Primavera 2013 - Esposizione ad amianto e

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Primavera 2013 - Esposizione ad amianto e
NUMERO DICIASSETTE - PRIMAVERA 2013
salute e
lavoro
ESPOSIZIONE AD AMIANTO
E CONSEGUENZE
CANCEROGENE (2ª parte)
Giuseppe Caselle
Responsabile Medicina del Lavoro,
Gruppo MultiMedica
I concetti espressi, relativi alla
sufficienza oncogena di una
dose molto piccola e al ruolo
del protrarsi dell’esposizione,
sono apparentemente contradditori in rapporto alla sicura
evidenza di un’elevata incidenza di mesotelioma nei soggetti professionalmente esposti
(tumore frequente), per anni
e decenni, rispetto alla bassa
frequenza della neoplasia nella popolazione generale, non
professionalmente esposta (tumore raro). Si deve infatti spiegare perché, se esposizioni a
basse dosi e cronologicamente
limitate possibili per la popolazione in generale (amianto
pressoché ubiquitario, specie
nei decenni trascorsi) sono in
grado di innescare il mesotelioma, l’incidenza della malattia
è molto maggiore nei soggetti
professionalmente esposti.
La spiegazione può essere for-
nita affermando un ulteriore
concetto, di carattere probabilistico, che si basa sull’idoneità
di una singola (o di limitate)
esposizione e di una dose
molto bassa nel causare il mesotelioma. Ciò significa che un
lavoratore professionalmente
esposto, e che per questo viene a contatto con quantità di
amianto ben superiori rispetto
a quanto si verifica in media
per la popolazione in generale,
ha maggiori probabilità di venire a contatto con la piccola
dose capace di innescare l’oncogenesi.
In sostanza i soggetti esposti,
di ogni tipo, sono paragonabili
a un bersaglio colpito da “proiettili” (dosi di amianto); per un
lavoratore professionalmente
esposto i proiettili sono molto
più numerosi, e quindi molto
maggiori sono le probabilità
di essere colpiti dalla dose
Inserto di Sanità al Futuro numero 19 - Primavera 2013
oncogena; per contro un soggetto non professionalmente
esposto è colpito da un minor
numero di proiettili e presenta
minori probabilità di sviluppare
la malattia.
L’aspetto professionale, quindi,
è rilevante per la probabilità,
più elevata della media, alla
quale un lavoratore va incontro di venire a contatto con
l’amianto nocivo in senso oncogeno, anche indipendentemente dalla quantità della dose
inalata.
In tema di cancerogenesi
Al fine di fugare dubbi e confusioni si illustra il processo di
cancerogenesi dell’amianto,
che si articola in tre fasi.
L’iniziazione si ha quando un
danno irreversibile (che avviene
attraverso processi molecolari
cellulari) si è instaurato a carico
del Dna di una popolazione di
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cellule, che in gran parte muoiono; quelle che sopravvivono
si continuano a dividere portandosi dietro un danno stabile
del genotipo e danno origine,
nelle successive divisioni, alla
popolazione iniziata. L’iniziazione è un processo rapido e
irreversibile.
La promozione è il processo
per il quale le cellule iniziate
sotto stimolo di un agente cancerogeno, che da solo non può
essere in grado di indurre la
trasformazione neoplastica, divengono neoplastiche. La promozione generalmente copre
un lungo periodo e può essere
reversibile sino allo sviluppo
della prima cellula tumorale
autonoma ma, per non dare
luogo a superficiali conclusioni
che potrebbero far pensare
che tanto più lunga è l’esposizione tanto maggiore è l’attività
cancerogena, si riporta Tannoch: «È tuttavia certo che la
continua somministrazione di
un agente promuovente non è
necessaria per lo sviluppo del
cancro allorché sono comparse le cellule iniziate con autonomia di crescita».
La progressione è quindi il
processo per cui da questa
popolazione si espande la crescita tumorale sino al tumore
manifesto clinicamente; il tempo impiegato corrisponde al
tempo di latenza. È questo un
concetto che resiste dal 1986,
quando Nowell lo ha proposto.
Cancerogeno completo è, ad
esempio, il fumo di tabacco.
