Versione integrale gratuita in formato pdf

Transcript

Versione integrale gratuita in formato pdf
Andrea Lado
Il viaggio di mezzo
1
2
Non c’è vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare
Lucio Anneo Seneca
3
4
PROLOGO
Avevo nove anni e mi trovavo a Genova insieme ai miei genitori,
ospite di loro amici. Non mi stavo divertendo, non c’erano altri bimbi
con cui giocare e volevo trovare qualcosa da fare. Mia madre parlava
con la sua amica, mio padre con il suo amico ed io mi aggiravo senza
pace per la casa. Andai così sul balcone e mi affacciai a vedere la città
e il mare. Quell’immensa distesa d’acqua mi affascinava da sempre.
Già a quel tempo amavo fare tuffi, lunghe nuotate e immersioni alla
scoperta dei fondali. Tutto ciò mi faceva sentire, in qualche modo,
una parte integrante dell’elemento. Amavo inoltre fantasticare su
quello che ci sarebbe stato oltre l’orizzonte, oltre la linea, spesso
sfocata e confusa, che divide il cielo dall’acqua.
Rimasi assorto nei miei pensieri infantili per qualche minuto, poi
pensai a ciò che avevo sentito pochi minuti prima in casa. Gli adulti
stavano parlando del figlio dell’amica di mia madre, un tipo eccentrico
che aveva passioni ancora più eccentriche di lui, spesso causa di
malumori e preoccupazioni in famiglia. Innanzitutto amava scalare le
montagne. Con tutta l’attrezzatura necessaria si arrampicava su pareti
verticali, sospeso nel vuoto, e faceva dei numeri da circo, appeso per
una mano su un precipizio e cose del genere. La casa era piena di foto
di quel ragazzo durante le sue imprese alpine. Avrà avuto all’incirca
venticinque anni, portava i capelli biondi molto corti, aveva un fisico
scolpito e una faccia sprezzante del pericolo.
Ma non tanto questo aspetto stimolò il mio immaginario, quanto il
racconto che sentii su un viaggio in Africa che lo aveva allontanato da
casa per diverso tempo. In sella ad una moto da enduro si era
avventurato nel deserto del Sahara in compagnia di altri motociclisti,
certamente avventurosi e determinati come lui.
Di quella famiglia non sapevo quasi nulla. Il padre veniva dall’Olanda
e insegnava all’Università di Genova, la madre era invece amica
d’infanzia della mia, entrambe nate e cresciute in un piccolo paese
vicino a Mantova, in una campagna abitata da gente alla buona,
cordiale, alla quale sono profondamente legato sin dall’infanzia. Ma la
provincia le stava stretta, così un bel giorno se ne andò, intraprese la
5
carriera medica e incontrò, non so in che modo, quell’uomo dal quale
ebbe un figlio che fu il mio mentore, anche se non l’ho mai
conosciuto. In quel preciso istante della mia infanzia sentii nascere
un’emozione, non ancora esaurita, che mi avrebbe portato molti anni
dopo a ripercorrere, a modo mio, le orme di quel ragazzo.
Nonostante la giovane età, i segnali della mia propensione a viaggiare
erano comunque già evidenti. A quel tempo, infatti, ero solamente un
bimbo abbastanza svogliato a scuola, non mi sentivo lanciato verso lo
studio, lo ritenevo solo una fatica necessaria per non essere bocciato,
ma non mi dava mai un vero piacere.
Nelle ore di geografia la situazione però cambiava. Ero letteralmente
estasiato dalla consultazione selvaggia dell’atlante; guardavo fiumi,
laghi, mari, monti, città, stretti, golfi, distanze, popoli, lingue. Altri
miei compagni sembravano invece totalmente disinteressati e così mi
feci un’idea che poi si rivelò corretta nel tempo a venire. Solo alcuni
sentono il fascino dell’ignoto sin dai primi anni di vita, mentre la
maggior parte delle persone sembra invece abbastanza refrattaria alla
cosa, se non addirittura timorosa. Nella migliore delle ipotesi, quando
parli loro di qualche argomento del genere, pronunciano frasi di
circostanza, senza però condividere in qualche modo emozioni simili
alle tue. Dentro di me c’era già lo stesso stato d’animo di quel
ragazzo, la stessa predisposizione a fare determinate cose, e quel
racconto non fece altro che innescare un detonatore che mi avrebbe
donato una magnifica esplosione di vita. Ero un po’ come un
computer in attesa di una chiave d’accesso per potere funzionare e il
racconto delle gesta di quello sconosciuto rappresentò la mia
password. Una volta inserita, il suo impulso fece caricare tutto il
programma, già esistente nel mio cervello.
Il Sahara. Beh, nei miei viaggi mentali sull’atlante scolastico quel
deserto l’aveva sempre fatta da leone e, dopo avere ascoltato quelle
vicende, la voglia di attraversarlo divenne inesorabile. Mi affascinava,
mi attirava con le sue note immagini di cammelli, oasi, palme e così
via. Erano tutte cose che avrei toccato con mano vent’anni dopo. Il
tempo passò, non vidi più quella gente e, in fondo, non mi interessava
farlo. Ma ormai la password aveva fatto il suo lavoro, ero lanciato
6
verso qualcosa di cui però non distinguevo i confini, solo una
percezione astratta di essere nato per conoscere il mondo, di calarmi
in più realtà possibili e sempre diverse fra loro.
Sono passati più di trent’anni da quel pomeriggio d’estate della mia
infanzia e da allora ho visitato oltre cinquanta Stati in quattro
continenti, quasi tutti in moto, molti dei quali in compagnia di Marco,
il mio compagno di viaggi nel mondo, il mio amico del cuore.
A partire dal 1991 ci dedicammo ad alcuni brevi viaggi in Europa e
nel 1994 ci sentimmo pronti a compiere il grande passo: era giunta
l’ora di andare in un nuovo continente.
Con la mia fedele Honda Africa Twin raggiungemmo in soli tre giorni
di autostrada lo Stretto di Gibilterra, giungendo così in Marocco, che
esplose violentemente davanti ai nostri occhi e dentro i nostri cuori e
continuò a farlo, senza tregua, per tutto il viaggio. Avevamo solo una
settimana da dedicare alla scoperta dell’estremo nord ovest del
continente africano e avremmo voluto molto più tempo, però
eravamo già molto bravi a farci bastare quello che c’era, così
succhiammo tutto il midollo possibile di quella breve esperienza,
giungendo a percorrere settemila chilometri in sole due settimane.
Il mal d’Africa è un virus benefico che entra nel corpo e non si
debella mai completamente, ogni tanto sembra avere esaurito i suoi
effetti ma poi si impone inesorabile e costringe a tornare in quella
terra magica per vivere emozioni meravigliose. Chiaramente ne
venimmo contagiati e gli effetti si sarebbero fatti sentire nel tempo.
Negli anni successivi vivemmo altre esperienze in America e in Asia,
ma nel 1999 sentimmo un forte e irrefrenabile impulso che ci portò
nuovamente dall’altra parte del Mediterraneo.
Ci concedemmo quindi un bis, dedicando al nuovo viaggio addirittura
tre settimane. Anche quella volta attraversammo l’Europa in tempi
ridicoli, affrontando tappe autostradali degne di camionisti esperti.
Dopo due giorni dalla partenza dall’Italia, in sella all’Honda XLV 750,
eravamo già a cavalcare sulle montagne del Rif, nel nord del Marocco.
Fu divertente e istruttivo affrontare gli spacciatori di hashish di quei
luoghi sperduti. Eravamo in sella e, fra una curva e l’altra, sentimmo
d’un tratto un clacson suonare furiosamente. Si materializzò così nello
7
specchietto retrovisore una grande automobile che ci lampeggiò
insistentemente, facendo cenno di fermarci. All’interno c’erano due
uomini e l’autista si mise ad urlare.
AUTISTA –
Monsieur! Hashish!
Inizialmente provammo a ignorarli, ma tornarono subito alla carica.
AUTISTA –
Monsieur! Hashish chilo!
Prontamente ci affiancarono in curva e il passeggero ci mostrò un
enorme spinello acceso, aspirò una boccata poderosa e soffiò il fumo
nell’aria. Poi fece una faccia soddisfatta, a evidenziare l’ottima
opportunità che ci si presentava. Normalmente i pusher di strada nei
vari luoghi del mondo ci facevano proposte più misere, di qualche
grammo, non di un chilo, e comunque in modo più discreto, ma là era
molto diverso. Non riuscivamo a capire come gestire l’assurda
situazione, non ci era mai capitato di incontrare spacciatori che
urlassero senza ritegno la loro mercanzia inseguendoci con un’auto.
Quei due erano probabilmente contadini e volevano fare un po’ di
soldi con due motociclisti di passaggio, niente più, ma ci trovavamo in
una zona deserta e fermarsi era sconsigliabile, anche se non potevo
certo guidare troppo veloce per seminarli, mettendo a repentaglio la
nostra sicurezza. Provammo a dire no in più modi, gentili e decisi allo
stesso tempo, ma non c’era nulla da fare, i due non mollavano. La
situazione surreale toccò l’apice col nostro ingresso a Ketama, una
località abitata da contadini che coltivano perlopiù la canapa indiana.
– Meno male che abbiamo raggiunto il villaggio,
così ‘sti due rompicazzo si toglieranno finalmente dai maroni.
C’è troppa gente in giro, non vorranno certo rischiare di farsi beccare dalla Polizia!
ANDREA
Ma non era così, non se ne andavano, continuavano a perseguitarci
imperterriti, proponendoci la solita mercanzia e parlando di prezzi
sempre più ridicoli. Sembrava impensabile infatti che due italiani non
8
fossero interessati all’acquisto di hashish e credevano che fosse solo
una questione di costi. Ma noi non mollavamo e loro nemmeno. Ad
un certo punto, proseguendo sulla strada principale, vedemmo un
posto di blocco della Polizia; per la prima volta nella nostra vita
fummo contenti di quell’incontro e ci fermammo senza che gli agenti
ce lo avessero intimato, certi che, alla vista dei gendarmi, i due
sarebbero fuggiti a gambe levate. Salutammo così cordialmente,
fingendo di avere bisogno di informazioni sulla strada giusta per Fes.
Ma i balordi si fermarono a loro volta qualche decina di metri più
indietro e si avvicinarono a piedi verso di noi, salutarono i poliziotti e
ci raggiunsero. Mentre Marco chiacchierava del più e del meno con gli
agenti, uno dei contadini mi si avvicinò e mi parlò in italiano.
– Amico, Italia Marocco amici, fratelli! Tu vieni da me, mio cugino
e tuo amico, casa mia per bere the di Marocco, poi buono buono spinello. Piace
spinello? Se piace tu comprare un chilo, solo pochi dirham. Tu dire tuo amico.
ANDREA – Ma no, dai, noi non fumiamo spinelli!
E poi c’è la Polizia qua a pochi metri, cosa stai dicendo?
CONTADINO – No problema amico, no problema.
Polizia amico, no problema per spinello amico, no problema.
ANDREA – Si! No problema! E secondo te noi dovremmo girare tutto il Marocco
con un chilo di hashish nelle valige? Tanto no problema! E se ci ferma la Polizia
di Fes cosa le diciamo? No problema, amico poliziotto di Fes, noi amici di Polizia
di Ketama, buono spinello, no problema, solo un chilo!
CONTADINO – No problema amico, solo spinello.
CONTADINO
Non mi restò altro da fare che rassegnarmi, rinunciai ad avere ragione
e cominciai a rispondere “No, grazie” ad ogni ulteriore insistenza.
Ripartimmo dopo pochi minuti, vedendo che i due continuavano a
chiacchierare amabilmente con i loro amici poliziotti.
Così entrammo nel mondo adulto e capimmo che il confine fra i
buoni e i cattivi è sempre molto labile. Dove si vede una brutta faccia
si può trovare un fedele alleato e dove si trova un sorriso e una faccia
rassicurante può nascondersi un individuo della peggiore specie.
Questa è una delle tante e ricorrenti ipocrisie del nostro pianeta,
9
situazioni con le quali ci siamo scontrati pressoché ovunque: chi
predica bene razzola male. È quasi sempre così, con poche eccezioni.
Uno Stato sovrano come il Marocco accetta questa attività produttiva,
certo non lo fa apertamente, ma tutti lo sanno e tanti continuano a
coltivare merce proibita. Questo avviene perché la popolazione rurale,
molto povera, riesce così a guadagnare un po’ di denaro, ben poco
rispetto a quello che va nelle tasche dei grandi narcotrafficanti di
Casablanca, però pur sempre sufficiente al sostentamento. La Polizia
è chiaramente a conoscenza della cosa e non penso che faccia molto
per frenarla. Lo Stato ha bisogno della produzione di canapa indiana
per mantenere intere famiglie e sicuramente si trova sotto pressione
della malavita organizzata. Il narcotraffico mondiale ha bisogno di
quelle terre e nessuno può impedirglielo, altrimenti sono guai. Però il
Governo deve dimostrare la propria forza in qualche modo, altrimenti
nessuno gli darebbe più credito, e non resta che farlo con chi è più
debole, cioè con la gente semplice che non ha gli agganci politici
giusti per non subire la pena prevista dalla Legge.
