32° congresso nazionale della - Società Italiana di Microbiologia

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32° Congresso Nazionale
Società Italiana di
Microbiologia
Milano, 26 - 29 Settembre 2004
RIASSUNTI
32°
Congresso Nazionale della
Società Italiana di Microbiologia
Milano, 26 - 29 Settembre 2004
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32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
Ricordo di
GIORGIO CAVALLO
Il 21 settembre dello scorso anno, nel giorno del suo 80° compleanno, è mancato il prof. Giorgio
Cavallo. In pensione ormai da diversi anni, egli era rimasto sempre attivissimo, infaticabile nello scrivere
riviste scientifiche, articoli e conferenze, a coltivare i mille interessi intellettuali che hanno reso ricca e
piena la sua vita, a seguire le vicende della Microbiologia Italiana, e a frequentare l’Istituto da lui fondato
dando a tutti noi, suoi allievi, consigli sempre puntuali e preziosi. L’ultima soddisfazione l’ha avuta solo
pochi giorni prima di mancare, quando ha saputo che un altro dei suoi allievi, il prof. Piero Cappuccinelli,
microbiologo di Sassari, era stato eletto alla prestigiosa Accademia dei Lincei. La sua repentina scomparsa, mentre era ancora in piena attività, ha lasciato in noi tutti un senso incolmabile di vuoto.
Il Prof. Giorgio Cavallo è nato a Pescara nel 1923, ed è sempre stato fiero delle sue origini abruzzesi, alle quali faceva risalire alcuni aspetti del suo carattere, in particolare la determinazione e la tenacia
con cui si impegnava in tutto ciò che intraprendeva. La sua famiglia non era tuttavia di origine abruzzese:
il padre era nato a Modica, nella casa di famiglia situata nella stessa via, ed a pochi metri di distanza da
quella del poeta Salvatore Quasimodo, e come funzionario statale fu trasferito in diverse città, seguito dalla
famiglia. Giorgio Cavallo, dopo aver seguito gli studi inferiori in varie sedi, ritornato a Pescara vi frequentò
il liceo classico Gabriele d’Annunzio, legandosi sempre più alla sua città natale.
Terminato il Liceo si iscrisse alla Facoltà di Medicina dell’Università di Napoli, città dove è maturata la sua formazione culturale e scientifica. Di quegli anni il Prof. Cavallo ci ha lasciato un ricordo in una
sua opera autobiografica, nella quale descrive con vivide pennellate quel periodo della sua vita: la guerra,
gli ultimi anni del regime, l’arrivo degli americani, la vita universitaria vista prima come studente, e dopo
la laurea come assistente nell’Istituto di Microbiologia diretto dal Prof. Califano. Sono di quel periodo le
frequentazioni della casa del filosofo Benedetto Croce, che era grande amico del suo maestro il prof.
Califano, e dove il giovane Cavallo maturò il proprio credo nei grandi principi liberali, ai quali rimase fedele per tutta la vita.
Negli anni successivi il Prof. Cavallo alternò la frequenza nell’Istituto di Microbiologia con lunghi periodi di permanenza all’estero dove si è compiuta gran parte della sua formazione scientifica. Degli
11 anni che intercorrono tra la laurea, conseguita nel 1947, e la vincita del concorso a Cattedra, a soli 35
anni, presso l’Università di Sassari, circa la metà li ha trascorsi lavorando in prestigiosi laboratori esteri:
in Belgio, presso l’Univesità di Liegi; a Tubinga, presso l’Istituto Max Planck,; a Marburg, presso l’Istituto
Behring; ed infine per due anni negli Stati Uniti presso l’Istituto di Microbiologia della Rutgers University,
nel laboratorio diretto da Heidelberger, il fondatore della moderna immunochimica.
L’attività di ricerca del Prof. Cavallo in quegli anni è stata orientata principalmente su due grandi
temi: l’immunità aspecifica, e la fisiologia batterica, ed i risultati delle sue ricerche sono stati pubblicati
sulle principali riviste internazionali, Al termine della sua operosissima vita oltre 470 lavori scientifici
testimoniano un impegno intenso e continuo, che non è mai venuto meno, nemmeno dopo la pensione.
Ma il Prof. Cavallo non è stato solo un valente ricercatore. E’ stato un formidabile organizzatore,
che si è impegnato con tutte le forze per far crescere la sua disciplina. La Microbiologia era allora una
disciplina giovane sotto l’aspetto didattico, ed in molte Università era ospitata presso altri Istituti. Quando,
dopo l’Università di Sassari, il prof. Cavallo fu chiamato prima Pisa nel 1961, poi nel 1964 a Torino, si è
impegnato a fondare i rispettivi Istituti. A Torino la Microbiologia era ospitata nel vecchio Istituto di Igiene
di via Bidone, diretto dal Prof. Cambosu, e lì si installò al suo arrivo il prof. Cavallo; ma poco dopo, all’inizio del 1965, morì il prof. De Gaetani, Direttore dell’Istituto di Patologia Generale, e la Facoltà ne affidò la direzione al prof. Cavallo, che vi si trasferì. In quel periodo il prof. Cavallo combatté una strenua battaglia per la costruzione del nuovo Istituto di Microbiologia. E’ un peccato che non abbia fatto in tempo a
raccogliere in un altro volume autobiografico le memorie di quegli anni, e le incredibili traversie che
accompagnarono la realizzazione dell’Istituto, dal reperimento dell’area, ai finanziamenti, al fallimento di
un paio delle ditte appaltatrici, ed altro ancora. Grazie alla sua instancabile energia tutti gli ostacoli ven-
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nero letteralmente travolti e l’Istituto, terminato nel 1968, fu ufficialmente inaugurato nel 1969, in occasione del 15° Congresso Nazionale di Microbiologia.
Negli anni successivi il Prof. Cavallo ha posto le sue energie di organizzatore al servizio di tutta
l’Università di Torino, di cui fu Rettore per nove lunghi e difficili anni dal 1975 al 1984. Sono passati
quasi trent’anni dal giorno in cui il prof. Cavallo fu eletto Rettore dell’Università di Torino: molti dei
presenti quell’epoca non l’hanno vissuta, almeno non come docenti o professionisti, ed anche chi l’ha
vissuta ha dimenticato o rimosso molti ricordi di quegli anni, e deve compiere uno sforzo per rammentarli. Sono stati anni molto difficili: le vicende giudiziarie del cosiddetto processo dei clinici che sconvolse la Facoltà di Medicina, la contestazione selvaggia degli studenti, il terrorismo delle brigate rosse,
l’Università allo sbando, gli impiegati che si sentivano abbandonati. Il prof. Cavallo, agendo con coerenza e con determinazione riuscì a rimettere l’Università in grado di svolgere i propri compiti istituzionali, ridando fiducia a chi l’aveva persa ed assumendo una serie di decisioni coraggiose: ricordo, fra le
altre, quella presa contro il parere di molti colleghi, di mantenere aperto nelle ore serali Palazzo Nuovo,
dove si erano verificati episodi di violenza. Il prof. Cavallo fece rinforzare la vigilanza e mantenne l’apertura fino alle ore 23, per non cedere al ricatto della violenza e per continuare a consentire lo studio
agli studenti lavoratori dei corsi serali.
Di quegli anni ricordo l’arrivo del prof. Cavallo in Istituto, dove ha sempre voluto continuare a
svolgere tutte le lezioni del suo corso, accompagnato dalla scorta armata che gli era stata assegnata da
quando il suo nome era comparso in un elenco di obbiettivi delle “brigate rosse” e di “prima linea”. In due
sole occasioni ricordo di aver visto il prof. Cavallo un po’ scosso: una fu la mattina in cui gli dissero che
uno degli agenti abitualmente addetti alla sua scorta, e che lui conosceva bene, era stato appena ucciso dalle
brigate rosse, e l’altra quando gli riferirono che nel corso di una perquisizione a Palazzo Nuovo erano stati
scoperti dei depositi di bombe Molotov, accuratamente nascoste dietro ai caloriferi !
Presentando la propria candidatura il Prof. Cavallo aveva promesso che sarebbe stato il Rettore di
tutti, e non solo della Facoltà di Medicina, e questa promessa fu da lui mantenuta con scrupolo. Dal suo
impegno a tutto campo l’Università di Torino ebbe molto da guadagnare: in quegli anni fu tra l’altro impostato il piano di sviluppo dell’Università, con il trasferimento delle Facoltà di Agraria e di Economia in
nuove e più consone sedi, piano che ha dimostrato tutta la sua validità negli anni successivi.
Le stesse energie profuse per l’Istituto prima, e per l’Università poi, il prof. Cavallo le ha dedicate a molte importanti Istituzioni locali e Nazionali: all’Accademia di Medicina di Torino, di cui fu presidente dal 1971 al 1976; alla Società Italiana di Immunologia ed Immunopatologia, della quale fu
Presidente dal 1977 al 1980, ed infine alla nostra Società Italiana di Microbiologia, della quale è stato per
molti anni Presidente, e poi, fino alla morte, Presidente Onorario. Sotto la sua direzione la Società è grandemente cresciuta sia come numero di soci che per importanza.
Non posso elencare tutte le Istituzioni di cui è stato membro, perché l’elenco sarebbe troppo lungo,
ma devo almeno citare per la loro importanza l’Accademia dei Lincei, di cui fu un membro influente, e
l’Accademia delle Scienze di Torino.
Ma il Prof. Cavallo non è stato solo un bravo organizzatore ed amministratore: è stato soprattutto
un Maestro nel senso più ampio del termine. Egli ha fondato una Scuola che oggi comprende, tra ordinari
ed associati, una ventina di professori, distribuiti in tre sedi universitarie (Torino, Sassari e Novara), ed in
4 differenti Facoltà Medicina, Scienze Farmacia e Agraria). Alcuni sono già allievi di allievi, ma tutti riconoscono in lui l’indiscusso caposcuola. Ma quel che più conta seppe creare nell’Istituto di Microbiologia
le condizioni per permettere di lavorare ai tanti giovani che vi entravano, ed in esso sono cresciuti e si sono
laureati anche molti medici e biologi che poi hanno seguito strade diverse dalla Microbiologia.
Il prof. Cavallo è stato anche un uomo politico. Candidato in diverse tornate elettorali, ed è stato
ripetutamente eletto in Consiglio Comunale, ed è anche stato sul punto di diventare ministro della
Ricerca scientifica, nel primo governo Cossiga, sostituito all’ultimo momento, quando era già stato convocato a Roma per il giuramento. Nella carriera politica il prof. Cavallo non ha certamente ottenuto i
successi che meritava. Il fatto è che egli non è mai stato un uomo di partito, e tanto meno di corrente:
diceva sempre con franchezza quello che pensava, e questo non è certamente utile nella vita politica, ma
questo suo atteggiamento gli ha sempre conquistato la stima ed il rispetto di quanti l’hanno conosciuto,
amici ed anche avversari.
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Ma il Prof. Cavallo è stato anche attratto da mille altri interessi, dall’amore per la lingua italiana
alla filosofia, dalla storia alla pittura, alla scultura, al giornalismo. Appassionato d’arte ha al suo attivo più
di cento tra recensioni, presentazioni e saggi critici su mostre di pittura e di scultura. Profondo conoscitore dei classici e della letteratura italiana e francese, era in grado di citarne ampi brani a memoria.
E’ stato un brillante conferenziere, dotato di grande chiarezza espositiva e capace di avvincere l’uditorio anche su temi di non facile comprensione. Ha tenuto molte decine di relazioni e conferenze non solo
su temi attinenti alla Microbiologia, ma su un ampio repertorio che spaziava dai temi scientifici a quelli
letterari e storici: dalla peste nera a Pasteur, da D’annunzio al confronto tra le culture anglosassone e continentale, dalla storia del Regno delle due Sicilie allo Statuto Albertino. Tra le tante ne ricordo solo una che
è rimasta memorabile per il successo ottenuto, quella tenuta nel 2000, al teatro S. Carlo di Napoli, davanti a più di 2000 persone, in occasione dell’inaugurazione del Congresso Nazionale degli Anestesisti, sul
tema: “Medici e patrioti nella rivoluzione napoletana del 1799”.
Ma questo lunghissimo elenco non rende ancora giustizia all’uomo. Al pari di tutti gli uomini
dalla personalità prorompente e complessa, Giorgio Cavallo aveva un carattere a volte difficile. Facile
ad infiammarsi se riteneva di aver subito un torto, o una mancanza di rispetto, era sufficiente chiedergli
scusa perché dimenticasse tutto e fosse pronto, come sempre, ad offrire il suo aiuto. Nei rapporti con
colleghi ed allievi sosteneva con durezza le proprie convinzioni, ed era aspro, a volte addirittura aggressivo, ma lo era solo a parole: nei fatti era di una generosità talvolta disarmante. Nei tanti anni in cui gli
sono stato vicino non lo ho mai visto rifiutare il suo aiuto a chi glielo chiedeva, e non aveva alcuna
importanza se la richiesta proveniva da un illustre collega, da un dipendente dell’Università, o da un giovane studente mai conosciuto prima: il prof. Cavallo si comportava con tutti nella stessa maniera, sempre al massimo delle sue possibilità. Nelle rare occasioni in cui non poteva dare il proprio aiuto, lo diceva sempre apertamente, senza ricorrere a quelle scappatoie o mezze verità che nel nostro mondo sono
considerate spesso necessarie.
Esigente con gli altri, lo era di più con se stesso, e soprattutto era sempre pronto a lottare per quella Università nella quale fermamente credeva.
Voglio ricordare due episodi che possono aiutare a comprenderne il carattere.
Nel 1971 é stato uno tra i primi tra i professori di Microbiologia, e non solo di Microbiologia, a
sdoppiare la propria cattedra per bandire un concorso che fu vinto dal Prof. Ferdinando Dianzani, che
divenne il secondo cattedratico di Torino, prima di essere chiamato sulla cattedra di Virologia di Roma.
In questa sua scelta precedette di molti anni i colleghi, generalmente molto gelosi dell’unicità del proprio ruolo.
Eletto Rettore alla fine del 1975 non volle mantenere anche la Direzione dell’Istituto di
Microbiologia, rinunciandovi a favore dei suoi allievi. A mia conoscenza è stato l’unico Rettore Italiano
che in quell’epoca abbia rinunciato a conservare anche la Direzione del proprio Istituto.
Entrambi questi episodi riflettono la generosità del Prof. Cavallo, ma anche la sua serena consapevolezza del proprio prestigio, che non aveva bisogno alcun tipo di puntello formale.
La modestia è una virtù degli uomini veramente grandi. Al termine di una vita così piena e ricca
di successi, vita che avrebbe fatto giustamente inorgoglire chiunque potesse vantare anche solo una frazione di quanto da lui realizzato, egli non se ne è mai vantato. Faceva parte del suo carattere considerare
ogni risultato ottenuto non un punto di arrivo, ma la base di partenza per nuove sfide intellettuali, sempre
più difficili ed interessanti.
A me piace ricordare il prof. Cavallo come un erede ideale di quegli uomini che hanno fatto grande il nostro Rinascimento: spiriti inquieti, insaziabilmente curiosi di scienza, di arte, e di tutte le manifestazioni dell’intelligenza umana, mai soddisfatti di quanto realizzato e sempre tesi a fare di più e di meglio,
poco portati alla vita contemplativa, ma estroversi e realizzatori, capaci di lasciare dietro di sé, con le loro
opere ed il loro esempio, un segno del loro passaggio su questa terra.
Così io ricordo il mio Maestro, il prof Giorgio Cavallo, e sono lieto di condividere con voi questo
ricordo.
Alessandro Negro Ponzi
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CARATTERISTICHE BIOCHIMICHE DELLE ESßL CIRCOLANTI IN ITALIA
Mariagrazia Perilli, Francesca De Santis, Marianna Fiore, Bibiana Caporale, Bernardetta Segatore, Cristina Pellegrini,
Gianfranco Amicosante
Cattedra di Biochimica Clinica e Biologia Molecolare Clinica, Università degli Studi di L’Aquila, 67100 – L’Aquila, Italia
La diffusione nosocomiale di ß-lattamasi ad ampio spettro d’azione del tipo TEM nelle Enterobacteriaceae, rappresenta un
importante problema clinico in Italia. Due recenti studi di sorveglianza nazionale effettuati nel 1999 e nel 2003 hanno messo in
evidenza che i prototipi TEM-1 e TEM-2 hanno subito una pressione selettiva maggiore dando origine ad un elevato numero di
varianti TEM con attività idrolitica ad ampio spettro. In questo lavoro verranno analizzate le caratteristiche biochimiche di 7
varianti TEM che attualmente circolano in differenti ospedali italiani: TEM-52, TEM-72, TEM-87, TEM-92, TEM-123, TEM124 e TEM-134. Le ß-lattamasi TEM-92, TEM-123 e TEM-124 hanno lo stesso set di mutazioni rispettivo alle varianti TEM52, TEM-15 e TEM-106 con la sola differenza di una sostituzione aminoacidica (Q6K) a livello del peptide signale. Tutte le
varianti TEM riportate sono state ritrovate essenzialmente in ceppi di Proteus mirabilis (TEM-52, TEM-72, TEM-87, TEM-92,
TEM-123), Morganella morganii (TEM-72 e TEM-124) e Citrobacter koseri (TEM-134). Nel 1999 la variante più diffusa era
la TEM-52 mentre nel 2003 la variante più diffusa era la TEM-92. Una attenta analisi cinetica è stata effettuata sugli enzimi
purificati e i dati ottenuti mostrano per questi enzimi una maggiore efficienza catalitica nei confronti delle oxiimino-cefalosporine ed aztreonam. Inoltre alcune varianti mostrano una resistenza nei confronti dell’acido clavulanico ed in misura minore nei
confronti del tazobactam. I risultati cinetici concordano con i valori di MIC riportati per i ceppi produttori di queste varianti.
HPV E MUCOSA ORALE: UNA RELAZIONE PERICOLOSA?
P. Ammatuna, L.Giovannelli
Dip. Igiene e Microbiologia, U.O. di Virologia, AOUP - Palermo
L’infezione da papillomavirus umano (HPV) rappresenta la più diffusa infezione a trasmissione sessuale, e più di 100 diversi
genotipi virali, ad alto o a basso rischio oncogeno, sono stati finora identificati. Oltre al ruolo ormai ampliamente confermato
dell’HPV nella cancerogenesi della cervice uterina, l’infezione da HPV sembra anche implicata nell’eziologia della cancerogenesi del cavo orale: recentemente, sulla base dell’ incremento di rischio tra 3,7 e 5,4 riportato per l’ infezione orale da HPV, si
è ipotizzato un possibile ruolo di HPV come pathway alternativo per la cancerogenesi orale, rispetto ai riconosciuti fattori di
rischio quali fumo e alcool. Sono ancora tuttavia da accertare la prevalenza, i fattori di rischio e la storia naturale dell’infezione orale da HPV. In particolare, la prevalenza varia a seconda di diverse variabili, quali popolazione studiata, metodiche impiegate e tipo di campione clinico: infatti, in studi diversi l’infezione da HPV della mucosa orale è stata riscontrata nel 37-61% di
soggetti con lesioni orali maligne (carcinoma a cellule squamose), nel 17-41% di soggetti con lesioni potenzialmente maligne,
(leucoplachia, eritro-leucoplachia o eritroplachia) e nel 12-81% di soggetti sani. Anche l’origine della presenza dell’ HPV nel
cavo orale non è chiara. Sulla base della simile struttura della mucosa orale e genitale, si è ipotizzato che l’auto/etero-inoculazione e i rapporti oro-genitali potrebbero essere la causa della presenza dell’HPV nel cavo orale, che a sua volta potrebbe costituire un reservoir per le infezioni del tratto genitale. In accordo con tale ipotesi, diversi genotipi mucosali, e tra questi molti considerati ad alto rischio (e.g., HPV-16, -18, -31, -33, -45) sono stati ritrovati anche a livello orale. Tuttavia, nonostante una significativa associazione tra carcinoma cervicale e carcinoma orale evidenziata di recente in alcuni studi, le informazioni sulla possibilità di infezione concomitante della mucosa orale e di quella genitale sono scarse e contrastanti.
Nell’infezione cervicale, il DNA di HPV ad alto rischio può integrarsi nel genoma della cellula ospite, determinando una sovraespressione degli oncogeni virali E6 e E7, che, a loro volta, interferiscono con l’attività di geni onco-soppressori quali p53 e
pRb. Simili interazioni con il ciclo cellulare sono state di recente riportate anche in caso di infezione orale da HPV, associata a
sovraespressione di p16, PCNA, ki-67 e altri regolatori del compartimento proliferativo cellulare. Quali siano le possibili conseguenze di tali interazioni, anche in associazione con altri fattori irritanti quali fumo ed alcool eventualmente presenti, non è
ancora ben conosciuto ed è attualmente argomento di diversi studi clinici ed epidemiologici.
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IL TRATTAMENTO INTERFERONICO DELLE INFEZIONI VIRALI
Guido Antonelli
Dipartimento di Medicina Sperimentale e Patologia – Sezione di Virologia – Università “La Sapienza” Roma.
L’interferon (IFN) descritto alla fine degli anni ’50 come proteina secreta da fibroblasti in seguito ad infezione virale, è stato
successivamente caratterizzato come un complesso gruppo di proteine, oggi ampiamente utilizzate nella pratica clinica, che
partecipa attivamente alla risposta immune dell’organismo contro le infezioni virali e che viene denominato sistema interferon.
Esso risulta composto da proteine diverse dal punto di vista strutturale e funzionale. Nell’uomo si conoscono almeno 15 sottotipi di IFNα, distinguibili in qualche caso anche dal punto di vista funzionale, e 1 solo tipo di IFNβ, IFNγ e IFNω.
Recentemente sono stati individuati altri tipi di IFN le cui peculiarità biologiche e potenzialità terapeutiche sono ancora oggetto di studio (IFN τ e IFN λ). Il successo dell’IFN come agente terapeutico ha conosciuto alti e bassi nel corso degli ultimi 25
anni. Ci sono infatti patologie virali (e non) in cui i vari tipi di IFN (α, β, γ), incluso l’IFN “consensus”, sono diventati i farmaci di scelta, mentre per altre patologie, nonostante i risultati promettenti iniziali, esso non è arrivato alla registrazione. L’IFN
α ad esempio e’ diventato il farmaco di scelta per diverse infezioni virali, tra le quali quelle da HCV, HBV, papillomavirus associate come e’ noto allo sviluppo di patologie tumorali.
La progressiva conoscenza della struttura chimica della molecola dell’IFN e dei mediatori coinvolti nella sua produzione ed
azione, la progressiva comprensione dei meccanismi biologici relativi alla sua produzione endogena in condizioni fisiologiche
e patologiche, come pure l’acuisizione di nuove conoscenze in campo farmacologico (vedi gli IFN peghilati) hanno permesso
di ottimalizzare la terapia interferonica nelle patologie in cui era già indicato e di ipotizzare il suo utilizzo, o l’utilizzo dei suoi
inibitori, in patologie nuove. Pur tuttavia alcuni aspetti della terapia interferonica non sono stati del tutto chiariti. Ad esempio
esiste una ampia variabilità di risposta al trattamento il cui monitoraggio e controllo potrebbe rivestire una particolare importanza dal punto di vista applicativo. A ciò va aggiunto la considerazione, oramai consolidata, che in generale i virus sono in
grado di attuare strategie volte a superare l’effetto antivirale dell’IFN. Ad esempio è stato chiarito che alcune proteine dell’HCV
sono in grado di ostacolare l’azione delle proteine antivirali indotte dal trattamento interferonico. Da quanto sopraesposto appare evidente che il ruolo svolto dal laboratorio di virologia clinica sarà sempre più determinante ai fini del monitoraggio del
paziente in corso di terapia interferonica.
LA DIAGNOSI ED IL MONITORAGGIO DELLE INFEZIONI DA CITOMEGALOVIRUS UMANO
(HCMV) NEL PAZIENTE TRAPIANTATO.
F. Baldanti
Policlinico S. Matteo.
HCMV, un membro della famiglia degli herpesvirus, è un agente virale molto diffuso in quanto determina un’infezione che la maggioranza della
popolazione dei paesi occidentali contrae in maniera asintomatica o paucisintomatica nell’ infanzia. Negli individui immunocompetenti, a seguito
dell’infezione primaria, il virus instaura un’infezione latente che persiste per l’intera durata della vita, interrotta da periodiche riattivazioni subcliniche. Tuttavia, l’infezione da HCMV in corso di gravidanza rappresenta una delle principali cause di difetti somatici e cognitivi congeniti. Inoltre,
HCMV è uno dei principali patogeni virali opportunisti nei pazienti immunocompromessi, sia pazienti con infezione da HIV che pazienti riceventi trapianto di organi solidi o di cellule staminali emopoietiche. In tali pazienti, HCMV determina infezioni primarie o riattivate disseminate spesso associate a compromissione d’organo. Pur potendo essere interessati tutti gli organi ed apparati dall’infezione da HCMV, le localizzazioni d’organo tendono a differenziarsi nei pazienti con infezione da HIV (retinite, malattia gastrointestinale) rispetto a pazienti sottoposti a trapianto (polmonite interstiziale). Nei pazienti trapiantati, tuttavia, la condizione clinica più frequente risulta essere l’infezione disseminata, caratterizzata dalla
presenza di virus nei leucociti (polimorfonucleati, nonociti) del sangue periferico. L’incremento del quantità di virus nel torrente circolatorio risulta essere predittivo di sviluppo di malattia da HCMV. Pertanto, il monitoraggio dell’infezione da HCMV nei pazienti immunocompromessi è basato sulla quantificazione di HCMV nel sangue periferico mediante determinazione dei seguenti parametri virologici: i) antigenemia, ii) viremia, iii)
DNAemia. L’antigenemia esprime il numero dei leucociti del sangue periferico veicolanti HCMV e si determina mediante identificazione e quantificazione dei leucociti positivi per un antigene precoce di HCMV (pp65). La viremia esprime il numero dei leucociti del sangue periferico veicolanti virus infettante e si determina mediante quantificazione del numero di fibroblasti infettati da HCMV dopo 24h di cocoltivazione con leucociti del sangue periferico. Questo isolamento rapido viene eseguito utilizzando la metodica “shell vial” e quantificando i fibroblasti positivi per
l’antigene virale immediato-precoce p72. La DNAemia esprime il numero di copie di DNA virale presenti nell’unità di volume del sangue periferico. Da un punto di vista biologico, viremia e DNAemia costituiscono i parametri virologici che meglio rappresentano lo stato di attiva replicazione virale, mentre antigenemia rappresenta un marcatore surrogato. Tuttavia, data la scarsa sensibilità della viremia, i parametri che meglio si
adattano per il monitoraggio dell’infezione nell’ambito di protocolli di terapia presitomatica sono l’antigenemia e la DNAemia. La terapia presintomatica (pre-emptive) dell’infezione da HCMV nei pazienti trapiantati si basa sul monitoraggio dei livelli di HCMV nel sangue periferico e nel trattamento dei pazienti che superino determinati livelli di antigenemia e DNAemie predittivi di malattia. In tal modo vengono trattati i soli pazienti a
rischio di sviluppare infezioni sintomatiche, limitando la tossicità associata alla somministrazione dei farmaci antivirali specifici. L’efficacia della
terapia viene analogamente valutata mediante verifica della riduzione dei valori di antigenemia e DNAemia. La mancata caduta o la risalita dei parametri virologici in corso di terapia può essere espressione dell’emergenza di ceppi virali farmacoresistenti. In tal caso, è di fondamentale importanza la determinazione della viremia che fornisce un dato diretto della presenza di virus infettante anche in presenza della pressione farmacologia.
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EZIOLOGIA CHE CAMBIA NELLE INFEZIONI RESPIRATORIE
Francesco Blasi
Istituto di Malattie Respiratorie Università degli Studi di Milano, IRCCS Ospedale Maggiore Milano.
Nella gestione delle infezioni respiratorie stanno emergendo diverse problematiche tra cui l’avvento di patogeni emergenti o precedentemente non identificati e il concomitante aumento della resistenza batterica. Nel corso degli anni ’90 l’epidemiologia
delle resistenze è radicalmente mutato: la maggior parte dei comuni patogeni respiratori è divenuta resistente in vitro agli antibiotici più ampiamente usati. Anche se il ruolo dell’infezione batterica nelle riacutizzazioni della BPCO è ancora controverso,
sono di recente pubblicazione alcuni lavori che dimostrano in maniera inequivocabile che la presenza di batteri, ed in particolare l’infezione delle vie aeree da parte di nuovi ceppi batterici, è associata all’insorgere della riacutizzazione e che l’infezione
con uno specifico ceppo batterico è seguita da una risposta immunologia ceppo-specifica. Questo ultimo studio ha evidenziato
come esista una risposta sistemica specifica all’infezione e ha confermato i dati relativi all’infiammazione locale e sistemica
indotta dalla presenza di batteri ad alta carica nelle vie aeree in corso di riacutizzazione ma anche in fase stabile. Un aspetto
relativamente nuovo nella gestione delle infezioni respiratorie è la formazione dei biofilm, vere e proprie città dei batteri, che è
alla base della persistenza e della cronicizzazione delle infezioni batteriche. Recentissimi studi hanno anche dimostrato che la
presenza di batteri nelle vie aeree e la loro carica correli con il numero di riacutizzazioni e con un accelerato decadimento funzionale. Si stima che il 50-80% delle polmoniti possono essere trattate a domicilio e che i patogeni più importanti in questi casi
siano Streptococcus pneumoniae, Haemophilus influenzae, e i patogeni intracellulari Mycoplasma pneumoniae, Legionella
pneumophila e Chlamydia pneumoniae, con i virus che rispondono di circa il 5-20% dei casi. Nelle polmoniti che richiedono
il trattamento ospedaliero i patogeni più frequenti sono Streptococcus pneumoniae, Haemophilus influenzae Staphylococcus
aureus e meno frequentemente altri Gram-negativi. Tra gli atipici Mycoplasma pneumonia è il più importante seguito in frequenza da Legionella e Chlamydia, con i virus che rispondono di circa il 10-15% dei casi. Tra i patogeni nuovi e/o emergenti vi è Staphylococcus aureus meticillino-resistente, causa di polmoniti acquisite in comunità sia nel bambino che nell’anziano.
Da non dimenticare poi la minaccia di CoronaVirus SARS associato e dei virus influenzali aviari.
RINTRACCIABILITÀ MICROBIOLOGICA IN FILIERE DI PRODOTTI A BASE DI CARNE
Carlo Cantoni°, Luca Cocolin e Giuseppe Comi
°Dipartimento di Scienze e Tecnologie Veterinarie per la Sicurezza degli Alimenti, Università degli Studi di Milano, Milano.
Dipartimento di Scienze degli Alimenti, Università degli Studi di Udine, Udine.
In questi ultimi anni si è osservato un aumento di studi svolti a caratterizzare il profilo microbiologico di prodotti a base di carne attraverso l’impiego di metodiche biomolecolari. Queste, basandosi sullo studio dell’intero genoma o su suoi frammenti, permettono di identificare e caratterizzare senza alcuna ambiguità tutti i microrganismi, che interagiscono in un alimento. In questa sede proporrò un approccio
polifasico usato per studiare la popolazione di batteri lattici e lieviti presenti in salsicce fresche. Lo scopo era di caratterizzare e tracciare
il profilo microbico di questi prodotti dalla produzione fino a 10 giorni di conservazione a 4°C, che rappresenta la fine della loro shelf-life.
I campioni di salsiccia erano esaminati a tempi 0, 3, 6 e 10 giorni, attraverso l’impiego di tecniche tradizionali e tecniche biomolecolari. I
batteri lattici e i lieviti erano identificati mediante due metodiche applicate in parallelo. La prima prevedeva il loro isolamento in terreni
culturali specifici e l’identificazione per mezzo di metodiche molecolari, la seconda prevedeva la loro identificazione attraverso PCRDenaturing gradient gel electrophoresis (DGGE) estraendo direttamente DNA e RNA dalle salsicce fresche conservate a diversi tempi 4°C.
Le principali popolazioni microbiche presenti erano rappresentate da Brochothrix thermosphacta e Lactobacillus sakei. In particolare
Brochothrix thermosphacta era vitale in ogni fase della produzione e conservazione del prodotto, come osservato dall’analisi del DNA e
RNA presente. Altre specie batteriche identificate attraverso DGGE comprendevano Staphylococcus xilosus, Leuconostoc mesenteroides e
Lactobacillus curvatus. In DGGE erano identificati anche diverse specie batteriche, tra cui alcuni stafilococchi, non evidenziati attraverso
i metodi culturali classici. I batteri lattici identificati al tempo 0, subito dopo l’insacco, erano identificati come Lactococcus lactis subsp.
lactis, L.casei e Enterocuccus casseliflavus, da 3 a 10 giorni erano identificati come Leuconostoc mesenteroides.e come L.sake. Questa specie è stata maggiormente isolata in piastra e identificata in DGGE. Per quanto riguarda i lieviti solo Debaryomyces hansenii era presente
in ogni campionamento, mentre inizialmente a tempo 0 era identificata Capronia mansonii. Questa specie scompariva già dopo 3 giorni di
stoccaggio a 4°C. I ceppi appartenenti a L.sakei erano caratterizzati attraverso ramdomly amplified polymorphic DNA-PCR e rep-DNAPCR. I dati hanno evidenziato che durante la conservazione della salsiccia fresca si sviluppano diverse popolazioni di L.sakei. Di conseguenza sembra che la temperatura di 4°C svolga un’opera di selezione nei confronti di popolazioni microbiche, pur appartenenti alla stessa specie. In base ai risultati ottenuti, appare chiaro che le metodiche biomolecolari (PCR-DGGE, RAPD-PCR, rep-PCR) sono di grande
utilità ai fini di caratterizzare o a “tracciare” il profilo microbico di prodotti carnei e prodotti a base di carne.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
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ATTUALITÀ ED ORIZZONTI IN TEMA DI CHEMIOPROFILASSI E CHEMIOTERAPIA
ANTIMALARICA
Francesco CASTELLI, Lina TOMASONI, Maria MANFRIN, Cecilia PIZZOCOLO, Maurizio GULLETTA
Scuola di Specializzazione in Medicina Tropicale
Istituto di Malattie Infettive e Tropicali, Università di Brescia
La malaria è ancor oggi tra le principali cause mondiali di mortalità, causando annualmente un numero stimato di 2 milioni di
decessi e con un trend in aumento. Ha inoltre assunto rilievo la malaria di importazione a seguito dell’incremento del volume e
della rapidità dei viaggi internazionali
Tra i principali fattori responsabili del peggioramento della epidemiologia malarica, la farmaco-resistenza di P. falciparum è certamente il più rilevante. Tale fenomeno si è progressivamente diffuso a tutte le classi di molecole disponibili, sinora impiegate
in monoterapia. Unica eccezione è rappresentata dai derivati dell’artemisinina che mantengono un’elevata efficacia terapeutica,
in tempi rapidi, pur con un elevato tasso di recidive se usati in monoterapia.
Recentemente, in analogia a quanto già norma per altre infezioni batteriche (tubercolosi) o virali (infezioni da HIV) la ricerca
clinica antimalarica si è rivolta alla validazione di schemi di polichemioterapia che sfruttino la rapida riduzione della biomassa
parassitaria indotta dai derivati della artemisinina e l’azione prolungata di elevate concentrazioni del farmaco compagno, solitamente ad emivita più lunga, sui parassiti residui.
Razionale dell’approccio di combinazione è l’ottenimento di tassi di guarigione più elevati e rapidi, con ridotta probabilità di
selezionare ceppi resistenti. Una recente metanalisi ha sancito la superiorità di tale approccio rispetto alla monoterapia. Il
Programma Roll Back Malaria di OMS ha oggi definito la Antimalarial Combination Therapy (ACT) quale attuale standard of
care della malaria non complicata anche nei Paesi in via di sviluppo, dove ancora esistono rilevanti barriere logistiche ed economiche. Tra le combinazioni ACT raccomandate dalla OMS sono artemetere-lumefantrina, artesunato-amodiachina, artesunato-meflochina e sulfadossina-pirimetamina con amodiachina o con artesunato.
Sotto il profilo chemioprofilattico per il soggetto semi-immune, ormai inutilizzabile in Africa la clorochina (anche in associazione a proguanil), rinnovato interesse hanno oggi i farmaci ad azione chemioprofilattica causale sulle forme epatiche pre-eritrocitarie. Tra questi, è oggi disponibile la associazione atovaquone-proguanil che si affianca alla meflochina ed alla doxiciclina
quale farmaco di scelta per le aree di clorochino-resistenza e, in prospettiva futura, la tafenoquina in ragione della sua lunghissima emivita che consente in linea teorica una prolungata ed efficace protezione dopo un singolo ciclo di somministrazione.
LEPTOSPIRE: FATTORI DI PATOGENICITÀ E LORO INTERAZIONE CON L’IMMUNITÀ INNATA.
Marina Cinco
Laboratorio Spirochete, Dipartimento di Scienze Biomediche, Università di Trieste
Le leptospire provocano nell’uomo infezioni per lo più acute, raramente croniche. I fattori di patogenicità sono basati principalmente sulle loro capacità invasive: esse infatti aderiscono a cellule e tessuti, e resistono ai fagociti in quanto vengono scarsamente internalizzate, pur risultando alquanto sensibili ai peptidi antimicrobici secreti nel fagosoma. Sono altresì capaci di eludere il killing da complemento in quanto legano il fattore di regolazione complementare H, come da noi recentemente dimostrato.
Questa straordinaria capacità di resistere alle difese innate consente alle leptospire di riprodursi velocemente nel sangue e nei
tessuti, sì da raggiungere un’alta densità microbica, prerequisito essenziale per innescare una serie di effetti tossici localizzati,
dovuti al rilascio di enzimi litici e mediatori dell’infiammazione.
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32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
L’SPRESSIONE DI P16INK4A È UN FATTORE PROGNOSTICO NEL CANCRO DELLA CERVICE
UTERINA, CORRELATO AL GRADO CIN E AL PAPILLOMAVIRUS AD ALTO RISCHIO MA NON
PREDICE LA CLEARENCE VIRALE DOPO CONIZZAZIONE.
Ciotti M1., Paba P1., Benedetto A1., Branca M2., Syrjanen K2., Favalli C1..
Laboratorio di Microbiologia e Virologia Clinica, Policlinico Universitario Tor Vergata, Roma.
Istituto Superiore di Sanità, Laboratorio di Epidemiologia e Biostatistica, Roma.
Obiettivo: Uno dei meccanismi molecolari che interferisce con la via del p16INK4a/cyclin D/Rb è l’inattivazione di pRb attraverso il legame della proteina E7 del papilloma virus umano ad alto rischio (HPV-HR). Il ruolo di p16INK4a come marker di
HPV- HR e nella diagnosi di CIN è ben documentato, ma il suo valore predittivo a) nell’eliminazione del virus dopo trattamento
del CIN e b) come marker prognostico di cancro cervicale è stato analizzato per la prima volta.
Materiali e Metodi: Una serie di 304 campioni d’archivio comprendenti 125 carcinomi squamosi, 179 lesioni CIN, sono state
esaminati mediante immunoistochimica con un anticorpo diretto contro la p16INK4a . La presenza dell’HPV è stata indagata
mediante PCR facendo uso di tre coppie di primers (MY09/11, GP5+/GP6+, SPF). I dati del follow-up erano disponibili per 71
pazienti con carcinoma squamoso mentre 67 lesioni CIN sono state seguite nel tempo con una serie di PCR dopo conizzazione.
Risultati: Gli HPV-HR erano strettamente associati alle lesioni CIN (OR 19.12; 95%CI 2.31-157.81) e ai carcinomi squamocellulari (OR 27.25; 95%CI 3.28-226.09).C’era una significativa relazione lineare tra il grado della lesione e l’intensità della
colorazione per p16INK4a (p=0.0001). L’espressione di p16INK4a era anche strettamente correlata all’HPV-HR (p=0.0001). La
colorazione di p16INK4a era un indicatore specifico di CIN, con 100% PPV, 83,5% di sensibilità, e 80,1% PPV nel rilevare
l’HPV.Tuttavia, la colorazione di p16INK4a non riusciva a predire l’eliminazione o la persistenza di HPV-HR dopo trattamento del CIN. Inoltre, la colorazione di p16INK4a era un significativo predittore di prognosi favorevole nel cancro cervicale., sia
nell’analisi di sopravvivenza univariata (p=0.006) che multivariata (p=0.003).Dopo aver corretto per età, HPV-HR, e metastasi
nel modello di regressione di Cox, un OR 0.219 (95%CI 0.083-0.580) indica che la positività per p16INK4a è altamente protettiva verso la morte per cancro. Questo potere di predizione è uguale a quello delle metastasi a distanza (p=0.003), che avevano comunque un più basso OR 2.98 (95%CI 1.463-6.074).
Conclusioni: Nel nostro modello statistico (in mancanza del FIGO stage), il potere prognostico di p16INK4a era uguale a quello delle metastasi a distanza. Resta da stabilire se nel cancro della cervice il valore prognostico della colorazione di p16INK4a
può competere con l’alto valore predittivo del FIGO stage.
BATTERI ANTIBIOTICO RESISTENTI NEGLI ALIMENTI FERMENTATI: TRACCIABILITÀ E
VALUTAZIONE CRITICA
P. S. Cocconcelli, L. Morelli
Istituto di Microbiologia - Centro Ricerche Biotecnologiche, Università Cattolica del Sacro Cuore - Piacenza – Cremona
L’impiego di antibiotici come promotori di crescita nell’allevamento animale ha indotto l’emergenza di batteri antibiotico resistenti e la diffusione di determinati genetiche per la resistenza agli agenti antimicrobici nelle materie prime per la produzione di
alimenti di origine animale. Diversi processi di produzione di alimenti fermentati, come la produzione di formaggi e di salumi,
non prevedono processi di eliminazione del microbiota avventizio presente nelle materie prime quindi i microrganismi presenti nelle materie prime possono partecipare al processo di fermentazione ed essere presenti in quantità rilevanti nell’alimento al
consumo. Ceppi antibiotico resistenti e determinanti genetiche di resistenza possono quindi passare dalle materie prime ai prodotti finiti.
Nel corso di questa ricerca è stato effettuata un’analisi del rischio in filiere di produzione di alimenti di origine animale, valutando la tracciabilità e la diffusione di resistenza agli antibiotici e la presenza di specifiche determinati genetiche per la resistenza in batteri appartenenti ai generi Lactobacillus, Enterococcus e Staphylococcus e alla specie Streptococcus thermophilus.
Sono stati enumerati ed isolati ed identificati i ceppi resistenti alla tetraciclina, agli aminoglicosidi, alla vancomicina, all’eritromicina ed ai beta-lattamici. Per la ricerca delle determinati genetiche coinvolte nelle resistenza agli antibiotici si sono impiegate tecniche di PCR. Nei ceppi di Staphylococcus isolati da alimenti sono stati riscontrati geni per la resistenza all’eritromicina (ermB e ermC) alla tetraciclina (tetM), all’ampicillina (blaZ) ed alla meticillina (mecA). In Enterococcus sono stati identificati ceppi che presentavano le determinanti genetiche ermB, tetM, e vanA a livello cromosomico o plasmidico. Nei ceppi appartenenti al genere Lactobacillus sono stati identificati i genotipi ermB e tetM.
La diffusione della resistenza ai glicopeptidi è stata valutata in stafilococchi coagulasi negativi coinvolti nel processo di fermentazione dei salumi a partire dalla materia prima fino al prodotto pronto al consumo. Sebbene gli stafilococchi condividessero lo stesso ambiente con Enterococcus vancomicina resistenti, in nessuno dei ceppi resistenti si sono riscontrate le determinati genetiche VanA, VanB e VanC. Da questi ambienti è stato isolato e studiato un ceppo eteroresistente di Staphylococcus
epidermidis, in grado di crescere in presenza di 64 µg/ml di vancomicina. Il meccanismo di resistenza ai glicopeptidi di questo
ceppo batterico è stato studiato e si è evidenziato il ruolo di AtlE, una autolisina di parete coinvolta anche nella formazione di
biofilm, nel meccanismo di resistenza.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
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PALEO-EPIDEMIOLOGIA DI PLASMODIUM FALCIPARUM:DALLA FORESTA PLUVIALE AFRICANA
ALLA MEDIA VALLE DEL TEVERE
Mario Coluzzi
Ordinario di Parassitologia della I Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Roma “La Sapienza”
E’ stato dimostrato con studi citogenetici e molecolari che la speciazione della forma più antropofila ed endofila tra i vettori di
malaria del complesso Anopheles gambiae, cioè della specie nominale, è avvenuta nella foresta pluviale dell’Africa centrale nel
tardo Neolitico, forse meno di tremila anni fa. Studi palinologici confermano l’ipotesi che cambiamenti climatici abbiano determinato la temporanea savanizzazione di un’ampia zona di foresta, verosimilmente subito occupata da agricoltori Bantù. Questi
ultimi, mentre la foresta riprendeva lentamente il suo areale originale, svilupparono nuove tecniche di coltivazione (“slash and
burn” o “shifting cultivation”) che, aprendo la fitta copertura vegetale, creavano le condizioni per lo sviluppo larvale di An.
gambiae. La rivoluzione agricola in foresta aveva cioè procurato una nuova nicchia ecologica per la zanzara e la sua stretta associazione con la specie umana s’imponeva non solo in quanto comoda sorgente di sangue per 1’alata femmina ma soprattutto in
quanto indicatore biologico di aperture della copertura vegetale. L’origine di questa nuova specie di Anopheles ha avuto una
forte influenza sulle forme primitive di Plasmodium falciparum, presenti in Homo sapiens fin dall’ominazione. Questo plasmodio, adattato a seguire piccoli gruppi di ominidi nomadi, demograficamente stabili e con trasmissione sporadica, aveva ora
la possibilità di coadattarsi con un vettore specificamente antropofilo che gli assicurava un eccesso di trasporto nell’ambito di
una comunità relativamente sedentaria, in fase di espansione demografica e quindi in grado di tollerare un certo tasso di mortalità senza rischio di estinzione. In tali condizioni si può facilmente ipotizzare una competizione tra diverse varianti genetiche
del Plasmodio e, mentre la selezione aveva precedentemente favorito ceppi con bassi livelli di patogenicità, il considerevole
aumento di trasmissibilità determina una tendenza opposta che produrrà il moderno P. falciparum e la ben nota gravità delle sue
infezioni. Successivamente, An. gambiae procede ampliando il suo areale nelle zone di savana dell’Africa Occidentale subsahariana con un processo di ecotipificazione basato su inversioni cromosomiche paracentriche in parte frutto di introgressione
con An. arabiensis. Circa 2000 anni fa P. falciparum arriva sulle coste Mediterranee nord-africane: è stato costretto a “cambiare
aereo” passando - con qualche problema di adattamento - dal vettore subsahariano An. gambiae, a quello mediterraneo An.
labranchiae. Questa specie del gruppo maculipennis si è poi espansa verso Nord, in Sardegna, Sicilia e Italia continentale causando, con il suo falciparum, le epidemie di malaria che hanno coinciso con il declino dell’Impero Romano. La prima
descrizione di una “febbre perniciosa terzana maligna” risale al 2° secolo dopo Cristo (Celso) mentre è del 5° secolo d.C. la documentazione relativa ad una epidemia da falciparum nella Media Valle del Tevere (Poggio Gramignano).
VIROSOMI INFLUENZALI: UN EFFICIENTE SISTEMA DI DELIVERY IN VACCINOLOGIA
Maria Grazia Cusi1, Chiara Terrosi, Gianni Gori Savellini, Giuseppa Di Genova, Pierpaolo Correale1, Reinhard Glück2
1Dipartimento di Biologia Molecolare, Sezione di Virologia, 2Dipartimento di Patologia Umana e Oncologia, Università di
Siena, Siena Italia, 3Bernabiotech, Berna, Svizzera.
I virosomi influenzali costituiscono un nuovo modello tecnologico efficace per il delivery di vaccini ed utile per approcci
terapeutici. Essi sono costituiti da fosfolipidi assemblati in vescicole unilamellari, contenenti l’emoagglutinina (HA) e la neuraminidasi (NA) del virus influenzale. Una caratteristica dei virosomi è quella di ritenere le glicoproteine dell’envelope nella
conformazione originale. I virosomi possono trasportare antigeni adsorbiti in superficie o, integrati nel doppio strato lipidico, o intrappolati all’interno. Quando questi sistemi vengono usati in un vaccino, la risposta immune è diretta contro l’antigene incorporato e contro le glicoproteine del virus influenzale. A tal proposito è stato osservato che la presenza di anticorpi preesistenti contro il virus influenzale aumenta la risposta immune contro l’antigene eterologo. Quest’ultimo, dopo essere stato incorporato da cellule presentanti l’antigene (APC) può venire processato ed associato a molecole MHC I e II, stimolando così sia CD4+ che CD8+. Questa proprietà rende i virosomi un sistema eccellente di delivery per la stimolazione di
risposte “helper” e citotossiche.
I virosomi rappresentano un sistema molto versatile in vaccinologia, sia nel campo microbiologico che oncologico. Diversi
studi hanno dimostrato che antigeni veicolati da virosomi, siano essi proteine o acidi nucleici, inoculati per via intranasale o
intradermica, hanno indotto una risposta immune specifica ed efficace, associando la capacità di veicolare efficientemente
antigeni di natura diversa con quella di stimolare attivamente il sistema immune.
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32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
AGGIORNAMENTI SULLA POSSIBILE ASSOCIAZIONE FRA HHV-6 E SCLEROSI MULTIPLA
Dario Di Luca
Dip. medicina Diagnostica e Sperimentale, Università di Ferrara
L’herpesvirus umano 6 e’ l’agente eziologico della sesta malattia. L’infezione primaria, che generalmente avviene entro i primi
due anni di vita, può risultare in sindromi febbrili prive di esantema o essere anche asintomatica. In seguito all’infezione, il virus
persiste nell’organismo, stabilendo una infezione latente, caratteristica di tutti gli herpesvirus. Il sito di infezione latente e’ rappresentato principalmente dai linfociti T, ma il virus può persistere anche in altri tessuti, fra cui le ghiandole salivari, come
dimostrato dal rilascio di virus attraverso la saliva anche in persone adulte. HHV-6 comunque non è un virus strettamente linfotropico, in quanto può infettare anche il sistema nervoso centrale. Fra le patologie potenzialmente associate all’infezione da
HHV-6 c’è anche la sclerosi multipla (SM), ma si tratta di una associazione ancora dibattuta. La presenza del virus di per sè
non costituisce prova patogenetica, in quanto HHV-6 è ampiamente diffuso nella popolazione sana. Un metodo che consente di
distinguere fra infezione attiva ed infezione latente è rappresentato dall’analisi dei trascritti virali, in quanto il programma
trascrizionale del virus è sensibilmente diverso nei due tipi di infezione. I nostri studi dimostrano che HHV-6 è presente nel
sangue di pazienti con SM in stato latente e con prevalenza simile a quello della popolazione di controllo. Abbiamo trovato virus
latente anche nelle cellule sedimentate dal fluido cerebrospinale di pazienti al momento della diagnosi di malattia, ma nel fluido erano presenti sequenze di DNA, non associate ad elementi cellulari. Esperimenti di infezione in vitro hanno dimostrato che
i campioni positivi per il DNA in realtà contenevano particelle virali infettanti in piccola quantità, suggerendo l’esistenza di limitati focolai di infezione a livello del tessuto cerebrale, in circa il 15% dei pazienti. Inoltre, l’analisi della positività sierologica
ad U94, una proteina virale associata alla latenza, ha mostrato che i pazienti con SM hanno una reattività verso questo antigene
maggiore rispetto ai controlli, suggerendo una aumentata esposizione a questa proteina, probabilmente dovuta a reiterate riattivazioni. Nel loro insieme, questi risultati suggeriscono che alcuni pazienti con SM mostrano segni di attiva replicazione virale
in stadi di malattia non ancora clinicamente avanzata.
L’USO DI STRUMENTI GENETICI E GENOMICI NELLA SCOPERTA E SVILUPPO DI NUOVI
ANTIBIOTICI
Stefano Donadio
Vicuron Pharmaceuticals, Gerenzano
Negli ultimi decenni, nei paesi industrializzati vi è stato un ritorno significativo della mortalità dovuta a infezioni batteriche e
fungine, dovuta sia a un aumento della popolazione a rischio di infezioni sia a una maggiore incidenza di patogeni resistenti alla
gran parte degli antibiotici disponibili. Questa rinnovata esigenza medica ha indicato la necessità di continuare nella scoperta e
sviluppo di nuovi antibiotici, in particolare di sostanze in grado di inibire la crescita di patogeni multiresistenti. La scoperta di
nuove classi di antibiotici richiede l’identificazione di un bersaglio appropriato, che potrà poi essere utilizzato in programmi di
structure-based design o trasformato in un saggio adatto a programmi di high throughput screening (HTS). Nel campo antibatterico, la rivoluzione genomica dell’ultimo decennio ha reso disponibili tutti i potenziali bersagli presenti all’interno dei principali patogeni, la cui essenzialità può essere dimostrata con gli approcci della genetica batterica. Tuttavia, questa enorme disponibilità di bersagli non si è ancora tradotta in un aumento del numero di antibiotici veramente innovativi in sperimentazione clinica. Soprattutto per i programmi HTS, diventa estremamente importante espandere la diversità chimica nella cercare nuove promettenti molecole. Alla Vicuron Pharmaceuticals, il nostro approccio principale di scoperta consiste nelll’utilizzare metaboliti
microbici come sorgente di diversità chimica. A tale scopo, strumenti genetici e genomici ssono alla base delle attuali strategie
mirate ad aumentare la le probabilità di scoprire nuovi antibiotici prodotti da microrganismi.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
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CARATTERIZZAZIONE MOLECOLARE DI CEPPI DI LIEVITO PER LA LORO TRACCIABILITÀ IN
ENOLOGIA
Marilena Budroni, Giacomo Zara, Giovanni Antonio Farris.
DISAABA, Sezione di Microbiologia Generale ed Applicata, Università degli studi di Sassari
Tel: 0039079229314; e-mail: [email protected]
La caratterizzazione dei ceppi di Saccharomyces cerevisiae enologici è un’utile strumento di controllo dell’andamento fermentativo, al fine di ottenere il prodotto desiderato. Il primo passo è rappresentato dalla selezione clonale e dalla caratterizzazione tecnologica dei ceppi, tenendo in grande considerazione tutti quei caratteri che contribuiscono alla qualità e salubrità del
vino (produzione di aromi, assenza di amine biogene, di H2S). Attualmente, occorre, tuttavia, correlare questi aspetti strettamente tecnologici con la diffusione di alimenti e organismi modificati geneticamente, la minaccia terroristica, il mercato globale delle merci, la legislazione europea ed internazionale in merito alla sicurezza alimentare. Da qui la necessità di mettere a punto
dei metodi di tracciabilità che garantiscano al consumatore sicurezza e qualità. Il DNA fingerprinting è un potente strumento di
tracciabilità del materiale biologico. In campo enologico sono da tempo utilizzati diversi metodi molecolari per l’identificazione e la caratterizzazione, in particolare, di ceppi di Saccharomyces cerevisiae e risultano essere molto promettenti soprattutto i metodi di analisi dell’espressione genica, quali microarrays e Real Time PCR. In questo lavoro illustreremo i risultati ottenuti con l’applicazione di queste due tecniche per l’individuazione di marker molecolari potenzialmente utilizzabili per la tracciabilità di ceppi enologici di Saccharomyces cerevisiae.
PATOGENESI DELLE LEUCOENCEFALOPATIE IN SOGGETTI HIV POSITIVI
Pasquale Ferrante
Laboratorio di Biologia, Fondazione Don Carlo Gnocchi, IRCCS, Milano
Cattedra di Virologia, Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biomediche, Università degli Studi, Milano
L’introduzione della terapia HAART nel trattamento dell’infezione da HIV ha avuto come conseguenza una marcata riduzione
dell’incidenza e della mortalità dovuta a patologie associate ad AIDS, ma la Leucoencefalopatia Multifocale Progressiva (PML)
viene ancora osservata in circa il 5% dei pazienti affetti da AIDS.
Inoltre, sono emersi casi di pazienti affetti da Leucoencefalopatia Non Determinata (NDLE), con caratteristiche cliniche, neurologiche ed epidemiologiche simili a quelle della PML, ma senza evidenza di replicazione di JC Virus (JCV), né di altri virus
neurotropi, nel liquor. Probabilmente, la terapia HAART, contribuendo a migliorare le condizioni del sistema immunitario, causa
sbilanciamento nell’espressione delle citochine e degli immunomodulatori da parte dei linfociti periferici, cosa che può avere
un effetto infiammatorio e demielinizzante diretto sul Sistema Nervoso Centrale (CNS). Allo scopo di verificare le nostre ipotesi e di comprendere quale sia l’eziologia della nuova forma di leucoencefalopatia, si stanno eseguendo approfondite analisi
cliniche, immunologiche, virologiche e genetiche sui campioni biologici di pazienti con sospetta NDLE, pazienti affetti da PML,
pazienti HIV positivi senza disordini neurologici e soggetti sani, arruolati in uno studio longitudinale. In particolare, viene eseguita una prima valutazione delle condizioni neurologiche dei pazienti, mediante indagini di risonanza magnetica (MRI), per
determinare lo stadio delle lesioni della sostanza bianca del SNC, mentre il liquor è sottoposto ad analisi virologiche, comprendenti PCR specifiche per tutti i virus neurotropi (HSV1/2, VZV, HCMV, EBV, HHV-6, HHV-8, JCV, Enterovirus). Inoltre, vengono definiti l’assetto immunitario di citochine e chemochine, la cui espressione è stata implicata nella neuropatogenesi
dell’AIDS (TNFα, TGFβ, IL1β, IL1α, IL2, MCP-1, MIP1β) e la sorveglianza immunologica diretta contro JCV, attraverso l’analisi delle cellule CD4+ e CD8+ e CD14+, in seguito a stimolazione con peptidi VP1 HLA ristretti. Ad oggi, i risultati ottenuti sembrano escludere un coinvolgimento virale nell’eziopatogenesi dell’NDLE, mentre viene confermata l’ipotesi che uno sbilanciamento del sistema immunologico giochi un ruolo significativo.
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32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
THE IMPORTANCE OF SEMI-QUANTITATIVE ASSAY FOR DETECTION OF CHLAMYDIA
PNEUMONIAE IN VIEW OF THE CURRENT AVAILABLE SEROLOGY-BASED ASSAYS
Yael Furman
Chlamydia pneumoniae causes about 5-20% of Community Acquired Pneumoniae cases in adults and children. In addition, it
has also been implicated in the pathogenesis of several chronic diseases, initially not thought to be infectious, including asthma,
arthritis and atherosclerosis.
Serological analysis represents the current routine method for the diagnosis of C. pneumniae and its reliability is crucial for treatment decisions and seroepidemiology studies.
The current gold standard in serology testing is the microimmunoflurescence (MIF) assay, which is manual, laborious and time
consuming method, reliable only if performed by an experienced reader.
Until recently, MIF was the only semi-quantitative serology based test. Quantification of antibody’s response is valuable in
understanding the diseases phase of the patient, especially with C. pneumoniae where the antibodies’ prevalence in the general
healthy population is high.
We are presenting a semi-quantitative ELISA-based test as a comparable methodology to MIF. Semi-quantification ELISA
enables quantification, expressed in titers, utilizing the simplicity of the ELISA method without the drawbacks of the MIF.
The SeroCP™ Quant is an ELISA-based assay for the semi-quantification determination of IgG and IgA antibodies to
Chlamydia pneumoniae. It has two unique features: 3 built-in calibrators and decisive correlation with MIF.
During the presentation we review some articles comparing the performance of the semi-quantitative ELISA to that of the MIF.
These studies reveal that the semi-quantitative ELISA is a fast and objective tool for detection of antibodies against C. pneumoniae. The prevalence, sensitivity and specificity of this method are comparable to that of MIF.
MECCANISMI DI TRASFORMAZIONE DEI PAPILLOMAVIRUS UMANI MUCOSALI E CUTANEI.
Marisa Gariglio
Dipartimento di Scienze Mediche, Università degli Studi del Piemonte Orientale “A.Avogadro”, Novara.
I papillomavirus umani (HPV) sono dei piccoli virus a DNA a doppia elica che infettano i tessuti epiteliali di cute e mucose.
Questo diverso tropismo tissutale è alla base della distinzione funzionale di questo vasto gruppo di virus in mucosali e cutanei.
Un sottogruppo di HPV mucosali è sicuramente responsabile del cancro della cervice uterina, in quanto il 99% di questi tumori sono positivi per la presenza del genoma di questi virus. Molti studi, sia epidemiologici che sperimentali, hanno infatti ampliamente dimostrato che gli HPV genitali sono agenti causali del cancro della cervice uterina. I meccanismi molecolari coinvolti
sono ben definiti e sono principalmente associati alla capacità delle proteine E6 ed E7 dei genotipi definiti “ad alto rischio di
trasformazione” di legare e neutralizzare l’attività di p53 e pRb rispettivamente.L’associazione tra HPV e tumori cutanei
(NMSC, nonmelanoma skin cancer) è invece meno chiara, anche se esistono diversi lavori che dimostrano la presenza del genoma di HPV nei carcinomi squamosi cutanei, soprattutto negli individui immunodepressi. Rimane però molto difficile interpretare questi dati contro un background di basso livello di infezione multipla a livello cutaneo probabilmente acquisita da ogni
individuo nelle prime fasi della vita. La presenza di questi virus come commensali complica ovviamente l’interpretazione dei
dati sulla presenza del DNA di HPV, soprattutto in considerazione del fatto che tecniche come la PCR sono in grado di visualizzare anche poche copie di genoma virale. I virus presenti nella cute di ogni individuo verrebbero quindi attivati dall’esposizione ai raggi ultravioletti, dall’immunodepressione, dall’iperproliferazione dell’epitelio come la psoriasi, o da background
genetici particolari dell’ospite come l’epidermodisplasia verruciforme (EV); tutti fattori di rischio per lo sviluppo di tumori cutanei. Studi condotti in vitro hanno dimostrato che le proteine E6 ed E7 di genotipi cutanei presentano una bassa affinità di legame per le proteine p53 e pRb e non attivano la loro degradazione. La bassa capacità trasformante degli HPV cutanei rispetto ai
mucosali ad alto rischio spiegherebbe quindi la necessità di cofattori. Infatti, nei soggetti immunodepressi e nei pazienti EV, i
tumori si sviluppano prevalentemente nelle zone fotoesposte e sono soprattutto associati a HPV-5 e HPV-8. La capacità antiapoptotica della proteina E6 degli HPV cutanei sinergizza sicuramente con l’azione degli UV nel processo carcinogenetico. Più
recentemente è stato dimostrato che la proteina E6 di HPV cutanei associati a tumori come HPV-5 e 8 è in grado di legare una
proteina coinvolta nel processo di riparo del DNA, XRCC1, riducendo l’attività biologica specifica.
Anche se i dati accumulati sui meccanismi di base della patogenesi degli HPV cutanei sono molto inferiori a quelli su HPV
mucosali, è sempre più chiaro che il comportamento biologico dei mucosali rispetto ai cutanei è molto diverso, e gli HPV cutanei devono essere considerati dei cofattori della luce solare.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
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PRULIFLOXACINA NEL TRATTAMENTO DELLE INFEZIONI UROGINECOLOGICHE
Franco Gorlero, Paola Lorenzi, Fausta Orsi, Antonella Ferraiolo* e GianCarlo Schito**
Dipartimento Donna Bambino, UO Ginecologia ASL1 Imperia
* Dipartimento di Ginecologia, Ospedale San Martino, Università di Genova
** Istituto di Microbiologia e Virologia, Ospedale San Martino, Università di Genova
ABSTRACT
L’ambiente vaginale è un sistema complesso in delicato equilibrio, alla cui composizione concorrono prodotti biologici e
molte specie di microrganismi. Cardine dell’ecosistema vaginale sono i lattobacilli, rappresentati a livello vaginale, da numerose specie, in particolare: Lactobacillus acidophilus (prevalente), L. crispatus, L. gasseri, L. jensenii, L. casei, L. brevis, L.
delbruekii, L. helveticus, L. rhamnosus. Recentemente sono state segnalate come emergenti alcune forme di vaginite definite “aerobiche”, caratterizzate dalla patogenicità di alcune specie batteriche presenti a livello vaginale e intestinale come
commensali unitamente ad una alterazione della flora lattobacillare. Queste vaginiti sono caratterizzate dai seguenti fattori:
a) presenza di segni e sintomi di infezione vulvo-vaginale, b) assenza di candida e di trichomonas, c) non corrispondenza con
i criteri di Amsel per le vaginosi batteriche, d) alterazione dell’ecosistema vaginale con riduzione della flora lattobacillare e)
costante presenza di batteri provenienti dal serbatoio intestinale (in particolare E.coli e Streptococcus agalactiae). In questi
casi sono inoltre riferiti disturbi a livello urinario, con segni e sintomi tipo cistite subacuta e ricorrente, unitamente alla associazione con dismicrobismi a livello gastroenterico, tendenza alla recidiva e, a volte, alla coesistenza di vaginosi batterica o
micosi vaginale. Un’altra frequente caratteristica è l’associazione con UTI ricorrenti, sottoposte a trattamenti antibiotici inadeguati per tipologia di farmaco e per modalità di somministrazione (in genere frequente nelle “ultra short term” o nelle terapie con monodosi). Unitamente a tutte le misure terapeutiche e comportamentali idonee al ripristino e al mantenimento di
una adeguato ecosistema, anche il trattamento antibiotico gioca un ruolo chiave in queste forme patologiche. Anche se trattamenti topici locali riferiscono buone eradicazioni microbiologiche a livello vaginale, a causa della frequente concomitanza di “over-colonizzazione” intestinale, vescicale ed uretrale, è consigliabile un trattamento antibiotico per via sistemica, preferibilmente non in monodose. A tal riguardo, appaiono assai promettenti le caratteristiche di un nuovo fluorochinolonico
quale la prulifloxacina. Assumibile in monosomministrazione quotidiana, date le favorevoli caratteristiche farmacocinetiche
(lunga emivita ed ottima concentrazione a livello tissutale e nelle urine), la prulifloxacina è dotata di attività battericida particolarmente spiccata nei confronti dei Gram negativi (dove risulta generalmente più attiva di ciprofloxacina e degli altri fluorochinolonici, compresa anche moxifloxacina), pur rimanendo essa decisamente buona anche verso i Gram positivi (è, in
genere, simile o superiore a ciprofloxacina). Le favorevoli caratteristiche farmacologiche di plurifloxacina sono, di certo, alla
base dei convincenti dati emersi dagli studi clinici di confronto (in particolare, verso ciprofloxacina e amoxicillina + ac.
Clavulanico) condotti in ambito urologico e pneumologico. In tali studi, plurifloxacina si è dimostrata almeno altrettanto efficace nei confronti dei farmaci di confronto, mostrando un favorevole profilo di tollerabilità: analogo a ciprofloxacina e
migliore rispetto ad amoxicilina + acido clavulanico. Alle favorevoli caratteristiche di tollerabilità emerse dagli studi clinici
su plurifloxacina occorre aggiungere, ancora, di significativo: l’assenza di interferenze sulla ripolarizzazione cardiaca e la
mancanza di una penetrazione significativa nel SNC, a garanzia di una ottima tollerabilità centrale. Dati farmacologici recenti, poi, aiutano meglio a inquadrare e caratterizzare il potenziale che prulifloxacina può assumere nell’ambito del trattamento delle infezioni uroginecologiche: l’elevata concentrazione che il farmaco riesce a raggiungere nei tessuti del tratto urogenitale femminile, oltre che nelle urine, ed il rispetto della fisiologica flora lattobacillare. A tal proposito, un apposito, originale, studio microbiologico, condotto su ceppi di lattobacilli normalmente presenti in vagina, ha dimostrato che tali microrganismi si sono dimostrati del tutto insensibili a prulifloxacina, a differenza di quanto è possibile riscontrare con l’utilizzo di
antibatterici attivi sui lattobacilli, come, ad es., amoxicillina + acido clavulanico (tabella 1).
ASPETTI CLINICI
La più recente letteratura e l’esperienza clinico-sperimentale del nostro gruppo ha constatato ormai da alcuni anni la notevole frequenza epidemiologica di flogosi del basso tratto genitale attribuibili a forme di “vaginiti aerobiche” (disturbi ecologici vaginali ovvero vaginal echological disorder/VED).
L’analisi dei segni e dei sintomi clinici nella popolazione in esame ci permette di distinguere diversi gradi di vaginite aerobica: 1) una forma “lieve-moderata” (la più frequente) in cui i parametri quali arrossamento, bruciore e dispareunia sono di
lieve entità e 2) una forma più “severa” caratterizzata da leucorrea abbondante e sintomatologia più evidente. In quest’ultimo caso in oltre il 50% dei pazienti si ritrova un pH>6 ed un ecosistema vaginale (lactobacillary grade/LBG) di grado III
(fortemente alterato).
L’esame colturale evidenzia infine la costante presenza di batteri aerobi provenienti dal serbatoio intestinale ( o meno frequentemente dalle vie urinarie). Tra le enterobacteriaceae il patogeno maggiormente isolato (da solo od in associazione con
enterococchi) è risultato l’E.coli; frequentemente inoltre si può constatare una colonizzazione anche da parte di S. agalactiae.
18
32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
CONCLUSIONI
I risultati preliminari ottenuti, anche se da convalidare con casistiche più ampie e studi clinici ad hoc, sembrano dare una conferma ai presupposti teorici e di laboratorio sull’elevata efficacia e sicurezza della prulifloxacina nel trattamento delle vaginiti aerobiche. La molecola associa, infatti, oltre alla elevata sicurezza e tollerabilità clinica una marcata efficacia nei confronti dei batteri gram negativi di provenienza intestinale e/o urinaria (in particolare modo E.coli) unitamente al rispetto nei
confronti della flora lattobacillare residente, inducendo così una rapida guarigione clinica e riducendo verosimilmente l’incidenza di recidive e sovrainfezioni.
Tabella 1) Sensibilità agli antibiotici dei ceppi lattobacillari studiati
Ceppi di lattobacilli
Prulifloxacina
Resistente: ≥4; sensibile: ≤1
Amoxicillina + ac. clavulanico
Resistente: ≥16/8; sensibile: ≤8/4
MIC (µg/ml)
L. acidophilus
L. acidophilus
L. amylovorus
L. brevis
L. caseii
L. colehominis
L. crispatus
L. crispatus
L. delbrueckii
L. gasseri
L. gasseri
L. helveticus
L. jensenii
L. johnsonii
L. kefiri
L. plantarum
L. plantarum
L. reuteri
L. rhamnosus
L. rhamnosus
L. sakei
L. sakei
L. vaginalis
1
16
32
16
1 0,
16
128
1
8
16
16
32
16
8
16
8
32
32
2
2
16
4
16
0,5
0,5
0,5
2
5
<0,06
8
0,5
2
2
1
2
1
0,13
0,5
1
0,25
2
2
1
1
2
0,25
BIBLIOGRAFIA
1) Mikamo H, Kawazoe K, Izumi K, Ito K, Tamaya T : “NM441: Penetration into gynaecological tissues and in vitro activity against clinical isolates from obstetric and gynaecological patients”. Drugs 1995; 49(suppl 2): 326-330
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assessment of cardiac risk”. Eur J Pharmacol 2003; 477: 69-72.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
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VETTORI AAV PER LA TERAPIA GENICA: UN POTENTE STRUMENTO DI INDAGINE ED
APPLICAZIONE TERAPEUTICA IN CAMPO CARDIOVASCOLARE
Mauro Giacca
International Centre for Genetic Engineering and Biotechnology (ICGEB), Trieste
I vettori virali basati sul virus adeno-associato (AAV) sono molto promettenti per una serie di applicazioni di terapia genica nell’uomo. AAV e’ un parvovirus difettivo, con il genoma a DNA a singolo filamento, che e’ molto diffuso nella popolazione generale senza causare alcuna patologia apparente. I vettori basati su AAV conservano soltanto due piccole sequenze regolatorie di
circa 150 nt alle due estremita’, sequenze che sono essenziali per la replicazione del virus ed il packaging, mentre il resto del
genoma virale e’ sostituito dal gene terapeutico e dal suo promotore. Dal momento che non esprimono alcuna proteina virale, i
vettori AAV non sono immunogenici e non stimolano una risposta immunitaria, caratteristiche queste che ne consentono la persistenza in vivo per periodi di tempo molto lunghi. Altre proprieta’ molto interessanti di questi vettori sono la possibilita’ di dirigere l’espressione del gene terapeutico da parte di qualsiasi promotore, senza per questo interferire con il processo di replicazione virale, e la possibilita’ di essere purificati ad alto titolo senza perdere in infettivita’.
La trasduzione con i vettori AAV e’ molto inefficiente in diverse linee cellulari in vitro ed in molti tessuti in vivo, tra cui i fibroblasti, i cheratinociti, le cellule endoteliali ed i precursori ematopoietici. Per ragioni molecolari ancora oscure, la trasduzione di
diversi di questi tipi cellulari puo’ essere aumentata trattando le cellule con agenti in grado di esercitare un danno genotossico.
Questa proprieta’ e’, con ogni probabilita’ legata al modo in cui il genoma a singolo filamento di AAV viene convertito a doppio filamento di DNA, un processo che e’ legato all’attivita’ dell’apparato della ricombinazione omologa della cellula.
Al contrario dei tipi cellulari sopramenzionati, la trasduzione in vivo e’ molto efficace nel cervello, nella retina, e nelle cellule
muscolari, includendo sia il muscolo scheletrico ed il cuore sia le cellule muscolari lisce della parete arteriosa. Il tropismo per
le cellule muscolari, unito alle proprieta’ molecolari di questi vettori, offre la possibilta’ di utilizzare AAV per un vasto campo
di applicazioni di terapia genica per le malattie cardiovascolari. Negli ultimi anni, abbiamo costruito piu’ di una ventina di vettori AAV che esprimono geni diversi nel cuore, nel muscolo e nelle arterie di piccoli (topo, ratto) e grandi (cane, maiale) animali, avendo come scopo la prevenzione della restenosi dopo angioplastica e l’induzione di angiogenesi terapeutica nelle situazioni di ischemia acuta e cronica. I risultati principali di questi studi verranno presentati e discussi.
MOLECULAR PATHOGENESIS OF VIRAL-INDUCED DISEASES: LESSONS FROM HIV-1 AND JCV
Kamel Khalili
Center for Neurovirology and Cancer Biology Temple University Philadelphia, PA USA
www.temple.edu/cnvcb
HIV infection induces a spectrum of neurological disorders in at least two thirds of patients with AIDS. In addition to behavioral and motor abnormalities, these manifestations are histologically apparent as multifocal giant cell encephalitis and diffuse
white matter degeneration. Although microglia are the major reservoir of HIV in the CNS, brain tissue exhibits extensive
pathogenic alterations including apoptosis of neurons, reactive astrocytes, cytolytic destruction and demyelination.
The pathogenesis of HIV in the CNS involves changes in virus infected cells, which are manifested in cytokine dysregulation
and the release of viral factors. One of the factors which has received considerable attention is the HIV Tat protein. Tat is
released from infected cells and can serve as a transactivator of cellular as well as viral promoters. The ability of Tat to be
released and taken up by cells permits this protein to function in a dysregulatory capacity through both autocrine and paracrine
pathways. Tat activates gene expression not only through its own LTR, but can also activate transcription of other viral promoters, notably the JCV late promoter. JCV, a human polyomavirus which is the causative agent of PML, infects oligodendrocytes and its replication is increased in patients with HIV. We have demonstrated that HIV Tat protein released from infected
microglia activates JCV through a paracrine mechansm. Oligodendrocytes are rarely, if at all, infected with HIV, although we
have observed this cell type to contain a significant amount of Tat protein in brain tissue of AIDS patients with PML.
In our studies we have developed an in vitro model consisting of co-cultures of HIV infected primary microglia and JCV infected primary oligodendrocytes to investigate the intercommunication between HIV-1-infected microglia and JCV-infected oligodendrocytes via Tat protein. Based on our studies, activation of both JCV and HIV by Tat requires the cellular protein, Purα.
Purα is an activator of both JCV and HIV transcription and mediates the action of Tat through the formation of a ternary complex consisting of Purα, Tat, and RNA. Our studies provide evidence for molecular interaction of JCV and HIV-1 via communication between Tat and Purα. These studies led us to develop protein-based therapeutics which can block the action of Tat
in promoting HIV and JCV infection.
20
32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
IDENTIFICAZIONE DI STAFILOCOCCHI E RILEVAZIONE DI METICILLINO-RESISTENZA
MEDIANTE ANALISI DELLA CURVA DI MELTING.
Liberto M.C.
Cattedra di Microbiologia, Dipartimento di Scienze Mediche, Università “Magna Graecia” , Catanzaro.
Negli ultimi anni si è verificato un incremento delle infezioni causate da Staphylococcus aureus e da stafilococchi coagulasi
negativi (CoNS) dovuto a diversi fattori quali l’uso di cateteri intravascolari, immunocompromissione, esami diagnostici invasive. Inoltre i ceppi responsabili evidenziano meticillino-resistenza dovuta alla produzione di una penicillin-binding protein alterata (PBP2’) codificata dal gene mecA.
Tali problematiche complicano la diagnosi etiologica di sepsi soprattutto durante infezioni sistemiche in pazienti gravi. Per tali
motivi il nostro interesse si è da tempo focalizzato sull’applicabilità di metodiche molecolari per la diagnosi di tali patologie
infettive. Pertanto abbiamo condotto uno studio su campioni clinici provenienti da pazienti ospedalizzati in un reparto di terapia intensiva, con sospetta infezione sistemica da stafilococco saggiando in parallelo campioni di sangue intero e campioni da
emocoltura mediante PCR real time con il test LigthCycler Staphylococcus MGRADE per la determinazione e differenziazione
di Staphylococcus aureus e di stafilococchi coagulasi-negativi (CoNS) ed il test LightCycler MRSA per la determinazione della
meticillino-resistenza associata al gene mecA.
La differenziazione di Staphylococcus aureus e di stafilococchi coagulasi-negativi (CoNS) così come la presenza del gene mecA
sono basate sull’analisi delle curve di melting che segue la fase di amplificazione. I risultati ottenuti hanno suggerito l’applicabilità di entrambi i test sui diversi campioni clinici utilizzati consentendo una rapida diagnosi di sospetta sepsi da stafilococchi ed una rapida identificazione di meticillino- resistenza associata al gene mecA, particolarmente utile in pazienti provenienti da reparti di terapia intensiva.
L’EVOLUZIONE DELLE RESISTENZE NELLE ENTEROBACTERIACEAE: IMPLICAZIONI
DIAGNOSTICO-CLINICHE
Francesco Luzzaro e Antonio Toniolo
Laboratorio di Microbiologia, Ospedale di Circolo e Università dell’Insubria, Varese
La produzione di beta-lattamasi a spettro esteso (ESBL) è un importante meccanismo di resistenza negli enterobatteri in quanto rende inutilizzabili tutte le penicilline, le cefalosporine e l’aztreonam, farmaci maneggevoli e di ridotta tossicità ampiamente
usati per il trattamento delle infezioni. Il laboratorio di Microbiologia ha un ruolo centrale nel valutare la presenza di ESBL,
specialmente quando la loro produzione non è chiaramente rilevabile. Situazioni di questo tipo possono verificarsi quando: 1)
gli enzimi prodotti non determinano una chiara resistenza in vitro a tutte le cefalosporine, e 2) nel caso di alcune specie di enterobatteri che producono beta-lattamasi inducibili. Vari antibiotici (ceftazidime, cefotaxime, aztreonam, ceftriaxone e cefpodoxime) sono stati proposti per lo screening delle ESBL. Test di conferma basati sull’uso di ceftazidime e cefotaxime, da soli ed
in combinazione con acido clavulanico, sono raccomandati dall’NCCLS solo per E. coli e Klebsiella spp., mentre non vi sono
ancora criteri per la conferma della produzione di ESBL in altre specie di enterobatteri.
L’analisi dei ceppi isolati nella sorveglianza nazionale del 2003 e caratterizzati a livello molecolare dimostra che uno screening
efficace nella nostra realtà epidemiologica non può prescindere dall’uso del ceftazidime. Tuttavia, il frequente riscontro di enzimi della famiglia CTX-M consiglia di usare insieme al ceftazidime anche il cefotaxime (o il cefpodoxime) per uno screening
ottimale negli enterobatteri. Per quanto riguarda i test di conferma, il metodo di approssimazione mediante doppio disco richiede un’attenta standardizzazione ma rappresenta ancora il metodo di riferimento per valutare la produzione di ESBL. Fra i metodi di combinazione basati su cefalosporine a spettro esteso ed inibitori di beta-lattamasi, ceftazidime e cefotaxime testati da soli
ed in combinazione con acido clavulanico sono risultati adeguati per isolati di E. coli e Klebsiella spp. Nel caso di enterobatteri che producono sia beta-lattamasi inducibili che ESBL, i metodi di combinazione con cefpodoxime e cefotaxime hanno dimostrato un’elevata percentuale di falsi negativi, mentre i test che utilizzano ceftazidime e cefpirome sono risultati molto più affidabili e, usati insieme, hanno identificato correttamente oltre il 95% dei ceppi ESBL-positivi.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
21
IDENTIFICAZIONE ED ANTIBIOGRAMMA DEGLI STREPTOCOCCHI
Francesco Luzzaro1, Gioconda Brigante1, Francesca Meacci2, Gianluigi Lombardi1
1Laboratorio di Microbiologia, Ospedale di Circolo e Fondazione Macchi, Varese;
2Dipartimento di Biologia Molecolare, Università di Siena
La classificazione degli streptococchi si è evoluta negli ultimi anni in relazione allo sviluppo degli studi molecolari del genere
Streptococcus. Nonostante alcune limitazioni, i tradizionali criteri di identificazione (emolisi, gruppi sierologici di Lancefield)
restano validi e possono essere utilizzati per classificare gli streptococchi in ampie categorie che rappresentano il primo passaggio per l’identificazione degli isolati clinici. A questo riguardo, va sottolineato che l’identificazione rappresenta un elemento essenziale per la corretta diagnosi clinica, per la valutazione dei meccanismi di resistenza e per l’analisi epidemiologica.
Numerosi studi di sorveglianza hanno dimostrato che il problema della farmacoresistenza negli streptococchi è un problema globale che coinvolge patogeni importanti (resistenza alla penicillina in Streptococcus pneumoniae, resistenza ai macrolidi in
Streptococcus pyogenes) e richiede risposte adeguate. In questo contesto, la scelta degli antibiotici da testare e la determinazione della minima concentrazione inibente con metodi di diluizione in brodo rappresentano elementi essenziali per l’antibiogramma.
L’uso di sistemi in grado di eseguire identificazione ed antibiogramma degli streptococchi in completa automazione ed in tempi
rapidi rappresenta un importante vantaggio per il microbiologo clinico. In un recente studio il nuovo sistema automatico Phoenix
(Becton Dickinson) ha dimostrato di poter fornire una corretta identificazione degli streptococchi a livello di specie in oltre il
95% dei ceppi studiati ed ha anche fornito un’eccellente concordanza (>90%) rispetto ai risultati attesi per la maggior parte degli
antibiotici testati.
Risultati comparabili sono stati da noi ottenuti su 100 isolati clinici (streptococchi viridanti, S. pneumoniae, S. pyogenes, S. agalactiae e S. dysgalactiae) la cui identificazione è stata confrontata con quella fornita dal sistema API (bioMérieux) o dal sequenziamento del rDNA 16S. I valori di MIC ottenuti con il sistema Phoenix sono risultati concordanti (>90%) con il sistema di riferimento per 8 antibiotici di interesse clinico.
SUSCETTIBILITA’ IN VITRO DI STAPHYLOCOCCUS AUREUS METICILLINO-RESISTENTE
(MRSA): CONFRONTO TRA I METODI DI VALUTAZIONE DELLE NUOVE ARME TERAPEUTICHE
E. Manso
Laboratorio di Microbiologia, A. O. “Umberto I”, Ancona.
Il fenomeno della crescente resistenza degli stafilococchi ai glicopeptidi è apparso allarmante dal momento che questa classe di antibiotici costituiva spesso l’unica risorsa terapeutica nella gestione delle infezioni da MRSA, prima del recente avvento delle nuove molecole attive contro i batteri gram-positivi “difficili”. E’ stato avviato uno studio policentrico che comprende 10 ospedali delle regioni Puglia, Abruzzo e Marche per studiare la suscettibilità di S.
aureus meticillino-resistente (MRSA) alla vancomicina, teicoplanina e linezolid, ed in particolare per la determinazione della prevalenza di ceppi con ridotta suscettibilità alla vancomicina. Inoltre si è voluto verificare la corrispondenza dei valori di MIC per il linezolid con tre metodiche diverse.
MATERIALE E METODI. Sono stati studiati 410 ceppi MRSA isolati principalmente dal sangue, tratto respiratorio inferiore, essudato da ferite,
drenaggi chirurgici e liquidi biologici abitualmente sterili. Per lo studio della suscettibilità al linezolid è stato utilizzata la metodica del’Etest. E’ stato
poi eseguito uno screening in piastra di Vancomicin screen agar (6 µg di vancomicina /ml) e un Etest a vancomicina e teicoplanina con il macrometodo (2 McFarland) con lettura alle 48 h di incubazione. Sono stati considerati possibili hVISA i ceppi che hanno presentato al test di screening con
l’Etest macrometodo valori alla vancomicina e teicoplanina >8 µg/ml o alla teicoplanina >12 µg/ml. Come controllo sono stati utilizzati i ceppi S.
aureus hVISA, ATCC 700698 (Mu3), VISA, ATCC 700699 (Mu50) e MSSA, ATCC 29213 e MRSA-VSSA ATCC 43300.
Successivamente è stato eseguito in 197 ceppi, che includevano i positivi allo screening per hVISA con l’Etest macrometodo, il confronto del saggio
del linezolid in vitro fra tre metodiche (Sensititre, Vitek II e Etest) e per la vancomicina e teicoplanina tra Sensititre e Vitek II
RISULTATI E CONCLUSIONI: Sesantaquattro ceppi sono stati positivi allo screening con l’Etest macrometodo, mentre nessuno si è sviluppato
nella piastra di Vancomicin screen agar. Per il linezolid la MIC50 e la MIC90 per i 410 ceppi è risultata di 0,75 e 1,5 µg/ml. Per il linezolid il confronto tra le metodiche di 197 ceppi, l’Etest ha dato i risultati di MIC più bassi (173 ceppi<1 µg/ml) e solo 8 ceppi con MIC= 2 µg/ml; il Vitek II quelli più alti (154 ceppi con MIC 2 µg/ml, e 10 ceppi con MIC di 4 µg/ml). Con il metodo Sensititre 85 ceppi avevano una MIC <1 µg/ml e 112 una MIC
di 2 µg/ml. Per il linezolid l’Etest ha dato in generale un valore inferiore di una doppia diluizione dovuto probabilmente a che la lettura per gli antibiotici batteriostatici viene fata nel punto di inibizione del 80-90% , mentre con le altre metodiche la lettura viene eseguita ad inibizione completa.
Tra Sensititre e Vitek II, i valori più alti sono stati osservati con il Vitek II, che è stata la sola metodica che ha dato valori di MIC di 4 µg/ml.
Per la vancomicina il metodo Sensititre, con lettura alle 24 ore di incubazione, ha mostrato valori più alti di MIC che il Vitek II, con 103 e 24 ceppi
rispettivamente con MIC di 2 µg/ml. La stessa osservazione è risultata per la teicoplanina, valori più alti per Sensititre che per Vitek II alla MIC 2
µg/ml 115 e 47 rispettivamente, e alla MIC 4 µg/ml 21 e 9 rispettivamente. La MIC50 e MIC90 con l’Etest standard dei 64 ceppi possibili hVISA è
stata per vancomicina di 2 e 3 µg/ml (range da 1,5 a 4 µg/ml) e per teicoplanina di 2 e 4 µg/ml (range da 1,5 a 8 µg/ml), rispettivamente. Il metodo
Vitek II per lo studio dei glicopeptidi , con incubazione standard di solo 18 h, tende a dare valori di MIC più bassi che il Sensititre a 24 h, che è il
tempo di incubazione definito dal NCCLS.
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32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
PROGETTO ARES: RISULTATI DELL’ANNO 2003
E. Magliano, R. Mattina, G. Tempera*
Istituto di Microbiologia Fac. Medicina e chir. Università di Milano
*Dipartimento di Scienze Microbiologiche Università di Catania
Nel 1999 è stato attivato un monitoraggio delle resistenze dello Streptococcus pyogenes di gruppo A agli antibiotici di più frequente uso nella pratica clinica. I laboratori di Microbiologia clinica che hanno aderito a questa iniziativa erano distribuiti su
tutto il territorio nazionale. Questo progetto denominato inizialmente Gispyo, poi Gispneumo ed attualmente ARES, ideato e
supportato da Grunenthal-Formenti, ha fatto ricorso all’uso di internet.
Infatti ciascun laboratorio partecipante ha inserito i propri dati in un apposito sito e questi alla fine di ogni anno sono stati elaborati e pubblicati.
Al sito possono avere accesso oltre a tutti i microbiologi clinici anche i medici di medicina generale e gli specialisti avendo così
la possibilità di disporre di un dato aggiornato sull’andamento delle resistenze dei più comuni patogeni respiratori agli antibiotici sia a livello nazionale che regionale e prossimamente sarà possibile conoscere anche il dato provinciale, a condizione che in
quella provincia ci siano almeno tre laboratori che inseriscono i dati nel sito.
Da due anni a questa parte il progetto ARES è coordinato sia a livello regionale che nazionale da colleghi microbiologi che validano i risultati inseriti prima di essere messi a disposizione della classe medica.
Nel corso del 2003, 69 laboratori di Microbiologia clinica distribuiti su tutto il territorio nazionale hanno valutato la sensibilità
di 8368 ceppi di S. pyogenes a diversi antibiotici.
La maggior parte di questi ceppi era stato isolato da tamponi faringei prelevati per lo più a pazienti pediatrici.
Tutti i ceppi di S. pyogenes sono risultati sensibili alla penicillina ed agli altri betalattamici presi in considerazione, mentre il
27.1% degli isolati si dimostrava resistente ad eritromicina. La rokitamicina, macrolide a 16 atomi, faceva registrare percentuali più basse di resistenza (5.1%) rispetto al capostipite dei 14 atomi. La regione con il livello più basso livello di resistenza era
le Marche (7,3%) mentre quella con la più alta percentuale era la Puglia (43,6%).
Sempre nel 2003 sono stati isolati 971 ceppi di S. pneumoniae isolati da escreato, sangue, BAL ecc. Il 13.8% di questi ceppi
appariva resistente alla penicillina, il 36.4% all’eritromicina, il 7.7% alla rokitamicina e l’1.3% alla levofloxacina. Le regioni
dove si osservava la più bassa e la più alta percentuale di resistenza nei confronti dell’eritromicina erano rispettivamente il
Veneto (18,2%) e la Liguria (54,9%).
RACCOMANDAZIONI TERAPEUTICHE INTERDISCIPLINARI PER IL TRATTAMENTO DELLE
INFEZIONI DELLE VIE URINARIE ACUTE NON COMPLICATE
Teresita Mazzei
Dipartimento di Farmacologia Preclinica e Clinica Università degli Studi di Firenze
Nella relazione verranno illustrate le raccomandazioni emerse dal lavoro congiunto di esperti in diverse discipline medico-biologiche che, partendo dalla realtà epidemiologica italiana, hanno sviluppato la problematica del trattamento delle infezioni urinarie acute non complicate (IVU), che rappresentano i più comuni eventi infettivi sostenuti da batteri nella specie umana. Le
professionalità rappresentate nel gruppo multidisciplinare erano quelle dei Ginecologi (Società Italiana di Ginecologia), dei
Ginecologi Consultoriali (Associazione Italiana dei Ginecologi Consultoriali) degli Uro-Ginecologi (Associazione Italiana
UroGinecologi), dei Chemioterapisti (Società Italiana di Chemioterapia) e dei Microbiologi Clinici (Federazione delle Società
Italiane di Microbiologia e Associazione Italiana per lo Studio degli Antimicrobici e delle Resistenze).
Una caratteristica che contraddistingue l’approccio alla eradicazione delle IVU è rappresentata dalla grande varietà delle opzioni antimicrobiche attualmente disponibili. Prerequisito per l’impiego di qualunque agente farmacologico resta il raggiungimento di adeguate concentrazioni urinarie, condizione che non rappresenta in genere un problema per tutte le classi di molecole che
hanno conquistato nel tempo un ruolo nella cura di questo tipo di affezioni. I regimi di trattamento possono poi distinguersi, a
parità di condizioni cliniche, non solo per la classe di agenti impiegati, ma anche per la posologia e la durata della somministrazione. In questo ambito, peraltro, solo alcuni dei numerosi schemi impiegati possono effettivamente contare su risultati di
studi comparativi che dispongano di un adeguato disegno a supporto delle raccomandazioni fornite. Un’attenta disamina della
letteratura internazionale riguardante la terapia di IVU non complicate indica che trattamenti di breve durata sono estremamente efficaci nel produrre rapida guarigione nella maggior parte delle IVU sintomatiche nelle donne. Non si evidenziano al contempo significative differenze nelle percentuali di guarigione in funzione dei singoli principi attivi adottati. Il tempo di trattamento può variare, in funzione della molecola selezionata, da uno a tre giorni. Prolungare il trattamento non porta alcun vantaggio nell’efficacia dei vari regimi, diminuisce l’adesione del paziente alla prescrizione, aumenta i costi, provoca con maggior
frequenza eventi avversi e induce più facilmente selezione di stipiti uropatogeni resistenti.
Riassumento le raccomandazioni propongono pertanto soluzioni basate essenzialmente sul concetto di privilegiare farmaci:
• dotati della massima potenza in vitro sull’uropatogeno prevalente nell’eziopatogenesi delle IVU
• che soffrano di minimi tassi di resistenza nel nostro Paese
• capaci di superare resistenze diffuse nei confronti di altre molecole
• dotati di idoneo profilo farmacocinetico
• caratterizzati da ottima tollerabilità e provvisti di documentata efficacia clinica
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
23
RECENTI PROGRESSI IN TEMA DI TERAPIA ANTIFUNGINA
Francesco Menichetti
Unità Operativa Malattie Infettive, Ospedale Cisanello, PISA
Nuove formulazioni di vecchi farmaci (amfotericine lipidiche), nuove molecole appartenenti a classi già note (azolici di
seconda generazione: voriconazolo, posaconazolo) e nuove classi di antifungini (echinocandine: caspofungina, micafungina, anidulafungina) hanno, in questi ultimi anni, accresciuto il nostro bagaglio terapeutico per le micosi invasive e favorito un rinnovato interesse nel campo diagnostico radiologico, sierologico e microbiologico.
Anche nel campo delle micosi invasive la ricerca clinica è stata in grado di produrre studi controllati randomizzati (RCTs)
rivolti non soltanto al trattamento della neutropenia febbrile persistente ma anche a pazienti con micosi invasiva documentata o probabile (criteri diagnostici EORTC/MSG).
CANDIDOSI INVASIVA
Caspofungina ha dimostrato superiore efficacia e tollerabilità rispetto ad amfotericina B desossicolato nel trattamento della
candidosi invasiva (prevalentemente candidemia) in pazienti non neutropenici operati, assistiti in terapia intensiva, con
CVC (Mora-Duarte 2002). Voriconazolo ha dimostrato analoga efficacia e migliore tollerabilità rispetto ad amfotericina B
desossicolato seguita da fluconazolo (Kullberg, 2004). Laddove non si utilizzi come terapia di prima scelta il fluconazolo,
a causa di un elevato rischio di resistenza (C. krusei, C. glabrata) o nel caso di pazienti con insufficienza epatica o renale
od a rischio di interazioni farmacologiche, caspofungina può rappresentare un adeguata alternativa da utilizzare in prima
istanza. Il voriconazolo può rappresentare la terapia di seconda linea in pazienti trattati con fluconazolo che dimostrino resistenza clinica o microbiologica.
ASPERGILLOSI INVASIVA
Voriconazolo ha dimostrato migliore efficacia e tollerabilità di amfotericina B desossicolato nella terapia primaria dell’aspergillosi invasiva documentata o probabile; nei trattati con l’azolico si è rilevata anche una maggiore sopravvivenza
(Herbrecht, 2002).
Caspofungina ha anch’essa dimostrato efficacia nella terapia di salvataggio di pazienti con aspergillosi invasiva non responsivi od intolleranti ad altre terapie antifungine.
Tra i diversi preparati di amfotericina B, Ambisome ha dimostrato in revisioni casistiche la migliore efficacia e tollerabilità; è attualmente in corso uno studio prospettico per valutare se dosi molto elevate (10 mg/Kg/die) garantiscano una superiore risposta clinica.
Le associazioni di farmaci antifungini (Caspofungina con Voriconazolo od Ambisome) rappresentano opzioni terapeutiche
attraenti dal punto di vista teorico ma sicuramente molto costose e prive oggi di sufficiente documentazione clinica.
MICOSI INVASIVE INUSUALI
Voriconazolo ha dimostrato buona efficacia nelle infezioni da Fusarium spp. e da Scedosporium prolificans mentre risulta
privo di attività contro le zigomicosi che vedono in Ambisome e Posaconazolo le opzioni terapeutiche più valide.
NEUTROPENIA FEBBRILE
Ambisome ha dimostrato migliore efficacia e tollerabilità di amfotericina B desossicolato nella terapia empirica della neutropenia febbrile (Walsh, 1999) mentre il Voriconazolo non ha dimostrato un profilo migliore di Ambisome (Walsh, 2002).
Più recentemente Caspofungina ha dimostrato migliore efficacia e tollerabilità rispetto ad Ambisome; i pazienti trattati con
l’echinocandina hanno inoltre mostrato una maggiore sopravvivenza. I risultati di questi recenti RCTs offrono nuove opzioni terapeutiche per il trattamento della neutropenia febbrile.
L’elevato costo dei nuovi e recenti antifungini impone ogni sforzo per selezionare i pazienti che necessitano realmente della
terapia: limitando l’indiscriminato uso empirico si recuperano risorse per i trattamenti necessari ed utili.
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32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
IL CONTROLLO DI LABORATORIO DELL’INFEZIONE DA VIRUS DELL’IMMUNODEFICIENZA UMANA
S. Menzo
Università Politecnica delle Marche, Ancona.
L’obiettivo di eradicare con farmaci antiretrovirali l’infezione da HIV, prposto solo alcuni anni fa, si è dimostrato irrealizzabile (con l’eccezione, forse, della profilassi post-contagio). Nonostante l’azione farmacologica, la replicazione virale residua in vivo seleziona con il tempo
varianti resistenti ai farmaci utilizzati. Diversi fattori contribuiscono alla rapidità con cui emerge il virus resistente: le caratteristiche dei composti utilizzati e la relativa barriera genetica che il virus deve superare per diventare completamente resistente, la precedente storia terapeutica del paziente (e eventualmente del suo virus anche prima dell’infezione) e la sua aderenza alla terapia. Ultimamente si sta definendo come
estremamente importante anche il ruolo del sistema immunitario del paziente; si è osservato infatti che terapie iniziate precocemente in soggetti con CD4 elevati rimangono efficaci molto più a lungo. Tuttavia appare attualmente inevitabile che il virus diventi resistente ai tutti farmaci antiretrovirali utilizzati. Per questo motivo rilevare precocemente l’insorgere di virus resistenti è della massima importanza, al fine di
gestire razionalmente la terapia, sia a livello di singolo paziente che di popolazione. Gli strumenti tecnici per assolvere a questo compito non
mancano. Oltre al monitoraggio periodico della viremia, che segnala un aumento della replicazione virale, sono state messe a punto diverse
metodiche molecolari per lo studio dei virus resistenti. Da una parte l’analisi del genotipo virale, inteso come sequenziamento del genoma ed
interpretazione delle combinazioni di mutazioni associate a resistenza, dall’altra l’analisi fenotipica, ossia lo studio del virus isolato dai pazienti (o meglio di chimere ricombinanti con porzioni genomiche amplificate ex vivo) e cimentato in vitro con i farmaci. Quest’ultimo approccio
è complesso, laborioso, non è eseguibile nella maggior parte dei laboratori di virologia diagnostica ed è perciò estremamente costoso. Il suo
impiego non è diffuso nella diagnostica clinica, ma è indispensabile per la comprensione della funzione biologica delle mutazioni di resistenza e per definire la struttura dell’interpretazione genotipica. Al momento è anche l’unico metodo per determinare la capacità replicativa conferita dalle sequenze mutate e il potere patogeno dei virus resistenti, una caratteristica sempre meno trascurabile per la razionalizzazione delle
terapie antivirali. In questo scenario il nostro gruppo ha svolto diversi studi per caratterizzare le relazioni tra le sequenze virali mutate isolate
in vivo e la funzione biologica delle relative proteine. Abbiamo messo a punto metodi di ingegneria genetica che permettono l’inserzione, nella
struttura genica del clone molecolare virale NL4-3 opportunamente modificata, di sequenze esogene relative al gene pol o al gene env. Questa
metodica ci permette di saggiare il “fenotipo ricombinante” a tute e quattro le classi di farmaci attualmente in uso. Inoltre, esperimenti di mutagenesi sito-diretta hanno evidenziato il ruolo di specifici residui aminoacidici sul fenotipo conferito al virus ricombinante e la possibilità di
modulare la capacità replicativa di varianti mutagenizzate in vitro. L’insieme dei dati fenotipici accumulatosi negli anni, grazie agli studi effettuati in diversi laboratori, ha permesso una migliore comprensione dei meccanismi molecolari che sono alla base della selezione dell mutazioni. Nella prospettiva di una continua rincorsa farmacologica ai virus resistenti con l’introduzione di nuovi colmposti antiretrovirali (appartenenti sia a nuove che a vecchie classi) gli studi fenotipici rappresentano uno strumento indispensabile per valutarne l’efficacia antiretrovirale su ceppi virali multiresistenti e ottimizzare fin dall’inizio il loro impiego.
EPIDEMIOLOGIA DELLE INFEZIONI GRAVI BATTERICHE E FUNGINE
Maria Teresa Montagna, Giuseppina Caggiano
Dipartimento di Medicina Interna e Medicina Pubblica – Sezione Igiene, Università di Bari
Per definizione, le infezioni ospedaliere (I.O.) sono “infezioni insorte nel corso di un ricovero ospedaliero, non manifeste clinicamente né in incubazione al
momento dell’ammissione in ospedale”. I Centers for Diseases Control and Prevention precisano che un’infezione nosocomiale può anche essere presente al
momento del ricovero, purché legata ad una precedente ospedalizzazione. Negli ultimi anni l’interesse per queste patologie è aumentato grazie alla moderna
medicina che, avvalendosi di metodiche sempre più aggressive, ha determinato una maggiore sopravvivenza dei pazienti immunocompromessi e, di conseguenza, un incremento delle complicanze infettive nosocomiali. Attualmente si stima che le I.O. colpiscono il 5-10% dei pazienti ricoverati e, di queste, circa
il 90% si presenta in forma endemica, il 6% determina cluster epidemici, il 4% vere e proprie epidemie. Premesso che i dati epidemiologici dipendono dalla
realtà locale e dal tipo di paziente in causa, l’80% delle infezioni si verifica in 4 siti principali: apparato urinario (35%), ferita chirurgica (18%), apparato respiratorio (16%), sepsi (11%). I soggetti ammessi nelle ICU presentano un rischio infettivo 3-8 volte superiore agli altri pazienti a causa della necessità di procedure invasive più frequenti. Le polmoniti sono le infezioni più spesso associate a decessi: l’8-28% dei pazienti esposti a ventilazione meccanica sviluppa una
complicanza polmonare per lo più sostenuta da S.aureus, P.aeruginosa, Acinetobacter. Al catetere intravascolare si associano sepsi, infezioni del sito, tromboflebite, endocardite, sostenute in gran parte da stafilococchi coagulasi negativa (SCN), S.aureus, Candida spp (in particolare C.parapsilosis) con una mortalità
pari al 12-25%. Le setticemie, sia primarie che secondarie, presentano un’incidenza variabile tra 1,2 e 18,4 episodi per 1.000 ricoveri ospedalieri.
Negli anni ‘80, i batteri Gram negativi, principalmente E.coli e Klebsiella, erano tra i cinque maggiori patogeni responsabili di setticemie nosocomiali. Oggi,
le infezioni sistemiche risultano sostenute per lo più da SCN (strettamente correlati all’impiego di cateteri), S.aureus, Candida spp, oltre che da Enterobatteri,
Pseudomonas, Stenotrophomonas maltophilia e Acinetobacter. In Italia, ogni anno si stima un’incidenza delle infezioni nosocomiali pari al 5-8%. Di queste,
il 34% coinvolge le vie urinarie, il 17% la ferita chirurgica, il 14% sono sepsi, il 13% polmoniti. Tali infezioni, di cui il 30% prevenibili, risultano responsabili di un numero di decessi per anno variabile da 4.500 a 7.000. In Puglia, gli studi di prevalenza sulle I.O., condotti nel periodo 1997-2003 presso l’Azienda
Ospedaliera Policlinico di Bari, hanno stimato valori pari a 5-7%. Nello stesso periodo, il 13% dei pazienti esaminati presentava uno stato settico: 41,5% da
batteri Gram negativi, 34% da lieviti, 24,4% da batteri Gram positivi. Nell’ambito delle sepsi da Gram negativi le specie più frequenti sono risultate S.marcescens (23,2%), P.aeruginosa (15,7%), K.pneumoniae (14,6%), E.coli (11,8%), Acinetobacter (8,6%); nell’ambito dei Gram positivi, il 78,9% delle sepsi era
sostenuto da SCN, il 14,7% da S.aureus e il 4,6% da Enterococchi. Per quanto riguarda i pazienti affetti da fungemia, il 93,4% è risultato positivo per lieviti
appartenenti al genere Candida: C.albicans è apparsa responsabile del 47,9% degli episodi, mentre il 52,1% è stato imputato a specie non-albicans. In particolare, C.parapsilosis è stata isolata nel 64,8% dei casi, seguita da C.glabrata (9,4%), C.tropicalis (8%), C.krusei (5,4%), C.guilliermondii (5,4%), C.famata (4%),
C.inconspicua (2,7%). Dopo un trend iniziale per lo più costante, negli ultimi due anni si è osservato una riduzione degli episodi, grazie a più accurati sistemi
di sorveglianza e all’adozione di pratiche preventive più puntuali. In conclusione, nonostante il progressivo miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie,
le I.O. rappresentano ancora oggi una grave complicanza nel decorso clinico dei pazienti ospedalizzati. Pertanto, una stima accurata delle diverse realtà locali
può consentire una proiezione più ampia dei possibili interventi di prevenzione da attuare al fine di ridimensionare il fenomeno.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
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RUOLO DEL LABORATORIO NELL’ORIENTAMENTO TERAPEUTICO DELLE INFEZIONI
FUNGINE INVASIVE
Giulia Morace
Istituto di Microbiologia, Università degli Studi di Milano
La determinazione della sensibilità in vitro agli antimicotici ha presentato problematiche legate in parte alla mancanza di specifiche competenze micologiche da parte del laboratorio di microbiologia clinica ed in parte alla scarsa considerazione che il clinico ha riservato per lungo tempo al rilevamento di un fungo, più comunemente lieviti, in materiali clinici anche importanti quali
il sangue. Tali condizioni sono di recente mutate sia per una maggiore sensibilità clinica sia per una maggiore conoscenza del
comportamento di alcune specie fungine nei confronti dei farmaci antifungini sia per la disponibilità di nuove sostanze ad ampio
spettro per la terapia delle micosi invasive.
