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Transcript

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Introduzione
Ho avuto più di novecento partner. Non ho avuto rapporti sessuali con tutti, ma con la maggior parte. Quando
snocciolo questo dato durante le mie conferenze potete
immaginare la reazione degli ascoltatori. Spesso chiedo
loro che parola gli viene in mente nel sentire questa cifra.
Ecco alcune delle risposte più frequenti: puttana, sgualdrina, zoccola. Be’ io non lo sono, anche se sicuramente
qualcuno non sarà d’accordo. Sono una partner surrogata. Di questi tempi molti credono che il mio lavoro consista nel prestare l’utero alle coppie che non possono avere
figli e nel portare a termine una gravidanza per conto terzi. Quando spiego che invece consiste nell’applicazione di
determinati metodi pratici per aiutare i pazienti a superare alcuni problemi sessuali, la confusione rimane. Non è
una forma di prostituzione?, si chiedono, talvolta a voce
alta.
Diversamente dalla prostituzione, che è uno dei mestieri più antichi del mondo, la terapia con un partner surrogato è uno dei più recenti. I pazienti vengono mandati da
me da colleghi terapeuti. Possono soffrire di disfunzione
erettile, eiaculazione precoce, ansia riguardo alla propria
sessualità, possono mancare in parte o del tutto di espe11
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rienza, avere difficoltà di comunicazione o scarsa autostima. Alcuni soffrono di più problemi contemporaneamente. Praticamente tutti gli uomini (e a volte le donne) che
incontro desiderano un rapporto affettivo e non soltanto
una relazione sessuale. Il mio lavoro consiste nel fornire
loro gli strumenti essenziali per costruire una sana relazione amorosa.
Da partner surrogata ci sono una serie di esercizi che
adotto con i pazienti per aiutarli a risolvere i loro problemi e a raggiungere i loro obiettivi. Gran parte del tempo
lo dedico a spiegare loro l’anatomia e a educarli sulla sessualità. Lavoro a stretto contatto con la psicoterapeuta di
riferimento, confrontandomi con lui o con lei dopo ogni
seduta per discutere i progressi del paziente. Di regola
faccio sei o otto sedute per ognuno. Uno dei pregiudizi
più diffusi sul mio lavoro riguarda il numero di rapporti
sessuali che occorrono durante queste sedute. È vero che
ho rapporti con molti dei miei pazienti, ma solo dopo aver
svolto una serie di esercizi concepiti per accrescere la consapevolezza del proprio corpo, curare i problemi di autostima, raggiungere uno stato di relax e perfezionare la capacità comunicativa. Il sesso arriva solitamente nelle ultime sedute. È il caso di notare che sono una partner surrogata, non una surrogata del sesso. Il mio obiettivo è insegnare al paziente come dovrebbe essere una sana relazione amorosa, che è molto più complicato di un rapporto
sessuale.
Ho pazienti di ogni razza e ceto sociale. Il più giovane
con cui ho lavorato aveva diciotto anni e il più anziano ottantanove. Sono amministratori delegati, camionisti, avvocati e falegnami. Alcuni sono dei fusti, altri hanno un
aspetto comune. Ho lavorato con un ultrasettantenne vergine, con uno studente che soffriva di eiaculazione preco12
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ce e con uomini di tutte le età con difficoltà di comunicazione a livello sessuale.
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Ho cominciato questo lavoro nel 1973 e nel corso del mio
cammino ci sono state la rivoluzione sessuale della nostra
società e la mia. Sono cresciuta negli anni Cinquanta, un
periodo in cui l’educazione sessuale era a dir poco carente. Man mano ho scoperto che gran parte di ciò che mi era
stato insegnato sul sesso era sbagliato, o distorto. Imparavo ai giardinetti, in chiesa, dalla tv. I miei genitori quasi
non riuscivano a pronunciare la parola « sesso », figuriamoci a spiegarmi cosa fosse. Purtroppo a distanza di mezzo secolo molti genitori ancora non sono in grado di dare
ai figli un’educazione sessuale attendibile e neutra. Penso
spesso a quanto sarebbero più svegli, più sani e più felici i
nostri figli se i genitori riuscissero a parlare di sesso con
loro in modo onesto, appropriato e adatto alla loro età.
