come sinonimi. Secondo H. Münkler, Imperi.
Il dominio del mondo dall’antica Roma agli Stati Uniti (2005), Bologna, Il Mulino, 2008, la differenza tra i
due concetti è esclusivamente relativa all’entità del divario di potenza fra le parti, che assumerebbe una
forma imperiale se cospicuo ed egemonica se contenuto (pp. 63-72). Sulla funzione stabilizzatrice
dell’impero, cfr. anche S. Mallaby, The Reluctant Imperialist: Terrorism, Failed States, and the Case for
American Empire, «Foreign Affairs», vol. LXXXI, n. 2, March-April 2002, pp. 2-7. Sulla prospettiva che la
superiorità egemonica si istituzionalizzi in un quadro di rapporti internazionali formalizzati si veda G.J.
Ikenberry, Dopo la vittoria. Istituzioni, strategie della moderazione e ricostruzione dell'ordine internazionale
dopo le grandi guerre (2001), Milano, Vita e Pensiero, 2003.
130
Cfr. in questo senso Ignatieff, Impero light, cit., pp. 11-36 e N. Ferguson, Colossus. Ascesa e declino
dell'impero americano (2004), Milano, Mondadori, 2006, pp. 179-211 in particolare.
131
Si vedano D. Zolo, Usi contemporanei di «impero», «Filosofia politica», a. XVIII, n. 2, agosto 2004, pp.
193-196 e Losurdo, Il linguaggio dell’Impero, cit, p. 288. La dignitas dell’imperator farebbe difetto agli
USA secondo G. Carnevali, Dell’impero imperfetto (voci per un dizionario minimo del dopo-11 settembre),
«Teoria politica», a. XVIII, n. 3, 2002, pp. 78-81.
154
ai capricci dell’imperatore132. A preoccuparli è la prospettiva che la loro sincera
condivisione dei valori fondanti della civiltà occidentale possa essere interpretata come
avallo a una riedizione del colonialismo otto-novecentesco, fondato su pratiche razziste e
sanguinarie a danno degli altri popoli133. Nelle sue versioni più radicali, incarnate per
esempio da una “nuova destra” di matrice francese, la polemica europea verso il
protagonismo internazionale dell’amministrazione Bush rientra in una più ampia reazione
contro l’accettazione passiva del modello liberaldemocratico quale destino ineluttabile
dell’umanità134. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, la sconfessione dell’atteggiamento
americano non disconosce la centralità dei principi di libertà e democrazia, ma mette in
discussione il carattere “messianico” dell’azione con cui le autorità e una parte del mondo
intellettuale americano si propongono di diffonderli al di fuori dell’Occidente.
La “dottrina Solana” ha dunque il delicato compito di conciliare esigenze diverse, la
più immediata delle quali è ricompattare gli Stati membri dopo i mesi turbolenti
dell’intervento in Iraq. Ciò non può avvenire a scapito dei rapporti con altri cruciali attori
del sistema internazionale. Da un lato, occorre di rassicurare i rappresentanti delle società
arabo-musulmane, fugando ogni tentazione di “scontro di civiltà”. Dall’altro, si cerca di
porre le basi per una rinnovata partnership strategica con gli Stati Uniti, senza sorvolare
sulle difformità di opinione. La comunanza dei valori ereditati da millenni di tradizione
euro-occidentale può garantire all’alleanza transatlantica un carattere “autoritativo”
(authoritative)135, foriero di una maggiore solidità, ma la promozione all’estero di quel
patrimonio ideale deve avvenire nel rispetto dei limiti posti dal diritto internazionale. I
canali diplomatici e le relazioni economico-commerciali appaiono gli strumenti più
adeguati per perseguire gli obiettivi della democratizzazione e della stabilizzazione delle
relazioni internazionali. A quei metodi si aggiungono le “missioni di pace” – espressione
132
In questa veste li vorrebbero, pur con diversi accenti, G. Baget Bozzo, L’impero d’Occidente. La storia
ritorna, Torino, Lindau, 2004, pp. 64-68 e C. Jean, Il futuro dell’Europa e il nuovo patto transatlantico, in G.
Bosco, F. Perfetti e G. Ravasi (a cura di), L’Unione europea fra processo costituzionale e una nuova identità
politica, Milano, Nagard, 2006, pp. 156-167.
133
Si vedano G. Andréani, Imperial Loose Talk, in Lindberg (ed.), Beyond Paradise and Power, cit., pp. 6380 e J. Mayall, The Shadow of Empire: The EU and the Former Colonial World, in Hill and Smith (eds.), International Relations and European Union, cit., pp. 292-316.
134
A. de Benoist, L’impero interiore. Mito, autorità, potere nell’Europa moderna e contemporanea (1995),
Firenze, Ponte alle Grazie, 1996 e Id., Terrorismo e «guerre giuste», cit. Per l’inquadramento politico della
proposta del filosofo francese, cfr. P.-A. Taguieff, Sulla nuova destra. Itinerario di un intellettuale atipico
(1994), Firenze, Vallecchi, 2004, pp. 280-283 e Zolo, Usi contemporanei di «impero», cit., pp. 189-191.
135
Il concetto di authoritative alliance è trattato in T. Hopf, Dissipating Egemony: US Unilateralism and
European Counter-Hegemony, in Evangelista e Parsi (a cura di), Partners or Rivals?, cit., pp. 43-51, poi
quasi letteralmente riprodotto in Id., Dissipare l’egemonia: l’unilateralismo degli Stati Uniti e l’erosione
dell’autorevolezza transatlantica, in Parsi, Giusti e Locatelli (a cura di), Esiste ancora la comunità
transatlantica?, cit., pp. 101-122. Sulla partnership fra Ue e USA come artefici di una «comunità di popoli
liberi che lavorano per un mondo libero», cfr. Garton Ash, Free world, cit., pp. 187-225.
155
edulcorata che allude all’utilizzo di mezzi militari a fini prevalentemente civili – che molto
più della guerra classica sembrano incontrare lo spirito del tempo. Che sia frutto di una
libera scelta o di una costrizione, la decisione europea di concentrarsi sulle operazioni
ibride (peacekeeping, peace-enforcement, risoluzione delle crisi), ampiamente trattate dalla
strategia del 2003, può essere intesa come tentativo di specializzarsi in tali mansioni e
ritagliarsi così una sfera di autonomia rispetto agli Stati Uniti, incomparabilmente superiori
a chiunque nel vincere i conflitti tradizionali ma talvolta carenti e inefficaci nella gestione
dei dopoguerra136. Acquisendo una spiccata capacità di affrontare questa dimensione della
violenza internazionale, l’Ue potrebbe presentarsi come soggetto dotato di competenze
“complementari” rispetto a quelle americane e fare leva su questa circostanza per tentare di
influenzare in qualche misura la condotta del partner transatlantico, in particolare
nell’ambito di quelle politiche – come la lotta al terrorismo – che sfuggono al paradigma
concettuale e strategico della guerra moderna137.
136
Sui limiti insiti nelle potenzialità americane si vedano i diversi punti di vista di: Nye, Il paradosso del
potere americano, cit., in particolare pp. 50-53; I. Wallerstein, Il declino degli Stati Uniti: l’aquila è
precipitata, in Id., Il declino dell'America (2003), Milano, Feltrinelli, 2004, pp. 19-30; V.E. Parsi, Il sistema
politico globale: da uno a molti, in Id. (a cura di), Che differenza può fare un giorno. Guerra, pace e
sicurezza dopo l'11 settembre, Milano, Vita e Pensiero, 2003, pp. 101-123; Kupchan, La fine dell’era
americana, cit., pp. 72-85.
137
L’idea della complementarietà fra i contributi degli Stati Uniti e dell’Ue nella regolazione delle relazioni
internazionali è sviluppata da A. Moravcsik, Striking a New Transatlantic Bargain, «Foreign Affairs», vol.
LXXXII, n. 1, January-February 2004, pp. 74-89. Cfr. inoltre Caffarena, A mali estremi, cit., pp. 132-136 e
Parsi, L’alleanza inevitabile, cit., pp. 189-196. La convinzione che l’Europa sia più attrezzata dagli USA per
svolgere le missioni militari-civili di stabilizzazione e ricostruzione è messa in dubbio da F. Fukuyama,
Esportare la democrazia. State-building e ordine mondiale nel XXI secolo (2004), Torino, Lindau, 2005, cit.,
p. 159. Il rischio che la cooperazione transatlantica si risolva nell’immagine degli Stati Uniti che fanno le
guerre e l’Europa che deve porre rimedio alle conseguenze da quelle innescate è paventato da J. LindleyFrench, Terms of Engagement. The Paradox of American Power and the Transatlantic Dilemma post-11 September, Paris, Institute for Security Studies, Chaillot Paper n. 52, May 2002, p. 14 e p. 61 e S. Romano, Il
rischio americano. L’America imperiale, l’Europa irrilevante, Milano, Longanesi, 2003, pp. 113-115.
156
5. Il ritorno del terrorismo in Europa: il difficile equilibrio
tra sicurezza e diritti (2004-2009)
5.1 La strage di Madrid e il terrorismo come problema “interno”
La mattina dell’11 marzo 2004 costituisce uno snodo cruciale nella percezione
europea del terrorismo. Con l’attentato di Madrid, perpetrato da una cellula marocchina,
l’Europa diviene un bersaglio concreto – e non un semplice luogo di transito – dell’azione
qaedista, che pare aver puntato l’attenzione sulla Spagna a causa del sostegno offerto alle
iniziative anglo-americane in Medio Oriente1. Il Consiglio europeo ne prende atto nella
Dichiarazione adottata al termine del vertice del 25 marzo: «Gli attentati vili e spietati
hanno tragicamente riportato alla mente la minaccia che il terrorismo rappresenta per la
nostra società. Gli atti terroristici rappresentano un attacco contro i valori su cui si fonda
l’Unione. [...] La minaccia del terrorismo incombe su tutti noi»2. Confermando la linea
adottata dopo l’11 settembre, i leader europei leggono nella violenza islamista un attacco al
patrimonio di diritti, libertà e sentimenti civili sedimentato nella cultura europea e
occidentale nel corso dei secoli. Rispetto a quanto osservato in altre occasioni, va
sottolineato come il fenomeno terroristico sia posto in relazione con la «società» più che
con le istituzioni, sorvolando dunque sugli obiettivi prettamente politici che normalmente
gli sono attribuiti.
Il documento introduce alcune innovazioni di rilievo. Dal punto di vista istituzionale,
è da rimarcare il conferimento all’Alto Rappresentante PESC del potere di nominare un
coordinatore dell’antiterrorismo, chiamato a mettere ordine nel lavoro svolto dal Consiglio
nelle sue varie formazioni e ad agire, nel rispetto delle competenze della Commissione, da
supervisore di tutti gli strumenti Ue contro il terrorismo3. L’aspetto davvero significativo è
legato al profilo delle personalità scelte per ricoprire tale ruolo: Gijs de Vries, in carica dal
2004 al 2007, è stato viceministro dell’Interno in Olanda; Gilles de Kerchove, nominato
1
Non è questa la sede per discutere la concatenazione dei fatti che seguono gli attentati, dall’iniziale
attribuzione della responsabilità all’ETA da parte dell’esecutivo Aznar, alla vittoria inaspettata dei socialisti
alle elezioni programmate per il 14 marzo, all’insediamento del governo Zapatero con il ritiro delle truppe
spagnole dall’Iraq. Su questi temi si vedano A. Greppi, Dopo il terrore. Opinione pubblica e crisi politica in
Spagna tra l’11 e il 14 marzo 2004, in Bovero e Vitale (a cura di), Gli squilibri del terrore, cit., pp. 211-230;
R. Bertinetti, Informazione e politica in tempo reale e A. Botti, Madrid dopo l’11 marzo, «Il Mulino», a.
LIII, n. 3, maggio-giugno 2004, pp. 524-533 e pp. 534-544 rispettivamente.
2
Il testo è allegato a Consiglio dell’Unione europea, Nota del Segretariato generale, Bruxelles, 29 marzo
2004, in RCUE, doc. 7906/04, p. 2. D’ora in poi citerò questo documento come Dichiarazione sulla lotta al
terrorismo.
3
Ivi, p. 14.
nel settembre 2007, si è a lungo occupato di Giustizia e Affari Interni presso il segretariato
del Consiglio. Sono i curricula dei prescelti, più che le nuove mansioni loro attribuite, a
evidenziare come, dopo Madrid, l’Ue preferisca affidare il coordinamento della lotta al
terrorismo a esperti della tutela dell’ordine pubblico e della cooperazione operativa,
anziché a diplomatici di carriera. D’altra parte, non vanno sottovalutate le considerazioni
formulate dal Parlamento europeo negli anni successivi per segnalare i contorni ambigui –
se non l’inutilità – delle funzioni attribuite alla nuova figura istituzionale, priva di poteri
effettivi4.
