Lia Paolucci intervista la fotografa americana Margaret
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Lia Paolucci intervista la fotografa americana Margaret
Lia Paolucci intervista la fotografa americana Margaret Bourke-White Che genere di infanzia ha avuto? Sono sempre stata legata al ricordo dei miei genitori, soprattutto alla figura di mia madre. Che dire, nacqui come era stato richiesto. Nel giorno in cui era stato deciso che accadesse. L’invito a nascere è un qualcosa di cui mia madre si raccomandò sempre di essere fiera. La volontarietà, mai negata, dei miei genitori di volermi al mondo, mi accompagnò nei primi anni della mia infanzia. Ricordo con piacere casa nostra pervasa da un’aria di attesa. Ogni possibile specie di insetto trovava spazio fra le mura della nostra abitazione. I miei genitori, appassionati di storia naturale, ci trasmisero questa passione portandomi negli anni a condividerla con quella per la fotografia. Con la stessa passione con cui affrontai, in seguito, lo sviluppo e la stampa dei miei scatti, accoglievo con gioia lo schiudersi delle uova di larva, la muta nei serpenti e la trasformazione di qualche cariatide in farfalla. I miei genitori s’impegnarono a farci crescere senza provare timore per l’esistenza in generale. La mamma ci voleva creature capaci di non provar paura nè del buio nè della solitudine. Solitudine che negli anni a venire finii per amare. Dai miei genitori acquisii anche un certo numero di ritratti fotografici, che mi testimoniarono la grande passione di mio padre per quest’arte anche se prima della sua morte non avevo mai preso in mano una macchina fotografica. Mi testimoniarono l’amore per la verità, la consapevolezza dei propri comportamenti ed il senso di soddisfazione che si prova facendo bene il proprio lavoro. Come si appassionò alla fotografia, da cosa nacque questo interesse? Gli anni dell’infanzia volarono via ritrovandomi sposata a diciannove anni. Possedevo un ricco bagaglio di nozioni su insetti e serpenti, ma una scarsa conoscenza della natura umana. Divorziai dopo 2 anni. Tornai all’università con al collo una 3 ¼ x 4 ¼ Ica Reflex, imitazione della Graflex. Con un percorso di studi abbastanza articolato, un divorzio alle spalle e poche risorse economiche, fui abbastanza pazza da considerare la fotografia un mezzo attraverso il quale potevo “tirare a campare”. Presi accordi con un fotografo di Ithaca, Henry R. Head, nella cui camera oscura potevo sviluppare e stampare i miei scatti. Grazie al nostro coraggio riuscimmo entrambi a guadagnare qualcosa dall’accordo fatto, ma il mio modo di vedere attraverso la lente cambiò grazie a Ralph Steiner che mi fece capire che le fotografie non dovevano imitare i quadri. Le mie foto del campus ebbero successo fra gli ex alunni, prevalentemente architetti. Mi presentai nei loro studi per avere un parere sulle mie foto e quel loro gradimento mi spronò ad andare avanti. I Flats di Cleveland, dove ritornai con gioia, mi accolsero pronti per essere immortalati anche se la fatica quotidiana nel percorrere le strade della città per presentare i miei scatti spesso si faceva sentire. Lo studio di due ex alunni della Cornell mi affidò un incarico. A questo ne seguirono altri, sempre dedicati allo stesso argomento: l’architettura. Fu in questa città che ebbi modo di conoscere Alfred Hall Bemis, proprietario di un negozio che vendeva apparecchiature fotografiche. Bemis mi ripeteva sovente “ Senti ragazzina, ci sono milioni di bravi tecnici, ma pochi sono i fotografi e questa è la verità”, con la nuova apparecchiatura fornitami da Beme, come presi a chiamarlo, mi avventurai verso i Flats e verso quelle che divennero la mia nuova passione: le acciaierie. Elroy Kulas, delle acciaierie Otis, mi chiese cosa di questi “sforna lingotti d’acciaio” mi attraesse, io gli risposi senza esitazione nella voce che “l’industria era lo specchio della nostra epoca, le acciaierie erano il cuore dell’industria nazionale, le più belle e le più drammatiche tra le fabbriche: ecco perché volevo fotografare l’acciaio!” Kulas si convinse e mi diede il nulla osta per i miei scatti. Dopo 5 mesi, al suo ritorno dall’Europa, Kulas apprezzò moltissimo le immagini realizzate e si offri anche di comperarle. Da tempo avevo adottato la filosofia che “le cose o si fanno gratis, si regalano oppure si pagano quel che veramente valgono, senza vie di mezzo”. Pagò la cifra che gli proposi senza battere