ELLENISMO... copia

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ELLENISMO... copia
L’ellenismo
Vogliamo parlare del lungo arco di tempo che va da Aristotele, e cioè dalla fine del IV secolo avanti Cristo, fino
all’inizio del Medioevo, nel V secolo dopo Cristo. II fatto che si passi dal periodo «prima di Cristo» a quello «dopo
Cristo » dovrebbe suggerire che uno degli elementi più importanti e decisivi di questa fase è costituito proprio dalla
nascita e dallo sviluppo del cristianesimo.
Aristotele morì nel 322 avanti Cristo. A quell'epoca, Atene aveva già perso il suo ruolo dominante: uno dei motivi
principali del suo declino è riconducibile ai grandi sconvolgimenti politici causati dalle conquiste di Alessandro Magno
(356-323 a.C.). Alessandro Magno era re della Macedonia, la stessa regione da cui proveniva Aristotele, il quale, per un
certo periodo, fu anche maestro del giovane sovrano. Alessandro sconfisse definitivamente i persiani e, grazie alle sue
conquiste, creò un impero vastissimo che comprendeva la Grecia, l'Egitto, la Persia e si estendeva fino all'India.
Comincia così una nuova epoca nella storia umana, caratterizzata dallo sviluppo di una società per così dire
«internazionale» in cui la lingua e la cultura greca giocarono un ruolo dominante. Questo periodo, che durò circa
trecento anni, viene chiamato ellenismo, un termine che quindi indica sia una fase storica sia la supremazia della cultura
greca nei tre grandi regni della Macedonia, della Siria e dell'Egitto.
Nel 146 avanti Cristo, con la distruzione di Corinto, Roma conquista la Grecia e afferma definitivamente nell'area
mediterranea la propria supremazia militare e politica. La nuova superpotenza conquistò uno dopo l'altro tutti i regni
ellenistici e, da quel momento in poi, furono la cultura e la lingua romana a dominate dalla Spagna fino all'Asia. Prima
che i romani riuscissero a conquistare il mondo ellenistico, Roma, da un punto di vista culturale, era una provincia
greca. E’ questo il motivo per cui la cultura e la filosofia greca continuarono a svolgere un ruolo chiave anche dopo il
tramonto politico della Grecia.
Religione, filosofia e scienza
Durante il periodo ellenistico, i confini tra le diverse culture e i vari Paesi cessarono di esistere. Prima, greci, romani,
egiziani, babilonesi, siriani e persiani adoravano le proprie divinità all'interno di ciò che oggi chiameremmo una
«religione di Stato»; in questa fase, invece, le culture si mescolarono e si fusero in un unico grande calderone che
conteneva nozioni e idee religiose, filosofiche e scientifiche di ogni tipo.
Si potrebbe dire che la piazza cittadina venne sostituita dall’arena del mondo. Certo, le vecchie piazze erano sempre
animate da voci che offrivano merci disparate e nuovi modi di pensare, eppure adesso c’era una novità: nelle piazze
cittadine infatti si riversarono merci e idee provenienti da tutto il mondo e si sentirono anche parlare lingue diverse.
Abbiamo già detto che il modo di pensare greco si diffuse su un territorio che si estendeva ben oltre le vecchie zone
d’influenza dei greci. In questo periodo anche gli dei orientali venivano venerati in tutto il Mediterraneo e furono create
nuove religioni che si basavano su divinità e concetti religiosi presi da diverse nazioni. Questo fenomeno viene
chiamato sincretismo, cioè l'incontro e la fusione di religioni diverse.
Un tempo, gli uomini erano profondamente consapevoli di appartenere a un popolo e a una città-Stato, ma adesso, a
mano a mano che i confini e le linee di demarcazione venivano cancellati, molti furono colti da un senso di insicurezza
e di perplessità sul modo di affrontare la vita. La tarda antichità fu caratterizzata da dubbi religiosi, da un profondo
disgregamento culturale e dal pessimismo. II mondo è vecchio, si diceva.
Le religioni che nacquero durante l'ellenismo avevano due caratteristiche in comune: anzitutto si fondavano su dottrine
che aspiravano a liberare gli esseri umani dall'angoscia della morte; inoltre erano perlopiù segrete. Seguendo i loro
precetti e compiendo determinati rituali, l'uomo poteva sperare di ottenere l'immortalità dell’anima e di raggiungere la
vita eterna. Anche la conoscenza della vera natura dell’universo era ritenuta importante per ottenere la salvezza dell'anima.
