Caramelle alla menta

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Caramelle alla menta
Carlo Flamigni1
Caramelle alla menta
Premessa
La Guida2 è piena di imprecisioni: questa non si può chiamare informazione scientifica e in genere
Scienza & Vita sa fare di meglio. Occorrerebbe un’analisi puntuale di tutte le definizioni che non è
possibile affrontare in questa sede. Mi limito a qualche osservazione. La prima riguarda il problema
delle definizioni e di chi ha il diritto di farle. La medicina – che non è una scienza e non ha verità
assolute, come del resto la biologia – vive di consensi, che reggono per periodi di tempo limitati, ma
finché non vengono sostituiti sono la nostra verità. I consensi sono redatti dagli esperti (ad esempio
dall’OMS) e non dai teologi e dai bioeticisti cattolici. La seconda osservazione riguarda la liceità di
impartire agli studenti lezioni tanto partigiane. I rappresentanti dell’AIED sono disponibili a
incontrare su questi temi i professori e gli studenti delle scuole: si avrebbe anche il modo di
spiegare cosa significa un insegnamento laico, che è quello al quale i ragazzi hanno diritto.
1E’ un ginecologo, dal 1990 membro del Comitato Nazionale per la Bioetica e da qualche mese del
Comitato di etica della Università Statale di Milano. Alcuni dei suoi scritti e un elenco delle sue
pubblicazioni sono rinvenibili sul suo sito ( www.carloflamigni.it).
2Si tratta dell’opuscolo a cura del gruppo locale di Varese di Scienza e Vita, Guida per capire la
contraccezione e la fertilità, Tip. Cierre (Lavena Ponte Tresa), Varese c2009, pp. 32 (recante stemma
della Provincia di Varese in copertina). Da questo testo (alle pagine rispettivamente indicate tra
parentesi) sono tratte le citazioni riportate in corsivo e tra virgolette nel primo paragrafo.
Sull’opuscolo si veda l’articolo di R. Prando, Educazione sessuale nelle scuole: in cattedra i metodi
naturali. Presentata ieri in Provincia una guida curata dall’associazione Scienza & Vita che sarà
distribuita negli istituti superiori e dal prossimo anno anche alle medie, ne “La Prealpina” dell’11
febbraio 2010, p. 10. Come si intuisce fin dal titolo, la presentazione ha dato grande enfasi ai cosiddetti
“metodi naturali”. Perché mai questi metodi macchinosi, privi di qualsiasi capacità di prevenzione delle
malattie a trasmissione sessuale e presupponenti relazioni stabili se non convivenze durature,
dovrebbero essere preferiti dai giovani a mezzi più pratici come il banale preservativo non è dato
sapere.
L’opuscolo ha continuato a essere distribuito in qualche scuola della provincia fino agli ultimi anni.
Il ruolo delle amministrazioni locali in questo progetto non è stato finora pienamente chiarito.
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1. Qualche brevissimo commento ad alcuni specifici passi della Guida
“La vita inizia quando l’ovulo incontra lo spermatozoo e i due nuclei si uniscono. Qui c’è
potenzialmente già tutto l’uomo e il suo viaggio qui comincia” (p. 10).
Il tema è delicato, le parole debbono essere scelte con cura. Nella fattispecie la vita comincia chissà
dove e chissà quando, immagino che il documento voglia indicare la vita personale, o l’esistenza, o
la persona. Quando abbia inizio la vita di uno specifico individuo, di una “persona”, è sempre stato
un quesito appassionante per l’uomo ed è stato ed è tuttora motivo di contrasti feroci.
“Quando possiamo dire che quell’essere vivente è anche una persona ed è quindi titolare di tutti i
diritti che ad una persona umana vengono riconosciuti? È interessante notare che la legge 40,
varata nel febbraio 2004 e che tratta della procreazione medicalmente assistita, riconosce che il
concepito è dall’inizio un soggetto titolare di diritti” (p. 10).
L’esistenza di otto diverse definizioni di inizio della vita personale esistenti all’interno del mondo
cattolico mi fa pensare che nessuno abbia su questo tema la verità in tasca. Ricordo soltanto che la
Consulta ha bocciato l’articolo 1 della legge 40 stabilendo la priorità dei diritti materni su quelli
fetali, conta più il diritto di chi è già persona di quello di chi persona deve ancora diventare.
“Con la fecondazione ha inizio la gravidanza” (p. 11).
Interessante: solo che l’OMS definisce come inizio della gravidanza il momento in cui l’embrione si
impianta. Se non fosse così avremmo provette gravide, con conseguenze imprevedibili.
“Abortivi sono invece quei mezzi o quelle sostanze che interrompono una gravidanza già in atto.
Questo può avvenire prima che l’embrione si impianti in utero (e allora sono detti anche
intercettivi) o dopo l’impianto” (p. 13).
“Una sostanza o un mezzo che impedisce all’embrione di annidarsi è abortiva? Sì, perché
interrompe la gravidanza che comprende il periodo che va dalla fecondazione al parto” (p. 20).
In realtà neanche i bioeticisti cattolici lo dicono più, hanno scelto un termine (embrionicidio) per
definire gli impedimenti all’impianto.
“La scelta non può essere casuale: richiede infatti una maggiore consapevolezza delle ragioni e dei
valori alla base della vita e della propria sessualità” (p. 13).
Sono d’accordo, solo che i miei valori non sono gli stessi e non credo che nessuno possa criticarmi
per questo o costringermi ad accettare valori nei quali non credo (ma che rispetto). Qui si pone il
problema dell’isola per stranieri morali, quella della quale scrive Hugo Engelhardt, un luogo nel
quale si convive rispettandosi e senza cercare di fare proseliti.
“I contraccettivi d’emergenza possono essere abortivi? La “pillola del giorno dopo” potrebbe
agire dopo un’avvenuta fecondazione e come tale potrebbe essere considerata un sistema
abortivo… La ‘pillola del giorno dopo’… altera il normale ciclo ormonale… impedendo l’impianto
in utero dell’ovulo eventualmente fecondato. Sono usate, ma non ancora in Italia, delle nuove
sostanze a effetto antiprogesterone che possono essere assunte anche in periodi più lontani dal
rapporto (5 giorni) con effetto di impedire l’impianto dell’ovulo fecondato e quindi ad azione più
specificamente abortiva” (pp. 20-21).
La pillola del giorno dopo è stata studiata, in campo umano, solo a Stoccolma, al Karolinska
Institutet e i ricercatori hanno dimostrato che non ha il minimo effetto sull’impianto. È l’unico
studio esistente che ha utilizzato embrioni umani e un endometrio umano. Quanto alla pillola dei 5
giorni, pare non abbia effetto abortivo ma può interferire con l’impianto (quindi con effetto
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embrionicida). Tutto sta ancora una volta nel significato che attribuiamo all’embrione, “uno come
noi” o una struttura biologica di scarso valore morale.
“La donna corre molti rischi assumendo la RU 486? Allo stato attuale delle conoscenze il rischio
statistico di mortalità e di effetti secondari è più elevato rispetto all’aborto chirurgico” (p. 22).
Una menzogna, tutti i dati concordano nel considerare i rischi del tutto simili o semmai maggiori
per l’aborto strumentale. Lo afferma l’OMS, lo hanno scritto tutte le associazioni scientifiche.
“Perché viene proposto l’aborto farmacologico?… rende l’aborto un atto sempre più privato per la
donna, riportando la sua drammaticità in una sfera individuale anche nella sua elaborazione
psicologica” (p. 22).
In realtà viene proposto perché le donne possano scegliere, nessuno lo impone.
“L’aborto ‘medico’, quello effettuato con la RU 486 è una terapia? Per terapia si considera la cura
di una malattia. Quando si intende la gravidanza indesiderata come una malattia si fa passare un
concetto anomalo. Considerando che tale ‘cura’ provoca la morte di un altro soggetto che viene
privato, in tal modo, della sua libertà” (p. 22).
Forse sarebbe bene che gli estensori di questo documento si leggessero la legge 194 nella quale è
scritto con chiarezza che l’interruzione di gravidanza è lecita per proteggere la salute della madre,
messa a rischio da quella gravidanza. È la ragione per la quale non si dovrebbero ammettere
obiettori di coscienza.
“Per interrompere una gravidanza si possono utilizzare sostanze che intercettano l’ovulo fecondato
prima dell’impianto in utero o che lo rimuovono dopo l’impianto. Nel primo caso si rende difficile,
se non impossibile, l’annidamento… La spirale… rende molto difficile l’impianto dell’ovulo
fecondato in utero perché provoca una reazione infiammatoria locale” (p. 23).
Nessuno lo ha mai negato. Non vedo però dove stia il problema: chi crede che l’embrione sia
persona non faccia uso di queste sostanze, chi crede che l’embrione non sia uno di noi, decida
diversamente. Su questi temi, sui quali non esistono altre verità se non quelle “rivelate”, ognuno
deve farsi una opinione personale e scegliere i comportamenti che ne conseguono. Mi sembra che
uno dei più diffusi manifesti del femminismo (preti, smettete di mettere le mani dentro alle nostre
mutande – e, aggiungo io, dentro a quelle dei bambini) sia molto efficace e dipinga con chiarezza lo
stato d’animo dei laici di questo Paese.
“I metodi naturali si fondano sull’osservazione contestuale di molteplici segni che li rendono
scientificamente certi e affidabili se correttamente interpretati e applicati […] Una recente ricerca
sulla loro efficacia effettuata in nove paesi europei ha riportato che il tasso di gravidanze
indesiderate in donne che utilizzano “i metodi naturali” è favorevolmente paragonabile a quello
dei mezzi contraccettivi più comunemente usati non presentando però i loro effetti collaterali” (pp.
25-26).
Circa i metodi naturali c'è un trucco, i gruppi presi in esame sono accuratamente selezionati e
seguono le istruzioni con grande scrupolo. In realtà la valutazione va fatta sulla popolazione
generale degli utenti (e in questo caso i risultati sono i peggiori in assoluto).
2. Come stabilire quando ha inizio la vita personale?
La questione potrebbe essere risolta molto semplicemente con una affermazione dogmatica.
