2006-02-22_Giovanni Semi - Dipartimento studi Sociali e Politici
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2006-02-22_Giovanni Semi - Dipartimento studi Sociali e Politici
Università degli studi di Milano Dipartimento di studi sociali e politici Working Papers del Dipartimento di studi sociali e politici 22 / 02/ 2006 Nosing Around. L’etnografia urbana tra costruzione di un mito sociologico e istituzionalizzazione di una pratica di ricerca1. Giovanni Semi Nosing Around. L’etnografia urbana tra costruzione di un mito sociologico e l’istituzionalizzazione di una pratica di ricerca1. The group is devoted to keeping the Chicago School tradition alive. Many of the people in it do what is nowadays called ethnography –in the old days it was called nosing around. [Sheldon Messinger2. Cit. in Lofland Lyn 1980: 4] Nel settembre del 1969, ai margini del convegno annuale dell’associazione americana di sociologia, venne organizzato un dibattito tra due celebri sociologi, Herbert Blumer e Everett Hughes [Lofland Lyn 1980]. In quell’occasione si assisteva alla prima uscita pubblica di un gruppo, cui fa riferimento Sheldon Messinger nella citazione iniziale, quello dei cosiddetti “Chicago Irregulars”. Si tratta di un insieme di giovani studenti e studiosi capeggiati oltre che da Messinger, da Sherry Cavan, John Irwin, John Lofland, Lyn Lofland e Jacqueline Wiseman. Alla base del gruppo si trovava la richiesta di riconoscimento di una filiazione intellettuale e il diritto al recupero dell’eredità della cosiddetta “Scuola di Chicago”, in un periodo particolarmente movimentato nell’etnografia americana, la fine degli anni Sessanta, che culminerà nella fondazione delle principali riviste del settore3. La necessità del recupero della tradizione di Chicago negli anni Sessanta, visto alla luce del favore che sembra riscuotere ancora oggi, stupisce. Nei manuali di sociologia a disposizione attualmente questa tradizione è spesso valorizzata e viene associata agli studi urbani, a quelli sulla devianza, sull’integrazione delle minoranze e soprattutto ai metodi di ricerca qualitativi, in particolare alla ricerca etnografica. Al tempo stesso, la maggior parte dei lavori di storia del pensiero sociologico che negli ultimi anni hanno ricostruito le visissitudini del mondo dei chicagoans concorda nel mettere in discussione la visione trionfale che ha identificato la ricerca etnografica con quella condotta sotto la supervisione di Park e colleghi. Cosa accadeva dunque a Chicago, tra gli anni Venti e Cinquanta? Per quale ragione, quella che attualmente viene riconosciuta nei manuali come una delle tradizioni sociologiche americane più influenti, negli anni Sessanta sembrava aver bisogno di essere “tenuta in vita”? E soprattutto, in cosa consiste la “tradizione” cui fa riferimento Messinger? Questi interrogativi emergono chiaramente non appena si rivolge l’attenzione ad un ramo specifico degli studi qualitativi americani, l’etnografia urbana, di cui questo paper vuole offrire una ricognizione storica. Una delle ragioni all’origine di questo lavoro è appunto la scoperta di un vuoto relativamente ampio tra la vasta offerta di etnografie urbane a partire dalla metà del secolo scorso e la cornice che dovrebbe contenerle. In sintesi, non si trovano “storie” dell’etnografia urbana, così come non sono disponibili sufficienti lavori teorici che diano spessore a un’etichetta che, ciononostante, circola, tanto nell’offerta didattica (soprattutto negli Stati Uniti) quanto nei lavori pubblicati. 1 Questo lavoro è parte della riflessione metodologica relativa al progetto di ricerca sul “Multiculturalismo quotidiano” dell’Università Statale di Milano e coordinato dal Prof. Enzo Colombo per il periodo 2004-2006 e di cui ho fatto parte come “assegnista di ricerca”. L’etnografia si è rivelata infatti la tecnica “per eccellenza” utilizzata nei lavori che si sono occupati di alterità e gestione della differenza negli spazi urbani. 2 Sheldon Messinger (1925-2002), criminologo, PhD in sociologia a UCLA nel 1969. 3 Nel 1972 Urban Life and Culture (progenitrice dell’attuale Journal of Contemporary Ethnography), nel 1977 Symbolic Interaction e nel 1978 Qualitative Sociology [cfr. Spector e Faulkner 1980]. 1 Una storia dell’etnografia urbana Qualche tempo fa, con fare provocatorio, Immanuel Wallerstein si è chiesto, “esiste l’India?”: La mia domanda è dunque questa: in che modo cio che è storicamente avvenuto tra il 1750 e il 1850 d.C. ha influito su ciò che è storicamente avvenuto tra il VI secolo a.C. e il 1750, le date convenzionali che indicano attualmente l’”India premoderna”? Ciò è possibile perché quello che è accaduto nel passato remoto è sempre una funzione di ciò che è accaduto nel recente passato. Il presente determina il passato, e non viceversa, come le nostre strutture analitiche logicodeduttive ci inducono a pensare [1995: 141] Prendendo in prestito questo ragionamento ci possiamo chiedere, “esiste l’etnografia urbana?”. Se, come sostiene Wallerstein, il presente con cui ci confrontiamo quotidianamente crea un passato che ritieniamo credibile e coerente, il lavoro di messa in discussione della categoria “etnografia urbana” e dei suoi usi deve procedere a partire dall’analisi di quei momenti in cui vi è stato uno sforzo di definirne l’uso “legittimo”. La mia proposta è di partire perciò da tempi recenti e in particolare dalla controversia più vicina a noi, mossa da Loïc Wacquant sulle pagine dell’American Journal of Sociology nel 2002 “contro” tre celebri e recenti etnografie urbane americane. 1.1 Mettere sotto osservazione le strade Nel maggio del 2002, l’American Journal of Sociology ha dato spazio a una rassegna critica di tre lavori sul campo. L’autore di questo esercizio critico è Loïc Wacquant, all’epoca all’Università della California a Berkeley, dove due anni prima aveva fondato assieme ad altri4 la rivista Ethnography. Il titolo della rassegna era Scrutinizing the Street: Poverty, Morality, and the Pitfalls of Urban Ethnography e il suo intento era quello di discutere criticamente i lavori di Elijah Anderson (Code of the Street: Decency, Violence, and the Moral Life of the Inner City), Mitchell Duneier (Sidewalk) e Katherine Newman (No Shame in My Game: The Working Poor in the Inner City), tutti e tre usciti nel 19995. Nello spazio di una sessantina di pagine, Wacquant sviluppa il suo argomento che può essere così riassunto: nel corso degli anni Novanta il panorama editoriale etnografico americano si è espanso in maniera significativa, segnalando una sorta di “ritorno” degli etnografi sulle questioni della marginalità urbana. Questioni che sono state prese in considerazione nel mondo americano in maniera diversa a seconda dei periodi storici, come la segregazione razziale, la devianza o la povertà, vengono ora analizzate sotto la prospettiva della responsabilità individuale e delle capacità dei singoli di “farcela” nonostante le condizioni sociali, ecologiche e politiche circostanti. In particolare, Wacquant nota una tensione verso la sottolineatura della natura “morale” delle pratiche e soggettività dei “poveri urbani”, questo indipendentemente dai mondi e dalle attività più o meno lecite in cui sono coinvolti. A parere di questo autore dunque si assiste a una sorta di “orientalismo urbano” che trasforma “i poveri, e più precisamente il sottoproletariato nero della città, in ideali di moralità poiché rimangono confinati all’interno di una problematica prefabbricata fatta di stereotipi pubblici e di strategie esperte, secondo cui è solo in questa maniera che questo sottoproletariato è ritenuto accettabile” [2002: 1469-1470]. Wacquant procede ad una disamina aspra e dai toni spesso violenti dei tre lavori, sottolineando di volta in volta le strategie narrative adoperate per “rendere accettabili” i protagonisti al centro dei tre lavori, soprattutto nei casi in cui il materiale empirico presentato sembra indicare direzioni interpretative diverse quando non opposte. 4 Tra i fondatori figurano nomi di prim’ordine della sociologia ed antropologia critica, come Michael Burawoy, Nancy Scheper-Hughes e Paul Willis. 5 Il lavoro di Anderson può però considerarsi una sorta di versione semplificata e per il grande pubblico della sua monografia pubblicata nel 1990, StreetWise. Alla fine della sua rassegna, si trovano poi le circostanziate risposte dei tre autori, a completare la pubblicazione di una controversia molto dura6. La ragione per la quale ho ritenuto rilevante procedere da questo episodio si trova nel fatto che non solo si parla esplicitamente di “etnografia urbana”, in questo modo attribuendo alla categoria alcuni elementi specifici, ma perché di fatto la review fornisce anche una periodizzazione dei lavori etnografici precedenti, stabilisce una genealogia e contribuisce in sostanza a costruire il più recente tassello che compone la storia di questa tradizione. Chi fa parte, secondo Wacquant, della generazione precedente gli studi che egli sottopone a critica? Dovendo spiegare le ragioni della rilevanza (negativa a suo parere, ma sempre rilevanza!) della nuova generazione, l’autore francese così argomenta: Il loro fallimento collettivo [dei tre autori] nell’andare al di là di una visione omiletica della “strada” illustra un più ampio dilemma che affrontano gli odierni etnografi, dal momento che la professione gode di rinnovata popolarità ma affronta altresì inauditi rischi di autonomia e integrità. Mette in luce inoltre uno spartiacque nella politica della sociologia urbana americana: così come le etnografie romantiche che rappresentavano persone cool, marginali e umili e scritte durante i progressisti anni Sessanta nello stile della seconda scuola di Chicago erano organicamente legate alla politica liberale del quasi-welfare americano e a quello che all’epoca era il crescente “social-problems complex” (Gouldner 1973), così le storie neoromantiche raccontate da Duneier, Anderson e Newman alla fine dei regressivi anni Novanta suggeriscono che la sociologia americana è ora legata e complice della attuale costruzione di uno stato neoliberale e del suo “carceral-assistential complex” per la gestione punitiva dei poveri, dentro e fuori le strade. [Wacquant 2002: 1470-1471]. L’etnografia urbana esprime ed è parte, come sostiene Wacquant, dello “spirito dei tempi”. La generazione di etnografi presa di mira perché legata “organicamente” alla costruzione politica del sapere incentrato sui “problemi sociali” e sulla loro eventuale soluzione, è dunque quella degli anni Sessanta. Si tratta di un gruppo di studiosi che reclamano una diretta filiazione rispetto alla “seconda” generazione di chicagoans e il cui capofila può essere considerato Howard Becker7. Per poter cogliere il legame tra le due scuole di Chicago, i loro numerosi allievi e la lotta simbolica per definire lo statuto dell’etnografia urbana, è il caso quindi di compiere un passo indietro temporale nel Midwest di inizio secolo. 6 Alcuni strascichi si possono ritrovare nella review che, questa volta, ha subito Wacquant nella rivista Symbolic Interaction per quanto riguarda la propria etnografia [2005, vol 28, n.3]. 7 Sarà proprio un articolo di Becker del 1967 sulla necessità di posizionamento politico dei sociologi a innescare la polemica di Gouldner citata da Wacquant [Becker 1967; Gouldner 1973]. 1.2 La “Scuola di Chicago” e la nascita degli studi urbani Se è dubbio, come si vedrà in seguito, il fatto che a Chicago sia “nata” l’etnografia urbana, non ve ne sono molti per quanto riguarda la nascita in quel contesto della “sociologia urbana” e, per diversi aspetti, della sociologia americana tout-court. L’omonima università ospitava già dal 1892 un dipartimento di sociologia8 (il secondo negli Stati Uniti dopo quello di History and Sociology fondato nel 1889 nell’Università del Kansas [Chapoulie 2001: 36]) ma è con l’arrivo di W. I. Thomas prima (nel 1897) e di R. E. Park successivamente (nel 1913) che l’interesse per le questioni propriamente urbane della realtà sociale è divenuto preminente. Quella che solo successivamente verrà chiamata “Scuola di Chicago” non è altro che la felice congiunzione di alcuni percorsi biografici con l’istituzionalizzazione della sociologia come disciplina accademica negli Stati Uniti e con la forte domanda di intervento sociale che proveniva dagli ambienti riformisti, pubblici e privati, della città stessa. Si devono infatti distinguere le carriere dei fondatori ed allievi della Scuola dall’ambiente lavorativo nel quale esse hanno potuto evolvere e, ancora, dal contesto sociale del quale erano al tempo stesso espressione e motore di cambiamento. La rapida e convulsa espansione della città americana del Midwest si era infatti prodotta nel corso di soli 90 anni, dovuta allo sviluppo dell’industria dei trasporti e manifatturiera e all’espansione verso occidente che spinse a un progressivo inurbamento di popolazioni prima extra-statunitensi (svedesi, irlandesi, tedeschi, italiani, ebrei e polacchi innanzitutto) e successivamente nere provenienti dal sud del paese. Poco più di un paese nel 1840, grazie ai suoi 4.470 abitanti, Chicago diventa una città in pochissimo tempo. Se dal 1860 al 1870 la popolazione era quasi triplicata (da 109.260 residenti a 298.977), nel 1930 essa aveva raggiunto il numero record di 3.375.329 persone [cit. in Bulmer 1984: 13]. Se si tiene conto del fatto che nel 1900 metà della popolazione residente era nata fuori dagli Stati Uniti, si riesce ad intuire quale potesse essere la complessità della vita quotidiana che si poteva sperimentare a Chicago, al di là degli evidenti problemi che scaturivano dalla necessità di garantire alla popolazione delle abitazioni, del lavoro e dei servizi. Non è perciò un caso se da un lato fiorirono numerose istituzioni caritatevoli di stampo volontaristico, spesso espressione del riformismo di stampo battista, metodista e anche socialista come Hull House, e se dall’altro le istituzioni pubbliche investirono enormemente in programmi di riforma sociale. L’università di Chicago, ad esempio, fu fondata nel 1890 proprio grazie a una donazione congiunta del petroliere John Rockfeller9, della comunità battista e di imprenditori locali [Chapoulie 2001: 3233]. È in questo contesto che la sociologia americana muove i primi passi di rilievo: qui viene creato il principale programma dottorale di sociologia10, qui viene fondato l’American Journal of Sociology (nel 1895) e più in generale i testi di base della disciplina [Park e Burgess 1921] e qui hanno sede altri istituzioni di ricerca sociale come la Society for Social Research [Bulmer 1983a]. Se la sociologia (e l’antropologia, dato che fino al 1929 le due discipline rimasero unificate nello stesso dipartimento) si mise fin dall’inizio a sostenere la causa del riformismo sociale, da un lato reclutando i propri membri tra persone attive in quell’universo (come fu il caso del fondatore del dipartimento, Albion Small, un pastore battista, o di molti altri membri) e dall’altro condividendo con esso programmi di ricerca e di insegnamento, con l’arrivo di Park nel 1913 e la pubblicazione tra il 1918 e il 1920 della ricerca di Thomas e Znaniecki, Il contadino polacco, le scienze sociali presero una direzione più autonoma e orientata alla ricerca. Provenendo dal mondo del giornalismo d’inchiesta e forte della lezione pragmatista di Dewey e Mead, Robert Ezra Park spinse la ricerca sociale verso alcune direzioni nuove: lo studio della città, 8 Prima intitolato Social Science and Anthropology e l’anno successivo ribattezzato in Sociology and Anthropology [Chapoulie 2001: 36]. 