ciglio! Come arrivò a New York e a lavorare per Fortune? A Cleveland ormai ero di casa nelle grosse industrie e nelle acciaierie. Mi chiamavano per fotografarle, realizzare cataloghi e brochure, ma un giorno di fine estate del 1929 fui sorpresa da un telegramma proveniente da New York. “Abbiamo appena visto le foto delle acciaierie. Venga a New York a nostre spese la prossima settimana”. Era firmato Henry R. Luce e sotto la sua firma Time, il settimanale delle notizie. A New York mi proposero di collaborare ad un progetto dove la fotografia non sarebbe stata una mera immagine messa a caso accanto all’articolo, ma scattata e definita con cura. La rivista a cui stavano lavorando era Fortune, il primo numero vide la luce nel febbraio del 1930. In quegli anni a ridosso della Grande Depressione che colpì l’America, i fotografi ebbero infinite possibilità di lavoro. Ritraevamo un mondo in veloce mutamento, i suoi cambiamenti sostanziali. Documentavamo la costruzione dei grattacieli a New York mentre si affermava l’utilizzo professionale della fotografia nella pubblicità. “ Ritengo che la foto a colori sia un mezzo del tutto diverso dal bianco e nero. Il colore va utilizzato tenendo a mente le sue possibilità creative, e cosi come un film è diverso da un fotogramma, la fotografia a colori non è mai la versione sgargiante di una foto in bianco e nero”. La mia vita lavorativa, fra gli incarichi di Fortune e la nascente pubblicità americana tenne conto di questa sostanziale differenza. Ma il mondo non erano gli Stati Uniti. C’era anche la Russia, la conobbi come la “Terra del Dopodomani”, ossia ripassi fra due giorni. Ottenere un’autorizzazione per scattare foto era un impresa che si concludeva sempre con un: “ripassi tra due giorni”. Ormai lavoravo in base a questo schema, il primo giorno fotografavo il più possibile, mentre il secondo lo passavo al Commissariato per ottenere altri permessi. Ma un giorno il Dopodomani giunse cosi come il mio tour dei poli industriali. Potei vedere la vera Russia solo l’anno dopo quando vi ritornai per Il New York Times Magazine. La meraviglia provocata dagli automatismi del ciclo industriale e dalle macchine era scomparso e non solo presso la classe operaia, ma anche nel balletto russo! Attraverso la “piatiletka”, la pianificazione quinquennale, l’ Urss voleva fare “guerra” agli Stati Uniti. Nella sua vita di fotografa lei ha dato vita anche a dei libri, in che modo è iniziato questo cammino parallelo alla fotografia? Molto presto tutta questa faccenda, quella dei servizi fotografici per Fortune, e il servizio sulle industrie in Russia, per me passò in secondo piano, quando la vita mi sorprese con una morte. Mia madre. Dovevo portarla con me per un servizio, per la Eastern Airlines. Morì due giorni prima l’inizio del servizio, per un infarto. Le invidiai, quasi, quella sua morte, non disperata nè consapevole di cosa stesse accadendo. Se ne era andata con la felicità di affrontare una nuova avventura, fosse anche solo il volo sulla città di New York, verso un nuovo futuro, un orizzonte da raggiungere. Ed è allora che mi accorsi di non essere felice. Le foto dell’industria americana, i paesaggi devastati dalla grande siccità che colpì alcuni stati dell’America, non mi bastavano. Mi resi conto che le persone, i miei concittadini che avevo fino allora trascurato assunsero un ruolo importante. Volevo farne un libro. Ma non ero una scrittrice. Ci pensò il caso, come in altre vicende della mia vita, ad aiutarmi. Dopo un paio di settimane, venni a sapere che c’era un scrittore che voleva realizzare un libro, ed era alla ricerca di un fotografo, ricettivo e dalla mente aperta e interessato al suo progetto: la gente americana, la gente comune. Il suo nome era Erskine Caldwell. La data per l’inizio del progetto fu fissata per l’ 11 giugno del 1936. Recarsi nel profondo sud per percorrere dal vero “la via del tabacco”, titolo del libro di Caldwell da cui venne tratto uno spettacolo teatrale, molto seguito in quell’anno. Avevo 5 mesi per concludere ogni progetto in cantiere e andare in Sud America per un servizio sul caffè, prima dell’inizio del progetto. Riuscii a parlare con Ralph Ingersoll, nuovo direttore di Fortune dopo il suicidio di Lloyd-Smith, che stava stavo meditando di lanciare una nuova rivista, Life. La rivista non nacque da un processo creativo, cercava semplicemente nuovi proprietari. A lei furono destinate tutti i macchinari del mio