Oppure si può arrivare a stabilire una apparente verità, approvando una legge, una norma che
accontenti tutti, o che soddisfi almeno la maggior parte delle persone o che, più pragmaticamente,
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dia ragione a quella minoranza di fortunati che detengono il potere e decreti per legge che la loro
ideologia (religione, superstizione, convinzione personale, poco importa) corrisponde alla verità. Se
si sceglie questa ultima soluzione, sembra che il problema più importante che ne consegue non sia
tanto il fatto di aver violentato il principio della libertà di opinione - che su questi temi, non scelgo
le parole a caso, dovrebbe essere sacrosanto - ma quello di non poter esercitare alcun tipo di critica
nei confronti di chi, altrove, ha fatto scelte diverse, ma utilizzando la stessa tecnica. Naturalmente,
per un laico, questa soluzione è odiosa perché impone arbitrariamente una delle molte possibili
verità. Forse i lettori ricordano che una delle definizioni della laicità ha a che fare proprio con
questo modo di considerare la verità: per un religioso esiste una sola verità, che gli sta alle spalle e
gli illumina il cammino, per un laico la verità è da qualche parte, forse davanti a sé, nel buio, e la
sua vita può anche essere spesa nello sforzo faticoso di cercarla.
Vale allora la pena – si può anche dire che diventa particolarmente importante – cercare di capire
se la filosofia, o la biologia, o il buon senso, o tutte queste cose insieme, possono aiutarci a definire
termini come “persona”, “persona umana”, “individuo”, “vita personale” et similia. La cosa mi
sembra particolarmente importante tenendo conto delle conseguenze che la scelta di un particolare
statuto ontologico dell’embrione può avere su temi di grande rilievo sociale, come la ricerca
scientifica e il controllo della riproduzione.
Nella cultura occidentale la definizione di persona chiama quasi sempre in causa l’esistenza di
privilegi, basati soprattutto su tutele e diritti, dovuti al riconoscimento di proprietà del tutto
peculiari, molto difficili da descrivere in modo analitico perché comportano l’intuizione di qualcosa
di ineffabile che sfugge, almeno in parte, alla concretezza dell’esplicitazione razionale. In quasi tutti
i libri dei filosofi la descrizione è la stessa: la persona trascende la natura fisico-organica e si colloca
al di sopra del mondo materiale, rispetto al quale finisce col ricevere una tutela del tutto speciale
che proprio la sua trascendenza le assegna. Cosa poi significhi esattamente questa trascendenza è
praticamente impossibile dirlo: il termine specifica ciò che è al di là di un limite e soprattutto al di
là delle facoltà conoscitive dell’uomo, o di una realtà data e definita, un concetto che si precisa nella
filosofia di Kant come ciò che sorpassa ogni possibile esperienza.
In realtà questa idea di trascendenza della persona non è condivisa da tutti. Almeno una parte dei
materialisti sostiene un riduzionismo radicale, e tende a spiegare sia i fenomeni biologici sia quelli
psicologici come manifestazioni di processi neurologici e biochimici. Si tratta però di una posizione
molto criticata, assai poco condivisa e assai difficile da sostenere, ragione per cui l’abbandono qui.
Mi sembra invece fondamentale tenere ben distinto il concetto di persona – che indica il composto
del corpo con quel quid trascendente al quale possiamo riferirci con differenti nomi, ma che è
certamente più semplice chiamare anima – da quello di vita umana, essere umano e uomo, termini
che possono essere considerati sinonimi di persona solo nel linguaggio comune, ma che in realtà
sono completamente diversi in quanto possono essere utilizzati dai biologi, che ne fanno
comunemente uso nel loro linguaggio tecnico. Avrò modo di tornare su questo punto, che per ora mi
limito a esemplificare: il biologo studia le varie forme di vita organica e, tra esse, anche la vita degli
organismi appartenenti alla specie Homo sapiens, la vita umana intesa come vita del solo corpo,
mentre non si occupa e non può occuparsi della persona, perché quel quid che è ragione della
trascendenza non può essere oggetto di studio di una scienza naturale.
Il concetto di persona ha origini teatrali e giuridiche e si è profondamente modificato nel tempo
fino ad assumere l’attuale connotazione di “individuo appartenente alla specie umana”. Alla persona
è attribuita la responsabilità delle azioni che commette e ciò sia davanti a dio che rispetto agli
uomini: ne consegue che essa deve costituire una unità perfettamente integrata di pensiero e di
azione, di capacità di scelta e di concreta attuazione.
Parlare di vita personale significa, come ho già scritto, considerare il problema dell’embrione dal
duplice punto di vista della filosofia e della biologia, senza peraltro poter perdere di vista le
religioni, che hanno certamente molto da dire su questo tema, sia partendo dalla metafisica, sia
interpretando in modo molto personale i principi della filosofia e i dati della biologia. Sul tema
dello statuto ontologico dell’embrione si è discusso a lungo in Parlamento, si è molto scritto sui
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giornali, si è sin troppo parlato nei dibattiti televisivi: credo di poter affermare senza timore di
smentite che la competenza specifica della maggioranza delle persone intervenute a vario titolo
nella discussione è sempre stata molto modesta e che quello cui abbiamo assistito è stato il trionfo
del luogo comune, dell’aria fritta e dell’arroganza. Espressioni come “siamo stati tutti embrioni” o
“l’embrione può essere solo cosa o persona, tertium non datur” hanno acquistato una grande
popolarità e hanno talora consentito a persone di straordinaria incompetenza di vincere improbabili
duelli verbali televisivi. Poiché sono personalmente convinto che la complessità degli argomenti di
grande rilievo sociale o etico non deve allontanare i cittadini, ma deve semplicemente promuovere
un’opera molto attenta di divulgazione e di promozione di cultura, cerco qui di chiarire e di
semplificare alcuni dei passaggi più complessi di questa complicata questione.
3. Sostanza o funzione?
La filosofia non aiuta certamente a semplificare il problema. Sant’Agostino affermava che persona
è essenzialmente sostanza e Severino Boezio la definiva “sostanza individuale di natura razionale”.
San Tommaso dava al concetto di persona il significato di relazione, un concetto che ha preso forza
dopo Cartesio (Summa Theologiae, Prima Pars, Quaestio XXIX, spec.). In breve Tommaso
sottolinea l’esistenza di due caratteri imprescindibili nella persona umana, quello di ipostasi
individuale e quello di autonomia operativa. Oggi si distingue soprattutto una definizione classica di
persona (che è appunto la persona intesa come sostanza), da una concezione moderna, un concetto
definito da proprietà e funzioni, come la capacità di riflessione e di autocoscienza. Secondo la prima
interpretazione, un embrione può essere benissimo una persona, secondo la seconda evidentemente
no. Dunque, capire il significato di concetti come persona, individuo e identità personale è
indispensabile sia per formulare i parametri etici in base ai quali orientare le nostre scelte, sia per
comprendere le ricadute che queste scelte hanno: ad esempio, la decisione di non includere i feti tra
le persone avrebbe ricadute negative sul modo in cui consideriamo la soggettività nei casi di
confine. È un percorso complesso, che ha differenti direzioni, perché la nozione di persona influisce
con le scelte morali e le scelte morali possono modificare il modo di intendere la persona.
Secondo una critica piuttosto diffusa, la concezione moderna introdurrebbe surrettiziamente la
legittimità di una discriminazione tra gli esseri umani, sulla base di certe capacità e di certe funzioni
presenti o assenti. Questa critica, peraltro, è viziata dal fatto di indurre a rifiutare una posizione
teorica non perché teoricamente insostenibile, ma in quanto moralmente inaccettabile. Chi sostiene
la concezione classica di persona ritiene che il senso “sostanziale” vada interpretato come il fatto
che la persona comporta un particolare tipo di essere che trascende la biologia: intuitivamente se ne
dovrebbe dedurre che persona è equivalente a individuo razionale. È dunque facile immaginare
dove stia la controversia: chi sostiene la concezione sostanzialista afferma che il “valore vita” delle
persone chiamate ad esistere è pari a quello di un qualsiasi individuo adulto, mentre chi difende una
concezione funzionalista non ritiene di poter accettare questo principio. Il personalismo ontologico
(una posizione sostanzialista) sostiene che un individuo umano può possedere la natura razionale
anche senza manifestare tutte (e sempre, e nel grado massimo) le caratteristiche richieste dai
funzionalisti: esser persona dipenderebbe dunque dalla natura ontologica (essenza) di determinati
individui. Sapere quando l’embrione umano diviene persona non può derivare dalla riflessione
filosofica, ma dai dati empirici della biologia e della genetica che studiano l’ontogenesi. Questa tesi
del personalismo ontologico è in contrasto (o forse sarebbe meglio dire “sembra in contrasto”) con
quella della Congregazione per la Dottrina della Fede, secondo la quale “non spetta alle scienze
biologiche dare un giudizio decisivo su questioni puramente filosofiche come quella dell’inizio
della vita umana”. Per i fautori dell’antropologia sostanzialista la visione funzionalista è inadeguata,
in quanto consentirebbe gravi discriminazioni e intollerabili ingiustizie. Chi si trova in coma, o è
sottoposto a un’anestesia generale, o è in una condizione di grave alterazione psicologica, ad
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esempio, dovrebbe perdere lo status di persona perché non è in grado si manifestare le funzioni e le
capacità rilevanti, come parlare, entrare in relazione con gli altri, essere capace di attività simbolica
e così via. In realtà nessuno ha mai pensato di richiedere la manifestazione in atto delle funzioni
come condizione necessaria per definire la persona. L’antropologia funzionalista richiede che il
processo vitale abbia la capacità di svolgere le funzioni cognitive, ma non che le esplichi in
qualsiasi momento. Si potrà eventualmente discutere su quale debba essere la funzione superiore
più adeguata e su quando si deve formare la capacità richiesta, ma in ogni caso la capacità di
manifestare una attività simbolica richiede la presenza di una corteccia cerebrale formata e attiva.