Questo accade non solo in Marocco, ma non è un segreto per
nessuno. In tanti Paesi del mondo molti politici vengono spesso
scoperti nel commettere reati di droga, sesso, truffa e chi più ne ha
più ne metta, però tutto viene generalmente insabbiato e trattato
come fatto secondario, poco rilevante ai fini della vera giustizia, e
questi personaggi continuano a legiferare contro ciò che commettono
loro stessi per primi. Predicano bene e razzolano male, ovunque. In
questo si può dire che Italia e Marocco siano molto simili, come
sostenevano gli spacciatori di Ketama. Ma io e Marco non eravamo lì
per cambiare il mondo, bensì solo per conoscerlo, così smettemmo di
discutere e proseguimmo il nostro viaggio.
Pochi giorni dopo, a Rabat, conoscemmo Riccardo, un ragazzo di
Bologna. Viaggiava in moto da solo e sarebbe tornato in Italia a
breve. Noi gli parlammo della nostra piccola esperienza africana e lui
era un veterano di quei luoghi. Ci chiese se non avessimo intenzione
di proseguire in Mauritania. Non ci avevamo pensato assolutamente,
eravamo lì per girare il Marocco, ma il fascino di quel viaggiatore ci
fece perdere di vista il nostro obiettivo iniziale. Ci cominciò a narrare
10
di percorsi incredibili nel deserto, di territori percorribili solo con la
bassa marea, di foreste sterminate abitate da uomini pressoché nudi
che vivevano in capanne di paglia, di branchi di babbuini in mezzo
alla strada, di piste di fango, di stagione delle piogge e di tanto altro
ancora. Lui ne sapeva tanto, lui ci ispirava, lui ci dava voglia di fare o
semplicemente faceva la stessa cosa del ragazzo di Genova, accendeva
solo degli interruttori, ci illuminava la strada, ma il cammino sarebbe
stato tutto nostro. Ci accorgemmo infatti che la voglia di percorrerlo
era già insita in noi da tempo immemore, forse da sempre.
Non c’erano più dubbi, avremmo realizzato un progetto epico, quello
di attraversare le terre aride e selvagge dell’Africa sahariana per
giungere nella foresta tropicale, esattamente come fecero i grandi
esploratori del passato. Così salutammo Riccardo e proseguimmo
sino all’estremo sud del Paese, in pieno deserto marocchino.
Pensavamo di lasciare la moto al confine per spostarci in carovana nel
deserto, chiedendo un passaggio a qualcuno, poi avremmo raggiunto
il Senegal coi mezzi pubblici. Da lì saremmo tornati indietro in
qualche modo a riprendere la moto per fare infine ritorno in Italia.
Fortunatamente dovemmo desistere dal folle proposito; i militari ci
fermarono perché non potevo sconfinare senza il mio mezzo, ero
tenuto a portarlo con me. Se ci avessero permesso di proseguire,
chissà cosa sarebbe successo! Forse non avremmo trovato più la
moto, forse altro. Comunque non ne sarebbe valsa la pena, non
avremmo visto bene il Marocco e, anche se fossimo giunti al confine
mauritano, non saremmo stati comunque in grado di proseguire. La
natura del luogo è troppo severa per gente non organizzata e
inesperta come eravamo noi in quel periodo.
Ci facemmo quindi il nostro splendido viaggio fra le montagne
dell’Atlante, alla scoperta di villaggi nascosti e di città magnifiche, per
poi fare ritorno a casa, entusiasti di ciò che avevamo vissuto. Peccato
per il Sahara, ci dicemmo, ma in fondo eravamo soddisfatti. Ma se si
vuole veramente qualcosa non bisogna mai smettere di lottare, così
durante l’inverno successivo pianificammo con cura un progetto per
riuscire ad attraversare il deserto. Riccardo ci aveva parlato, con una
certa superficialità e leggerezza, di una pista che ci avrebbe portati nel
11
cuore del Tenerè, il deserto dei deserti, uno sterminato mare di sabbia,
certamente il più grande dell’intera Africa, ma forse del mondo intero.
– Sì, ragazzi. Potreste arrivare in Sicilia, prendere il traghetto per la
Tunisia e costeggiare sino alla Libia. Superate il confine, arrivate a Tripoli e vi
lanciate decisi verso sud, sino a Sebha, poi trovate il confine col Niger.
Quando siete a Sebha chiedete in giro, troverete qualcuno che vi indicherà la strada
giusta per arrivare al Tenerè. Comunque dal confine proseguite sulla pista sino
all’oasi di Bilma, poi fate provvista d’acqua e benzina e vi dirigete verso ovest,
sino all’albero di cemento del Tenerè.
Una volta là non vi mancherà molto ad Agadez e lì ricomincia l’asfalto.
ANDREA E MARCO – Albero di cemento?
RICCARDO – Sì. In passato era un albero vero,
l’unico in migliaia di chilometri di deserto. Era un punto di riferimento per tutti,
beduini e tuareg, poi qualcuno ha fatto un danno.
MARCO – Che danno?
RICCARDO – È stato un camionista libico, negli anni Settanta.
Ha fatto una manovra sbagliata col camion e l’ha tirato giù.
ANDREA – Come cazzo ha fatto? Con migliaia di chilometri a disposizione per
guidare come uno scemo, proprio lì doveva fare manovra? Che sfigato!
RICCARDO
Non so se lo avesse fatto apposta o se fosse realmente così idiota da
centrare un albero nel deserto, resta il fatto che al posto di quello vero
c’era una copia in cemento, così i viandanti continuavano ad avere lo
stesso riferimento per i loro spostamenti.
Prima di proseguire con il racconto occorre fare una precisazione. Ci
sono diversi modi per attraversare il Sahara, uno dei quali è attraverso
la Libia e il Niger. È il percorso più breve per raggiungere la
cosiddetta “Africa nera”, la fascia del continente posta sotto il
Tropico del Cancro. Ci sono però due alternative: la Transahariana e
la Western Sahara Route. La prima taglia tutta l’Algeria ed è un
percorso estremamente difficile, mentre la seconda è quella che
avevamo provato a percorrere nel 1999 ed è decisamente più facile,
dato che costeggia l’Oceano Atlantico ed è meno ostica delle altre
due. A sentire Riccardo però sembrava molto semplice anche l’ipotesi
12
di passare attraverso la Libia, così decidemmo di cercare maggiori
informazioni a riguardo. Sfogliando una rivista di motociclismo
leggemmo il nome di un altro avventuriero del deserto, un
professionista della sabbia di nome Claudio. Marco riuscì presto a
contattarlo e i due si diedero appuntamento in un centro commerciale
a Modena, dove, ovviamente, mi recai anch’io.
Aveva circa una quarantina d’anni e l’aria di uno che la sapeva lunga.
Un’impressione giusta, perché alle sue spalle c’erano innumerevoli
viaggi desertici in moto e le sue parole sembravano oro colato.
– Ma siete fuori di testa? Volete passare dalla Libia?
MARCO – Sì, ci hanno detto che c’è una pista che porta a Bilma, poi da lì si va
all’albero del Tenerè e si arriva ad Agadez. È anche una zona molto frequentata
dai Tuareg e, in caso di problemi, non saremmo mai troppo soli, no?
CLAUDIO
Nel dire questo il fedele compagno adottò un atteggiamento da
consumato navigatore del deserto, ma di fronte alla saggezza di
Claudio risultò evidente che il tono giusto dovesse essere un altro.
– Forse non vi hanno informati bene. La pista c’è nel senso che c’è una
direzione da prendere, ma non vi aspettate di trovare un sentiero.
Il vento spazza via continuamente ogni cosa e non esiste nessuna traccia.
MARCO – Andiamo bene! Mi aspettavo un’altra situazione, per me una pista è
un sentiero tracciato, non una semplice idea di direzione.
CLAUDIO – Invece no. E se scazzate qualcosa vi trovate nel bel mezzo del nulla e
ci lasciate le penne, non c’è mica da scherzare!
ANDREA – Ma come? Ci saranno intere carovane di camionisti e altra gente!
CLAUDIO – Quelle persone ci sono, è vero, ma il tempo in Africa non si misura
come in Europa. Se vi dicono che fra un po’ passerà un camion, può voler dire che
serve anche una settimana, se non di più. Tanto non hanno un cazzo da fare, se la
prendono comoda. Voi invece avete i giorni di ferie che passano in modo
inesorabile e non vi potete permettere di stare fermi in frontiera così tanto, no?
MARCO – Parole sante. Però pagando qualcuno si possono accelerare i tempi.
ANDREA – Già, la grande forza del dio denaro è la stessa in tutto il mondo!
CLAUDIO
13
– Vero. Però basta che foriate una gomma e vi fermate chissà quanto
per aggiustarla. Vabbè che i libici cuciono i battistrada degli pneumatici con ago e
filo e poi ripartono, ma parliamo di camion, non di moto.
Per voi è necessario avere più ricambi possibili, quindi evitate di andare in due su
una moto sola per una pista difficile come quella. La sabbia è alta, non è facile
guidare, soprattutto se siete pieni di bagagli.
CLAUDIO
E allora ci sentimmo come due bambini che ascoltavano le parole del
vecchio saggio, di colui che, con benevolenza, dava i giusti consigli
per non morire. Ci rendemmo chiaramente conto che attraversare il
deserto poteva essere realmente letale e i pericoli non andavano
assolutamente sottovalutati. La conversazione proseguì a lungo,
Claudio continuò a darci informazioni sul continente nero.
– Ascoltate me, fate così. Andate in Marocco, scendete lungo la costa
atlantica sino a Dakhla, dove siete stati l’anno scorso. Aspettate poi il primo
giorno utile per partire verso la Mauritania.
MARCO – In che senso “Giorno utile”? Non possiamo partire quando vogliamo?
CLAUDIO – No. Si può andare in Mauritania solo in carovana, scortati
dall’esercito. Il servizio c’è il martedì e il venerdì, sempre che non siano stati
cambiati i giorni. Dovrete arrivare a Dakhla almeno il giorno prima e andare
alla Gendarmerie a consegnare i passaporti, che vi verranno restituiti al confine.
ANDREA – Ma perché impongono la scorta? Che problemi ci sono?
CLAUDIO – Innanzitutto è una zona calda, ci sono gruppi di ribelli che non
hanno accettato la sovranità del Marocco e chiedono l’indipendenza.
Siccome il Governo di Rabat non gliela concede, ecco che loro rompono le palle e,
ogni tanto, fanno degli attacchi ai viandanti per rapirli o anche peggio.
MARCO – Bene, ottima notizia!
CLAUDIO – E non è finita. Guai a lasciare la pista tracciata,
potreste esplodere su una mina. Il deserto ne è pieno, vedrete diversi resti di
cammelli saltati per aria ma anche di mezzi militari, o almeno ciò che ne rimane.
ANDREA – È proprio bella la Western Sahara Route!
Forse preferisco rischiare il culo in Libia. Tu che ne pensi, Marco?
MARCO – Ma è poi sicura quella strada o finisce che ci rimaniamo in mezzo?
CLAUDIO
14
– Se non fate i coglioni è sicura, il percorso è stato interamente
bonificato dai due eserciti, marocchino e mauritano.
La guerra fra i due Paesi è finita ma le mine sono ovunque, solo nel modo che vi
ho detto arriverete in zone sicure senza problemi. L’hanno già fatto in tanti.
ANDREA – Ma se poi abbiamo qualche problema in Mauritania, possiamo
tornare indietro? C’è anche una scorta nella direzione opposta?
CLAUDIO – No, non ufficialmente. Però potreste chiedere in giro e trovare
qualcuno che, di notte, vi riporti in Marocco. Molta gente del posto ha tracciato
sentieri alternativi fra i campi minati ed è proprio in quei luoghi che avviene il
contrabbando di ogni cosa. Con poco denaro pagate un contrabbandiere e vi
aggregate a lui, così tornate in Marocco.
MARCO – Che faccenda contorta! Riccardo non ci aveva mica detto queste cose!
ANDREA – Già, la faceva facile lui!
CLAUDIO
La situazione era decisamente inquietante. Per la Libia saremmo morti
di sete, per l’Algeria non si poteva passare perché sono migliaia di
chilometri nel nulla, per il Marocco saremmo potuti saltare sulle mine
e avremmo dovuto rivolgerci a contrabbandieri, probabilmente senza
scrupoli. Come fare a realizzare il nostro progetto?
Claudio continuò a darci informazioni sui percorsi desertici e pian
piano capimmo che il nostro unico futuro possibile sarebbe stato
proprio sulla Western Sahara Route, la strada che portava in Africa
occidentale. Avremmo guidato solo per poche centinaia di chilometri
nella sabbia e saremmo giunti a rivedere l’asfalto e il verde degli alberi
in poco tempo. E fu così che ci congedammo dal nostro nuovo
mentore, rinnovati nello spirito, certi che non avremmo abbandonato
l’idea di affrontare il Sahara, ma un po’ più consapevoli della necessità
di organizzare il tutto senza lasciare quasi nulla al caso.
Qualche mese dopo saremmo stati nuovamente pronti a partire per
Dakhla, il remoto luogo di frontiera in cui ci avevano respinti l’anno
precedente, ultimo avamposto prima di lasciare il Marocco e
attraversare il deserto. Avremmo superato le sabbie della Mauritania,
la savana del Senegal e la foresta della Guinea, per raggiungere
finalmente la Costa d’Avorio e il mare equatoriale che bagna la
metropoli di Abidjan. Buon viaggio.