Se la novità del marzo 2004 è rappresentata dalla scoperta che l’offensiva qaedista
non risparmia più l’Ue, è comprensibile che il Consiglio europeo chieda di concentrare gli
sforzi sulle misure volte a contrastare l’azione dei terroristi sul territorio degli Stati
membri. Accanto agli ultimi retaggi del dibattito sulla risposta diplomatica e militare al
terrorismo, sfociato nella crisi irachena del 2002-03, acquisiscono da questo momento
un’enfasi crescente i provvedimenti riconducibili all’integrazione giudiziaria, operativa e
di polizia fra gli Stati membri. Del terrorismo, in altri termini, si sottolineano ora gli aspetti
collegati al suo dispiegarsi all’interno dell’Unione. In tal senso vanno interpretati gli
accenni alla necessità di assistere le vittime degli attentati, di assicurare la sicurezza dei
trasporti, di rafforzare il controllo alle frontiere, di condividere i risultati dell’intelligence,
di ostruire i canali di finanziamento del terrorismo5, nonché di anticipare gli effetti della
clausola di solidarietà fra gli Stati membri nella gestione delle conseguenze di un attacco
terroristico o di un disastro naturale, la cui entrata in funzione è prevista dal Trattato
costituzionale in discussione6.
Si apre dunque una stagione della lotta al terrorismo segnata dalla prevalenza degli
aspetti legati allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Un’ulteriore conferma giunge dal
Programma dell’Aia, elaborato nel novembre del 2004 per aggiornarne gli obiettivi. La
libertà è sempre più caratterizzata in termini di “libertà di movimento” goduta dagli
individui sul territorio dell’Unione, anche per effetto delle politiche relative ai settori di
4
Parlamento europeo, Discussioni, in APE, Strasburgo, seduta del 4 maggio 2004 (intervento di von
Boetticher, PPE), 11 aprile 2005 (interrogazione di Cavada, gruppo liberaldemocratico), 5 settembre 2007
(interrogazione di Daul, PPE e intervento di Catania, Sinistra unitaria europea), che testimoniano la
trasversalità politica della valutazione espressa.
5
Dichiarazione sulla lotta al terrorismo, cit., pp. 4-12.
6
Ivi, p. 19. Cfr. in proposito S. Dambruoso, The European Constitution Solidarity Clause against Terrorism,
in AAVV, International Terrorism and Governmental Structures, Torino, UNICRI, 2005, pp. 19-23.
158
asilo, immigrazione e frontiere7. Benché l’impegno contro il terrorismo sia presentato
come «elemento chiave» e trasversale allo SLSG8, è nel settore della “sicurezza” che il
documento ne affronta gli sviluppi. Oltre a ricordare puntigliosamente il contributo della
cooperazione giudiziaria e di polizia, e in particolare l’azione di raccordo svolta da Europol
ed Eurojust, il Programma dà un inedito risalto al «ruolo di guida» che i ministri GAI –
cioè Interni e Giustizia – dovrebbero svolgere nella lotta al terrorismo, pur «tenendo conto
dei compiti del Consiglio “Affari generali e Relazioni esterne”»9. Benché il testo sia
naturalmente portato a soffermarsi su questa dimensione del problema, tale accenno
segnala che dopo Madrid il terrorismo è sempre più concepito come un fenomeno
“interno” all’Unione.
Di concerto con una comunicazione presentata dalla Commissione nel giugno del
10
2004 , la Dichiarazione del Consiglio europeo di marzo e il Programma dell’Aia
concorrono a elaborare i criteri fondamentali per perseguire l’idea dominante di questa fase
storica, cioè rendere più efficienti la raccolta e la circolazione delle informazioni
potenzialmente utili a contrastare l’azione dei terroristi, secondo una concezione
“poliziesca” del terrorismo, non dissimile da quella che guidava negli anni Settanta l’avvio
della cooperazione operativa del gruppo TREVI. Uno degli elementi strutturali di tale
disegno è il principio di “disponibilità”, secondo cui i dati e le informazioni in possesso di
uno Stato membro devono essere accessibili da parte delle autorità giudiziarie e di polizia
degli altri paesi. Nei mesi successivi sono avviati processi legislativi destinati a concludersi
tra il 2005 e il 2006, con l’adozione di nuove disposizioni volte a facilitare lo scambio di
informazioni sui casellari giudiziari11, sulle condanne penali per reati connessi al
terrorismo12 e sui risultati dell’attività di intelligence, definita come la «facoltà di
raccogliere, elaborare e analizzare informazioni su reati o attività criminali al fine di
stabilire se sono stati commessi o possono essere commessi in futuro atti criminali
7
Consiglio europeo, Programma dell’Aia. Rafforzamento della libertà, della sicurezza e della giustizia
nell’Unione europea, allegato a Id., Conclusioni della Presidenza, in Consiglio dell’Unione europea, Nota di
trasmissione della Presidenza, Bruxelles, 8 dicembre 2004, in RCUE, doc. 14292/1/04 REV1, pp. 16-27.
8
Ivi, p. 3.
9
Ivi, p. 30.
10
Commissione delle Comunità europee, Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento
europeo. Migliorare l’accesso all’informazione da parte delle autorità incaricate del mantenimento
dell’ordine pubblico e del rispetto della legge, Bruxelles, 16 giugno 2004, in RCE, doc. COM (2004) 429.
11
Consiglio dell’Unione europea, Atti legislativi ed altri strumenti, Bruxelles, 3 maggio 2005, in RCUE, doc.
7385/05.
12
Id., Atti legislativi e altri strumenti, Bruxelles, 5 settembre 2005, in RCUE, doc. 11259/05 (compreso
l’errata corrige nella stessa data, doc. 11259/05 COR 1).
159
concreti»13. Una specifica direttiva stabilisce la conservazione dei dati telefonici e di alcuni
fra quelli legati all’uso di internet (connessione ed e-mail, escludendo invece chat e peerto-peer, per una questione di costi più che di principio) per un periodo oscillante fra i sei
mesi e i due anni, allo scopo di facilitare la ricerca, l’accertamento e il perseguimento dei
reati gravi14.
Nella medesima ottica si muovono altre due iniziative, la prima delle quali trae
spunto da una forma di cooperazione esterna al perimetro Ue. Nel maggio del 2005 alcuni
Stati membri firmano, nella cittadina tedesca di Prüm, un Trattato che mira a favorire lo
scambio di informazioni e dati – fra cui quelli dattiloscopici e relativi al DNA – tra i paesi
contraenti (Germania, Austria, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo e Spagna). In
breve tempo tuttavia altri paesi europei formuleranno la richiesta di aderire al progetto, i
cui contenuti saranno parzialmente integrati nella legislazione dell’Unione tra il 2007 e il
200815. Sul pressione americana, l’Ue si cimenta anche con la regolazione
dell’acquisizione dei dati relativi ai passeggeri dei voli aerei (PNR). Le trattative, avviate
già dal 2003, producono nel maggio 2004 un primo accordo con gli Stati Uniti, cui è
garantito l’accesso diretto agli archivi delle compagnie aeree europee16. La Commissione
rivendica pubblicamente di aver svolto un’opera di contenimento rispetto alle iniziali
richieste americane, riducendo i tempi di conservazione dei dati, limitandone
13
Id., Atti legislativi e altri strumenti, Bruxelles, 2 ottobre 2006, in RCUE, doc. 9827/06, p. 8. Una
concezione per certi versi analoga si trova in A. Saccone, La raccolta e l’utilizzo delle informazioni nella
lotta al terrorismo, in Cappè, Marelli e Zappala (a cura di), La minaccia del terrorismo e le risposte
dell'antiterrorismo, cit., in cui l’autore, alto funzionario di Europol, pone l’accento su raccolta, catalogazione,
verifica, organizzazione, trattamento e soprattutto analisi delle informazioni (pp. 164-165). Assai più estesa è
la nozione che emerge in F. Sidoti, Morale e metodo nell’intelligence, Bari, Cacucci, 1998, che – partendo
dall’antico concetto di inter-legere, inteso come abilità di discernere, selezionare, sapere cogliere una parte di
informazioni rispetto alla totalità di quelle disponibili – applica l’etichetta di intelligence a tutte la attività che
contribuiscono alla sicurezza dello Stato, contemplando anche il mantenimento della stabilità politica e della
pace sociale, la difesa del sistema economico e produttivo, la tutela del principio di legalità (pp. 16-19). In
termini operativi, secondo Sidoti, l’intelligence si concretizza in quattro azioni: collection, analysis, covert
action, counterintelligence, anche se le ultime due sono talvolta sopra o sottovalutate (p. 112).
14
Cfr. la direttiva 2006/24/CE del 15 marzo 2006 e le proteste emerse in Parlamento europeo, Discussioni,
Strasburgo, in APE, seduta del 7 giugno 2005, in particolare la relazione affidata all’on. A.N. Alvaro e gli
interventi dei deputati Niebler, Kreissl-Dörfler, Buitenweg, Mastenbroek, Cederschiold, Kauppi,
rappresentativi di quasi tutti i maggiori gruppi parlamentari. In argomento, si veda anche Paye, La fine dello
Stato di diritto, cit., pp. 105-109.
15
Consiglio dell’Unione europea, Atti legislativi ed altri strumenti, Bruxelles, 17 settembre 2007, in RCUE,
doc. 11896/07, poi divenuto Decisione 2008/615/GAI, pubblicata su GU L 216 del 6 agosto 2008. Alcuni
parlamentari europei contesteranno – al di là del merito – la scelta di integrare un accordo nato al fuori
dell’ambito Ue, imponendo a tutti gli Stati membri i contenuti negoziati solo da una minoranza di essi. Cfr.
Parlamento europeo, Discussioni, in APE, Strasburgo, seduta del 6 giugno 2007.
16
Si vedano rispettivamente la decisione n. 2004/535/CE, in GU L 235 del 6 agosto 2004, pp. 11-22 e
Consiglio dell’Unione europea, Atti legislativi e altri strumenti, Bruxelles, 14 maggio 2004, in RCUE, doc.
9026/04.
160
l’utilizzabilità e salvaguardando in particolare quelli “sensibili”17. In seguito a un ricorso
del Parlamento europeo, che indirizza a Commissione e Consiglio contestazioni di merito e
di metodo, nel maggio 2006 la Corte di Giustizia annulla i provvedimenti assunti dall’Ue,
costringendola a denunciare l’accordo con gli Stati Uniti. Una nuova intesa sarà raggiunta
nel luglio 2007, con la restrizione delle categorie di dati acquisibili ma con l’allungamento
dei tempi di conservazione18. Sulla scia di tale risultato, la Commissione avanzerà la
proposta di creare un analogo sistema di raccolta per i tutti i voli effettuati negli Stati
membri19.
Accanto al principio di “disponibilità”, la seconda idea-forza dell’approccio europeo
è l’“interoperabilità” fra le banche dati. L’obiettivo, già oggetto di attenzione nei mesi
immediatamente successivi all’11 settembre, è porre in connessione gli archivi europei e
renderli accessibili da parte di un crescente numero di autorità e agenzie. Dopo un dibattito
durato anni, tra il 2004 e il 2005 i dati raccolti dal sistema d’informazione istituito dagli
accordi di Schengen (SIS) sono messi a disposizione delle magistrature nazionali, di
Europol e di Eurojust20. Una volta entrata in funzione, la banca dati europea sui visti
concessi dagli Stati membri (VIS)21 instaurerà con il SIS e con Eurodac – relativo alle
domande d’asilo – un rapporto sinergico, in virtù del quale le autorità giudiziarie e di
polizia avranno a disposizione una notevole mole di informazioni sul movimento delle
persone a cavallo delle frontiere esterne dell’Ue, utilizzabili come spunti per prevenire o
indagare su atti terroristici e altri reati gravi. Il rischio sottolineato da più parti è che le
informazioni contenute in queste banche dati, teoricamente “neutre”, in quanto relative a
persone che decidono semplicemente di attraversare il territorio europeo, siano
17
Cfr. Commissione delle Comunità europee, Comunicazione della Commissione al Consiglio e al
Parlamento europeo. Trasferimento di dati di identificazione delle pratiche (PNR): un approccio globale
dell’Ue, Bruxelles, 16 dicembre 2003, in RCE, doc. COM (2003) 826, e l’intervento del commissario
Bolkestein in Parlamento europeo, Discussioni, in APE, Strasburgo, seduta del 23 settembre 2003.