La persona in stato comatoso, o sotto l’influenza dell’alcool, o ancora sottoposta ad anestesia, ha
questa capacità, anche se in quel momento non è in grado di esercitarla. L’embrione, al contrario,
non ha ancora sviluppato le condizioni necessarie perché questa capacità possa esistere, ed è
altrettanto evidente che i soggetti in condizione di morte corticale queste capacità le hanno perdute.
È bene ricordare che molti sostenitori dell’antropologia sostanzialista hanno sostenuto la tesi
dell’animazione ritardata, giungendo a posizioni simili a quelle dell’antropologia funzionalista.
Inoltre, dal momento in cui si considera dirimente, per quanto riguarda lo statuto ontologico
dell’embrione, la scelta antropologica, si deve riconoscere che la diversità di posizione diviene
qualcosa di molto simile a una scelta religiosa. Un’antropologia filosofica è un sistema di ampia
portata, paragonabile a un sistema religioso, per cui l’adesione a una certa antropologia è qualcosa
di analogo a una scelta tra religioni diverse. Se è così, negli stati moderni, nei quali la Costituzione
garantisce libertà di religione, i cittadini dovrebbero essere lasciati liberi di scegliere anche nei
riguardi della natura del concepito.
L’idea che la vita individuale abbia inizio al momento della fecondazione è intuitivamente
attraente, perché nel nostro comune modo di pensare la realtà è rappresentata da cose, cioè da enti
dotati di continuità spazio-temporale, delimitati da contorni netti e precisi. Le cose si formano
dall’unione o dalla divisione di cose preesistenti, un modo di rappresentare la realtà che viene
chiamato “cosalismo”. Secondo il cosalismo è fondamentale l’istante in cui due cose separate
diventano una cosa sola, che rappresenta appunto quel “nuovo ente dotato di continuità spaziotemporale e delimitato da contorni netti e precisi”. Che poi il cosalismo rappresenti un criterio di
valutazione adeguato è assai dubbio e il suo fallimento (o per lo meno la sua inadeguatezza) sembra
denunciato dal grande numero di ipotesi che sono state proposte in suo nome: pensate alle numerose
teorie pre e post-zigotiche che sono state proposte. In molte di queste ipotesi è stato utilizzato il
suffisso “pre”, ad indicare l’assenza di individualità somatica in certe fasi di sviluppo del processo
vitale, certamente non ancora identificabile con la “persona”. Eugenio Lecaldano (Bioetica. Le
scelte morali, Laterza, 2005) considera criticamente queste varie posizioni, sottolineando il fatto
che esse condividono l’assunto secondo il quale sperimentare su una persona - e anche su una
persona allo stato nascente – è inaccettabile in quanto lesivo della sua dignità e della sua libertà.
Queste diverse posizioni condividono anche l’idea che sia legittimo parlare di persona e attribuire
questa nozione anche al livello biologico, e che quindi l’ambito della definizione della nozione di
persona coinvolga il campo dell’ontologia, cioè possa essere ricondotto integralmente a ciò che è.
Secondo Lecaldano la tesi secondo la quale l’embrione è una persona (come del resto la tesi
opposta) si basa su una impostazione inadeguata perché non rende esplicito il fatto che la nozione di
persona non è parte del linguaggio di una qualsiasi scienza naturale, ma appartiene unicamente a
quello della metafisica e dell’etica. L’uso di questa nozione comporta quindi la necessità di
muoversi al di là del piano della ricostruzione sperimentale per dare una portata assiologica a ciò
che si sta facendo. Lecaldano ricorda che esiste in proposito una lunga tradizione filosofica che ha
inizio con Locke, il quale affermava che è del tutto inutile cercare di ridurre la nozione di persona a
una qualche sostanza o a un insieme di tratti propri degli esseri umani, perché sia individui prima
della nascita sia individui che non nasceranno mai o che sono già morti possono avere di volta in
volta i diversi requisiti considerati essenziali per essere definiti persone, anche se persone non
potranno mai essere. Qualsiasi altra proposta, fatta in termini semplici, che voglia definire che cosa
conta, o è essenziale, o è necessario, o è sufficiente per individuare una persona, è destinata a fallire:
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nessun tratto considerato essenziale nel definire la persona, sia esso metafisico o psicologico, mette
in condizione chi lo considera decisivo di evitare paradossi e di rendere conto in modo adeguato
dell’uso di questa nozione. Dovrebbe essere dunque privilegiata l’alternativa che guarda alla
nozione di persona come a qualcosa di complesso che rinvia ad un insieme di caratteri che vengono
uniti sulla base di esigenze (prevalentemente etico-giuridiche) che si intende soddisfare chiamando
in causa le persone. Locke scriveva che “persona” è un termine forense che attribuisce le azioni e i
loro meriti e che riguarda solo agenti intelligenti, in grado di comprendere una legge e capaci di
felicità e di infelicità (J. Locke, Saggio sull’intelligenza umana).
Questa mi sembra una definizione di grande buon senso e capace di cogliere adeguatamente la
realtà considerata: credo che non sia un caso che Bertrand Russell dicesse di Locke che era lui
l’uomo che aveva insegnato agli inglesi il senso comune. Molto più recentemente P.F. Strawson
(Individuals, Methuen, Londra 1959) e A.J. Ayer (The Concept of a Person, St. Martin, New York
1963) hanno praticamente ripetuto le sue parole, ma la concisione ha reso più fragile la definizione.
Così, Harry Frankfurt l’ha decisamente criticata in un articolo pubblicato nel 1971 (“Freedom of the
Will and the Concept of a Person”, The Journal of Philosophy, 68, 5): coloro, scrive Frankfurt, che
sono interessati a capire la relazione tra corpo e mente dovrebbero cercare di comprendere cosa è
una creatura che non solo ha mente e corpo ma è anche una persona. In realtà le definizioni di
Strawson e di Ayer includono nel concetto di persona anche molti mammiferi, mentre la proposta di
Frankfurt è insieme più raffinata e restrittiva: mentre anche molte “non persone” hanno volizioni di
primo ordine (ovvero desiderano compiere o non compiere una certa azione) solo le persone hanno
volizioni di secondo ordine, (ovvero desiderano di desiderare di compiere o di non compiere una
certa azione). Dunque quello che rende davvero speciali le persone è la loro capacità di guardare al
ventaglio dei desideri e a giungere a preferirne uno e a ripudiarne un secondo. Solo le persone sono
in grado di guardare dall’alto le proprie inclinazioni e di sperare che i desideri peggiori siano
sconfitti da quelli migliori. Frankfurt osserva poi che anche le “non persone” possono fare quello
che vogliono, ma che il vero libero arbitrio riguarda solo le persone che possono volere ciò che
possono volere, una capacità che spetta solo a coloro che possono salire al livello delle volizioni di
secondo ordine. Daniel Dennett (Condition of Personhood, Il Mulino, 1989) definisce il concetto di
persona da un punto di vista logico e lo spiega come il risultato della stratificazione successiva di
qualità, ciascuna delle quali sussiste solo grazie alla presenza degli strati sottostanti, un concetto che
compare anche nella logica di alcuni fenomenologi. Queste stratificazioni sono rappresentate dalla
razionalità e dal possesso di uno stato mentale cosciente e intenzionale, di reciprocità, linguaggio e
autocoscienza (che fonda la responsabilità morale). Una persona è dunque capace di quella
autovalutazione riflessiva molto cara a Frankfurt: sa trattare se stessa come tratta le altre persone,
ossia come persona; adotta non tanto il semplice atteggiamento di chi comunica, ma di chi chiede
ragioni e vuole convincere. Essere persona significa dunque accedere alla sfera morale
dell’esistenza e persino della politica: tanto meno giustizia compare nelle interazioni di certe
creature tanto più esse non sono persone. Insomma, scrive Fabio Bacchini (Persone potenziali e
libertà, Baldini Castoldi Dalai Editore, Milano 2006) i requisiti chiave della definizione di persona
sembrano assai ben definiti: la razionalità, la mente, il libero arbitrio, l’autocoscienza, la
responsabilità morale, l’intelligenza, le volizioni di secondo ordine, la capacità di interagire, tutte
qualità che senz’altro mancano agli embrioni. Se ne deve concludere che gli embrioni non sono
persone attuali, ma soltanto persone potenziali, e diventa necessario ragionare sulla obbligatorietà
morale di far cominciare a esistere le persone potenziali.
4. I diritti delle persone potenziali
Di questo problema del diritto delle persone potenziali a diventare persone attuali conviene dire
alcune cose subito. La questione è stata esaminata da Derek Parfit in una sua notissima
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pubblicazione (Ragioni e Persone, Il Saggiatore, Milano, 1989) ed è stata analizzata e riproposta
più recentemente da Fabio Bacchini (Persone potenziali e libertà, op. cit.). Scrive Parfit: “A
differenza del non esistere mai, incominciare a esistere e cessare di esistere sono cose che accadono
solo alle persone reali”. Bacchini, dal canto suo, ci ricorda che le persone potenziali che non
iniziano ad esistere - o che stanno rischiando di non iniziare mai ad esistere - non soffrono e non
possono essere angosciate a causa della prospettiva della non-esistenza perenne, anche se per loro
sarebbe certamente (o probabilmente) meglio cominciare ad esistere. Inoltre le persone potenziali
non possono soffrire né provare piacere, e per loro non ha alcun senso parlare in termini di
condizioni migliori o peggiori, perché ogni possibilità di miglioramento o di peggioramento
riguarda solo le persone reali. Ne deriva che le persone potenziali non stanno né bene né male, non
stanno in alcun modo, e niente può essere positivo o negativo per loro, mentre molte cose
potrebbero essere positive o negative per le persone reali nelle quali potrebbero trasformarsi. La
logica conclusione è che per le persone potenziali non può essere né un bene né un male il fatto di
non iniziare a esistere, perché fino a che restano potenziali nulla è bene o male per loro e se non
diventeranno mai reali non ci sarà mai alcuna persona attuale per la quale non aver cominciato ad
esistere sia stato un bene o un male. Iniziare ad esistere e non iniziare ad esistere sono due eventi
molto diversi: il primo accade solo alle persone reali, ed è per questo che può certamente essere un
bene o un male per le persone alle quali accade; non iniziare (mai) ad esistere accade solo alle
persone potenziali che non saranno mai reali e per questo non potrà mai essere un bene o un male
quando accade, semplicemente perché non accade. Bacchini sottolinea che a questo punto si deve
considerare l’esistenza di un corollario che egli definisce inconsueto: mentre è quasi sempre vero
che se gli eventi positivi non si verificassero ciò potrebbe essere considerato un male, esiste
l’eccezione del non cominciare ad esistere, che non può essere mai un male, visto che bene e male
riguardano solo chi esiste. Si deve concludere che l’azione del far cominciare ad esistere non
potrebbe mai essere considerata un obbligo morale (anche se per qualcuno deve essere ritenuta un
gesto moralmente auspicabile) e che le persone potenziali non hanno alcun diritto a diventare reali.