In tale contesto il laboratorio può svolgere un ruolo importante nel fornire al clinico indicazioni utili per una terapia con maggiori probabilità di successo, purché i risultati ottenuti siano attendibili e fruibili dal clinico. Nel novembre del 2000 si è costituito il “Gruppo Italiano per lo Studio In vitro degli Antimicotici” (GISIA) con l’intento di costituire sul territorio nazionale una
rete di laboratori in grado di effettuare i saggi in vitro secondo metodiche standardizzate e, nello stesso tempo, di effettuare studi
comparativi con metodi commerciali in modo da accertarne l’affidabilità. Il gruppo ha condotto studi policentrici i cui risultati
sono utilizzati a scopo educazionale sia in ambito clinico sia per addetti ai lavori:
• Affidabilità e riproducibilità dei metodi commerciali comparati con il sistema di riferimento NCCLS M27-A per il saggio in
vitro del fluconazolo nei confronti di ceppi clinici di Candida spp. (JCM, 2002, 40: 2953);
• Saggio in vitro del voriconazolo con tre diverse metodiche nei confronti di lieviti d’isolamento clinico (JAC, submitted);
• Saggio in vitro del voriconazolo comparato ad altri antimicotici per ceppi clinici di Candida glabrata, C. krusei o ceppi di C.
albicans e C. tropicalis con valori elevati di concentrazione minima inibente (EJCMID, 2004, 23: 619);
• Saggio in vitro del voriconazolo comparato ad altri antimicotici per ceppi clinici di funghi filamentosi (JCM, submitted)
Lo scopo principale del gruppo (conoscere e far conoscere metodi standard e riproducibili, linee guida e breakpoints, criteri di
significatività dei risultati dei saggi in vitro degli antimicotici) è stato, seppure non completamente, raggiunto.
RUOLO NELLE PATOLOGIE DEL TRATTO URINARIO E RAZIONALE TERAPEUTICO
Giuseppe Nicoletti
Dipartimento di Scienze Microbiologiche e Scienze Ginecologiche - Università degli Studi di Catania
Le infezioni delle vie urinarie (IVU) possono essere classificate in:
• -IVU non complicate (cistite, pielonefrite, batteriuria asintomatica): infezioni comunitarie;
• -IVU complicate: dipendenti da anomalie anatomo/funzionali dell’apparato urinario, da immunocompromissione o cateterizzazione.
• -IVU ricorrenti: reinfezioni con lo stesso o con altro microrganismo; compaiono entro 60 giorni dal primo episodio (indipendentemente da anomalie anatomiche, funzionali o da danno renale) nel 30% della popolazione femminile.
• -IVU nosocomiali: sono le più frequenti infezioni acquisite in ospedale (40%) o in case di riposo (34%); compaiono dopo 72
ore dal ricovero e generalmente sono correlate alla cateterizzazione. La gran maggioranza delle IVU sono forme isolate, non
complicate, del tratto urinario inferiore, dovute alla risalita lungo le vie urinarie di microrganismi di origine fecale che hanno
colonizzato la zona periuretrale. Data la facilità con la quale i batteri di origine enterica hanno accesso alle vie urinarie, non
c’è da sorprendersi che le IVU, siano seconde per incidenza solo alle infezioni delle vie respiratorie e per motivi anatomici
incidano maggiormente nella popolazione femminile (uretra femminile più corta e presenza di un serbatoio vaginale di batteri fecali). E’ unanimemente dimostrato che l’80 - 90% delle IVU acute non complicate sono causate da Escherichia coli uropatogeno, il restante 20% è dovuto a Proteus mirabilis, Enterococcus spp., Enterobacter spp., S. saprophyticus. Nelle forme
ricorrenti l’etiologia da E.coli uropatogeno diminuisce al 60-70% a favore di una maggiore incidenza di Proteus mirabilis
(20%). Frequentemente, in prima istanza, le UTI non complicate sono affrontate dai clinici con un trattamento antibiotico
empirico in cui la scelta terapeutica si basa sulla più probabile etiologia e l’antibiotico resistenza locale. Tale scelta è giustificata sia dal ristretto numero di patogeni urinari coinvolti sia dalla possibilità di conoscere la situazione della antibiotico resistenza grazie ai numerosi studi epidemiologici costantemente condotti in tutto il mondo. Nel caso di IVU non complicate, i
numerosissimi studi epidemiologici internazionali che hanno studiato il problema dell’andamento dell’antibiotico resistenza
dei principali uropatogeni, si sono maggiormente focalizzati sull’E.coli, (essendo l’uropatogeno quasi esclusivamente responsabile) e sono stati concordi nel denunciare un lento ma progressivo incremento di resistenza negli ultimi dieci anni. In particolare, E.coli, ma anche altri enterobatteri uropatogeni sono diventati meno sensibili ai più comuni antibiotici utilizzati nella
pratica clinica, specialmente ampicillina, sulfonamidi, trimetroprim, cotrimossazolo ed in alcune ristrette aree geografiche
anche fluorchinoloni. Da sottolineare invece come fosfomicina sia costantemente il farmaco con migliore attività in vitro nei
confronti di E.coli uropatogeno.
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32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
VALIDAZIONE IN VITRO DELLA ATTIVITA’ ANTIBATTERICA DI PRULIFLOXACINA SU UROPATOGENI DI RECENTE ISOLAMENTO
Giuseppe Nicoletti, Giovanni Bonfiglio, Gianna Tempera
Dipartimento di Scienze Microbiologiche e Scienze Ginecologiche, Università degli Studi di Catania
La Prulifloxacina è un fluorochinolone di ultima generazione, sviluppato in Giappone alla fine degli anni ’80, che solo recentemente ( 2004 ) ha ottenuto la autorizzazione alla commercializzazione in Italia e la cui attività in vitro nei confronti di patogeni isolati nel nostro Paese è attualmente oggetto di numerosi studi.
Nel presente lavoro vengono esposti i risultati del primo studio multicentrico nazionale che si è prefisso di valutare:
• l’incidenza dei diversi uropatogeni responsabili di UTI complicate, nosocomiali e non complicate in Italia
• il trend di antibiotico-resistenza di tali microrganismi nei confronti del principali antibiotici utilizzati in Italia per tali
patologie
• la potenza in vitro di Prulifloxacina in paragone a ciprofloxacina e levofloxacina
Lo studio ha coinvolto 9 Centri di Microbiologia clinica uniformemente distribuiti sul territorio nazionale che, in un predeterminato periodo di 4 mesi, hanno identificato e sottoposto a test di antibiotico sensibilità tutti gli uropatogeni principalmente isolati da soggetti ospedalizzati in reparti di urologia ( UTI complicate), medicina/chirurgia/ICU ( UTI nosocomiali) ed in minima
parte da soggetti afferenti agli ambulatori ospedalieri ( UTI non complicate). Tutti i microrganismi ( n. 1835 ) sono stati quindi
inviati a due centri coordinatori ( Genova, Catania) per l’analisi della sensibilità in vitro di prulifloxacina in paragone a ciprofloxacina e levofloxacina secondo la metodica raccomandata dal NCCLS, nonché per la elaborazione di tutti i dati ottenuti.
L’uropatogeno più isolato( su 1066 microrganismi isolati da IVU nosocomiali ) è stato l’E. coli (37,0%) seguito da E. faecalis
(17,3%), P. aeruginosa (12,2%) e P. mirabilis (8,2%). La somma di queste quattro specie rappresentano i 2/3 della totalità di tutti
gli uropatogeni nosocomiali isolati.
Anche trai 358 ceppi isolati da IVU complicate, l’agente eziologico prevalente è E. coli (39,7%) seguito da E. faecalis (20,1%),
P. aeruginosa (8,4%) e K. pneumoniae (7,5%).
La prevalenza di isolamento di E.coli (62.5%) era maggiormente significativa in caso di IVU ambulatoriali, mentre meno elevate erano le frequenze di isolamento di K. pneumoniae (8,3%) , E. faecalis (8,0%) e P. mirabilis (6,1%).
Per quanto attiene l’antibiotico-sensibilità ed adottando, in base ai dati di farmacocinetica e di farmacodinamica, i seguenti valori di breakpoint:
≤1 mg/L Sensibile
2 mg/L
Intermedio
≥4 mg/L Resistente
la prulifloxacina ha mostrato una attività in vitro simile a quella degli altri due chinoloni di confronto.
Da sottolineare però una maggiore attività intrinseca della prulifloxacina, che si manifesta con una maggiore sensibilità degli
uropatogeni (spostamento dei valori di MIC verso valori piú bassi) e conseguentemente la consapevolezza che bastano più basse
concentrazioni di antibiotico per inibire la crescita batterica.
Questo comportamento si manifesta per tutti i batteri Gram-negativi, mentre la distribuzione dei valori di MIC della prulifloxacina nei confronti dei batteri Gram-positivi è quasi sovrapponibile a quella degli altri due fluorochinoloni.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
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INFEZIONI DELLE ALTE VIE RESPIRATORIE. ASPETTI TERAPEUTICI: DALLA FARMACOLOGIA ALLA CLINICA
Andrea Novelli
Dipartimento di Farmacologia, Università degli Studi di Firenze
Il razionale per la scelta degli antibiotici per la terapia delle infezioni delle alte vie respiratorie è strettamente correlato alle caratteristiche di
sensibilità delle specie batteriche in causa. Anche per motivi farmacologici e tossicologici si ritengono di prima scelta 2 classi principali di
chemioantibiotici: betalattamine e macrolidi, compresi gli azalidi. Per quanto concerne le prime possiamo ricordare in particolare le aminopenicilline da sole od associate ad inibitori betalattamasici e le cefalosporine orali di 2a e 3a generazione, intrinsecamente resistenti alle betalattamasi prodotte dalle specie in causa, con preferenza per le molecole di seconda generazione per la prevalenza in genere di specie patogene Gram-positive, dell’Haemophilus. influenzae ed in parte della Moraxella. catarrhalis. I principali requisiti farmacocinetici di un antibiotico ideale possono essere riassunti in una biodisponibilità orale elevata, una semivita di eliminazione sufficientemente lunga da garantire una
od al massimo due somministrazioni giornaliere, una elevata diffusione tissutale ed un basso legame farmaco-proteico, che rappresenta uno
dei fattori condizionanti la penetrazione stessa degli antibiotici a livello dell’apparato respiratorio in genere. In alcuni casi, come ad esempio
amoxicillina ed acido clavulanico, cefaclor, cefprozil e ceftibuten, la biodisponibilità orale è pressoché completa (75-94%), in altri casi si è
ricorsi alla costruzione di profarmaci orali, (ad esempio axetil-cefuroxima, pivoxil-cefetamet e proxetil-cefpodoxima) che tuttavia non comportano quasi mai un assorbimento molto elevato e comunque superiore al 50%. In particolare, uno degli obiettivi principali della chemioterapia è rappresentato dal raggiungimento nella sede di infezione di concentrazioni di antibiotico superiori alle minime inibenti (MIC) la specie patogena in causa, in modo da ottenerne l’eradicazione. Vi sono tuttavia differenze tra le varie classi di antibiotici e, a titolo di esempio
possiamo ricordare che gli antibiotici che agiscono sulla sintesi proteica, come ad esempio gli stessi macrolidi, almeno per quanto concerne i
derivati semisintetici come la claritromicina o l’azitromicina, possono essere favoriti dal raggiungimento di alte concentrazioni ematiche,
anche se mantenute per un periodo di tempo relativamente breve, dato che sono caratterizzati da una efficacia concentrazione-dipendente. Gli
antibiotici attivi sulla parete batterica, come le betalattamine, hanno invece una efficacia tempo-dipendente e necessitano di mantenere per un
tempo relativamente lungo, livelli in sede di infezione superiori alla MIC per l’agente etiologico. Pertanto la corretta posologia per questa classe di antibiotici ed in particolare per le molecole orali, dovrebbe prevedere almeno due somministrazioni nell’arco delle 24 ore. Inoltre, dato
che l’attività battericida delle betalattamine è anche parzialmente correlata alla concentrazione ottenibile in sede di infezione, nelle situazioni
“a rischio”, dovute ad una minore sensibilità dell’agente etiologico e/o ad una sede particolarmente difficile da raggiungere, è opportuno modificare la posologia usuale, riducendo in particolare l’intervallo tra le dosi per le molecole caratterizzate da una cinetica non lineare (ad es. cefixima, pivoxil-cefetamet ed in parte ceftibuten per dosi superiori a 9mg/kg), oppure aumentando la quantità pro-dose di farmaco per i derivati con cinetica lineare come cefaclor, cefprozil od axetil-cefuroxima, in modo da garantire il mantenimento di concentrazioni ematiche e tissutali superiori alle MIC delle specie patogene responsabili, per un periodo di tempo sufficientemente lungo.
PARAMETRI FARMACOLOGICI DI SCELTA DELLA TERAPIA ANTIBIOTICA IN EVOLUZIONE.
Andrea Novelli
Dipartimento di Farmacologia Preclinica e Clinica, Università degli Studi di Firenze
La chemioterapia antimicrobica sta attraversando un periodo critico di revisione delle regole per la scelta dei farmaci e della loro
ottimale posologia nel controllo delle infezioni al fine di potenziare la efficacia dei trattamenti e di ridurre il rischio di selezionare agenti patogeni polichemioresistenti. Due fondamentali componenti della farmacologia riguardano il ruolo della dose e
posologia del farmaco nei confronti della efficacia terapeutica e cioè la farmacodinamica, che ne analizza l’efficacia ed il meccanismo di azione, e la farmacocinetica, che ne studia il destino nel nostro organismo, valutando l’assorbimento, la distribuzione tissutale, l’eventuale biotrasformazione e la eliminazione. I principali parametri farmacodinamici si riassumono nella concentrazione minima inibente (MIC) e battericida (MBC) e nell’effetto post-antibiotico (PAE). Durante lo scorso decennio sono
stati analizzati alcuni importanti parametri farmacocinetici sia in vitro che in vivo nei modelli sperimentali che sono serviti per
individuare una correlazione abbastanza precisa con la efficacia terapeutica degli antibiotici: il primo è rappresentato dal mantenimento (espresso come percentuale dell’ intervallo fra le somministrazioni) di concentrazioni ematiche superiori alla MIC
(T>MIC), il secondo riguarda il quoziente fra il picco ematico (Cmax) e la MIC (Cmax/MIC) ed il terzo riassume entrambi nel
rapporto fra l’area sottesa dalla curva (AUC) delle concentrazioni ematiche per il tempo e la MIC (AUC/MIC). Recentemente,
ai fini di prevenire o comunque limitare la resistenza batterica, con particolare riferimento ai chinoloni, è emerso un nuovo concetto legato alla definizione della concentrazione in grado di prevenire le mutazioni (MPC) nel patogeno in corso di trattamento. In questo modo è possibile definire come “finestra di selezione delle mutazioni” l’intervallo compreso tra la MIC e la MPC
e valutare il possibile rischio di insuccesso in funzione della gravità della infezione, della sede e della specie batterica in causa.
Il significato di tutti questi parametri varia in funzione del meccanismo della azione antimicrobica condizionata da una batteriocidia tempo dipendente o legata alla concentrazione: nel primo gruppo sono comprese tutte le betalattamine ed i glicopeptidi mentre nel secondo si ritrovano gli aminoglucosidi ed i fluorochinoloni. Di conseguenza, per la maggior parte delle betalattamine un corretto regime posologico deve prolungare al massimo il tempo di esposizione all’antibiotico con mantenimento dei
livelli sierici sopra le MIC. Anche per i carbapenemi ed i glicopeptidi, l’obiettivo deve essere quello di un prolungato tempo di
esposizione, ma, in funzione di un elevato effetto post-antibiotico, i livelli sierici possono scendere anche sotto le MIC nell’intervallo fra le dosi. Il regime posologico ottimale invece per aminoglucosidi e fluorochinoloni deve tendere a raggiungere le
massime concentrazioni, in quanto la batteriocidia si è dimostrata direttamente proporzionale ai valori di picco e tutti questi antibiotici possiedono un prolungato effetto post-antibiotico.
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32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
LA SEPSI DA GRAM POSITIVI
G.Orefici
Istituto Superiore di Sanità, Roma
Lo shock tossico è il più grave e spesso finale evento della sepsi,ossia della risposta naturale e generalizzata, mediata dalla produzione di mediatori proinfiammatori e antinfiammatori (TNF, IL-1, IL-6, IL-8 ecc) con la quale l’organismo cerca di contrastare una infezione grave e che conducono a malfunzionamento importante di vari organi e a coagulazione massiva intravasale.
Fino a non molti anni fa si riteneva che fossero i Gram negativi a causare ,se non esclusivamente, la maggior parte delle sepsi
ma negli ultimi anni si è constatato un aumento notevole di casi (circa il 50%) in cui l’agente responsabile è un Gram positivo.
I motivi di questo aumento sono vari ,dall’aumentato uso di cateteri intravascolari, all’impianto di materiali estranei (valvole,
protesi articolari), alla somministrazione di chemioterapia o sostanze immunosoppressive, all’uso di droghe per via iniettiva,
alla diffusione di antibiotico resistenze. Non ultimo l’aumentata sopravvivenza di pazienti anziani o con gravi malattie neoplastiche o da immunodeficienza che ha aumentato il numero di pazienti a rischio di infezioni gravi.
I Gram positivi non possiedono l’endotossina ma utilizzano una serie di fattori che interagiscono nella sepsi, inoltre richiedono
per la loro eliminazione una risposta immunologica più complessa che prevede il killing intracellulare da parte di neutrofili e
macrofagi.
Componenti della parete come l’acido lipoteicoico e il peptidoglicano sinergizzano fra loro per causare il rilascio di ossido nitrico,tuttavia uno dei punti di maggior rilievo è la capacità dei Gram positivi di produrre esotossine, che sono spesso ben conosciuti superantigeni. Queste molecole, alcune delle quali presentano un discreto grado di omologia (SPEA streptococcica e enterotossina B stafilococcica) sono in grado di attivare una grande proporzione di antigen- presenting cells e cellule T con conseguente rilascio sistemico di alti livelli di citochine.
I tipi di shock tossico da Gram positivi meglio studiati negli ultimi 25 anni sono stati senz’altro quello da S.aureus negli anni
’80 e lo shock legato ai casi di fascite necrotizzante da S.pyogenes (GAS) negli anni ’90. In particolare lo studio dello shock da
streptococco ha messo in evidenza un nuovo ,importantissimo ruolo della proteina M che, formando aggregati con il fibrinogeno, si lega alle integrine dei PMN causando coagulazione intravasale e perdita di liquidi .
Altri antigeni ,come le proteine di superficie possono avere un ruolo nella sepsi da streptococco, sia perché la presenza di anticorpi specifici è di aiuto nel preservare dallo shock, sia perché il legame di una di queste proteine (F1) alla fibronectina sembra
diminuire la virulenza del batterio.
INFEZIONI GENITALI DA HPV: RISPOSTA IMMUNE E STRATEGIE VACCINALI
A. Perino e D. Mangione
Dipartimento Materno Infantile – Università degli Studi di Palermo
Il carcinoma della cervice uterina è, a livello mondiale, la seconda neoplasia maligna per frequenza nella donna , con circa 500.000
nuovi casi per anno di cui 200.000 ad esito infausto. I papillomavirus umani (HPV) giocano un ruolo fondamentale nello sviluppo di tale neoplasia; infatti, i genotipi 16,18, 31 e 45 sono coinvolti nell’ 80% circa dei carcinomi cervicali invasivi. La maggior
parte delle infezioni da HPV, tuttavia, sono autolimitanti grazie alla risposta immune dell’ ospite, umorale e sopratutto cellulo
mediata, che determina una precoce eliminazione del virus. Gli anticorpi neutralizzanti verso le proteine capsidiche L1 o L2 sono
specifici per i differenti tipi di HPV e sono in grado di prevenire l’ infezione; nei casi in cui l’ infezione si è verificata, le proteine
virali prodotte all’ interno della cellula ospite sono trasformate in peptidi e presentate sulla superficie cellulare dalle molecole del
complesso maggiore di istocompatibilità (MHC):; a questo livello, i peptidi virali sono riconosciuti ed aggrediti dalla risposta
immunitaria cellulo-mediata in termini di linfociti T helper CD4+ (Th) e T citotossici virus specifici CD8+ (CTL). Strategie vaccinali contro i papillomavirus umani sono state proposte a differenti livelli della storia naturale dell’ infezione allo scopo di ridurre l’ incidenza del cervico carcinoma. Vaccini profilattici: una significativa proposta vaccinale è in atto sperimentata grazie allo sviluppo delle particelle simil virali (VLPs). VLPs infatti sono state ottenute in laboratorio mediante espressione della proteina capsidica maggiore L1 da sola o in associazione con la proteina minore L2. Le HPV VLPs sono morfologicamente ed antigenicamente simili ai virioni naturali e sono in grado di indurre una risposta immune, con la comparsa anticorpi neutralizzanti, di livello anche
superiore a quella evocata in corso di infezione naturale. Inoltre , non contenendo DNA virale, le VLPs sono considerate componenti assolutamente sicure per la composizione di vaccini anti HPV: i primi studi in doppio cieco randomizzato e controllati con
placebo hanno confermato la sicurezza e la immunogenicità di tali vaccini. Attualmente è in corso una sperimentazione multicentrica internazionale di un vaccino profilattico VLP tetravalente che incorpora due HR HPV (16 e 18) e due LR HPV (6 e 11).
Vaccini Terapeutici: scopo di queste strategie vaccinali è evocare una risposta immune, con la presenza di linfociti T citotossici specifici, nei confronti di proteine antigeniche virali localizzate nelle cellule neoplastiche, in particolare le oncoproteine E6 ed E7. A
tal fine sono state utilizzate tecniche differenti mediante virus ricombinanti, batteri, proteine, peptidi e cellule dendritiche. Tuttavia
le sperimentazioni con i vaccini terapeutici sono ancora in fase iniziale e necessitano di ulteriori verifiche per le opportune correlazioni tra risposta immune e risposta clinica. Vaccini combinati profilattici e terapeutici: tali vaccini, detti anche chimerici in quanto contengono una oncoproteina precoce (E6-E7) in associazione a proteine di struttura (L1-L2) hanno la possibilità di combinare
effetti di prevenzione e finalità terapeutiche. Sperimentazioni iniziali hanno confermato tale potenzialità, ma studi su campioni più
numerosi sono ancora necessari.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
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PROBLEMATICHE FARMACODINAMICHE E FARMACOCINETICHE DELLE NUOVE TERAPIE
PER LE INFEZIONI NOSOCOMIALI SOSTENUTE DA GRAM POSITIVI
F. Pea
Istituto di Farmacologia Clinica e Tossicologia, Dipartimento di Patologia e Medicina Sperimentale e Clinica, Università di Udine
Le infezioni nosocomiali causate da batteri Gram positivi rappresentano un problema di considerevole rilievo, dal momento che sempre più di frequente sono sostenute da ceppi multi-resistenti insensibili alla maggior parte degli antibiotici. Tra i
nuovi farmaci anti Gram-positivi attivi anche nei confronti di batteri resistenti alla meticillina e/o ai glicopeptidi, alcuni
sono già disponibili e attualmente impiegati in terapia, come linezolid e quinupristin/dalfopristin, mentre altri sono in fase
di sviluppo e sembrano essere promettenti in tal senso, in particolare daptomicina, dalbavancina, oritavancina e tigeciclina.
Linezolid rappresenta il capostipite di una nuova classe di antibiotici, gli oxazolidinoni, ed è attivo sia nei confronti dello
S. aureus a sensibilità intermedia ai glicopeptidi (VISA, GISA) che dell’E. faecium e dell’E. faecalis vancomicino-resistenti
(VRE, VREF). Il linezolid possiede attività di tipo tempo-dipendente, cosicché il tempo durante il quale la concentrazione
plasmatica viene mantenuta al di sopra della MIC è considerato il principale determinante di efficacia farmacodinamica (t
>MIC). Per sue caratteristiche intrinseche, linezolid ha un’ottima biodisponibilità orale (circa 100%) che ne garantisce la
possibilità di impiego in terapia sequenziale, diffonde bene all’interno dell’organismo raggiungendo concentrazioni terapeuticamente efficaci non solo nel plasma, ma anche in siti difficilmente accessibili quali ad esempio polmone, osso, ma
anche sistema nervoso centrale. Non richiede aggiustamenti posologici in presenza di alterazioni della funzionalità epatica
e/o renale poiché viene eliminato prevalentemente per degradazione spontanea e non presenta interazioni farmacocinetiche
clinicamente rilevanti poiché non interferisce con gli isoenzimi del sistema microsomiale del citocromo P450 (CYP).
Quinupristin/dalfopristin (Q/D) è una miscela di due streptogramine associate in idonea proporzione fortemente sinergica
nei confronti di batteri Gram + multi-resistenti quali MRSA, GISA e VREF, mentre Enterococcus faecalis è intrinsecamente
resistente. E’ somministrabile solo per via endovenosa (esclusivamente per vaso venoso centrale a causa della sua tossicità
tissutale), ed i due componenti hanno un moderato legame alle proteine plasmatiche con distribuzione limitata. Q/D è largamente metabolizzato ed è un potente inibitore del CYP3A4 potendo quindi essere causa di accumulo di altri farmaci che
siano substrati di tale sistema enzimatico e che siano somministrati contemporaneamente (es. ciclosporina, tacrolimus ecc.).
La daptomicina è un lipopeptide attivo nei confronti di MRSA, GISA, VISA, VRSA e VRE recentemente registrato negli
USA per la terapia delle infezioni di cute e tessuti molli. Studi di correlazione cinetico-dinamica nel modello animale hanno
dimostrato che il rapporto AUC/MIC sembra essere il parametro che meglio correla con la sua efficacia. E’ altamente legata alle proteine plasmatiche ed ha una lunga emivita di eliminazione che ne consente la monosomministrazione giornaliera. Viene eliminata principalmente per via renale; per circa il 25% viene metabolizzata secondo modalità non ancora definite, anche se non sembra modificare l’attività del CYP450. Oritavancina e dalbavancina sono due nuovi glicopeptidi, strutturalmente analoghi rispettivamente a vancomicina e teicoplanina, attualmente in fase II/III di sviluppo per il trattamento
delle infezioni di cute e tessuti molli. Entrambi sono attivi nei confronti di MRSA e GISA, mentre solo oritavancina lo è
anche verso i VRE. Hanno attività tempo-dipendente e la lunga emivita plasmatica ne consente la monosomministrazione
giornaliera (oritavancina) o settimanale (dalbavancina), rispettivamente. La tigeciclina è una glicilciclina strutturalmente
derivata dalle tetracicline ma cje sembara essere a minor rischio di selezione di resistenze e si è dimostrata attiva, oltre che
nei confronti di batteri Gram-negativi ed intracellulari, anche contro numerosi Gram-positivi, inclusi MRSA e GISA.
Esibisce attività tempo-dipendente essndo t>MIC il parametro che meglio correla con la sua efficacia; possiede una lunga
emivita plasmatica e viene eliminata prevalentemente per via non-renale.
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32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
CRITERI DI QUALITÀ E SICUREZZA MICROBIOLOGICA NELL’IMPIEGO CLINICO DI CELLULE
STAMINALI
Pessina A.
Laboratorio di Colture Cellulari, Istituto di Microbiologia,Università degli Studi di Milano
Per garantire qualità e sicurezza nell’impiego clinico di cellule staminali ci sostiene l’ esperienza maturata con i trapianti di tessuto e di
organi che , tuttavia, necessita di un continuo aggiornamento per tenere conto delle nuove conoscenze biologiche e delle nuove tecnologie
introdotte. In generale i punti critici sono quattro: 1-la corretta migrazione e integrazione funzionale delle cellule nel ricevente, 2- l’assenza
di effetti nocivi o tossici , 3- il rischio tumorale , 4- il rischio microbiologico. La corretta valutazione dei rischi correlati ai primi tre aspetti dipende, in massima parte, dal livello delle nostre conoscenze della biologia delle staminali stesse (ancora parziale) e dal loro comportamento in risposta ai processi di manipolazione. Il rischio tumorale , in particolare, sembra dipendere significativamente dalla minore o maggiore plasticità di queste cellule e appare più elevato in cellule a rapida divisione e molto immature ( quali sono le cellule staminali embrionali) che in precursori più maturi con limitata pluripotenza differenziativa. Il rischio microbiologico dipende principalmente da tre sorgenti
di contaminazione : 1- il donatore ,2 - il prelievo e la manipolazione delle cellule ( “ minimale” = senza alterazione dei caratteri biologici;
“più-che minimale”= con processi in grado di alterare caratteristiche biologiche ), 3- lo stoccaggio (o banking) e la distribuzione. Per il
donatore l’attuale legislazione europea prevede alcuni esami sierologici obbligatori dei quali è richiesta negatività (HIV-1 , HIV-2 ,HTLV-1
e HTLV-2, Cytomegalovirus; Epatite B e C, Treponema pallidum). Appare tuttavia evidente la necessità di una anamnesi medica accurata
mentre , da più parti, si suggeriscono esami per escludere il rischio di tubercolosi e della malattia di Creutzfeldt Jacob (CJD). La raccolta o
la manipolazione delle cellule rischia la contaminazione esterna sia da batteri e micoplasmi, da lieviti, micoplasmi e virus. Mentre può essere
relativamente semplice identificare una contaminazione di batteri e lieviti e certificare la sterilità in tal senso, spesso l’identificazione di una
contaminazione da micoplasmi ( che possono comportarsi anche da parassiti endocellulari) pone maggiori problemi soprattutto per il rischio
dei cosiddetti “ falsi negativi”. Purtroppo i micoplasmi devono essere considerati un grave rischio non solo per l’aspetto infettivologico ma
perché in grado di alterare significativamente molte funzioni cellulari compresa la stessa differenziazione . Tra le contaminazioni virali da
escludere vi sono: EBV, CMV, HBV,HCV, HIV-1 e HIV-2 , HTLV-1 e HTLV-2, Papillomavirus, HHV-6 and HHV-7 e Adenovirus. Anche lo
stoccaggio in azoto liquido costituisce un rischio elevato, spesso drammatico, di contaminazione che non deve mai essere sottovalutato soprattutto per evitare gravissime perdite di materiale biologico come avvenuto , anche recentemente, in alcune banche di tessuti e cellule. In ogni
caso, l’aspetto più critico ed importante che necessiterà di un continuo aggiornamento riguarda le cosiddette “manipolazioni più che minime” ( con l’ uso di sieri animali, citochine, fattori di crescita, gene transfer ,ecc) poiché potenzialmente in grado sia di indurre l’espressione
di virus endogeni che di modificare la suscettibilità cellulare ad agenti infettivi ( prioni compresi nella manipolazione di cellule neuronali).
“VACCINOLOGIA INVERSA”: UN APPROCCIO GENOMICO PER L’IDENTIFICAZIONE DI NUOVI
CANDIDATI PER LO SVILUPPO DI VACCINI.
Mariagrazia Pizza
IRIS, Chiron Vaccines, Siena
La meningite batterica è tuttora una malattia estremamente temibile, caratterizzata da un’ elevata letalità nonostante la disponibilità di una efficace terapia antibiotica. I microrganismi responsabili della maggior parte dei casi di meningite sono tre batteri capsulati: Haemophilus influenzae tipo b (Hib), Streptococcus pneumoniae (pneumococco) e Neisseria meningitidis (meningococco).
Vaccini coniugati contro l’H.influenzae e pneumococco sono disponibili sul mercato e il loro uso ha eliminato o notevolmente
diminuito l’incidenza della malattia indotta da questi due patogeni.
Nel caso di meningococco, lo sviluppo di un vaccino capsulare coniugato contro il serogruppo C, uno dei cinque serogruppi
patogeni di meningococco, ed il suo uso in campagne di immunizzazione di massa ha permesso, nei paesi in cui è stato adottato, l’eliminazione della malattia in pochi mesi. I successi ottenuti dal vaccino coniugato contro il meningococco C, supportano
la possibilità di sviluppare entro pochi anni, vaccini coniugati che proteggano anche da N. meningitidis serogruppo A, Y e W135.
L’ ostacolo maggiore per l’eliminazione della meningite batterica è rappresentato dal serogruppo B di meningococco, per il quale
non è disponibile, ne è possibile sviluppare ad oggi , un vaccino capsulare coniugato.
La possibilità di sequenziare rapidamente un genoma ha completamente rivoluzionato lo studio dei patogeni e delle loro relazioni con l’organismo ospite, aprendo orizzonti nella ricerca di nuovi vaccini. Nel nostro caso l’approccio genomico ha consentito, in breve tempo, di identificare nuovi antigeni non capsulari di meningococco B quali candidati potenziali per lo sviluppo di un vaccino. La caratterizzazione immunologica di questi antigeni ha permesso la selezione dei migliori candidati. Inoltre
lo studio delle proprietà biochimiche e funzionali di alcuni di questi antigeni ne ha permesso l’identificazione come nuovi fattori di virulenza ed aperto nuove strade nella comprensione della patogenesi di meningococco.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
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ISOLAMENTO E TRACCIABILITA’ DI MICRORGANISMI PATOGENI RESPONSABILI DI TOSSINFEZIONI ALIMENTARI
R. Pompei, M. Quartuccio, MA. Madeddu, S. Laconi, A. Ingianni
Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biomediche, Sezione di Microbiologia Applicata e Tecnologie Biomediche, Università di
Cagliari.
I recenti allarmi suscitati dalla diffusione delle malattie prioniche, delle tossinfezioni alimentari e dai casi di contaminazione da
diossina, hanno aumentato l’attenzione del consumatore sulla provenienza e qualità degli alimenti. Sono almeno 10 i microrganismi patogeni alimentari sotto monitoragio costante da parte degli organi di controllo USA. Questi sono Salmonelle,
Campylobacter, Shigelle, E. coli produttori di Shiga-tossine ( STEC sierotipo 0157 e altri sierotipi), Yersinia, Vibrio, Listeria,
Cryptosporidium, Cyclospora e agenti della sindrome uremica emolitica (HUS). Almeno 1/4 della popolazione USA ogni anno
va incontro a un episodio di tossinfezione alimentare, con 350.000 ospedalizzazioni e 5.000 morti circa. I dati europei sono più
frammentari, ma riportano oltre 300.000 casi annui di salmonellosi solo nei paesi della CE. L’andamento epidemiologico degli
ultimi 5 anni indica un progressivo decremento dell’incidenza di infezioni da Listeria e Campylobacter, mentre le infezioni da
Salmonella, Shigella e STEC E. coli sembrano rimanere stabili su valori elevati.
La tracciabilità degli alimenti ha appunto lo scopo di garantire il consumatore sull’osservanza delle norme igieniche dell’azienda produttrice di un cibo (HACCP) e sul percorso che questi ha subito prima di arrivare sulla sua tavola. In particolare la tracciabilità dei patogeni alimentari è utile in caso di epidemie per identificare la fonte di provenienza degli agenti infettanti e prendere adatte misure di profilassi e risanamento delle aziende produttrici.
E’ necessario pertanto disporre di metodi rapidi e specifici per identificare e tracciare il percorso dei patogeni lungo la catena
alimentare. Tra i sistemi di identificazione vengono presi in esame la PCR, la PCR in tempo reale, l’uso di sonde a DNA e la
tecnica basata sui micro-arrays, che ha reso pratica la ricerca di più patogeni contemporaneamente.
Gli autori riportano infine le loro esperienze sull’uso di varie tecniche molecolari, tra cui PCR, PCR più sonde a DNA, RAPD
(random amplified polymorphic DNA) per seguire il percorso di sottotipi di Listeria monocytogenes in campioni di cibi freschi
confezionati della grande distribuzione e fanno una revisione critica su vantaggi e svantaggi dei vari sistemi molecolari in uso
per la tracciabilità dei patogeni alimentari.
Questi lavori sono stati finanziati dal MIUR (Prin 2001), da Biotecne e dalla Fondazione Banco di Sardegna.
VETTORI POXVIRALI PER LA COSTRUZIONE DI VACCINI RICOMBINANTI
Antonia Radaelli
Dipartimento di Scienze Farmacologiche e Farmacologia Medica dell’Università di Milano
I poxvirus hanno giocato un ruolo fondamentale nello sviluppo della virologia, dell’immunologia e della vaccinologia fin dal 1798 quando Jenner
dimostrò che l’infezione col virus del vaiolo bovino (cowpox, vaccinia) conferiva protezione contro il vaiolo umano (smallpox, variola). Nonostante
la vaccinazione col virus vaccinico abbia permesso l’eradicazione del vaiolo nel 1980, un possibile uso bioterroristico di tale agente e la possibilità di
costruire virus ricombinanti, inserendo geni eterologhi nel background genetico del virus vaccinico, hanno riportato l’interesse verso questa famiglia
di virus a DNA. In particolare, dopo l’iniziale ed esclusivo utilizzo del virus vaccinico quale vettore per la preparazione di vaccini mediante ricombinazione omologa, l’interesse dei ricercatori si è esteso a poxvirus di altre specie che, diversamente dal vaccinia, pur esprimendo correttamente i transgeni, presentano un ciclo replicativo abortivo. Tale caratteristica ha portato alla preparazione e valutazione in vitro ed in vivo di costrutti poxvirali
ricombinanti basati sul genoma dei poxvirus aviari fowlpox e canarypox, opportunamente attenuati e correntemente utilizzati per immunizzare polli e
canarini contro il vaiolo. Tali vettori avipox infatti, accanto alle caratteristiche di maneggiabilità genetica, attività di espressione ed immunogenicità
del virus vaccinico, presentano una maggiore sicurezza per l’uomo in quanto totalmente apatogeni e non replicativi in cellule di mammifero. Ciò
implica che la loro produzione deve avvenire in cellule primarie di uccello (pollo) SPF, prive di retrovirus endogeni. Recentemente, l’isolamento di
ceppi di virus altamente attenuati mediante delezioni mirate di geni correlati con la patogenicità e/o con il tropismo di specie (MVA, e NYVAC) hanno
rappresentato la base genica di nuovi e più sicuri vettori basati sul virus vaccinico caratterizzati da limitata o nulla attività replicativa nell’uomo.
Attualmente, vaccinia, fowlpox e canarypox sono stati ampiamente utilizzati per la costruzione di potenziali vaccini non solo antivirali, ma anche antibatterici, antimalarici e antitumorali e la loro sperimentazione in vivo, sia negli animali che nell’uomo, ne ha dimostrato la sicurezza, l’immunogenicità ed in molti casi anche l’efficacia, accompagnata da economicità di produzione, stabilità termica e facilità di somministrazione. In particolare, sono
stati utilizzati vaccini ricombinanti antirabbici edibili che hanno permesso la vaccinazione del 90% delle volpi e degli scoiattoli in Francia e Germania,
mentre sono in fase avanzata di valutazione decine di costrutti poxvirali per la prevenzione dell’AIDS, delle infezioni papillomatose da HPV16 e
HPV18, erpetiche da HSV-1/HSV-2 e CMV, epatitiche da HBV e HCV, influenzali da H5, morbillose, respiratorie da RSV e da flavivirus. Da un punto
di vista immunologico, il maggior vantaggio rappresentato dai poxvirus è rappresentato dalla loro capacità di evocare una risposta immune completa,
sia umorale che cellulare, indipendentemente dallo loro capacità di replicare o meno nelle cellule dell’ospite. In particolare, risposte anticorpali neutralizzanti sono facilmente ottenibili anche con quantità relativamente modeste di vaccini poxvirali somministrati come priming e seguite da uno o più
richiami. Il contributo della risposta cellulo-mediata al controllo di molte infezioni virali è stato confermato anche nel caso di vaccini poxvirali anti
influenza nel topo, in cui, in seguito a pretrattamento con anticorpi anti Thy-1, tale protezione veniva totalmente abrogata. Se l’efficacia immunogenica dei diversi poxvirus è praticamente sovrapponibile, la scelta del vettore nell’immunizzazione protettiva di un particolare ospite deve invece tener
conto sia di precedenti immunizzazioni con lo stesso poxvirus (es. vaccinazione antivaiolosa nell’uomo). Da questo punto di vista, l’uso di ricombinanti basati sui poxvirus aviari fowlpox e canarypox rappresenta una valida ed altrettanto efficace alternativa.
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32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
LA RISPOSTA IMMUNE AD ASPERGILLUS: DALL’ IMMUNITÀ PROTETTIVA ALL’ ALLERGIA
ALLA SEPSI
Luigina Romani
Microbiologia, Dipartimento di Medicina Sperimentale e Scienze Biochimiche, Università di Perugia, Perugia
L’esposizione continua ed ubiquitaria a conidi o spore di Aspergillus mette verosimilmente in allerta la sorveglianza immunologica dell’uomo, per lo meno a livello polmonare. L’attivazione del sistema immune che ne consegue deve essere comunque
tale da garantire e coesistere con le diverse forme di relazione che il fungo instaura con il suo ospite vertebrato, tra le quali lo
stato saprofitico, l’ allergia nonché le infezioni locali, invasive e sepsi. Dal momento che l’aspergillosi invasiva è altamente
letale (~90% di mortalità nel trapianto di midollo o fegato; 40-75% di mortalità in AIDS, in pazienti con neoplasie ematologiche o sottoposti a terapia corticosteroidea e nel trapianto di cuore e polmone) e sfugge all’efficacia della chemioterapia attuale,
sono quanto mai urgenti ed invocati approcci terapeutici alternativi e/o aggiuntivi. Tra questi, negli ultimi anni, si sta imponendo l’immunoterapia, quale strategia per potenziare in maniera specifica e/o aspecifica quelle difese immunologiche che conferiscono resistenza ad Aspergillus nel soggetto sano e che sono verosimilmente deficitarie nei pazienti a rischio di infezione.
E’ ora chiaro che la risposta immune al fungo riposa sull’interazione reciproca tra immunità innata e quella adattativa specifica. Responsabili della immunità adattativa sono i diversi “subsets” di linfociti Th, quali i linfociti Th1 che sono essenziali per
una efficace resistenza antifungina, i linfociti Th2 responsabili dell’allergia, nonché di linfociti T regolatori (Treg), anch’essi
essenziali nella regolazione dell’attività Th1/Th2. Dati recenti indicano che il sistema immune innato ha un ruolo di primo piano
nell’orientare la risposta immune acquisita Th e Treg, grazie alla presenza di una varietà di recettori (inclusi i Toll-like receptors, TLRs) presenti su cellule della reattività innata. Pare che l’orientamento selettivo della reattività TLRs/Th possa condizionare allergia ed immunità protettiva e non al fungo.
RETROVIRUS ENDOGENI E SCLEROSI MULTIPLA.
G. Rosati - S. Sotgiu
Clinica Neurologica, Università di Sassari
L’eziologia della sclerosi multipla (SM), malattia demielinizzante centrale a patogenesi immuno-mediata, è finora sconosciuta.
Dati sperimentali e circostanziali suggeriscono la rilevanza dei fattori ambientali non dipendenti tuttavia da chiari fattori trasmissibili e appare verosimile che la risposta anti-mielinica T e B cellulare sia mediata da un mimetismo molecolare tra epitopi microbici e “self” mielinici. La SM è estremamente eterogenea e vi sono evidenze che il background genetico sia di importanza rilevante e che campioni biologici analizzati in maniera stocastica da diverse popolazioni di pazienti SM non offrano una
positività eziologica universale.
La famiglia di retrovirus endogeni umani (HERV)-W comprende una particella retrovirale extracellulare denominata MSRV
(multiple sclerosis-associated retrovirus) poiché inizialmente isolata da tessuti di pazienti SM. In seguito MSRV è stato associato alla SM in termini di copie RNA extracellulari e di DNA genomico da studi indipendenti, e alcuni hanno ipotizzato una
capacità patogenetica di indurre apoptosi gliale e attivazione superantigenica linfocitaria T. Studi collaborativi condotti dal
nostro gruppo mostrano che, nel plasma, la forma extracellulare di MSRV è presente nel 100% dei pazienti con SM attiva e che
la sua presenza nel liquor ha un ruolo clinico prognosticamente sfavorevole. Tuttavia la presenza di MSRV extracellulare nel
plasma e nel liquor dei pazienti SM varia notevolmente non in relazione allo stato di malattia (attiva, stabile, in trattamento
immunomodulante) e all’etnia (sarda, spagnola, svedese e nord-italiana) dei pazienti, suggerendo che il background genetico
esercita un’influenza sulla sua espressione e sul suo peso patogenetico. L’espressione di MSRV da linfomonociti in vitro è inibita dall’IFN-β, citochina ad azione terapeutica nella SM e tale parallelismo clinico può non essere puramente casuale. A conferma di ciò abbiamo osservato che nella sostanza bianca e grigia di omogenati di cervelli autoptici di pazienti SM e di controlli
vi è una costitutiva espressione di RNA pol di MSRV, e che tale espressione è massima a livello delle placche demielinizzanti
indicando che determinate circostanze infiammatorie tendono ad incrementarne l’espressione e, virtualmente, a dar luogo ai possibili effetti neuropatologici di MSRV.
In conclusione, le evidenze su HERV quali fattori di suscettibilità alla SM sono ancora non definitive ma rappresentano ipotesi
di lavoro credibili per spiegare alcune delle complesse caratteristiche neuropatologiche e patofisiologiche della SM, almeno in
determinati contesti genetico-ambientali.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
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L’EVOLUZIONE DELLA RESISTENZA NELLE ENTEROBACTERIACEAE: EPIDEMIOLOGIA
MOLECOLARE
Claudia Mugnaioli, Filomena De Luca, Gian Maria Rossolini
Dipartimento di Biologia Molecolare, Laboratorio di Fisiologia e Biotecnologia del Microrganismi,
Università di Siena
Le β-lattamasi a spettro esteso (ESBL) sono tra i più importanti determinanti di resistenza emergenti nelle Enterobacteriaceae,
e la diffusione di questi enzimi sta progressivamente compromettendo l’efficacia clinica delle cefalosporine a spettro esteso e di
altri β-lattami per la terapia di queste infezioni. I principali tipi di ESBL che si possono ritrovare nelle Enterobacteriaceae sono
mutanti puntiformi delle β-lattamasi TEM-1/2 ed SHV-1, enzimi a codificazione plasmidica ampiamente diffusi nelle
Enterobacteriaceae sin dagli anni 70, che grazie a mutazioni che modificano il sito catalitico hanno acquisito la capacità di
degradare le oximino-cefalosporine e i monobattami. Recentemente, tuttavia, è stata riportata la comparsa anche di altri enzimi,
diversi da quelli di tipo TEM e SHV. Di questi, i più diffusi sono gli enzimi di tipo CTX-M, anch’essi a codificazione plasmidica, la cui distribuzione si sta rivelando praticamente ubiquitaria.
In Italia, in uno studio di sorveglianza nazionale condotto nel 1999, la prevalenza di ESBL in isolati nosocomiali di
Enterobacteriaceae era risultata leggermente superiore al 6%, con un interessamento prevalente di alcune specie (Klebsiella
spp., Proteus mirabilis ed Enterobacter aerogenes), e con la presenza documentata di numerose varianti di tipo TEM ed SHV.
Nello studio di sorveglianza nazionale condotto nel 2003, in aggiunta alle varianti di tipo TEM ed SHV, sono state ricercate
anche le ESBL di tipo CTX-M e PER.
In questa presentazione saranno illustrati i dati di epidemiologia molecolare delle ESBL relativi allo studio di sorveglianza condotto nel 2003, con particolare riguardo alla distribuzione dei vari tipi di enzimi in fuzione di vari parametri epidemiologici
(specie batterica, sede geografica) e alla comparsa di nuove ESBL “non-convenzionali” di tipo CTX-M (CTX-M-1, CTX-M15, CTX-M-32) e PER (PER-1) osservata in varie specie di Enterobacteriaceae. Saranno infine considerati gli aspetti rilevanti
per la disseminazione di questi determinanti di resistenza in relazione alla loro trasmissibilità tra ceppi della stessa speciee di
specie diverse, e a fenomeni di espansione clonale dei ceppi produttori.
Il progetto di sorveglianza nazionale sulle ESBL è stato effettuato con un contributo di ricerca di Wyeth Italia s.p.a. e con la collaborazione del gruppo Italiano per lo studio delle ESBL.
LA COMUNICAZIONE INTERCELLULARE TRA BATTERI: IMPLICAZIONI IN CAMPO MEDICO
Gian Maria Rossolini
Dipartimento di Biologia Molecolare, Laboratorio di Fisiologia e Biotecnologia del Microrganismi,
Università di Siena
Il quorum sensing è un processo di comunicazione intercellulare mediante il quale i batteri coordinano l’espressione genica a
livello di popolazione in funzione della densità della popolazione stessa. Scoperto inizialmente in specie batteriche marine bioluminescenti, in cui l’emissione di luce è regolata dalla densità della popolazione batterica, la comunicazione cellulare via quorum sensing si è successivamente rivelata un fenomeno largamente diffuso tra i batteri, coinvolto nella regolazione di svariate
funzioni quali la differenziazione cellulare, lo scambio genico tra batteri, la produzione di antibiotici, la produzione di enzimi
degradativi, l’espressione di fattori di virulenza, la crescita in forma sessile.
In campo biomedico, l’implicazione del quorum sensing è attualmente riconosciuta come importante o essenziale per il potere
patogeno di alcuni patogeni batterici (ad es. Pseudomonas aeruginosa, Vibro cholerae, Staphylococcus aureus), ed è molto probabile che, con il progredire delle conoscenze, le situazioni di questo tipo si moltiplichino rapidamente. Per tale motivo i processi
di comunicazione intercellulare tra batteri hanno recentemente riscosso un crescente interesse anche nel settore della
Microbiologia Medica, sia per la comprensione dei meccanismi di patogenicità microbica, sia come potenziali bersagli per
nuove terapie antimicrobiche.
In questa presentazione saranno brevemente discussi i meccanismi molecolari dei fenomeni di comunicazione intercellulare
coinvolti nella virulenza di alcuni batteri gram-negativi, e le prospettive di sfruttamento di tali meccanismi come target per lo
sviluppo di nuovi farmaci ad azione antimicrobica.
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32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
PRIONI E ENCEFALOPATIE SPONGIFORMI
Mario Salmona
Istituto di Ricerche Farmacologiche “Mario Negri”
Dipartimento di Biochimica e Farmacologia Molecolare, Milano
Le malattie da prioni o encefalopatie spongiformi sono caratterizzate dalla presenza di una forma alterata di una proteina
denominata “prione”. Queste malattie oltre a colpire con grande aggressività il sistema nervoso centrale si trasmettono
attraverso un agente infettante (il “prione”) che sembra in gran parte costituito dalla stessa proteina. L’ipotesi “proteica” si
basa su numerose evidenze, anche se la sola proteina prionica, pur essendo essenziale per lo sviluppo della malattia, non
sembra in grado di generare l’infettività. Il prione, nella sua forma alterata, ha la stessa sequenza primaria dalla proteina
nativa, ma si struttura in maniera anomala, assumendo una conformazione che altera completamente le sue caratteristiche
chimico-fisiche. La proteina nella sua struttura “patologica” agisce da stampo per il prione nativo dell’ospite il quale, a sua
volta, si trasforma nella forma patologiche. Nell’uomo sono state identificate come malattie da prioni, la malattia di
Creutzfeldt-Jakob (CJD) e di Gerstmann-Sträussler-Scheinker (GSS), note già dagli anni ‘ 20 e ‘30, ma la cui eziopatogenesi era sconosciuta fino a pochi anni fa, il “kuru” legato a riti cannibalistici di una popolazione della Nuova Guinea
descritto per la prima volta negli anni cinquanta dal premio Nobel Charleton Gajusek e l’insonnia fatale familiare (FFI)
identificata negli anni ottanta. Recentemente è stata descritta una nuova variante della CJD (vCJD) causalmente legata alla
encefalopatia spongiforme bovina (BSE). La malattia da prioni può essere trasmessa per via iatrogena attraverso la somministrazione di farmaci contaminati come l’ormone della crescita, l’impianto della dura madre durante operazioni di neurochirurgia oppure l’uso di ferri chirurgici non adeguatamente sterilizzati.
Attualmente non esistono terapie efficaci per le malattie da prioni. Gli studi in corso in tutto il mondo tendono non solo a
chiarire le basi biologiche di questa malattia, ma anche a sviluppare approcci terapeutici innovativi utilizzando modelli cellulari ed animali di questa patologia.
BASI MOLECOLARI DELLA FARMACO-RESISTENZA IN PLASMODIUM FALCIPARUM E P. VIVAX
Carlo Severini
Dipartimento di Malattie Infettive, Parassitarie ed Immunomediate, Istituto Superiore di Sanità, Roma
Il fenomeno della resistenza ad antimalarici efficaci e poco costosi in Plasmodium falciparum ed in P. vivax rappresenta
uno dei principali ostacoli per il controllo e la terapia della malaria. La resistenza a clorochina (e la mancanza di un farmaco alternativo con le sue stesse caratteristiche) costituisce una minaccia crescente nella sanità pubblica di tutte le regioni ad endemia malarica, soprattutto in Africa ed in Sud America, dove spesso si traduce in un aumento della mortalità infantile. Purtroppo, la velocità con cui il plasmodio sviluppa resistenza agli antimalarici è superiore alla velocità con cui la
comunità scientifica identifica e produce nuovi farmaci. La conoscenza dei meccanismi molecolari alla base della farmacoresistenza riveste un ruolo centrale nella ricerca di nuovi antimalarici. Gli studi di parassitologia molecolare hanno evidenziato l’esistenza di una serie di mutazioni puntiformi associate alla comparsa della farmaco-resistenza. Alcune di queste
associazioni sono ben documentate, come la presenza di mutazioni nei geni pfdhfr e pvdhfr e la resistenza agli antifolati
(pirimetamina) rispettivamente in P. falciparum e P. vivax, oppure mutazioni nel gene pfdhps e la resistenza ai sulfonamidi (sulfadoxina) in P. falciparum. Invece, correlazioni tra mutazioni puntiformi di alcuni geni dei due plasmodi e la resistenza alla clorochina sono ancora da accertare. In P. falciparum è stato identificato recentemente un nuovo gene (pfcrt) che
codifica per una proteina (PfCRT) localizzata nella membrana del vacuolo parassitoforo del plasmodio, e che costituisce il
probabile sito d’azione di clorochina. Questo gene presenta diverse mutazioni puntiformi ritenute cruciali per la resistenza
a clorochina, come ad esempio la K76T e la A220S. Vari studi hanno dimostrato una piena associazione tra la presenza di
alleli mutanti del gene pfcrt e la resistenza in vivo e in vitro a clorochina, ma sono necessarie ulteriore ricerche su un numero più ampio di isolati plasmodiali provenienti da diverse aree endemiche per confermare questo risultato. Al contrario di
quanto dimostrato per P. falciparum, nelle sequenze nucleotidiche del gene pvcrt (l’omologo di pfcrt in P. vivax) provenienti
da isolati clinici clorochino-resistenti di P. vivax non sono state evidenziate mutazioni, suggerendo che la resistenza a clorochina di P. vivax non è legata al polimorfismo di tale gene e che quindi la dinamica con cui questa si sviluppa non è comune ad entrambe le specie plasmodiali.
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IMPIEGO DEL METODO REAL-TIME PCR NELLA DIAGNOSI DELLE INFEZIONI RESPIRATORIE DA
PATOGENI ATIPICI: MYCOPLASMA PNEUMONIAE, CHLAMYDIA PNEUMONIAE E VIRUS RESPIRATORIO
SINCIZIALE.
Vittorio Sambri, 1Elisa Storni, Roberto Cevenini.
Dipartimento di Medicina Clinica, Specialistica e Sperimentale – Sez. Microbiologia, Università degli Studi di Bologna;
1Centro di Riferimento Regionale per le Emergenze Microbiologiche – CRREM, Ospedale S.Orsola-Malpighi, Bologna.
In questo studio sono stati valutati 81 tamponi faringei per la presenza di Mycoplasma pneumoniae e Chlamydia pneumoniae
e 100 aspirati nasofaringei per la presenza di Virus Respiratorio Sinciziale (RSV). I materiali sono stati raccolti durante l’inverno 2002-2003 da bambini in età pediatrica (1-5 anni) e scolare (5-10 anni). I pazienti sono stati ospedalizzati per sintomatologia da infezione respiratoria acuta.
Dopo preparazione del pellet cellulare, i campioni sono stati estratti utilizzando High Pure Viral Nucleic Acid kit (Roche).
L’RNA estratto è stato retrotrascritto con Transcriptor Reverse Transcriptase (Roche) secondo le istruzioni del produttore.
L’amplificazione del DNA estratto e del cDNA è stata eseguita con metodica Real Time (RT-PCR) in capillari in vetro utilizzando lo strumento LightCycler II: un frammento genomico dell’agente patogeno è stato amplificato usando primers specifici e rilevato in fluorescenza (generata dalla coppia di sonde specifiche di ibridazione).
I primers, le sonde specifiche ed i controlli positivi utilizzati sono stati forniti dal produttore come componenti dei kit RSV
LCSet, Mycoplasma pneumoniae LCSet e Chlamydia pneumoniae LCSet (TIB molbiol per Roche). La miscela di amplificazione è stata preparata aggiungendo a primers e probes l’enzima hot start Taq DNA polymerase presente nel LighCycler
FastStart DNA MasterPLUS Hybridization Probes (Roche) secondo le indicazioni del produttore.
Come metodica di confronto per la ricerca di Mycoplasma pneumoniae e Chlamydia pneumoniae è stata eseguita sugli stessi estratti cellulari una tecnica PCR “nested” utilizzando il kit PNEUMOTRIS (Amplimedical - divisione BIOLINE) seguendo quanto indicato dal produttore. Il prodotto finale di amplificazione è stato fatto correre su gel di agarosio al 2.5 % in presenza di marcatore di peso molecolare. Campioni positivi per C. pneumoniae presentavano una banda di 269 bp mentre una
banda di 183 bp identificava la presenza di M. pneumoniae. Per la identificazione di RSV è stata eseguita una tecnica commerciale (BioMerieux) di immunofluorescenza diretta (IFA) sul preparato citocentrifugato. La tabella seguente riassume i
risultati ottenuti.
Risultati
Campioni saggiati
(N°)
Test
RSV LCSet
Mycoplasma
pneumoniae LCSet
Chlamydia
pneumoniae LCSet
RT-PCR
PCR
IFA
Aspirato
nasofaringeo
(100)
Positivi 54
Negativi 46
Non eseguito
Positivi 28
Negativi 72
Tampone faringeo
(81)
Positivi 11
Negativi 70
Positivi 11
Negativi 70
Non eseguito
Tampone faringeo
(81)
Positivi 2
Negativi 79
Positivi 2
Negativi 79
Non eseguito
La metodica RT-PCR ha dimostrato di possedere una maggiore sensibilità rispetto ad IFA per la identificazione di RSV in aspirati nasofaringei (54% di positività rispetto 28%). Per la identificazione di M.pneumoniae e C.pneumoniae le tecniche utilizzate in questo studio hanno dimostrato valori di sensibilità identici. La metodologia RT-PCR si è inoltre confermata semplice da
eseguire e grazie alla lettura automatica dei risultati ottenuti e alla interpretazione degli stessi mediante il software dedicato si
è dimostrata di grande applicabilità pratica alla diagnosi di laboratorio delle infezioni respiratorie da patogeni atipici.
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32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
CARATTERIZZAZIONE MOLECOLARE DELL’INTERAZIONE PATOGENO-OSPITE: UN APPROCCIO
MOLECOLARE
Dr F. Falciani
School of Biosciences, the University of Birmingham, Edgbaston, Birmingham, UK
In questo studio abbiamo caratterizzato la risposta trascrizionale di cellule batteriche e di cellule umane nel corso di infezione.
Abbiamo usato la tecnologia dei microarray che permette la misurazione di espressione genica di una parte significativa del
genoma umano e di tutto il genoma batterico. Il nostro studio ci ha permesso di identificare geni chiave che caratterizzano un
programma di risposta nell’ospite che e’ associato a specifici ceppi patogeni di E coli. Nel batterio abbiamo identificato una serie
di geni che sono regolati in seguito ad infezione e che potrebbero rappresentare nuovi determinanti antigenici di interesse
biologico e clinico. Questo studio getta le basi per capire in modo piu’ approfondito le basi molecolari della interazione fra la
cellula ospite e il patogeno.
IDENTIFICAZIONE DI SPECIE E DETERMINAZIONE DELLA RESISTENZA ALLA METICILLINA
IN STIPITI DI STAPHYLOCOCCUS SPP. ISOLATI DA EMOCOLTURE DI PAZIENTI CON BATTERIEMIA CON IL SISTEMA PHOENIX
Teresa Spanu, Giovanni Fadda
Istituto di Microbiologia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma
In questo studio è stata valuta l’affidabilità del sistema Phoenix (Becton Dickinson Microbiology Systems, Sparks, Md.)
per l’identificazione di specie e la determinazione della resistenza all’oxacillina (meticillina) di 493 ceppi di stafilococchi
(Staphylococcus aureus, n=223; stafilococchi coagulasi-negativi, CoNS, n=270) isolati da pazienti con batteriemia. I risultati dell’identificazione del Phoenix erano concordanti con i risultati delle gallerie ID 32 STAPH (bioMérieux, Marcy
l’Etoile, France) per il 100% dei ceppi di S. aureus (223/223) e il 97.4% (263/270) dei ceppi di CoNS. Il sistema Phoenix
determinava accuratamente la resistenza alla meticillina in tutti i ceppi di S. aureus rispetto al metodo di riferimento (PCR
del gene mecA): 96 ceppi mecA-positivi erano identificati come resistenti e 127 stipiti mecA-negativi come sensibili. Due
dei 210 ceppi di CoNS mecA-positivi sono stati falsamente categorizzati come sensibili dal Phoenix (sensibilità 99%, valore predittivo positivo 97.6%) e cinque dei 60 ceppi di CoNS mecA-negativi erano classificati come resistenti (specificità
91.7%; valore predittivo negativo 96.5%). I risultati ottenuti in questo suggeriscono che il sistema Phoenix può identificare con accuratezza i ceppi di stafilococchi meticillino-resistenti responsabili di batteriemia.
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CARATTERIZZAZIONE DELLA RESISTENZA ALLA VANCOMICINA IN ENTEROCOCCUS SPP.
MEDIANTE REAL-TIME PCR.
Teresa Spanu, Giovanni Fadda
Istituto di Microbiologia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma
Gli enterococchi sono importanti patogeni umani, responsabili di infezioni severe, particolarmente in pazienti compromessi ed
ospedalizzati. Una particolare caratteristiche di questi microrganismi è la resistenza intrinseca a numerosi farmaci. La comparsa e la disseminazione della resistenza ai glicopeptidi, farmaci che insieme con l’ampicillina costituiscono il cardine della terapia delle infezioni enterococciche severe, assumono, pertanto, grande rilevanza clinica e costituiscono un importante problema di salute pubblica. Gli attuali metodi fenotipici per l’identificazione di specie e la determinazione della vancomicina resistenza si sono dimostrati limitati nella loro capacità di differenziare i differenti fenotipi van e di discriminare E. faecium da E.
gallinarum, e E. casseliflavus, specie intrinsecamente resistenti alla vancomicina. Le metodiche molecolari basate sulla PCR
hanno dimostrato di essere validi metodi alternativi. Obiettivo di questo studio è stata la valutazione della “real-time PCR”
condotta con il sistema LightCycler (Roche Molecular Diagnostics, Mannheim, Germany) per l’identificazione di specie e la
determinazione della resistenza alla vancomicina in Enterococcus spp. I risultati ottenuti saggiando oltre 200 campioni suggeriscono che il sistema è accurato, e affidabile per l’identificazione di specie e la caratterizzazione dei geni van in Enterococcus
spp. La possibilità di ottenere i risultati in poche ore può avere significative conseguenze cliniche ed economiche.
INFEZIONI DELLE ALTE VIE RESPIRATORIE: ASPETTI MICROBIOLOGICI
Annamaria Speciale, Giuseppe Nicoletti
Dipartimento di Scienze microbiologiche e Scienze ginecologiche - Università degli studi di Catania – Italia
Le infezioni delle vie aeree superiori quali faringotonsillite, otite e sinusite costituiscono, per frequenza, il principale problema
clinico ambulatoriale.
Ogni anno in Italia vengono effettuate più di 15.000.000 di prescrizioni antibiotiche per patologie a carico del tratto respiratorio superiore, di cui circa 8.000.000 per faringotonsillite particolarmente in pediatria.
Nell’ambito di tali infezioni, se ad eziologia batterica, spicca il ruolo dominante di Streptococcus pyogenes nel determinismo
della faringotonsillite. Streptococcus pneumoniae, Haemophilus influenzae, H. parainfluenzae e Moraxella catarrhalis sono i
principali microrganismi responsabili di otite e sinusite. Tra questi microrganismi vengono isolati sempre più frequentemente
ceppi resistenti ai più comuni antibiotici di uso ambulatoriale: S. pyogenes resistente ai macrolidi, S. pneumoniae resistenti a
penicillina e macrolidi, H. influenzae e M. catarrhalis produttori di ß-lattamasi.
Le molecole ß-lattamiche, per l’elevata ed ampia attività antibatterica, per le caratteristiche farmacocinetiche e l’ottima tollerabilità sono ancora oggi largamente utilizzate nella terapia delle infezioni respiratorie, in particolare in pediatria.
Per superare le problematiche relative all’antibiotico-resistenza verso i ß-lattamici, sono state realizzate alcune strategie quali
l’utilizzo di associazioni con inibitori suicidi o l’utilizzo di nuove formulazioni di antibiotici già conosciuti ed affermati.
Nell’ambito delle cefalosporine orali, il cefaclor rappresenta un valido esempio di quest’ultimo approccio terapeutico. Infatti,
anche dopo più di 20 anni di utilizzo clinico questa cefalosporina conferma la sua efficacia nei confronti dei patogeni responsabili di patologia respiratoria, soprattutto nella nuova formulazione a lento rilascio.
Tutti i ceppi di S. pyogenes isolati fino ad oggi risultano sensibili alla penicillina ed a tutti i ß-lattamici in generale che sono i
farmaci di scelta per il trattamento delle infezioni sostenute da questo microrganismo. I dati microbiologici di Preston e
Thornsberry riportano che nel 1992 la sensibilità di H. influenzae e M. catarrhalis al cefaclor era pari all’89,4% e al 99,6%,
rispettivamente. Nel 2000 in Italia (OEI) il 100% dei ceppi di ambedue le specie è risultato sensibile al cefaclor, indipendentemente dalla produzione di ß-lattamasi. Non è possibile, purtroppo, fornire dati congrui per S. pneumoniae poiché fino al 2000
non veniva indicato dall’NCCLS il breakpoint di sensibilità per il cefaclor. I dati nazionali più significativi pertanto risultano
quelli del “Progetto Sentinella”, che riporta che nel 2000 solo il 3% dei ceppi di S. pneumoniae era resistente al cefaclor ed il
2,5% aveva resistenza intermedia.
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32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
ASPETTI DEL QUORUM SENSING IN RHIZOBIUM
A. Squartini
Dipartimento di Biotecnologie Agrarie, Università di Padova.
Utilizzando il ceppo di R.leguminosarum bv. viciae 248, un classico e rappresentativo isolato della specie, noto produttore di
segnali AHL, si e’ proceduto ad allestire le seguenti prove.
Le cellule sono state cresciute su mezzo liquido TY fino alla piena fase esponenziale e successivamente centrifugate, lavate e
risospese in soluzione fisiologica sterile. Le cellule sono state conteggiate in camera di thoma, e aliquote di 1 ml state trasferite in tubi eppendorf, dai quali sono state eseguite diluizioni seriali di fattore 5. Una serie dei tubi e’ stata incubata come tale per
24 h a 28 C, una seconda serie e’ stata centrifugata per 15’ a 14500 g e incubata sotto forma di pellet. Una terza serie e’ stata
trattata come la seconda e successivamente sono stati rimossi i 4/5 del supernanatante in modo da incubare le cellule in 1/5 del
volume.
In una prova parallela le cellule risospese sono state addizionate di 1 volume di agarosio 1.5% a basso punto di fusione a 37 C,
mescolate, la miscela e’ stata distribuita in aliquote da 1 ml, 0.5 ml e 0.1 ml in tubi eppendorf, lasciati solidificare e coperti
rispettivamente con 0.1, 0.6, o 1 ml di soluzione fisiologica sterile ed incubati a 28 C per 24 ore.
Per valutare la produzione di segnali, i supernatanti di tutte le prove sono stati serialmente diluiti con fattore 5, e aliquote di 10
ul sono state pipettate in pozzetti di piastre microtiter contenenti 200 ul di una miscela preventivamente preparata consistente in
mezzo AB agarizzato contenente gentamicina e Xgal e inoculato con il rivelatore Agrobacterium tumefaciens ceppo NTL4 dotato di una fusione reporter quorum-lacZ . Dopo 24 ore a 30 C le piastre sono state ispezionate e sottoposte a scansione digitale
per l’acquisizione dell’immagine.
Dai risultati delle suddette prove appare quanto segue :
1) Il Quorum Sensing non e’ un meccanismo che porta all’accumulo di una concentrazione di segnale dipendente dalla densita’ cellulare nel mezzo in cui le cellule si trovano, poiche’ confronti tra campioni incubati in sospensione e campioni incubati centrifugati come pellett, in cui le cellule erano a densita’ molto diverse, hanno dato pressoche’ uguale produzione di
segnali quorum.
Inoltre campioni incubati sotto forma di pellett con ugual numero di cellule alla stessa densita’ ma coperti da diversi volumi di supernatante hanno condizionato tali fluidi con concentrazioni diverse di segnale. Le diluizioni seriali di tutti e tre i
sistemi (in sospensione, centrifugato, centrifugato e risospeso in 1/5 del volume, confrontati tra loro mostrano che campioni alla stessa densita’ ma contenenti 5 volte meno cellule fanno 5 volte meno segnale. Parimenti campioni inclusi in agarosio alla stessa densita’, e nello stesso volume totale, differendo solo per numero di cellule, hanno portato il mezzo a tre
concentrazioni diverse, proporzionali essenzialmente al numero di cellule presenti.
2) Il Quorum Sensing non e’ un meccanismo che porta, nel mezzo in cui le cellule si trovano, all’accumulo di una concentrazione di segnale dipendente dal numero totale di cellule nel sistema poiche’, come gia’ visto, campioni incubati sotto
forma di pellett con ugual numero di cellule alla stessa densita’ ma coperti da diversi volumi di supernatante, hanno condizionato tali fluidi con concentrazioni diverse di segnale.
3) Il Quorum Sensing non e’ un meccanismo che porta, nel mezzo in cui le cellule si trovano, all’accumulo di una concentrazione di segnale dipendente dalla distanza tra le cellule, poiche’ vale cio’ che e’ gia’ stato detto per la densita’, ovvero
confronti tra campioni incubati in sospensione e campioni incubati centrifugati come pellett, in cui le cellule erano a distanze molto diverse hanno dato pressoche’ uguale produzione di segnali quorum.
Inoltre campioni incubati sotto forma di pellett con ugual numero di cellule alla stessa distanza ma coperti da diversi volumi di supernatante hanno condizionato tali fluidi con concentrazioni diverse di segnale. E parimenti campioni inclusi in agarosio alla stessa distanza, e nello stesso volume totale, differendo solo per numero di cellule, hanno portato il mezzo a tre
concentrazioni diverse.
Inoltre campioni delle diluizioni seriali di tutti e tre i sistemi (in sospensione, centrifugato, centrifugato e risospeso in 1/5
del volume, confrontati tra loro mostrano che campioni alla stessa distanza ma contenenti 5 volte meno cellule, fanno 5
volte meno segnale.
In conclusione il Quorum Sensing NON sembra essere un meccanismo votato a portare il mezzo circostante le cellule ad una
data e omogenea concentrazione di segnale.
E’ invece ipotizzabile un suo ruolo diretto posizionale in termini di gradienti creati nello spazio circostante le cellule di un biofilm in cui l’informazione sia potenzialmente diversa per ogni cellula del sistema.
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L’EVOLUZIONE DELLE RESISTENZE NELLE ENTEROBACTERIACEAE:
DATI DI SORVEGLIANZA
Stefania Stefani e Giuseppe Nicoletti (con il Gruppo di Studio Italiano sulle ESBLs)
Dipartimento di Scienze Microbiologiche – Università degli Studi di Catania – Italy – Email [email protected]
L’espressione di ß-lattamasi a spettro esteso (ESBLs) si riscontra con frequenza sempre maggiore negli isolati clinici di
Enterobacteriaceae e la loro diffusione in ambito ospedaliero, ma recentemente anche in ambito comunitario, crea notevoli
preoccupazioni dal punto di vista clinico-terapeutico.
In questa relazione vengono riportati i risultati di diffusione e prevalenza di Enterobatteri produttori di ESBLs isolati da pazienti ospedalizzati e non, in diverse aree geografiche del nostro Paese, emersi da uno studio multicentrico italiano che, tra l’altro,
aveva l’obiettivo di curarne anche gli aspetti di caratterizzazione biochimico-molecolare. Questo studio si è svolto nel periodo
Giugno-Novembre 2003 e sono stati isolati 8681 ceppi di Enterobatteri da pazienti ospedalizzati (circa il 75%) e ambulatoriali
(circa il 25%); nell’area del Nord Italia sono stati isolati 5600 ceppi: 4200 di provenienza ospedaliera e 1400 comunitari; mentre nel Sud Italia i ceppi sono stati 3081 di cui 2409 di isolati clinici e 672 comunitari. Dal punto di vista metodologico, lo screening iniziale dei ceppi produttori di ESBL si è basato sui dati di minima concentrazione inibente (MIC) e confermati dal test del
doppio disco.
I risultati da noi ottenuti mostrano che il 6.1 % degli isolati producono ESBLs con una incidenza superiore al Nord Italia rispetto al Sud, e circa il 70 % dei ceppi produttori di ESBLs è rappresentato da specie quali E.coli, K.pneumoniae, P.mirabilis e
E.aerogenes. Nel Nord Italia la percentuale di ceppi produttori di ESBLs è stata del 7.2% isolati da pazienti ospedalizzati e il
4.1% isolati ambulatoriali. Nel Sud Italia la percentuale di ceppi produttori di ESBLs è stata del 5.7% di cui 5.1% isolati da
pazienti ospedalizzati e 0,8% isolati ambulatoriali. Vengono inoltre riportati i risultati di antibiotico-sensibilità nei confronti
delle principali famiglie antibiotiche.
I dati di prevalenza nazionale, se confrontati con uno studio multicentrico effettuato nel 1999, dimostrano una media nazionale
sovrapponibile nell’isolamento dei ceppi ESBLs produttori, con una incidenza più elevata nelle regioni settentrionali rispetto a
quelle meridionali, ed evidenziano inoltre l’isolamento di questi ceppi anche in ambito comunitario.
ENTEROCOCCHI RESISTENTI AGLI ANTIBIOTICI E LORO DIFFUSIONE NOSOCOMIALE
Stefania Stefani
Dipartimento di Scienze Microbiologiche – Università degli Studi di Catania – Italy – Email [email protected]
Da poco più di un decennio, gli enterococchi sono considerati importanti patogeni nosocomiali passando da commensali dell’intestino e patogeni solo nel caso di endocarditi e meningiti, ad importanti responsabili di batteriemie nosocomiali, di infezioni della ferita chirurgica, e di infezioni delle vie urinarie. Due tipi di microrganismi possono causare infezioni: i) gli isolati che
originano dalla flora endogena del paziente e che, presumibilmente, non posseggono spiccati tratti di antibiotico-resistenza; e ii)
gli isolati che, proprio alla loro multiresistenza devono la capacità di diffusione nosocomiale.Enterococcus faecalis ed Enterococcus faecium sono le specie più frequentemente isolate, sono estremamente resistenti a condizioni ambientali non favorevoli e sono intrinsecamente resistenti a molte famiglie antibiotiche. A queste caratteristiche, che
spiegano di per sé perché un microrganismo a bassa virulenza possa diventare un importante patogeno, vanno aggiunte le recenti conoscenze sull’acquisizione di alcuni determinanti di virulenza e sulla capacità, di questi microrganismi di produrre biofilm.
Gli enterococchi sono microrganismi molto flessibili,in grado di acquisire ulteriori determinanti di resistenza per mezzo di scambi genetici mediati da trasposoni coniugativi e da plasmidi – sia ad ampio spettro d’ospite sia ferormone-sensibili. Gli anni
recenti hanno visto l’emergenza di ceppi di enterococchi multi- resistenti , con resistenze ad alti livelli agli aminoglucosidi, alla
penicillina, e infine, ai glicopeptidi.
Evidenze microbiologiche e molecolari hanno descritto la diffusione nosocomiale di ceppi di Enterococchi multi-resistenti e/o
resistenti alla vancomicina, la cui trasmissione è favorita dall’uso di dispositivi medicali e/o dalla prolungata colonizzazione
intestinale dei pazienti .
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32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
COMUNICAZIONE CELLULARE VIA QUORUM-SENSING IN STAPHYLOCOCCUS AUREUS: IMPATTO SULLA VIRULENZA, SULLA ANTIBIOTICO-RESISTENZA E SULLA PRODUZIONE DI BIOFILM
Stefania Stefani
Dipartimento di Scienze Microbiologiche – Università degli Studi di Catania – Italy – Email [email protected]
Durante le ultime due decadi, sono emerse evidenze scientifiche sulla capacità microbiche di avviare programmi di differenziamento cellulare quando lo sviluppo batterico è in forma sessile anziché planctonico. Questo processo implica organizzazioni
strutturali e metaboliche inter-cellulari coinvolgenti una sorta di linguaggio all’interno della comunità batterica, definito comunicazione cellulare o quorum-sensing.
In Staphylococcus aureus la regolazione dei processi di colonizzazione e/o invasione è guidata da un sistema di regolazione globale controllato dal locus genico agr (accessori-gene-regulator). L’agr locus codifica un sistema di traduzione del segnale a due
componenti, densità cellulare dipendente, che viene attivato da un piccolo peptide auto-induttore detto AIP (autoinducing-peptide), secreto all’esterno dallo stesso microrganismo. Con questo tipo di regolazione una popolazione di batteri, raggiunta una
densità cellulare critica, risponde agli stimoli esterni. In S.aureus, raggiunta la tarda fase esponenziale, la concentrazione dell’autoinduttore è tale da indurre l’espressione del regulone agr. Quest’ultimo, attivato, agisce controllando l’espressione di geni
diversi ed, in particolare, determinando un incremento (up-regulation) dell’espressione di geni codificanti i fattori di virulenza
secreti all’esterno, quali tossine e – probabilmente - la produzione di biofilm, ed una diminuzione (down-regulation) dell’espressione di geni codificanti le proteine di superficie quali le adesine superficiali.
Benché tra le diverse specie di stafilococchi, sia stata riscontrata una notevole diffusione e conservazione dell’agr locus, analisi delle sequenze aminoacidiche hanno individuato, al suo interno, un elevato grado di variabilità in una specifica regione del
locus, motivo per cui tale regione viene definita ipervariabile. Questa comprende l’intera proteina AgrD, mentre la proteina
AgrA è estremamente conservata. In S.aureus tale eterogeneità comporta la produzione di 4 diversi gruppi di interferenza agr,
proprio in relazione alla regione ipervariabile che contengono e quindi al tipo di AIP prodotto. E’ interessante sottolineare che
esiste un meccanismo di interferenza microbica, mediante il quale, i diversi AIPs sono capaci di attivare la risposta agr di batteri appartenenti allo stesso gruppo di interferenza mentre inibiscono quelli di gruppi di interferenza diversa. L’interferenza
indotta dal ruolo inibitorio dell’AIP è alquanto inusuale, perché non agisce inibendo la crescita batterica bensì regola l’espressione di un gruppo di geni coinvolti nella sintesi dei fattori di virulenza. Si pensa quindi che il ruolo di questa inibizione crociata sia correlato alla capacità di un ceppo di competere con altri siti di colonizzazione e/o infezione.
Si suppone che l’evoluzione di agr locus e la formazione dei diversi gruppi di interferenza si sia realizzata mediante accumulo,
nel tempo, di mutazioni casuali seguite da un rigoroso processo di selezione. Un cambiamento nella sequenza aminoacidica
dell’AIP, infatti, deve essere supportato non solo da un adattamento del recettore al nuovo autoinduttore, ma anche di quello dell’enzima addetto al clivaggio dell’AIP e alla sua secrezione; si può quindi ipotizzare un processo di co-evoluzione di questi differenti elementi. Tale teoria è sostenuta anche dall’assenza di evidenze che sostengano il trasferimento orizzontale dei geni agr
tra specie diverse di stafilococchi.
Lo studio da noi condotto sull’agr-group in S.aureus isolati da infezioni nosocomiali gravi, ha sottolineato una stretta correlazione tra produzione di biofilm, l’antibiotico-resistenza e la presenza di agr- group I e II nei ceppi meticillino-resistenti, mentre
il tipo IV è presente nei ceppi meticillino-sensibili. Inoltre ceppi appartenenti all’agr-group I mostrano ridotta sensibilità alla
vancomicina ed una loro ulteriore caratterizzazione genomica ha evidenziato che questi ceppi appartengono al clone Italiano.
Dai nostri risultati è emersa la presenza di una sequenza d’inserzione - IS256 - integrata nel locus agr in molti dei ceppi di origine nosocomiale multiresistenti e questa integrazione potrebbe interferire con la funzionalità del locus stesso. In alcuni casi di
recente pubblicazione, la perdita di funzione del locus agr comporta una minore espressione dei geni della virulenza associata
ad una maggiore antibiotico-resistenza, dimostrando che virulenza e antibiotico-resistenza cooperano strettamente nella trasmissibilità di questi microrganismi.
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NUOVI BERSAGLI MOLECOLARI PER FARMACI ANTIMALARICI
Donatella Taramelli1,2
1Istituto di Microbiologia e 2Facolta’ di Farmacia, Universita’ di Milano.
La malaria rappresenta uno dei maggiori problemi per la salute pubblica e lo sviluppo economico delle zone tropicali e sub-tropicali. Il diffondersi ormai ubiquitario della resistenza ai farmaci più comuni e meno costosi, impone di identificare urgentemente nuovi bersagli farmacologici e nuovi antimalarici da usare in terapia e profilassi. Le linee guida alle quali i ricercatori
debbono attenersi nell’identificare/sviluppare un nuovo anti malarico si possono così riassumere: i) basso costo; ii) elevata efficacia (massimo 3 giorni di trattamento); iii) uso orale per la popolazione adulta; iv) uso parenterale in pediatria e nei casi di
malaria severa.
I farmaci antimalarici attualmente disponibili sono diretti prevalentemente contro la fase intraeritrocitaria di crescita del parassita, quella responsabile della sintomatologia clinica. Tuttavia, ad eccezione di artemisinina (ARM) (quinghaosu, un sesquiterpene endoperossido isolato nel 1972 da Artemisia annua, già noto dal 300 a.C. nella medicina tradizionale cinese) la resistenza
di P. falciparum è diffusa sia per le 4 aminochinoline, come clorochina sia per gli inibitori dei folati, come sulfadossina-pirimetamina (SP).
Le strategie più recenti nella terapia antimalarica consigliano un impiego migliore dei farmaci disponibili, oltre alla ricerca di
nuovi composti attivi. Dal 2001, l’OMS raccomanda l’adozione della terapia combinata con un derivato di ARM e un antimalarico classico nella malaria non complicata. La maggiore efficacia della combinazione si basa sulla diversa farmacocinetica e
il diverso bersaglio farmacologico dei farmaci usati. Gli studi di genomica e proteomica hanno permesso di identificare nuove
vie metaboliche di P.falciparum, diverse da quelle dell’ospite, che possono rappresentare dei bersagli specifici per nuovi farmaci. Ne ricordiamo alcuni in corso di studio.
1- Inibitori delle proteasi, falcipaina e plasmepsine, che degradano la globina in frammenti peptidici durante la fase di accrescimento intraeritrocitario.
2- Sali di ammonio quaternari si sono rivelati ottimi antimalarici perchè competono con il carrier di membrana della colina,
necessaria ai parassiti per la sintesi di fosfatidilcolina.
3- L’apicoplasto, un organello simile ai plastidi di origine vegetale, è la sede della sintesi degli acidi grassi, dell’eme e degli isoprenoidi, attraverso una via indipendente dal mevalonato e suscettibile alla fosmidomicina: questo farmaco è attualmente in sviluppo pre clinico.
RUOLO NELLE PATOLOGIE DEL TRATTO GENITALE FEMMINILE E RAZIONALE TERAPEUTICO
Gianna Tempera
Dipartimento di Scienze Microbiologiche e Scienze Ginecologiche
Università degli Studi di Catania
Le flogosi acute e croniche dell’apparato genitale femminile, in senso lato, e le vulvo-vaginiti in particolare, occupano uno spazio importante nella pratica ginecologica quotidiana. Nella maggioranza dei casi tali patologie sono direttamente conseguenti ad
alterazioni dell’ecosistema vaginale e riconoscono un’etiologia microbica ben definita che ne permette la classificazione in vaginiti micotiche (Candida spp.), vaginiti protozoarie (T. vaginalis) e vaginosi batterica (batteri anaerobi). I criteri diagnostici e le
scelte terapeutiche in queste patologie sono ampiamente validate da tempo dalla comunità scientifica, mentre ancora in corso di
definizione sono altre condizioni d’anormalità dell’ecosistema vaginale. Recentemente, Donders ha proposto il termine di “vaginite aerobica” per definire una patologia vaginale, non altrimenti classificabile, caratterizzata da pH > 5, secrezioni maleodoranti, manifestazioni infiammatorie, dispareunia, che dal punto di vista microbiologico, si differenzia dalla vaginosi batterica, in
quanto la normale flora lattobacillare viene sostituita da batteri aerobi provenienti dal serbatoio rettale.L’E. coli rappresenta l’enterobatteriacea più frequentemente isolata in corso di vaginite aerobica e tale patologia è spesso riscontrata in donne affette da
cistiti ricorrenti. E’ risaputo, infatti, che l’incidenza di UTI non complicate è sicuramente più elevata nelle donne rispetto agli
uomini e che la colonizzazione vaginale da parte di E.coli (il più importante uropatogeno in grado di riconoscere particolari
recettori presenti sulla superficie delle cellule vaginali) precede la grande maggioranza delle UTI nella donna. Dal punto di vista
terapeutico, la vaginite aerobica merita la massima attenzione da parte del clinico, in particolare per le possibili complicanze
ostetriche (PROM) e ginecologiche (PID) che un patogeno quale E.coli può produrre. Non essendo ancora disponibili linee
guida per il trattamento della vaginite aerobica abbiamo ritenuto interessante condurre uno studio clinico/microbiologico utilizzando Kanamicina, tenendo presente che per l’impostazione di una terapia antibatterica la molecola selezionata dovrebbe rispondere ad alcuni requisiti di base:
• esercitare un’attività battericida estesa anche ai batteri di origine fecale, con scarsa o nulla interferenza sul ripristino del normale ecosistema vaginale.
• essere disponibile in una formulazione per uso topico endovaginale che assicuri adeguate concentrazioni di farmaco in situ,
per un tempo sufficientemente lungo da permettere una mono-somministrazione quotidiana, onde favorire la compliance del
paziente al trattamento, con uno scarso o nullo assorbimento sistemico del principio attivo per ottimizzare la sicurezza del
trattamento.
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32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
LA LATTOFERRINA E LE SUE MOLTEPLICI FUNZIONI
Piera Valenti
Dipartimento di Medicina Sperimentale, II Universita’ di Napoli
La lattoferrina (Lf), una glicoproteina (PM 80.000) in grado di chelare due atomi di ferro per molecola, sintetizzata dai neutrofili e dalle ghiandole esocrine, gioca un importante ruolo nei meccanismi di difesa naturale verso batteri, funghi e virus.
Primariamente fu attribuita alla Lf un’attivita’ antimicrobica, dipendente dalla sottrazione del ferro. D’altra parte i microorganismi possono opporsi a questa azione della Lf mediante due principali meccanismi: la produzione di siderofori che legano
Fe (III) con alta affinita’ e lo trasportano all’ interno via specifici recettori o la sottrazione di Fe (III) direttamente dalla Lf.
Successivamente fu scoperta un’attivita’ microbicida della Lf, ferro-indipendente, basata sulle sue capacita’ di legarsi al lipide
A del lipopolisaccaride (LPS) dei batteri Gram-negativi e alla superficie di cellule di Candida spp o di Tricophyton spp, provocando un aumento della permeabilita’ di membrana. Quest’azione battericida e’ posseduta sia dalla molecola integra che da un
peptide derivato dalla digestione con pepsina, noto come lattoferricina.
Molte altre funzioni antibatteriche sono state ascritte a questa proteina cationica, inclusa la capacita’ di modulare la formazione
del biofilm, di inibire l’adesione, la colonizzazione e l’invasione batterica delle cellule dell’ospite e di influenzare l’apoptosi di
cellule infettate.
Un’azione antiparassitaria della Lf e’ stata dimostrata nei confronti di Toxoplasma gondii e Trichomonads.
Recentemente e’ stata descritta una potente azione antivirale della Lf verso virus con e senza rivestimento, basata sull’inibizione delle fasi precoci dell’infezione dovuta al legame che la glicoproteina contrae con la superficie dei virus o con gli eparansolfati delle cellule dell’ospite.
Le differenti funzioni della Lf possono essere giustificate dalle differenti proprieta’ fisico-chimiche della molecola che
includono la capacita’ di chelare Fe (III), di legarsi alle molecole anioniche delle superfici cellulari ed ad un’attivita’
serin-proteasica.
Ne consegue che le nuove prospettive per un’applicazione della Lf, aumentate dalla disponibilita’ della Lf umana ricombinante, appaiono legate al suo potenziale uso profilattico e terapeutico in un considerevole spettro di patologie umane.
La ricerca e’ finanziata dal MIUR (COFIN E FIRB) e dall’ISS (1%)
LE PRINCIPALI MICOTOSSINE NEGLI ALIMENTI DI ORIGINE ANIMALE
L. Vallone, I. Dragoni
Dipartimento VSA, Facoltà di Medicina Veterinaria, Università di Milano
L’attacco e la colonizzazione delle piante o delle derrate alimentari da parte di muffe, può avere un risvolto molto più dannoso
della semplice invasione dell’ospite o della degradazione del substrato, che normalmente comportano la sottrazione e l’alterazione dei componenti nutritivi.
Infatti, alcuni funghi parassiti delle piante e/o agenti di ammuffimento delle derrate alimentari hanno la capacità di produrre nel
corso del loro accrescimento numerosi metaboliti tossici, le micotossine.
Quasi tutti i prodotti vegetali sono substrati idonei per la crescita di specie fungine tossinogene, quindi la formazione di micotossine nelle derrate contaminate è un’eventualità ricorrente che porta spesso al loro accumulo e al loro ritrovamento nei mangimi e negli alimenti ottenuti da ingredienti contaminati. Le micotossine, inoltre, sono molto stabili e persistono nei prodotti
contaminati anche per molto tempo dopo la scomparsa del fungo produttore. La presenza di micotossine nei mangimi non ha
solo effetti negativi sulla salute degli animali in produzione zootecnica, ma può portare alla migrazione di micotossine, o di loro
derivati, nei prodotti zootecnici. Questa eventualità è riscontrabile particolarmente nel caso di latte, formaggi, altri prodotti lattiero-caseari, e nel caso di prodotti di salumeria mentre è abbastanza trascurabile per le uova e la carne.
I generi di funghi che hanno importanza micotossicologica, sia per la maggiore diffusione sia per l’elevata tossicità, sono:
Aspergillus, Penicillium, Fusarium.
Le micotossine attualmente note sono numerose, ma l’attenzione sanitaria è rivolta principalmente ad aflatossine, ocratossine e
fumonisine ed altre fusariotossine.
In generale, le micotossine hanno dimostrato avere effetti genotossici, mutageni, cancerogeni e immunosoppressivi.
Il controllo della contaminazione da micotossine in alimenti e mangimi presenta numerose difficoltà soprattutto in relazione alla
fase di campionamento della derrata. Come è ormai noto, l’errore associato a questa fase è di gran lunga superiore a quello che
si riscontra in tutte le altre fasi delle analisi (sottocampionamento e analisi vera e propria). Infatti, a causa dell’estrema disomogeneità della distribuzione delle micotossine nelle derrate alimentari, risulta assolutamente indispensabile il prelievo di una
grande quantità di campione da punti diversi dell’intero lotto per raggiungere una vera rappresentatività del lotto.
Esistono limiti di legge che limitano la quantità delle micotossine negli alimenti destinati all’alimentazione umana ed animale
ma rappresentano limiti di tipo commerciale e non di tipo igienico-sanitario.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
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IL QUORUM SENSING NEI BATTERI ASSOCIATI ALLE PIANTE
Vittorio Venturi ([email protected])
Bacteriology group, International Centre for genetic Engineering & Biotechnology, Area Science Park, Trieste, Italy.
Nell’ultima decade e’ apparso sempre piu’ evidente che nei microorganismi esiste un sistema di regolazione genica che coinvolge
la comunicazione fra batteri mediante la produzione di molecole segnale chiamate autoinduttori. Questa comunicazione permette
ai batteri di monitorare la densita’ della loro popolazione “misurando” la concentrazione dell’autoinduttore prodotto da loro stessi. Questo meccanismo e’ noto come Quorum sensing (QS). Nei batteri Gram-negativi gli autoinduttori piu’ comuni sono i lattoni
omoserinici (AHLs), che sono sintetizzati da una proteina appartenente alla famiglia LuxI. Gli AHLs sono molecole diffusibili e
diverse specie batteriche producono molecole omoseriniche che si differenziano per la lunghezza e la struttura della parte acilica
della molecola. Un regolatore trascrizionale, appartenente al gruppo delle proteine LuxR, riconosce le molecole di AHL, quando
sono presenti ad una certa concentrazione, formando con esse un complesso che modifica i livelli di trascrizione dei geni sottoposti al suo controllo. La trascrizione coordinata dei geni controllati dal QS risulta molto importante in quanto riguarda la produzione di fattori che sono utili solo se prodotti da tutta la comunita’ cellulare: per esempio risulta regolata dal QS la produzione dei
fattori di virulenza, del biofilm, di alcuni enzimi secreti, dei pigmenti e della bioluminescenza. Diversi batteri fitopatogeni hanno
integrato il sistema di QS nella cascata di eventi che regola l’espressione dei geni coinvolti nella fitopatogenicita’. Tra i sistemi
regolati dal QS i piu’ noti sono il sistema coniugativo di Agrobacterium tumefaciens e la produzione di enzimi extracellulari in
Erwinia carotovora. Specie appartenenti al genere Burkholderia colonizzano nicchie ambientali differenti compresi il suolo, l’acqua e la rizosfera; esse possono avere interazioni sia patologiche che simbiontiche con la pianta e sono patogeni opportunisti per
l’uomo, in particolare per i malati di fibrosi cistica . Il sistema QS di diverse specie di Burkholderia e’ stato studiato dimostrando
un’alta conservazione: esso consiste nei geni cepR e cepI codificanti per la proteina regolatrice appartenente alla famiglia LuxR,
chiamata CepR, che funge da attivatore trascrizionale, e la sintetasi CepI, membro della famiglia LuxI, che sintetizza le molecole di lattoni omoserinici, in particolare l’N-octanoil lattone omoserinico (C8-HSL) e l’N-esanoil lattone omoserinico (C6-HSL).
La proteina CepR si lega al C8-HSL, quando questo raggiunge una certa concentrazione, ed il nuovo complesso agisce da attivatore
trascrizionale dei geni posti sotto al controllo del QS. Il sistema CepR/CepI e’ responsabile della regolazione negativa della produzione del sideroforo ornibactina mentre regola positivamente la produzione di proteasi e poligalatturonidasi (PehA), la produzione di
biofilm, la motilita’ e diversi sistemi coinvolti nella patogenicita’ stessa del batterio. In parallelo il nostro laboratorio sta portando avanti anche una serie di studi sul sistema QS del fitopatogeno Erwinia amylovora, responsabile del colpo di fuoco, e del PGPR (Plant
Growth Promoting Rhizobacteria) Pseudomonas putida che colonizza la rizosfera con un effetto positivo per la pianta.
NEURAL STEM CELLS: STABILITY, PLASTICITY AND THERAPEUTIC POTENTIAL.
Angelo L. Vescovi
Condirettore “Institute for Stem Cell Research” DIBIT HSR – Milano
Professore Associato Università degli studi di Milano - Bicocca
The finding that the central nervous system (CNS) embodies neurogenetic regions enriched of neural stem cells (NSCs) has
spurred a flurry of studies which investigate on both the basics of NSCs’ biology as well as on their perspective application for
the therapy of neurological disorders. NSCs are multipotential precursors that grow and self-renew in culture in response to
growth factors for extensive time. It has recently been argued that NSCs undergo rapid transformation in vitro and that, in turn,
this would represent an obstacle to the use of cultured NSCs in therapeutic applications for neurological disorders. Furthermore,
it has been concluded that the capacity of neural stem cells for transdifferentiation may not be an inherent property of these cells
but may rather arise from their random transformation.
I shall be discussing recent data in our hand, which describe the systematic investigation of the functional properties of NSCs
upon long-term culturing and show their lack of transformation and their actual ability to give rise to non-neural cells. NSCss
do not display any sign of transformations neither at early nor at late culture stages. The self-renewal capacity of NSCs –i.e.
their ability to generate new stem cells– does not change over time and no chromosomal abnormalities are observed up to passage 30 in human NSCs. Following removal of mitogens, human NSCs display steady growth potential for many months and
stop dividing and differentiate into neurons and glia with highly reproducible frequency. I will then show how we can confirm
previous findings showing how NSCs do possess the ability to give rise to non-neural-derivatives – i.e. mesodermal cells – a
phenomenon that, therefore, does not depend on the in vitro transformation of NSCs. Finally, I will illustrate the lack of any
tumorigenic potential of NSCs and their striking capacity for engraftment in the CNS and their utmost clinical efficacy in the
context of multiple sclerosis (MS). Critical issues exist regarding the therapeutic use of focal cell transplantation in MS, in which
multifocal demyelination represents the main pathological feature. We have recently established an effective experimental therapeutic protocol based on NSCs and consisting of transplantation of syngenic adult NSCs in mice affected by experimental
autoimmune encephalomyelitis (EAE), the elective animal model of MS. The peculiarity of this protocol arises from the fact
that the NSCs are not transplanted directly into the CNS damage parenchyma, but are rather injected into the cerebrospinal fluid
(i.c.) or intravenously (i.v.). By this technique, NSCs enter and distribute in the CNS parenchyma in a multifocal fashion, trigger and carry out remyelination and significantly ameliorate the clinical course and neuropathological signs of EAE.
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32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
INFEZIONI CORRELATE AL CATETERISMO VASCOLARE CENTRALE (CVC)
ASPETTI CLINICI
Pierluigi Viale, Francesco Cristini
Clinica di Malattie Infettive – Dipartimento di Ricerche Mediche e Morfologiche – Università di Udine
Se le infezioni CVC correlate localizzate al sito di inserzione e/o alla tasca di un CVC tunnellizzato sono di semplice diagnosi
clinica e prevedono come unico approccio terapeutico la rimozione del device, la gestione delle batteriemie CVC correlate
presenta alcune criticità, concernenti gli algoritmi diagnostici e per deduzione la corretta definizione di batteriemia CVCcorrelata, le opzioni e modalità di trattamento.
Le strategie terapeutiche si fondano tradizionalmente sulla rimozione del device (quando possibile) e sull’impiego di antibiotici in grado di contrastare i fenomeni di farmaco-resistenza dei patogeni nosocomiali più frequentemente coinvolti, tra
i quali predomina il genere Staphylococcus spp. Tuttavia le condizioni del paziente prima ed il tipo di isolato dopo, rappresentano i capisaldi di ogni percorso decisionale. Infatti se le condizioni cliniche del paziente sono stabili (assenza dei
parametri di Sindrome della Risposta Infiammatoria Sistemica – SIRS) è corretto perseguire una corretta diagnosi microbiologica prima di dare corso a terapia empirica, al fine di evitare inutili e prolungate esposizioni farmacologiche. In altri
termini in un paziente non grave non è corretto prescrivere una terapia antibiotica, né rimuovere/sostituire immediatamente il catetere, nel semplice “sospetto” di batteriemia CVC correlata. Di contro, a fronte dell’evidenza clinica di sepsi grave
e/o shock settico vi è assoluta indicazione a rimozione di ogni device vascolare e terapia empirica. Ad oggi i glicopeptidi
(associati se possibile a Rifampicina) rappresentano la categoria farmacologica di scelta nel trattamento empirico, in rapporto all’elevata frequenza di meticillino-resistenza del genere Staphylococcus spp. nella realtà epidemiologica italiana.
Nel caso di diagnosi microbiologica accertata, i tempi di terapia e la necessità di accurato studio delle eventuali complicanze a distanza (in primo luogo l’esclusione di endocardite infettiva) sono dipendenti dal tipo di patogeno isolato: tempi
brevi per Stafilococchi coagulasi-negativi (per i quali potrebbe in molti casi essere sufficiente la sola rimozione del device), tempi prolungati, aggressività terapeutica massimale ed attenta valutazione clinica e/o strumentale della funzione cardiaca in caso di isolamento di S. aureus. La stessa filosofia di approccio conseguente all’isolamento di S. aureus deve essere perseguita nel caso di isolamento di Candida spp., soprattutto se diversa da C. parapsilosis, sia perché la mortalità correlata a candidemia rimane globalmente vicina al 30%, sia perché il rischio di complicazioni settiche a distanza è elevato.
Nel caso di paziente clinicamente stabile e di CVC non facilmente rimovibile, (ad esempio CVC tunnellizati o presidi a
permanenza), è possibile perseguire strategie terapeutiche alternative, specie a fronte dell’isolamento di microrganismi a
patogenicità contenuta, quali ad esempio Stafilococchi Coagulasi-negativi, Corynebacteria ed Enterococchi. In tali casi
appare assai razionale il ricorso alla “Antibiotic Lock Technique”, che si fonda sull’instillazione endoluminale di antibiotico ad elevata concentrazione (fino a 1000 volte il valore della MIC del microrganismo isolato), lasciato poi in situ per un
tempo non inferiore alle 12 ore. La finalità è quella di tentare una sterilizzazione farmacologia di una fonte di infezione non
altrimenti rimovibile.
La metodica si è dimostrata scevra da effetti collaterali ed efficace in un elevato numero di casi, con esposizione minima
ad antibiotici del paziente e dell’ecosistema nosocomiale. Naturalmente è applicabile solo in contesti dove sia possibile
tenere “fuori dall’uso” il CVC per almeno 12 ore e dove questo sia certamente oggetto di colonizzazione endo-luminale,
come nel caso dei “long term devices”.
Appare quindi razionale proporne l’uso in condizioni particolari, come recepito anche dalle linee guida per la terapia delle
infezioni CVC correlate, di recente pubblicate dalla Società Americana di Malattie Infettive.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
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NUOVI APPROCCI TERAPEUTICI ALLE MICOSI INVASIVE
Claudio Viscoli
Università di Genova, Istituto Nazionale per la Ricerca sul Cancro, Struttura Semplice di Malattie Infettive
Non sono pochi i nuovi farmaci antifungini che già sono o presto saranno a disposizione del medico per la terapia delle micosi
invasive in ospiti compromessi. Tra gli azoli, tre nuove molecole sono state sviluppate (voriconazolo, ravuconazolo e posaconazolo), tutte con un più ampio spettro d’azione rispetto a fluconazolo e itraconazolo, con buona o ottima tollerabilità. Accanto
ai triazoli, sono comparsi tre farmaci (caspofungina, micafungina e anidulafungina) appartenenti ad una nuova famiglia di antifungini, le echinocandine, caratterizzate da uno spettro d’azione non vastissimo, ma sufficiente a coprire i patogeni antifungini
più comuni, e ottima tollerabilità. Questi agenti sono disponibili soltanto per uso endovenoso.
Fra i nuovi azoli, il voriconazolo, in commercio da qualche tempo, è stato approvato per la terapia di prima linea dell’aspergillosi invasiva, per il trattamento delle infezioni da candide resistenti al fluconazolo, e per le infezioni da funghi rari, quali
Scedosporium apiospermum e Fusarium. Un grande studio sulla terapia delle candidemie, recentemente presentato allo
European Congress of Clinical Microbiology and Infectious Disease, ha dimostrato efficacia equivalente nei confronti dell’associazione amfotericina B e fluconazolo, in terapia sequenziale. Gli altri nuovi azoli sono in fasi più o meno avanzate di sviluppo clinico. Per il posaconazolo, in particolare, è stata chiesta l’approvazione all’FDA per la terapia orale di infezioni fungine invasive (aspergillosi, fusariosi, zigomicosi) in pazienti non responsivi ad altre terapie. I nuovi azoli sono stati posti a confronto con i polieni e con il fluconazolo, dimostrandosi per lo più equivalenti e meno tossici.