15
16
PROGETTAZIONE
L’incontro con Claudio ci aveva illuminati su quello che non sarebbe
stato alla nostra portata. L’idea di attraversare Libia e Niger, che tanto
ci aveva esaltati dopo il dialogo con Riccardo a Rabat, si rivelò
irrealizzabile con i nostri scarsi strumenti ma soprattutto con la nostra
inesperienza. È vero che eravamo pieni di entusiasmo e che avremmo
fatto ogni cosa, ma era innegabile che il Sahara meritasse il massimo
rispetto e che andasse affrontato con umiltà; non ci si poteva
avventurare nel nulla armati solo della fiducia di farcela.
E così ci trovammo a progettare l’itinerario che seguiva la Western
Sahara Route, nell’estremo occidente d’Africa. Le cose da fare erano
tante ma in questo eravamo già bravi, avevamo già organizzato viaggi
in zone remote e i problemi da affrontare erano più o meno i soliti.
Occorreva scegliere innanzitutto le due moto, che avessero le
caratteristiche necessarie ad affrontare terreni molto diversi fra loro:
l’asfalto, la sabbia e il fango. Ci indirizzammo quindi verso i motori
monocilindrici, estremamente versatili, poco pesanti e con molto tiro
ai bassi regimi, tutti elementi che si sarebbero rivelati fondamentali
alla realizzazione del nostro folle e meraviglioso progetto.
Cominciammo così a consultare gli annunci economici alla ricerca di
mezzi affidabili e poco costosi, con l’idea di rivenderli una volta ad
Abidjan e tornare in Italia in aereo. A chi li avremmo rivenduti era
una cosa ancora oscura, visto che ci sarebbe stato pochissimo tempo
per cercare gli acquirenti e che ignoravamo ogni cosa dell’aspetto
legale dell’operazione. Ma in Africa tutto è possibile, diceva Riccardo,
quindi ci facemmo forti di quell’affermazione e proseguimmo nella
nostra attività. Nella peggiore delle ipotesi li avremmo abbandonati
entrambi, magari gettandoli in un canale o in un posto simile, per poi
recarci all’aeroporto a cercare il primo aereo utile per l’Europa. Marco
mi telefonò un giorno di gennaio del 2000 e aveva un tono di voce
allegro. Mi disse infatti di avere finalmente trovato ciò che cercava.
– Negli annunci ci sono solo dei pacchi, niente di interessante.
Poi ho telefonato a un concessionario di Carpi che mi ha dato una buona notizia.
MARCO
17
ANDREA – Mi
piacciono le buone notizie! Cosa ti ha detto il tipo? Dimmi!
ha detto di avere una Tenerè del 1984 in buone condizioni. Me la
vende a novecentomila lire. L’andiamo a vedere?
ANDREA – Io non ho ancora trovato un cazzo, son lì che cerco e ricerco ma tutti
vogliono dei gran soldi e io non glieli voglio dare.
Novecentomila lire sono veramente poche, ma sedici anni di vita sono veramente
tanti! Quanti chilometri ha? Com’è messa la catena? Ci sono molti lavori da fare?
MARCO – No, mi hanno detto che è a posto. Ha anche la marmitta Arrow che fa
una gran rumba! Che ne dici? Andiamo a vederla?
ANDREA – Senti quand’è che ci riceve che vengo.
Intanto continuo fiducioso la mia ricerca, chi la dura la vince!
MARCO – Mi
La moto si rivelò bella a prima vista. Aveva su di sé tutti i segni dei
suoi sedici anni, ma il motore faceva un rumore fantastico e le
condizioni generali erano più che buone. Comprata.
Il primo passo verso la Costa d’Avorio era stato fatto. Ne mancavano
ancora molti ma, come si dice, chi ben comincia è a metà dell’opera.
Per non fare trapelare la notizia in casa propria, dove vivevano
persone anziane e apprensive, Marco chiese a Luciano, un amico, di
custodirgli il mezzo nel suo garage sino alla partenza, prevista verso
metà giugno. Nei mesi successivi, ogni tanto andavamo là a provare il
mezzo ed eravamo veramente soddisfatti, anche se, talvolta, stentava
ad accendersi al primo colpo ed erano necessari alcuni tentativi.
MARCO
– Sarà un gran mezzo per il deserto, ma se non parte che me ne faccio?
– Fai provare me che sono più esperto!
ANDREA
Ma il risultato non migliorò, strani rumori simili a grattate e a colpi di
stantuffo uscivano dal motore; ogni tanto qualche scoppiettio di
pistone ma niente, non ne voleva sapere di andare in moto.
– Proprio un buon inizio! Come cazzo facciamo?
Speriamo che sia solo un capriccio momentaneo e che non dobbiamo già ripararla!
ANDREA – Adesso riprovo. Fammi cercare la posizione giusta del kick starter e
vedrai che parte. Non esiste proprio che faccia i capricci sin da subito, no?
MARCO
18
E finalmente la Yamaha partì. Tirammo così un sospiro di sollievo e
cominciammo a conoscere meglio quel nuovo mezzo che avrebbe
dovuto portare Marco sino all’equatore.
Le gomme erano da cambiare e optammo per pneumatici tassellati da
fuoristrada, le Michelin T63 suggeriteci da Riccardo, pensando che
sull’asfalto avrebbero vibrato per bene, rendendo il viaggio meno
confortevole, ma sulle piste sarebbero state fantastiche. Sostituimmo
anche le camere d’aria originali con altre rinforzate da cross, in grado
di resistere a forti sollecitazioni, che non sarebbero di certo mancate.
Io continuai inutilmente nella mia ricerca, fino a quando, dopo circa
un mese, telefonai a Marco per comunicargli le buone nuove.
– Oh! L’ho trovata! Finalmente!
– Spero che sia bella almeno quanto la mia.
ANDREA – La tua Tenerè è eccezionale, la mia è solo bella.
È una Suzuki DR 600 del 1985, un anno più giovane della tua. Non ha troppi
chilometri e sembra essere a posto, anche se ho avuto solo indicazioni telefoniche.
MARCO – Chi te la vende?
ANDREA – Un tipo di Forlì. Oggi ci vado in treno e mi porto dietro i soldi,
se mi piace faccio subito il passaggio di proprietà e torno a casa in moto.
MARCO – Quanto vuole?
ANDREA – Un milione e due, ma vedrò di trattare un po’.
MARCO – Vedi di fare un buon affare!
Beh, fammi sapere com’è andata. Attendo fiducioso!
ANDREA – Non mancherò, sarai il primo a saperlo.
ANDREA
MARCO
E così avevamo anche la seconda moto. Era apparentemente in
buone condizioni, quindici anni di vita, colore blu; anche in quel caso
le gomme erano da cambiare ma sapevamo già cosa montare. La
prima parte dell’organizzazione era completata. Rimanevano ancora
un sacco di cose da fare ma eravamo soddisfatti.
Decidemmo di incontrarci per mangiarci una pizza e pianificare tutto
il resto. Io mi presentai con la Suzuki, Marco invece arrivò in auto,
visto che la Tenerè continuava ad essere nel garage di Luciano.
19
– Hai visto che ferro ho comprato? È pronto a partire per l’equatore!
– Bello, ma è più bello il mio.
ANDREA – Non devono essere belli, anche se il mio lo è. Devono essere forti!
Ci devono portare all’equatore, mica a Riccione!
MARCO – Quanto gli hai dato?
ANDREA – Un milione e due. Niente sconto! Però è bella e l’ho presa.
MARCO – È cara, cazzo! Trecentomila più della mia.
ANDREA – Sarà più valida.
MARCO – O sarà più ladro il tuo venditore.
ANDREA
MARCO
I nostri dialoghi futili erano talvolta impostati in questo modo,
giocavamo ad essere due bisbetici litigiosi che vogliono avere l’ultima
parola, ma in realtà andavamo quasi sempre d’accordo.
Erano diversi anni che ci trovavamo spesso a Castelfranco Emilia,
una località ad una distanza intermedia fra le nostre case, che ci aveva
visti protagonisti di tante serate in cui avevamo progettato viaggi
epici, oppure semplicemente si era bevuto qualcosa per stare in
compagnia. Entrammo nella pizzeria Caffè Grande, il nostro locale
preferito, sorto nel centro del paese, sulla Via Emilia. Come spesso
accadeva quando c’era aria di avventura, anche in quella occasione ci
presentammo con carta e penna, diverse carte geografiche nelle mani,
alcune guide dell’Africa e la faccia di coloro che stanno per partire.
Isidoro, il proprietario, ci accolse come sempre calorosamente.
– Ciao ragazzi, il solito tavolo nell’angolo?
– Certo, così possiamo parlare in pace lontani dalla TV.
ISIDORO – Dov’è che andate stavolta? Vedo che avete un sacco di roba con voi.
ANDREA – Stiamo cercando un modo per attraversare il Sahara e arrivare fino
alla Costa d’Avorio. Giusto una scampagnata, no?
ISIDORO – Ah ah! Voi siete malati, ma è una cosa meravigliosa!
MARCO – Una splendida malattia! E non abbiamo mai parlato a vanvera,
tutto quello che abbiamo progettato nella tua pizzeria l’abbiamo poi realizzato.
ISIDORO – Saranno dieci anni che venite qua e ogni volta avete delle carte
geografiche, dei notes, delle penne, delle calcolatrici e misurate le distanze sulle
mappe con degli stuzzicadenti. Lo fate ancora o avete migliorato la tecnica?
ISIDORO
MARCO
20
– Già. Si guarda in quale scala è disegnata la mappa e si vede a quanti
chilometri corrisponde uno stuzzicadenti. Facile, no?
ISIDORO - Siete forti! Aiutatemi a ricordare…
dov’è che non siete ancora stati nel mondo? Forse in Antartide?
ANDREA – Troppo buono! Magari! Però non intendiamo fermarci.
Sinora abbiamo fatto un viaggio all’anno.
Nel ’91 siamo stati a Londra in camper, nel ’92 a Napoli in moto, nel ’93 in
Sicilia, sempre in moto, poi il gran salto e siamo usciti dai confini d’Europa.
Nel ’94 siamo stati in Marocco una prima volta, nel ’95 invece siamo andati
negli Stati Uniti in macchina e abbiamo fatto il Coast to Coast, da Los Angeles
a New York. Nel ’96 Turchia e Siria, nel ’97 ci siamo concessi una pausa,
nel ’98 abbiamo visitato India del Nord e Nepal, nel ’99 ancora in Marocco.
ISIDORO – Tutto in moto?
MARCO – Sì, a parte negli Stati Uniti.
Lì ci è toccato noleggiare una macchina perché eravamo in tre.
ISIDORO – Grandi, ragazzi! Vi invidio, lo farei anch’io se potessi.
ANDREA – Non invidiarci, se ti piace viaggiare fallo anche tu.
Se non stai poco bene tutto il resto si supera. Io sono studente universitario e faccio
qualche lavoretto, non sono ricco, eppure riesco a viaggiare ugualmente.
ISIDORO – Mi piacerebbe, ma sai, la casa, il lavoro, la moglie…
E poi è troppo faticoso! Non ce la potrei fare!
MARCO – Sul faticoso non ho dubbi! È un gran culo, anche se ne vale la pena.
Comunque ci rivedremo qua e ti informeremo passo passo dei nostri sviluppi,
poi se ti vorrai aggregare sarai il benvenuto!
ISIDORO – Grazie mille dell’invito, ci penserò!
MARCO
Eravamo tutti certi che Isidoro non ci avrebbe seguiti, lui per primo.
Ci portò il menù e tornò a occuparsi degli altri clienti.
– Una cosa certa è che se si vuole progettare un viaggio di questa
portata è necessario farlo con gente che conosci benissimo e di cui ti puoi fidare,
altrimenti al primo problema si comincia a litigare e va tutto a puttane.
MARCO – Vero, mai partire con gli sconosciuti. Dai, chiamiamo la cameriera,
ordiniamo e mettiamoci al lavoro, sennò va a finire che non combiniamo niente.
ANDREA
21
Consumammo mezzo metro di pizza farcita e bevemmo diverse birre
durante tutto il pasto, per tenerci compagnia durante la progettazione.
A coronare l’ottima cena comparirono i caffè e gli ammazzacaffè.
– Le moto sono già tagliandate, dobbiamo solo procurarci due bauletti e
un po’ di borse da attaccarci sopra.
Come sempre, avremo un bagaglio di tutto rispetto!
MARCO – Eh, sì! E come sempre avremo il problema della pioggia che
affronteremo con i soliti sacchi del rusco.
ANDREA – Come sempre, costano poco e funzionano.
Avvolgiamo tutto nei sacchi dell’immondizia che tengono l’acqua e via che si va.
MARCO – Sembriamo dei netturbini in viaggio.
ANDREA – Facciamo la lista della roba da portarci dietro,
così ci regoliamo meglio sulla mole?
MARCO – È un po’ presto, no? La faremo più avanti. Comunque saranno i soliti
ricambi moto e vestiti per una settimana, poi faremo il bucato nei bauletti.