Questo problema del diritto a continuare nello sviluppo fino alla nascita sollecita una discussione
su altri temi più o meno finitimi. Ad esempio ci si può chiedere se un diritto di tal genere riguarda
anche gli embrioni che stanno crescendo in un terreno di coltura e che certamente non avrebbero
alcuna naturale capacità di crescita se qualcuno, in modo certamente non naturale, non decidesse di
trasferirli in un grembo femminile; nello stesso modo dovrebbe riguardare un embrione che ha
iniziato il suo impianto nella mucosa di una salpinge, al punto da convincerci dell’immoralità di un
intervento preventivo qualora la gravidanza extra-uterina venisse diagnosticata prima della rottura
della tuba. Anche Maurizio Mori, in un libro pubblicato da alcuni anni (Aborto e morale. Capire un
nuovo diritto, Einaudi, Torino, 2008) è intervenuto sul problema della “persona potenziale” in
termini certamente più semplici, ma a mio avviso più convincenti di quelli di cui ho già riferito.
Quello che vogliamo sapere, scrive Mori, è se l’embrione è una persona in atto, il fatto che possa
essere una persona potenziale è di rilievo molto modesto. “Quando si dice che una cosa X è
potenzialmente una certa cosa Y, si intende dire che X non è Y, anche se ha la capacità intrinseca di
diventare Y. Così quando si dice di un bravo studente di ingegneria che è un potenziale ingegnere, si
intende affermare che non è ancora ingegnere, anche se ha la capacità di diventarlo: e quando si
dice che la ghianda è potenzialmente una quercia, si intende affermare che non è una quercia, anche
se ha la capacità di diventarlo e probabilmente lo diventerà, in presenza di favorevoli condizioni di
sviluppo, essendo già iniziato un processo teleologico che porterà dallo stato di ghianda a quello di
quercia”. Dire che l’embrione è potenzialmente una persona è molto diverso dall’affermare che è
già una persona in atto perché questo ci ricorda che il processo generazionale comporta sostanziali
cambiamenti: noi proveniamo da qualcosa di molto diverso da quel che siamo. Questo significa
riconoscere che il seme non è l’esemplare adulto, anche se ha in sé la capacità intrinseca di
trasformarsi nell’adulto. Scrive ancora Mori (La fecondazione artificiale, Laterza, Roma, 1995):
“chi introduce tale argomento non tiene conto del fatto che quella di potenzialità è una nozione
tecnica che ha un preciso significato. In particolare essa indica l’altra faccia della teleologicità di un
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processo biologico, così come la convessità è l’altra faccia della concavità: dire che X è
potenzialmente Y è come dire che X è teleologicamente diretto a diventare Y in forza di una propria
dinamicità… Il senso comune è informato a una interpretazione meccanicistica o causale della
realtà, una concezione che non riesce a tenere conto della teleologicità dei processi biologici”. In
realtà, la potenzialità del processo vitale comincia prima della fecondazione, quando i due gameti
sono posti nel luogo adatto allo sviluppo della loro potenzialità, ossia il momento in cui ha inizio il
processo teleologicamente diretto alla trasmissione della vita. Questo processo attraversa poi
differenti fasi nelle quali questa potenzialità è sempre meno remota: se non si interferisce
meccanicamente il processo dà origine (o meglio, finisce in un certo numero di casi col dare
origine) a una persona, in virtù di una capacità ad esso intrinseca e senza apporti esterni. L’unica
cosa che trovo discutibile nella logica di Maurizio Mori è la definizione di “luogo adatto” che
secondo lui potrebbe essere indifferentemente un utero o una provetta: a mio avviso due gameti che
si incontrano in una provetta così come un certo numero di embrioni abbandonati in un frigorifero,
non hanno alcuna capacità potenziale di diventare una persona, perché il loro destino dipenderebbe,
in questo caso, da un intervento estraneo. Se ammettessimo l’esistenza di una potenzialità collegata
a un intervento esterno in questi casi la dovremmo ammettere anche per tutte le cellule del nostro
organismo che un intervento esterno potrebbe far regredire fino allo stato di cellula staminale
embrionale totipotente.
5. Il diritto all’aborto
Credo che l’articolo più citato in assoluto nella letteratura che riguarda l’interruzione volontaria di
gravidanza (non mi riferisco naturalmente alla letteratura tecnica) sia quello di Judith Thomson,
pubblicato nel 1971 e che ha ricevuto un’incredibile quantità di critiche e di consensi (A defense of
Abortion. In Rights, Restitution and Risks, Harvard University Press, Cambridge 1971). La
Thomson comincia col chiedersi quale sia il più forte e il più utilizzato di tutti gli argomenti antiabortisti, e lo identifica nel principio secondo il quale il feto è persona sin da concepimento. La
Thomson non è per nulla convinta da questo principio, che si basa, a suo avviso, su un errore,
conseguente alla tecnica del ragionamento: vengono prese in esame due idee, di per sé molto
lontane tra loro, ma legate da una sorta di continuum di casi intermedi e in assenza di linee di
confine molto nette capaci di dirci a quale delle due idee ogni caso intermedio appartenga. L’errore
consiste naturalmente nell’identificare le due estremità del continuum. La Thomson chiama questa
forma di ragionamento “the fallacy of the slippery slope”, ma non la usa per difendere la propria
posizione, anzi, parte proprio dalla premessa che il feto sia una persona a pieno titolo, sapendo che
in questo modo una valida dimostrazione della correttezza delle sue tesi avrebbe ancora più valore.
Dunque, ecco il postulato: il feto è una persona e ha diritto alla vita; la madre ha diritto al
controllo del proprio corpo, ma il diritto alla vita è evidentemente più importante. È dunque vero
che l’aborto è illecito? La Thomson racconta una storia, diventata famosa con il nome di
“esperimento del violinista”. Immaginate di essere rapiti, anestetizzati e richiusi in una stanza
isolata da tutto, senza alcuna possibilità di essere ritrovati dai vostri cari. Al risveglio vi scoprite
legati a un letto e collegati, a mezzo di sonde, a un individuo che giace nel letto accanto al vostro: è
un famoso violinista, forse il più grande violinista del mondo, ammalato di una rara malattia che lo
condurrà a morte a meno che non sia possibile collegare il suo sistema vascolare, per un periodo di
almeno nove mesi, con quello di una persona che abbia il suo rarissimo gruppo sanguigno e gli sia
insieme compatibile dal punto di vista immunologico. Questa persona, dopo una lunga ricerca, è
stata identificata, siete voi e siete l’unica persona che può salvare il più grande violinista del mondo.
La società degli amici della musica ha rapito entrambi (il violinista è all’oscuro del complotto) e vi
ha portato in quella stanza dove rimarrete per nove mesi, fino alla guarigione della malattia. Sarete
trattati con tutte le attenzioni possibili, ma non potrete in alcun modo sottrarvi all’impegno che vi è
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stato imposto, le conseguenze sarebbero troppo gravi, il violinista morirebbe. Ebbene, è difficile
accettare l’idea che voi siate obbligati a restare in quel letto: è vero che se riuscite a liberarvi da
quel legame che vi è stato imposto il violinista morirà, ma è altrettanto vero che il vostro corpo vi
appartiene e che vi è stato tolto il diritto di controllarlo.
Le similitudini sono più che ovvie: il violinista ha diritto alla vita; voi potete pretendere un
altrettanto forte diritto al controllo del vostro corpo, lamentare la violenza subita, esigere la vostra
libertà. Il problema è apparentemente molto diverso da quello della gravidanza e della richiesta di
abortire, ma solo apparentemente. Il ragionamento della Thomson è semplice, vuole dimostrare che
gli argomenti degli anti-abortisti non sono accettabili, e per farlo si affida al senso comune: se un
argomento è valido dovrebbe restare valido anche se applicato ad altri casi. Se gli abortisti hanno
ragione, il diritto alla vita dovrebbe essere vincente in ogni caso, senza eccezioni. Ma, applicato al
caso del violinista malato, l’argomento degli anti-abortisti non sembra più valido. Ci sono, è
evidente, molte possibili obiezioni. Ad esempio si potrebbe dire che l’argomento anti-abortista si
può applicare solo nel caso in cui i diritti individuali non vengono violati e che circostanze
particolari, come quelle delle gravidanze che fanno seguito a una violenza carnale debbono essere
considerate una eccezione. Ma la Thomson non accetta questa obiezione, non vede come un feto,
sempre e comunque innocente, possa godere di un diritto alla vita inferiore a quello degli altri feti e
chiama in causa gli anti-abortisti più dogmatici, quelli che condannano l’aborto in ogni circostanza,
anche nei casi nei quali è in ballo la vita della madre.
Per alcuni anti-abortisti esiste una distinzione morale tra uccidere e lasciar morire, ma altri
ritengono che questa distinzione sia errata fin dall’inizio e che non procurare un aborto quando la
vita della madre è a rischio equivale a ucciderla. Un cattolico metterebbe la vita della donna nelle
mani di Dio e considererebbe comunque una tragedia la morte di uno dei due protagonisti, con
l’aggravante di aver compiuto una azione immorale se la scelta fosse stata quella di intervenire e
divenire parte attiva nella tragedia. Per la Thomson questa visione richiede una premessa del tipo “è
sempre sbagliato uccidere direttamente una persona” o “il dovere di non uccidere una persona
innocente prevale su quello di prevenire la morte di una persona innocente”. Per dimostrare che
questi assunti sono erronei, la Thomson ritorna all’esempio del violinista e immagina che la vostra
vita sia messa in grave pericolo dal fatto che il legame al quale siete costretti danneggia i vostri reni,
cosa che finirà con l’uccidervi. In questo caso è evidente che avete il diritto di cercare di liberarvi
per salvare la vostra vita (il che toglie valore agli argomenti portati contro l’aborto terapeutico).