L’asbesto è un cancerogeno
che si comporta da completo nell’indurre il mesotelioma
mentre agisce solo da promotore nei confronti del carcinoma polmonare, necessitando quindi della presenza
di un altro iniziatore. Lo scrive
Archer, riportato nel succitato
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Tannoch: «Asbesto, cancerogeno professionale, per pleura
e peritoneo (mesoteliomi), per il
polmone quando associato al
fumo di sigaretta».
Solo in condizioni sperimentali,
conferma Robbins, l’amianto
esplica la sua azione di cancerogeno completo: «Infatti
con le colture in vitro si realizza
un ambiente confinato come
quello che abbiamo nelle cavità
sierose (pleura, peritoneo) nel
quale le fibre in concentrazione
opportuna possono agire direttamente sulle cellule».
Quando invece l’amianto arriva in vivo attraverso l’albero
respiratorio, le fibre sono in
buona parte allontanate verso
l’esterno dal muco tracheobronchiale; le più fini in parte,
attraverso la parete alveolare,
raggiungono il cosiddetto interstizio, da cui sono veicolate verso la pleura; in parte si
bloccano nell’interstizio perialveolare nel quale inducono
processi infiammatori che evolvono in fibrosi, o, attraverso
il contatto con cancerogeni
iniziatori, inducono lo sviluppo
neoplastico. E ancora l’attività
di soppressione genetica, nel
caso del mesotelioma, sarebbe
riferita ai geni P15 e P16 localizzati sulle braccia corte del
mesotelioma 9 (Prins e altri).
È noto dalla letteratura che l’allocamento del tumore polmonare nei soggetti esposti avviene più frequentemente nei lobi
inferiori polmonari (Hillerdal
e altri su Industrial Medicine)
e il tipo istologico statisticamente assegnabile con relativa
sicurezza all’esposizione ad
asbesto è quello a struttura
ghiandolare adenocarcinomatosa (Mollo).
Il carico alveolare di fibre di
amianto è quella parte della
quantità totale di fibre ritenute
nel polmone (o carico polmonare) che può essere estratta
mediante lavaggio broncoalveolare (Bal). Esso è la risultante tra quota inalata, quota
depurata per via aerea, quota
depurata per via interstiziale e
quota eventuale refluita negli
alveoli dall’interstizio. Si misura
in soggetti esposti professionalmente e anche in popolazioni di controllo e si definiscono
concentrazioni e caratteristiche dimensionali delle fibre.
Tale dato permette di confrontare il carico alveolare nei vari
soggetti e dedurne indicazioni
sul livello espositivo. Il carico
polmonare viene misurato in
microscopia elettronica a trasmissione su prelievi di polmone effettuati chirurgicamente
o autopticamente; anche tale
dato permette di evidenziare e quantificare il pregresso
espositivo.
Soltanto tali riscontri permettono di evidenziare il “solo
sospetto” livello espositivo,
ancorandolo a un dato scientificamente comprovato dal
quale sia possibile desumere l’entità dell’esposizione
stessa. Vari autori - Chiappino, Friedrichs, Todaro,
Bossard, Jarc, Sebastian,
Vilkman, ecc. - offrono nei
loro studi parametri di
riferimento.
In particolare Chiappino
confermò la
presenza
di fibre di
amianto
nei polmoni di
tutti i soggetti esaminati (abitanti di aree
urbane nelle
principali città
Salute e Lavoro - Numero 17
del mondo) con quantità varianti da alcune migliaia a centinaia di milioni per grammo, indipendentemente da qualsiasi
esposizione lavorativa; e in uno
studio condotto su 40 soggetti
non professionalmente esposti
le concentrazioni medie di fibre
di amianto/grammo polmonare
secco furono 6,6 milioni per i
lavoratori dell’industria e 3,97
milioni per gli esposti soltanto
all’inquinamento generale.
Secondo Sebastian, invece,
concentrazioni in lavaggio
broncoalveolare di 1 AB/ml
corrisponderebbero a un carico polmonare di 1.000 AB/g (1
milione) e indicherebbero una
non esposizione lavorativa ad
asbesto.
Secondo Vilkman:
• da 0,1 a 1,4 milioni di fibre/g:
esposizione improbabile;
• da 0,1 a 1,9 milioni di fibre/g:
esposizione possibile;
• da 0,1 a 2,2 milioni di fibre/g:
esposizione probabile.
Tale dato ben concorda con
i riscontri di Bossart e Jarc
che evidenziarono in soggetti
sicuramente non esposti valori
superiori al milione di fibre/g di
tessuto polmonare, per la precisione 4,8 ±1,2 milioni.