studio, dai taglierini, agli ingranditori, le taniche, i lavandini e gli essiccatori. Ereditò anche i miei assistenti. Compreso la mia segretaria, in grado di scorgere nei provini, attraverso la lente d’ingrandimento, “quel punto segreto in cui una storia incontra un’immagine”. Il viaggio nel profondo sud con Caldwell si rivelò interessante sotto ogni punto di vista. Aveva un approccio particolare nei confronti delle persone che incontravamo, molto diretto ma rispettoso dei silenzi altrui, mentre lui stabiliva un contatto, anche silente con i contadini, io ne approfittavo per osservare, guardarmi attorno. Solo quando era necessario scattavo delle foto e mi era permesso entrare nelle vecchie case. Il libro venne intitolato “You Have seen their Faces”. Durante quel viaggio Erskine ed io ci innamorammo. Lei assistette anche alla nascita di “Life”, che divenne per lei compagna di un lungo viaggio. “ Il primo numero di una rivista non è la rivista. E’ solo l’inizio”. Questa introduzione sancì l’uscita del primo numero di Life, il 23 novembre del 1936. Life, all’epoca, era un rivista giovane e informale, niente ci faceva paura, nessun articolo sembrava cosi lontano da non poter essere pubblicato, eravamo solo 4 fotografi a coprire tutti i servizi e spesso le nostre strade si incrociavano, in questo modo conobbi Alfred Eisenstaedt, e quel suo particolare dono: la capacità di toccare il cuore delle persone che fotografava e la sua straordinaria bravura tecnica nel tirar fuori il meglio dalla piccole macchine portatili, un assoluta novità per quegli anni. Conobbi anche Tom McAvoy, e Peter Stackpole. La parola “rispetto” in Life veniva applicata quotidianamente, potevamo sceglierci i servizi e godevamo della massima libertà, un modo di lavorare che ben combaciava con le peculiarità di ciascuno di noi. La mia era realizzare servizi alla “Bourke-White” dell’ora o mai più, dove potessi ancorare una storia ad un’immagine rubata al secondo. La mia storia con Erskine continuava e agli amici fotografi non sapevamo più che scusa inventarci quando ci veniva domandato: “ma il matrimonio?”. Stavamo raccogliendo materiale per il secondo libro: North of the Danube, e mi chiedevo perché mai avrei dovuto legarmi ad un uomo tanto affascinante e pieno di talento, ma tanto difficile? Non accettava il mio rapporto con Life, ne era geloso. I suoi continui sbalzi d’umore, i profondi silenzi che terminavano sovente con scoppi d’ira, mi snervavano. La sua insicurezza palese, rischiava di diventare un muro che lo poteva isolare dal resto del mondo. Provai anche a lasciarlo. Ma non era il momento. Nonostante tutto questo pensai che il matrimonio poteva rappresentare una soluzione a questo nostro rapporto malsano. Sull’aereo che ci portava in Nevada, stilai una lista di motivi per cui potevamo sposarci, una serie di punti che rappresentavano dei paletti comportamentali, necessari alla riuscita del nostro rapporto. Erskine firmò quel pezzo di carta. Atterrammo a Reno, ma nessuno dei due voleva sposarsi li, allora cercammo un'altra città Silver City, conosciuta come una cittadina selvaggia e poco abitata. Vi giungemmo e proprio come Erskine desiderava e ci sposammo poco prima del tramonto. Recarsi in Russia durante la seconda guerra mondiale non rappresentava di certo la luna di miele che veniva indicata e suggerita nelle riviste femminile di quegl’anni. Era il 1941 E la Germania spadroneggiava in Europa, quindi per giungere in Russia attraversammo tutta l’Asia., sorvolando la Mongolia , costeggiando il deserto del Gobi. Esattamente dopo un mese la Russia entrò in guerra e venne vietato dallo Stato Maggiore sovietico l’uso delle macchine fotografiche , per me un autentico dramma. L’ambasciatore americano ci convocò, e ci comunicò che avevamo due posti su un treno che lasciava Mosca, nel caso volessimo andarcene, ma se volevamo rimanere l’ambasciata era nostra disposizione. Urlai di felicità. Però, finchè non ci passai, non mi resi conto dell’immensa difficoltà di stampare le pellicole durante gli attacchi aerei, quando le guardie russe venivano a trascinarti nei rifugi. Mi nascondevo allora sotto il letto con un cronometro in mano, per controllare il tempo di stampa degli scatti. La situazione diventava critica, il Cremlino era stato colpito ed era chiaro che l’America non poteva rimanere a guardare, il presidente Roosevelt inviò Harry Hopskins in Russia come suo inviato personale. Fu grazie a