9 Tanto che per un certo periodo l’università venne ironicamente ribattezzata “Standard Oil University” [ibid: 33] 10 Ossia il 40% dei PhD tra il 1895 e il 1915 [ibid: 47] quello delle relazioni razziali e, infine, quello dei comportamenti collettivi. Benché si tratti di temi interconnessi fra loro, per il presente lavoro si farà riferimento principalmente al primo di essi, lo studio della città. L’originalità che viene riconosciuta generalmente all’approccio di Park risiede tanto nei contenuti del proprio programma di ricerca urbano che nell’accento fortemente empirista ed induttivo da lui predicato. Lo studio della città che proponeva, meglio noto come ecologia umana, si basava sull’idea di matrice spenceriana e botanica che gli individui inconsapevolmente occupassero lo spazio urbano secondo un ordine che era dettato da mezzi di trasporto e mezzi di comunicazione e che tendeva alla loro segregazione [Park et al. 1925]. Il modo per così dire automatico dell’ingresso di popolazioni nello spazio della città porterebbe alla creazione delle cosiddette “aree naturali”, quegli spazi urbani come lo slum o i quartieri alti dove la segregazione della popolazione è un fenomeno apparentemente spontaneo. Quattro stadi caratterizzerebbero l’ingresso di una popolazione in città: competizione, conflitto, compromesso e assimilazione e questo processo sarebbe il tipo ideale del “ciclo di relazione fra razze”. Si riesce facilmente ad intravedere in questo sguardo quello di chi ha visto la propria città nascere ed evolvere nel corso di pochi anni proprio grazie al flusso massiccio di popolazioni differenti. L’idea di ecologia umana di Park e colleghi è decisamente Chicagodipendente nella misura in cui riflette in maniera spesso meccanica la realtà urbana che intende descrivere. A complemento di questa concezione e grazie al contributo essenziale dell’approccio cartografico, fu poi proposta l’immagine per cerchi concentrici della città che in qualche maniera rendeva visibile il modo in cui poter osservare il processo che conduce alla distribuzione ecologica di popolazioni nella città e di conseguenza alla formazione di aree segregate. All’approccio ecologico, Park associava un atteggiamento metodologico fortemente innovativo per l’epoca: You have been told to go grubbing in the library, thereby accumulating a mass of notes and a liberal coating of grime. You have been told to choose problems wherever you can find musty stacks of routine records based on trivial schedules prepared by tired bureaucrats and filled out by reluctant applicants for aid or fussy do-gooders or indifferent clerks. This is called “getting your hands dirty in real research”. Those who counsel you are wise and honorable; the reasons they offer are of great value. But one more thing is needful: first-hand observation. Go and sit in the lounges of the luxury hotels and on the doorsteps of the flophouses; sit on the Gold Coast settees and on the slum shakedowns; sit in the Orchestra Hall and in the Star and Garter Burlesk. In short, gentlemen, go get the seat of your pants dirty in real research11 Come mostra questa celebre dichiarazione d’intenti, Park invitava i propri studenti “a sporcarsi le mani” (anzi, i pantaloni) frequentando gli spazi urbani in prima persona. Questa impostazione, già sostenuta in precedenza da Albion Small al quale si deve anche l’analogia tra la città di Chicago e un “laboratorio sociale”, sarà di primaria importanza non solamente per quanto riguarda lo sviluppo effettivo di ricerche e programmi di ricerca ma per la successiva opera di mitizzazione della Scuola di Chicago che avverrà a diverse riprese dagli anni Sessanta in poi. Si introduce qui uno dei punti più delicati e controversi che riguardano questa tradizione di ricerca. Grazie infatti all’ormai ventennale opera di ricostruzione storica e critica dell’impresa di Park e colleghi da parte di studiosi come Martin Bulmer [1983a, 1983b, 1984], Jean-Michel Chapoulie [1987, 2001] Lee Harvey [1987] o Jennifer Platt [1983, 1992, 1996, 2003] è emersa con una certa chiarezza la distanza che si può osservare tra la maniera in cui sono state concretamente condotte le ricerche che hanno reso famoso l’approccio di Chicago e la ricostruzione selettiva che ne è stata data negli anni successivi12. Sono diversi gli elementi su cui si è fatto leva nell’opera di mitizzazione della Scuola di Chicago. Lee Harvey [1987] ad esempio ne elenca sette: l’idea stessa che esistesse una “Scuola”, l’idea che si trattasse di studiosi riformisti, di etnografi, di nemici della quantificazione, di ricercatori a-teoretici, che fossero tutti influenzati dal pensiero di Mead e che 11 12 Riportata da uno studente di Park [cit. in Bulmer 1984 : 97]. Per una posizione differente, v. Deegan [2001] abbiano infine dominato l’atmosfera scientifica americana fino agli anni Trenta per poi essere progressivamente screditati. Di questi elementi è il terzo quello che ci interessa principalmente, ossia l’identificazione tra la prospettiva etnografica rappresentata dalla tecnica dell’osservazione partecipante e i lavori di sociologia urbana della “prima Scuola di Chicago” [cfr. Platt 2003]. Si introduce qui una prima rilevante distinzione all’interno della tradizione di studi di Chicago, quella tra “prima” e “seconda” Scuola. Secondo una convenzione oramai piuttosto accetta nella storia del pensiero sociologico, la “prima” è quella compresa tra l’allontanamento di Thomas dal dipartimento13, nel 1918, e il pensionamento di Park, nel 1933 [Chapoulie 2001: 90-91]. La “seconda” si terminerebbe, grosso modo, con il trasferimento di Everett Hughes all’Università di Brandeis, nel 196114 [ibid: 160-161] e sarebbe segnata dalle personalità di Blumer, Burgess, Hughes e Wirth. 1.3 Gli etnografi di Chicago? Nella sua influente opera di ricostruzione dei principali contributi ad un’antropologia della vita urbana, Ulf Hannerz chiama la prima generazione di studiosi “gli etnografi di Chicago” [1980]. Diventa a questo punto rilevante una certa precisione terminologica circa il concetto di “etnografia”. Quella che nella sua versione attuale viene chiamata “etnografia” non è altro che l’orientamento di ricerca qualitativo che si basa in prima battuta sulle tecniche dell’osservazione partecipante per la raccolta dei dati rilevanti all’analisi. Questo vuol dire che l’osservazione partecipante è considerata una conditio sine qua non, sebbene non esaurisca da sola la gamma di possibili altre tecniche utilizzate nella ricerca etnografica, come l’intervista (nelle sue varie forme di strutturazione delle domande e delle risposte), lo shadowing, altri tipi di osservazione o la raccolta documentaria di materiale testuale, visuale o sonoro [cfr Atkinson e Hammersley 1995; Gobo 2001; Cardano 2003]. Se da un punto di vista metodologico esiste un certo accordo tra i sociologi15, esistono numerose differenze sul significato da attribuire alla ricerca etnografica da un punto di vista epistemologico e in particolare sullo statuto che essa godrebbe all’interno delle scienze sociali. L’osservazione partecipante come viene concepita attualmente è una tecnica che richiede al ricercatore una prolungata compresenza con l’oggetto di studio prescelto e una partecipazione alla vita sociale che lo caratterizza. Vi sono numerose forme di partecipazione, gradi di “immersione” nella realtà studiata e dilemmi etici da affrontare. Inoltre questioni rilevanti come le dinamiche di potere che strutturano tanto la relazione tra ricercatore ed oggetto di studio che la scrittura del testo etnografico fanno oramai parte del bagaglio di riflessioni e di conoscenze di cui viene dotato ogni ricercatore prima di fare il proprio ingresso “sul campo”. La questione che in questa sede è però rilevante riguarda lo sviluppo del metodo dell’osservazione partecipante in sociologia [Platt 1983]. A quando si può far risalire l’uso di questa tecnica? E ancora: le prime definizioni concettuali dell’osservazione partecipante sono le stesse di cui ci serviamo nel presente? Jennifer Platt ha reso un grande servizio alla comunità etnografica proprio in risposta a queste domande [1983, 1992, 1995, 1996, 2003]. 13 In seguito allo “scandalo” della scoperta di una sua relazione adulterina con una donna sposata. Fine compie un’operazione differente da quella di Chapoulie, incrociando di fatto un ragionamento demografico a uno sostantivo: la “seconda” scuola sarebbe allora rappresentata da quella coorte di allievi di Herbert Blumer, Everett Hughes e Anselm Strauss (e in seconda battuta di Lloyd Warner, Ernest Burgess, Robert Redfield, William Foot Whyte, Joseph Lohman e David Riesman) che ha costituito la “golden age” della tradizione etnografica americana [Fine 1995]. Le opere farebbero riferimento all’etichetta mai precisata e da molti autori rifiutata di “interazionismo simbolico” e le cui opere principali sarebbero quelle di Howard Becker, Erving Goffman, Fred Davis e Julius Roth [Colomy e Brown 1995; Fine e Ducharme 1995]. 15 Da questo punto di vista gli antropologi sembrano più rigidi nell’equazione tra osservazione partecipante e ricerca etnografica [cfr. Clifford 1988]. 14 Per come si è deciso di impostare questo libro, l’analisi delle pratiche ha una sua preminenza e per questa ragione verrà esaminata in dettaglio nei paragrafi che seguono. Prima però di addentrarci nella storia delle pratiche etnografiche è bene ricordare, come ha fatto Platt, che il concetto di participant observation, sebbene compaia già nel 192416, compare come termine rilevante da un punto di vista metodologico solo nel 193717 e non verrà impiegato in maniera continuata e codificata che a partire dalla fine degli anni ’40 [Platt 1996: 47; cfr Hammersley 1989: 81-83]. Quali erano allora le tecniche di ricerca qualitative utilizzate prima del secondo dopoguerra e che hanno fatto ugualmente parlare di etnografia a proposito della prima scuola di Chicago? 1.4. La “prima” Scuola e lo studio di caso: Cressey, Anderson e Zorbaugh Se di tecnica di ricerca è propriamente possibile parlare, quella che ha caratterizzato la prima scuola di Chicago è lo studio di caso [Platt 1983, 1992; Hammersley 1989]. Ad ogni modo è questa l’etichetta in voga all’epoca e utilizzata essenzialmente in contrasto con il metodo “statistico”18. Per i sostenitori dello studio di caso, questa tecnica consisteva essenzialmente in un’intervista compilata dalla persona oggetto di studio, molto simile ad una storia di vita, che avrebbe avuto il merito di fare emergere il senso soggettivo attribuito alla propria biografia. Non è un caso che il concetto di studio di caso fosse usato in maniera intercambiabile con quello di storia di vita o di documento personale [Platt 1996: 46]. Sono famose a questo proposito le documentazioni raccolte per la ricerca di Thomas e Znaniecki sul contadino polacco o di Shaw sul Jack-Roller19. Lo studio di caso, con la sua molteplicità di fonti, fu utilizzato in tutte le celebri monografie degli allievi di Park e Burgess. In molti casi ad esso venivano associate anche delle forme di osservazione, come predicato da Park, e tecniche più formali come l’uso di dati censuari o cartografici. In un certo senso, la prima scuola di Chicago, contrariamente al mito successivamente elaborato, fu molto più aperta e multimethod di quanto non venga ricordato20[Bulmer 1984: cap. 6]. Per mostrare il tipo di ricerca effettuata in questo periodo si farà riferimento a tre lavori che vengono considerati unanimemente tra le principali monografie del primo periodo della Scuola: si tratta dei lavori di Anderson sugli Hobo, di Zorbaugh sulla Gold Coast and the Slum e di Cressey sulle Taxi-dance Hall21. 