Anche la filosofia divenne sempre più spesso una forma di «salvezza» e di consolazione per la vita: il sapere filosofico
infatti non solo possedeva un indiscusso valore intrinseco, ma avrebbe anche liberato I'uomo dalla paura della morte e
dal pessimismo. In questo modo i confini tra religione e filosofia divennero assai labili. In generale possiamo dire che la
filosofia dell'ellenismo fu poco originale e non ci furono né un nuovo Platone né un nuovo Aristotele. Al contrario, i
grandi filosofi dell'antichità costituirono un'importante fonte di ispirazione per molte correnti filosofiche.
Anche la scienza ellenistica fu caratterizzata dalla fusione di esperienze culturali diverse. La città di Alessandria, in
Egitto, svolse un ruolo chiave come punto d'incontro tra oriente e occidente. Mentre Atene conservò il suo ruolo di
capitate della filosofia - le scuole filosofiche fondate da Platone e da Aristotele continuarono infatti la loro attività -,
Alessandria divenne il centro della scienza: grazie alla sua enorme biblioteca, questa città divenne il cuore degli studi di
matematica, astronomia, biologia e medicina.
La cultura ellenistica ha alcuni tratti in comune con quella a noi contemporanea: nella società del XXI secolo, infatti, i
confini ideologici e culturali non sono ben definiti e ciò ha provocato grandi sconvolgimenti per quanto riguarda la
religione e l'atteggiamento generale nei confronti della vita.
Inoltre, proprio come avvenne a Roma (dove all'inizio dell'era cristiana, si diffusero dottrine religiose greche, egizie,
orientali), analogamente noi possiamo trovare in tutte le città europee di una certa grandezza credenze religiose che
provengono da ogni parte del mondo.
Anche ai giorni nostri accozzaglie di religioni vecchie e nuove, di filosofia e di scienza, vengono lanciate sul «mercato
delle concezioni di vita » come se si trattasse di idee nuove: in realtà gran parte di questo «nuovo sapere» non è altro
che un vecchio retaggio culturale che affonda le sue radici nell'ellenismo. Come abbiamo già detto, la filosofia
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ellenistica riprese e continuò a elaborare le ipotesi e le problematiche sollevate da Socrate, Platone e Aristotele. Tutte
queste correnti filosofiche intendevano fornire una risposta su come l'uomo avrebbe dovuto vivere e morire nel migliore
dei modi. Fu dunque l'etica a fare la parte del leone e, nella nuova società sovranazionale, il progetto filosofico più
rilevante fu proprio questo: ci si chiedeva in che cosa consistesse la vera felicità e in quale modo fosse possibile
raggiungerla. Esamineremo ora quattro correnti filosofiche che si occuparono di tali questioni.
I cinici
Si dice che più di una volta Socrate, osservando la grande quantità di merci in vendita su una bancarella, commentasse:
«Di quante cose non sento il bisogno!» Questa affermazione potrebbe essere usata come motto della filosofia cinica,
che venne fondata ad Atene da Antistene, intorno al 400 avanti Cristo. Antistene era stato allievo di Socrate ed era
rimasto colpito dalla sua parsimonia e dalla sua moderazione.
I cinici affermavano che la vera felicità non si ottiene grazie alla ricchezza, al potere politico o a una salute di ferro,
bensì disprezzando queste cose esteriori, casuali ed effimere. Tutti quindi possono raggiungere la felicità e, una volta
ottenuta, non la si può perdere.
Il cinico più famoso è Diogene di Sinope, allievo di Antistene. Si dice che vivesse in una botte e che non possedesse
altro che un mantello, un bastone e una bisaccia in cui raccoglieva le cibarie. (Non era facile privarlo della felicità!) Si
racconta anche che, un giorno, mentre stava tranquillamente prendendo il sole, ricevette la visita di Alessandro Magno.
Questi si fermò di fronte al saggio e gli chiese: «Chiedimi quello che vuoi». E Diogene rispose: «Lasciami il mio sole».
In questo modo egli dimostrò di essere più felice e ricco del grande condottiero, perché aveva tutto ciò che desiderava.