Gli esempi paradigmatici della Thomson non finiscono qui: per rispondere alle critiche di un
filosofo inglese, John Finnis, che sottolinea il fatto che liberarsi dal legame col violinista non
comporta una uccisione diretta e che l’esempio non può essere utilizzato per togliere valore alla
differenza tra uccidere e lasciar morire invocata dagli abortisti, propone l’ipotesi – piuttosto
fantascientifica – di una persona chiusa in una casa con un gigantesco bambino che cresce con tale
velocità da minacciare di schiacciarla, a meno che questa non decida di ucciderlo. Altri, differenti
scenari vengono poi proposti per dimostrare, ad esempio, che il feto non ha diritti nei confronti del
corpo della madre, soprattutto se la gravidanza è frutto di una violenza.
Come ho detto, le tesi della Thomson sono state molto criticate e contestate, ma non mi pare che,
almeno fino ad oggi, qualcuno sia riuscito a demolirle del tutto. A me sembra che le critiche più
efficaci siano state mosse da Philippa Foot (Killing and Letting Die, in: Ethics, History, Theory and
Contemporary Issues, a cura di S. N. Cahn P. Markie, New York, NY-Oxford, 1981) che ha messo a
confronto vari tipi di diritti e differenti tipi di doveri. Secondo la Foot esistono diritti e doveri
negativi, come il diritto a non subire interferenze e il dovere di non interferire, e diritti e doveri
positivi, come il diritto a ricevere beni e servizi e il dovere di provvederli. Un diritto negativo ha
maggior peso morale di un diritto positivo: così non è legittimo dare inizio a una sequenza letale,
mentre lo è non intervenire in aiuto di qualcuno. Nel caso del violinista esiste un diritto positivo
(che potrebbe benissimo essere superato da altri diritti) e non si può caricare il suo salvatore del
diritto positivo di non prestargli l’assistenza necessaria (che equivale a non ucciderlo). Nel caso del
procurato aborto, invece, il feto ha un diritto negativo e la madre che decide di interrompere la
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gravidanza dà inizio a una sequenza di eventi che portano a morte il feto, violando così il suo diritto
negativo. Ho dedicato alcune pagine alla “favola del violinista” non tanto perché sono convinto
della sua importanza nella discussione sullo statuto dell’embrione, ma perché chi si interessa a
questi temi inevitabilmente se la sente raccontare, spesso in modo incompleto o parziale.
6. Biologia e filosofia
In molti suoi scritti, anche molto recenti, e a partire da una breve, ma molto importante
monografia edita da Laterza nel 1995 (La fecondazione artificiale) sul problema della definizione di
persona in rapporto al cosiddetto argomento scientifico è intervenuto Maurizio Mori, che continuo a
citare perché a mio avviso rappresenta, con Viano, Lecaldano, Neri e Giorello, un punto di
riferimento costante per la bioetica laica. Mori non ritiene valido l’argomento scientifico, secondo il
quale sono le conoscenze fornite dalla biologia e dalla genetica a dimostrarci che al momento della
fecondazione si forma una nuova “persona umana”, per il semplice fatto che quella di persona è
nozione filosofica e non scientifica e la scienza non può risolvere direttamente un problema
filosofico. Ma l’argomento scientifico non è sostenibile anche per altre ragioni. Stabilire che la
fecondazione è il momento decisivo perché è il nuovo corredo cromosomico che contiene il
programma genetico della persona, che altro dunque non sarebbe che l’espressione di tale
programma, equivale a scegliere una posizione di materialismo radicale, visto che il programma
genetico altro non è se non una mera sequenza chimica. È possibile, ricorda poi Mori, che questa
ipotesi scientifica sia stata ispirata dalla influenza esercitata in biologia e medicina da Ernst Haeckel
con la sua ipotesi che considerava l’ontogenesi come una ricapitolazione della filogenesi, nel senso
che nello sviluppo del singolo individuo veniva ripercorsa l’intera evoluzione dell’uomo sulla terra.
Poiché questa ipotesi era considerata una vera e propria legge scientifica, quando si chiarì che
l’embrione appartiene biologicamente alla specie umana fin dall’inizio si ritenne che questo fatto
fosse sufficiente a provare che fosse anche dallo stesso istante “persona”. In realtà la cosiddetta
legge di Haeckel era soltanto una generalizzazione speculativa e dalla sua negazione non si possono
ricavare elementi probanti nei confronti di altre ipotesi.
La posizione del Magistero ecclesiastico è sempre stata molto cauta nei confronti di questa tesi,
molto cara invece ad alcuni studiosi cattolici. Parlerò ancora di questo argomento, ma mi sembra al
momento sufficiente citare una dichiarazione della Congregazione per la Dottrina della Fede: “non
spetta alle scienze biologiche dare un giudizio decisivo su questioni propriamente filosofiche e
morali, come l’identificazione del momento in cui si costituisce la persona umana…”. Questa
opinione è stata a lungo condivisa da numerosi intellettuali cattolici, filosofi, scienziati e bioeticisti.
Mi viene in mente Claude Sureau che, non più di venti anni or sono scriveva che non è
semplicemente possibile dare a questo problema risposte su base biologica, solo la filosofia sembra
in grado di rispondere in modo coerente e utile. Ma è possibile tenere distinta l’osservazione
biologica dal consenso filosofico?
Recentemente queste posizioni prudenti hanno ceduto il passo a dichiarazioni di ben altro tenore,
che chiamano in causa direttamente e perentoriamente la biologia, in grado di dimostrare senza
equivoci che la vita personale ha inizio con il concepimento e che l’embrione è uno di noi. In un
non lontano passato erano i materialisti a chiamare in causa la biologia e la scienza quando
dovevano affrontare questo problema e i teologi rispondevano facendo spallucce e ricordando loro
che “la biologia non ha alcuna voce in capitolo quando si affrontano questi temi”. È d’altra parte
evidente che, se vogliamo arrivare a una definizione dello statuto ontologico dell’embrione, è
essenziale trovare un accordo sul significato di “persona”. Ma sono proprio coloro che affermano
che la distruzione di embrioni è un omicidio che si dimostrano molto scettici sulla possibilità di
concordare una definizione adeguata del termine. Riporto rapidamente le riserve più comuni così
come le ha elencate nel suo libro Maurizio Mori.
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Anzitutto esistono definizioni diverse a seconda dei vari ambiti di ricerca. In secondo luogo si
tratterebbe di una definizione valutativa, che induce a sostenere una specifica nozione a seconda
della posizione assunta precedentemente in materia di aborto o di distruzione di embrioni. Infine, il
termine persona indicherebbe qualcosa di trascendente e irriducibile, una realtà più grande del
concetto indicato dal nome, che non può essere definita senza inevitabili distorsioni, dunque una
nozione indefinibile. Se questo fosse vero, noi non sapremmo neppure quando ci troviamo di fronte
a una persona: sia questa che le altre obiezioni hanno fatto il loro tempo e non vengono più citate
nelle discussioni. In una situazione così confusa, nella quale le definizioni si danno sulla voce l’una
con l’altra, persino una istituzione molto cattolico-dipendente come il Nazionale per la Bioetica ha
deciso di lasciare perdere e di limitarsi a dichiarare che la questione, almeno per quanto riguarda la
definizione di persona, è controversa: poi ha cambiato idea e qualche considerazione l’ha proprio
voluta fare, ma che il Comitato sia assai poco affidabile è cosa nota.
Come ho appena scritto, in tempi neppur tanto lontani i teologi amavano dire che la filosofia era la
sola disciplina che aveva titolo per dirimere questi problemi e che la biologia doveva restarne fuori.
Più recentemente, forse in considerazione dello stallo in cui i filosofi si trovavano nel definire il
significato di persona, sono stati fatti richiami sempre più frequenti e precisi alle interpretazioni che
la biologia può suggerire circa la nozione di vita e l’inizio della vita personale. Anzi, i bioeticisti
cattolici hanno detto: la biologia ci aiuta a giungere a una conclusione razionale e sicura di questi
concetti. Si tratta di conclusioni che sono solo casualmente le stesse alle quali arriva la teologia
cattolica, ma deve essere chiara la razionalità del nostro percorso. Non per niente, essi concludono,
siamo laici.
7. Pre-embrioni
Bioeticisti e biologi cattolici hanno fortemente polemizzato, in questi ultimi vent’anni, in merito
all’uso del termine pre-embrione, molto utilizzato soprattutto in alcuni Paesi europei, affermando
che si tratta di una definizione coniata ad hoc (un vero e proprio falso scientifico secondo padre
Angelo Serra) per sottrarre le prime fasi di sviluppo del prodotto del concepimento alla tutela alla
quale ha diritto e lasciarlo invece esposto alle infamie di ogni sorta di sperimentazione. Ho trovato
questo termine in alcuni libri di testo di ostetricia pubblicati tra il 1930 e il 1940, ma debbo
ammettere che le intenzioni degli autori non erano per niente quelle di posporre il momento in cui il
concepito deve essere considerato una persona umana per sottrarlo capziosamente alle garanzie che
da questo riconoscimento direttamente discendono: la proposta era molto più banale e innocente e
riguardava semplicemente la possibilità di considerare una fase preimpiantatoria da una successiva
all’impianto, per ragioni soprattutto classificatorie. Non credo che i medici americani che
suggerivano questa nuova definizione ignorassero che tutti gli embrioni sono, all’inizio, non
impiantati o che volessero stabilire differenze di qualità.