quest’ultimo che riuscii a mettermi in contatto con Molotov, convincendolo a farmi fotografare Stalin. Pensai a lungo su cosa indossare, alla fine misi un vestito semplice e delle scarpe rosse, in onore dei russi che tanto amano questo colore. Una macchina, giunta dal Cremlino, mi prelevò dall’albergo per condurmi al quartier generale. Una volta giunta, rimasi ad aspettare per due ore nella stanza numero due. Fremevo d’impazienza e anche di paura, paura che la mia macchina fotografica smettesse di funzionare proprio nell’istante dello scatto. Questa tensione precedente ogni scatto importante mi ha sempre accompagnato nonostante la mia esperienza come fotografa. Finalmente un ufficiale della Guardia Rossa, venne a prelevarmi. Entrammo nella sala numero 1. Mi aspettavo di trovare un uomo dalla corporatura possente. Era più basso di me. Aveva i tratti somatici tipici delle popolazioni mongoli, la pelle del viso butterata ed era l’unico in tutto il quartiere generale a non avere medaglie che gli decorassero la divisa. Al momento dello scatto rimasi impietrita, Stalin non sembrava aiutarmi in nessun modo fino a che, mentre provavo a scattargli una foto dal basso, delle lampadine mi scivolarono dalla tasca del vestito rotolando sul pavimento. Nel vedere questa scena, inizio a ridere, e il suo viso si trasformò. Quel breve attimo fu abbastanza lungo da permettermi di effettuare due scatti, di colpo il suo viso si richiuse e tornò ad essere l’uomo più freddo e spietato mai visto nella mia vita. Quando arrivò il Generale Inverno, contro il quale c’era ben poco da fare, decidemmo di lasciare la Russia e di tornare a casa. Partimmo da Arkangelsk, attraversammo l’Oceano Artico e il Mare del Nord, verso la Scozia. Da dove volammo per il Portogallo. A Lisbona vivemmo attimi di panico quando trovammo un solo biglietto a nome Caldwell, senza sapere che vi era un posto riservato a nome Margareth Bourke White. Tornati a New York, mi ritrovai ad affrontare il mio rapporto con Erskine, alimentato da un grosso affetto, ma di fronte alla sua freddezza rimanevo sempre inerme. Rimanemmo insieme fino all’attacco giapponese a Pearl Harbor. Gli Stati Uniti entrarono in guerra e io come fotografa mi sentii chiamata a partecipare al conflitto. La separazione fu inevitabile, io ed Erskine ci dicemmo addio senza rimpianto. Come divenne corrispondente di guerra? Grazie alla rivista Life, fece un accordo con il Pentagono, facendo il mio nome: diventai la fotografa ufficiale dell’Aeronautica Militare, nella primavera del 1942, mi venne consegnata la divisa femminile, la prima nella storia dell’aviazione americana. Partii per la Gran Bretagna, riuscii a fotografare Winston Churchill e a ritrarre Haile Selaissè, “Re dei re d’Etiopia, Leone di Giuda, Eletto del Signore”, in esilio a Londra. Ci racconti qualcosa in più di questa sua nuova veste Nella mia veste di fotografa ufficiale mi veniva permesso di fare qualsiasi cosa, tranne l’unica che davvero volevo: partecipare ad una missione di guerra. Presto agli altri corrispondenti venne concesso di andare con gli equipaggi. Continuavo a pensare, come in tanti altri momenti della mia vita, “che a volte è meglio smettere di chiedere e lasciare che le cose maturino da sole”. Sulla scia di questo credo, misi da parte ogni richiesta senza sapere che la storia mi stava preparando un ulteriore scenario nel quale agire. La guerra si stava facendo largo negli altipiani e nei deserti del Nord Africa. Vi arrivai via mare. Sulla nave, mentre il nemico ci bombardava causando uno sbarco forzato mi ritrovai a scegliere la macchina fotografica da portare con me, scelsi una RolleiFlex, portai con me anche un obiettivo di piccolo formato, non adattabile alla Rolleiflex, ma che avevo utilizzato per ritrarre: Churchill, Re Giorgio, Haile Selassiè, il generale Chang Kishek e la moglie, Stalin, il Papa e Franklin Delano Roosvelt. Non potevo separarmene. Fu nel Nord Africa che prese parte alla sua prima missione di combattimento? Ad Algeri ebbi modo di incontrare il Generale Doolittle, il quale mi accolse con un “Maggie cara, hai ancora voglia di partecipare ad un bombardamento?”, dopo un minuto telefono al 97° bombardieri e mi comunicò che avrei partecipato a una delle missioni dirette dal Colonnello Atkinsons. Una volta che mi fui ripulita, un aereo mi porto in un oasi segreta nel Sahara, ribattezzata il “Giardino di Allah”. Il tempo di arrivare in quest’oasi e fummo colpiti da una bomba sganciata da un aereo tedesco. Vedere la svastica risaltare contro l’azzurro del cielo mi inquietò non poco. L’esercito mi prestò le macchine fotografiche: la Speed Graphic, perfetta per riprendere l’equipaggio durante il volo e un paio di K-20, una macchina in metallo rigido in dotazione all’aereonautica, adatta a sopportare qualsiasi vibrazione. Sul B-17 mi appostati vicino al finestrino sinistro della fusoliera, l’aereo era pilotato da un uomo del destino. Il maggiore Paul Tibbets. 