ANDREA
Anche in altri viaggi, per limitare il bagaglio avevamo lavato i vestiti
strada facendo. Svuotavamo i bauli, li riempivamo d’acqua e detersivo
e lasciavamo gli indumenti in ammollo, poi li sciacquavamo e li
stendevamo ad asciugare. Era un metodo funzionante e molto
simpatico e non intendevamo rinunciarvi. Aveva ragione Marco, il
bagaglio poteva aspettare, avevamo altre priorità da concordare.
– Ho chiesto a mia madre di cucirmi delle tasche interne nelle braghe.
Ho comprato in Montagnola dei pantaloni di cotone molto larghi, ottimi per il
caldo e il sole, così non sudo troppo e non mi ustiono.
In una tasca interna ci metto il passaporto, nell’altra i franchi francesi, mentre il
resto dei soldi li piazzo nella cintura. E così ho imboscato tutto quello che serve!
ANDREA
Ci aveva detto Riccardo che in tutta l’Africa occidentale, in passato in
mano ai francesi, la moneta più diffusa era proprio il franco, quindi
sarebbe stato meglio possedere quelli piuttosto che i dollari, che non
avrebbero garantito un cambio rapido in valuta locale. Inutile inoltre
pensare di contare troppo sulla carta di credito, visto che stavamo per
22
andare in zone abbastanza primitive e la tecnologia sarebbe stata
utilizzabile solo in pochissime occasioni. Era quindi indispensabile
avere con sé tutti i contanti necessari e questo comportava la necessità
di nasconderli nel modo migliore possibile agli occhi degli inevitabili
malintenzionati che avremmo incontrato sul cammino.
– La solita cintura col doppiofondo?
ANDREA – Sì, discreta e funzionale, non credi?
MARCO
Si trattava di una cintura di cuoio, dietro la quale correva, per tutta la
sua lunghezza, una cerniera lampo che dava accesso a una lunghissima
tasca interna, in cui era possibile nascondere grossi quantitativi di
denaro arrotolato, invisibile dall’esterno.
– Parliamo di cose serie. Che vaccinazioni bisogna fare per andare là?
Bisogna informarsi all’ufficio di Igiene del Comune.
ANDREA – Ci andrò nei prossimi giorni. Il problema maggiore è la malaria,
soprattutto in Guinea e in Costa d’Avorio, dove sarà piena stagione delle piogge e
quelle zanzare bastarde prospereranno ovunque.
Comunque facciamo come in India, una profilassi con la Clorochina, e vediamo di
farci pungere il meno possibile cospargendoci di Autan.
MARCO – Ho letto che ci sono due ceppi di malaria, uno asiatico e l’altro
africano. Non è detto che la terapia indiana possa funzionare anche in questo
caso. Sento dal mio medico e ti dico.
ANDREA – Ok. Io intanto penso alle altre malattie.
Sicuramente dovremo fare la febbre gialla, il tifo, la difterite e l’epatite A.
MARCO – L’epatite A l’abbiamo già fatta per andare in India e siamo coperti per
un bel po’, penso per almeno altri vent’anni.
ANDREA – Vero. Una cosa in meno!
MARCO – All’acqua penso io. Ho ancora l’Amuchina dall’India.
Se ci capita di bere acqua di fonte ci spariamo dentro l’Amuchina e uccidiamo
tutti i germi, così non ci viene il caghetto.
ANDREA – Sei un vero stratega della prevenzione!
MARCO – Ah ah! Non son mica un pivellino, che ti credi?
ANDREA – Certo, so di essere in buone mani, mio fedele compagno!
MARCO
23
L’aspetto sanitario del viaggio che stavamo per intraprendere era
certamente prioritario rispetto ad altri. Sapevamo che in Africa
c’erano molte malattie non diffuse in Europa e non sarebbe stato
possibile prevenirle tutte, però le vaccinazioni principali era
opportuno farle per limitare i rischi già consistenti.
Del resto avremmo tenuto un comportamento prudente, come
suggeriva il vademecum del vero viaggiatore. Bere solo bevande da
bottiglie chiuse ermeticamente, mai usare ghiaccio, mai mangiare
frutta non sbucciata, mai consumare verdura se lavata con acqua non
purificata con disinfettanti come l’Amuchina. È inoltre importante
mangiare cibi cotti perché il fuoco uccide gli agenti patogeni. Per la
mancanza di vitamine avremmo provveduto con degli integratori
alimentari, mentre per il resto dei rischi avremmo fatto affidamento
sulla forza dei nostri giovani corpi, nella speranza che si rivelasse
sufficiente. Passammo così a valutare l’aspetto dei documenti.
– Passaporto e Visti?
– Il mio passaporto è valido, per i Visti c’è da informarsi.
In Marocco si entra senza, negli altri Paesi mi sa che serva ovunque.
MARCO – Riccardo dice che in Senegal non serve.
ANDREA – Vero. Ci rimangono quelli di Mauritania,
Guinea e Costa d’Avorio. Spero di fare tutto al telefono e per posta.
MARCO – Ci pensi tu?
ANDREA – Sì, faccio io e ti dico.
MARCO – E per la moto? Ci vorrà mica il carnet?
MARCO
ANDREA
Quello del carnet des passages en douane era un nostro vecchio
incubo. È un documento che garantisce al Paese, nel quale il veicolo
sta solo transitando, il pagamento di forti tasse qualora il mezzo
invece non esca più dal territorio, quindi nel caso in cui venga
venduto. Sul carnet deve sempre essere indicato il valore del veicolo
su cui si basa la fideiussione bancaria. Era un’operazione abbastanza
costosa che avrebbe comunque impedito l’abbandono del mezzo a
qualsiasi condizione, se non pagando pesanti tributi. Non c’era
chiarezza sull’argomento, non si sapeva con esattezza quali Stati lo
24
richiedessero, ma spesso poteva dipendere solamente dall’estro del
singolo doganiere. La mancanza di quel documento mi era già costata
molto cara. Infatti, nel 1998 io e Marco volevamo fare un viaggio in
moto in India e ci trovavamo a Bombay in attesa della mia Honda
Africa Twin, spedita in nave dall’Italia più di un mese prima. Grande
era il nostro entusiasmo all’idea di arrivare sul Gange con la fedele
due ruote, ma terribile fu il trauma quando negli uffici portuali ci
venne chiesto l’odiato documento. Eravamo stati male informati dalla
Guardia di Finanza di Bologna, dove un’impiegata incompetente
aveva sostenuto che in India non servisse nessun documento
particolare per l’importazione temporanea dei mezzi. Ma la situazione
era ben diversa, perché il funzionario della Dogana di Bombay mi
confiscò la moto, accusandomi di tentata importazione abusiva del
mezzo, un reato che avrebbe trovato la soluzione finale nel
pagamento di circa tremila dollari americani, dopodiché avrei potuto
avere ciò che era mio. A nulla valsero i tentativi di spiegare la nostra
buona fede, la fedele Africa Twin rimase sulla banchina del porto e
noi girammo ugualmente una parte dell’India e del Nepal con un paio
di treni, numerosi autobus e alcune moto a noleggio.
Da quel viaggio erano già passati due anni e ormai me ne ero fatto
una ragione, ma il ricordo era vivo e la parola “Carnet” mi dava
fastidio e preferivo non usarla, evocava sempre rabbia e tristezza.
– Riccardo dice che in Africa tutto è possibile,
quindi sarà anche possibile attraversarla senza l’odiato documento, no?
MARCO – Giusto. Anch’io lascerei perdere il carnet,
troppo sbattimento e costa un sacco. Andiamo senza che è meglio.
ANDREA – Una gran comodità, senza dubbio! Ma non ci informiamo neanche?
MARCO – No, non ne vale la pena. Tanto lo sai, in Africa tutto è possibile!
ANDREA – Bene, io mi informo sull’assicurazione per la moto e su quella
sanitaria, poi ci incontriamo ancora e facciamo il punto della situazione.
MARCO – See you, amico mio! Torno nella Bassa! Devo fare più di sessanta
chilometri per andare a Novellara e domattina mi sveglio presto.
ANDREA – Ciao ciao, io invece domattina dormo perché sono libero. Mi sa che
mi concedo una seconda serata in qualche locale con gli amici dell’Università.
ANDREA
25
– Beato te! Non sai quanti ti invidio. È sempre bello non fare un cazzo!
– Sì, decisamente. Anche se sono momenti rari,
c’è sempre qualcosa da fare. Ad esempio, mi dovrò informare per le assicurazioni!
MARCO – Ah ah! Ci sono impegni più gravosi!
MARCO
ANDREA
E ci congedammo. La Suzuki partì con uno scoppio dalla marmitta e
una nuvola nera avvelenò l’aria. Anche la moto di Marco giorni prima
si accendeva con molta fatica. Era certamente un pessimo inizio e ci
ripromettemmo così di parlarne al più presto con un buon meccanico.
Nei giorni successivi si sprecarono le telefonate.
Telefonata all’Ambasciata della Mauritania, telefonata all’Ambasciata
della Costa d’Avorio, telefonata al Consolato della Guinea, telefonate
alle agenzie che si occupavano di servizi che ci occorrevano,
telefonate a meccanici, telefonate a uffici vari, telefonate a Riccardo e
così via. Mio padre era seriamente preoccupato per la bolletta che
avrebbe dovuto pagare, ma non mi rimproverò più di tanto.
Saremmo riusciti ad avere tutti i documenti che ci servivano senza
spostarci da casa o quasi, ad eccezione del Visto per entrare in
Guinea. Non si capiva il motivo ma il Console voleva che almeno uno
dei due si recasse fisicamente a Milano a sbrigare le pratiche; così,
visto che ero quello più libero, una mattina presi il treno e andai nella
pulsante capitale economica d’Italia.
Il Consolato di Guinea non si trovava nel quartiere in cui c’erano
quasi tutte le rappresentanze diplomatiche del mondo, bensì
all’interno di un centro commerciale. Che cosa strana! Cosa ci
facevano dei funzionari di uno Stato sovrano in un supermercato?
Era già un chiaro segno dello scarso livello di evoluzione del Paese in
cui volevamo entrare e la cosa, invece di deprimerci, ci esaltò ancora
di più, anche se non ce n’era certo bisogno.
Avevo annotato il nome della segretaria del Console, che si sarebbe
occupata di darmi i Visti per entrambi. Dopo una lunga e infruttuosa
ricerca, su e giù per i piani del vasto edificio, stavo per telefonare e
chiedere delucidazioni, quando vidi dietro una porta a vetri una donna
nera, elegantemente vestita in stile occidentale, che sedeva dietro a
una scrivania. Bussai ed entrai, mi trovavo nel posto giusto.
26
– Buongiorno signora. Cerco il Consolato di Guinea. È questo?
– Sì, certo. Buongiorno a Lei, mi dica.
ANDREA – Sono Andrea Lado, ci siamo sentiti per telefono due giorni fa.
Io e un amico vorremmo attraversare la Guinea in moto e impiegheremo circa una
settimana. Entreremmo dal Senegal e usciremmo in Costa d’Avorio,
così sono venuto a ritirare i due Visti d’ingresso.
SEGRETARIA – Certo, ricordo. Si accomodi che prendo la pratica.
ANDREA
SEGRETARIA
Non sapevamo nulla sulla Guinea. Anzi, prima di incontrare Riccardo
non sapevamo neanche che esistesse, eppure a breve ci saremmo
andati. Che cosa strana. Quasi tutti, al sentire quel nome parlavano di
Nuova Guinea ma non c’entra niente. Ci sono diversi Stati con questo
nome nel mondo: la Guinea, la Guinea Bissau, la Guinea Equatoriale
e la Nuova Guinea. Quella che interessava a noi era la prima, la
Guinea più semplice, da molti definita “Guinea Conakry”,
aggiungendo il nome della sua capitale per distinguerla dalle altre.
Colsi l’occasione per sapere qualcosa di più su quel luogo misterioso.
– Lei chiaramente viene dalla Guinea.
SEGRETARIA – Sì, sono a Milano da diversi anni e sono sposata qui.
ANDREA – Con un italiano?
SEGRETARIA – No, mio marito è guineano. I nostri figli invece sono nati a
Milano e vedono la Guinea con occhi quasi turistici.
ANDREA – Siete venuti insieme?
SEGRETARIA – No, io mi sono trasferita per lavoro seguendo il Console,
mentre mio marito mi ha raggiunto qualche anno dopo, non riusciva ad andarsene.
ANDREA – Ma era la Guinea a non farlo uscire o l’Italia a non farlo entrare?
SEGRETARIA – Non l’ha fatto uscire Sekou Tourè. Era il dittatore del nostro
Paese. Meno male che nel 1984 è morto d’infarto.
ANDREA – Non era molto amato dal popolo, vero?
SEGRETARIA – Amato? Era un pazzo sanguinario e anche paranoico.
Vedeva nemici e cospirazioni dappertutto. Quando De Gaulle offrì alle colonie
francesi la possibilità di fare parte di una comunità franco-africana,
Tourè rispose che preferiva la libertà nella povertà alla prosperità in catene.
ANDREA – Bella frase, decisamente. Di quelle che scaldano l’animo della gente.
ANDREA
27
– Sì, è vero. Fu l’unico capo di Stato di tutti i territori occupati che
rifiutò la proposta e divenne una leggenda per i popoli d’Africa, ma non era certo
una cosa buona. Quando i francesi se ne andarono riportarono a casa anche i loro
soldi e la Guinea subì un collasso economico.