Le caratteristiche principali delle echinocandine sono state recentemente riviste (Denning, Lancet 2003). Caspofungin, l’unico
attualmente disponibile in commercio in Europa e Stati Uniti, è stato approvato per la terapia di salvataggio nell’aspergillosi
invasiva, per la terapia di prima linea delle candidemie e delle candidosi invasive e per la terapia empirica antifungina (con il
più vasto studio mai effettuato per questa indicazione). La micafungina è stata posta a confronto con il fluconazolo nelle esofagiti da candida e nella profilassi delle infezioni fungine nei trapianti di midollo ed è stata studiata in protocolli in aperto nelle
infezioni da Candida e nell’aspergillosi. E’ in commercio in Giappone. L’anidulafungina è stata confrontata con il fluconazolo
nelle esofagiti da Candida, e viene studiata anche nelle candidemie. Anche per questi farmaci sono in corso le procedure di
approvazione. Dal punto di vista strategico, alcuni nuovi approcci vengono attualmente studiati e da alcuni apertamente consigliati, alla luce di nuovi sviluppi in campo diagnostico. Per esempio, il concetto di terapia empirica viene rivisto, in favore di
un approccio più riflessivo basato su criteri clinici, radiologici e di laboratorio, che vanno oltre la semplice persistenza di febbre sotto terapia antibatterica. Grande interesse, infine, è stato sollevato dalla terapia di associazione, anche se mancano dimostrazioni cliniche convincenti di migliore efficacia rispetto alle monoterapie.
LA BIOLOGIA MOLECOLARE NELLA DIAGNOSTICA DELLE INFEZIONI DA HPV
M. Zerbini
Dipartimento Medicina Clinica Specialistica Ser. Microbiologia, Univerità di Bologna
I papillomavirus umani (HPV) sono strettamente epiteliotropi ed infettano le cellule degli epiteli cutanei e mucosi. Sia a livello cutaneo, sia a
livello mucoso diversi genotipi possono causare affezioni benigne, ma anche lesioni con caratteristiche di malignità; il potere oncogeno è
appannaggio prevalentemente di certi genotipi di papillomavirus. Tra le forme francamente maligne i carcinomi del tratto genitale, in particolare quelli della cervice uterina, sono stati i più studiati. Dagli studi epidemiologici emerge che la presenza e la persistenza d’infezioni da
HPV ad alto rischio oncogeno precedono e predicono lo sviluppo in senso maligno delle lesioni squamose intraepiteliali, inoltre una elevata
carica di DNA di HPV ad alto rischio oncogeno nei campioni cervicali sembra avere un valore prognostico. In questi ultimi anni, quindi, l’utilizzo di test per la ricerca di HPV ad alto rischio oncogeno ha trovato ampia diffusione come uno strumento diagnostico fondamentale per
l’implementazione dell’esame citologico nella prevenzione del carcinoma del collo dell’utero. La diagnostica delle infezioni da HPV è prevalentemente rivolta alla ricerca degli acidi nucleici virali nelle cellule e nei tessuti cutanei o mucosi mediante saggi molecolari atti ad identificare sequenze specifiche del genoma virale. Il DNA di HPV può essere ricercato e tipizzato nei campioni clinici mediante tecniche di ibridazione molecolare degli acidi nucleici direttamente in situ su strisci cellulari o sezioni bioptiche o mediante ibridazione del DNA estratto dal
campione clinico o ancora mediante amplificazione genica del DNA di HPV estratto dal campione clinico e successiva tipizzazione. Queste
tecniche quindi sono volte a dimostrare non solo la presenza dei virus nel campione ma anche a identificarne il genotipo. Attualmente la ricerca del DNA di HPV mediante PCR e la successiva tipizzazione mediante ibridazione dell’amplificato con sonde specifiche ha portato ad un
significativo aumento della sensibilità e specificità delle tecniche diagnostiche ed é quindi oggi uno dei metodi più utilizzati, soprattutto negli
studi epidemiologici del tratto genitale. Nel laboratorio diagnostico i saggi di PCR utilizzano prevalentemente coppie di primer “di consenso” che consentono l’amplificazione di sequenze genomiche di molteplici genotipi di HPV. La maggior parte dei primer di consenso utilizzati nella diagnosi di infezione da HPV sono localizzati nelle regioni L1 ed E6/E7 del genoma degli HPV, essendo entrambe le regioni altamente
conservate. L’utilizzo di primer in grado di amplificare sequenze di diverse regioni non solo ci permette di dimostrare la presenza del DNA
virale e la sua genotipizzazione, ma ci consente anche di definire l’eventuale integrazione del genoma virale nel genoma cellulare, infatti tale
evento comporta l’interruzione delle ORF E1/E2. L’integrazione di sequenze geniche virali è implicata nella progressione delle lesioni preneoplastiche a carcinomi invasivi, quindi la determinazione dello stato fisico del genoma virale consente una valutazione in termini prognostici dell’evoluzione della lesione. Il recente sviluppo di tecniche di PCR real-time ha ampliato considerevolmente la rilevanza diagnostica del
saggio, infatti ha permesso una determinazione non solo qualitativa della presenza del virus, ma anche una valutazione quantitativa del carico virale, può inoltre fornire informazioni quantitative riguardo al rapporto numerico fra genomi virali allo stato episomale rispetto allo stato
integrato, fattori indicativi del rischio di progressione neoplastica della lesione.
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32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
Comunicazioni Orali
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32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
APPROCCI MOLECOLARI ED EPIDEMIOLOGICI I
COSTRUZIONE IN LIEVITO DI UN CROMOSOMA ARTIFICIALE PER OVINO
S. Di Donna, G.L. Scoarughi, C. Cimmino*
Dip. Biologia Cellulare e dello Sviluppo, Università “La Sapienza” Roma
I cromosomi artificiali di mammifero (MAC) costituiscono una nuova classe di vettori episomali di espressione: consentono il
trasferimento di numerosi geni con sequenze geniche complete, sono stabili e privi dei problemi di mutagenesi inserzionale o
di silenziamento genico. Trattasi di vettori potenzialmente utili per la transgenesi in grandi animali, quali ovini e suini.
Gli YAC rappresentano un ottimo strumento per l’assemblaggio di un cromosoma artificiale a partire dai suoi elementi strutturali perché sono facilmente manipolabili in lievito e possono contenere inserti molto grandi. L’elemento essenziale per la costruzione di cromosomi artificiali di mammifero è il DNA centromerico, che mostra notevoli somiglianze nei diversi mammiferi.
Un MAC suino (SAC) è stato da noi precedentemente costruito a partire dallo YAC d1Neo2, che contiene sequenze centromeriche di DNA satellitare suino ripetitivo simili alle alfoidi umane ed in cui è stato introdotto il gene neo per la selezione in cellule di mammifero, sostituendo il braccio sinistro dello YAC con un processo di ricombinazione omologa (retrofitting).
Per verificare se esistono le basi per utilizzare il DNA centromerico suino per costruire un MAC ovino, sono state effettuate
PCR crociate su DNA genomico di cellule renali di maiale e renali fetali di pecora (FLK), con oligonucleotidi per sequenze centromeriche di pecora (Sat-I e Sat-II) e oligonucleotidi per sequenze centromeriche di maiale. È stato determinato che Sat-I presenta omologia con DNA centromerico di maiale, poiché primer Sat-I di pecora amplificano il templato suino e primer centromerici suini la sequenza centromerica di pecora. Sat-II è più specifica in quanto le due coppie di primer, suina ed ovina, crossamplificano in misura quasi nulla.
Il SAC è stato introdotto in FLK mediante lipofezione e sono state ottenute FLK G418 resistenti. La FISH sulle cellule FLKSAC è stata effettuata utilizzando come sonde la sequenza di pecora Sat-II e il braccio sinistro dello YAC d1Neo2. Un segnale
episomale del microcromosoma artificiale ovino (LAC) risponde efficacemente alla sonda YACd1Neo2 e debolmente alla sonda
di pecora, dimostrando una parziale omologia tra Sat-II e DNA centromerico di maiale. Il risultato negativo degli esperimenti
di PCR con Sat-II si può spiegare con un’insufficiente omologia nella regione di appaiamento degli oligo usati nella PCR.
L’analisi FISH, condotta su FLK contenenti il LAC e coltivate in assenza di selezione sino a 53 generazioni, ha dimostrato che
il LAC è mitoticamente stabile in queste cellule.
IL DCW CLUSTER DELLO STREPTOCOCCUS PNEUMONIAE: UN MODELLO PER VALUTARE BERSAGLI DI DIVISIONE CELLULARE BATTERICA ATTRAVERSO LA GENOMICA.
Orietta Massidda
Dip. Scienze e Tecnologie Biomediche, sez. Microbiologia Medica, Università di Cagliari.
Studi genomici hanno consentito l’identificazione della maggior parte dei geni della divisione cellulare batterica, e quindi delle
proteine da essi codificate, dimostrando che questi geni sono presenti in un vasto numero di batteri ma generalmente assenti, o
sostanzialmente differenti, nelle cellule degli organismi superiori, caratteristica che li rende bersagli selettivi ed ad ampio spettro. L’analisi genomica ha inoltre sottolineato che, nonostante le prevedibili differenze tra le varie specie, la maggior parte di
questi geni è organizzata in una regione cromosomica, che contiene anche i geni coinvolti nella sintesi del peptidoglicano, e perciò nota come division and cell wall (dcw) cluster.
Negli ultimi anni alcuni progressi sostanziali, atti a chiarire alcuni aspetti fondamentali del processo di divisione nei batteri
modello di forma bastoncellare Escherichia coli e Bacillus subtilis, hanno evidenziato come tutte le proteine coinvolte nel processo di divisione vengano reclutate al centro della cellula in maniera interdipendente e gerarchica a formare un apparato specifico, denominato septosoma. Tuttavia la funzione biochimica e il ruolo per le proteine del setto è stata chiarita, per ora, solo
per l’FtsZ e l’FtsI(PBP3), limitandone la loro utilità per allestire saggi di screening per l’identificazione di potenziali inibitori.
In uno studio precedente abbiamo identificato la sequenza del gruppo di geni dcw nel batterio patogeno Gram-positivo di forma
sferica, S. pneumoniae. In questo lavoro è stato considerato il ruolo funzionale delle principali proteine coinvolte nel processo
di divisione cellulare FtsA e FtsZ, evidenziando come, oltre alle caratteristiche in comune con le proteine omologhe presenti in
altri batteri, quelle di S. pneumoniae presentino caratteristiche non anticipabili, sfruttabili per sviluppare saggi in vitro per lo
screening di inibitori specifici della divisione cellulare.
I risultati ottenuti sottolineano infine come lo S. pneumoniae si confermi un eccellente modello di studio del processo di divisione cellulare nei cocchi Gram-positivi, fornendo un utile complemento agli studi effettuati nei batteri modello di forma bastoncellare.
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ELISA-REVERSE TECHNOLOGY: DISPOSITIVO IMMUNOADSORBENTE PER ANALISI SIMULTANEE
Mazzeo A.1, Petracca G. 2, Biagetti M.2, Gaeta C.3, Prospero A.3, Rosato M. P.3 Capilongo V.1, Papa P. 2
1DISTAAM, Università degli Studi del Molise; 2Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell’Umbria e delle Marche; 3Parco
Scientifico e Tecnologico del Molise Moliseinnovazione
INTRODUZIONE - Il metodo ELISA–Reverse Technology (Mazzeo A. e Petracca G., 2003) consente il rilevamento simultaneo di differenti anticorpi e antigeni in campioni clinici, alimentari e ambientali. Esso prevede la realizzaione di un dispositivo
innovativo di materiale plastico immunoadsorbente che costituisce la fase solida della reazione ELISA e che, previa sensibilizzazione con reagenti differenti, va introdotto direttamente nel campione da saggiare. Dopo incubazione il dispositivo va estratto, sottoposto a lavaggi e posizionato su una micropiastra non sensibilizzata nei cui pozzetti è stato distribuito il coniugato. Dopo
incubazione e lavaggio il dispositivo va trasferito su una seconda micropiastra ove è distribuito il substrato cromogeno. La reazione cromogena che si sviluppa viene bloccata semplicemente estraendo il dispositivo e la micropiastra subisce il passaggio
nello spettrofotometro per la lettura dei risultati.
MATERIALI E METODI
Il dispositivo è stato realizzato in polistirene puro (Biomat, Rovereto – Italia), in forma di astina da cui sporgono 4 ogive con
passo e dimensioni tali da essere inseribili nei pozzetti di micropiastre ELISA. Una parte di prototipi prodotti è stata saggiata
direttamente (A), una seconda aliquota è stata sottoposta a trattamento standard (B) e una terza a trattamento intensivo (C)
per l’attivazione della superficie immunoadsorbente mediante γ-irraggiamento. I dispositivi sono stati testati sperimentalmente utilizzando sieri bovini di riferimento positivi e negativi per IBR e EBL, parallelamente saggiati con metodica classica.
RISULTATI
I risultati ottenuti evidenziano la necessità del trattamento industriale di attivazione della superficie plastica - che ha garantito
la congruità tra il valore della densità ottica rilevata con il metodo sperimentato e con i test classici - mentre non si sono osservate apprezzabili differenze tra il trattamento standard e quello intensivo, che peraltro ha costi elevati.
CONCLUSIONI - I risultati preliminari ottenuti sono incoraggianti e confermano la possibilità di eseguire analisi simultanee
modificando la fase solida della reazione ELISA.
BIBLIOGRAFIA - Mazzeo A., Petracca G.: Dispositivo e metodo per il rilevamento simultaneo di differenti anticorpi e antigeni in campioni clinici, alimentari e ambientali. V Congresso Nazionale SIDiLV, Pisa 20-21 novembre 2003, 101-102.
CARATTERIZZAZIONE DELLA MICROFLORA BATTERICA ASSOCIATA A SCAPHOIDEUS
TITANUS, VETTORE DELLA FLAVESCENZA DORATA IN VITIS VINIFERA
Massimo Marzorati1, Lorenzo Brusetti1, Alberto Alma2, Simona Palermo2, Rosemarie Tedeschi2, Massimo Pajoro1,2, Pier
Attilio Bianco3, & Daniele Daffonchio1
1DISTAM, Dipartimento di Scienze e Tecnologie alimentari e Microbiologiche, Università degli Studi di Milano, Milano, Italia;
2 Di.Va.P.R.A. Entomologia e Zoologia applicate all’Ambiente, Università di Torino, Grugliasco (To), Italia;
3 Istituto di Patologia Vegetale, Università degli Studi di Milano, Milano, Italia.
La Flavescenza dorata della vite è una malattia che, compromettendo la qualità e quantità del raccolto, rappresenta un grave problema per i produttori di vino del nord Italia. Un insetto, Scaphoideus titanus, che appartiene all’ordine Homoptera,
Cicadellidae, agisce come vettore di un Fitoplasma, l’agente eziologico della malattia. Questo microrganismo è a localizzazione floematica all’interno della pianta e viene acquisito dall’insetto durante la suzione.
Attualmente l’unica via per contenere la Flavescenza dorata è la lotta chimica con antiparassitari contro S. titanus. Un approccio alternativo e maggiormente sicuro a livello ambientale potrebbe essere rappresentato dal biocontrollo del Fitoplasma utilizzando batteri antagonisti.
Lo scopo di questo lavoro è la caratterizzazione della comunità batterica associata a S. titanus per identificare potenziali agenti
di biocontrollo in grado di contenere la diffusione del Fitoplasma.
Sono stati collezionati, da tre diversi vigneti piemontesi, numerosi campioni di S. titanus che differivano per genere ed età dell’insetto (ninfe, adulti, maschi, femmine). La presenza del Fitoplasma nel DNA genomico totale estratto dagli insetti è stata rilevata mediante nested PCR sul gene del 16S rRNA. I profili della popolazione microbica sono stati analizzati mediante LH-PCR
(Length Heterogeneity PCR) su sequenziatore capillare e mediante DGGE (Denaturing Gradient Gel Electrophoresis) dei geni
del 16S rRNA.
I risultati di entrambe le tecniche hanno evidenziato la presenza di una popolazione microbica caratterizzata da una bassa diversità ma con un batterio in comune altamente conservato. Il sequenziamento dell’intero gene del 16S rRNA del batterio correlato con questa banda ha mostrato la presenza, in tutti gli insetti, di un microrganismo con un’omologia del 98% con un endosimbionte (α Proteobacteria) determinante sessuale di Ixodes scapularis.
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32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
FLUORESCENT-BOX-PCR, PER LO STUDIO DELLA DIVERSITÀ MICROBICA
L. Brusetti1, M. Merabishvili2, e D. Daffonchio1
1- DISTAM, Università degli Studi di Milano; 2- University of Tbilisi, Georgia.
E-mail: [email protected]
In ecologia microbica è importante conoscere la diversità genomica all’interno di uno specifico gruppo tassonomico, in particolare negli studi di genetica di popolazione di organismi clonali; una delle tecniche più utilizzate è la BOX-PCR, che permette la caratterizzazione a livello di ceppo. Nonostante la disponibilità di elettroforesi capillari a scansione laser permetta un netto
miglioramento delle prestazioni, fino ad oggi i laboratori hanno utilizzato la separazione dei frammenti in gel di agarosio.
Questo lavoro ha inteso comparare la BOX-PCR con la sua versione automatizzata, Fluorescent-BOX-PCR. Le analisi hanno
riguardato alcuni ceppi a diversa percentuale di Guanosina-Citosina (attinomiceti appartenenti della famiglia delle
Geodermatophilaceae, E. coli e B. cereus). Il DNA di ogni campione è stato estratto in doppio e ogni campione è stato amplificato in doppio da due diversi operatori. Ogni prodotto è stato separato su due diversi gel d’agarosio per verificare la variabilità dovuta alla corsa e colorazione del gel. Sono stati inoltre testati i cromofori HEX e 6-FAM. Le analisi hanno mostrato che il
primer marcato con 6-FAM era in grado di generare mediamente il 50% di frammenti in più del primer marcato con HEX. I
prodotti marcati con 6-FAM sono stati caricati in elettroforesi capillare in modalità Genescan. Mentre la tradizionale BOX-PCR
non permetteva di osservare più di 19 bande per campione, con la F-BOX-PCR si potevano osservare anche 72 diversi picchi,
con una informatività che variava da 1.9 a 12.0 volte. La replicabilità complessiva del metodo era maggiore per la F-BOX-PCR:
97.6% contro il 77.1%.
La F-BOX-PCR è stata verificata con l’analisi di alcuni ceppi di Geodermatophilaceae e del gruppo Bacillus cereus. I primi
sono stati isolati da tre diversi micrositi lapidei. L’analisi UPGMA dei ceppi analizzati con la F-BOX-PCR permetteva di raggruppare i ceppi in base alla provenienza dei campioni, al contrario della BOX-PCR; inoltre il test di Mantel mostrava come
l’albero ottenuto con i dati F-BOX-PCR era molto più affidabile di quello ottenuto con i primer non fluorescenti. L’analisi di
119 ceppi del gruppo B. cereus ha confermato l’alta affidalità della F-BOX-PCR permettendo il preciso raggruppamento dei
ceppi in base alla specie di appartenenza.
SPERIMENTAZIONE DI UNA TECNICA PCR PER LA DETERMINAZIONE DELLA MICROFLORA
TIPICA IN PRODOTTI DA FORNO PRIMA E DOPO COTTURA
C. Picozzi, F. D’Anchise, R. Foschino
Dip. Scienze e Tecnologie Alimentari e Microbiologiche – Università degli Studi di Milano
La possibilità di estrarre DNA amplificabile di origine microbica direttamente da matrici alimentari sottoposte a trattamento termico potrebbe consentire l’identificazione ed i livelli di concentrazione delle specie presenti all’origine nel prodotto. Tale evenienza può comportare un impatto notevole sulla tracciabilità nella filiera dei prodotti cotti in cui hanno luogo fermentazioni.
A tal scopo si è voluto verificare se, e fino a quale livello di concentrazione, sia possibile determinare la presenza e il tipo di
microrganismi attraverso l’utilizzo di PCR direttamente da campioni di impasto per Pandoro e Panettone prima e dopo la cottura in forno. Per l’estrazione del DNA è stato selezionato il protocollo Wizard® che nelle prove preliminari ha fornito risultati più promettenti; il grado di purezza ed integrità dell’acido nucleico ottenuto da campioni di madre, impasto finale e prodotto
cotto sono stati valutati attraverso elettroforesi. La quantità di DNA estratta è correlata alla composizione delle matrici, in quanto alcune sostanze presenti sono in grado di interferire con la fase di estrazione riducendo il limite di rilevazione del segnale.
Sugli estratti sono state poi effettuate diverse prove PCR con differenti primers quali l’amplificazione 16S rDNA specie-specifica per la rilevazione di Lb. sanfranciscensis e l’amplificazione della regione spaziatrice ribosomiale ITS1-5.8S-ITS2 per la
rilevazione di C. humilis e S. cerevisiae. Per i campioni non sottoposti a cottura (madri e impasti finali) è stato possibile ottenere segnali positivi inferiori, in media, di circa due cicli logaritmici rispetto a quelli determinati attraverso conte in piastra. Per
i prodotti cotti i risultati ottenuti hanno evidenziato una frammentazione del DNA dovuta al drastico trattamento termico e all’effetto dell’acidificazione legata alla fermentazione batterica. Il disegno di primers che generano un prodotto di amplificazione di
dimensioni ridotte (<150 bp) aumenta la probabilità di riuscita dell’amplificazione.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
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MULTI-LOCUS SEQUENCE TYPING NELL’EPIDEMIOLOGIA MOLECOLARE DI CANDIDA
ALBICANS
A. Tavanti1,3, A. Davidson1, N. A. R. Gow1, M. J. Maiden2, S. Senesi3, F. C. Odds1
1Department of Molecular & Cell Biology, Institute of Medical Sciences, University of Aberdeen, UK,
2 The Peter Medawar Building for Pathogen Research and Departmen of Zoology, University of Oxford, UK,
3Dipartimento di Patologia Sperimentale, Biotecnologie Mediche, Infettivologia ed Epidemiologia, Università di Pisa, Italy.
La metodica MLST (Multi-Locus Sequence Typing) prevede l’amplificazione di porzioni di geni housekeeping, il successivo
sequenziamento dei frammenti ottenuti e l’analisi delle sequenze nucleotidiche per ciascun locus. Lo studio delle variazioni alleliche (polimorfismi nucleotidici) presenti nei loci analizzati garantisce una tipizzazione indipendente dall’interpretazione soggettiva e consente di monitorare mutazioni che si accumulano lentamente in una popolazione microbica rappresentando; l’applicazione della MLST costituisce, quindi, un utile strumento per investigare le basi genetiche della relazione ospite-patogeno
opportunista. Per Candida albicans, lo schema MLST e’ basato sull’analisi di 7 frammenti genici: AAT1a, ACC1 ADP1, MPIb,
SYA1, VPS13, ZWF1b. In questo studio, tale sistema di genotipizzazione e’ stato applicato a 395 ceppi di C. albicans, isolati da
diverse sedi anatomiche e aree geografiche. L’analisi dei dati ottenuti mediante MLST ha evidenziato che 323 ceppi erano suddivisi in 4 maggiori gruppi (clade) composti da isolati altamente correlati, di cui 154 (38.9%) appartenenti ad un solo gruppo
(clade I). Il 12.9 % dei ceppi era suddiviso in cluster minori, mentre la percentuale dei ceppi geneticamente non correlati era
intorno al 18%. Le varie aree geografiche e sedi anatomiche di isolamento erano rappresentate in modo significativamente diverso nei 4 gruppi principali. Inoltre, l’analisi dello stato omozigotico/eterozigotico a livello del mating type-like locus ha evidenziato una significativa correlazione tra MTL-omozigosi e resistenza a fluconazolo e flucitosina (p<0.0001 e p<0.004, rispettivamente), con il 73.6% dei ceppi flucitosino-resistenti appartenenti al clade I. Per completare la caratterizzazione genotipica dei
ceppi di C. albicans e’ stata, infine, investigata la presenza di introni nella regione spaziatrice del gene per l’RNA ribosomiale
25S, suddividendo i ceppi in 3 genotipi distinti (A, B, e C), la cui distribuzione nei 4 gruppi principali ha mostrato differenze
statisticamente significative (p<0.0001).
VALUTAZIONE DEL POLIMORFISMO GENETICO DI LIEVITI DI ORIGINE ALIMENTARE
MEDIANTE ANALISI MOLECOLARE
CAPECE Angela, ROMANO Patrizia
Dipartimento Bi.Di.Baf. – Università degli Studi della Basilicata – Potenza – Italy
e-mail: [email protected]
I lieviti rivestono notevole interesse nei prodotti alimentari, ove grazie alla loro attività metabolica contribuiscono al miglioramento della conservabilità e delle caratteristiche organolettiche dei prodotti. In alcuni casi ceppi selezionati vengono intenzionalmente addizionati come colture starter, in altri lieviti di specie diverse sono naturalmente presenti nella materia prima. Le
caratteristiche tecnologiche sono strettamente correlate alla specie di lievito, anche se nell’ambito della stessa specie si può
riscontrare una significativa variabilità di ceppo. A questo scopo le tecniche di biologia molecolare si sono rivelate molto più
utili dei test fenotipici tradizionali perché forniscono l’impronta genetica specifica (“fingerprinting”), permettendo l’identificazione non soltanto a livello di specie ma anche la discriminazione tra ceppi della stessa specie. In questo lavoro è stato valutato il polimorfismo genetico di ceppi di Saccharomyces cerevisiae, Hanseniaspora uvarum, specie principali della fermentazione vinaria, e Debaryomyces hansenii, una delle specie di lieviti prevalenti nei prodotti caseari. Per le specie S. cerevisiae e H.
uvarum sono stati testati ceppi selvaggi, isolati da mosto a diversi giorni di fermentazione e provenienti da diverse aree viticole, mentre per la specie D. hansenii sono stati testati ceppi selvaggi isolati da formaggio Pecorino di Filiano, provenienti da
diverse parti del prodotto. Dopo estrazione del DNA, i ceppi sono stati sottoposti ad analisi RAPD-PCR, utilizzando i primers
(GTG)5 e P80 (5CGCGTGCCCA3). In tutte le specie l’analisi cluster dei profili elettroforetici ottenuti ha permesso di evidenziare un notevole grado di polimorfismo tra i ceppi, in alcuni casi correlato alla loro provenienza. L’analisi molecolare ha permesso di determinare in tempi brevi, confrontando un numero elevato di ceppi, la biodiversità esistente negli ambienti naturali.
L’ottenimento di “impronte molecolari” specifiche di ceppo può essere uno strumento molto utile per monitorare l’andamento
del processo fermentativo, al fine di controllare l’eventuale sopravvento di ceppi indesiderati.
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32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
ASPETTI DEL QUORUM SENSING IN RHIZOBIUM LEGUMINOSARUM
Sara Alberghini e Andrea Squartini
Dipartimento di Biotecnologie Agrarie, Università di Padova, Strada Romea 16, Legnaro, Padova
La comunicazione intercellulare attraverso segnali molecolari del tipo “quorum sensing” è particolarmente attiva nei microrganismi associati alle piante. Tra questi i batteri azotofissatori simbionti delle leguminose, i cosiddetti rizobi, di grande importanza sia ecologica che agronomica, risultano dotati di circuiti genici complessi, regolati da molecole della classe delle N-acil omoserina lattoni. Questi sistemi sono stati particolarmente studiati nella specie Rhizobium leguminosarum. Ma nonostante la avvenuta individuazione, clonaggio, mutagenesi e sequenziamento di numerosi geni operanti in risposta a segnali quorum sensing
è però interessante rilevare come questo non abbia sinora portato alla comprensione del loro ruolo nel ciclo vitale e nella ecologia del microrganismo che li contiene. Il R. leguminosarum quindi pur essendo la specie di rizobio da più tempo studiata per
quanto riguarda il quorum sensing, rimane quella in cui il meccanismo è meno chiaro. Dal punto di vista generale, circa lo stato
dell’arte sulla comunicazione molecolare batterica, è poi interessante notare anche come, dopo diversi anni in cui si è assistito
al susseguirsi di pubblicazioni di geni quorum sensing in un numero sempre maggiore di specie, negli ultimi tempi la letteratura in materia abbia visto anche sorgere alcuni dubbi sulla ortodossia delle procedure adottate e sulle conclusioni inferite, fino a
chiedersi, da parte di alcuni autori, quale sia il vero ruolo degli autoinduttori quorum sensing negli habitat microbici naturali, o
a rimettere addirittura in discussione l’intero significato del meccanismo introducendo la possibilità di una funzione di diffusion
sensing.
Sulla base di queste considerazioni, disponendo di un ceppo indicatore di A.tumefaciens dotato di una fusione quorum-lacZ, in
grado di rispondere cromaticamente ai segnali prodotti da altre specie, abbiamo eseguito alcuni semplici test di verifica su un
classico isolato di R. leguminosarum bv. viciae, incubando le cellule in diverse situazioni, varianti per numero assoluto di cellule, distanza reciproca, densità cellulare, e volumi di soluzione, al fine di mettere alla prova il paradigma del quorum sensing
in termini di:(a) dipendenza della risposta dalla densità cellulare, (b) dipendenza dal numero medio di contatti intercellulari e
(c) dipendenza dal volume totale di incubazione delle cellule. I risultati, che evidenziano alcuni aspetti non previsti dalla teoria
generale sulla comunicazione intercellulare, saranno oggetto di discussione nella presente presentazione.
APPROCCI MOLECOLARI ED EPIDEMIOLOGICI II
ISOLAMENTO E CARATTERIZZAZIONE DI CEPPI DI SALMONELLA ISOLATI DA RETTILI
Marialaura Corrente1, Marta Totaro1, Grazia Greco1, Klaus G. Friedrich2, Domenico Buonavoglia1.
1Dipartimento di Sanità e Benessere animale, Facoltà di Medicina Veterinaria, Università di Bari.
2 Servizio Veterinario del Bioparco, Roma.
Sono state analizzate per la ricerca di Salmonella spp. le feci di 91 rettili, appartenenti al Giardino Zoologico (Bioparco) di
Roma o di proprietà privata. Sono risultati positivi 46 animali (50,5%). I 46 ceppi isolati sono stati testati per la sensibilità a 15
antibiotici. Inoltre per 22 stipiti è stata effettuata la sierotipizzazione e la ricerca mediante PCR dei geni di patogenicità fim, invA
e spvC e dei geni che codificano per le integrasi (int 1, 2, 3 e 4). E’ stata evidenziata un’elevata percentuale di resistenza alla
colistina (58,7% dei ceppi testati), sulfametossazolo (55,5%), streptomicina (32,6%), tetracicline (19,6%), ampicillina (17,4%)
e acido nalidixico (13,1%). Diciassette dei 22 stipiti sierotipizzati sono risultati appartenere a Salmonella enterica subspecie
enterica e 4 ceppi alla sottospecie IIIa, mentre 1 ceppo è risultato non tipizzabile. Con il test PCR, in tutti i 22 ceppi sono stati
evidenziati i geni fim e invA, e in 3 ceppi, appartenenti a Salmonella subsp. IIIa, il gene spvC. Inoltre 11 ceppi sono risultati
positivi per int 1, 2 stipiti per int 2, nessun ceppo per int 3 e 4. L’elevata percentuale di isolamento di Salmonella spp. dei rettili e la presenza di caratteri di patogenicità nei ceppi analizzati conferma la potenzialità di tali animali a trasmettere l’infezione
all’uomo. Il riscontro nel genoma di elementi di antibiotico-resistenza sottolinea che il trattamento antibiotico degli animali,
che raramente dà la sterilizzazione batteriologica, è da considerarsi dannoso.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
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DIARREA VIRALE BOVINA: CONFRONTO FRA VARIABILITA’ GENETICA IN ITALIA ED IN
EUROPA
Luzzago C. & Ruffo G.
Dipartimento di Patologia Animale, Igiene e Sanità Pubblica Veterinaria – Università degli Studi di Milano, Milano.
La diarrea virale bovina (BVD) è una patologia endemica nella popolazione bovina italiana, con valori di sieroprevalenza superiori al 70% in aree a zootecnia intensiva. L’infezione, causa di ridotte performance riproduttive, forme enteriche e polmonari,
è caratterizzata da un tasso di letalità generalmente molto basso. La recente segnalazione di focolai emorragici ad alta letalità,
sia in Nord America che in Europa, ha determinato un forte impulso ad approfondire le caratteristiche genetiche del virus.
Attualmente, BVDV è stato classificato in due genotipi: BVDV-1 e BVDV-2, rispettivamente ad alta e bassa prevalenza. Una
maggior virulenza dell’infezione è stata più frequentemente associata a BVDV-2; d’altra parte, marker genetici predittivi dell’evoluzione clinica della patologia non sono, ad oggi, stati individuati. In una precedente indagine, mirata alla genotipizzazione degli stipiti virali circolanti in Italia, è stata evidenziata la presenza di BVDV-1 e di numerosi sottogruppi appartenenti a tale
genotipo, ed anche di BVDV-2.
Nel presente lavoro è stata valutata la distribuzione e la frequenza dei differenti genotipi e sottogruppi virali in Italia, in rapporto
al quadro europeo. Il confronto evidenzia paesi, quali ad esempio Gran Bretagna e Svezia, caratterizzati da una popolazione virale a bassa variabilità genetica ed altri, fra cui l’Italia, ad alta variabilità. Parallelamente, BVDV presenta alcuni sottogruppi virali “dominanti”, rispetto ad altri a diffusione più limitata, e comunque presenti nei nostri allevamenti. Il quadro epidemiologico
italiano, caratterizzato da elevata sieroprevalenza e frequenza di esposizione ai principali fattori di rischio, in particolare la
movimentazione animale, contribuisce ad amplificare il già elevato tasso di mutazione spontanea degli RNA virus. In conclusione, il nostro paese presenta la più elevata variabilità genetica di BVDV fra quelli europei, nei quali sono state condotte indagini di genotipizzazione.
IL FENOTIPO AUTOLITICO DI BACILLUS THURINGIENSIS E DI SPECIE AFFINI
N. Raddadi1, A. Cherif2, D. Mora1, A. Boudabous2 e D. Daffonchio1
1, DISTAM, Università degli Studi di Milano, Milano, Italia; 2, LMT, Faculté des Sciences de Tunis, Tunisi, Tunisia.
Il gruppo Bacillus cereus (Bc) comprende sei specie filogeneticamente molto simili che hanno un importante effetto sulle
attività umane. La specie più utile è B. thuringiensis (Bt), che, grazie alla produzione di proteine insetticide cristalline, è un
importante agente di biocontrollo ampiamente utilizzato come bioinsetticida per il controllo di insetti fitopatogeni e di vettori di malattie umane. L’attività di biocontrollo di Bt è anche dovuta alla produzione di diverse molecole antifungine e antibatteriche. Lo scopo di questo lavoro è stato quello di studiare l’autolisi di Bt e delle specie ad esso simili e di controllare
se questo tratto fenotipico sia utile per la caratterizzazione tassonomica del gruppo Bc.
E’ stato esaminato il tasso autolitico di 96 ceppi appartenenti a cinque specie del gruppo Bc in condizione di starvation a differenti pH. Il grado di autolisi a pH 6 è risultato essere ceppo dipendente con un’ampia diversità fra le diverse specie, mentre era più uniforme a pH 6.5. A pH 8.5 il grado di autolisi era inferiore (rispetto a quello a pH 6.5) per la maggior parte dei
ceppi analizzati e in particolare i valori più bassi erano caratteristici delle specie B. mycoides (Bm) e B. pseudomycoides (Bp).
I ceppi analizzati presentavano un’alta resistenza alla mutanolisina. La capacità di idrolizzare il peptidoglicano è stata valutata in SDS-PAGE in condizioni rinaturanti usando come indicatore il ceppo Bt subsp. tolworthi HD125. Sono stati osservati profili complessi in Bt, Bc e B. weihenstephanensis (Bw) con otto bande di lisi (25-90 kDa). Le specie Bm e Bp avevano profili più semplici con 1-3 bande (63, 46 e 38 kDa). Molte proteine litiche erano attive contro Listeria monocytogenes e Micrococcus lysodeikticus. Il profilo autolitico cambiava per Bt, Bc e Bw in fase stazionaria di crescita, al contrario
di Bm. Nel caso di Bp non si aveva alcun segnale di lisi. Il profilo autolitico non era influenzato dal terreno di coltura.
L’attività autolitica era bloccata in presenza di NaCl, eccetto che per Bm e Bw, era diminuita da MgCl2 e MnCl2 e veniva
aumentata da un pH basico.
I risultati ottenuti hanno evidenziato che il fenotipo autolitico può essere uno strumento tassonomico utile per caratterizzare i batteri del gruppo Bc.
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32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
IPOTESI DI RINTRACCIABILITÀ NEI PRODOTTI LATTIERO CASEARI
Monia Lattanzi, Laura Corte, Gianluigi Cardinali e Fabrizio Fatichenti
Università degli Studi di Perugia
Dipartimento di Biologia Vegetale e Biotecnologie Agroambientali
Questo studio è volto a individuare sistemi in grado di garantire la tracciabilità e rintracciabilità dei prodotti alimentari, fra i
quali il formaggio pecorino. L’ipotesi alla base di questo studio si fonda sulla presenza costante, in questo formaggio, di ceppi
del lievito Debaryomyces hansenii diversi e tipici di distinte aree di produzione. Per la discriminazione di questo lievito, e delle
relative zone di produzione dei formaggi, sono stati indagati campioni di formaggio provenienti dal centro Italia: Umbria
(Valnerina), Marche, Lazio, Toscana e Sardegna. I ceppi di lieviti isolati sono stati classificati come D. hansenii sulla base dei
saggi fisiologici specifici e di analisi a campione delle sequenze del DNA 26S. Sui ceppi in studio, sono state effettuate analisi
RAPD con una coppia di primer R11/M13m. Dallo studio dei tracciati elettroforetici sono stati individuati 12 tipi molecolari.
Successivamente, è stata eseguita una analisi statistica e filogenetica dei bandeggi RAPD per determinare le relazioni fra le
distanze genetiche dei ceppi e le aree geografiche d’isolamento. Dall’analisi è stato possibile individuare raggruppamenti di
ceppi derivanti da isolamenti in zone limitrofe. In particolare si è evidenziato un cluster relativo ai ceppi provenienti dalla
Valnerina all’interno del quale esiste una proporzionalità fra le distanze genetiche e quelle geografiche. L’analisi del grafico
PCoA evidenzia una netta distinzione del gruppo dei ceppi della Valnerina rispetto a quelli isolati nelle altre zone. Inoltre, alcuni di questi ultimi presentano un certo livello di omologia con ceppi di D. hansenii isolati in Sardegna diversi anni fa. Questa
“influenza sarda”, che parrebbe una riduzione della variabilità entro specie per le aree in questione, potrebbe derivare da effetti migratori antropici e dall’uso generalizzato di caglio industriale
STUDIO DELLA DIFFUSIONE DI MICRORGANISMI ANTIBIOTICO-RESISTENTI NELLE FILIERE
DI CARNI SUINE E AVICOLE1
Aquilanti L.2, Garofalo C., Bordoni D., Cantani M., Coacci N., Ferretti L., Pucci K., Clementi F.
Dipartimento di Scienze degli Alimenti, Università Politecnica delle Marche
L’uso indiscriminato di antibiotici in medicina umana e veterinaria, nonché come promotori di crescita negli allevamenti, ha
esercitato negli ultimi anni una pressione selettiva tale da determinare l’insorgenza e la diffusione di ceppi batterici antibioticoresistenti che costituiscono una minaccia concreta alla salute umana. Sebbene i batteri lattici antibiotico-resistenti non rappresentino in genere un rischio clinico, questi possono tuttavia fungere da veicolo per il trasferimento di geni codificanti antibiotico resistenze (AR) a specie patogene o opportuniste (Teuber, 1999). Ciò in virtù della possibile localizzazione di tali determinanti su elementi genetici mobili, quali plasmidi, trasposoni, ed integroni (Hall and Collins 1995), trasmissibili a livello intra e
inter-specifico ed inter-generico (Biavasco et al., 1996).
Il presente lavoro di ricerca, che qui viene riferito in estrema sintesi, è stato condotto nell’ambito di un progetto biennale di carattere nazionale, con l’obiettivo di verificare diffusione e distribuzione dei determinanti genici codificanti le più comuni AR (vancomicina, meticillina, eritromicina, gentamicina) nelle filiere di carni suine e avicole delle Marche. La presenza di tali geni è
stata preliminarmente investigata in campioni di carne fresca e trasformata, con tecniche di PCR e nested-PCR, di cui sono state
definite sperimentalmente le soglie di sensibilità. Le amplificazioni sono state condotte sul DNA estratto direttamente dalla
matrice alimentare e i campioni positivi sono stati quindi utilizzati per l’isolamento selettivo di batteri lattici antibiotico-resistenti. Gli isolati sono stati caratterizzati per la presenza dei determinanti di interesse, anche come multiresistenze, identificati
con ARDRA e tipizzati mediante RAPD. Per alcuni dei determinanti in studio, è stata definita la localizzazione genomica e la
sequenza nucleotidica.
I risultati ottenuti relativamente allo screening dei campioni hanno mostrato un’ampia diffusione dei determinanti genici di interesse lungo tutta la filiera, con netta prevalenza di ermB e tetM. La successiva fase di isolamento ha consentito l’ottenimento di
batteri lattici AR appartenenti ai generi Lactobacillus, Pediococcus e Weissella, di cui circa il 30% caratterizzati da multiresistenza a eritromicina e tetraciclina.
1 Il presente lavoro è stato finanziato dalla Fondazione Cariverona (bando Agosto 2001).
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RESISTENZA ALLA CIPROFLOXACINA E ALLA PENICILLINA IN NEISSERIA GONORRHOEA:
RISULTATI DI UNO STUDIO PILOTA
Paola Stefanelli1*, Carmen Vasta1, Barbara Suligoi1, Paola Mastrantonio1 e Gruppo di Studio “Progetto Gonococco2”
1Dipartimento di Malattie Infettive, Parassitarie e Immunomediate-Istituto Superiore di Sanita’-Roma
2Ospedale Amedeo di Savoia di Torino:Ivano Dal Conte, Rosangela Milano;Ospedale S.Lazzaro di Torino:Sergio Delmonnte,
Francesca Robbiano;Centro MST di Bologna:Antonietta D’antuono, Emma Galluppi, Elisabetta Mirone,Ornella Varoli;IRCCS
Ospedale Maggiore di Milano:Marco Cusini, Livia Scioccati; Istituto S.Gallicano di Roma:Aldo di Carlo, Grazia
Prignano;Università di Bari:Luigi Carmineo; DIMIP di Bari:Caterina Rizzo.
In Italia non sono disponibili dati recenti riguardo la diffusione e le caratteristiche molecolari di ceppi di Neisseria gonorrhoeae
responsabili di uretriti . Per questo è stato avviato nell’Aprile 2003 uno studio pilota per la sorveglianza microbiologica delle
infezioni da N. gonorrhoeae in collaborazione con 6 Centri già coinvolti nella sorveglianza epidemiologica delle MST. In un
anno sono stati raccolti 158 ceppi di gonococco al fine di caratterizzare i sierotipi di N. gonorrhoeae circolanti nel nostro Paese
ed i pattern di sensibilità alla ciprofloxacina e alla penicillina .
La quasi totalita’ dei ceppi finora isolati è risultata di sierotipo PIB e rari casi di sierotipo PIA/PIB.
Il 36.8 % dei ceppi e’ risultato ciprofloxacina resistente (CipR) con MICs tra 6 e 32 mg/L e una stessa percentuale di ceppi e’
risultata penicillina resistente (PenR) con MICs 0.5-32 mg/L. Il 25.2% e’ risultato CipR e PenR. La resistenza alla ciprofloxacina è dovuta a sostituzioni amino acidiche nei geni gyrA e parC, come evidenziato dall’analisi di sequenza genica. La crossresistenza con la penicillina e’stata osservata in tutti i ceppi CipR con la mutazione Ser91-Phe nel gene gyrA. La resistenza alla
penicillina è mediata, nei ceppi analizzati, da plasmidi TeM-1 codificanti b-lattamasi. In particolare, l’analisi in PCR ha evidenziato la presenza di un plasmide con peso molecolare di 3Mda in tutti i ceppi PenR esaminati.
L’analisi molecolare tramite PFGE e opa-typing ha dimostrato una elevata diversità tra i ceppi e quindi la diffusione di ceppi
di Neisseria gonorrhoeae resistenti nel nostro Paese non sembra correlabile alla diffusione di un singolo clone.
I risultati finora ottenuti sottolineano l’importanza di un monitoraggio della diffusione di resistenza agli antibiotici in Neisseria
gonorrhoeae vista l’elevata percentuale di ceppi multiresistenti in una realtà considerata endemica nel nostro Paese.
TRASFERIMENTO ORIZZONTALE DI UN GENE DI RESISTENZA ALL’ERITROMICINA TRA CLOSTRIDIUM DIFFICILE E BUTYRIVIBRIO FIBRISOLVENS.
Parizia Spigaglia, Fabrizio Barbanti, Valentina Carucci, Paola Mastrantonio.
Dipartimento di Malattie Infettive, Parassitarie ed Immunomediate, Istituto Superiore di Sanità,Roma
L’elevata somministrazione di antibiotici sia in campo umano che veterinario ha contribuito
all’aumento di batteri resistenti che rappresentano un grande ostacolo al trattamento di molte malattie infettive. Il trasferimento
di geni di resistenza attraverso coniugazione batterica è uno dei meccanismi determinanti per la loro rapida e ampia diffusione
e poco è ancora noto sulla possibilità di coniugazione tra ceppi di origine umana e ceppi di origine animale ed in particolare tra
ceppi anaerobi.
Il trasferimento del gene di resistenza alla eritromicina, ermB, da Clostridium difficile, patogeno intestinale umano, a
Butyrivibrio fibrisolvens, commensale del rumine di bovini,e viceversa, è stato ottenuto tramite coniugazione su filtro. C. difficile CD51, isolato da un caso di diarrea associata ad antibiotici, è stato utilizzato come donatore, mentre B. fibrisolvens 1.230,
resistente a tetraciclina, come ricevente. I ceppi sono stati fatti crescere in condizioni di anaerobiosi in brodo M2GSC, addizionato con rumine al 30%, fino ad una OD di 0.5. La coniugazione è stata ottenuta su filtri posti su piastre di Agar Sangue (AS)
incubate in anaerobiosi per 24 ore. La selezione dei trans-coniuganti di B. fibrisolvens resistenti ad eritromicina è stata effettuata
su piastre di CCFA addizionate di tetraciclina (10 mg/L) ed eritromicina (20 mg/L). La presenza di ermB nei trans-coniuganti è
stata verificata tramite PCR e le MICs per l’eritromicina sono risultate ≥ 256 mg/L come per il ceppo donatore. La stabilità della
resistenza è stata dimostrata con ripetuti passaggi su AS con eritromicina. Il Southern blotting del DNA genomico digerito con
PvuII dei trans-coniuganti e l’ibridazione con ermB marcato mostrano che l’inserzione del determinante di resistenza nel genoma di B. fibrisolvens avviene in un sito specifico.
Il trasferimento di ermB da un trans-coniugante del ceppo 1.230(TE1) ad altri ceppi di B. fibrisolvens e di ri-trasferimento a C.
difficile è stata ottenuta utilizzando come riceventi B. fibrisolvens 2221, resistente alla rifampicina, e C. difficile 1977, sensibile ad eritromicina.
I risultati di questo lavoro dimostrano come sia possibile, in vitro, il trasferimento del gene ermB tra batteri anaerobi intestinali di origine umana ed animale, trasferimento che in vivo potrebbe contribuire al mantenimento di una riserva di geni di resistenza ai macrolidi e alla loro ampia diffusione.
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32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
LA RESISTENZA DI TIPO M AI MACROLIDI NEGLI STREPTOCOCCHI È DOVUTA AD UN SISTEMA
DI EFFLUSSO DELLA SUPERFAMIGLIA DEI TRASPORTATORI ABC (ATP-BINDING CASSETTE)
Iannelli F., Santagati M.*, Docquier J.D., Cassone M., Oggioni M.R., Rossolini G.M., Stefani S.*, Pozzi G.
LAMMB e FIBIM, Dipartimento di Biologia Molecolare, Università di Siena, Siena.
*Dipartimento di Scienze Microbiologiche, Università di Catania, Catania
Il gene mef(A) è stato identificato come il determinante di resistenza responsabile del fenotipo M di resistenza ai macrolidi, un
fenotipo frequentemente trovato in isolati clinici di Streptococcus pneumoniae e Streptococcus pyogenes. Quando abbiamo
caratterizzato gli elementi Tn1207.1 e Tn1207.3 veicolanti il gene mef(A), abbiamo identificato un nuovo gene mat(A) (macrolide transporter), che è adiacente al mef(A) ed è omologo all’ATP-binding transporter codificato dal gene msr(SA) di
Staphilococcus aureus.
Per definire il rispettivo contributo alla resistenza ai macrolidi dei geni mef(A) e mat(A), sono stati costruiti, per trasformazione in un ceppo di S. pneumoniae contenente il Tn1207.3, 3 mutanti isogenici: (i) ∆mef(A)-∆mat(A); (ii) ∆mef(A); (iii) ∆mat(A).
La suscettibilità all’eritromicina dei mutanti è stata saggiata ed è stato visto che mat(A) è richiesto per l’acquisizione della resistenza ai macrolidi nei ceppi contenenti il Tn1207.3. La delezione del mef(A) produce un effetto minore con riduzione della MIC
di una sola diluizione. Il contributo del mat(A) alla resistenza ai macrolidi è stato studiato anche in S. pyogenes, l’ospite originale del Tn1207.3. Due ceppi isogenici sono stati costruiti per coniugazione: MF56, contenente il Tn1207.3; MF55 contenente
il Tn1207.3/∆mat(A).
MF55 è sensibile all’eritromicina mentre MF55 è resistente con una MIC di 8 µg/ml. Esperimenti di complementazione hanno
mostrano che l’introduzione del mat(A) ristabilisce la resistenza ai macrolidi nei mutanti ∆mat(A). L’eritromicina marcata viene
incorporata dai ceppi con il mat(A) deleto, mentre i ceppi con il mat(A) presentano un efflusso dell’eritromicina. La delezione
del mef(A) non influenza l’efflusso. L’efflusso sembra ATP-dipendente inquanto bloccato da CCCP e arsenato. Questi dati indicano che la resistenza di tipo M ai macrolidi negli streptococchi è dovuto a un sistema di trasporto ad efflusso della superfamiglia delle ATP-binding cassette, in cui il mef(A) codifica i domini transmenbrana, e il mat(A) i due domini di ATP-binding.
ISOLAMENTO, CARATTERIZZAZIONE SIEROLOGICA ED ANALISI DELLA RESISTENZA AGLI
ANTIBIOTICI DI CEPPI DI LISTERIA MONOCYTOGENES ALIMENTARI
Ingianni A., Madeddu M.A., Quartuccio M., Dessì S., Pompei R.
Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biomediche, Università degli studi di Cagliari.
La Listeria monocytogenes ha una notevole importanza nella sicurezza della salute pubblica e nel controllo dell’industria alimentare. La listeriosi, malattia legata all’ingestione di alimenti non cotti infetti da L.monocytogenes, è causa di meningiti, setticemie, meningoencefaliti e aborti, in individui immunocompromessi, anziani, bambini e donne gravide. L’incidenza di tale
malattia in Europa è molto bassa (2/3 casi/milione l’anno), ma il tasso di mortalità è estremamente elevato (>40%); ciò impone
una diagnosi precoce e un’adatta terapia. Finora la L.monocytogenes è stata considerata un microrganismo molto sensibile agli
antibiotici, ma di recente sono stati isolati ceppi resistenti a diversi antibiotici. In questo lavoro si è voluto verificare la sensibilità a 20 antibiotici, correntemente usati in veterinaria e nella terapia umana, di ceppi di L.monocytogenes isolati da alimenti di
varia origine prodotti in Sardegna.
Sono stati isolati ed identificati 72 ceppi di L.monocytogenes da 720 alimenti, di varia origine, mediante le tradizionali tecniche
batteriologiche e biochimiche e con l’uso di tecniche molecolari; inoltre sono stati analizzati i sierotipi, la presenza della ß-emolisina, il profilo plasmidico e i geni della resistenza alla tetraciclina.
Il 100% dei ceppi di L.monocytogenes è risultato sensibile ad amikacina, amoxicillina, ampicillina, cloramfenicolo, eritromicina, gentamicina, kanamicina, rifampicina, tobramicina, vancomicina, penicillina. E’ stata rilevata una resistenza del 100%
all’aztreonam, del 97% alla lincomicina, del 87.5% al cefuroxime, del 62.5% al cefotaxime, del 57% alla fosfomicina, del 50%
a ceftriaxone e sulfatrimetoprim, del 25% alla streptomicina, del 7% alla tetraciclina. Il profilo plasmidico è risultato identico
in tutti gli stipiti analizzati. Nella totalità degli stipiti resistenti alla tetraciclina è stato evidenziato il gene tet M.
L’uso indiscriminato di antibiotici, nei mangimi e nella terapia veterinaria, ha favorito l’instaurarsi di resistenze in alcune specie microbiche della flora intestinale degli animali, quali Enterococchi e Stafilococchi; ciò potrebbe giustificare la diffusione
della resistenza di L.monocytogenes ad alcuni antibiotici. Per questo motivo è di fondamentale importanza studiare e monitorare tale fenomeno per le implicazioni cliniche nel trattamento della listeriosi.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
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DIAGNOSI MOLECOLARE D’INFEZIONE
RILEVAMENTO, LOCALIZZAZIONE E QUANTIFICAZIONE PER REAL-TIME PCR DEL DNA DI
CHLAMYDOPHILA PNEUMONIAE IN MICRODISSEZIONI TISSUTALI DI PLACCHE CAROTIDEE
Alessandra Ciervoa, Patrizio Saleb, Matteo A. Russob, Attilio Maseric, Antonio Cassonea.
a Dipartimento di Malattie Infettive, Parassitarie ed Immuno-mediate, Istituto Superiore di Sanità, Roma; b Dipartimento di
Medicina Sperimentale e Patologia, SS Patologia Cellulare CHM19 Policlinico Umberto I, Università “La Sapienza”, Roma;
c Dipartimento di Cardiochirurgia Vascolare, Università “Vita e Salute” San Raffaele, Milano.
L’angina instabile e l’infarto miocardico sono fra le manifestazioni cliniche più temibili delle cardiopatie ischemiche. Una delle ipotesi più intriganti circa la patogenesi di questi eventi coronarici acuti è che in essi giochino un ruolo determinante uno o più agenti infettivi. Fra questi, Chlamydophila pneumoniae (CP), un noto agente d’infezione polmonare, è il maggior candidato che eserciterebbe il suo ruolo patogenetico attraverso l’induzione di una risposta immunitaria cross-reattiva con antigeni tissutali. In accordo con questa ipotesi è stata
rilevata in vari studi la presenza del DNA di CP nelle lesioni arterosclerotiche a vari livelli dell’albero vascolare associata all’infiltrazione nella placca di linfociti T specifici a vari
antigeni di CP e all’HSP60 tissutale (1). Tuttavia attualmente la rilevazione del DNA di CP dalle placche rimane una problematica aperta presumibilmente dovuta a: 1) mancata messa
a punto di protocolli idonei per l’estrazione degli acidi nucleici dalle placche ateromatosiche; 2) scarsa sensibilità della PCR dovuta essenzialmente ad una non ottimale qualità del
campione e alla bassa resa di eventuale DNA di CP. Recentemente il nostro gruppo ha ottimizzato la metodica di estrazione di DNA totale dalle placche aeterosclerotiche e ha messo
a punto di una Real-time PCR basata sull’utilizzo del LightCycler con sonde FRET per il rilevamento e quantificazione del DNA di CP (2).
Sulla base di questa tecnologia Real-time PCR sono state analizzate microsezioni di 16 placche carotidee di soggetti sottoposti a endoaterectomia. I vetrini contenenti sezioni di 6-7
µm di tessuto, dopo colorazione specifica, sono state opportunamente microdissezionate con un microtomo digitale al laser che consente inoltre il trasferimento del materiale microdissezionato direttamente in un nanotubo per l’estrazione del DNA. Per ogni campione sono state ottenute 3 frazioni: placca, tessuto adiacente la placca e tessuto distante la placca.
Il DNA purificato dalle microdissezioni è stato saggiato per amplificabilità tramite PCR per i geni della B-globina con primers commerciali e poi analizzato per la ricerca specifica e
quantificazione del DNA di CP in Real-time PCR. Il 44% delle placche (7 di 16) sono risultate positive per CP-DNA con un numero di copie genomiche variabile da 2200 a 800 per
microdissezione. Inoltre, il DNA di CP è stato ritrovato esclusivamente nella microdissezione della placca e mai nel tessuto distante la placca. Solo in 3 casi tra le placche positive
con più alto numero di copie di CP, il batterio è stato ritrovato nel tessuto adiacente la placca, ma la quantificazione molto bassa (20-80 copie) può far supporre uno spreeding dalla
lesione più che ad una reale presenza di CP in questa sede. Questi risultati istologici analizzati con metodiche tecnologiche avanzate dimostrano che CP non solo è presente quasi
esclusivamente nella zona della lesione ateromasica ma anche con un alto numero di copie, compatibile con una reale infezione. La dimostrazione fine della localizzazione di CP nella
placca offre un importante indicazione circa il ruolo ezio-patogenetico di questo batterio nell’arteriosclerosi.
(1) Benagiano M., Azzurri A., Ciervo A., Amedei A., Tamburini C., Ferrari M., Telfor J. L., Baldari C. T., Romagnani S., Cassone A., D’Elios M. M., Del Prete G. 2003. T helper
type-1 lymphocytes drive inflammation in human atherosclerotic lesions. Proc.Nat.Acad.Sci.US; 100, 6658-6663.
(2) Ciervo A., A. Petrucca, and A. Cassone. 2003. Identification and quantification of Chlamydia pneumoniae in human atherosclerotic plaques by LightCycler real-time-PCR. Mol
Cell. Probes 17: 107-111.
UTILIZZO DI UN SAGGIO DI PCR REAL-TIME (REALARTTM M. TUBERCULOSIS) PER L’IDENTIFICAZIONE RAPIDA DI MYCOBACTERIUM TUBERCULOSIS DIRETTAMENTE NEI CAMPIONI
CLINICI
R. Torelli, M. Sanguinetti, B. Posteraro, G. Delogu, F. Ardito e G. Fadda
Istituto di Microbiologia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma
L’identificazione rapida di Mycobacterium tuberculosis in campioni clinici di pazienti con sospetto clinico di tubercolosi riveste fondamentale importanza in ogni strategia terapeutica volta a limitare la diffusione della tubercolosi. In questo studio abbiamo valutato l’efficacia di un nuovo sistema diagnostico disponibile in commercio (RealArtTM M. tuberculosis), basato sulla
PCR real-time, che utilizza come bersaglio una regione genica di 163 coppie di basi specifica per M. tuberculosis complex.
L’avvenuta amplificazione viene rivelata mediante una sonda fluorescente (TaqMan probe) e, per evidenziare la presenza di
eventuali inibitori della reazione polimerasica, è previsto l’uso di un sistema di amplificazione eterologo. Sono stati esaminati
60 campioni clinici, di origine sia polmonare che extrapolmonare, ottenuti da pazienti con sospetto clinico di tubercolosi. Tali
campioni sono stati sottoposti ad estrazione del DNA ed analizzati mediante il saggio di PCR real-time utilizzando l’apparecchio ABI PRISM 7000 SDS. Come riferimento, è stata costruita una curva standard basata sulla correlazione tra il numero di
copie del gene amplificato e il ciclo soglia. I dati di amplificazione ottenuti dai campioni clinici sono stati interpolati su tale
curva e sono stati espressi come numero di copie di gene per ml di campione clinico. Tali risultati sono stati quindi confrontati
con quelli ottenuti con la coltura convenzionale, l’analisi microscopica per la ricerca di AFB e con il sistema BD ProbeTec ET.
Fra questi metodi è stata osservata una completa concordanza, infatti tutti i 20 campioni risultati positivi al saggio di PCR realtime erano anche positivi alla coltura e con il sistema BD ProbeTec, compresi 6 campioni con esame microscopico negativo.
Il numero di copie di DNA presente nei campioni con risultato positivo era variabile e compreso tra 1.18 e 2.64 x 106 copie/ml
ed è stato possibile evidenziare una buona correlazione con i risultati dell’esame microscopico. Inoltre, il saggio di PCR realtime rilevava correttamente come negativi 4 campioni clinici nei quali è stato possibile isolare in coltura M. avium. In conclusione, si può affermare che il nuovo saggio di PCR real-time può essere considerato un metodo sensibile, specifico ed accurato, sebbene siano necessari ulteriori studi per stabilirne definitivamente il valore diagnostico.
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32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
INFEZIONI DA PAPILLOMAVIRUS (HPV) AD ALTO RISCHIO E VALUTAZIONE QUANTITATIVA
DELL’ESPRESSIONE DI ONCOGENI VIRALI E6 ED E7 IN CAMPIONI CLINICI
P. Cattani, R. Graffeo, L. Della Monica, R. Santangelo, S. Marchetti, A. Siddu, S. Manzara, L. Masucci, G. Fadda
Istituto di Microbiologia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma
Le infezioni da Papillomavirus rappresentano le più frequenti infezioni virali a trasmissione sessuale. La diagnosi microbiologica si basa esclusivamente sulla determinazione e tipizzazione del DNA virale nella lesione. La persistenza delle infezioni da
HPV, in particolare da genotipi ad alto rischio, rappresenta uno dei principali fattori di rischio nello sviluppo del carcinoma della
cervice. L’espressione di alcuni geni virali precoci è strettamente associata alla proliferazione cellulare e, in particolare, agli
oncogeni E6 ed E7 è stato assegnato un ruolo fondamentale nel processo di trasformazione e mantenimento del fenotipo neoplastico.
Nella valutazione del rischio di evoluzione maligna della lesione, il valore predittivo di una positività per DNA virale è relativamente basso in quanto molte delle lesioni da HPV ad alto rischio regrediscono in seguito alla risposta immunologia dell’ospite e solo in una piccola percentuale di casi la lesione evolve verso la malignità.
In questo lavoro viene descritta la realizzazione di una metodica di valutazione quantitativa, mediante Real-time RT-PCR,
dell’RNA virale espressione degli oncogeni E6 ed E7 di HPV 16 e 18, i genotipi ad alto rischio di più frequente riscontro.
A questo scopo, è stata messa a punto una multiplex RT-PCR per la ricerca contemporanea degli RNA messaggeri di E6 ed E7
dei due HPV in studio. I campioni positivi per RNA di uno od entrambi i virus sono stati quindi sottoposti ad una determinazione quantitativa mediante Real-time RT-PCR. Sono stati analizzati 50 campioni clinici, costituiti da cellule esfoliate della cervice uterina, ricercando in parallelo sia il DNA, con genotipizzazione per HPV a basso ed alto rischio, sia gli mRNA di E6 ed
E7 degli HPV 16 e 18.
I risultati finora ottenuti dimostrano come la presenza di DNA virale non sia necessariamente associata all’espressione di mRNA
precoci, indicando probabilmente uno stato episomico del virus e quindi una controllata regolazione dei processi di trascrizione. Al contrario, l’espressione delle oncoproteine E6 e E7 indica una persistenza dell’infezione con perdita della normale regolazione dell’espressione genica virale.
Pertanto, la determinazione di RNA virali può essere utilizzata per la valutazione del rischio di evoluzione della lesione da HPV
ed avere un valore predittivo superiore alla sola presenza del DNA virale.
DIFFUSIONE E TROPISMO DEL GENOTIPO 2 DI ERITROVIRUS DELL’UOMO.
K.Zakrzewska, A.Rinieri , A.Azzi
Dipartimento di Sanità Pubblica, Università di Firenze
Il parvovirus umano B19, appartenente al genere Erythrovirus , è causa di infezioni acute e persistenti che possono avere conseguenze cliniche molto diverse. Le sequenze del genoma di parvovirus B19 hanno sempre mostrato un basso grado di variabilità, con divergenze inferiori al 2%. Tuttavia, l’aumento dell’attenzione verso questo virus e il potenziamento delle tecniche
diagnostiche, basate, prevalentemente, sulla ricerca del genoma virale, ha consentito di mettere in evidenza, negli ultimi anni,
l’esistenza di almeno 3 genotipi di eritrovirus dell’uomo: il genotipo 1 (prototipo parvovirus B19), il genotipo 2 (prototipo Lali)
e il genotipo 3 (prototipo V9). Il ceppo Lali, segnalato per la prima volta nel 2002, è caratterizzato da una divergenza del 27%
nei confronti delle sequenze del parvovirus B19 a livello del promotore p6 e da uno spiccato tropismo cutaneo. Allo scopo di
chiarire la diffusione di questo nuovo genotipo nella popolazione e nell’organismo e il suo eventuale ruolo eziopatogenetico,
abbiamo condotto uno studio retrospettivo per la ricerca del virus in campioni clinici di diversa provenienza. Per la ricerca del
genoma virale sono state usate PCR con primers specifici per B19 e con primers specifici per il genotipo 2. Sono stati analizzati campioni di cute da pazienti con patologie potenzialmente associate all’infezione e anche da controlli sani, biopsie osteomidollari, biopsie sinoviali e un gruppo di sieri IgM positivi e/o PCR positivi per B19 (genotipo 1). E’ stata quindi analizzata
la sequenza del promotore dei ceppi di genotipo 2, così individuati. I risultati ottenuti indicano una diffusione del nuovo genotipo solo di poco inferiore a quella del genotipo 1, classico, negli stessi campioni. Indicano inoltre che il tropismo del genotipo 2 si estende anche agli altri tessuti analizzati in questo studio e che il virus può anche essere presente in circolo. Frequenti
sono i casi di confezione da entrambi i genotipi.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
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PCR QUANTITATIVA-COMPETITIVA (QC-PCR) PER VALUTARE LA CARICA VIRALE DEL
PARVOVIRUS UMANO B19
Chiara Merlino, Massimiliano Bergallo, Samantha Mantovani, Roberta Daniele,
Licia Peruzzi*, Rossana Cavallo
Dip. di Sanità Pubblica e Microbiologia, SCDU Virologia, Università di Torino, *UOA Nefrologia, Az. Osp. OIRM-S.Anna,
Torino
Nei pazienti immunocompromessi, il parvovirus umano B19 può persistere per molti mesi o addirittura anni, a causa della inefficace risposta immunitaria umorale e/o cellulare. Le infezioni persistenti e/o ricorrenti sono caratterizzate da viremia e possono
essere associate a manifestazioni cliniche, quali l’anemia cronica. Tali situazioni possono essere trattate con le immunoglobuline del commercio (IVIG), e nei pazienti leucemici e portatori di trapianto d’organo si assiste ad una durevole remissione dell’infezione con risoluzione dell’anemia.
Dal momento che il parvovirus B19 cresce stentatamente in colture cellulari, la dimostrazione del DNA virale nel siero rappresenta il più attendibile marker di infezione attiva.
Nel presente lavoro viene descritta la messa a punto di una QC-PCR per valutare la carica del B19-DNA nel siero. La generazione del costrutto DNA competitore è basata sulla differente taglia degli ampliconi corrispondenti al bersaglio e al competitore stesso. La metodica validata prevede la coamplificazione del bersaglio e del competitore, che funge da standard interno.
Essa presenta numerosi vantaggi rispetto alle metodiche semiquantitative che utilizzano standards esterni ed inoltre non richiede
l’uso di costosi strumenti come la real-time PCR. La determinazione quantitativa del B19-DNA nei campioni di siero è stata
effettuata coamplificando il DNA estratto dai campioni in presenza di una concentrazione fissa di plasmide competitore, pari a
100 copie. Il numero di genomi/reazione è stato determinato mediante elaborazione della lettura densitometrica dell’intensità
delle bande e confronto con una curva di taratura ottenuta coamplificando una serie di 4 diluizioni del plasmide bersaglio (contenenti 10, 100, 1000, 10.000 copie, rispettivamente) in presenza della concentrazione fissa (100 copie) del plasmide competitore. La riproducibilità dei risultati è stata confermata in esperimenti multipli con quantità di plasmide bersaglio tra 10 e 10.000
copie/reazione. E’ stato inoltre studiato l’andamento dell’infezione in un paziente pediatrico trapiantato renale con grave anemia da B19. In conclusione, la metodica da noi sviluppata può essere facilmente utilizzata nel monitoraggio della carica del B19DNA per seguire le infezioni persistenti e per stabilire l’efficacia della terapia con IVIG e/o della riduzione della terapia immunodepressiva nell’eliminare il virus dall’organismo.
QUANTIFICAZIONE DEL DNA DEL POLIOMAVIRUS JC MEDIANTE PCR QUANTITATIVACOMPETITIVA (QC-PCR) NEL SIERO DI TRAPIANTATI RENALI
Massimiliano Bergallo, Chiara Merlino, Francesca Sidoti, Federica Piana,Elisa Burdino, Rossana Cavallo
Dip. di Sanità Pubblica e Microbiologia, SCDU Virologia, Università di Torino
In situazioni di prolungata diminuzione del controllo immunitario, quali l’AIDS o i trapianti d’organo, l’infezione persistente da
poliomavirus umano JC (JCV) a livello del sistema nervoso centrale può portare allo sviluppo di una patologia demielinizzante
ad esito fatale, ad andamento subacuto e progressivo: la leucoencefalopatia progressiva multifocale (PML).
Nei portatori di trapianto di rene, oltre che alla riattivazione dell’infezione latente, si può avere infezione da JCV veicolata dal
rene trapiantato. In questi pazienti, le infezioni da JCV e da poliomavirus BK (BKV), altro poliomavirus responsabile di
infezioni persistenti, possono manifestarsi indipendentemente, ma sono state descritte infezioni concomitanti e persistenza contemporanea di entrambi i virus. Come è noto, nei trapiantati renali è descritta una stretta correlazione tra il BKV e la nefropatia
interstiziale, e più recentemente, anche il JCV è stato associato a tale patologia in questi pazienti. Il monitoraggio della carica
virale, mediante PCR quantitativa, si è rivelato il miglior approccio diagnostico per seguire le infezioni da poliomavirus umani.
In questo lavoro preliminare, viene descritta la messa a punto e la validazione di una QC-PCR allo scopo di seguire l’andamento
della carica del JCV-DNA nelle urine (viruria) e nel siero (viremia) di trapiantati renali. Tale metodica è stata quindi utilizzata
nella quantificazione del JCV-DNA in 116 trapiantati renali nel primo mese dal trapianto. Ventiquattro pazienti, inoltre, sono
stati seguiti per 6 mesi e si è valutato l’andamento della carica virale del JCV in relazione a paramentri clinici quali il livello di
creatinina sierica, il rigetto del trapianto, l’insorgenza di malattie acute allo scopo di individuare i soggetti a rischio di sviluppare patologie JCV-correlate. La viruria è risultata positiva in 20/116 (17%) pazienti, mentre la viremia è risultata positiva in
4/116 (3,4%) pazienti. Non è stata riscontrata correlazione significativa tra viruria e/o viremia ed i livelli di creatinina sierica.
Nel monitoraggio dei 24 pazienti la viruria e la viremia JCV hanno presentato valori sovrapponibili a quelli riscontrati nell’immediato post-trapianto, e si è osservato un andamento fluttuante nei singoli pazienti. Sono necessari ulteriori studi per un periodo più lungo e su casi che presentano nefropatia, per valutare il ruolo del JCV in questa patologia post-trapianto.
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32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
HIV E DINTORNI
REGOLAZIONE DELL’ESPRESSIONE DI CASPASI- 10 E C-FLIP DA PARTE DELLA PROTEINA TAT
DI HIV-1 IN CELLULE JURKAT: UN POTENZIALE MECCANISMO MOLECOLARE PER INIBIRE
L’INDUZIONE DELL’APOPTOSI MEDIATA DA TRAIL
Vitone F., Fabbri G., Bon I., Schiavone P., Gibellini D., Re MC.
Sezione Microbiologia, Dipartimento Medicina Clinica Specialistica e Sperimentale Università di Bologna, Via Massarenti, 940138 Bologna
Recenti studi hanno dimostrato come TRAIL, una molecola appartenente alla superfamiglia TNF, svolga un ruolo importante
nella patogenesi dell’infezione da HIV-1 inducendo apoptosi a carico delle cellule CD4+ non infette. Successive osservazioni
hanno evidenziato il ruolo di Tat nella regolazione positiva di TRAIL a livello monocitario. Alla luce di questi dati e in riferimento a studi precedenti sull’azione di Tat nella regolazione della proliferazione e sopravvivenza cellulare, abbiamo studiato su
un modello linfoblastoide T CD4+ l’azione biologica di TRAIL in presenza di Tat, utilizzando, oltre la linea Jurkat parenterale,
linee Jurkat trasfettate stabilmente con vettori esprimenti Tat e Tat mutato in posizione 22. Queste linee cellulari sono state trattate con TRAIL e saggiate per la presenza di apoptosi. I risultati hanno dimostrato come le cellule esprimenti Tat inibissero significativamente l’induzione di apoptosi mediata da TRAIL a differenza delle cellule Jurkat parenterali o transfettate con Tat mutato. In successivi esperimenti, abbiamo analizzato la presenza di mRNA e l’espressione delle proteine di alcune molecole coinvolte nella regolazione dell’apoptosi indotta da TRAIL come caspasi-10, caspasi-8 e c-FLIP. I risultati ottenuti dimostrano che,
nelle cellule Jurkat esprimenti la proteina Tat, caspasi-10 viene regolata negativamente a livello trascrizionale mentre caspasi-8
risulta regolata negativamente nelle cellule esprimenti Tat solo a livello dell’attività enzimatica suggerendo un coinvolgimento
di c-FLIP, un fattore noto per inibire l’attivazione enzimatica della caspasi-8 tramite le sue due isoforme c-FLIPL e c-FLIPs.
L’analisi dei trascritti e dell’espressione proteica di c-FLIP ha permesso di osservare un aumento nelle Jurkat esprimenti Tat
di entrambe le isoforme. I dati ottenuti mostrano uno scenario complesso dove l’induzione dell’apoptosi, mediata da
TRAIL, viene contrastata da diversi meccanismi Tat-dipendenti come la regolazione dell’espressione di caspasi-10 e di cFLIP suggerendo che Tat possa promuovere in vivo la sopravvivenza delle cellule infette nella fase precoce dell’infezione,
inibendo l’apoptosi innescata da molecole quali TRAIL che potrebbero così interferire sul corretto svolgersi della replicazione e della maturazione virale.
L’INDUZIONE DI APOPTOSI NEI MACROFAGI UMANI È MEDIATA DA CEPPI X4, E NON R5, DI
HIV-1
Aquaro S.1, Ranazzi A.1, Bellocchi MC.1, Schols D.2, Garaci E.1, Caliò R.1, Perno CF.1
1Dipartimento di Medicina Sperimentale e Scienze Biochimiche, Università di Roma Tor Vergata; 2Rega Institute, Università
Cattolica di Lovanio, Belgio
Il legame di HIV-1 con il corecettore CXCR4 (X4) è associato con una serie di risposte funzionali, inclusa l’induzione di apoptosi, nelle differenti cellule bersaglio del virus. Il ruolo di X4 è ancora poco noto nell’infezione dei monociti-macrofagi (M/M),
che sono un reservoir cruciale di HIV-1. I M/M esprimono sia X4 che CCR5 (R5), ma l’infezione produttiva è stata osservata
esclusivamente con ceppi di HIV-1 che usano R5 (ceppi R5) come corecettore.
I M/M sono stati ottenuti da linfomonociti del sangue periferico di donatori volontari sani ed infettati con diversi ceppi X4, R5
e X4/R5 di HIV-1 sia adattati in laboratorio che isolati clinici. La produzione di p24 gag Ag è stata misurata nei sovranatanti
delle colture cellulari in tempi differenti. La frammentazione del DNA (apoptosi) è stata calcolata attraverso analisi al FACS.
L’attivazione genica è stata determinata tramite metodica di microarray e l’attivazione delle MAPK per mezzo di western blotting.
Una produzione virale stabile ed elevata è stata ottenuta infettando i M/M con ceppi R5, mentre con ceppi X4 si è ottenuta un’infezione abortiva. I ceppi X4 hanno tutti indotto apoptosi nei M/M con un picco >50% (p<0.001) al giorno 10 dopo l’infezione
(in vitro solo il 50-60% dei M/M è infettato). Di contro, allo stesso tempo, l’apoptosi nei M/M non infettati o infettati con ceppi
R5 è stata di 4.2% e 4.1%, rispettivamente. Tutti i ceppi X4, ma non i ceppi R5, hanno indotto l’attivazione di p38 MAPK e
Erk2 MAPK a 10’ e 30’ dopo l’infezione. Sia l’apoptosi sia l’attivazione delle MAPK sono state inibite completamente da
AMD3100 (potente inibitore antagonista di X4). I ceppi X4/R5 hanno mostrato un comportamento intermedio nell’induzione di
apoptosi (aumentata in presenza di TAK-779, inibitore specifico di R5; completamente abolita da AMD3100). L’analisi al
microarray ha evidenziato che i ceppi X4 attivano nei M/M geni pro-apoptotici e modulano l’espressione di oncogeni a 24 ore
dall’infezione. Viceversa, i ceppi R5 non modulano l’espressione di questi geni.
I risultati ottenuti gettano nuova luce sui meccanismi biologici legati al fenomeno di sopravvivenza cellulare dei M/M durante
l’infezione da HIV-1. L’apoptosi dei M/M dopo infezione con ceppi X4 e la conseguente deplezione di questi virus dai reservoir produttivamente infettati, può spiegare il rilevante ruolo patogenetico di R5 e dei ceppi R5 di HIV-1 in tutte le fasi (tranne
la terminale) della malattia.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
61
D-ALA-PEPTIDE T-AMIDE (DAPTA) INIBISCE LA REPLICAZIONE VIRALE DI CEPPI R5 DI HIV-1
IN MACROFAGI PRIMARI UMANI E PROTEGGE LE CELLULE NEURONALI DALL’APOPTOSI.
Pollicita M.1, Pert C.B. 2, Ruff M. 2, Ranazzi A. 1, Perno C.F. 1, Aquaro S. 1.
1Cattedra di Virologia Dipartimento di Medicina Sperimentale e Scienze Biochimiche Università di Roma”Tor Vergata”, 2
Dep.of Physiology and Biophysics, School of Medicine, Georgetown University, Washington, USA.
I monociti-macrofagici (M/M) rappresentano un reservoir strategico di HIV-1 durante tutte le fasi dell’infezione. Una volta
infettati da HIV-1, i M/M sopravvivono per un lungo periodo di tempo producendo e rilasciando grandi quantità di particelle
virali infettanti, trasmettendo il virus ad altre cellule non infette e inducendo effetti citopatici ed apoptosi in diversi tipi cellulari. I M/M possono essere produttivamente infettati da ceppi di HIV-1 che usano il corecettore virale CCR5 (R5), in aggiunta al
CD4, per il legame con la gp120 (ceppi R5). R5 è considerato un bersaglio cruciale per l’inibizione dell’entrata di HIV-1 nei
M/M. Tra i composti in grado di competere col legame al CCR5 abbiamo rivolto la nostra attenzione al D-Ala-Peptide T-Amide
(DAPTA), disegnato sulla sequenza di gp120 (aminoacidi 185-192). Il DAPTA agisce come un inibitore antagonista selettivo
dell’entrata, competendo con la gp120 al legame per il CCR5. L’attività antivirale del composto è stata studiata in M/M ottenuti da sangue periferico di donatori sieronegativi ed infettati in vitro con ceppi R5 di HIV-1. Inoltre, è stata analizzata la capacità di DAPTA nell’inibire l’apoptosi in cellule neuronali immortalizzate mediata dai M/M infettati da HIV-1. Il DAPTA (concentrazione 10-13) ha mostrato una potente attività antivirale nei M/M infettati con diversi ceppi R5 (80% di inibizione della
replicazione virale rispetto ai controlli, misurata dal rilascio di p24 gag Ag nei supernatanti delle cellule infette. p: 0.001).
L’analisi al FACS in cellule neuronali (SK-N-SH e CHP-100) ha mostrato induzione di apoptosi al 5 e al 6 giorno di esposizione a ceppi R5 di HIV-1 prodotti dai M/M infetti. Il DAPTA (concentrazione 10-12), ha inibito l’apoptosi dell’ 80% e del 91%
nelle SK-N-SH e nelle CHP-100, rispettivamente (p: 0001), mentre il TAK-779 ( antagonista selettivo di R5) ha inibito l’apoptosi neuronale solo del 30% rispetto ai controlli. Alla luce dei risultati ottenuti, possiamo concludere che lo sviluppo di nuovi
composti come il DAPTA, in grado di regolare l’entrata di HIV-1 nei M/M, può essere di grande interesse clinico nel prevenire la replicazione virale nei reservoir cellulari produttivi di HIV-1 e la conseguente patogenesi del sistema nervoso centrale.
RUOLO DEGLI INIBITORI DELLA PROTEASI SULLA MATURAZIONE, LA PRODUZIONE,
L’INFETTIVITÀ E LA CAPACITA’ PATOGENETICA DI HIV-1 IN MACROFAGI UMANI DOPO
RIMOZIONE DEL FARMACO.
Ranazzi A., Guenci T., Modesti A., Di Santo F., Giannella S., Saccomandi P., Balestra E., Caliò R., Aquaro S., Perno C.F.
Dipartimento di Medicina Sperimentale e Scienze Biochimiche, Università di Roma Tor Vergata.
Gli inibitori della proteasi (PI) sono gli unici farmaci in grado di inibire la produzione di HIV-1 in modo clinicamente rilevante in cellule cronicamente infettate come i macrofagi (M/M). L’obiettivo del lavoro è stata la valutazione della ripresa della produzione virale nei M/M, principale reservoir cellulare produttivamente infettato da HIV-1, nel momento in cui il trattamento con
PI venga sospeso ed, inoltre, verificare l’effetto di questa sospensione sulla trasmissione dell’infezione ai linfociti del sangue
periferico (PBL), nonchè degli effetti citopatici prodotti da fattori virali e cellulari. A tal scopo, sono stati infettati in vitro M/M
di donatori volontari sani e trattati con PI (amprenavir e indinavir). Successivamente, il farmaco è stato rimosso ed è stata valutata la ripresa della produzione virale, la morfologia del virus, l’infettività e la capacità proapoptotica del virus e dei sovranatanti cellulari. La ripresa della produzione virale è avvenuta circa 6 ore dopo la sospensione del trattamento come mostrato dalla
misurazione della p24 gag rilasciata ai M/M nel terreno di coltura. Di contro, a 24 ore dalla sospensione, l’inibizione della replicazione virale era ancora al 50% rispetto ai controlli e l’infettività del virus misurata come TCID50/ml restava 1 logaritmo al di
sotto rispetto al controllo a distanza di 7 giorni dalla sospensione. L’analisi delle proteine (western blotting), mostrava che la
maturazione del precursore Gag-Pol risultava ancora inibita nei M/M trattati a 24 ore dalla sospensione sebbene con un rapporto p24/p55 più elevato rispetto al trattamento continuato. A conferma di questi dati, la microscopia elettronica ha evidenziato un
accumulo di particelle virali immature nei vacuoli citoplasmatici dei M/M. Inoltre, l’apoptosi misurata in PBL cocoltivati con
i M/M risultava inibita del 68.8% e del 79.7% (comparata con i controlli) ai giorni 3 e 6 dopo la sospensione del trattamento,
rispettivamente.
Nel loro complesso, i dati ottenuti suggeriscono che i PI possono avere un effetto antivirale rilevante ed a lungo termine nei
reservoirs cellulari di HIV-1 anche dopo sospensione del trattamento, come può verificarsi in clinica in caso di interruzioni terapeutiche o di riduzione delle concentrazioni ottimali plasmatiche e liquorali, e nel contempo inibire gli effetti citopatici su cellule viciniori.
62
32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
ATTIVITA’ DI UN PEPTIDE SINTETICO KILLER SUL CICLO REPLICATIVO DI HIV.
Magliani W., Casoli C.#, Pilotti E.#, Conti S., Polonelli L.
Sezione Microbiologia, Dipartimento di Patologia e Medicina di Laboratorio e #Dipartimento di Clinica Medica, Nefrologia e
Scienze della Prevenzione - Università degli Studi di Parma
In precedenti studi, era stata dimostrata una significativa attività microbicida in vitro e terapeutica di un decapeptide sintetico
(KP), ingegnerizzato sulla base della sequenza di un anticorpo antiidiotipico ricombinante killer, nei confronti di importanti
microrganismi patogeni, anche in AIDS, quali Candida albicans, Pneumocystis carinii e Mycobacterium tubercolosis. Poichè
KP ha dimostrato di possedere una elevata omologia di sequenza con una porzione della proteina gp160 di HIV-1, in questo studio sono stati valutati attività e potenziale meccanismo d’azione di KP, quale potenziale inibitore dell’infezione virale. Saggi
preliminari condotti su PBMC trattati con KP hanno consentito di dimostrare una assenza di effetti citotossici fino a 50 µg di
peptide. L’attività di KP nei confronti della replicazione di HIV-1 è stata valutata su colture di PBMC, ottenuti da un paziente
in fase di infezione acuta, coltivati in presenza di IL-2 e KP (1 o 10 µg) o di un peptide “scramble” (SP), privo di attività antimicrobica, utilizzato alle stesse concentrazioni come controllo, o di AZT (1 o 10 µM). La cinetica di produzione dell’RNA virale nei controlli ha mostrato la comparsa di picchi iniziali entro 5-10 giorni, con successiva diminuzione legata alla perdita di cellule T CD4+, indotta dal virus. La replicazione virale in presenza di entrambe le concentrazioni di KP si è dimostrata parzialmente inibita (in media, <44%), anche più significativamente di quanto osservato con AZT. Una analoga attività inibente è stata
osservata su PBMC umani infettati in vitro con due differenti ceppi di HIV-1 (IIIB e BaL-1) e trattati con KP, come valutato
rilevando la produzione di p24 dopo 9 giorni dall’infezione. La produzione di entrambi i ceppi virali è stata significativamente
inibita dal trattamento con KP a concentrazioni inferiori a 33 µg/ml. Analisi citofluorimetriche condotte su PBMC e cellule
esprimenti costitutivamente CCR5, trattate o non con KP o SP, hanno consentito di dimostrare che KP induce una marcata diminuzione delle molecole di CCR5 espresse sulla superficie cellulare. Queste osservazioni suggeriscono che KP potrebbe agire
come antagonista del co-recettore di HIV-1, inibendo penetrazione e successiva replicazione del virus.
ATTIVITÀ DELLA TIMIDINA CHINASI E DEOSSICITIDINA CHINASI IN CELLULE MONONUCLEATE
DI SANGUE PERIFERICO PROVENIENTI DA PAZIENTI HIV POSITIVI E MAI SOTTOPOSTI A
TRATTAMENTO ANTIRETROVIRALE
O. Turriziani 1, N. Gianotti 2, S. Parisi 3, E. Girardi 4, G. Iaiani 5, L. Antonelli 5, P. Pagnotti 1, A. Lazzarin 3, G. De Vito 1
and G. Antonelli 1.
1 Dip.to Med. Sper. e Patologia, Sez. Virologia, University “La Sapienza”, Roma; 2 Clinica delle Malattie Infettive, Università
Vita-Salute San Raffaele, Milano; 3 Istituto di Immunologia e delle Malattie Infettive, Università di Verona; 4 IRCCS L.
Spallanzani; 5 Dip.to di Malattie Infettive, Policlinico “Umberto I”, Roma.
Obiettivo Verificare se esiste una variabilità interindividuale dell’attività di alcuni enzimi cellulari, quali la timidina chinasi (TK) e la deossicitidina
chinasi (dCK), coinvolti nel primo passo della fosforilazione di alcuni analoghi nucleosidici.
Metodi Lo studio è stato eseguito su 46 campioni di cellule mononucleate di sangue periferico (PBMC) provenienti da altrettanti soggetti HIV positivi e “naive” al trattamento antiretrovirale e su 10 campioni di PBMC provenienti da donatori sani. Questi ultimi, al momento del prelievo, non dovevano avere assunto farmaci e non dovevano presentare alcun segno di infezione. La attività della TK e della dCK nei PBMC è stata valutata mediante saggio enzimatico. Nei soggetti HIV positivi è stato determinato il numero dei linfociti CD4+ e il numero di copie di HIV-RNA nel plasma.
Risultati I dati ottenuti , utilizzando sia l’AZT che la timidina come substrato della TK, dimostrano che esiste una estesa variabilità interindividuale della
attività della TK solo nel gruppo dei soggetti HIV positivi (HIV positivi: CV= 87.2; donatori sani: CV = 20.5). Inoltre l’ attività di questo enzima, nei
soggetti infettati da HIV, risulta essere significativamente maggiore rispetto alla attività enzimatica osservata nel gruppo di controllo [HIV positivi: attività della TK (media ±SD)=0.39±0.34 U/mg di proteina; donatori sani: attività della TK (media ±SD)=0.12±0.025 Umg di proteina; p<0.005].
Per quanto riguarda i dati relativi alla attività della dCK, è stato possibile documentare, anche in questo caso, una variabilità interindividuale solo nel
gruppo di individui HIV positivi (HIV positivi: CV =55.8; donatori sani: CV = 15.0), ma, al contrario di quanto osservato per la attività della TK, la
attività della dCK nei soggetti infettati da HIV è minore rispetto alla attività enzimatica rilevata nel gruppo di controllo [HIV positivi: attività della
dCK (media ± SD) = 2.90 ± 1.62 U/mg di proteina; donatori sani: attività della dCK (media ± SD) = 3.94 ± 0.59 U/mg of protein; p < 0.01].
Analisi statistiche eseguite al fine di verificare l’esistenza di una correlazione tra i livelli di attività di questi enzimi e i valori di alcuni marcatori di infezione
hanno rivelato che i livelli di attività della TK e della dCK non correlano né con i valori di HIV-RNA plasmatico né con il numero dei linfociti CD4+.
Conclusioni L’elevata variabilità della attività della TK e della dCK, osservata nei soggetti HIV positivi, suggerisce che l’attività di enzimi che hanno
un ruolo chiave nella attivazione di alcuni analoghi nucleosidici può variare tra un individuo e l’altro.
Riteniamo che lo studio dei fattori virali e /o cellulari, che contribuiscono a questa variabilità, e dei loro effetti sulla risposta alla terapia antiretrovirale potrebbe essere di ausilio per ottimizzare la terapia dell’infezione da HIV.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
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MISCELLANEA
INTERVENTO DI BIORESTAURO SULL’ARA DELLA PIETÀ RONDANINI DI MICHELANGELO
F. Cappitelli1, E. Zanardini1, G. Ranalli2, P. Abbruscato1, L. Toniolo3, C. Sorlini1
1DISTAM, Università di Milano - 2DISTAAM, Università del Molise - 3ICVBC, Politecnico di Milano
Nel settore della conservazione dei beni culturali i microrganismi possono essere impiegati per risanare alterazioni frequentemente rilevate sui materiali lapidei, come le croste ed i depositi neri, strati di solfati e nitrati, e presenza di sostanza organica di diversa provenienza. L’utilizzo di microrganismi al posto dei
tradizionali composti chimici poco selettivi, o di interventi meccanici, che possono causare danni alla superficie, viene indicato come pulitura biologica o “biorestauro”. Questa tecnologia consente interventi non distruttivi ed una maggior sicurezza ambientale, riproducendo in condizioni ottimali e controllate gli stessi processi biologici che i microrganismi compiono in natura.
Il bio-restauro prevede una prima fase di selezione di microrganismi adatti a rimuovere il materiale indesiderato. Questi batteri appartengono alle collezioni
internazionali di microrganismi o sono isolati da matrici ambientali, in particolare in questo caso manufatti lapidei. L’identificazione e la caratterizzazione dei
batteri isolati dall’ambiente deve essere eseguita in modo accurato e preciso per avere l’assoluta certezza della loro non patogenicità.
L’intervento è stato eseguito sul piano superiore dell’ara su cui poggia la statua della Pietà dove erano presenti concrezioni grigio-nere saldamente legate alla
pietra sottostante caratterizzate chimicamente dall’Istituto ICVBC del Politecnico di Milano come un impasto di calcite e gesso in rapporto 2:1. Per questo intervento di biorimozione i batteri più adatti sarebbero i batteri solfato-riduttori e i solubilizzanti il carbonato di calcio. Si è scartata subito l’ipotesi di utilizzare
questi ultimi in quanto dopo aver rimosso l’incrostazione avrebbero potuto attaccare anche la pietra integra sottostante costituita da calcite. La scelta del ceppo
desulfuricante è caduta su Desulfovibrio vulgaris sub. vulgaris (ATCC 29579) già sperimentato da noi precedentemente e che ha dimostrato alte rese di riduzione dei solfati a H2S, che si disperde nell’atmosfera. Il terreno colturale impiegato per la crescita del microrganismo era il 63 DSMZ Desulfovibrio medium
da noi parzialmente modificato con l’esclusione del ferro; inoltre la brodocoltura veniva filtrata per eliminare l’eventuale presenza di solfuro di ferro residuo,
che forma dei cristalli neri, e che potrebbe macchiare la superficie da trattare. Le cellule cresciute su questo terreno sono state centrifugate e poi risospese in
tampone fosfato con sodiolattato, pH 7, che funge da donatore di elettroni ed è indispensabile per la riduzione dei solfati a H2S. Il terreno era privo della fonte
azotata per impedire la crescita batterica. La sospensione batterica così ottenuta veniva addizionata a polvere di carbogel che, trasformandosi in gel, intrappolava al suo interno e sulla superficie le cellule batteriche. Il gel attivato veniva applicato con una spatola sulla superficie alterata dall’incrostazione. Per creare
condizioni di anaerobiosi adatte per l’attività dei solfatoriduttori il sistema veicolante colonizzato veniva protetto da pellicole impermeabili all’ossigeno.
Terminata l’applicazione dopo 24-30 ore, l’impacco è stato completamente rimosso. Sono stati programmati controlli mediante tamponi di velluto sterili della
superficie lapidea trattata per confermare la completa rimozione dei microrganismi usati nel bio-restauro.
Il risultato riscontrato è stato esattamente in accordo con l’obiettivo atteso. Infatti una volta rimossi i solfati, anche la calcite residua non opponeva più resistenza e si poteva eliminare con facilità e delicatezza con un tampone di cotone. Inoltre è stata anche programmata un’analisi dell’aria mediante SAS al fine di
valutare la carica microbica dell’aria per definire l’eventuale rischio di colonizzazione dell’opera da parte di microrganismi e spore.
BIORIMOZIONE SELETTIVA DI METALLI PESANTI CON CIANOBATTERI PRODUTTORI DI
ESOPOLISACCARIDI
E. Micheletti e R. De Philippis
Dipartimento di Biotecnologie Agrarie, Unversità degli Studi, Firenze.
La rimozione di ioni metallici da soluzioni acquose mediante l’uso di microrganismi può essere utilizzata sia per la riduzione
della concentrazione di metalli inquinanti presenti in acque reflue industriali che per il recupero di metalli di valore economico
da scarti di lavorazione. A tal fine, è utile poter disporre di microrganismi caratterizzati dalla capacità di rimuovere gli ioni
metallici anche in sistemi multimetallo o dotati di un elevato grado di affinità specifica verso un singolo metallo. Tra i microrganismi che possono essere efficacemente utilizzati nella biorimozione, i cianobatteri produttori di esopolisaccaridi presentano
promettenti prospettive di impiego, essendo caratterizzati dalla presenza di un elevato numero di gruppi funzionali carichi negativamente sia sulla parete cellulare che sul rivestimento polisaccaridico esocellulare. Dal momento che la rimozione differenziata dei metalli è dovuta sia alle diverse caratteristiche dei metalli che a quelle del materiale biosorbente, è stato condotto uno
studio sulla capacità di rimozione di tre metalli pesanti (cromo, nichel e rame) da parte di cianobatteri produttori di esopolisaccaridi. Sono stati utilizzati quattro cianobatteri unicellulari (Cyanothece CE 4, PE 14, TI 4, VI 22), e due filamentosi (Nostoc
PCC 7936 e Cyanospira capsulata) caratterizzati da capsule polisaccaridiche di diverso spessore e di diversa composizione
monosaccaridica e carica anionica. Aliquote delle colture cianobatteriche, pretrattate con HCl 0,1 M per ottenere i gruppi funzionali anionici del polisaccaride in forma protonata, sono state disperse nelle soluzioni contenenti gli ioni metallici a concentrazione nota e la quantità di metallo rimossa è stata determinata per spettrofotometria ad assorbimento atomico. Tutti i ceppi
saggiati hanno mostrato ottime capacità di biorimozione, facendo registrare valori di rimozione molto interessanti per alcuni dei
metalli sperimentati. Inoltre, due ceppi hanno mostrato una notevole affinità nei confronti di specifici metalli: il ceppo TI 4 si è
distinto per l’elevata affinità verso gli ioni cromo e Cyanospira capsulata verso il rame; Cyanothece CE 4 ha mostrato invece
un elevato potere biosorbente nei confronti di tutti i metalli saggiati. Cyanospira capsulata ha mostrato una buona capacità di
biorimozione in sistemi multimetallo rame, zinco, nichel. Si può quindi concludere che alcuni dei ceppi studiati sono caratterizzati da una notevole selettività nei confronti di alcuni metalli e dalla capacità di operare in sistemi multimetallo.
64
32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
CANDIDATUS GLOMERIBACTER GIGASPORARUM: UN BATTERIO ENDOCELLULARE DI FUNGHI MICORRIZICI ARBUSCULARI
E. Lumini, V. Bianciotto, P. Bonfante,
Dipartimento di Biologia Vegetale dell’Università di Torino and IPP-CNR, Torino, I;
[email protected]
Al contrario di ciò che avviene nel regno animale o vegetale, dove molti batteri completano il loro ciclo vitale all’interno di cellule eucariotiche, i funghi offrono un numero limitato di esempi di interazioni con endobatteri. I funghi micorrizici arbuscolari (AM) sono organismi unici in questo senso poiché rappresentano una nicchia specializzata per alcuni batteri bastoncellari non
coltivabili.
Tali batteri sono stati osservati in numerosi isolati di Gigasporaceae raccolti in natura e durante ogni fase del loro ciclo cellulare: spore, ife germinanti e simbiotiche, cellule ausiliarie. Indagini molecolari condotte sui geni ribosomali 16S e 23S ci hanno
fornito un quadro d’insieme delle caratteristiche di endobatteri di specie AM provenienti da aree geografiche diverse. Sulla base
delle sequenze ribosomali ottenute, tali endobatteri sono stati assegnati ad un nuovo taxon: Candidatus Glomeribacter gigasporarum (Bianciotto et al. IJSEM 2003).
Lo stato di biotrofismo obbligato sia dei funghi AM che dell’endobatterio Candidatus G. gigasporarum ci ha spinto a mettere a
punto un sistema particolare per poter studiare in modo più approfondito le modalità di trasmissione di questi endobatteri, in
particolare nel fungo micorrizico arbuscolare Gigaspora margarita BEG34. Tale modello, basato su radici trasformate di carota che sono state colonizzate da singole spore di Gi. margarita, ci ha permesso di dimostrare, in un sistema axenico privo di
rischi di contaminazione orizzontale, che gli endobatteri sono trasmessi verticalmente. L’utilizzo di primer specifici, disegnati
sui geni ribosomali 16S e 23S di Candidatus G. gigasporarum, il sequenziamento diretto e l’analisi RFLP dello spaziatore intergenico 16S-23S ci hanno consentito, inoltre, di seguire la trasmissione degli endobatteri da una generazione all’altra di spore e
di verificare l’identità e l’omogeneità della popolazione batterica di Candidatus G. gigasporarum.
Poichè tutti i tentativi di far crescere Candidatus G. gigasporarum sono stati fino ad oggi privi di successo, la nostra conclusione è che questo endobatterio rappresenti un ‘unculturable organism’ ed in particolare un endosimbionte con le tipiche caratteristche dei ‘resident genome’. Tale affermazione suggerisce che il dialogo molecolare che si instaura tra le diverse componenti
della simbiosi micorrizica arbuscolare sia ancora più complesso di quanto immaginato fin’ora.
RUOLO DELLA MOTILITÀ SWARMING NELL’ ENDOFTALMITE DA BACILLUS CEREUS
Emilia Ghelardi, Francesco Celandroni, Sara Salvetti, Eva Parisio, Michelle C. Callegan1, Sonia Senesi
Dipartimento di Patologia Sperimentale, Biotecnologie Mediche, Infettivologia ed Epidemiologia, Università di Pisa.
1Department of Ophthalmology, Health Sciences Center, University of Oklahoma
L’endoftalmite batterica è una grave infezione del segmento posteriore dell’occhio conseguente a traumi, operazioni chirurgiche così come a diffusione metastatica di batteri nei tessuti oculari a seguito di un evento batteriemico. Bacillus cereus è causa
di una forma grave di endoftalmite che, frequentemente, causa perdita della visione in 24-48 ore. La virulenza di questo microrganismo è stata tradizionalmente attribuita alla produzione di tossine durante la moltiplicazione batterica nei tessuti oculari. B.
cereus, infatti, è capace di secernere una grande varietà di tossine ed enzimi che contribuiscono alla distruzione dei tessuti oculari cui si assiste durante il progredire dell’endoftalmite.
In un precedente studio è stato dimostrato che B. cereus produce più elevate quantità di alcuni fattori di virulenza durante il differenziamento in cellule swarm. Queste cellule sono il risultato di un complesso processo differenziativo che porta alla produzione di cellule molto lunghe, densamente flagellate e capaci di una forma di motilità coordinata, nota come swarming: lo swarming, che favorisce rapida diffusione batterica nell’ambiente naturale, può contribuire anche alla colonizzazione delle superfici
mucose da parte di batteri patogeni.
Per valutare se il differenziamento swarming contribuisse all’evoluzione dell’endoftalmite indotta da B. cereus, è stato allestito
un modello sperimentale di endoftalmite nel coniglio, utilizzando il ceppo NCIB8122 di B. cereus ed un suo mutante (MP01),
difettivo nella motilità swarming ma capace di produrre simili quantità di fattori di virulenza rispetto al ceppo parentale. La patogenicità è stata valutata mediante indagini istologiche, elettroretinografiche, analisi della presenza di cellule infiammatorie e
quantificazione batterica nei tessuti dell’occhio.
I risultati ottenuti hanno dimostrato che entrambi i ceppi causano completa perdita delle funzioni retiniche in 12 ore ed hanno
un simile tasso di moltiplicazione nell’umor vitreo; ciò nonostante, solamente il ceppo parentale è capace di raggiungere la
camera anteriore dell’occhio determinando accumulo di fibrina e di cellule, ifemia ed ascessi corneali. Questi risultati dimostrano che lo swarming, anche se non è coinvolto nella distruzione retinica, ha un ruolo fondamentale nella rapida colonizzazione dei tessuti dell’occhio da parte di B. cereus.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
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CAMBIAMENTI MORFOLOGICI E DELLO STATO OSSIDO RIDUTTIVO DEI CEPPI RESISTENTI
DI CANDIDA ALBICANS
Angiolella1 L. , A. Ciocci1, M.A. Bonito1, C. Passariello 1, B.Maras2, A.Stringaro3, A.T.Palamara1.
1Istituto di Microbiologia, Facoltà di Farmacia, Univ. “La Sapienza” Roma. - 2Dipartimento di Biologia Molecolare, Univ.
“La Sapienza” Roma. - 3 Dipartimento di Tecnologia e salute. Istituto Superiore di Sanità. Roma
E’ stato recentemente dimostrato che numerosi farmaci antimicotici, diversi per struttura e meccanismo d’azione, causano una
modulazione delle principali proteine legate al glucano (GAP) nella parete cellulare in ceppi sensibili di Candida albicans. Al
contrario, nei ceppi resistenti le GAP non presentano alcun tipo di modulazione anche dopo trattamento con i farmaci ad alte
dosi.1-2 Studi condotti “in vivo” hanno mostrato, inoltre, un insospettato aumento della virulenza nei ceppi resistenti di C.albicans. Al fine di individuare il significato funzionale delle GAP nella risposta ai farmaci antimicotici e studiare i meccanismi
coinvolti nella loro modulazione, abbiamo valutato la presenza di eventuali modificazioni morfologiche della parete cellulare in
ceppi sensibili e resistenti di C.albicans mediante microscopia elettronica ed a fluorescenza. L’eventuale ruolo dello stress ossidativo nei fenomeni osservati è stato studiato misurando i livelli intracellulari di glutatione (GSH, principale antiossidante) in
risposta ai farmaci, sia nelle cellule sensibili che resistenti. Osservazioni al microscopio elettronico a scansione (SEM) o a trasmissione (TEM) sulle cellule resistenti hanno evidenziato modificazioni morfologiche con aumento delle dimensioni, alterazioni della formazione del setto e dell’organizzazione della parete cellulare nello strato più esterno. Un’alterata organizzazione
dello strato più esterno della parete è stato confermato anche mediante marcatura delle cellule con ConA-fluoresceinata che si
lega ai residui mannosilati della parete. Lo studio dello stato redox intracellulare in ceppi sensibili e resistenti ha messo in evidenza che questi ultimi sono dotati di livelli significativamente più elevati di GSH, cui corrisponde un’aumentatata attività dell’enzima GSH sintetasi. I dati ottenuti dimostrano che i ceppi resistenti sono caratterizzati da modificazioni strutturali ed alterazioni dello stato redox che possono giocare un ruolo importante nell’aumento della virulenza “in vivo”.
Bibliografia
1. Angiolella, L., Facchin M., Stringaro A., Maras B., Simonetti N. and Cassone A. The Journal of Infection Disease : 1996,
173, 684-690.
2. Angiolella L., Micocci M.M., D’Alessio S., Girolamo A, Maras B., Cassone A.. Antimicrobial agents and Chemotherapy
2002, 46, 1688-94.