18
Si vedano Consiglio dell’Unione europea, Atti legislativi e altri strumenti, Bruxelles, 18 luglio 2007, in
RCUE, doc. 11595/07 e Id., Atti legislativi e altri strumenti, Bruxelles, 18 luglio 2007, in RCUE, doc.
11596/07. Cfr. il commento di J. Argomaniz, When the EU Is the «Norm-Taker»: The Passenger Name Records Agreement and the EU’s Internalization of US Border Security Norms, «Journal of European Integration», vol. XXXI, n. 1, January 2009, pp. 119-136.
19
Commissione delle Comunità europee, Proposta di decisione quadro del Consiglio sull'uso dei dati del
codice di prenotazione (Passenger Name Record, PNR) nelle attività di contrasto, Bruxelles, 6 novembre
2007, in RCE, doc. COM (2007) 654. Cfr. anche F. Panzetti, Le politiche di sicurezza interna alla vigilia
della comunitarizzazione, in Gualtieri e Pastore (a cura di), L’Unione europea e il governo della globalizzazione, cit., pp. 260-261.
20
Cfr. il regolamento 871/2004 e la decisione 2005/211/GAI, adottati sulla base di un accordo sostanziale del
giugno 2003.
21
Si vedano il regolamento CE 767/2008, pubblicato in GU L 318 del 13 agosto 2008 e la decisione
contenuta in Consiglio dell’Unione europea, Atti legislativi e altri strumenti, Bruxelles, 11 ottobre 2007, in
RCUE, doc. 11077/1/07 REV 1.
161
arbitrariamente associate all’attività di terroristi e criminali. Questa potenziale distorsione,
figlia dell’utilizzo di tali archivi per fini differenti da quelli originariamente immaginati,
creerebbe i presupposti per una discriminazione tra i cittadini originari degli Stati membri,
in larga misura ignorati da quei sistemi di controllo, e quelli provenienti da paesi terzi (in
genere costretti a richiedere visti, permessi di soggiorno, status di rifugiati, ecc. e quindi
registrati nelle banche dati dell’Ue), sulla cui onestà finirebbe per gravare una sorta di
pregiudizio, lesivo dei loro diritti fondamentali. Consapevole dei rischi che si profilano, la
Commissione si adopererà per regolare in modo ragionevole l’accesso ai dati, affermando
che la stella polare dovrà essere il principio di “finalità”. Secondo questa impostazione, le
informazioni sarebbero consultabili solo nelle forme e per gli scopi inizialmente indicati, e
in ogni caso nel rispetto dei criteri della legalità e della proporzionalità. Anche questo
intervento riconoscerà tuttavia la possibilità di derogare alla regola generale per ragioni di
sicurezza, consentendo eccezionalmente l’accesso alle autorità chiamate a tutelarla22.
L’Ue non riesce dunque a fugare del tutto l’inquietante scenario dell’“etnicizzazione
del controllo”, categoria attraverso cui alcuni sociologi interpretano l’atteggiamento dei
governi occidentali prima e dopo l’11 settembre23. L’aumento del tasso di sorveglianza a
cui sono sottoposti i cittadini europei e americani è descritto anche grazie alla potenza
figurativa di due note immagini: la società delineata da George Orwell in 198424 e il
concetto di Panopticon, introdotto nel Settecento da Jeremy Bentham per definire il
funzionamento di un edificio polifunzionale (destinato a compiti di detenzione, isolamento,
rieducazione, istruzione), la cui struttura circolare consentirebbe a un unico sorvegliante
22
Id., Atti legislativi ed altri strumenti, Bruxelles, 24 giugno 2008, in RCUE, doc. 9280/08, i cui artt. 3 e 11
sanciscono il riconoscimento dell’esigenza di porre limiti all’applicazione del principio di finalità.
23
Tale aspetto è enfatizzato, in relazione al contesto europeo, da D. Bigo, Security, Exception, Ban and
Surveillance e O.H. Gandy Jr., Quixotics Unite! Engaging the Pragmatists on Rational Discrimination, entrambi in D. Lyon (ed.), Theorizing Surveillance. The Panopticon and beyond, Cullompton-Devon, Willan
Publishers, 2006, pp. 46-68 e pp. 318-336 rispettivamente; D. Lyon, La società sorvegliata. Tecnologie di
controllo della vita quotidiana (2001), Milano, Feltrinelli, 2003, pp. 120-143.
24
G. Orwell, 1984 (1949), Milano, Mondadori, 1989, discusso in termini generali da D. Lyon, The Electronic
Eye. The Rise of Surveillance Society, Cambridge, Polity Press, 1994, pp. 59-62 (trad. it. L’occhio
elettronico, Milano, Feltrinelli, 1997). Si noti peraltro il rovesciamento di uno dei tratti caratteristici del
romanzo orwelliano, nel quale è operata una distinzione fra membri del partito – inclusi nella vita sociale e
per questo strettamente controllati – e prolet, confinati nei ghetti periferici delle città ma, proprio in virtù di
tale condizione, liberi dall’occhio indagatore del Grande Fratello. Il sistema integrato di raccolta delle
informazioni concepito dall’Ue, viceversa, si accanisce sui soggetti marginali, i quali, oltre a essere
discriminati sul piano delle opportunità politiche, economiche e sociali, sono anche vittime di un eccesso di
sorveglianza da parte delle autorità. Secondo M.C. Nussbaum, The Death of Pity: Orwell and American Political Life, in Ead., A. Gleason, J. Goldsmith (eds.), On Nineteen Eighty-Four. Orwell and Our Future,
Princeton, Princeton University Press, 2005, l’attualità del romanzo orwelliano dopo l’11 settembre consiste
invece nel perdurare di un’impostazione che fonda le relazioni sociali e internazionali sull’odio – deducibile
da espressioni come “asse del male” – anziché su sentimenti positivi come amore, solidarietà, compassione
(pp. 281-282)
162
posto al centro di controllare l’attività svolta in ogni cella25. Sulla scorta della rivisitazione
critica di tale progetto da parte di Michel Foucault, che individua nel “panoptismo” una
delle forme in cui si declina la tendenza delle istituzioni a irreggimentare gli individui in
ogni ambito della loro esistenza26, alcuni osservatori rilevano il salto di qualità che il
controllo sociale compie servendosi delle risorse tecnologiche recentemente acquisite. Per
restare al caso dell’Ue, il principio dell’interoperabilità fra banche dati è interpretato come
sintomo della trasformazione del tradizionale panopticon nell’inedito synopticon, modello
nel quale l’unicità del sorvegliante lascia spazio all’azione combinata di una pluralità di
guardiani, pubblici e privati, potenzialmente in grado di fare confluire le informazioni
raccolte in un unico archivio, funzionale a scopi repressivi27. Il risultato sarebbe
l’«assemblaggio» di più sistemi di sorveglianza, caratteristico di tutte le società occidentali
nell’età del terrorismo qaedista28.
Nel suo insieme, questo approccio connota la linea di sviluppo dello spazio di libertà,
sicurezza e giustizia. La messa in “sicurezza” delle società europee, attraverso strumenti
giudiziari e di polizia, sembra diventare l’esigenza prevalente degli europei, anche nel
momento in cui tale obiettivo impone sacrifici alla “libertà” di movimento e in particolare
alla libertà di attraversamento dei confini esterni, in cui risiede l’ambizione-vocazione
dell’Ue di affermarsi come “spazio aperto” e non come “fortezza”29. Questo impegno per
la sicurezza collettiva, divenuto centrale tra XX e XXI secolo, pregiudica i diritti degli
25
J. Bentham, Panopticon ovvero la casa d’ispezione (1791), Venezia, Marsilio, 2002.
Si veda in particolare M. Foucault, Sorvegliare e punire (1975), Torino, Einaudi, 1993, pp. 213-247.
27
P. Ceri, La società vulnerabile. Quale sicurezza, quale libertà, Roma-Bari, Laterza, 2003. In precedenza il
termine synopticon era utilizzato in opposizione a panopticon da Z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le
conseguenze sulle persone (1998), Roma-Bari, Laterza, 1999, per qualificare la logica globale della
televisione, in virtù della quale una massa di persone – anche collocate in punti lontani fra loro nello spazio –
è in grado di concentrare l’attenzione collettiva su una minoranza di osservati (pp. 57-61).
28
D. Lyon, Massima sicurezza. Sorveglianza e guerra al terrorismo (2003), Milano, Cortina, 2005, pp. 23-25
e pp. 95-118 e W. Bogard, Surveillance Assemblages and Lines of Flight, in Lyon (ed.), Theorizing
Surveillance, cit., pp. 97-122.
29
Di «principio sicurezza» parla Sofsky, Rischio e sicurezza, cit., pp. 79-81. L’impatto della lotta al
terrorismo sull’equilibrio fra libertà e sicurezza, fra diritti individuali ed esigenze collettive, è al centro di
numerosi interventi, con diversi accenti: Weyembergh, L’impact du 11 septembre sur l’équilibre
sécurité/liberté dans l’espace pénal européen, cit., p. 155; De Giovanni, L’ambigua potenza dell’Europa,
cit., p. 225; De Biolley, Liberté et sécurité dans la construction de l’espace européen de justice pénale, cit.,
pp. 190-198; R.D. Crelinsten, Counterterrorism as Global Governance: A Research Inventory, in M.
Ranstorp (ed.), Mapping Terrorism Research. State of the Art, Gaps and Future Direction, New York,
Routledge, 2007, p. 227; Monar, The Problems of Balance in EU Justice and Home Affairs and the Impact of
11 September, cit., p. 177 e p. 181; Bigo, L’impact des mesures anti-terroristes sur l’équilibre entre liberté et
securité et sur la cohésion sociale, cit., pp. 220-222. Sull’idea di Europa “fortezza” riflettono Occhipinti, The
Politics of EU Police Cooperation, cit., pp. 198 e 207 e F. Pastore, Dobbiamo temere le migrazioni?, RomaBari, Laterza, 2004, p. 92. Sull’ipotesi che la sindrome securitaria e le paure che ne sono alla base siano
cavalcate strumentalmente dalle autorità politiche, si vedano: Bauman, Dentro la globalizzazione, cit., pp.
127-140, Id., Paura liquida, cit., p. 184 e pp. 192-199; J. Bourke, Paura. Una storia culturale (2005), RomaBari, Laterza, 2007; C. Robin, Paura. La politica del dominio (2004), Milano, Egea, 2005.
26
163
individui in senso astratto, ma soprattutto quelli dei soggetti meno integrati nel tessuto
sociale europeo (migranti, stranieri, ecc.). Le modalità dell’attentato di Madrid, compiuto
da cittadini marocchini entrati in territorio spagnolo, contribuiscono infatti ad alimentare la
percezione del terrorismo come minaccia “esterna” – in quanto legata all’azione di cittadini
non europei – ma nel contempo “interna” all’Unione, colpita grazie alla permeabilità dei
suoi confini.
5.2 Lo status dei prigionieri di Guantánamo e l’ambigua concezione del terrorismo
La riflessione sul delicato rapporto fra rispetto dei diritti fondamentali degli individui
e necessità imposte dalla lotta al terrorismo, di cui si trova traccia anche nell’azione
europea, assume un significato particolare alla luce di quanto avvenuto negli Stati Uniti a
partire dalla fine del 2001. Il punto di partenza è l’approvazione del cosiddetto Patriot Act
del 26 ottobre 200130, che riunisce una serie di iniziative volte ad accrescere la
sorveglianza sul territorio americano (la «guerra interna» al terrorismo31). Il documento
contiene
un
vasto
repertorio
di
provvedimenti
investigativi,
che
riguardano
l’aggiornamento dei database e dei sistemi informatici dell’FBI, il coordinamento fra
quest’ultimo e la CIA, la riforma dei poteri e delle procedure dell’attività di intelligence,
l’estensione del periodo di detenzione dei sospettati prima del processo, la sicurezza dei
documenti, l’accesso a registrazioni, documenti e materiali privati da parte di autorità
governative.
In termini politico-istituzionali, la presidenza e l’esecutivo nel suo complesso vedono
rafforzato il proprio margine d’intervento discrezionale, secondo la logica dell’emergenza,
che sembra trascinare gli Stati Uniti verso uno “stato di eccezione” vagamente schmittiano,
nell’ambito del quale la dimensione giuridica e di ordinaria amministrazione lascia spazio
alla “decisione” – intesa come intervento straordinario e fondativo – da parte di un’autorità
politica sovrana32. La dinamica è talmente eclatante da indurre alcuni giuristi, tra cui Bruce
Ackerman, a formulare proposte per proceduralizzare l’emergenza, trovando un
30
Si veda in proposito S.J. Schulhofer, Rethinking the Patriot Act. Keeping America Safe and Free, New
York, Century Foundation Press, 2005. USA PATRIOT ACT è l’acrostico di Uniting and Strengthening
America by Providing Appropriate Tools Required to Intercept and Obstruct Terrorism.