In realtà il problema si è proposto, in termini ben diversi, dopo la nascita di Louise Brown, la
prima bambina concepita in vitro, nel 1978. In molti Paesi, le autorità religiose da un lato e quelle
sanitarie dall’altro cominciarono a esprimere preoccupazioni etiche, relativamente a quello che si
presentava – o che minacciava di diventare – una sperimentazione sull’uomo e divenne rapidamente
un aperto campo di battaglia per teologi, scienziati e bioeticisti la definizione dell’inizio della vita
personale. Fu Clifford Grobstein, un embriologo i cui studi riguardavano soprattutto gli anfibi, ma
al quale non erano estranei i problemi dell’embriologia umana, a proporre il termine pre-embrione,
coniato questa volta, per sua sessa ammissione, per “ridurre lo status dell’embrione umano precoce”
ammettendo l’esistenza di una fase nella quale l’uovo fecondato non è ancora persona (“External
Human Fertilization”, Scientific American, 1979, 240, 57); nello stesso anno si dichiarò a favore di
questa nozione il gesuita Richard McCormick, consulente dell’Ethics Advisory Board del
Department of Health, Education and Welfare degli Stati Uniti. In seguito questo stesso termine fu
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accettato da alcune importanti istituzioni. La commissione Warnock, in Inghilterra, che aveva tra i
propri membri una biologa di grande cultura, Anne MacLaren, stabilì così che nei primi 14 giorni
dopo il concepimento, cioè fino al termine dell’impianto e alla comparsa della linea embrionale
primitiva, non si può ancora parlare di embrione e che perciò sono lecite le sperimentazioni così
come è legittima ogni tecnica di fecondazione assistita (Department of Health and Social Security,
Report of the Committee of Inquiry into Human Fertilization and Embriology, H.M.S.O., Londra
1984). Alle stesse conclusioni arrivò, dopo solo due anni, il Comitato Etico della Società Americana
per la Fertilità (Fertility and Sterility, 1986, 1, 46) Nel 1988 la Commissione per la Scienza e la
Tecnologia del Consiglio d’Europa propose a sua volta di utilizzare il termine di pre-embrione per il
periodo di tempo che va dal concepimento al termine dell’annidamento (sempre gli stessi 14 giorni)
giustificando la proposta con il fatto che in questo periodo, oltre a una fase di totipotenza cellulare,
che caratterizza i primissimi stadi di segmentazione, non c’è ancora evidenza della stria
embrionaria, che è la prima prova dell’esistenza di un embrione all’interno di questo agglomerato di
cellule. Inoltre, e fino al termine dell’impianto, periodo definito come fase presomatica e preindividuale del concepito, il pre-embrione non ha cellule nervose né capacità immunologica; è
impossibile dire se diventerà uno o più embrioni (né se due embrioni si fonderanno in una chimera),
o nessun embrione, né se si trasformerà in un tessuto tumorale. Su questa base, e tenendo conto
della mancanza di unità e di unicità in questa, che deve ancora essere considerata una colonia
cellulare, la Commissione conclude che la valutazione morale nei confronti di un pre-embrione non
può essere la stessa che diventerà obbligatoria successivamente, dopo la conclusione dell’impianto.
Alcuni Paesi Europei, come la Spagna, hanno accettato questa definizione e le leggi approvate sulla
procreazione medicalmente assistita ne sono state influenzate.
Le definizioni dei differenti momenti del processo prenatale non può essere definito né una novità,
né tantomeno una scelta surrettizia. Mi sembra invece che rifiutare di chiamare le cose con il loro
nome, evitare le definizioni scelte dagli studiosi, inventarsene di proprie, sia un vero e proprio falso,
una menzogna costruita – questa sì – surrettiziamente della quale si dovrebbero vergognare
bioeticisti e - soprattutto - biologi cattolici. Poiché le fasi successive alla gastrulazione non
implicano più mutamenti strutturali straordinari dell’uovo fecondato, il generico termine
“embrione” non è più così generico e fuorviante come lo è per gli inizi e può essere utilizzato senza
offendere le orecchie dei biologi. Quello che è importante chiarire è che si tratta di definizioni, cioè
del risultato di convenzioni necessarie agli esperti per capirsi meglio. Sacralizzare questi termini,
tanto da considerare un bestemmiatore chi le mette in discussione o ne dà interpretazioni diverse è,
sempre secondo me, scorretto.
8. L’ipotesi post-zigotica, gli zigoti bi-pronucleari e altre diverse teorie cattoliche
Ho già detto che per molto tempo, seguendo le indicazioni della teologia vaticana, la biologia è
stata tenuta fuori dalla discussione, alla quale erano ammessi solo i filosofi. Una dichiarazione del
genere, ad esempio, si legge nel Donum Vitae e può essere attribuita all’allora cardinale Ratzinger.
Recentemente, invece, si è registrato un brusco cambio di direzione e la biologia è diventata lo
strumento per confermare l’ipotesi primaria che, detta molto semplicemente, è questa: la vita
personale comincia con il concepimento. Un po’ di confusione nasce quando si cerca di capire cosa
intenda il Magistero cattolico per concepimento. Per molto tempo, i documenti cattolici hanno fatto
riferimento allo zigote e l’ipotesi cattolica era anche definita come post-zigotica. E qui c’è una
storia piuttosto curiosa che deve essere raccontata.
Nella prima versione del Donum Vitae, pubblicato in diverse lingue (con testo di riferimento
quello italiano) la definizione di zigote è scritta in una nota a piè di pagina e dice che lo zigote è la
cellula che si forma dopo la fusione dei due pronuclei. È chiaro il riferimento alla formazione di un
unico genoma, ma è anche evidente il brutto errore (da bocciatura agli esami di embriologia) in cui
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il documento incorre: nella nostra specie i due pronuclei semplicemente scompaiono, non si
fondono (la fusione si verifica nel riccio di mare e in altre specie). Di questo errore, comunque,
qualcuno si è prontamente accorto tanto che nel documento finale (italiano e latino, fa testo il
latino) la nota a piè di pagina è cambiata e dice che lo zigote è la cellula che si forma “fusio duorum
gametum”, per fusione dei due gameti. Il cambiamento della definizione è intrigante, perché si può
intendere come semplice correzione di un errore, restando immodificato il principio (che cioè lo
zigote consegue alla formazione di un genoma unico), o come un modo furbesco per evitare di
trovarsi in difficoltà e, perciò, per non prendere partito: la fusione dei due gameti è un processo
biologico che dura 24 ore circa, non definire a quale momento ci si riferisce consente in realtà di
non prendere posizione.
Bisogna allora, per capire di più, andare a cercare le definizioni che hanno dato, dello zigote, i
maggiori esperti cattolici di embriologia. Il primo riferimento è a uno scritto di Adriano Bompiani
che ci ricorda che lo zigote, secondo l’opinione generale, è la cellula che si forma dopo l’anfimissi,
cioè dopo la ricostruzione del normale numero di cromosomi (46). Peccato che, molto
recentemente, sia Bompiani che altri bioeticisti cattolici, in evidente difficoltà dopo la presa di
posizione degli embriologi italiani che hanno chiamato “pre-embrionale” il periodo che precede
l’anfimissi e la formazione dello zigote, si sono inventati nuove e improbabili definizioni, come
quella (impareggiabile) di zigote bi-pronucleare, che ha fatto sorridere tutto il mondo scientifico e
ha finito col creare molte difficoltà al professor Bompiani.
Adesso che non sappiamo più cos’è uno zigote, siamo nelle condizioni ideali per fare una verifica
delle teorie che il mondo cattolico è riuscito a formulare e che hanno ancora forti sostenitori,
malgrado l’opposizione (silenziosa, ma vigile) del Magistero. L’ipotesi più recente formulata dai
bioeticisti cattolici identifica l’inizio della vita personale nel momento dell’attivazione dell’oocita,
quando cioè la sua membrana reagisce all’azione di sostanze liberate dallo spermatozoo “vincitore”,
e diviene impermeabile ai “perdenti” Questo momento è quasi – ma non del tutto – coincidente con
la penetrazione del nemasperma nell’ooplasma. Il ragionamento è semplice: se da quel contatto tra i
gameti prenderà origine un processo biologico capace di consentire lo sviluppo di un embrione, e
poi di un feto e quindi di un individuo adulto, si potrà trattare esclusivamente di quell’embrione, di
quel feto e di quell’individuo adulto che possono essere generati dall’incontro di due specifici
gameti, e perciò di due specifici genomi, un processo di sviluppo irreversibile che porta alla
formazione di quell’unico e irripetibile individuo. Ipotesi un po’ forte (al momento della reazione
zonale il gamete maschile non è neppure penetrato completamente nell’ooplasma) e che ignora
alcune realtà biologiche (per alcune ore, oltre ai due genomi aploidi l’oocita contiene anche i
cromosomi del secondo globulo polare), ma in condizioni di emergenza si deve fare di necessità
virtù.
Per una parte dei bioeticisti cattolici, questa ipotesi è francamente inaccettabile. Nelle discussione
sulla legge 40 che ci sono state nella Commissione sanità del Senato, lo stesso presidente della
Commissione ha dichiarato di aver raccolto molti consensi da parte di eminenti teologi e di
esponenti qualificati della teologia cattolica romana, nei confronti di una ipotesi diversa, che
riconoscerebbe l’inizio della vita personale nel momento della fusione dei genomi. Questa è
l’ipotesi – l’esistenza di una fase pre-embrionale o pre-anfimissica, coinciderebbe con la fase
definita “dell’ootide” o dell’ “oocita a due pronuclei” – che ha ispirato la legislazione della
Germania e della Svizzera paesi che vietano anch’essi il congelamento degli embrioni, ma che non
pongono ostacoli a quello delle cellule che chiamerò genericamente pre-zigotiche, e che certamente
sono pre-embrionali. Il Comitato Nazionale per la Bioetica ha discusso il problema per un anno e ha
poi approvato a maggioranza il documento presentato da Bompiani che, avendo evidentemente
cambiato le proprie opinioni, ha abbandonato la sua vecchia definizione di zigote.