3 anni dopo era sull’aereo che sorvolò Hiroshima. Era lui al comando. Ma il vento del deserto accompagnava le prime fasi della guerra e l’atomica era ancora lontana. Era il 22 gennaio 1943, e il bersaglio da colpire era El Aounia, vicino Tunisi, una base aerea coinvolta nel trasporto delle truppe tedesche in Sicilia. Iniziai a scattare le foto, mentre bombardavamo Bizerta. Continuai presa dall’eccitazione del momento. Ad un tratto dal finestrino scorsi dei lampi e delle colonne di fumo provenire dal basso. Avevamo colpito il nostro obiettivo. La missione aveva avuto successo, io avevo i miei scatti. Lasciai il giardino di Allah. A New York Life preparava il numero in mio onore: Bourke-White, inviata di Life, partecipa a un bombardamento. Ma l’unica foto non censurata dal Pentagono era troppo piccola per essere utilizzata. A quante altre missioni partecipò nelle vesti di corrispondente di guerra? Dopo sei mesi il mio rientro in America, volli ripartire, ma questa volta nessuna missione aerea, ma terrestre. L’Italia mi aspettava. Questa parte di conflitto mi rese ancor più consapevole delle persone di fronte a me, la semplice foto non bastava più a testimoniare la presenza di un essere umano. Mi ero affidata troppo ai miei occhi e all’obiettivo, ma la natura umana non era solo quella, erano anche le parole che venivano pronunciate, quindi imparai a prendere nota di quel che veniva detto dalle persone che fotografavo, in modo da descrivere i fatti non solo attraverso le immagini ma anche attraverso le parole. Giunsi a Napoli, mi venne assegnata una jeep e il caporale Jess Padgitt, un ragazzone dell’Iowa, di poche parole e attento alla mia attività di fotografa. Apprezzai col tempo la vita in trincea, lavarmi con l’elmetto e vivere come una zingara dormendo ovunque senza l’utilizzo di una branda. In questi mesi compresi che la campagna d’Italia non era facile. Le truppe americane cercavano di penetrare l’anello montuoso intorno alla valle di Cassino, un territorio di cascate, colline e fiumi turbolenti. Ormai si era sparsa la voce che io ero al fronte e molte divisioni volevano essermi di aiuto per le mie foto, ben presto mi ritrovai a dare io stessa il comando per iniziare a sparare. Riportai a casa le foto di ben 4 bombe da 155 mm nel momento stesso del loro lancio. La mia missione fini e io tornai in America, dove ancora una volta venni sabotata dal Pentagono. Il pacco con le foto più importanti di tutta la campagna in Italia sparì a Washington. Mi rimase il materiale per far uscir un buon articolo e per il mio libro “Purple Heart Valley”, il quale prima di uscire affrontò comunque la censura del governo americano, mi tornò indietro pieno di segni colorati, ognuno con la propria legenda. Ma la questione mi pose al centro della questione: quanto di quello che un fotografo immortala può essere censurato e cosa no? Ma soprattutto cos’è la censura? Ben presto questi interrogativi vennero spazzati via da nuovi venti di guerra, ora lo scenario di guerra si era spostato su un altro fronte: la Normandia. Molti fotografi partirono, mentre io preferii tornare al “fronte dimenticato”, l’Italia. Il teatro di guerra si era spostato ora a Bologna, in un paesino, Livergnano, che la fanteria chiamava “Livers and Onions”, fegato e cipolle. In compagnia della 88° divisione terminai la mia missione, avevo 300 buoni scatti. Inviai, come al solito, le pellicole all’ufficio censura di Roma. E qui si persero. Incredula dell’accaduto impiegai un po’ a riprendermi, ripartii per il fronte ma tutto era cambiato, lo scenario naturale, gli uomini, la forza delle azioni militari. Compresi che un fotografo di guerra deve essere pronto a tutto durante le missioni, ma perdere le fotografie non in una guerra, ma per la semplice mancanza di attenzione è qualcosa che non sono mai riuscita a digerire. Nella primavera del ’45 la guerra si avviava alla conclusione, io mi aggregai alla Terza Armata del