31
Frum e Perle, Estirpare il male, cit., pp. 79-118.
32
Cfr. G. Agamben, Stato di eccezione, Torino, Bollati Boringhieri, 2003 e de Benoist, Terrorismo e «guerre
giuste», cit., pp. 81-97. J. Butler, Detenzione infinita, in Ead., Vite precarie. Contro l'uso della violenza come
risposta al lutto collettivo (2004), Roma, Meltemi, 2004, pp. 73-126, riflette sulla convivenza fra il ritorno
della sovranità (e cioè del potere finalizzato alla propria esistenza e riproduzione) e della “prerogativa”
(giocando sull’assonanza con l’inglese rogue, “canaglia”), incarnate simbolicamente dal decisionismo
presidenziale, e l’insieme di procedure, pratiche, istituzioni dirette a gestire le persone e le cose in vista di un
fine politico (la “governamentalità” foucaultiana).
164
compromesso fra l’azione tempestiva contro la minaccia terroristica e la coerenza con i
principi e con lo spirito della Costituzione33. Oltre a intervenire sulla separazione
“orizzontale” fra i poteri, lo spirito della reazione agli attentati terroristici pare suscettibile
di modificare gli equilibri dell’impianto federale americano e dunque la divisione
“verticale” fra competenze federali e statali. Si assisterebbe infatti a una torsione
centripeta, che ridurrebbe di fatto la sovranità degli Stati a vantaggio del livello federale34.
Assunti tocquevillianamente come antidoti alla deriva tirannica delle democrazie, i
fondamenti del federalismo sembrano oggetto di una distorsione inserita in un più generale
ridimensionamento delle libertà personali35.
Nell’ottica abbracciata da questo lavoro è ancor più rilevante il contenuto del Military Order del 13 novembre 2001, con cui le autorità americane introducono l’inedita figura dei “combattenti nemici” (enemy combatants) per designare i soggetti catturati nelle
operazioni antiterrorismo, in patria e all’estero (a partire dalla guerra afghana). Si tratta di
individui dallo status ibrido, in cui si esprime l’ambiguità di fondo della nozione di
terrorismo, perennemente in bilico fra la dimensione interna, che ragiona in termini di
polizia e ordinamento giudiziario, e quella esterna, che si muove fra diplomazia e guerra.
Per un verso, l’amministrazione Bush fa leva sul fatto che i terroristi sono sprovvisti della
cittadinanza americana per sottrarli alla giustizia penale federale, con i cui strumenti
vengono perseguiti i criminali comuni. Nel contempo, ai terroristi non è riconosciuta la
33
Si vedano B. Ackerman, La costituzione di emergenza. Come salvaguardare libertà e diritti civili di fronte
al pericolo del terrorismo (2004), Roma, Meltemi, 2005, traduzione di un articolo apparso su «The Yale Law
Journal», e soprattutto Id., Prima del prossimo attacco. Preservare le libertà civili in un’era di terrorismo
globale (2006), Milano, Vita e Pensiero, 2008. L’aspetto più interessante è il meccanismo secondo cui al
Congresso sarebbero richieste maggioranze crescenti per prolungare nel tempo lo stato di emergenza
inizialmente proclamato dal presidente (maggioranza semplice dopo 2 settimane, del 60% dopo 2 mesi, del
70% dopo 4 mesi e poi sempre dell’80%). Per un commento alla proposta del costituzionalista americano,
cfr. M. Goldoni, La costituzione rassicurante. Nota critica sulla teoria dei poteri di emergenza di Bruce
Ackerman, «Teoria politica», a. XXIII, n. 3, 2007, pp. 67-86.
34
È la tesi di J. Kincaid e R.L. Cole, Issues of Federalism in Response to Terrorism (2002), ora in A. O’Day
(ed.), War on Terrorism, Aldershot-Burlington, Ashgate, 2004, pp. 135-146. Sulla medesima linea cfr. F.
Spoltore, La guerra al terrorismo e il futuro degli Stati Uniti, «Il Federalista», a. XLVI, n. 2, 2004, pp. 173184. La valorizzazione delle comunità locali e del settore privato, cui è per esempio affidato il controllo degli
aeroporti, è invece interpretata come sintomo di una spinta centrifuga da L. Tramellini, La nuova politica
americana di sicurezza e difesa, «Il Federalista», a. XLIII, n. 3, 2001, pp. 36-46. Sull’ipotesi che, a partire
dalla storia americana dell’Ottocento, si possa inferire che i sistemi federali rechino in sé i germi di una
deriva centralistica tale da snaturarne l’impianto originario e avvicinarli al modello statuale hobbesiano si
vedano L.M. Bassani, Dalla rivoluzione alla guerra civile. Federalismo e Stato moderno in America 17761865, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2009 e, criticamente, C. Malandrino, Studi e discussioni sul federalismo
e lo Stato tra modernità e postmodernità, «Il Pensiero Politico», a. XLIV, n. 1, 2011, pp. 95-105 e Id.,
Democrazia e federalismo nell’Italia unita, Torino, Claudiana, 2012.
35
Si vedano A.D. Van Alstyne, Libertà, in Collins e Glover (a cura di), Linguaggio collaterale, cit., pp. 133145, P.B. Heymann, Terrorism, Freedom and Security. Winning without War, Cambridge-London, The Mit
Press, 2003 e P. Salazar Ugarte, Globalizzazione della paura: in che senso?, in Bovero e Vitale (a cura di),
Gli squilibri del terrore, cit., pp. 79-91.
165
condizione di prigionieri di guerra, essendo protagonisti di un conflitto irriducibile a quelli
regolati dalle convenzioni internazionali. Si crea una situazione di palese asimmetria, nella
quale gli Stati Uniti si considerano in “guerra” contro il terrore/terrorismo, ma negano al
nemico i benefici che l’essere parte di uno scontro armato conferirebbe loro36. Sul piano
giuridico, i “combattenti nemici” (quasi tutti stranieri) sono dunque privati di qualsiasi
garanzia processuale – sia costituzionale, sia internazionale – e lasciati in balìa della
discrezionalità delle scelte dell’amministrazione Bush37. La realizzazione concreta di tali
intendimenti passa attraverso la creazione di “centri di interrogatorio”, concepiti non tanto
per fini detentivi, quanto per entrare in possesso di informazioni utili alla sicurezza degli
Stati Uniti e degli alleati. La base Camp Delta a Guantánamo Bay è il caso più noto presso
l’opinione pubblica mondiale38.
I metodi americani provocano numerose proteste presso la comunità e la società
civile internazionali. Per quanto attiene all’Ue, è il Parlamento europeo a sollevare dubbi
sullo status dei prigionieri, preoccupato dall’anomalia giuridica che li caratterizza e da cui
dipende la totale assenza di protezione. Una prima risoluzione del febbraio 2002 presenta
come un dato di fatto la cattura di «158 prigionieri di guerra» in Afghanistan, ma poi
riconosce che tali soggetti «non rientrano precisamente nelle definizioni della Convenzione
di Ginevra». Al problema si può ovviare riformando il diritto internazionale per «far fronte
alle nuove situazioni che si sono venute a creare con l'emergere del terrorismo
internazionale», anche se la soluzione privilegiata sarebbe la creazione «di un tribunale
internazionale competente per i crimini terroristici»39. Il Parlamento sembra dunque
ribadire la specificità del terrorismo, differente tanto dalla guerra regolata dal diritto
umanitario, quanto dai reati ordinari, perseguiti dalla Corte penale internazionale.
A distanza di due anni, una raccomandazione adottata da una maggioranza
36
Tale anomalia, messa in luce da più parti, è resa in modo efficace da G. Andréani, Le concept de guerre
contre le terrorisme fait-il le jeux des terroristes?, in Id. e P. Hassner (sous la direction de), Justifier la
guerre?, Paris, Sciences Po – Les Presses, 2005, pp. 177-195, il quale sottolinea che «les Américains revendiquent pour eux toutes les facilités de la guerre dans le traitement de leurs adversaires, tout en leur en refusant le bénéfice. Ils se veulent en guerre, tout en déniant à leurs ennemies le droit de l’être eux-mêmes avec
eux» (p. 184).
37
Si vedano in proposito Paye, La fine dello Stato di diritto, cit., pp. 17-41, Walzer, La libertà e i suoi
nemici, cit., pp. 3-9, A. Cassese, I diritti umani oggi, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 198-207 e soprattutto D.
Cole, Enemy Aliens. Double Standards and Constitutional Freedoms in the War on Terrorism, New YorkLondon, The New Press, 2003, che si sofferma sulla contrapposizione fra la “nostra” sicurezza (degli USA) e
la “loro” libertà (degli stranieri), poco problematizzata poiché non mette a repentaglio i diritti fondamentali
dei cittadini americani, ma per l’autore inaccettabile sia dal punto di vista dell’efficacia che da quello morale.
38
K. Kipnis, Prisons, Pow Camps and Interrogation Centers: Reflections on the Juridic Status of Detainees,
in Lee (ed.), Intervention, Terrorism, and Torture, cit., pp. 289-298 e, di taglio giornalistico, S.M. Hersh, Catena di comando. Dall'11 settembre allo scandalo di Abu Ghraib (2004), Milano, Rizzoli, 2004, pp. 21-41.
39
Parlamento europeo, Risoluzione del Parlamento europeo sui prigionieri detenuti a Guantánamo,
Strasburgo, 7 febbraio 2002, in APE, doc. P5_TA (2002) 0066
166
parlamentare di centro-sinistra esprime, con un lessico caratteristico dell’attività di polizia
più che di quella militare, l’intrinseca contraddittorietà della situazione in cui si trovano i
detenuti di Guantánamo: la maggior di essi «è stata arrestata» in Afghanistan e in altre aree
del mondo. Le Convenzioni di Ginevra – che nel loro insieme si occupano sia dei militari
che dei civili presenti in teatri bellici – concorrono a comporre «il quadro giuridico
pertinente per determinare se la detenzione dei prigionieri a Guantanamo possa o meno
essere considerata arbitraria», compito che non può invece essere svolto dal Military Order
o da altri provvedimenti assunti unilateralmente dall’amministrazione USA. Ribadendo che
il Parlamento sostiene da tempo l’istituzione di «un tribunale internazionale ad hoc», il
testo invoca il ripristino di un livello minimo di rispetto dei diritti e delle libertà
individuali. È dunque formulato il duplice invito a recuperare i fondamenti del
costituzionalismo euro-occidentale, accordando «la garanzia dell’“habeas corpus”», e i
dettami del diritto internazionale umanitario, favorendo
un accesso immediato alla giustizia al fine di determinare lo status di ciascun singolo detenuto
analizzando ogni singolo caso, formulando a suo carico accuse a norma della terza e della quarta
convenzione di Ginevra e del patto internazionale sui diritti civili e politici (segnatamente
articoli 9 e 14) oppure procedendo alla loro immediata liberazione, e di garantire a coloro che
sono accusati di crimini di guerra un processo equo in conformità con il diritto internazionale
umanitario e nel pieno rispetto degli strumenti internazionali vigenti in materia di diritti
dell'uomo40.
La posizione del Parlamento europeo si radicalizza in seguito alla diffusione di
notizie sempre più circostanziate sulle effettive condizioni di detenzione nelle prigioni
extraterritoriali, al punto che una risoluzione sui rapporti fra Europa e Stati Uniti del
giugno 2005 afferma che «la situazione che perdura da tempo a Guantánamo Bay sta
creando tensioni nelle relazioni transatlantiche»41. Nei primi mesi del 2006 la situazione
appare ormai irrecuperabile e un nuovo documento parlamentare
condanna il trasferimento di centinaia di uomini catturati dalle forze statunitensi dopo
l'invasione dell'Afghanistan nel 2002 al centro illegale di detenzione di Guantanamo dove,
stando a numerose testimonianze, torture e altri maltrattamenti a opera del personale americano
40
Id., Raccomandazione del Parlamento europeo destinata al Consiglio sul diritto dei prigionieri di
Guantánamo a un equo processo, Strasburgo, 10 marzo 2004, in APE, doc. P5_TA (2004) 0168.
41
Id., Risoluzione del Parlamento europeo sulla riuscita del prossimo Vertice UE-USA a Washington DC il
20 giugno 2005, Strasburgo, 9 giugno 2005, doc. P6_TA (2005) 0238.