16 Eduard C. Lindeman parla del ruolo del participant observer, un assistente di ricerca del ricercatore stesso. Questa figura andava reclutata tra le persone oggetto dello studio e avrebbe permesso di avere quindi una visione dall’interno della realtà studiata; per molti versi si tratta quindi della figura sociale che più tardi verrà chiamata “informatore” [Platt 1983: 386]. 17 Joseph D. Lohman parla a questo proposito esplicitamente della necessità di stabilire rapporti di vicinanza e familiarità con il proprio oggetto di studio per poter così ottenere significati e conoscenze altrimenti negate ad altri tipi di ricerca [ibid: 388]. 18 Vi sarebbe stata negli anni ’30 una rappresentazione allegorica di questa disputa attraverso una partita di baseball tenuta durante il picnic annuale degli studenti della Facoltà di Sociologia di Chicago, di cui non si conosce purtroppo il risultato! [Platt 1992: 19]. 19 Clifford Shaw fu negli anni ’20 il direttore dell’Institute for Juvenile Research di Chicago, un centro di cura psicopedagogico e di ricerca che si occupava soprattutto di tematiche inerenti la devianza. Shaw, che iniziò i propri studi di sociologia con Burgess ma non li terminò, fece redigere a un giovane delinquente di origine polacca un’autobiografia che venne pubblicata nel 1930, The Jack-Roller [Shaw 1930; Snodgrass 1983]. 20 Mary Jo Deegan, mentre da un lato riconosce la molteplicità delle tecniche di ricerca adottate dalla prima Scuola, contribuisce attivamente alla costruzione del mito etnografico utilizzando un criterio non già metodologico ma sostantivo [2001]. Invece di discutere dell’utilizzo della tecnica dell’osservazione partecipante, si basa sull’approccio: “In generale, queste etnografie studiavano interazioni quotidiane faccia-a-faccia in contesti specifici. Queste narrazioni descrittive ritraevano “mondi sociali” vissuti nel quotidiano all’interno di un contesto moderno e spesso urbano” [ibid: 11]. Per questa ragione Deegan può parlare di una “Chicago School of Ethnography” e contribuire, così, alla costruzione del mito di cui parla Harvey [1987: 47-73]. 21 I lavori di Anderson e di Cressey sono stati scelti perché considerati come quelli che maggiormente si avvicinano alla concezione contemporanea di etnografia [Platt 1983: 381; Hammersley 1989: 82], mentre quello di Zorbaugh per essere la più “urbana” tra le monografie di Chicago [Hannerz 1980: 135-136]. Si tratta inoltre della stessa scelta fatta da Lee Harvey e da Martyn Hammersley per mettere in discussione il mito del rapporto tra ricerca etnografica e scuola di Chicago [Harvey 1987; Hammersley 1989]. 1.4.1. The Hobo (1923) Secondo la concezione attuale di “senza casa” o “senza tetto”, siamo portati a pensare a quelle forme di vita in ambiente urbano di persone che, più per destino che per scelta, si trovano a praticare forme di “nomadismo urbano” [Spradley 1970]. Sono senza casa perché in molti casi l’hanno persa. Non è questo il mondo degli hobos descritto da Nels Anderson (1889-1986) nella sua celebre monografia, The Hobo. Questi “senza casa” sono viceversa dei lavoratori migranti che nel corso dell’ Ottocento e dell’inizio del Novecento costituiscono la forza-lavoro che accompagna l’espansione verso Ovest del capitalismo industriale ed urbano americano. La “conquista del West” è un processo che chiede lavoro: da chi deve costruire fisicamente le vie ferrate per il passaggio del treno a chi deve estrarre le materie prime per questa costruzione, dal carbone al legno. Con la fine dell’espansione e la progressiva sedentarizzazione di questa popolazione permane permane tuttavia, per un qualche periodo, la cultura hobo che questo gruppo di lavoratori migranti esprimeva. Nelle città si possono ancora trovare hobos e i loro figli, si possono raccogliere le loro storie, le loro canzoni, trovare i loro giornali, osservare il rapporto che intrattengono con lo spazio urbano. Questo è ciò che ha fatto Anderson, figlio di padre svedese immigrato negli Stati Uniti che aveva girato per tutto l’Ovest alla ricerca di lavori e di opportunità, ed egli stesso un hobo, anche se di un tipo particolare: “stavo uscendo dal mondo degli hobo. Per usare un espressione hobo, preparare il libro era un modo di “getting by”, guadagnarmi da vivere mentre ne stavo uscendo” [1961: XIII]. Questa dichiarazione fa parte dell’introduzione che Anderson scrisse all’edizione del 1961 della sua opera e si tratta di un documento importante perché mette in luce quale era la concezione del metodo che egli aveva in mente all’epoca della sua ricerca: All’epoca […] non avevo mai sentito il termine “osservazione partecipante”, nonostante questo tipo di ricerca stesse diventando di moda a Chicago. Sebbene io abbia seguito fedelmente questo metodo nel mio lavoro, non l’ho fatto nel senso usuale del termine. Non mi sono calato nella fossa per assumere un ruolo e poi risalire togliendomi di dosso la polvere. Stavo uscendo dal mondo degli hobo. Per usare un’espressione hobo, preparare il libro era un modo di “getting by”, guadagnarmi da vivere mentre ne stavo uscendo. Il ruolo mi era familiare prima dell’inizio della ricerca. Era nel mondo della sociologia e della vita universitaria che stavo assumendo un nuovo ruolo [ibid: XIII]. La vicinanza, per non dire l’appartenenza, al mondo sociale che intendeva studiare permise a Anderson di fornire una dettagliata e precisa visione di quell’universo. Vivendo a Chicago in un albergo situato nella hobohemia del North East End, Anderson raccolse testimonianze, racconti autobiografici, canzoni, giornali, testimoniando in particolar modo la nascita di una sorta di élite in senso agli hobos che stava producendo delle proprie concezioni culturali e politiche sul mondo che la riguardava. Come ebbe a dirgli Albion Small alla fine della discussione della sua tesi di Master, indicandogli con la mano la strada fuori dalla finestra, “conoscete la vostra sociologia lì fuori meglio di noi, ma non la conoscete qui dentro. Abbiamo deciso di scommettere su di voi e di darvi il diploma” [ibid: XII]. In questo severo ma accondiscendente parere del fondatore della sociologia a Chicago ritroviamo il pregio e il difetto maggiori dell’approccio di Anderson, una quasi completa mancanza di spessore teorico, in particolare nessun riferimento ai concetti e alle teorie proprie a Park e ai suoi colleghi, che diano uno spessore analitico al ricco insieme di descrizioni che pervade l’opera. JeanMichel Chapoulie, che ha potuto consultare le note di campo di Anderson, spiega come i dati a sua disposizione fossero peraltro ben costruiti, ricchi, precisi e che, in ultima analisi, le sue qualità di ricercatore “erano di molto superiori a quanto non si ricavi dalla sola lettura della sua opera” [2001: 385]. In questo caso è la debolezza teorica a costituire un problema per l’ottenimento di un testo etnografico vero e proprio. Se poi si aggiunge la scarsa attenzione alla questione della partecipazione, centrale per la ricerca etnografica contemporanea, si coglie perché alcuni autori considerino vi sia poco spazio per “accordare a The Hobo lo statuto di antecedente alla tradizione di studi che si servivano di osservazione partecipante nella “Scuola di Chicago” [Harvey 1987: 60; cfr Platt 1983: 382]. 1.4.2. The Gold Coast and the Slum (1929) Nella prefazione al libro di Harvey Warren Zorbaugh (1896 - 1965), sull’area del Near North Side di Chicago, Robert Park illustra la rilevanza di questo studio in termini sia comparativi che specifici: Ogni grande città ha le proprie bohemias e le proprie hobohemias; la propria gold coast e le little Sicilies; le zone di camere ammobiliate e i propri slums. A Chicago, e nel Lower North Side, si trovano in stretta prossimità fisica le une con le altre. Questo offre un’illustrazione interessante della situazione in cui distanze fisiche e sociali non coincidono; una situazione in cui le persone che vivono l’una a fianco dell’altra non sono e –vuoi per i loro diversi interessi, vuoi per le diverse origini- non possono diventare vicine, anche con le migliori intenzioni [Park 1929: XIX] Le sei aree cui fa riferimento Park, sono le “aree naturali” di cui il lavoro di Zorbaugh dovrebbe costituire la sintesi, ecologica nell’intento e spesso solamente descrittiva nei fatti. Questo lavoro infatti è fortemente informato dall’idea di “disorganizzazione”, elaborata in precedenza da Thomas e da Park, e secondo la quale la differenza tra gruppi sociali eterogenei nella città conduceva alla loro reciproca segregazione, più che integrazione, e questo era in buona misura legato al senso di perdita delle proprie “coordinate” comunitarie nella metropoli. Così si esprimeva Zorbaugh: Con quale vastità sono moltiplicate le possibilità di vita nella grande città, se comparate con quelle offerte dalle città americane o dai villaggi contadini europei dai quali la maggior parte di queste persone [artisti, commesse, immigrati, creativi, uomini d’affari, donne del gran mondo, cameriere, impiegati] proviene. Quali progetti, disegni, aspirazioni e sogni per avvantaggiarsi di queste possibilità i diversi individui devono aver ospitato sotto i propri cappelli. Di fatto hanno poco in comune eccetto il fatto di urtarsi reciprocamente sulla stessa strada. Le reciproche esperienze hanno insegnato loro diversi linguaggi. Quanto sono lontani dal comprendersi reciprocamente, o dall’essere in grado di comunicare fatte salve le più ovvie questioni materiali! [1929: 13]. Il risultato “inevitabile”, secondo l’autore, era appunto la “disorganizzazione culturale” [ibid: 16]. L’eco simmeliano, mediato da Park, dell’anonimità dei contatti umani nella metropoli pervade tutte l’opera con il risultato che le sei aree vengono spesso descritte come separate in maniera naturale dalla reciproca interazione delle persone. La “storia naturale” di queste aree, con il succedersi di ondate migratorie di diversa origine (irlandesi, tedeschi, svedesi, italiani, neri del sud e persiani principalmente), è quindi caratterizzata da una progressiva frammentazione e ricomposizione dello spazio, in una parola dal cambiamento urbano. Il libro è, in quanto tale, una perfetta illustrazione dell’orientamento ecologico dell’epoca. Inizia con due capitoli dedicati, il primo, a una descrizione naturalistica dell’area in generale, e il secondo a una ricostruzione della “storia naturale” del Near North Side. Se l’autore osserva meno cambiamento urbano per quanto riguarda la Gold Coast, la parte ricca dell’area dove risiede gran parte della popolazione che “conta” a Chicago, ne offre nondimeno un’analisi dettagliata e rilevante sulla natura delle relazioni sociali osservabili in questo spazio. Si sofferma, ad esempio, sui rituali sociali che servono a riprodurre e controllare il mondo dell’aristocrazia locale dai tentativi di ingresso degli “arrampicatori” e più in generale sul vorticoso “gioco sociale” che è all’opera nella costa dorata. Dove si ritrovano ben delineati i caratteri della trasformazione urbana, è nella descrizione che Zorbaugh offre dell’area delle camere ammobiliate (The world of furnished rooms), di Towertown (il regno di bohemia), dell’area di North Clark Street (il Rialto of the half world) e, infine, dello Slum: si vedono da un lato entrare nella scena nuovi attori attraverso le migrazioni, uscirne altri per via dei percorsi di mobilità sociale tradotti in mobilità spaziale, e dall’altro si assiste alla reazione del quadro spaziale preso in esame, che perde progressivamente valore immobiliare e sociale e si adatta ai nuovi arrivati. Le diverse attività economiche, culturali, politiche che caratterizzano la città si ritrovano in parte nella città che studia Zorbaugh ed è proprio in questo senso che questo lavoro rimane fedele tanto all’idea della città come laboratorio che alla prospettiva ecologica. Le osservazioni locali costituiscono sempre dei tasselli nella ricostruzione di un quadro generale, quello della città di Chicago. La prospettiva teorica della disorganizzazione, più che il rapporto con il lavoro empirico, previene Zorbaugh dal trovare unità e coerenza tra le aree e questo lo porta perciò a pensare allo spazio urbano come ad un immenso mosaico. Si tratta quindi di una sorta di olismo indotto dalla teoria e non propriamente dal metodo. Quale era dunque il metodo utilizzato in quest’opera? Come in altri lavori di questa tradizione, il metodo consiste nell’utilizzazione di dati molto diversi. Si ritrovano osservazioni, alcune di prima mano, ma per la maggior parte prodotte da assistenti sociali e da membri delle istituzioni caritatevoli che operavano nell’area. Si ricorre ad autobiografie prodotte su richiesta dell’autore e ad altre su cui non è chiaro se siano il frutto di interviste o meno [Hammersley 1989: 80-82]. Vi è un ampio ricorso a dati preesistenti sulla devianza, sui valori immobiliari ed altri aspetti della realtà urbana studiata. In generale, si può dire che Zorbaugh nonostante offra “un resoconto etnografico descrittivo, era preoccupato dall’analisi ecologica più che dalle prospettive dei soggetti” [Harvey 1987: 63]. Le critiche metodologiche non devono però far andare in secondo piano il valore che questo testo ha ancora oggi per gli studi urbani, non solo qualitativi. La prospettiva che, ad esempio, viene adottata sulla segregazione urbana è ancora adesso credibile e rilevante: per Zorbaugh si tratta di un movimento in parte naturale, legato all’afflusso massiccio di popolazioni in un tempo relativamente ridotto, in parte indotto, dalle forze economiche che investendo fanno fluttuare il prezzo del terreno, e in parte cercato, come nel caso delle famiglie aristocratiche che si ammassano in poco più di un miglio lungo la riva del fiume Michigan per formare la Gold Coast. Altrettanto illuminanti sono, ad esempio, le descrizioni del “quartiere latino” di Towertown, un luogo dove gli abitanti “indossano una maschera”, come dice Zorbaugh, per indicare l’aspetto drammaturgico degli stili di vita in un quartiere alla moda. Per queste e numerose altre ragioni The Gold Coast and the Slum è perciò da considerare come un autentico classico nella vasta galassia degli studi urbani. 