IL GENE CNAFR1, CHE CODIFICA PER UN ATP BINDING CASSETTE (ABC) TRANSPORTER, È
COINVOLTO SIA NELLA RISPOSTA IN VIVO ALLA TERAPIA CON FLUCONAZOLO CHE NELLA
VIRULENZA DI CRYPTOCOCCUS NEOFORMANS
B. Posteraro, M. Sanguinetti, M. La Sorda, B. Fiori, R. Santangelo, R. Torelli e G. Fadda
Istituto di Microbiologia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma
Nel nostro Istituto è stato identificato e caratterizzato un gene di Cryptococcus neoformans, denominato CnAFR1, che codifica
per una pompa di efflusso della famiglia degli ABC trasporter, che svolge un ruolo significativo nella resistenza in vitro al fluconazolo (FLC). Nel presente studio abbiamo voluto investigare se tale gene fosse implicato anche nella risposta in vivo alla
terapia con FLC. A tale scopo abbiamo valutato la risposta alla terapia con fluconazolo di topi infettati con tre diversi ceppi di
C. neoformans, BPY22.17 (resistente a FLC, MIC=64 µg/ml), BPY22 (sensibile a FLC, MIC=2 µg/ml) e cnafr1 (in cui il gene
CnAFR1 è stato deleto, sensibile a FLC, MIC=4 µg/ml). I risultati hanno mostrato che la terapia con FLC era in grado di prolungare in modo significativo (P<0.001) la sopravvivenza degli animali infettati sia con BPY22 che con cnafr1 rispetto a
BPY22.17. Successivamente, abbiamo voluto studiare se tale gene fosse implicato anche nella virulenza di C. neoformans e
abbiamo costruito una coppia di ceppi modificati geneticamente a partire da BPY22, uno in cui il nostro gene fosse stato deleto e l’altro in cui fosse espresso a livelli paragonabili a quelli riscontrati in BPY22.17. Per far ciò, il gene è stato distrutto in
BPY22, utilizzando un costrutto in cui un frammento del gene è stato sostituito da una cassetta genica che conferisce la resistenza alla nurseotricina, con cui è stato trasformato BPY22 per ottenere il ceppo BPY444. Per indurre la superespressione,
CnAFR1 è stato posto sotto il controllo del promotore forte gpd1 di C. neoformans e trasformato sempre in BPY22, ottenendo
il ceppo BPY445. Tali ceppi sono stati saggiati sia per la sensibilità a FLC, risultando BPY444 ipersensibile (MIC=0.5 µg/ml)
e BPY445 resistente (MIC=32 µg/ml), sia per l’espressione di CnAFR1, che in BPY444 risultava assente e in BPY445 paragonabile a quella di BPY22.17. Tali ceppi sono stati quindi saggiati in un modello murino di criptococcosi sistemica. I topi infettati con BPY444 avevano una sopravvivenza sovrapponibile a quella di BPY22, mentre quelli infettati con BPY445 sopravvivevano significativamente di meno (P<0.05) rispetto a BPY22. Si può quindi concludere che CnAFR1 è sia coinvolto nella
risposta in vivo alla terapia con FLC che, almeno quando iperespresso, nella virulenza di questo importante patogeno fungino.
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32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
INIBIZIONE DELLA REPLICAZIONE DI VIRUS INFLUENZALI MEDIANTE TRATTAMENTO DI
CELLULE INFETTE CON UN PEPTIDE SINTETICO KILLER.
Magliani W., Conti G., Portincasa P., Conti S., Polonelli L.
Sezione di Microbiologia - Dipartimento di Patologia e Medicina di Laboratorio - Università degli Studi di Parma
In questo studio è stata valutata l’attività di un peptide sintetico (KP) nei confronti del ciclo moltiplicativo di virus influenzali.
KP è un decapeptide sintetizzato ed ingegnerizzato sulla base della sequenza di un anticorpo antiidiotipico ricombinante a singolo filamento, precedentemente prodotto, in grado di mimare, sia in vitro sia in vivo, l’attività microbicida di una tossina killer (KT) prodotta dal lievito Pichia anomala nei confronti di importanti microrganismi patogeni eucariotici e procariotici. A
monostrati confluenti di cellule (LLC-MK2, MDCK e AGMK-37RC) infettate con due diversi ceppi virali di Influenza A
(Ulster 73 ed il ceppo neurovirulento umano NWS/33/H1N1), ad una molteplicità di infezione di 20 unità formanti placca
(u.f.p.)/cellula, sono state aggiunte, subito dopo l’infezione, differenti quantità (10, 20, 40, 60, 70, 80 µg/ml) di KP o di un peptide “scramble” (SP), utilizzato come controllo. KP si è dimostrato in grado di inibire la replicazione virale, in modo dose-dipendente, con un blocco completo della produzione di particelle virali a 80 µg/ml. Infettando le cellule con un minor numero di
u.f.p., KP si è dimostrato attivo anche a concentrazioni inferiori. Saggi di emadsorbimento hanno dimostrato una significativa
riduzione delle molecole di emoagglutinina (HA) virale espresse sulla membrana delle cellule infettate e trattate con 80 µg/ml
di KP. Esperimenti di marcatura pulsata con 14C-mannoso condotti in tali condizioni hanno dimostrato una significativa riduzione della glicosilazione di HA, suggerendo un possibile meccanismo con cui KP interferisce col ciclo moltiplicativo. Tale
meccanismo potrebbe essere riferibile alla elevata omologia di sequenza di KP con parte della regione variabile di un anticorpo
neutralizzante l’attività fusogena di HA.
MOLECOLE ANTIMICROBICHE ALTERNATIVE
ATTIVITÀ ANTIFUNGINA DI OLI ESSENZIALI IN FASE DI VAPORE SU DERMATOFITI E MICETI
FILAMENTOSI.
V. Tullio, A. Nostro°, N. Mandras, L. Mondello*, G. Banche, M.A. Cannatelli°, A. M. Cuffini, V. Alonzo°, N.A. Carlone
Dipartimento di Sanità Pubblica e di Microbiologia, Università di Torino
° Dipartimento Farmaco-Biologico, Facoltà di Farmacia,
Università degli Studi di Messina
* Dipartimento Farmaco-Chimico, Facoltà di Farmacia,
Università degli Studi di Messina
L’attività antimicrobica degli oli essenziali è stata per molto tempo campo esclusivo della medicina alternativa e, solo recentemente, ha destato l’interesse della comunità scientifica. Gli studi sull’attività di questi composti riguardano soprattutto batteri e
lieviti, mentre poche sono le segnalazioni in letteratura sui dermatofiti ed altri miceti filamentosi. Nel presente lavoro è stata
saggiata l’attività in vitro di 7 oli essenziali del commercio (timo, finocchio, chiodi di garofano, pino, salvia, melissa e lavanda) nei confronti di miceti filamentosi isolati da campioni clinici e dall’ambiente (dermatofiti, aspergilli, penicilli, zigomiceti,
demaziacei, Scopulariopsis brevicaulis e Fusarium spp.). L’attività antimicrobica è stata valutata mediante la determinazione
della minima concentrazione inibente (MIC) e fungicida (MFC) degli oli seguendo il metodo della microdiluizione scalare in
brodo proposto dall’NCCLS e modificato per alcuni funghi. Parallelamente è stata valutata l’efficacia degli oli nella fase di
vapore. I risultati ottenuti sottolineano una migliore attività antifungina degli oli nella fase di vapore (ad eccezione del pino) con
valori di MIC 3-4 volte inferiori rispetto a quelli evidenziati in terreno liquido. Si ipotizza che il miglioramento ottenuto in fase
di vapore possa essere legato all’attività combinata dei composti volatili che agirebbero direttamente sui conídi (lipofili) e indirettamente dopo assorbimento su agar.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
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IL RILASCIO DI CA++ DAGLI ORGANELLI INTRACELLULARI E IL SUCCESSIVO ACCUMULO
NEI MITOCONDRI SONO ESSENZIALI PER L’ATTIVITÀ CANDIDACIDA DEL PEPTIDE N TERMINALE DELLA LATTOFERRINA UMANA
1,2Antonella Lupetti, 3Carlo P. J. M. Brouwer, 1Heleen E. C. Dogterom-Ballering, 2Alessio Bertozzi, 2Sonia Senesi, 1Jaap T.
van Dissel, 1Peter H. Nibbering.
1Department of Infectious Diseases, Leiden University Medical Centre, Leiden, 3AM Pharma, Bunnik, Olanda, 2Dipartimento
di Patologia Sperimentale, Biotecnologie Mediche, Infettivologia ed Epidemiologia, Università degli Studi di Pisa, Pisa, Italia.
L’attività candidacida del peptide N terminale della lattoferrina umana, hLF(1-11), coinvolge l’attivazione dei mitocondri, con
sintesi e secrezione di ATP e di specie reattive per l’ossigeno (ROS); poichè l’accumulo di Ca++ nei mitocondri può essere
essenziale per la loro attivazione, scopo del presente studio è stato quello di definire quale ruolo abbia il Ca++ nell’attività candidacida di hLF(1-11). L’effetto esercitato da composti che interferiscono con l’omeostasi del Ca++ sull’attività candidacida di
hLF(1-11), sui cambiamenti del potenziale di membrana mitocondriale e sulla produzione di specie reattive per l’ossigeno è
stato valutato a mezzo di test di killing e di sonde fluorescenti (rodamina 123 e 2’,7’ diclorofluoresceina diacetato). L’aumento
intracellulare di Ca++ è stato misurato usando 45Ca++. E’ stato evidenziato che il rosso rutenio, che inibisce la pompa Ca++uniporter mitocondriale e il rilascio di Ca voltaggio-dipendente, blocca (P < 0.05) l’attività candidacida indotta da hLF(1-11) ed
influenza cambiamenti del potenziale di membrana mitocondriale e la produzione di ROS. Inoltre, l’ossalato, che precipita il
Ca++ negli organelli intracellulari, diminuisce (P < 0.05) i cambiamenti del potenziale di membrana mitocondriale indotti dal
peptide, la produzione di ROS e l’attività candidacida di hLF(1-11). A conferma del ruolo del Ca++ citosolico nell’attività candidacida del peptide, la ionomicina, uno ionoforo del Ca++, aumenta l’attività candidacida indotta da hLF(1-11) ad alte concentrazioni di CaCl2. Il peptide determina influsso di Ca++ dal mezzo extracellulare in Candida dove raggiunge un incremento di tre volte in 2 h rispetto alle cellule non esposte al peptide. In accordo con questi risultati, EGTA, un chelante del Ca++,
blocca l’attività candidacida indotta dal peptide. In conclusione, i risultati ottenuti dimostrano che il rilascio di Ca++ dagli organelli intracellulari, probabilmente attraverso il successivo accumulo di Ca++ nei mitocondri, è essenziale per l’attività candidacida indotta da hLF(1-11).
ATTIVITÀ TERAPEUTICA DI UN PEPTIDE SINTETICO KILLER NEI CONFRONTI DI CRIPTOCOCCOSI SPERIMENTALI.
Conti S., Bistoni F.#, Cenci E.#, Mencacci A.#, Perito S.#, Magliani W., Vecchiarelli A.#, Polonelli L.
Sezione di Microbiologia - Dipartimento di Patologia e Medicina di Laboratorio - Università degli Studi di Parma e #Sezione
di Microbiologia - Dipartimento di Medicina Sperimentale - Università degli Studi di Perugia
Un decapeptide killer (KP) è stato sintetizzato ed ingegnerizzato dalla sequenza di un anticorpo antiidiotipico ricombinante
immagine interna di una tossina killer di lievito caratterizzata dall’ampio spettro di azione microbicida nei confronti di microrganismi presentanti specifici recettori parietali costituiti, essenzialmente, da beta-glucani. KP ha mostrato di uccidere, in vitro,
cellule di ceppi capsulati ed acapsulati di Cryptococcus neoformans comparativamente ad un decapeptide scramble (SP), costituito dagli stessi aminoacidi posizionati diversamente e privo di attività. L’attività microbicida in vitro di KP, significativamente, poteva essere neutralizzata da laminarina (ß 1-3- D-glucano), ma non da pustulano (ß 1-6-D- glucano). Sorprendentemente,
KP ha mostrato, inoltre, di interferire con la produzione di specifici fattori di virulenza del fungo, quali ureasi e capsula, rendendolo, potenzialmente, più sensibile all’azione di cellule effettrici naturali. La somministrazione di KP in un modello sperimentale di criptococcosi, infatti, ha mostrato di ridurre drasticamente la carica fungina negli organi bersaglio e, ancor più significativamente, di proteggere animali immunosoppressi da un’infezione sistemica letale. In relazione all’importanza della criptococcosi nell’ospite immunocompromesso ed alla impossibilità di eradicare l’infezione con i farmaci convenzionali attualmente
disponibili, KP si pone come potenziale candidato terapeutico anticriptococcico.
68
32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
EFFETTI ANTIFUNGINI DELL’INIBITORE DELLA PROTEASI VIRALE INDINAVIR: ISOLAMENTO
E CARATTERIZZAZIONE DI CnAP1, UN’ASPARTIL PROTEASI DI CRYPTOCOCCUS NEOFORMANS
Blasi1 Elisabetta, Pinti2 Marcello, Orsi1 Carlotta, Neglia1 Rachele, Esposito3 Roberto, Colombari1 Bruna, Cossarizza2
Andrea, Mussini3 Cristina.
1Dip. Scienze Igienistiche, Microbiologiche e Biostatistiche; 2Dip. Scienze Biomediche, 3Clinica delle Malattie Infettive Università di Modena e Reggio Emilia.
Background: Recenti evidenze sperimentali indicano che l’Indinavir (IND), un inibitore della proteasi virale di HIV incluso nel
cocktail di farmaci della terapia antiretrovirale HAART, mostra un inatteso effetto inibitorio nei confronti di diverse aspartil proteasi provenienti da microrganismi eucarioti. Il nostro gruppo ha valutato gli effetti di IND su C.neoformans, dimostrando una
inibizione della capacità proliferativa, della produzione di proteasi e un aumento della suscettibilità del patogeno al macrofago
cerebrale (SIM 2002; FEMS 2004).
Metodi: sequenziamento, clonaggio e produzione in vitro di un’aspartil proteasi di C.neoformans secondo procedure standard;
valutazione, mediante saggio colorimetrico, dell’attività enzimatica della proteina ricombinante e della sua suscettibilità ad IND.
Messa a punto di protocolli di Real Time PCR per lo studio dell’espressione genica in C.neoformans.
Risultati: Partendo dalla sequenza aminoacidica di SAP5 di Candida, è stato identificato un cDNA da C.neoformans ceppo
H99, che mostra una omologia di sequenza significativa con altre aspartil proteasi eucariotiche. Mediante RACE, è stato ottenuto l’intero cDNA che ha consentito quindi di identificare la regione corrispondente nel genoma. Il gene, denominato CnAP1,
comprende tre introni con le sequenze di splicing conservate (GTNNGY e YAG), codifica per una proteina (CnAP1) di 505
aminoacidi (51,6 Kda) di alta omologia con altre aspartil proteasi eucariotiche. All’interno di due sequenze aminoacidiche altamente conservate, in posizione 85 e 278, sono stati localizzati i residui aspartici essenziali per l’attività enzimatica, mentre la
porzione C-terminale (da 380 a 505) non mostra alcuna similitudine con proteine note. CnAP1 ricombinante è stata espressa in
E.coli e purificata. Essa mostra attività proteolitica su diversi substrati, mentre non è stato possibile rilevarne la sensibilità
all’IND. Infine, abbiamo messo a punto i protocolli per la valutazione quantitativa dell’espressione di CnAP1 in Real Time PCR
sia con SYBR che con sonde TaqMan.
Lavoro parzialmente supportato da Programma Nazionale di Ricerca sull’AIDS, ISS, Roma. Accordo di collaborazione n.
50D22.
ATTIVITÀ MICROBICIDA DI ANTICORPI ANTIIDIOTIPICI E MIMOTOPI KILLER NEI CONFRONTI DI ACANTHAMOEBA.
Pier Luigi Fiori1, Walter Magliani2, Antonella Mattana3, Stefania Conti2, Luciano Polonelli2
1Dipartimento di Scienze Biomediche, Sez. Microbiologia Sperimentale e Clinica - Università degli Studi di Sassari;
3Dipartimento di Scienze del Farmaco - Università degli Studi di Sassari; 2Sez. Microbiologia - Dipartimento di Patologia e
Medicina di Laboratorio - Università degli Studi di Parma
Membri del genere Acanthamoeba sono in grado di provocare nell’uomo un ampio spettro di infezioni: acute (quali gravi cheratiti che spesso esitano in cecità), croniche (quali meningoencefaliti granulomatose frequentemente fatali) e localizzate o disseminate in ospiti immunodepressi. Le terapie attualmente utilizzate presentano importanti limiti, in quanto scarsamente efficaci
nel caso di meningoencefaliti o infezioni disseminate e poco tollerate dai pazienti quando utilizzate topicamente, nel caso di
cheratiti. Negli ultimi anni, inoltre, sono notevolmente aumentate le resistenze ai chemioterapici più comunemente utilizzati.
Recentemente è stato proposto un nuovo approccio nella terapia antimicrobica, basato sull’uso di anticorpi anti-idiotipici,
monoclonali (mAb K10) o ricombinanti a singolo filamento (scFv), e di un decapeptide (KP), sintetizzato ed ingegnerizzato
sulla base della sequenza del gene codificante scFv, in grado di mimare, sia in vitro sia in vivo, l’attività microbicida ad ampio
spettro di una tossina killer (KT) prodotta dal lievito Pichia anomala nei confronti di importanti microrganismi patogeni sia
eucarioti sia procarioti. Come riportato in questo studio, mAb K10 e KP si sono dimostrati microbicidi in vitro, in maniera dosedipendente, nei confronti di Acanthamoeba. Tale attività sembra essere mediata dalla interazione con un recettore parietale costituito da ß 1-3 glucano, considerato il potenziale recettore di KT, come dimostrato dalla sua neutralizzazione da parte di laminarina (ß 1-3 glucano), ma non di pustulano (ß 1-6 glucano), e dalla uccisione dei protozoi da parte dell’enzima laminarinasi,
dotato di attività glucanasica. Esperimenti di immunofluorescenza condotti con mAb K10 indicano che le amebe esprimono non
costantemente il recettore sulla superficie cellulare, probabilmente in dipendenza di variazioni fisiologiche. Infine, KP si è
dimostrato in grado di inibire la crescita di Acantamoeba su lenti a contatto corneali. Per la sua significativa attività, nonchè per
la sua precedentemente accertata mancanza di tossicità ed immunogenicità, KP si propone quale potenziale innovativo agente
terapeutico nei confronti delle infezioni da Acanthamoeba nell’uomo.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
69
ATTIVITA’ FUNGICIDA E TERAPEUTICA DI UN PEPTIDE SINTETICO KILLER NEI CONFRONTI
DI PARACOCCIDIOIDES BRASILIENSIS E PARACOCCIDIOIDOMICOSI.
Conti S., Magliani W., Silva L.S.#, Rodrigues E.G.#, Salati A., Travassos L.#, Polonelli L.
Sezione di Microbiologia - Dipartimento di Patologia e Medicina di Laboratorio - Università degli Studi di Parma e #Unidade
de Oncologia Experimental - Departamento de Microbiologia, Immunologia e Parasitologia - Universidade Federal de São
Paulo, Brasil
La paracoccidioidomicosi (PCM), causata dal fungo dimorfico Paracoccidioides brasiliensis (Pb), è la micosi sistemica prevalente in Sud America, particolarmente in individui residenti in aree rurali. Conidi diffusi nell’ambiente agiscono come propaguli infettanti, in seguito ad inalazione, localizzandosi nei polmoni, dove si trasformano in lieviti parassitanti. I casi più gravi di
PCM possono condurre ad una depressione dell’immunità cellulare e ad anergia, probabilmente correlata a danno degli organi
linfoidi (atrofia timica). La terapia convenzionale di PCM si basa essenzialmente sull’uso di amfotericina B e derivati azolici.
Tuttavia, nuovi approcci terapeutici sono richiesti a causa della tossicità di tali farmaci e della recente identificazione di geni
coinvolti nella resistenza di Pb nei loro confronti. Un decapeptide killer sintetico ingegnerizzato (KP), funzionalmente omologo ad un anticorpo antiidiotipico ricombinante immagine interna di una tossina di lievito ad ampio spettro microbicida, ha
mostrato di esplicare un’attività fungicida in vitro e terapeutica in vivo nei confronti di Pb e PCM. Topi sono stati infettati per
via endovenosa con un ceppo virulento di Pb e successivamente trattati per via parenterale con KP o con un decapeptide “scramble” di controllo, privo di attività, costituito dagli stessi aminoacidi in diversa sequenza. L’efficacia della terapia è stata valutata, mediante esami colturali ed istologici condotti sugli organi bersaglio (polmone, fegato, milza), otto giorni dopo l’infezione
sperimentale. Il marcato effetto terapeutico mostrato da KP apre nuove prospettive per il controllo di PCM nelle aree endemiche e nei casi di importazione.
ATTIVITA’ ANTIBATTERICA DEL PEPTIDE NATURALE RESPONSABILE DELL’INDUZIONE DI
COMPETENZA IN STREPTOCOCCUS PNEUMONIAE
M. R. Oggioni1,2, F. Iannelli 1, S. Ricci 1, D. Chiavolini 1, R. Parigi 1, M. Cassone 1, J.P. Claverys 3, G. Pozzi 1;
1University of Siena, Siena, Italy, 2Azienda Ospedaliera Universitaria Senese, Siena, Italy, 3CNRS-Université Paul Sabatier,
Toulouse, France.
Lo Streptococcus pneumoniae, causa importante di polmoniti, otiti e meningiti, produce un feromone peptidico lineare di 17
aminoacidi (CSP) che tramite un meccanismo di “quorum sensing” controlla lo sviluppo della competenza per la trasformazione genetica. Dati che correlavano il trattamento dello pneumococco con CSP con la comparsa di fenotipi di stress e autolisi ci
hanno suggerito di sviluppare un modello di sepsi in vivo per saggiare l’effetto di CSP sulla virulenza.
Il modello di sepsi consiste in un inoculo intravenoso di 10^6 CFU in topi outbred Swiss e nel trattamento con 1,3 microgrammi di CSP per topo a 0 e 24 ore. I parametri di valutazione del modello includevano emocolture a 6 e 48 ore e valutazione del
quadro clinico.
I nostri dati dimostrano una diminuzione significativa della mortalità dei topi, un incremento del tempo di sopravivenza, un
ridotto numero di topi settici e una diminuzione della conta batterica nel sangue. In vitro la dose di CSP usata nel modello animale ha prodotto un inibizione transitoria della crescita del batterio. Saggiando l’effetto di CSP su un mutante, deleto per la istidino kinasi che funge da recettore per il CSP, nessuna azione batteriostatica è stata osservata in vitro, così come nessun effetto
è stato riscontrato sul quadro clinico in vivo.
Questi dati dimostrano che il CSP, che induce un arresto temporaneo di crescita in vitro tramite stimolazione del suo recettore
tipo istidino kinasi, è in grado bloccare la malattia sistemica in topo. Questo effetto terapeutico è innovativo in quanto l’effetto
“farmaco-simile” è dovuto a stimolazione di un bersaglio per ottenere un’azione antibatterica.
70
32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
ATTIVITA’ ANTIMICROBICA DELLA ß-DEFENSINA 3 UMANA VERSO STREPTOCOCCUS MUTANS
e ACTINOBACILLUS ACTINOMYCETEMCOMITANS IN LIQUIDI BIOLOGICI
G. Maisetta, G. Batoni, S. Esin, W. Florio, D. Bottai, F. Favilli, G. Raco, M. Campa
Dipartimento di Patologia Sperimentale, Biotecnologie Mediche, Infettivologia ed Epidemiologia, Università di Pisa
Le defensine rappresentano una particolare famiglia di peptidi cationici naturali presenti in vari tessuti dell’uomo e dotati di
attività antibatterica, antifungina e antivirale. Recentemente, nel nostro laboratorio è stato dimostrato che la beta defensina 3
umana (hBD-3) è dotata, in tampone sodio-fosfato, di attività battericida verso alcune specie batteriche del cavo orale. L’attività
dei peptidi antimicrobici può essere potenzialmente inibita da sali e componenti organici salivari e sierici, normalmente presenti
nel cavo orale.
Nel presente studio è stata valutata l’influenza di saliva e siero sull’attività battericida dell’hBD-3 verso Streptococcus mutans,
coinvolto nell’insorgenza della carie, e verso Actinobacillus actinomycetemcomitans, agente eziologico della periodontite giovanile localizzata. I risultati dei saggi di batteriocidia hanno indicato che l’hBD-3 è dotata di attività battericida verso S. mutans
in entrambi i liquidi biologici. L’hBD-3 è risultata inattiva verso A. actinomycetemcomitans in presenza di saliva all’80% o siero
al 10%, mentre in presenza di concentrazioni più basse di saliva (40-20%) o di siero (5-2.5%) il peptide ha mostrato un effetto battericida, dopo una incubazione di 1.5 h. Allo scopo di valutare se l’effetto battericida osservato in presenza di saliva o di
siero potesse essere ottenuto a tempi più precoci, sono state effettuate cinetiche di killing di hBD-3 verso S. mutans in presenza
di saliva all’80% e verso A. actinomycetemcomitans in presenza di siero al 5%, e confrontate con quelle di clorexidina e metronidazolo, due agenti antimicrobici comunemente impiegati nella terapia delle infezioni orali. I risultati hanno indicato che l’hBD3, saggiata alla concentrazione di 16 µM, ha un effetto battericida molto rapido (dopo 1min d’incubazione) verso S. mutans,
mentre, quando il peptide veniva saggiato alla concentrazione di 80 µM verso A. actinomycetemcomitans, provocava una
riduzione nel numero delle CFU di 1.5 log, dopo 20 minuti di incubazione. Tali risultati indicano che l’hBD-3 è dotata di attività battericida, in presenza di saliva e/o siero, verso A. actinomycetemcomitans, ed in particolare, verso S. mutans, suggerendone
un possibile impiego nella terapia locale delle infezioni del cavo orale.
ATTIVITÀ E PURIFICAZIONE PARZIALE DI UNA BATTERIOCINA PRODOTTA DA
BIFIDOBACTERIUM BREVE B 632.
Rossana Gasbarri, Massimiliano Stola, Paola Mattarelli.
Dipartimento di Scienze e Tecnologie Agroambientali, Università di Bologna.
I bifidobatteri definiti microrganismi probiotici, sono da alcuni anni entrati nell’alimentazione dell’uomo. Una caratteristica tipica di molti probiotici è la produzione da parte del microrganismo di sostanze ad azione inibente nei confronti di altri microrganismi. Tali sostanze sono generalmente proteine di piccole dimensioni denominate batteriocine. La maggior parte delle batteriocine possiede uno spettro di inibizione piuttosto ristretto perché esse sono per lo più attive verso microrganismi correlati. Il
largo impiego di bifidobatteri nei prodotti alimentari e farmaceutici richiede uno studio per verificare la capacità di produrre
batteriocine mediante saggi antimicrobici. Si è individuato il ceppo con maggiore attività antimicrobica, ricercata e parzialmente
purificata la sostanza antimicrobica da esso prodotta.
Sono stati saggiati 6 ceppi appartenenti a diverse specie di bifidobatteri di origine umana per testare la loro attività antagonista
verso differenti microrganismi sia Gram-positivi che Gram-negativi. Tale attività è stata saggiata attraverso diversi test antimicrobici fra i quali il “well diffusion assay” e lo “spot agar test” . Tutti i test in piastra hanno messo in evidenza l’importanza dell’influenza da parte del pH. Essi hanno evidenziato un’attività antimicrobica maggiore da parte di B. breve B 632 per questo utilizzato per gli studi di caratterizzazione e purificazione.
La purificazione parziale ha incontrato numerose difficoltà in parte superate facendo crescere il ceppo B 632 in TPY modificato (5g/l di trypticase, 2,5g/l di peptone, 10g/l di glucosio e senza Tween 80). Dopo una crescita overnight sono state effettuate:
centrifugazione della coltura per eliminare le cellule, filtrazione del surnatante, precipitazione con ammonio solfato 70%, dialisi (cut-off 1Kda), liofilizzazione, cromatografia a scambio cationico Mono-S (buffer NaPi 50mM, gradiente lineare di NaCl).
Mediante SDS-PAGE è stata evidenziata una banda di leggera intensità tra 1,0 e 6,0 KDa.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
71
PATOGENESI VIRALE
MSRV (MULTIPLE SCLEROSIS (MS)-ASSOCIATED RETROVIRUS) CIRCOLANTE CORRELA IN
VIVO CON LA MALATTIA; IL VIRUS È STIMOLATO DA CITOCHINE PROINFIAMMATORIE IN
VITRO ED È INIBITO DA INTERFERON BETA SIA IN VITRO CHE IN VIVO.
C. Serra*, G. Mameli*, V. Astone*, G. Arru#, A. Biolchini*, M. Castellazzi§, E. Granieri§, S. Sotgiu#, A. Dolei*
*Dip. Scienze Biomediche, e # Clinica Neurologica, Univ. Sassari; §Dip.Neurologia, Univ. Ferrara
Si ipotizza che i virus cooperino con un substrato genetico predisponente nell’induzione dei fenomeni immunopatologici che
portano alla demielinizzazione nella sclerosi multipla (MS) e spesso le infezioni virali precedono l’insorgenza e gli attacchi di
MS. Questi sono associati a citochine proinfiammatorie come interferon (IFN)gamma e TNFbeta, e la somministrazione di
IFNgamma ha prodotto effetti disastrosi sull’immunità cellulare e sulla progressione; IFNbeta, invece, si usa in terapia. MSRV
è un membro della famiglia HERV-W dei retrovirus endogeni umani, con proprietà gliotossiche, fusogene e superantigeniche,
in grado di formare virioni completi e trovato in forma extracellulare nel sangue di pazienti affetti da MS.
Abbiamo valutato MSRV in pazienti con MS e in controlli, usando RT-PCR Real Time, con primers specifici per MSRV/HERVW env e pol. In pazienti con MS attiva della Sardegna, isola ad alto rischio di MS, MSRV extracellulare è stato trovato nel 100%
dei campioni di plasma, e nel 12% dei controlli sani; la presenza di virus nel liquor segue l’insorgenza clinica della MS e correla con la progressione. Il carico virale medio è stato di 221+200 copie/ml di plasma per pazienti con MS iniziale (<2 anni).
L’analisi delle PBMC dagli stessi campioni ha rilevato espressione di MSRV in tutti i pazienti con MS e in 3 controlli; inoltre
il numero medio di copie dei primi è risultato superiore a quello dei 3 controlli positivi. Studi in vitro hanno rilevato che la produzione di MSRV da PBMC da soggetti MSRV(+) è modulata da citochine. Il rilascio di virus è fortemente iperregolato da
TNFbeta e IFNgamma, nocivi nella MS. Di contro, IFNbeta, benefico nella MS, è fortemente inibente. Sono stati effettuati studi
in vivo su 37 pazienti con MS sottoposti agli usuali protocolli terapeutici con IFNbeta per 2.3+1.8 anni (3 mesi 6 anni). È stata
osservata una forte riduzione della percentuale di positività plasmatica per MSRV e del carico virale in corso di terapia con
IFNbeta: MSRV extracellulare è stato trovato in 3 pazienti (8.1%, numero medio di copie: 128+85/ml di plasma).
Sebbene il ruolo di MSRV nella MS non si conosca, noi continuiamo a rilevare parallelismi tra la regolazione della produzione
di MSRV e l’andamento della malattia MS.
ESPRESSIONE DI MSRV (MULTIPLE SCLEROSIS-ASSOCIATED RETROVIRUS)/HERV-W IN PAZIENTI AFFETTI DA MS E CONTROLLI E CONFRONTO CON QUELLA DI HHV-6 (HUMAN
HERPESVIRUS-6)
G. Mameli*, C. Serra*, V. Astone*, G. Arru#, B. Bonetti§, S. Sotgiu#, A. Dolei*
*Dip. Scienze Biomediche, e # Clinica Neurologica, Univ. Sassari; § Clinica Neurologica, Univ. Verona
Per diversi virus è stato ipotizzato un coinvolgimento nella patogenesi immuno-mediata della sclerosi multipla (MS), particolarmente HHV-6 e MSRV, un membro della famiglia HERV-W dei retrovirus endogeni umani, con proprietà gliotossiche, fusogene e superantigeniche, e transattivabile da herpesvirus.
Abbiamo valutato entrambi i virus nel plasma, nei PBMC e campioni autoptici di cervello da pazienti con MS e controlli sani
usando RT-PCR Real Time, con primers specifici per MSRV/HERV-W env e HHV-6 DNApol,
17 pazienti con MS iniziale (<2 anni) sono stati comparati per la presenza di MSRV intracellulare e circolante a donatori di
sangue della stessa età. Tutti i campioni di plasma dei pazienti con MS e 2 controlli sono stati trovati MSRV-positivi. L’analisi
dei PBMC degli stessi campioni ha rilevato espressione di MSRV in tutti i pazienti con MS e in 3 controlli. Inoltre, il carico
virale medio era superiore nei pazienti rispetto a quello dei 3 controlli positivi.
Il 35% dei campioni di PBMC conteneva DNA di HHV-6, senza differenze significative tra pazienti e controlli, ma i primi presentavano un maggior numero di copie di HHV-6 e solo un campione di un paziente con MS, mostrava replicazione di HHV-6.
Per valutare l’espressione virale nel cervello, è stato estratto RNA da campioni autoptici di cervello da pazienti con MS, sia da
zone di lesione che da tessuto apparentemente sano dello stesso individuo. I controlli erano soggetti sani deceduti per incidente.
È stata effettuata RT-PCR Real Time per quantificare sequenze di RNA specifiche per MSRV/HERV-W env e per HHV-6
DNApol. Nei pazienti con MS l’espressione di MSRV/HERV-W è risultata circa 1.5 Log superiore a quella dei controlli, senza
differenze significative tra tessuto cerebrale sano e lesionale, mentre non è stata rilevata espressione di HHV6 DNApol, facendo pertanto escludere replicazione in situ di HHV-6.
Nel loro complesso i dati indicano che la presenza e l’espressione di MSRV/HERV-W è maggiore nei pazienti con MS, in modo
statisticamente significativo, sia nel sangue che nel cervello. Non è stata rilevata una differenza significativa della presenza di
DNA di HHV-6 tra pazienti e controlli, con evidenza di replicazione in un solo soggetto affetto da MS.
I risultati finora ottenuti non rilevano correlazioni tra MSRV/HERV-W e HHV-6.
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32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
MODULAZIONE GENICA E FUNZIONALE DI CELLULE ENDOTELIALI ARTERIOSE E VENOSE
INFETTATE IN MODO PERSISTENTE DA COXSACKIEVIRUS B: POSSIBILE RUOLO NEI PROCESSI DI TROMBOGENESI E ATEROSCLEROSI
Ferioli E, Favaro E*, Bottelli A, Atragene D, Zanone M*, Conaldi PG
Dipartimento di Medicina e Sanità Pubblica, Università dell’Insubria; *Dipartimento di Medicina Interna e Centro Ricerche di
Medicina Sperimentale, Università di Torino
I processi infiammatori svolgono un ruolo rilevante nella genesi e nella progressione delle lesioni croniche cardiovascolari di
natura sia aterosclerotica sia trombotica. Alterazioni endoteliali giocano un ruolo centrale in tali processi patologici.
Recentemente è stata evidenziata una possibile correlazione tra aterosclerosi, infarto del miocardio e coxsackievirus B (CVB).
Poichè EC hanno caratteristiche differenti a seconda dell’origine, in questo studio abbiamo indagato gli effetti funzionali dei
CVB su linee EC venose e arteriose. I recettori dei CVB (CAR e CD55) sono espressi sia in EC venose che arteriose, ed entrambi i tipi cellulari sostengono una infezione persistente produttiva non citopatica da CVB. Gli effetti dell’infezione sono stati indagati mediante DNA microarray specifici per numerosi pathway funzionali endoteliali. I risultati dimostrano che i CVB stimolano nelle EC un’aumentata espressione delle citochine pro-infiammatorie IL-1ß, IL-6 e IL-8. L’incremento è maggiore nelle EC
arteriose, nelle quali si osserva inoltre espressione della chemochina MCP-1 e di COX-2, un enzima chiave nelle fasi precoci
dell’infiammazione. In entrambi i tipi di EC l’infezione con CVB determina una down-regolazione di molecole di adesione,
integrine e TSP1, molecola coinvolta nella disregolazione delle interazioni cellula-cellula e cellula-matrice predisponente il tessuto vascolare alla formazione di placche ateromasiche e alla trombosi. A carico delle EC venose i CVB alterano in senso protrombotico le funzioni di regolazione della coagulazione, con riduzione dell’espressione dell’attivatore tessutale del plasminogeno e di TFPI, inibitore dell’attività procoagulativa del fattore tessutale. A carico delle EC arteriose l’effetto pro-aterosclerotico dei CVB è confermato dalla induzione rilevata di IL-18 e IFN-γ, fattori condizionanti lo sviluppo e l’instabilità delle placche
ateromasiche. Prove biologiche hanno evidenziato che IL-18 prodotta da cellule infettate può indurre IFN-γ in linfociti T.
I risultati dimostrano che i CVB, agenti virali con tropismo cardiovascolare, possono modulare le attività funzionali delle EC e
possono rappresentare un modello di studio per analizzare il ruolo dei virus nello sviluppo di processi infiammatori cronici
vascolari ad esito trombotico e/o aterosclerotico.
IL VIRUS DELLA SARS E IL SISTEMA IFN: CAPACITA’ DI INDUZIONE E ATTIVITA’ ANTIVIRALE
C Scagnolari1, F Bellomi1, G De Vito1, G Stillitano1, E Vicenzi2, F Canducci3, M Clementi3, G Antonelli1.
1-Dip Med Sper e Pat, Sez Vir, Un “La Sapienza”, RM; 2- Un di “Immunopat dell’AIDS” , Istit Scient San Raffaele, MI;
3- Lab di Microb e Virol , Un “Vita-Salute” e Istit Scient San Raffaele, MI
La “Sindrome Respiratoria Acuta Severa” (SARS) è una malattia infettiva causata da un nuovo membro della famiglia
Coronaviridae (SARS-CoV). Attualmente, nonostante i rapidi successi raggiunti nella caratterizzazione molecolare dell’agente
eziologico, sono scarse le informazioni relative agli aspetti terapeutici e patogenetici associati all’infezione da SARS-CoV. Alla
luce di tali evidenze lo studio che abbiamo affrontato si prefigge di raggiungere i seguenti obiettivi: esaminare, in vitro, la sensibilita’ del SARS-CoV agli IFNs usati singolarmente o in combinazione in cellule Vero; valutare e caratterizzare l’induzione
del sistema IFN dopo stimolazione, in vitro, dei lindomonociti con SARS-CoV. I risultati preliminari, indicano che gli IFNs presentano una attività antivirale verso il SARS-CoV, sebbene le concentrazioni di IFNs necessarie per ottenere l’inibizione della
replicazione virale siano significativamente maggiori rispetto a quelle utilizzate per virus IFN-sensibili (EMCV, VSV, NDV).
Specificatamente l’IFNß (IC50: 6.25ng/ml) sembra essere più efficace nell’inibire la replicazione del SARS-CoV rispetto agli
altri IFNs saggiati [IFNα naturale (IC50: 32.5ng/ml), all’IFNγ (IC50: 100ng/ml) e all’ IFNα2b (IC50: 1500ng/ml)]. Interessante
è stata l’osservazione che l’attività antivirale degli IFNs diminuisce progressivamente dopo trattamento prolungato delle Vero
con IFNs (24-72 ore). I risultati, inoltre, indicano che la combinazione di IFNß e IFNγ agisce in maniera sinergica nell’inibire
la replicazione di SARS-CoV e che l’espressione della proteina MxA non correla con l’attività anti-SARS-CoV degli IFNs.
Significativi sono stati anche i risultati preliminari ottenuti in seguito alla stimolazione dei linfomonociti con agenti virali (VSV,
NDV). In particolare si assiste ad una induzione variabile dell’espressione genica di IFNγ e di alcuni sottotipi di IFNα con un
picco di espressione a 12 ore; l’IFN rilasciato nel supernatante possiede una attività antivirale > 1000 UI/ml e raggiunge un
livello massimo di espressione a 48 ore dalla stimolazione virale dei linfomonociti. Attualmente sono in corso gli esperimenti
di valutazione della risposta interferonica dopo infezione dei linfomonociti con SARS-CoV. In conclusione nell’insieme i risultati documentano la relativa resistenza di SARS-CoV all’azione antivirale degli IFN e l’attività antivirale sinergica dell’IFNb e
γ. Il significato biologico e clinico-terapeutico di tali osservazioni è ancora oggetto di studio, tuttavia, considerando che l’IFN
di tipo I svolge un ruolo chiave nell’immunità innata dell’ospite alle infezioni virali, i dati, indirettamente, potrebbero indicare
che il virus diffonde nell’organismo come conseguenza della sua resistenza all’IFN.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
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IL VIRUS DELL’EPATITE C PUÒ INFETTARE IN FORMA PRODUTTIVA LE CELLULE EPITELIALI
DEL GLOMERULO RENALE: CARATTERIZZAZIONE ED IMPLICAZIONI PATOGENETICHE
Bottelli A, Atragene D*, Ferioli E, Camussi G*, Conaldi PG
Dipartimento di Medicina e Sanità Pubblica, Università dell’Insubria; *Dipartimento di Medicina Interna e Centro Ricerche di
Medicina Sperimentale, Università di Torino
Il virus dell’epatite C (HCV) infetta milioni di persone in tutto il mondo, determinando nella maggior parte dei casi una infezione persistente con possibile sviluppo di epatite cronica attiva. L’infezione cronica da HCV è caratterizzata da alta incidenza
di sindromi extra-epatiche, quali numerose forme di nefropatia con danno in prevalenza glomerulare a patogenesi ignota.
Proteine e RNA di HCV sono stati ritrovati in biopsie renali di pazienti infettati; le cellule renali di scimmia sono tra le poche
cellule non epatiche che permettono una replicazione transiente di HCV. In questo studio abbiamo esaminato la suscettibilità
delle cellule glomerulari umane a HCV per valutare la possibilità che il virus replichi effettivamente nel tessuto renale. Test di
western-blot e citofluorimetria hanno evidenziato che sia le cellule epiteliali (podociti) che le cellule mesangiali glomerulari
esprimono CD81 e LDL-R, i principali recettori di HCV. In prove di infezione con campioni HCV-positivi, i podociti sono risultati costantemente suscettibili al virus, mentre le cellule mesangiali hanno sviluppato infezione in modo sporadico. A livello dei
podociti la replicazione di HCV è stata dimostrata mediante immunofluorescenza e rilevazione della forma virale replicativa, ed
è risultata protrarsi per diverse subcoltivazioni. L’effettivo rilascio di progenie virale è dimostrato dal fatto che il supernatante
delle colture infettate con HCV è stato capace di trasmettere l’infezione ad altri podociti. I livelli di infezione sono risultati,
almeno in parte, modulabili dall’hepatocyte-growth-factor, fattore spesso up-regolato nei pazienti HCV-positivi. La replicazione di HCV non ha determinato modificazioni significative della citoarchitettura podocitaria né dell’espressione di nefrina, la
principale proteina dello slit-diaphragm dei podociti; è stato invece rilevato un incremento della proliferazione dei podociti. E’
da notare che l’iperplasia podocitaria costituisce l’evento patogenetico centrale di forme di glomerulonefrite, quali quelle di
natura membrano-proliferativa che più frequentemente si riscontrano in caso di infezione da HCV. I risultati ottenuti permettono, pertanto, di ipotizzare che HCV possa indurre direttamente a livello del rene una patologia di organo e che il tessuto renale
possa costituire un reservoir in vivo di HCV.
MECCANISMI DI TRASFORMAZIONE DEI PAPILLOMAVIRUS UMANI MUCOSALI E CUTANEI
Marco De Andrea*°, Barbara Azzimonti°, Daniela Gioia°, Michele Mondini*°, Santo Landolfo*, Marisa Gariglio°
*Dipartimento di Sanità Pubblica e Microbiologia, Università degli Studi di Torino; °Dipartimento di Scienze Mediche,
Università degli Studi del Piemonte Orientale “A. Avogadro”, Novara.
I papillomavirus umani (HPV) sono dei piccoli virus a DNA a doppia elica che infettano i tessuti epiteliali di cute e mucose.
Questo diverso tropismo tissutale è alla base della distinzione di questo vasto gruppo di virus in mucosali e cutanei. Un sottogruppo di HPV mucosali è sicuramente responsabile del cancro della cervice uterina, in quanto il 99% di questi tumori sono
positivi per la presenza del genoma di questi virus. L’associazione tra HPV e tumori cutanei (NMSC, nonmelanoma skin cancer) è meno chiara, anche se esistono diversi lavori che dimostrano la presenza del genoma di HPV nei carcinomi squamosi cutanei, soprattutto negli individui immunodepressi. Rimane però molto difficile interpretare questi dati contro un background di
basso livello di infezione multipla a livello cutaneo probabilmente acquisita da ogni individuo nelle prime fasi della vita. I virus
presenti nella cute di ogni individuo verrebbero quindi attivati dall’esposizione ai raggi ultravioletti, dall’immunodepressione,
dall’iperproliferazione dell’epitelio come la psoriasi, o da background genetici particolari dell’ospite come l’epidermodisplasia
verruciforme (EV), tutti fattori di rischio per lo sviluppo di tumori cutanei. La bassa capacità trasformante degli HPV cutanei
rispetto ai mucosali ad alto rischio spiegherebbe quindi la necessità di cofattori. Infatti, nei soggetti immunodepressi e nei
pazienti EV, i tumori si sviluppano prevalentemente nelle zone fotoesposte e sono soprattutto associati a HPV-5 e HPV-8. La
capacità antiapoptotica della proteina E6 degli HPV cutanei sinergizza sicuramente con l’azione degli UV nel processo carcinogenetico. Più recentemente è stato dimostrato che la proteina E6 di HPV cutanei associati a tumori come HPV-5 e 8 è in grado
di legare una proteina coinvolta nel processo di riparo del DNA, XRCC1, riducendo l’attività biologica specifica.
Anche se i dati accumulati sui meccanismi di base della patogenesi degli HPV cutanei sono molto inferiori a quelli su HPV
mucosali, è sempre più chiaro il differente comportamento biologico di questi virus. Dal presente lavoro, in cui si è caratterizzato il background virale di pazienti affetti da EV ed altre patologie cutanee, si evince che gli HPV cutanei devono essere considerati a tutti gli effetti dei cofattori della fotoesposizione.
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32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
DISTRIBUZIONE DI GENOTIPI DI HPV IN SCRAPING CERVICALI DI PAZIENTI PALERMITANE
CON ATIPIE CITOLOGICHE.
A.Lama, G. Capra, L. Giovannelli, P. Ammatuna.
Dip. Igiene e Microbiologia, U.O. di Virologia, AOUP - Palermo.
Al fine di valutare i genotipi di papillomavirus umano (HPV) presenti in pazienti con esame citologico alterato, la presenza dell’
HPV, sia a basso che ad alto rischio oncogeno, è stata ricercata in scraping cervicali mediante l’impiego di due HPV test: amplificazione “home made” mediante nested PCR con primers MY09/11 e GP5+/GP6+ (nPCR), seguita da sequenziamento diretto
per la genotipizzazione dell’HPV, e test di amplificazione del commercio (Innogenetics), mediante PCR con primers SPF10
seguita da ibridazione su strip (LiPA).
Sono stati analizzati in tutto 293 campioni. La presenza di HPV DNA è stata riscontrata in 70 (23.9%) casi con nPCR, in 123
(41.9%) casi con LiPA e in 61 (20.8%) casi con entrambe le metodiche. Sia la nPCR che la LiPA hanno identificato in tutto 23
differenti genotipi di HPV; mediante nPCR, i tipi più frequentemente identificati sono stati HPV-16, -6,-18, -33, -e -53; mediante LiPA, HPV-6, -16, -51, -58 e -53. I genotipi HPV-62, -67, -81, -84 e-85 sono stati evidenziati solo mediante nPCR; i tipi HPV40, -42, -43, -68 e -74 solo mediante LiPA. Solo un moderato accordo è stato evidenziato tra le due metodiche per la ricerca
dell’HPV DNA (76.4% risultati concordi; k= 0.48). Infezioni multiple, diagnosticate solo mediante LiPA, erano evidenti in 50
(17.6%) campioni, ed erano rappresentate da 2-5 diversi genotipi di HPV, molti dei quali ad alto rischio (HPV-16, -31,-51, -53).
La frequenza di infezione da HPV era maggiore in casi di alterazioni citologiche di più alto grado.
I nostri dati confermano che le informazioni sulla prevalenza e le caratteristiche dell’infezione da HPV dipendono dal test impiegato, ed evidenziano altresì la necessità di una standardizzazione delle metodiche da utilizzare sia per fini diagnostici che epidemiologici, nell’ottica della realizzazione di adeguate preparazioni vaccinali.
L’INFEZIONE DA HPV AD ALTO RISCHIO ALTERA LA VIA DI SINTESI DEI DESOSSIRIBONUCLEOTIDI PREPOSTI AL RIPARO DEL DANNO AL DNA
Lembo D., Donalisio M., Cornaglia M., Landolfo S.
Dipartimento di Sanità Pubblica e di Microbiologia, Università degli Studi di Torino
I papillomavirus umani (HPV) ad alto rischio sono gli agenti eziologici del carcinoma della cervice uterina e di altri tumori
umani. Il loro potenziale oncogeno si esplica principalmente mediante l’azione delle due oncoproteine virali E6 ed E7 che alterano profondamente il controllo del ciclo cellulare, l’apoptosi e la capacità della cellula di rispondere a stimoli genotossici.
L’instabilità genomica che ne deriva favorisce la progressione dalla lesione primaria verso il carcinoma. A questo riguardo, uno
degli eventi patogenetici fondamentali è la capacità di E6 di indurre la degradazione della proteina oncosoppressoria cellulare
P53. La p53 viene attivata in risposta al danno al DNA inducendo la trascrizione di proteine coinvolte nel blocco del ciclo cellulare e nell’apoptosi. Solo recentemente si è compreso che la P53 regola direttamente il meccanismo di riparo del DNA attraverso un suo bersaglio trascrizionale: la proteina p53R2. La p53R2 è una subunità minore dell’enzima ribonucleotide riduttasi
(RNR) e svolge un ruolo cruciale nella risposta al danno genotossico fornendo i desossiribounucleotidi (dNTP) necessari per il
riparo del DNA quando la proliferazione cellulare è bloccata e la forma classica della RNR è conseguentemente inattiva. In
questo studio abbiamo analizzato l’espressione della p53 e delle due subunità minori della RNR (R2 e p53R2) in cellule derivate
da tumori positivi per HPV o in fibroblasti esprimenti E6, E7, ed E6/E7. In seguito al trattamento con due agenti genotossici
quali l’adriamicina e lo stress ossidativo i fibroblasti normali e quelli esprimenti E7 aumentano i livelli di P53 e, conseguentemente, annullano l’espressione della subunità R2 della RNR a causa del blocco della proliferazione cellulare. Contestualmente,
si assiste alla comparsa di alti livelli della subunità della RNR p53R2. In fibroblasti esprimenti E6, E6/7 e in cellule derivate da
tumori positivi per HPV i trattamenti genotossici non inducono p53 e p53R2 mentre R2 è rimane espressa ad alti livelli. I risultati ottenuti dimostrano che in tumori HPV positivi la via di sintesi dei dNTP indotta dal danno genotossico è inattivata e che
questo effetto è ascrivibile all’oncoproteina virale E6. Questo studio apre l’indagine sull’effetto dell’infezione da HPV sulla sintesi dei dNTP e suggerisce che l’incapacità di una cellula infettata di rispondere al danno indotto dallo stress ossidativo può
rappresentare un fattore importante nel processo progressione tumorale.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
75
ANALISI DELLE PROPRIETA’ BIOLOGICHE IN VITRO ED IN VIVO DELLA PROTEINA ORF-A
DEL VIRUS DELL’IMMUNODEFICIENZA FELINA
Pistello Mauro1, Bonci Francesca1, Fittipaldi Antonio2, Matteucci Donatella1, Giacca Mauro2 e Bendinelli Mauro1
1Centro Retrovirus e Sezione Virologia, Dipartimento di Patologia Sperimentale, Università di Pisa, 2Scuola Normale
Superiore, Pisa.
Il gene ORF-A del virus dell’immunodeficienza felina (FIV) codifica per una proteina simile, per certi aspetti, a Tat degli altri
lentivirus. Al fine di una caratterizzazione funzionale in vitro ed in vivo della proteina, abbiamo condotto uno studio in vitro per
valutare attività transattivante, localizzazione cellulare ed interazione con proteine cellulari note per interagire specificamente
con HIV-Tat. Inoltre, per chiarire il ruolo della proteina nella dinamica di replicazione di FIV, cloni molecolari mutanti in ORFA sono stati saggiati per tropismo cellulare in vitro ed in vivo e per patogenicità.
Gli studi in vitro hanno dimostrato che ORF-A ha debole attività transattivante che aumenta però in presenza di coattivatori trascrizionali di HIV-Tat, è localizzata a livello perinucleare ed il suo dominio basico è importante per l’entrata nella cellula. Nel
loro complesso, i risultati suggeriscono che ORF-A non rappresenta un critico transattivatore virale ma potrebbe avere altre funzioni non ancora riconosciute.
Tale conclusione è confermata da studi di cinetica di replicazione di cloni molecolari FIV contenenti una diversa combinazione
di stop codon e delezioni in ORF-A. In vitro, i cloni mutanti crescevano con efficienza simile al wild-type su fibroblasti renali
e macrofagi, mentre non erano in grado di replicare su linee cellulari T e linfoblasti primari. Tre mutanti saggiati in vivo hanno
mostrato proprietà di crescita simili a quelle osservate in vitro ed hanno indotto infezioni di minore entità rispetto al clone wildtype. Analogamente, gli effetti patogenetici si sono dimostrati sensibilmente ridotti soprattutto per quanto riguarda alterazioni a
carico del sistema nervoso centrale. Nel loro complesso questi risultati indicano che ORF-A svolge un ruolo importante nella
replicazione e patogenesi dell’infezione da FIV.
RISPOSTA IMMUNE E STRATEGIE REPLICATIVE DEGLI AGENTI INFETTIVI
IDENTIFICAZIONE DI UN REGOLATORE TRASCRIZIONALE DI ENTEROCOCCUS FAECALIS
HYPR E SUO RUOLO NELLA RISPOSTA ALLO STRESS OSSIDATIVO E NELLA SOPRAVVIVENZA
ALL’INTERNO DEI MACROFAGI
Maurizio Sanguinetti1, Brunella Posteraro1, Jean-Christophe Giard2, Nicolas Verneuil2, Yoann Le Breton2, Yanick Auffray2,
Axel Hartke2 e Giovanni Fadda1
1Istituto di Microbiologia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma e 2Laboratoire de Microbiologie de l’Environnement,
EA 956, USC INRA, IRBA, Université de Caen, Francia
Allo scopo di identificare i regolatori della risposta allo stress ossidativo in Enterococcus faecalis, un microrganismo sempre
più rilevante per la patologia umana, sono stati inattivati, mediante mutagenesi inserzionale, diversi geni che codificano per ipotetici regolatori trascrizionali, come risulta dall’analisi del genoma di E. faecalis, ormai completamente sequenziato. È stato così
ottenuto un mutante con delezione del locus ef2958 (denominato hypR da hydrogen peroxide regulator) che appariva altamente
sensibile al challenge ossidativo causato dal perossido di idrogeno. Tale mutante hypR veniva saggiato in un modello di infezione in vivo-in vitro di macrofagi peritoneali di topo e la sua capacità di sopravvivenza intracellulare risultava significativamente ridotta rispetto al ceppo parentale wild-type JH2-2. Per valutare l’attività regolatoria di tale fattore trascrizionale è stata
eseguita l’analisi Northern blot con sonde specifiche dei geni che codificano per enzimi antiossidanti noti, da cui si dimostrava
che il gene ahpCF (codificante per un alchil idroperossido reduttasi) era meno espresso nelle cellule mutanti. Inoltre, come risulta da saggi di shift di mobilità del complesso DNA-proteine, HypR era in grado di regolare direttamente l’espressione di hypR
stesso e dell’operone ahpCF. Nell’insieme, i risultati ottenuti dimostrano che HypR appare direttamente coinvolto nell’espressione dei geni ahpCF nella condizione di stress ossidativo e che tale regolatore potrebbe svolgere un importante ruolo nella virulenza di E. faecalis.
76
32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
LA SOVVERSIONE DEL DIFFERENZIAMENTO DI MONOCITI UMANI IN CELLULE DENDRITICHE COME POSSIBILE CONCAUSA DEI LIMITI DEL BCG COME VACCINO CONTRO LA
TUBERCOLOSI
M.C. Gagliardi, R. Teloni, S. Mariotti, E. Iona, M. Pardini, L. Fattorini, G. Orefici, e R. Nisini
Dipartimento MIPI, Istituto Superiore di Sanità. Roma
Il solo vaccino disponibile per la prevenzione della tubercolosi è il Bacillus Calmette Guérin (BCG). L’efficacia di tale vaccino
nella prevenzione della tubercolosi primaria è però discussa. Infatti, l’efficacia del BCG come vaccino varia dallo zero all’ottanta percento in diversi trials. In un modello di differenziamento di monociti in cellule dendritiche (CD), abbiamo dimostrato
come M. tuberculosis sia in grado di sovvertire il normale differenziamento e di causare la generazione di CD atipiche. Abbiamo
quindi verificato se il BCG avesse simili capacità sovversive che potessero contribuire alla comprensione dei meccanismi che
limitano la sua efficacia. I dati dimostrano che le CD che derivano da monociti infettati con BCG (BCG-MoCD) e coltivati in
presenza di citochine capaci di indurre il loro differenziamento, sono cellule CD83, CD86 e CCR7 positive con elevati livelli
di MHC di Classe II, suggerendo la loro natura di CD mature, ma , al contrario delle CD che derivano da monociti non infettati
(NI-MoCD), non esprimono molecole della famiglia del CD1. Inoltre, le BCG-MoCD sono insensibili alla stimolazione con
LPS e hanno livelli d’espressione di molecole come CD40, CD80 e MHC di Classe II significativamente inferiori rispetto alle
NI-MoCD maturate con LPS. Inoltre, le BCG-MoCD sono incapaci di secernere IL-12, ma producono quantitativi significativamente superiori di IL-10, rispetto alle NI-MoCD. In un test di coltura leucocitaria mista, le BCG-MoCD hanno rivelato una
capacità minore, rispetto alle NI-MoCD di indurre proliferazione di linfociti T CD4+ naïve alloreattivi. Inoltre, di particolare
rilievo è l’osservazione che il priming dei linfociti T da parte di BCG-MoCD non è associato ad una polarizzazione funzionale:
mentre il priming con NI-MoCD è associato all’espansione di cellule Th1, capaci di sintetizzare IFNγ e IL-2, i linfociti T espansi dalle BCG-MoCD producono IL-2, ma non IFNγ e altre citochine. Si ritiene che la presenza di linfociti T specifici per antigeni micobatterici capaci di produrre IFNγ sia fondamentale per il controllo dell’infezione da M. tuberculosis. Dal momento che
i linfociti T espansi da BCG-MoCD non hanno tali caratteristiche e che quindi sono presumibilmente inefficaci nel limitare la
crescita di M. tuberculosis intracellulare, i nostri dati contribuiscono alla comprensione di possibili spiegazioni alternative della
scarsa efficacia della vaccinazione con BCG.
ALLESTIMENTO DI UN MODELLO SPERIMENTALE IN VITRO PER LO STUDIO DELLA RESISTENZA E DELLA RISPOSTA DI MYCOBACTERIUM BOVIS BCG AGLI INTERMEDI REATTIVI
DELL’AZOTO
W. Florio, G. Batoni, S. Esin, G. Maisetta, D. Bottai, F. Favilli, F. Brancatisano, M. Campa
Dipartimento di Patologia Sperimentale, Biotecnologie Mediche, Infettivologia ed Epidemiologia, Università degli Studi di Pisa
La produzione di intermedi reattivi dell’azoto (RNI) da parte dei macrofagi attivati è considerato un meccanismo di difesa
importante nella risposta all’infezione tubercolare. Scopo del presente lavoro è stato quello di allestire un modello sperimentale adeguato allo studio della resistenza e della risposta agli RNI, in vitro, da parte di Mycobacterium bovis bacillo di CalmetteGuérin (BCG). La possibile influenza del mezzo di coltura sulla resistenza di BCG agli RNI è stata valutata determinando la
diminuzione del numero di CFU in seguito ad esposizione del bacillo a diverse concentrazioni di sodio nitroprusside (SNP), un
generatore di RNI, in diversi mezzi di coltura: terreno di Sauton modificato, terreno di Middlebrook 7H9 (7H9) e terreno di
Dubos. La diminuzione del numero di CFU di BCG, osservata dopo 7 giorni d’incubazione con SNP 25 mM, variava da 1.86
log10 nel terreno di Sauton fino a 4.26 log10 nel terreno 7H9. Al fine di valutare se tale differenza fosse dovuta ad un effetto
antiossidante del mezzo, venivano misurate la variazione del potenziale redox (ORP) e la concentrazione di perossinitrito nei
sopranatanti di coltura in terreno di Sauton e in 7H9 dopo esposizione a SNP. L’aggiunta di SNP alle colture in 7H9 determinava, come atteso, un aumento del ORP; nelle colture in Sauton, invece, veniva riscontrata una diminuzione del ORP. Questa
osservazione suggerisce che gli RNI generati dal SNP nelle colture in Sauton possano reagire con una o più componenti della
coltura, che potrebbero avere un effetto neutralizzante nei loro confronti. La concentrazione di perossinitrito nelle colture in
Sauton e in 7H9 risultava di entità paragonabile a tutti i tempi saggiati. Tale parametro non sembra essere correlato, pertanto, al
diverso grado di resistenza di BCG al SNP nei due diversi terreni. La risposta di BCG allo stress da RNI veniva valutata mediante elettroforesi bi-dimensionale di proteine del micobatterio esposto a SNP. L’aggiunta di SNP alle colture di BCG in 7H9 induceva l’espressione differenziale di circa 20 polipeptidi. Quando BCG veniva sottoposto allo stesso tipo di stress in terreno di
Sauton, le differenze osservabili nel proteoma del microrganismo erano paragonabili a quelle dovute alla variabilità intrinseca
del metodo impiegato.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
77
BORDETELLA PERTUSSIS PROMUOVE LA MATURAZIONE DI CELLULE DENDRITICHE (DC)
UMANE ED UNA POLARIZZAZIONE Th-1 ATTRAVERSO L’INDUZIONE DI IL-23.
Giorgio Fedele, Paola Stefanelli, Fabiana Spensieri, Cecilia Fazio, Paola Mastrantonio and Clara M. Ausiello*.
Dipartimento di Malattie Infettive, Parassitarie ed Immunomediate, Istituto Superiore di Sanità, Roma
Bordetella pertussis è l’agente eziologico della pertosse, un’infezione acuta delle vie respiratorie. E’ ancora oggetto di dibattito
se B. pertussis sia in grado di sopravvivere all’interno delle cellule, tuttavia una risposta immunitaria (RI) cellulo-mediata (CMI)
è fondamentale per una protezione a lungo termine dalla malattia. Dato il ruolo centrale delle DC nell’ambito della risposta
immunitaria, abbiamo condotto esperimenti di infezione di cellule dendritiche monocito-derivate (MDDC) umane con B. pertussis, in particolare è stata valutata la capacità del batterio di essere internalizzato dalle MDDC, di sopravvivere intracellularmente, di interferire con la maturazione delle MDDC e di modificarne le attività funzionali, al fine di influenzare la risposta
immune dell’ospite. I risultati ottenuti mostrano che il batterio possiede una bassa capacità di essere internalizzato dalle MDDC
e di sopravvivere al loro interno. Le MDDC maturate in presenza di B. pertussis vanno comunque incontro ad una maturazione
fenotipica esprimendo molecole co-stimolatorie e marcatori molecolari di maturazione ed inoltre sono in grado di presentare
molecole antigeniche ai linfociti T inducendone una buona proliferazione. La produzione di citochine regolatorie da parte delle
MDDC infettate con B. pertussis ha evidenziato la presenza di grandi quantità di IL-10. Nonostante non ci sia produzione di IL12, citochina regolatoria Th1, esperimenti di polarizzazione con linfociti T “naïve” rivelano una differenziazione verso una RI
Th1, saggiata mediante analisi intracitoplasmatica di IFN-γ (Th1), IL-4, IL-5 (Th2) e test ELISA delle citochine secrete.
L’analisi dell’espressione genica delle proteine che compongono la famiglia delle citochine relate all’IL-12 ha dimostrato come
B. pertussis sia in grado di indurre nelle MDDC alti livelli della subunità p40 e p19 che compongono l’IL-23, al contrario sembra non indurre l’espressione della subunità p35 che insieme alla p40, compongono l’ IL-12. In conclusione i nostri dati mostrano che B. pertussis, anche se non sopravvive a lungo all’interno delle MDDC, promuove la sintesi di IL-23, una citochina recentemente scoperta in grado indurre una RI Th1. L’induzione di una ripsosta Th1 è fondamentale per lo svilupparsi di una RI CMI
caratteristica della protezione indotta dall’infezione naturale o dal vaccino cellulare contro la pertosse.
ILCD30 E IL GENE-3 DI ATTIVAZIONE LINFOCITARIA (CD223) SONO POTENZIALI MARCATORI
SIEROLOGICI DI ATTIVITÀ DEI LINFOCITI T HELPER (Th) NELLA VACCINAZIONE CONTRO LA
PERTOSSE.
Clara M. Ausiello, Raffaella Palazzo, Francesca Urbani, Fabiana Spensieri, Marco Massari1, Frédéric Triebel2, Marisa
Benagiano3, Mario Milco D‚Elios3, Gianfranco Del Prete3 and Antonio Cassone.
Dipartimento Malattie Infettive, Parassitarie e Immunomediate e 1Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e promozione della Salute, IstitutoSuperiore di Sanità, Roma, Italy; 2E.A. 35.45, Faculté de Pharmacie, Chatenay-Malabry, France;
3Dip. Medicina Interna, Università di Firenze, Italy
La risposta di memoria T con i profli linfocitari Th è coinvolta nella protezione contro la pertosse indotta dalla vaccinazione.
Tuttavia al momento non esiste la possibilità di misurare la risposta T specifica, indotta dalla vaccinazione primaria, direttamente nei sieri dei bambini, e questo non consente una facile determinazione dei correlati di protezione vaccinale. Il CD223 è
presente ed è rilasciato dai linfociti attivati T helper (Th) 1, mentre il CD30 è associato con una risposta immune (RI) Th2. Su
questa base abbiamo misurato i livelli sierici di queste due proteine per saggiare l’ipotesi che essi possano costituire un correlato/surrogato delle risposte Th in seguito a vaccinazione. I livelli di proteina solubile (s) CD30 e CD223 sono stati misurati,
con ELISA specifici, nei sieri dei bambini vaccinati contro la pertosse, con due tipi diversi di vaccini acellulari o con il vaccino a cellule intere, entrambi contenenti sia la componente tetanica (T) che quella difterica (D). Detti livelli sono stati quindi
messi in relazione con le risposte T linfocitarie e quelle anticorpali. Un gruppo di bambini vaccinati solo contro DT è stato utilizzato come controllo dello studio. I risultati hanno evidenziato che: i) i livelli di sCD30 e sCD223 sono inversamente correlati sia prima che dopo la vaccinazione, ad indicare due eventi fra loro alternativi; ii) i livelli di sCD30 sono diminuiti significativamente nel prelievo post- rispetto a quello pre-vaccinazione nel gruppo di controllo ma non nei gruppi dei bambini vaccinati contro la pertosse; iii) i livelli di sCD30 e sCD223 sono modulati in maniera differenziale dai vaccini anti-pertosse, in
relazione anche con la RI T e B specifica. In particolare, i livelli di sCD30 e sCD223 sembrano riflettere, rispettivamente, le RI
orientate Th2 e Th1. In conclusione, la determinazione di queste molecole nei sieri è correlata alla risposta T e può quindi fornire
informazioni sulla natura della RI anti-pertosse indotta dalla vaccinazione primaria nei bambini in modo semplice e rapido.
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32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
SAGGI DI VACCINAZIONE NEI CONFRONTI DEL VIRUS ERPETICO TIPO 1 DEL BOVINO
Castrucci G., Ferrari M.*, Salvatori D.**, Sardonini Q.***, Frigeri F.****, Petrini S., Lo Dico M., Marchini C.**, Rotola
A.*****, Amici A.**, Provinciali M.******, Tosini A.*, Angelini R.***, Cassai E.*****
Università di Perugia; * Istituto Zooprofilattico, Brescia; ** Università di Camerino; *** ASL 1, Pesaro; **** Università di
Udine; ***** Università di Ferrara; INRCA, Ancona.
Le prove si riferiscono a nove vaccini nei confronti del virus erpetico tipo 1 del bovino (BHV-1), di cui, uno rappresentato da
uno stipite attivo di BHV-1 gE negativo (A), quattro da vaccini contenenti virus attivo attenuato (B,C,D,E), due riferiti a prodotti con virus inattivato (F,G), uno costituito da subunità del virus (H) ed uno consistente in un prodotto contenente il gene gD,
del virus integrato nel DNA di un plasmide (I). Ciascun vaccino è stato inoculato a vitelli di tre mesi di età e privi di anticorpi
per BHV-1. A distanza di 30 (vaccini da A ad H) o di 79 (vaccino I) giorni dalla vaccinazione tutti i vitelli sono stati esposti
all’infezione da parte di BHV-1 virulento. I risultati possono essere schematizzati come segue. 1. Tutti i vaccini si sono rivelati
innocui per gli animali saggiati. 2. I prodotti contenenti virus attivo (A = gE negativo) o attenuato (B,C,D,E), hanno protetto gli
animali dalla comparsa dei sintomi clinici di malattia e, parzialmente, anche dall’infezione, mentre, nel caso dei vaccini spenti
(F,G) e di quello contenente subunità del virus (H), parziale è risultata la protezione sia nei confronti dell’evoluzione clinica
della malattia e sia dell’infezione. 3. Il vaccino DNA (I), a prescindere dalle vie di inoculazione e dalla concentrazione dell’inoculo, non ha protetto gli animali dalla infezione e nè dalla comparsa delle manifestazioni cliniche della stessa. L’unico
reperto positivo si riferisce alla reazione immunitaria verso BHV-1, osservata nei soggetti vaccinati per via intramuscolare.
P38MAPK: UNA CHINASI CELLULARE COINVOLTA NELLA REPLICAZIONE DEL VIRUS
INFLUENZALE E NELL’APOPTOSI DELLE CELLULE INFETTATE.
1L. Nencioni,2G. De Chiara,1M.E. Marcocci,2E. Garaci,1A.T. Palamara.
1Fac.Farmacia Univ.Roma “La Sapienza”,2Dip.Med.Sper. Univ.Roma “Tor Vergata”
Sebbene le strategie replicative del virus influenzale siano ormai ben descritte, poco ancora è noto riguardo ai meccanismi intracellulari che favoriscono la replicazione virale e regolano il destino di una cellula infettata. E’ noto che il virus influenzale induce
l’attivazione di alcune cascate delle MAP chinasi fra cui ERK, JNK e p38MAPK. Nostri recenti studi hanno dimostrato che l’espressione della proteina antiapoptotica Bcl-2, in alcune popolazioni cellulari, interferisce con la replicazione del virus influenzale e con l’apoptosi delle cellule infettate, attraverso l’interazione con p38MAPK.
Al fine di definire il ruolo svolto da p38MAPK nel ciclo replicativo del virus influenzale in rapporto all’espressione della proteina Bcl-2, cellule caratterizzate da una diversa espressione endogena di Bcl-2 e cellule trasfettate con un gene codificante per
Bcl-2 o per il suo mutante deleto del loop (MDCKBcl-2∆loop) contenente i siti fosforilativi per le MAPK, sono state infettate
con il virus influenzale A/PR8/H1N1.
I risultati ottenuti hanno dimostrato che l’attivazione di p38MAPK, da parte del virus influenzale, è coinvolta nel fenomeno dell’apoptosi delle cellule infettate. Infatti, in cellule Bcl-2+, p38MAPK fosforila Bcl-2, evento cui consegue la perdita della funzionalità biologica della proteina e l’apoptosi cellulare. La quota di cellule apoptotiche appare inibita nelle MDCKBcl-2∆loop.
Inoltre, l’attivazione di p38MAPK è coinvolta nel ciclo replicativo virale. Infatti, il trattamento di cellule Bcl-2– con uno specifico inibitore di p38MAPK (SB203580) causa una significativa riduzione (64.8%) della replicazione virale rispetto a quella in
cellule non trattate, interferendo sul traffico nucleo-citoplasmatico della nucleoproteina (NP) virale. Un fenomeno analogo si
osserva in cellule Bcl-2+. Esperimenti di co-immunoprecipitazione e di marcatura biosintetica con 32P hanno dimostrato che,
durante l’infezione, p38MAPK interagisce direttamente e fosforila la proteina NP, evento chiave per la sua localizzazione nel
citoplasma.
Nel complesso i nostri dati indicano l’importanza di una chinasi cellulare, p38MAPK, nella replicazione virale e nell’apoptosi
indotta dal virus influenzale e suggeriscono tale enzima come potenziale bersaglio per nuove strategie terapeutiche mirate ad
inattivare funzioni della cellula essenziali per la replicazione virale, evitando così gli svantaggi presentati da alcuni antivirali ad
azione diretta su funzioni e/o strutture virali.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
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INIBIZIONE DELL’ATTIVITÀ DI ELICASI DELLA PROTEINA NON STRUTTURALE 3 (NS3) DEL
VIRUS DELL’EPATITE C (HCV) ATTRAVERSO L’ESPRESSIONE INTRACELLULARE DI UN ANTICORPO UMANO RICOMBINANTE.
Mario Perotti 1, Silvia Carletti 1, Nicasio Mancini1, Roberto Burioni1, Massimo Clementi1, Ramesh Prabhu2, Nutan Khalap2,
Robert F. Garry3 and Srikanta Dash2
1Università “Vita-Salute San Raffaele”, IRCCS Istituto Scientifico San Raffaele, 20132 Milano, Italia
2Dipartimento di Patologia e Medicina di Laboratorio, 3Microbiologia, Tulane University Health Sciences Center, 1430 Tulane
Avenue, New Orleans, LA 70112
Il genoma di HCV è costituito da un singolo filamento di RNA a polarità positiva lungo circa 9600 nucleotidi codificante un’unica poliproteina di circa 3000 aminoacidi, successivamente frammentata dall’azione di proteasi cellulari e virali nelle proteine
strutturali (l’antigene del core, le glicoproteine di superficie E1 ed E2), e non strutturali (NS2, NS3, NS4, NS5).
La proteina NS3 è un proteina multifunzionale, la cui estremità N-terminale possiede attività di proteasi, e l’estremità C-terminale è dotata di attività di elicasi/ATPasi. L’attività di proteasi agisce a livello della poliproteina liberando le proteine non strutturali tra cui la RNA polimerasi (NS5), mentre l’attività di elicasi/ATPasi interviene nella replicazione virale aprendo i filamenti
RNA-RNA in direzione 3’-5’ utilizzando come fonte di energia il legame trifosfato degli NTP. Si tratta pertanto di attività enzimatiche che hanno un ruolo cruciale per la replicazione del virus, e che rappresentano un bersaglio ideale per lo sviluppo di
agenti antivirali. Noi abbiamo clonato il repertorio anticorpale di una paziente con infezione cronica da HCV in una library combinatoriale di esposizione fagica (phage-display), dalla quale abbiamo selezionato un Fab monoclonale diretto contro un epitopo conformazionale di NS3. Questo Fab prodotto in E. coli e successivamente purificato ha mostrato la capacità di inibire l’attività enzimatica di elicasi di NS3. Per valutare l’effetto sulla replicazione di HCV, il Fab è stato clonato in un apposito vettore
di espressione, in modo da produrre un anticorpo intero IgG1. L’espressione intracellulare di questo anticorpo in linee cellulari
in grado di replicare RNA subgenomico o intero di HCV, ha mostrato una significativa riduzione dell’ HCV-RNA e dell’espressione di proteine virali. Questi risultati suggeriscono come l’espressione intracellulare di anticorpi diretti contro proteine
virali e in grado di inibire importanti funzioni del virus, rappresenti una possibile strategia da seguire per lo sviluppo di una terapia efficace contro l’infezione da HCV.
VALUTAZIONE QUANTITATIVA DI SOTTOPOPOLAZIONI ANTICORPALI DIRETTE CONTRO LA
GLICOPROTEINA E2 DI HCV IN PAZIENTI CON DIVERSA RISPOSTA ALLA TERAPIA CON INTERFERONE E RIBAVIRINA
N. Mancini1, S. Carletti1, M. Perotti1, L. Romanò2, A. R. Zanetti2, M. Clementi1 e R. Burioni1
1 Università “Vita-Salute San Raffaele”, IRCCS Istituto Scientifico San Raffaele, Laboratorio di Microbiologia, Diagnostica e
Ricerca San Raffaele
2 Istituto di Virologia, Universita degli Studi di Milano
Il ruolo della risposta anticorpale contro il virus dell’epatite C ed in particolare contro le sue glicoproteine di superficie (E1; E2)
non è ancora ben definito. A dati sperimentali e clinici che ne minimizzano l’importanza se ne contrappongono altri di segno
opposto. Questa apparente discordanza può essere dovuta all’estrema varietà della risposta umorale e alla coesistenza di anticorpi diretti contro lo stesso antigene ma con diversa attività neutralizzante. Lo studio delle componenti della risposta umorale
anti-HCV/E2, condotta dal nostro gruppo, ha evidenziato come a cloni con attività neutralizzante in un sistema di pseudotipi
virali se ne associno altri inattivi; un clone (e 509) incrementa l’infettività degli pseudotipi. Per correlare i dati ottenuti in vitro
con i monoclonali a parametri clinico-virologici di pazienti con diverso esito dell’infezione, è stato da noi messo a punto un saggio per quantizzare, nell’ambito della risposta anti-E2, le sottopopolazioni anticorpali dirette contro diversi epitopi conservati.
Mediante un ELISA competitivo che valuta la capacità di diluizioni progressive di siero di inibire il legame all’antigene dei singoli monoclonali opportunamente marcati, è stata validata la misura del FIT (Fab inhibition titer) corrispondente alla massima
diluizione di siero capace di inibire del 50% il segnale del monoclonale marcato. In questo studio il FIT per i diversi epitopi di
HCV/E2 è stato calcolato in due gruppi di pazienti suddivisi in base alla risposta alla terapia antivirale. Per ogni paziente sono
stati presi in considerazione due campioni di siero/plasma, uno prima dell’inizio della terapia e uno dopo 6 mesi. Per ogni campione sono stati valutati i parametri clinico-virologici utili alla definizione di ogni caso. Sui 24 pazienti studiati sono state evidenziate alcune differenze statisticamente significative e con interessanti correlazioni all’attività in vitro dei singoli monoclonali.
I pazienti non responder hanno, ad esempio, evidenziato valori significativamente più alti di FIT per l’e509 nei prelievi effettuati a termine del periodo di terapia rispetto a quelli rilevati prima del trattamento. Ancorché non definitivi i dati ottenuti anche
con gli altri monoclonali suggeriscono un possibile ruolo prognostico della caratterizzazione di sottopopolazioni anticorpali antiE2 in corso di terapia. Una conoscenza più profonda del ruolo delle diverse componenti anticorpali nel rapporto ospite-parassita potrebbe altresì portare alla messa a punto di valide strategie terapeutiche alternative.
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32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
L’ACIDO USNICO INIBISCE LA FORMAZIONE DI BIOFILM IN S. AUREUS E INTERFERISCE CON
I FENOMENI DI QUORUM SENSING IN P. AERUGINOSA
Francolini I.1, Guaglianone E.2, Piozzi A.1, Norris P.3, Stoodley P.4, Donelli G.2
Dipartimento di Chimica, Università “La Sapienza”, Roma 1; Dipartimento di Tecnologie e Salute, Istituto Superiore di Sanità,
Roma 2; Center for Biofilm Engineering, Bozeman, MT, Usa 3; Center for Genomic Sciences, Pittsburgh, PA, Usa 4;
Il principale rischio correlato all’utilizzo di dispositivi medici impiantabili è rappresentato dall’insorgenza di infezioni locali e/o
sistemiche associate alla colonizzazione microbica della superficie dei dispositivi stessi. Si è in particolare osservato che tutte
le specie microbiche responsabili di tali infezioni sono in grado di crescere in forma sessile sulle superfici polimeriche dei dispositivi, dando luogo alla formazione di strutture eterogenee, note come biofilm, costituite da microcolonie di batteri e/o funghi immerse in una matrice polisaccaridica da loro prodotta.
Tra le specie batteriche gram-positive coinvolte sono prevalenti lo Staphylococcus aureus e gli stafilococchi coagulasi-negativi, mentre Pseudomonas aeruginosa ha un ruolo importante tra quelle gram-negative. In caso di fallimento del trattamento antibiotico per via sistemica o localizzata (“antibiotic lock therapy”), la rimozione del dispositivo rappresenta l’unica alternativa,
anche se nella maggior parte dei casi si deve procedere ad un nuovo impianto.
Interessanti prospettive si sono tuttavia aperte da alcuni anni con lo sviluppo di dispositivi in grado di inibire la crescita microbica tramite il rilascio superficiale di sostanze antisettiche o antibiotiche.
Il nostro gruppo ha sviluppato una serie di modelli di interazione polimero-antibiotico, giungendo recentemente alla messa a
punto di un sistema poliuretano-acido usnico con promettenti,possibili ricadute applicative a livello industriale. L’acido usnico,
appartenente alla classe dei di-benzofuranoni, è un metabolita secondario del lichene Usnea barbata, particolarmente attivo contro i batteri gram-positivi,i micobatteri e diverse specie di funghi patogeni; per queste sue proprietà
antimicrobiche é largamente impiegato per applicazioni topiche (in prodotti cosmetici e per l’igiene orale) ma non in terapia
sistemica, data la sua sostanziale insolubilità in acqua.
L’ottenuta, massiva incorporazione dell’acido usnico in matrici poliuretaniche ci ha permesso di evidenziare sia una elevata attività inibente nei riguardi della formazione di biofilm da parte di S. aureus, che una significativa interferenza con i fenomeni di
quorum sensing in P. aeruginosa, aprendo interessanti prospettive per il controllo della virulenza di questo microrganismo.
Poster
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32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
LACTOCOCCUS GARVIEAE NELLA FILIERA CASEARIA:INDICATORE DI TIPICITA’ O POTENZIALE PATOGENO?
M.G. Fortina, R. Foschino, C. Picozzi, G. Ricci
Dip. Scienze e Tecnologie Alimentari e Microbiologiche – Università degli Studi di Milano
Le tecnologie di preparazione della maggior parte dei formaggi tradizionali italiani, tra cui molti a Denominazione di Origine
Protetta, prevedono la trasformazione diretta del latte crudo. L’impiego di tale materia prima, senza l’adozione di trattamenti
termici di risanamento, consente lo sviluppo nella matrice casearia di una popolazione microbica autoctona che rappresenta un
fattore di tipicità del prodotto stesso. Tuttavia il ruolo di alcuni ecotipi batterici non è ancora del tutto chiarito, sia per quanto riguarda il contributo alla definizione del prodotto finito, che per quanto concerne una potenziale patogenicità ad essi
correlabile.
Recentemente Lactococcus garvieae è stato riscontrato come componente dominante in campioni di latte crudo sia vaccino che
caprino, destinati rispettivamente alla produzione di Toma piemontese e di caprino lombardo, e in campioni di cagliata e di prodotto finito. L’isolamento selettivo e la successiva identificazione tassonomica sono stati ottenuti attraverso l’impiego di alcune
metodologie di elevato potere discriminante, quali l’analisi della regione spaziatrice dell’operone ribosomale, il sequenziamento del gene 16S rDNA e l’impiego di sonde specie-specifiche. Sui biotipi di nuovo isolamento sono stati condotti studi preliminari riguardanti caratteristiche fenotipiche, proprietà biotecnologiche ed alcuni aspetti negativi che potrebbero essere legati alla
loro presenza in matrici alimentari, quali la capacità emolitica e la resistenza agli antibiotici. E’ da sottolinerare che L. garvieae,
inizialmente ascritto alla specie Enterococcus seriolicida, è ritenuto responsabile di episodi di setticemia nei pesci.
I dati finora ottenuti conducono a trarre le seguenti considerazioni: i) il latte ed i suoi derivati possono essere considerati un habitat abituale per questa specie? Il fatto che solo recentemente L. garvieae sia stato riscontrato nel settore caseario potrebbe essere imputabile all’impiego di tecniche di caratterizzazione di scarso potere discriminate, quali quelle fenotipiche, che hanno portato a confonderlo con la specie L. lactis ii) la presenza predominate di L. garvieae è direttamente correlata alla tipicità dei prodotti? iii) quali rapporti esistono tra presenza di L. garvieae e sicurezza dell’alimento? In particolare quali fattori normalmente
correlati alla virulenza batterica sono presenti in L. garvieae e quali fra questi potrebbero esplicarsi, in modo tale da rendere i
ceppi caseari di L. garvieae potenziali patogeni?
MOLECOLE SEGNALE DI COMUNICAZIONE INTERCELLULARE PER LA DETERMINAZIONE DI
BATTERI PATOGENI NEGLI ALIMENTI
CARUSO Marisa1, ROMANO Patrizia1, BIANCO Giuliana2, CATALDI Tommaso R.I.2, ANGELOTTI Tiziana2
1 Dipartimento di Biologia DBAF, Università degli Studi della Basilicata, Campus Macchia Romana, Potenza,
E-mail: [email protected].
2 Dipartimento di Chimica, Università degli Studi della Basilicata, Potenza.
Il ruolo del “quorum sensing” nella patogenicità di diversi batteri coinvolti nella contaminazione degli alimenti è stato recentemente riportato in letteratura e negli ultimi anni è divenuto oggetto di crescente interesse nel settore dell’ecologia microbica.
La messa a punto di tecniche efficaci, selettive e sensibili per lo sviluppo di metodi semplici per la determinazione delle molecole segnale coinvolte nel quorum sensing potrebbe essere la base per nuove strategie mirate a rivelare la presenza di batteri
patogeni a livelli critici di concentrazione in materie prime, prodotti trasformati e ingredienti alimentari. In questo lavoro, è stato
applicato un metodo di gascromatografia accoppiata alla spettrometria di massa (1) per la determinazione delle molecole segnale coinvolte nel quorum sensing dei batteri patogeni Yersinia enterocolitica ed Aeromonas hydrophila. Le molecole considerate
sono stati i lattoni dell’N-butanoil, -esanoil, -eptanoil, -ottanoil, -decanoil, -dodecanoil e tetradecanoil omoserina (BHL, HHL,
HpHL, OHL, DHL, dDHL e tDHL), ricercate nelle colture cellulari in Tryptone Soya Broth e Skim Milk di tre ceppi di Y. enterocolitica ed un ceppo di A. hydrophila. Il profilo cromatografico degli estratti dei brodi colturali dei tre ceppi di Y. enterocolitica è risultato caratterizzato dalla presenza dello stesso pattern di N-acil-L-omoserina lattoni, identificati come HHL, DHL,
dDHL e tDHL. Nell’estratto del ceppo di A. hydrophila oltre ai quattro lattoni ritrovati in Y. enterocolitica è stato individuato
anche il lattone BHL. La tipologia delle molecole segnale sintetizzate da Y. enterocolitica e A. hydrophila è risultata la stessa in
entrambi i substrati di crescita. Poiché lo sviluppo di queste due specie ha determinato un profilo cromatografico differente,
l’approfondimento della conoscenza delle molecole segnale prodotte dai diversi microrganismi patogeni può trovare un’applicazione utile per la individuazione di una presenza significativa negli alimenti di specie microbiche indesiderate.
Bibliografia
1.Cataldi T.R.I., Bianco G., Frommgerger M., Schmitt-Kopplin Ph. Rapid Comm. Mass Spectrom. 18: 1341-1344, 2004
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
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MODELLAZIONE DELLA CRESCITA DI STAPHYLOCOCCUS AUREUS IN PRESENZA DI DIFFERENTI MISCELE GASSOSE.
Manuela Zanola, Mauro Scarpellini, Laura Franzetti, Antonietta Galli
Dipartimento di Scienze e Tecnologie Alimentari sez. Microbiologia Agraria Alimentare Ecologica Università degli Studi di Milano
La sicurezza e la stabilità dei prodotti alimentari si basa sull’utilizzo di una combinazione di tecniche che permettono di esercitare un controllo sulla moltiplicazione microbica (hurdle tecnology). Le moderne tecnologie di confezionamento mirano a ridurre la presenza di ossigeno a contatto con gli alimenti, nel tentativo di prolungarne la shelf-life. In questo modo, microrganismi
anaerobi/anaerobi facoltativi, potrebbero trovare condizioni idonee sia per la crescita che per l’accumulo di metaboliti tossici.
Al fine di approfondire gli effetti di queste condizioni sulla qualità igienica e microbiologica di alimenti confezionati si è cercato di individuare per Staphylococcus aureus le soglie minime di concentrazione di O2 e di CO2, necessarie per inibirne lo sviluppo e la produzione di enterotossina. Nella prima fase della ricerca il ceppo test (Staphylococcus aureus ATCC 13565) è stato
inoculato in un brodo colturale (BHI) ottimale per il microrganismo. Il confezionamento è avvenuto in presenza di 6 differenti
miscele gassose costituite da 0% e da 5% di O2 associato rispettivamente a concentrazioni crescenti di CO2 (0%; 5% e 50%)
L’incubazione è stata effettuata a 25°C e a 12°C.
In un’altra serie di prove Staphylococcus aureus è stato inoculato in una crema all’uovo, alimento a rischio per la presenza di
tale microrganismo; per il confezionamento sono state adottate le medesime modalità delle prove in liquido, mentre la conservazione è avvenuta solo a 12°C, valore prossimo a quello della realtà distributiva.
A tempi stabiliti, per un periodo complessivo di 20 giorni, è stata controllata la crescita del microrganismo e i dati sono stati utilizzati per descriverne la crescita, mediante idonei modelli matematici, che hanno permesso di stabilire, per ogni condizione, le
fasi più interessanti della crescita microbica: lag fase (l), massima velocità di crescita (mm) e valore limite superiore (A).
Parallelamente è stata verificata la produzione di enterotossina.
Il lavoro, seppur preliminare, ha messo in evidenza l’elevata criticità delle basse pressioni parziali di ossigeno quando combinate a livelli non letali di CO2 sullo sviluppo dello Staphylococcus aureus e sulla produzione di enterotossina. In un ambiente
in cui il microrganismo è sottoposto all’azione dei due gas, infatti, l’effetto delle variabili individuali non può essere valutato
indipendentemente dalle loro reciproche interazioni.
LACTOBACILLUS CASEI: MIGLIORAMENTO QUALITATIVO E NUTRIZIONALE DEL PECORINO
SARDO
Mangia N.P., Madrau M.A., Murgia M.A., Sanna M.G., Deiana P.
Dipartimento di Scienze Ambientali Agrarie e Biotecnologie Agro-alimentari, Sezione di Microbiologia Agraria,
Università degli Studi di Sassari, Sassari.
L’isolamento, la caratterizzazione e la selezione dei batteri lattici autoctoni presenti nel latte ovino e nel formaggio Pecorino
Sardo a diversi tempi di maturazione, ha consentito la preparazione di uno starter sperimentale in cui si è fatto uso di specie
potenzialmente probiotiche come il Lactobacillus casei, sinora non impiegate come colture starter in questa tipologia di prodotto. E’ stata verificata la rispondenza nel processo di caseificazione, confrontando il prodotto sperimentale ottenuto con quello fabbricato mediante tecnologia tradizionale. Sono stati studiati i parametri microbiologici e chimico-fisici durante tutto il
periodo di maturazione dei formaggi. Nei formaggi sperimentali si è evidenziato un più rapido accumulo degli amminoacidi
liberi, soprattutto essenziali, nelle fasi finali della stagionatura, e una quantità inferiore di acidi grassi liberi rispetto a quelli tradizionali, anche se il prodotto non ha manifestato differenze significative dal punto di vista sensoriale.
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32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
POTERE ANTIOSSIDANTE NEL VINO COME MARKER DI QUALITÀ PER LA SELEZIONE DI
LIEVITI STARTER.
PARAGGIO Margherita, FIORE Concetta e ROMANO Patrizia.
Dipartimento di Biologia, Difesa e Biotecnologie Agro-Forestali. Università degli Studi della Basilicata, 85100 Potenza.
e-mail: [email protected]
La qualità del vino è strettamente correlata alle varie specie e/o ceppi microbici che sviluppano durante tutto il processo fermentativo. Nel vino si ritrova un’ampia varietà di composti, alcuni dei quali già presenti nei mosti, altri modificati o prodotti
durante il processo di vinificazione ad opera dell’attività dei lieviti. I composti secondari oltre a rappresentare, nel loro insieme,
la qualità organolettica possono esercitare un effetto positivo dovuto ai composti ad azione antiossidante. Tra questi, i polifenoli, largamente distribuiti in natura, oltre all’attività antiossidante hanno azione anticarcinogenica, antiaterogenica, antinfiammatoria, antibatterica ed antivirale. In questo lavoro è stata studiata l’evoluzione dei polifenoli totali (PFT) durante il processo fermentativo al fine di correlare il loro contenuto all’attività del ceppo di lievito che ha condotto la. L’obiettivo principale del lavoro
è stato di individuare le combinazioni ottimali lievito/PFT da utilizzare come marker di qualità e salubrità del vino. Diciannove
ceppi di Saccharomyces cerevisiae, di origine diversa, sono stati saggiati in fermentazione su scala pilota in mosto Aglianico e
successivamente sedici di questi sono stati saggiati su scala di laboratorio in cinque diversi mosti (Aglianico Basilicata,
Aglianico Puglia, Cannonau, Bombino nero, Fiano e Vermentino). I vini sperimentali sono stati poi analizzati per diversi parametri (pH, etanolo, PFT, capacità antiossidante) e i dati ottenuti analizzati statisticamente. Per verificare se i ceppi di S. cerevisiae fossero in grado, dalla stessa matrice di partenza, di influire sul contenuto in polifenoli totali (PFT), nei vini sperimentali
questo parametro è stato correlato al contenuto in etanolo. In linea generale è stata evidenziata una certa variabilità nel contenuto
in PFT, compreso tra un minimo di 1400 mg/l ed un massimo di 2100 mg/l a parità di alcool prodotto. Questi risultati permettono di associare la caratteristica del contenuto in polifenoli anche all’attività del ceppo starter, individuando particolari lieviti
che sembrano essere dotati della capacità di esaltare il contenuto in PFT e che potremmo definire come ceppi antiossidanti positivi, in grado quindi di conferire un valore aggiunto al prodotto “vino”.
COMPOSTI ORGANICI VOLATILI SOLFORATI (VOSCs) PRODOTTI DA LIEVITI ISOLATI DA
ASCOCARPI DI TARTUFO NERO (TUBER MELANOSPORUM VITT.)
B. Turchetti,1 C. Gasparetti,2 P. Buzzini,1 L. Forti,2 A. Vaughan-Martini,1 A. Martini,1 e U. M. Pagnoni 2
1 Dipartimento di Biologia Vegetale e Biotecnologie Agroambientali, Sezione di Microbiologia Applicata, Università di Perugia
2 Dipartimento di Chimica, Università di Modena e Reggio Emilia
Diciannove ceppi di lieviti ascomiceti e basidiomiceti isolati da ascocarpi di tartufo nero (Tuber melanosporum Vitt.), appartenenti ai generi Candida, Bulleromyces, Debaryomyces, Trichosporon e Rhodotorula, sono risultati in grado di assimilare Lmetionina e di produrre composti organici volatili solforati (VOSCs). In particolare, sono stati prodotti: metantiolo (MTL), Smetil-tioacetato (MTA), dimetil solfuro (DMS), dimetil disolfuro (DMDS), dimetil trisolfuro (DMTS), diedro-2-metil-3(2H)tiofenone (DMTP) e 3-(metiltio)-1-propanolo (MTP). Quest’ultimo composto ha mostrato concentrazioni variabili da 50 mg/l a
2.38 g/l, significativamente (P < 0.01) superiori a quelle osservate per gli altri volatili. MTA, DMDS e DMTP sono stati prodotti in concentrazioni rilevanti da ceppi di Deb. hansenii, Tr. ovoides e Rh. fujisanensis. I differenti VOSCs prodotti, quantificati tramite metodologia SPME + GC-MS, hanno mostrato una distribuzione di tipo ceppo-specifico, sia dal punto di vista qualitativo, che quantitativo.
Poiché alcune delle molecole osservate nel presente studio risultano essere caratteristiche dell’aroma di T. melanosporum, è possibile postulare un ruolo complementare dei lieviti associati a questo habitat nella formazione dell’aroma finale del tartufo tramite la sintesi di specifici componenti volatili.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
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SOPRAVVIVENZA DI ASPERGILLUS NIGER E PENICILLIUM SP. IN SUCCO D’ARANCIA FRESCO
CITRUS SINENSIS MANTENUTO A TEMPERATURE REFRIGERATE.
A. Marino, C. Fiorentino, L. Lombardo, A. Tomaino, F. Cimino, *P. Dugo, *M. Lo Presti, A. Nostro, V. Alonzo.
Dipartimento Farmaco-Biologico-*Dipartimento Farmaco-Chimico, Università degli Studi di Messina.
Il consumo di agrumi, sia come frutti sia come succhi freschi, data la concentrazione di fitonutrienti (fenilpropanoidi, flavonoidi, antocianine e vitamina C) ad azione antiossidante, è sempre consigliato in una dieta per una corretta alimentazione. La richiesta di alimenti freschi e naturali, ha portato alla riduzione dell’uso di conservanti e dei livelli di sale e zucchero ed ha aumentato l’interesse verso la sicurezza microbiologica degli alimenti. Sono stati contaminati sperimentalmente succhi d’arancia freschi
(Citrus sinensis varietà Moro, Sanguinello e Tarocco) con Aspergillus niger e Penicillium sp. e mantenuti a 4°C per 4 settimane. L’obiettivo dello studio è stato quello di saggiare la sopravvivenza dei contaminanti e monitorare, nei succhi, le variazioni
delle concentrazioni di acido ascorbico e di antocianine (totali, cianidina-3-(6“ malonyl) glucoside, cianidina-3-glucoside), nonché dell’attività antiossidante. I risultati ottenuti mostrano una buona sopravvivenza, nei succhi di tutte le varietà saggiate, di
queste muffe che mantengono nelle quattro settimane la carica iniziale. La concentrazione dell’acido ascorbico nei succhi delle
tre varietà si riduce gradualmente nel tempo. Nei campioni, varietà Tarocco e Moro, contaminati con A. niger la riduzione, alla
quarta settimana, è totale. Nei campioni di tutte le varietà, contaminati con Penicillium sp., la riduzione è minore e una differenza significativamente più marcata (P< 0,01) si rileva, rispetto agli altri campioni, per la varietà Sanguinello. L’attività antiossidante diminuisce in tutti i campioni; in particolare la differenza è significativa (P<0,05) nel campione, varietà Tarocco, contaminato con A. niger. Nel campione, varietà Moro, contaminato da questa muffa si osserva una minore riduzione. La degradazione delle antocianine è graduale e si osserva in tutti i campioni contaminati e non ad eccezione del campione di controllo,
varietà Moro, dove alla quarta settimana si evidenzia un aumento della concentrazione delle antocianine totali. La contaminazione di succhi freschi con miceti è persistente e ne riduce le proprietà antiossidanti.
EFFETTO DI UN PRODOTTO ALIMENTARE CONTENENTE PROBIOTICO E PREBIOTICO SUL
MICROBIOTA INTESTINALE DI SOGGETTI DELLA TERZA ETA’.
Marta Granata1, Giovanni Brandi2, Bruno Biavati1.
1Dipartimento di Scienze e Tecnologie Agroambientali, Università di Bologna.
2Istituto di Ematologia e Oncologia Medica, Università di Bologna.
Il tratto gastro-intestinale umano è un complesso ecosistema batterico costituito in prevalenza da anaerobi obbligati. La composizione di questo microbiota svolge un ruolo significativo per la nutrizione e la salute dell’uomo. Nel corso della vita la flora
intestinale subisce una notevole evoluzione che giustifica alcuni aspetti tipici dell’età avanzata, come la diminuzione delle difese immunologiche e la facilitata contaminazione intestinale da parte di ceppi patogeni.
L’utilizzo di cibi supplementati con probiotici e prebiotici potrebbe favorire le difese dell’organismo del soggetto anziano verso
le infezioni e permettere una migliore qualità della vita.
L’obbiettivo di questo studio è quello di verificare la capacità di colonizzare l’intestino di soggetti di età compresa tra i 70 e gli
80 anni, da parte di Lactobacillus rhamnosus GG (Gorbach & Goldin) (LGG).
Un gruppo di anziani è stato trattato per circa un mese con un prodotto alimentare: yogurt vivivivo (Granarolo). Sono stati fatti
per ciascun soggetto tre prelievi e relative analisi ai tempi T0 (prima della somministrazione), T1 (durante la somministrazione)
e T2 (dopo un mese di sospensione). Sono stati valutati coi metodi microbiologici tradizionali, mediante terreni selettivi, i
seguenti gruppi microbici: mesofili aerobi e anaerobi totali, lattobacilli, bifidobatteri, Bacteroides, clostridi, E.coli, coliformi,
enterobatteri e il microrganismo probiotico LGG; mentre mediante utilizzo di tecniche molecolari quali PCR e ibridazione su
membrana è stato valutato qualitativamente e quantitativamente solo l’ LGG.
L’andamento dei lattobacilli, valutato mediante tecniche tradizionali, ha confermato le aspettative in quanto si verifica un
aumento numerico dei batteri lattici durante la somministrazione del prodotto alimentare contenente L. bulgaricus ed LGG.
I risultati, sebbene non ancora completi, ottenuti con l’utilizzo delle tecniche molecolari, hanno parzialmente confermato la
colonizzazione dell’LGG a livello intestinale.
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32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
PROPRIETA’ PROBIOTICHE DI CEPPI DI LACTOBACILLUS SPP. ISOLATI DA INSACCATI CARNEI
FERMENTATI
Pennacchia Carmela & Villani Francesco
Dipartimento di Scienza degli Alimenti, Sezione di Microbiologia Agraria, Alimentare, Ambientale e di Igiene, Stazione di
Microbiologia Industriale, Università degli Studi di Napoli “Federico II” Portici (Naples), e-mail: [email protected]
I probiotici sono microrganismi in grado di influire positivamente sulla salute dell’ospite e comunemente ingeriti attraverso prodotti fermentati a base di latte. Recentemente però si sta sviluppando l’interessante idea di un loro possibile impiego anche in altri alimenti fermentati quali
gli insaccati carnei. Per poter definire un microrganismo come probiotico, esso deve possedere diverse caratteristiche specifiche, tra le quali
la sopravvivenza alle condizioni del tratto gastrointestinale umano (TGIU) è certamente una delle più importanti. Anche la capacità di adesione all’epitelio intestinale umano e di crescita in presenza di carboidrati prebiotici rappresentano senza dubbio criteri di selezione di fondamentale importanza. Essi, infatti, costituiscono un requisito alla colonizzazione del TGIU e alla modulazione della microflora indigena.
In accordo con quanto discusso, lo scopo della presente ricerca é stato lo studio in vitro della capacità di adesione alle linee cellulari intestinali umane Caco-2 e l’analisi della capacità di crescita in presenza di carboidrati prebiotici (FOS, GOS, IMO, inulina e lattulosio) di 25 ceppi
di Lactobacillus (Lb.) potenzialmente probiotici. Tali ceppi erano stati precedentemente isolati da 10 insaccati carnei fermentati tradizionali,
selezionati per la resistenza al passaggio attraverso il TGIU ed identificati a livello di specie o gruppo-specie con metodi fenotipici e molecolari. Nel presente studio, i 25 ceppi di Lb. sono stati caratterizzati mediante Pulsed Field Gel Electrophoresis ed impiego dell’endonucleasi
NotI, giungendo alla distinzione di 16 ceppi diversi. Tra essi, 11 sono stati scelti al fine di testare le specifiche capacità di adesione alle linee
cellulari Caco-2. Tutti i ceppi sono risultati interessanti, in quanto a partire da un numero iniziale di cellule inoculate pari a 109 CFU/well,
essi hanno presentato un numero finale di celulle adesive compreso tra 106 e 108 CFU/well; inoltre 8 ceppi appartenenti al Lb. plantarumgroup hanno mostrato il più alto numero di cellule adesive. Attraverso il monitoraggio della crescita in presenza di prebiotici degli 11 ceppi
citati, é stato possibile invece notare un comportamento fermentativo specie-specifico. Infatti gli 8 ceppi del Lb. plantarum-group sono risultati in grado di fermentare FOS, IMO, GOS e lattulosio, ma non inulina; 2 ceppi di Lb. brevis di fermentare IMO e GOS, ma non FOS, inulina e lattulosio; 1 ceppo di Lb. paracasei di fermentare tutti i 5 prebiotici testati, risultando anche l’unico in grado di utilizzare
l’inulina. In conclusione nel presente lavoro sono stati selezionati almeno 11 ceppi di Lb. con caratteristiche probiotiche desiderabili. Dopo dettagliate analisi circa le loro specifiche proprietà tecnologiche, i ceppi migliori potrebbero essere eventualmente
impiegati come colture starter probiotiche per la produzione di nuovi insaccati carnei fermentati.
POTENZIALITA’ PROBIOTICHE DI LATTOBACILLI INTESTINALI VETTORI DI SELENIO ORGANICATO
*Alifraco N., §Girardo F., *Ciappellano S., *Canzi E., *Andreoni V.
*Dipartimento di Scienze e Tecnologie Alimentari e Microbiologiche (DISTAM), Facoltà di Agraria, Università degli Studi di
Milano; §Società BioMan, Colleretto Giacosa (TO)
Il selenio, essenziale sia per l’uomo che per gli animali, è presente come seleno-cisteina nei siti attivi di enzimi con attività antiossidante e di attivazione dell’ormone tiroideo. Inoltre è anche ben documentato che l’incidenza di alcune patologie, riconducibili ad una sua carenza, può essere ridotta attraverso l’assunzione giornaliera di adeguati quantitativi di selenio con alimenti o
integratori. Con questo lavoro si è indagata la capacità di lattobacilli intestinali di accumulare selenio nel quadro di valutarne il
potenziale utilizzo come probiotici. Lo studio è stato condotto utilizzando lattobacilli isolati da volontari sani, non sottoposti a
terapie alteranti l’equilibrio microbico intestinale. Per ogni isolato, identificato mediante sequenziamento del 16S rDNA, è stato
valutato l’effetto di 2 mg/L di Se(IV) sulla crescita. Con analisi potenziometrica a corrente costante è stata determinata la quantità di selenio accumulata dai ceppi, con analisi HPLC-MS/MS quella aminoacidica (Se-cisteina e Se-metionina). Di alcuni
ceppi modello sono state valutate alcune caratteristiche probiotiche quali: la resistenza all’acidità (pH 2.0), ai sali biliari e l’idrofobicità cellulare. È stato inoltre saggiato l’effetto protettivo del latte scremato a pH 2.0 sui ceppi che erano inattivati dalla
sequenza degli stress che si realizzano nel tratto gastrointestinale.
