Perché Dio, infinitamente grande, s`interessa della piccolezza di

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Perché Dio, infinitamente grande, s`interessa della piccolezza di
Perché Dio, infinitamente grande,
s’interessa della piccolezza di ogni
uomo?
di Corrado Gnerre
Solo l’amore infinito di Dio, che lo ha portato ad umiliarsi
e a soffrire per la salvezza dell’uomo, può spiegare ciò che
appare inspiegabile: il suo interesse per ogni piccola
azione o pensiero del singolo uomo. Il Tempo quaresimale
e la Passione di Cristo sono occasioni preziose per
riflettere su questo.
Un interrogativo
C’è una cosa che mi ha sempre colpito: come è possibile
che Dio, grande, immenso… tanto grande ed immenso da
essere il Creatore di un universo così complesso, fatto di
distanze di miliardi e miliardi di anni luce, di luoghi
inesplorati ed impenetrabili… si interessi di me, di ogni mia
azione… finanche di una mia piccola bugia?
Dio, che ha fatto i pianeti, che ha fatto le stelle, che è più
grande dell’immensa grandezza dell’universo, che è in tutto
l’universo (pur non confondendosi con esso), che lo regge in
quanto causa sussistente, che conosce tutto, anche i più
remoti anfratti e i più profondi abissi dei pianeti, s’interessi
di me, delle mie emozioni, delle mie preoccupazioni, dei miei
pensieri?
E’ difficile spiegarlo, eppure è così.
La risposta è l’amore infinito di Dio
Qui sta una grandezza che non può che essere capita se
non con l’amore di Dio.
Sappiamo che Dio è l’essere assoluto, e che dunque ha in
sé tutto, ha in sé tutte le virtù al grado massimo: Dio è
massimamente giusto, massimamente bello, massimamente
vero,
massimamente
misericordioso,
massimamente
buono… ed è dunque amore massimo.
Questo amore massimo di Dio è già ravvisabile a partire
dalla creazione: Dio, che è assoluto, non ha bisogno di nulla,
si soddisfa solamente con se stesso, per cui l’unico motivo
che può spiegare la creazione è il suo amore, l’aver voluto che
altri partecipassero all’essere, cioè a ciò che solamente Lui
possiede di per sé.
Due verità uniche
Il Cristianesimo, però, motiva tutto questo con due verità
uniche, introvabili nelle altre religioni:
1. Dio, per amore dell’uomo, si fa veramente uomo.
2. Dio, per amore dell’uomo, si sottopone alla sofferenza e
alla morte.
Soffermiamoci su questa seconda verità.
La teologia cattolica afferma che Dio incarnato ha fatto
esperienza di ogni disagio della vita umana, delle tentazioni,
dei dolori… e dell’enorme dolore della Passione… e quindi
della morte stessa.
Nel momento in cui Gesù veniva tentato, era Dio stesso ad
essere tentato; nel momento in cui Gesù ha patito, era Dio
stesso a patire.
Scrive il Sauvé nel suo Jesus intime: “E’ possibile che noi
abbiamo il medesimo ideale di vita di Dio? Sì; e non ci è
dato di eleggerne uno meno elevato. Considera, anima mia,
quanto è grande la tua dignità; (…). Però questo ideale
sublime non eccedeva soltanto le capacità della ragione
umana; era troppo alto anche per la fede. Per questo Cristo
si abbassò. Si fece uomo, bambino, servo; volle conoscere le
debolezze dei nostri primi anni; i nostri lavori, le nostre
fatiche; la povertà, l’oscurità, il silenzio, la fame, la sete, il
dolore e la morte. Di tutte le nostre miserie una sola non ne
ha sperimentata: il peccato e certi disordini che dal peccato
derivano. Non potendo prendere in sé questa debolezza,
prese la sua somiglianza e ne portò la pena. Non mi resta,
quindi, che salire al cielo per cercare là il pensiero di Dio a
mio riguardo; non devo fare altro, o Gesù mio, che
contemplarvi. Voi siete l’ideale completo nel quale io trovo il
mio.”