Secondo i cinici, un essere umano non si deve preoccupare della propria salute, della sofferenza e della morte e,
analogamente, non deve interessarsi del dolore altrui.
Al giorno d'oggi, i termini «cinico» e «cinismo» vengono usati per indicare un atteggiamento indifferente e insensibile
verso gli altri esseri umani.
Gli stoici
I cinici furono importanti per lo sviluppo della filosofia stoica, il cui fondatore, Zenone di Cizio, giunse ad Atene
intorno al 312 avanti Cristo e seguì gli insegnamenti di maestri cinici.
Verso il 300 avanti Cristo, Zenone fondò la sua scuola e, dato che era solito accogliere i suoi ascoltatori sotto un
portico, stoa in greco, essa fu chiamata «stoica».
Come per Eraclito, anche per gli stoici tutti gli uomini partecipano della stessa ragione del mondo, o logos; secondo
loro, inoltre, ogni essere umano è un mondo in miniatura, un «microcosmo» che è riflesso del «macrocosmo».
Questa teoria portò alla convinzione che esista un «diritto di natura», il quale, essendo basato sul logos eterno, non muta
nel tempo e nello spazio. (In questo caso gli stoici presero le parti di Socrate contro i sofisti.) II diritto di natura vale per
tutti gli esseri umani, anche per gli schiavi. Per gli stoici, dunque, le legislazioni dei diversi Stati erano soltanto copie
imperfette di un «diritto» che si trova nella natura stessa.
In questo modo, gli stoici eliminarono la differenza tra il singolo individuo e l'universo, e negarono anche l'ipotesi che
esista un'opposizione tra spirito e materia. Esiste solo una natura, dicevano. Una tale concezione viene chiamata
«monismo» (a differenza per esempio del chiaro «dualismo» di Platone).
Da veri figli del proprio tempo, gli stoici erano cosmopoliti, quindi più aperti ai fermenti culturali tipici del periodo di
quanto non fossero i «filosofi della botte» (i cinici). A loro parere, la comunità degli uomini si deve occupare di politica,
e molti stoici furono attivi statisti: ricordiamo, per esempio, l'imperatore romano Marco Aurelio (121-180 d.C.). Gli
stoici contribuirono a diffondere la cultura e la filosofia greca a Roma, soprattutto grazie all'oratore, filosofo e uomo
politico Cicerone (106-43 a.C.), al quale si deve il concetto di «umanesimo», cioè un atteggiamento nei confronti della
vita che pone al centro di essa il singolo individuo. Lo stoico Seneca (4 a.C.-65 d.C.) disse alcuni anni più tardi che
l'uomo è per l'uomo qualcosa di sacro, affermazione che diverrà il motto di tutto l'umanesimo.
Gli stoici sottolinearono anche che tutti i processi naturali, comprese la malattia e la morte, seguono le leggi immutabili
della natura, e quindi l'uomo deve assecondare il proprio destino. A loro parere, niente avviene per caso, perché tutto
accade secondo necessità: se il destino bussa alla porta, non serve a nulla lamentarsi; analogamente anche le circostanze
liete vanno vissute con la massima tranquillità. Tale posizione è simile a quella dei cinici, i quali sostenevano la
necessità di rimanere distaccati e indifferenti in ogni circostanza.
Ancora oggi, se vediamo qualcuno che non si lascia coinvolgere e trasportare dai propri sentimenti, gli attribuiamo una
«calma stoica».
Gli epicurei
Socrate cercava di scoprire il modo in cui l'uomo potesse vivere una vita felice. I cinici e gli stoici lo interpretavano nel
senso che l'uomo deve liberarsi dai beni materiali e dalle passioni. Tra gli allievi di Socrate, però, ce ne fu uno, di nome
Aristippo, secondo il quale lo scopo della vita doveva essere il raggiungimento del massimo piacere dei sensi. Aristippo
identificava quindi il bene con il piacere e, di conseguenza, il male con il dolore. Sua intenzione era sviluppare un'arte
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del vivere che potesse evitare ogni forma di dolore. Il fine per i cinici e gli stoici era quello di sopportare il dolore, cosa
ben diversa dal cercare di evitarlo intenzionalmente.