1.4.3. The Taxi-Dance Hall (1932) Paul Goalby Cressey (1901-1955) ha prodotto nel 1932 la monografia qualitativa più vicina a quella che oggi potremmo qualificare di etnografia. Si tratta di una ricerca condotta sotto la supervisione di Robert Burgess tra il 1925 e il 1929 per un M.A. all’Università di Chicago. Il suo oggetto, le taxidance hall, qualificano questo lavoro come un autentico precursore degli studi sulla devianza e sulle subculture. Si trattava infatti di sale da ballo molto diffuse negli Stati Uniti di inizio secolo dove, a differenza di una vera e propria scuola di ballo di cui costituivano una sorta di evoluzione (o di involuzione, se si assume lo sguardo moralista di molti studiosi dell’epoca [Dubin 1983]), si poteva ballare con delle ragazze a pagamento, come se, appunto, si prendesse un taxi. Con dieci centesimi si sceglieva la ballerina, alla quale andava la metà del biglietto pagato. La clientela maschile era di diverso genere, ma comprendeva essenzialmente persone stigmatizzate per diverse ragioni, dall’appartenenza etnica (numerosi erano soprattutto i clienti di origine filippina) all’aspetto fisico. I proprietari erano degli imprenditori, spesso di origine greca, che si erano progressivamente specializzati in questo settore. Le ballerine, per canto loro, erano anch’esse di origine straniera, in molti casi polacche, e per loro si trattava di un tipo di attività che poteva prefigurare una sorta di carriera “discendente” verso vere e proprie attività di prostituzione che verso matrimoni con i clienti. L’importanza di questo studio per gli studi urbani più in generale risiede nell’avere portato alla luce il ruolo informale di un’istituzione come la taxi-dance hall nel mettere in contatto persone diverse22 22 Ernest Burgess a questo proposito scriveva nell’introduzione al libro di Cressey che “this study has a significance that goes far beyond the taxi-dance hall situation. It raises all the main questions of the problem of recreation under (per provenienza, genere, aspirazioni, età). Hannerz a questo proposito ha parlato di “istituzioni nodali in cui molti mondi urbani si incontrano” [1980: 141] Si tratta quindi certamente di uno studio nella città dati gli scarsi riferimenti a questioni di ecologia umana23 ma che completava quanto messo in luce in precedenza da Harvey W. Zorbaugh nel suo studio sulla Rialto of the Half-World, il centro del Near North Side di Chicago rappresentato da North Clark Street, e che così qualificava quest’area: Di giorno o di notte, è una strada di persone bizzarre e ai margini, una strada i cui abitanti stanno nella città senza farne parte – l’hobo, il radicale, l’agitatore e il rapinatore, l’accattone e la prostituta, il drogato, il trovarobe, la sfruttratrice, e la ragazza di buon cuore. Per tutti questi abitanti di questo mondo frammentato North Clark è Main Street [1929: 106] Zorbaugh aveva già descritto l’area studiata da Cressey ma questi vi fece uno studio in profondità e secondo una metodologia che di fatto si serve di un’equipe di ricerca. Sotto la sua direzione infatti fu mandato un numero imprecisato di observers a “ mischiarsi alla gente e diventare parte di questo mondo nei limiti di ciò che è eticamente possibile” [1932: XXXIV]. Questi osservatori redigevano in seguito delle note osservative che facevano parte della documentazione empirica. Non sappiamo come fossero utilizzate nella costruzione del testo, quanto fossero affidabili24 e quale fosse il grado di immersione etnografica di questi “anonymous strangers”. Questa ultima categoria merita però di essere valorizzata, perchè rinvia alla riflessione metodologica di Cressey, unico esempio per quanto riguarda le monografie di Chicago, rimasta non pubblicata fino al 1983, grazie alla scoperta di Martin Bulmer che all’epoca investigava gli archivi dell’Università di Chicago per scrivere la sua monografia [1984]. Cressey dunque scrisse un testo metodologico dove descrisse tre possibili ruoli dell’osservatore partecipante: quello “dell’amico” (che conosce ed è conosciuto dagli altri per quello che è), dello “straniero ricercatore” (che è riconosciuto in quanto ricercatore e come tale è accettato) e, infine, dello “straniero anonimo” (che non è riconosciuto per essere un ricercatore e si comporta come se fosse un conoscente o un amico) [Cressey 1983; Bulmer 1983]. Per quanto riguarda le ultime due, si tratta delle categorie che più tardi verranno chiamate rispettivamente “overt research” e “covert research” e cioè quelle in cui il ricercatore dichiara la propria identità alle persone che intende studiare o meno [cfr. Adler e Adler 1987]. Del lessico adottato da Cressey, è solo il caso di notare che la nozione di “straniero” è un esplicito rimando nel testo alla prospettiva di Simmel e che di fatto essa prefigura, come sarà più chiaro nell’opera di Goffman, una prospettiva interazionista che condivide molti presupposti della ricerca etnografica come viene concepita oggi: il fatto che quella tra ricercatore ed oggetto di studio è una relazione (1), nella quale si possono adottare differenti ruoli (2) e che il rapporto tra ruoli e interazione prefigura diversi accessi alla realtà sociale (3) e quindi la produzione di dati dalla natura differente (4), tutto questo è molto etnografico! L’ironia della storia è però quella per cui il testo metodologico di Cressey apparve solo quando queste dimensioni erano già state chiarite ed è perciò anche per questa ragione che sembra difficile considerarlo un fondatore dell’impresa etnografica urbana. In sintesi, queste tre monografie, benché piuttosto differenti le une rispetto alle altre, presentano alcuni caratteri comuni che sono rilevanti nella ricostruzione dell’approccio qualitativo etnografico allo studio dei fenomeni urbani. In primo luogo, si tratta di lavori empiricamente fondati che hanno fatto ricorso a più tecniche di rilevazione dei dati. Questo approccio, noto all’epoca come “studio di caso”, si opponeva alla sola conditions of modern city life, namely, the insistent human demand for stimulation, the growth of commercialized recreation, the growing tendency to promiscuity in the relations of the sexes, and the failure of our ordinary devices of social control to function in a culturally heterogeneous and anonymous society [1932: XXIX, corsivo nell’originale] 23 Il capitolo XI del libro di Cressey si intitola “The location of the taxi-dance hall” e sembra più una sorta di passaggio obbligato che un elemento rilevante nell’economia generale del testo [1932] 24 Dubin offre una interessante descrizione di quattro note osservative, una delle quali ad opera proprio di Cressey, e mostra il grado di moralismo di cui erano impregnate [1983]. spiegazione per correlazione, come era in uso altrove nella sociologia americana. Blumer, in particolare, ha lungamente teorizzato sulla necessità di costruzioni del dato attraverso tecniche che potessero cogliere i significati delle azioni prima di procedere a forme di spiegazione causale [Hammersley 1989]. Ma questo avvenne a partire dagli anni ’30, dopo che la maggior parte delle monografie di Chicago erano già state pubblicate. In seconda analisi, benché questi lavori fossero empiricamente fondati, vi è stato un diffuso disinteresse circa la metodologia utilizzata. Largamente attribuibile al ruolo pionieristico che queste opere e i loro autori hanno avuto nella ricerca sociale americana, questa mancanza di riflessione metodologica rimane però importante e nasconde quello che costituisce, a mio avviso, il punto critico più sostanziale: la realtà e la sua documentazione apparivano all’epoca come date per scontate. Questo è particolarmente evidente quando si prende in esame la partecipazione agli eventi narrati, alla realtà scelta come rilevante. Nella maggior parte dei casi è difficile vederne traccia [Platt 2003]. Una sorta di realismo ingenuo pervadeva il rapporto tra ricercatore e costruzione del dato, allorché questo tipo di approccio non sarà più considerato auspicabile nella generazione seguente, molto attenta, invece, al tema della costruzione del materiale empirico. La “prima” scuola di Chicago fonda senza molti dubbi la sociologia urbana contemporanea e mostra interesse per fenomeni che diventeranno centrali nello sviluppo di questo tipo di studi, come la devianza, le forme di organizzazione e di disorganizzazione sociale nella metropoli. È più difficile sostenere, invece, che con questa tradizione nasca l’etnografia urbana. Non si tratta di un semplice nominalismo e lo vedremo più in dettaglio con l’esame dell’opera di William Foot Whyte, il quale scrive il suo lavoro su Boston a relativa poca distanza temporale dai lavori della “prima” scuola di Chicago ma prendendo delle distanze teoriche e metodologiche fondamentali. 1.5. La “seconda” Scuola e l’osservazione partecipante: Hughes, Whyte Ogni datazione nella fase di ricostruzione storica di un evento o di una serie di eventi è problematica e quella che riguarda la “seconda” Scuola di Chicago non fa eccezione. Lo spartiacque tra la “prima” e la “seconda” è il pensionamento di Park nel 1933? L’arrivo come docenti di Wirth nel 1930, Blumer nel 1931, Warner nel 1935 o di Hughes nel 1938? E poi, quando finisce, ammesso che sia mai cominciata? Tra il 1951 e il 1952, quando Blumer lasciò Chicago per Berkeley, Burgess andò in pensione e Wirth morì improvvisamente, lasciando il dipartimento di Sociologia in preda a una crisi senza precedenti [cfr Abbott e Gaziano 1995]? Finì nel 1961 con la partenza di Hughes per l’Università di Brandeis? Gary Alan Fine opta per una scelta più opinabile ma interessante: non essendo possibile ragionare in termini di date, è meglio definire la “seconda” Scuola a partire dalle opere che la caratterizzano [1995]. In questo senso tra il secondo dopoguerra e i primi anni Cinquanta, a Chicago gli allievi di Hughes, Blumer e Wirth (ma non solo) hanno prodotto una serie di ricerche che hanno rivoluzionato gli studi qualitativi su devianza, educazione e lavoro. Non solo. Accanto alla produzione di lavori empirici di grande valore si istituzionalizza la ricerca etnografica tout-court, codificata nei manuali, presa in esame in riflessioni metodologiche, insegnata. Dietro a questo secondo processo vi è innanzitutto la figura di Everett Hughes, ma oltre a lui Howard Becker, Erving Goffman o William Foot Whyte, tra i molti, producono delle riflessioni a partire dalle proprie esperienze etnografiche che diventeranno delle pietre miliari della ricerca qualitativa contemporanea. Vi è però un ulteriore elemento da discutere, prima di passare ad una rapida ricostruzione di questi contributi. La relativa scomparsa, tra gli anni ’30 e ’60, della ricerca urbana così come era stata impostata con la “prima” Scuola di Chicago. In un certo senso, più che di una scomparsa, si tratta di una biforcazione. L’ecologia umana, da una parte, prende con Duncan e Hawley una direzione demografico-quantitativa che è tutt’ora fiorente nell’ambiente statunitense25. Viceversa la tradizione dello studio di caso che aveva caratterizzato il primo approccio ecologico si orienta verso gli studi di comunità, da un lato spingendo in avanti l’uso di tecniche qualitative, prima fra tutte l’osservazione partecipante, e dall’altro privilegiando contesti spaziali diversi rispetto alla città nel suo insieme. Questa biforcazione verrà trattata con maggiore precisione nel paragrafo relativo agli studi di comunità, che vedrà anche l’affacciarsi sulla scena degli antropologi urbani americani. Per il momento è invece rilevante rivolgere l’attenzione da un lato alla nascita dell’etnografia, come la conosciamo attualmente, grazie all’opera di Everett Hughes e dall’altro all’opera di Whyte, che smarcandosi proprio dall’eredità di Chicago, pubblica la prima ricerca di etnografia urbana in senso stretto. 