I risultati sono così riassumibili:
- la presenza di 2 mg/L di Se(IV) non inibisce la crescita della maggior parte dei ceppi;
- i ceppi rimuovono il Se(IV) presente nel brodo colturale in quantità ceppo dipendente;
- un buon numero di ceppi accumula Se(IV) in quantità superiore ad 1 mg/g s.s.;
- in molti ceppi parte del selenio organicato è presente come seleno-metionina e in alcuni anche come seleno-cisteina.
Tutti i lattobacilli testati presentano valori di idrofobicità cellulare, valutata mediante Bath test, elevati e compresi tra il 70 e il
95%. Per quanto riguarda le caratteristiche probiotiche i ceppi, quando saggiati in un modello in vitro che mima le condizioni
dello stomaco e del piccolo intestino, sono variamente sensibili all’acidità e all’esposizione ai sali biliari. Il latte scremato a pH
2.0 protegge i lattobacilli da questi effetti confermando l’effetto protettivo esercitato dai suoi costituenti.
Dall’insieme dei risultati emerge la potenzialità di alcuni lattobacilli ad essere utilizzati come probiotici vettori di selenio in una
forma altamente biodisponibile.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
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LACTOBACILLUS GASSERI P 17632: UN POTENZIALE CEPPO PROBIOTICO.
S. Pietronave 1*, P. Malfa 2 e M.G. Martinotti1
1 Università del Piemonte Orientale, DISCAFF, Novara
2 PROGE FARM s.r.l., Cerano (NO)
* [email protected]
Scopo di questo lavoro è stata la caratterizzazione in vitro delle proprietà probiotiche del ceppo L. gasseri P17632, isolato da
intestino umano.
La tolleranza intrinseca del microrganismo al transito gastro-intestinale è stata valutata tramite un metodo di simulazione dell’attività dei succhi gastrico, pancreatico e dei sali biliari. I risultati hanno evidenziato una buona resistenza del ceppo al transito gastrico ed un’ottima resistenza sia al transito intestinale che ai sali di bile.
Sono state analizzate le caratteristiche chimico-fisiche della superficie batterica di L. gasseri P17632 quali l’idrofobicità e la
carica che possono influenzare sia l’auto-aggregazione che l’adesione batterica; i risultati hanno evidenziato un buon grado
d’idrofobicità superficiale ed un’equa distribuzione di cariche positive e negative. E’ stato osservato che il ceppo ha un fenotipo auto-aggregante e che tale caratteristica è dipendente dal pH e non è legata a sostanze diffusibili prodotte dal microrganismo ma a molecole di superficie. L. gasseri P17632 ha dimostrato una forte capacità di adesione alla linea cellulare di adenocarcinoma intestinale HT29, significativamente maggiore rispetto a quella del controllo positivo L. acidophilus NCFM. Infine,
è stata valutata l’attività antimicrobica nei confronti di diversi ceppi patogeni enterici. I risultati hanno dimostrato attività inibitoria sia su ceppi Gram-positivi che Gram-negativi, tale effetto era visibile sia utilizzando il ceppo microbico che il sopranatante di crescita dello stesso.
ATTIVITA’ ANTIBATTERICA DELL’OZONO
P. Catalanotti1, M. Lucido1, M. Luongo3, A. Folgore2, C. Luongo3, F. Gorga1
1Dip. di Medicina sperimentale, Sez. di Microbiologia e Microbiologia clinica. S.U.N.
2DAS di Diagnostica microbiologica, A.U.P. S.U.N.
3Dip. di Scienze anestesiologiche, chirurgiche e dell’emergenza. S.U.N.
L’ozono è utilizzato oramai con successo in molti campi della terapia medica, soprattutto per il trattamento di pazienti con difficoltà circolatorie, e della chirurgia.
Un numero sempre più grande di lavori evidenzia l’utilizzo di questo gas anche per la cura delle patologie infettive, grazie alle
sue proprietà antinfiammatiorie e antimicrobiche.
Sono riferiti i dati sperimentali a) sull’effetto inibitorio dell’O3 sulla crescita batterica; b) sulla possibile interferenza dell’ozono sulla formazione dello slime; c) sugli effetti dell’ O3 sull’antibiotico resistenza; d) sulle variazioni del profilo di restrizione
ad opera dell’ozono.
L’ozono ha un effetto inibitore dose e tempo dipendente sulla crescita sia dei batteri Gram positivi (Staphylococcus aureus e
Streptococcus mitis) e Gram negativi (Pseudomonas aeruginosa, Klebsiella pneumoniae, Escherichia coli).
Concentrazioni sub inibenti di O3 sono in grado di interferire con la produzione di slime. Si sono osservate modificazioni della
MIC nei confronti di alcune molecole antibiotiche. Sono state osservate variazioni nei profili PFGE di ceppi trattati e non trattati con O3 a dosi subinibenti.
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32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
ATTIVITA’ANTIMICROBICA DI OLI ESSENZIALI ESTRATTI DA PIANTE AROMATICHE CONTRO
MICRORGANISMI DI INTERESSE ALIMENTARE GRAM-POSITIVI E GRAM-NEGATIVI.
Di Pasqua Rosangela1, De Feo Vincenzo2, Mauriello Gianluigi1
1Dipartimento di Scienza degli Alimenti, Università degli Studi di Napoli “Federico II”, Portici
2Dipartimento di Scienze Farmaceutiche, Università degli Studi di Salerno
Negli ultimi venti anni i consumatori hanno chiaramente mostrato una maggiore preferenza nei confronti di alimenti poco processati oltre che caratterizzati da un basso contenuto di additivi sintetici. Gli antimicrobici naturali possono contribuire al mantenimento della sicurezza e al prolungamento della vita commerciale degli alimenti, riducendo la presenza di microrganismi patogeni
e/o alterativi. Gli oli essenziali e i loro principi attivi, oltre a trovare largo impiego nella medicina alternativa o a scopo terapeutico, sono ampiamente utilizzati come aromatizzanti e antiossidanti negli alimenti, ma negli ultimi anni molte ricerche ne hanno evidenziato un potenziale uso come agenti antimicrobici.
In questo studio è stata determinata l’attività di 12 oli essenziali, estratti da piante aromatiche appartenenti alle famiglie delle
Lamiaceae e Verbenaceae, contro microrganismi alterativi e patogeni di origine alimentare, sia Gram-negativi che Gram-positivi.
Gli oli essenziali sono stati estratti secondo le procedure standard previste dalla Pharmacopoeia Europea.
I microrganismi utilizzati in questo studio sono di seguito riportati:
Gram-negativi: Escherichia coli O157:H7, Salmonella Thyphimurium, Pseudomonas spp.;
Gram-positivi: Staphylococcus aureus, Listeria monocytogenes, Brochotrix thermosphacta, Lactobacillus plantarum,
Lactobacillus delbrueki subsp. lactis, Enterococcus faecalis, Lactococcus lactis subsp lactis, Lactococcus plantarum and
Lactococcus garvie.
L’attività antimicrobica di ogni olio era determinata depositando 5 µl di una soluzione di olio e metanolo (1:5) sulla superficie di
un substrato agarizzato precedentemente inoculato con il ceppo indicatore. Dopo assorbimento dell’olio le piastre erano incubate
per 24 ore. La presenza di un alone di chiarificazione indicava una inibizione della crescita del ceppo indicatore. Successivamente,
per ogni olio che mostrava attività antimicrobica, è stata determinata la concentrazione ad azione batteriostatica (concentrazione
minima inibente) e battericida (concentrazione minima letale). I ceppi microbici Gram-negativi risultavano più sensibili rispetto ai
Gram-positivi, in particolare Escherichia coli O157:H7 e Salmonella risultavano sensibili a tutti gli oli testati. Tra i Gram-positivi Brochotrix thermosphacta risultava il microrganismo più sensibile mentre i batteri lattici mostravano un’alta resistenza, infatti
solo pochi oli erano in grado di determinarne l’inattivazione e sempre a concentrazioni superiori all’1%.
EFFICACIA BATTERICIDA DELL’ ENDOX® ENDODONTIC SYSTEM SU VARI MICRORGANISMI
Cassanelli C., S. Roveta, R. Armanino, E.A. Debbia.
Sezione di Microbiologia - DISCAT, Università di Genova.
Introduzione: L’ Endox®, utilizzato in endodonzia per il trattamento delle infezioni batteriche a livello del sistema radicolare, prevede l’introduzione nella radice da trattare di una sottilissima sonda metallica e l’applicazione di una corrente alternata ad alta frequenza. Ne consegue
un aumento della temperatura molto rapido ed elevato che raggiunge anche le propaggini più sottili adiacenti al canale primario (delta apicale, canali laterali, canali accessori) e produce una vaporizzazione del tessuto della polpa (termoablazione). Ad ogni impulso viene generato per
un breve periodo di tempo (140 msec) un campo elettromagnetico che si è ipotizzato essere la causa dell’ effetto battericida sulla popolazione microbica presente.
Metodi: In questo studio è stato costruito un modello sperimentale (Fig. 1) per simulate in vitro l’ambiente del canale radicolare e saggiare
l’effetto battericida dello strumento su vari microrganismi tra cui l’Enterococcus faecalis, principale responsabile nei fallimenti dei trattamenti
canalari. L’efficacia dello strumento è stata testata anche su Staphylococcus aureus, Escherichia coli, Pseudomonas aeruginosa, spore di
Bacillus subtilis e un ceppo di Candida albicans per verificare se gli effetti dell’Endox® erano gli stessi sia sui miceti che sui batteri. Sui
microrganismi sospesi in una soluzione salina ad adeguata conduttività sono state applicate 3 scariche, dopodichè sono stati conteggiati tramite piastrazione e i risultati confrontati con i rispettivi controlli non trattati.
Risultati: A concentrazioni di 103 CFU/ml è stata evidenziata totale batteriocidia su Gram-positivi, Gram-negativi, miceti e anche sulle spore
di B. subtilis. La riduzione della carica si è rivelata significativa su batteri e miceti (ma non sulle spore) anche partendo da concentrazioni iniziali superiori (99.9% da concentrazioni di 104 e 99% da concentrazioni di 106 CFU/ml).
Conclusioni: I risultati decisamente positivi ottenuti con l’Endox® Endodontic System in termini di
efficacia di sterilizzazione e i ridotti tempi di applicazione richiesti fanno di questo strumento una
valida alternativa alla metodica tradizionale del trattamento endodontico. L’Endox® può anche
essere impiegato come supporto al trattamento classico nella fase di disinfezione del canale radicolare in quanto la riduzione della carica batterica nel sistema canalare risulta essere di fondamentale
importanza per assicurare il successo a lungo termine del trattamento endodontico.
Figura 1
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
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EFFETTO DELLA LATTOFERRICINA B, UN PEPTIDE DERIVATO DALLA LATTOFERRINA
BOVINA SUL DESTINO DI MACROFAGI UMANI INFETTATI CON LISTERIA MONOCYTOGENES
C. Longhia, I. Zambonia, M.P. Contea, S. Ranaldia, A. Tinarib, F. Supertib, P. Valentic, L. Segantia
aDipartimento di Scienze di Sanità Pubblica, Università di Roma La Sapienza
bDipartimento di Tecnologia e Salute, Istituto Superiore di Sanità, Roma
cDipartimento di Medicina Sperimentale, II Università di Napoli
Listeria monocytogenes è un bacillo gram-positivo, intracellulare facoltativo, veicolato dagli alimenti e responsabile di gravi infezioni opportunistiche nell’uomo e negli animali. E’ stato dimostrato che tale patogeno induce apoptosi in vitro e in vivo in una
grande varietà di tipi cellulari, tra i quali gli epatociti, i linfociti T e le cellule dendritiche murine, i linfociti B e le cellule intestinali umane. In contrasto, i macrofagi murini che rappresentano il principale compartimento della moltiplicazione batterica, infettati con L. monocytogenes, non muoiono per apoptosi ma vanno incontro ad una necrosi mediata dalla listeriolisina O (1).
Tra i componenti del latte coinvolti nei sistemi di difesa dell’ospite, la lattoferrina (Lf), una glicoproteina legante il ferro ed un
suo peptide derivato, la lattoferricina (Lfcin), possiedono attività batteriostatica e battericida nei confronti di numerosi batteri,
incluso L. monocytogenes. Il nostro gruppo ha dimostrato che Lf e Lfcin, a concentrazioni non batteriostatiche e non battericide, esercitano un’azione antiinvasiva sulle fasi precoci dell’infezione di L. monocytogenes sia in cellule intestinali umane (Caco2) che in cellule macrofagiche umane (THP-1) (2, 3). Analogamente a quanto osservato per i macrofagi murini, i macrofagi
umani infettati con L. monocytogenes muoiono prevalentemente per necrosi. Il trattamento dei macrofagi con Lf ne previene la
morte indotta da L. monocytogenes mentre il suo peptide derivato, Lfcin, determina uno slittamento dell’equilibrio dalla necrosi all’apoptosi.
1. Barsig, J., S.H. Kaufmann. 1997. Infect. Immun. 65:4075-4081.
2. Antonini, G., M.R. Catania, R. Greco, C. Longhi, M.G. Pisciotta, L. Seganti, P. Valenti. 1997.. J. Food Protect. 60:1-5.
3. Longhi, C., M.P. Conte, M. Penta, A. Cossu, G. Antonini, F. Superti, L. Seganti. 2004. J. Med. Microbiol. 53:87-91.
Fondi di ricerca MIUR responsabili dott.sse L. Seganti, M.P. Conte, P. Valenti
Fondi di ricerca ISS, responsabile dott.ssa F. Superti.
ATTIVITÀ ANTIBATTERICA “IN VITRO” DI 4-ALCHIDEN-AZETIDIN-2-ONI, NUOVE MOLECOLE
OTTENUTE PER SINTESI
C. Cocuzza*, R. Musumeci*, F. Broccolo*, G. Musumarra**, C.G. Fortuna**, D. Giacomini*** P. Galletti***, G. Cainelli***
* Dipartimento di Medicina Clinica, Prevenzione e Biotecnologie Sanitarie, Università di Milano –Bicocca, Monza;
**Dipartimento di Scienze Chimiche, Università di Catania; ***Dipartimento di Chimica “G. Ciamician”, Università di
Bologna
Al giorno d’oggi il 60% delle infezioni contratte in ospedale è causato da batteri multi-resistenti agli antibiotici in uso clinico
con una sempre maggiore diffusione di queste resistenze anche nei patogeni isolati in ambito comunitario.
Lo sforzo della ricerca scientifica dovrebbe dunque essere rivolto ad abbassare la velocità alla quale questi fenomeni di resistenza si sviluppano e si diffondono, incoraggiando l’identificazione di nuovi principi attivi.
Questo progetto consiste nella sintesi di nuove sostanze, 4-alchiliden-azetidin-2-oni, contenenti come unità strutturale l’anello
beta-lattamico, e nella valutazione della loro attività antibatterica “in vitro”.
La versatilità del protocollo di sintesi ha permesso di ottenere una libreria di composti dei quali particolarmente interessanti sono
apparsi quelli non sostituiti (R = H) e quelli con la presenza di alogeni in C3 (R = Cl).
Strategie chemioinformatiche, quali 3D-QSAR e il “molecular modelling” con SYBYL, GRID, VOLSURF e ALMOD, sono
state utilizzate sia per individuare i residui più adatti che per una migliore comprensione delle complesse relazioni struttura-attività di queste nuove molecole a potenziale attività antibatterica.
Su queste basi sono state sintetizzate 24 sostanze, la cui attività antimicrobica è stata misurata determinando il valore della minima concentrazione inibente (MIC) utilizzando il metodo delle microdiluizioni in brodo (secondo NCCLS 2004) nei confronti di
43 ceppi batterici di origine nosocomiale (S. pyogenes, S. pneumoniae, Enterococcus spp, S. aureus, S. epidermidis, H. influenzae, M. catarrhalis, E. coli, P. mirabilis, K. pneumoniae, S. marcescens). A paragone sono stati utilizzati antibiotici di uso clinico quali amoxicillina, ceftriaxone, imipenem e meropenem. Il saggio è stato eseguito in completa automazione mediante la
stazione robotizzata Biomek 2000 (Beckman Coulter).
Cinque delle nuove molecole sintetizzate hanno dimostrato avere una modesta attività antibatterica “in vitro”. Particolarmente
promettente è apparsa l’attività antibatterica di alcune di esse nei confronti di ceppi di Staphylococcus spp, sia meticillino-sensibili che meticillino-resistenti.
90
32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
ATTIVITÀ IN VITRO DI FLUCONAZOLO E VORICONAZOLO NEI CONFRONTI DI CANDIDA SPP.
DA INFEZIONI MUCO-CUTANEE.
1Asticcioli S., 1Migliavacca R., 2Terulla C., 1Nucleo E., 2Spalla M., 1Taccani D., 1Giorgetti E., 2Sacco L..
1Dip. S.M.E.C., Sez. di Microbiologia, Università di Pavia
2Servizio Analisi Microbiologiche IRCCS S.Matteo-Pavia
INTRODUZIONE. Le candidosi muco-cutanee rappresentano una patologia di larga diffusione non solo nei pazienti immunocompromessi. Sebbene i triazoli Fluconazolo (FLU) e Voriconazolo (VOR) vengano ampiamente utilizzati non solo per le candidosi sistemiche ma anche per quelle superficiali, la sensibilità dei ceppi responsabili di micosi muco-cutanee nei confronti di
questi composti antifungini è poco studiata. L’acquisizione dei dati di farmaco-sensibilità riveste un’importanza primaria ai fini
epidemiologici in quanto tali infezioni possono rappresentare un reservoir di lieviti in grado di causare infezioni disseminate.
METODI. Negli anni 2000-2003 sono stati raccolti ed identificati 271 isolati da pazienti con candidosi cutanee ed orali (45),
vulvo-vaginali (170) ed onicomicosi (56) afferenti agli ambulatori dell’IRCCS S.Matteo di Pavia. I saggi di sensibilità sono stati
condotti avvalendosi del metodo di riferimento in microdiluizione in brodo YeastOne-Sensititre, in accordo con il documento
M27-A dell’NCCLS.
RISULTATI. La prevalenza delle specie è risultata essere: C. albicans (53%), C.glabrata (19.7%), C. parapsilosis (10.3%), C.
guilliermondii (3.3%), C. tropicalis (3.3%), C. krusei (2.6%), S. cerevisiae (2.2%) C. lusitaniae and Trichosporon cutaneum
(1.4%). Nelle onicomicosi si è evidenziata una distribuzione delle specie differente da quella delle altre sedi d’infezione.
La sensibilità agli azoli è risultata specie-correlata: C. albicans si è dimostrata la specie più sensibile nonostante siano stati isolati ceppi FLU-resistenti da donne con candidosi vulvo-vaginali ricorrenti. Una ridotta sensibilità al FLU è emersa tra gli isolati di specie non-albicans.
VOR si è dimostrato il composto maggiormente attivo, indifferentemente dalla specie testata.
CONCLUSIONI. Considerando il ruolo critico che l’evoluzione nella colonizzazione superficiale da parte di Candida spp. poco
sensibile riveste nelle scelte terapeutiche, il crescente numero di pazienti con infezioni muco-cutanee sostenute da ceppi di C.
albicans e C. glabrata con ridotta sensibilità e/o resistenti a FLU osservato nel nostro studio costituisce un fenomeno che necessita di un attento monitoraggio ed impone un potenziamento dei programmi di sorveglianza sia per i gruppi ad alto rischio sia
per le misure preventive da adottare.
VALUTAZIONE IN VITRO DELL’ATTIVITA’ MICROBICIDA E DELL’ATTIVITA’ SUL BIOFILM
PRODOTTO DA CANDIDA ALBICANS DEGLI ESTRATTI DI THE’ VERDE ( CAMELIA SINENSIS) E
FRANGULA (RHAMNUS FRANGULA)
G. Simonetti, C. Colantuono
Istiuto di Microbiologia, Facoltà di Farmacia, Università di Roma “La Sapienza”
L’insorgenza di ceppi resistenti e la formazione di biofilm microbici, responsabili della maggior parte delle infezioni, sono la
principale causa dei fallimenti terapeutici con gli usuali antibiotici. In particolare, il biofilm da Candida mostra una intrinseca
resistenza agli agenti antifungini più comunemente utilizzati. La necessità di individuare nuove strategie terapeutiche che consentano di eradicare l’infezione senza peraltro causare danno al’organismo ospite ci ha portato alla ricerca di estratti vegetali
che potessero costituire una valida alternativa alle terapie attualmente in uso. Lo scopo del nostro studio è stato quello di testare droghe vegetali con comprovata bassa tossicità e largamente utilizzate dalla medicina tradizionale per uso sistemico.
Nell’ambito della nostra ricerca sull’attività antimicrobica di estratti naturali, l’attenzione si è focalizzata su frangula (Rhamnus
frangula) e thè verde (Camelia sinensis) in associazione. Per la valutazione dell’attività battericida e fungicida sono stati utilizzati i test per la valutazione dell’attività battericida e fungicida di antisettici e disinfettanti (UNI EN 1276, UNI EN 1275) I
risultati ottenuti mostrano una notevole attività sulle cellule non adese con una riduzione delle cellule vitali di E.coli, S. mutans,
S.aureus, C.albicans del 99,99% dopo 30 minuti di esposizione. Sono state eseguite inoltre prove di attività sul biofilm preformato di Candida albicans utilizzando per la formazione del biofilm pozzetti di polistirene. Gli estratti sono stati testati singolarmente ed in associazione a diverse concentrazioni comparandole all’attività dell’anfotericina B. L’attività è stata valutata utilizzando la tecnica colorimetrica basata sull’uso del 2,3-bis(2-methoxy-4-nitro-5-sulfo-phenyl)-2H-tetrazolium-5-carboxanilide
e la conta vitale. I risultati indicano una buona attività fungicida, mostrando una riduzione dopo 2 ore di esposizione del 90%
delle cellule di Candida albicans.
I risultati ottunuti in vitro unitamente alla comprovata bassa tossicità suggeriscono l’uso di tale associazione nel trattamento
delle infezioni delle mucose sostenute in particolare da Candida albicans.
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91
ATTIVITÀ IN VITRO DELLA CASPOFUNGINA NEI CONFRONTI DI CEPPI DI CANDIDA GLABRATA
RESISTENTI AGLI AZOLI
Lucio Romano, Brunella Posteraro, Maurizio Sanguinetti, Riccardo Torelli, Marilena La Sorda e Giovanni Fadda
Istituto di Microbiologia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma
Sebbene la resistenza ai farmaci antifungini non sia così frequente tra i ceppi di Candida di isolamento clinico, tuttavia deve
essere tenuta in considerazione, soprattutto in riferimento a C. glabrata. È noto, infatti, come C. glabrata sia caratterizzata dalla
tendenza a sviluppare rapidamente resistenza agli azoli, specialmente al fluconazolo, e come tale specie di Candida possa manifestare ridotta sensibilità anche all’amfotericina B. Per questo motivo, vi è la necessità di nuove molecole dotate di attività fungicida nei confronti delle specie che esprimono resistenza agli azoli. La caspofungina è un’echinocandina con potente attività
fungicida nei confronti di molte specie di Candida e studi recenti hanno dimostrato che tale farmaco è molto attivo anche rispetto a ceppi di Candida spp. resistenti al fluconazolo. Nell’intento di approfondire tale fenomeno, è stata determinata l’attività in
vitro della caspofungina nei confronti di 29 ceppi clinici di C. glabrata, di cui 20 resistenti e 9 sensibili dose-dipendenti al fluconazolo, isolati da differenti siti corporei di pazienti ricoverati, per la maggior parte, in reparti di terapia intensiva chirurgica e
medica. Sono stati inclusi nello studio anche 4 ceppi, sensibili al fluconazolo, corrispondenti a 4 dei 29 ceppi resistenti, che
erano stati isolati in precedenza dagli stessi pazienti in corso di infezione. I 29 ceppi presentavano resistenza crociata a ketoconazolo, itraconazolo ed anche a voriconazolo. Inoltre, lo studio dei meccanismi molecolari della resistenza in tali ceppi ha dimostrato che il livello di resistenza agli azoli poteva essere correlato all’aumento di espressione di una o più delle pompe di efflusso codificate dai geni CgCDR1, CgCDR2 e CgSNQ2. Su tali ceppi, l’attività della caspofungina è stata saggiata seguendo il protocollo descritto nel documento NCCLS M27-A2. Per ciascuno dei 33 ceppi sono state effettuate tre determinazioni. L’analisi
dei dati ottenuti ha evidenziato valori di MIC50 di 0.5 µg/ml e di MIC90 di 1 µg/ml, tutti comunque non eccedenti il breakpoint
di sensibilità stabilito di ≤ 1 µg/ml. I risultati dello studio dimostrano che la caspofungina, a causa del suo peculiare meccanismo di azione, è un farmaco molto attivo nei confronti di ceppi di C. glabrata multiresistenti agli azoli, così da rendere il suo
uso obbligatorio nella cura delle infezioni fungine gravi e persistenti.
ATTIVITÀ ANTIMICOTICA DI ESTRATTI DI BERBERIS AETNENSIS C. PRESL.
R. Costanzo, L. Iauk, G. Blandino, A. Rapisarda*, I. Milazzo
Dipartimento di Scienze Microbiologiche e Ginecologiche – Università di Catania
*Dipartimento Farmaco-Biologico - Università di Messina
Le micosi umane, che possono rappresentare una grave minaccia per la salute soprattutto in pazienti immunocompromessi, spesso non vengono trattate con successo a causa dell’inefficacia e della tossicità degli antimicotici di comune uso clinico.
Vista la necessità di trovare nuovi agenti antifungini le piante medicinali potrebbero dunque rappresentare una valutabile e non
sfruttata fonte di questi agenti.
Le protoberberine sono alcaloidi che possono essere estratte facilmente da piante medicinali e tra esse la più nota è la berberina, storicamente impiegata nella medicina ayurvedica e cinese. La berberina si trova nelle radici, nel rizoma e nella corteccia di
molte Berberidaceae e Ranunculaceae.
Recentemente è stato dimostrato che l’estratto di radice di Berberis aetnensis, pianta endemica della Sicilia, contiene alcaloidi
berberinici e possiede attività antimicrobica, attività già nota in altre specie di Berberis e in Hydrastis canadensis.
Il target dei più importanti agenti antifungini è la biosintesi degli steroli; le protoberberine, infatti, inibiscono enzimi presenti
esclusivamente nei funghi e che sono coinvolti nella sintesi degli steroli di membrana o della chitina della parete cellulare.
Sulla base dei risultati ottenuti predentemente circa l’attività antimicrobica dell’estratto di radice di B. aetnensis verso batteri
Gram-positivi e funghi, abbiamo saggiato l’attività inibente di due estratti di radice di B. aetnensis, l’estratto etanolico totale e
la frazione purificata alcaloidea, nei confronti di ceppi ATCC e di recente isolamento clinico di diverse specie di Candida (C,
albicans, C. krusei, C. tropicalis e C. parapsilosis), in paragone all’attività di tre alcaloidi di origine commerciale e di amfotericina B. L’attività antimicotica è stata valutata mediante il saggio delle MIC, con il metodo della microdiluizione in brodo, e
delle MBC seguendo i metodi previsti dall’NCCLS.
I risultati da noi ottenuti hanno dimostrato che l’estratto totale ha nei confronti di tutti i ceppi saggiati un’ottima attività (MIC
range: <3-24mg/L) ed in particolare verso i ceppi di C. tropicalis. L’estratto alcaloideo e la berberina mostrano valori sovrapponibili tra loro e paragonabili a quelli ottenuti per l’estratto totale. I valori delle MBC sono circa 2-4 volte la MIC.
Questi risultati forniscono le basi per ulteriori ricerche e sviluppi sulle protoberberine, con una buona attività fungicida ed una
bassa tossicità.
92
32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
ATTIVITÀ ANTIMICROBICA DI MEDICAZIONI A BASE DI CHITOSANO E CLOREXIDINA PER IL
TRATTAMENTO DI ULCERE CUTANEE.
1C. Dacarro, 1P. Grisoli, 2 S. Rossi, 2G. Sandri, 2F. Ferrari, 2M.C. Bonferoni, 3C. Muzzarelli,
2C. Caramella
1Dipartimento di Farmacologia Sperimentale ed Applicata, Facoltà di Farmacia, Università di Pavia.
2Dipartimento di Chimica Farmaceutica, Facoltà di Farmacia, Università di Pavia.
3Istituto di Biochimica, Facoltà di Medicina, Università di Ancona.
Il chitosano è un polisaccaride cationico ad alto peso molecolare biocompatibile, sicuro e biodegradabile, che viene utilizzato
come antimicrobico in varie applicazioni e come agente farmaceutico in biomedicina. Le proprietà cicatrizzanti del chitosano,
associate alla sua attività antimicrobica, possono essere sfruttate per l’allestimento di medicazioni con attività antibatteriche. In
questo lavoro sono state preparate medicazioni “sponge-like”, caricate con clorexidina, la cui matrice polimerica era costituita
da chitosano cloridrato (HCS), da 5-metil-pirrolidinone chitosano (MPC) o dalle loro miscele con acido ialuronico (HA); queste medicazioni possono essere utilizzate per il trattamento delle ulcere cutanee. La valutazione dell’attività antimicrobica delle
medicazioni non caricate con clorexidina, realizzata in test in sospensione, mostra che la preparazione composta da HCS provoca dopo 24 ore di contatto una riduzione > 107 del numero iniziale di microrganismi per S. aureus, S. epidermidis e P. aeruginosa e C. albicans. La miscela HCS/HA mostra contro gli stessi microrganismi un’attività significativa anche se meno spiccata. MPC risulta meno attivo contro i batteri rispetto ad HCS e la sua efficacia viene praticamente annullata nella miscela con
HA. C. albicans risulta essere resistente sia a MPC sia a MPC/HA. A. niger è resistente a tutte le medicazioni saggiate. Le medicazioni caricate con clorexidina hanno una notevole attività battericida; si osserva dopo 48 ore di contatto una riduzione > 108
del valore iniziale di CFU. Un elevato effetto battericida si osserva anche dopo 12 e 24 ore. L’attività antifungina invece risulta presente per C. albicans con riduzione > 106 per tutte le medicazioni. A. niger è resistente a HCS e ad HCS/HA caricate con
clorexidina, mentre MPC e MPC/HA mostrano un effetto fungicida che non supera mai il valore di 104. In queste formulazioni può essere ipotizzata la presenza di un’attività antifungina che si manifesta solo in presenza dell’associazione clorexidinaMPC. Questo risultato rende particolarmente promettente l’utilizzazione di MPC per la realizzazione di medicazioni ad attività
antimicrobica.
CARATTERIZZAZIONE E ATTIVITA’ BIOLOGICA DI OLI ESSENZIALI DI ALCUNI CHEMIOTIPI
DI ROSMARINO.
Ilaria Stefanini, Mauro Marotti, Roberta Piccaglia e Bruno Biavati.
Dipartimento di Scienze e Tecnologie Agroambientali, Università di Bologna.
Il rosmarino (Rosmarinus officinalis L.), appartenente alla famiglia delle Lamiaceae, è una pianta arbustiva sempreverde tipica
dell’areale del Mediterraneo. E’coltivato comunemente in orti e giardini, ma la si trova spesso spontanea lungo i litorali del centro e sud Italia.
Questo diffuso e caratteristico componente della flora mediterranea, già dall’antichità era comunemente impiegato come pianta medicinale, aromatica e da condimento.
In questo lavoro sono state valutate le proprietà di alcuni oli essenziali di rosmarino appartenenti a tipi reperiti in località diverse.
Gli oli essenziali, ottenuti mediante distillazione in corrente di vapore delle sommità non fiorite, sono stati caratterizzati attraverso GC-MS.
Sono state valutate, le proprietà biologiche degli oli essenziali (attività antimicrobica e antiossidante) nei confronti di 31 ceppi
microbici appartenenti a diverse specie di interesse agro-industriale (23 batteri e 8 lieviti).
L’attività antimicrobica degli oli è stata ottenuta attraverso determinazione della minima concentrazione inibente in un intervallo di 200-2000 ppm. Gli oli essenziali hanno mostrato proprietà antimicrobiche con diversi gradi di efficacia sui ceppi testati.
In particolare, uno dei chemiotipi, ha mostrato una buona attività antimicrobica. Ciò è presumibilmente dovuto alla discreta presenza di verbenone e di 1,8 cineolo notoriamente attivi biologicamente.
L’attività antiossidante degli oli è stata saggiata su piastre agarizzate (1,2 %) addizionate di acido linoleico (2 mg/ml) e ß-carotene (2 mg/ml) risultando molto ridotta.
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STUDI PRELIMINARI SULLA ATTIVITÀ ANTIMICROBICA DI OLI ESSENZIALI DI PIANTE
RUSTICHE DI MYRTUS COMMUNIS DELL’AREA NORD-ORIENTALE SARDA.
Deriu Antonella, Sechi Leonardo A., Molicotti Paola., Blandino Giovanna°, Branca Giovanna*, Zanetti Stefania
Dipartimento di Scienze Biomediche, Sezione di Microbiologia Sperimentale e Clinica, Università di Sassari
° Dipartimento di Scienze Microbiologiche e Scienze Ginecologiche, Università di Catania
* Istituto di Microbiologia Facoltà di Medicina e Chirurgia “Agostino Gemelli” Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma.
Lo studio riguarda le proprietà antimicrobiche di oli essenziali estratti, con la tecnica in corrente di vapore, dalle foglie di Myrtus
communis proveniente dalla Gallura (area nord-orientale). I saggi sono stati effettuati su 6 ceppi batterici ATCC (Staphylococcus
aureus, Enterococcus faecalis, Escherichia coli, Pseudomonas aeruginosa, Salmonella tiphimurium), 4 ceppi di origine clinica
(Klebsiella pneumoniae, Aeromonas sobria, Aeromonas hydrophila, Helicobacter pylori), 2 ceppi di origine ambientale (Vibrio
vulnificus, Vibrio alginolyticus). L’attività degli olii essenziali è stata valutata anche su 3 lieviti di provenienza clinica:
Rodotorula rubra, Candida albicans e Candida glabrata. E’ stato inoltre valutato il killing time e la tossicità degli oli essenziali. I risultati dimostrano una attività antimicrobica con valori di M.I.C. ed M.C.B. cha variano in un range tra 0.01 e 5 %
(v/v). Particolarmente interessante l’azione espressa su ceppi di origine ambientale e clinica, precedentemente studiati per l’espressione di numerosi fattori di patogenicità e resistenza ai farmaci.
ATTIVITÀ ANTIMICOBATTERICA DI NUOVI DERIVATI CHINOSSALINICI
Zanetti S.,* Sechi LA*., Molicotti P.*, Cannas S*., Carta A**., Bua A*., Deriu A.*, Paglietti G. **
*Dipartimento di Scienze Biomediche, Sezione di Microbiologia Sperimentale e Clinica, Università degli Studi di Sassari
**Dipartimento Farmaco ChimicoTossicologico Università degli Studi di Sassari
Il continuo aumento di ceppi multidrug–resistant di Mycobacterium tuberculosis, richiede l’urgente necessità di valutare l’efficacia di farmaci alternativi. La recrudescenza dei casi di TB negli ultimi anni, anche in Paesi industrializzati ove era stata praticamente eradicata, è stata favorita dalla sinergia con patogeni quali il virus HIV, inoltre sono emerse altre micobatteriosi atipiche. Lo scopo di questo lavoro è stato quello di valutare l’efficacia di 10 composti derivati quinoxalinici, contro numerosi
ceppi di Mycobacterium tuberculosis and Non MOT.
I dati ottenuti dimostrano un buon effetto dei suddetti composti, nei confronti di isolati clinici con valori di MIC tra 2mg/ml ed
8mg/ml per i tubercolari e tra 2mg/ml e 16mg/ml per i ceppi non tubercolari.
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32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
ATTIVITÀ “IN VITRO” DI UN PEPTIDE KILLER NEI CONFRONTI DI LEISHMANIA.
Savoia D.1, Scutera S.1, Raimondo S.1, Conti S.2, Magliani W.2, Polonelli L.2
1Dipartimento di Scienze Cliniche e Biologiche, Università di Torino; 2Dipartimento di Patologia e Medicina di Laboratorio,
Sezione di Microbiologia, Università degli Studi di Parma
E’ stato recentemente dimostrato come un decapeptide killer (KP), sintetizzato in base all’analisi della sequenza della regione
variabile di un anticorpo ricombinante antiidiotipico, immagine interna di una tossina killer di lievito caratterizzata dall’ampio
spettro di azione antimicrobica, sia in grado di esplicare un’attività microbicida interagendo con ß-glucani presenti nella parete
cellulare di molti microorganismi, particolarmente miceti.
L’attività di tale peptide nei confronti della crescita “in vitro” e della sopravvivenza di promastigoti di due specie di Leishmania
è stata analizzata e confrontata con quella riscontrata utilizzando SP, un decapeptide “scramble” di controllo costituito dagli stessi aminoacidi in sequenza diversa. La IC50 di KP è risultata pari a 7,2 x 10-5 mol/lt per Leishmania infantum, mentre l’attività
inibente e quella leishmanicida è risultata superiore nei confronti di Leishmania major. Si è riscontrato, inoltre, un aumento di
attività a seguito della ripetizione del trattamento, mentre SP si è dimostrato inattivo.
L’analisi della frammentazione del DNA, del rilascio di molecole di GFP da parte di L.major e la valutazione di alterazioni strutturali del protozoo tramite studi di microscopia elettronica a trasmissione hanno evidenziato come il trattamento con KP induca una morte cellulare tramite un processo non apoptotico. Sono stati riscontrati, in particolare, danni intracellulari con vacuolizzazione del citoplasma senza distruzione della membrana plasmatica dell’organismo.
L’azione di KP nei confronti dei promastigoti di Leishmania sembra legato ad interazioni ioniche e/o elettrostatiche con i glicoconiugati presenti sulla superficie del parassita, responsabili della sua sopravvivenza, inducendo un processo di morte cellulare autofagico.
MESSA A PUNTO DI UNA NUOVA TECNOLOGIA, SICURA E POCO COSTOSA PER LO STUDIO DI
FARMACI ANTIMALARICI
Corbett Yolanda1, Nicoletta Basilico1,2, Monica Mondani1, Silvia Parapini1 and Donatella Taramelli1,2
1Istituto di Microbiologia, 2Facolta’ di Farmacia, Universita’ di Milano.
La malaria, è una delle malattie più diffuse nel mondo con circa 300 milioni di casi all’anno e 1.5-2 milioni di morti ,soprattutto nei paesi in via di sviluppo. L’aumento e la diffusione della resistenza di P. falciparum al trattamento con antimalarici noti
(come clorochina) è in gran parte responsabile dell’aumento dei casi di malaria fatale riscontrato nei paesi tropicali.
C’è quindi necessità urgente di trovare nuovi chemioterapici per il trattamento della malaria e sono necessari anche nuovi metodi, sicuri e poco costosi per saggiare composti potenzialmente attivi. Il metodo standard è quello radioattivo che si basa sull’incorporazione della 3H-hypoxantina nel DNA del parassita per misurarne la replicazione in fase intreaeritrocitaria. Questo
metodo è molto sensibile e utilizzabile in saggi su larga scala di nuove molecole. Tuttavia, l’uso di materiale radioattivo, e’ rischioso per i ricercatori e richiede infrastrutture e procedimenti speciali e costosi non adatti per i laboratori di paesi in via di
sviluppo. A questo, si affiancano il metodo microscopico piuttosto laborioso e non adatto a saggi di molti composti e i metodi
colorimetrici tra cui il più noto e’ il dosaggio dell’attività della lattico deidrogenasi (pLDH) che e’ indice dell’attività metabolica del parassita. Recentemente, e’ stata sviluppata una tecnica non radioattiva, poco costosa che permette di valutare l’effettiva replicazione del parassita utilizzando un fluorocromo Pico Green® che si intercala nel DNA di Plasmodium (Corbett et al,
ASTMH, 2004). Pico Green® è un colorante degli acidi nucleici ultrasensibile, utilizzato per misurare la quantità di DNA
(dsDNA) in soluzione. E’ sensibile fino a 25 pg/ml di dsDNA e la fluorescenza puo’ essere valutata con uno spettrofluorimetro
a piastre. Scopo del nostro lavoro e’ stato quello di valutare la riproducibilità e sensibilità del nuovo metodo paragonato al metodo pLDH, e a quello della conta microscopica. Inoltre, dato che la suscettibilità ai farmaci sembra essere diversa in diverse condizioni di crescita del parassita e in presenza o meno di monossido di carbonio (Parapini et al ASTM 2004), e’ stata verificata
la riproducibilità e l’entità di tale fenomeno utilizzando in parallelo i due metodi (Pico Green e pLDH) che misurano attività
metaboliche diverse di P. falciparum.
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METODO INNOVATIVO PER SAGGIARE COMPOSTI POTENZIALMENTE ANTIMALARICI
UTILIZZANDO HRPII
Parapini Silvia1, Basilico Nicoletta1,2, Mondani Monica1, Dell’Agli Mario3, Corbett Yolanda1, Monti Diego4, Taramelli
Donatella1,2
1Istituto di Microbiologia, 2Facolta’ di Farmacia, 3Dipartimento di Scienze Farmacologiche, 4ISTM-CNR e Dipartimento di
Chimica Organica e Ind., Universita’ di Milano.
Durante la fase intraeritrocitaria, Plasmodium falciparum degrada l’emoglobina e detossifica l’eme attraverso la formazione di
pigmento malarico o emozoina. Questo processo è specifico del parassita e rappresenta il bersaglio d’azione dei farmaci antimalarici di tipo chinolinico, come clorochina (CQ), che formano addotti con l’eme e ne inibiscono la detossificazione. Histidin
Rich Protein II (HRP II) è una proteina prodotta da P. falciparum in grado di legare fino a 50 molecole di eme. Per questo è stata
inizialmente proposta come eme-polimerasi capace di catalizzare la formazione di emozoina, tuttavia il suo ruolo fisiologico è
ancora sconosciuto.
Scopo di questo lavoro è stato di utilizzare il legame tra eme e HRPII per sviluppare un saggio capace di individuare composti
che, al pari di CQ, formano addotti con l’eme con affinità superiore a HRPII e che potrebbero essere potenziali antimalarici. Il
saggio si basa sulla capacità dell’eme di ossidare la tetrameltilbenzidina (TMB), valutabile colorimetricamente allo spettrofotometro. L’eme in soluzione tende ad aggregarsi, mentre il legame con HRPII ne aumenta la frazione monomerica e quindi l’attività perossidasica. Nel saggio e’ stata utilizzata ematina a pH neutro, per riprodurre le condizioni del citoplasma dell’eritrocita e nei fluidi biologici., mentre HRPII ricombinante è stata prodotta come descritto da Sullivan et al. (Science, 1996).
I dati indicano che ematina ha un’attività perossidasica proporzionale alla sua concentrazione e il legame con HRPII ne aumenta la reattività in modo dose-dipendente. CQ diminuisce l’attività perossidasica sia di ematina libera che di quella legata a
HRPII: questo significa che CQ compete con HRPII per il legame ad ematina, e di conseguenza diminuisce l’ossidazione del
TMB. Risultati analoghi sono stati ottenuti utilizzando altri farmaci antimalarici noti per la capacita’ di legare l’eme, quali
amodiachina e meflochina. Al contrario, farmaci antimalarici con meccanismo d’azione scorrelato, come pirimetamina, non
hanno influenzato la capacità perossidasica di ematina libera o legata a HRPII.
Questo metodo puo’ rappresentare un saggio sensibile e poco costoso per identificare nuove molecole di sintesi o prodotti naturali potenzialmente antimalarici.
EFFETTO DI ANTIMALARICI SULLA REPLICAZIONE DI HSV-1 IN CHERATINOCITI UMANI
Greco R., Corrado F., Ruocco E., Auricchio L., Perfetto B., Tufano M.A.
Dipartimento di Medicina Sperimentale - Sezione di Microbiologia e Microbiologia Clinica
Seconda Università degli Studi di Napoli
I farmaci antimalarici, sebbene utilizzati in maniera primaria nel trattamento contro la malaria, sono adoperati anche in numerosi disturbi dermatologici, immunologici e reumatologici. Nel corso degli anni numerosi studi hanno attribuito a tali farmaci
proprietà antivirali ed antibatteriche, ma anche la capacità di alterare la risposta immunitaria e favorire la formazione di neoplasie causate dai virus come il Sarcoma di Kaposi ed il Linfoma di Burkitt.
Le cellule in coltura, infettate con HSV-1 subiscono una serie di alterazioni strutturali con morte cellulare come risultato finale.
Infatti, l’infezione di HSV-1 comporta un blocco precoce del metabolismo della cellula ospite, e un secondo blocco che avviene successivamente, durante l’infezione, dovuto alla proteina virale ICP27. ICP27 é una fosfoproteina nucleare, essenziale per
la replicazione virale e che sembra regolare alcune funzioni a livello post-trascrizionale, influenzando “processing” ed “export”
dell’RNA virale. L’espressione di ICP27 è regolata dall’azione di VP16, una proteina del tegumento virale, che legandosi a due
proteine cellulari, Oct-1 e HCF, forma un complesso che attiva la trascrizione delle proteine precoci.
Nostri precedenti studi su cellule epiteliali di rene di scimmia (VERO) hanno dimostrato che il chinino solfato (QS) riduce l’adsorbimento e la moltiplicazione di HSV-1 a basse concentrazioni (1 e 10 mM). Scopo di questa ricerca è stato quello di investigare gli effetti del QS sull’adsorbimento e la moltiplicazione di HSV-1 in cheratinociti umani coltivati in vitro e di verificare
l’espressione delle proteine VP16 e ICP27. A tale scopo, cheratinociti umani sono stati infettati con HSV-1 in presenza o meno
di QS ed incubati a 37°C per 4, 6, 24, 48 e 72 h. A questi tempi, i livelli di espressione delle proteine coinvolte nella replicazione virale (VP16 e ICP27) sono stati valutati mediante western-blot.
I dati ottenuti indicano che nei controlli l’espressione delle proteine VP16 e ICP27 è molto elevata a 48 e 72 h, mentre in presenza di QS risulta ridotta soprattutto a 72 h. I nostri risultati evidenziano che l’antimalarico inibisce la replicazione di HSV-1,
riducendo l’espressione delle proteine VP16 e ICP27.
96
32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
ATTIVITA’ ANTI-ECHOVIRUS DELLA LATTOFERRINA
A. Pietrantoni1, A. Tinari1, R. Siciliano2, P. Valenti3, F. Superti1
1 Dipartimento di Tecnologie e Salute, Istituto Superiore di Sanità, Roma
2 Istituto Scienze dell’Alimentazione, CNR, Avellino
3 Dipartimento di Medicina Sperimentale, II Università di Napoli
E’ noto che i bambini allattati al seno contraggono infezioni intestinali in misura significativamente inferiore rispetto ai bambini allattati con latte artificiale e che l’attività protettiva del latte umano, un tempo attribuita esclusivamente alle IgA secretorie,
è mediata anche da altri componenti di natura proteica, quali la lattoferrina. La lattoferrina è una glicoproteina monomerica, del
peso molecolare di circa 80 kDa, appartenente al gruppo delle transferrine, composta da una singola catena polipeptidica suddivisa in due lobi globulari simmetrici (lobo N e lobo C), ciascuno dei quali può legare un atomo di ferro. Questa proteina svolge
un ruolo importante, oltre che nel metabolismo del ferro, anche nei meccanismi di difesa dell’ospite verso diversi patogeni.
Sebbene l’attività antivirale della lattoferrina rappresenti un’importante funzione biologica, i meccanismi attraverso i quali la
lattoferrina svolge la sua azione non sono stati ancora completamente identificati. Nostri studi recenti hanno dimostrato che
questa proteina è in grado di inibire l’infezione da parte di virus a trasmissione oro-fecale quali rotavirus, poliovirus e adenovirus.
In questa ricerca abbiamo ulteriormente analizzato l’attività anti-enterovirus della lattoferrina e, in particolare, il ruolo del lobo
C e del lobo N, utilizzando come modello di studio l’echovirus 6. I risultati ottenuti dimostrano che la lattoferrina è in grado di
inibire l’infezione da echovirus in modo dose-dipendente, similmente a quanto osservato per altri virus. Esperimenti in cui la
lattoferrina è stata incubata con le cellule durante fasi diverse dell’infezione virale hanno dimostrato che, a differenza da quanto osservato con i virus precedentemente studiati, la lattoferrina esplica la sua attività anti-echovirus anche su fasi tardive dell’infezione. Inoltre, sempre differentemente da quanto osservato con altri virus enterici, i nostri risultati hanno dimostrato che
non solo il lobo N ma anche il lobo C conserva un’attività antivirale. In particolare, il lobo N sembra essere il maggiore responsabile dell’inibizione delle fasi precoci dell’infezione e il lobo C esercita una maggiore attività sulle fasi tardive dell’infezione.
Questa attività del lobo C sarà ulteriormente studiata anche al fine della definizione dei meccanismi dell’attività antivirale della
lattoferrina.
IL TEST DI RESISTENZA AI FARMACI ANTIRETROVIRALI IN PAZIENTI HIV POSITIVI
Cecchini FM*, Gagetta M*, Mauri S*, Mattina R**
* Laboratorio di Sierologia, Azienda Ospedaliera San Paolo, Milano
** Istituto di Microbiologia, Università degli Studi di Milano
La terapia HAART è la nuova terapia di combinazione che utilizza quattro classi di farmaci antiretrovirali. L’introduzione della
terapia HAART ha allungato il periodo di latenza clinica dei pazienti HIV positivi e ne ha migliorato notevolmente la qualità
della vita, ma allo stesso tempo ha contribuito alla diffusione di ceppi virali resistenti. Scopo del nostro lavoro è di valutare l’opportunità diagnostica del test delle resistenze ai farmaci antiretrovirali e la bontà del metodo in uso nel laboratorio di Sierologia
dell’Ospedale San Paolo di Milano. Nel periodo di tempo che va da Giugno 2003 a Maggio 2004 sono stati testati 55 campioni provenienti da pazienti HIV positivi afferenti all’ambulatorio di infettivologia. Il test di resistenza è stato effettuato mediante un saggio di biologia molecolare che comprende estrazione di RNA virale, retrotrascrizione e amplificazione della regione
pol, sequenziamento dei geni RT e PROTEASI, analisi di sequenza e creazione del fenotipo virtuale (Visible Genetics). I pazienti da noi considerati sono stati suddivisi in 6 classi e i risultati ottenuti sono riassunti nella seguente tabella.
Come si apprezza dalla tabella, la percentuale di pazienti con resistenze
farmacologiche varia da classe a classe passando da un minimo di 0% ad
un massimo del 100% nei pazienti
“pluri-experienced”, cioè coloro che
sono stati sottoposti a diversi regimi
terapeutici con esito sfavorevole. Alla
luce di questi risultati possiamo affermare che occorre eseguire il test di resistenza a tutte le classi di pazienti da noi prese in considerazione prima di impostare una
terapia HAART. Inoltre, poiché l’infettivologo ha impostato i nuovi regimi terapeutici sulla base dei risultati del test e tali terapie
hanno avuto successo nel tempo, possiamo affermare che il metodo in uso nel nostro laboratorio è un metodo affidabile.
Classe
1
2
3
4
5
6
Tipologia di pazienti
% RES
Pazienti naive
5.5
Pazienti non in terapia con partner in terapia
/
Pazienti con coinfezioni da HBV/HCV
66
Pazienti “non compliance”
78
Pazienti “pluri-experienced”
100
Pazienti con interruzione programmata
PRE: 100
POST: /
%SEN
94.5
100
34
22
/
PRE: /
POST: 100
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
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ATTIVITÀ ANTIVIRALE DI ESTRATTI DI SCROPHULARIA CANINA L.
R. Costanzo1, R. Timpanaro1, S. Ragusa2, A. Stivala1, L. Iauk 1, A. Garozzo1, A. Castro1
1 Dipartimento di Scienze Microbiologiche e Scienze Ginecologiche, Università di Catania
2 Dipartimento Scienze Farmacobiologiche, Università di Catanzaro
Il genere Scrophularia (Scrophulariaceae) comprende diverse specie di cui è stata dimostrata l’attività antinfiammatoria e batteriostatica.
I principali responsabili degli effetti antinfiammatori sono i glicosidi fenilpropanoidici e iridoidi isolati rispettivamente da
Scrophularia scorodonia e S. deserti. Gli stessi principi isolati da Scrophularia buergeriana hanno dimostrato effetto protettivo
contro la degenerazione glutammato-indotta delle cellule neuronali ed epatiche. È stata inoltre dimostrata una potente attività
antibatterica delle frazioni fenoliche di parti aeree delle specie Scrophularia frutescens e sambucifolia.
I dati in letteratura riguardanti l’attività antivirale di iridoidi, saikosaponine, glicosidi fenilpropanoidici e di alcuni acidi fenolici isolati da S. scorodonia, hanno fornito spunti interessanti per approfondire lo studio sull’attività antivirale di estratti ottenuti
da tali piante.
Scrophularia canina L. è una pianta erbacea perennante comune nell’area mediterranea, predilige i terreni rocciosi, vegeta nelle
zone litoranee fino alla fascia più alta dei boschi e oltre e, come altre forme vegetative pioniere, colonizza le colate laviche
dell’Etna poiché è in grado di sopravvivere in condizioni climatiche estremamente rigide.
In un lavoro precedente abbiamo dimostrato che l’estratto delle parti aeree di Scrophularia canina ha una spiccata attività antibatterica nei confronti di B. subtilis, S. pneumoniae e S. aureus, in questo studio abbiamo saggiato l’attività antivirale in vitro
nei confronti di RNA virus (Polio1, Echo 9, Coxsackie B1, Morbillo) e DNA virus (HSV 1 e HSV 2) mediante il test d’inibizione diretta del numero delle placche. Gli esperimenti effettuati mediante aggiunta dell’estratto durante il ciclo replicativo dei
virus in esame non ha dimostrato attività inibente. Sono stati condotti esperimenti atti a dimostrare un effetto neutralizzante degli
estratti nei confronti dei virus in esame. Gli esperimenti di virucidia hanno evidenziato un’attività virucida dose e tempo dipendente nei confronti dei virus HSV 1 ed HSV 2.
ATTIVITA’ ANTIVIRALE DI INIBITORI NUCLEOTIDICI DELLA TRASCRITTASI INVERSA
SULL’INFEZIONE DA HTLV-1 IN VITRO.
1E. Balestrieri, 2C. Matteucci, 1S. Iacoangeli, 2A. Minutolo, 1B. Macchi, 3A. Mastino.
1Dip. di Neuroscienze e 2Dip. di Medicina Sperimentale e Scienze Biochimiche, Università di Roma “Tor Vergata”, Roma.
3Dip. di Scienze Microbiologiche, Genetiche e Molecolari, Università di Messina, Messina.
Gli inibitori nucleotidici della trascrittasi inversa (NtRTI) sono analoghi nucleotidici che possiedono un gruppo fosfonato unito
ad un nucleoside attraverso un legame P-C. I NtRTI sono risultati in grado di svolgere la loro azione inibitoria verso diversi
agenti virali. In particolare, il tenofovir (9-(R) -[2-(fosfonometossi)propil] adenina) è risultato uno dei composti più efficaci nell’inibire la replicazione di HIV in vitro e in vivo, mostrando al tempo stesso scarsa tossicità e predisposizione alla resistenza.
E’ stato recentemente ipotizzato che il tenofovir possa svolgere un effetto protettivo verso il retrovirus umano HTLV-1, sulla
base di un saggio di infezione a singolo ciclo con un vettore ricombinante. Abbiamo, quindi, saggiato la capacità del tenofovir
di inibire l’infezione de novo con HTLV-1 di cellule mononuclete di sangue periferico in (PBMC) di donatori sani. Gli effetti
del tenofovir sono stati confrontati con quelli ottenuti con AZT e con composti nucleotidici di nuova sintesi, preparati dal Prof.
G. Romeo, Università di Messina, e dal Prof. U. Chiacchio, Università di Catania. I PBMC sono stati sottoposti a pre-trattamento (composto aggiunto 1 h prima dell’infezione) o co-trattamento (composto aggiunto al momento dell’infezione). Il pretrattamento con tenofovir 25 mM, 5 mM, e 1 mM inibiva completamente la rilevazione di DNA provirale e dell’RNA virale e
della proteina tax. Il pre-trattamento con tenofovir 0.1 mM, ed il co-trattamento a tutte le concentrazioni non aveva alcun effetto protettivo. I composti nucleotidici di nuova sintesi mostravano attività anti-HTLV-1 a concentrazioni leggermente superiori a
quella del tenofovir, ma erano efficaci anche in co-trattamento. Un saggio cell-free di inibizione in vitro dell’attività della trascrittasi inversa di HTLV-1, confermava che i tutti composti nucleotidici esaminati fungevano da NtRTI per HTLV-1. Il tenofovir e gli altri composti nucleotidici erano meno citostatici, pro-apoptotici o citotossici rispetto all’AZT. Questi risultati dimostrano il potente effetto antivirale del tenofovir e degli altri composti nucleotidici verso l’infezione da HTLV-1 in vitro, e suggeriscono la loro utilizzazione nella chemioterapia antivirale delle patologie associate all’infezione da HTLV-1.
98
32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
VALUTAZIONE DI UN TERRENO CROMOGENICO PER L’INDIVIDUAZIONE DIRETTA DELLA
METICILLINO RESISTENZA
CAFFIERO G., FRANCISCONE C.,MOMBELLO A., GUAZZOTTI G.C,
Laboratorio di Microbiologia, Ospedale S.Andrea di Vercelli, Cso. Abbiate 21 13100 VERCELLI
Obiettivo: scopo del lavoro è quello di valutare la performance di un terreno cromogenico proposto recentemente per la ricerca della meticillino-resistenza di S. aureus rispetto ai metodi già in uso presso il nostro laboratorio.
Metologia: 120 campioni clinici di varia provenienza, ( broncoaspirati, tamponi nasali, faringei, tamponi lesione cute, pus…) sono stati seminati su una batteria di terreni comprendente sia il convenzionale Mannitol Salt Agar (MSA Beckton Dickinson) in grado di consentire l’evidenziazione di S. aureus, che il nuovo terreno cromogenico per la ricerca diretta di MRSA, contenente 5.5% NaCl and 2 mg/l di oxacillina
denominato Oxacillin Screen Agar Base (ORSAB; Oxoid, Hampshire, United Kingdom ). Dopo incubazione a 35° per 24 ore, in caso di
riscontro positivo su ORSAB, si è proceduto a confermare la presenza di MRSA con la ricerca di PBP2’ con slide- test ( Oxoid Penicilling
Binding Protein Latex Agglutination Test), mentre in caso di sviluppo presuntivo di S. aureus su MSA l’iter è proseguito con la conferma
mediante test della coagulasi (Oxoid Staphytect plus dry spot) e successivo insemenzamento su terreno selettivo per meticillino- resistenza
( Oxascreen Agar Plate Beckton Dickinson) incubato a 35° per 24 ore.
Risultati: con entrambi i metodi 56 campioni sono risultati positivi per S. aureus, di questi 31 (55%) erano MRSA, individuati dopo 24 ore
su ORSAB mediante il caratteristico viraggio blu delle colonie e concordante crescita su oxascreen agar. 25 ceppi (45%) sono risultati MSSA
essendo MSA+ ma ORSAB-. Per tutti questi stafilococchi e’ stata poi eseguita la ricerca della PBP2’ ed i risultati ottenuti erano completamente sovrapponibili ai dati precedenti ossia tutti i ceppi di MSSA sono risultati negativi a questa ricerca mentre tutti i MRSA sono risultati
positivi.Infine 1 ceppo è risultato MSA + , oxascreen + ma ORSAB -:in questo caso prolungando l’incubazione di ORSAB a 48 ore si e’ verificato il viraggio al blu delle colonie e la ricerca della PBP’ 2 ne ha confermato la meticillino-resistenza.
Conclusioni L’utilizzo di questo terreno consente la definizione di MRSA già dopo 24 ore, a differenza dell’abbinamento MSA OXASCREEN che necessita di 48 ore. Anche la lettura della piastra risulta agevole per l’intensa colorazione blu che assumono i ceppi di MRSA.
Eventuali risultati dubbi possono essere chiariti prolungando l’incubazione di altre 24 ore.In definitiva, nella nostra esperienza, anche se la
casistica limitata impone ulteriori conferme con numeri più ampi, riteniamo che l’utilizzo sequenziale di ORSAB e di PBP2’ Latex
Agglutination test si è rivelato un ottimo abbinamento per pervenire all’identificazione di MRSA direttamente da materiali clinici in cui è probabile la presenza di tale patogeno con un considerevole abbreviamento dei tempi ( 24 ore ), elemento assai importante per fornire il più rapidamente possibile ai Clinici un’informazione spesso decisiva per instaurare una terapia appropriata. Pertanto riteniamo che tale prassi possa
essere presa in considerazione per l’inserimento routinario negli schemi operativi per la definizione della meticillino-resistenza.
PRODUZIONE DI ESßL IN STIPITI DI ENTEROBACTERIACEAE ISOLATI IN STRUTTURE DI
LUNGODEGENZA- GERIATRICHE.
1Migliavacca R., 2Balzaretti M., 3Terulla C., 1Nucleo E., 1Taccani D., 3Spalla M., 1Giorgetti E.,1Pagani L..
1Dip. S.M.E.C. Sez. Microbiologia, Università di Pavia, 2Lab. di Microbiologia ASP Istituto Geriatrico Piero Redaelli, Milano,
3Lab. di Microbiologia IRCCS S. Matteo, Pavia, Italia.
Introduzione: La produzione di ß-lattamasi a spettro esteso (ESßL) rappresenta un problema emergente, nell’ambito dell’antibiotico resistenza, negli enterobatteri responsabili di infezioni nosocomiali e comunitarie. Ad oggi non è nota la diffusione di
ESßL in Strutture di Lungodegenza-Geriatriche.
Scopo: Studiare prevalenza e produzione di ESßL in enterobatteri isolati da pazienti ospedalizzati in tre Strutture di
Lungodegenza del nord Italia.
Metodi: Nel periodo dicembre 2003-giugno 2004 sono stati raccolti, presso il laboratorio di Microbiologia dell’A.S.P. Redaelli
di Milano, da pazienti lungodegenti in tre strutture del nord Italia, 401 ceppi non replicati di Enterobacteriaceae produttori di
ESßL. Il rilievo fenotipico della produzione di ESßL è stato effettuato con le Card GNS (Vitek System, bio-Mérieux). Gli isolati risultati positivi sono stati confermati con il test del doppio disco e con metodi molecolari capaci di rilevare determinanti di
resistenza di tipo TEM, SHV, CTX-M, PER e CMY-Lat. La relazione clonale fra gli isolati è stata studiata mediante PFGE.
Risultati: La prevalenza media nelle diverse specie dei ceppi ESßL-positivi è risultata del 28.8% (range 8.3-74.4%). Tutte le
specie di enterobatteri sono risultate ESßL-positive, in particolare: E.coli, la specie di più frequente isolamento, produceva nel
15.5% dei casi una ESßL che conferiva prevalentemente un fenotipo CTX-M; P.mirabilis, è risultato il maggior produttore di
ESßL (74%) in grado di conferire 4 diversi fenotipi di resistenza imputabili anche alla produzione di AmpC plasmidiche;
K.pneumoniae e P.stuartii sono risultate ESßL-positive rispettivamente nel 13.4% e 34% dei casi.
Conclusioni: I risultati ottenuti indicano, nelle strutture di lungodegenza, una elevata incidenza di ceppi produttori di ESßL,
caratterizzati da diversi fenotipi di resistenza. Dovrebbero essere applicate, quindi, rigorose misure preventive e di controllo al
fine di individuare in maniera precoce i pazienti colonizzati-infetti da batteri ESßL produttori per contrastarne la diffusione.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
99
PROFILI DI SENSIBILITA’ AGLI ANTIBIOTICI DI BATTERI ISOLATI IN AMBITO INTRA ED
EXTRA -OSPEDALIERO. REALTA’ LOCALE
Ferrari Lucio
Laboratorio di Microbiologia–Az. Ospedale di Cremona
Il continuo e spesso inadeguato uso di antibiotici impiegati nella terapia delle infezioni, ha determinato una continua riduzione della sensibilità dei batteri nei confronti dei chemioterapici.
Tale comportamento si manifesta sia in ambiente intra-, che extra-ospedaliero, determinando la necessità di utilizzare molecole sempre più
“raffinate” e “costose”.
Nel nostro studio è stata valutata la dinamica dei profili di sensibilità dei batteri, G+ e G-, più frequentemente isolati nel nostro territorio, nel
quinquennio 1999-2003 sia a livello intra che extra-ospedaliero.
Materiali e Metodi
Trattandosi di un’indagine retrospettiva, i dati sono stati estratti dai database dei sistemi analitici operanti nel nostro laboratorio.E’ stata valutata l’attività di Amoxicillina/Clav.,Amikacina,Cefotaxime,Ceftazidime, Imipenem, Ciprofloxacina, Cootrimoxazolo Vs. E.coli, K.pneumoniae, E.cloacae, S.marcescens, Ps.aeruginosa oltre che Oxacillina, Vancomicina e Teicoplanina Vs S.aureus, S.epidermidis ed E.faecalis.
La ricerca ha interessato i ceppi batterici isolati da pazienti degenti nel nostro ospedale (65% circa) e ceppi isolati da pazienti afferenti ai
nostri ambulatori esterni (35% circa), per un volume di 10.000–12.000 ceppi/anno, dal gennaio 1999 al dicembre 2003.
Risultati
L’analisi dei dati ottenuti evidenzia una modesta riduzione delle sensibilità degli isolati agli antibiotici, che si attesta, nell’ultimo triennio, su
valori abbastanza costanti, concordi con i dati riportati in letteratura. Da segnalare una progressiva diminuzione della MR resistenza per
St.aureus, in ambito ospedaliero, giustificata dall’azione di controllo e di intervento di un’attiva Commissione Infezioni Ospedaliere, presente nel nostro nosocomio. Fenomeno contrapposto ad un aumento della MR in Staph. epidermidis ed epidermidis group Per quanto riguarda i
ceppi batterici extra-ospedalieri, è presente, rispetto al campione precedente, una maggiore attività di numerose delle molecole considerate,
solo per alcune di queste (Fluorochinoloni), si assiste ad una riduzione della loro attività Vs alcune specie batteriche, probabilmente per il largo
impiego di tali molecole nella terapia empirica, ambulatoriale, delle infezioni genito-urinarie.
Conclusioni
L’evidente pressione selettiva indotta dall’impiego massivo di antibiotici sta evidenziando nel nostro territorio, fino a qualche anno fa, miracolosamente indenne, nuovi ed insidiosi fenomeni di resistenza costantemente in aumento, quali l’insorgenza di ESBL in numerosi G- e la
comparsa, sempre più frequente, di VRE, Pneumococchi Penicillino-Resistenti e Stafilococchi coagulasi negativi Meticillino-Resistenti.
MONITORAGGIO DELLE RESISTENZE AGLI ANTIBIOTICI IN CEPPI DI HAEMOPHILUS
INFLUENZAE ISOLATI DA MALATTIE INVASIVE IN ITALIA.
Maria Giufrè, Rita Cardines, Paola Mastrantonio, Marina Cerquetti.
Dipartimento di Malattie Infettive Parassitarie ed Immunomediate
Istituto Superiore di Sanità, Roma.
Sebbene l’uso di vaccini coniugati contro Haemophilus influenzae di tipo b abbia drasticamente ridotto l’incidenza di patologie
invasive associate a ceppi di questo tipo capsulare, H. influenzae rimane tuttora causa di malattie invasive. Considerata la gravità di tali malattie, il monitoraggio delle resistenze agli antibiotici più frequentemente impiegati nella terapia risulta particolarmente importante. In questo studio sono stati analizzati 176 ceppi di H. influenzae, isolati da malattie invasive in Italia tra il
1998 ed il 2003, per la sensibilità ad ampicillina, azitromicina, cloramfenicolo e ciprofloxacina mediante E-test. I ceppi risultati
resistenti all’ampicillina sono stati ulteriormente studiati sia per la sensibilità a cefotaxime ed imipenem sia mediante metodi
molecolari. I geni responsabili della resistenza, bla TEM e bla ROB, sono stati individuati mediante PCR. Le relazioni filogenetiche tra ceppi sono state analizzate sottoponendo gli stessi a Pulsed-Field-Gel-Electrophoresis (PFGE).
La principale resistenza evidenziata risultava di gran lunga quella all’ampicillina dovuta alla produzione di b-lattamasi (10,2%).
Nel corso degli anni oggetto dello studio, la percentuale dei ceppi produttori di b-lattamasi aumentava dal 6,9% nel 1998/1999
al 19% nel 2002/2003. Nessun ceppo era resistente alla ciprofloxacina. Il 6,8% dei ceppi era resistente alla azitromicina, mentre il 1,7% era resistente al cloramfenicolo. Tutti i ceppi resistenti all’ampicillina erano sensibili sia al cefotaxime sia all’imipenem. Inoltre, tutti possedevano il gene bla TEM ma non il gene bla ROB . L’analisi delle relazioni filogenetiche evidenziava una
scarsa omologia genetica tra ceppi ampicillina-resistenti.
In conclusione, in questo studio è stato dimostrato un costante incremento nel tempo dell’incidenza di resistenza all’ampicillina dovuta alla produzione di b-lattamasi e associata alla presenza del gene bla TEM . In accordo con i risultati della PFGE, la
disseminazione clonale dei ceppi ampicillina-resistenti non sembra essersi verificata, suggerendo che il gene bla TEM sia stato
acquisito orizzontalmente dai ceppi stessi. Il cefotaxime e l’imipenem rappresentano una scelta terapeutica appropriata per il
trattamento delle malattie invasive causate da H. influenzae ampicillina-resistente.
100
32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
PRODUZIONE DI ESßL IN ACINETOBACTER BAUMANNII MDR DI ISOLAMENTO CLINICO.
aMigliavacca R., bNavarra A., cEndimiani A., aNucleo E., dSpalla M., bNegri A., cLuzzaro F., eRossolini G.M., aPagani L..
aDip. S.M.E.C. sez. Microbiologia, Università di Pavia; bLab. di Microbiologia- IRCCS “S. Maugeri”Pavia; cLab. di
Microbiologia - Ospedale di Circolo e Fond. “Macchi”Varese; d Servizio Analisi Microbiologiche IRCCS S.Matteo-Pavia;
eDip. Biol. Molecolare, Università di Siena.
Introduzione: La patogenicità di A.baumannii negli individui immuno-competenti è associata all’esposizione ad alte dosi infettanti o all’introduzione in ferite profonde/necrotiche. A.baumannii è causa di infezioni nosocomiali in pazienti immuno-compromessi con elevati fattori di rischio: interventi chirurgici, intubazione, ventilazione meccanica, cateterizzazioni e prolungati
periodi in TI. L’emergere di A.baumanii come importante agente nosocomiale ha coinciso con lo sviluppo in tutto il mondo di
medio-alti livelli di multi-antibiotico-resistenza. La FDA considera l’imipenem (7.7% di resistenti) l’ultimo farmaco utile nella
terapia delle infezioni da A.baumannii MDR.
Scopo: Studiare la produzione di “Extended-spectrum” ß-lattamasi (ESßL) in isolati clinici di A. baumannii MDR responsabili di infezioni nosocomiali in 2 ospedali del Nord Italia e le loro relazioni clonali.
Metodi: 39 ceppi di A. baumannii isolati nel periodo ’99-‘03 da reparti di TI, clinici, chirurgici e riabilitativi, e caratterizzati da
un profilo MDR, sono stati studiati per la produzione di ß-lattamasi. Tutti gli isolati sono stati identificati e saggiati per la sensibilità agli antibiotici con card GNI (Vitek System, BioMerièux) e pannelli NMIC/ID4 (Phoenix System, BD). La presenza e
la natura dei geni blaVIM blaIMP blaTEM, blaSHV, blaCTX-M sono state determinate mediante PCR e sequenziamento. Le
relazioni clonali sono state valutate mediante PFGE dopo restrizione con SmaI.
Risultati: 12/26 isolati raccolti presso l’ospedale di Varese e 1/13 isolati raccolti presso l’IRCCS “S. Maugeri” sono risultati
produttori della ESßL di classe A TEM-92 (pI 5.6). I rimanenti producevano una ß-lattamasi Amp-C ad elevati livelli.
Mediante PFGE è stata evidenziata stretta relazione clonale e/o identità genotipica fra i TEM produttori di entrambi gli ospedali.
Conclusioni: I risultati dimostrano la circolazione in ambito inter-ospedaliero di stipiti di A.baumannii MDR produttori di ESßL
di classe A correlati genotipicamente. L’espressione di ESßL TEM-92, per la prima volta riscontrata in A.baumannii, può determinare fenotipi MDR di difficile trattamento.
RESISTENZA MEDIATA DA METALLO-ß-LATTAMASI DI TIPO VIM IN ISOLATI DI
PSEUDOMONAS AERUGINOSA MDR DA UNA STRUTTURA DI NEURORIABILITAZIONE.
1Colinon C., 2Migliavacca R., 3Navarra A., 2Nucleo E., 4Spalla M., 3Telecco S., 1. Docquier J.-D, 1Rossolini G. M., 2Pagani L.
1Dip. di Biol. Molecolare, Università di Siena, 2Dip. S.M.E.C. Sez. Microbiologia, Università di Pavia, 3Lab. di Microbiol.
IRCCS “Fondazione S. Maugeri” Pavia, 4Lab. di Microbiol. IRCCS S. Matteo, Pavia, Italia.
Introduzione: La gestione dei pazienti con lesioni neurologiche traumatiche/non traumatiche è migliorata considerevolmente
negli ultimi anni. Dopo la stabilizzazione, la maggior parte dei pazienti è trasferita alle Unità di Riabilitazione, che rappresentano oggi un ampio “reservoir” di pazienti colonizzati e/o infetti da germi multi-resistenti agli antibiotici (MDR). Le metallo-ßlattamasi (MBL) di tipo VIM ed IMP in grado di conferire resistenza a tutti i ß-lattamici, inclusi i carbapenemici, sono determinanti di resistenza emergenti nei batteri Gram-negativi di isolamento clinico. Fino ad oggi, sono state descritte MBL di tipo
VIM in Ospedali per acuti, ma la loro epidemiologia nelle Strutture di Riabilitazione rimane ampiamente sconosciuta.
Metodi: Nel periodo luglio 2003-marzo 2004 sono stati raccolti, presso un reparto di riabilitazione neurologica, da pazienti provenienti da differenti ospedali italiani, 18 stipiti di P. aeruginosa non replicati resistenti ai carbapenemici. Il rilievo su base fenotipica dei produttori di MBL è stato effettuato utilizzando l’E-test ed il metodo di microdiluizione EPI-test. Per studiare i determinanti MBL ed il loro contesto genetico, sono stati utilizzati diversi metodi molecolari (PCR-RFLP, PCR-mapping, sequenziamento, ibridizzazione del DNA). La relazione clonale fra gli isolati è stata studiata con PFGE usando l’enzima SpeI.
Risultati: Dei 18 isolati resistenti ai carbapenemici, 11 sono risultati produrre una MBL codificata da un gene blaVIM-1 localizzato su un integrone. 7 di questi ceppi sono risultati epidemiologicamente correlati, suggerendo una diffusione clonale; gli
altri ceppi, non correlati fra loro, erano presenti contemporaneamente nello stesso reparto. Conclusioni: I risultati ottenuti indicano, nel reparto di riabilitazione neurologica, un’elevata incidenza (61%) di ceppi produttori di MBL di tipo VIM-1 tra i ceppi
di P. aeruginosa resistenti ai carbapenemi. Dovrebbero essere applicate quindi, al fine di individuare i produttori di MBL e contrastare la diffusione di P. aeruginosa MDR, misure preventive e di controllo, includendo rigorosi protocolli microbiologici.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
101
CORRELAZIONE TRA ANTIBIOTICO-RESISTENZA E FATTORI DI VIRULENZA IN ESCHERICHIA
COLI UROPATOGENI
S. Puglisia, R. Musumecib, C. Cocuzzab, G. Blandinoa, F. Caccamoa, M. Pisanoa, A. Specialea
aDipartimento di Scienze Microbiologiche e Scienze Ginecologiche - Università di Catania.
bDipartimento di Medicina Clinica, Prevenzione e Biotecnologie Sanitarie - Università di Milano-Bicocca, Monza.
Le infezioni del tratto urinario (UTI) sono tra le più comuni patologie infettive nell’uomo con una prevalenza fortemente
influenzata dal sesso e dall’età. Le UTI sono comuni nelle giovani donne e circa il 50% delle donne adulte riportano almeno un
episodio di UTI nella vita.
Le infezioni delle basse vie urinarie non complicate, rappresentate prevalentemente dalle cistiti, dal punto di vista epidemiologico costituiscono l’80% delle infezioni urinarie e le donne sono sicuramente il sesso maggiormente colpito. Si stima che almeno il 20% della popolazione femminile presenti un episodio di cistite ogni anno. Nella donna, i patogeni raggiungono la vescica prevalentemente per via ascendente, a causa di fattori predisponenti di natura anatomica, ormonale e comportamentale.
La cistite acuta non complicata va inquadrata come un’infezione episodica, occasionale che colpisce quasi esclusivamente il
sesso femminile (90% dei casi). Di fronte ad un episodio isolato di cistite è in genere sufficiente instaurare una terapia antibiotica su base empirica, mirata contro i patogeni più frequentemente responsabili dell’infezione (Escherichia coli, Proteus mirabilis, Klebsiella pneumoniae).
Escherichia coli è di gran lunga la causa più comune di infezioni del tratto urinario. In ceppi di E. coli che causano UTI sono
stati descritti diversi fattori di virulenza, come l’emolisina, il fattore citotossico necrotizzante 1 (CNF-1), l’aerobactina, e varie
adesine.
Nel presente lavoro è stata valutata, con il metodo della brododiluizione scalare, l’antibiotico-sensibilità in vitro di 60 ceppi di
E.coli provenienti da urine di donne in età fertile con diagnosi di cistite acuta al primo episodio. Quindi, in base al pattern di
sensibilità, sono stati scelti 15 ceppi al fine di trovare una correlazione tra patogenicità e resistenza agli antibiotici. Di tali ceppi,
è stata valutata la presenza della pompa d’efflusso AcrAB-TolC, è stata testata la produzione di emolisina ed è stata inoltre effettuata, mediante PCR (polymerase chain reaction), la valutazione genotipica e fenotipica di vari fattori di virulenza, amplificando i geni che codificano per tali fattori.
I nostri risultati, come riportato anche da altri autori, suggeriscono che negli E.coli uropatogeni la resistenza possa essere associata a una diminuita espressione di alcuni fattori di virulenza.
DETERMINAZIONE DELLA METICILLINO-RESISTENZA IN STAPHYLOCOCCUS AUREUS CON
METODI FENOTIPICI E GENOTIPICI
Marta Totaro1, Marialaura Corrente1, Rosa Monno2, Giovanni Rizzo2, Maria Tempesta1, Canio Buonavoglia1
1 Dipartimento di Sanità e Benessere animale, Università di Bari
2 Dipartimento di Medicina Interna e Medicina Pubblica, Igiene Seconda, Università di Bari
OBIETTIVI: determinare la meticillino-resistenza mediante alcuni metodi fenotipici e genotipici e tipizzare ceppi di S. aureus
responsabili di infezioni nosocomiali.
MATERIALI E METODI: Sono stati analizzati 71 stipiti di S. aureus, scelti mediante campionamento randomizzato tra i ceppi
isolati in differenti reparti del Policlinico di Bari nel periodo 1999-2001. La meticillino-resistenza dei ceppi è stata valutata
mediante: a) un sistema automatizzato (Microscan, Dade Behring); b) il test di agglutinazione al lattice per la rilevazione della
Penicillin Binding protein (PBP2’); c) l’oxacillin agar screen test. Le MIC verso l’oxacillina, la vancomicina e la teicoplanina
sono state determinate con il metodo dell’agar-diluizione.. Inoltre è stata effettuata la PCR per il gene mecA. E’ stata valutata la
sensibilità a 11 antibiotici non b-lattamici mediante test di diffusione in agar. I ceppi sono stati caratterizzati mediante PCR sulla
regione ipervariabile (HVR-PCR) mecA-associata e analisi “Random Amplified Polymorphic DNA” (RAPD).
RISULTATI: Tutti gli stipiti analizzati sono risultati meticillino-resistenti secondo il sistema automatizzato, l’oxacillin agar
screen test, il test di agglutinazione al lattice per la PBP2’ e la PCR per il gene mecA. Le MIC50 and MIC90 per l’oxacillina
sono risultate rispettivamente di 256 e >256 mg/L. In nessun ceppo è stata evidenziata resistenza alla vancomicina e teicoplanina. Sono stati individuati 8 resistotipi. La HVR-PCR ha evidenziato 5 ampliconi di diversa grandezza. Mediante RAPD i ceppi
sono stati raggruppati in 8 cluster; la maggior parte dei ceppi è risultata appartenere a 3 gruppi. Comparando i risultati di HVRPCR e RAPD, è stata osservata una buona concordanza.
CONCLUSIONI: i metodi fenotipici impiegati in questa indagine hanno dato risultati concordanti con la PCR per il gene mecA,
che è considerata il gold standard per l’individuazione della meticillinoresistenza. I metodi genotipici utilizzati, di rapida e facile esecuzione, possono essere applicati per confrontare i ceppi isolati nei diversi reparti.
102
32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
DETERMINAZIONE RAPIDA DELLA RESISTENZA ALLA CLARITROMICINA IN HELICOBACTER
PYLORI MEDIANTE PCR-DENATURING HIGH-PERFORMANCE LIQUID CHROMATOGRAPHY
(DHPLC)
P. Posteraro1, G. Branca2, M. Sanguinetti2, S. Ranno2, G. Cammarota3, M. De Carlo1, B. Posteraro2 e G. Fadda2
1Dip. di Patologia Clinica e Molecolare, IDI-IRCSS, 2Ist. di Microbiologia e 3Dip. di Medicina Interna e Gastroenterologia,
Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma
In questo studio viene descritto lo sviluppo di un nuovo saggio basato sulla PCR e sulla “denaturing high-performance liquid
chromatography (DHPLC)” per la determinazione rapida della resistenza alla claritromicina in Helicobacter pylori. A tale scopo
è stato amplificato un frammento di 239 pb del gene che codifica per l’rRNA 23S comprendente la regione coinvolta nella resistenza alla claritromicina, a partire dal DNA di 65 ceppi di H. pylori, 51 resistenti e 14 sensibili alla claritromicina. Gli amplificati sono stati quindi sottoposti all’analisi DHPLC e quelli con profilo anomalo sono stati sequenziati. Tutti i ceppi resistenti
avevano un profilo alterato in DHPLC e una mutazione puntiforme nel gene target, mentre quelli sensibili avevano profili normali. È stato possibile evidenziare 4 diverse mutazioni, di cui due (A2142G e A2143G) già associate a resistenza alla claritromicina e le altre (T2182C e C2195T) non ancora descritte. Ad eccezione di un caso, queste nuove mutazioni erano riscontrate
insieme alla mutazione A2142G o a alla A2143G, ciò ad indicare come mutazioni diverse possano insorgere in più siti dello
stesso gene. Inoltre, sono state analizzate 25 biopsie ottenute da pazienti con patologia gastrica, in cui l’infezione da H. pylori
era stata accertata mediante il 13C-urea “breath test”, l’esame istologico e/o l’esame colturale. In tutti i campioni era possibile
dimostrare la presenza del DNA di H. pylori e in 15 di essi l’analisi DHPLC rivelava la presenza di mutazioni, poi confermata
mediante analisi di sequenza. Anche in questo caso erano presenti le mutazioni A2143G e A2142G; in un campione era presente una doppia mutazione (A2143G e T2221C), mentre in un altro era possibile riscontrare due genotipi, wild-type e mutato
(A2143G). Per 10 campioni con coltura positiva, i risultati DHPLC confermavano la resistenza alla claritromicina dei corrispondenti ceppi determinata con un metodo fenotipico. In conclusione, si può affermare che il saggio PCR-DHPLC è uno strumento molto utile per la determinazione rapida della resistenza alla claritromicina in H. pylori e può essere impiegato direttamente sui campioni clinici, in luogo dei metodi basati sulla coltura, specialmente per i pazienti per i quali risulta fallito un primo
tentativo di eradicazione del microrganismo.
RESISTENZA ALLA RIFAMPICINA IN STIPITI DI MYCOBACTERIUM TUBERCULOSIS ISOLATI A
PALERMO.
Bonura C., Mammina C., Immordino R., Barbaro R., Di Stefano S., Cascino S., Giammanco A.
Dipartimento di Igiene e Microbiologia, Università degli Studi di Palermo.
Sono in continuo aumento stipiti mutanti di M. tuberculosis multiresistenti (MDR) ai più importanti farmaci antitubercolari
come rifampicina, isoniazide, etanbutolo, streptomicina. Tali stipiti sono stati isolati anche da pazienti che non sono stati sottoposti al trattamento farmacologico.
Il fenomeno, considerato dall’OMS in parte responsabile della continua incidenza della tubercolosi, ha condizionato le più
recenti scelte vaccinali. La vaccinazione antitubercolare è oggi, infatti, consigliata nelle aree geografiche in cui circolano tali
mutanti ed è quindi necessario utilizzare dei test che permettano il riconoscimento rapido e specifico dell’evento mutazionale.
D’altra parte, è descritto che la prevalenza di tali mutazioni varia ampiamente tra ceppi di M. tuberculosis isolati da differenti
paesi per cui risulta importante stabilire la loro distribuzione.
Inoltre, la valutazione della resistenza alla rifampicina è considerata da numerosi ricercatori un test di screening per il riconoscimento di ceppi multiresistenti ed infatti più del 90% dei ceppi resistenti alla rifampicina sono anche resistenti all’isoniazide.
Uno dei metodi più attendibili e più frequentemente utilizzati per eseguire questo tipo di indagine è il sequenziamento del gene
rpoB che codifica per la subunità b della RNA polimerasi batterica.
Tale metodo è stato da noi selezionato per la caratterizzazione dei nostri isolati.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
103
DIMOSTRAZIONE IN VITRO DELLA RIDUZIONE DI BIOFILM PRODOTTI DA STAPHYLOCOCCUS
EPIDERMIDIS MEDIANTE INTERFERENZA DIRETTA NEL PROCESSO DI FORMAZIONE DEL
BIOFILM.
Vanessa Ripavecchia, Patrizia Russo, Federica Poggiali, Serena Schippa, Claudio Passariello, Marco Artini, Laura Selan
(Università di Roma “La Sapienza”, Dipartimento di Scienze di Sanità Pubblica)
La colonizzazione da parte di biofilm resistenti agli antibiotici è un fenomeno emergente correlato al numero crescente di infezioni protesiche causate da CNS ed altri batteri. Abbiamo dimostrato in vitro che l’antibiotico resistenza di biofilm formati da
ceppi di Staphylococcus epidermidis viene drasticamente ridotta dal trattamento con la serratio-peptidasi (SPEP) un enzima proteolitico di origine batterica. Mentre molti sforzi di ricerca sono orientati all’identificazione di molecole che antagonizzino il
signaling tra batteri per bloccare la formazione di biofilm, in questo studio abbiamo valutato la capacità di questo enzima -già
ampiamente usato in terapia- di facilitare l’eliminazione di infezioni da biofilm da parte di antibiotici. Poiché la SPEP verosimilmente non entra nelle cellule batteriche a causa del suo PM (59 kD) abbiamo analizzato la sua azione sulle proteine di superficie di questi batteri rilasciate nel medium nella fase stazionaria. In presenza di SPEP abbiamo riscontrato una significativa riduzione nei livelli di atlE, una autolisina coinvolta nella regolazione dell’adesione di S.epidermidis alle superfici, mentre cellule
coltivate in assenza di SPEP e successivamente trattate con questo enzima non hanno mostrato variazioni della sua presenza
(SDS-page). Abbiamo concluso che l’effetto dell’enzima SPEP su questa proteina è indiretto e successivamente abbiamo dimostrato che si esercita a livello della trascrizione del gene atlE. A conferma del dato abbiamo riscontrato (Northern-Blot) la riduzione dell’espressione del gene atlE a livelli indimostrabili in un ceppo wild type di S.epidermidis 047 (Gotz strain) e una parziale riduzione di espressione genica è stata riscontrata in un ceppo knock-out atlE minus complementato con un plasmide multicopia sotto il controllo del sistema regolatorio wild-type. Dal punto di vista biologico, poiché SPEP è un enzima proteolitico
prodotto da Serratia marcescens può essere considerata un esempio interessante di modulazione del fenotipo batterico ottenuta
dal signaling tra specie batteriche tassonomicamente distanti. Dal punto di vista medico questa osservazione apre spazi di ricerca per l’identificazione di molecole capaci di resituire la sensibilità agli antibiotici nelle infezioni da biofilm.
BIOFILM EARLY ONSET INFECTION SU CATETERI VASCOLARI: STUDIO IN VIVO DI DIFFERENTI PROTOCOLLI DI PREVENZIONE
Federica Poggiali, Vanessa Ripavecchia, Patrizia Russo, Claudio Passariello, Marco Artini, Luigi Rizzo, Paolo Fiorani, Laura
Selan (Università di Roma “La Sapienza”)
Il crescente sviluppo di nuovi materiali sintetici per la realizzazione di dispositivi medici impiantabili ha consentito di attuare
grandi progressi in campo medico. I cateteri vascolari – i più impiegati - vengono realizzati in materiali polimerici diversi dotati di elevata biocompatibilità. La principale complicanza associata all’uso dei dispositivi medici impiantabili, e in particolare ai
cateteri venosi centrali, è l’insorgenza, anche a tempi brevissimi dall’inserzione, di infezioni, cui segue il fallimento dell’impianto e la necessità di rimozione del dispositivo. Nei cateteri venosi centrali circa il 60% delle infezioni è causato da
Staphylococcus epidermidis, da altri stafilococchi coagulasi-negativi e da Staphylococcus aureus. Negli ultimi anni la ricerca
sui biomateriali ha puntato alla realizzazione di nuovi dispositivi refrattari all’adesione microbica; sono stati così sviluppati
diversi tipi di cateteri vascolari realizzati tramite ricoperture antiadesive o trattamenti con sostanze antibatteriche.
Lo scopo del nostro studio è stato quello di verificare le proprietà antimicrobiche di due diverse tipi di protesi attualmente disponibili in commercio: una protesi Dacron Knitted impregnata di Sali d’argento (Silver Intergard ® Intervascular, La Ciotat,
France) e una protesi di Dacron Knitted (Vascutek) impregnata con Rifampicina. Ciascuna protesi, del diametro di 8mm, è stata
impiantata in condizioni di sterilità in ratti adulti maschi di razza Wistar (quattro gruppi di 10 ratti). Subito dopo - nella zona
dell’impianto- in ogni ratto del gruppo I e II sono stati inoculati 0,2 ml di SF contenente 5x107 ufc di S.aureus; e in ogni ratto
dei gruppi III e IV sono stati inoculati 0,2 ml di SF contenente 5x105 ufc di S.aureus. I ratti dei gruppi I e III sono stati trattati con nevofloxacina per 7 gg; dopo 3 settimane sono stati sacrificati e le protesi -espiantate sterilmente- sono state analizzate mediante conta batterica in piastra.
I risultati hanno dimostrato che soltanto le protesi imbevute di Rifampicina espiantate dai ratti trattati con nevofloxacina erano
sterili. Tutte le altre protesi, sia quelle imbevute con sali d’argento (gruppo di ratti trattato con l’antibiotico per via generale e
gruppo non trattato) sia imbevute con la rifampicina (gruppo di ratti non sottoposti a trattamento antibiotico) erano colonizzate da alte cariche di batteri. In conclusione possiamo affermare che il solo trattamento antibiotico sia per via generale che per
via topica non è in grado di prevenire l’adesione dei batteri alle protesi né la formazione di biofilm. Inoltre l’impregnazione
delle protesi con i sali d’argento non è mai efficace, neanche con il supporto di un trattamento antibiotico generale adeguato.
104
32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
LA LATTOFERRINA ED IL FERRO MODULANO L’AGGREGAZIONE E LA FORMAZIONE DI
BIOFILM IN STREPTOCOCCUS MUTANS
Berlutti F1., Morea C. 1, Azzocchi R. 1, Sarli S. 1 , Bosso P. 2 e Valenti P.2
1 Dipartimento di Scienze di Santità Pubblica, Università “La Sapienza” di Roma, 2 Dipartimento di Medicina Sperimentale,
II Universita’ di Napoli
Streptococcus mutans, un batterio immobile Gram-positivo, e’ considerato un patogeno orale, principale agente eziologico della
carie dentale.
Nonostante alcuni ricercatori suggeriscano che tracce di metalli, incluso il ferro, possono essere associati alla carie, la funzione
del ferro salivare rimane ancora da chiarire.
I dati riportati in questo studio indicano che la saliva contenente Fe (III) < 0.1 µM aumenta l’aggregazione e la formazione di
biofilm in S. mutans sia in fase fluida che in fase aderente, comparata alla saliva contenente Fe (III) da 0.1 a 1 µM. Al contrario, quando la saliva contiene Fe (III) > 1 µM, entrambi i fenomeni, aggregazione e sviluppo di biofilm, sono inibiti.
I nostri risultati indicano che sia l’aggregazione che la formazione di biofilm sono negativamente modulati dal ferro e sono confermati dall’effetto mostrato dalla Lf , addizionata alla saliva a concentrazioni fisiologiche (20 µg/ml) in forma apo- o saturata
al 100% in ferro.
Infatti, anche se la saliva, di per se’, induce l’aggregazione batterica, la capacita’ di legare il ferro dell’apo-Lf e’ responsabile
del notevole incremento dell’aggregazione batterica e dello sviluppo del biofilm in fase fluida o aderente.
Viceversa, la Lf saturata al 100% in ferro diminuisce notevolmente sia l’aggregazione che la formazione del biofilm di S.
mutans.
Pertanto, la capacita’ di sottrarre ferro, posseduta dalla apo-Lf o dalla Lf nativa, saturata in ferro al 20%, rappresenta un importante segnale a cui S. mutans risponde abbandonando lo stato plantonico per acquisire un nuovo stile di vita, il biofilm, mediante il quale colonizza e persiste nella cavita’ orale.
In aggiunta la Lf possiede un’altra funzione, indipendente dalla sua capacita’ di sottrarre ferro, responsabile di inibire l’adesione di S. mutans in forma libera, aggregata o in biofilm a superfici abiotiche o cellulari.
Questa duplice attivita’ della Lf , dipendente ed indipendente dalla capacita’ di sottrarre ferro, potrebbe “in vivo” giocare un
ruolo chiave nel proteggere la cavita’ orale dall’ingiuria di batteri patogeni quali S. mutans.
REAL-TIME PCR NELLA RICERCA DELLA CHLAMYDIA PNEUMONIAE
R. Sessa, G. Schiavoni, A. Petrucca1, M. Di Pietro, S. Fallucca, C. Zagaglia, P. Cipriani, M. del Piano
Dipartimento di Scienze di Sanità Pubblica, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, 1Ospedale S. Andrea, Roma
Negli ultimi anni l’importanza del ruolo della Chlamydia pneumoniae nella patogenesi dell’aterosclerosi è stata avvalorata da
numerosi studi rivolti alla ricerca diretta del batterio nelle lesioni aterosclerotiche di coronarie e di carotidi.
Lo scopo del nostro studio è stato quello di ricercare il DNA di C. pneumoniae, mediante real-time PCR, nelle cellule mononucleate del sangue periferico (PBMC) e nelle lesioni aterosclerotiche carotidee provenienti da soggetti con patologie cardiovascolari.
Sono stati analizzati 30 campioni di PBMC e 30 campioni di lesione aterosclerotica carotidea da pazienti sottoposti ad endoarterectomia carotidea.
Su entrambi i tipi di campione la ricerca di DNA di C. pneumoniae è stata effettuata utilizzando real-time PCR, basata sul frammento PstI specie-specifico di C. pneumoniae e ompA nested touchdown PCR.
I nostri risultati hanno evidenziato che la real-time PCR presenta una più elevata sensibilità (25 copie genomiche di C. pneumoniae) rispetto alla ompA nested touchdown PCR, considerata metodica di riferimento dal CDC.
E’ stata riscontrata, inoltre, una maggiore quantità di DNA di C. pneumoniae nei campioni di PBMC rispetto ai campioni di
lesione aterosclerotica carotidea.
Pertanto, i risultati suggeriscono che la real-time PCR, effettuata sui campioni di PBMC, può rappresentare un valido sistema
per identificare la C. pneumoniae nei soggetti con patologie cardiovascolari, dal momento che permette di rilevare la C. pneumoniae anche in quei campioni in cui il microrganismo è presente in bassa concentrazione.
La maggiore flessibilità e sensibilità della real-time PCR rispetto alla ompA nested touchdown PCR rendono questa tecnica, da
una parte, particolarmente indicata per la diagnosi di una infezione vascolare da C. pneumoniae, e, dall’altra, un ottimo strumento per monitorare l’efficacia di un trattamento terapeutico.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
105
PREVALENZA DELLA CHLAMYDIA PNEUMONIAE NELLE MALATTIE ATEROSCLEROTICHE
CARDIOVASCOLARI
R. Sessa, M. Di Pietro, G. Schiavoni , S. Fallucca, C. Zagaglia, S. Romano1, F Benedetti-Valentini2, M. del Piano
Dipartimento di Scienze di Sanità Pubblica, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, 1Dipartimento di Medicina Interna
e Cardiologia, Università de L’Aquila, 2Dipartimento di Cardiologia Vascolare, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”.
Studi sieroepidemiologici e ricerca diretta di Chlamydia pneumoniae hanno ulteriormente evidenziato il coinvolgimento di questo microrganismo nelle malattie aterosclerotiche cardiovascolari.
Lo scopo del nostro studio è stato quello di valutare la prevalenza di C. pneumoniae, mediante PCR, nelle cellule mononucleate del sangue periferico (PBMC) e nelle lesioni aterosclerotiche carotidee di pazienti con malattie cardiovascolari. Inoltre è stata
valutata la presenza di anticorpi anti-C. pneumoniae e la correlazione con il DNA di C. pneumoniae.
Sono stati analizzati 334 campioni suddivisi in 2 gruppi: il gruppo A, costituito da 174 campioni di PBMC, provenienti da 93
pazienti con sindrome coronarica acuta e da 81 con malattia aterosclerotica carotidea, ed il gruppo B, costituito da 160 campioni
di lesioni aterosclerotiche carotidee ottenute da pazienti sottoposti ad endoarterectomia carotidea.
La ricerca di DNA di C. pneumoniae nei campioni di PBMC e di lesioni aterosclerotiche carotidee è stata effettuata, mediante
semi-nested PCR, utilizzando primers specie-specifici (HL1/HM1 e HM1/HR1).
Su tutti i pazienti esaminati è stata effettuata la ricerca degli anticorpi IgG e IgA anti-C. pneumoniae mediante microimmunofluorescenza.
I nostri risultati indicano che la prevalenza di DNA di C. pneumoniae nei PBMC di pazienti con sindrome coronarica acuta e
con malattia aterosclerotica carotidea è risultata rispettivamente del 25.8% e del 45.7% (p=0.01).
La prevalenza di DNA di C. pneumoniae nelle lesioni aterosclerotiche carotidee, di pazienti sottoposti ad endoarterectomia carotidea, è risultata del 35.9% (gruppo B).
In conclusione la prevalenza di DNA di C. pneumoniae nei PBMC è risultata maggiore nei pazienti con sindrome aterosclerotica carotidea rispetto ai pazienti con sindrome coronarica acuta; inoltre, è stata riscontrata un’associazione statisticamente significativa tra DNA di C. pneumoniae e anticorpi anti-Chlamydia.
REAL-TIME PCR PER LA DIAGNOSI RAPIDA DI MENINGITE STAFILOCOCCICA IN PAZIENTI
PORTATORI DI DERIVAZIONI VENTRICOLO-PERITONEALI.
Teresa Spanu1*, Tiziana D’Inzeo1, Luca Masucci1, Barbara Fiori1, Giampiero Tamburrini2, Alessio Albanese2, Giovanna
Branca1, GiovanniFadda1
1Istituto di Microbiologia, 2Dipartimento di Neurochirugia, Università Cattolica del Sacro Cuore
Gli stafilococchi coagulasi-negativi e Staphylococcus aureus sono i patogeni più frequentemente responsabili di meningite in
pazienti portatori di derivazioni ventricolo-peritoneali (VP). Spesso questi microrganismi sono resistenti alla meticillina. In
questo studio è stata valutata l’accuratezza di un metodo di “real-time” PCR (LightCycler Roche) per l’identificazione di specie (ID) e la rilevazione della resistenza alla meticillina sul DNA estratto dal liquido cefalo-rachidiano (CSF) di pazienti con
meningite stafilococcica associata a derivazioni VP, ricoverati nel Policlinico Universitario “A. Gemelli”. Sono stati analizzati complessivamente 120 campioni. I risultati sono stati confrontati con quelli determinati con i metodi tradizionali [esame
microscopico (solo ID) ed esame colturale] e con metodi molecolari. Il sistema LightCycler si è dimostrato altamente specifico
e sensibile per la rapida e diretta identificazione di S. epidermidis e S. aureus e la determinazione della meticillino-resistenza
ni campioni di CSF di pazienti con meningite stafilococcica. La possibilità di identificare l’agente responsabile dell’infezione
e parimenti di determinare la sensibilità alla meticillina entro 3 ore può avere importanti benefici clinici ed economici.
106
32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
RILEVAMENTO DI BATTERI PARODONTOPATOGENI SU PLACCA SUBGENGIVALE: METODO
COLTURALE A CONFRONTO CON IL MOLECOLARE.
S. D’Ercole1, G. Catamo1, R. Mastrodonato1, G. Pasquantonio2, R. Piccolomini1
Dipartimenti di 1Scienze Biomediche, sez. di Microbiologia, Università “G. d’Annunzio”, Chieti
2Odontoiatria Conservatrice, Università “Tor Vergata”, Roma
Diversi metodi sono stati sviluppati per il rilevamento delle specie batteriche parodontopatogene. L’esame colturale, considerato a
lungo come gold standard, presenta molti svantaggi, che potrebbero essere superati con l’amplificazione degli acidi nucleici mediante
PCR.
Materiali e metodi Sono stati selezionati 62 campioni di placca subgengivale ed analizzati, dopo estrazione del DNA, mediante multiplex PCR, per il contemporaneo rilevamento di A. actinomycetemcomitans, C. rectus, F. nucleatum, E. corrodens, P. gingivalis, P.
intermedia.
I campioni, inoltre, sono state seminati su terreni selettivi rappresentati da Wolinella Agar per C. r.; BEC per E. c.; CVE agar per F. n.;
PIPG per P. i. e P. g.; TSBV per A. a.. La caratterizzazione ed identificazione al genere e specie è stata determinata come richiesto dagli
schemi di identificazione e confermata attraverso la PCR. Nell’analisi delle due metodiche, per ciascun batterio, sono state effettuate stime
empiriche di sensibilità, specificità e accuratezza o accordo osservato. L’accuratezza è stata analizzata in termini di “grado di accordo” tra
le due metodiche. Sono stati determinati i rapporti di verosimiglianza in riferimento alla validità di un test diagnostico.
Risultati e conclusioni Nei 62 campioni di placca analizzati, la prevalenza delle 6 specie monitorate varia in funzione sia della specie
stessa che del metodo di rilevamento.
E. c. e F. n. sono le specie prevalenti, presenti rispettivamente nel 45,2% (colturale) e 51,6% (PCR) dei campioni. P. i. è la specie meno
rappresentata: positiva all’esame colturale solo nel 6,5% dei casi. Il metodo colturale e la PCR sono entrambe tecniche valide nella
determinazione di C. r., F. n., P. g. e P. i.. La maggiore sensibilità dimostrata dalla PCR e le caratteristiche stesse del metodo potrebbero far propendere per la sostituzione del metodo colturale con quello molecolare nella determinazione dei suddetti batteri.
Considerazioni opposte possono essere fatte per E. c. Il confronto tra le metodiche suggerisce che il metodo colturale rimane il test di
elezione e che sono necessari ulteriori prove per la messa a punto della PCR. I risultati relativi ad A. a. mettono in evidenza che entrambe le metodiche danno buoni risultati. I valori di sensibilità e specificità portano a considerare che la PCR può sostituire il metodo colturale nella pratica laboratoristica, considerando che quest’ultima rimane ancora oggi una tecnica poco agevole, costosa, con lunghi
tempi di esecuzione e con una bassa sensibilità.
RILEVAMENTO E DIFFERENZIAZIONE RAPIDA TRAMITE SINGLE-RUN REAL-TIME PCR DI
BARTONELLA SPP. COINVOLTE NELLE ENDOCARDITI E NELLA MALATTIA DA GRAFFIO DA
GATTO (CSD)
Alessandra Ciervo, Umbertina Villano e Lorenzo Ciceroni.
Dipartimento di Malattie Infettive, Parassitarie ed Immuno-mediate, Istituto Superiore di Sanità, Roma
Tra le specie incluse nel genere Bartonella almeno 8 possono causare malattie nell’uomo come la malattia da graffio di gatto (CSD),
l’angiomatosi bacillare, linfadenite cronica, la malattia di Carrion, endocarditi e neuroretiniti. Tra queste B. henselae, B. quintana, B.
elizabethae, B. vinsonnii subsp arupensis e subsp. berkhoffii, possono causare endocarditi. A B. henselae vengono invece, attribuiti il
95% dei casi di CSD. Si presume che anche B. clarridgeiae sia coinvolta nella CSD, ma a tutt’oggi esistono soltanto prove indirette
basate sulla sierologia e sulle coinfezioni B. henselae e B. clarridgeiae ritrovate nei gatti infetti.