generale Patton, quando entrammo a Buchenwald, appena fuori Weimar. Quello che trovammo in quel campo ci sconvolse. Alcuni civili che Patton aveva voluto vedessero quell’atrocità ebbero il coraggio di dire: “Non sapevamo” Ed invece sapevano! E io per la prima volta nella mia vita, ringraziai il cielo, di avere con me la macchina fotografica, da usare come sottile barriera tra me e l’orrore che avevo di fronte: “corpi nudi senza vita, pezzi di pelle tatuata usati come paralume, scheletri umani nella fornace” , i corpi senza vita fuori dal campo, mentre correvano incontro ad una libertà che mai avrebbero avuto modo di vivere. Nella sua veste di fotografa si è resa testimone anche di alcuni grandi cambiamenti storici, come quello dell’indipendenza dell’India. Si certo, terminati i servizi nei campi di sterminio decisi di recarmi in India, dove Gandhi stava resistendo alla Gran Bretagna guidando l’ormai ex colonia britannica verso l’indipendenza. Mi sorprese la speranza che alimentava la popolazione ma al tempo stesso fui disturbata dall’ombra scura che il movimento pacifista di Gandhi non aveva saputo allontanare. Ebbi la fortuna di immortalare nei miei scatti gli ultimi suoi due anni di vita. Ricorderò per sempre il giorno in cui lo incontrai. “Lei sa filare?”, mi chiese il segretario. “Oh non voglio filare insieme al Mahatma. Sono venuta per fotografarlo mentre fila”. “E come pensa di capire il simbolismo di Gandhi mentre è intento in questo lavoro? Come può comprendere il significato profondo dell’arcolaio, il charka, se prima non impara i rudimenti della filatura?”, mi chiese bruscamente. “Vuole dirmi che non sa nulla di quel che si può fare con un arcolaio?” “No, so solo far funzionare una macchina fotografica”. Avevo delle scadenze da rispettare ma quest’uomo con gli occhialetti non capiva la mia urgenza. Riprese “Il charka semplifica una delle idee più importanti di Gandhi. Preso nella sua individualità, l’uomo è insignificante come una goccia d’acqua. Ma in una massa diventa forte e potente come l’oceano”. “ Lei vuole che io lasci la fotografia per cominciare a filare”, risposi gentilmente. “E’ proprio ciò che intendo fare” disse il segretario di Gandhi. Mi accorgo sempre quando sono sconfitta “Quando mi ci vuole per imparare?”, chiesi un po’ seccata. “Beh dipende dal suo quoziente d’intelligenza”. In breve mi ritrovai a implorarlo di insegnarmi a filare. Valutai alla fine che la richiesta del segretario era plausibile: “se vuoi fotografare un uomo che fila, prova a riflettere sul perché lui fila. Ho sempre pensato che per un fotografo comprendere le persone e le situazioni è fondamentale quanto capire l’attrezzatura che usa. Quel che accade dietro a una lente è importante come quello che avviene davanti”. Nel caso di Gandhi, quell’arcolaio rappresentava il simbolo della lotta per la libertà, contro il potere coloniale inglese, che si intendeva boicottare attraverso l’industria tessile, se ogni indiano avesse prodotto da se, e qui la presenza del charka accanto a Gandhi, i filati per i vestiti, la fiorente industria tessile britannica, sul suolo indiano, avrebbe avuto pesanti ripercussioni a livello economico. Il gesto di Gandhi era basato sulla non violenza e l’arcolaio era l’arma perfetta. Compresi tutto questo quando giunsi al suo cospetto, quando finalmente potei scattargli le foto, come mi era stato permesso. La stanzetta era mal illuminata, davanti a me avevo un piccolo uomo con un sari bianco, mentre sfogliava il giornale, accanto a lui un arcolaio di legno. Mi domandai: davvero questo piccolo uomo ha risvegliato la curiosità del mondo? Come potrà vincere contro l’impero britannico? Tornai negli Stati Uniti con molto materiale e diverse impressioni sulla situazione indiana, decisi di trasferirle e farne un libro., mi resi conto molto presto che conoscevo davvero poco dell’India. Ripartii. La situazione politica era peggiorata dopo la mia partenza, scontri continui non solo fra inglesi e indiani ma anche fra gli stessi, non condividendo lo stesso schieramento politico. Riuscii a incontrarmi con Gandhi più di qualche volta. Ricordo l’ultima, quest’uomo che intendeva fermare la bomba atomica con la preghiera non riuscii a fermare però il proiettile che gli tolse la vita da lì a qualche ora più tardi. Assistetti al suo funerale, mi rimase, nella mente e nel cuore, fino alla fine dei miei giorni quella folla enorme che in silenzio attese che la pira