1.5.2. Everett Hughes e la nascita dell’osservazione partecipante Everett Hughes (1897-1983) era stato allievo di Park e aveva condotto una ricerca durante il proprio dottorato sugli agenti immobiliari a Chicago (discussa nel 1928). Successivamente era partito all’università anglofona McGill di Montreal, in Canada, per dare uno dei primi corsi di sociologia di quel paese, dove aveva anche condotto una ricerca urbana sulla cittadina di Drummondville per studiare le relazioni tra industrializzazione e divisione etnica del lavoro (la popolazione anglofona nella gestione delle imprese e quella francofona occupata invece nelle mansioni manuali) [Hughes 1943; cfr. Chapoulie 2001: 354-355]. Tornò a Chicago nel 1938 con lo specifico compito di insegnare field work, il lavoro sul campo. Come ricorda Herbert Gans, dottorando in quel periodo, “[all’epoca] nessuno parlava di osservazione partecipante; la facevamo e basta. Come molti dei miei compagni di sociologia dell’epoca, ho seguito il corso di Everett Hughes “Introduzione al lavoro sul campo”, e come loro la trovai 25 Per una storia dell’ecologia urbana americana, cfr. Gross 2004. un’introduzione traumatica; venivamo spediti in un’area dei dintorni di Hyde Park26 e invitati a compiere una piccola osservazione partecipante. Everett Hughes ci ha detto qualche parole come introduzione ed insegnamento, ma da buon padre quale era, ci ha rapidamente spediti giù dal nido dicendoci di volare autonomamente” [Gans 1968: 301] Nello stesso periodo Hughes stava lavorando attivamente alla fondazione della moderna sociologia delle occupazioni e del lavoro27 e, “da buon padre quale era”, per riprendere l’immagine di Gans, stava crescendo una generazione di studiosi che nel mondo del lavoro trovava un modo per analizzare la formazione di un ceto medio professionale, la stigmatizzazione di occupazioni “devianti” e, più in generale, mostrava interesse per i temi del cambiamento sociale improvviso, del controllo totalitario e del conformismo [Fine e Ducharme 1995: 109]. L’interesse di Hughes per l’osservazione diretta dei fenomeni sociali derivava non solamente dall’insegnamento di Park ma più in particolare dallo stretto rapporto che intratteneva con gli antropologi dell’epoca, in particolare Warner, con cui aveva lavorato a stretto contatto nel dopoguerra in gruppi di lavoro sul mondo industriale (ai quali partecipavano antropologi come Conrad Arensberg o sociologi come Whyte28). In generale il suo approccio metodologico, tutt’altro che dogmatico o chiuso all’utilizzo di tecniche quantitative, si nutriva dell’idea che l’osservazione partecipante fosse “un mezzo per raccogliere dati che permettessero l’oggettivazione delle attività e delle esperienze vissute di alcuni attori” [Chapoulie 1987: 272]. L’attività di partecipazione era in questo senso ancillare rispetto all’osservazione, di cui costituiva il complemento per una corretta produzione di materiale teorico. Da parte di Hughes e dei suoi collaboratori Gold [1958] e Junker [1960] compare poi la prospettiva secondo la quale “il controllo collettivo dei risultati ottenuti con il lavoro sul campo passa attraverso l’osservazione del ricercatore e l’analisi delle proprie procedure di ricerca” [Chapoulie 1996: 38]. Da un punto di vista analitico, vi era poi una forte enfasi a favore della comparazione, tanto sincronica che diacronica, per far si che lo studio non si risolvesse in un semplice esercizio di stile, particolaristico e autoreferenziale. Un continuo richiamo a questioni di teoria generale, accompagnato a un atteggiamento curioso nei confronti delle altre discipline (antropologia e storia innanzi tutto) e infine un’apertura a forme innovative di ricerca e in generale di curiosità verso il mondo, costituivano l’insegnamento principale di Hughes [Colomy e Brown 1995: 31-32]. La ragione per la quale questo autore merita però un richiamo in questo testo, risiede nel ruolo di “cerniera” che ha avuto tra l’impostazione empirista della “prima” Scuola di Chicago e lo sviluppo delle monografie che hanno fatto parlare di “seconda” Scuola. La maggior parte degli autori di queste opere, pur non essendo stata “direttamente” allieva di Hughes, dichiarerà retrospettivamente il proprio debito intellettuale nei confronti di costui29. 26 Il quartiere che ospitava il campus dell’Università di Chicago. Nota anche come “sociologia delle professioni”, un termine che però non era gradito a Hughes che vedeva in esso una riproposizione in vesti sociologiche del tentativo da parte di chi occupava le posizioni “alte” del mondo professionale di smarcarsi dalle altre occupazioni in generale, in particolare naturalizzando la divisione del lavoro. Hughes era viceversa interessato a studiare le modalità attraverso le quali chi occupava i gradini più alti della scala professionale riusciva a presentarsi in quanto tale e a smarcarsi dagli altri. Sono celebri a questo proposito le sue analogie tra psichiatri e prostitute o tra idraulici e medici [Hughes 1996; Chapoulie 1987]. 28 A conferma della tesi che in alcuni specifici settori delle scienze sociali la distanza tra sociologia ed antropologia non solo era assente ma addirittura annullata dalle pratiche scientifiche, si veda lo studio delle organizzazioni e, in particolare, la storia della rivista Applied Anthropology, diretta tra il 1941 e il 1948 da Chapple e Arensberg, due antropologi allievi di Warner, e che divenne Human Organization dal 1949 e fu diretta da Whyte [v. Cefai 2003c: 311312]. 29 Si prenda come esempio gli autori del volume dedicato a Hughes nel 1968, Institutions and the Person, e curato da Howard Becker, Blanche Geer, David Riesman e Robert Weiss: oltre ai curatori figurano David Solomon, Melville Dalton, Eliot Freidson, Bernard Karsh, Donald Roy, Leo Zakuta, Oswald Hall, Aileen Ross, Murray e Rosalie Wax, William F. Whyte, Robert Braun, Louis Kriesberg, Harvey Smith, Joseph Gusfield, William Westley, Robert Habenstein, Fred Davis, Dan Lortie, Anselm Strauss, Erving Goffman, Herbert Gans, Irwin Deutscher e Albert Reiss. Occorre però anche ricordare come non sempre questi debiti intellettuali fossero ricambiati. Goffman, ad esempio, si considerava allievo di Hughes, nonostante quest’ultimo non sembrasse esserne particolarmente lusingato [Winkin 1988: 35]. 27 Grosso modo è possibile affermare che i lavori dei seguaci di Hughes furono caratterizzati dall’osservazione partecipante delle attività di piccoli gruppi all’interno di imprese, istituzioni o situazioni specifiche e da uno sguardo spesso iconoclasta o quantomeno irrisorio, soprattutto nei confronti delle categorie adottate dai gruppi studiati per auto-definirsi. Si pensi agli studenti di medicina, ad esempio, come nel lavoro collettivo cui partecipò, assieme a Becker (considerato da tutti gli altri come il vero autore) Strauss e Geer, Boys in White [1961]. Per trovare studi sulla città che condividano obiettivi teorici e consapevolezza metodologica simili, però occorre rivolgere la propria attenzione altrove, anche se non molto lontano. 1.5.3. William Foot Whyte, la critica al paradigma della “disorganizzazione sociale” e la nascita della riflessività in etnografia urbana Uno studente di economia ad Harvard, che si sentiva vicino all’antropologia di Arensberg, che voleva studiare un quartiere di Boston, e che discusse la propria tesi di dottorato a Chicago, dichiarando di non averne letto le celebri monografie, scriverà la prima etnografia urbana in assoluto, Street Corner Society [1943a; cfr Peretz 2002]. In queste righe si può misurare la difficoltà di assimilare l’opera di Whyte alla tradizione precedente, quella della “prima” scuola di Chicago, e nel tempo stesso nutrire dei dubbi sul fatto che quest’opera non avesse dei “debiti” intellettuali anche verso Chicago. È vero che Whyte era senza dubbio una sorta di autodidatta, come spesso accade ai fondatori di una prospettiva specifica, ma è anche vero che aveva potuto basare la propria prospettiva sui primi studi di comunità americani, in particolare i lavori dei coniugi Lynd a Middletown30 e quello di Carolyn Ware sul Greenwich Village di New York31. Tra l’inizio del 1937 e il 1940, Whyte individuò nel North End di Boston (che ribattezzerà Cornerville) il luogo adatto per condurvi una ricerca approfondita sulle condizioni di vita in uno slum. Questo interesse era il frutto di una tensione personale che l’autore, con molta franchezza, descrisse così: La mia vita familiare era davvero felice e stimolante sul piano intellettuale, ma priva di aspetti avventurosi. Non avevo mai dovuto fare a botte per qualsivoglia ragione. Conoscevo molte persone a posto, ma la maggior parte di loro proveniva da buone e solide famiglie della classe media. All’università, come è ovvio, frequentavo studenti e docenti anche loro appartenenti a questa classe. Non ne sapevo nulla di quartieri poveri (volendo, nemmeno di quelli ricchi). Né di vita in fabbrica, nei campi o in miniera, se non quello che avevo letto nei libri. Questo mi aveva portato a pensare di essere un individuo privo di qualsiasi interesse. A volte, questa impressione di mediocrità era talmente forte che non mi veniva in mente nessuna storia da scrivere32. Ho così iniziato a dirmi che se volevo scrivere qualcosa che davvero valesse la pena, avrei dovuto andare oltre i ristretti limiti della mia vita sociale dell’epoca [2002: 313]. L’area prescelta per oltrepassare questi limiti era un quartiere povero, “una zona urbana caratterizzata da una forte concentrazione di persone a basso reddito, da abitazioni in cattivo stato e da condizioni sanitarie precarie”33. Gli abitanti erano in grande maggioranza italiani, di prima o 30 V, par. 1.6.2. Si tratta di uno studio sulla comunità italiana di New York condotto nei primi anni Trenta in maniera simile a quella di Whyte [Ware 1935]. 32 Quando era studente, la massima aspirazione di Whyte era quella di diventare uno scrittore. 33 Si tratta della definizione data da Whyte a Wirth durante l’agitata discussione di tesi, durante la quale l’autore fu vivamente criticato per non aver adoperato l’apparato concettuale di Chicago, in particolare la nozione di “disorganizzazione sociale”. In quell’occasione Wirth chiese a Whyte di definire uno slum e, ricevuta la risposta, obiettò che non si trattava di una definizione sociologia [Whyte 2002: 377]. 31 seconda generazione, e il lavoro di Whyte consisteva nel cogliere le articolazioni tra vita quotidiana giovanile nelle gang34, la formazione di leadership e la vita politica del quartiere. Terminata la scrittura della propria ricerca, Whyte si iscrisse all’università di Chicago per ottenerne un diploma di dottorato, sotto l’ala protettrice di Lloyd Warner e di Everett Hughes, e fu grazie a quest’ultimo che ottenne il diploma35 e la pubblicazione presso la University of Chicago Press36. Il libro ebbe poco successo fino a quando, nel 1955, dietro richiesta della casa editrice che si interrogava sull’opportunità di procedere a una seconda edizione, Whyte ebbe l’idea di rendere il proprio testo più interessante aggiungendovi un’appendice metodologica. In essa, per la prima volta nella ricerca sociologica, non solo veniva raccontato come era stata condotta la ricerca, ma ne venivano tratti numerosi spunti di riflessione per ricerche future. In sintesi, dal 1955, la ricerca etnografica aveva una prima codifica delle proprie procedure e un primo esempio cui fare riferimento negli anni a venire. La ragione per la quale il lavoro di Whyte è fondativo della tradizione americana di etnografia urbana risiede perciò a un doppio livello, sostantivo e metodologico. Nella sostanza, i tre anni spesi dal giovane Bill in compagnia di Doc, Sam Franco, Carl, Tommy o Long John, tra i numerosi ragazzi che ha frequentato, gli hanno permesso di offrire un ritratto ricco, documentato e rilevante teoricamente di uno spazio urbano di un’importante città americana come Boston. Questa, come altrove in quell’epoca, assisteva alla formazione e alla riproduzione di quartieri segregati ma autonomi, poveri ma relativamente organizzati [Peretz 2002: 11-15]. Lo sguardo attento alla nascita di attività politiche dal basso e alla loro relazione con la politica della città in generale, ha permesso a Whyte di evitare in parte il rischio dello studio di comunità autoreferenziale che corrisponde alla tentazione di descrivere una formazione spaziale (come un quartiere) come se fosse uno spazio autonomo e isolato invece che in rapporto di dipendenza, anche solo relativa, con il contesto urbano più ampio. Il merito di Street Corner Society è tanto maggiore se si considera poi che il principale degli obiettivi teorici di questo lavoro era quello di illustrare le forme di organizzazione sociale “dell’angolo della strada”. Giunti a questo punto occorre compiere una parziale digressione sul tema organizzazione/disorganizzazione per rendere esplicito il portato del cambiamento introdotto dall’opera di Whyte per gli studi urbani in generale [Whyte 1943b]. L’idea di “organizzazione sociale” nella sociologia americana è legata innanzitutto all’opera di Cooley che, all’inizio del Novecento, aveva inteso questo concetto come l’insieme delle istituzioni che in un gruppo ne regolano la condotta [Chapoulie 2001: 76]. In riferimento a ciò, Thomas e Znaniecki avevano a loro volta definito la “disorganizzazione sociale” come il declino dell’influenza di queste regole sul comportamento dei membri del gruppo, per esempio attraverso l’individualizzazione [1927]. Nei lavori di Park questo concetto verrà legato direttamente alla città, nella misura in cui essa sembrava non poter fornire quelle forme di controllo sociale comunitario che si supponevano essere alla base dell’organizzazione sociale [1925]. Suicidi, criminalità, divorzi, corruzione politica, scontri e violenze o malattie mentali erano tra i diversi indicatori che mostravano, secondo l’approccio della disorganizzazione sociale, la natura formale, anonima e caotica della città [Chapoulie 2001: 253-289]. Questa visione era poi molto legata alla sociologia tedesca di inizio secolo, con la quale Park e colleghi avevano avuto molti contatti diretti e che veniva insegnata a Chicago fin dall’inizio del Novecento. Dietro all’immagine della città come spazio anonimo di incontro fra estranei vi è la prospettiva di Simmel sulla vita nella metropoli [1903] e alla base dell’opposizione fra comunità ristretta fortemente controllata e città ampia e 34 Il concetto di gang, come quello di hobo osservato in precedenza, non corrisponde esattamente all’immagine corrente di esso nella lingua italiana (gruppo coeso che è caratterizzato da comuni attività delittuose o, comunque, devianti). Si tratta essenzialmente di gruppi di pari, uniti perlopiù da comuni attività sociali, non necessariamente devianti. 35 La mediazione che fu trovata con Wirth fu che Whyte scrivesse un’appendice bibliografica che si riferisse esplicitamente agli altri lavori urbani di Chicago. 