Come sempre accade, quando c’è povertà aumenta il malcontento e si formarono
così gruppi rivoluzionari: fu l’inizio della fine.
ANDREA – Ha iniziato una repressione sanguinosa?
SEGRETARIA – Sì, bastava che gli arrivasse all’orecchio la voce di un complotto
che lui faceva arrestare tutti i sospettati, qualunque fosse la fonte della spiata.
E poi le risparmio il resto, magari ha fretta e non voglio rubarle tempo.
ANDREA – No, continui. Mi affascina conoscere la storia del suo Paese. Non ne
so nulla, ho conosciuto l’esistenza della Guinea sulla carta e so a malapena con
quali Stati confina, ci trascorrerò una settimana ed è bello saperne di più.
Sono certo che anche le cose più tristi ci aiutino a capire l’indole di un popolo.
SEGRETARIA – È un popolo bello, felice, allegro, ama la musica e la compagnia,
riesce a sorridere anche nella miseria più totale.
Lei non ha idea di cosa sia la vera miseria, credo.
ANDREA – L’ho vista girando nei Paesi poveri,
ma per fortuna sono nato in una famiglia a cui non è mai mancato da mangiare.
SEGRETARIA – È stato fortunato a nascere in Italia. È un puro caso, no?
Io sono nata in Guinea e Lei in Italia, ma non c’è merito in questo, solo fortuna.
ANDREA – Sì, non c’è merito. In Italia, come in Africa,
ci sono persone di valore e persone misere.
SEGRETARIA – Ne ho conosciute molte di persone di alto valore nella mia città.
Mio marito, ad esempio, è un uomo eccezionale.
ANDREA – Cosa ha fatto?
SEGRETARIA – Era un giornalista ai tempi della dittatura e, come in ogni
dittatura, era costretto a scrivere quello che voleva il Governo.
Lui però era molto giovane e aveva un carattere fiero e ribelle, così cominciò a
parlare alla gente, provando a illuminarla sulla reale personalità di Tourè;
voleva muovere le folle contro il dittatore. Inutile dire che la sua campagna ebbe
vita breve. Eravamo fidanzati all’epoca e non vivevamo ancora insieme. Una notte
gli piombarono in casa i soldati e lo portarono via senza dire nulla; io lo venni a
sapere l’indomani dalla persona che è l’attuale Console di Guinea qua a Milano.
SEGRETARIA
28
– Tremendo. Ma sembra una storia a lieto fine, visto che poco fa mi ha
detto che suo marito l’ha raggiunta a Milano dopo qualche anno.
SEGRETARIA – Sì, è una storia a lieto fine.
Ma solo perché mio marito è uno con le palle, come dite voi in Italia.
ANDREA
Il sentire quel racconto suscitò in me una sensazione assolutamente
nuova. Sapevo che gran parte dell’Africa aveva subito feroci dittature
e che intere nazioni nel mondo ne subivano anche in quel momento,
ma mai sino ad allora mi era capitato di dialogare con una
protagonista dell’orrore. Il mio interesse per il continente nero si stava
ampliando, non più solo il fascino della natura selvaggia mi stimolava
ad andarci, ma anche e soprattutto la voglia e la necessità di
conoscerne la gente, quella povera gente spesso tanto denigrata in
Italia, che risultava talvolta essere eccezionale.
Il mal d’Africa stava mutando e diventava più adulto, più sofisticato e
più forte, comunque fantastico e inesorabile. Ero totalmente rapito
dalla vicenda e la invitai così a continuare il suo avventuroso racconto.
– Sono tutt’orecchie. Mi parli della storia di suo marito.
SEGRETARIA – Lo portarono in prigione, dove si trovò in compagnia di una
ventina di persone, tutte accusate di cospirazione. Li spogliarono completamente
nudi e li fecero uscire nel cortile di cemento, un’area di qualche metro quadro,
senza niente, circondata da muri alti e lisci e con le guardie a controllare dall’alto.
La punizione consisteva nel lasciarli lì, senza fare nulla di più, sino alla morte.
ANDREA – A morire di fame, sete, punture d’insetti, pioggia e sole.
SEGRETARIA – Sì. In altri casi i prigionieri si sono anche mangiati i cadaveri.
Quando uno sta per morire di stenti perde ogni dignità.
ANDREA – E a suo marito com’è andata? Come ha fatto a uscire da lì?
SEGRETARIA – Ha avuto fortuna. Una delle guardie era un suo vecchio amico e
questo non lo sapeva nessuno. Ecco che la guardia ha pagato chi era di turno
quella notte, che ha fatto finta di essersi addormentato e se l’è cavata con una
punizione blanda la mattina dopo. Mio marito è riuscito, con l’aiuto degli altri
prigionieri, a scavalcare il muro di cinta. Si sono messi tre uomini l’uno sull’altro,
poi lui si è arrampicato, si è buttato dall’altra parte ed è scappato nella foresta.
ANDREA – È quindi si è trovato, nudo e affamato, a dovere scegliere che fare?
ANDREA
29
– Sì. Il suo obiettivo era scappare in Senegal, dove avrebbe poi
facilmente trovato un passaporto falso col quale sarebbe riuscito a lasciare l’Africa
per raggiungere l’Italia.
ANDREA – Ma Lei ? Era già qua a Milano?
SEGRETARIA – Sì, l’attuale Console era una personalità importante nel mondo
diplomatico e io già collaboravo con lui a Conakry.
Proprio in quel periodo lo trasferirono in Italia e lo seguii.
ANDREA – Nella segreta speranza che il suo fidanzato riuscisse a raggiungerla.
SEGRETARIA – Più che speranza la definivo illusione, però mi aiutava a tirare
avanti. Ero certa che avrebbe fatto di tutto per tornare da me e così è accaduto.
ANDREA – Sono felice per Lei, è una storia bellissima. Ma come ha fatto?
SEGRETARIA – Pensi che mio marito fuggiva la notte fra le foreste,
mentre di giorno scavava delle fosse nel terreno e stava totalmente immobile
dall’alba al tramonto. Tutt’intorno l’esercito pattugliava, scopriva persone,
le torturava e le sbatteva in quell’orrendo cortile di cemento a morire di stenti.
L’acqua non è un problema in Guinea, se ne renderà conto quando ci andrà,
ma per mangiare la cosa è diversa. Non c’era nulla, la povertà estrema.
Lui mangiava piccoli animali che riusciva a catturare, vermi e lombrichi, radici di
ogni tipo, ma spesso digiunava. Ha impiegato diversi mesi a raggiungere il Senegal
e a sconfinare, poi è andato a Dakar e in poco tempo ha trovato un passaporto e
si è imbarcato come clandestino su una nave per l’Italia.
Una volta sbarcato a Napoli mi ha telefonato e sono scoppiata in lacrime.
Sono corsa in stazione, ho preso il primo treno per il sud e l’ho riabbracciato il
giorno dopo. Era l’ombra di se stesso, quando l’avevano portato via pesava almeno
trenta chili in più, ma lo sguardo fiero era sempre quello.
Non l’hanno piegato, è un grande uomo e i nostri figli sono ora molto fieri di lui.
Viviamo tutti qua, lavoriamo e stiamo bene.
La nostra è una storia a lieto fine ma ce ne sono altre molto tristi.
ANDREA – Mi basta la sua, signora. Sono commosso anch’io.
Suo marito è veramente uno con le palle, complimenti per la scelta!
SEGRETARIA – Ah Ah! Grazie, Andrea. Lo considero un complimento.
Lo sa che Lei, fra tutte le persone che sono venute qua per avere Visti turistici,
è stata la prima ad interessarsi alla Guinea?
ANDREA – Ma come? È incredibile! Nessuno le ha mai chiesto nulla?
SEGRETARIA
30
– Solo qualcosa sul clima che avrebbero trovato, sulle condizioni
delle strade, sui pericoli che si incontrano, sulle formalità doganali e così via. Ma
mai sulla nostra gente, quello mai. Non si offenda, sa, ma per voi italiani i neri
sono tutti uguali, non c’è differenza fra uno del Senegal e uno della Guinea. Invece
ce n’è tanta, basta solo frequentare un po’ le persone e si capisce subito la diversità.
ANDREA – Io viaggio soprattutto per conoscere la gente.
Poi che piova o ci sia il sole mi cambia poco, viaggio ugualmente.
SEGRETARIA – Lo capisco dal tono delle sue domande e da come mi guarda.
Le auguro un viaggio piacevole nel nostro Paese.
ANDREA – Lei da che zona della Guinea viene?
SEGRETARIA – Abitavo a Mamou, centocinquanta chilometri a sud di Labè.
ANDREA – Senza offesa, ma ne so come prima!
SEGRETARIA – Mamou si trova circa quattrocento chilometri dal confine col
Senegal, è nel cuore della Nazione.
ANDREA – E suo marito si è fatto quattrocento chilometri a piedi,
braccato dall’esercito, camminando solo di notte?
SEGRETARIA – Sì.
ANDREA – Le rinnovo ancora i miei complimenti per la scelta,
è un vero uomo con le palle. Ha ancora contatti con qualche parente a Mamou?
SEGRETARIA – Sì, tutta la mia famiglia. Però non li sento mai,
non hanno il telefono e la posta arriva molto difficilmente in quei villaggi.
ANDREA – Ha una carta geografica della Guinea, per favore?
Voglio vedere dov’è Mamou.
SEGRETARIA – Sì, certo. Però non gliela posso lasciare, mi spiace.
ANDREA – Non si preoccupi, la consulto solo e gliela rendo.
SEGRETARIA
E così aprii la mappa di quel Paese sconosciuto, proprio per questo
tutto da scoprire. Mi orientai in modo accurato, cercai la strada che
dal Senegal portava in Guinea e ne vidi una sola di un certo rilievo, le
altre erano solo sentieri nella foresta, sicuramente impossibili da
percorrere con le nostre scarse risorse. La città da cui proveniva quella
donna si trovava proprio sul percorso principale che tagliava tutto lo
Stato da nord-ovest a sud-est, proveniva dal Senegal e portava in
Costa d’Avorio. Ci saremmo quindi passati nella nostra avventura.
31
– Se vuole affidarmi una lettera la consegnerò personalmente a chi vorrà
Lei, così i suoi parenti potranno avere notizie dall’Italia. Se poi, a loro volta,
mi consegneranno qualcosa per Lei, gliela farò avere al mio ritorno.
Che ne pensa? Le pare una buona idea?
SEGRETARIA – Grazie, Andrea! Accetto senz’altro,
Lei è veramente una persona gentile.
ANDREA – Ma si figuri! A me non costerà nulla e a Lei e alla sua famiglia farà
certamente molto piacere.
SEGRETARIA – Se non ha fretta la scrivo adesso, sennò gliela spedisco a Bologna.
ANDREA – Non ho fretta, faccia con comodo, non c’è problema.
ANDREA
Scrisse una lettera a mano, la imbustò e mi indicò dove avrei potuto
trovare i parenti a Mamou. Infine due bei timbri fecero la loro
comparsa sui nostri passaporti, eravamo ufficialmente autorizzati dalla
Guinea ad entrare nel suo territorio. Che racconto! Ero scosso, presto
avrei rivisto Marco a Castelfranco e gliene avrei parlato, cercando di
trasmettergli le emozioni che sentivo in quel momento, anche se non
sarebbe stata cosa semplice. Con quella trasferta a Milano ormai
avevamo concluso i preparativi e stavamo per partire. Mancava solo
da incontrarsi per discutere del bagaglio, ma era più che altro un
pretesto per un’altra pizza e un’altra birra insieme. Un cheeseburger e
una coca al McDonald’s della stazione chiusero il mio breve
soggiorno milanese. Mi trovai quindi a guardare la tanta gente di
colore che popolava la zona con occhio diverso, chissà quante storie
incredibili avrei sentito parlando con qualcuno di loro.
32
PARTENZA
Ci sono strade che si percorrono con lentezza perché così ci si cala al
loro interno, si vivono i paesaggi, si guardano le persone, si entra nelle
loro case. Chi viaggia in questo modo guida lentamente, non imbocca
mai l’autostrada e viaggia di giorno, perché di notte è buio, non si
vede quello che sta tutto intorno e gente non ce n’è più di tanta. In
compenso c’è meno caldo, i vestiti non si appiccicano addosso, si può
guidare più velocemente e più a lungo.
Ce n’è per tutte le necessità, dipende sempre da quello che si vuole
fare. Anche gli anni precedenti amavamo spesso viaggiare da metà
pomeriggio sino a notte inoltrata per potere coprire grandi distanze
autostradali e riuscivamo a percorrere oltre mille chilometri in una
giornata. Talvolta si rendeva necessario farlo perché eravamo in
ritardo coi tempi di rientro in Italia, altre volte invece lo facevamo per
arrivare prima in un posto e dedicare più tempo alla guida diurna nei
luoghi più affascinanti, ma spesso il motivo era solo il semplice ma
meraviglioso piacere di una cavalcata infinita nella notte.
Nel viaggio descritto in questo racconto si trattava di raggiungere
Genova, dove ci saremmo imbarcati in serata per Barcellona. Sono da
sempre proprietario di una casa a Rapallo, a circa trenta chilometri dal
capoluogo ligure, quindi pensammo di utilizzarla come base di
partenza per la nostra nuova avventura.