Il consenso della comunità
scientifica viene raggiunto
sostanzialmente nel
1965, con la pubblicazione degli atti
del convegno organizzato dalla New
York Academy of
Sciences.
Diverso è stato
il processo di
riconoscimento del mesotelioma maligno
rispetto a quello del tumore del
polmone. Se infatti la risonanza dello
studio di Wagner del 1960 è
stata enorme in tutti i Paesi,
e parimenti si può dire per
quello di Donna, l’acquisizione
dell’associazione tra amianto
e tumore del polmone è stata
molto contrastata per ostacoli
tra i quali la difficoltà di osservare patologie oncologiche in
soggetti esposti ad alte dosi
di amianto e che quindi potevano decedere per l’evoluzione
dell’asbestosi stessa, i problemi metodologici derivanti da
studi comprendenti popolazioni di riferimento, la coesistenza
di altri fattori di rischio, quali il
fumo, che svolgono un ruolo
rilevante nell’induzione della
patologia tumorale.
La letteratura individua nel periodo di latenza di 15-20 anni
l’intervallo di plausibilità, sì da
far considerare ogni altro evento al di fuori di tale intervallo
come escludibile da rapporto
di derivazione con la patologia asbestosica. Le latenze
dei carcinomi polmonari da
asbesto sono infatti riportate,
da recente e autorevole statistica, essere comprese tra 10
e 30 anni (Kobrick) o di 15 o
più (Roggli). Secondo un’esauriente revisione sul rischio da
amianto (Scansetti) si riporta,
sulla base di studi di autori anglosassoni, che «si può osservare come nell’intervallo 15-19
anni dall’inizio dell’esposizione
l’eccesso di tumori sia già significativo». In quella stessa
revisione si precisa come, secondo un noto studio epidemiologico (Acheson), non solo
il rischio relativo di sviluppare
un carcinoma polmonare da
asbesto può essere evidente
già dopo 5-9 anni dall’inizio
dell’esposizione, ma anche che
esso può diminuire dopo i 20
anni.
Occorre ricordare che la vita
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sommersa del tumore, cioè
precedente la fase clinica e
quindi silente, è normalmente
assai più lunga della sua vita
clinica; tale dato trae origine e
puntuale riscontro nel calcolo
del numero dei raddoppiamenti
cellulari necessari per far raggiungere alla massa tumorale
un’entità capace di dare manifestazione clinica.
Ne deriva che la latenza in termine strettamente medico evidenzia il periodo che va dalla
iniziale e non documentabile
trasformazione neoplastica
della cellula progenitrice fino
al momento del rilievo clinico e
occupa un lasso di diversi anni.
Proprio l’impossibilità di documentare il momento della
trasformazione neoplastica e
il diverso periodo di latenza
presentato dai singoli tumori e
soggetto a variabili individuali
fa optare, in ambito occupazionale, per un concetto di latenza che poggi su dati certi: da
un lato l’inizio dell’esposizione
all’agente cancerogeno, dall’altro l’evento-morte.
Su tale concetto di latenza
convenzionale sono orientate la letteratura scientifica e
la giurisprudenza proprio in
quanto offre elementi certi di
riferimento. La nozione trova
completo riconoscimento in
ambito processuale ove ha del
tutto soppiantato quella di latenza in senso strettamente
medico. Il vantaggio offerto
utilizzando il concetto di latenza convenzionale consiste nel
poter incardinare due momenti
assolutamente certi, il primo
nel citato inizio dell’esposizione, il secondo non nella diagnosticabilità della malattia ma
nella sua effettiva diagnosi o
sua manifestazione. Le varie
ricerche epidemiologiche hanno poi consentito di dare, con
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riferimento alle singole forme,
indicazioni di durata della latenza.
È evidente la rilevanza di tale
metodologia nel processo penale/civile in ragione del fatto
che l’esposizione a un agente
cancerogeno può assumere
efficacia causale nel determinismo dell’evento a seconda di
come si collochi temporalmente rispetto alla diagnosi della
malattia, tenendo conto della
letteratura di riferimento.
In assenza di prova deduttiva certa sarà possibile ritenere causalmente rilevante una
esposizione che si collochi in
posizione centrata rispetto alla
latenza media offerta dalla letteratura.