167
sono all'ordine del giorno, e invita a chiudere immediatamente tale centro42.
La tesi del Parlamento europeo è che l’indeterminatezza in cui è lasciato lo status dei
terroristi catturati, in certa misura comprensibile alla luce delle croniche difficoltà
nell’inquadrare concettualmente il fenomeno terroristico rispetto all’alternativa dicotomica
fra guerra e reato, sia spregiudicatamente sfruttata dalle autorità americane per violare le
basilari norme della convivenza civile. L’accusa di praticare trattamenti disumani – tra cui
la tortura – diventa con il passare del tempo il tema dominante di questo versante della
lotta al terrorismo, che viceversa l’Ue vorrebbe condurre senza porre limitazioni al «diritto
alla vita, alla libertà dalla tortura o da altre pene e trattamenti crudeli, disumani o
degradanti, alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione»43.
In questi termini trova una spiegazione l’indignazione suscitata dal clamoroso
episodio delle torture, delle umiliazioni e dei maltrattamenti inflitti ai detenuti nel carcere
iracheno di Abu Ghraib (gestito dalle forze di occupazione) e documentati da immagini
eloquenti, di fronte alle quali le autorità americane non possono fare a meno di associarsi
alla condanna44. Analogamente, non deve stupire la condanna europea della prassi delle
extraordinary renditions, vale a dire le missioni segrete con le quali i servizi di sicurezza
americani prelevano illegalmente in Europa soggetti sospettati di legami con il terrorismo
islamico e li trasferiscono in luoghi ignoti per sottoporli a interrogatori condotti con
tecniche particolarmente violente45. A questo proposito, va peraltro osservato come – a
fronte di una reiterata presa di distanza del Consiglio Ue da ogni metodo che possa
42
Id., Risoluzione del Parlamento europeo sull'Afghanistan, Strasburgo, 18 gennaio 2006, in APE, doc.
P6_TA (2006) 0017. La linea dura è riproposta in Id., Risoluzione del Parlamento europeo su Guantánamo,
Strasburgo, 15 febbraio 2006, in APE, doc. P6_TA (2006) 0070. Cfr. anche Barberini, Il giudice e il
terrorista, cit., che dà conto dell’incontro del febbraio 2006 fra il COJUR (gruppo di lavoro dei giuristi
dell’Ue) e John Bellinger III, esperto giuridico di C. Rice, nel quale il rappresentante americano si impegna –
attraverso un’apertura unilaterale che non riconosce alcun obbligo internazionale – a fare il possibile per
rispettare le previsioni del diritto umanitario (pp. 133-141). Peraltro, una situazione non dissimile, anche se
meno vistosa, si trova in Gran Bretagna (cfr. H. Fenwick, Detention without Trial under Anti-Terrorism,
Crime and Security Act 2001, in Freedman (ed.), Superterrorism, cit., pp. 80-104).
43
Consiglio dell’Unione europea, Nota del segretariato, Bruxelles, 26 maggio 2003, in RCUE, doc. 9864/03,
punto 13 (parzialmente declassificato dal doc. 9864/03 EXT 1 del 14 febbraio 2008). Per una panoramica sul
rapporto fra obiettivi e metodi dell’antiterrorismo e rispetto dei diritti umani, si veda M. Ranstorp and P.
Wilkinson (eds.), Terrorism and Human Rights, London-New York, Routledge, 2008.
44
Si vedano Consiglio dell’Unione europea, Nota, Bruxelles, 17 maggio 2004, in RCUE, doc. 9630/04, p. 2 e
Parlamento europeo, Risoluzione del Parlamento europeo sull'Iraq: la comunità assira e la situazione nelle
prigioni irachene, Strasburgo, 6 aprile 2006, in APE, doc. P6_TA (2006) 0143. Sulla vicenda cfr. anche
Hersh, Catena di comando, cit., pp. 41-68 e M. Danner, Torture and Truth. America, Abu Ghraib and the
War on Terror, London, Granta, 2004.
45
Consiglio dell’Unione europea, Nota punto “I/A” del CPS, Bruxelles, 13 dicembre 2006, in RCUE, doc.
16719/06, p. 3 e p. 7.
168
approssimarsi alla tortura, anche nei casi limite46 – l’inchiesta condotta dal Parlamento
europeo rilevi la responsabilità diretta o indiretta di alcuni Stati membri nel rapimento dei
presunti terroristi sul territorio europeo47.
5.3 La lotta al terrorismo dalla “Costituzione europea” al Trattato di Lisbona
Anche l’azione di contrasto del terrorismo risente del più ampio processo
“costituente” che segna la vita dell’Unione europea all’inizio del nuovo millennio. Con il
Consiglio europeo di Laeken prende il via il percorso che, anche grazie al lavoro dalla
Convenzione guidata da Valéry Giscard d’Estaing, giunge a compimento nell’ottobre del
2004 con la firma del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, formula di
compromesso per alludere a un testo che ambisce a distinguersi dai trattati internazionali
classici ma non può assumere il volto di una costituzione in senso stretto48. Alcuni risvolti
di tale documento sono già stati messi in luce nelle pagine o nei capitoli precedenti: è il
Trattato costituzionale a prevedere la clausola di solidarietà in caso di attentati terroristici
(artt. I-43 e III-329), i cui effetti sono anticipati in seguito all’attentato di Madrid del marzo
2004, e a dare una strutturazione coerente al contributo delle missioni PESC/PESD in
funzione antiterroristica (art. III-309).
Nel contempo, attraverso le innovazioni introdotte nella regolazione dello spazio di
libertà, sicurezza e giustizia, il nuovo testo si sofferma sul fenomeno terroristico in quanto
tale. Si afferma infatti che lo SLSG si regge sul principio del reciproco riconoscimento
delle decisioni giudiziarie, integrato dalla prospettiva del ravvicinamento fra le legislazioni
nazionali (art. III-270). L’armonizzazione fra gli ordinamenti giuridici degli Stati membri è
percorribile solo per una serie definita di materie, indicate come «sfere di criminalità
particolarmente grave che presentano una dimensione transnazionale», fra cui il terrorismo
46
Consiglio dell’Unione europea, Nota del Segretariato generale del Consiglio, Bruxelles, 18 aprile 2008, in
RCUE, doc. 8407/1/08 REV 1, p. 10. Si vedano in argomento alcuni dei saggi contenuti in Lee (ed.),
Intervention, Terrorism, and Torture, cit.; Ignatieff, Il male minore, cit., pp. 192-207; A.M. Dershowitz,
Terrorismo (2002), Roma, Carocci, 2003, pp. 125-155; K.J. Greenberg (ed.), The Torture Debate in America,
Cambridge, Cambridge University Press, 2006.
47
Parlamento europeo, Risoluzione del Parlamento europeo sul presunto uso dei paesi europei da parte della
CIA per il trasporto e la detenzione illegali di prigionieri, Strasburgo, 14 febbraio 2007, in APE, doc. P6_TA
(2007) 0032. Cfr. inoltre C. Fava, Quei bravi ragazzi, Milano, Sperling & Kupfer, 2007.
48
Per un’introduzione ai contenuti del Trattato costituzionale e al significato del processo “costituente”
europeo, che qui non è possibile approfondire, si vedano: G. Bonacchi (a cura di), Una costituzione senza
Stato. Ricerca della Fondazione Lelio e Lisli Basso - Issoco, Bologna, Il Mulino, 2001; G. Zagrebelsky (a
cura di), Diritti e Costituzione nell’Unione europea, Roma-Bari, Laterza, 2003; C. Malandrino (a cura di),
Un popolo per l’Europa unita. Fra dibattito storico e nuove prospettive teoriche e politiche, Firenze,
Olschki, 2004; Morelli (ed.), A Constitution for the European Union, cit.; F. Bassanini e G. Tiberi (a cura di),
La costituzione europea. Un primo commento, Bologna, Il Mulino, 2004; J. Ziller, La nuova costituzione
europea, Bologna, Il Mulino, 2004 (seconda edizione ampliata); J. Luther, Europa constituenda. Studi di
diritto, politica e cultura costituzionale, Torino, Giappichelli, 2007.
169
(art. III-271). Ne consegue un’esplicita identificazione fra terrorismo e criminalità, che
riprende un’idea già emersa in alcuni passi dei Trattati di Maastricht e Amsterdam negli
anni Novanta. Non si dà viceversa risalto “costituzionale” alla nozione più “politica” di
terrorismo sposata dalla decisione quadro del 2002.
In termini pratici, l’impegno antiterroristico europeo potrebbe beneficiare di qualche
progresso nei settori della cooperazione giudiziaria e di polizia, ma non di quello più carico
di potenzialità: la prospettiva di creare una Procura europea, a partire da Eurojust, è valida
solo per i reati orientati a colpire gli interessi finanziari dell’Unione (art. III-274).
L’affossamento del Trattato costituzionale, in seguito alla mancata ratifica in Francia e
Olanda nel giugno 2005, non comporta dunque ricadute tragiche sulla lotta al terrorismo.
Pur in presenza di un visibile impasse politico-istituzionale che l’affligge nei mesi
successivi, l’Ue è comunque in grado di intraprendere alcune nuove iniziative contro il
terrorismo. Ciò si spiega anche con il crescente interesse delle formazioni terroristiche per
il territorio degli Stati membri: dopo Madrid è infatti Londra a essere presa di mira con un
attacco suicida all’affollata rete del trasporto pubblico (7 luglio 2005, con un tentativo di
replica a due settimane di distanza).
La risposta europea è affidata al Consiglio GAI straordinario del 13 luglio, che
approva una Dichiarazione in cui sono rintracciabili, in nuce, gli elementi portanti della
Strategia antiterrorismo adottata nel dicembre dello stesso anno49. Quest’ultimo
documento contiene alcune significative indicazioni di tenore istituzionale, a partire
dall’interazione fra Ue e Stati membri nella lotta al terrorismo. Per quanto possa risultare
proficua l’attività di coordinamento, supporto, facilitazione svolta dalle istituzioni europee,
sono le autorità nazionali a detenere la «responsabilità primaria»50, considerazione che
rappresenta una realistica presa d’atto dei limiti insiti nei meccanismi decisionali che
governano il secondo e il terzo pilastro, in cui l’azione di contrasto del terrorismo è
racchiusa quasi per intero. Quanto ai rapporti fra le istituzioni Ue, il documento chiarisce
che al Consiglio europeo spetta la supervisione politica, accompagnata da un dialogo
politico di alto livello tra Consiglio, Commissione e Parlamento. Il Coreper, il coordinatore
antiterrorismo e la Commissione sono chiamati a verificare, con i rispettivi strumenti, i
49
Cfr. rispettivamente Consiglio dell’Unione europea, Nota della Presidenza, Bruxelles, 13 luglio 2005, in
RCUE, doc. 11158/05 e Consiglio europeo, Strategia antiterrorismo dell’Unione europea, in Consiglio
dell’Unione europea, Nota della Presidenza e del coordinatore antiterrorismo, Bruxelles, 30 Novembre
2005, in RCUE, doc. 14469/4/05 REV 4.
50
Ivi, p. 4.
170
progressi realizzati51. Nel quadro così delineato, merita una sottolineatura la decisione di
ritagliare un ruolo formale del Parlamento nella lotta al terrorismo, benché sussistano
dubbi sulla possibilità che tale previsione sia sufficiente ad assolvere l’impegno a
procedere nel «modo democratico e responsabile» sbandierato dalla strategia europea52.
Nel merito, la Strategia di fine 2005 si articola in diversi capitoli. Quelli riassunti con
i termini «protezione», «perseguimento» e «risposta» si inseriscono nel solco tracciato
dalla condotta successiva all’attentato di Madrid, enfatizzando gli aspetti operativi,
giudiziari e di polizia dell’antiterrorismo, che concernono la tutela del territorio e della
popolazione degli Stati membri: controllo delle frontiere e protezione di trasporti e
infrastrutture critiche; lotta al finanziamento dei gruppi terroristici e arresto dei loro
aderenti; gestione delle conseguenze degli attentati53. Più interessante appare invece il
quarto pilastro strategico, che mira a prevenire l’azione del terrorismo e in particolare
quella declinazione del fenomeno che si intreccia con il fondamentalismo religioso e
l’estremismo violento. In termini introduttivi, la Strategia fornisce una definizione
decisamente generica di terrorismo:
Il terrorismo è una minaccia per tutti gli Stati e per tutti i popoli. Rappresenta una grave
minaccia per la nostra sicurezza, per i valori delle nostre società democratiche e per i diritti e le
libertà dei nostri cittadini, in particolare in quanto colpisce in modo indiscriminato persone
innocenti. Il terrorismo è un atto criminale e in nessuna circostanza giustificabile54.