I metodi di laboratorio per diagnosticare l’infezione da Bartonella si basano essenzialmente sulla sierologia e l’esame culturale da campioni clinici che risulta però difficoltoso, indaginoso e con scarsi risultati d’isolamento dell’agente eziologico. Ai metodi microbiologici si affiancano anche tecniche di biologia molecolare come la PCR e la PCR-RFLP per differenziare le varie specie. Il nostro gruppo si è occupato di elaborare e di mettere a punto un protocollo di Real-time PCR basato sull’utilizzo del LightCycler e di sonde fluorescenti FRET, al fine di identificare in modo rapido (45 min) le specie di Bartonella coinvolte nella CSD e nelle endocarditi. Inoltre
questo metodo permette contemporaneamente di discriminare le varie specie e quantificare le copie genomiche procariotiche presenti
nel campione. La metodica si basa sull’amplificazione di una regione (379 bp) interna al gene gltA specifico per Bartonella e sulla
contemporanea formazione degli ibridi che si vengono a formare tra le sonde (PAC1 e PAC2) e il prodotto di PCR con conseguente
emissione di fluorescenza monitorata on-line dal LightCycler. Le specie vengono distinte sulla caratterizzazione degli ibridi formati
mediante l’analisi dei nucleotidi mutati (“mismatch”) in base alla temperatura di dissociazione sonde-amplicone (curve di “melting”).
E’ stato così possibile discriminare le specie sopraccitate per le loro temperature di melting che sono risultate essere: 60°C per B. henselae, 56°C per B. quintana, 56.7°C per B. vinsonnii subsp. berkhoffii, 54.2°C per B. vinsonnii subsp. arupensis, 53.8°C per B. elizabethae e 48.5°C per B. clarridgeiae. Inoltre in questo modo è possibile anche rilevare le confezioni tra B. henselae e B. clarridgeiae,
nonché determinare la quantità del DNA batterico usando uno standard a numero di copie genomiche noto. Altro vantaggio del rivelamento in tempo reale è che vengono evitati passaggi post-PCR, e quindi un rischio minimo di contaminazione con prodotti di PCR.
Questo protocollo di Real-time PCR rappresenta un valido supporto di laboratorio nella diagnosi d’infezioni dovute a Bartonella, e per
le caratteristiche di automazione, sensibilità, specificità e riproducibilità potrà essere direttamente trasferito sui campioni clinici.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
107
RICERCA E DIFFERENZIAZIONE DI MYCOBACTERIUM AVIUM SUBSP.PARATUBERCULOSIS E
MYCOBACTERIUM AVIUM SUBSP. SILVATICUM IN CAMPIONI CLINICI OVINI MEDIANTE PCR
REAL TIME.
Germano Orrù1,Giuseppina Palmieri2, Manuele Liciardi3, Daniela Isola1, Gesuina Pusceddu1,
Flavia Taccori1,Maria Laura Ciusa1 , Maria Antonietta Marcialis4.
OBL., Dipartimento di Scienze Chirurgiche e Odontostomatologiche Università degli Studi di Cagliari1.
Dipartimento di Scienze Chirurgiche e Trapianti d’Organo,Università degli Studi di Cagliari2.
Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Sardegna “Sezione di Cagliari”3.
Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biomediche, Università degli Studi di Cagliari4.
Introduzione - In ambito veterinario, tra le infezioni sostenute dai Micobatteri appartenenti al gruppo Mycobacterium avium complex (Mac), quelle a
carico di Mycobacterium avium subsp. paratuberculosis (Map) e Mycobacterium avium subsp. silvaticum (Mas) presentano ancora dei punti da chiarire sia per il microbiologo che per il clinico veterinario. In particolare i meccanismi di patogenicità e le modalità di interazione con l’ospite rimangono per lo più sconosciuti (Legrand et al., 2000), come pure risulta complicata la diagnosi eziologica di sospetta malattia di Johne. Infatti, le manifestazioni cliniche e le lesioni a livello intestinale, osservate nelle diverse specie di ruminanti sono sovrapponibili per le due subspecie (ValentinWeigand ,Goethe 1999). In questo lavoro viene descritto un sistema molecolare realizzato tramite PCR real time in grado di poter rilevare da campioni
clinici animali la presenza di Map o Mas in tempi molto brevi, se comparati con le tradizionali metodiche colturali.
Metodologia - La PCR real time è stata eseguita con il sistema LightCycler (Roche). Per Mas è stato amplificato un frammento pari a 825 bp della
sequenza di inserzione IS1612, per Map è stata amplificata una regione pari a 448 bp della sequenza di inserzione IS 900. La reazione di PCR è stata
eseguita utilizzando 2 ml di estratto di DNA, 5 pmoli di ciascun Primer e il 10% di DMSO (Kit LightCycler-DNA Master SYBR Green I, Roche
Diagnostics Mannheim Germany). Il grado di sensibilità (10 genomi/PCR) è stato misurato utilizzando concentrazioni note di DNA proveniente da
colture dei ceppi di riferimento. La positività dell’esame è stata confermata con l’ analisi della curva di melting ed in gel d’agarosio.
Risultati - In 30 campioni clinici (29 feci e una porzione di intestino tenue, provenienti da 2 allevamenti ovini con sintomatologia e lesioni anatomopatologiche riferibili a malattia di Jhone, 2 campioni già positivi all’ esame microscopico per acido-alcool resistenti sono risultati positivi per Mas.
Conclusioni - Questo metodo potrebbe avere una sua validità nell’ambito di piani di controllo-eradicazione della paratubercolosi dei ruminanti, infatti la sola ricerca del Map potrebbe dare risposte negative a fronte di un coinvolgimento di Mycobacterium avium subsp. silvaticum.
Bibliografia
Legrand E, Sola C, Rastogi N. Bull Soc Pathol Exot. 2000 Jul;93(3):182-92.
Valentin-Weigand P, Goethe R. 1999. Microbes Infect. Nov;1(13):1121-7.
ESPERIENZE NELL’IMPIEGO DI UNA METODICA REAL-TIME PCR PER LA RIVELAZIONE
S.aureus IN CORSO DI SEPSI.
Liberto M.C., Puccio R., Matera G., Lamberti A.,Quirino A., Barreca G.S. Focà A.
Cattedra di Microbiologia, Dipartimento di Scienze Mediche, Università “Magna Graecia” , Catanzaro.
Le attuali potenzialità del microbiologo clinico per la diagnosi etiologica di sepsi presentano delle lacune soprattutto durante
casi di infezioni sistemiche in pazienti gravi.
Sulla base di questi dati abbiamo condotto uno studio su campioni clinici provenienti da 31 pazienti ospedalizzati in un reparto
di terapia intensiva con sospetta infezione sistemica da stafilococco. Abbiamo pertanto saggiato in parallelo campioni di sangue
intero e campioni da emocoltura con una metodica in PCR real-time: il test LigthCycler Staphylococcus MGRADE per la determinazione e differenziazione di Staphylococcus aureus e di stafilococchi coagulasi-negativi (CoNS)
Parallelamente abbiamo valutato la sensibilità, la specificità, e la riproducibilità del test applicandolo su campioni di sangue
infettati artificialmente con diversi isolati clinici. Il DNA batterico è stato amplificato con primers specifici derivati dalla regione ITS (internal transcribed spacer) dell’operon rRNA del genoma batterico e determinati utilizzando uno specifico paio di probes di ibridizzazione mediante metodica FRET (fluorescence resonance energy transfer). La differenziazione di Staphylococcus
aureus e di stafilococchi coagulasi-negativi (CoNS) è basata sull’analisi delle curve di melting che segue la fase di amplificazione. I risultati ottenuti hanno suggerito l’applicabilità del test LigthCycler Staphylococcus MGRADE su campioni di sangue,
la sua riproducibilità e specificità oltre che la possibilità di differenziare tra S.aureus e CoNS. .Pertanto questa metodica può
essere applicata sia su campioni di sangue intero che su campioni da emocoltura consentendo una rapida diagnosi di sospetta
sepsi da stafilococchi , particolarmente utile in pazienti provenienti da reparti di terapia intensiva.
108
32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
ISOLAMENTO ED IDENTIFICAZIONE MOLECOLARE DI MICOBATTERI A RAPIDA CRESCITA
DA SOGGETTI CON FIBROSI CISTICA.
L. Cariani§, M.L. Garlaschi§, G. Maffeis*, R. Ticozzi*, D. Costantini**, A. Raimondi*.
§ U.O. Microbiologia, A.O. Istituti Clinici di Perfezionamento, Milano
* Istituto di Microbiologia, Univ. degli Studi di Milano, 3 Milano
** Clinica Pediatrica, Centro Fibrosi Cistica, Univ. degli Studi di Milano
I micobatteri a rapida crescita (RGM) sono organismi ubiquitari, presenti nel suolo e nelle acque.. Solo occasionalmente i micobatteri a rapida crescita sono causa primaria di malattia nell’uomo, con maggior frequenza quelli dei gruppi M. fortuitum, M.
chelonae/abscessus e M. smegmatis.
In presenza di broncopneumopatie croniche però, la frequenza di isolamento di RGM aumenta. Così, in soggetti affetti da
fibrosi cistica (FC), a causa della persistente patologia ostruttiva delle vie aeree, è maggiore il rischio di sviluppare infezioni da
RGM nel tratto respiratorio. M. abscessus è la specie isolata più frequentemente (dopo M. avium cpx.) e determina circa l’80%
dei casi di malattia polmonare cronica causata da RGM.
La ricerca di RGM in soggetti affetti da FC non viene effettuata normalmente se non in presenza di deterioramento della funzione respiratoria di difficile inquadramento diagnostico. La valutazione del significato clinico della presenza di questi organismi nelle basse vie respiratorie di soggetti FC è complicata dalla contemporanea presenza di altri microrganismi come
Pseudomonas o Burkholderia o, in assenza di sintomatologia specifica, dal dubbio che si tratti di “colonizzanti” del polmone.
Una maggior attenzione diagnostica nei confronti di questi batteri attraverso una ricerca effettuata in modo più sistematico
gioverebbe alla comprensione del ruolo patogeno dei RGM, delle vie di trasmissione e dell’atteggiamento terapeutico più
opportuno.
L’osservazione casuale effettuata nel nostro laboratorio riguardo alla crescita degli RGM sul terreno selettivo BCSA
(Biomerieux, Italia) per l’isolamento di Burkholderia cepacia complex, ci ha fornito la possibilità di rendere questa ricerca
routinaria senza alcun aggravio economico. Nel corso dell’indagine condotta su 375 soggetti abbiamo isolato 10 ceppi di RGM
da altrettanti pazienti FC. Per l’identificazione degli stipiti isolati abbiamo utilizzato comparativamente due metodiche molecolari: l’analisi di restrizione “home made” su una porzione del gene per la subunità ß dell’RNA polimerasi ed una metodica
commerciale di ibridazione con sonde specifiche (ditta Arnika).
Concordemente le due metodiche hanno identificato due dei dieci stipiti come M. chelonae ed 8 come M. abscessus.
REAL-TIME PCR PER L’IDENTIFICAZIONE DI STAPHYLOCOCCUS EPIDERMIDIS METICILLINORESITENTE DA EMOCOLTURE E CATETERI VASCOLARI DI PAZIENTI CON BATTERIEMIA
RICOVERATI IN UN REPARTO DI TERAPIA INTENSIVA NEONATALE.
Fiammetta Leone*, Teresa Spanu, Tiziana D’Inzeo, Patrizia Mazzella, Barbara Fiori , Lucio Romano, Luca Masucci,
Giovanni Fadda
Istituto di Microbiologia, Università Cattolica del Sacro Cuore
Staphylococcus epidermidis è la principale causa di batteriemia e sepsi nei pazienti delle terapie intensive neonatali. In questo
studio è stata valutata l’accuratezza di un metodo di “real-time” PCR (LightCycler Roche) per l’identificazione di S. epidermidis e la rilevazione della resistenza alla meticillina sul DNA estratto da emocolture e da cateteri vascolari di pazienti ricoverati in un reparto di terapia intensiva neonatale del Policlinico Universitario “A. Gemelli” durante il periodo 2002- 2003. Sono
stati analizzati 100 campioni. I risultati sono stati confrontati con i risultati delle identificazione ottenute con i metodi convenzionali e con i risultati della resistenza alla meticillina determinate con un altro metodo molecolare (metodo gold standard)
e con metodi fenotipici di riferimento. Il sistema LightCycler ha presentato sensibilità e specificità pari al 100% sia per l’identificazione di S. epidermidis che per la determinazione della resistenza alla meticillina. I risultati di questo studio suggeriscono che il metodo è accurato e affidabile per la rapida identificazione di S. epidermidis nelle batteriemie di pazienti ad alto
rischio quali quelli delle terapie intensive neonatali.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
109
LEGIONELLA PNEUMOPHILA: PREGI E LIMITI DELLA DIAGNOSI MOLECOLARE
Fontana C.1,2, Favalli F., Favaro M1, S.Minelli2, Favalli C.1,2.
Dip.Medicina Sperimentale e Sc.Biochimiche Università Tor Vergata, Roma
Laboratori di Microbiologia Policlinico Tor Vergata, Roma
La legionellosi è stata recentemente definita da B.Fields (Respiratory Disease Division of Bacterial and Mycotic Diseases del
CDC – Atlanta) come una severa quanto comune infezione polmonare che, tuttavia, è poco frequentemente diagnosticata. Dei
casi segnalati ben il 37% sono d’origine nosocomiale, mentre solo il 4% dei casi sono infezioni comunitarie. Com’è noto la
legionellosi si presenta in due manifestazioni cliniche: la malattia del legionario e la febbre di Pontiac, frequenti sono anche gli
individui completamente asintomatici, ma con evidente risposta umorale. La chiave diagnostica si riduce, pertanto, alla appropriata diagnosi microbiologica nei pazienti ritenuti a rischio d’infezione. Delle varie procedure diagnostiche quella colturale è
ancora considerata il “gold standard”, sebbene sia inficiata da una bassa sensibilità; la diagnosi sierologica risente di tempi lunghi di positivizzazione (almeno 7 giorni per la comparsa delle IgM) senza considerare che essando la risposta cellulo mediata
quella più importante nei confronti di questo patogeno, spesso accade che un paziente non-sieroconverta; il test per la ricerca
degli antigeni urinari ha un’elevata sensibilità, ma perde tutte le altre legionellosi che non siano sostenute da L.pneumophila. In
questo panorama la PCR che rappresenta uno dei pochi mezzi d’indagine con la potenzialità di diagnosticare legionellosi sostenute da tutte le specie di Legionella. Per cui una PCR accurata rappresenta uno dei sistemi diagnostici più sensibili e più precoci a nostra disposizione. Vari sono i target utilizzati nelle reazioni di amplificazione: 5S rDNA, 16S rDNA, o le regione genica che codifica per il mip. Il vantaggio è che può essere eseguita non solo su lavaggi broncoalveolari, ma anche su tamponi faringei, su sangue, su urine e su siero. In questo lavoro intendiamo presentare l’esperienza maturata nell’applicazione della PCR (sia
tradizionale che real time PCR) nel monitoraggio di pazienti a rischio (per esempio quelli sottoposti a ventilazione forzata) nella
individuazione tempestiva di questo patogeno. Il sequenziamento degli ampliconi ascrivibili a Legionella, ci ha consentito, inoltre, di confermare la diagnosi e di compiere degli studi d’epidemiologia ospedaliera.
ESPERIENZE NELL’IMPIEGO DI UNA METODICA REAL-TIME PCR PER LA RIVELAZIONE DI
C.albicans SU EMOCOLTURE SIMULATE.
Focà A , Puccio R., Matera G., Lamberti A.,Quirino A., Barreca G.S. Liberto M.C.,.
Cattedra di Microbiologia, Dipartimento di Scienze Mediche, Università “Magna Graecia”, Catanzaro
In questo studio abbiamo valutato l’applicabilità di una metodica PCR real time , il test LigthCycler Candida Mgrade su emocolture simulate utilizzando campioni di sangue addizionati con diversi isolati clinici per testare la sensibilità, la specificità, e
la riproducibilità del test. Il protocollo sperimentale prevedeva l’uso di sangue intero trattato con sospensioni di Candida (C.albicans, C.tropicalis C.magnoliae,C.parapsilosis,, C.krusei ) a concentrazioni scalari note, l’estrazione di DNA con MagNA Pure
LC Microbiology MGRADE in combinazione con Magnetic Particle Separator (metodica manuale), il processamento su
LightCycler utilizzando uno specifico paio di probes di ibridizzazione mediante metodica FRET (fluorescence resonance
energy transfer) con l’interpretazione dei risultati che utilizza l’ analisi delle curve di melting .
Dai dati ottenuti si evince che il test è specifico, permette precocità della risposta con possibilità di identificazione di specie
attraverso l’analisi delle curve di melting che assumono valore diagnostico. Punti critici sembrano essere la soglia di sensibilità , che può essere migliorata utilizzando un sistema automatizzato di estrazione e l’Internal Control la cui concentrazione sembra possa interferire in alcuni casi con la risposta. In conclusione la metodica può essere utilizzata a supporto della emocoltura
per completare e migliorare il percorso diagnostico.
110
32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
SEQUENZIAMENTO ED ANALISI DI RESTRIZIONE DI UN FRAMMENTO DI 353 BP DEL GENE
ERG11 DI CANDIDA LUSITANIAE
Francesca Sisto, Monica Drago, Maria Maddalena Scaltrito, Giulia Morace
Istituto di Microbiologia, Università degli Studi di Milano, Milano
Candida lusitaniae è considerata una specie emergente per infezioni gravi nei pazienti immunocompromessi. La sua innata resistenza all’amfotericina B rende necessaria la corretta identificazione e, soprattutto, un rapido rilevamento nel materiale patologico. Risulta quindi preferibile utilizzare metodiche molecolari al fine di ottenere una maggiore rapidità diagnostica.
Una coppia di oligonucleotidi, progettati sulla sequenza del gene ERG11 di Candida albicans, è stata utilizzata per amplificare
il DNA genomico di un ceppo di Candida lusitaniae. Il prodotto ottenuto, di circa 350 basi, è stato clonato nel vettore pCRTOPO (Invitrogen) e successivamente sequenziato (GenBank submitted). Eseguendo l’allineamento della sequenza nucleotidica ottenuta, con quella del gene ERG11 delle altre specie di Candida, si è riscontrata un’omologia che va dal 62% al 97%, in
base alla specie considerata.
L’amplicone è stato poi sottoposto ad analisi di restrizione (REA) utilizzando gli enzimi Sau3A, HincII e NsiI. La lunghezza dei
frammenti corrispondeva a quella attesa. I pattern di restrizione ottenuti differiscono da quelli, già pubblicati, delle altre specie
di Candida, permettendo quindi l’identificazione a livello di specie. Per confermare i dati sperimentali, è in corso l’analisi di
diversi ceppi di C. lusitaniae .
Lavoro eseguito nell’ambito del progetto PRIN 2003-2004
CONFRONTO TRA DIVERSE METODICHE PER LA DIAGNOSI DELL’INFEZIONE DA
CITOMEGALOVIRUS UMANO (HCMV) IN TRAPIANTATI RENALI
Chiara Merlino, Massimiliano Bergallo, Sonia Tarallo, Franca Sinesi, Angela Lapenna, Alessandro Negro Ponzi,
Rossana Cavallo
Dip. di Sanità Pubblica e Microbiologia, SCDU Virologia, Università di Torino
L’infezione da HCMV nel trapianto d’organo rappresenta un grave problema. E’ stata descritta un’ampia varietà di manifestazioni cliniche conseguenti all’infezione, ed inoltre l’HCMV può infettare l’organo trapiantato e causare disfunzione d’organo.
L’inizio della terapia antivirale specifica è di solito basato sulla sintomatologia clinica e sulla rapidità della diagnosi di laboratorio. Attualmente, oltre all’isolamento rapido in shell vial (viremia), il metodo più comunemente impiegato per dimostrare l’infezione attiva da HCMV è la dimostrazione diretta di antigeni virali specifici nei leucociti circolanti, nelle biopsie o nelle cellule da lavaggio broncoalveolare. In particolare, la antigenemia-pp65 da granulociti polimorfonucleati (PMNL) è un test quantitativo rapido e accurato. Sebbene i metodi molecolari, quali la PCR, siano ampiamente utilizzati nella diagnosi dell’HCMV,
non sono attualmente chiare le correlazioni con la clinica.
Nel presente lavoro, abbiamo studiato l’infezione da HCMV in 41 pazienti portatori di trapianto renale [28 maschi e 13 femmine; età media 52 anni (+/- 10,8); tempo medio dal trapianto 90 giorni (range 20-120 giorni)].) quantificando la carica
dell’HCMV-DNA nel sangue periferico mediante PCR quantitativa-competitiva (QC-PCR) messa a punto nel nostro laboratorio, correlandola con l’antigenemia-pp65, la viremia, ed un’altra tecnica molecolare, rappresentata dalla ricerca diretta degli mRNA tardivi virali nel sangue periferico mediante Nucleic Acid Sequence-Based Amplification (NASBA) che dimostra l’attività trascrizionale del virus e quindi l’infezione attiva. Come atteso, è risultato che a valori di antigenemia-pp65 più elevati (>10
cellule positive/2x105 PMNL) e alla positività per i trascritti tardivi pp67 rilevati mediante NASBA, sono significativamente
correlati valori elevati di HCMV-DNA (carica media: 3,77x106 genomi/ml, p=0,021; e 8,61x105 genomi/ml, rispettivamente,
p=0,005). Non è stata invece rilevata correlazione statisticamente significativa (p=0,177, n.s.) tra il n° di genomi e la positività
alla viremia, ma ciò può essere spiegato dal minor riscontro di risultati positivi per la viremia (8/41), sia a causa della difficoltà
nel dimostrare l’infettività virale, sia per il fatto che i soggetti con antigenemia positiva vengono subito trattati con ganciclovir
che inibisce la replicazione virale.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
111
PCR QUANTITATIVA-COMPETITIVA (QC-PCR) PER VALUTARE LA CARICA VIRALE DEL
CITOMEGALOVIRUS UMANO (HCMV)
Massimiliano Bergallo, Chiara Merlino, Samuela Margio, Alessandro Negro Ponzi, Rossana Cavallo
Dip. di Sanità Pubblica e Microbiologia, SCDU Virologia, Università di Torino
L’infezione da HCMV rappresenta la principale causa di morbilità e mortalità in seguito a trapianto renale. La diagnosi clinica
in questi soggetti è difficile, pertanto è importante utilizzare tecniche diagnostiche rapide e sensibili per iniziare al più presto la
terapia antivirale specifica e per modulare la terapia immunodepressiva. Le tecniche di diagnosi virologica comunemente utilizzate sono rappresentate dalla dimostrazione diretta dell’antigene tardivo pp65 nei granulociti polimorfonucleati circolanti
(antigenemia) e dall’isolamento rapido in coltura da sangue periferico (viremia). Sono state inoltre introdotte tecniche di biologia molecolare per la dimostrazione degli acidi nucleici virali nel sangue. La PCR qualitativa si è dimostrata più sensibile rispetto all’isolamento virale o addirittura alla antigenemia-pp65, d’altro canto, risulta positiva nei pazienti asintomatici e anche nel
caso di infezione latente da HCMV. L’utilizzo di PCR quantitativa per la dimostrazione della carica virale nel sangue periferico si è invece rivelata un valido strumento diagnostico.
Nel presente lavoro viene descritta la messa a punto di una QC-PCR allo scopo di seguire l’andamento della carica dell’HCMVDNA nel sangue periferico. La metodica validata è basata sulla coamplificazione del DNA bersaglio e della stessa sequenza
modificata che funge da competitore(standard interno). Essa presenta numerosi vantaggi: permette di valutare l’eventuale presenza nei campioni di inibitori della Taq polimerasi, elimina la variabilità intratest ed offre un maggior livello di accuratezza
della quantificazione rispetto alle metodiche che utilizzano standards esterni. In aggiunta, non richiede l’uso di costosi strumenti
come la real-time PCR. In particolare, nella nostra metodica, che prevede l’analisi densitometrica dell’intensità delle bande, il
DNA competitore di differenzia dal DNA bersaglio per l’addizione di una sequenza di 86 bp ottenuta con la tecnica del DNA
ricombinante e può essere facilmente distinto dal bersaglio mediante gel-elettroforesi. La riproducibilità dei risultati è stata confermata in esperimenti multipli con quantità di HCMV-DNA bersaglio tra 10 e 10.000 copie/reazione. In conclusione, la metodica da noi sviluppata si è rivelata affidabile, di rapida esecuzione, poco costosa e può rappresentare un ulteriore strumento diagnostico quantitativo da affiancare alle metodiche in uso per la diagnosi di infezione da HCMV nelle categorie a rischio.
RELAZIONE TRA DNA DI HUMAN HERPES VIRUS-6 ( HHV-6) NEL SIERO E PP65- ANTIGENEMIA DI CITOMEGALOVIRUS (CMV) IN PAZIENTI SOTTOPOSTI A TRAPIANTO DI MIDOLLO
OSSEO ALLOGENICO .
Angela Capobianchi , Giuseppe Gentile , Manuela Ferraironi , Elena Greco, Pietro Martino.
Dipartimento di Biotecnologie Cellulari ed Ematologia , Università “La Sapienza “, Roma.
Obiettivo : L’infezione da HHV-6 è stata associata alla infezione da CMV in riceventi trapianto d’organo solido o di midollo
osseo. La presenza di DNA di HHV-6 nel siero è considerata un marcatore di infezione attiva. Abbiamo valutato se la presenza
di DNA di HHV-6 nel siero era associata con la pp65- antigenemia di CMV in pazienti riceventi trapianto di midollo osseo
(TMO) allogenico.
Metodi: 40 pazienti consecutivi a rischio di infezione da CMV ( donatore e/o ricevente sieropositivo per CMV) sono stati studiati come segue : a) quantizzazione di pp65-antigenemia ( Mab C10-C11 ) di CMV eseguita ogni settimana dal giorno –7 al
giorno +100 dopo il TMO; b) determinazione di DNA di HHV-6 eseguita mediante nested polymerase chain reaction (PCR,
Oligo –Mix Nested HHV-6 ORF 13R kit, Amplimedical ,Bioline , Torino ) nel siero dei pazienti prelevati 2 ,3 , 4 e 6 settimane dopo il TMO; c) quantizzazione di DNA di HHV-6 mediante real-time PCR ( Amplimedical , Bioline , Torino) in campioni
già positivi per DNA di HHV-6 mediante PCR nested ; d) analisi degli prodotti amplificati mediante enzimi di restrizione per
determinare le varianti di HHV-6 (variante A e B).
Risultati: 22 di 40 pazienti (55%) avevano DNA di HHV-6 nel siero. La carica virale mediana di HHV-6 era di 6923 copie/ml
(range 330- 8.000.000 copie/ml ) . L’analisi condotta con enzimi di restrizione su campioni di 18 pazienti mostrava la variante B in 10 pazienti (55%) e la variante A in 8 pazienti ( 45%).
CMV pp65-antigenemia è stata documentata in 29 di 40 pazienti (72%).CMV pp65-antigenemia era significativamente più frequente in pazienti con DNA di HHV-6 [20/22 pazienti (90%)] rispetto ai pazienti senza DNA [ 9/18 pazienti (50%), p=0.005].
Il picco mediano di CMV pp65-antigenemia era di 9 cellule positive su 150.000 cellule analizzate ( range 1-500 cellule positive) in pazienti con DNA di HHV-6 rispetto a 4 cellule positive su 150.000 cellule analizzate (range 1-131 cellule positive ) in
pazienti senza DNA ( p=0.02 , test di Mann Whitney ). La percentuale di campioni di sangue prelevati dai pazienti e positivi
per CMV pp65-antigenemia era del 19% (62 /315 ) e del 6% (17/230) per pazienti rispettivamente con o senza DNA di HHV6 ( p<0.001),
Conclusioni: la presenza di DNA di HHV-6 nel siero sembra essere correlata con CMV pp65-antigenemia in pazienti riceventi TMO allogenico.
112
32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
VALUTAZIONE DELL’UTILITA’ DELLA RICERCA DELL’HPV-DNA NEL FOLLOW-UP DI PAZIENTI
TRATTATE PER LESIONI PRECANCEROSE E CANCEROSE DELLA CERVICE UTERINA
P. Lentati*, M.T. Sandri*, R. Mattina**
* Unità di Medicina di Laboratorio - Istituto Europeo di Oncologia, Milano
** Istituto di Microbiologia Medica dell’Università di Milano - Scuola di Specializzazione in
Microbiologia e Virologia
I Papillomavirus umani (HPV) sono stati riconosciuti come agenti causali di lesioni epiteliali di numerosi animali, compreso
l’uomo. Tra i Papillomavirus che infettano l’uomo, se ne riconoscono circa 80 tipi, di cui 30 infettano l’apparato genitale femminile e maschile.
Negli ultimi anni diversi studi epidemiologici hanno dimostrato in modo inequivocabile che l’infezione genitale da HPV è il
principale fattore eziologico del carcinoma della cervice uterina, seconda causa di morte per neoplasia nelle donne a livello mondiale.
Data la stretta associazione osservata tra i ceppi di HPV ad alto rischio e cancro cervicale, è stata valutata presso il nostro istituto l’utilità dell’utilizzo del test HC2 - l’unico test standardizzato ed approvato dalla FDA per la ricerca dell’HPV-DNA in campioni cervicali - associato al Pap test tradizionale, nel follow-up di pazienti trattate per lesioni precancerose e cancerose della
cervice uterina.
Lo studio ha coinvolto 151 pazienti. 108/151 (71.5%) delle pazienti sono risultate negative ad entrambi i test e prive di malattia; 7/151 (4.6%) delle pazienti sono risultate positive ad entrambe i test e di queste 6/7 avevano sviluppato una recidiva
(p<0.0001, Fisher exact test). 36/151 (24%) delle pazienti hanno avuto esito discordante, e di queste solo 2 (5.5%) erano affette da malattia (rispettivamente 1 paziente HC2 positivo e Pap test negativo e 1 paziente HC2 negativo e Pap test positivo). La
sensibilità relativa all’associazione dei due test è risultata più elevata, rispetto a quella raggiungibile considerando i test singolarmente (rispettivamente 100% vs. 87.5%), anche se a scapito della specificità (rispettivamente 75.5% vs. 86.6%).
In conclusione l’introduzione del test HC2 per la ricerca dell’HPV DNA in pazienti trattate per patologia pre maligna o maligna
della cervice uterina, ha permesso una ottimizzazione del follow-up, in quanto ha identificato correttamente sia le pazienti sicuramente libere da malattia (71.5%) che le pazienti affette da recidiva (4%), raggiungendo una sensibilità del 100%, requisito
essenziale per una patologia che presenta una elevata frequenza di recidive soprattutto nei primi due anni dall’intervento.
IMPIEGO DELLA REAL-TIME PCR PER LA RICERCA QUALITATIVA DEL DNA DI HBV.
D. Olioso, M. Boaretti, M. De Fatima, L. Dolci, M. Ligozzi, R. Fontana.
Sezione di Microbiologia, Dipartimento di Patologia, Università di Verona e Servizio di Microbiologia, Azienda Ospedaliera di
Verona
I metodi di biologia molecolare hanno rivoluzionato l’approccio diagnostico microbiologico alle malattie da infezione in particolare per quanto riguarda patologie dovute a microrganismi a lenta crescita o a virus.
Per la rivelazione e quantificazione del virus dell’epatite B (HBV) è stato recentemente sviluppato un nuovo saggio che si basa
sulla Real-Time PCR in cui alla reazione di amplificazione viene accoppiata una rivelazione nella fase esponenziale o mediante l’uso di sonde specifiche marcate con molecole in grado di emettere un segnale luminoso in determinate condizioni (quencer
ed emettitori) o sfruttando il legame aspecifico del colorante SYBR Green alla doppia catena del DNA. L’andamento della reazione viene monitorato dallo strumento che in base al segnale di fluorescenza ottenuto fornisce anche un risultato di tipo quantitativo. Questa metodica presenta il vantaggio di fornire in un’unica reazione sia risultati qualitativi sia quantitativi e un range
di linearità più ampio rispetto ai precedenti metodi quantitativi.
Nel nostro studio abbiamo voluto verificare l’attendibilità del metodo nella valutazione qualitativa analizzando in modo prospettico i sieri di 122 pazienti inviati al servizio di Microbiologia per la ricerca qualitativa di HBV DNA. I campioni sono stati
analizzati con la Real-Time PCR (Real Quant B, GeneDia) e con doppia amplificazione (nested-PCR) (AmplimedicalDiagnostic Group). Come controllo positivo è stato utilizzato lo standard internazionale WHO (116 copie/ml).
Dal confronto dei risultati ottenuti si evince che vi è perfetta concordanza tra le due metodiche per i campioni a viremia medioalta o assolutamente negativi (confermati anche dalla negatività sierologica), mentre si riscontrano differenze per i campioni con
titoli al limite della rilevabilità.
Tre campioni sono risultati negativi in Real-Time PCR, ma positivi con la doppia amplificazione; quattro campioni sono invece risultati negativi con la doppia amplificazione e positivi con la Real-Time PCR. Concludendo possiamo affermare che la comparazione tra le due metodiche ha fornito risultati soddisfacenti, mostrando assoluta correlazione per il 94% dei campioni. Le
discrepanze osservate nel 6% dei casi potrebbero essere attribuite alla bassa carica virale che nell’aliquota del campione saggiata non ha presumibilmente raggiunto il limite della sensibilità.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
113
QUANTIFICAZIONE DELL’ HPV-DNA PER I GENOTIPI “HIGH-RISK” ASSOCIATI AL CARCINOMA DELLA CERVICE UTERINA MEDIANTE SAGGI DI “REAL-TIME PCR”
Broccolo F1, A.M. Careddu1, R. Musumeci 1, M. Viltadi1, R. Garcia Parra1, S. Chiari2, C. Mangioni2, C. Cocuzza1
1Dipartimento di Medicina Clinica, Prevenzione e Biotecnologie Sanitarie, Università di Milano-Bicocca, Monza;
2Clinica di Ostetricia e Ginecologia, Ospedale San Gerardo, Monza
Il cancro della cervice è la seconda forma tumorale, dopo il cancro al seno, più diffusa nel mondo tra le donne al di sotto di 50
anni. Evidenze epidemiologiche molecolari indicano ormai chiaramente che il papilloma virus umano (HPV) viene rilevato nella
quasi totalità delle lesioni carcinomatose. Allo stato attuale delle conoscenze viene raccomandato l’utilizzo di test che rilevano
HPV-DNA per i genotipi “high-risk” in associazione all’esame citologico (Pap test) che rappresenta ancora oggi il “gold standard”. Questo tipo di gestione permette di migliorare la ridotta sensibilità clinica del Pap test. Tuttavia, test di PCR qualitativa
convenzionali possono dare dei risultati erronei sia per problematiche intrinseche della metodica sia perché non distinguono
un’infezione clinicamente transiente (estremamente comune nelle donne sessualmente attive) da un’infezione persistente attiva
a cui può far seguito un processo carcinogenico.
A tale proposito sono stati sviluppati e validati 5 saggi di real-time PCR con tecnologia TaqMan (ABI Prism 7900) indipendenti per il rilevamento e la quantificazione dei genotipi 16, 18/45, 31, 33/52 e di un gene di controllo interno (CCR5), utile per il
rilevare eventuali inibitori presenti nell’estratto di DNA e per normalizzare il numero di copie di HPV-DNA. I saggi hanno
mostrato un ampio “range” dinamico (1-107 copie) ed un alto grado di accuratezza, riproducibilità e ripetibilità. Da Marzo 2004
ad oggi (4 mesi) sono stati raccolti 300 campioni cervicali da pazienti con: citologia normale (n=100), citologia anomala (n=20),
Squamous Intraphitelial Lesions (“SIL”, n=140), carcinoma della cervice (n=40). I campioni sono stati quantificati per HPV-16
e per il gene “housekeeping” CCR5 ed è emerso che il “viral load” è significativamente più alto nelle pazienti con “SIL” (media,
2.2x105 copie/105 cellule) rispetto alle pazienti con citologia normale (media, <20 copie/105 cellule) e con carcinoma (media,
2x103/105 cellule) suggerendo che nelle lesioni precancerose è presente un’alta carica virale. Questi dati preliminari mostrano
che il “viral load” potrebbe rappresentare un nuovo marker prognostico per la diagnosi del carcinoma della cervice uterina.
POLMONITI COMUNITARIE IN PAZIENTI RICOVERATI NELLA TERAPIA INTENSIVA DEL
POLICLINICO UNIVERSITARIO “A GEMELLI” DURANTE IL PERIODO 1998-2002.
1Massimo Antonelli, 2Fausta Ardito, 2Grazia Morandotti, 1Mariano Ciancia, 1Giovanni Fasano, 2Rosaria Porta,
2Teresa Spanu, 2Giovanni Fadda
1Istituto di Anestesiologia e Rianimazione, 2Istituto di Microbiologia, Università Cattolica del Sacro Cuore
Obiettivo di questo studio è stato di descrivere l’epidemiologia delle polmoniti comunitarie severe che richiedono l’ospedalizzazione in terapia intensiva (ICU) e di valutare la presenza di fattori correlati con la presenza di Mycobacterium tuberculosis.
Sono stati inclusi nello studio tutti i pazienti con polmonite acquisita in comunità ricoverati nella ICU del Policlinico
Universitario “A. Gemelli” di Roma nel periodo 1998-2002. Sono stati studiati complessivamente 57 pazienti che sono stati
suddivisi in due gruppi in relazione alla specie microbica responsabile dell’infezione: un gruppo comprendeva i pazienti con
tubercolosi polmonare (n=20), l’altro gruppo includeva i pazienti con infezione causata da altri microrganismi (n=37). Sono
state analizzate le caratteristiche cliniche, i dati di laboratorio, il quadro radiologico, il tempo di degenza, il tasso di mortalità, la presenza di immuno-compromissione e/o di malattie concomitanti nei due gruppi di pazienti. Sebbene sia stato riscontrato un tasso di mortalità più elevato nel gruppo dei pazienti con polmonite non tubercolare rispetto a quella del gruppo con
tubercolosi (70% vs 55%), tale differenza non è risultata significativa all’analisi univariata (p=0,26). Anche il tempo di degenza in ICU per quanto maggiore nel gruppo con tubercolosi (giorni: media = 47; range =36-49) non è risultato statisticamente
significativo (p=0.12). I pazienti con polmonite non tubercolare presentavano più frequentemente un quadro di insufficienza
multi-organo (MOF) (p=0,47). I pazienti con tubercolosi polmonare presentavano più frequentemente infiltrati alveolari bilaterali (p < 0,01) e tumori (p=0,05). Non sono stati riscontrate differenze significative nei dati di laboratorio fra i due gruppi di
pazienti ad eccezione del risultato micobatteriologico. I risultati ottenuti in questo studio suggeriscono di ricercare la presenza
di M. tuberculosis in tutti i pazienti con polmonite comunitaria severa. Infatti, solo l’isolamento del microrganismo dalle colture dei campioni clinici o la sua diretta identificazione mediante metodiche molecolari consentono di pervenire ad una corretta diagnosi eziologica. Inoltre, i nostri risultati confermano l’utilità dei metodi molecolari per il rapido inquadramento eziologico e terapeutico di queste problematiche infezioni.
114
32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
TUBERCOLOSI POLMONARE NELLA TERAPIA INTENSIVA DEL POLICLINICO “A. GEMELLI”
NEL PERIODO 1998-2002.
1Fausta Ardito, 2Massimo Antonelli, 1Maurizio Sanguinetti, 2Livia Mancinelli, 2Raffaella Sangregorio, 2Gianluca Vigna,
2Daniele Colaruotolo, 1Teresa Spanu, 1Giovanni Fadda
1Istituto di Microbiologia, 2 Istituto di Anestesiologia e Rianimazione, Università Cattolica del Sacro Cuore
In questo studio sono descritte le caratteristiche microbiologiche e cliniche dei pazienti con tubercolosi polmonare ricoverati
nella terapia intensiva (ICU) del Policlinico Universitario “A. Gemelli” di Roma nel periodo 1998-2002. Per ogni paziente sono
state analizzati i risultati delle indagini microbiologiche e chimico-ematologiche, i segni e i sintomi presenti al momento del
ricovero in ospedale, il quadro radiologico, il tempo di degenza, la presenza di immuno-compromissione e/o di malattie concomitanti, e la causa di morte. E’ stato, inoltre, analizzato il tempo necessario per la diagnosi presuntiva (tempo del sospetto
clinico corrispondente al I° campione inviato) e il tempo necessario per la diagnosi eziologica (tempo di conferma corrispondente al I° referto positivo) e il tempo di inizio del trattamento appropriato. Sono stati inclusi nello studio 27 pazienti, di questi
la maggior parte erano maschi (59%) con una età media di 59±22 anni. La degenza ospedaliera è stata di 46±36 giorni, di cui
trascorsi in terapia intensiva 16±16. Quindici pazienti (56%) sono deceduti in ICU. In 7 (30%) soggetti la diagnosi è stata posta
prima del ricovero in ICU, nei 20 pazienti rimanenti (70%) la diagnosi è stata posta dopo il ricovero. Il quadro clinico, la presenza di conosciuti fattori di rischio (immuno-compromissione, o altre malattie concomitanti) e i risultati delle indagini di laboratorio ad esclusione di quelle micobatteriologiche non sono risultati dirimenti per formulare il sospetto diagnostico. Nel nostro
studio mediamente solo un 2° campione è risultato essere diagnostico; il lavaggio bronco-alveolare è risultato l’indagine microbiologica più sensibile ( 75% di positività). Il tempo dei risultati microbiologi era estremamente ridotto (< 1 giorno) quando la
ricerca del genoma di M. tuberculosis dava esito positivo. La tubercolosi è una malattia importante gravata da un alto tasso di
mortalità in assenza di trattamento specifico ed il tempo di inizio dell’appropriato trattamento è un fattore che influenza il decorso clinico. I risultati di questo studio sottolineano l’importanza delle analisi microbiologiche in particolare dei metodi molecolari per il tempestivo riconoscimento della tubercolosi polmonare.
STUDIO DELLA FLORA BATTERICA ASSOCIATA ALLA MUCOSA INTESTINALE IN PAZIENTI
PEDIATRICI CON MALATTIA INFIAMMATORIA CRONICA
M.P. Conte1, S. Schippa1, I. Zamboni1, A. Callari1, F. Pantanella1, F. Chiarini1, L. Seganti1, O. Borrelli2, S. Cucchiara2
1Dipartimento di Scienze di Sanità Pubblica, 2Istituto di Clinica Pediatrica, Policlinico Umberto I, Università di Roma «La
Sapienza».
Diversi studi clinici e sperimentali condotti sulla popolazione adulta concordano con la partecipazione di batteri intestinali nell’insorgenza e nell’amplificazione di malattie infiammatorie croniche dell’intestino. Tuttavia, anche se in alcuni casi stata suggerita l’implicazione di specifiche specie microbiche, a tutt’oggi nessun patogeno certo è stato identificato ed il preciso ruolo
della flora intestinale in tali patologie è quindi ancora da chiarire. Ricerche condotte per paragonare la densità e la diversità della
flora batterica del colon in pazienti con IBD rispetto a quelle di individui sani hanno dimostrato una diminuita diversità della
microflora batterica associata alla mucosa del colon, un’alterazione dell’equilibrio tra putative specie batteriche intestinali “protettive” versus specie “dannose”, un concetto che è stato definito “disbiosi”, un aumento del numero delle specie adese all’epitelio intestinale ed in alcuni casi la presenza di batteri intracellulari.
Lo scopo di questo lavoro è stato quello di studiare la composizione batterica predominante della microflora associata alla mucosa intestinale in biopsie dell’ileo, del colon e del retto ottenute da colonscopie in pazienti pediatrici con IBD. Sono state esaminate biopsie da bambini affetti da morbo di Crohn, da colite ulcerativa attiva, da colite indeterminata e da iperplasia linfonodulare (LNH) e sono state paragonate con biopsie di controlli con colonscopie normali. Sono stati studiati i batteri aerobi ed anaerobi facoltativi con tecniche colturali routinarie e specie o gruppi di batteri anaerobi utilizzando metodiche qualitative e quantitative molecolari.
Dai risultati ottenuti è stato possibile osservare nei pazienti pediatrici affetti da malattie infiammatorie croniche: 1. un aumento
generalizzato della flora batterica totale (batteri aerobi, anaerobi facoltativi, anaerobi) strettamente associata alla mucosa intestinale; 2. tra i batteri gram negativi, nell’ambito delle Enterobacteriaceae, una maggiore incidenza di E. coli; 3. tra i batteri
gram positivi, una maggiore incidenza di S. aureus e Streptococcus spp;. 4. per quanto riguarda i batteri anaerobi, una maggiore incidenza di Bifidobacterium spp., Fusobacterium prausnitzii, Clostridium coccoides, Peptostreptococcus productus ed differenze qualitative nell’ambito delle specie incluse nel genere Bacteroides.
Fondi di ricerca MIUR, responsabile dott.ssa M.P. Conte
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
115
HELICOBACTER HEILMANNII: UN NUOVO CASO DI INFEZIONE A LIVELLO DELL’ANTRO E
DEL BULBO DUODENALE.
1De Giglio I., 1Monno R., 1Fumarola L., 2Margiotta M., 2Burattini O., 3Ierardi E., 2Francavilla A.
1Dip.di Medicina Interna e Medicina Pubblica, Sez. Igiene I, 2Dip. dell’Emergenza e dei Trapianti d’Organo, Sez. di
Gastroenterologia, Università degli Studi di Bari, 3Gastroenterologia, Università di Foggia, Italia.
Helicobacter heilmannii (H.h.) è un batterio che di recente è stato implicato, anche se con una bassa prevalenza (< 0.5%), in
varie patologie gastriche inclusa la gastrite cronica, il linfoma tipo MALT, l’ulcera peptica e il carcinoma gastrico. Nella nostra
quasi ventennale esperienza abbiamo riscontrato pochi casi di infezione da H.h. (0.1%). Recentemente un ulteriore caso è venuto alla nostra osservazione.
Il paziente è un uomo di 66 anni con esofagite cronica, erosione antrale, iperemia del bulbo, gastrite di moderata attività a livello antrale e infiammazione del bulbo duodenale localizzata in aree di metaplasia gastrica. L’esame microscopico delle sezioni
istologiche dell’antro e del duodeno rivelarono la presenza di batteri riferibili a H.h.; nessun batterio riferibile ad Helicobacter
pylori (H.p.) fu rilevato. Il test del respiro, la sierologia per H.p. e la ricerca di antigeni di H.p. nelle feci fu negativa. Poiché
secondo alcuni AA sia in vivo che in vitro H.p. può assumere l’aspetto di H.h., abbiamo confermato l’identificazione del batterio mediante PCR eseguita su biopsie (antrale e del bulbo duodenale) incluse in paraffina. La PCR ha confermato la presenza di
112bp 16S rDNA di H.h. e l’assenza di geni 16 S rDNA e Vac A di H.p. Il paziente riferiva di vivere in un ambiente rurale ed
in stretto contatto con 3 cani. Il paziente fu trattato con successo con terapia eradicante per H.p. (omeprazolo, claritromicina e
amoxicillina). Ulteriori studi sono in corso per valutare l’H.h. status dei 3 cani di compagnia del paziente.
INFEZIONI INTESTINALI SOSTENUTE DA CAMPYLOBACTER JEJUNI/ COLI NELLA ASL 14 DI
DOMODOSSOLA NEL TRIENNIO 2001-2003: ASPETTI CLINICO-MICROBIOLOGICI E FENOTIPIDI
RESISTENZA
Cinzia Rossi1, Giacomo Fortina2, Roberto Mattina3
1
Servizio Microbiologia Laboratorio Analisi Ospedale S.Biagio ASL 14 Domodossola
2
Giacomo Fortina, Laboratorio Microbiologia Ospedale Maggiore Carità Novara
3
Scuola di Specialità Microbiologia e Virologia Università degli Studi Milano
Campylobacter spp. è un patogeno di origine zoonosica causa frequente di infezioni intestinali nei paesi industrializzati. Il serbatoio naturale di questi microganismi è rappresentato dal tratto gastrointestinale di numerose specie di animali da reddito, in particolare polli da carne. Dal 2000 è attivo un Gruppo di Lavoro
AMCLI sulle infezioni intestinali sostenute da Campylobacter, CampyG , finalizzato alla standardizzazione della diagnostica di Campylobacter nonché alla
valutazione di sensibilità e resistenze di tali batteri agli antimicrobici, in particolare macrolidi e chinolonici. Il laboratorio analisi di Domodossola (170 posti
letto, bacino di utenza 65000 abitanti ) ha aderito fin dal 2000 al progetto CampyG, ed in questo lavoro si intendono presentare i risultati di tre anni (2001,
2002, 2003 ) di sorveglianza clinica ed epidemiologica delle infezioni gastrointestinali della nostra zona, correlandoli a quelli della ASL limitrofe ed infine ai
dati nazionali. Nel triennio 2001-2003 sono stati analizzati retrospettivamente i risultati di campioni fecali in soggetti con sospetta enterite in atto.
Le modalità di isolamento, identificazione e farmaco sensibilità sono quelle riportate nelle linee guida del gruppo di lavoro CampyG.
Selezionando i risultati relativi alle coprocolture in base a criteri clinico-batteriologici, la percentuale di isolamento si Salmonella è nella nostra ASL del 11%
negli anni 2002e 2003 e del 13% nel 2001. Campylobacter ha una positività nel 5% dei campioni analizzati negli anni 2001 e 2002 , e del 4% nel 2003.
Queste percentuali di isolamento di Campylobacter nelle coprocolture sono sovrapponibili a quelle del laboratorio di Microbiologia di Novara, ma inferiori a
quelle rilevate a Chivasso (12%) o a Perugia (10%). Dei 41 ceppi di Campylobacter isolati a Domodossola nel triennio esaminato, il 75% erano Camylobacter
jejuni, ed il restante 25% Campylobacter coli, in accordo con i dati nazionali. In tema di antibiotico resistenza, la sensibilità ai macrolidi, farmaco di prima scelta, restano elevate (96% per Campylobacter jejuni, ed 87% per Campylobacter coli ) , mentre è in aumento la resistenza verso i chinolonici.
Confrontando i nostri risultati di antibiotico resistenza con le diverse ASL prese in esame, si nota come la percentuale di resistenza ad Eritromicina sia simile
nei diversi centri messi a confronto, eccetto che per gli isolamenti di Novara, dove Eritromicina mantiene una attività del 100%.
La resistenza ai chinolonici varia invece dal 12% degli isolati di Novara al 47% di quelli di Perugia, mentre a Domodossola si assesta su valori del 27%.
Questo studio ha secondo noi permesso di valutare :
• La fattibilità di uno studio multicentrico anche in un laboratorio di piccole dimensioni
• L’importanza di adottare corrette procedure diagnostiche per il reclutamento dei campioni prima, e per la speciazione degli isolati in seconda battuta
• L’importanza della determinazione della farmaco sensibilià, visto la grande variabilità esistente tra diverse zone in Italia e soprattutto tra le diverse specie di
Campylobacter.
116
32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
RISULTATI PRELIMINARI SULLA DISTRIBUZIONE PER REPARTO DEI PRINCIPALI PATOGENI
RESPONSABILI DI SEPSI NOSOCOMIALI.
Catania MR, de Luca C, Gallè F, Ortega De Luna L, Rossano F.
Dipartimento di Biologia e Patologia Cellulare e Molecolare “L. Califano”, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università degli
Studi di Napoli “Federico II”
Le infezioni nosocomiali costituiscono uno dei problemi sanitari più importanti, con un’incidenza che oscilla tra il 4 e il 9% dei
pazienti ricoverati. L’allungamento della degenza che ne consegue è causa di notevoli ricadute economiche. Nel nostro Paese si
calcola che il costo relativo al problema corrisponda all’1% della spesa sanitaria complessiva.
Nell’ambito delle infezioni acquisite in ambito ospedaliero, le sepsi rivestono particolare rilievo a causa dell’elevato tasso di
mortalità ad esse connesso. Negli Stati Uniti esse risultano al decimo posto tra le cause di morte e al secondo nelle Unità di
Terapia Intensiva (UTI) non coronarica. In Europa le sepsi rappresentano circa il 12% di tutte le infezioni nosocomiali ed interessano approssimativamente l’1% di tutti i pazienti ricoverati.
Nell’ultimo ventennio, il crescente utilizzo di antibiotici a largo spettro e la sempre più diffusa applicazione di procedure invasive, insieme all’aumento degli individui immunocompromessi e dei pazienti critici, hanno incrementato la consistenza del fenomeno.
I dati registrati negli Stati Uniti dal National Nosocomial Infection Surveillance (NNIS) System nel decennio 1990-1999 hanno
indicato gli stafilococchi coagulasi-negativi come principali patogeni responsabili di sepsi nosocomiali (37%), seguiti da
Enterococcus spp. (14%), Staphylococcus aureus (13%), Candida albicans (5%), Enterobacter spp. (4,9%), Pseudomonas
aeruginosa (3,8%), Klebsiella pneumoniae (3,4%), Escherichia coli (2,3%), altri (17%).
Nel nostro studio è stata analizzata l’eziologia delle sepsi nosocomiali verificatesi nel periodo giugno 2003 – giugno 2004 nell’ambito del Policlinico “Federico II” di Napoli e la distribuzione degli agenti responsabili tra i vari reparti.
La frequenza delle sepsi nei vari reparti è stata la seguente: Rianimazione 60,7%, Ematologia 11,9%, Medicina 10%, Terapia
Intensiva Neonatale 6,5%, Oncologia 4,2% Nefrologia 3%, Chirurgia 2,4%.
Su 169 isolati è stata osservata la seguente distribuzione: stafilococchi coagulasi-negativi 34,3%, Enterococcus spp. 16%,
Acinetobacter baumannii 12,4%, Staphylococcus aureus 10,1%, Pseudomonas aeruginosa 9,5%, Escherichia coli 3,5%, altri
14,2%.
L’analisi sarà estesa al confronto delle suscettibilità dei microrganismi ai farmaci antimicrobici.
PREVALENZA DELLE INFEZIONI NOSOCOMIALI DA CANDIDA SPP. IN UN REPARTO DI TERAPIA
INTENSIVA.
Gallé F, Catania MR, Lambiase A, de Luca C, Ortega De Luna L, Rossano F.
Dipartimento di Biologia e Patologia Cellulare e Molecolare “L. Califano”, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università degli
Studi di Napoli “Federico II”
I continui progressi della medicina, con la scoperta di nuove tecniche e terapie, il sempre maggiore impiego di metodiche invasive, della nutrizione parenterale e soprattutto di antibiotici ad ampio spettro, hanno creato le condizioni per la diffusione in
ambito ospedaliero di infezioni fungine a rapida progressione e di difficile diagnosi. In particolare, gli individui ricoverati nelle
Unità di Terapia Intensiva (UTI), sui quali incidono più fattori di rischio, risultano colpiti più frequentemente da candidosi superficiali e profonde. C. albicans è la specie responsabile della maggior parte dei casi, seguita da C. tropicalis, C. krusei, C. parapsilosis, C. lusitaniae, C. glabrata e C. dubliniensis.
Lo Studio Europeo sulla Prevalenza delle Infezioni Nosocomiali in Pazienti Critici (EPIC) condotto nel 1992 ha posto le candidosi al quarto posto tra le infezioni acquisite in UTI, con una prevalenza del 17.1%.
I dati registrati negli Stati Uniti dal National Nosocomial Infection Surveillance (NNIS) System hanno collocato le Candida spp.
al quarto posto fra i microrganismi responsabili di sepsi dopo stafilococchi coagulasi negativi, Staphylococcus aureus ed enterococchi. Nel decennio 1989-1999 il NNIS System ha registrato nelle UTI una significativa riduzione dell’incidenza di setticemie da C. albicans, mentre quelle dovute alle altre specie non hanno mostrato variazioni significative. Fra queste, quelle causate da C. glabrata hanno subito un aumento tale da porre tale specie al secondo posto fra quelle responsabili di candidemie.
È stato condotto uno studio retrospettivo allo scopo di valutare la prevalenza delle candidosi nosocomiali tra i pazienti ammessi all’Unità di Terapia Intensiva del Centro di Rianimazione del Policlinico “Federico II” di Napoli nel corso del 2003.
Su 405 ricoverati sono stati individuati 27 casi di infezioni nosocomiali da miceti (6.6%), di cui 13 del tratto urinario (48.1%),
7 di tipo respiratorio (25.9%) e 3 setticemie (11.1%). Candida albicans è risultata la specie responsabile nel 43% dei casi, seguita da C. glabrata (26%), C. tropicalis (15%), C. dubliniensis (4%) e C. kefyr (4%).
I risultati ottenuti sembrano sovrapponibili a quelli rilevati in altre esperienze, sia a livello nazionale che internazionale. L’analisi
dei dati verrà estesa agli anni precedenti per valutare se e in che modo l’etiologia delle candidosi nosocomiali abbia subito modificazioni nel tempo.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
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UN CASO DI SINDROME CRONICA DA TRICHOPHYTON RUBRUM
V. Tullio, M.Panzone°, M.Novarino°, F.Ibba°, D. Furfaro°, A. M. Cuffini, O.Cervetti°, N.A. Carlone
Dipartimento di Sanità Pubblica e di Microbiologia, Università di Torino
° Clinica Dermatologica II - Dipartimento di Discipline Medico-Chirurgiche,
Università di Torino
Il Trichophyton rubrum è un dermatofita che provoca micosi cutanee superficiali e, più frequentemente, tinea pedis e tinea
unguium. Negli ultimi anni sono stati osservati casi clinici in cui le lesioni provocate da questo fungo colpiscono più sedi corporee contemporaneamente, come le mani, i piedi, le unghie, le cosce, l’inguine, l’addome e le ascelle. Questo tipo di infezione è stata recentemente denominata Sindrome cronica da dermatofiti ed è stata descritta anche per il T.mentagrophytes. La sindrome da T.rubrum è una patologia che colpisce più frequentemente pazienti immunocompromessi o sottoposti a terapie a lungo
termine con corticosteroidi ed ha un andamento cronico e scarsamente infiammatorio.
Si segnala questo caso di Sindrome da T.rubrum non solo per l’estensione delle lesioni in diverse sedi cutanee ma anche per la
loro atipicità, in quanto al volto apparivano intensamente flogistiche.
Caso clinico:
Paziente di 42 anni, nato in Ecuador, in buono stato di salute generale. All’anamnesi patologica remota non si evidenziavano
patologie degne di nota. Riferiva la comparsa da circa sette anni, prima del suo arrivo in Italia, di lesioni desquamative e pruriginose a livello della superficie plantare dei piedi. Malgrado le terapie praticate nel paese nativo, le lesioni si sono progressivamente estese fino ad interessare le unghie dei piedi, la superficie palmare e le lamine ungueali delle mani. Alla nostra osservazione si notava comparsa di lesioni papulo-pustolose e nodulari dolenti al volto, precedentemente trattate con antibiotici topici.
Il paziente è stato sottoposto ad esame micologico, che ha permesso di isolare colonie di T.rubrum da tutte le sedi.
La terapia proposta con antimicotici topici (derivati azolici) e sistemici (terbinafina 250 mg/die) ha consentito la guarigione clinica delle lesioni e la negativizzazione degli esami colturali
ASCESSO AMEBICO EPATICO: DESCRIZIONE DI 3 CASI.
Fumarola L., Battista M., Losacco G., Rizzo G., Monno R.
Dip. DIMIMP, Sez. Igiene I, Università degli Studi di Bari
La dissenteria è la manifestazione clinica più frequente sostenuta da Entamoeba histolytica (E. h.) seguita dall’ascesso epatico.
Le infezioni amebiche sono endemiche soprattutto nei Paesi in via di sviluppo a clima temperato e tropicale. Recentemente
diversi casi di amebiasi sono stati riportati nei Paesi industrializzati, prevalentemente in turisti di ritorno da aree endemiche,
omosessuali, immigrati e pazienti istituzionalizzati.
Riportiamo 3 casi di ascesso amebico epatico diagnosticati nel 2003 presso il Laboratorio di Microbiologia e Parassitologia,
U.O. Igiene e Sanità Pubblica I, Policlinico, Bari.
Il I paziente, un missionario ricoverato per iperpiressia, brividi e algie addominali, nei 2 mesi precedenti aveva soggiornato in
Africa Occidentale. L’ecografia epatica evidenziava 2 ascessi. Gli esami microbiologici dimostravano: presenza di cisti amebiche nelle feci, positività alla ricerca dell’Ag fecale di E.h. (EIA), presenza di un elevato titolo anticorpale anti E.h. (IFA: 400).
Il II paziente, ricoverato per iperpiressia, dolori addominali, calo ponderale, epatomegalia e sangue nelle feci, non riferiva viaggi negli ultimi 5 anni. L’ecografia epatica mostrava lesioni ascessuali multiple. Gli esami microbiologici dimostravano: positiva la ricerca dell’Ag di E.h. nelle feci (EIA), positiva la ricerca di anticorpi anti E. h., IFA 200, positiva la ricerca dell’Ag (EIA)
su aspirato epatico.
Il III paziente, un cuoco filippino impiegato su una nave da crociera, fu ricoverato per febbre, algie addominali, diarrea, ittero
ed epatomegalia. L’ecografia evidenziava lesioni ascessuali epatiche multiple e versamento pleurico bilaterale. Gli esami microbiologici dimostravano: positività dell’ag di E.h. nelle feci (EIA), presenza di anticorpi anti E. h. (IFA, 1600), presenza di Ag di
E. h. (EIA) su aspirato epatico.
I pazienti furono trattati con metronidazolo e/o drenaggio epatico.
Diversi casi di infezione amebica sono stati di recente riportati in Italia sia in immigrati, che in individui autoctoni.
L’immigrazione, il turismo, l’importazione di alimenti da Paesi a rischio, i cambiamenti climatici, la presenza di insetti vettori,
la concimazione dei campi con liquami, il consumo di ortaggi crudi, la sopravvivenza delle cisti nell’ambiente, possono essere
responsabili della maggiore incidenza di queste patologie anche in aree non endemiche quali l’Italia..
Il laboratorio pertanto deve essere in grado di offrire un’ ampia scelta di tests per la diagnosi di queste infezioni “inusuali”.
118
32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
STUDIO SULL’INCIDENZA DI INFEZIONI SISTEMICHE DA E. COLI E K. PNEUMONIAE
ALL’OSPEDALE SAN GERARDO DI MONZA NEL 2003-2004 E VALUTAZIONE DELLA LORO SENSIBILITÀ “IN VITRO” AGLI ANTIBIOTICI
Simone Bramati*, Rosario Musumeci**, Francesco Broccolo**, Giuseppe Giltri*, Annamaria Speciale*** e Clementina
Cocuzza**
* Laboratorio di Microbiologia, Ospedale S. Gerardo, Monza
** Dipartimento di Medicina Clinica, Prevenzione e Biotecnologie Sanitarie, Università di Milano – Bicocca, Monza
*** Dipartimento di Scienze Microbiologiche e Scienze Ginecologiche – Università di Catania
L’emergenza di specie batteriche in ospedale sempre più resistenti alle attuali terapie antibiotiche è uno dei maggiori problemi
che la sanità pubblica deve attualmente fronteggiare.
Le Enterobacteriaceae ed in particolare, Escherichia coli e Klebsiella pneumoniae, risultano le specie maggiormente isolate tra
i vari patogeni nosocomiali. Negli ultimi decenni l’uso di cefalosporine ad ampio spettro ha determinato, in queste specie, la
selezione di mutanti antibiotico-resistenti mediante la produzione di b-lattamasi a spettro esteso (ESbL). La maggior parte di
questi enzimi sono derivati dai gruppi TEM-1, TEM-2 ed SHV-1. Recentemente è stato identificato un nuovo tipo di ESbL definito come CTX-M. Inoltre questo fenomeno di antibiotico-resistenza degli Enterobacteriaceae sembra spesso essere crociato
con diverse classi di farmaci ad ampio uso clinico come i fluorochinoloni.
Il nostro progetto rappresenta uno studio sull’incidenza dell’isolamento di E. coli e K. pneumoniae in emocolture provenienti
da pazienti ricoverati presso l’Ospedale S. Gerardo di Monza nel 2003 e nella prima metà del 2004, e della relativa espressione
fenotipica di resistenza ad antibiotici di comune uso clinico quali beta-lattamici e fluorochinoloni.
La sensibilità ai diversi antibiotici è stata valutata mediante analisi condotta utilizzando il sistema Vitek (Biomérieux) e la resistenza di questi isolati ai beta-lattamici è stata correlata alla resistenza ai fluorochinoloni. La presenza di ESbL è stata valutata
e confermata secondo quanto riportato dall’NCCLS 2004. Il sottogruppo specifico per le b-lattamasi di tipo CTX-M è stato valutato mediante analisi PCR per determinare l’incidenza di queste “nuove” ESbL.
I ceppi di E. coli e di K. pneumoniae risultati positivi sia per la produzione di ESbL che per la resistenza ai fluorochinoloni sono
stati sottoposti a genotipizzazione mediante PFGE al fine di poter valutare la diversità clonale tra i ceppi batterici antibioticoresistenti circolanti nell’area monzese.
INFEZIONE OCCULTA DA HBV IN PAZIENTI CON MALATTIE LINFOPROLIFERATIVE IN TRATTAMENTO CHEMIOTERAPICO
Ferraro D, Iannitto E *, Ammatuna E*, Cardinale F, Giglio M, Pizzillo P, Di Stefano R.
Dipartimento di Igiene e Microbiologia,* Dipartimento di Oncologia, Sezione di Ematologia, Università di Palermo
Background: Soggetti HBsAg sieronegativi, con o senza marcatori di pregressa infezione da HBV (antiHBc e/o antiHBs) possono presentare una infezione “occulta” da HBV, con presenza di genomi virali nel fegato e, meno frequentemente, nel siero. In
soggetti con malattie linfoproliferative e infezione occulta HBV è possibile sotto chemioterapia osservare una riattivazione virale,con gradi variabili di manifestazioni cliniche, spesso simili ad una infezione HBV “de novo”.
Obiettivo:Monitorare in pazienti con malattie linfoproliferative, sottoposti a chemioterapia, la cinetica dei marcatori di infezione da HBV e HCV e i profili virologici di riattivazione .
Pazienti e metodi: 99 pazienti con malattie linfoproliferative, osservati dal 1998 al 2003, sono stati esaminati per marcatori sierologici e molecolari di HBV e HCV alla presentazione(baseline),
durante il trattamento ed al follow up della malattia ematologica. L’ HCV-RNA è stato ricercato in PCR home made e l’HBVDNA in nested PCR home made.La viremia di HBV è stata valutata mediante Versant bDNA (Bayer). L’infezione occulta da
HBV è stata indagata mediante ricerca dell’HBV-DNA in campioni di siero prelevati prima della riattivazione virale con una
PCR di elevata sensibilità (10copie/ml) specifica per le regioni S,P, X e C del genoma virale.
Risultati e conclusioni:Al baseline 18 pazienti (18.2%) erano HBsAg positivi.Degli 81 HBsAg negativi, 10 erano positivi per
antiHBc e antiHBs, 13 per antiHBc isolato, 12 per antiHBs isolato e 46 (46.5%) non presentavano markers di infezione da HBV.
38 pazienti (30.4%) erano anti-HCV positivi, e fra questi 33 HCV-RNA positivi. Durante l’osservazione,10 pazienti HBsAg
negativi (6 antiHBc positivi, di cui 3 antiHBs positivi) sono divenuti HBsAg e HBV-DNA positivi(mediana 55x106± 32x106
genomi/ml ) sotto trattamento chemioterapico, in concomitanza con segni clinici di epatopatia. Tali soggetti sono stati sottoposti a terapia antivirale con lamivudina, 100 mg/ die (mediana trattamento 6±8.7 mesi). 5 pazienti hanno negativizzato l’HBVDNA entro 3 mesi dall’inizio della terapia, e più tardivamente l’HBsAg, in due casi sieroconvertendo ad antiHBs. Negli altri
pazienti si sono mantenuti i markers di attiva replicazione virale . Una infezione occulta era rilevabile in 2 pazienti. Nei pazienti con malattie oncoematologiche destinati ad una immunosoppressione secondaria alla chemioterapia la valutazione al baseline dello status di HBV-DNA consente di predire una riattivazione di HBV e di istituire una terapia pre-emptive con analoghi
nucleosidici.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
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METODI BIOLOGICI INNOVATIVI PER IL RECUPERO DI ANTICHI AFFRESCHI
Ranalli Giancarlo1, Abbruscato Pamela2, Belli Claudia1 and Sorlini Claudia2
1 DISTAAM, Università del Molise, Via de Sanctis, 86100 Campobasso, Campobasso Italia.
2 DiSTAM, Facoltà di Agraria, Università di Milano, Via Celoria 2, Milano 20133, Italia.
Gli affreschi presenti nel Cimitero Monumentale (Camposanto) di Pisa, estesi per una superficie di circa 1.500 metri quadrati,
sono risalenti al XIV secolo e dipinti da famosi pittori italiani come Antonio Bonaiuti, Antonio Veneziano, Benozzo Gozzoli,
Taddeo Gaddi, Francesco Traini, Bonamico Buffalmacco e Spinello Aretino. Nel corso della II Guerra Mondiale gli affreschi
hanno subito gravi danni a seguito di un bombardamento (1944) e l’unico rimedio di salvataggio e protezione è stato quello di
staccarli dalle pareti con la delicata tecnica “a strappo”, per applicari su supporto di asbesto (eternit) per un successivo restauro avviato a partire dal 1960. Sfortunatamente le tecniche adottate e le condizioni non idonee di conservazione degli affreschi
hanno contribuito a fenomeni di alterazione e di distacco della pellicola pittorica, anche a causa della presenza di abbondanti
quantità di composti organici (come colla animale e caseina) applicate in precedenza su entrambe le superfici dell’affresco; queste infatti possono subire alterazioni oppure essere utilizzate direttamente come substrati di crescita per microrganismi alteranti le superfici stesse.
Generalmente gli affreschi sono restaurati adottando tecniche fisico-chimiche tradizionali che si basano sulla rimozione di
sostanze organiche residue e sali mediante soluzioni di carbonato di ammonio e solventi organici. Tuttavia, anche il ricorso all’uso di enzimi, tensiattivi ed agenti solubilizzanti non aveva consentito il restauro di alcuni affreschi in virtù dell’attuale peculiare idrofobicità correlata a processi di invecchiamento e polimerizzazione delle proteine come conseguenza di un precedente
intervento di recupero. Al fine di trovare una soluzione a tali problemi è stata adottata una metodologia biotecnologica avanzata ed innovativa. L’intervento è stato effettuato applicando colture microbiche selezionate direttamente sulla superficie dell’affresco alterato e, in fase finale, enzimi puri. La tecnica pertanto ha previsto l’uso di colture batteriche selezionate di
Pseudomonas stutzeri A29, cellule intere e vitali, e Protease come enzima. I risultati ottenuti mostrano il successo nella messa
a punto di un sistema biologico innovativo per il recupero e restauro “biorestauro” di affreschi di valore, e l’identificazione delle
più favorevoli condizioni operative di biotrattamento.
INFILTRAZIONE BATTERICA IN SISTEMI IMPLANTARI A DIFFERENTE CONNESSIONE
Milazzo I., Baglio O.*, Famà N.*, Blandino G., Nicoletti G., Pappalardo S.*
Dipartimento di Scienze Microbiologiche e Scienze Ginecologiche
*Cattedra di Clinica Odontoiatrica - Dipartimento di Specialità Medico-Chirurgiche Università di Catania
Sebbene non esista un’associazione causale tra tipo di componente microbica e fallimento implantare, è universalmente riconosciuto che un’elevata carica batterica determini infiammazione parodontale e riassorbimento osseo perimplantare riscontrabile
a un anno.
Per valutare le cause di fallimento implantare legate ad infiltrazione microbica sono stati condotti saggi in vitro per valutare la
capacità d’infiltrazione in diversi tipi di connessione impianto-moncone (complessi fixture-abutment, CFA) per una valutazione comparativa dei risultati.
I saggi di infiltrazione batterica sono stati condotti con 3 specie microbiche diverse tra loro per dimensione, Staphylococcus
aureus (0,5x1 mm), Escherichia coli (1x1,6 mm), Pseudomonas aeruginosa (0,5x3 mm) e su 5 differenti tipi di connessione.
Le connessioni (CFA) esaminate sono 1 di tipo conometrico e 4 di tipo impianto-moncone avvitate che differiscono tra loro per
il diametro: a (3,8mm), b (4,7mm), c (5,7mm) e d (6,7mm).
I CFA venivano posti a contatto con le brodocolture dei batteri in esame (BHI broth) ed incubati a 37°C. Ad intervalli di tempo
prestabiliti (3, 6, 24h), i CFA venivano prelevati ed opportunamente lavati;quindi le due parti delle connessioni venivano separate e messe ad incubare in BHI broth a 37°C. Dopo 18h di incubazione per ogni campione veniva effettuata una colorazione di
Gram ed una semina su terreni selettivi per confermare che l’eventuale sviluppo microbico all’interno dei CFA era da ricondurre ai batteri in esame infiltrati e non a contaminazione da parte di altri microrganismi.
I risultati mostrano una contaminazione da parte di S. aureus dopo 6h soltanto per il CFA-d ed alla 24h anche per il CFA-b e il
CFA-c; P. aeruginosa riusciva a contaminare, mediante infiltrazione, soltanto il CFA-c già alla 6h ed alla 24h; E. coli contaminava il CFA-c alla 24h.
L’impianto A e quello di tipo conometrico non presentano nessuna contaminazione da parte dei germi in esame. Questo dato
trova conferma nelle minori dimensioni presentate da questi due sistemi implantari, che rendono disagevole l’infiltrazione batterica.
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32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
EFFETTI DI ALCUNI METALLI PESANTI SULLA BIOMASSA IN UN IMPIANTO DI DEPURAZIONE
A FANGHI ATTIVI
Principi P.1, Villa F.2, Bernasconi M.2, Zanardini E.1
1Dipartimento di Scienze e Tecnologie Alimentari e Microbiologiche (DISTAM), Università di Milano, Facoltà di Agraria,
Milano, Italia.
2Laboratorio Sud Seveso Servizi S.p.A., Carimate (Como), Italia.
La determinazione di alcuni parametri fisici (solidi sospesi totali, solidi sospesi fissi, solidi sospesi volatili e velocità di sedimentazione del fango attivo), chimici (determinazione spettrofotometrica di rame, zinco, nichel e velocità specifica di nitrificazione) e microbiologici (conta dei batteri eterotrofi totali, attività deidrogenasica, contenuto di ATP cellulare e richiesta specifica di ossigeno) ha permesso di valutare la tossicità esercitata sulla popolazione microbica del fango attivo in seguito al dosaggio puntuale e continuo di rame, zinco e nichel.
Lo scopo della ricerca è determinare gli effetti tossici provocati dai singoli metalli sull’attività della biomassa microbica e valutare in situ la composizione e la dinamica della microflora mediante la tecnica di ibridazione in situ FISH.
I risultati ottenuti sono stati elaborati statisticamente con l’analisi delle componenti principali (PCA) ed è stato possibile stabilire quali variabili descrivano meglio il sistema.
L’analisi dei dati conseguiti ha permesso di stilare, per i tre metalli, una sequenza decrescente di tossicità: Cu>Zn>Ni; inoltre è
stata osservata una differente sensibilità e tolleranza ai potenziali cationi tossici tra i batteri chemiolito-autotrofi e chemiolitoeterotrofi in risposta ai diversi protocolli sperimentali applicati.
STUDIO DELL’ATTIVITÀ IN VITRO DI TOSSINA COLERICA SU TRE MODELLI CELLULARI
MURINI
Pessina A., Croera C., Savalli N., Bonomi A., Raimondi A., Neri M.G.
Istituto di Microbiologia, Università degli Studi di Milano
Numerosi studi hanno messo in evidenza la notevole eterogeneità della risposta di linee cellulari in coltura all’effetto antiproliferativo di tossina colerica (TC). L’indagine per approfondire i meccanismi alla base di questa diversa risposta cellulare alla TC
ha permesso di identificare tre modelli cellulari murini con diverso comportamento: cellule stromali SR4987 stabilizzate nel
nostro laboratorio, cellule leucemiche L1210 e cellule di leucemia mielomonocitica WEHI-3B. In questi modelli è stata studiata l’inibizione della proliferazione cellulare causata da tossina colerica e tale fenomeno è stato correlato con il contenuto gangliosidico di membrana e con l’accumulo intracellulare di AMP ciclico. Le cellule L1210 (contenenti ganglioside GM1a) sono
sensibili all’attività inibente la clonogenicità da parte di TC (IC50 = 10-9 M) ma non mostrano accumulo intracellulare di cAMP
in seguito al trattamento. Le cellule WEHI-3B (contenenti gangliosidi GM1a e GM1b) mostrano una elevatissima sensibilità
all’azione inibente di TC (IC50 = 10–12 M) che appare correlata ad un notevole aumento di cAMP intracellulare. Le cellule SR4987 (che mancano del ganglioside GM1a) rispondono al trattamento con TC con un notevole aumento di cAMP intracellulare
senza tuttavia mostrare alcuna inibizione della crescita fino alla concentrazione di TC 10-8 M. L’ incorporazione di GM1a in
cellule SR-4987 le rende sensibili all’inibizione da parte di CT ( IC50 = 10–11 M)
I risultati di questi studi indicano che il legame di TC al recettore cellulare è da considerarsi un evento necessario ma non sempre sufficiente per causare inibizione della crescita cellulare. Infatti non sempre l’accumulo di cAMP intracellulare è indotto da
tale legame (come nel caso delle cellule L1210 nelle quali però provoca una inibizione della proliferazione cellulare), e lo stesso accumulo di cAMP, quando presente, può essere strettamente correlato all’inibizione della proliferazione cellulare (cellule
WEHI-3B) oppure completamente disaccoppiato dall’effetto antiproliferativo, come nelle cellule SR4987.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
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PROTEUS MIRABILIS GLUTATIONE S-TRANSFERASI B1-1: ANALISI CINETICA E STRUTTURALE
DEI RESIDUI TRIPTOFANO 97 E TRIPTOFANO 164
Nerino Allocati, Michele Masulli, Marilena Pietracupa, Carmine Di Ilio
Dipartimento di Scienze Biomediche, Università “G. d’Annunzio”, Chieti
Proteus mirabilis glutatione S-transferasi B1-1 (PmGST B1-1) [1] è un enzima batterico appartenente alla classe Beta della famiglia
delle GSTs (EC 2.5.1.18) un gruppo di proteine coinvolte nella detossificazione cellulare sia negli eucarioti che nei procarioti.
PmGST B1-1 è caratterizzato dalla presenza di una molecola di glutatione legata alla cisteina 10 [2,3]. Oltre all’attività coniugativa tipica delle GST, PmGST B1-1 ha attività redox [4]. E’ stato recentemente dimostrato che questa proteina interviene nella protezione verso lo stress ossidativo generato dal perossido d’idrogeno [5]. Inoltre, PmGST B1-1 è capace di legare, in vitro e in vivo,
diverse classi di antibiotici suggerendo un suo coinvolgimento nella detossificazione dei farmaci antimicrobici [5,6].
In PmGST B1-1 sono presenti due residui triptofanilici in posizione 97 e 164. Dall’allineamento di sequenza ottenuto tra
PmGST B1-1 e le altre GST batteriche della classe Beta è stato evidenziato che questi due residui sono conservati. Per determinare il loro contributo su PmGST B1-1 sono stati preparati cinque mutanti mediante mutagenesi sito-specifica e sono stati
esaminati gli effetti delle sostituzioni sulla proteina attraverso l’analisi cinetica e strutturale. I mutanti sono stati purificati con
un doppio passaggio cromatografico come precedentemente descritto [7].
Dai risultati ottenuti si evince che il residuo Triptofano 97 non è coinvolto nel sito attivo
così come nella stabilizzazione della proteina. Al contrario Triptofano 164 è un residuo
indispensabile nel processo catalitico oltre che nella stabilità dell’ enzima. Infine, entrambi i residui non sembrano essere coinvolti nel legame con gli antibiotici.
Sito attivo di PmGSTB1-1
Di Ilio C., Aceto A., Piccolomini R., Allocati N. et al. Biochem. J. 255, 971-975, 1988
Rossjohn J., Allocati N., Masulli M., Di Ilio C. et al. Structure 6, 721-734, 1998
Caccuri A.M., Allocati N., Di Ilio C., Masulli M. et al. Biochemistry 41, 4686-4693, 2002
Caccuri A.M., Allocati N., Di Ilio C., Masulli M. et al. J.Biol.Chem. 277, 18777-18784, 2002
Allocati N., Masulli M., Alexeyev M.F. Di Ilio, C. et al. Biochem. J. 373, 305-311, 2003
Perito B., Allocati N., Casalone E. Masulli M., Di Ilio C. et al. Biochem. J. 318, 157-162, 1996
Allocati N., Masulli M., Parker M.W., Di Ilio C. et al. Biochem. J. 351, 341-346, 2000
OSSERVAZIONI SU UNA PROCEDURA DI STANDARDIZZAZIONE PER L’IMPIEGO DEGLI ANTICORPI ANTI-PT NELLO STUDIO SIEROEPIDEMIOLOGICO DELLA PERTOSSE.
Taormina S., Giglio M., Giammanco A.
Dipartimento di Igiene e Microbiologia, Università degli Studi, Palermo
Anche sulla base dei più recenti dati di letteratura, appare avvalorata la convinzione che gli anticorpi anti-tossina della pertosse (PT), a differenza di quelli anti-pertactina ed anti-fimbrie, non possano essere considerati indicativi di protezione nei confronti delle infezioni instaurate da Bordetella pertussis. Essi sono comunque espressione di protezione nei confronti della malattia, nelle sue forme tipiche e nelle sue più gravi complicanze, e sono altresì, in quanto stimolati da un antigene esclusivamente
presente in B.pertussis, i marcatori sierologici più specifici dell’avvenuto incontro con il microrganismo e della sua circolazione. Come tali, sono certamente utili non solo per definizioni diagnostiche, ma anche per valutazioni sieroepidemiologiche, queste ultime basate, piuttosto che sul tradizionale studio dei profili immunitari di popolazione, sulla valutazione di incidenza, nelle
diverse popolazioni, delle sole infezioni recenti. Le infezioni recenti sono infatti significativamente associate a titoli anti-PT elevati e questi, a differenza dei titoli più bassi, sono di certo meno inficiati, nella loro interpretazione, dalla mancanza di un cutoff di protezione, essendo peraltro anche poco influenzati da eventuali pregresse vaccinazioni nei cui confronti la risposta antiPT decade in modo caratteristicamente rapido.
Le valutazioni quantitative, ancor più di quelle qualitative, richiedono l’adozione di procedure di standardizzazione atte a consentire la comparabilità di risultati, specie se ottenuti in laboratori differenti e con differenti metodologie. Una di tali procedure, basata sul saggio comparativo di un panel di 150 sieri, è stata utilizzata recentemente per esprimere in unità omologabili i
risultati ottenuti nell’ambito dei Progetti ESEN 1 ed ESEN 2 finanziati dalla Comunità Europea al fine di studiare la sieroepidemiologia della pertosse in Europa.
Applicando questa procedura, sono state anche effettuate osservazioni, che vengono qui riferite, sulla comparabilità di differenti
preparazioni antigeniche e sulle conseguenze, a carico della riproducibilità dei risultati, derivanti da singole variazioni nei protocolli tecnici adottati dai diversi Laboratori.
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32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
STUDIO COMPARATIVO DI DIFFERENTI MEMBRANE DI DIALISI SULLA FAGOCITOSI E ATTIVITA’ BATTERICIDA INTRACELLULARE DEI PMN DI PAZIENTI UREMICI.
G.Banche, A.M. Cuffini, N.Mandras, J.Roana, V.Tullio, F.Giacchino*, F.Bonello*, P.Belardi*, C.Merlino, N.A.Carlone
Dipartimento di Sanità Pubblica e Microbiologia, Università degli Studi di Torino
**Nefrologia e Dialisi ASL 9, Ivrea
Poiché una delle condizioni critiche del soggetto in dialisi è il grave stato di immunodepressione correlato all’uremia, con conseguente alta incidenza di infezioni e maggior rischio a sviluppare neoplasie negli anni, in questo lavoro si è valutata l’eventuale attività immunomodulante di tre differenti materiali di membrana di dialisi sullo stato immunitario dei pazienti con insufficienza renale cronica. Sono stati selezionati 12 pazienti uremici, con assenza di neoplasie e di infezioni acute o croniche in
atto, sottoposti a dialisi con sostituzione della membrana ogni mese. Tre le membrane utilizzate: cellulosa modificata sinteticamente (SMC); cuproammonio rayon ricoperto di vitamina E (CL-E); membrana sintetica polisulfone (PS).
All’inizio dello studio e dopo ogni cambio di membrana sono stati registrati i dati bio-umorali (azotemia, sodiemia, creatininemia, potassiemia, calcemia, fosforemia, EGAS venoso, emocromo con formula); i dati relativi alla funzionalità dei polimorfonucleati (PMN), con valutazione della fagocitosi e dell’attività battericida intraPMN; i dati clinici indicatori della condizione di
benessere del paziente (ipotensione, nausea, prurito, crampi, insonnia, irrequietezza, sete, energia, astenia). La sperimentazione
è stata condotta utilizzando, come fagociti, i PMN ottenuti dai pazienti emodializzati e, come batterio, un ceppo di Klebsiella
pneumoniae di recente isolamento clinico.
I dati bio-umorali e quelli clinici, valutati nel corso dello studio, mostrano l’equivalenza depurativa delle tre membrane e la stabilità dell’assetto metabolico; i dati immunologici indicano che i PMN dei pazienti dializzati con membrana in CL-E esprimono una migliore capacità fagocitaria ed una spiccata, significativa attività microbicida intracellulare rispetto ai fagociti dei
pazienti sottoposti a trattamento dialitico con membrana in SMC. Anche l’uso della membrana in PS determina un aumento sia
dell’attività di fagocitosi che di killing da parte dei granulociti come evidenziato dalle percentuali di fagocitosi e dagli indici di
sopravvivenza significativamente differenti da quelli dei PMN di pazienti trattati con SMC.
L’insieme dei dati ottenuti sottolinea, quindi, che a parità di trattamento depurativo, si ottiene un miglioramento della capacità
fagocitaria e microbicida intracellulare con le membrane a miglior profilo di biocompatibilità.
APPROCCIO MICROBIOLOGICO PER LA DIAGNOSI DI LEGIONELLA SPP. IN CAMPIONI
AMBIENTALI
L. Nicola1, L. Drago1, E. De Vecchi1, A. Colombo1, R. Mattina2
1 Laboratorio Microbiologia, Dipartimento Scienze Precliniche LITA Vialba
2 Istituto Microbiologia, Università degli Studi di Milano
Legionella spp è ampiamente diffusa in natura, principalmente associata alla presenza di acqua come superfici lacustri e fluviali, sorgenti termali e falde idriche, da dove può colonizzare gli ambienti idrici artificiali (reti cittadine di distribuzione dell’acqua potabile, impianti idrici dei singoli edifici, impianti di climatizzazione, piscine e fontane), probabili amplificatori e disseminatori del microrganismo. Sarebbe opportuno, per limitare il verificarsi di episodi di legionellosi, l’identificazione di ambienti contaminati da Legionella, e l’eradicazione del patogeno da tali luoghi. Sebbene non sia stata stabilita quale sia la dose infettante in campioni idrici per l’uomo, si ritiene comunemente che concentrazioni di legionelle
comprese tra 102 e 104 ufc/l siano sufficienti a provocare almeno un caso/anno, mentre l’incidenza aumenta con cariche comprese tra 104 e 106 ufc/l.
La ricerca quantitativa di tale microrganismo in campioni ambientali risulta perciò di notevole importanza ai fini della prevenzione.
Il presente lavoro riporta i risultati di analisi colturali di campioni ambientali, provenienti da tre diversi nosocomi lombardi, nel periodo 2002-2003.
I prelievi pervenuti erano rappresentati da campioni di acque provenienti da torri evaporative, lavabi e docce (71), tamponi di incrostazioni da filtri rompigetto dei rubinetti o bulbi di
docce (6) e filtri di impianti di condizionamento (6). La frequenza di campionamento era mensile per il primo istituto, quindicinale per il secondo ed annuale per il terzo. I reparti
indagati nei tre istituti sono stati: Medicina, Malattie Infettive, Rianimazione, Chirurgia, Pneumologia, Pediatria, Neonatologia, Oncologia, Unità Coronarica e Stroke Unit e
Reumatologia. Dopo concentrazione mediante filtrazione, un’aliquota dei campioni era trattata al calore. Ogni campione trattato e non trattato al calore veniva seminato su piastre di
BCYE e GVPC agar. Le piastre venivano incubate a 35°C in atmosfera al 2.5% di CO2, ed esaminate dopo 3, 8 e 14 giorni di incubazione. Le colonie sospette, venivano contate e
seminate su sangue e BCYE agar. La sierotipizzazione delle legionelle così isolate, veniva effettuata mediante prove di agglutinazione al lattice. Il batterio è stato ritrovato in circa il
50% dei campioni ambientali analizzati sia durante l’anno 2002 che durante l’anno 2003, ed il sierogruppo riscontrato è sempre risultato Legionella pneumophila 2-14. Non si è riscontrata una correlazione tra periodo di analisi e microrganismo, in quanto le positività da noi riscontrate erano distribuite durante tutto l’arco dell’anno, senza una stagionalita’. Da sottolineare come nella maggior parte dei casi dell’anno 2002 (54.5%), la concentrazione del microrganismo era inferiore a 103 ufc/l. In circa l’80% dei campioni positivi dell’anno 2003
il batterio era presente in cariche superiori a tale valore, e nell’11.1% di questi la concentrazione del microrganismo era maggiore di 104 ufc/l. Per quanto riguarda la provenienza dei
campioni positivi nel corso del 2002, il maggior numero di isolati proveniva dalle unità di Rianimazione (9) e di Malattie Infettive (10), mentre nel 2003 le positività riguardavano
principalmente i reparti di Rianimazione (3), Pediatria (3) e Pneumologia (3). I nostri risultati, a conferma di altri studi, rilevavano la presenza di Legionella in ambito ospedaliero,
inoltre, dalle informazioni pervenuteci dai tre nosocomi non si evidenziava una correlazione tra la presenza di tale microrganismo, anche a cariche elevate, ed episodi di legionellosi.
Poiché in alcuni reparti sono stati osservati incrementi mensili della carica batterica, anche in ambienti risultati debolmente positivi (102-103 ufc/l), sarebbe auspicabile, come principio generale e per i reparti considerati più a rischio di infezione, almeno un controllo mensile.
Si ribadisce, quindi, l’importanza di analisi periodiche adeguatamente programmate ai fini epidemiologici, per poter individuare luoghi e focolai di annidamento di questo microrganismo.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
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COLTURA ED ARRICCHIMENTO DEI CAMPIONI BIOLOGICI LIQUIDI: UTILIZZO ROUTINARIO
DELL’UROQUICK (ALIFAX)
Fontana C.1,2, Minelli S.2, Bossa M.C. 2, Altieri A. 2, Ombres D. 2, Cicchetti O. 2, Capalbo F. 2, Pelliccioni M. 2, Mauti A. 2,
Rullo A. 2, D’Arpino R. 2, Favalli C.1,2.
Dip.Medicina Sperimentale e Sc.Biochimiche Università Tor Vergata, Roma
Laboratori di Microbiologia Policlinico Tor Vergata, Roma
La coltura ed il trattamento iniziale dei campioni biologici endocavitari rappresenta una vera sfida per il microbiologo che si
trova spesso nella difficoltà di assicurare le condizioni colturali ottimali dovendo fare i conti con dei volumi estremamente ridotti. La maggior parte dei laboratori ricorre all’utilizzo, nella pratica comune, dei flaconi per emocoltura. Questa scelta estremamente vantaggiosa in termini di semplicità e di rapidità, oltre che di facile lavorabilità del campione, presenta, tuttavia, alcuni
limiti importanti: -il primo e più importante è il volume minimo di inoculazione del flacone affinché si abbia una positivizzazione del flacone stesso in tempi contenuti (max 3-5 giorni di coltura) così come raccomandato da tutti i manuali di corretta
prassi microbiologica e così come accade per le emocolture; il secondo è il costo determinazione, i flaconi per emocolture hanno
un costo apprezzabile e comunque tale da non renderne possibile l’utilizzo nei i laboratori di piccole e medie dimensioni; il terzo
è l’impossibilità per la gran parte dei sistemi automatici per emocolture di fornire anche un’utile indicazione ossia la stima della
carica batterica in CFU/ml di campione biologico; il quarto è rappresentato dalla difficoltà con la quale si recupera il brodo di
coltura per poter procedere direttamente alla identificazione del patogeno ed allo studio della sua farmaco sensibilità. Scopo del
presente lavoro è stato quello di presentare i risultati preliminari ottenuti presso il nostro laboratorio nell’utilizzo del sistema
Uroquick nel prearrichimento routinario di tutti i campioni biologici. Nel corso di circa 4 mesi sono stati valutati 362 campioni
biologici, quasi tutti provenienti da reparti con pazienti cosiddetti “difficili” ossia la terapia intensiva, e l’ematologia, in particolare si trattava di: 276 campioni respiratori (126 aspirati bronchiali, 66 lavaggi broncoalveolari, 24 escreati), 60 liquidi pleurici, 30 liquidi peritoneali e 3 liquidi ascitici, 9 liquidi sinoviali, 15 liquor ed infine 9 emocolture. I risultati del prearricchimento sono stati valutati in comparazione con tecniche colturali tradizionali. Il sistema è stato utilizzato con tempi di lettura tali da
consentire la stima minima della carica batterica pari a 1000 CFU/ml (235 min) e sempre in combinazione con lo studio del
Potere Antibatterico Residuo. Quest’ultimo ci ha consentito di valutare e compensare nella coltura gli effetti di terapie antibiotiche impostate prima del prelievo del campione.
PRODUZIONE DI METABOLITI COINVOLTI NEI MECCANISMI DI DETOSSIFICAZIONE IN CELLULE DI LIEVITO
M. Rollini e M. Manzoni
DISTAM, Sez. Microbiologia Industriale. Università degli Studi di Milano
Lo studio delle reazioni metaboliche coinvolte nei meccanismi di detossificazione a livello cellulare ha presentato in questi ultimi anni sempre maggior interesse. In tale ambito si inserisce la ricerca volta a chiarire le interconnessioni tra la formazione di
GSH, glutatione in forma ridotta, e S- adenosil metionina (SAM).
Il GSH, tripeptide costituito da acido glutammico, cisteina e glicina è il principale composto tiolico cellulare. La presenza del
gruppo tiolico della cisteina, rende questa molecola in grado di esplicare un’azione protettiva nei riflessi del danno cellulare,
conseguente alla presenza di radicali liberi. Attualmente il GSH è impiegato nel trattamento delle disfunzioni epatiche e nelle
terapie antivirali e antiallergiche.
Il SAM è un importante metabolita donatore di gruppi metilici. Partecipa alle reazioni biochimiche di transmetilazione, contribuendo alla sintesi o all’attivazione di alcuni composti come ormoni e neurotrasmettitori. Il SAM trova applicazione nella preparazione di farmaci impiegati nelle terapie di ripristino della funzionalità epatica.
La ricerca ha previsto l’allestimento di uno screening volto ad individuare ceppi di lievito in grado di accumulare, a fine sviluppo, elevati livelli di GSH e SAM. Tra i 48 analizzati, 2 ceppi di Saccharomyces cerevisiae si sono rivelati i migliori produttori di GSH (circa 1,3%ss, 90-95 mg/L), mentre non sono state evidenziate differenze significative nei diversi campioni, relativamente al contenuto di SAM (circa 0,2%ss, 10 mg/L).
La successiva fase della ricerca ha previsto la valutazione della possibilità di incrementare, in fase post-fermentativa, i livelli di
GSH e SAM naturalmente presenti nella cellula a fine sviluppo. Tale procedura, definita di attivazione, che prevede l’incubazione delle cellule in un’idonea soluzione, contenente sali minerali, glucosio e gli aminoacidi precursori di SAM e GSH, ha consentito di incrementare i livelli intracellulari delle due molecole allo studio. In particolare, dopo 48 h di incubazione, nelle
migliori condizioni messe a punto, sono stati ottenuti contenuti intracellulari di GSH e SAM pari rispettivamente al 4,6 e
all’1,3%ss.
L’evidenziazione, in alcuni campioni, di alcuni intermedi metabolici, tra cui cistationina e omocisteina, ha posto le basi per uno
studio approfondito, relativamente all’equilibrio che si crea a livello intracellulare tra SAM e GSH, soprattutto nell’ottica di ottenere, in un processo su larga scala, la produzione contemporanea dei due metaboliti.
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32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
CARATTERIZZAZIONE ED ISOTIPIZZAZIONE DI ANTICORPI MONOCLONALI MURINI ANTILAMINARINA CON POTENZIALE ATTIVITÀ CANDIDACIDA
M. Drago, F. Sisto, C. Grimaldi, A. Cassone*, A. Torosantucci*, S. Conti°, R. Frazzi°, L. Polonelli° e G. Morace
Istituto di Microbiologia, Università degli Studi di Milano
* Dipartimento di Malattie Infettive, Parassitarie ed Immuno-mediate, Istituto Superiore di Sanità, Roma
°Dipartimento di Patologia e Medicina di Laboratorio Sezione di Microbiologia, Università degli Studi di Parma
La laminarina è un polisaccaride costituito principalmente da b 1-3 D-glucano, che rappresenta il principale bersaglio d’azione
di una tossina killer (KT), prodotta da Pichia anomala, caratterizzata da una potente attività microbicida nei confronti di numerosi microrganismi patogeni fungini, batterici e protozoari.
Si è ipotizzato che mediante immunizzazione con laminarina si potessero produrre anticorpi monoclonali funzionalmente omologhi a KT e, in accordo alla teoria del network idiotipico, anticorpi monoclonali antiidiotipici rappresentanti l’immagine interna della laminarina a potenziale attività vaccinale antimicrobica.
Anticorpi monoclonali prodotti in seguito ad immunizzazione con laminarina sono stati caratterizzati per la loro potenziale attività candidacida mediante convenzionali saggi di Unità Formanti Colonia (UFC) e, per la loro potenzialità vaccinale, mediante ELISA nei confronti di KT. Sei anticorpi monoclonali di interesse sono stati isotipizzati mediante ELISA su carta. Quattro
di essi (2 IgM e 2 IgG1) si sono mostrati in grado in grado di diminuire notevolmente le UFC di C. albicans rispetto al controllo
costituito dagli stessi anticorpi monoclonali inattivati al calore dimostrando, pertanto, di esplicare attività candidacida
Altri due anticorpi monoclonali (1 IgM e 1 IgG1), che non avevano mostrato alcuna attività candidacida in vitro, hanno evidenziato una significativa reattività differenziale in ELISA nei confronti di un filtrato acellulare della coltura del ceppo di
Pichia anomala produttore di KT ma non di quello di un ceppo della stessa specie sensibile a KT, lasciando presumere che essi
possano essere anticorpi anti-idiotipici e, quindi, rappresentare l’immagine interna della laminarina.. Tali anticorpi antiidiotipici rappresentano potenziali candidati vaccinali nei confronti di infezioni sperimentali causate da microrganismi sensibili a KT.
I nostri dati sono una conferma diretta che anticorpi monoclonali anti-laminarina possano mimare l’attività microbicida di KT
ed una indiretta che il bersaglio della tossina sia rappresentato da b-1-3 D-glucano.
Lavoro eseguito nell’ambito del progetto PRIN 2003-2004
ADSORBIMENTO DI ENDOTELINA-1 (ET-1) DA PARTE DI GLOBULI ROSSI PARASSITATI DA
P.FALCIPARUM
Basilico Nicoletta1,2, Mondani Monica1, Parapini Silvia1, Yolanda Corbett1, Speciale Livianna3, Ferrante Pasquale3, Taramelli
Donatella1,2
1Istituto di Microbiologia, 2Facolta’ di Farmacia, Università di Milano, 3Fondazione Don. C. Gnocchi, IRCCS, Milano.
L’adesione dei globuli rossi parassitati da Plasmodium falciparum (pRBC) all’endotelio vascolare contribuisce alla patogenesi
della malaria severa, causando ostruzione della microcircolazione e conseguente ipossia tissutale, coma e morte nei casi gravi.
Numerose citochine e mediatori vasoattivi sono coinvolti in questo processo. Le endoteline (ET) sono una famiglia di peptidi
vasocostrittori la cui espressione e secrezione è influenzata dall’ipossia e dalle citochine infiammatorie. I peptidi attivi derivano dalla processazione enzimatica di un precursore, la big-endotelina (big-ET) attraverso l’azione di uno specifico enzima detto
Endothelin Converting Enzyme. Scopo di questo lavoro è stato quello di valutare le variazioni di ET-1 rilasciata da cellule endoteliali umane di microvascolatura (HMEC1) in presenza di pRBC e in condizioni di ipossia. Come previsto, la produzione di
ET-1 da HMEC-1 aumenta in condizioni di ipossia, tuttavia la presenza di pRBC diminuisce la concentrazione di ET-1 sia costitutiva che indotta da ipossia. Tuttavia, non variano i livelli mRNA di ET-1 come pure la quantità di big-ET1 prodotta. L’ipotesi
che pRBC svolgano un’azione diretta sul peptide e’ stata verificata incubando pRBC con ET-1 ricombinante e misurando l’attività residua mediante ELISA. In queste condizioni, la concentrazione di ET-1 è diminuita in modo significativo e dipendente
dalla concentrazione di pRBC. Lo stesso risultato è stato ottenuto incubando ET-1 con emozoina nativa, il pigmento porfirinico estratto da pRBC, ma non con l’analogo sintetico, b-ematina. Il fenomeno è specifico per ET-1, poiché big-ET1, nelle stesse condizioni, non viene adsorbita.
Questi risultati suggeriscono una rimozione attiva di ET-1 dalla circolazione da parte di pRBC o di emozoina probabilmente
dovuto a un legame diretto di ET-1 sulla superficie di pRBC. E’ quindi possibile che pRBC o prodotti del parassita possano provocare modificazioni locali dei segnali vasoattivi e infiammatori fondamentali nella patogenesi della malaria.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
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MALARIA E ENDOTELI: MODULAZIONE DELLA PRODUZIONE DI ENDOTELINA-1 DA PARTE DI
FARMACI ANTIMALARICI
Mondani Monica1, Parapini Silvia1, Basilico Nicoletta1,2, Corbett Yolanda1, Taramelli Donatella1,2
1Istituto di Microbiologia, 2Facolta’ di Farmacia, Università di Milano.
Nella patogenesi della malaria, gli endoteli giocano un ruolo fondamentale nel processo di sequestramento dei globuli rossi
parassitati a livello dei capillari contribuendo all’ostruzione della microcircolazione con conseguente ipossia tissutale, e nei casi
gravi coma o morte. Citochine e mediatori vasoattivi, quali NO, CO ed endoteline sono coinvolti in questi processi. Tra i mediatori vasoattivi, ET-1 è un peptide ad attività vasocostrittoria prodotto dalle cellule endoteliali, capace di amplificare anche la
risposta infiammatoria e coinvolto in numerose patologie di tipo vascolare, ma anche infettivo, come la sepsi. Non è ancora
chiaro il suo ruolo nell’infezione da Plasmodium falciparum, né come la terapia antimalarica possa interferire sulla produzione
di questo mediatore.
E’ noto che alcuni farmaci antimalarici, in particolare clorochina (CQ), sono in grado di interferire con il sistema immunitario
dell’ospite, tuttavia poco si sa riguardo alle loro interazioni con le cellule endoteliali. A tale scopo abbiamo valutato l’effetto di
CQ sulla produzione di ET-1, sia costitutiva che indotta da ipossia, da parte di cellule endoteliali umane di microvascolatura.
Abbiamo inoltre valutato la produzione di Interleuchina-6 (IL6) in seguito a stimolazione con TNFa o IL1b. I risultati indicano
che CQ inibisce in modo dose-dipendente la produzione di ET-1 e di IL6 costitutiva o indotta da ipossia o citochine. Tale
riduzione non è dovuta a tossicità diretta del farmaco sulle cellule endoteliali, in quanto la capacità di metabolizzare MTT non
varia nei campioni trattati rispetto ai controlli. CQ è inibisce la produzione di ET-1 anche quando è stata utilizzata come pretrattamento per 24 ore prima della stimolazione indotta da ipossia. Dati preliminari indicano che il cloruro d’ammonio, una base
debole strutturalmente diversa da CQ, è capace di inibire la produzione di ET-1 dalle cellule endoteliali. Questo fa supporre che
l’effetto di CQ potrebbe essere dovuto ad un incremento del pH intracellulare.
Da questi dati che necessitano di ulteriori studi, si può ipotizzare che le proprietà antiinfiammatorie di CQ, note da tempo, siano,
in parte, dovute all’azione esercitata dal farmaco sulla produzione di mediatori vasoattivi e citochine endoteliali.
CARATTERIZZAZIONE DELL’AFFINITÀ DI LEGAME DI FAB UMANI RICOMBINANTI DIRETTI
CONTRO LA PROTEINA E2 DEL VIRUS DELL’HCV MEDIANTE ELISA DI INIBIZIONE ED ANALISI AL BIACORE.
Francesca Bugli, Riccardo Torelli, Rosalia Graffeo, Rosaria Santangelo, Stefania Manzara, Paola Cattani, Giovanni Fadda
Istituto di Microbiologia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma
Cinque diversi Fab ricombinanti umani diretti contro la glicoproteina E2 del virus dell’epatite C (HCV) sono stati selezionati
da una library umana costruita con le biotecnologie del phage display e contenente il repertorio immuno-umorale di un paziente affetto da epatite C cronica.
Lo scopo di questo lavoro è stato caratterizzare i frammenti Fab monoclonali umani, studiando la loro reattività nei confronti
del virus dell’epatite C, in particolare con la glicoproteina di superficie E2. Dopo purificazione per immunoaffinità delle singole preparazioni di Fab, è stata saggiata la capacità legante dei Fab selezionati e l’affinità di legame di ciascuna preparazione di
Fab.
Le costanti di affinità dei vari Fab per la proteina E2 di HCV sono state inizialmente valutate con esperimenti in ELISA di inibizione, che hanno permesso di osservare, come risultati preliminari, affinità di legame diverse per i cinque Fab selezionati.
Allo scopo di approfondire lo studio delle attività biologiche dei cinque Fab l’antigene ricombinante E2 è stato fissato sulla
superficie di un chip sensore BIACORE per la valutazione quantitativa delle interazioni di legame tra le diverse molecole.