Avevamo deciso di andare in nave per un bel tratto, risparmiando un
migliaio di chilometri di asfalto con lo scopo di preservare le gomme
tassellate, che avrebbero dovuto mordere tanta sabbia e tanto fango in
terra d’Africa. Inoltre quella scelta ci avrebbe consentito di partire un
po’ più riposati, certi che avremmo comunque fatto a tempo a
stancarci per bene e non sarebbe stato necessario infierire sui nostri
poveri corpi già dall’inizio. Infine quella strada la conoscevamo già, in
quanto già percorsa nel 1994 e nel 1999, e non sentivamo una
particolare spinta a seguire itinerari già noti.
Sì, non c’erano dubbi. Sarebbe stato veramente superfluo ripetersi e i
vantaggi di spostarci per mare erano troppo invitanti per essere
respinti. Il mio amico acquistò quindi due biglietti che ci avrebbero
33
fatti salire su una nave Grimaldi, una compagnia prestigiosa e anche
un po’ costosa; comunque non c’erano alternative e affrontammo la
spesa. Ci sentimmo in mattinata al telefono, si stava per partire e ci si
diede appuntamento in tarda serata. Guardai il calendario, era lunedì
19 giugno 2000 e sarebbe stata l’ultima mattina trascorsa in Emilia,
dopodiché avremmo viaggiato sino all’equatore, lasciando la terra solo
per traghettare in poche ore dalla Spagna all’Africa.
Feci un’ultima cena con i miei genitori, poi caricai i bagagli sulla
Suzuki, salutai mio padre e scesi le scale, diretto al parcheggio. Mia
madre mi seguì per un ultimo saluto. La vidi nello specchietto
retrovisore, immobile vicina alla porta, sempre più piccola, poi feci
una curva e non la vidi più. Il dado era tratto.
Intanto Marco, che abitava a Novellara, si era congedato dalla propria
famiglia in mattinata per andare a casa della fidanzata a S. Martino in
Rio, un paese vicino, dove teneva tutte le sue cose. Dopo una
giornata di preparativi, eccolo in piena notte ad attendere il compagno
che veniva da Bologna. Finalmente ci incontrammo: il tempo dei
progetti si era concluso, si partiva veramente.
– Prenditela pure con calma. Non sono neanche le tre, la notte è giovane.
ANDREA – Chiedo perdono, non riuscivo a schiodare mia madre.
Era preoccupata e ho dovuto tranquillizzarla un po’.
MARCO – Anch’io ho dovuto sedare gli animi, ma non per questo ci ho messo
tutto questo tempo! Mi hai detto che saresti arrivato in tarda serata,
mica in piena notte! Arriveremo a Rapallo all’alba, fatti di sonno.
ANDREA – Però potremo mangiare la focaccia appena sfornata.
L’alba è un momento meraviglioso per arrivare e anche per partire.
E poi non abbiamo un cazzo da fare sino a sera, la nave parte alle otto.
Possiamo dormire quanto vogliamo.
MARCO – Bando alle ciance!
Il mio bagaglio è già pronto da ore ed ore. Andiamo?
ANDREA – Andiamo. Ma prima ti volevo dire che è proprio bella la tua giacca
di jeans piena di strappi e di buchi! Ma non l’avevi buttata via l’anno scorso?
MARCO – No, mia nonna ci ha già provato una volta ma me ne sono accorto in
tempo e gliel’ho sottratta. La userò finché non cadrà a pezzi, ci puoi giurare!
MARCO
34
– È già caduta a pezzi, amico mio. Solo che non te ne fai una ragione!
– È ancora in ottime condizioni. E poi parli tu con quei pantaloni della
tuta che sembra che devi giocare a basket e non andare all’equatore!
ANDREA
MARCO
Come sempre accadeva ci deridevamo a vicenda su cose insignificanti,
a cui non davamo importanza nemmeno noi, in una sorta di rituale
che si perpetuava nel tempo e ci divertiva.
In tutti i nostri viaggi non utilizzavamo mai abbigliamento
professionale, come fa invece la quasi totalità dei motociclisti.
Eravamo di certo bikers, di quelli veri, ma vestivamo sempre in modo
improvvisato e precario, anche se certamente funzionale.
Pure in quella occasione sembravamo due hippie e un po’ lo eravamo
di certo. Marco aveva la simpatica giacca di jeans degli anni Ottanta,
totalmente a pezzi, ma per lui era quasi un feticcio, ci aveva girato
mezzo mondo e non intendeva separarsene. Intorno al collo portava
una vistosa sciarpa di lana rossa, sulle gambe un paio di jeans coperti
da pantaloni antipioggia verdi, non perché ci fosse brutto tempo ma
per stare più caldo. Anche io apparivo abbastanza in linea con lui, con
un impermeabile azzurro chiuso su una felpa color fango, i pantaloni
larghi blu della tuta da basket e la onnipresente bandana al collo.
– Lo so che in fondo sei invidioso dei miei abiti. Non devi sentirti
inferiore, è solo che io ho un innato senso estetico che non ti appartiene!
MARCO – È vero, invidio molto il tuo impermeabile comprato in Montagnola.
Andiamo ad Abidjan?
ANDREA – Andiamo.
ANDREA
E partimmo. La strada era deserta, solo noi in una notte di un giorno
feriale, coi monocilindrici che ruggivano nell’aria e testimoniavano il
nostro passaggio. Correggio, Reggio Emilia, S. Ilario d’Enza, tutti
luoghi che scivolarono via in poco tempo. Superammo Parma e ci
fermammo a Collecchio, pochi chilometri fuori città, in direzione sud.
– Ti rendi conto? Siamo sulla Statale della Cisa, la strada per l’Africa!
ANDREA – Già. E dire che per me è sempre stata solo la strada per Rapallo.
MARCO
35
– È proprio vero, è tutto relativo! I marocchini che vivono a Parma la
vedranno come la strada per Casablanca, i senegalesi come quella per Dakar.
ANDREA – La strada è la strada e basta.
Ognuno la vede come vuole, tanto lei ti porta ovunque.
MARCO
Un po’ di filosofia spicciola nel cuore della notte, una sigaretta e
ripartimmo. Cominciammo a scalare gli Appennini, il profumo
nell’aria cambiava man mano che salivamo di quota. Era divertente
viaggiare con il buio in montagna, curve e controcurve rendevano la
guida molto stimolante, anche se la scelta delle gomme tassellate non
ci concedeva di fare troppo gli sportivi. Vibravano tremendamente,
non avevano grande tenuta in curva e stancavano molto.
Io ero un po’ preoccupato perché Marco non aveva nessuna
esperienza di guida motociclistica. Possedeva una Vespa da ragazzo e
girava nella Bassa, ma poi l’aveva venduta e in tutti i nostri viaggi
passati era sempre stato seduto nel retro della sella, mai aveva guidato;
però possedeva alcune conoscenze che gli sarebbero tornate utili.
Sapeva che le marce della moto erano diverse da quelle della Vespa,
niente manopola da girare ma solo una leva da muovere col piede
sinistro e che la prima si trova in basso e tutte le altre marce si
trovano sopra. Era sicuramente un buon punto d’inizio, ma mi
domandavo se sarebbe stato sufficiente a consentirgli un’impresa
come quella che avevamo appena intrapreso.
Marco era partito in moto per l’equatore senza avere mai guidato una
moto. Che situazione folle! Ma lo eravamo anche noi. Però dichiarava
spesso che aveva imparato molte cose sulla guida del mezzo durante
le lunghe ore che aveva trascorso come passeggero, semplicemente
osservandomi: le scalate, la gestione del gas, le modalità di frenata,
l’impostazione di curva e così via. In fondo aveva ragione, almeno
sino a quel momento era andato tutto liscio e aveva una condotta in
strada decisamente ineccepibile. Fu comunque una scelta necessaria,
perché un viaggio di quel genere, gran parte in fuoristrada, richiedeva
di guidare senza passeggero. Come sarebbe stato possibile affrontare
sabbia e fango in due sullo stesso mezzo, con quaranta chili di
bagagli? La cosa certa era che ad Abidjan volevamo arrivare, quindi
36
eccoci lì a fare scuola guida estrema. La notte ci scorreva tutt’attorno
e in breve tempo raggiungemmo Borgo Val di Taro, l’ultimo paese di
rilievo prima del Passo delle Cento Croci, che segna il confine fra
l’Emilia e la Liguria. Anche lì non c’era anima viva e non ci
fermammo nemmeno, lanciandoci decisi su per la montagna per
guadagnarne la vetta. Curve, curve e ancora curve, intanto un chiarore
fece breccia nell’oscurità, stava albeggiando.
La strada smise di salire e ci fermammo al Passo. Un unico edificio
chiuso, tanti pascoli intorno, le mucche libere oziavano sui prati e in
mezzo all’asfalto, per nulla infastidite dal nostro arrivo. Qualcuna
brucava, altre muggivano, altre ancora guardavano l’astro nascente. Il
nuovo sole salutava il nostro arrivo in Liguria, un nuovo giorno in
una nuova terra, un’immagine pregna di significato simbolico per due
viaggiatori come noi, lanciati verso l’ignoto.
Arrivammo a Sestri Levante e davanti a noi apparve il mare. Dall’altra
parte, oltre l’orizzonte, immaginavamo l’Africa, ma per il momento ci
saremmo accontentati di arrivare a Rapallo, anche perché il sonno
cominciava a farsi sentire con una certa prepotenza. Seguimmo così la
Statale 1, l’Aurelia, che collega Roma alla Francia, la strada dei liguri e
un po’ anche la nostra. Lavagna, Chiavari, Zoagli, finalmente Rapallo.
Il castello cinquecentesco, simbolo indiscusso della città, si stagliava di
fronte a noi mentre la vita cominciava a rinascere in quella mattina di
martedì. Erano circa le sette e mezza e si vedeva poca gente in giro,
perlopiù lavoratori e qualche anziano che, alzato di buon ora, si
spostava dall’hotel alla spiaggia a prendere il primo sole o a pescare.
– Ah! Rapallo! La mia terra nadal!
MARCO – Non sapevo che parlassi spagnolo!
ANDREA – Ah ah! Neanche io, sto improvvisando. Però questo posto in un certo
senso è davvero la mia terra natale. Anche se sono nato a Bologna, mi sento
profondamente legato a Rapallo, più di un qualunque altro posto.
MARCO – È una sensazione che non conosco, io non ho una casa per le vacanze.
ANDREA – Ci vengo da quando avevo cinque anni, ci sono cresciuto, conosco la
sua gente e tutte le zone più nascoste. Quando vengo qua non mi considero per
niente un turista, per me è davvero una seconda casa, o forse una casa e basta.
ANDREA
37
– Ah! Come ti capisco bene, vecchio amico! Novellara! Terra nadal!
– Ah ah! Ognuno ha la terra che si merita!
MARCO – Che vorresti dire? Forse non ti piace la mia terra?
ANDREA – Ah ah! È molto bella, basta non viverci!
MARCO
ANDREA
Eravamo di buon umore. Il sonno devastante non ci impedì di essere
sempre i soliti ed era una gran bella cosa, visto che nei giorni
successivi avremmo vissuto sicuramente situazioni ben più faticose e
stressanti di quella e il giusto spirito era una delle condizioni essenziali
alla buona riuscita dell’ambizioso progetto.
Andammo al forno migliore della città e comprammo tanta focaccia
calda che mangiammo sulle panchine del lungomare, in silenzio.
Avevamo bisogno di dormire, non stavamo più in piedi, così
andammo a riprendere le moto per dirigerci a casa. Ma dopo diversi
tentativi la Suzuki non voleva saperne di partire. Cominciai quindi a
sudare copiosamente per lo sforzo e imprecai con una certa furia.
– Che cazzo ha ‘sta moto di merda?
MARCO – Non essere volgare, guarda che poi si offende e non parte più.
ANDREA – Se fa così a Rapallo andiamo bene! Ci devo andare in Africa!
MARCO – Non disperare, sarà stanca come noi.
Adesso la facciamo riposare, poi ci riprovi.
ANDREA – Stanca? A Rapallo? Non se lo può permettere. Riprovo.
ANDREA
Niente da fare. Scoppi furiosi uscirono dalla marmitta, alcune persone
si voltarono perplesse e forse intimorite, ma il motore non ne voleva
sapere. Dopo ulteriori tentativi ci fu una vera e propria esplosione e il
pistone cominciò lentamente a scorrere nel cilindro, poi finalmente
partì. Una nube di fumo nero e denso avvolse me e la Suzuki.
– Sei molto rispettoso dell’ambiente, vedo. Ma che sta succedendo?
ANDREA – È grave, qua sta bruciando del gran olio e non è un buon segno.
Mi avranno mica venduto un bocchino?
MARCO – Hai voluto spendere poco e questo è il risultato. Sarà il carburatore?
MARCO
38
– Mah! Non saprei! Per ora l’erogazione è sempre stata buona.
Con la differenza che la tua va bene e la mia no.
MARCO – Anche la mia fa fatica a partire ma poi va.
Teniamo d’occhio il livello dell’olio e andiamo avanti, non abbiamo alternative.
ANDREA – E un meccanico a Rapallo? Come lo vedi?
MARCO – Mah! Non saprei. Se ci sono da cambiare dei pezzi siamo al punto di
partenza, la nave parte stasera e non avremmo il tempo.