Poco oltre gli europei mettono però a fuoco il vero obiettivo, precisando che «la strategia è
incentrata sulla lotta alla radicalizzazione ed al reclutamento in gruppi terroristici quali Al
Qaeda e gruppi da essa ispirati in quanto questo tipo di terrorismo costituisce attualmente
la minaccia principale all’Unione nel suo insieme»55.
Il tema dominante è il ruolo dell’«ideologia estremista» che conduce alcuni individui
ad abbracciare la causa e i metodi del terrorismo politico. La Strategia europea mira
dunque a combattere la propaganda che – in carcere, nei luoghi di tensione internazionale,
attraverso internet – «distorce la verità sui conflitti nel mondo ravvisandovi la presunta
prova di uno scontro tra Occidente e Islam»56. L’Ue pone l’accento sulla pericolosa
51
Ivi, p. 17.
Ivi, p. 5.
53
Ivi, pp. 10-16.
54
Ivi, p. 6.
55
Ivi, p. 7.
56
Ivi, p. 8.
52
171
commistione fra rivendicazioni politiche e radicalismo religioso, prospettando un duplice
ordine di intervento: in primo luogo, si tratta di evitare che le «politiche nazionali ed
europee» fomentino le divisioni; in secondo luogo, occorre agire nella «società civile» per
far prevalere le istanze moderate, maggioritarie ma poco ascoltate, su quelle
fondamentaliste o estremiste. A giudizio degli europei, insomma, l’opera di prevenzione
deve porre in connessione la sfera politico-istituzionale e quella sociale, ma anche gli
aspetti interni ed esterni della sicurezza, dispiegandosi tanto entro i confini europei quanto
nei rapporti internazionali. I fattori decisivi per la radicalizzazione dei terroristi –
«governanza [sic] carente o autocratica, modernizzazione rapida ma incontrollata, assenza
di prospettive politiche ed economiche e di opportunità di istruzione» – sono
prevalentemente presenti in alcuni paesi terzi, ma possono tuttavia emergere in relazione
ad alcune fasce della popolazione europea. Ne consegue la volontà di mettere in atto
iniziative a tutto campo per favorire sia la stabilizzazione e lo sviluppo di alcune aree del
mondo, sia la piena integrazione in Europa:
Per lottare contro tutto ciò, al di fuori dell’Unione dobbiamo promuovere con maggior vigore il
buongoverno, i diritti umani, la democrazia, l’istruzione e la prosperità economica e impegnarci
nella risoluzione dei conflitti. Dobbiamo inoltre concentrarci sulle ineguaglianze e la
discriminazione, laddove esistono, e promuovere il dialogo interculturale e l’integrazione a
lungo termine ove opportuno57.
Questo filone della lotta al terrorismo, che coinvolge delicati equilibri politici,
culturali, sociali e religiosi, rappresenta un risvolto complesso del dibattito pubblico
occidentale. Alcuni studi sociologici finalizzati a ricostruire i tratti dell’Islam europeo
pongono l’accento sulle modalità di trasmissione della religione alle giovani generazioni. Il
loro indottrinamento è svolto in misura crescente da soggetti esterni alla cerchia familiare e
acquista un carattere etico, culturale o emozionale, che porta fra l’altro a solidarizzare con
correligionari coinvolti in guerre. L’appartenenza religiosa appare scarsamente connotata
in termini etnici e più facilmente intesa in chiave individualistica, premessa tanto della
secolarizzazione quanto della costruzione di un modello ortodosso, globale, in alcuni casi
conservatore e persino fondamentalista. L’Islam europeo, dunque, unisce una condizione
di minorità numerica e soggezione sociale a una vocazione universalistica, in cui si
determinano i presupposti per la “rinascita” nella fede di convertiti e giovani musulmani (a
57
Ivi, p. 9.
172
lungo indifferenti alla dimensione religiosa), in conseguenza di motivazioni sociali,
politiche, relazionali e non necessariamente spirituali58.
Questa possibile dinamica legata agli immigrati di seconda/terza generazione è
esaminata nel settembre 2005 da una comunicazione della Commissione, che individua
alcuni possibili rimedi: il riconoscimento a tali soggetti di condizioni di lavoro non
discriminatorie, l’accesso a servizi sociali e sanitari, all’istruzione e agli alloggi, una quota
di diritti civili e politici e la “bonifica” dell’ambiente circostante dalle venature
antimusulmane emerse come reazione all’11 settembre. L’insieme delle politiche da
assumere, in altre parole, dovrebbe tenere conto del carattere «biunivoco» o «bilaterale»
dell’integrazione, locuzioni che sottintendono lo sforzo congiunto e speculare che
immigrati e società ospitanti sono chiamati a compiere nel comune interesse e nel rispetto
del sottile equilibrio fra la salvaguardia dei valori fondamentali dell’Ue e quella di altre
culture, religioni, tradizioni59.
Lo sfondo concettuale di tali considerazioni è lo sterminato dibattito sul
multiculturalismo, rispetto al quale l’approccio europeo sembra per lo più critico,
allineandosi piuttosto alle posizioni sostenute dal politologo siriano-tedesco Bassam Tibi.
In questa luce, il multiculturalismo è rifiutato in quanto espressione di relativismo puro e
ideologia condannata ad aprire la strada alla giustapposizione di «società parallele», vale a
dire di diverse comunità nate su basi identitarie, poco incentivate a ricercare il dialogo
reciproco e destinate a produrre effetti di ghettizzazione. Viceversa, è preferibile la difesa
di alcuni principi fondamentali europei e occidentali (la democrazia secolarizzata, i diritti
umani, l’autonomia della società civile, la tolleranza di origine illuministica, la laicità,
ecc.), resi vincolanti anche per gli immigrati. Il punto di partenza dell’intero discorso è la
rigida separazione fra politica e religione, tradotta nell’esclusione di quest’ultima dalla
58
Si vedano J. Cesari, Musulmani in Occidente (2004), Firenze, Vallecchi, 2005, pp. 79-92, A. Pacini,
Introduzione a J. Cesari e A. Pacini (a cura di), Giovani musulmani in Europa. Tipologie di appartenenza
religiosa e dinamiche socio-culturali, Torino, Fondazione G. Agnelli, 2005, pp. XI-XXII, e S. Allievi,
Musulmani d’occidente. Tendenze dell’Islam europeo, Roma, Carocci, 2002, che indica la città di Bruxelles –
per certi versi simbolicamente considerata la “capitale” dell’Europa – come la metropoli con la più elevata
rappresentanza musulmana (10% della popolazione, p. 130). Cfr. inoltre M.M. Laskier, Islamic Radicalization and Terrorism in the European Union. The Maghrebi Factor e J.S. Paris, Explaining the Causes of
Radical Islam in Europe, entrambi in H. Frisch and E. Inbar (eds.), Radical Islam and International Security.
Challenges and Responses, London-New York, Routledge, 2008, pp. 93-94 e pp. 121-127 in particolare.
59
Commissione delle Comunità europee, Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento
europeo, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni. Un’agenda comune per
l’integrazione. Quadro per l’integrazione dei cittadini di paesi terzi nell’Unione europea, Bruxelles, 1°
settembre 2005, in RCE, doc. COM (2005) 389.
173
sfera pubblica e nella sua riduzione a fatto privato, sul modello francese 60.
Negli stessi mesi, la Commissione elabora un documento destinato a tradursi in una
più ampia strategia europea per contrastare la radicalizzazione e il reclutamento favoriti
dalle organizzazioni terroristiche61. L’impostazione adottata presuppone l’intersezione fra
interventi operativi e politiche di più ampio respiro, muovendosi trasversalmente alla
distinzione interno/esterno. Oltre a smantellare le reti e neutralizzare gli individui che
attirano le persone verso il terrorismo, gli europei ribadiscono di auspicare la prevalenza
dell’anima moderata dell’Islam su quella estremista, isolando da un lato i predicatori della
violenza ed eliminando dall’altro ogni ambiguità circa l’atteggiamento occidentale verso la
civiltà islamica, in nessun caso identificabile con la condotta terroristica. L’Unione
dichiara inoltre di voler prestare attenzione a una serie di fattori funzionali
all’avvicinamento delle masse al terrorismo: la diffusione di modelli autocratici, la
realizzazione inadeguata della democrazia, la modernizzazione incontrollata, l’assenza di
prospettive politiche ed economiche, la mancata soluzione di conflitti interni o
internazionali, le carenze nell’istruzione e nell’offerta di opportunità culturali ai giovani.
D’altra parte, si riconosce che la maggior parte delle azioni sono di pertinenza degli Stati
membri e che i risultati saranno conseguiti anche grazie al contributo di organizzazioni non
governative. Alle istituzioni Ue, e in particolare alla Commissione, spetta il compito di
assicurare sostegno e fondi, organizzare incontri e conferenze, coordinare l’attività degli
Stati e incentivare il dialogo con i Paesi terzi. Si può dunque osservare che questo versante
della lotta al terrorismo resta sostanzialmente fra le competenze nazionali.
60
B. Tibi, Euro-Islam. L’integrazione mancata, Venezia, Marsilio, 2003, traduzione parziale di Islamiche
Zuwanderung. Die gescheiterte Integration, München-Stuttgart, Deutsche Verlags-Anstalt GmbH, 2002.
Questa impostazione è contrapposta da R. Guolo, L’Islam è compatibile con la democrazia?, Roma-Bari,
Laterza, 2004 alla posizione di pensatori e leader musulmani come Tariq Ramadan (pp. 118-125), ma suscita
anche la critica di alcuni studiosi europei, che vi rintracciano le ragioni del potenziale separatismo sociale
vissuto dai musulmani nelle società europee, al punto da rendere l’Europa (e non gli Stati Uniti) «terreno
d’elezione della tesi dello “scontro di civiltà”» (Cesari, Musulmani in Occidente, cit., pp. 57-66). Ponendosi
su un piano più storico e meno sociologico, J. Goody, Islam ed Europa (2004), Milano, Cortina, 2004,
giunge a conclusioni più concilianti, sottolineando come l’Islam sia divenuto parte essenziale della cultura
occidentale ed europea in particolare, la cui società ha concorso a plasmare per secoli. Per un
approfondimento ulteriore sul multiculturalismo, che qui non può essere svolto, si rimanda ad alcuni recenti
studi sul tema: M.L. Lanzillo, Il multiculturalismo, Roma-Bari, Laterza, 2005; C. Galli (a cura di),
Multiculturalismo. Ideologie e sfide, Bologna, Il Mulino, 2006; T. Modood, A. Triandafyllidou and R.
Zapata-Barrero (eds.), Multiculturalism, Muslims and Citizenship. A European Approach, London-New
York, Routledge, 2006; A.S. Laden and D. Owen (eds.), Multiculturalism and Political Theory, Cambridge,
Cambridge University Press, 2007.
61
Si vedano Commissione delle Comunità europee, Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio. Reclutamento per attività terroristiche – Affrontare i fattori che contribuiscono alla
radicalizzazione violenta, Bruxelles, 21 settembre 2005, in RCE, doc. COM (2005) 313, e successivamente
Consiglio dell’Unione europea, Nota punto “I/A” della Presidenza, Bruxelles, 22 novembre 2005, in RCUE,
doc. 14781/1/05 REV 1.
174
Sul ruolo dei “cattivi maestri” e sulla propaganda attuata dai reclutatori di militanti si
concentra una proposta di revisione della definizione di reato terroristico, che non modifica
l’impianto del 2002 ma enuclea in modo più incisivo la categoria di “istigazione” al
terrorismo. La nuova iniziativa, assunta dalla Commissione nell’autunno del 200762, si
avventura su un terreno particolarmente scivoloso. Si tratta di decidere se considerare
punibili penalmente alcuni comportamenti che, per altri versi, possono apparire legittime
manifestazioni delle libertà di associazione, espressione o culto. Per queste ragioni, la
presidenza slovena avverte la necessità di inserire nel testo un nuovo “considerando”,
contenente un’esplicita menzione del principio di proporzionalità, e un articolo dedicato
alla tutela delle libertà di stampa ed espressione e delle garanzie procedurali63.