36 Questa avvenne nel 1943 dietro pagamento da parte di Whyte e della moglie di 1300 dollari. dispersiva vi era la lettura del celebre volume di Tonnies sul rapporto tra Gemeinschaft e Gesellshaft o le riflessioni di Durkheim sul passaggio dalla solidarietà meccanica a quella organica. Si trattava perciò di una prospettiva teorica molto diffusa all’epoca e difesa strenuamente all’interno del dipartimento di sociologia di Chicago. Whyte opera, apparentemente grazie alla propria ignoranza di questa tradizione, una radicale revisione del paradigma in maniera induttiva e cioè a partire dalla propria osservazione diretta del modo in cui le interazioni tra pari, all’interno del gruppo, e le interazioni tra gang, nel quartiere, producevano tessuto sociale e cioè “organizzazione sociale”. La povertà e la miriade di attività che vedevano coinvolti gli individui studiati da Whyte, comprese quelle illegali come il racket, erano viste come una fonte di organizzazione e solo una visione fortemente deduttiva come quella sostenuta da Park e colleghi poteva negarne l’esistenza, a parere dell’autore [1943b]. Da quanto detto si può anche mettere in luce come la natura del contendere fra le due prospettive sia intimamente epistemologica. Se si assume, come facevano i sostenitori del paradigma della disorganizzazione, che si deve partire da essa per osservarne empiricamente le forme che può assumere nella città, si sostiene un’impostazione deduttiva. Se viceversa si lascia che siano le proprie pratiche di ricerca a “scoprire” delle ipotesi, piuttosto che a validarle, l’impostazione è induttiva. In questo senso la distanza tra i due paradigmi è doppia: epistemologica e teorica al tempo stesso37. Il metodo, viceversa, è condiviso, quantomeno relativamente alla rilevanza assegnata al lavoro empirico. Anche da questo punto di vista però Whyte compie un significativo passo in avanti. Nel metodo, Whyte introduce da un lato lo schema classico della ricerca partecipante: formazione degli obiettivi teorici, scelta del contesto da analizzare, negoziazione dell’ingresso, accettazione e raccolta dei dati, uscita dal campo, scrittura del resoconto etnografico e, infine, ritorno sul campo38. Accanto a questo processo, descritto in tutta la sua complessità, Whyte dà inoltre molto risalto alla propria soggettività, sia per quanto riguarda gli aspetti meno edificanti della propria condotta sul campo39, che per quanto riguarda i problemi che sorgono “naturalmente” dall’incontro fra estranei sul campo. Il risultato è un testo che introduce la riflessività in etnografia, intesa “come capacità di rendere conscio e visibile il processo di costruzione interno a ogni ricerca e di esplicitare la posizione che l’osservatore assume nel campo di osservazione” [Colombo 1998: 262]. Leggendo di quando Whyte fu invitato dai suoi amici italiani a non dire parolacce, “non ti si addice” [2002: 333], a non fare domande dirette e irritanti o a non uscire da solo con le ragazze a meno che non avesse intenzione di sposarle, si vedono gli ingenui sforzi di identificazione con il gruppo studiato da parte del ricercatore (non si diventa l’Altro in etnografia, si impara piuttosto a trarre dalla distanza tra il sè e l’Altro gli elementi rilevanti) e si impara quali sono le regole elementari del comportamento in una società specifica. Se molte delle novità introdotte da questa appendice ci appaiono oggi scontate, quasi banali, è in parte dovuto proprio al fatto che essa è stata studiata e riprodotta dagli studiosi che hanno condotto ricerche simili dopo il 1955. Quanto detto vale anche per quanto riguarda le tematiche urbane. Dopo Street Corner Society, si aprono molti spazi per trovare nella città forme di organizzazione sociale. Se il paradigma della disorganizzazione sociale aveva come merito quello di stabilire dei legami diretti fra le forme locali di disorganizzazione e le determinanti generali, la città nel suo insieme, il passaggio all’organizzazione sociale “dell’angolo della strada”, del quartiere come di una via, porterà numerosi studiosi americani ad una parziale rinuncia dello studio della città. Negli anni Cinquanta e Sessanta, gli studi di comunità faranno il loro ingresso significativo sulla scena 37 Su questo punto Whyte è stato molto preciso: “Per troppo tempo i sociologi hanno concentrato le proprie attenzioni su individui e famiglie che non erano stati in grado di garantire una risposta positiva alle domande della società. Quello che serve adesso sono studi sui modi in cui individui e gruppi sono riusciti a riorganizzare le proprie relazioni sociali e a rispondere ai conflitti” [1943b: 37]. 38 Nel 1992 il Journal of Contemporary Ethnography dedicherà il numero di Aprile ad una rivisitazione critica della monografia di Whyte, in particolare ad opera di Marianne Boelen, recatasi a Boston a quarant’anni di distanza da Whyte [Boelen 1992; Whyte 1993; Marzano 2006] 39 Come quando partecipò a una frode elettorale. accademica americana. Questo favorirà un avvicinamento, quando non una vera e propria identificazione, dei sociologi con il lavoro degli antropologi ma avrà come contropartita il passaggio in secondo piano dello studio della città nel suo insieme. 1.6.1. L’etnografia urbana americana del dopoguerra Come abbiamo appena visto a proposito del lavoro di Whyte e come ci ricorda Daniel Céfai nella sua precisa ricostruzione della storia della ricerca etnografica negli Stati Uniti, Chicago non detiene dunque “il monopolio del lavoro sul campo” [Cefai 2003b: 310]. Le prime delle due tradizioni etnografiche che vengono generalmente citate a supporto di questa tesi sono quelle sulle organizzazioni e l’industria e l’insieme di lavori noti come “studi di comunità”. Gli studi organizzativi si diffondono e sviluppano rapidamente nelle scienze sociali americane grazie ai lavori pionieristici di Elton Mayo e della sua equipe presso la Western Electric Company di Hawthorne già a partire dagli anni Venti e Trenta. Le università di Harvard e di Cornell ospiteranno i principali centri di ricerca ed equipe in questo settore che costituisce tuttora uno dei campi più fiorenti della ricerca etnografica. Tra i membri del gruppo che collaborò con Mayo figuravano sia Whyte che Warner, due autori che faranno spesso da ponte tra gli studi organizzativi e quelli di comunità. La relativa distanza del primo rispetto a Chicago è stata vista nel paragrafo precedente, mentre la figura di Lloyd Warner, benché fosse un chicagoan, è quella di un eclettico che svilupperà una propria prospettiva di analisi delle comunità e delle classi sociali e che si lancerà in una notevole carriera di imprenditore di ricerche sociali. Negli anni Cinquanta e Sessanta la metropoli non sembra comunque essere il luogo privilegiato dove condurre le proprie ricerche o, meglio, nonostante non possa non esserlo (la società americana è una società fortemente urbanizzata dopo tutto) gli interessi di ricerca si orientano verso nuovi territori. L’etnografia del lavoro, tradizione inaugurata con Hughes e continuata soprattutto da Donald Roy, quella della comunicazione di Gumperz e Hymes, l’interazionismo simbolico di Blumer e la grounded theory di Glaser e Strauss e l’etnometodologia di Garfinkel e Sachs disegnano un quadro che vede un progressivo allargamento delle prospettive che si basano anche (ma non solo) su diverse forme di tecniche qualitative vicine all’osservazione partecipante e che puntano il proprio obiettivo su altri aspetti dell’agire sociale. Lo sviluppo di studi come quelli di comunità o sulle subculture urbane tengono viva l’attenzione sulle città ma lo fanno in modo specifico, i primi isolando delle unità d’analisi denominate “comunità” e studiandole come “un tutto”, i secondi isolando dei gruppi sociali all’interno della città e studiando in profondità il loro agire. Entrambi si inseriscono in un filone che porterà negli anni Settanta a parlare di “etnografia urbana” in maniera esplicita ma che si basano su una presa di distanza significativa dai primi studi su Chicago, come abbiamo già osservato nel caso di Whyte. Negli anni Sessanta si assisterà poi nel mondo nordamericano al “rimpatrio” massiccio dell’antropologia e allo sviluppo dell’antropologia urbana. Crisi di finanziamenti, questioni politiche ed epistemologiche spingeranno molti antropologi a cercare nella propria società quella varietà di esperienze e di “culture” che fino ad allora erano osservate altrove. Non sarà unicamente un ritorno in patria40 dell’antropologia ma soprattutto un ritorno in città. La presenza di antropologi e sociologi nelle stesse strade si rivelerà particolarmente chiara negli studi di comunità, una tradizione largamente condivisa dalle due comunità41. Come anticipato, sarà negli anni Settanta e in California che verrà ricostituita una tradizione unica di etnografia urbana che parte dagli “antenati” di Chicago, passa per la “seconda” Scuola e in particolare per gli insegnamenti di Blumer e Hughes e approda infine nell’opera dei Chicago 40 Gli Stati Uniti sono stati studiati dagli antropologi americani (e non solo) fin dagli albori della disciplina, si pensi a tutta la letteratura sugli indiani d’America da Boas in poi, ma non era l’america urbana e moderna. 41 L’antenato comune è senz’altro Redfield, ma l’esempio più significativo è quello di Vidich e Bensman, di volta in volta considerati appartenenti all’una o all’altra specie di scienziati sociali. Irregulars (gli autori di questa ricostruzione) e nella loro rivista Urban Life and Culture (poi Urban Life e successivamente Journal of Contemporary Ethnography). Procedendo dunque per tappe, analizzeremo prima gli studi di comunità, successivamente quelli sulle subculture e vedremo infine in cosa consiste la proposta dei Chicago Irregulars. 1.6.2. Gli studi di comunità Gli studi di comunità, intesi come pratica di ricerca, sono fondamentalmente un’emanazione della tradizione antropologica che consisteva nello studio di società primitive e non, spesso debolmente urbanizzate quando non rurali. Il villaggio costituiva il tipo-ideale di spazio comunitario nel quale l’antropologo si insediava per un periodo di tempo sufficientemente lungo ad assicurargli una socializzazione ai modi di vita condivisi dagli abitanti. Semplificando, vi era poi una forte associazione tra il metodo etnografico e la capacità dell’antropologo di far emergere la “cultura” che caratterizzava questo o quel villaggio. Questa concezione della comunità come una società in miniatura si basava, in molti casi, su una serie di concezioni, storicamente e culturalmente situate, che associavano ai modi di vita comunitari una serie di attributi specifici. La staticità dell’organizzazione comunitaria, ad esempio, come se nei villaggi il tempo si fosse fermato e ciò permettesse all’antropologo di compiere uno studio a-storico [cfr. Fabian 1983]. La rilevanza delle strutture di parentela, la presenza di forme di solidarietà, di intensi legami di compresenza e comunicazione, tutto questo faceva pensare il villaggio come una sorta di forma meno evoluta, più “semplice”, di aggregato umano. Se a ciò si aggiunge l’influenza che hanno esercitato le concezioni evoluzioniste come quelle di Comte, Spencer, Tonnies e Durkheim, che vedevano il villaggio (come unità di analisi) all’inizio di una scala di complessità che vedeva al suo opposto la città, si possono intravedere già molti degli elementi che caratterizzeranno gli studi di comunità a partire dagli anni Venti in poi. La ricerca di Robert e Helen Lynd a Muncie nell’Indiana, rinominata Middletown per indicare la natura “media” che doveva costituire il fulcro della ricerca, è considerata a questo proposito un lavoro esemplare [1929]. Tanto nei pregi che nei difetti. Si tratta infatti di uno studio di comunità condotto tra il 1924 e il 1925, durante il quale i due coniugi si sono serviti essenzialmente di numerose interviste ed osservazioni per sondare alcune specifiche attività sociali: guadagnarsi da vivere, mettere su una casa, tirare su i figli, vestirsi e nutrirsi, divertirsi, pregare e partecipare alle attività della comunità. Dividendo analiticamente i cittadini in due classi, quella “lavoratrice” e quella “degli affari”, i due coniugi praticarono un’osserazione dettagliata della vita sociale di Muncie, partecipando a riunioni, parlando con la gente e redigendo delle note osservative. Effettuando un lavoro di ricognizione nella storia locale, dagli archivi municipali ai giornali, somministrando questionari a campioni di popolazione, creando protocolli osservativi specifici, i Lynd non si discostarono molto dall’universalismo metodologico di Chicago, pur non avendo relazioni con gli esponenti di quella tradizione. Il risultato du un grandioso e ricco affresco dell’america delle piccole città, soggette alle dinamiche dello sviluppo dei primi del Novecento senza gli “scossoni” sperimentati dalle metropoli. A Middletown si potevano però già osservare dei significativi segni di mutamento, da quelli relativi ai ruoli familiari in seguito al diffondersi del lavoro salariato femminile alla perdita di potere delle strutture comunitarie classiche, come le chiese locali. Questi segni si accentueranno e radicalizzeranno in seguito alla Grande Depressione che nel 1929 colpì gli Stati Uniti e spingeranno i Lynd a ritornare a Muncie per fornire un secondo episodio della saga di Middletown, questa volta vista in transition [1937]. L’antropologia urbana degli esordi, che ritroviamo nella figura di Robert Redfield, compie la stessa operazione di Middletown. Antropologo a Chicago durante gli anni Trenta42, Redfield