Eventi e notizie in Umbria Speciale Spoleto 2011

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Eventi e notizie in Umbria Speciale Spoleto 2011
Speciale Spoleto 2011: La Via Psiconautica - alla ricerca dell'Io perduto
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Speciale Spoleto 2011: La Via Psiconautica - alla
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IL CARTELLONE
Da che mondo è mondo, si sa, le cose di valore le si deve sovente andare
a cercare tra quanto non apparentemente in vista. È così da sempre nella
letteratura, nelle scienze, nell’arte, e non si tratta di un’eccezione bensì di
una regola bell'e buona, cui sembra non poter sfuggire nulla e nessuno.
Nemmeno il Festival dei due mondi di Spoleto, che, sin dalla nascita, ha
tra le sue componenti una certa dose di mondanità che fa a volte dubitare
dell'effettivo valore artistico di taluni spettacoli, ma che regala
puntualmente delle autentiche chicche, da scovare, appunto, tra le pieghe
di un programma ceertamente ricco, ma a volte pleonastico.
Una di esse è La Via Psiconautica - secondo atto, proposto dal Cut
(Centro Universitario Teatrale) di Perugia, che, al di fuori dei grandi flussi
di pubblico, si fa gustare dall’inizio alla fine con una messa in scena
incarnata da due brave giovani attrici, Emanuela Filippelli e Irene Lepore,
e da un professionista del teatro, Roberto Ruggieri, che ormai da anni ha
scelto il Cut perugino come propria base di produzione artistica,
lavorando all'idea di una "psiconautica" atta a scandagliare il mondo interiore dell'attore-individuo-qutore.
Si dirà che i Cut sono enti adibiti alla formazione di futuri attori e, in quanto tali, realtà teatralmente non professionistiche.
Ma l’eccellenza presente al loro interno - si pensi, per quanto attiene al Cut di Perugia, alla docenza di Ludwik Flaszen, cofondatore, insieme a Grotowski, dello storico Teatr Laboratorium di Wroclaw - dovrebbe portare a un’incondizionata
concessione di fiducia da parte di un festival che, occorre sempre tenerlo a mente, porta nel proprio Dna la
sperimentazione, e che, al contrario, sembra da alcuni anni a questa parte aver imboccato una strada decisamente più
tradizionalista, probabilmente a causa del limite di Giorgio Ferrara, direttore artistico del festival, di non avvalersi di
collaboratori giovani. Tanto più che la fiducia, questo sublime spettacolo minimalista, se la merita decisamente tutta, stante
una pregnanza scenico-espressiva che arriva dritta dritta alla pancia dello spettatore, almeno di quello che,
grotowskianamente, si lascia “indurre” dalla cifra emotiva della pièce.
In scena, come detto, due giovani donne, con un’immagine iniziale composta da due corpi seduti e sovrapposti, ad evocare
una figura a metà tra un amplesso saffico e una reciproca consolazione materna. Ancora non vi è luce, che giungerà di lì a
breve per mano di un uomo, l’unico in scena - il regista stesso, chiamato sarcasticamente Boss dalle donne - alle prese con
una console delle luci che potrebbe teatralmente anche non esserci, ma che rappresenta a ben vedere l’essenza
semantica dello spettacolo.
Già, la luce. La luce, l’uomo e la donna, anzi due. Esiste tutta una tradizione mitologica sul "portatore di luce", archetipo
che si perde nella notte dei tempi, dal Dio Sole a Horus, da Febo a Lugh, da Balder a Lucifero (letteralmente, appunto,
“colui che porta la luce”, originariamente senza alcuna connotazione negativa), da Prometeo al Sol Invictus, da Mithra ad
Ashtar Sheran. La mitologia ha cioè sempre identificato con una divinità-uomo, per lo meno a partire dall’avvento delle
società patriarcali, colui che elargisce la vita sottraendola alle tenebre. Una luce che, in scena, dona movimento a due
donne, anch’esse archetipi aggiornati di una mitologia primigenia che costituisce l'implicito appiglio della pièce, e che fa
capire subito che l’uomo-dispensatore-di-vita non avrà vita facile, in un catartico flusso di coscienza - nato verosimilmente
tale nella fase di costruzione dello spettacolo e strutturato poi teatralmente in modo impeccabile - che dà luogo a un
soliloquio (meglio: un dialogo ad interlocutore muto) assai somigliante a un processo dai connotati sociali ancor prima che
individuali. Così, prima una poi l’altra, intraprendono un’”arringa” fatta di invettive che si originano dal ventre, un ventre
saturo di rabbia rivolta verso quell’uomo-archetipo che poco prima aveva concesso loro la possibilità di esistere attraverso il
click di un pulsante.