A queste generali preoccupazioni, il Parlamento europeo aggiunge alcune valutazioni
sul lessico adottato dalla Commissione. Il problema non riguarda tanto la versione italiana,
che parla di «istigazione» al terrorismo, quanto – per esempio – quelle inglese e francese,
in cui si accenna al concetto di provocation. I parlamentari affermano di preferire l’inglese
incitement e il francese incitation64, giudicati probabilmente più adatti a distinguere la
volontà di diffondere il messaggio terroristico e produrre effetti concreti dalla mera
espressione di un’opinione, di una visione del mondo, o anche di un auspicio, ma non
suffragato da un impegno tangibile per la sua realizzazione. Sul punto, la Commissione è
molto meno netta, riferendosi a discorsi che determinino direttamente o indirettamente un
esito terroristico, quasi ad avvalorare la controversa prospettiva del “reato di opinione”.
Ignorando le perplessità del Parlamento, il testo finale adottato dal Consiglio riprende
ripetutamente il concetto di «provocazione», anche in lingua italiana65.
La ricostruzione storico-politica condotta in questo studio si conclude con alcuni
cenni sul contributo del nuovo Trattato di Lisbona alla lotta al terrorismo. Benché nella
sostanza tale documento riproponga i contenuti della svolta “costituzionale” fallita nel
62
Commissione delle Comunità europee, Progetto di decisione quadro del Consiglio che modifica la
decisione quadro 2002/475/GAI relativa alla lotta contro il terrorismo, Bruxelles, 6 novembre 2007, in RCE,
doc. COM (2007) 650.
63
Consiglio dell’Unione europea, Risultati dei lavori del Consiglio “Giustizia e Affari sociali”, Bruxelles, 23
aprile 2008, in RCUE, doc. 8087/08.
64
Parlamento europeo, Relazione sulla proposta di decisione quadro del Consiglio che modifica la decisione
quadro 2002/475/GAI relativa alla lotta al terrorismo, Commissione per le libertà e i diritti dei cittadini,
Relatore: R. Lefrançois, 23 luglio 2008, in APE, doc. A6-0323/2008, emendamento n. 12. Il testo italiano
rimarrebbe invariato, così come quello spagnolo in cui si parla di inducción. Una modifica è invece richiesta
per la versione tedesca: Anstiftung sostituirebbe Aufforderung.
65
Consiglio dell’Unione europea, Atti legislativi ed altri strumenti, Bruxelles, 18 luglio 2008, in RCUE, doc.
8807/08.
175
200566, alla cui analisi si rimanda, e nonostante l’impegno europeo contro la minaccia
terroristica sia proseguito anche nel periodo di stallo dell’Unione, il Trattato di Lisbona
presenta alcuni elementi inediti. Nella sezione dedicata allo spazio di libertà, sicurezza e
giustizia, si riconosce ai paesi membri la possibilità di promuovere «fra di loro e sotto la
loro responsabilità» cooperazioni intergovernative finalizzate alla «sicurezza nazionale»
(art. 61 F), reintroducendo dunque le premesse per iniziative parallele e separate rispetto al
filone “ortodosso” dell’integrazione europea. Spazio autonomo viene riconosciuto alla lotta
al finanziamento del terrorismo, perseguita attraverso misure amministrative come il
blocco dei beni e dei capitali (art. 61 H). Degna di nota è inoltre la scelta di dare rilievo,
all’interno di un Trattato e non di disposizioni ordinarie, all’eventualità che le forze
dell’ordine di uno Stato membro operino al di fuori dei confini nazionali (art. 69 H). Pur
vincolato a una decisione unanime da parte del Consiglio, questo scenario costituisce un
ulteriore segnale della tendenza a superare – almeno parzialmente – la logica territoriale
dello Stato moderno e della corrispondente idea di sovranità, di cui la tutela dell’ordine
pubblico è un attributo decisivo. La realizzazione sistematica di operazioni di polizia a
livello trans- o addirittura sovranazionale si presenta come uno fra i più promettenti
progetti europei concepiti per adeguarsi alle necessità poste dalle minacce alla sicurezza,
già da tempo inclini a infrangere gli steccati statal-nazionali.
Più in generale, il Trattato di Lisbona può essere inteso come un primo e provvisorio
tentativo di colmare alcune aporie politico-istituzionali che da tempo penalizzano l’azione
di contrasto del terrorismo, in modo particolarmente eclatante nel momento in cui si
manifesta la sua trasversalità rispetto ai tradizionali pilastri. Per la verità, il problema non è
rappresentato solo dallo sviluppo asimmetrico e incoerente della struttura Ue, o
dall’eterogeneità di metodi, procedure e obiettivi, che variano a seconda del settore
esaminato. La lotta al terrorismo risente infatti di alcuni equivoci di fondo del processo di
integrazione di ispirazione funzionalista. L’attività di agenzie come Europol o Eurojust,
che risponde all’oggettiva esigenza di porre in connessione le autorità investigative e
giudiziarie dei paesi membri, non è sottoposta a un reale controllo da parte del Parlamento
europeo67. I vari comitati del secondo e del terzo pilastro, chiamati a raccordare le riunioni
del Consiglio, finiscono per muoversi sul labile confine fra aspetti tecnici e sostanziali. A
66
È la tesi di J. Ziller, Il nuovo Trattato europeo, Bologna, Il Mulino, 2007.
Sul ruolo delle agenzie indipendenti, presenti in tutti e tre i pilastri Ue, si vedano P.C. Schmitter, Come
democratizzare l’Unione europea e perché (2000), Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 116-117; G. Majone, Le
agenzie regolative europee, in S. Fabbrini (a cura di), L’Unione europea. Le istituzioni e gli attori di un sistema sovranazionale, Roma-Bari, Laterza, 2002, pp. 171-199; S. Hix, The Political System of the European
Union, New York-Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2005, pp. 48-52.
67
176
tutto ciò si aggiunge il velo di opacità che ricopre i lavori del Consiglio stesso, che resta
l’istituzione centrale in materia di sicurezza ma non pubblica verbali esaurienti sulle
discussioni svolte e tende a classificare come riservati numerosi documenti di lavoro stilati
in preparazione delle riunioni.
Questa prassi evoca il più ampio dibattito sull’accountability, lemma di difficile
traduzione con cui si fa riferimento alla responsabilità e alla trasparenza delle decisioni,
all’accesso della società civile agli arcana imperii, alle risposte dei governanti alle
domande e agli stimoli provenienti dai governati e, letteralmente, alle modalità con cui i
detentori del potere sono invitati a “rendere conto” delle proprie azioni68. Per effetto di un
equilibrio istituzionale che premia il Consiglio e gli organismi da esso dipendenti, e
punisce il Parlamento, sembra riprodursi su scala europea la deriva che Norberto Bobbio
riassume nella formula del «potere invisibile», per alludere alle pratiche di governo che
sfuggono al controllo delle istituzioni rappresentative, a partire dai parlamenti, luoghi dove
il potere è pubblico (nel senso di non segreto) per eccellenza69.
Raffinando l’analisi, si può osservare che la prevalenza del metodo intergovernativo,
e in particolare il ruolo dei comitati, dei funzionari o degli esperti che si muovono nelle sue
pieghe, contribuiscono ad accentuare il tratto “tecnocratico” – e dunque non propriamente
democratico – del processo di integrazione europea. È risalente nel tempo la polemica
contro la natura tecnocratica di istituzioni come la Commissione europea o la Banca
centrale europea. Almeno in astratto, i loro componenti sono nominati sulla base di
competenze o conoscenze specifiche, con un sistema di legittimazione alternativo a quello
fondato sul circuito della rappresentanza politica70.
Nel caso del Consiglio e di analoghi organi intergovernativi, l’elemento tecnocratico
68
Per un’analisi di questo aspetto in relazione all’esperienza Ue, si veda C. Harlow, Accountability in the
European Union, Oxford, Oxford University Press, 2002, che parla di «a continual process of “giving
account” to an informed and active civic society» (p. 12).
69
Si vedano N. Bobbio, La democrazia e il potere invisibile (1980), in Id., Il futuro della democrazia,
Torino, Einaudi, 1995, pp. 85-113, Id., Democrazia e conoscenza (1986) e Id., Democrazia e segreto (1990),
apparsi in tempi e con titoli diversi ma ora raccolti in Id., Teoria generale della politica, a cura di M. Bovero,
Torino, Einaudi, 1999, pp. 339-352 e pp. 352-369 rispettivamente. Cfr. anche V. Sorrentino, Il potere
invisibile, Molfetta, La Meridiana, 1998. Sulla presenza di questo profilo nell’Ue ragiona F.W. Scharpf,
Governare l’Europa. Legittimità democratica ed efficacia delle politiche nell’Unione Europea (1997), Bologna, Il Mulino, 1999, che tuttavia riconduce alla dimensione del «potere quasi invisibile» la propensione
della Corte di Giustizia a rimuovere gli ostacoli incontrati dal processo di unificazione europea, cui si
contrappone l’assunzione di decisioni «politicamente più visibili» da parte di Parlamento e Consiglio (p. 30).
70
Cfr. le metafore di «dittatore benevolo» e del «despota illuminato» illustrate da J.-P. Fitoussi, Il dittatore
benevolo. Saggio sul governo dell’Europa (2002), Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 13-14. Per un’introduzione
a questo profilo della Commissione, si vedano N. Nugent, The Government and Politics of the European Union, New York-Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2006, 6th edition, pp. 180-185 (trad. it. Bologna, Il Mulino,
2008, 3 voll.), e S. Gozi, La Commissione europea. Processi decisionali e poteri esecutivi, Bologna, Il
Mulino, 2005, pp. 9-21.
177
si qualifica però in un altro modo: le decisioni da essi assunte sono frutto della
contrattazione fra i rappresentanti dei governi, a prescindere dalla volontà degli elettori. È
il politologo americano Robert A. Dahl, fra i massimi studiosi della democrazia
contemporanea, a cogliere nel metodo intergovernativo la «vittoria di fatto del governo dei
custodi», con un lessico che evoca la figura platonica dei governanti scelti in ragione di
virtù eccezionali e naturali, anziché di procedure democratiche. Lo stesso Dahl individua
nell’architettura istituzionale europea un potenziale rimedio a tale problema, a patto
tuttavia di svilupparne e consolidarne i geni sovranazionali, ipotesi che incontra non pochi
ostacoli71.
Merita quindi una sottolineatura il contributo del Trattato di Lisbona, che elimina la
struttura a pilastri e introduce interessanti novità per lo meno nell’ambito dello spazio di
libertà, sicurezza e giustizia. La quota di votazioni a maggioranza è innalzata dal 60% al
90% e la procedura di codecisione è estesa anche ai settori della cooperazione giudiziaria e
di polizia, con benefici per i poteri d’intervento del Parlamento europeo72. È tuttavia
difficile prevedere in quale modo questo insieme di correzioni procedurali e istituzionali
inciderà sul funzionamento complessivo dell’Unione e sulla lotta al terrorismo,
costantemente combattuto fra l’esigenza di assicurare l’efficienza e l’efficacia delle proprie
azioni e quella di aprirsi ai cittadini. In assenza di uno sforzo sul versante della trasparenza,
della giustificazione delle scelte di fronte all’opinione pubblica e della predisposizione ad
accogliere le istanze promananti dalla società, l’intero progetto della costruzione europea
corre il rischio di ripiegarsi su se stesso, sottraendo spinta propulsiva e consenso anche alle
indispensabili politiche sovranazionali di cui gli Stati membri hanno bisogno a causa della
transnazionalità delle sfide – politiche, economiche, sociali, militari, culturali – che li
attendono.
71
R.A. Dahl, La democrazia e i suoi critici (1989), Roma, Editori Riuniti, 1990, pp. 484-486 e Id., Is Postnational Democracy Possibile?, in S. Fabbrini (ed.), Nation, Federalism and Democracy. The EU, Italy and
American Experience. Trento, Italy, October 4-5, 2001, Bologna, Compositori, 2001, pp. 35-45. Per il
concetto di “guardiano-custode” cfr. Platone, La Repubblica, cit., libro IV, 427d-430c (pp. 139-143).
72
Panzetti, Le politiche di sicurezza interna alla vigilia della comunitarizzazione, cit., pp. 253-257.
178
Conclusione
La ricerca sviluppata in questo volume prende le mosse dall’assunto che esista
un’evidente contaminazione tra il piano delle idee e quello delle istituzioni politiche.
L’analisi dei testi e delle modifiche istituzionali mostra in effetti una consonanza fra il
lessico politico dei documenti europei e le tappe dell’evoluzione descritta dalle strutture di
funzionamento della Comunità e poi dell’Unione europea. Per quanto riguarda il tema qui
affrontato, si può concludere che – nel corso del periodo preso in considerazione – il
terrorismo è associato a quattro “immagini”, che esprimono diversi modi di concepire il
fenomeno e si riflettono in altrettanti livelli istituzionali.