In questo lavoro verranno descritti e discussi i risultati ottenuti utilizzando questa tecnologia sull’affinità di interazione dei Fab
umani anti-E2/HCV e sulle diverse cinetiche di interazione con l’antigene virale.
126
32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
IL TEST DI AVIDITÀ NELLA DIAGNOSI DI INFEZIONE DA HIV-1.
Schiavone P., Lolli S., Gorini R., Nemi M.L., Gibellini D., Re MC.
Sezione di Microbiologia, Dipartimento di Medicina Clinica Specialistica e Sperimentale, Università degli studi di Bologna,
Bologna.
La determinazione dell’indice di avidita’ (IA) nei confronti di diversi agenti infettivi rappresenta oggi un parametro sierologico
di notevole utilità al fine di stabilire la presenza di una infezione recente.
Per approfondire questo argomento abbiamo valutato la presenza dell’indice di avidità in 143 campioni di siero, di cui 94 con
infezione da virus dell’immunodeficienza acquista di tipo 1 (HIV-1) accertata da più di due anni, 42 provenienti da neonati partoriti da madre HIV sieropositiva e 9 provenienti da soggetti adulti in cui era stata possibile accertare una sieroconversione
recente.
Tutti i campioni sono stati esaminati mediante le usuali metodiche sierologiche (ELISA e IB) e, quando necessario mediante la
determinazione del provirus di HIV-1/2 mediante nested PCR.
E’ stato valutato l’indice di avidita’ mediante saggio immunoenzimatico utilizzando due aliquote del campione in esame opportunamente diluite rispettivamente con guanidina 1M e PBS.
Il metodo utilizzato ha presentato un notevole grado di riproducibilità (varianza inferiore al 10%). I risultati ottenuti hanno evidenziato valori dell’indice di avidita’ compresi tra un minimo di 0.2 e un massimo di 0.8 O.D. nei casi di sieroconversioni recenti e con elevate densità ottica (>1.5-2.0) nei casi dei sieri con infezioni accertate da tempo.
I dati, seppure preliminari ed effettuati su un numero limitato di campioni, sembrano suggerire che un IA <0.8 O.D. possa essere considerato discriminante per infezioni recenti (<6-8 mesi) e che, pertanto, la determinazione dell’AI possa essere consideratoun sistema abbastanza semplice e di facile applicazione per la identificazione di infezioni recenti.
SIEROCONVERSIONE ALLA VACCINAZIONE ANTI-EPATITE B IN PAZIENTI AFFETTI DA DIABETE
MELLITO TIPO 1 AL MOMENTO DELLA PRIMA COPERTURA UNIVERSALE
Sommese L.1, Mattera S. 3, Sanges M.R.3, Mennella C. 1, Gemma C. 2, Prisco F. 2, Iafusco D. 2
1 Dip. Medicina Sperimentale - Sezione Microbiologia, Sun
2 Dip. Pediatria - Servizio di Diabetologia Pediatrica “G. Stoppoloni”, Sun
3 Servizio di Virologia e Microbiologia, Sun
L’epatite B (HBV) rappresenta uno dei principali problemi a livello mondiale. Nei pazienti affetti da malattie autoimmuni come
il diabete mellito tipo 1 è stato recentemente riportato un incremento dell’infezione dell’HBV, con frequente cronicizzazione
della malattia. Su questo argomento, però, i risultati, finora riportati, sono ancora molto controversi. In Italia, nel 1991, la vaccinazione anti-epatite B è divenuta obbligatoria per tutti i nuovi nati e per tutti gli adolescenti al compimento del 12° anno di
età. Nel corso di questo anno, pertanto, si è avuta la prima copertura universale, verso il vaccino anti-epatite B poiché, trascorsi dodici anni dalla introduzione della vaccinazione, l’obbligo vaccinale ha interessato l’intera popolazione tra 1 e 24 anni.
Lo scopo del presente lavoro, è stato quello di valutare la risposta immunologica alla vaccinazione anti-epatite B, in pazienti
in età pediatrica, affetti da diabete mellito tipo 1, vs una popolazione sana di riferimento. Dei 219 pazienti con diabete e 448
controlli, esaminati nel nostro studio, è risultato che ben 19 pazienti (8.7%) e 25 controlli (5.5%), rispettivamente, avevano
evaso l’obbligo vaccinale. Il titolo HBsAb è stato, quindi, determinato solo su 200 pazienti diabetici e 423 controlli ed in base
alla risposta, la popolazione è stata suddivisa in responder, iporesponder e nonresponder. Dai dati preliminari, non si è osservata alcuna differenza tra gli iporesponder, e si è deciso di escludere tale categoria dallo studio. I pazienti con diabete mellito tipo
1, presentavano una minore sieroconversione rispetto ai controlli. Molto interessante è stata l’osservazione che il maggior numero dei pazienti nonresponder, era presente tra coloro che avevano ammalato di diabete nei due anni successivi alla vaccinazione. Tale risultato si è osservato anche in quei pazienti nei quali il diabete è insorto nel corso del dodicesimo e tredicesimo anno
di età, anche se in maniera meno significativa. Se questi dati preliminari, saranno confermati, su più larga scala, si dovrebbe
valutare l’introduzione di un richiamo vaccinale per le popolazioni a rischio.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
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ANALISI MICROBIOLOGICA E CHIMICO-FISICA DEGLI HABITAT DELLE LARVE DI ANOPHELES GAMBIAE IN UN VILLAGGIO DELLA SAVANA DEL BURKINA FASO
A. Cossu1, M. Pombi1, I. Bassole2, O. Ouédraogo2, M.P. Conte1, N’F. Sagnon2 e C. Costantini1
1Dipartimento di Scienze di Sanità Pubblica, Università di Roma “La Sapienza”, Roma, Italy. 2Centre National de Recherche
et Formation sur le Paludisme, Ouagadougou, Burkina Faso
Durante la stagione delle piogge, nell’arida savana del Burkina Faso, le larve di due forme molecolari di Anopheles gambiae
sensu stricto (forma M e S) occupano lo stesso tipo di habitat aquatici.
E’ stato osservato che alla fine della stagione delle piogge queste le due forme di Anopheles gambiae sono distribuite in modo
diverso nei differenti focolai della stessa area; la forma M prevale negli habitat che si originano da specchi d’acqua (come i
margini dei laghi e i canali di irrigazione), mentre la forma S è più frequente nei siti dipendenti dalla pioggia.
Non è ancora noto se componenti biotici ed abiotici dell’ambiente acquatico possano essere responsabili della netta separazione delle nicchie osservata per i due taxa. Per verificare questa ipotesi abbiamo eseguito un’indagine su 117 campioni di acqua
prelevati da siti intorno al villaggio di Goundry (vicino Ouagadougou) durante i 4 mesi di una stagione delle pioggie.
Per ogni focolaio, sono stati campionate le larve di An. Gambiae in base alla profondità e sono state studiate le frequenze delle
due forme attraverso l’identificazione molecolare con la tecnica della PCR-RFLP. Contemporaneamente sono stati raccolti dei
campioni d’acqua per ottenere un profilo microbiologico e chimico-fisico degli habitat delle larve. Abbiamo misurato 20 parametri chimico-fisici, definendo la torbidità, l’equilibrio acido-base, la presenza di minerali ed il livello di sostanze organiche per
ogni sito. L’analisi microbiologica è stata condotta sia dal punto di vista quantitativo che da quello qualitativo. La somma totale della massa batterica è stata determinata attraverso la colorazione dei campioni con DAPI e la conta dei batteri al microscopio in epifluorescenza, mentre l’analisi qualitativa è stata condotta, filtrando delle aliquote dei campioni, su 6 terreni selettivi
specifici per Enterobateriaceae, Streptococcus spp, Staphylococcus spp, Pseudomonas spp, Aeromonas spp e Vibrionaceae e
Bacilli gram-positivi. La conta totale batterica dei campioni è stata stimata tra i 4,3 batteri/ml ed i 7,9 batteri/ml, con una leggera prevalenza di bacilli rispetto ai cocchi. La flora batterica identificata nei diversi campioni di acqua è stata paragonata con
la distribuzione delle forme larvali di An. gambiae.
STUDIO DELL’ESPRESSIONE GENICA DELLE PROTEINE PE_PGRS.
Giovanni Delogu1, Maurizio Sanguinetti1, Cinzia Pusceddu1, Alessandra Bua2, Michael J. Brennan3, Stefania Zanetti2,
Giovanni Fadda1.
1Istituto di Microbiologia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma; 2Dipartimento di Scienze Biomediche, Università di
Sassari; 3Center for Biologics Evaluation and Research, Food and Drug Administration (USA);
Sebbene siano stati individuati nel genoma di M. tuberculosis 68 geni appartenenti alla famiglia di proteine PE_PGRS e sia
maturata negli ultimi anni la convinzione che tali proteine giochino un ruolo importante nella biologia del bacillo tubercolare,
la funzione ed il ruolo di tali proteine rimane ancora poco chiaro.
Uno studio dell’espressione genica di tali proteine potrebbe fornire importanti informazioni e in particolare definire il loro
coinvolgimento nel meccanismo di patogenicità di M. tuberculosis.
A tal fine, nel presente studio sono state adottate due diverse strategie per analizzare l’espressione genica di alcune proteine
della famiglia PE_PGRS. E stato messo a punto un sistema di gene reporter technology, dove la sequenza codificante per la
proteina GFP (green fluorescent protein) è stata posta sotto il controllo di sequenze promotrici di alcuni geni PE_PGRS.
Studi di espressione sono stati eseguiti su ceppi di M. smegmatis ed M. tuberculosis ricombinanti, sia in modelli di coltura
axenica sia in sistemi di crescita intracellulari in vitro nel quale venivano infettati BMM0 (bone marrow-derived macrophages).
Al fine di valutare quantitativamente l’espressione di tali proteine è stata utilizzata la tecnologia della Reverse Real Time PCR
per misurare i livelli di mRNA espressi da M. tuberculosis. L’espressione dei geni PE_PGRS è stata valutata rispetto a tre
diversi geni che sono stati arbitrariamente selezionati come housekeeping (ftsZ, 16srRNA, hsp70). Ceppi di M. tuberculosis
ed M. bovis sono stati fatti crescere in coltura axenica ed in modelli di crescita intracellulari (BMM0). Al fine di valutare il
ruolo di tali proteine nel meccanismo di patogenicità, i livelli di espressione di alcuni geni PE_PGRS sono stati determinati
nel modello di TB polmonare murino. Il polmone e la milza dei topi infettati venivano prelevati a diversi tempi di infezione,
l’RNA estratto e i livelli di mRNA specifici determinati mediante Reverse Real Time PCR.
I risultati ottenuti hanno permesso di ottenere importanti informazioni circa i livelli di espressione della proteine PE_PGRS e
contribuiscono a definire il ruolo di tali proteine nella biologia di M. tuberculosis.
128
32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
STUDIO SUL MECCANISMO DI APOPTOSI INDOTTO DA CHLAMYDIA PNEUMONIAE
R.Sessa, M. Di Pietro, S. Fallucca, C. Zagaglia, G. Schiavoni, S. Morrone1, M. del Piano
Dipartimento di Scienze di Sanità Pubblica e 1Dipartimento di Medicina Sperimentale e Patologia, Università degli Studi di
Roma “La Sapienza”.
La Chlamydia pneumoniae, batterio intracellulare obbligato, è noto come agente eziologico di infezioni del tratto respiratorio
quali faringite, bronchite e polmonite acquisita in comunità.
La capacità della C. pneumoniae di indurre apoptosi gioca un ruolo importante nell’instaurare una infezione, nella sopravvivenza del microrganismo e nell’eludere la risposta immunitaria.
Studi in vitro hanno dimostrato che la C. pneumoniae è in grado di moltiplicarsi in diversi tipi di cellule come monociti, linfociti e macrofagi, ed in questi ultimi può persistere a lungo.
Lo scopo del nostro studio è stato quello di valutare l’interazione tra la C. pneumoniae e le cellule coinvolte nei meccanismi di
difesa e l’interferenza con il processo di apoptosi.
Cellule mononucleate del sangue periferico (PBMC) sono state isolate da buffy coats, provenienti da donatori di sangue, per
ottenere monociti e linfociti T.
Per 6 giorni, i monociti sono stati coltivati in RPMI 1640 in presenza di 50 ng/ml di “macrophages colony stimulating factor”
(M-CSF), mentre i linfociti T sono stati coltivati in presenza di 10 mg/ml di fitoemoagglutinina e 60 IU/ml di Interleuchina-2
ricombinante.
I macrofagi sono stati, quindi, infettati con la C. pneumoniae ad una molteplicità di infezione (MOI) pari a 1 ed a 5.
In seguito i linfociti T sono stati addizionati ai macrofagi infettati, con un rapporto di 1:1, e, contemporaneamente, sono state
allestite cocolture di linfociti T e macrofagi non infettati.
Dopo 6 giorni il numero di cellule apoptotiche è stato determinato nelle cocolture infettate con C. pneumoniae e in quelle non
infettate, mediante citometria a flusso utilizzando il TUNEL assay.
I risultati preliminari hanno evidenziato che la percentuale di cellule apoptotiche, nelle cocolture con macrofagi infettati con C.
pneumoniae, ad una MOI pari a 5, era superiore a quella riscontrata nelle cocolture di macrofagi non infettati, dimostrando, così,
un ruolo attivo del microrganismo nel meccanismo apoptotico.
AZIONE DELLA LATTOFERRINA SULLA MORTE CELLULARE VIRUS-INDOTTA: PREVENZIONE
DELL’APOPTOSI
A. Tinari1, A. Pietrantoni1, P. Valenti2, F. Superti1
1 Dipartimento di Tecnologie e Salute, Istituto Superiore di Sanità, Roma
2 Dipartimento di Medicina Sperimentale, II Università di Napoli
La lattoferrina, una glicoproteina di peso molecolare di circa 80 kDa appartenente al gruppo delle transferrine, svolge un ruolo
importante oltre che nel metabolismo del ferro anche nei meccanismi di difesa dell’ospite verso diversi patogeni. Sebbene l’attività antivirale della lattoferrina rappresenti un’importante funzione biologica, il meccanismo attraverso il quale tale proteina
svolge la sua azione non è stato ancora completamente definito. Nostri studi recenti hanno dimostrato che la lattoferrina inibisce
l’infezione da herpesvirus attraverso un meccanismo di competizione con il virus per il legame ai glicosamminoglicani presenti sulla membrana cellulare. Altre nostre ricerche hanno dimostrato che l’attività anti-adenovirus della lattoferrina è attribuibile
non solo ad una competizione diretta con le particelle virali per un recettore cellulare comune, ma anche ad un legame specifico della proteina con due polipeptidi strutturali virali (III e IIIa ) che giocano un ruolo importante nel processo di internalizzazione del virus.
Nella presente ricerca abbiamo ulteriormente studiato il meccanismo dell’attività antivirale della lattoferrina analizzando un suo
possibile ruolo nella protezione dall’apoptosi virus-indotta utilizzando come modello un enterovirus: l’echovirus 6. Gli
enterovirus sono altamente citopatici e inducono la morte della cellula ospite attraverso due meccanismi: la necrosi e l’apoptosi.
In una prima serie di esperimenti abbiamo dimostrato che l’infezione da echovirus 6 provoca la morte della cellula ospite prevalentemente attraverso l’induzione dell’apoptosi. La percentuale di cellule apoptotiche e necrotiche è stata valutata tramite colorazione con arancio di acridina-bromuro di etidio, la frammentazione del DNA è stata visualizzata tramite elettroforesi in gel
di agarosio, mentre le modificazioni nucleari e citoplasmatiche delle cellule infettate sono state monitorate tramite microscopia
elettronica a trasmissione. Utilizzando le stesse tecniche, abbiamo evidenziato che il trattamento delle cellule con lattoferrina è
in grado di prevenire completamente l’apoptosi virus-indotta. Poiché l’induzione dell’apoptosi nelle cellule sensibili rappresenta un mezzo con cui i virus possono disseminarsi all’interno dell’organismo ospite, i nostri risultati, dimostrando che la lattoferrina è in grado di prevenirla, suggeriscono una potenziale nuova applicazione di questa glicoproteina.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
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LE PORINE DI SALMONELLA ENTERICA SEROVAR TYPHIMURIUM ATTIVANO STAT1 E STAT3
ATTRAVERSO LE MAPK INDIPENDENTEMENTE DALLE JAK CHINASI
Marilena Galdiero1, Carmela Moccia2, Paola Rotondo2, Irma Pagliara2, Emilia Galdiero3, Maria Grazia Pisciotta2, Mariateresa
Vitiello2
1 Dipartimento di Medicina Sperimentale, Sez. di Microbiologia e Microbiologia Clinica, Facolta’ di Medicina e Chirurgia,
Seconda Università degli Studi di Napoli;
2 Dipartimento di Patologia Generale, Facolta’ di Medicina e Chirurgia, Seconda Università degli Studi di Napoli;
3 Dipartimento di Fisiologia Generale, Facoltà di Scienze MM. FF. NN., Sezione di Igiene e Microbiologia, Università degli
Studi di Napoli “Federico II”.
E’ ben noto che le porine isolate da Salmonella enterica serovar Typhimurium inducono la fosforilazione delle tirosin-chinasi
nella linea monocitaria THP-1 e nei macrofagi murini C3H/HeJ attivando i fattori di trascrizione AP-1 (Activating-protein 1) e
NF-kB (Nuclear factor-kB) mediante la cascata enzimatica delle MAPK (Mitogen Activated Protein Kinases).
In questo lavoro è stato valutato l’effetto delle porine e dell’LPS di S. enterica serovar Typhimurium sul segnale di attivazione
mediato dal pathway JAK (Janus protein tyrosine kinases)/STAT (Signal Transducers and Activators of Transcription) analizzando il rilascio di IL-6 da cellule U937. I risultati ottenuti rivelano un’induzione di STAT1 e STAT 3 porine e LPS-mediata
attraverso le MAPK. Infatti il pretrattamento delle cellule con un’associazione di PD-098059 ed SB203580 inibisce la fosforilazione di STAT1 e STAT3, a differenza di quanto si osserva utilizzando AG490, inibitore specifico delle JAK chinasi.
L’attivazione di STAT1 e STAT3 presenta un massimo di incremento a 15 minuti ed una concentrazione ottimale di 5 µg/ml e 1
µg/ml rispettivamente per le porine e l’LPS. Per comprendere se tale attivazione è associata al rilascio precoce di IL-6 mediato da porine e LPS, le cellule sono state trattate con anticorpi monoclonali anti-IL-6. Il rilascio iniziale di IL-6 risulta notevolmente ridotto dal trattamento con anti-IL-6 e sensibile ad AG490.
I risultati ottenuti avvalorano l’ipotesi che il segnale di attivazione può essere influenzato direttamente dai componenti batterici e dalle citochine precocemente liberate per effetto degli stessi componenti.
L’ASSOCIAZIONE MOXIFLOXACINA-HBD2 INCREMENTA LA PRODUZIONE DI CITOCHINE E
MOLECOLE DI ADESIONE IN CELLULE EPITELIALI POLMONARI
Donnarumma G., Iovane M.R., Solla D., De Filippis A., Lanzieri N., Tufano M.A.
Seconda Università degli Studi di Napoli. Dipartimento di Medicina Sperimentale - Sezione di Microbiologia e Microbiologia
Clinica
Le infezioni dell’apparato respiratorio rappresentano una delle principali cause di morbilità e mortalità. Le variazioni di sensibilità agli antibiotici e la estrema variabilità e ricombinazione genetica degli agenti infettanti rendono problematico l’approccio
terapeutico. L’epitelio della mucosa respiratoria costituisce una barriera tra il microambiente dell’organismo ospite e l’esterno
rappresentando una importante prima linea di difesa. La protezione contro la colonizzazione di patogeni e l’invasione dei tessuti è esplicata a livello della mucosa respiratoria da proteine come il lisozima, la lattoferrina, le collectine, gli inibitori delle
proteinasi secretorie ma anche da peptidi come le ß-defensine (HBD). Tra queste, HBD2 è una importante molecola effettrice
della risposta immune, con attività sia battericida/batteriostatica che pro o anti-infiammatoria. Inoltre questa molecola agendo
da chemoattraente partecipa alla difesa dell’ospite anche attraverso il reclutamento di neutrofili nel sito di infezione/infiammazione.
La moxifloxacina è, tra i fluorochinoloni, uno degli antibiotici più attivi nei confronti di patogeni dell’apparato respiratorio.
Inoltre è noto che esplica anche attività immunomodulante agendo in particolare sulla fagocitosi e il killing intracellulare.
Scopo di questo lavoro è quello di individuare molecole dell’immunità naturale che contribuiscano all’istaurarsi della risposta
immune, da utilizzare come nuovi strumenti immunoterapeutici in associazione alle strategie farmacologiche convenzionali. A
tale scopo, cellule epiteliali polmonari di linea (A549) sono state stimolate con HBD2 e moxifloxacina a tempi diversi e a varie
concentrazioni e sono stati valutati i livelli di espressione di alcune citochine infiammatorie e di molecole di adesione. I risultati ottenuti indicano che la co-stimolazione delle cellule epiteliali con HBD2 e moxifloxacina induce l’espressione sia di IL-1ß
e Il-6 che della chemochina IL-8, nonché delle ICAM1 necessarie per l’adesione leucocitaria. Tali dati suggeriscono che l’associazione moxifloxacina-HBD2 favorisce il processo infiammatorio locale e la clearance microbica. In nessun caso vi è aumento dell’espressione di TNF-α.
I risultati ottenuti indicano che molecole naturali come HBD2 potrebbero essere utilizzate in strategie terapeutiche innovative da integrare alla terapia antimicrobica convenzionale.
130
32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
L’ECTOINA INDUCE L’ESPRESSIONE DELLE HSP70 E HSP70B’ IN CHERATINOCITI UMANI,
MODULANDO LA RISPOSTA INFIAMMATORIA
1E. Buommino, 2C. Schiraldi, 2C. Maresca., E. Grimaldi, 3A. Baroni, 1MA Tufano
Seconda Università degli Studi di Napoli
1 Dip. di Medicina Sperimentale Sez. di Microbiologia e Microbiologia Clinica
2 Dip. di Medicina Sperimentale Sez. di Biotecnologie e Biologia Molecolare
3 Clinica Dermosifilopatica
Le heat shock proteins (hsp) hanno un ruolo importante nella citoprotezione e nel riparo delle cellule e dei tessuti. Un potenziale meccanismo è l’abilità delle hsp di inibire l’espressione delle citochine proinfiammatorie, la trascrizione delle quali dipende dall’attivazione di NF-kb. Inoltre, è stato dimostrato che l’aumento dell’espressione delle hsp induce una diminuzione del
rilascio della IL-6 indotto da UVA, UVB, e stress ossidativi. Scopo del presente lavoro è stato valutare la capacità dell’ectoina,
una nuova biomolecola naturale, estratta da Halomonas ssp. and Marinococcus ssp., di attivare le hsp70 e le hsp70 B’, altro
membro della famiglia delle hsp70 strettamente stress inducibile e assente nelle cellule non stressate.
Cheratinociti umani sono stati preincubati con ectoina a diverse concentrazioni e sottoposti o meno a stress termico. Allo scopo
di valutare l’attivazione del processo infiammatorio ad opera dell’ectoina, in un altro set di esperimenti le cellule sono state
preincubate con ectoina o con calpain inhibitor II, un inibitore di NF-kB, e poi stimolate con LPS.
L’analisi mediante RT-PCR e western blot ha dimostrato un aumento dell’espressione del gene hsp70B’ in cheratinociti umani
trattati con l’ectoina e stressati col calore. Inoltre, in assenza di stress termico, l’ectoina non ha alcun effetto sullo stesso gene,
ma ha la capacità di incrementare l’espressione di un altro membro della famiglia delle hsp, le hsp70, presente anche a livello
basale in cellule non stressate. In aggiunta, l’ectoina non ha effetto sulle citochine pro-infiammatorie IL-1α, IL-6, IL-8 e TNFα e sul pathway NFkB/IkB- α, ma, al contrario, down-regola la loro espressione, in cheratinociti incubati con LPS.
Questi risultati evidenziano la capacità dell’ectoina sia di proteggere le cellule da condizioni di stress sia di prevenire il danno
cellulare mantenendo elevati livelli di hsp70, suggerendo possibili applicazioni dell’ectoina nella dermocosmesi oppure in preparazioni farmacologiche in grado di attivare la risposta citoprotettiva mediata dalle hsp e proteggere la cute dai danni provocati dai raggi ultravioletti.
IL LOOP 7 DELLA PORINA DI HAEMOPHILUS INFLUENZAE INDUCE IL RILASCIO DI CITOCHINE PROINFIAMMATORIE ED IMMUNOMODULATRICI
Stefania Galdiero1, Mariateresa Vitiello2, Marina D’Isanto2, Lucia Peluso2, Massimiliano Galdiero3
1 Dipartimento di Chimica Biologica & Istituto di Biostrutture e Bioimmagini, Universita’ di Napoli “Federico II”;
2 Dipartimento di Patologia Generale, Facolta’ di Medicina e Chirurgia, Seconda Università degli Studi di Napoli;
3 Dipartimento di Medicina Sperimentale, Sez. di Microbiologia e Microbiologia Clinica, Facolta’ di Medicina e Chirurgia,
Seconda Università degli Studi di Napoli.
La membrana esterna dei batteri Gram-negativi contiene diverse proteine, tra queste le porine svolgono numerose funzioni biologiche nell’interazione con la cellula ospite. E’ noto che le porine sono in grado di mediare il rilascio di citochine attraverso
l’attivazione della cascata Raf-1/MEK1-2/MAPK. La porina P2 dell’Haemophilus influenzae (Hib) è una delle porine maggiormente conosciuta per ciò che riguarda le sue caratteristiche funzionali; essa presenta 16 filamenti beta transmembrana ed 8
loop esposti in superficie. L’analisi delle sequenze per i geni codificanti P2 suggerisce che le regioni transmembrana sono relativamente conservate tra i vari ceppi di Hib mentre esiste una considerevole eterogeneità nelle regioni dei loop. Recentemente
abbiamo dimostrato che i peptidi corrispondenti ai loop superficiali della porina di Hib, L5, L6 e L7 modulano l’attività delle
Mitogen-Activated Protein Kinases (MAPK) attivando essenzialmente JNK e p38, cosi’ come la proteina intera. Scopo principale di questo lavoro è quello di ottenere maggiori informazioni sulla correlazione struttura-attività. Sono stati sintetizzati una
serie di mutanti del loop L7 in cui di volta in volta ciascun residuo della sequenza peptidica è stato sostituito con una alanina
per valutare la capacità di attivare le MAPK ed il rilascio di citochine proinfiammatorie ed immunoregolatrici, tra cui TNF-α
ed IL-6. In questo modo si potranno definire i residui essenziali all’attività e progettare nuovi peptidi e peptidomimetici con
maggiore attività per la messa a punto di nuove terapie.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
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IL RILASCIO DI INTERLEUCHINA-8 INDOTTO DA PORINE O LPS E’ MODULATO DALLA PROLATTINA ATTRAVERSO DIFFERENTI PATHWAY DI TRASDUZIONE
Marilena Galdiero1, Marina D’Isanto2, Katia Raieta2, Lucia Peluso2, Emiliana Finamore2, Daniela Anastasi2, Massimiliano
Galdiero1
1 Dipartimento di Medicina Sperimentale, Sez. di Microbiologia e Microbiologia Clinica, Facolta’ di Medicina e Chirurgia,
Seconda Università degli Studi di Napoli;
2 Dipartimento di Patologia Generale, Facolta’ di Medicina e Chirurgia, Seconda Università degli Studi di Napoli.
L’analisi del rilascio di interleuchina-8 (IL-8) da cellule THP-1 trattate con prolattina (PRL) e componenti cellulari di
Salmonella enterica serovar Typhimurium, parallelamente allo studio di differenti pathway del segnale ha sottolineato il ruolo
modulatorio della PRL nella risposta infiammatoria durante l’infezione da Salmonella.
E’ noto che la PRL, ormone neuroendocrino che gioca un ruolo chiave nella regolazione di differenti funzioni fisiologiche
influenzando un ampio spettro di eventi cellulari, risulta protettiva in corso di infezione da batteri Gram-positivi e Gram-negativi. Il processo mediante il quale la PRL modula le attività cellulari prevede il coinvolgimento delle Mitogen Activated- Protein
Kinases (MAPK) e delle famiglie di chinasi Janus Kinases (JAK) e Signal Transducer and Activator of Trascription (STAT).
L’attivazione di questi pathway contribuisce alla regolazione della risposta immune mediata dalla PRL. I risultati ottenuti
mediante western blotting con anticorpi specifici, dimostrano che la PRL è in grado di attivare JAK2/STAT1 e STAT3 a differenza delle porine e dell’ LPS. L’associazione della PRL con le porine o con l’LPS induce un aumento della fosforilazione dei
pathway MEK1-MEK2/MAPK e non delle chinasi JAK2/STAT1 e STAT3. La capacità della PRL di amplificare l’effetto di tali
componenti batteriche, è confermata dall’incremento del rilascio di IL-8 che si evidenzia quando la stimolazione con porine o
LPS è preceduta dal trattamento con PRL. L’effetto inibitorio manifestato dal PD-098059, inibitore selettivo dell’attivatore di
MEK1 e della cascata MAPK, o dall’ SB203580, inibitore selettivo di p38, o dall’AG490, inibitore selettivo della via JAK/STAT
sul rilascio di IL-8 fornisce la prova definitiva del coinvolgimento di entrambi i pathway JAK/STAT e MAPK nel meccanismo
di modulazione della PRL sul processo di attivazione cellulare indotto dalle porine o dall’LPS.
L’ESPRESSIONE DELLE MOLECOLE CD80/CD86 E CD28/CD152 E’ MODULATA DALL’ACIDO
LIPOTEICOICO E DALL’ACIDO MURAMICO
Maria Grazia Pisciotta1, Marina D’Isanto1, Katia Raieta1, Emiliana Finamore1, Carmela Moccia1, Daniela Anastasi1, Marilena
Galdiero2
1 Dipartimento di Patologia Generale, Facolta’ di Medicina e Chirurgia, Seconda Università degli Studi di Napoli;
2 Dipartimento di Medicina Sperimentale, Sez. di Microbiologia e Microbiologia Clinica, Facolta’ di Medicina e Chirurgia,
Seconda Università degli Studi di Napoli.
Cosi’ come il lipopolisaccaride dei batteri Gram-negativi, l’acido lipoteicoico (LTA) e l’acido muramico (MA), principali fattori patogeni dei batteri Gram-positivi, sono capaci di modulare numerose attività biologiche intervenendo nell’attivazione delle
cellule della risposta infiammatoria.
In questo lavoro, mediante analisi citofluorimetrica, è stata valutata l’espressione delle molecole CD80/CD86 e CD28/CD152
in linee cellulari umane monocitarie (THP-1) e linfocitarie (Jurkat).
Le cellule sono state stimolate con diverse concentrazioni di LTA e MA di Staphylococcus aureus per valutare la cinetica di
espressione delle molecole di costimolazione che interagendo tra loro, possono influenzare la risposta immune agendo sul rilascio di citochine.
L’LTA e l’MA inducono l’aumento dell’espressione delle molecole CD152 sulle cellule Jurkat e delle molecole CD86 sulle cellule THP-1 suggerendo un loro possibile coinvolgimento nella modulazione della risposta T helper.
Dai risultati ottenuti si evince che sia CD80 che CD86 mediano un ugual rilascio di IL-2 e IFN-γ, mentre le molecole CD86
inducono un maggiore rilascio di IL-4 suggerendo il possibile ruolo delle molecole CD86 nella differenziazione dei linfociti T
nei fenotipi Th1 e Th2.
132
32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
LA PROTEINA DI SUPERFICIE PSPC DI PNEUMOCOCCO CONFERISCE RESISTENZA AL
KILLING IN VITRO DI STREPTOCOCCUS PNEUMONIAE DA PARTE DI CELLULE MICROGLIALI
IN MANIERA INDIPENDENTE DAL COMPLEMENTO.
S. Peppoloni^, B. Colombari^, D. Quaglino°, R. Neglia^, A. Martino ^, F. Iannelli*, S. Ricci*, M. R. Oggioni*, G. Pozzi* ed E.
Blasi^. ^ Dip. di Scienze Igienistiche, Microbiologiche e Biostatistiche e ° Dip. di Scienze Biomediche, Università di Modena e
Reggio Emilia.§ LA.M.M.B., Dip. di Biologia Molecolare, Università di Siena.
La microglia costituisce un subset di fagociti mononucleari residenti nel distretto cerebrale con caratteristiche fenotipiche e funzionali tipiche del macrofago, e per questo si pensa sia coinvolta nella risposta immunitaria innata contro i microrganismi invasori. In questo studio, utilizzando il ceppo selvaggio di Streptococcus pneumoniae (HB565) ed il suo mutante isogenico (FP20)
knock-out (ko) per la proteina di superficie PspC, abbiamo valutato il ruolo di questa molecola nel killing mediato dalla linea
microgliale BV2. PspC svolge molteplici funzioni nella patogenicità dello pneumococco, tra cui quella di legare il fattore H del
complemento (C) e di prevenire quindi l’opsonofagocitosi da parte dei fagociti professionali. I dati ottenuti indicano che le cellule microgliali BV2 possiedono una forte attività battericida in vitro nei confronti dello S. pneumoniae, e che tale attività è
influenzata significativamente dalla presenza di PspC. Il ceppo selvaggio HB565 risulta infatti meno suscettibile del mutante
isogenico FP20 al killing da parte della linea microgliale. Il fatto nuovo di questa evidenza è che la resistenza mediata da PspC
è indipendente dalla presenza del C e quindi non presuppone il suo legame con il fattore H, un meccanismo questo usato dal
batterio per prevenire l’attacco da parte del sistema del C. Studi al microscopio elettronico hanno mostrato che cellule microgliali BV2 legano il ceppo parentale HB565 meno efficientemente del mutante FP20; inoltre, in seguito a stimolazione con il
ceppo HB565, esse producono livelli di citochine proinfiammatorie, quali TNF-α, MIP-2 ed ossido nitrico, significativamente
più bassi di quelli osservati con il mutante FP20. Questi risultati dimostrano che a) in assenza di C le cellule microgliali BV2
sono in grado di uccidere efficacemente S. pneumoniae in vitro e b) la presenza di PspC ne riduce la capacità battericida, così
come quella secretoria. Tali evidenze suggeriscono che PspC svolge un ruolo patogenetico importante nella interazione diretta
tra S. pneumoniae e la microglia.
Lavoro in parte finanziato con fondi ministeriali (COFIN 2003)
RUOLO ESERCITATO DAL LISATO BATTERICO ISMIGEN NEL MODULARE LA RISPOSTA IMMUNOLOGICA DEL PAZIENTE RINITICO ALLERGICO
A.M. Cuffini, G.Banche, J.Roana, C.Migazzo,, T.Musso, V.Tullio, A.Angeretti, G.P.Cavallo*, M.Garzaro*, D.Ungheri°, N.A.
Carlone
Dipartimento di Sanità Pubblica e Microbiologia, Università degli Studi di Torino; *AO S.Giovanni Battista, Torino;°Direzione
Medica Zambon Italia
La liberazione di citochine di tipo Th2 caratterizza le fasi tardive della risposta allergica: IL-4 è essenziale per lo switching isotipico verso la produzione di IgE, mentre la liberazione di IFN-γ ad opera di linfociti Th1 inibisce la produzione di citochine
Th2. Poiché è noto che stimoli antigenici di diversa natura indirizzano la differenziazione linfocitaria T in Th1 o Th2, in questo
studio si è valutata l’influenza della somministrazione orale del lisato batterico Ismigen sull’induzione di eventuali cambiamenti
del profilo immunologico di soggetti allergici afferenti alla I Divisione ORL, AO S.Giovanni Battista, Torino. I pazienti sono
stati selezionati in base all’anamnesi, esame obiettivo ORL, prove allergometriche epicutanee per allergeni inalatori. Prima del
trattamento (To), il protocollo ha previsto la valutazione clinica dei sintomi, i saggi per la valutazione dei livelli sierici di IgE
mediante tecniche immuno enzimatiche, il prelievo, l’estrazione dei monociti (PBMC) e il rilascio di IL-4 e IFN-γ. In seguito
alla somministrazione del lisato batterico Ismigen per tre mesi consecutivi (T3), si è proceduto alla determinazione dei livelli
sierici di IgE, alla valutazione clinica dei sintomi e allo studio del rilascio delle citochine da parte dei PBMC. I risultati ottenuti al To hanno evidenziato che la maggior parte dei soggetti rinitici hanno rilasciato IFN-γ e non IL-4 con livelli normali di
IgE; alcuni non hanno espresso né IFN-γ né IL-4; altri hanno rilasciato entrambe; solo un terzo dei pazienti ha presentato valori di IgE elevati. Dopo i tre mesi di trattamento(T3), i livelli sierici di IgE sono rimasti inalterati. I pazienti, che esprimevano
IFN-γ e non IL-4, hanno continuato a rilasciare solo IFN-γ e non IL-4, ma con assenza di sintomatologia; quelli che al To non
avevano rilasciato né IFN-γ né IL-4, in seguito al trattamento hanno espresso IFN-γ e non IL-4, presentando un miglioramento
delle condizioni di salute. Il dato più interessante è relativo ai pazienti che al To rilasciavano entrambe le citochine: dopo i tre
mesi questi soggetti non rilasciavano più IL-4, mentre continuavano ad esprimere IFN-γ, mostrando una netta riduzione della
reattività allergica. La terapia con Ismigen potrebbe costituire dunque un metodo per “riorientare” la differenziazione linfocitaria T in senso anti-allergico.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
133
SVILUPPO E MESSA A PUNTO DI VACCINI A DNA MULTIGENICI CONTRO LA TUBERCOLOSI.
Giovanni Delogu1, Cinzia Pusceddu1,2, Stefania Zanetti2, Giovanni Fadda1.
1Istituto di Microbiologia, Università Cattolica, Roma; 2Dipartimento di Scienze Biomediche, Università di Sassari.
Lo sviluppo e messa a punto di un nuovo e più efficace vaccino rappresenta la migliore strategia per contrastare l’epidemia di
tubercolosi che miete ogni anno oltre due milioni di vittime, prevalentemente nei paesi in via di sviluppo. Negli ultimi anni le
tecniche di vaccinazione a DNA sono state applicate con successo anche alle infezioni da M. tuberculosis ed i risultati incoraggianti ottenuti in modelli animali hanno stimolato ulteriori studi. Recenti studi hanno dimostrato come una risposta immunitaria efficace e simile a quella indotta da BCG possa essere ottenuta solo mediante una vaccinazione con una combinazione di
antigeni.
Al fine di sviluppare vaccini a DNA più potenti di quelli oggi in uso ed in grado di esprimere un unico antigene, sono stati messi
a punto dei costrutti che esprimono due o più antigeni di M. tuberculosis. In sistemi in vitro abbiamo verificato e dimostrato
che gli antigeni vengono correttamente espressi e che è possibile modulare il turnover intracellulari di tali antigeni.
Topi C57Bl/6 sono stati immunizzati con tali costrutti per 3 volte a tre settimane di intervallo. L’efficacia dei vaccini a DNA è
stata determinata nel modello di TB murino, dove i topi immunizzati sono stati infettati per via aerogenica. Quattro settimane
dopo l’infezione l’attività protettiva dei vaccini in studio è stata determinata misurando la colonizzazione nel polmone e nella
milza. I dati ottenuti indicano che è possibile ottenere livelli di protezione efficaci con i vaccini a DNA in studio e che è possibile ottenere un effetto sinergico tra vaccini a più componenti. Tali risultati si sono dimostrati promettenti e ci incoraggiano a
proseguire nello sviluppo di tali strategie profilattiche contro la TB.
MECCANISMI DI RESISTENZA AL COMPLEMENTO IN LEPTOSPIRE: BINDING DEL FATTORE H
P. Stefanela,T. Merib, S. Merib,R. Murgiaa, M. Cincoa
a Laboratorio Spirochete, Università di Trieste, Trieste, Italia
b Dipartimento di Batteriologia e Immunologia, Instituto Haartman, Università di Helsinki, Helsinki, Finlandia
Le Leptospire, agenti eziologici della leptospirosi, sono microorganismi invasivi che danno setticemia, suggerendo in tal modo
d’essere capaci di evadere una componente importante dell’immunità innata dell’ospite, quale il complemento. In questo studio
abbiamo analizzato i meccanismi che sono alla base della siero-resistenza, (i) determinando la sensibilità di leptospire patogene
e non-patogene verso il complemento (C), (ii) analizzando il pattern d’attivazione e inattivazione del frammento complementare
C3 sui ceppi risultati sensibili e resistenti e (iii) misurando la deposizione degli ultimi frammenti complementari generati nel
corso dell’attivazione sulla superficie batterica.
La sensibilità delle Leptospire è stata saggiata a diverse concentrazioni di siero (NHS). I ceppi che sono risultati completamente
sensibili appartengono ai serovars non patogeni, mentre i ceppi patogeni, isolati da mammiferi, si sono dimostrati totalmente o
parzialmente resistenti. La deposizione dei frammenti del complemento C3, C5, C6, C8 e C5b-9 sulla superficie di leptospire
patogene e non-patogene è stata analizzata attraverso tecniche d’immunofluorescenza e immunoenzimatica (ELISA). Sia i ceppi
sensibili che resistenti hanno legato il frammento C3, mentre i componenti terminali sono stati rinvenuti solo sulla superficie
dei ceppi sensibili. Dal momento che il più importante regolatore della via alternativa è il fattore H, il quale inibisce la cascata
complementare trasformando il C3b in un prodotto d’inattivazione iC3b, è stato valutato il binding di questo fattore sulla superficie delle Leptospire. I ceppi totalmente e parzialmente resistenti hanno legato maggiormente il fattore H rispetto a quelli sensibili.
In conclusione questo studio ha evidenziato come il legame del fattore H sia correlato con la siero-resistenza delle Leptospire.
Keywords: Leptospire; Resistenza al complemento
134
32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
RUOLO DI αvß3 NELL’INGRESSO E NELLA PERMANENZA DI C. PNEUMONIAE NELLA CELLULA
OSPITE
Scaglione F, Grosso S, Caronzolo D, Lucini V, Pannacci M, Colleoni F, Mattina R.*
Dipartimento di Farmacologia, Università degli Studi di Milano;
* Istituto di Microbiologia, Università degli Studi di Milano.
L’obiettivo del lavoro è stato quello di studiare i possibili meccanismi molecolari, coinvolti nell’ingresso e nella sopravvivenza di C. pneumoniae nella cellula ospite. Questo batterio, intracellulare obbligato, è un comune patogeno umano responsabile di infezioni del tratto respiratorio (faringiti, bronchiti, sinusiti e polmoniti atipiche) e recentemente anche implicato nello sviluppo di patologie multifattoriali quali asma
ed aterosclerosi. Sulla base di dati riportati in letteratura e di nostri risultati preliminari, si è ipotizzato che l’integrina αvß3 potesse essere
implicata nell’ingresso e nella sopravvivenza del microrganismo nella cellula ospite.
Per verificare questa ipotesi, sono stati effettuati test di proliferazione e di apoptosi nei quali cellule Hela, infettate con concentrazioni crescenti di C. pneumoniae, sono state trattate con PEX, molecola capace di bloccare la dimerizzazione di αvß3. In vitro, sono stati, inoltre, sviluppati modelli di infezione sperimentali per valutare il possibile ruolo dell’integrina durante il processo infettivo e per testare l’efficacia di
molecole in grado di inibirne l’attivazione. Cellule Hela ed Hep-2 sono state infettate con C. pneumoniae in presenza sia di specifici anticorpi, sia di molecole in grado di bloccare l’attivazione di αvß3 e anche della stessa integrina in forma solubile. Infezioni sperimentali sono state
anche condotte in vitro su cellule CHODHFR, che normalmente non esprimono αvß3, e che sono state transfettate (CHODHFR+ αvß3) in
modo da presentare l’integrina in superficie. L’efficacia di PEX in confronto con azitromicina e rifampicina, due chemioterapici molto efficaci contro questo patogeno, è stata valutata, anche in vivo, in un modello murino di polmonite da C. pneumoniae.
I risultati ottenuti hanno evidenziato un diverso comportamento delle cellule infette rispetto alle non infettate. Il blocco della proliferazione
indotto da PEX risulta essere inferiore nelle cellule contenenti C. pneumoniae (10/20%) rispetto a quelle non infettate (circa 35%); mentre,
nei test di apoptosi (Caspase assay e Apoptag) le cellule infette si sono dimostrate più resistenti allo stimolo apoptotico, indotto da PEX, rispetto a quelle non infettate. Sempre in vitro si è rilevato come, sia in presenza di anticorpi specifici che con molecole in grado di bloccare l’attivazione dell’integrina, sia possibile contrastare l’infezione. Le CHODHFR non esprimendo αvß3 si sono dimostrate notevolmente meno
suscettibili (P<0.001) all’infezione rispetto alle medesime cellule transfettate. In vivo, i topi trattati con PEX hanno evidenziato un numero di
IFU/polmone significativamente più basso rispetto al controllo (P<0.001), e sostanzialmente uguale a quello dei topi trattati con gli antibiotici (P>0.05). In conclusione l’interazione C. pneumoniae-αvß3 sembra fortemente coinvolta nell’ingresso del germe nella cellula.
MANNOPROTEINE DA C. NEOFORMANS FACILITANO LA MATURAZIONE E L’ATTIVAZIONE DI
CELLULE DENDRITICHE.
D. Pietrella, C. Corbucci , F. Bistoni ,A. Vecchiarelli
Dipartimento di Medina Sperimentale Università degli Studi di Perugia
Recentemente abbiamo evidenziato che due Mannoproeine (MPs) da C. neoformans erano in grado di indurre risposte protettive verso C. neoformans e C. albicans. In questo lavoro abbiamo analizzato l’effetto di MPs sulla maturazione e l’attivazione di Cellule Dendritiche (CD) . La maturazione è stata valutata mediante la determinazione dell’incremento dell’espressione delle molecole costimolatorie come il CD40, CD86, CD83, MHC classI e classII e della diminuzione dell’espressione di
CD14, CD32 ,CD16. I risultati ottenuti mostrano che MPs inducono la maturazione di CD a che tale processo è almeno in parte
mediato dall’interazione di MPs con i recettori per il mannosio e richiede l’internalizzazione e la degradazione di MPs . Inoltre
MPs inducono la secrezione di IL-12 e TNF mediante il loro legame con i recettori per il mannosio, ma non è necessaria la loro
internalizzazione. Inoltre le DC stimolate con MPs inducono l’attivazione di cellule T CD4+ e CD8+.
In conclusione abbiamo evidenziato un nuovo ruolo per MPs che supporta il possibile utilizzo di tali antigeni per la preparazione di un vaccino contro le infezioni fungine.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
135
LA PRESENZA DI MYCOPLASMA HOMINIS IN TRICHOMONAS VAGINALIS MODULA LA RISPOSTA
PROINFIAMMATORIA MONOCITARIA NEI CONFRONTI DEL PROTOZOO
Daniele Dessì, Paola Rappelli, Speranza Masala, Giovanna Sanciu, Pier Luigi Fiori.
Dipartimento di Scienze Biomediche, Sezione di Microbiologia Sperimentale e Clinica, Università degli Studi di Sassari.
Il protozoo Trichomonas vaginalis causa la tricomoniasi, la malattia non virale a trasmissione sessuale più diffusa al mondo. Il
danno tissutale all’ospite umano, oltre ad essere determinato dall’azione diretta di molecole protozoarie quali perforine e proteasi con azione specifica nei confronti del citoscheletro della cellula ospite, vede tra le sue cause anche una massiccia risposta
infiammatoria locale.
Studi condotti dal nostro gruppo hanno dimostrato come T. vaginalis stabilisca un rapporto simbiotico con un batterio patogeno a trasmissione sessuale, Mycoplasma hominis. In questo lavoro è stata caratterizzata l’interazione in vitro tra T. vaginalis e
la linea monocitaria umana THP-1, ed in particolare è stato approfondito il ruolo del simbionte Mycoplasma hominis nella
modulazione della risposta delle cellule fagocitiche al protozoo. I macrofagi, stimolati mediante T. vaginalis naturalmente privi
di micoplasmi, secernono una serie di citochine e chemochine proinfiammatorie (IL-1ß, TNF-alfa, IL-8, IL-12, ma non IL-6);
la secrezione di queste molecole risulta decisamente aumentata quando i macrofagi vengono stimolati con lo stesso isolato protozoario infettato con M. hominis. Nei nostri esperimenti non è stata osservata secrezione della citochina anti-infiammatoria IL10. Esperimenti di Electrophoretic Mobility Shift Assay (EMSA) hanno dimostrato la traslocazione nucleare del fattore di trascrizione NF-κB, indicando come quest’ultimo possa essere coinvolto nell’attivazione dei geni che mediano la risposta proinfiammatoria macrofagica. L’osservazione di una significativa risposta proinfiammatoria in vitro all’infezione da T. vaginalis,
associato o meno a M. hominis, indica che monociti/macrofagi possono, in vivo, contribuire alla risposta infiammatoria osservata durante la tricomoniasi. Inoltre, l’aumento della secrezione di citochine proinfiammatorie quando i macrofagi vengono stimolati con protozoi infettati con M. hominis suggerisce per il batterio un ruolo nella modulazione della patogenesi e della risposta immune alle infezioni da T. vaginalis.
LA RESISTENZA DI TRICHOMONAS VAGINALIS ALLO STRESS DA OSSIDO NITRICO E’ LEGATA
ALL’ESPRESSIONE DI UNA FLAVOPROTEINA DI TIPO A (FLAVORUBREDOXINA)
Pier Luigi Fiori1, Paolo Sarti2, Giovanna Sanciu1, Elena Forte2, Paola Rappelli1, Miguel Teixeira3, Daniela Mastronicola2,
Eric Viscogliosi4, Alessandro Giuffrè2, Maurizio Brunori2
1Dipartimento di Scienze Biomediche, Sezione di Microbiologia Sperimentale e Clinica, Università degli Studi di Sassari;
2Dipartimento di Scienze Biochimiche, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”; 3Instituto de Tecnologia Quimica e
Biologica, Universidade Nova de Lisboa, Oeriras, Portugal; 4Institut Pasteur de Lille, Equipe Evolution et Développement des
Parasites, Lille, France.
La produzione di ossido nitrico (NO) gioca un ruolo fondamentale nel controllo delle infezioni, e molti microorganismi hanno
evoluto vari meccanismi per sfuggire alla tossicità dell’NO prodotto dalle cellule del sistema immune. Il protozoo flagellato
Trichomonas vaginalis è frequente causa di vaginiti che spesso evolvono in infezioni croniche in un ambiente microaerofilo, nel
quale deve resistere ad elevate concentrazioni di NO. I nostri risultati dimostrano che il protozoo è in grado di resistere all’effetto tossico dell’NO, degradandolo enzimaticamente in condizioni anaerobie. L’attività enzimatica è massima (133 ± 41 nmol
NO/108 cellule per minuto a 20° C) a basse concentrazioni di NO (≤ 1.2 µM). Le caratteristiche principali di questa attività sono
la dipendenza dalla presenza di NADH, l’insensibilità al cianuro e l’inibizione da ossigeno. Questi dati sembrano indicare l’espressione nel protozoo di una flavoproteina di tipo A (ATF): questa nuova classe di enzimi in grado di ridurre NO (chiamati
flavorubredoxine) è stata dimostrata recentemente in Escherichia coli, ma è presente in diverse specie batteriche. Questo risultato è stato confermato dall’uso di anticorpi contro la forma ricombinante di ATF di E.coli, mediante tecniche di immunoblotting.
Poiché le ATF sono enzimi caratteristici dei procarioti, i nostri risultati dimostrano che il protozoo T.vaginalis durante la sua
evoluzione nell’ospite umano ha acquisito geni batterici mediante trasferimento laterale; questi geni hanno permesso una migliore adattabilità all’ambiente vaginale microaerofilo e ricco di NO. Recentemente, i risultati derivati dal progetto di sequenziamento dell’intero genoma di T.vaginalis, sembrano confermare la presenza di geni ortologhi per ATF, che presentano omologia
elevata con geni di Archea. Esperimenti di Real-Time PCR sono in corso per valutare il ruolo dell’espressione di tali geni nella
risposta allo stress nitrosativo.
136
32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
IMMUNOCOMPLESSI CIRCOLANTI (IC) IN PAZIENTI HCV POSITIVI
E. Riva1, F.Bambacioni1, F. Maggi2, R. Burioni3, M. Clementi3, G. Antonelli4, F. Dianzani1. 1Università Campus Bio-Medico,
Roma, 2Università di Pisa, Pisa, 3Università Vita-Salute San Raffaele, Milano, 4Università La Sapienza, Roma.
L’infezione da virus dell’epatite C (HCV) è ampiamente diffusa e ritenuta, almeno nel mondo occidentale, la principale causa
di epatopatia cronica. Diversi studi suggeriscono che la risposta cellulo-mediata, ed in particolare i linfociti T e le chemiochine, svolgano un ruolo rilevante nell’induzione del danno epatico HCV-correlato. Meno chiaro risulta tuttavia il ruolo esercitato
dalla risposta umorale in questo contesto. Lo scopo dello studio è quello di valutare se alcuni marcatori dell’ospite, ed in particolare la presenza di IC, possano essere correlati in generale con il decorso dell’infezione cronica del virus dell’epatite C ed in
particolare con i marcatori virologici dell’infezione. La presenza di IC è stata valutata in 45 soggetti con infezione cronica da
HCV, eterogenei per genotipo e mai sottoposti a terapia. Gli IC presenti nel plasma sono stati isolati tramite adsorbimento su
biglie magnetiche rivestite con proteina A. La quota di virus adsorbito e non è stata valutata determinando quantitativamente
l’HCV-RNA legato ad ogni singolo passaggio sulle biglie o presente nel campione raccolto dopo l’ultimo adsorbimento. I risultati mostrano che la maggior parte del virus è legato ad anticorpi (Ab) in forma di IC circolanti con una percentuale maggiore
in pazienti con genotipo 1b. Tali dati suggeriscono una correlazione tra quantita’ di IC circolanti e genotipo di HCV mentre non
si rileva una correlazione con la carica virale al “baseline”. Lo studio degli Ab presenti negli IC tramite WB ha dimostrato che
la reattività nei confronti delle diverse proteine di HCV risulta invariata in termini qualitativi e moderatamente ridotta in termini quantitativi rispetto al campione di partenza (plasma non trattato). Sono attualmente in corso gli studi relativi alla caratterizzazione degli Ab anti E2 presenti negli IC e degli IC in pazienti con infezione acuta da HCV al fine di verificare se esistano
differenze (sia quantitative che qualitative) nelle diverse fasi dell’infezione e se eventualmente queste possano essere correlate
con un diverso andamento dell’infezione.
Riteniamo che lo studio della presenza e della frequenza di IC nell’infezione da HCV nonché la loro caratterizzazione “ex vivo”
possa avere importanti risvolti patogenetici soprattutto se si considera che l’assenza di un sistema efficace di infezione “in vitro”
ha reso fino ad oggi difficile lo studio degli Ab neutralizzanti anti-HCV e la loro caratterizzazione.
MECCANISMI DI PERSISTENZA DEGLI ENTEROCOCCHI NELL’AMBIENTE ACQUATICO: STUDI
SULL’ADESIONE DI ENTEROCOCCUS FAECALIS AI COPEPODI.
Gloria Burlacchini, Caterina Signoretto e Pietro Canepari
Dipartimento di Patologia, Sezione di Microbiologia dell’Università di Verona.
Nostre ricerche molto recenti hanno dimostrato che gli enterococchi persistono nelle acque lacustri e marine prevalentemente in
forma vitale ma non coltivabile (VBNC) ed adesi agli organismi che costituiscono lo zooplancton (prevalentemente composto
di copepodi). In questo lavoro esaminiamo nel dettaglio i meccanismi di adesione degli enterococchi ai copepodi e le conseguenze che ne derivano sulla fisiologia microbica. E’ stato osservato che l’adesione ai copepodi determina una più rapida
evoluzione di E. faecalis verso lo stato VBNC rispetto ai corrispondenti batteri in fase planctonica. La adesione alla sola chitina (il componente principale dell’esoscheletro dei copepodi), invece, consente il mantenimento della coltivabilità batterica per
tempi assai più lunghi. Si è, inoltre, determinata l’efficienza di adesione di E. faecalis sia ai copepodi che alla chitina. La maggior efficienza di legame è stata osservata in cellule di E. faecalis in fase stazionaria rispetto alle cellule in fase di crescita esponenziale, mentre le cellule VBNC, seppure con grado lievemente minore, mantengono egualmente capacità adesiva sia per i
copepodi che per la chitina. Batteri uccisi con U.V. ed invecchiati per 20 giorni in acqua di lago riducono drammaticamente la
capacità adesiva ai copepodi, indicando che il potere adesivo degli enterococchi si esplica esclusivamente in cellule vitali.
L’adesione di E. faecalis ai copepodi è risultata inibita da specifici zuccheri (N-acetil-glucosamina e mannosio), dimostrando in
tal modo il coinvolgimento di ligandi batterici appartenenti alla famiglia delle lectine. A livello molecolare, sono state individuate quattro proteine della parete di E. faecalis responsabili del legame alla chitina. Contemporaneamente si è dimostrato anche
il coinvolgimento dell’acido lipoteicoico in tale legame. Questi risultati di laboratorio anche alla luce dei più recenti dati sui
meccanismi di sopravvivenza dei batteri patogeni nell’ambiente sostengono fortemente la necessità dell’adeguamento dei metodi di prelievo dei campioni d’acqua e dei test microbiologici applicati alla ricerca dei patogeni e degli indicatori fecali nell’ambiente in quanto il solo metodo colturale si dimostra non più adeguato per la protezione della salute umana.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
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ADESIONE A SUBSTRATI CONTENENTI CHITINA E ATTIVAZIONE DELLO STATO VITALE MA
NON COLTIVABILE IN VIBRIONI ISOLATI DALLE ACQUE MARINE.
R. Tarsia, M. Zampinia, A. Bacciagliaa, G. C. Schitob, C. Pruzzoc.
Istituto di Microbiologia e Scienze Biomediche, Università Politecnica delle Marchea, DiSCATb e DIBISAAc, Università degli
Studi di Genova
I vibrioni sono microrganismi indigeni dell’ambiente acquatico la cui sopravvivenza nel mare è facilitata dalla capacità di formare biofilm su diversi substrati biotici e abiotici e di attivare lo stato “vitale ma non coltivabile (VBNC)”. In studi precedenti
abbiamo dimostrato che l’adesione dei vibrioni alla chitina è mediata da proteine di superficie che interagiscono con residui di
N-acetil glucosamina, il monomero che costituisce la chitina. In alcune specie di vibrioni tali proteine presentano anche attività chitinasica; senza questa attività microbica le acque sarebbero in breve tempo impoverite di carbonio e azoto biodisponibili.
In questo lavoro abbiamo approfondito gli studi sull’interazione dei vibrioni con superfici contenenti chitina analizzando diversi ceppi isolati nel Mar Ligure e nel Mar Adriatico nel corso di due campionamenti avvenuti nel 1990/91 (n ceppi = 44) e nel
2001/02 (n ceppi = 20). Sono state analizzate specie strettamente ambientali (V. nereis, V. anguillarum e V. splendidus) e potenzialmente patogene (V. cholerae non O1/O139, V. vulnificus, V. parahaemolyticus, V. alginolyticus e V. metschnikovii). Tutti i
ceppi esaminati si sono mostrati in grado di aderire ai substrati in esame (particelle di chitina e copepodi Tigriopus fulvus) sebbene con diverse efficienze; gli isolati più adesivi nei confronti delle particelle di chitina hanno mostrato valori di adesione elevati anche nei confronti dei copepodi. Proteine leganti la chitina (PM compreso tra 17 e 80 kDa) ed attività chitinasica sono state
messe in evidenza in tutti gli isolati. Un ceppo di ogni specie è stato incubato in acqua di mare artificiale a 15°C, con e senza
chitina, per un periodo di 30 giorni durante il quale è stato analizzato il numero di unità formanti colonia e, mediante colorazioni specifiche, la vitalità cellulare. I risultati ottenuti hanno dimostrato che, in presenza di chitina, le percentuali di batteri coltivabili e VBNC rispetto ai totali erano, nel corso dell’incubazione, sempre superiori a quelle dei controlli senza chitina Questo
lavoro suggerisce che la formazione di biofilm su superfici contenenti chitina prolunga la persistenza dei vibrioni nelle acque
marine in forma attiva, coltivabile e VBNC.
TRATTAMENTO IN FASE SOLIDA DI UN SUOLO INQUINATO DA IDROCARBURI POLICICLICI
AROMATICI E DA IDROCARBURI LINEARI C>12
Andrea Guido Manfredini, Marco Negri, Massimo Pajoro, Anna Valle, Elisabetta Zanardini e Claudia Sorlini
Università degli Studi di Milano - Dipartimento di Scienze e Tecnologie Alimentari e Microbiologiche, Sez. Microbiologia
Agraria Alimentare ed Ecologica, Milano (Italy)
Il suolo oggetto di questa sperimentazione proveniva da una ex area industriale destinata alla produzione e lavorazione dell’acciaio. Tale substrato era stato precedentemente sottoposto ad un trattamento fisico di soil-washing e la parte più fine e più
inquinata era stata inviata in discarica. Il sopravaglio veniva sottoposto a trattamento biologico in biopila, con l’aggiunta di compost da RSU e sottoposto ad areazione forzata attraverso tubi forati posti sul fondo del cumulo.
Il piano sperimentale ha previsto l’allestimento di 5 biopile di 30 kg la cui matrice risultava composta da: suolo di sopravaglio
>2mm più compost da RSU (10% P/P). La biopila 1 è stata biostimolata (aggiunta di urea), bioaugmentata (inoculo di un consorzio idrocarburo degradante autoctono previamente selezionato dal suolo), e trattata con un desorbente (lecitina di soia); la
biopila 2, come la precedente, è stata biostimolata, bioaugmentata, e trattata con un desorbente costituito da un mix di ciclodestrine; la biopila 3 è stata solo biostimolata e bioaugmentata; la biopila 5 è stata solo biostimolata, mentre la biopila 4, avente
funzione di controllo, non presenta nessun trattamento. Le sperimentazione ha avuto una durata di 70 giorni con campionamenti
ogni 25 giorni: i campioni venivano sottoposti alla determinazione della carica dei batteri eterotrofi totali, dei batteri idrocarburo-degradanti e degli eumiceti; inoltre si eseguiva il monitoraggio dell’attività deidrogenasica e la capacità respiratoria della
matrice trattata, ed infine venivano sottoposti ad analisi chimica per valutare la concentrazione residua degli idrocarburi poliaromatici mediante cromatografia liquida ad alta risoluzione (E.P.A. 8310) e degli idrocarburi alifatici, C>12, mediante spettrometria infrarosso trasformata di Fourier FT-IR (E.P.A. 8440). Al 70° giorno di trattamento si è raggiunto il 90% di rimozione totale
degli inquinanti in tutti i tests con cinetiche differenti, nelle diverse biopile, in base al trattamento subito. Le cariche microbiche
degli idrocarburo degradanti si attestano su valori di 105 MPN/g p.s. quelle degli eterotrofi totali si attestano su valori di 107
MPN/g p.s. Nelle prove il tasso massimo di rimozione si è verificato tra il 50° ed il 70° giorno di trattamento, quando si registravano i valori massimi di attività deidrogenasica e respiratoria.
138
32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
STUDIO DELL’EVOLUZIONE IN “BATCH” DI COMUNITÀ MICROBICHE ESTRATTE DA SUOLI
NON CONTAMINATI E CONTAMINATI CON CROMATO.
Francesca Decorosi, Carlo Viti, Annalisa Mini, Luciana Giovannetti
DiBA-Sezione Microbiologia, Università degli Studi di Firenze
Il cromato, per il suo largo impiego in differenti attività industriali, è uno dei principali contaminanti del suolo. Tale forma di
ossidazione del cromo è pericolosa sia per la sua tossicità, mutagenicità e cancerogenicità sia per la sua elevata solubilità che lo
rende estremamente mobile nel suolo. E’ stato osservato che le comunità microbiche, in seguito alla presenza del cromato, possono subire modificazioni sia della loro struttura sia della loro attività metabolica. Allo scopo di approfondire l’effetto del cromato sulla frazione coltivabile delle comunità del suolo è stata studiata l’evoluzione in “batch” di popolazioni microbiche estratte da microcosmi di suolo contaminati e non con cromato.
Le comunità microbiche una volta estratte dal suolo sono state inoculate, previa standardizzazione dell’inoculo, in mezzo liquido e mantenute in condizioni di aerobiosi (vigorosa agitazione) o microaerofilia (stasi).
L’evoluzione delle comunità è stata monitorata per 10 giorni mediante determinazione delle UFC/ml e stima della biodiversità
tramite l’applicazione del coefficiente di biodiversità di Shannon-Wiener, calcolato sulla base dei morfotipi evidenziati dall’analisi delle colonie sviluppate nelle piastre utilizzate per le conte.
I dati ottenuti hanno messo in evidenza che l’accrescimento delle colture in stasi, come atteso, è più lento rispetto a quelle mantenute in movimento e che esiste una differente strategia di crescita tra la comunità microbica estratta dal suolo contaminato e
quella estratta dal suolo non contaminato.
L’analisi della biodiversità, basata sulla morfologia delle colonie e quantificata mediante l’indice di Shannon-Wiener, ha mostrato che in tutte le colture si ha un progressivo aumento della biodiversità, che raggiunge i livelli più elevati negli ultimi giorni di
monitoraggio. Complessivamente i risultati ottenuti mostrano che la presenza del cromato modifica la frazione coltivabile della
comunità microbica dei microcosmi tanto da alterarne l’evoluzione in “batch”.
Attualmente è in corso, mediante la tecnica t-RFLP, l’analisi della diversità genetica delle colture “batch” per individuare la presenza di eventuali taxa batterici selezionati dallo stress da cromato.
MONITORAGGIO DELLA FERTILITA’ DEL SUOLO ATTRAVERSO LO SCREENING DI ALCUNE
ATTIVITA’ MICROBICHE
Anna Valle, Pamela Abbruscato, Andrea Manfredini, Maurizio Zangrossi, Elisabetta Zanardini, Claudia Sorlini.
Università degli Studi di Milano – Dipartimento di Scienze e Tecnologie Alimentari e Microbiologiche, Sez. Microbiologia
Agraria Alimentare ed Ecologica, 20133 Milano (Italy)
La fertilità del suolo è strettamente collegata ai microrganismi sia per il loro contributo ai cicli degli elementi sia per le loro attività benefiche sulle piante e di “biocontrollo” sui patogeni. In particolare alcuni batteri che vivono liberi nella rizosfera sono
considerati estremamente importanti a causa della loro capacità di promuovere la crescita delle piante. Tra le attività plant
growth promoting rhizobacteria (PGPR) sono comprese la produzione di fitormoni, la solubilizzazione di sali insolubili, il rilascio di antibiotici e la fissazione dell’azoto molecolare. La scoperta che in alcuni casi le interazioni tra patogeni, PGPR e piante possono dipendere da un sofisticato sistema di comunicazione cell-cell noto con il nome di Quorum Sensing ha ulteriormente aumentato l’interesse scientifico. I segnali intercellulari più utilizzati tra i batteri Gram-negativi sono l’acyl homoserine lactones (AHLs) che coordinano l’espressione di particolari geni in modo strettamente dipendente alla densità di popolazione.
Le attività microbiche possono essere influenzate da differenti perturbazioni quali, eventi naturali, lavorazioni del suolo, fitofarmaci, xenobiotici e presenza di piante.
In questo lavoro sono state monitorate durante il ciclo colturale della soia, diverse attività PGPR e di biocontrollo. Un enorme
numero di batteri è stato isolato a tre tempi sequenziali da: suolo prima del trattamento (T0), suolo trattato con glifosate (T1), e
rizosfera di soia (T2), ottenendo una collezione di oltre 1000 differenti morfotipi. Tutti gli isolati sono stati testati per l’attività
nitrato e nitrito riduttasi, ureasica e fosfatasica, per la presenza di ACC deaminasi e per la produzione di acido indolacetico.
Inoltre tutti gli isolati sono stati testati anche per la produzione di AHLs e per la produzione di AHLs lactonase. Come risultato
di questo massiccio screening abbiamo ottenuto una rilevante collezione di positivi a due, tre o più attività. Alcuni isolati inoltre hanno presentato sia attività PGPR che produzione di AHLs. Le diverse percentuali di positivi rilevate ai diversi tempi (T0,
T1, T2) suggeriscono che questo tipo di monitoraggio può essere considerato un buon metodo per controllare la potenziale fertilità del suolo. In fine sono state trovate anche circa 20 fluorescent Pseudomonas.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
139
BATTERI METALLO-RESISTENTI CON CARATTERISTICHE PGP: RIDUZIONE DELLO STRESS
DA Cd IN PIANTE DI COLZA BATTERIZZATE
E. Dell’Amico, L. Terruzzi, M. Mazzocchi, L. Cavalca, V. Andreoni
Dipartimento di Scienze e Tecnologie Alimentari e Microbiologiche, Università degli Studi di Milano
La presenza nei suoli di metalli può influenzare negativamente la coltivazione di piante, inibendo sia la germinazione dei semi
che lo sviluppo radicale e la resa in biomassa. I batteri plant growth promoting (PGP) con attività ACC deaminasica sono in
grado di ridurre il livello di etilene indotto dalla presenza nel suolo di metalli pesanti. In questi batteri la presenza anche di altre
caratteristiche PGP ne amplia il potenziale di miglioramento della crescita della pianta, rendendo ad esempio più biodisponibile il ferro quando nel suolo sono presenti metalli od influenzando il bilancio ormonale della pianta. Diversi batteri metallo-resistenti, isolati da suoli rizosferici e non, sono stati testati per la capacità di deaminare 1-aminociclopropano-1-carbossilato (ACC),
di produrre acido indoloacetico (IAA) e siderofori. Di essi è stata quantificata la produzione di IAA e determinata l’attività ACC
deaminasica quando fatti crescere in presenza ed assenza di metalli modello (Cd, Ni, As, Cu). Con due isolati, Pseudomonas
tolaasii ACC23 e Mycobacterium ACC14 sono stati batterizzati semi di colza (Brassica napus L.) e condotte prove in vaso per
verificare l’effettiva capacità di promuovere la crescita in suolo sperimentalmente inquinato con 15 mg Cd kg -1. La batterizzazione dei semi di colza annullava o mitigava gli effetti tossici del Cd sulla sua crescita, aumentava lo sviluppo della biomassa ed il contenuto di clorofilla. Inoltre, con la batterizzazione, la colza accumulava nelle radici e nelle foglie quantità di Cd superiori a quelle accumulate dalla pianta non batterizzata.
Questi risultati possono essere indicativi della capacità dei batteri PGP di mitigare la tossicità dei metalli anche per piante metallo resistenti ed accumulatrici, permettendone la crescita in ambienti ad elevata contaminazione e di contribuire in sinergia con
le piante al risanamento dei suoli.
ANALISI DELL’AMPIEZZA DI SPECIE E SUE RICADUTE SULLA CONTINUITA’ E LA DISCRIMINABILITA’ DEI TAXA MICROBICI ELEMENTARI
Fabrizio Fatichenti, Laura Corte, Monia Lattanzi, Luca Papalini e Gianluigi Cardinali
Università degli Studi di Perugia
Dipartimento di Biologia Vegetale e Biotecnologie Agroambientali
La specie microbica non può essere definita mediante il Concetto Biologico di Specie o per la mancanza di sessualità o per la
discontinuità della sua espressione. Nasce quindi la necessità di sviluppare nuovi approcci di valutazione dei dati fenotipici per
poter discriminare sulla base della similarità relativa fra specie. Ciò è reso possibile dall’analisi delle specie microbiche mediante l’applicazione RHO, che permette di definire diversi parametri quali l’indice di ampiezza di specie e l’indice di confidenza
relativo all’omogeneità dei risultati dei ricampionamenti effettuati. Queste misure consentono di calcolare le dimensioni statistiche delle specie e la distribuzione dei ceppi al loro interno e, di conseguenza, la similarità relativa di ceppi in posizione marginale fra specie vicine.
Scopo del presente studio è l’impiego di RHO per avviare un’indagine sulla struttura delle specie microbiche, utilizzando come
modello alcuni lieviti ascomiceti. Ciò con la duplice finalità di indagare sulla natura della specie microbica, secondo un approccio morfologico e statistico, e di valutare le ricadute di tali analisi sui sistemi attualmente impiegati per identificare e caratterizzare le specie microbiche nei vari settori applicativi di interesse agroalimentare ed ambientale.
I risultati ottenuti dimostrano che esiste una notevole variabilità di ampiezza delle specie analizzate e che alcune di esse sono in
sostanziale continuità con le altre specie filogeneticamente vicine, tanto che la loro discriminazione diventa in qualche modo
soggettiva.
140
32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
APPLICAZIONE DELL’ANALISI CITOFLUORIMETRICA NELLA VALUTAZIONE DEI PARAMETRI
MORFO-FISIOLOGICI IN VIBRIO PARAHAEMOLYTICUS DURANTE L’EVOLUZIONE VERSO LA
FORMA VITALE MA NON COLTIVABILE (VBNC)
W. Baffone1, T. Falcioni2, R. Campana1, A. Manti2, A. Casaroli1, S. Papa2,3.
Istituto di Scienze Tossicologiche Igienistiche ed Ambientali1, Centro di Citometria e Citomorfologia2, Istituto di Scienze
Morfologiche3, Università di Urbino, Italy
Nella forma vitale ma non coltivabile (VBNC) le cellule batteriche modificano la loro morfologia e le loro attività fisiologiche.
Nel presente lavoro abbiamo applicato l’analisi citofluorimetrica per valutare i cambiamenti morfo-fisiologici di un ceppo di V.
parahaemolyticus durante l’evoluzione verso la forma VBNC.
Il ceppo batterico mantenuto in specifico microcosmo sino all’acquisizione dello stato VBNC è stato monitorato ogni 3 giorni
per valutare: i) la conta totale mediante coloranti di acidi nucleici sia in epifluorescenza che in citometria; ii) la conta totale con
una tecnica di immunofluorescenza con uno specifico anticorpo primario associato ad un anticorpo secondario coniugato FITC
e successiva lettura in epifluorescenza ed in citometria; iii) l’attività respiratoria mediante la colorazione con CTC sia in citometria che in epifluorescnza; iv) le modificazioni della morfologia delle cellule tramite analisi citofluorimetrica ed osservazione in microscopia ottica.
Le conte dirette realizzate in citofluorimetria (FCM) hanno dimostrato una miglior precisione rispetto alle conte in epifluorescenza ed entrambe sono risultate superiori alle classiche CFU. Nel caso della marcatura con anticorpi le conte in citometria
dimostrano un ordine di grandezza superiore rispetto alle conte in epifluorescenza ed inferiore rispetto alle conte con coloranti
per gli acidi nucleici. Per quanto riguarda le modificazioni morfologiche, l’FCM rivela un segnale di FSC (indicatore del volume cellulare) e SSC (relativo alla granularità cellulare) per V. parahaemolyticus in microcosmo inferiore rispetto alla coltura in
fase esponenziale. Il segnale di SSC inizia a diminuire già dalla prima settimana durante la quale tende a generarsi una seconda popolazione batterica con un SSC inferiore rispetto a quello di partenza, concordando con i dati ottenuti in microscopia ottica. L’incremento della granularità cellulare è dovuto al progressivo aumento del numero di cellule in VBNC già a partire dal
settimo giorno di monitoraggio del microcosmo.
L’applicazione dell’FCM ha permesso di osservare i cambiamenti morfo-fisiologici con risultati sovrapponibili a quelli delle
tecniche in microscopia ottica e a fluorescenza dimostrando di essere un’analisi più rapida e sensibile.
IDENTIFICAZIONE DI STREPTOCOCCUS PLURANIMALIUM IN PICCIONI DA ALLEVAMENTO
Tramuta1 C., Robino1 P. , Bert1 E., Bramato2 C., Fianchino2 B., Nebbia1 P..
1Dipartimento di Produzioni animali, Epidemiologia ed Ecologia -Università di Torino
2 Ambulatorio di malattie Infettive e Laboratorio di Microbiologia - Ospedale Amedeo di Savoia, Torino
Durante un controllo batteriologico volto a rilevare la presenza di streptococchi patogeni condotta su un piccolo allevamento
avicolo a conduzione familiare (prov. di Torino), è stato identificato Streptococcus pluranimalium. La ricerca era stata motivata da un caso di endocardite da Streptococcus gallolyticus (test di identificazione: Vitek 2) diagnosticata sul proprietario dell’allevamento.
I campioni prelevati dalle coane e cloache dei volatili presenti (10 piccioni, 6 galline e 4 oche) sono stati sottoposti a indagine
batteriologica per la ricerca di cocchi Gram positivi utilizzando un terreno selettivo (Columbia agar sangue CNA).
Tutti i campioni presentavano abbondante flora microbica, comprendente stafilococchi e streptococchi α e γ-emolitici. In particolare le colture a partire dalle coane di 4 piccioni evidenziavano piccole colonie non pigmentate, con α-emolisi, bordi regolari e diametro inferiore a 1 mm, catalasi negative. Al microscopio questi batteri apparivano di forma sferica e disposti in catenelle di varia lunghezza. Su colonie rappresentative è stato eseguito un test convenzionale miniaturizzato per il riconoscimento
fenotipico (BBL CRYSTALTM) ed è stato estratto DNA per l’identificazione genetica.
Il DNA è stato sottoposto ad amplificazione del gene 16S rRNA e sequenziato dopo purificazione dei prodotti di PCR.
Successivamente è stata eseguita una ricerca in banca dati (BLAST, NCBI) per la comparazione con sequenze note.
Mentre con il kit BBL non è stato possibile riconoscere i ceppi in esame, l’analisi delle sequenze ha identificato Streptococcus
pluranimalium in tutti i campioni.
E’ il primo isolamento documentato di Streptococcus pluranimalium in Italia. Si tratta di una specie identificata recentemente e
riscontrata in diversi organi di mammiferi e in canarini (ingluvie e polmoni) da Devriese e collaboratori (1999). All’interno del
genus la posizione filogenetica della sequenza del gene 16S rRNA di S. pluranimalium -da noi isolato- mostra una elevata omologia con S. suis (Chatellier et al., 1998) e S. minor (Vancanneytet et al., 2004), mentre è distante da quella di S. gallolyticus
(Chamkha et al., 2002). Riteniamo interessante proseguire con ricerche mirate al riconoscimento di questo microrganismo in
altre specie aviari per ottenere dati sia sul significato nosologico che sulla sua diffusione.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
141
ANALISI GENOMICA COMPARATIVA IN SEROVARS DI SALMONELLA ENTERICA MEDIANTE
MICROARRAYS E DNA-SUBTRACTION
Donatella Bacciu1, Steffen Porwollik2, Michael McClelland2, Giovanni Falchi1, Salvatore Rubino1, Sergio Uzzau1.
1 Dipartimento di Scienze Biomediche, Università di Sassari, Sassari
2 Sidney Kimmel Cancer Center, San Diego, California, USA
La sottospecie I di Salmonella enterica comprende sierotipi che, pur presentando un elevato grado di omogeneità genetica, sono
chiaramente distinguibili per il loro adattamento all’ospite animale. L’evoluzione dei caratteri di patogenicità di Salmonella
enterica e di altre specie batteriche si è accompagnata alla progressiva acquisizione di isole di patogenicità, profagi, sequenze
di inserzione e plasmidi. Nei sierotipi della sottospecie I di S. enterica, queste regioni di DNA hanno una diversa distribuzione,
che potrebbe corrispondere alla varietà di specie animali alle quali i serovars di Salmonella si sono adattati. Esempi importanti
del diverso grado di adattamento all’ospite in S. enterica sono il serovar Typhimurium, frequentemente associato con un gran
numero di specie animali, e il serovar Abortusovis, isolato unicamente negli ovini. In questo studio abbiamo compiuto un’analisi comparativa di loci genomici in serovar Abortusovis e serovar Typhimurium. I genomi di 7 ceppi diversi di Salmonella enterica sierotipo Abortusovis sono stati marcati ed ibridati su microarrays contenenti l’intero genoma sequenziato di S. enterica
sierotipo Typhimurium LT2. Il genoma di ceppi di entrambi i sierotipi sono stati confrontati, inoltre, mediante ibridizzazione/sottrazione genica allo scopo di identificare e clonare sequenze specifiche per ciascun sierotipo. I dati ottenuti dimostrano che i due
sierotipi sono sostanzialmente omogenei rispetto al “backbone” genomico, ma presentano anche importanti differenze relativamente al contenuto di loci di patogenicità potenzialmente coinvolti nel rispettivo profilo di adattamento alla specie animale
ospite.
TIPIZZAZIONE MOLECOLARE DI STIPITI DI LEGIONELLA PNEUMOPHILA SIEROGRUPPO 1
ISOLATI DA CAMPIONI CLINICI ED AMBIENTALI.
Barbaro R., Bonura C., Amato T., Di Stefano S., Calà C., Giammanco A.
Dipartimento di Igiene e Microbiologia, Università degli Studi di Palermo.
La tipizzazione di Legionella pneumophila sierogruppo 1 è necessaria per la definizione della fonte di contaminazione e delle
vie di diffusione del microrganismo, un’importante agente di polmoniti acquisite in comunità ed in ambiente ospedaliero. La
tipizzazione molecolare tramite AFLP (Amplified Fragment Length Polymorphism) è il metodo oggi consigliato dall’ EWGLI
(European Working Group on Legionella Infections) e tale metodo è stato da noi utilizzato per la caratterizzazione dei nostri
isolati.
I risultati fin qui acquisiti ci hanno consentito di escludere l’origine ospedaliera di un caso di legionellosi manifestatosi in un
paziente ricoverato per trauma toracico in reparto ad alto rischio; di differenziare stipiti isolati dallo stesso ambiente alberghiero e di dimostrare, tramite la loro variazione, l’efficacia degli interventi di bonifica; di evidenziare, infine, la presenza di stipiti
diversi in ambiente domestico.
Per confermare la diversità tra gli stipiti sono stati utilizzati quattro primers selettivi.
I dati da noi ottenuti sono conformi a quelli riportati in letteratura.
142
32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
CARATTERIZZAZIONE MOLECOLARE DI STIPITI DI HELICOBACTER
SOGGETTI CON PATOLOGIA GASTRICA.
PYLORI ISOLATI DA
C. Calà*, C. Bonura*, S. Dato*, S. Taormina*, G. Giuliana**, A. Giammanco*
* Dipartimento di Igiene e Microbiologia, Università degli Studi di Palermo.
** Chirurgia Toracica, (Resp, UOC Dr.A.Cusumano). Ente Ospedaliero di Sciacca.
Pur essendo noto da tempo che H. pylori esercita un ruolo patogeno a livello gastrico, non sono ancora ben definiti i meccanismi con cui il microrganismo entra in gioco nella eziopatogenesi della gastrite cronica di tipo B, delle ulcere peptiche e duodenali, del carcinoma gastrico e del MALT-linfoma.
Vengono considerati fattori predisponenti nell’evoluzione del carcinoma gastrico, sia la protratta risposta infiammatoria dell’ospite, sia la carica microbica e la persistenza del microrganismo.
Fra i fattori di virulenza microbica, quelli più frequentemente implicati nelle diverse patologie sono: le proteine della membrana esterna (OipA, HopZ, HopQ, SabA, SabB, BabA) verosimilmente responsabili dell’adesione all’epitelio gastrico, la tossina
vacuolizzante VacA induttrice anche dell’apoptosi e la proteina CagA ad elevato potere immunogeno.
Fra i fattori inducenti la risposta infiammatoria, oltre a CagA, un ruolo importante sembra svolgerlo la proteina NAP
(Neutrophil-Activating-Protein) che attiva i neutrofili e promuove la loro adesione alle cellule dell’endotelio.
I geni codificanti i fattori di virulenza sopra menzionati sono stati identificati e caratterizzati con metodi molecolari utilizzabili
per la valutazione delle potenzialità patogenetiche degli isolati e per lo studio delle loro possibili associazioni con quadri patologici di differente gravità.
Tali geni sono stati anche da noi ricercati, tramite PCR, in 16 stipiti di H.pylori isolati da pazienti ambulatoriali affetti da patologia gastrica di diversa entità (gastrite e ulcera gastrica). I risultati sono stati anche correlati con i quadri patologici.
CARATTERIZZAZIONE MOLECOLARE DI MICROORGANISMI IN SUOLI CONTAMINATI DA
IDROCARBURI MEDIANTE SEQUENZIAMENTO DEL 16S rDNA E ANALISI AFLP.
La Rosa1 G., De Carolis1 E., Sali1 M., Papacchini2 M., Riccardi2 C., Mansi2 A., Paba2 E., Alquati3 C., Bestetti3 G. e Muscillo1 M.
1 Istituto Superiore di Sanità, Roma. 2 Istituto Superiore per la Prevenzione e la Sicurezza del Lavoro, Monte Porzio Catone
(Roma) 3 Università
Territorio.
degli
Studi
di
Milano
Bicocca,
Dipartimento
di
Scienze
dell’Ambiente
e
del
Negli ultimi anni è cresciuta l’attenzione nei confronti delle tecniche per la bonifica di terreni contaminati, in particolare per i
metodi di biorisanamento che si avvalgono delle potenzialità metaboliche di specifici microrganismi per la degradazione di una
vasta gamma di inquinanti organici. In tale settore è fondamentale lo studio della composizione e della struttura delle comunità
microbiche coinvolte nei processi di degradazione dei contaminanti. Recentemente, le metodiche molecolari basate sull’uso
della tecnica PCR hanno trovato ampia applicazione, insieme alle tradizionali, nello studio dell’ecologia microbica del suolo.
In questo lavoro, nell’ambito di un progetto di biorisanamento, sono stati caratterizzati ceppi batterici isolati da suoli contaminati da idrocarburi mediante sequenziamento del gene codificante l’rRNA 16S per l’identificazione a livello di specie
e, successivamente, mediante AFLP (Amplified Fragment Length Polymorphism) per lo studio della variabilità genetica
intraspecifica.
I microrganismi sono stati isolati da campioni di suolo provenienti da due diverse aree industriali del centro Italia contaminate
da idrocarburi. Per l’amplificazione e il sequenziamento dell’intero gene codificante per l’rRNA 16S è stato utilizzato il kit
MicroSeq 16S rRNA gene sequencing. L’analisi AFLP è stata condotta in duplicato utilizzando la coppia di primer selettiva
EcoRI-A/MseI-CC.
Sono stati identificati 14 ceppi batterici: Alcaligenes xylosoxidans (5), Rhodococcus wratislaviensis (4), Microbacterium
paraoxidans (1), Pseudomonas putida (1), Bacillus firmus (1), Bacillus megaterium (1), Paenibacillus lautus (1). L’analisi
AFLP ha evidenziato polimorfismo intraspecie anche in campioni con sequenze 16S identiche al 100%.
I risultati ottenuti in questo studio mostrano una grande variabilità all’interno delle comunità microbiche e confermano l’importanza dei metodi molecolari nella identificazione e caratterizzazione degli isolati ambientali. La determinazione della diversità genetica presente in una comunità microbica con conseguente possibilità di individuare rapidamente ceppi con peculiari proprietà metaboliche potrebbe offrire un importante contributo allo studio delle comunità microbiche e del biorisanamento.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
143
PROPRIETA’ SIMBIOTICHE E DIVERSITA’ GENOTIPICA DI RIZOBI ISOLATI DA MEDICHE
ANNUE (MEDICAGO SPP.)
G. GarauA, J.G. HowiesonB, W.G. ReeveB, R. MarongiuA, M. CareddaA,R. TiwariB, G. O’HaraB e P. DeianaA
A Dipartimento di Scienze Ambientali Agrarie e Biotecnologie Agro-Alimentari, Università di Sassari , Sassari
B Centre for Rhizobium Studies, Murdoch University, Murdoch, WA 6150, Australia
Sinorhizobium meliloti e S. medicae sono specie batteriche edafiche in grado di stabilire una simbiosi azotofissatrice con specie
del genere Medicago. In un precedente lavoro ceppi appartenenti alle due specie sono stati identificati in prove di inoculazione
in serra nelle quali sono state utilizzate le specie M. sativa e la più discriminante M. polymorpha. Nonostante la possibilità di
identificare S. meliloti e S. medicae in base alle risposte fenotipiche (S. medicae fissa N2 con M. polymorpha) al momento mancano strumenti molecolari rapidi, affidabili e specifici in grado di discriminare tra le due specie. Poco note sono altresì le differenze a livello genico esistenti tra le due specie batteriche ed in particolare la presenza e distribuzione del gene lpiA (over-espresso a pH acido) già identificato nel ceppo commerciale acido-resistente WSM419.
Sulla base delle sequenze del 16S rDNA disponibili in GenBank per le diverse specie rizobiche sono stati progettati due primer
in grado di amplificare in maniera specifica i target dalle dimensioni attese. Il sequenziamento dei prodotti di PCR ha consentito di confermare la selettività dei primer e della reazione messa a punto. Tutti i risultati della 16S PCR hanno inoltre confermato la suddivisione dei ceppi precedentemente ottenuta nelle prove in serra.
Utilizzando una serie di primer specifici per la regione lpiA di WSM419 (identificato come S. medicae) abbiamo osservato come
questa regione sia sempre presente in tutti i ceppi di S. medicae indagati e non in S. meliloti. Prove di espressione genica hanno
altresì dimostrato un’over-espressione di lpiA a pH acido in tutti gli isolati di S. medicae transconiuganti (lpiAWSM419::gusA)
ma non in S. meliloti. La diversità genetica di tutti gli isolati testati è stata confermata mediante BOXA1R-PCR. I risultati ottenuti rafforzano l’ipotesi che le due specie batteriche siano legate a specie di Medicago adattate ed evolute in ambienti pedoclimatici caratterizzati da differenti pH. La messa a punto di una reazione di PCR specifica nel riconoscimento di S. meliloti e S.
medicae si propone come valida alternativa alle tecniche molecolari di riconoscimento basate su 16S rDNA-PCR e successiva
RFLP.
GENOTIPI ETEROGENEI DI S.MARCESCENS ASSOCIATI AD UN CLUSTER EPIDEMICO IN UN
REPARTO DI TERAPIA INTENSIVA NEONATALE.
Casolari C., Pecorari M., Fabio G., Sabbatini A.T., Gennari W., Piccinini L., Venturelli C.,La Regina N.,Leporati G., Cattani S.*,
Ferrari F.*,Rumpianesi F.
Dipartimento Integrato dei Servizi Diagnostici e di Laboratorio,*Dipartimento Integrato Materno Infantile, Azienda Policlinico
di Modena.
Negli ultimi anni S.marcescens è stata frequentemente associata a episodi epidemici in reparti di terapia intensiva neonatale.Lo
studio epidemiologico degli eventi condotto con i più recenti metodi molecolari consente di solito di identificare un clone
responsabile. Genotipi eterogenei di S.marcescens sono stati raramente documentati nel corso di un unico evento
(1,2).Descriviamo un cluster epidemico da S.marcescens in un reparto di terapia intensiva neonatale, nel corso del quale è stato
possibile verificare il coinvolgimento di più di un genotipo .
Complessivamente nell’arco di 18 mesi 27 pazienti sono risultati infetti o colonizzati.. Infezioni clinicamente rilevanti si sono
manifestate in 8 prematuri dei quali 4 con setticemia, in un caso mortale, 3 con infezione respiratoria, 1 con congiuntivite. Le
ricerche effettuate a livello dell’ambiente, delle strumentazioni e del personale al fine di documentare la fonte del microrganismo non hanno fornito alcun risultato.Lo studio molecolare effettuato con ERIC –PCR sugli isolati clinici di tutti i neonati coinvolti ha identificato 6 diversi profili, 3 dei quali più frequentemente repertati rispetto agli altri. Quattro diversi patterns hanno
caratterizzato i ceppi responsabili degli 8 casi clinici. Il primo genotipo riscontrato all’inizio dell’epidemia è stato di nuovo evidenziato dopo 14 mesi. Lo studio molecolare è stato allargato ad altri 16 ceppi di S.marcescens isolati nel corso di sepsi da
pazienti adulti ricoverati nello stesso arco di tempo in altri reparti di degenza. Anche questi isolati hanno fornito profili genetici estremamente eterogenei e comunque diversi da quelli riscontrati nei neonati. Con l’eccezione di uno, tutti i ceppi esaminati
hanno presentato lo stesso antibiotipo. La nostra osservazione conferma il possibile riscontro di genotipi eterogenei in episodi
epidemici da S.marcescens, già segnalato da altri autori. La stringenza del metodo di tipizzazione e una possibile variazione
genetica a partire da un unico clone (anche in seguito ai passaggi seriali in laboratorio) potrebbero influire sulla eterogeneità
riscontrata nei patterns. Il reperto di genotipi diversi in ceppi della stessa specie batterica non deve pertanto fare escludere un
possibile cluster epidemico.
Bibliografia 1.Cimolai N et al. Chest 1997;111:194-97. 2.Dorsey G et al. Infect Control Hosp Epidemiol 2000;21:465-9.
144
32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
VALUTAZIONE DELLA CIRCOLAZIONE DI CEPPI DI STENOTROPHOMONAS MALTOPHILIA
ISOLATI DA PAZIENTI CAMPANI CON FIBROSI CISTICA.
A.Lambiase, A.Lavitola,*V.Raia, M.Del Pezzo e F.Rossano.
Dipartimento di Biologia e Patologia Cellulare e Molecolare “L.Califano”
*Centro di Riferimento Regionale per la Fibrosi Cistica Facoltà di Medicina e Chirurgia. Università di Napoli “Federico II”
L’uso estensivo di chemioantibiotici, mirato soprattutto al controllo delle colonizzazioni e delle infezioni croniche sostenute da
P.aeruginosa, potrebbe essere una delle cause dell’incremento di isolamenti di S.maltophilia (SM) dal tratto respiratorio di pazienti con Fibrosi Cistica (CF) (1). Il management terapeutico del paziente colonizzato o in corso di infezione polmonare da SM
risulta complicato a causa della sua chemioresistenza (2). La conoscenza dell’ epidemiologia di questo germe può contribuire
alla comprensione del suo ruolo nell’infezione polmonare in CF, così da permettere lo sviluppo di strategie volte a prevenirne
l’acquisizione.
Obiettivi. In questa nota gli Autori riferiscono i dati preliminari di uno studio finalizzato alla valutazione della circolazione di
ceppi di SM tra pazienti afferenti al Centro di Riferimento Campano per la CF.
Materiali e metodi. Da maggio 2003 a maggio 2004 sono stati arruolati 267 pazienti. Da ognuno sono stati raccolti almeno 4
espettorati/anno, processati con esami microscopici e colturali. Gli isolati sono stati sottoposti ad identificazione biochimica
(Phoenix, BD) ed a test di chemiosensibilità “in vitro” con metodo in microdiluizione ed in agar-diffusione. La caratterizzazione
genotipica è stata eseguita mediante analisi dei polimorfismi per lunghezza dei frammenti di restrizione utilizzando la tecnica
di elettroforesi in campo pulsato (PFGE).
Risultati. Nel campione considerato, sono stati isolati 43 SM; più del 75% di questi ceppi mostra “in vitro” resistenza ad
aminoglucosidi, betalattamine, cefalosporine di III generazione, carbapenemi e chinoloni. Tutti i ceppi invece sono sensibili alla
colistina. L’analisi della macrorestrizione è stata effettuata su 23 isolati che mostrano tutti profili diversi.
Conclusioni. I risultati preliminari che emergono da tale studio concordano con i dati di letteratura dimostrando che vi sono cloni
multipli e multiresistenti di SM che possono infettare differenti pazienti CF appartenenti ad uno stesso Centro(3). L’elevata
eterogeneità potrebbe derivare dalla pressione selettiva effettuata dalle terapie antibiotiche su tale microrganismo mentre rimane
incerta la sorgente di tali ceppi (4).
1. Conway S. Am J Respir Med 2003;2(4):321-32 - 2. CF Found.: Annual Rep. 2002 - 3. Krzewinski J. J Clin Microbiol.
2001; 39(10):3597-3602 - 4. Caylan R.J.Infect.Dis.2004;57:37-40
CARATTERIZZAZIONE MOLECOLARE DI CEPPI DI MANNHEIMIA ISOLATI DA OVINI SICILIANI
S. Pecorella1, V. Di Marco2, I. Priolo2, F. Grimont3, P.A.D. Grimont3, M. Lefevre3, I. Vazzana2, G.M. Giammanco1.
1.Dipartimento di Igiene e Microbiologia “G. D’Alessandro”, Università di Palermo; 2. Istituto Zooprofilattico Sperimentale
della Sicilia “A. Mirri”, Palermo; 3. Institut Pasteur, Unité Biodiversité des Pathogènes Emergentes, Paris, Francia.
Attualmente vengono riconosciute cinque specie all’interno del genere Mannheimia. Tre di esse, M. haemolytica, M. granulomatis, e M. varigena sono patogene ed in grado di causare polmoniti, setticemie e mastiti in bovini ed ovini. Le restanti due, M.
glucosida, e M. ruminalis, sono considerate commensali, facenti parte della microflora residente del primo tratto respiratorio dei
mammiferi. Un totale di 16 isolati, ottenuti fra il 1998 ed il 2001 e provenienti da casi di mastite, infezioni polmonari e prelievi
effettuati alla macellazione in ovini siciliani, sono stati identificati come appartenenti al genere Mannheimia in base a caratteri
fenotipici. Questi ceppi sono stati sottoposti a caratterizzazione molecolare mediante sequenziamento dei frammenti genici codificanti per la RNA polimerasi di tipo b (rpoB) e per l’RNA ribosomico 16S (rrs). Il confronto delle sequenze ottenute con quelle
dei ceppi tipo appartenenti alle cinque specie conosciute ha permesso di attribuire in maniera non equivoca sei degli isolati alla
specie M. haemolytica, ed altri due a M. glucosida. Uno dei due ceppi di M. glucosida era stato isolato dal latte di un animale
affetto da mastite, mentre l’altro proveniva da un prelievo di tonsille effettuato al macello. L’albero filogenetico costruito sulla
base dei dati del sequenziamento ha mostrato che i restanti otto isolati, benché correlati con il ceppo tipo di M. glucosida, costituivano due cluster ben distinti rispetto ad esso e fra loro. I risultati preliminari dell’ibridazione DNA:DNA fra gli isolati e i
ceppi tipo delle varie specie lasciano spazio all’ipotesi che questi due cluster possano rappresentare nuove specie all’interno del
genere Mannheimia, poiché gli isolati analizzati hanno mostrato percentuali di identità del DNA genomico inferiori all’85%
rispetto ai ceppi tipo. I risultati di questo studio permettono di sostenere l’attribuzione di un ruolo patogeno nell’animale alla
specie M. glucosida e suggeriscono la presenza di una notevole variabilità genetica all’interno del genere Mannheimia.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
145
CARATTERIZZAZIONE DI CEPPI CLINICI DI STAPHYLOCOCCUS EPIDERMIDIS E AUREUS
FORMANTI BIOFILM ISOLATI DA DISPOSITIVI MEDICI IMPIANTABILI
Dezemona Petrelli, Paola Cappelletti, Stefania D’Ercole, Manuela Prenna, Valentina Verlengia, Luca A. Vitali, Claudia
Zampaloni e Sandro Ripa
Dipartimento di Biologia MCA, Cattedra di Microbiologia, Università degli Studi di Camerino
Negli ultimi anni, il crescente utilizzo di dispositivi impiantabili nella pratica medica, ha sollevato il problema dell’allarmante
aumento delle infezioni nosocomiali derivanti dall’interazione ospite-biomateriale. In particolare gli stafilococchi sono i microrganismi maggiormente implicati in questo tipo di infezioni.
Nel presente lavoro sono stati collezionati 76 ceppi di Staphylococcus epidermidis e 34 ceppi di Staphylococcus aureus isolati
da dispositivi medici impiantabili in vari ospedali del Centro Italia; su questa popolazione è stata valutata la diffusione delle
resistenze a penicillina, meticillina, eritromicina, e tetraciclina e la capacità di formare biofilm.
La sensibilità agli agenti antimicrobici è stata determinata in vitro mediante E-test, seguendo i criteri suggeriti dall’NCCLS. I
geni codificanti le resistenze agli antibiotici sopra elencati sono stati identificati tramite PCR: blaZ per la penicillina, mecA per
la meticillina, ermA, ermB, ermC e msrA per l’eritromicina e tetK e tetM per la tetraciclina.
L’abilità nel formare biofilm è stata stimata determinando: a) la diffusione dei geni: icaA, icaB, icaC, icaD, aap e atlE in S.epidermidis e icaA, icaD, pls e atl in S.aureus; b) la quantità di biomassa sviluppata su piastre di polistirene a 96 pozzetti mediante un saggio semi-quantitativo che prevede la colorazione con cristalvioletto delle cellule come descritto (Christensen et al.
1985); c) l’organizzazione del biofilm attraverso osservazione in microscopia.
I dati ottenuti mostrano un’ampia ed allarmante diffusione della resistenza, spesso multipla, nei confronti degli antibiotici studiati sia nello S.epidermidis che nell’aureus. Inoltre tutti gli isolati dello S.epidermidis sono in grado di sviluppare biofilm su
una matrice idrofoba, come dimostrato dai valori di biomassa; la capacità di accumulo osservabile nello S.aureus è invece inferiore. La maggior parte dei ceppi di entrambe le specie possiedono comunque uno o più determinanti specifici per la formazione del biofilm. Anche la struttura del biofilm osservata in microscopia mostra delle differenze nell’organizzazione generale delle
due comunità microbiche.
LOCALIZZAZIONE GENETICA DEL GENE MEFA NELLO STREPTOCOCCUS PYOGENES
ERITROMICINO-RESISTENTE
Stefania D’Ercole, Dezemona Petrelli, Claudia Zampaloni, Luca A. Vitali, Manuela Prenna, Sandro Ripa
Dipartimento di Biologia MCA, Cattedra di Microbiologia, Università degli Studi di Camerino
Gli Streptococchi di gruppo A (GAS) hanno sviluppato un meccanismo di resistenza all’eritromicina, mediato da un sistema
d’efflusso, che si è rapidamente diffuso in tutto il mondo. L’elemento genetico codificante per la pompa d’efflusso è il gene mefA
il quale sembra essere veicolato da diversi elementi mobili che ne giustificano la sua rapida ed ampia diffusione.
Recentemente alcuni di questi elementi genetici mobili sono stati caratterizzati ed in essi il punto di inserzione cromosomale di
mefA è stato individuato nel gene comEC. In questo studio abbiamo investigato la localizzazione genetica di mefA e del corrispondente vettore di trasferimento in una popolazione di GAS isolata in Italia.
La popolazione di Streptococcus pyogenes sotto indagine era costituita da 126 ceppi eritromicino-resistenti di fenotipo M, isolati da pazienti in età pediatrica affetti da faringingotonsillite.
Specifiche coppie di oligonucleotidi sono state disegnate ed utilizzate in PCR per amplificare: (i) il gene mefA; (ii) le regioni
fiancheggianti l’estremità 3’ e 5’ dell’elemento mobile; (iii) alcuni dei geni contenuti in tale elemento; (iv) il gene comEC.
Tutti gli isolati, come atteso, sono positivi al gene mefA. La caratterizzazione dell’elemento genetico mobile mostra che circa il
15% degli isolati possiede tale elemento inserito all’interno del gene comEC. Nel 10% dei ceppi i risultati di PCR mostrano che
l’elemento mobile possiede all’ estremità 5’ e 3’ sequenze appartenenti a comEC, ma nello stesso tempo risulta amplificato anche
il gene comEC intatto. Infine circa il 75% dell’intera popolazione presenta un elemento genetico che non mappa in comEC ed
è differente dall’elemento mobile (o elementi) descritto in altri lavori.
146
32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
ERITROMICINO-RESISTENZA DA EFFLUSSO IN CEPPI TETRACICLINO-SENSIBILI (Tcs) E
TETRACICLINO-RESISTENTI (Tcs) DI STREPTOCOCCUS PYOGENES.
A. Brenciani, K.O. Kayode*, A. Monachetti, S. Menzo, M.C. Roberts*, P.E. Varaldo, E. Giovanetti.
Istituto di Microbiologia e Scienze Biomediche, Università Politecnica delle Marche, Ancona e *Department of Pathobiology,
University of Washington, Seattle, USA.
Abbiamo studiato 89 ceppi clinici di S. pyogenes, tutti eritromicino-resistenti di fenotipo M. Tutti possedevano il gene mef(A),
veicolato però da elementi genetici diversi a seconda che i ceppi fossero Tcs o Tcr. Nei ceppi Tcs (n=28), mef(A) era il quarto
ORF di un regolare trasposone Tn1207.1 (7.2 kb), integrato nel primo (n=24) o nel secondo (n=4) di due elementi di maggiori
dimensioni recentemente descritti (ambedue inseriti nel gene cromosomico comEC): Tn1207.3 (52 kb), contenente Tn1207.1
all’estremità sinistra; e un elemento chimerico di 58.8 kb, in cui Tn1207.1 risulta integrato in un profago. Mediante PCR abbiamo dimostrato che la regione di circa 45 kb a valle di Tn1207.1 era sostanzialmente sovrapponibile nei due elementi. Nei ceppi
Tcr (n=61), tutti tet(O)-positivi, mef(A) era invece parte di un Tn1207.1 defettivo e variabile, a sua volta integrato in un elemento coniugativo di 60 kb contenente anche, a monte di mef(A), tet(O). Soltanto mef(A), orf5 e un modificato orf6 erano rilevabili mediante PCR in tutti i ceppi Tcr; orf1 e orf2 erano invece sempre assenti, mentre orf3, orf7 e orf8 erano presenti in percentuali variabili. L’inserzione cromosomica dell’elemento tet(O)-mef(A) non era all’interno del gene comEC. In un ceppo orf3positivo, abbiamo determinato la sequenza (circa 12.000 bp) fra la regione a monte di tet(O) e l’estremità destra del Tn1207.1like. Tre nuovi ORF (orfA, orfB e orfC), seguiti da tre aree di omologia con sequenze dell’elemento mega di S. pneumoniae,
sono stati identificati a valle di tet(O), e un quarto (orfD) all’interno di una nuova sequenza di 638 bp che sostituisce una delezione tra le prime 94 bp di orf1 e un incompleto orf3 di Tn1207.1. Esperimenti di induzione con mitomicina C hanno chiarito
che non solo l’elemento di 58,8 kb (già descritto come tale), ma anche il Tn1207.3 e l’elemento tet(O)-mef(A) sono chimerici,
ossia formati da un trasposone (Tn1207.1 o simile) inserito in un fago: lo stesso fago per l’elemento di 58,8 kb e per Tn1207.3,
un fago diverso per l’elemento tet(O)-mef(A). Sebbene i meccanismi molecolari responsabili del trasferimento orizzontale di
mef(A) non siano ancora ben definiti, queste nuove evidenze suggeriscono che, almeno in S. pyogenes, la trasduzione potrebbe
giocare un ruolo importante nella disseminazione della resistenza all’eritromicina.