di fuoco che consumava il corpo di Gandhi smettesse di salire fiammeggiante su verso il cielo. Avevo terminato il mio compito ormai, la mia casa nel Connecticut mi aspettava. Era il posto giusto per terminare il libro sull’India: Halfway to Freedom. Non è stata solo corrispondente di guerra ma affronto anche diversi reportage sulla condizione dei lavoratori, quale di questi le è rimasto nel cuore? Uno sopra tutti quello nel Sud Africa, nel 1950 la sua economia si basava sull’estrazione dell’oro. Johannesburg, giaceva sopra km di gallerie sotterranee che si estendevano in profondità incredibili. Presi contatti per recarmi ad una delle miniere più antiche, la Robinson Deep. Guidai fino all’entrata, era un giorno di festa e trovai davanti a me uno spettacolo incredibile i minatori organizzavano il loro spettacolo di danze tribali. Mi colpirono due ballerini. Chiesi come si chiamavano, in quanto volevo fotografarli durante il loro lavoro, mi venne risposo che i minatori non avevano un nome, ma un numero che li identificasse. Li nel sottosuolo no erano esseri umani ma unità da lavoro. I miei minatori erano il 1139 e il 5122. Compresi che il reportage in Sud Africa si caratterizzò per la diplomazia che dovevo mostrare di fronte a fatti simili, facendo nasce degli interrogativi: “ come devi comportarti quando disapprovi totalmente lo stato di cose che stai fotografando? Che ne è dell’etica di un fotografo davanti a una situazione simile?“ In questi dilemmi mi sentivo però fortunata, nella mia natura di fotografo attraverso delle immagini potevo raccontare un’intera storia, solo quando ogni singolo pezzettino era al suo posto. A quel punto conta quel che vedi Tu, quello che hai davanti ai tuoi occhi e non quello che altri vogliono farti vedere. “Cosi spesso la salvezza è legata ai dettagli”. Cosi prendendo spunto da un dettaglio che mi aveva colpito potevo avanzare nella mia storia e comporre il mio puzzle senza inimicarmi nessuno. La domanda più ovvia che le è stata fatta riguardo il suo lavoro? Nella mia vita di fotografa non sono mai mancate le domande inerenti le macchine fotografiche che preferivo utilizzare, ma come spiegare che ognuna di esse aveva un impiego specifico? E che era l’avvenimento a determinare quale macchina utilizzare? Ricordo quando mi recai in Giappone per prepararmi alla mia missione in Corea. Mi trovai nel pieno di una sommossa antiamericana, il che comportò posare la macchina a soffietto per passare alle due Rolleiflex, ma la situazione mi impedì di ricaricarle, e cosi utilizzai le due Nikon giapponesi, che avevo al collo, due tascabili che mi permettevano di effettuare 72 scatti di seguito, spettò al nostro autista caricare i rullini. Ancora non mi spiego come riuscì a guidare e a ricaricare le Nikon. Il motivo per il quale ero in Giappone è presto detto: dovevo recarmi in Corea, all’epoca nella morsa della guerra. La mia motivazione era diversa da quella di qualsiasi altro fotografo: io ero interessata alla gente, alla popolazione coreana. La guerra si protraeva almeno da due anni, non c’era corrispondente di guerra che non si trovasse li per testimoniare gli scontri. La Corea era lo scenario di guerra più seguito al mondo. Quello che a me interessava era mettermi in contatto con gli uomini della guerriglia coreana, una fazione che nella sua capillarità sul territorio si proponeva di creare forti disagi ai rifornimenti americani: questa era la storia che volevo raccontare. Dove una madre poteva raggiungere il figlio su per le montagne e portargli i viveri, dove fratelli o gli amici combattevano gli uni contro gli altri. Una guerra e una resistenza che divideva villaggi famiglie e i cuori delle persone. Ma non avevo la più pallida idea di come avvicinare la guerriglia. Come al solito però mi venne d’aiuto la macchina fotografica: “è uno strumento molto particolare. Se ci si concentra su quel che vogliamo fare e mostrare, lei non potrà far altro che prenderci per mano e indicarci la strada da seguire”. Cosi accadde, presi a girovagare da sola per i paesini della Corea, mantenendo comunque un certo contatto con le forze dell’ordine mentre la mia redazione di Tokyo copriva in ogni mia mossa. Durante il mio peregrinare ebbi modo di conoscere, a mio avviso, il più celebre cacciatore di guerriglieri: Han Kyon Lok. Quando lavoro ad un reportage ho l’impressione di indossare i panni di un architetto alle prese con una costruzione: le singole immagini