ANDREA – Hai ragione, semmai provvederemo a Barcellona,
tanto nel caso ci serva qualcosa là c’è tutto.
MARCO – Sii fiducioso.
ANDREA – Andiamo a dormire? Non sto più in piedi.
MARCO – Andiamo.
ANDREA
Raggiungemmo finalmente il letto. Appena appoggiati sul cuscino
sprofondammo in un sonno ristoratore sino al primo pomeriggio e ci
svegliammo carichi di energia, pronti a partire.
Caricammo nuovamente i bagagli, la Suzuki si avviò senza problemi e
la cosa ci rincuorò. Anche se era evidente che qualcosa non andasse,
quel piccolo e momentaneo successo fece svanire le apprensioni di
poche ore prima e ci donò una rinnovata fiducia.
Percorremmo l’Aurelia sino a Genova, uno splendido saliscendi
panoramico che si concluse con l’ingresso nella metropoli. Conoscevo
bene la città e arrivammo al porto senza problemi. Altri motociclisti
in assetto da viaggio si avvicinavano all’imbarco, diretti chissà dove,
ma sicuramente non così lontano quanto noi, pensammo.
C’era il tempo per una pizza e una birra, così ci infilammo in un locale
a caso. Poche chiacchiere e molto cibo in fretta, perché la nave
Grimaldi era lì sulla banchina e i marinai stavano già facendo entrare i
mezzi nella capiente stiva. Le moto vennero legate alla parete
metallica con grandi corde e così salimmo le scale sino al ponte, dove
contemplammo il porto e la città vecchia con la sua umanità.
MARCO
– Finalmente eccoci qua. Pronti a lasciare l’Italia per andare chissà dove.
– Già, adesso si parte per davvero. Guarda che ambiente meraviglioso.
ANDREA
39
– Sì, è veramente splendido. I porti sono tutti uguali e tutti fantastici.
Gente che va, gente che viene, marinai, varie razze, famiglie, gente sola, prostitute,
truffatori, odore di nafta e salsedine, suono di sirene.
ANDREA – Vero, qua non è molto diverso da Napoli o Livorno,
ma nemmeno da Gibilterra o Almeria. Sarà così anche Barcellona.
Com’è che le altre volte che ci siamo stati non abbiamo cagato il porto?
MARCO – Eravamo presi a guardare altre cose, addirittura più belle dei porti.
ANDREA – Ricordo bene! Tipo le donne catalane, i pub, le Ramblas,
il Porto Olimpico con i suoi locali notturni!
MARCO – Che città!
ANDREA – Domani arriveremo nel pomeriggio verso le cinque. Facciamo balotta
a Barcellona e dormiamo lì o partiamo subito e viaggiamo di notte?
MARCO – Sarebbe molto bello stare, però se passiamo una notte in piedi il giorno
dopo non combiniamo un cazzo. Ti ricordo che vogliamo raggiungere l’equatore in
meno di un mese! Se stiamo là di notte, nella migliore delle ipotesi dopodomani
siamo a Valencia e non ad Almeria.
ANDREA – Già. Il vero biker sa anche fare delle rinunce.
MARCO – E noi siamo veri bikers.
ANDREA – Però il vero biker ama anche fare vita notturna.
MARCO – Facciamo che ci pensiamo domani?
Tanto non dobbiamo rendere conto a nessuno. Il vero biker sa aspettare.
MARCO
Il vero biker sapeva e voleva fare tutto quello che facevamo noi e
aveva tutte le nostre qualità e tutti i nostri vizi. Ma di qualunque cosa
si parlasse, ogni aspetto, anche il più bieco, risultava positivo e carico
di virtù. Cosa avrebbe fatto il motociclista ideale in una qualunque
situazione che richiedesse una scelta? E ogni volta nascevano le frasi
più bizzarre che portavano alla stessa conclusione: il vero biker è una
gran persona e fa le cose che facciamo noi, belle o brutte che siano. Il
vero biker è un uomo rude ma sensibile, il vero biker conduce vita
sobria ma incline al vizio, il vero biker è amante del gioco d’azzardo, il
vero biker è amico dei camionisti, il vero biker è burbero ma gentile, il
vero biker è corretto e leale, il vero biker è rispettoso dei pedoni, il
vero biker è cortese nei modi ma sa ruggire all’occorrenza. Non
c’erano mai limiti di sorta alle caratteristiche del vero biker.
40
– Ok. Ho un certo appetito, andiamo a mangiare qualcosa e magari a
farci un birrino? Non sarebbe male!
MARCO – Perché no? Forse prima però è meglio trovare la nostra cabina e
smollare i bagagli, sennò ci sono d’impiccio.
ANDREA
E così facemmo. Ci venne indicato il nostro alloggio e al suo interno
vi trovammo un ragazzo, più o meno della nostra età, che leggeva
sdraiato su uno dei letti. Per risparmiare sul biglietto già molto
costoso avevamo infatti acquistato due posti in una cabina multipla,
quasi certi che in bassa stagione non avremmo avuto ospiti. Invece
l’ospite c’era, Barcellona non conosce la bassa stagione, è una città
meravigliosa e tutti ci vanno in ogni momento dell’anno.
Lo salutammo, ci presentammo e lui fece altrettanto. Si chiamava
Alessandro, abitava a La Spezia e stava per iniziare le sue vacanze
nella movida spagnola. Anche a noi sarebbe piaciuto fermarci qualche
giorno, non ci saremmo annoiati di certo. Sei anni prima ci eravamo
rimasti due notti e divertiti tantissimo: lunghe passeggiate sulle
Ramblas, tanti spettacoli di artisti di strada, locali notturni, balli e
bevute di sangria. Non era certo una brutta vita, però non c’era
confronto. Tra stare molto tempo in un posto, sebbene meraviglioso,
e coprire enormi distanze, vedendo i paesaggi mutare sotto gli occhi,
non avevamo dubbi su ciò che ci donasse emozioni più intense.
Dopo alcune chiacchiere generiche ci congedammo da Alessandro e
ci dirigemmo al bar, nostro ambiente ideale. La nave aveva appena
lasciato il porto e fra un drink e l’altro vedemmo la costa italiana che
si allontanava e il cielo che diventava sempre più buio.
– Sembra un tipo simpatico. Speriamo solo che stanotte non russi e non
scoreggi, altrimenti cambierei opinione su di lui!
MARCO – Speriamo.
ANDREA – Questi drink mi hanno fatto venire ancora fame.
MARCO – Sei veramente senza fondo, abbiamo mangiato la pizza da poco!
ANDREA – Magari uno stuzzichino, tipo patatine. Che ne pensi?
MARCO – So resistere a tutto ma non alle tentazioni. Patatine più birra?
ANDREA – Aggiudicato. Il vero biker sa quand’è il momento di nutrirsi!
ANDREA
41
Il tormentone del vero biker minacciava di seguirci per tutto il
viaggio. Era bello trasformare in massima una qualunque nostra
azione, ci legittimava nei confronti di noi stessi, anche se eravamo
consci di non avere nessuna giustificazione, se non quella che a breve
avremmo conosciuto la privazione e l’austerità dell’Africa e fino a
quel momento non ci saremmo pertanto fatti mancare nulla.
Dopo l’ennesimo spuntino ci ritirammo infine in cabina a recuperare
energie. La notte prima l’avevamo passata in bianco e le poche ore di
riposo a Rapallo erano servite il giusto, così sprofondammo presto in
un sonno ristoratore, cullati dal rollio della nave sul mare calmo.
Alessandro dormiva e non produceva nessun odore e nessun suono
che ci desse fastidio. Meglio così, non avremmo avuto scampo.
42
BARCELLONA
Non avevamo niente da fare se non aspettare le cinque e mezza del
pomeriggio, ora in cui saremmo dovuti arrivare in porto. Pensammo
quindi di riposare a oltranza per accumulare più energie possibili e
affrontare al meglio le fatiche future che non sarebbero di certo
mancate. Dormimmo con i tappi nelle orecchie per non essere
disturbati dai rumori del giorno e funzionarono egregiamente. Ci
svegliammo infatti all’ora di pranzo, anche se Marco continuava a
rigirarsi nel letto, non era pago e voleva altro riposo. Eravamo
comunque pronti a vivere una giornata non ancora pianificata.
– Ciao amico, ben svegliato.
MARCO – Sgrunt. Lasciami dormire ancora, ho sonno.
ANDREA – Smettila di grugnire, andiamo all’aperto, è già mezzogiorno!
Abbiamo dormito dieci ore, siamo riposati.
MARCO – Tu sei riposato! Io no e il vero biker stanco sa quand’è il momento di
riposare ancora e questo non lo è.
ANDREA – Ma anche quand’è il momento di agire. Andiamo a berci un caffè?
MARCO – Vabbè. Doppio però. Alessandro?
ANDREA – Mah, mi sono svegliato adesso anch’io, sarà in giro.
MARCO – Chissà se fanno l’espresso o i soliti beveroni annacquati!
ANDREA – Non ne ho idea. Secondo me lo fanno, visto che ci sono un sacco di
italiani che bevono solo espresso. Però non fare il provinciale, bevi quello che c’è,
sennò cosa ti sposti a fare se vuoi le stesse cose di casa?
MARCO – Non sono provinciale, semplicemente a me il caffè lungo fa cagare!
ANDREA – Ti abituerai, non temere. Sai meglio di me che l’unico espresso lo
fanno solo in Italia e quelli che trovi in giro sono solo squallide imitazioni.
Il prossimo mese ne berremo ben pochi.
Te lo vedi un mauritano che ti fa l’espresso nella sua tenda nel deserto?
MARCO – Se è per quello in Mauritania non vendono neanche alcool,
sono islamici osservanti. Berremo del gran the, quello ce l’hanno di sicuro.
ANDREA – Dieta analcolica sino al Senegal, poi ci rifaremo,
là non ci sono divieti. Addirittura producono una birra, che si chiama Gazzella o
forse Giraffa, l’ho letto sulla guida. Secondo te, che ne sai a pacchi, sarà buona?
ANDREA
43
– Ah ah! Che nomi africani! Comunque sia, sono sicuro che farà cagare!
– Dopo il vino che abbiamo bevuto in Siria non temo nulla!
Ti ricordi quanto faceva schifo quel bianco al ristorante sull’Eufrate?
Era prodotto a Damasco.
MARCO – Il vero biker sa apprezzare la cucina dei posti che visita,
non cerca quella della sua terra!
ANDREA – Andiamo ad apprezzare la cucina della nave? Ho un certo appetito.
MARCO – Ti pareva! Sei sveglio da pochi minuti e già hai voglia di mangiare.
Avrai mica il verme solitario?
ANDREA – No, è che sono un uomo grande e ho bisogno di tanta energia.
Guarda che fisichino che ho messo su!
MARCO – Il fisichino dell’opulenza, direi. Hai già un accenno di doppio mento!
ANDREA – Non è doppio mento, è una conformazione del viso!
MARCO – Sì, una conformazione con due menti.
ANDREA – Vedrai che fra un mese il doppio mento non ci sarà più e scomparirà
anche la tua pancetta. Intanto ci scordiamo la pastasciutta sino al nostro ritorno e
poi faremo tanta di quella fatica che, alla fine, avremo perso almeno cinque chili.
MARCO – La mia non è pancetta, è una conformazione dell’addome.
ANDREA – Sì, una conformazione piena di lipidi.
MARCO
ANDREA
Marco, ormai decisamente sveglio, aveva molta voglia di scherzare e
anch’io non chiedevo di meglio, così ci alzammo entrambi mentre
continuavamo a sfotterci senza tregua.
Guadagnammo il ponte, ci trovavamo in mezzo al mare e non si
vedeva terra all’orizzonte. Bevemmo un paio di espressi molto cattivi
e sedemmo a un tavolino a continuare le nostre chiacchiere amene.
– Ah! Barcellona! Terra nadal!
MARCO – Non sapevo fossi di queste parti.
ANDREA – Io sono cittadino del mondo, ovunque vada mi sento a casa mia.
MARCO – Ne riparleremo in mezzo al deserto, vedremo se la penserai ancora così!
ANDREA – Che facciamo stasera? Ci fermiamo a Barcellona o proseguiamo?
MARCO – Mah, mi allettano entrambe le cose, non è facile.
ANDREA – Il vero biker sceglie sempre di andare in moto.
MARCO – Vero, però non ti scordare che il vero biker ama la vita mondana.
ANDREA
44
– Quanti ricordi a Barcellona! Ci siamo stati sei anni fa, mica poco!
– Già sei anni, cazzo! Eravamo più sbarbi.
ANDREA – Avevo ventiquattro anni e ora ne ho trenta.
Mi ero appena iscritto all’Università e ora mi sono appena laureato.
A fine estate mi sa che dovrò proprio cercare un lavoro serio,
devo smetterla coi lavoretti del cazzo, voglio fare qualcosa che mi piace.
MARCO – Anch’io dovrò decidere cosa fare.
È un momento di transizione per entrambi.
ANDREA
MARCO
Marco era stato dipendente della Cassa di Risparmio di Reggio Emilia.
Le capacità non gli mancavano di certo, ma era giunto decisamente
all’esasperazione; la noia e la tensione che gli creavano il lavoro, ormai
diventate insopportabili, lo avevano portato a dimettersi qualche mese
prima, per fare cosa non lo sapeva ancora.
