Fede e sangue, il grido del Centrafrica

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Fede e sangue, il grido del Centrafrica
Fede e sangue, il grido del Centrafrica
Un Paese dilaniato da una guerra che ha preso i contorni dello scontro religioso.Milizie cristiane e
milizie musulmane. Con i civili che pagano il prezzo più alto
di Michele Farina - Corriere della Sera, sabato 30 Maggio 2015
Fatime è musulmana: indossare il velo fuori dal quartiere-prigione di Pk5 significa essere violentata
o uccisa. Lucienne è cristiana, vive nel campo profughi affamati di Saint Joseph de Mukassa: per lei
un foulard salva la vita. Due donne, due pezzi di stoffa e due religioni a cui nessuno avrebbe badato,
fino a un paio di anni fa. Non ora, non più, non da quando questo Paese ha cominciato a dividersi
(ad ammazzarsi) tra chiese e moschee.
Se devono allontanarsi dal Pk5 (chilometro cinque), Fatime e l’amica Awa si tolgono il velo: «Ci
travestiamo da cristiane» dicono sedute su una stuoia sotto gli alberi della Grande Moschea. Fatime
ha perso il marito Younuss e tre figli nello scontro di potere che ha assunto i contorni di una guerra
interreligiosa dilaniando il Centrafrica dal 2013. Glieli hanno uccisi davanti agli occhi i miliziani
antibalaka (antimachete): «Abbiamo cercato rifugio dai vicini cristiani, ma non ci hanno aperto».
Lucienne invece non ha bussato ai vicini musulmani, è scappata da Damara a piedi lungo le piste
della transumanza per sfuggire alle bande islamiche dei Seleka (coalizione, in sango): 70 km in tre
giorni fino al ghetto di Mukassa dove ancora sopravvive. Racconta di Antoine, diciottenne: «I
Seleka volevano decapitarlo». Lei li ha implorati, finché «uno dei capi ha notato che mio figlio
aveva al collo il foulard degli scout cattolici. Anche lui aveva giocato con gli scout da ragazzo. Gli
ha risparmiato la vita».
I nomi dei gruppi armati entrano nella vita spicciola, avvelenandola al modo dei cadaveri che
intasano i pozzi che ong come Oxfam provano a bonificare. «I nostri bambini giocano a Seleka e
antibalaka» dice Sophie Bangabingi, 39 anni e 8 figli, in una baracca di tela e lamiera a Mukassa.
Divisione che si fa consuetudine lessicale. Le 8 del mattino, riunione alla sede Oxfam, una
quarantina di operatori in gran parte locali che stanno per sparpagliarsi (distribuzione d’acqua e kit
sanitari, progetti di microcredito, etc). Rosario Iraola, basca, ricorda che «quando si parla sarebbe
bene smettere di dividere la popolazione in musulmani e centrafricani». Come se i primi (il 15%
circa) non appartenessero a questo luogo da generazioni. Quasi tutti sono fuggiti oltreconfine dopo
«la crisi». Moukadas Noure, ex prof di sociologia, racconta che anche la sua famiglia è via: «Non
mi fido a farli tornare». Tra Camerun e Chad 462 mila rifugiati (quasi tutti musulmani). All’interno,
436 mila sfollati (in gran parte cristiani). Il campo più grande al nord, sulla collina di Batangafo:
Caschi Blu e soldati francesi della missione Sangaris hanno finalmente disarmato e allontanato i
Seleka che assediavano la collina. L’ha visitata poche settimane fa Marianna Franco, italiana
trentenne di Echo (sezione aiuto umanitario e protezione civile della Commissione europea). Anche
secondo lei, si è parlato molto delle vittime cristiane e meno dei crimini sui musulmani. Quelli
rimasti nel Paese non sono liberi. Vivono in enclave, ce ne sono 7 «ufficiali» (alcune sono chiese:
alla domenica i profughi musulmani escono ed entrano i cristiani per la messa): 36 mila persone di
fatto prigioniere sotto la protezione dei Caschi Blu della Minusca. Il governo non vuole farli
espatriare perché «se vanno via anche loro — ha detto un ministro — con chi ci riconciliamo?».
Il Pk5 è una semienclave con mura invisibili: i musulmani non possono uscire ma i cristiani
possono entrare. Era il cuore commerciale di Bangui. «Fino a cinque mesi fa il mercato era
dismesso». Lentamente, una «boutique» alla volta, torna alla vita. Ma le donne incinte musulmane
non si fidano a oltrepassare una strada per recarsi al centro maternità aperto da Medici senza
frontiere, racconta il capo missione Dario Bertetto. Tra migliaia di persone, anche gruppi di
autodifesa. Una granata si vende a un euro. L’ex Seleka, che controlla una fetta nord del Paese,
mantiene una presenza nella capitale. Al Pk5 c’è una minoranza cristiana che condivide
l’isolamento della maggioranza. «Nelle altre zone ci chiamano traditori perché viviamo con i
musulmani, ci accusano di proteggerli con la nostra presenza» racconta Germaine, commerciante di
olio di palma, nel cortile della capozona Therese Nwirifio. La vicina chiesa di St Mathias è ancora
in piedi. Appoggiati a una carcassa di camion, i ragazzi raccontano che giocano a calcio con i
coetanei musulmani nella squadra delle Stelle Filanti. Peccato che la convivenza non vada molto
oltre la linea di porta. «Anche noi cristiani uscendo dal Pk5 dobbiamo fare un giro lungo per evitare
gli antibalaka — racconta Germaine — .Non diciamo da dove veniamo. Un giorno mia nipote è
stata picchiata selvaggiamente».