L’Immenso s’interessa del piccolo
Tutto questo ha senso -è sempre la teologia a dirceloperché Dio ama in una prospettiva interpersonale, cioè in
una relazione tra Persona (Dio) e persona (in questo caso
l’uomo). Questa relazione riempie non l’ontologia di Dio (Dio
è Dio di per sé), ma certamente la ragion d’essere della sua
creazione che trova la sua finalizzazione nella glorificazione
di Dio stesso.
Anzi, la teologia afferma qualcosa in più: la creazione
stessa è in funzione di questo rapporto interpersonale, è in
funzione di questo andare incontro di Dio verso la creatura.
Ebbene, è proprio in questo “andare incontro” che si
spiega l’inspiegabile, e cioè che Dio nella sua immensità
s’interessa del piccolo, anzi fa del piccolo il “luogo”
dell’inabitazione dell’Infinito. Verrebbe da dire: Dio fa
dell’anima della singola creatura intelligente (anche la più
reietta e dimenticata) il suo universo… a patto però che
questa (la creatura) dica di sì.
Quando un uomo vive in Grazia è Dio stesso che abita in
lui. Quando un uomo riceve l’Eucaristia, è Gesù (cioè Dio)
che nella sua presenza reale viene in lui, si fa cibo e si fa
mangiare.
Il senso della Quaresima e della Passione
Il Tempo quaresimale e la Passione di Cristo sono
occasioni preziose per riflettere su questo.
La Quaresima ci ricorda la nostra natura precaria e finita,
addirittura ci dice che siamo “polvere” e che la nostra
grandezza è solo ed esclusivamente in Dio. Solo in Lui la
“polvere” -che noi siamo- potrà rigenerarsi e divenire
eternità nella Trasformazione pasquale.
La scena di Gesù nel deserto, solo con i propri pensieri,
con le sue preghiere, poi tentato dalla malizia del diavolo,
mostrano una particolarità che solo nel Cristianesimo poteva
essere affermata: l’immensità
di Dio che volontariamente si
riduce ad una situazione di
rinuncia, di eremitaggio, di
esistenziale prostazione.
Ecco: ritorna il rapporto tra
il piccolo (il dissolvibile) e l’infinitamente grande (Dio). Dio
eternizza il piccolo ma il piccolo per ricevere questa Grazia
deve porsi consapevolmente
nella dimensione del bisogno e
della ricerca di soluzione. Da
qui il senso della penitenza e
del digiuno quaresimali.
Nella Pietà di Antonello da Messina, opera del 1476,
custodita nel Museo del Prado, a Madrid, si scorge bene una
sorta di osmosi tra l’infinito e il finito, tra l’immensamente
grande e il piccolo. L’opera fa vedere Gesù morto che ha
ancora sul suo volto l’impressione del dolore atroce della
crocifissione. Il corpo inerte del Salvatore è sorretto da un
angelo, che, a sua volta, ha anch’egli sul viso una smorfia di
sofferenza: quella per la morte del proprio Dio.
Queste due figure, dunque, sono accomunate dalla
sofferenza, ma sono due figure che hanno uno scarto
ontologico infinito: Gesù è Dio, l’angelo è una creatura; Gesù
è infinito, l’angelo è finito. Il tratto comune è proprio il volto
sofferente, che è tanto della creatura quanto del Dio
incarnato.
La superiorità della risposta cristiana
Anche in questo il Cristianesimo dimostra la sua unicità.
Non c’è religione che giunge ad affermazioni così
inimmaginabili ma anche così umanamente vere ed
esistenzialmente gratificanti. L’Infinito, incarnandosi, fa
esperienza di ciò che costitutivamente è insito nella creatura:
la precarietà, il dissolvibile… e perfino la sofferenza e la
morte.
L’uomo riceve la Grazia di poter partecipare a questa
sublimazione del limite e della dissolvibilità; a patto però che
non tradisca il suo statuto di creatura, che accetti di trovare
la sua piena realizzazione nella sottomissione e nella
dipendenza, perché è sempre la sequela alla Persona di Gesù
l’unica vera ragione dell’esistenza umana: “(…) chi non
raccoglie con me, disperde.” (Matteo 12, 30).