elaborò una 42 Era anche genero di Park. celebre teoria negli studi urbani, quella del “continuum folk-urbano” [Hannerz 1980: cap.3; Eames e Goode 1977: 10-13]. Basandosi su un’analisi comparata di diverse unità territoriali, alcune di dimensioni ridotte, come ad esempio il villaggio di Tepotzlan in Messico, e altre di dimensioni differenti nella penisola dello Yucatan, Redfield descrisse il villaggio come una folk-society, un universo isolato, dove i contatti tra le persone sono intimi, le credenze e le pratiche sono condivise al punto che le persone sembrano simili le une alle altre. Si tratta di un tipo-ideale che è considerato agli estremi di un continuum che conduce alla città, luogo per eccellenza della differenziazione e di tutti quei caratteri che la “prima” Scuola di Chicago aveva identificato seguendo le orme di Simmel. Questa prospettiva, benchè aspramente criticata dagli antropologi urbani degli anni Cinquanta e Sessanta (in primo luogo da Oscar Lewis), costituirà un riferimento continuo negli studi di comunità, tanto ad opera dei sociologi che degli antropologi. Quello che, in particolare, rimarrà della lezione di Redfield non è solamente la caratterizzazione romantica della folk-society, ma l’impianto teorico che vede in essa un tipo-ideale che può quindi essere ritrovato altrove che in un villaggio messicano [cfr. Redfield 1960]. Forme di comunità come quelle descritte da Redfield si rintracciano ad esempio nelle città americane e la questione diventa semmai quella di adattare le tecniche di ricerca e le teorie antropologiche che andavano bene per delle società rurali alle cosiddette “società complesse”, dove l’intero spettro del continuum folk-urbano è perciò rintracciabile. Il rimpatrio degli studi di comunità dal mondo rurale a quello urbano prenderà dunque due direzioni, la prima è quella di quei lavori che tenteranno di descrivere una città in tutte le sue dimensioni (come una comunità) e la seconda è quella che cercherà nella città delle comunità (i quartieri, ad esempio). Ritroviamo qui, declinata sul concetto di comunità, la distinzione tra olismo e particolarismo, tra etnografia della città ed etnografia nella città. Abbiamo già visto con l’esempio del lavoro su Middletown che è possibile compiere una ricerca qualitativa che abbia come oggetto di studio un’intera città. La difficoltà principale risiede in una questione di “scala” e cioè relativa al giusto rapporto tra la dimensione dell’oggetto analizzato e gli strumenti che si hanno a disposizione. È per esempio difficile pensare che un lavoro che si avvalga della sola osservazione partecipante possa rendere conto delle attività sociali di un’intera città, ammesso che sia possibile definirle tutte e che si abbia a disposizione il tempo sufficiente. Per questa ragione lavori come quello dei coniugi Lynd si sono avvalsi di diverse tecniche. Se prendiamo come ulteriore esempio il lavoro coordinato da Lloyd Warner tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta, Yankee City, vediamo all’opera uno schema simile [Warner 1963]. Si tratta infatti di un lavoro che ha dello straordinario per quanto riguarda l’ambizione teorica e metodologica: si tratta infatti di una ricerca intensiva condotta tra il 1930 e il 1935 e poi continuata mano a mano che ne venivano pubblicati i cinque volumi fino al 1959. Incentrata sulla cittadina di Newburyport nel Massachusetts rinominata Yankee City, questa ricerca aveva come “interesse immediato la comunità in sè; gli scopi principali e più ampi erano quelli di utilizzare la comunità come un convenient microcosmo da studiare acquisendo così nuove conoscenze sulla vita sociale americana in generale per poi utilizzare i risultati in maniera comparativa grazie a studi simili condotti in altre società” [Warner 1963: XIII]. La famiglia, la struttura di classe, la vita economica, associativa, politica sono state studiate assieme alle trasformazioni industriali o al ruolo giocato dalle differenze etniche per garantire un quadro generale completo ed esaustivo della città (e della vita americana dell’epoca, secondo Warner). Per fare ciò, il gruppo di ricerca composto da studenti di Harvard non solo ebbe a disposizione un lungo periodo di ricerca e di discussione collettiva dei progressi effettuati ma si basò su un mix di dati che provenivano non solo dall’osservazione partecipante o dalle interviste ma anche da inchieste campionarie o dall’analisi di dati secondari. La prospettiva metodologica e l’impostazione generale della serie Yankee City riflettevano in buona misura l’aria dei tempi ma anche l’eclettica personalità di Warner stesso [Gardner 1970]: antropologo di formazione, allievo di Radcliffe-Brown, vicino sia alla sociologia che alla psicanalisi, Warner si interessò alle trasformazioni industriali negli Stati Uniti ed elaborò una serie di modelli teorici per lo studio della stratificazione sociale [Warner, Meeker e Eells 1960] ed etnica [cfr. Wieviorka 1991], oltre a formare un numero rilevante di futuri studiosi43. Non necessariamente, però, una raccolta di dati imponente come quella di Yankee City coglie i suoi obiettivi. Come ebbe a dire Charles Wright Mills a proposito della bocciatura del primo dei cinque volumi di quest’opera, non è una questione di forze messe in campo ma di relazione tra dati prodotti e innovazione teorica che ne dovrebbe derivare, il lavoro di Warner e colleghi appare più “diligente che ben fatto; mostra più dati che immaginazione nel disegno complessivo” [Wright-Mills 1942: 263]. La caustica recensione ci deve mettere in guardia da uno dei rischi in cui sono incorsi gli studi di comunità e cioè di credere, sulla base di un presupposto positivista un po’ ingenuo, che uno studio più ampio, più duraturo e che produca più dati, sia alla fine uno studio migliore. La debolezza dell’approccio olista è spesso stata quella di non riuscire a stabilire dei legami efficaci tra la realtà osservata e le dinamiche sociali generali che presiedono alla strutturazione del contesto locale e che da esso vengono modificate. In breve, il passo tra micro e macro non è sempre stato reso in maniera efficace. Non è il caso del libro di Arthur Vidich e Joseph Bensman44, Small Town in Mass Society [1958], un esempio di come si possa riuscire “ad abolire la nozione che esiste una differenza dicotomica tra il mondo urbano e quello rurale, quello secolarizzato e quello sacro e tra le forme meccaniche ed organiche di organizzazione sociale” [Vidich e Bensman 1968: VII]. Questo studio di comunità prendeva come unità di analisi il piccolo paese ribattezzato in Springsdale, un centro agricolo di quasi tremila abitanti non molto distante da New York e Washington D.C. La popolazione era impiegata nell’allevamento e nell’agricoltura e nell’economia dei servizi che ruotava attorno ai primi due settori; la maggior parte della gente lavorava a tempo pieno, possedeva la propria abitazione e partecipava alla fitta vita associativa locale. Un villaggio agricolo come tanti può essere studiato come se fosse indipendente dall’incedere della società di massa? Invece di studiare Springsdale come se fosse un’America in miniatura, Vidich e Bensman hanno analizzato le “importazioni culturali dalla società di massa” (attraverso le associazioni, i mass-media, le migrazioni) le dipendenze organizzative della vita economica locale rispetto a quella nazionale (tramite gli esperti, gli uomini d’affari, operai immigrati, allevatori) e i legami politici con l’esterno. Studiando le politiche locali (da quelle di sviluppo locale a quelle scolastiche), la vita economica, associativa e più in generale, le attività quotidiane i due autori arrivarono alla descrizione di un universo tutt’altro che isolato, idilliaco o tradizionale ma aperto, nel bene e nel male, ai cambiamenti della società americana in generale e, più in assoluto, dipendente da essi, in posizione subordinata. La comunità locale stava sperimentando due cambiamenti in particolare, secondo gli autori45: la scoperta che le proprie concezioni del bene comune e della democrazia erano largamente disattese dai processi di burocratizzazione, professionalizzazione e competizione che interessavano tanto la vita politica che quella economica. Assistevano poi all’ascesa di una nuova classe media che si esprimeva attraverso “un consumo stilizzato, attività ricreative e sociali culturali e prestigiose e lo sforzo di essere sofisticata, smart e dai modi urbani” [1968: 321]. Per dirla nei termini di Redfield, il continuum folk-urbano era nello stesso luogo ed era un continuum da intendersi come un processo di cambiamento sociale delle campagne americane, integrate con forza nella società di massa. 43 Per quanto riguarda lo sviluppo delle scienze sociali americane, Warner ebbe certamente un ruolo di primo piano. Fu lui a mandare Arensberg e Kimball in Irlanda e Goffman in Scozia perchè conducessero degli studi di comunità. Mentre i primi due tornarono per fondare una propria prospettiva su questo tipo di studi [Arensberg 1954, 1961; Arensberg e Kimball 1968], Goffman tornerà dalla Scozia con “un programma di ricerca che lo occuperà per i successivi vent’anni”, e dove l’approccio drammaturgico verrà a saldarsi proprio sull’impianto di Warner di analisi della stratificazione sociale [Winkin 1988: 53]. Warner sarà anche il padrino della celebre monografia Black Metropolis di Cayton e Drake, come lo era stato in precedenza per il lavoro di Whyte. 44 Per formazione, Vidich era un antropologo, mentre Bensman un sociologo ed è in parte per questa ragione, credo, che il libro viene considerato ora appartenente all’una ora all’altra disciplina. 45 La pubblicazione del libro scatenò una vivace polemica sia con gli abitanti e i loro rappresentanti che con la vicina università di Cornell, per la quale lavoravano i due autori [cfr. Vidich e Bensman 1968: cap 14; Marzano 2006]. Quella di Vidich e Bensman non è, in termini stretti, un’etnografia urbana, in fondo l’obiettivo dei due autori era proprio quello di mostrare che non vi era bisogno di muoversi nelle città per trovare gli elementi distintivi di una società complessa. Il punto che rende rilevante questo lavoro nella ricostruzione generale dell’approccio etnografico in città risiede nel fatto che gli studi di comunità, una delle tappe che conducono all’etnografia urbana come la conosciamo attualmente, non hanno solo proposto visione a-storiche e romantiche dell’organizzazione sociale di villaggi rurali. É la società che è complessa e con essa i suoi territori, siano essi metropoli o villaggi. Certo, esistono delle differenze tra questi due spazi. In particolare, pare che siano le città ad offrire il campionario più vasto di attività sociali eterogenee. O sono gli etnografi urbani che hanno voluto a tutti i costi trovarle? Gli studi sulle subculture, dove le comunità si trovano nelle città, siano esse comunità di pratiche, comunità residenziali o altro, mostrano bene questo paradosso. 1.6.3. Lo studio delle subculture La seconda via che è stata intrapresa per rintracciare società folk nel mondo complesso della metropoli americana è stata quella di selezionare aree più circoscritte, come un quartiere, oppure di individuare stili di vita esemplari e condivisi da singoli gruppi sociali. Comportamenti devianti, adattamento di contadini ed immigrati alla vita urbana, nascita di quartieri segregati per gruppi etnici, sviluppo di stili di vita specifici, tutto questo fa parte della vita in città. Al tempo stesso, si può obiettare, la devianza, la segregazione, la distinzione o fenomeni simili non sono necessariamente urbani o dovuti allo sviluppo delle città moderna. Se ne trovano numerosi esempi in contesti non urbani, in periodi storici differenti, e così via. Il punto è che nella città, la maggior parte di questi fenomeni, è considerata un problema. La problematicità di un fenomeno, rispetto alla normalità, è da ritenersi certamente un processo sociale e storico nel quale emergono categorie, i loro produttori e coloro i quali sono poi chiamati a prenderne atto o a “fare qualcosa”. Non esistono in natura i “problemi sociali” come non esistono le “classi sociali” o le diverse categorie che usiamo correntemente. Per ragioni molto diverse gli etnografi urbani hanno partecipato a questo processo di definizione e di riproduzione dei “problemi sociali”. C’è chi ha studiato i problemi sociali con lo scopo di risolverli, ricondurli nel binario della concezione di normalità che riteneva valida, e c’è chi invece ha cercato di studiarli per mostrare forme di resistenza ad un ordine sociale considerato oppressivo e suggerire forme di cambiamento. Nella propria ricostruzione storica, Gerald Suttles definisce questo insieme di studi “etnografia urbana”: Fu a partire dagli anni Sessanta e grazie alla “riscoperta” della povertà che i sociologi furono improvvisamente scossi dall’eterogeneità della vita urbana e dalla fragilità del suo ordine sociale. Vasti e nuovi movimenti di popolazione avevano cambiato la composizione delle nostre città e le avevano spinte verso una disordinata crescita suburbana. La delinquenza cresceva velocemente; quelle che sembravano essere delle politiche sociali benintenzionate (come l’edilizia pubblica) avevano ottenuto risposte incandescenti e un certo numero di movimenti sociali stavano già venendo in superficie. Nonostante le parole fossero diverse, si udiva un certo mormorio sulle “classi pericolose”. C’era spazio per la rivitalizzazione dell’etnografia urbana [1976: 8] Questo insieme di studi si inserisce più direttamente, rispetto agli studi di comunità, nella tradizione di Chicago, tanto per quanto riguarda