Nel 316 avanti Cristo, Epicuro (341-270 a. C.) fondò una scuola filosofica ad Atene e, sviluppando ulteriormente l'etica
del piacere di Aristippo, la integrò con la teoria degli atomi di Democrito. Tale scuola, situata in un giardino, era aperta
a tutti (anche alle donne e agli schiavi). Da allora, i seguaci di Epicuro (gli epicurei) vennero chiamati «quelli del
Giardino». Sembra che all'ingresso ci fosse una scritta che diceva: «Straniero, qui starai bene. Qui il piacere è il bene
più alto».
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Epicuro sottolineò che il risultato di un'azione incentrata sul piacere deve essere sempre valutato alla luce di eventuali
effetti collaterali.1 Secondo Epicuro, il valore di un piacere a breve scadenza va misurato confrontandolo con un piacere
a lunga scadenza ma durevole e più intenso.2 A differenza degli animali, l'uomo ha la possibilità di pianificare la propria
vita. Possiede la capacità di effettuare un «calcolo sul piacere».
Per Epicuro, inoltre, il piacere non corrisponde necessariamente al godimento fisico, ma anche a valori come l'amicizia
o l'apprezzamento di un'opera d'arte. La padronanza di sé, la temperanza e la serenità d'animo - ideali ricorrenti nella
cultura greca fin dall'antichità - rappresentano condizioni indispensabili per godere della vita: i desideri e le passioni
infatti non vanno assecondati, ma dominati.
I frequentatori del Giardino erano soprattutto tormentati da angosce di natura religiosa. Per fugare questi timori, e
soprattutto per sconfiggere la paura più grande, quella della morte, Epicuro fa ricorso alla teoria di Democrito sugli
atomi dell’anima. Secondo Democrito, non esisteva nessuna forma di vita dopo la morte perché, quando moriamo, gli
atomi dell'anima si disperdono in tutte le direzioni. «II più terribile dei mali, dunque, la morte», diceva semplicemente
Epicuro, «non è niente per noi, dal momento che, quando noi ci siamo, la morte non c'è, e quando essa arriva, noi non
siamo più.»
Epicuro stesso riassunse la sua filosofia liberatrice attraverso quello che chiamò il «quadruplice rimedio»:
1) sono vani i timori degli dei e dell'aldilà;
2) è assurda la paura della morte, la quale non è nulla;
3) il piacere, quando lo si intende correttamente, è a disposizione di tutti;
4) infine il male è di breve durata, oppure è facilmente sopportabile.
Paragonare il compito del filosofo a quello del medico non era un fatto nuovo nel pensiero greco. Secondo Epicuro
l'uomo deve dotarsi di una «farmacia ambulante filosofica », composta appunto dalle quattro importanti medicine.
A differenza degli stoici, gli epicurei mostrarono uno scarso interesse per la politica e la società. « Vivi nascosto!» era il
consiglio di Epicuro. Possiamo forse paragonare il suo «Giardino» al modo di vivere di alcune comuni di oggi: anche ai
nostri giorni molti cercano un luogo in cui rifugiarsi per sfuggire alla società.
Alla morte di Epicuro, alcuni dei suoi seguaci si orientarono unicamente verso una ricerca affannosa del piacere. II loro
motto divenne: «Vivi l'istante». II termine «epicureo» viene oggi usato con significato dispregiativo per indicare una
persona dedita soltanto ai piaceri mondani.
Il neoplatonismo
Abbiamo visto che i cinici, gli stoici e gli epicurei si rifacevano al pensiero socratico. Inoltre accoglievano motivi propri
dei presocratici come Eraclito e Democrito. La corrente più importante della tarda antichità si ispirò invece soprattutto
alla dottrina delle idee di Platone e per questo motivo viene chiamata neoplatonismo. II suo esponente più significativo
fu Plotino. Nato a Licopoli, in Egitto, tra il 202 e il 205 dopo Cristo, Plotino studiò filosofia ad Alessandria, città che
per molti secoli era stata il punto d'incontro tra la filosofia greca e la mistica orientale. Intorno ai quarant'anni, Plotino si
trasferì a Roma, portandovi una dottrina di salvezza che, per cosi dire, entrò in concorrenza con quella cristiana, la quale
cominciava allora ad acquistare una certa importanza. Comunque il platonismo avrebbe esercitato una forte influenza
sulla teologia cristiana.