L’immagine più antica è quella del terrorismo come turbolenza o fattore di instabilità
per l’ordinato fluire della vita associata, che mette a repentaglio la sicurezza dei membri di
una comunità. In quest’ottica la competenza di intervento ricade classicamente sul
ministero dell’Interno, in quanto istituzione deputata a governare in termini generali le
dinamiche sociali, assicurandone la regolarità. Per effetto dell’anomalia politicoistituzionale che caratterizza il processo di integrazione europea, privo di una vera
dimensione statuale e dunque di ministeri di carattere sovranazionale, negli anni Settanta
tale approccio si traduce nella calendarizzazione di periodiche riunioni tra i ministri
dell’Interno e i funzionari dei paesi membri (prassi TREVI). Si tratta di una linea di
sviluppo della lotta al terrorismo destinata ad assumere la forma della cooperazione
intergovernativa, restando nell’ombra per più di un decennio e confluendo infine nel terzo
pilastro eretto dal Trattato di Maastricht. Pur affiancato da altri strumenti, questo filone
dell’antiterrorismo mantiene una posizione di un certo rilievo anche negli anni Novanta,
grazie alla creazione di Europol, per tornare al centro dell’attenzione con l’esplosione del
terrorismo qaedista. L’auspicio a migliorare lo scambio di informazioni e in generale la
cooperazione di polizia è percepibile nel periodo successivo all’11 settembre e acquista
nuova enfasi con l’attentato di Madrid del marzo 2004, che riporta il terrorismo sul
territorio europeo.
A cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta si consuma il primo tentativo di avviare
l’integrazione anche sul fronte giudiziario. Il contributo potenziale di questa iniziativa alla
lotta al terrorismo è indubitabile e di qui scaturisce la seconda immagine del terrorismo.
Interpretando l’azione dei terroristi come reato punibile penalmente, la cooperazione
giudiziaria mira a impedire che tali soggetti usufruiscano delle difformità fra gli
ordinamenti nazionali per sfuggire alle autorità che li perseguono. L’armonizzazione fra le
legislazioni degli Stati membri e il loro impegno a evitare l’uso strumentale della
procedura di estradizione andrebbero di pari passo con la realizzazione di uno spazio
giuridico omogeneo. Il progetto, caldeggiato in un primo momento dalla Francia
giscardiana, è in realtà mortificato e definitivamente accantonato per effetto dell’estensione
ai terroristi della “dottrina Mitterrand” sull’asilo ai perseguitati politici. Dopo la sfortunata
operazione di rilancio dell’integrazione politica impostata da Spinelli nel 1984, è la nascita
dell’Ue nel 1992-93 a sancire il rientro di tale settore nell’agenda europea. A partire dal
1999, la progressiva costruzione dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia si rivela
fioriera di contributi significativi alla lotta al terrorismo: si pensi alle due decisioni quadro
del giugno 2002 relative alla definizione dei reati terroristici e all’introduzione del mandato
di arresto europeo.
Ricco di ostacoli è anche il percorso con cui si afferma la terza concezione del
terrorismo. Già dalla fine degli anni Settanta, con la crisi fra Stati Uniti e Iran, si affaccia
l’ipotesi che le dinamiche terroristiche producano effetti sulle relazioni interstatali. Le
successive vicende legate ai rapporti dei governi libico e siriano con la galassia terroristica
confermano che la violenza politica esercitata da attori non statali può presentarsi come
una minaccia alla sicurezza degli Stati sovrani e quindi come un fenomeno rilevante per la
comunità internazionale. Ponendo fine alla fase segnata dalla separazione fra attività
diplomatica, dedicata esclusivamente alla dimensione interstatale o intergovernativa, e
azione giudiziaria e di polizia, mirata a fronteggiare le condotte terroristiche, gli europei
prendono atto del carattere trasversale e complesso proprio della dimensione della
sicurezza. In termini istituzionali questa nuova consapevolezza implica l’attribuzione alla
cooperazione politica europea (CPE), nata per occuparsi di politica estera “tradizionale”, di
nuove competenze pensate per combattere il tratto transnazionale del terrorismo ed
ereditate dal secondo pilastro dell’Unione fondata negli anni Novanta.
Un ultimo passaggio si compie nel momento in cui si riconosce che tale fenomeno
presenta punti di contatto con la sfera militare. Le istituzioni europee, per la verità, non si
spingono fino ad abbracciare la lettura radicale del terrorismo globale come “atto di
guerra”, ma – specialmente dopo l’11 settembre – dimostrano di considerare gli strumenti
militari idonei a contribuire alla lotta contro le organizzazioni terroristiche. Su questo
punto la posizione europea non è limpida. In linea di massima, a costo di dividersi al
proprio interno e di incrinare i rapporti transatlantici, l’Ue tende a escludere il ricorso alla
guerra classica come mezzo adatto a colpire le reti terroristiche. Il caso del bombardamento
180
dell’Afghanistan, tuttavia, sembra costituire un’eccezione a questa posizione: il
rovesciamento del regime talebano con la forza è infatti appoggiato compattamente dai
governi e dalle istituzioni dell’Unione. Ciò premesso, l’impiego di strumenti militari –
frutto della sinergia fra PESD e NATO – è di norma contemplato in chiave preventiva e a
fini “civili”, cioè per favorire la stabilizzazione delle crisi regionali, la neutralizzazione dei
conflitti e in generale l’intervento in tutti i focolai propedeutici al consolidamento del
“nuovo terrorismo”.
Non c’è dubbio che l’ordine in cui le quattro varianti sono elencate rispecchi la
sequenza attraverso cui la lotta al terrorismo si evolve nel tempo: l’approccio giudiziario e
di polizia è cronologicamente e concettualmente precedente a quello diplomaticointernazionalistico. È altrettanto evidente, d’altra parte, che le quattro concezioni del
terrorismo e, in parallelo, i quattro filoni dell’integrazione convivono e si arricchiscono
reciprocamente. Per effetto del processo di globalizzazione, diventa peraltro sempre più
difficile distinguerne con nettezza i confini. Il superamento delle tradizionali opposizioni
fra “interno” ed “esterno”, fra ambito civile e militare, fra sfera politica ed economica, più
volte richiamato nel corso della trattazione perché ha ricadute notevoli sul terrorismo
stesso, rende talvolta problematica la chiarezza della demarcazione tra guerra e reato,
rappresaglia bellica e operazione di polizia. Ne consegue una parziale sovrapposizione fra
le competenze dei ministri dell’Interno, degli Esteri, della Difesa, della Giustizia, e perfino
dell’Economia (in virtù delle modalità di finanziamento del terrorismo).
Su un piano ulteriore si colloca la discussione sul carattere “politico” del terrorismo,
ripetutamente evocato nei capitoli precedenti. A questo proposito si può rilevare come le
interpretazioni che inseriscono il fenomeno nell’alveo delle relazioni internazionali, a
maggior ragione se teorizzano l’intersezione fra elementi civili e militari, sono
tendenzialmente portate ad ammettere la natura politica del terrorismo, alla luce della sua
capacità di interagire con gli Stati e i loro interessi. Lo scenario è molto diverso per chi si
pone dal punto di vista giudiziario o di polizia. In questi casi, infatti, la “spoliticizzazione”
del terrorismo, tramite l’equiparazione con la criminalità comune, diventa una necessità
imposta dalla volontà di catturare e processare i terroristi senza concedere loro la facoltà di
proclamarsi dissidenti politici. È questa premessa, affermata esplicitamente dalla
Convenzione del Consiglio d’Europa del 1977, a spiegare perché tutti i principali
documenti della storia europeo-comunitaria, nel complesso anche molto eterogenei – dal
piano Genscher-Colombo al progetto Spinelli, dall’AUE al Trattato di Maastricht, dal
Trattato di Amsterdam alla “Costituzione europea” –, finiscono per accreditare
181
un’interpretazione prevalentemente delinquenziale del terrorismo, ridotto a mera variante
della criminalità organizzata internazionale.
Alla luce di questa impostazione, coerentemente reiterata nel tempo, è dunque
decisamente innovativa la scelta compiuta in occasione della decisione quadro sul
terrorismo approvata tra il 2001 e il 2002. Raccogliendo spunti apparsi sporadicamente nei
decenni precedenti, ma privi di carattere sistematico, tale provvedimento individua, e
sancisce una volta per tutte, la peculiarità del reato terroristico nel suo indirizzarsi, a un
tempo, contro popolazioni e governi, cittadini e istituzioni, o, per ricorrere alle categorie
già menzionate, “società civile” e “Stato”. Il che, di per sé, non implica affatto
l’accoglimento o la legittimazione degli obiettivi politici perseguiti dai terroristi, che anzi –
proprio in virtù del carattere eversivo della loro condotta – sono soggetti a un trattamento
penale afflittivo rispetto ai criminali comuni.
Anche in questo caso, tuttavia, si rende opportuna una precisazione. Nel pronunciarsi
sul terrorismo, l’Ue opera di fatto una distinzione legata al contesto in cui il fenomeno è
immerso. Una condanna assoluta e inappellabile colpisce tutte le azioni perpetrate a danno
di istituzioni e società democratiche, da cui discende una presa di distanza netta, compatta
e automatica nei confronti dei gruppi attivi nel mondo euro-occidentale. Una posizione più
sfumata viene assunta in relazione alle opposizioni politiche interne a regimi autoritari. In
questo senso va letta la solidarietà mostrata da alcuni voci europee verso i movimenti
antifranchisti, anche nel momento in cui essi ricorrono a mezzi violenti. Allo stesso modo,
gli accenti anomali con cui gli europei commentano gli sviluppi dei conflitti mediorientali
o cingalesi vanno ricondotti ai controversi scenari regionali in cui essi si dipanano. In
assenza di una chiara distinzione di status fra autorità legittime ed eversori, e di canali
pacifici e democratici che consentano ai gruppi sociali di dare rappresentanza politica alle
proprie istanze, l’infamante etichetta di “terrorista” è maneggiata dall’Ue con cautela.
A corollario di tale discorso si pone la propensione degli europei a considerare il
terrorismo come una pratica che riguarda innanzi tutto, se non esclusivamente, soggetti non
statali. Dopo l’11 settembre, i documenti e le analisi delle istituzioni Ue non mancano di
denunciare l’anacronismo delle tradizionali categorie politiche e strategiche, modellate su
impianti teorici – come quello della guerra fredda – ormai superati dagli eventi. Nell’età
globale la minaccia terroristica assume volti sempre meno definiti ed è in grado di
alimentare rapporti con governi irrispettosi del diritto internazionale, ma la distinzione fra
“terrore” come violenza dall’alto e “terrorismo” come violenza dal basso, emersa nella
storia del pensiero politico, sembra destinata a resistere sul piano concettuale.
182
L’opposizione di molti europei – alcuni leader e gran parte della popolazione – alla deriva
americana del 2002-03, che presenta l’azione in Iraq come seconda fase di una generica
war on terror, si regge proprio sulla convinzione che non possano essere confusi il
pericolo rappresentato da Stati autocratici, erede in qualche misura del “terrore”
arendtiano, e quello incarnato dalle formazioni terroristiche di nuova generazione.
Dal 2005 la lotta al terrorismo è inseparabile dal più ampio dibattito sui destini
dell’Ue, innescato dalla crisi “costituzionale” tamponata dal Trattato di Lisbona. Al di là
degli accorgimenti adottati in quella sede, tuttavia, l’impegno europeo contro il terrorismo
– tanto nei suoi aspetti di politica interna, quanto nei sui sviluppi di politica estera –
richiede una comune visione delle prospettive dell’integrazione, che sembra viceversa
latitare. A caratterizzare la fase storica aperta dalla crisi del Trattato costituzionale è infatti
l’assenza di un progetto condiviso, a cui si cerca di sopperire con soluzioni minimaliste,
come quelle contenute nel Trattato di Lisbona, le quali non riescono a mascherare le
profonde divisioni fra gli Stati membri. In campi cruciali come la politica economica e
monetaria, la gestione della circolazione delle persone sul territorio europeo o le relazioni
esterne, si assiste a un rigurgito di egoismi nazionali, in alcune circostanze tanto marcato
da rimettere in discussione l’opportunità stessa di procedere sulla strada dell’integrazione.
La ricostruzione storica qui condotta mostra invece come le nuove forme di violenza
politica, altamente globalizzate nei metodi e negli obiettivi, richiedano un’ulteriore
accentuazione della dimensione sovranazionale europea e in prospettiva mondiale. Pur
presentando limiti e contraddizioni, il rafforzamento – in varie forme – della cooperazione
internazionale e del dialogo multilaterale appare la via più promettente per affrontare le
sfide della post-modernità.
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