A dispetto di quanto si sperava ai tempi della rivoluzione sessuale, troppi hanno ancora le idee confuse riguardo
al sesso e al proprio corpo. La crociata contro l’educazione sessuale condotta da coloro che vorrebbero riportare
indietro le lancette dell’orologio e il bombardamento di
informazioni distorte che riceviamo ininterrottamente dai
media non fanno che aumentare la confusione. Sul sesso si
scherza, ci si scaglia contro, si condanna chi ne fa troppo
e in modo inappropriato. Anche se non sono la prima a
farlo notare, si usa il sesso per vendere tutto, dai chewing
gum ai SUV. Eppure non siamo in grado di sostenere una
conversazione aperta, acritica e matura sul sesso.
È da molto tempo che voglio raccontare la mia storia, e
con gli anni la determinazione è andata crescendo. Se c’è
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una cosa che non ho perduto è la fiducia nel potere delle
storie di ispirare e stimolare. La mia vita è per molti versi
paradigmatica. Sono cresciuta in un periodo in cui imperavano visioni dogmatiche della sessualità imposte da fonti religiose e laiche. Quando mi guardo indietro mi meraviglio di come riuscissero a rivestire di vergogna e di colpa
uno degli impulsi più naturali e sani dell’uomo e di quanto siano riuscite a influenzare la mia gioventù. Per fortuna
sono nata durante il boom demografico. Avevo vent’anni
negli anni Sessanta. I venti di cambiamento sociale del
tempo mi hanno dato la spinta per mettere in discussione
quasi tutto ciò che mi era stato insegnato. A un attento riesame, molti dei principi e delle credenze che mi avevano
inculcato da bambina non sono sopravvissuti. Questo illuminante percorso è culminato nel mio mestiere di surrogata.
Oltre alla mia storia racconto anche quelle di alcuni pazienti perché credo abbiano molto da insegnare sulla sessualità e sui problemi che possono complicarla. Le loro
esperienze offrono un punto di vista unico sulle cause di
determinati problemi sessuali e su come risolverli.
Se non è già ovvio, devo confessare che questo libro ha
una missione. Spero che almeno in misura minima riesca a
incoraggiare una discussione aperta e onesta sulla sessualità. Spero anche che ispirerà i lettori ad abbracciare la loro sessualità a qualsiasi età. Tutti hanno diritto a una vita
sessuale soddisfacente e con la mia esperienza posso dire
che spesso la si ottiene grazie alla capacità di comunicare,
alla disponibilità a esplorare e soprattutto al rispetto di se
stessi. Il mio obiettivo è aiutare le persone ad averli tutti e
tre.
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Sui nomi e altri particolari
Ho attinto alla mia esperienza professionale in tutto il libro. Ho cambiato i nomi, le caratteristiche fisiche e i modi
di fare per proteggere la privacy dei miei pazienti. Molte
delle storie che racconto risalgono a parecchi anni fa e per
questo motivo ho dovuto ricostruire i dialoghi e alcuni
dettagli che erano sfuggiti alla memoria. In nome della
privacy ho altresì assegnato degli pseudonimi ad amici, familiari e conoscenti.
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1.
Respiro affannoso: Mark
Mark O’Brien aprì leggermente la bocca, producendo un
piccolo singhiozzo. Afferrai il tubo dal respiratore portatile che la sua assistente aveva fissato alla testiera del letto.
Spuntava dal piccolo macchinario come un viticcio di plastica. Come feci per avvicinarglielo alla bocca gli sfiorai la
guancia con un seno e sorridemmo entrambi. Mark strinse le labbra intorno al boccaglio piatto del tubo e sentimmo il sibilo rassicurante dell’aria che gli riempiva i polmoni. Chiuse gli occhi e si godette l’ossigeno. Noi lo diamo
per scontato. Lui no. Il respiratore lampeggiò ed emise un
forte ticchettio. Mark allentò le labbra e aprì gli occhi. Gli
tolsi delicatamente il tubo di bocca e lo posai sul cuscino
accanto allo spicchio di sudore che gli circondava la testa.