EPIDEMIOLOGIA MOLECOLARE DEGLI PNEUMOCOCCHI CON FENOTIPO M DI RESISTENZA
AI MACROLIDI.
M.P. Montanari, I. Cochetti, M. Vecchi, M. Mingoia, E. Tili, A. Manzin, P.E. Varaldo.
Istituto di Microbiologia e Scienze Biomediche, Università Politecnica delle Marche, Ancona.
Sono stati studiati 49 ceppi clinici di Streptococcus pneumoniae eritromicino-resistenti, tutti di fenotipo M, isolati nell’Italia centrale tra il 2001 e il 2003. Tutti i ceppi possedevano il gene mef: 30 (61%) la varietà mef(A) e 19 (39%) la varietà mef(E). In tutti
i primi 30 ceppi, mef(A) era presente come orf4 del trasposone Tn1207.1, sempre regolarmente inserito nel gene cromosomico
celB. Questi 30 ceppi mostravano profili PFGE identici o strettamente correlati (16 ceppi appartenevano al sierotipo 14, presente solo in questo gruppo). Di questi 30 ceppi col gene mef(A), nessuno era intermedio o resistente alla penicillina. Tre erano
invece tetraciclino-resistenti, tutti e 3 per la presenza del gene tet(M) portato da un trasposone (Tn5251) della famiglia del
Tn916. Tn1207.1 e Tn5251 erano trasposoni indipendenti. Molto più eterogenei (sia come profili PFGE che come sierotipi)
erano i 19 ceppi col gene mef(E). In 17 di essi, mef(E) era presente come orf1 dell’elemento mega, mentre negli altri 2 gli altri
ORF di mega non erano rilevabili. Di questi 19 ceppi col gene mef(E), 3 erano resistenti (con identici profili molecolari delle
PBP) e 1 intermedio alla penicillina. Cinque erano tetraciclino-resistenti: in 4 per la presenza del gene tet(M), contenuto in 3 in
un trasposone Tn2009 (ossia Tn5251 con inserito mega) e in 1 in un trasposone Tn5251 con l’elemento mega separato; nel quinto ceppo, la tetraciclino-resistenza era invece dovuta al gene tet(O), mai prima segnalato negli pneumococchi in Italia e in
Europa. Questi risultati mostrano l’importanza di continuare a mantenere distinti, negli pneumococchi con resistenza ai macrolidi di fenotipo M, le varianti mef(A) e mef(E) del gene mef. A prescindere dal grado di omologia fra i due geni, essi sono portati da elementi diversi, associati a modalità diverse di trasferimento (coniugazione per Tn1207.1 e trasformazione per l’elemento mega) e quindi di diffusione. Inoltre, il trasposone Tn1207.1 è probabilmente in grado di inserirsi solo nel genoma di
ceppi con ben definiti background genetici.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
147
CARATTERIZZAZIONE MOLECOLARE DI ESCHERICHIA COLI ENTEROPATOGENI ATIPICI ISOLATI IN ITALIA, ANGOLA E MOZAMBICO, E VALUTAZIONE DEL LORO EFFETTO SU CELLULE
EPITELIALI IN VITRO
Maddau G, Sanciu G, Francisco M1, Folgosa E2, Cappuccinelli P, Rappelli P
Dip. di Scienze Biomediche, Sez. di Microbiologia Sperimentale e Clinica, Università di Sassari; 1Dip. di Microbiologia,
Università di Luanda, Angola; 2Dip. di Microbiologia, Università di Maputo, Mozambico
Gli Escherichia coli enteropatogeni (EPEC), che rappresentano una delle principali cause di diarrea infantile nei Paesi in via di
Sviluppo, sono isolati più raramente nei paesi industrializzati. Recentemente è stato descritto un nuovo gruppo di E.coli enteritogeni, denominati EPEC atipici (aEPEC), che differiscono dagli EPEC per una serie di caratteristiche. Essi possiedono, come
gli EPEC, il gene eaeA codificante per l’adesina intimina, ma mancano del plasmide BFP, che media la caratteristica adesione
localizzata degli EPEC. I rari studi finora condotti indicano che gli aEPEC sono anch’essi associati a diarrea infantile. La principale differenza epidemiologica osservata tra EPEC e aEPEC è la loro distribuzione geografica: i primi sono molto diffusi nei
paesi in via di sviluppo, mentre i secondi sembrano essere isolati prevalentemente nelle regioni industrializzate. Tuttavia, sono
molto scarsi finora i dati relativi alla circolazione di EPEC in Italia. In questo lavoro è stata studiata la circolazione di EPEC,
sia tipici che atipici, a Sassari, ed è stata confrontata con quella di due paesi africani in via di sviluppo, Angola e Mozambico.
Gli E.coli, isolati da bambini con enterite, sono stati caratterizzati mediante PCR e classificati come EPEC quando possedevano sia il gene eaeA che il gene bfpA, mentre i possessori del solo eaeA sono stati considerati atipici. La presenza dei geni stx1
e stx2 è stata verificata per escludere che si trattasse di E.coli enteroemorragici. In Italia, su un totale di 390 E.coli isolati, 24
(6.15 %) sono stati classificati come aEPEC, e nessuno come EPEC tipico; in Mozambico su un totale di 377 isolati 7 sono
risultati EPEC e 7 aEPEC (1.8%); in Angola 4 su 270 E.coli si sono rivelati EPEC (1.5 %), e 6 aEPEC (2.2 %). Il fenotipo dei
ceppi aEPEC è stato inoltre studiato mediante test di adesione e FAS test su cellule Hep2. I risultati ottenuti dimostrano l’esistenza di un’elevata circolazione di aEPEC in Italia, significativamente maggiore di quella osservata in paesi in via di sviluppo,
quali Angola e Mozambico, e superiore a quella di numerosi altri patogeni intestinali, e suggeriscono l’esigenza di tener conto
anche di questi microorganismi nella diagnosi differenziale di infezioni enteriche in bambini nelle nostre regioni.
ANALISI DELLA REGOLAZIONE DEL GENE GDHA (L-GLUTAMMATO DEIDROGENASI) IN ISOLATI CLINICI DI NEISSERIA MENINGITIDIS
C. Pagliarulo,1 P. Salvatore,1,2 R. Colicchio,1 L.R. DeVitis,3 C. Monaco,3 M. Tredici,3 A. Talà,3 C.B. Bruni,1 e P. Alifano.3
1Dipartimento di Biologia e Patologia Cellulare e Molecolare “L. Califano”, Università degli Studi di Napoli “Federico II”.
2 Facoltà di Scienze Biotecnologiche, Università degli Studi di Napoli “Federico II”.3Dipartimento di Scienze e Tecnologie
Biologiche ed Ambientali, Università degli Studi di Lecce.
Neisseria meningitidis (meningococco) è un batterio a ristretto spettro d’ospite e presenta “stili di vita” alternativi: commensale-patogeno, intracellulare-extracellulare. Un fattore cruciale per tale comportamento risiede nella capacità di sintetizzare, ed
utilizzare, nutrienti essenziali per la propria sopravvivenza nei diversi microambienti dell’ospite durante un naturale ciclo infettivo.
E’ noto che gdhA, codificante la L-glutammato deidrogenasi NADP-specifica (NADP-GDH) è tra i geni di meningococco necessari per lo stabilirsi di un’infezione sistemica nel modello di ratto neonato.
E’ stata condotta un’analisi del trascrittoma di meningococco, che ha evidenziato l’espressione differenziale di gdhA in ceppi
invasivi e commensali di meningococco. In particolare i ceppi appartenenti alle linee ipervirulente ET-5 e IV-1 presentano elevati livelli di mRNA per gdhA. L’espressione di gdhA è controllata da gdhR, un gene regolatore associato a gdhA nella mappa
genetica, codificante un membro della famiglia GntR di regolatori batterici “helix-turn-helix”. Il controllo di gdhA avviene sia
in dipendenza della fase di crescita che della fonte di carbonio.
Esperimenti di inattivazione genica confermano il ruolo di regolatore positivo di GdhR, i mutanti knock-out mancano sia della
regolazione di gdhA, dipendente dalla fase di crescita che dalla fonte di carbonio (energia); esibiscono, inoltre, un difetto di crescita, che, è più evidente in un terreno chimicamente definito (MCDA) quando il glucosio è utilizzato come fonte di carbonio
invece del lattato in presenza di glutammato. Studi di interazione DNA-proteina evidenziano, inoltre, che il 2-oxoglutarato funge
da effettore negativo del legame di GdhR al promotore di gdhA.
Questi dati indicano che la principale attività della NADP-GDH è stimolare il metabolismo intermedio, in particolare quando il
glucosio prevale sul lattato o sul piruvato come fonte di carbonio. Ciò si traduce in un vantaggio selettivo per i ceppi esprimenti
alti livelli di mRNA per gdhA che risultano favoriti nella crescita nei siti anatomici rivlevanti per il ciclo infettivo del meningococco, quali sangue e liquido cerebrospinale.
148
32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
STUDIO DI PREVALENZA DELLA COLONIZZAZIONE DA ENTEROCOCCHI VANCOMICINARESISTENTI IN PAZIENTI RICOVERATI ED IN PAZIENTI AL MOMENTO DELL’OSPEDALIZZAZIONE
Evelina Tacconelli2, Patrizia Mazzella1*, Teresa Spanu1, Fiammetta Leone1, Tiziana D’Inzeo1, Maria Teresa Mancini1,
Barbara Fiori1, Lucio Romano1, Roberto Cauda2e Giovanni. Fadda1
1Istituto di Microbiologia, 2Dipartimento di Malattie infettive, Università Cattolica del Sacro Cuore
Gli enterococchi sono importanti patogeni umani, responsabili di infezioni severe, particolarmente in pazienti compromessi ed
ospedalizzati. Una particolare caratteristiche di questi microrganismi è la resistenza intrinseca a numerosi farmaci. La comparsa e la disseminazione della resistenza ai glicopeptidi, farmaci che insieme con l’ampicillina costituiscono il cardine della terapia delle infezioni enterococciche severe, assume, pertanto, grande rilevanza clinica e costituisce un importante problema di
salute pubblica. Gli attuali metodi fenotipici per l’identificazione di specie e la determinazione della resistenza alla vancomicina sono limitati nella loro capacità di identificare i differenti fenotipi van e di discriminare Enterococcus faecium vancomicina-resistente da E. gallinarum, e E. casseliflavus, specie intrinsecamente resistenti alla vancomicina. In questo studio abbiamo
determinato la prevalenza della resistenza alla vancomicina e caratterizzato il genotipo di resistenza degli enterococchi isolati
dai tamponi perirettali durante di indagine epidemiologica in pazienti ricoverati e in pazienti al momento di ospedalizzazione
nel Policlinico Universitario “A. Gemelli” mediante una multiplex PCR (LightCycler, Roche). Sono stati analizzati complessivamente 1.036 campioni, dai quali sono stati isolati 27 ceppi di enterococchi resistenti alla vancomicina (VRE), pari a 2.6 x
100 pazienti ricoverati. I ceppi di VRE, la maggior parte dei quali erano E. faecium, sono stati isolati prevalentemente nei
reparti di medicina. Tutti i ceppi di E. faecium sono risultati resistenti ad ampicillina, e sensibili a linezolide e quinupristinadalfopristina. L’incremento della resistenza alla vancomicina e l’isolamento di ceppi resistenti a linezolid e quinopristina-dalfopristina, farmaci di recente utilizzo nella pratica clinica, sottolineano la necessità di attuare una accurata sorveglianza delle infezioni causate dai VRE nonché di implementare efficaci misure di controllo per prevenire l’ulteriore disseminazione di questi
microrganismi.
PREVALENZA ED EPIDEMIOLOGIA MOLECOLARE DI ESCHERICHIA COLI E KLEBSIELLA PNEUMONIAE PRODUTTRICI DI B-LATTAMASI A SPETTRO ESTESO RESPNSABILI DI BATTERIEMIA
NEL PERIODO 2000-2003.
Maurizio Sanguinetti*, Teresa Spanu, Brunella Posteraro, Fiammetta Leone, Lucio Romano, Barbara Fiori, Teresa Mancini,
Tiziana D’Inzeo, Giovanni Fadda
Istituto di Microbiologia, Università Cattolica del Sacro Cuore
In questo studio descriviamo la prevalenza e le caratteristiche molecolari dei ceppi di Escherichia coli e Klebsiella pneumoniae
produttori di beta-lattamasi a spettro esteso (ESBL) responsabili di batteriemia in pazienti ricoverati nel Policlinico
Universitario “A. Gemelli” durante quattro anni di sorveglianza (2000-2003). Dei 559 stipiti analizzati, 121 (20,2%) sono risultati essere ESBL produttori. Sebbene la maggior parte di questi (74,4%, 90/121) fossero E. coli, la prevalenza della resistenza alle oximino-cefalosporine per produzione di ESBL è risultata maggiore in K. pneumoniae (26,9%). Sono stati identificati enzimi TEM-derivati, SHV-derivati ed enzimi CTX-M, che presentavano una differente distribuzione nel tempo. In alcuni ceppi erano presenti contemporaneamente molteplici enzimi. Sono stati identificati differenti fenotipi di resistenza alle oximino-cefalosporine con il ceftazidime e il cefotaxime diversamente idrolizzati in relazione al tipo di enzima prodotto. I carbapenemici ed amicacina hanno presentato la migliore attività in vitro. Elevato il tasso di multiresistenza a ciprofloxacina e gentamicina in E. coli. L’analisi molecolare eseguita con una metodica di amplificazione genica basata sul polimorfismo delle
sequenze extrageniche palindromiche ripetute, denominata REP-PCR, ha mostrato la presenza di differenti profili suggerendo
la possibile esistenza di cloni epidemici. Solo l’accurata identificazione della produzione di ESBL nei ceppi consente di instaurare efficaci terapie ed idonee misure di profilassi che prevengano l’ulteriore disseminazione intra-ospedaliera e quindi ridurre
la morbosità, la mortalità e i costi causati da terapie inefficaci e dalla maggior durata dell’ospedalizzazione.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
149
RUOLO DELLE TRANSLATED REPEATS (TR) NEL GENE MFD CODIFICANTE IL FATTORE DI
ACCOPPIAMENTO TRASCRIZIONE/RIPARAZIONE IN ISOLATI CLINICI DI NEISSERIA MENINGITIDIS.
R. Colicchio,1 P. Salvatore,1,2 C. Pagliarulo,1 F. Lamberti,1 G. Vigliotta,3 M. Tredici,3 C.B. Bruni,1 e P. Alifano.3
1 Dipartimento di Biologia e Patologia Cellulare e Molecolare “L. Califano”, Università degli Studi di Napoli “Federico II”.
2 Facoltà di Scienze Biotecnologiche, Università degli Studi di Napoli “Federico II”. 3Dipartimento di Scienze e Tecnologie
Biologiche ed Ambientali, Università degli Studi di Lecce.
Le Neisserie patogene hanno evoluto sofisticati meccanismi adattativi che consentono al batterio di adattarsi al variare delle condizioni ambientali riscontrate nell’ospite, e, di eludere la risposta immunitaria. Tale comportamento risiede nell’evoluzione di
meccanismi molecolari responsabili di variazione genetica; in particolare la nostra attenzione è rivolta al ruolo dei sistemi di
riparazione/ricombinazione del DNA in Neisseria meningitidis. Lo studio dell’ipermutazione è di grande importanza, poiché
alleli difettivi di geni in tali sistemi, o loro combinazioni, giocano un importante ruolo nell’evoluzione del fenotipo patogeno.
I nostri studi sono volti a chiarire il significato biologico della presenza nel gene mfd (mutation frequency decline), codificante
il fattore di accoppiamento trascrizione/riparazione TRCF, delle TR (translated repeats) presenti in numero variabile, in isolati clinici di N. meningitidis.
Le TR si ritrovano all’interno di sequenze codificanti e sono costituite da unità ripetute. Variazioni nel numero di copie delle TR
influenzano l’attività di diverse proteine. Ad esempio, nel caso di proteine antigeniche, la variazione di TR altera la capacità di
legare anticorpi, nel caso di adesine/invasine, ne modifica la capacità di legare recettori sulla superficie della cellula ospite.
Mediante analisi di sequenza e saggi di PCR sono state individuate cinque varianti alleliche del gene mfd, i nostri dati suggeriscono che, le sequenze TR non interrompono domini funzionali della proteina, ma, la variazione nel numero di copie delle TR
influenza l’attività del fattore di accoppiamento trascrizione/riparazione. Esperimenti di “allelic replacement” hanno confermato che la variazione nel numero di copie delle TR in mfd, influenza l’efficienza dei sistemi di riparazione da esso dipendenti.
Lo studio dei meccanismi molecolari responsabili dell’ipermutazione ha grande importanza sia nella pratica clinica, a causa
della rapida insorgenza di antibiotico-resistenza, che nelle biotecnologie, in quanto le proteine candidate per lo sviluppo di un
vaccino anti-meningococco di sierogruppo B, sono soggette a variazione di fase.
TIPIZZAZIONE DI CRYPTOCOCCUS NEOFORMANS MEDIANTE ANALISI DI RESTRIZIONE DI
DNA AMPLIFICATO DA GENI CAPSULARI.
Raimondi A., R. Ticozzi, A. Pessina, G. Maffeis, G. Sala, M.G. Bellotti.
Istituto di Microbiologia dell’Università degli Studi di Milano, Milano.
Cryptococcus neoformans è un fungo patogeno capsulato che causa malattia prevalentemente in soggetti immunocompromessi. Se ne riconoscono attualmente tre varietà diverse per caratteristiche genetiche, ecologiche e cliniche. A queste corrispondono cinque sierotipi capsulari: il sierotipo A (var. grubii), il sierotipo D (var. neoformans), i sierotipi B e C (var. gattii) ed inoltre un sierotipo ibrido AD. L’esigenza di disporre di un metodo semplice ed efficace per tipizzare i ceppi isolati ha indotto numerosi ricercatori a studiare la possibilità di un approccio genotipico attraverso l’applicazione di metodologie biomolecolari.
Con l’obbiettivo di individuare differenze di sequenza utili a distinguere i diversi sierotipi abbiamo confrontato porzioni omologhe di DNA amplificate da 5 ceppi di diverso sierotipo. In particolare il confronto ha riguardato tratti di circa 500-600 paia
di basi di Cap59,-10, -60, -64, quattro geni associati alla produzione della capsula. Indipendentemente dal gene considerato sono
state osservate differenze quantitativamente rilevanti (tra 6 ed 8%) tra le sequenze degli amplificati dai sierotipi A, D e dal gruppo B-C mentre, sono risultate esigue ( < 1%) le differenze tra sierotipo B e sierotipo C. Le sequenze dei sierotipi AD ed A
sono risultate significativamente diverse solo per i geni Cap10 e -64 mentre, tra i sierotipi AD e D sono state osservate differenze solo per i geni Cap59 e -60.
Per verificare la stabilità e la specificità delle associazioni osservate tra sequenza e sierotipo, l’indagine è stata allargata ad un
campione più ampio costituito da 5 ceppi di ciascun sierotipo. Il confronto tra gli amplificati è stato limitato alle posizioni precedentemente individuate come diversificate e condotto mediante analisi di restrizione. Circa 30 enzimi sono stati scelti per
la capacità di riconoscere come sito di restrizione le posizioni di interesse precedentemente osservate nelle sequenze. Il risultato di questa indagine ha consentito di evidenziare tre posizioni nella sequenza amplificata da Cap10 potenzialmente utili per
riconoscere i sierotipi A e quelli del gruppo B-C. Per il riconoscimento dei sierotipi D ed AD non è stata trovata nessuna posizione specifica, tuttavia la loro identificazione risulta possibile analizzando congiuntamente di restrizione ottenuti dagli amplificati di Cap10 e Cap59. Nessuna delle posizioni esaminate ha consentito invece di discriminare tra il sierotipo B ed il sierotipo C.
150
32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
VARIABILITA’ INTERNA DELLA REGIONE D1/D2 DEL RDNA IN SACCHAROMYCES CEREVISIAE
Gianluigi Cardinali, Paolo Rellini, Monia Lattanzi, Laura Corte e Fabrizio Fatichenti
Università degli Studi di Perugia
Dipartimento di Biologia Vegetale e Biotecnologie Agroambientali
Il dominio D1/D2 del locus rDNA 26S viene utilizzato ampiamente in tassonomia microbica molecolare per la definizione di
specie con un metodo monofasico molto affidabile e rapido. Tale regione è ampiamente usata anche in filogenesi per la ricostruzione dei percorsi evolutivi seguiti dalle varie specie di microbi eucarioti. Non è tutt’ora chiaro il motivo per cui questa
regione si modifichi in maniera sincrona con la speciazione e funzioni quindi da marcatore di specie e da carattere filogeneticamente significativo.
La letteratura disponibile non ha finora dedicato molto spazio alla ripetizioni dei geni codificanti gli RNA ribosomali che, nella
specie Saccharomyces cerevisiae, assommano a circa 120 copie. La loro esistenza può creare situazioni in cui un certo sito presenti nucleotidi diversi nelle varie copie. Ciò comporterebbe problemi di determinazione certa della specie ed anche notevoli
errori nel caso di monitoraggio della biodiversità ambientale mediante clonaggio diretto di tali sequenze.
Il nostro interesse verso tale argomento è stato suscitato dall’osservazione di anomalie nei picchi secondari di elettroferogrammi del dominio D1/D2 di vari ceppi di lievito.
Scopo della presente comunicazione è il confronto della variabilità del rDNA 26S D1/D2 presente all’interno dello stesso ceppo
di Saccharomyces cerevisiae, e fra ceppi delle specie più vicine, in modo da valutare l’entità e le conseguenze della variabilità
interna, nonché i possibili meccanismi di variazione implicati nella speciazione.
Tale lavoro ha inteso produrre e valutare informazioni e ipotesi relative alla formazione della specie microbica. Ciò riveste interesse sia per la conoscenza del fenomeno in se, sia per le innumerevoli ricadute in termini di diagnostica molecolare, valutazione effettiva e quantitativa della biodiversità, applicazioni molecolari alla tracciabilità dei prodotti agroalimentari.
AGENTI VIRALI DI GASTROENTERITE IN BAMBINI PALERMITANI: EPIDEMIOLOGIA E DIVERSITÀ MOLECOLARE
S. De Grazia1, G.M. Giammanco1, C. Colomba2, S. Arista1.
1.Dipartimento di Igiene e Microbiologia, Università di Palermo; 2. Istituto di Patologia Infettiva e Virologia, Università di
Palermo.
La gastroenterite acuta è una delle più comuni malattie dell’uomo. Numerosi virus, appartenenti a differenti famiglie, sono
stati identificati quali agenti eziologici di tale patologia, soprattutto in età pediatrica. Tra questi, un ruolo preminente è riconosciuto a rotavirus di gruppo A, norovirus, adenovirus ed astrovirus. Recentemente, studi epidemiologici sul ruolo di rotavirus hanno fornito numerose informazioni sulla diffusa prevalenza di infezioni e sulla variabilità dei ceppi circolanti in
Italia e nel mondo. Poco è ancora noto, soprattutto in Italia, sulla epidemiologia e diversità molecolare dei ceppi di norovirus, adenovirus ed astrovirus.
Per tale finalità, sono stati da noi esaminati 215 campioni fecali ottenuti da bambini ricoverati con sintomatologia diarroica presso l’Ospedale “G. di Cristina” di Palermo nel periodo gennaio - dicembre 2003. Tutti i campioni sono stati sottoposti ad uno screening per la presenza di rotavirus di gruppo A, adenovirus ed astrovirus mediante test EIA (DakoCytomation,
Angel Drove, UK). La presenza di norovirus è stata ricercata unicamente nei campioni rotavirus negativi, utilizzando un
test EIA (DakoCytomation).
Nel 65% dei pazienti è stata diagnosticata una infezione virale; nel 7,4% è stata evidenziata una infezione mista. In particolare, il 25,1% dei campioni sono risultati positivi per rotavirus, l’8,4% per adenovirus, il 7% per astrovirus ed il 24,6%
per norovirus.
La tipizzazione dei ceppi virali è stata effettuata: per i rotavirus amplificando i geni che codificano per VP7 e VP4 mediante RTPCR; per gli adenovirus fecali 40 e 41 mediante un test EIA (Adenoclone 40/41 Meridian Bioscience, USA); per astrovirus
amplificando e sequenziando il gene che codifica per la proteina VP26; per i norovirus mediante amplificazione del gene che
codifica per la polimerasi e successiva ibridazione con sonde specifiche.
I risultati ottenuti hanno permesso di aggiungere interessanti conoscenze sulla circolazione dei virus enterici in Italia.
Una accurata caratterizzazione degli agenti virali di enterite è un dato indispensabile per la formulazione di vaccini efficaci per
la prevenzione delle diarree infantili.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
151
ANALISI DELLA VARIABILITÀ GENETICA DELLE PROTEINE CAPSIDICHE VP7 E VP4 IN ROTAVIRUS UMANI DI TIPO G4 CIRCOLANTI IN SICILIA NEL PERIODO 1990-2003.
G.M. Giammanco,1 S. De Grazia1, V. Martella2, C. Colomba3, A. Cascio4, S. Arista1.
1.Dipartimento di Igiene e Microbiologia, Università di Palermo; 2. Dipartimento di sanità e benessere animale, Università di
Bari; 3. Istituto di Patologia Infettiva e Virologia, Università di Palermo; 4. Clinica delle Malattie Infettive, Università di
Messina.
I rotavirus di gruppo A, diffusi agenti di gastroenterite pediatrica in tutto il mondo, possiedono un genoma ad RNA bicatenario
codificante per sette proteine strutturali (VP). Quelle del capside esterno, VP7 e VP4, presentano una notevole eterogeneità antigenica a causa della frequente evenienza sia di mutazioni puntiformi che di riassortimento genico tra virus umani ed animali. I
ceppi virali sono, per tale motivo, classificati con una denominazione binaria che tiene conto delle specificità antigeniche delle
due proteine. La prima, VP7, determina la specificità di tipo G, la seconda, VP4, determina la specificità di tipo P. Attualmente,
i rotavirus di gruppo A sono distinti in 15 tipi G e 21 tipi P. I tipi G1-G4 e G9 sono quelli più comunemente riscontrati in Italia
e nel resto del mondo. La frequenza di infezioni con ceppi di un definito tipo G in una determinata area geografica varia negli
anni ciclicamente, in base al livello di immunità tipo-specifica presente nella popolazione. Relativamente alla prevalenza di
ceppi con specificità G4 circolanti a Palermo sono stati osservati valori oscillanti dallo 0 al 70% dei rotavirus isolati.
In particolare, nel corso degli anni 1990-2003, sono stati da noi caratterizzati 1407 ceppi di rotavirus, ottenuti da bambini ospedalizzati per enterite; 254 di tali ceppi esibivano una specificità di tipo G4. Per studiare la variabilità ed evoluzione antigenica
di ceppi con tale specificità, 22 di essi, distribuiti uniformemente nel periodo analizzato, sono stati analizzati mediante amplificazione (RT-PCR) e sequenziamento delle regioni codificanti per VP7 e VP4.
Dal confronto delle sequenze ottenute è stato possibile distinguere i ceppi G4 siciliani in tre gruppi: uno contenente i ceppi più
antichi, isolati dal 1990 al 1994, un secondo quelli intermedi, il terzo gli isolati più recenti (1999-2003). Le sequenze dei tre
lineaggi genetici sono state altresì comparate con sequenze provenienti da ceppi G4 di altre aree geografiche.
I risultati ottenuti acquistano particolare rilievo in quanto una accurata caratterizzazione dei tipi virali maggiormente circolanti è indispensabile per la formulazione di vaccini efficaci per la prevenzione delle diarree da rotavirus.
STUDIO DELLA VARIABILITÀ VIRALE E CORRELAZIONE CON EZIOPATOGENESI E CLINICA
NELL’INFEZIONE DA HCV
C. Argentini, S. Dettori, D. Genovese, M. Rapicetta.
Reparto Epatiti Virali, Dipartimento di Malattie Infettive, Parassitarie ed Immunomediate, Istituto Superiore di Sanità, Roma.
Il virus dell’epatite C è stato il primo agente infettivo caratterizzato attraverso l’applicazione di metodologie biologico-molecolari dopo i numerosi insuccessi delle tecniche virologiche tradizionali. Ciò ha facilitato il rapido sviluppo delle conoscenze sui
peculiari aspetti della variabilità virale. E’ stata messa in evidenza l’estrema eterogeneità dei ceppi circolanti. Gli isolati sono
stati classificati in 6 genotipi e numerosi subtipi con differente distribuzione geografica. Sono state prospettate differenze nel
ciclo biologico e nella risposta alle terapie antivirali.
La base metodologica degli studi di variabilità virale è stata fornita dall’applicazione dell’analisi genomica con particolare riferimento all’analisi filogenetica. Queste metodologie permettono la caratterizzazione particolareggiata dei rapporti evolutivi che
esistono fra isolati virali tramite l’analisi delle sequenze nucleotidiche ed aminoacidiche (analisi fenica). Vari studi effettuati dal
nostro gruppo hanno permesso di identificare regioni genomiche “target” e specifici metodi d’analisi (metodi filogenetici:
Neighbour Joining, minimum evolution; modelli per lo studio evolutivo delle sequenze: metodo Kimura a due parametri) per la
definizione di particolari aspetti epidemiologici e della diffusione dell’infezione. In particolare quello del grado di diversità dei
ceppi virali circolanti in relazione ai vari livelli di endemia, quello della definizione delle sorgenti di infezione in episodi epidemici e dell’identificazione del caso indice nei casi di trasmissione intrafamiliare.
Differenze significative sul numero dei subtipi virali circolanti per uno stesso genotipo (genotipo 4) sono state identificate in
relazione a diversi livelli di prevalenza. Studi effettuati in un episodio epidemico in un centro di dialisi hanno messo in evidenza la correlazione tra i dati dell’analisi molecolare e quelli della successione delle infezioni e dell’accesso temporale e modalità di uso della strumentazione. Studi effettuati in un nucleo familiare con elevata prevalenza di anti-HCV hanno permesso di
dimostrare l’evenienza di infezione verticale attraverso tre generazioni.
Chiare differenze a livello patogenetico correlabili con la variabilità del virus HCV a tutt’oggi non sono state dimostrate. Ipotesi
sono state prospettate in relazione alla composizione di quasispecie della popolazione virale. I risultati di recenti studi nel nostro
gruppo derivati dall’analisi della regione ipervariabile (HVR1) codificante per la proteina dell’envelope in isolati virali derivati da pazienti affetti da linfoma non-Hodking fanno ipotizzare un possibile ruolo patogenetico nella presenza di elevata numerosità nell’insorgenza di varianti rare.
152
32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
RUOLO EZIOPATOGENICO DEL VIRUS ERPETICO UMANO -7 E -6 (HHV-7, -6) NELLA PITIRIASI ROSEA
Broccolo F1, A.M. Careddu1, F. Drago2, M. Malnati3, P. Lusso3, C. Gelmetti4, A. Rebora2, C.E. Cocuzza1
1Dipartimento di Medicina Clinica, Prevenzione e Biotecnologie Sanitarie, Università Milano-Bicocca, Monza; 2Clinica
Dermatologica, Università di Genova; 3Unità di Virologia Umana, DIBIT, HSR; 4Dipartimento di Dermatologia Pediatrica,
Ospedale Maggiore, Milano
La Pitiriasi Rosea (PR) è una comune malattia infiammatoria della pelle auto-limitante che sembra essere associata all’infezione sistemica attiva da HHV-7 e HHV-6. Per chiarire il ruolo eziologico di HHV-7 e HHV-6 nella PR ne abbiamo determinato la
frequenza e il “viral load” in un totale di 218 campioni di plasma, cellule di sangue periferico (PBMCs) e biopsie cutanee
mediante un nuovo saggio calibrato di “Real-time PCR”. Plasma e PBMCs erano ottenuti da 31 pazienti con PR (14 bambini),
12 pazienti con altre malattie infiammatorie (dermatiti atopiche, eczema, ecc.) e da 36 donatori sani. DNA di HHV-7 e HHV-6
è stato rilevato più frequentemente in campioni di plasma di pazienti con PR rispetto ai donatori sani (11/31 [35%] vs. 0/36;
P=0.001 e 6/31 [19%] vs. 0/36; P=0.025, rispettivamente). Il “viral load” nei PBMCs per HHV-7 era significativamente più alto
nei pazienti con PR rispetto ai donatori (P<0.0005) e ai pazienti con altre malattie infiammatorie (P < 0.05), mentre per HHV6 non era rilevata nessuna differenza significativa tra i diversi sottogruppi. Nei campioni pediatrici i risultati erano simili. La
viremia plasmatica per HHV-7 e HHV-6 era associata con i sintomi sistemici (10/21 vs. 0/13; P=0.021) ma non con la fase clinica dell’eruzione. Sono state anche testate le biopsie cutanee ottenute da 16 pazienti adulti con PR e da 12 con altre malattie
infiammatorie. Inoltre sulle biopsie cutanee ottenute da pazienti adulti sono stati ricercati gli antigeni specifici per HHV-7 (p85)
e per HHV-6 (p41) mediante saggio di immunoistochimica. P85 e P41 erano trovati rispettivamente nel 50% e nel 13% delle
biopsie cutanee, indicando la presenza di un’infezione produttiva. Tutti i sieri testati di pazienti con PR e di donatori risultavano avere anticorpi neutralizzanti per HHV-7. Sebbene non era osservata nessuna variazione del titolo anticorpale in associazione con la manifestazione clinica, il titolo risultava significativamente più basso in pazienti viremici per HHV-7 (P<0.001) rispetto ai campioni di plasma risultati negativi per HHV-7. Infine, è stata osservata la viremia per HHV-6 in una donna sana che sviluppava PR alla 12 settimana di gravidanza con aborto spontaneo 2 settimane più tardi. DNA di HHV-6 e l’antigene virale p41
venivano rilevati sia nella lesione papulo-squamosa che nel tessuto embrionale confermando che l’infezione da HHV-6 può essere trasmessa al feto attraverso l’utero.
In conclusione questo studio mostra che la viremia plasmatica per HHV-7 e HHV-6 non è solo un marker di riattivazione virale ma è anche associato con i sintomi sistemici; è ipotizzabile inoltre che l’infezione attiva e sistemica da HHV-6 possa causare non solo PR ma anche aborto spontaneo.
RIATTIVAZIONE DEL VIRUS ERPETICO UMANO 6 (HHV-6) DURANTE LO SWITCH FENOTIPICO
DI HIV IN PAZIENTI PEDIATRICI
Broccolo F1, A.M. Careddu1, R. Pinzani2, A. Plebani2, P. Lusso3, C.E. Cocuzza1, N. Principi2
1Dipartimento di Medicina Clinica, Prevenzione e Biotecnologie Sanitarie, Università di Milano-Bicocca, Monza; 2Istituto di
Pediatria, Università di Milano; 3Unità di Virologia Umana (DIBIT), Ospedale San Raffaele
La determinazione dell’uso del corecettore di HIV-1 in vivo è importante per predire la progressione della malattia, ma il meccanismo coinvolto nell’evoluzione biologica di HIV non è ancora stato chiarito. La progressione della malattia è stata associata con l’emergenza di infezioni concorrenti che possono agire da cofattori in grado di accelerare il decorso della malattia mediante meccanismi ancora sconosciuti. Uno degli agenti infettivi più noti a questo riguardo è il virus erpetico umano 6 (HHV-6), un
agente linfotropico ubiquitario che infetta la maggior parte degli individui entro i 2 anni di vita. Riguardo al meccanismo coinvolto, è stato recentemente suggerito, in uno studio condotto ex vivo su tessuti linfoidi umani, che la replicazione di HHV-6 può
profondamente influenzare il decorso dell’infezione da HIV-1 sopprimendo selettivamente le varianti “R5” di HIV-1 (le quali
dominano lo stadio precoce dell’infezione) ma non le varianti “X4” (tipicamente rilevate negli stadi tardivi della malattia e associate con un declino delle cellule CD4+ e con la progressione verso l’AIDS conclamato). Uno dei meccanismi alla base di questi effetti sembra essere un aumento marcato della produzione endogena di RANTES (“regulated upon activation, normal T-cell
expresses and secreted”), il ligando naturale di CCR5, che inibisce potentemente e selettivamente la variante “R5”.
Per dimostrare l’ipotesi secondo la quale la riattivazione (o reinfezione) di HHV-6 agirebbe da cofattore nella progressione dell’infezione da HIV in vivo, si dovrà stabilire se esiste un’associazione temporale fra “switch” fenotipico di HIV e infezione attiva da HHV-6. A tal fine è stata determinata la viremia plasmatica per HHV-6 in campioni sequenziali ottenuti da pazienti che
progrediscono a AIDS con e senza switch fenotipico virale.
Allo stato attuale sono stati raccolti campioni di sangue (T0) da 47 pazienti pediatrici HIV-positivi. Di ciascun paziente si conosce lo stadio clinico (N, A, B, C) e immunologico (1,2,3). Il fenotipo di HIV isolato dai PBMCs dei 47 pazienti è stato determinato mediante procedure basate sulla capacità di replicarsi su linee cellulari esprimenti i corecettori chemiochinici e sulla
capacità di formare sincizi sulla linea cellulare. La viremia plasmatica per HHV-6 è risultata associata in modo significativo al
fenotipo “X4” (5/7 vs. 1/40; P = 0.001 test χ2) ma non con il deficit immunologico (categoria 3) (4/15 vs. 2/32; P = 0.22) suggerendo che la riattivazione di HHV-6 potrebbe essere un evento associato allo switch fenotipico di HIV e quindi alla progressione della malattia piuttosto che al deficit immunitario.
La comprensione di questo meccanismo potrebbe essere importante per le nuove strategie terapeutiche dell’infezione da HIV.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
153
RUOLO DELL’ESPRESSIONE DI BCL-2 SULLO STATO DI PERMISSIVITA’ CELLULARE
ALL’INFEZIONE DA HSV-2 IN VITRO.
D. Perri1, M. A. Medici1, V. Valveri1, A. P. Camuti1, D. Zaccaria1, F. Marino Merlo1, S. Grelli2, L. Serafino3, M. T.
Sciortino1, A. Mastino1
1Dip. di Scienze Microbiologiche, Genetiche e Molecolari, Università di Messina, Messina.2Dip. di Medicina Sperimentale e
Scienze Biochimiche, Università di Roma “Tor Vergata”, Roma. 3Ist. Medicina Sperimentale, CNR, Roma.
I virus herpes simplex infettano un ampio spettro di cellule umane e non umane in vitro. La replicazione pienamente produttiva dei virus si osserva, però, solo in alcuni tipi cellulari, quali molte linee di cellule epiteliali. L’infezione pienamente produttiva dei virus herpes simplex, in queste linee cellulari, è tipicamente associata alla lisi cellulare mediante necrosi. Abbiamo dimostrato che herpes simplex virus 2 (HSV-2), ceppo selvatico, causa un’infezione caratterizzata da basso livello di produzione virale ed induzione di apoptosi, quale esclusivo effetto citopatico, in cellule monocitoidi U937. L’ apoptosi era associata alla downregolazione della proteina antiapoptotica Bcl-2, nelle fasi tardive dell’infezione. Ci siamo quindi chiesti: i) se, similmente a
quanto da noi osservato per HSV-1, anche l’infezione da HSV-2 fosse caratterizzata in cellule monocitoidi da una limitata fase
iniziale durante la quale prevaleva l’inibizione dell’apoptosi, attraverso l’attivazione di segnali anti-apoptotici, seguita da una
successiva fase durante la quale l’induzione dell’apoptosi fosse il principale fattore limitante per l’infezione produttiva, ii) quale
fosse il ruolo dell’espressione di Bcl-2 nel determinare lo stato di piena permissività all’infezione da HSV-2. Per rispondere ai
quesiti abbiamo: i) verificato se HSV-2 inattivato agli UV era in grado di proteggere dall’apoptosi indotta via-Fas mediante induzione dell’espressione di geni anti-apoptotici, ii) verificato l’effetto di un forzato prolungamento dello stato anti-apoptotico, per
mezzo della trasfezione stabile con un plasmide contenente il gene Bcl-2 murino, sulla replicazione di HSV-2. I principali risultati possono essere così riassunti: i) l’esposizione a HSV-2 UV-inattivato rendeva le cellule resistenti all’apoptosi Fas-mediata
e l’effetto era associato con la up-regolazione di proteine antiapoptotiche intracellulari; ii) la over-espressione di Bcl-2, proteggendo dall’apoptosi indotta dal virus, aumentava drammaticamente la capacità delle cellule monocitoidi di sostenere un’infezione produttiva, convertendo lo stato di semipermissività cellulare a quello di piena permissività all’infezione da HSV-2.
INDUZIONE DEL FATTORE DI CRESCITA ENDOTELIALE VASCOLARE (VEGF) IN CELLULE THP1 INFETTATE CON CHLAMYDIA PNEUMONIAE
A. Rizzo, R. Paolillo, D. Boggia, C. Romano Carratelli
Dipartimento di Medicina Sperimentale Sezione di Microbiologia e Microbiologia Clinica
Facoltà di Medicina e Chirurgia Seconda Università degli Studi di Napoli
La Chlamydia pneumoniae è un batterio intracellulare obbligato, Gram-negativo, responsabile nell’uomo di malattie infiammatorie croniche come l’aterosclerosi, oltre che di malattie dell’apparato respiratorio. Di recente è stato dimostrato che nello sviluppo dell’aterosclerosi in risposta a stimoli ambientali diversi interviene una alterata proliferazione delle cellule vascolari.Il
processo centrale della patologia dell’aterosclerosi potrebbe essere rappresentato, quindi, dalla proliferazione delle cellule
muscolari lisce nell’intima arteriolare e diversi Autori hanno dimostrato la capacità da parte della C. pneumoniae di infettare e
di replicarsi nelle cellule delle lesioni aterosclerotiche, comprendenti cellule muscolari lisce, cellule endoteliali e macrofagiche.
Le cellule endoteliali e le cellule immuni chemioattratte, inoltre, generano alcune delle molecole coinvolte nella modulazione
dell’angiogenesi. In particolare, i fagociti mononucleati, sebbene altamente eterogenei nella funzione, sono capaci sotto opportuna attivazione di produrre fattori angiogenici. D’altra parte l’interazione tra fagociti mononucleari professionisti e batteri
può innescare differenti stati funzionali come la produzione di citochine infiammatorie, microbicida o citochine angiogeniche e
fattori di crescita con funzioni diverse.
I risultati di questo studio dimostrano l’induzione di VEGF e di IL-1ß, un potenziatore di VEGF, in cellule THP-1 infettate con
C.pneumoniae rispetto a cellule THP-1 non infettate. Il VEGF e l’ IL-1ß vengono determinati a tempi diversi (12, 24, 48, 72
h) nei supernatanti di macrofagi THP-1 differenziati e non-differenziati con forbolo miristato acetato (PMA) e messi a contatto
con C. pneumoniae vive; livelli inferiori di VEGF e IL-1ß vengono dimostrati quando le cellule THP-1 sono messi a contatto con batteri uccisi al calore. In aggiunta si è dimostrato che il medium proveniente dalle cellule THP-1 infettate con C. pneumoniae induce proliferazione di cellule endoteliali da cordone ombelicale umano (HUVEC), dimostrando un potenziale ruolo
angiogenico.
In conclusione, questi dati suggeriscono che la C. pneumoniae, oltre che agente infettivo e fattore di rischio aterosclerotico, può
determinare induzione di fattore angiogenico VEGF e di IL-1ß correlata alla proliferazione di cellule endoteliali, contribuendo così alla formazione di ulteriori lesioni.
154
32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
HBD2 INDUCE L’ESPRESSIONE DI VEGF E MMP2 IN CHERATINOCITI UMANI
Paoletti I, Donnarumma G, Buommino E, Petrazzuolo M, Orlando M, Tufano MA.
Seconda Università degli Studi di Napoli - Dipartimento di Medicina Sperimentale
Sezione di Microbiologia e Microbiologia Clinica
L’epitelio costituisce un importante barriera contro l’invasione di microrganismi. Le cellule epiteliali rilasciano peptidi antimicrobici, importanti molecole effettrici della risposta immune, con attività oltre che battericida/batteriostatica anche pro o antiinfiammatoria. Almeno quattro peptidi antimicrobici sono stati identificati nella cute umana e nei cheratinociti: le ß defensine e
LL37. Le ß-defensine sono peptidi cationici isolate per la prima volta nei granuli citoplasmatici dei neutrofili di mammifero e
nelle cellule di Paneth dell’intestino tenue, esse sono espresse in diversi tipi di cellule epiteliali, cute compresa. Recentemente
è stato dimostrato che i peptici antimicrobici possono svolgere anche altre funzioni. LL37, per esempio, induce angiogenesi sia
in vivo che in vitro. L’angiogenesi, definita come la formazione di nuovi vasi sanguigni a partire da vasi preesistenti, è un elemento centrale sia nei processi fisiologici che patologici. I fattori angiogenici possono essere diretti e indiretti. I fattori diretti,
stimolano direttamente la formazione di vasi sanguigni, quelli indiretti promuovono la neovascolarizzazione mediante stimolazione paracrina di fattori angiogenici diretti. VEGF (vascular endothelial growth factor) è il principale fattore angiogenico diretto che influenza la vasculogenesi durante l’embriogenesi e l’angiogenesi fisiologica e neoplastica. In questo studio è stata analizzata la capacità del peptide sintetico HBD2 di indurre l’espressione di molecole coinvolte nell’angiogenesi quali VEGF e
metalloproteasi. Queste ultime giocano un ruolo importante nella degradazione della membrana basale e della matrice extracellulare nella ricostituzione dei tessuti, invasione tumorale e angiogenesi. A tale scopo, cellule HaCat sono state stimolate con il
peptide a tempi diversi e a varie concentrazioni. I livelli di espressione di VEGF sono stati analizzati mediante western blot,
mentre l’espressione delle metalloproteasi coinvolte è stata valutata mediante zimografia.
I risultati ottenuti indicano che HBD2 induce l’espressione di VEGF e l’aumento della metalloproteasi2, MMP2. Ciò suggerisce che HBD2 è un peptide antimicrobico multifunzionale che oltre ad avere un ruolo centrale nell’immunità innata, induce la
produzione di fattori angiogenici essenziali per la difesa dell’ospite, processi di cicatrizzazione di ferite e riparo tessutale.
ANALISI STRUTTURA-FUNZIONE DELL’APIRASI, PROTEINA ASSOCIATA ALLA VIRULENZA
PRODOTTA DA SHIGELLA E DA CEPPI DI ESCHERICHIA COLI ENTEROINVASIVI.
Serena Sarli1, Mauro Nicoletti2, Daniela Santapaola2, Piera Valenti3, Francesca Berlutti1.
1Dipartimento di Scienze di Sanità Pubblica, Università La Sapienza, Roma; 2Dipartimento di Scienze Biomediche, Università
“G. D’Annunzio”, Chieti; 3Dipartimento di Medicina Sperimentale, Seconda Università, Napoli, Italy.
L’apirasi o ATP-difosfoidrolasi (EC 3.6.1.5) è un enzima estremamente diffuso nel mondo delle cellule eucariotiche anche se il
suo ruolo nella fisiologia cellulare non è stato ancora determinato. E’ stato ipotizzato che l’apirasi potrebbe essere coinvolta nella
regolazione della concentrazione dei prodotti dell’idrolisi dell’ATP. Nei batteri, l’apirasi non è un enzima estremamente diffuso con l’eccezione, per quanto riguarda quelli patogeni, dei batteri enteroinvasivi Shigella spp. ed Escherichia coli enteroinvasivi (EIEC) che producono apirasi. apy, il gene strutturale dell’apirasi, è localizzato in una regione di DNA estremamente conservata del plasmide di virulenza di questi microrganismi e fa parte, insieme al gene ospB, di una unità trascrizionale bicistronica (operone ospB-apy) la cui trascrizione, che inizia a partire da un promotore localizzato a monte di ospB, è regolata dallo
stesso sistema che sovrintende all’espressione dei geni di virulenza. Considerando la sequenza nucleotidica del gene apy e le
caratteristiche biochimiche, l’apirasi dei batteri enteroinvasivi è stata classificata nella famiglia delle fosfatasi non-specifiche di
classe A. Sebbene il ruolo dell’apirasi nel meccanismo di patogenicità dei batteri enteroinvasivi non è stato ancora determinato, l’apirasi ed OspB sono considerate due proteine associate alla virulenza.
Utilizzando protocolli sperimentali classici (mutagenesi “random” e mutagenesi “sito-specifica”), in questo lavoro abbiamo isolato mutanti del gene apy utilizzando un terreno solido di selezione che mette in evidenza in modo specifico l’attività dell’apirasi con una semplice reazione colorimetrica. Le mutazioni isolate sono state quelle che determinavano variazioni di specificità dell’apirasi o che ne abolivano l’attività. I mutanti ottenuti sono stati sequenziati e le sequenze confrontate con quella del gene
selvaggio. I risultati ottenuti hanno permesso di dimostrare che Ala137, così come mutazioni (sostituzioni e/o delezioni) nelle
regioni di DNA del gene apy contenenti tre “motivi” specifici, presenti anche nelle fosfatasi non-specifiche di classe A, influenzano l’attività enzimatica dell’apirasi e che H93 svolge un ruolo importante per la sua specificità.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
155
MECCANISMI PATOGENETICI DI CEPPI DI PREVOTELLA INTERMEDIA E FUSOBACTERIUM
NUCLEATUM ISOLATI DA PARODONTOPATIE E DA INFEZIONI POLMONARI.
Milazzo I., LoBue A. M., Musumeci R., Speciale A., Blandino G.
Dipartimento di Scienze Microbiologiche e Scienze Ginecologiche. Università di Catania
I batteri anaerobi da soli (soprattutto parodontopatici) o associati ad enterobatteri sono i microrganismi più frequentemente
riscontrati nelle polmoniti da aspirazione o negli ascessi polmonari.
Scopo dello studio è stato quello di identificare i potenziali meccanismi di patogenicità messi in atto in queste patologie da parte
di Prevotella intermedia e Fusobacterium nucleatum. Sono state saggiate le diverse potenzialità di adesione alle cellule epiteliali, di invasività intracellulare e di coaggregazione di questi due patogeni con E. coli e K. pneumoniae.
I saggi di adesione e di internalizzazione sono stati condotti su cellule epiteliali orali KB utilizzando ceppi di Prevotella intermedia (1 ceppo isolato da parodontopatia, 1 isolato da polmonite da aspirazione) e di Fusobacterium nucleatum (1 ceppo isolato da parodontopatia, 1 ceppo isolato da ascesso polmonare), seguendo tecniche standardizzate.
Inoltre, i saggi sono stati condotti in paragone al ceppo P. gingivalis 381 (FDC) con documentata capacità di adesione ed internalizzazione.
Per i singoli ceppi di F. nucleatum e P. intermedia il saggio di coaggregazione è stato effettuato con 1 ceppo di E. coli ed 1 di
K. pneumoniae, mediante visual assay (Kinder, 1989) e misurazioni spettrofotometriche (Handley, 1987).
I 2 isolati di F. nucleatum mostrano buoni valori di adesione pari a circa 106 CFU/ml e sovrapponibili a quelli del ceppo controllo P. gingivalis 381. Il saggio di internalizzazione mostra valori più elevati per il ceppo isolato da parodontopatia (1,5x105
CFU/ml) rispetto a quelli ottenuti per l’isolato da ascesso polmonare (9x104 CFU/ml). I 2 isolati di P. intermedia mostrano valori di adesività sovrapponibili tra loro ma inferiori rispetto a quelli di F. nucleatum. Per il saggio di internalizzazione valori significativi sono stati osservati solo per il ceppo di P. intermedia isolato da polmonite. Gli esperimenti di coaggregazione di F.
nucleatum con E. coli e con K. pneumoniae hanno evidenziato entrambi un fattore di coaggregazione di +4 per i due isolati clinici. Entrambi i test di coaggregazione di P. intermedia con E. coli e con K. pneumoniae evidenziano un fattore + 3 per l’isolato da polmonite e +2 per l’isolato da parodontopatia.
In conclusione, i risultati mostrano una maggiore potenzialità patogenetica per i ceppi di F. nucleatum e di P. intermedia isolati da infezioni polmonari rispetto a quelli isolati da parodontopatia.
EFFETTI DELLA CHLAMYDIA TRACHOMATIS SULL’INTEGRITÀ DEL DNA DEGLI SPERMATOZOI E SULL’ESTERNALIZZAZIONE DELLA FOSFATIDILSERINA.
A. Stivala, M. Salmeri, A. Garozzo, G. Tempera - Dipartimento di Scienze Microbiologiche - Università di Catania;
A. Satta, E. Vicari, A.E. Calogero
Dipartimento di Scienze Biomediche. Sez. di Endocrinologia, Andrologia e Medicina Interna - Università di Catania.
La Chlamydia trachomatis nell’uomo è generalmente associata a epididimiti e/o prostatiti che possono portare a stenosi del sistema duttale, ad orchiti, oppure a un danno della funzione delle ghiandole accessorie sessuali maschili. Precedenti lavori hanno
dimostrato che l’infezione da Chlamydia trachomatis porta ad un declino della motilità spermatica e ad un aumento del numero
degli spermatozoi non vitali. Questi effetti sono mediati da un incremento della fosforilazione della tirosina a livello della coda
dello spermatozoo e possono essere causa d’infertilità.
Lo scopo di questo studio è stato quello di investigare gli effetti in vitro della Chlamydia trachomatis serovar E sull’integrità
del DNA spermatico, essenziale per la capacità fertilizzante degli spermatozoi.
Spermatozoi, provenienti da volontari normozoospermici, sono stati incubati per 6 e 24 ore con concentrazioni crescenti di corpi
elementari (EB). Per ogni campione venivano valutati la traslocazione della fosfatidilserina (PS) di membrana e la frammentazione del DNA mediante citofluorimetria. La traslocazione della PS è stata studiata con l’Annessina V coniugata con FITC e
ioduro di propidio (PI). La frammentazione del DNA è stata studiata mediante il saggio TUNEL. La valutazione statistica è stata
eseguita applicando l’analisi della varianza a una via (ANOVA) eseguita mediante il test di Duncan.
I risultati ottenuti dopo 24 ore di incubazione hanno dimostrato che l’infezione con EB di Chlamydia trachomatis alle concentrazioni di 300, 3000 e 30000 IFU incrementava in maniera significativa la percentuale di spermatozoi con PS traslocata
(p<0.001, ANOVA). In particolare, concentrazioni pari a 3000 IFU hanno mostrato un incremento significativo della percentuale
di spermatozoi con esternalizzazione di PS, rispetto al controllo di spermatozoi incubati senza EB, e a quelli incubati con EB
pari a 300 IFU (p<0.05, Duncan test). Un ulteriore incremento significativo è stato osservato alla concentrazione di 30000 IFU
(p<0.05 vs. 0, 300, 3000 IFU di EB, Duncan test). Dopo 6 ore di incubazione si evidenziava soltanto un debole effetto.
I risultati ottenuti dallo studio della frammentazione del DNA degli spermatozoi, hanno evidenziato un incremento statisticamente significativo sia dopo 6 che 24 ore di incubazione. Questo segnale tardo apoptotico si aveva solo con la concentrazione
più alta di EB (30000 IFU) (p<0.05 vs. 0, 300 e 3000 IFU, Duncan test)
Questi dati dimostrano che l’infezione da Chlamydia trachomatis potrebbe alterare la permeabilità della membrana e/o danneggiare il DNA degli spermatozoi interferendo sulla capacità fertilizzante degli spermatozoi.
156
32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
ARTRITE SETTICA SPERIMENTALE INDOTTA DA CEPPI NON TOSSINOGENICI DI
CORYNEBACTERIUM DIPHTHERIAE
Manuela Puliti1, Christina von Hunolstein2 , Maurizio Marangi1, Francesco Bistoni1, Luciana Tissi1
1 Sezione di Microbiologia, Dipartimento di Medicina Sperimentale e Scienze Biochimiche, Università di Perugia, 2
Dipartimento di Malattie Infettive, Parassitarie ed Immunomediate, Istituto Superiore di Sanità, Roma
Corynebacterium diphtheriae (C. diphtheriae) causa infezioni localizzate al tratto respiratorio. Oltre alla faringite o alla laringotracheite, sono state descritte altre manifestazioni cliniche associate a C. diphtheriae, come batteriemia, endocardite, meningite,
osteomielite ed ascessi epatici e splenici. Sono stati inoltre descritti casi di artrite settica dovuti a ceppi non tossinogenici di C.
diphtheriae. Per meglio definire i meccanismi patogenetici responsabili della comparsa di artrite, nel nostro laboratorio è stato
messo a punto un modello sperimentale murino di infezione con diversi ceppi non tossinogenici di C. diphtheriae. Tre isolati
clinici provenienti da pazienti affetti da severa faringite/tonsillite sono stati usati in questo studio. Topi CD1 sono stati inoculati
con diverse dosi infettanti di C. diphtheriae varianti gravis o mitis. Sono stati quindi valutati i seguenti parametri: mortalità,
comparsa, incidenza e gravità dell’artrite, crescita dei microrganismi negli organi, variazioni del profilo citochinico. I topi sono
stati infettati con 2 x 108, 5 x 107 o 1 x 107 CFU/topo di ciascun ceppo. La dose più alta causava la morte del 100% degli animali in due giorni, indipendentemente dal ceppo usato. Tutti i ceppi inducevano artrite alla dose di 5 x 107 CFU/topo. I segni
clinici di lesioni articolari comparivano a distanza di tre giorni dall’infezione, fino a giungere ad un massimo nell’arco di una
settimana, in una percentuale del 40-60% degli animali. In seguito, si assisteva ad un progressivo miglioramento delle lesioni
fino a giungere ad una completa remissione nell’arco di 20 giorni. I microrganismi erano isolati dal sangue fino al settimo giorno
dall’infezione, mentre persistevano nelle articolazioni per più di due settimane. Nelle articolazioni si osservava inoltre una rilevante produzione di IL-1 ß ed IL-6. L’artrite sperimentale indotta da C. diphtheriae sembra avere caratteristiche simili a quella osservata nell’uomo. Infatti, le lesioni articolari, anche se non particolarmente gravi, sono caratterizzate da comparsa di
eritema e gonfiore, ed i microrganismi sono sempre isolati dalle lesioni. Quindi, questo modello sperimentale può essere utile
per studiare i meccanismi infiammatori ed immunologici coinvolti in questa patologia e per lo sviluppo di nuovi approcci terapeutici.
STUDIO DI UN MUTANTE DI LEGIONELLA PNEUMOPHILA SIEROGRUPPO 6: INDIVIDUAZIONE
DI UNA MUTAZIONE NEL GENE DOTA
M. Scaturro, G. De Ponte, S. Meschini, G. Arancia, M. Castellani Pastoris e M. L. Ricci
Istituto Superiore di Sanità, Roma
Legionella pneumophila è un patogeno intracellulare facoltativo, responsabile di una forma di polmonite atipica ad elevata letalità. L.pneumophila invade e si moltiplica all’interno dei macrofagi alveolari, inibendo il sistema di fusione fagosoma-lisosoma.
Il meccanismo che regola questa funzione non è del tutto noto, sebbene alcuni geni responsabili del killing cellulare siano stati
individuati nel locus dot/icm. Abbiamo isolato da un ceppo clinico virulento di L. pneumophila sierogruppo 6 (Vir+), un mutante spontaneo avirulento (Vir-) e aflagellato.Questo mutante, inoltre, se inoculato in topi A/J, è in grado di proteggere gli stessi
da un successivo challenge letale con il ceppo virulento di L. pneumophila.
Obiettivo di questo studio è stato quello di determinare le alterazioni che hanno compromesso la virulenza di Vir- utilizzando
approcci di biologia cellulare e molecolare.
I ceppi Vir + e Vir- sono stati saggiati in prove di adesività con linee cellulari (A549 e WI26VA4) ed in esperimenti di moltiplicazione intracellulare in macrofagi umani del sangue periferico. Gli estratti proteici dei due ceppi sono stati analizzati mediante Western blot. Esperimenti di inibizione fagosoma-lisosoma sono stati condotti, utilizzando come marker organello-specifico
la proteina LAMP-1. Successivamente è stata effettuata l’analisi della sequenza del gene dotA, il cui prodotto proteico svolge
un ruolo fondamentale nella patogenesi di L.pneumophila, e di altri geni, coinvolti e non, nella virulenza.
Vir- ha mostrato un ridotto grado di adesione (0.8%) rispetto a Vir+ (3%) e una drammatica alterazione nella capacità di crescita nei macrofagi umani. Il confronto degli estratti proteici dei due ceppi mediante Western blot ha mostrato l’assenza di DotA
in Vir-. L’osservazione al microscopio confocale ha evidenziato una colocalizzazione della proteina LAMP-1 con il fagosoma
contenente Vir-, suggerendo una attivazione del sistema di fusione fagosoma-lisosoma.
L’analisi della sequenza del gene dotA ha individuato una transizione CÆT di dotA in Vir-, responsabile di formazione di un
codone di stop. Esperimenti di RT-PCR hanno evidenziato che l’mRNA-dotA è comunque trascritto, ipotizzando che il messaggero possa essere successivamente degradato.
Studi futuri prevedono esperimenti di complementazione al fine di verificare, sia in vitro che in vivo, in che misura la mutazione del gene dotA sia coinvolta nella virulenza di Vir- e se la perdita del flagello abbia interferito su questa od altre mutazioni
non ancora individuate.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
157
STUDIO IN VITRO E IN VIVO DI UN CEPPO DI BORDETELLA PERTUSSIS MUTANTE PER IL GENE
CODIFICANTE LA PROTEINA 69-KDa
Paola Stefanelli, Cecilia Fazio*, Giorgio Fedele, Fabiana Spensieri, Clara Maria Ausiello e Paola Mastrantonio.
Dipartimento Malattie Infettive, Parassitarie e Immunomediate, Istituto Superiore di Sanità - Roma
Bordetella pertussis e’ l’agente eziologico della pertosse, un’infezione acuta delle vie respiratorie. Sebbene non sia completamente nota la patogenesi del batterio, sono noti tuttavia diversi fattori di virulenza quali la tossina della pertosse (PTX), la fitoagglutinina filamentosa (FHA), e la proteina di 69-KDa o pertactina (PRN). In particolare, per la 69-KDa sono stati identificati
diversi “motifs” (RGD) importanti nel processo di adesione cellulare. Inoltre, questa proteina e’ considerata un importante
immunogeno ed e’ presente nei vaccini acellulari antipertosse.
Il ceppo B. pertussis 00414 , oggetto dello studio, e’stato isolato da un caso di fallimento vaccinale in un bambino con diagnosi di pertosse dopo vaccinazione con un vaccino acellulare. Questo ceppo, per la presenza di una “Insertion Sequence” IS ( 481)
nella regione 2 del gene prn codificante la proteina di 69-KDa, non esprime la proteina sulla superificie (PRN-). Il ceppo è stato
studiato a livello molecolare per definirne il suo profilo in RFLP e per l’espressione degli altri fattori di virulenza , PTX e FHA,
in western-blotting.
Inoltre e’ stata valutata la sua capacità di infettare cellule dendriche (DC) derivate da monociti umani in esperimenti di fagocitosi ed in vivo in un modello di infezione respiratoria murina.
B. pertussis 00414 PRN- ha mostrato una maggiore capacità di invadere le DCs rispetto al ceppo di riferimento ma con una
cinetica di sopravvivenza intracellulare comparabile. In vivo, il ceppo 00414 PRN- , e’stato in grado di infettare topi CD1 con
la stessa efficienza del ceppo selvaggio fino al 10° giorno di osservazione senza differenze significative nella “clearance” batterica.
I risultati di questo studio sembrano indicare che il ceppo di B. pertussis PRN- e’ in grado di indurre infezione in vitro e in vivo
con la stessa efficienza del ceppo selvaggio. Considerando il ruolo svolto dalla pertactina nella adesione di B. pertussis , questo
risultato può indicare che il processo di adesione ed invasione di B. pertussis è multifattoriale ed il batterio è in grado di infettare efficaciemente l’ospite anche in mancanza di una di queste adesine di superficie.
ANALISI DELLA PRESENZA DI GENI CODIFICANTI ZINCO-METALLOPROTEINASI IN CEPPI DI
STREPTOCOCCUS PNEUMONIAE
Camilli R.1, Del Grosso M.1, Memmi G.2, Pozzi G.2, Pantosti A.1, Oggioni M.R.2
Dipartimento MIPI, Istituto Superiore di Sanità1, Roma, e LAMMB, Università di Siena2, Siena.
Le zinco-metalloproteinasi (2-4) presenti sulla superficie cellulare dello Streptococcus pneumoniae (IgA1- proteasi, ZmpB,
ZmpC, ZmpD) sono coinvolte nella patogenicità del batterio.
Lo scopo di questo lavoro è stato quello di analizzare la presenza e la distribuzione dei geni codificanti le metalloproteinasi iga,
zmpB, zmpC e zmpD, in ceppi di S. pneumoniae. In totale sono stati analizzati 181 ceppi di S. pneumoniae: 140 sono stati isolati da malattie invasive (batteriemie, meningiti) negli anni 1999-2000 e sono rappresentativi dei sierotipi (st) circolanti in Italia;
16 ceppi sono stati isolati dal nasofaringe di bambini sani in asili nido di Roma nel 1999. In aggiunta, 13 ceppi appartenenti al
st 8 e 12 appartenenti al st 11A sono stati esaminati per confermare i risultati. La presenza di ciascun gene è stata rilevata mediante PCR, utilizzando nel caso di iga, zmpB e zmpC, coppie di primers disegnati sulle regioni conservate a monte e a valle dei
rispettivi geni. Nel caso di zmpD, essendo questo gene presente nello stesso locus di iga, la PCR è stata ottenuta utilizzando un
primer a monte del gene iga ed un primer a valle, all’interno del gene zmpD.
Tutti i ceppi analizzati presentavano i geni iga e zmpB. Tra i 140 ceppi invasivi, soltanto il 14% presentavano zmpC, tra cui tutti
i ceppi appartenenti ai st 8 e st 11A. Questa associazione è stata confermata ampliando il campione dei ceppi appartenenti a questi st. Il 53% dei 140 ceppi invasivi è risultato positivo per zmpD, la cui presenza era maggiormente diffusa in alcuni st (7F, 8,
9N, 11A, 12F, e 14 e 19A). Non è stata evidenziata associazione tra la presenza di zmpC o zmpD e la malattia (batteriemia o
meningite) causata dal ceppo, mentre zmpC è risultato essere presente più frequentemente nei ceppi isolati da pazienti anziani
(≥65 anni) (p= 0.0058, c2 test).
Per quanto riguarda i 16 ceppi isolati da portatori, solo 1 ceppo (6%), appartenente al st 11A, portava zmpC, mentre 8 ceppi
(50%) possedevano il gene zmpD.
Questo studio ha dimostrato che iga e zmpB sono presenti in tutti i ceppi di S.pneumoniae esaminati. Per quanto riguarda
zmpC e zmpD la loro presenza appare associata al sierotipo e pertanto potrebbero rappresentare fattori di virulenza sierotipospecifici.
158
32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
PREVALENZA DELLA PROTEINA DI ADESIONE SOF IN CEPPI DI STREPTOCOCCUS PYOGENES
PROVENIENTI DA FARINGOTONSILLITI E DA PORTATORI IN CORRELAZIONE CON ALTRE
ADESINE QUALI PRTF1/SFBI E PRTF2/PFBPI
R. Musumeci*, C. Cocuzza*, I. Milazzo**, C. Rapisarda**, L. Alario**, A. Speciale**, G. Blandino**
* Dipartimento di Medicina Clinica, Prevenzione, Biotecnologie Sanitarie – Università di Milano – Bicocca, Monza
** Dipartimento di Scienze Microbiologiche e Scienze Ginecologiche - Università di Catania
Streptococcus pyogenes presenta diverse proteine di superficie che favoriscono il legame alla fibronectina delle cellule ospiti e
in alcuni casi l’internalizzazione, favorendo così l’instaurarsi dello stato di portatore.
Scopo di questo studio è stato quello di caratterizzare la presenza della lipoproteina bifunzionale SOF/SfbII (il fattore di opacizzazione del siero di S. pyogenes in grado di legarsi alla fibronectina ed utilizzata come marker per la sierotipizzazione) nei
60 ceppi di S. pyogenes isolati da portatori (29) e da soggetti con faringotonsillite (31) in cui è già stata studiata la presenza delle
proteine PrtF1/SfbI e PrtF2/PfbpI (quest’ultima più frequentemente riscontrata nei ceppi isolati da portatore) (R. Musumeci et
al. CID 37:173-9;2003).
Il gene sof/sfbII è stato evidenziato mediante opportuni primers; il DNA estratto è stato amplificato, quindi separato mediante
gel elettroforesi (agarosio 1%) e visualizzato secondo tecniche standardizzate.
Il gene sof/sfbII era presente in 11/31 ceppi (35,5%) di S. pyogenes isolati da faringotonsillite e in 8/29 ceppi ( 27,6%) isolati da
portatore.
Nel gruppo faringotonsillite il gene sof era presente, da solo, in 2 ceppi su 31 (6,5%) ed in 7 (22,6%) ceppi insieme ad entrambi i geni prtF1 e pfbpI; inoltre, era presente con prtF1 o con pfbpI soltanto in un ceppo (3,2%).
Nel gruppo portatore il gene sof non era mai presente da solo; in quattro ceppi (13,8%) era presente insieme ad entrambi i geni
prtF1 e pfbpI, in tre ceppi (10,3%) con pfbpI ed in un ceppo (3,4%) con prtF1.
Paragonando i due gruppi in esame si evince che il gene sof è più presente nei ceppi isolati da faringotonsillite (35,5% versus
27,6%); inoltre, in questo gruppo, i geni codificanti le tre proteine sono riscontrati contemporaneamente con una frequenza più
alta (22,6% versus 13,8%) .
Questi risultati indicano per la proteina SOF/SfbII un probabile ruolo nella patogenicità di S. pyogenes direttamente correlabile
alla concomitante presenza di altre adesine quali PrtF1/SfbI o PrtF2/PfbpI.
L’INSERZIONE DI IS1414 MODIFICA L’ESPRESSIONE DI GENI DI VIRULENZA IN SALMONELLA
ENTERICA SIEROTIPO ABORTUSOVIS.
Sergio Uzzau, Giovanni Falchi, Donatella Bacciu, Nunzia Alessandra Canu, Salvatore Rubino.
1 Dipartimento di Scienze Biomediche, Università di Sassari, Sassari
L’elemento IS1414 è largamente diffuso tra i batteri patogeni della specie Escherichia coli e, recentemente, è stato identificato
anche in Salmonella enterica, unicamente nel sierotipo Abortusovis. In questi batteri IS1414 è presente in un numero di copie
molto elevato (> 20) e la sua inserzione in loci genici di virulenza batterica potrebbe essere associata all’evoluzione di biotipi
maggiormente adattati alla specie animale ospite. In questo studio abbiamo mappato 17 siti di inserzione della sequenza IS1414
nel genoma di Salmonella enterica sierotipo Abortusovis. In alcuni casi, l’inserzione di IS1414 determina la distruzione di geni
regolatori della trascrizione di operoni di fimbrie o, direttamente, causa l’interruzione di effettori di virulenza. Un caso particolare è rappresentato dalla inserzione di IS1414 in una corta sequenza intergenica compresa tra l’operone hilAiagB e il gene sptP,
i quali sono codificati su catene complementari e trascritti in modo convergente. L’inserzione cade in posizione centrale rispetto alla sequenza palindromica che rappresenta il segnale di stop trascrizionale. La marcatura di HilA e SptP mediante epitopetagging e la loro analisi mediante immunoblotting, mostra una diversa espressione di queste proteine nel sierotipo Abortusovis
rispetto al sierotipo Typhimurium, IS1414 [-]. Questa evidenza è molto importante alla luce del fatto che HilA è un fattore master di regolazione di geni di invasione e pro-infiammatori durante la colonizzazione intestinale, mentre SptP rappresenta un effettore anti-infiammatorio e pro-apoptotico. La variazione reciproca di questi fattori correla bene con i differenti tratti di patogenicità delle salmonellosi indotte dai sierotipi Typhimurium e Abortusovis, caratterizzate, rispettivamente, dalla presenza e
dalla assenza di enterite.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
159
INTERAZIONE TRA I LIPIDI E LA TOSSINA-α DELLO STAPHYLOCOCCUS AUREUS MEDIANTE
STUDI AD ELEVATA RISOLUZIONE
Stefania Galdiero1, Mariateresa Vitiello2, Massimiliano Galdiero3
1 Dipartimento di Chimica Biologica & Istituto di Biostrutture e Bioimmagini, Università di Napoli “Federico II”;
2 Dipartimento di Patologia Generale, Facolta’ di Medicina e Chirurgia, Seconda Università degli Studi di Napoli;
3 Dipartimento di Medicina Sperimentale, Sez. di Microbiologia e Microbiologia Clinica, Facolta’ di Medicina e Chirurgia,
Seconda Università degli Studi di Napoli.
La tossina-α secreta dallo Staphylococcus aureus è una esotossina citolitica costituita da un polipeptide di 33 kDa solubile in
acqua. Essa è dotata di proprietà emolitiche, dermolitiche e letali per gli animali da esperimento ed è considerata essere un
importante fattore di virulenza. Il polipeptide ha una elevata attività di superficie essendo capace sia di inserirsi in monostrati
lipidici preformati sia di formare da sola dei monostrati all’interfaccia aria-acqua. L’emolisi indotta dalla tossina-α è stata ben
studiata e si verifica attraverso vari stadi: a) fissazione della tossina alla membrana cellulare, b) oligomerizzazione della proteina nella membrana formando un canale transmembrana costituito da un eptamero della tossina, c) fuoriuscita di piccoli ioni e
molecole che portano alla lisi osmotica dell’eritrocita. Successivamente alla tossina-α, sono state evidenziate numerose altre
esotossine batteriche che si comportano da tossine formando pori.
In questi studi vengono dimostrati per la prima volta i rapporti ad alta risoluzione strutturale tossina-fosfolipidi di membrana.
I risultati permettono di comprendere, su base molecolare, perché la α-emolisina si lega preferenzialmente a membrane contenenti
fosfocolina.
IN VITRO ACTIVITY OF BISMUTH THIOLS AGAINST STENOTROPHOMONAS MALTOPHILIA
G. Di Bonaventura 1,2, P. Domenico 3, I. Spedicato 1,2, C. Picciani 1,2, R. Piccolomini 1,2
1 Department of Biomedical Sciences, and 2Aging Research Center, Ce.S.I., “G. D’Annunzio” University Foundation, ChietiPescara, Italy.
3 Winthrop-University Hospital, Mineola, and State University of New York School of Medicine, Stony Brook, New York, USA
Background. Stenotrophomonas maltophilia is a newly emerging pathogen being detected with increasing frequency in patients
with cystic fibrosis (CF). The impact of this multidrug-resistant organism on lung function is uncertain. The optimal treatment
for S. maltophilia in CF patients is unknown. Bismuth thiols (BTs) are a group of novel biocides with potent, broad-spectrum
activity. Aim: We determined the in vitro activity of BTs alone and in combination with tobramycin (TOB) against S. maltophilia
clinical isolates from CF patients.
Materials & Methods: A total of 20 S. maltophilia strains were included in the study. The individual BE and BisBalPyr MIC
and MBC (µg/ml) were determined, in triplicate, by microdilution method in accordance with NCCLS standards. In vitro interaction of subinihibitory BE and tobramycin concentrations was investigated by using time-kill technique against strain SM86
selected for its TOB-resistance (MIC: 128 µg/ml).
Results: BE e BisBalPyr showed comparable activity against S. maltophilia, as summarized in the Table. Association of BE and
TOB at 1\2xMIC resulted in synergistic effect against SM86 after 6h-exposition (Figure).
Mean values (µg/ml)
BTs
MIC range
BE
2–8
MIC50
3.3
BisBalPyr
0.6 - 4
2
MIC90
MBC range
4
2.6 - 8
4
2-4
MBC50 MBC90
4
4
4
4
Conclusion: These in vitro data appear promising for potential use of BTs in
the treatment of CF infections caused by S. maltophilia, particularly against
TOB- resistant strains. Clinical implications and significance of these findings
demand to be validated by in vivo investigations.
160
32° CONGRESSO NAZIONALE DELLA
PRODUZIONE DI BIOFILM E SENSIBILITÀ AGLI ANTIFUNGINI DI TRICHOSPORON ASAHII.
G. Di Bonaventura 1,2, C. Picciani 1,2, I. Spedicato 1,2, D. D’Antonio 3, R. Piccolomini 1,2
1 Dipartimento di Scienze Biomediche e 2 Centro Scienze dell’Invecchiamento, Università “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara;
3 Servizio di Microbiologia Clinica, Dipartimento di Ematologia ed Oncologia, Opsedale Spirito Santo, Asl Pescara.
Introduzione. Trichosporon asahii è un micete lievitiforme considerato un patogeno “emergente” soprattutto nell’ospite immunocompromesso, nel quale causa micosi sistemiche localizzate o disseminate spesso associate ad elevata mortalità. La formazione di biofilm rappresenta una modalità di crescita “protetta” in cui le cellule resistono all’azione di agenti chemioterapici e
da cui si disperdono per colonizzare nuove nicchie. A tutt’oggi, non esistono evidenze sperimentali sulla capacità di T. asahii di
produrre biofilm. Obiettivo. Valutare la capacità di produrre biofilm da parte di T. asahii e di correlare questa attitudine con il
pattern di sensibilità agli antifungini convenzionali. Materiali e Metodi. In questo studio sono stati testati 13 ceppi di T. asahii: 11 isolati clinici e 2 ceppi di riferimento internazionale ATCC (201110 e 90039). La capacità di produrre biofilm su polistirene (inoculo iniziale: 105 cfu/ml; terreno: RPMI1640-MOPS; fase di adesione: 60 minuti; incubazione: 37°C per 48h) è stata
valutata mediante saggio spettrofotometrico con cristalvioletto di Hucker ed espressa come densità ottica (OD492). La sensibilità in vitro a caspofungina (CASPO), amfotericina B (AMB), fluconazolo (FLC) e voriconazolo (VRC) è stata saggiata mediante microdiluizione in brodo, in accordo agli standards NCCLS M27-A2. Risultati. Tutti i ceppi saggiati sono risultati essere
positivi per la produzione di biofilm, sebbene la propensione ad aderire al polistirene vari in maniera considerevole nella popolazione testata (range: 0.120<OD492<0.600; OD492 media ± DS: 0.310 ± 0.145). I valori di MIC50 e MIC90 sono risultati essere: 0.03 e 0.06 µg/ml, 2 µg/ml, 4 e 8 µg/ml per VRC, FLC, e AMB, rispettivamente. CASPO ha prodotto lo stesso valore di
MIC (16 µg/ml) per tutti i ceppi testati. Generalmente, la quantità di biofilm prodotto è tanto maggiore quanto maggiore è la
sensibilità agli antifungini, sebbene tale correlazioni risulti non essere statisticamente significativa (r Pearson: -0.516, -0.448, 0.386 per AMB, FLC e VRC, rispettivamente). Non è stato possibile valutare tale tipo di correlazione per CASPO. Conclusioni.
La produzione di biofilm rappresenta un fattore di virulenza costantemente presente in T. asahii. Tuttavia, questo fattore non
risulta essere correlato con il grado di sensibilità delle forme planctoniche agli agenti antifungini.
PCR REAL-TIME PER L’IDENTIFICAZIONE DI CEPPI DI NEISSERIA MENIGITIDIS RESISTENTI
ALLA RIFAMPICINA O CON DIMINUITA’ SENSIBILITA’ ALLA PENICILLINA
Paola Stefanelli, Arianna Neri*, Alessandra Carattoli, Paola Mastrantonio
Dipartimento di Malattie Infettive, Parassitologiche e Immunomediate
Istituto Superiore di Sanità-Roma
Rifampicina e penicillina vengono utilizzate, rispettivamente, nella profilassi e nella terapia delle meningiti meningocicche.
Mentre il meccanismo di resistenza alla rifampicina e’ attribuito alla presenza di una delle due mutazioni puntiformi finora
descritte nella regione corrispondente al cluster I del gene rpoB, la diminuita sensibilità alla penicillina e’ dovuta a traslocazioni di segmenti di DNA esogeno nel gene penA codificante le Penicillin Binding Proteins (PBPs) del meningococco.
Dai dati rilevati dalla Sorveglianza delle Meningiti Meningococciche in Italia, di cui l’ISS è coordinatore, e’ emerso un crescente aumento di ceppi di Neisseria meningitidis a diminuita sensibilità alla penicillina con MICs≥0.094mg/L, (PenI). Alcuni
ceppi sono risultati, inoltre, resistenti alla rifampicina con MIC≥4mg/L, (RifR) .
Data l’importanza di un’indicazione veloce del comportamento del meningococco verso questi due antibiotici è stato messo a
punto un metodo in PCR Real-Time che è in grado di indentificare contemporaneamente ceppi PenI e RifR. Nel sistema di
rilevamento delle mutazioni responsabili dei due diversi fenotipi di resistenza o di diminuità sensibilità, sono state utilizzate due
coppie di sonde FRET. La prima coppia è stata disegnata in modo da comprendere il codone responsabile della sostituzione
amino acidica Ile566-Val (ATT-GTT) sempre presente nei ceppi di meningococco con traslocazioni nel gene penA, e la seconda, disegnata sulla sequenza dei ceppi sensibili alla rifampicina, comprende la regione del cluster I del gene rpoB. Utilizzando
lo stesso metodo di ibridizzazione nucleotidica l’analisi dei prodotti di amplificazione ha reso possibile il riconoscimento univoco di ceppi con fenotipo PenI da ceppi con fenotipo RifR rispetto a ceppi sensibili. In particolare, tutti i ceppi PenI avevano
una Tm di 55°C mentre i ceppi RifR una Tm di 49°C . Questa differenza di circa 6 gradi, nelle curve di melting dei due fenotipi, risulta particolarmente utile nello screening rapido di ceppi di N. meningitidis e potrà trovare anche una diretta applicazione
in campioni clinici di casi di meningite meningococcica risultati coltura negativi.
SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA
161
INDICE DEGLI AUTORI
A.
Abbruscato P.
Alario L.
Albanese A.
Alberghino S.
Alifano. P.
Alifraco N.
Allocati N.
Alma A.
Alonzo V.
Alquati C.
Altieri A.
Amato T.
Amici A.
Amicosante G.
Ammatuna E.
Ammatuna P.
Anastasi D.
Andreoni V.
Angelini R.
Angelotti T.
Angeretti A.
Angiolella L.
Antonelli G.
Antonelli L.
Antonelli M.
Aquaro S.
Aquilanti L.
Arancia G.
Ardito F.
Argentini C.
Arista S.
Armanino R.
Arru G.
Artini M.
Asticcioli S.
Astone V.
Atragene D.
Auffray Y.
Auricchio L.
Ausiello C.M.
Azzi A.
Azzimonti B.
Azzocchi R.
64
159
106
53
148
87
122
50
67
143
124
142
79
9
119
9
132
87
79
83
133
66
10
63
114
61
55
157
58
152
151
89
72
104
91
72
73
76
96
78
59
74
105
120
Bernasconi M.
Bert E.
Bertozzi A.
Bestetti G.
Biagetti M.
Bianciotto V.
Bianco G.
Bianco P.A.
Biavati B.
Biolchini A.
Bistoni F.
Blandino G.
139
150
86
75
140
63
73
137
115
62
114
115
152
74
158
B.
Baccaglia A.
Bacciu D.
Baffone W.
Baglio O.
Baldanti F.
Balestra E.
Balestrieri E.
Balzaretti M.
Bambacioni F.
Banche G.
Barbanti F.
Barbaro R.
Baroni A.
Barreca G.S.
Basilico N.
Bassole I.
Batoni G.
Battista M.
Bazzana I.
Belardi P.
Belli C.
Bellocchi MC.
Bellomi F
Bellotti M.G.
Benagiano M.
Bendinelli M.
Benedetti-Valentini F.
Benedetto A
Bergallo M.
Berlutti F.
138
142
141
120
10
62
98
99
137
67
56
103
131
108
95
128
71
118
145
123
120
61
73
150
78
76
106
13
60
105
159
123
133
142
110
96
125
77
111
155
112
126
Blasi E.
Blasi F.
Boaretti M.
Boggia D.
Bon I.
Bonci F.
Bonello F.
Bonetti B.
Bonfante P.
Bonferoni M.C.
Bonfiglio G.
Bonito M.A.
Bonomi A.
Bonura C.
Bordoni D.
Borrelli O.
Bossa M.C.
Bosso P.
Bottai D.
Bottelli A.
Boudabous A.
Bramati S.
Bramato C.
Branca G.
Branca M
Brancatisano F.
Brandi G.
Brenciani A.
Brennan M.J.
Brigante G.
Broccolo F.
Brouwer C.P.J.M.
Bruni C.B.
Brunori M.
Brusetti L.
Bua A.
Budroni M.
Bugli F.
Buommino E.
Buonavoglia C.
Buonavoglia D.
Burattini O.
Burdino E.
Burioni R.
Burlacchini G.
Buzzini P.
121
141
68
143
50
65
83
50
86
72
68
92
156
69
11
113
154
61
76
123
72
65
93
27
66
121
103
55
115
124
105
71
73
54
119
141
94
13
77
86
147
128
22
90
68
148
136
50
94
16
126
131
102
53
116
60
80
137
85
93
135
94
159
133
157
102
142
143
77
74
103
106
114
119
150
51
128
155
137
C.
Cacciamo F.
Caffiero G.
Caggiano G.
Cainelli G.
Calà C.
Caliò R.
Callari A.
Callegan M.C.
Calogero A.E.
Camilli R.
Cammarota G.
Campa M.
Campana R.
Camussi G
Camuti A.P.
102
99
25
90
142
61
115
65
156
158
103
71
141
74
154
120
143
62
77
153
Canducci F.
Canepari P.
Cannas S.
Cannatelli M.A.
Cantani M.
Cantoni C.
Canu N.A.
Canzi E.
Capalbo F.
Capece A.
Capilongo V.
Capitelli F.
Capobianchi A.
Caporale B.
Cappelletti P.
Cappuccinelli P.
Capra G.
Caramella C.
Caratolli A.
Cardinale F.
Cardinali G.
Cardines R.
Caredda M.
Careddu A.M.
Cariani L.
Carletti S.
Carlone N.A.
Caronzolo D.
Carta A.
Caruso M.
Casaroli A.
Cascino S.
Cascio A.
Casolari C.
Casoli C.
Cassai E.
Cassanelli C.
Cassone A.
Cassone M.
Castellani Pastoris M.
Castellazzi M.
Castelli F.
Castro A.
Castrucci G.
Catalanotti P.
Cataldi T. R.I.
Catamo G.
Catania MR
Cattani P.
Cattani S.
Cauda R.
Cavalca L.
Cavallo G.P.
Cavallo R.
Cecchini FM.
Celandroni F.
Cenci E.
Cerquetti M.
Cervetti O.
Cervo A.
Cevenini R.
Cherif A.
Chiari S.
Chiarini F.
Chiavolini D.
Ciancia M.
Ciappellano S.
Cicchetti O.
Ciceroni L.
Cimino F.
Cimmino C.
Cinco M.
Ciocci A.
Ciotti M.
Cipriani P.
Ciusa M.L.
Claverys J.P.
Clementi F.
Clementi M
Coacci N.
73
137
94
67
55
11
159
87
124
52
50
64
112
9
146
148
75
93
161
119
55
100
144
114
109
80
67
135
94
83
141
103
152
144
63
79
89
58
57
157
72
12
98
79
88
83
107
117
59
144
149
140
133
60
97
65
68
100
118
58
36
54
114
115
70
114
87
124
107
86
49
12
66
13
105
108
70
55
73
55
Cocconcelli P. S.
Cochetti I.
Cocolin L.
Cocuzza C.
Colantuono C.
Colaruotolo D.
Colicchio R.
Colinon C.
Colleoni F
Colomba C.
Colombari B.
Colombo A.
Coluzzi M.
Comi G.
Conaldi PG
Conte M.P.
Conti G.
Conti S.
140
151
153
118
78
70
123
125
133
Corbett Y.
Corbucci C.
Cornaglia M.
Corrado F.
Correale P.
Corrente M.
Corte L.
Cossarizza A.
Cossu A.
Costantini C.
Costantini D.
Costanzo R.
Cristini F.
Croera C.
Crucci V.
Cucchiara S.
Cuffini A.M.
Cusi M.G.
13
147
11
90
153
91
115
148
101
135
151
69
123
14
11
73
90
67
63
70
95
135
75
96
14
53
55
69
128
128
109
92
45
121
56
115
67
14
102
159
114
150
152
133
74
115
128
67
95
96
68
125
125
102
140
151
126
111
112
107
134
80
137
51
160
124
78
107
106
131
93
50
60
80
143
52
74
103
143
79
113
89
130
116
151
117
34
64
157
9
123
63
89
139
84
158
145
105
78
96
140
59
69
126
98
118
123
146
109
132
149
51
54
D.
D’Anchise F.
D’Antonio D.
D’Arpino R.
D’Elios M.M.
D’Ercole S.
D’Inzeo T.
D’Isanto M.
Da carro C.
Daffonchio D.
Daniele R.
Dash S.
Dato S.
Davidson A.
De Andrea M.
De Carlo M.
De Carolis E.
De Chiara G.
De Fatima M.
De Feo V.
De Filippis A.
De Giglio I.
De Grazia S.
De Luca C
De Luca F.
De Philippis R.
De Ponte G.
De Santis F.
De Vecchi E.
De Vito G.
Debbia E.A.
Decorosi F.
Deiana P.
Del Grosso M.
Del Pezzo M.
Del Piano M.
Del Prete G.
Dell’Agli M.
Dell’Amico E.
Della Monica L.
119
152
73
144
106
129
133
Delogu G.
58
Deriu A.
94
Dessì D.
136
Dessì S.
57
Dettori S.
152
DeVitis L.R.
148
Di Bonaventura G.
160
Di Donna S.
49
Di Genova G.
14
Di Ilio C.
122
Di Luca D.
15
Di Marco V.
145
Di Pasqua R.
89
Di Pietro M.
105
Di Santo F.
62
Di Stefano R.
119
Di Stefano S.
103
Dianzani F.
137
Docquier J.D.
57
Dogterom-Ballering H.E.C. 68
Dolci L.
113
Dolei A.
72
Domenico P.
161
Donadio S.
15
Donalisio M.
75
Donelli G.
81
Donnarumma G.
130
Drago F.
153
Drago L.
123
Drago M.
111
Dragoni I.
43
Dugo P.
86
128
134
Fittipaldi A.
Florio W.
Focà A.
Folgore A.
Folgosa E.
Fontana C.
Fontana R.
Forte E.
Forti L.
Fortina G.
Fortina M.G.
Fortuna C.G.
Foschino R.
Francavilla A.
Francisco M.
Franciscone C.
Francolini I.
Franzetti L.
Frazzi R.
Friedrich K.G.
Frigeri F.
Fumarola L.
Furfaro D.
Furman Y.
161
15
106
129
142
101
101
71
69
125
77
F.
Fabbri G.
Fabio G.
Fadda G.
Falchi G.
Falciani F.
Falcioni T.
Fallucca S.
Famà N.
Farris G.A.
Fasano G.
Faschino R.
Fatichenti F.
Fattorini L.
Favalli C
Favalli F.
Favaro E
Favaro M
Favilli F.
Fazio C.
Fedele G.
Ferioli E
Ferraiolo A.
Ferraironi M.
Ferrante P.
Ferrari F.
Ferrari L.
Ferrari M.
Ferraro D.
Ferretti L.
Fianchino B.
Finamore E.
Fiorani P.
Fiore C.
Fiore M.
Fiorentino C.
Fiori B.
Fiori P.L.
61
144
37
66
106
126
142
37
141
105
120
16
114
83
55
77
13
110
73
110
71
78
78
73
18
112
16
93
100
79
119
55
141
132
104
85
9
86
66
69
77
110
124
118
17
G.
155
E.
Endimiani A.
Esin S.
Esposito R.
76
71
108
88
148
110
113
136
85
116
83
90
51
116
148
99
81
84
125
53
79
116
118
17
38
76
109
128
159
58
92
114
134
106
129
140
151
110
124
59
103
115
149
77
158
158
74
125
144
106
136
109
149
Gaeta C.
Gagetta M
Gagliardi M.C.
Galdiero E.
Galdiero M.
Galdiero M.
Galdiero S.
Gallè F.
Galletti P.
Galli A.
Garaci E.
Garau G.
Garcia Parra R.
Gariglio M.
Garlaschi M.L.
Garofalo C.
Garozzo A.
Garry R.F.
Garzaro M.
Gasbarri R.
Gasparetti C.
Gelmetti C.
Gemma C.
Gennari W.
Genovese D.
Gentile G.
Ghelardi E.
Giacca M.
Giacchino F.
Giacobini D.
Giammanco A.
Giammanco G.M.
Giannella S.
Gianotti N.
Giard J.C.
Gibellini D.
Giglio M.
Giltri G.
Gioia D.
Giorgetti E.
Giovanetti. E.
Giovannelli L.
Girardi E.
Girardo F.
Giuffrè A.
Giufrè M.
Giuliana G.
Glück R.
Gorga F.
Gori Savellini G.
Gorini R.
Gorlero F.
Gow N. A. R.
Graffeo R.
50
97
77
130
131
130
131
117
90
84
61
144
114
17
109
55
98
80
133
71
85
153
127
144
152
112
65
20
123
90
103
145
62
63
76
61
119
119
74
91
147
9
63
87
136
100
143
14
88
14
127
18
52
59
160
132
160
79
74
158
76
122
151
142
152
127
122
99
75
126
139
143
Granata M.
Granirei E.
Greco E.
Greco G.
Greco R.
Grelli S.
Grimaldi C.
Grimaldi E.
Grimont F.
Grimont P.A.D.
Grisoli P.
Grosso S.
Guaglianone E.
Guazzotti G.C.
Guenci T.
Gulletta M.
H.
Hartke A.l
Howieson J.G.
86
72
112
53
96
154
125
131
145
145
93
35
81
99
62
12
Lupetti A.
Lusso P.
Luzzago C.
Luzzaro F.
M.
Macchi B.
Maddau G.
Madeddu MA.
Madrau M.A.
Maffeis G.
Maggi F.
Magliani W.
76
144
I.
Iacoangeli S.
Iafusco D.
Iaiani G.
Iannelli F.
Iannitto E.
Iauk L.
Ibba F.
Ierardi E.
Immordino R.
Ingianni A.
Iona E.
Iovane M.R.
Isola D.
98
127
63
57
119
92
118
116
103
32
77
130
108
70
133
98
57
K.
Kayode K.O.
Khalap N.
Khalili K.
147
80
20
L.
La Regina N.
La Rosa G.
La Sorda M.
Laconi S.
Lama A.
Lamberti A.
Lamberti F.
Lambiase A.
Landolfo S.
Lanzieri N.
Lapenna A.
Lattanti M.
Lattanzi M.
Lavitola A.
Lazzarin A.
Le Breton Y.
Lefevre M.
Lembo D.
Lentati P.
Leone F.
Leporati G.
Liberto M.C.
Liciardi M.
Ligozzi M.
Lo Dico M.
Lo Presti M.
LoBue A.M.
Lolli S.
Lombardi G.
Lombardo L.
Longhi C.
Lorenzi P.
Losacco G.
Lucido M.
Lucini V
Lumini E.
Luongo C.
Luongo M.
144
143
66
32
75
108
150
117
74
130
111
140
55
145
63
76
145
75
113
109
144
21
108
113
79
86
156
127
22
86
90
18
118
88
135
65
88
88
92
110
145
75
151
149
108
Magliano E.
Maiden M.J.
Maisetta G.
Malfa P.
Malnati M.
Mameli G.
Mammina C.
Mancinelli L.
Mancini N.
Mancini T.
Mandras N.
Manfredini A.G.
Manfrin M.
Mangia N.P.
Mangione D.
Mangioni C.
Mansi A.
Manso E.
Manti A.
Mantovani S.
Manzara S.
Manzin A.
Manzoni M.
Marangi M.
Maras B.
Marchetti S.
Marchini C.
Marcialis M.A.
Marcocci M.E.
Maresca. C.
Margio S.
Margiotta M.
Marino A.
Marino Merlo F.
Mariotti S.
Marongiu R.
Marotti M.
Martella V.
Martini A.
Martino A.
Martino P.
Martinotti M.G.
Marzorati M.
Masala S.
Maseri A.
Massari M.
Massidda O.
Mastino A.
Mastrantonio P.
110
Mastrodonato R.
Mastronicola D.
Masucci L.
Masulli M.
Matera G.
Mattana A.
Mattarelli P.
Mattera S.
Matteucci C.
Matteucci D.
Mattina R.
Mauri S.
Mauriello G.
Mauti A.
Mazzei T.
68
153
54
21
98
148
32
84
109
137
63
70
23
52
71
88
153
72
103
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110
97
135
113
116
Mazzella P.
Mazzeo A.
Mazzocchi M.
McClelland M.
Meacci F.
Medici M.A.
Memmi G.
Mencacci A.
Menichetti F.
Mennella C.
Menzo S.
Merabishvili M.
Meri S.
Meri T.
Merlino C.
Meschini S.
Micheletti E.
Migazzo C.
Migliavacca R.
Milazzo I.
Minatolo A.
Minelli S.
Mingoia M.
Mini A.
Moccia C.
Modesti A.
Molicotti P.
Mombello A.
Monachetti A.
Monaco C.
Mondani M.
Mondello L.
Mondini M.
Monno R.
Montagna M.T.
Montanari M.P.
Monti D.
Mora D.
Morace G.
Morandotti G.
Morea C.
Morelli L.
Morrone S.
Mugnaioli C.
Murgia M.A.
Murgia R.
Muscillo M.
Mussini C.
Musso T.
Musumarra G.
Musumeci R.
Muzzarelli C.
109
50
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156
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149
Oggioni M.R.
Olioso D.
Ombres D.
Orefici G.
Orlando M.
Orrù G.
Orsi C.
Orsi F.
Ortega De Luna L.
Ouèdraogo O.
Nicoletti M.
Nisini R.
Norris P.
Nostro A.
Novarino M.
Novelli A.
Nucleo E.
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69
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A.
127
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26
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O.
O’Hara G.
Odds F.C.
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147
P.
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126
119
N.
Navarra A.
Nebbia P.
Neglia R.
Negri A.
Negri M.
Negro Ponzi
Nemi M.L.
Nencioni L.
Neri A.
Neri M.G.
Nibbering P. H.
Nicola L.
Nicoletti G.
57
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101
40
Paba E.
Paba P.
Pagani L.
Pagliarulo C.
Pagliata I.
Paglietti G.
Pagnoni U. M.
Pagnotti P.
Pajoro M.
Palamara A.T.
Palazzo R.
Palermo S.
Palmieri G.
Pannacci M
Pantosti A.
Panzanella F.
Panzone M.
Paoletti I
Paolillo R.
Papa P.
Papa S.
Papacchini M.
Papalini L.
Pappalardo S.
Paraggio M.
Parapini S.
Pardini M.
Parigi R.
Parisi S.
Parisio E.
Pasquantonio G.
Passariello C.
Pea F.
Pecorari M.
Pecorella S.
Pellegrini, C.
Pelliccioni M.
Peluso L.
Pennacchia C.
Peppoloni S.
Perfetto B.
Perilli M.
Perino A.
Perito S.
Perno C.F.
Perotti M.
Perri D.
Pert C.B.
Peruzzi L.
Pessina A.
Petracca G.
Petrazzuolo M.
Petrelli D.
Petrini S.
Petrucca A.
Piana F.
Piccaglia R.
Picciani C.
Piccinini L.
Piccolomini R.
Picozzi C. 51
Pietracupa M.
Pietrantoni A.
Pietrella D.
Pietronave S.
Pilotti E.
Pinti M.
Pinzani R.
143
13
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161
Piozzi A.
Pisano M.
Pisciotta M.G.
Pistello M.
Pizza M.
Pizzillo P.
Pizzocolo C.
Plebani A.
Poggiali F.
Pollicita M.
Polonelli L.
Pombi M.
Pompei R.
Porta R.
Portincasa P.
Porwollik S.
Posteraro B.
Posteraro P.
Pozzi G.
Prabhu R.
Prenna M.
Principi N.
Principi P.
Priolo I.
Prisco F.
Prospero A.
Provinciali M.
Pruzzo C.
Pucci. K.
Puccio R.
Pugliesi S.
Puliti M.
Pusceddu C.
Pusceddu G.
81
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133
57
32
108
Sabbatini A.T.
Sacco L.
Saccomandi P.
Sagnon N’F.
Sala G.
Salati A.
Sale P.
Sali M.
Salmeri M.
Salmona M.
Salvatore P.
Salvatori D.
Sanciu G.
Sandri G.
Sandri M.T.
Sanges M.R.
Sangregorio R.
Sanguinetti M.
110
134
110
R.
Raco G.
Radaelli A.
Raddadi N.
Ragusa S.
Raia V.
Raieta K.
Raimondi A.
Raimondo S.
Ranaldi S.
Ranalli G.
Ranazzi A.
Ranno S.
Rapicetta M.
Rapisarda A.
Rapisarda C.
Rappelli P.
Re MC.
Rebora A.
Reeve W.G.
Rellini P.
Riccardi C.
Ricci G.
Ricci M.L.
Ricci S.
Rinieri A.
Ripa S.
Ripavecchia V.
Riva E.
Rizzo A.
Rizzo G.
Rizzo L.
Roana J.
Roberts M.C.
Robino P.
Rodrigues E.G.
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101
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S.
Q.
Quaglino D.
Quartuccio M.
Quartuccio M.
Quirino A.
69
Rollini M.
Romani L.
Romano Carratelli C.
Romano L.
Romanò L.
Romano P.
Romano S.
Rosati G.
Rosato M. P.
Rossano F.
Rossi C.
Rossi S.
Rossolini G.M.
Rotola A.
Rotondo P.
Roveta S.
Rubino S.
Ruff M.
Ruffo G.
Rullo A.
Rumpianesi F.
Ruocco E.
Russo M.A.
Russo P.
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118
133
150
Sanna M.G.
Santagati M.
Santangelo R.
Santapaola D.
Sardonini Q.
Sarli S.
Sarti P.
Satta A.
Savalli N.
Savoia D.
Scaglione F
Scagnolari C.
Scaltrito M.M.
Scarpellini M.
Scaturro M.
Schiavone P.
Schiavoni G.
Schippa S.
Schiraldi C.
Schito G.C.
Schols D.
Sciortino M. T.
Scoarughi G.L.
Scutera S.
Sechi L.A.
Seganti L.
Segatore B.
Selan L.
Sembri V.
Senesi S.
Serafino L.
Serra C.
Sessa R.
Severini C.
Siciliano R.
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129
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65
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106
129
92
149
Siddu A.
Sidoti F.
Signoretto C.
Silva L.S.
Simonetti G.
Sinesi F.
Sisto F.
Solla D.
Solvetti S.
Sommese L.
Sorlini C.
Sotgiu S.
Spalla M.
Spanu T.
Speciale A.
Speciale L.
Spedicato I.
Spensieri F.
Spigaglia P.
Squartini A.
Stefanel P.
Stefanelli P.
Stefani S.
Stefanini I.
Stillitano G
Stivala A.
Stola M.
Stoodley P.
Storni E.
Stringaro A.
Suligoi B.
Superti F.
Syrjanen K
59
60
137
70
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130
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161
129
T.
Taccani D.
Tacconelli E.
Taccori F.
Talà A.
Tamburini G.
Taormina S.
Tarallo S.
Taramelli D.
Tarsi R.
Tavanti A.
Tedeschi R.
Teixeira M.
Telecco S.
Teloni R.
Tempera G.
Tempesta M.
Terrosi C.
Terruzzi L.
Terulla C.
Ticozzi R.
Tili E.
Timpanaro R.
Tinari A.
Tissi L.
Tiwari R.
Tomaino A.
Tomasoni L.
Toniolo A.
Toniolo L.
Torelli R.
91
149
108
148
106
122
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42
126
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52
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133
97
105
U.
Ungheri D.
Urbani F.
Uzzau S.
Valenti P.
156
97
125
79
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70
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67
85
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133
78
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159
V.
161
158
78
41
Torosantucci A.
Tosini A.
Totaro M.
Tramuta C.
Travassos L.
Tredici M.
Triebel F.
Tufano M.A.
Tullio V.
Turchetti B.
Turriziani O.
96
42
125
Valle A.
Vallone L.
Valveri V.
van Dissel J.T.
Varaldo P.E.
Vasta C.
Vaughan-Martini A.
Vecchi M.
Vecchiarelli A.
Venturelli C.
Venturi V.
Verlengia V.
Verneuil N.
Vescovi A.L.
Viale P.
Vicari E.
Vicenzi E
Vigliotta G.
Vigna G.
Villa F.
Villani F.
Villano U.
Viltadi M.
Viscogliosi E.
Viscoli C.
Vitali L.A.
Vitello M.
Viti C.
Vitiello M.
Vitone F.
von Hunolstein C.
43
129
138
43
154
68
147
56
85
147
68
144
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61
157
90
155
139
135
131
156
Z.
99
150
97
66
129
92
126
Zaccaria D.
Zagaglia C.
Zakrzewska K.
Zamboni I.
Zampaloni C.
Zampini M.
Zanardini E.
Zanetti A.R.
Zanetti S.
Zangrossi M.
Zanola M.
Zanone M
Zara G.
Zerbini M.
154
105
59
90
146
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64
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Anno 6 - N. 1
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32° Congresso Nazionale
Società Italiana di
Microbiologia
Milano, 26 - 29 Settembre 2004
RIASSUNTI