La Repubblica Centrafricana, malgrado il nome, è da sempre ai margini del continente e del
mondo, un cuore di povera tenebra vasto due volte l’Italia con appena 4,5 milioni di abitanti, che in
media non vivono più di 50 anni. Uno «Stato fallito» dove 173 bambini su mille non arrivano a 5
anni, ex colonia francese che ricordiamo per i diamanti, gli elefanti e il famigerato Jean-Bedel
Bokassa, l’imperatore in odor di cannibalismo che sul suo trono d’oro restò fino al 1979. Poi il
solito colpo di Stato, la fuga in Francia, il rocambolesco ritorno con il paracadute, la condanna,
l’amnistia e l’infarto nel 1996, la successiva catena di nuovi golpe e governi corrotti. Con il collega
Bru Rovira suoniamo alla villa bianca della vedova, nel quartiere dei ministeri alle pendici della
collina di Bangui. Nel cortile disadorno e grigio è parcheggiato un Suv: parliamo con la nipote, che
ci organizza un incontro con l’ex imperatrice Catherine che mai avrà luogo. Un figlio dell’ex
imperatore, Bokassa junior, è candidato – senza chance di vittoria – alle elezioni fortemente volute
dalla comunità internazionale (voi votate e noi ripartiamo): dovevano svolgersi in estate, rinviate
forse a inizio 2016. Un Paese così lacerato è pronto a contarsi?
Un Forum sulla riconciliazione si è svolto ai primi di maggio. Certi capi Seleka e anti-Balaka si
sono abbracciati, altri si sono uniti in violente proteste contro il governo di transizione, retto da
Catherine Samba-Panza, perché non scarcera i «fratelli» detenuti. Un risultato del Forum lo
racconta Mohamed Fall, capo missione Unicef, che ha mediato il rilascio di 357 bambini soldato dei
due schieramenti (su un totale di 10 mila). Dagli 8 ai 18 anni. «Il ritorno alla vita sarà complicato.
Mi ha colpito la reazione dei bambini quando i loro ex capi sono entrati nella sala. Un grido di
venerazione: “Salute, mio generale”».
Riconciliazione non fa tanto rima con giustizia. «No all’amnistia», dicono tutti. È stato istituito
un tribunale speciale misto (con giudici interni e internazionali) per i crimini della «crisi». A Nostra
Signora di Fatima non sono pronti al perdono. Un anno fa 17 persone, tra cui due sacerdoti, furono
trucidati nel recinto della chiesa da un gruppo di musulmani venuti a vendicare, secondo una
versione dei fatti, la distruzione di due moschee. Al Pk5 ribattono che nella chiesa si erano rifugiati
gli antibalaka dopo un raid. Davanti all’altare padre Giovanni Zaffanelli, di Sesto San Giovanni, da
28 anni in questo Paese, dice che tra le centinaia di rifugiati ci sarà stato qualche antibalaka. Padre
Jonas, cresciuto nel quartiere, dice che un paio di imam hanno proposto una cerimonia di
riconciliazione congiunta ma lui ha rifiutato: «Devono prima ammettere le colpe. Altrimenti i nostri
fedeli penserebbero che dimentichiamo le loro sofferenze». L’imam Tdani della Grande Moschea
usa parole più concilianti, pur raccontando delle quaranta moschee distrutte e dei musulmani
«perseguitati».
«Se Gesù perdona, chi sono io per rifiutare?». Pierre Kalla, 65 anni, mostra quel che resta della
sua casa distrutta. Ha una camicia azzurra, l’unica. «I giovani del Pk5 hanno collaborato con i
Seleka vendendo i nostri tetti, rubando i nostri averi» dice l’ex insegnante di botanica. Intorno,
quartiere di Fondo, non una costruzione intatta. Macerie, erba alta. Abbiamo camminato fino a qui
attraversando sotto un sole feroce l’aeroporto, pardon il campo profughi, di M’Poko. Baracche
(quella di Pierre compresa) accanto alla pista. Se decolla un aereo, un soldato Onu controlla che i
bambini non gli corrano dietro. Qui sono scappati in centomila, quasi tutti cristiani, all’apice
dell’inferno (ne restano 20 mila). Nel marzo 2013 i Seleka venuti dal nord conquistano Bangui. Nei
mesi successivi si abbandonano a razzie ed esecuzioni (specie contro i cristiani). Dicembre 2013:
gli antibalaka riprendono la capitale. I Seleka in fuga rubano e ammazzano. Comincia la vendetta
indiscriminata contro i civili musulmani. È passato un anno e mezzo e Leonie non si è mossa da
sotto le ali di un vecchio aeroplanino da turismo che le fa da casa. Mangerà anche oggi foglie di
cassava. Pasto unico. Ha paura di tornare nel suo quartiere. Le hanno ucciso un paio di figli.
Le piangono gli occhi ma, assicura, è la congiuntivite.