l’accento posto sui problemi sociali che per quanto riguarda gli oggetti di studio. Come Thrasher studiò le gang a Chicago, così Whyte volse la propria attenzione a forme di aggregazione simile a Boston e così via. Gli hobos di Anderson erano scomparsi negli anni Cinquanta, nella loro accezione iniziale, ma forme di nomadismo urbano furono studiate ugualmente da Spradley negli anni Sessanta [1970]. Il ghetto studiato dal giovane Wirth a Chicago (e in prospettiva comparativa con quello europeo), fu ripreso da Gans [1962], da Suttles [1968] e da Hannerz [1969]. Il mondo della segregazione di colore che era già stato esaminato da Du Bois alla fine dell’Ottocento non scompare certo negli anni Cinquanta e verrà rivisitato tra gli altri da Cayton e Drake [1945] e successivamente da Liebow [1967]. Se esistono perciò numerose filiazioni, tradizioni nello studio di alcuni specifici “problemi sociali”, la consapevolezza che gli studiosi condividono negli anni Cinquanta e Sessanta è molto diversa. Da un lato è metodologica, l’osservazione partecipante comincia ad essere insegnata in quanto tale e il corpus di riflessioni metodologiche cresce sensibilmente, dall’altro è concettuale, grazie alla diffusione di dibattiti, ricerche, insegnamenti dagli anni Trenta in poi. Un giovane dottorando negli anni Cinquanta non è più un pioniere in città, un esploratore del vasto campionario di esperienze urbane attorno a lui. Si parla di “organizzazione sociale”, di “cultura della povertà”, di “etichettamento”, “carriera” e molto altro. Per certi versi saranno anche anni di sperimentazione, di ibridazione di generi, di concorrenza e di conflitto. In generale saranno anni in cui verranno pubblicate delle ricerche rilevanti, durature, innovative e spiazzanti. A questo proposito due autori si segnalano per la loro centralità, tanto all’epoca che nei periodi successivi: Howard Becker ed Erving Goffman. Entrambi fanno parte della stessa coorte di allievi della cosiddetta “seconda scuola di Chicago”46 e svilupperanno delle prospettive autonome nel campo dello studio dei fenomeni devianti e del mantenimento dell’ordine sociale che vengono ancor’oggi studiate. Il motivo per il quale sono qui citati è relativo alla funzione di “ponte” che eserciteranno sulla sociologia qualitativa californiana dagli anni Sessanta in poi. Va notato però che né il primo né il secondo saranno portatori di una riflessione specifica sulla città o la dimensione urbana in generale. Per Becker la città è lo sfondo in cui si muovono i gruppi che vengono etichettati dalla società dominante come “devianti”, mentre per Goffman lo spazio urbano è innanzitutto uno spazio di interazione, al cui centro abbiamo quella complessa dinamica di incontri, situazioni e assunzioni di ruolo che rende questo autore centrale per l’interazionismo ma debole rispetto alla riflessione propriamente urbana. 1.7. I Chicago Irregulars e la fondazione del mito Nella California della fine degli anni Sessanta si ritrovano dunque alcune icone della sociologia americana, come Blumer e Strauss, alcuni loro allievi, amici e colleghi, come Becker o Goffman e la nuova generazione di sociologi qualitativi, come i Lofland. Differenze epistemologiche, generazionali, biografiche si saldano in un progetto che è quello di istituzionalizzare non già una prospettiva ma un’immagine di essa. Si è infatti detto che è molto complesso trovare dei forti elementi comuni alla ricerca empirica qualitativa che inizia con gli anni Venti a Chicago e arriva in California negli anni Sessanta. Sono diverse le prospettive, i concetti, le tecniche, gli studiosi. Al tempo stesso però alcune cerchie universitarie condividono l’idea di avere un passato comune, degli antenati, un mito d’origine e la necessità di dare continuità a una tradizione “inventata”. L’occasione simbolica sarà l’incontro tra due “antenati” come Herbert Blumer ed Everett Hughes nel 1969. Questo incontro, che possiamo conoscere grazie alla trascrizione pubblicata nel 1980 e curata da Lyn Lofland, non aggiungerà molto alla storia che già abbiamo tracciato nelle pagine precedenti. L’elemento semmai interessante è che nonostante Blumer e Hughes fossero chiamati a giocare le parti delle icone del passato, non si limiteranno a giocare questo ruolo. Al di là infatti dei divertenti aneddoti su Park che colpisce in faccia con un gessetto un gesuita che si era addormentato durante le sue lezioni o delle battute sul licenziamento di Thomas a causa di una relazione adulterina, Hughes troverà il tempo di smarcarsi dal ruolo di erede di Chicago dichiarando di non essere interessato a preservare quella tradizione, mentre Blumer di fatto farà il contrario assumendo un atteggiamento quasi nostalgico [cfr. Chapoulie 1996: 30-31]. L’importanza dell’incontro sarà però un’altra: quella di iniziare a saldare la ricostruzione del passato di Chicago (senza distinguere 46 Becker ottenne il dottorato nel 1951, mentre Goffman nel 1953. tra “prima” e “seconda” scuola) con l’espansione di lavori etnografici che, iniziata già negli anni Sessanta sulla spinta degli studi sulle subculture, continua dopo il Sessantotto. La rivista Urban Life and Culture avrà un ruolo centrale in questo processo. Il primo numero uscirà nell’aprile del 1972 con una editorial introduction a cura di John Lofland. In essa verranno chiariti gli elementi distintivi dell’approccio che intende esaltare: Innanzitutto e ovviamente, i lavori pubblicati hanno a che fare con aspetti di società urbane. Secondo, i lavori proposti cercano di offrire descrizioni qualitative della vita sociale che siano in primo piano e dettagliate. In terza battuta, la ricerca si impegna ad essere analitica –individuando modelli e regolarità nel contesto di descrizione ravvicinata delle vite e culture urbane [1972: 3]. Nel corso dei trent’anni successivi, la rivista ospiterà i principali contributi etnografici americani nei campi della devianza, educazione, famiglia, genere, medicina, organizzazioni, politica, povertà, razza, religione, lavoro e città. Tra queste aree vi sono però delle forti discrepanze in termini di rappresentazione. Per esempio, tra il 1986 e il 1994, circa il 20% dei lavori proposti alla rivista appartenevano all’area “criminali/devianti/delinquenti” [Adler e Adler 1995: 17]. Dei lavori strettamente empirici è questa l’area che è rimasta storicamente dominante, e il fenomeno era tale sia all’inizio della rivista che successivamente [cfr. Lofland J. 1987: 30]. Perché allora l’accento “urbano” se poi in realtà la maggior parte dei contributi che venivano proposti e poi pubblicati erano legati a questioni sulla marginalità e devianza? Perché non chiamare la rivista in altra maniera47? L’idea alla base di questo prodotto editoriale era davvero “urbana” fin dall’inizio. Come ricorda John Lofland egli aveva proposto agli editors della casa editrice Sage che la rivista si chiamasse proprio “Journal of Urban Ethnography” ma era poi stata preferita la dicitura “Urban Life and Culture” per timore che i potenziali lettori identificassero la parola “ethnography” con “ethnology” e pensassero che il focus fosse sugli “ethnic studies”48 [Lofland John 1987: 26]. Quale concezione di “urbano” condivideva la rivista? Lofland a questo proposito è per molti versi ambiguo: analizzando retrospettivamente la contraddizione tra un accento espresso nel titolo ma mai veramente sviluppato nella rivista, da una parte ammette di avere avuto una concezione di “urbano” così “ampia da risultare vuota” ma dall’altra pubblicò una lettera che egli stesso aveva scritto agli advisory editors e che era tutto salvo che ambigua a proposito: Sono incline a interpretare il termine “urbano” nei termini di “società urbana”. Dal momento che quella americana è una società urbana, penso dovremmo essere aperti anche nei confronti di etnografie ben fatte di piccole città. In aggiunta, penso dovremmo essere aperti verso etnografie urbane condotte in altri paesi e di ricostruzioni storiche della vita quotidiana nelle città preindustriali. E, benchè lavori a carattere empirico debbano predominare, non andrebbero esclusi lavori a carattere teoretico e metodologico [cit. in Lofland John1987: 27]. Ad una disamina attenta dei lavori pubblicati su questa rivista non sfugge che quasi nulla di tutto ciò accadde49. Se la volontà era quella di rendere attuali i lavori di Chicago, scompaiono sia l’accetto multimethod che la prospettiva ecologica alla base della prospettiva urbana di Park e 47 Come infatti accadrà successivamente: il concetto di “cultura” fu eliminato solo tre anni dopo, con John Irwin, e da Urban Life si passò successivamente, nel 1987, con la guida di Patricia e Peter Adler, all’attuale Journal of Contemporary Ethnography. 48 Pare che l’unico che non fu convinto della trasformazione del nome fu Goffman il quale scrisse in una lettera a John Lofland che “esiste qualcosa come la ‘vita urbana’, ma a livello tecnico saresti mal messo a sostenere l’esistenza della ‘cultura urbana’. E indipendentemente da chi sostiene la rivista o da quello che pensano, non credo dovresti avere un titolo tecnicamente difettoso” [cit. in Lofland John 1987: 26]. 49 “Curiosamente” se si deve cercare una prospettiva coerentemente “urbana” nell’etnografia americana, la si ritrova con più facilità negli studi condotti da antropologi, ad esempio nella rivista “Urban Anthropology” e anche nelle numerose monografie che dagli anni Sessanta in poi hanno segnato il ritorno “in patria” degli antropologi americani [cfr. Sanjek 1990]. allievi. Come già sostenuto, è un mito su Chicago e non già una ripresa della prospettiva di Chicago che è all’opera [cfr. Platt 1995: 97-100]. Si prenda ad esempio l’interpretazione data da Lyn Lofland alla Chicago Legacy [1983]. Ammettendo che “per i sociologi, la “scuola di Chicago” è una sorta di meccanismo proiettivo”, Lyn Lofland offre la sua di “proiezione” sostenendo ad esempio che in questa tradizione vi fosse “l’assenza virtuale di una specifica sociologia urbana” dal momento che non vi si ritrova il sufficiente interesse per le dimensioni pubbliche, impersonali e meno intime della vita urbana [1983: 505]. Questa lettura proiettiva si basa però appunto su una predeterminazione soggettiva di quelli che dovrebbero essere i caratteri sia della città che dell’insieme di teorie che dovrebbe descriverla, cioè la sociologia urbana. Le interpretazioni sul “lascito” di Chicago sono molte e le appropriazioni altrettante, come la storia dell’etnografia urbana che ho cercato di abbozzare, testimonia [cfr. Abbott 1997]. La domanda che a mio parere rimane ancora senza una risposta è però circa la natura dell’etnografia urbana. Che cos’è, alla fine? Una tradizione empirica senza teoria? Un’etichetta di comodo? Un distinto campo degli studi urbani? Di quelli sociologici? 1.8. Alla ricerca dell’etnografia urbana Come si è scritto all’inizio vi è una forte discrepanza tra l’offerta di etnografie urbane e quella di contenitori analitici che le situino in rapporto sia alla sociologia urbana che alla sociologia in generale (per non parlare delle scienze sociali e della differenza tra etnografie urbane sociologiche e antropologiche). In aggiunta a ciò si è assistito a un progressivo spostamento di interesse dei lavori etnografici condotti nei setting urbani verso lo studio di fenomeni devianti o marginali, come la vasta letteratura sulle subculture mostra da oltre quarant’anni. Manca perciò una definizione per l’etichetta “etnografia urbana”, il cui contenuto è poi sempre meno urbano e sempre più “qualcos’altro”. In uno dei pochi contributi teorici a noi disponibili, Gerald Suttles, etnografo urbano di prim’ordine50, tenta a suo modo di uscire da questa impasse. Rifacendosi all’idea di Shils secondo cui nelle nostre società il “centro” è composto da quelle istituzioni che controllano valori, credenze e concezioni astratte, mentre la “periferia” è definita dalle attività della maggior parte delle persone che, a loro volta, condividono solo in parte i valori del centro, Suttles pensa tutto questo in termini urbani e di politiche della ricerca: Negli studi su scala ridotta e sui gruppi cui può accedere, l’etnografo urbano non può sperare di cogliere la totale complessità che Shils ha tentato di illustrare. Ciononostante, Shils ci offre un punto di partenza che sembra particolarmente adeguato per rendere i resoconti degli etnografi urbani non solo dei case studies. Le zone arretrate dei nostri centri urbani possono perciò trasformarsi da oggetti dettagliatamente analizzati “nei loro stessi termini” in occasioni in cui esaminare come i loro membri modellano e rimodellano i significati culturali che arrivano loro da una grande distanza [1976: 16]. A trent’anni di distanza da questa proposta, osserviamo moltissimi studi sulle “periferie del centro” e pochi sui centri veri e propri. Non solo. Rari sono gli studi etnografici che facciamo del centro e delle periferie delle nostre città un tutto, contribuendo così all’elaborazione di una sociologia urbana come era nella mente e nelle monografie dei primi studiosi di Chicago. Nella maggior parte dei casi, si assiste ancora a un diffuso nosing around. 50 Autore di uno dei best-seller del settore, The Social Order of the Slum, Suttles fu chiamato nell’Università di Chicago da Morris Janowitz, negli anni Sessanta per riprendere in mano l’nisegnamento del lavoro sul campo, lasciato libero dalla dipartita di Hughes per Brandeis. Bibliografia: Abbott, Andrew 1997, Of Time and Space: The Contemporary Relevance of the Chicago School, in Social Forces, 75(4), pp. 1149-1182. 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