« Come ti senti? » gli domandai. « Bene, Cheryl. Non è
stato così terribile come pensavo, o forse sì, ma sono contento di averlo fatto. » Poi mi fece il suo sorriso dolce e
fanciullesco.
Era il 1986 e facevo la partner surrogata da tredici anni.
Mi ero già occupata di invalidi, ma di nessuno nelle sue
condizioni. A trentasei anni, Mark aveva trascorso quasi
tutta la vita in un polmone artificiale. Aveva contratto la
poliomielite a sei anni e da allora poteva respirare autono17
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mamente soltanto per brevi intervalli. Senza il respiratore
non avrebbe potuto passare un paio d’ore con me nell’ampia casa di campagna di Berkeley che gli avevano prestato
per il nostro primo incontro.
Il polmone d’acciaio era essenzialmente un respiratore
artificiale. Era costituito da un cilindro stagno con levette
e quadranti che conteneva tutto il corpo lasciando fuori
solo la testa e funzionava creando un vuoto parziale ogni
tot secondi che gli sollevava il petto in modo che i polmoni potessero riempirsi di ossigeno. Mark ci viveva dentro e
dal momento che ci dormiva, anche, non possedeva un
letto. Per fortuna aveva un’amica compiacente disposta a
prestargli il suo.
A parte muovere gli occhi, la bocca e alcune dita delle
mani e dei piedi, per il resto Mark era completamente paralizzato. La poliomielite gli aveva anche deformato il corpo; il fianco sinistro era piegato verso destra e gli teneva le
gambe attaccate fra loro al punto che sembravano un arto
unico. Aveva testa e collo bloccati verso destra quindi
guardava sempre di lato. Passava la vita sdraiato sulla
schiena, tranne quando gli assistenti lo sollevavano per lavarlo o per vestirlo o per farlo visitare da un medico.
Come accadeva con tutti i miei pazienti, era stata la terapeuta di Mark a mandarmi da lui. E come tutti gli altri
pazienti, anche lui alla prima seduta era nervoso. « Questo
è un gran giorno per lui », mi disse una delle sue assistenti
quella mattina appena giunta alla casa di campagna. L’amica che gliel’aveva prestata era disabile, quindi c’era una
rampa d’accesso all’ingresso e gli armadietti della cucina e
le maniglie delle porte erano tutti più in basso del normale.
Da un soggiorno con scaffali bassi pieni di libri a ogni
parete, Vera mi condusse in una camera da letto in fondo
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a un corridoio con appese foto di paesaggi in bianco e nero. Bussò alla porta e disse: « Mark, è arrivata Cheryl. Entriamo ». Poi aprì lentamente la porta. Mi fece segno di
andare avanti. Mark era steso su un ampio letto a baldacchino con una coperta di lana azzurra che lo copriva fino
al mento. La sua terapeuta, Sondra, mi aveva detto che era
minuto, un metro e quaranta per trentadue chili appena,
ma rimasi di stucco nel rendermi conto di quanto fosse effettivamente piccolo. La coperta si sollevava appena dal
letto. « Ciao Mark », dissi. « Piacere di conoscerti. » « Piacere mio, Cheryl », rispose lui con la sua voce gorgogliante
e gli occhi blu fiordaliso rivolti verso il basso.
« Le mostro come funziona il respiratore così poi vi lascio soli », disse Vera. Indicò il piccolo interruttore che
avrei dovuto azionare per attivare il flusso di ossigeno e
mise il tubo di gomma in bocca a Mark. « Capito? » Annuii. Mark prese la sua razione d’aria e allentò le labbra.
« Le farà capire lui quando ha finito. » Gli tolse il tubo di
bocca e disse: « Ci vediamo dopo ».
Dal modo in cui aveva pronunciato il mio nome capii
che Mark e io avevamo qualcosa in comune. Eravamo entrambi originari del New England. Gli dissi che ero di Salem, appena fuori Boston, dove c’era una grande comunità franco-canadese. Il mio nome da nubile era Theriault, e
avevo fatto le elementari in una scuola cattolica irlandese.
« Sei cattolica? » mi chiese.
« Lo ero », risposi con un sorriso.