La tradizione norrena narra che Balder, il più bello degli dèi, irradiasse con la sua presenza una calda luce che rischiarava
la città divina. Ma Loki, l’astuto signore degli inganni, istigò il gigante Hodr a colpirlo a morte con un ramo di vischio, dopo
aver individuato in esso l’unico mezzo di offesa al quale Balder fosse vulnerabile. Da par suo, la tradizione giudaicocristiana racconta di come l’angelo più bello e amato dal Signore, il “portatore di luce” Lucifero, venga punito e scagliato
sulla terra, vedendosi trasformato in Diavolo. Ancora, Prometeo, eroe che rubò il fuoco agli dèi per portarlo agli uomini,
venne da essi punito e condannato a un atroce martirio. Ogni atto di somma elargizione genera insomma una reazione
uguale ed opposta.
Si sarà capito che lo spettacolo vuole essere una straordinaria metafora delle relazioni di genere, risultando una
sesquipedale trasposizione teatrale dei rapporti di forza che, oggi come ieri, nella mitologia ancestrale come nella realtà,
reggono ancora le relazioni tra i sessi, nonostante gli effluvi di retorica. Così, le due donne si compiacciono sì della vita loro
elargita, ma prendono ad ingaggiare subito una singolar tenzone dalla quale ne scaturisce dapprima una voce labile, quasi
infantile, che prende abbrivio da un rizoma di ribellione pure ancora in una condizione di subalternità psichica, che ben
presto si trasforma in suono gutturale, cavernoso, dal quale risaltano le angosce più recondite di una donna che, fuor di
metafora, è ancora troppo spesso relegata a uns vita di luce riflessa.
Donne "che non vogliono trattenere la rabbia”, “donne sopravvissute”, donne in “labirinti che si sovrappongono gli uni agli
altri”, “donne raschiate dentro dalle parole, in preda a confusione, come in un ascensore che fa su e giù tra la testa e il
ventre senza fermarsi ai piani”, donne “attorniate da una ragnatela”, donne "in preda alla paura di essere eliminate con un
click per non aver rispettato le regole”, donne "che non sanno che farsene di tutte queste parole", donne “inascoltate anche
nel loro silenzio”, un silenzio "riempito dal di fuori".
C’è altresì spazio per un esistenzialismo dal sapore a tratti financo nichilista, su cui il testo ad un certo punto bascula. “Da
dove vengo?”, "il tempo è una creazione di una mente-scimmia”, “sono alla ricerca di un senso per una vita da cicala”,
“cosa accadrebbe se si togliesse il tempo?”
L’uomo-archetipo soccombe dando a tratti l’impressione di vacillare, di essere sul punto di cadere sotto il tremendo
incalzare dei fendenti. Poi si rianima, riprende a muoversi, distende dapprima un braccio, poi si avvicina con la mano alla
console, stringe il pulsante che dosa la luce, inizia lentamente ad abbassarla.
La donna ansima vedendo avvicinarsi la sua fine così come un indemoniato fa alla vista di un'icona sacra. Vede
approssimarsi il proprio ritorno nelle tenebre, la voce è ora baritonale, da posseduta. È la resa dei conti finale, ogni parola
ha il sapore del verbo definitivo in un triste gioco illusorio. È infatti un grido di estrema ma fallace indipendenza dall'uomopossessore, da blandire a mo’ di minaccia pur con le spalle al muro. È un sussulto di istintuale sopravvivenza nonostante il
fato avverso, un'impavida, sfrontata sfida all'uomo-totem.
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Speciale Spoleto 2011: La Via Psiconautica - alla ricerca dell'Io perduto
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L’oscurità però incalza, la penombra cala poco a poco sulla scena, l'inesorabile destino della donna è quello dell'imperituro
ritorno nelle tenebre. Balder non è morto, ha vinto ancora.
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