A diverse valutazioni bioetiche giungono invece quei membri del Comitato che ritengono che,
attraverso il processo di fecondazione, si realizzi un “passaggio generazionale” che in natura
riguarda una minoranza di casi a causa della complessità e delicatezza delle interazioni
biomolecolari e degli eventi biologici: l’indice di fecondabilità nelle coppie di 25-30 anni è circa del
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25-30% per ciclo. La specie umana ha una scarsa resa riproduttiva e la formazione di una nuova
“entità biologica”, l’embrione originato dai genitori, prevede una perdita del 70-75%. La transizione
dai gameti all’embrione comporta fasi biologiche cronologicamente distinte e successive che
presentano ampie sovrapposizioni funzionali e temporali che pur costituendo un continuum, non
sono tuttavia assimilabili tra loro sul piano ontologico.
Le conoscenze scientifiche sullo sviluppo dell’embrione hanno fatto molti progressi dal momento
della pubblicazione del documento del Comitato Identità e statuto dell’embrione umano, soprattutto
per la maggiore risoluzione degli strumenti di indagine, ma il quadro che ne risulta è semmai più
complesso e articolato, mettendo allo scoperto reti funzionali di difficile lettura in cui il contributo
genomico (l’insieme dei geni provenienti dai due genitori dell’embrione) viene progressivamente e
continuamente integrato da contributi epigenetici materni presenti successivamente al concepimento
e allo stadio di zigote. Come prevedibile, l’interpretazione dei dati biologici aggiornati ad oggi non
è comunque risultata utile a formulare opzioni etiche condivise.
Secondo un’alta ipotesi, non è possibile attribuire la qualifica di “individuo” (non divisibile) agli
embrioni che non hanno ancora raggiunto l’epoca di sviluppo che preclude ogni possibilità di
formazione di gemelli. Questa è l’ipotesi formulata da Norman Ford, un teologo cattolico
australiano che l’ha esposta in un libro (When did I begin? In italiano: Quando sono cominciato?)
che ha suscitato molto interesse e altrettante polemiche. Secondo Ford questa fase – destinata a
terminare con la comparsa della vita embrionale primitiva o poco più tardi, dovrebbe essere definita
come fase pro-embrionale e dovrebbe assicurare al prodotto del concepimento una protezione
inferiore a quella assicurata all’embrione vero e proprio.
Norman M. Ford, nel suo libro affronta il problema dell'inizio della persona umana facendo, per
usare le sue parole, "un viaggio di scoperta arduo e tortuoso lungo i percorsi strettamente intrecciati
di storia, filosofia e scienza". Ford è un sacerdote cattolico australiano della congregazione dei
Salesiani, che ha studiato teologia e filosofia in Italia, ed è presidente dell'Ecumenical Melbourne
College of Divinity, rettore del Salesian Theological College di Oakleigh; oltre a numerosi incarichi
nel campo della sanità e dell'etica medica, è particolarmente conosciuto per i suoi scritti di bioetica.
In questo libro, Ford ha cercato di stabilire dove tracciare la sottile linea di confine tra la
competenza della scienza e quella della metafisica, ammettendo in linea di principio che la
decisione al riguardo dipende in grande misura dalla propria prospettiva filosofica: i pensatori ostili
a un approccio metafisico alla realtà tendono a fissare l'inizio della persona umana a uno stadio
dello sviluppo in cui "l'emergere degli atti razionalmente consapevoli consente di stabilire rapporti
personali con l'individuo umano in questione". Coloro che danno importanza all'approccio
metafisico tendono a collocare l'inizio della persona umana molto più addietro, nel processo dello
sviluppo umano. Qui, però, le posizioni si dividono: alcuni sostengono che la persona umana è
presente fin da quando si forma lo zigote, che è dotato della capacità di svilupparsi in uno o più
individui umani adulti; altri – e Ford è tra questi – ritengono che l'inizio della persona umana vada
spostato più avanti di due settimane, quando "un individuo umano viene animato in atto e formato
con la potenzialità attiva di ulteriore sviluppo senza cambiamenti di identità ontologica".
Secondo Ford, nelle prime due settimane che seguono la fecondazione, non esiste ancora uno
sviluppo dell'essere umano, ma un processo di sintesi dell'individuo umano. In questi quattordici
giorni le cellule, moltiplicandosi, non fanno altro che sintetizzare naturalmente un individuo umano,
e possono essere descritte come "personne en devenir". Secondo Ford, un individuo umano e la sua
storia personale cominciano insieme quando un individuo ontologico, dotato di una natura
veramente umana, inizia a svilupparsi, pur restando sempre lo stesso essere individuale. Questo è il
punto fondamentale del pensiero di Ford: uno o più individui umani definitivi non possono
cominciare ad esistere prima che la blastocisti perda la propria pluripotenza, ossia prima del
momento in cui, non appena uno o più individui umani sono formati dalle cellule epiblastiche, a essi
viene assegnata l'anima razionale per effetto di un atto creativo di Dio. Ciò avviene con la comparsa
della stria primitiva, il momento in cui solo l'embrione è totipotente, dotato di quella potenza attiva
di continuare lo sviluppo di un individuo permanente che prima apparteneva alle sue parti separate,
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capaci di formare un altro individuo umano. Questo individuo umano è distinto, ma non separato,
dai suoi organi extraembrionali e dalla placenta. E qui Ford cerca conforto nell'embriologia e cita
Fabiola Müller e Rossan O' Rahilly per affermare che, finché prima della formazione della stria
primitiva è possibile la formazione di gemelli identici "l'embrione geneticamente unico, ma non
individuato, non ha ancora acquisito un'individualità determinata, una stabile identità umana".
Per evitare confusioni terminologiche, Norman Ford suggerisce di chiamare pro-embrione il
concepito fino allo stadio di stria primitiva e di utilizzare il termine embrione solo dopo questo
momento. Un termine analogo, pre-embrione, era usato dagli embriologi americani fino dagli anni
30, per indicare l'embrione nella fase di pre-impianto (pre-implantation embryo o early embryo, e
infine pre-embryo), senza alcuna intenzione di assegnare a questa fase un diverso e meno elevato
status morale. In questo senso, la definizione di Norman è invece molto simile a quella di Anne
McLaren, che ha usato il termine pre-embrione per definire una fase pre-individuale dello sviluppo
dell'uomo fecondato.
La teoria più vicina a quella sostenuta attualmente dal Magistero cattolico è quella che identifica
l’inizio della vita personale con l’inizio dell’attività del genoma embrionale, che si verifica solo
dopo due giorni dal concepimento. E c’è una ulteriore ipotesi, secondo la quale si deve immaginare
una vita individuale solo dal momento in cui le cellule embrionali perdono la loro totipotenza,
momento che coincide con la formazione della blastocisti e della divisione tra cellule del trofoblasto
e cellule della massa cellulare interna. Da questo momento in avanti si può immaginare che le
possibilità di sviluppo delle blastocisti siano indirizzate verso la formazione di un solo individuo, un
evento che cancella il rischio potenziale che si verifichi spontaneamente – o che venga indotta in
laboratorio - la formazione di individui identici a partire dalla prime cellule blastomeriche.
Numerosi filosofi cattolici – mi viene in mente Prini, ma il consenso viene da un gran numero di
persone – si chiedono come possa essere possibile immaginare un qualsiasi destino per una struttura
(pre-embrionale o embrionale) che non abbia ancora preso rapporto con il grembo materno. Che
futuro potrà mai avere una blastocisti in un terreno di coltura? Solo un contatto stabile e definitivo
con l’endometrio materno è in grado di consentirle una probabilità di sviluppo. Persino l’impianto
embrionario nelle salpingi o nel peritoneo, non essendo destinato a permettere lo sviluppo
dell’embrione, non può essere considerato l’inizio di una vita personale e questo giustifica la
rimozione della tuba prima ancora della sua rottura o dell’aborto. J. F. Malherbe, a questo proposito,
ha scritto (Estatuto personal del embrione humano: In: AA.VV.: La vida humana: origen y
desarrollo. Fed. Int. de Univ. Catholicas, Madrid 1989): “se la vita organica dell’essere umano
comincia con la fecondazione, la sua vita relazionale comincia con l’annidamento. A partire dal
momento in cui lo zigote si converte in embrione (propriamente detto), da quando si individualizza
ed entra in comunicazione con la madre, la sua esistenza comincia a dispiegarsi nella dimensione
psichica. Da questo momento già si può parlare dell’embrione come d’una persona umana in
potenza”. Anche per Malherbe, dunque, prima della individuazione l’embrione è un essere organico
della specie umana, ma non una persona individuale; a partire dall’inizio della individuazione, è una
persona in potenza. E, sullo stesso argomento, scrive Pietro Prini (Lo scisma sommerso, Garzanti,
1999): “Soltanto a partire dall’annidamento dello zigote nell’endometrio dell’utero della donna tra il
6° e il 9° giorno dalla fecondazione, l’organismo della donna è informato della sua presenza e
risponde di conseguenza, disprogrammando il proprio ciclo mestruale e programmando con il
nuovo venuto, diventato embrione in senso proprio, il misterioso cammino della gestazione”.
Ricorda Prini che l’indivisibilità in sé, che è anche secondo Tommaso la prima condizione sine qua
non della persona – comunque sia intesa, in atto o in via di sviluppo – non c’è nei primi giorni di
vita dello zigote per un processo inevitabile di scissione delle sue parti vitali che dura fino
all’annidamento delle blastocisti nella mucosa dell’utero tra il 6° e il 9° giorno.
L’autopoiesi dello zigote raggiunge la propria maturità – o stabilità di persona umana in via di
sviluppo – solo quando instaura un reale rapporto comunicativo con la madre operando un salto di
qualità del proprio statuto ontologico. L’intervallo dal concepimento all’annidamento dell’embrione
consente, anche sul piano morale, di controllare con metodi tecnicamente appropriati di
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contraccezione chimica o fisica l’atto della fecondazione ai fini di una genitorialità responsabile, sia
di produrre dai gameti, mediante un processo di fecondazione artificiale, degli zigoti trattabili come
oggetti di diagnosi, di esperimento o di interventi modificativi, nel rispetto della deontologia medica
del trattamento di ciò che ha la possibilità di diventare una persona umana in sviluppo. La sequela
dei divieti può dunque essere ridimensionata nei primi otto giorni di vita del pre-embrione. Prini
sottolinea due caratteri della persona umana che considera imprescindibili, quello di ipostasi
individuale e quello di autonomia operativa Questa ipotesi, che identifica l’inizio della vita
personale con il momento dell’impianto dell’embrione in utero (che poi si tratti dell’inizio o della
fine dell’impianto è ancora tutto da vedere) assomiglia molto alla teoria del personalismo
relazionale molto cara ad alcuni studiosi evangelici e per varie ragioni dovrebbe essere molto poco
gradita alla Curia romana. Per questo trovo molto difficile da comprendere le scelte recenti
dell’episcopato irlandese, scelte che meritano di essere raccontate per esteso e che non sembrano
certo assegnare alla morale cattolica ufficiale uno statuto di particolare solidità.