Tanto più difficile sarà invece
la conferma della prova quanto
più l’esposizione si collocherà rispetto alla diagnosi in un
momento tale da non renderla
compatibile con la regola di
latenza media.
Diversamente ragionando si è
al di fuori delle “leggi di copertura scientifica”.
La questione dell’incidenza
della patologia tumorale in
esposto fumatore e non fumatore non permette semplificative allocazioni: il rischio è
da porre tra soggetto esposto
fumatore e esposto non fumatore risultando del tutto diversi i
calcoli di attribuibilità. A scopo
esemplificativo si riporta che
se il rischio vale uno per il non
fumatore non esposto e 10 per
il fumatore, lo stesso vale 50
per il fumatore esposto.
Ma approfondiamo ancor meglio il tema. Kannerstein riporta un aumento del rischio di
8,5 volte negli operai fumatori;
Selikoff indica che il rischio
relativo per gli esposti fumatori
sarebbe 5–10 volte quello dei
fumatori non esposti; Marti-
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schnig e altri indicano sì un
aumento del rischio, ma rilevano che i pazienti esposti ad
asbesto non differiscono sostanzialmente dal loro gruppo
di controllo, indicando solo che
nel soggetto fumatore dovremmo aspettarci che il carcinoma
si presenti prima, rispetto ai
tempi attesi e già dichiarati,
se lo stesso è stato esposto
ad amianto.
Per meglio quantificare l’effettiva esposizione a fumo è
interessante fare riferimento
all’articolo di Hillerdal e altri che
qualifica come non fumatore
un soggetto che abbia fumato
meno di 1.000 grammi di tabacco nella sua vita, avendo
quantificato e contato come
un grammo di tabacco ogni
singola sigaretta. Ne deriva comunque, riportando Robbins:
«Senza voler entrare in merito
a controversie scientifiche e
politiche si deve dire che non
esistono dubbi che un largo
numero di sostanze ambientali
e industriali siano cancerogene
e, che piaccia o non piaccia, il
fumo di sigaretta incluso. Esso
è il diretto responsabile in tutto
o in parte delle metà e più dei
carcinomi clinicamente diagnosticati».
È enorme il contributo che il
lavaggio broncoalveolare ha
portato nella dimostrazione
di pregressa esposizione ad
amianto, stante che i corpuscoli di amianto permangono
negli alveoli polmonari tempi
molto lunghi (decenni) costituendo quindi un indicatore
valido anche per esposizioni
pregresse (Rivolta e altri).
Ma vi è di più: se si decide di
ignorare la ricerca dei valori
soglia e il riferimento a precisi
riscontri appare evidente che
la condizione idonea per la
cancerogenesi è realizzata,
come 50 anni fa, per tutti i
lavoratori di tutte le industrie
del settore amiantiero e che
pertanto tutti i casi di tumore polmonare devono essere
a tali attività riferiti. Ciò è in
totale contrasto con quanto rilevato da indagini epidemiologiche mirate. Si veda ad
esempio lo studio sui minatori
di Balangero (Piolatto, Rubino)
tra i quali sino al 1975 furono
riscontrati 11 casi di tumore
professionale contro 10 attesi,
per cui solo un caso poteva
essere eziologicamente riferibile all’esposizione professionale. Diversamente ragionando sarebbero stati tout
court tutti addebitati all’attività
lavorativa, gravemente errando sul piano epidemiologico e
scientifico.
Invero solo in un recente “consensus repor t” (Asbestos
Asbestosis and Cancer: the
Helsinki criteria for diagnosis and attributions, Scand J
Work Environ Health, 1997;
23:311-6) viene, per la prima
volta, quantificata l’esposizione ad amianto in grado di
concausare lo sviluppo di un
tumore polmonare. Essa si
basa sui seguenti parametri:
• esposizione cumulativa adeguata indicata dell’ordine di 1
fibra/cm3 per 25 anni;
• conteggio di fibre di amianto nel polmone: 2 milioni di
fibre/g di tessuto secco (> 5
micron); 5 milioni di fibre/g di
tessuto secco (> 1 micron);
da 5.000 a 15.000 corpuscoli
dell’asbesto/g di tessuto secco;
• d a 5 a 15 c o r p u s c o li
dell’asbesto/ml di liquido di
lavaggio broncoalveolare.
Si desume che l’esposizione
ad amianto capace di determinare un tumore polmonare
deve essere molto alta.
Salute e Lavoro - Numero 17