Platone distingueva tra il mondo delle idee e il mondo sensibile. Analogamente aveva introdotto una netta divisione tra
l'anima umana e il corpo umano. In questo modo l'essere umano era diventato una creatura duplice: da un lato il corpo,
fatto di terra e polvere come tutto ciò che appartiene al mondo sensibile, dall'altro l'anima immortale. Questa
concezione era assai diffusa tra i greci già molto tempo prima di Platone. Plotino inoltre conosceva bene le concezioni
analoghe diffuse in Asia.
Per Plotino il mondo è teso tra due poli. A un'estremità si trova la luce divina, che chiamò Dio o l'«Uno»; all'altra c'è il
buio assoluto, dove non giunge la luce dell'Uno. Ma il punto fondamentale in Plotino è che il buio in realtà non esiste,
ma è soltanto un'assenza di luce: in altre parole non c'è. L'unica cosa esistente è Dio, che però, al pari di una fonte
luminosa, gradatamente si perde nel buio. Esiste quindi un limite al di là del quale i raggi divini non possono giungere.
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Se ti è mai capitato di fare indigestione di cioccolato, sai che cosa voglio dire. In caso contrario, ti assegno questo esercizio: ammesso che ti piaccia
il cioccolato, prendi i tuoi risparmi e comprane una buona quantità. Ai fini della riuscita dell'esperimento è molto importante che tu lo mangi tutto in
una volta sola. Mezz'ora dopo, capirai che cosa intendesse Epicuro, con «effetti collaterali».
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Immagina, per esempio, di decidere di non mangiare più cioccolato per un anno perché vuoi risparmiare la paghetta settimanale per comprarti una
bicicletta nuova o per fare una vacanza all'estero.
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Secondo Plotino, l'anima è irradiata dalla luce dell'Uno, mentre la materia è il buio, che in realtà non esiste. Tuttavia
anche le forme in natura riflettono un debole bagliore proveniente dall'Uno.3 Ciò che arde è Dio, mentre il buio
circostante è la fredda materia di cui sono composti gli uomini e gli animali. Le idee eterne, che rappresentano le
«protoforme» di tutte le creature, sono le più vicine a Dio. L'anima dell'uomo è una «scintilla del falò», ma anche nella
natura risplende un barlume di luce divina e noi possiamo vederla in tutti gli esseri viventi: sì, anche una rosa o un
giacinto possiedono questo bagliore divino. Il posto più lontano rispetto a Dio è occupato dalla terra, dall'acqua e dalla
pietra.
Qualcosa di questo mistero divino è presente in tutto ciò che esiste. Lo vediamo risplendere in un girasole o in un
papavero, lo intuiamo in una farfalla che si alza in volo da un ramo o in un pesciolino rosso che nuota in una boccia. Ma
noi avvertiamo Dio soprattutto nella nostra anima: soltanto lì possiamo ricongiungerci al grande mistero della vita. Sì,
in rari momenti riusciamo a sentire che noi stessi siamo questo mistero divino.
Le immagini di cui si serve Plotino ricordano il mito della caverna di Ptatone: più ci avviciniamo all'apertura della
grotta e più siamo vicini a ciò da cui tutto si origina. Tuttavia, diversamente dalla netta bipartizione della realtà operata
da Platone, il pensiero di Plotino è caratterizzato da un sentimento del tutto. Tutto è Uno, perché tutto è Dio. Anche le
ombre sul fondo della caverna di Platone hanno un debole bagliore dell'Uno.
Alcune volte, nel corso della sua vita, Plotino visse un'«esperienza mistica»: sentì cioè la sua anima fondersi con Dio.
Plotino non è il solo ad avere avuto questo tipo di esperienza: in varie epoche e in diverse culture ci sono stati uomini
che hanno potuto raccontare di averla vissuta. Magari l'hanno descritta in modo diverso, però le loro descrizioni hanno
molti elementi simili. Ora analizzeremo questi elementi.
I mistici
Si parla di esperienza mistica quando si ha il senso di un'unità con Dio o con l'«anima del mondo». Molte religioni
affermano che esiste un profondo divario tra Dio e la creazione; il mistico invece sente che questo abisso non c'è: lui (o
lei) ha infatti vissuto l'esperienza del «raggiungere Dio» o del « fondersi» con Lui.