« Io lo sono ancora », disse lui. « Devo credere in Dio,
almeno ho qualcuno con cui prendermela. »
Risi e a Mark s’illuminarono gli occhi.
Mi tolsi la giacca di cui in quella giornata calda di metà
marzo non ci sarebbe neppure stato bisogno, presi una sedia in fondo alla stanza e mi sedetti accanto al letto. « Par19
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liamo un momento del lavoro che faremo insieme », dissi,
neanche lo sapessi di preciso. Come i terapeuti, anche i
partner surrogati hanno un protocollo e una serie di esercizi per guidare i pazienti in un percorso di cambiamento
su loro stessi e nella loro vita, ma ovviamente avrei dovuto
adattare questi esercizi a Mark, e non ero sicurissima di
come farlo. « Seguiremo i tuoi ritmi. Quello che mi preme
oggi è sapere qualcosa in più di te e, se sei pronto, cominciare con qualche esercizio di consapevolezza del nostro
corpo ».
Lo invitai a parlarmi della sua famiglia e della sua infanzia. Era nato a Boston nel quartiere di Dorchester e a sedici anni si era trasferito con la famiglia a Sacramento, in
California. Era il primo di quattro figli e aveva ancora dei
ricordi della sua vita prima della malattia. Ricordava che
si svegliava sempre con la voglia di uscire a giocare. Adorava stare fuori con i bambini del quartiere.
Si era ammalato nel 1955, a soli sei anni, e tutta la famiglia si era concentrata su di lui, specialmente sua madre,
che gli si era dedicata completamente. Si era occupata di
lui con pazienza e tenerezza per tutti gli anni della sua gioventù.
Qualche anno dopo essersi ammalato, sua sorella Karen era morta di polmonite e da quel giorno conviveva
con un immeritato senso di colpa. Era convinto che i suoi
genitori, specie la madre, fossero così presi da lui da non
accorgersi che Karen aveva bisogno di aiuto finché non
era stato troppo tardi. Benché non ci fosse motivo per credere che fosse vero, Mark si sentiva ancora in colpa. E c’erano altre cose che lo facevano sentire così.
Gli capitava di svegliarsi con i genitali sporchi di sperma. Ricordava ancora il fremito di disgusto sul volto della
madre una mattina mentre lo puliva. Aveva circa dodici
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anni. Riusciva a eccitarsi accavallando ulteriormente la
gamba sinistra sulla destra in modo che il pene rimanesse
schiacciato tra le cosce, e talvolta chiedeva ai suoi assistenti di mettergli le gambe in quel modo. L’aveva scoperto
per caso quando l’avevano lasciato un attimo in quella posizione mentre gli facevano il bagno.
Sebbene Mark non potesse definirsi cattolico nel senso
tradizionale del termine, era convinto che la vergogna che
ancora provava nei confronti della sessualità derivasse
dall’educazione cattolica ricevuta. Come il senso di colpa
per la morte della sorella, sarà anche stato irrazionale, ma
a lui sembrava reale come l’imponente polmone d’acciaio
in cui passava gran parte delle sue giornate.
I suoi genitori non gli avevano mai parlato di sesso e lo
stesso valeva per la sfilza di medici che l’avevano curato
negli anni. Come succedeva a molti invalidi, la sessualità
di Mark non veniva neppure presa in considerazione, come se l’invalidità cancellasse il bisogno di contatto e di intimità.
Nonostante i suoi impedimenti fisici, Mark aveva ottenuto una laurea in inglese alla University of California di
Berkeley, faceva il giornalista e scriveva poesie che erano
state pubblicate. Scriveva usando un bastoncino da tenere
con la bocca e un programma di videoscrittura. Aveva anche cominciato un master di giornalismo, poi gli effetti
della sindrome post-polio, che attacca i muscoli causando
un affaticamento debilitante, l’avevano costretto a rinunciare. Abitava vicino al campus e andava a scuola con una
sedia a rotelle reclinabile che somigliava a una barella a
motore. Ci stava sdraiato o col busto leggermente alzato;
la sua spina dorsale era troppo deformata per potergli
permettere di stare seduto su una normale sedia a rotelle.
Mark si era sempre sentito solo e diverso dagli altri. La
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