si integrano le une alle altre per dare forma all’edificio. Fino a che ogni tassello non è al giusto avverto una frenesia incontrollabile. E’ in quel momento che capisco che manca il tassello principale, il soggetto forte che dia un senso al tutto. Nel caso della Corea dovevo chiedere l’aiuto del capitano Pak. Aveva appena catturato un giovane appartenente alla guerriglia Nim Churl-Jin. Questo ragazzo appena che ventenne rappresentava la summa della guerra di Corea. Ribellatosi al regime, si era unito ai guerriglieri, aveva un fratello che per questa sua scelta lo considerava morto e una madre che girava di paese in paese, montagna in montagna per poterlo rivedere almeno una volta. Chiesi al Capitano Pak di poterlo accompagnare al suo paese, mi sarei impegnata nel tenerlo sotto custodia. Raggiungemmo il villaggio dove viveva. Fu accolto con gioia dai suoi parenti e anche da sua moglie che non vedeva da 2 anni. Ma non c’era sua madre. Decidemmo di andare a cercarla. Avanzavamo nella boscaglia, il paesaggio ci scorreva di fianco e io avevo timore che non avrei portato con me nessuna foto “importante” ma ad un tratto senti un brivido, tutto si svolse in un attimo. Churl-jin scese dalla jeep ancora in movimento, e corse ad abbracciare una donna. Sua madre. Loro si ritrovarono dopo due lunghi anni. Io ottenni la mia foto. Lei ha affrontato guerre, scampato pericoli e fotografato in situazioni quasi impossibili ma cosa nella sua vita l’ha davvero spaventata? Partiamo dal principio, quando tornai a Tokyo, compresi di avere un problema fisico che rese “Maggie l’indistruttibile” più umana di quello che pensavano i miei colleghi: un formicolio alle gambe che mi rendeva difficile salire le scale. Da quel momento in poi tutto il corpo sfuggi al mio controllo, questa cosa mi spavento moltissimo pensai: la fotografia? E se non fossi più in grado di fare un solo singolo scatto? Cosa ne sarebbe stato della mia vita? Tornata negli Stati Uniti presi contatto con dei medici, non mi vollero dire cosa avessi di preciso, mi posero davanti solo una serie infinita di esercizi fisici da fare per non perdere il controllo sui miei arti e le mie capacità motorie. Il lavoro fu di enorme aiuto, Life mi propose servizi nel quale potevo camminare correre, saltare, volare in alcuni casi. Poi un giorno seppi il nome di questo “personaggio” che si era impossessato del mio corpo: il morbo di Parkinson. Ogni cosa nella mia nuova vita di malata fu vista sotto una nuova luce, camminare, alzare il braccio, scrivere. Il più piccolo gesto da fare diventava una conquista. Ero tuttavia consapevole che dal Morbo non si guariva, non rallentava la sua folle corsa. Per me un conto era condividere il mio corpo con questo morbo, ma altra cosa era “accettare la malattia e deporre le armi nel mezzo della battaglia, questo per me era impensabile” . Dovevo mantenermi attiva perché sapevo, forte delle esperienze del passato, che anche in quel frangente davanti a me la vita mi avrebbe offerto il suo aiuto. Cosi accadde. Un giovane dottore, Irving S. Cooper attraverso un “incidente” durante un’operazione scoprì come attenuare l’avanzamento del Parkinson. Volli fidarmi e mi misi in attesa per poter essere visitata da lui. L’operazione venne decisa, ma non avevo pensato che entrando in sala operatoria avrei messo da parte il controllo che fino ad allora avevo avuto sulla mia vita. Durante l’operazione sarei rimasta cosciente, ma nulla dipendeva da me. Mentre Il dottor Irving si muoveva attorno alla mia testa una sensazione di estasi e una consapevolezza che tutto sarebbe andato bene mi pervase: la mia decisione azzardata si rivelò vincente. L’operazione fu un successo. I giorni che seguirono furono colmi di doni inaspettati, parti del mio corpo che non riuscivo a controllare ora avevano riacquistato vita. Ma non tutto fu indolore, avevo davanti a me molta strada da percorrere. Ma pian piano ne venni fuori. Quel che continua a meravigliarmi di tutta l’intera storia, è il tempismo con cui gli aiuti sperati sono giunti, come altre volte nella mia vita mi ero trovata nel momento giusto,come sovviene ad ogni bravo fotografo, nel posto giusto e anche in quel periodo giusto in cui la medicina si muoveva attraverso la sperimentazione a fare passi da giganti per la cura della mia malattia. E di questo non ho che da ringraziare il destino. La nostra intervista è conclusa, grazie infinite Margareth Bourke-White. Lia Paolucci