9. Lo strano caso dell’Irlanda e dei suoi vescovi
Fino a non molto tempo fa, il paese più antiabortista in Europa era certamente l’Irlanda, nel quale
continuava ad essere in vigore la legge vittoriana sull’aborto, promulgata dal Parlamento di Londra
nel 1861 (Offences Against the Person Act): la legge considerava reato sottoporsi a una interruzione
di gravidanza o aiutare una donna a farlo e fissava come condanna la carcerazione fino
all’ergastolo. Nel 1967 il parlamento britannico legalizzava l’aborto volontario in Gran Bretagna,
abrogando gli articoli 58 e 59 della legge del 1861, ma senza estendere questa abrogazione alle sei
contee dell’Irlanda del Nord; anche le 26 contee della repubblica mantennero in vigore la legge
vittoriana.
Nel 1983 nella repubblica irlandese un referendum popolare approvò, con una maggioranza dei due
terzi dei voti validi, l’inserimento del seguente emendamento nell’articolo 40.3 della costituzione:
“Lo stato riconosce il diritto alla vita del non ancora nato, nel rispetto dell’uguale diritto alla vita
della madre e garantisce nelle sue leggi di rispettare e, per quanto possibile di difendere e tutelare
tale diritto con leggi opportune”.
Un nuovo referendum, nel 1992, approvò l’inserimento nello stesso articolo di due nuovi paragrafi
che tutelavano il diritto di viaggiare e di ricevere informazioni sull’interruzione volontaria della
gravidanza, assicurando alle donne irlandesi il diritto di abortire nelle strutture pubbliche della Gran
Bretagna.
Nel 1995, allo scopo di dare articolazione legale agli emendamenti del 1992 il Parlamento approvò
la “Legge sulla Regolamentazione dell’Informazione” che stabilisce le condizioni in cui possono
essere date informazioni riguardo all’interruzione volontaria della gravidanza. Rimaneva tuttavia
una lacuna nella legislazione ordinaria, che riguardava la legittimità dell’interruzione di gravidanza
nel caso di rischio di suicidio della donna incinta.
Nel marzo del 2002 fu sottoposto a referendum popolare il “Disegno di legge per il venticinquesimo
emendamento alla costituzione (protezione della vita umana durante la gravidanza)”, presentato dal
governo e approvato dal parlamento. Il referendum riguardava due commi o sottosezioni da
aggiungere all’articolo 40.3. Il primo comma dichiarava: “In particolare la vita nell’utero del non
ancora nato verrà protetta da quanto viene stabilito legge per la protezione della vita umana durante
la gravidanza del 2002”. Il secondo comma stabiliva che la legge in questione non avrebbe potuto
essere cambiata dal solo parlamento ma che ogni cambiamento avrebbe dovuto essere sottoposto a
un referendum popolare. La legge proposta eliminava il rischio di suicidio della donna incinta quale
motivo legalmente accettabile di interruzione della gravidanza. In secondo luogo definiva l’aborto
volontario come “distruzione intenzionale, effettuata con qualsiasi mezzo, della vita umana non
ancora nata dopo che sia stata innestata nell’utero”. Questa definizione poneva esplicitamente fuori
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dalla protezione della nuova legge l’embrione non impiantato, salvaguardando la legalità della
pillola del giorno dopo e della spirale e aprendo la porta alla sperimentazione sugli embrioni in
vitro.
In Irlanda vengono consumate, ogni anno, 250.000 pillole post-coitali, e i gruppi cattolici più
radicali avevano già espresso la loro intenzione di chiedere che questo farmaco fosse proibito.
L’emendamento proposto dal governo avrebbe reso inutile ogni ricorso in tal senso.
La legge stabiliva infine che un procedimento abortivo eseguito da un medico in un luogo
riconosciuto dal Ministero della Sanità, eseguito per prevenire un rischio reale e considerevole di
morte della donna gravida non sarebbe stato considerato aborto volontario; veniva però escluso il
rischio di suicidio.
Per comprendere le ragioni che hanno sollecitato certi gruppi sociali o religiosi a schierarsi per il sì
o per il no bisogna conoscere a fondo la situazione politica e la storia del paese, anche perché la
posta in gioco non era la legalizzazione dell’aborto volontario, che resta illegale in tutte le contee e
che tale sarebbe rimasto, quale che fosse stato l’esito del referendum.
C’è anche da sottolineare il fatto che il diritto all’aborto, in Irlanda, non ha forti motivazioni: le
donne che vogliono abortire, lo fanno nelle strutture pubbliche inglesi, con un costo complessivo di
circa 500 euro, viaggio incluso e non si registrano casi di aborto clandestino. Era piuttosto in
discussione l’influenza della Chiesa cattolica sulle leggi dello Stato e sull’opinione pubblica e la sua
insistenza nel far coincidere le leggi dello Stato con quelle della Chiesa.
In questa occasione l’episcopato irlandese ha cercato, con qualche opportunismo pragmatico, di
riaffermare la propria posizione anti-aborto inserendola nelle leggi dello stato e di ottenere un
vantaggio su un altro terreno, andando in cambio incontro alle posizioni del governo. Incombeva sui
vescovi la questione degli ingenti risarcimenti da destinare alle centinaia di vittime di abusi sessuali
compiuti da membri del clero soprattutto nel periodo tra il 1950 e il 1970 (l’apogeo del potere della
Chiesa cattolica nell’isola) ai danni di bambini affidati alle loro cure nelle molte istituzioni che essi
gestivano. Il potere che la Chiesa esercitava sul paese e la deferenza acritica della popolazione nei
confronti del clero avevano mantenuto il segreto su questi eventi fino agli anni Novanta. I discreti
negoziati tra episcopato e governo hanno prodotto un compromesso: il governo accettava che
l’onere maggiore di questi risarcimenti venisse assunto dallo Stato e la Chiesa dava la sua
approvazione alla proposta governativa sull’aborto, anche se era in chiaro dissenso con la linea
ufficiale della Chiesa romana. I gruppi cattolici integralisti hanno rifiutato questo compromesso e si
sono schierati a favore del no accusando l’episcopato di aver svenduto la difesa della vita in cambio
di vantaggi politici.
Solo il 42% dei cittadini irlandesi ha votato per il referendum, che si è concluso quasi in pareggio
(49,58% di sì, 50,42% di no), un risultato ambiguo che non consente a nessuno di cantare vittoria. I
commentatori politici hanno però indicato gli sconfitti di questa competizione. Anzitutto la Chiesa
cattolica nella sua dimensione di organismo politico diretto dall’episcopato, che ha pagato
caramente il suo tentativo di compromesso, considerato immorale da molto fedeli. Significativo il
commento del giornale cattolico “The Irish Catholic”: “I vescovi hanno investito gran parte della
loro autorità a favore di questo emendamento costituzionale e la sconfitta che esso ha subito ha reso
chiara e impossibile da negare una cosa, cioè che la loro autorità è ormai respinta, implicitamente o
in modo aperto, non solo da molti cattolici liberali, ma da molti cattolici conservatori. Se persino
costoro non ubbidiscono più ai vescovi, allora i vescovi sono davvero nei guai”. Sconfitti, insieme
alla chiesa, anche alcuni movimenti politici, come l’ala del Fianna Fàil legata all’episcopato, il
partito dei democratici progressisti e alcuni personaggi politici saliti sul carro sbagliato. Si tenga
comunque anche conto del fatto che il 9 agosto del 2005 l’Associazione Irlandese di Pianificazione
Familiare ha inoltrato ricorso alla Corte Europea per i diritti dell’uomo contro le norme esistenti
attualmente in Irlanda in materia di aborto volontario.
Aggiungo ancora due cose a proposito dell’Europa: nel luglio del 2004 la Corte Europea per i diritti
dell’uomo ha rifiutato di attribuire la qualità di persona all’embrione e al feto; il Parlamento
Europeo, il 26 settembre del 2002, ha raccomandato ai paesi membri di legalizzare l’aborto.
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Conclusioni
Chiarisco meglio le mie opinioni a proposito dell’abortività della “pillola dei cinque giorni dopo”.
Ho il sospetto che in questo caso abbiano qualche ragione certi cattolici, almeno dal punto di vista
biologico: cinque giorni sono pericolosamente vicini al momento dell’impianto. In ogni caso manca
sperimentazione sul tema.
Se l’endometrio si modifica in modo tale da non essere più in grado di consentire lo sviluppo
dell’embrione (quindi non soltanto l’impianto), potrebbero in teoria verificarsi degli aborti prima
che l’embrione riesca a inviare il suo segnale di presenza. Il che significa prima della positività del
dosaggio delle Beta-HCG. È la stessa cosa che si ritiene possibile in alcuni casi per effetto degli
IUD (cioè della spirale) inseriti subito dopo il rapporto. Sono cose teoricamente possibili, e in linea
puramente teorica si tratta di aborti (o di “microaborti”, come qualcuno li chiama), ma non
dimostrate (e difficili da dimostrare).
Sulla decisione dell’Europa al proposito sono stato informalmente consultato e ho espresso parere
negativo, non solo per la ragione che ho appena esposto, ma credo di essere stato uno dei
pochissimi. In ogni caso non conviene farne un problema, anzi: non mi dispiace che certa gente
confronti la mia trasparenza con la sua oscurità, in teoria dovrebbe essere il contrario.
“Avvenire” mi ha definito, oltre che un cattivo maestro, anche un avvelenatore, e ha scritto che
quello che dico è alito del demonio. Da allora mi nutro di caramelle alla menta.
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