Alla base di questa esperienza c'è il sentimento che quello da noi normalmente chiamato «io» in realtà non sia il nostro
vero io. Per brevi attimi, ci possiamo sentire parte di un io più grande. Alcuni mistici lo chiamano Dio, per altri è
l'«anima del mondo» o la «natura nella sua totalità».
Quando avviene questa fusione, il mistico sente di «perdere se stesso », di scomparire in Dio o di annullarsi in Dio
come una goccia d'acqua «perde se stessa» quando si mescola all'oceano. Una volta un mistico indiano disse: « Quando
esisteva il mio io, non esisteva Dio. Adesso esiste Dio, e io non esisto più ». Il mistico cristiano Angelus Silesius (16241677) affermò: «Oceano diventa ogni goccia quando raggiunge l'oceano, e cosi l'anima diventa Dio quando raggiunge
Dio».
Quando avviene questa fusione, ciò che perdi è infinitamente piccolo rispetto a quello che guadagni. Certo, perdi te
stesso in quella forma che hai in quel momento, ma al contempo capisci che in realtà sei qualcosa di infinitamente più
grande. Sì, tu sei l'anima del mondo. Tu sei Dio. Se devi rinunciare a te stesso, può consolarti l'idea che comunque, un
giorno, tu perderai il tuo «io quotidiano». A detta dei mistici, il tuo vero io, che puoi sentire solo se riesci a liberarti di te
stesso, è un fuoco meraviglioso che arde in eterno.
Tuttavia questo tipo di esperienza mistica non viene sempre da sé. II mistico deve percorrere una via di purificazione e
di illuminazione per prepararsi all'incontro con Dio. Questa via si basa su un modo di vivere semplice e sulla
meditazione. Poi, all'improvviso, il mistico raggiunge la sua meta, e può esclamare: «Sono Dio», oppure: «Io sono Te».
A prescindere dall'epoca e dalla società cui appartengono, i mistici hanno descritto le loro esperienze in modo
sorprendentemente analogo. Tuttavia, quando cercano di dare un'interpretazione religiosa o filosofica al fenomeno che
hanno vissuto, allora emerge il loro retaggio culturale.
Nella mistica occidentale, cioè nell'ebraismo, nel cristianesimo e nell'islamismo, il mistico afferma di avere incontrato
la Persona di Dio: infatti, anche se Dio è presente nella natura e nell'anima umana, Egli è al di sopra del mondo. Nella
mistica orientale, cioè nell'induismo, nel buddhismo e nel taoismo, il mistico afferma di aver vissuto una fusione totale
con Dio o «anima del mondo». « Io sono l'anima del mondo», può dire un mistico, oppure: «Io sono Dio», perché Dio
non soltanto è presente nel mondo, ma non è in nessun altro luogo.
Le correnti mistiche dell'India si sono sviluppate in un'epoca anteriore a Platone. Swami Vivekananda, che ha
contribuito a diffondere il pensiero induista in Occidente, scrisse: «Come alcune religioni affermano che l'essere umano
che non crede nella Persona di Dio al di fuori di se stesso è ateo, così noi affermiamo che un uomo che non crede a se
stesso è ateo. Non credere nella grandezza della propria anima è ciò che noi chiamiamo ateismo».
Un'esperienza mistica può avere importanza anche per l'etica. Radhakrishnan, che fu presidente dell'India, una volta
disse: «Devi amare il tuo prossimo come te stesso perché tu sei il tuo prossimo. E’ soltanto un'illusione quella che ti fa
credere che il tuo prossimo sia qualcosa di diverso da te stesso ».
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Prova a immaginare un grande falò che arde nella notte, un falò da cui partono in ogni direzione numerose scintille. Di certo, entro un certo raggio,
la notte sarebbe illuminata. Se ci allontanassimo di qualche chilometro, probabilmente riusciremmo a scorgere ancora la luce del fuoco, anche se
debole. Tuttavia, con l'aumentare del la distanza, prima vedremmo soltanto un puntino luminoso, simile a una fioca lanterna, poi i raggi luminosi
scomparirebbero del tutto. A un certo punto, ci ritroveremmo immersi nel buio, e non vedremmo più niente: non esisterebbero più nè ombre né
contorni.
La realtà è paragonabile a questo falò.
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