Io mi ero invece laureato da poco e quel traguardo avrebbe
rappresentato la fine di un lungo periodo di vita fatto di studio il
pomeriggio, feste universitarie pressoché ogni sera e, soprattutto, una
serie di lavori più o meno assurdi e singolari che svolgevo tra un
esame e l’altro, coi quali mi pagavo da vivere.
– Certo che ne hai avuto di coraggio a lasciare la Cassa di Risparmio.
Io sono l’unico, forse insieme alla tua donna, che comprende e non biasima la tua
scelta folle di perdere un posto fisso. Il lavoro in banca è veramente noioso per uno
col tuo carattere, anche se tutti dicono che è un’attività prestigiosa.
MARCO – Prestigiosa… Contare soldi degli altri per ore ed ore ogni giorno non
mi sembra che sia così prestigioso. È più prestigioso contare i propri!
ANDREA – Ne sono certo! A settembre dovremo fare scelte importanti e difficili,
ma per ora decidiamo cosa fare stasera, è più facile.
ANDREA
Entrambi eravamo lanciati verso una vita nuova, dopo l’estate ci
saremmo guardati intorno, chissà in quale direzione. Quel viaggio
assurdo che avevamo appena intrapreso diventava quindi metafora
della nostra vita: eravamo diretti verso l’ignoto. Non sapevamo cosa
avremmo incontrato strada facendo ma sapevamo di avere le risorse
necessarie per proseguire, sino a giungere al traguardo, nel viaggio
45
come nei nostri progetti per il futuro. Ma cosa pensavamo di fare a
settembre, dopo pochi mesi? A cosa ci saremmo dedicati? Quale
lavoro avremmo cercato? Non conoscevamo le risposte, ma faceva un
po’ paura discutere di quelle cose, così cambiammo argomento.
Meglio dedicarsi a Barcellona e al nostro viaggio.
– Però, anche se decidiamo di partire, almeno una sangria sulle Ramblas
ce la facciamo! Non ti chiedo nemmeno che ne pensi.
ANDREA – Te lo stavo per dire anch’io.
Poi se abbiamo voglia restiamo, sennò partiamo.
MARCO – Che menti fertili che siamo! È proprio un’ideona! È ovvio che se
cominciamo a bere della sangria poi ci prende la mano e facciamo l’alba.
ANDREA – Ma no, dai! Il vero biker sa anche limitarsi quand’è il momento!
MARCO – Menti e sai di mentire. Comunque a me va bene,
anch’io ho voglia di tornare sulle Ramblas. Barcellona è pur sempre Barcellona e i
veri bikers si fermano sempre a Barcellona.
ANDREA – Balotta serale moderata e si va a letto entro le due. Sennò domani ci
salta veramente tutto e io vorrei partire al massimo a metà mattinata.
MARCO – Se partiamo alle dieci arriviamo entro sera ad Almeria,
sarà un migliaio di chilometri.
ANDREA – Dodici ore per mille chilometri? Ci vuole di più.
Nello stesso tempo con l’Africa Twin abbiamo fatto milleduecento chilometri, da
Almeria a Perpignan, e andavamo ai centoquaranta. Erano duecento chilometri
in più, ok, ma si viaggiava più veloci e la moto vibrava di meno.
Era un altro viaggiare, stavolta dovremo fare molte pause. Ah! I bicilindrici!
Che motori fenomenali! Invece, coi nostri miseri mono,
se andiamo a centoquaranta rimaniamo a piedi in poche ore, altro che Africa!
MARCO – E ci farebbe troppo male il culo per le vibrazioni.
Vabbè, andiamo ai centoventi, così si affronta.
ANDREA – Anche meno, meglio centodieci. Non ci passa più, però si affronta.
MARCO – Andiamo come ci pare, tanto sono calcoli inutili,
non sappiamo a che ora c’è la nave per il Marocco!
La cosa certa è che arriveremo di notte e ci beccheremo un gran caldo. Piano con la
roba da bere stasera, sennò domani ce la sudiamo tutta in autostrada.
ANDREA – Giusto. Ci andremo con molta cautela. Ne faremo uso moderato.
MARCO
46
Tra una chiacchiera e l’altra erano già le due e il ristorante stava per
chiudere, così andammo a mangiare qualcosa. C’era cucina
internazionale e prendemmo cibi classici: pollo, patate, verdura e
birra. Tornammo sul ponte a guardare l’orizzonte, si vedeva già la
terra in lontananza, ormai stavamo per arrivare. La splendida città
catalana ci attendeva con la sua movida e ci pareva sempre più chiaro
che ci saremmo fermati. Eravamo comunque sempre in grado di
stravolgere progetti come nulla fosse, saremmo stati capaci di
cambiare tempi e itinerari ideati da mesi con una facilità disarmante,
semplicemente sulla base di incontri fatti sulla strada. Lo avevamo
fatto e lo avremmo fatto ancora, non avevamo dubbi.
Si scorgeva ormai la sagoma del porto e molte persone si accalcarono
alle balaustre con macchine fotografiche in mano. Un gruppo di
ragazzi e ragazze fece comparsa a poppa, saranno stati almeno una
cinquantina, tutti adolescenti. Erano spagnoli che probabilmente
facevano ritorno a casa dopo una gita scolastica in Italia. Uno dei loro
accompagnatori li fece unire per scattare la classica foto ricordo.
– Senti che casino che fanno quelli là.
ANDREA – Sono ragazzi felici.
MARCO – Anch’io sono felice ma non faccio tutto ‘sto bordello.
ANDREA – Loro sono più felici di te.
MARCO – Sarà. Ma guarda il metallaro, sarà mica felice!
Con gli anfibi in piena estate, vestito di nero con ‘sto caldo!
ANDREA – Quello in disparte, nell’angolo più lontano?
MARCO – Sì, quello con la maglietta degli Iron Maiden e i capelli con la
permanente. È l’unico metallaro del gruppo.
ANDREA – Beh, sì. Quello è meno felice degli altri, si vede da qua che è triste.
I metallari sono tutti uguali, tutti con gli stessi vestiti, le magliette dei gruppi metal
degli anni Settanta e Ottanta, gli anfibi anche in piena estate e il bulbo lungo.
MARCO – Quello è incazzato, non ride come tutti i compagni,
si è imboscato anche per la foto di gruppo.
ANDREA – Come farebbe un qualunque metallaro di ogni parte del mondo.
MARCO – Già, sono molto simili fra loro. Tu sei stato metallaro da ragazzo?
MARCO
47
– No, avrei voluto vestire in modo un po’ più trasgressivo ma mia
madre era troppo tosta e concepiva solo gli abbigliamenti e le acconciature
standard. Niente abiti stravaganti, niente capelli lunghi o rasati a zero,
solo la misura media le andava bene. Pensa che a quattordici anni volevo farmi il
bulbo come Howard Jones! Ti ricordi come era pettinato?
MARCO – Sì che me lo ricordo, era orrendo.
ANDREA – Anche mia madre la pensava così, infatti ho pettinato i capelli in
modo meno estremo. Io volevo essere più aggressivo, più sprezzante delle buone
maniere e vestiti e capelli mi sembravano un buon inizio per esserlo realmente.
MARCO – Anche per me non è stato diverso,
avrei voluto delle cose che i miei non mi hanno concesso e non capivo il perché.
Adesso comprendo i motivi dei loro rifiuti, anche se non li condivido.
ANDREA – Beh, comunque, visto che mi era andata male con i capelli e non
potevo farmi la cresta, ho provato a fare il paninaro. In fondo erano persone più
“normali” e speravo che i miei l’accettassero più di buon grado.
MARCO – E com’è andata?
ANDREA – Ancora peggio. Il look dei paninari era stracaro e i miei,
giustamente, non volevano spendere troppi soldi in vestiti. Ma non ho rinunciato e
ho provato a indossare qualcosa di taroccato. Nessuno se ne è accorto, le ragazze a
scuola commentavano entusiaste “Guarda Lado! Com’è vestito bene!
Ha il maglione dell’Ocean Star, i Levis 501, la cintura El Charro! E guarda i
piedi, ha le Timberland e le calze Burlington!”
MARCO – Eri veramente un uomo simbolo del consumismo.
Avevi anche il Monclair taroccato?
ANDREA – No, non ero arrivato sino a quel punto.
MARCO – Che tristezza! I paninari erano i fighetti degli anni Ottanta,
tutti impegnati sulle marche dei loro vestiti per pensare ad altro.
ANDREA – Vero. È stato però un periodo molto breve poi ho smesso. Avevo
acquisito un po’ di prestigio, facevo parte di un gruppo, anche se, a vederlo con
occhio maturo, decisamente sfigato. Ma all’epoca, ovviamente, non la pensavo così.
MARCO – Sì, decisamente. Reggio penso che fosse anche peggio di Bologna,
se pensi che erano tutti provinciali e si sentivano cittadini.
ANDREA – Alla nostra età invece potresti vestire in giacca e cravatta di giorno sul
lavoro ed essere vestito da punk di sera a ballare, oppure vestirti di stracci come
facciamo in questi giorni senza vergognarti comunque. Vantaggi della maturità!
ANDREA
48
– Io in giacca e cravatta strippo anche di giorno. Pensa che andavo a
lavorare in banca con una camicia a fiorelloni!
ANDREA – Ma se vesti così un ragazzo lui strippa, deve seguire le mode per
essere simile ai suoi coetanei, sennò si sente diverso dagli altri e non sta più bene.
MARCO – Il metallaro è vestito come vuole lui, non penso che la madre gli abbia
imposto gli anfibi d’estate! Eppure è triste e in disparte, ma forse è il ruolo del
metallaro, fuori dal gruppo, a suo agio solo con i suoi simili.
ANDREA – Fra qualche anno lo interesseranno altre cose e vestirà in modo
diverso, magari nelle foto future si metterà in mezzo.
È bello cambiare, non ci si annoia mai.
MARCO – Noi intanto cambiamo posto, la nave si è fermata.
Recuperiamo i nostri stracci in cabina e andiamo a vivere la movida de la noche!
ANDREA – Olè! Via che si va verso mirabolanti avventure!
MARCO
Così lasciammo gli scolari ai loro destini e ce ne andammo
sottocoperta a chiudere gli zaini, pronti a sbarcare. Alessandro stava
sul letto e leggeva un giornale, ai suoi piedi c’erano le scarpe e una
piccola borsa da cui spuntavano due calzini; anche lui era pronto a
scendere e fare ogni cosa a Barcellona.
Lo salutammo senza troppa enfasi, era solo una delle infinite
comparse nella vita, quelle persone che incroci e con le quali scambi
due chiacchiere senza nulla più. Non gli proponemmo nemmeno di
vederci in serata, tanto non interessava a nessuno.
Scendemmo nella stiva, la folla si stava accalcando negli spazi angusti,
ognuno alla ricerca del proprio mezzo. Slegammo le moto, fissammo i
due zaini ai bagagli, salimmo in sella e infilammo i caschi nelle braccia,
aspettando impazienti il nostro turno per sbarcare. Per motivi mai
chiariti, qualche idiota accese il motore quando il portellone di poppa
era ancora chiuso e in breve tempo l’aria divenne quasi irrespirabile.
– Imbecilli! Ma non vedono che non è aperto?
Pensano che col motore acceso escano prima?
ANDREA – Non ci stanno più dentro, vogliono scendere subito e non capiscono
più niente, pensano di essere a un semaforo, aspettano che diventi verde.
MARCO – Magari inserendo il riciclo dell’aria interna, così soffocano solo gli altri.
MARCO
49
Non c’era molto da fare se non metterci il casco in testa ben chiuso e
le bandane sul naso per limitare l’intossicazione, sino a quando
riuscimmo a sgattaiolare in uno spazio utile e a guadagnare l’aria
aperta. Fu meraviglioso trovarsi a terra, la Spagna era lì tutta per noi e
non l’avremmo fatta attendere. Le indicazioni ci condussero in un
percorso obbligato che ci portò fuori dal porto.
Il traffico cittadino ci avvolse in modo repentino e violento. Ci
trovavamo su una strada a scorrimento veloce, c’erano macchine
ovunque, molte moto ruggivano e sfrecciavano ad alta velocità fra
incroci e passaggi pedonali, tanti bus turistici si accalcavano nei
parcheggi in attesa dei loro ospiti, infinite persone delle razze più
varie si muovevano senza posa in ogni direzione, attraversavano
strade senza guardare, cantavano, ridevano, urlavano.
Barcellona è seconda solo a Madrid come numero di abitanti, ma è
sicuramente la prima per importanza geografica nell’intero Stato.
Sorta sul percorso internazionale che attraversa la Francia e la Spagna,
da lì si può raggiungere il Portogallo oppure accedere all’intera Africa,
quindi si trova veramente gente di ogni tipo. C’è chi si ferma per una
visita, chi vi giunge da chissà dove in cerca di un lavoro o per studiare
qualunque cosa, chi la attraversa in velocità e prosegue per la sua
meta, chi va per divertirsi, chi per essere criminale.
Comunque la si veda e la si viva, a Barcellona coesistono tutti i popoli
del mondo e questo la rende semplicemente magica, fa venire voglia
di scoprirla, di viverla intensamente facendo cose sempre diverse e
non si è mai finito di vederne di nuove. È però necessario essere
prudenti più che mai, le insidie di un luogo del genere sono le più
disparate e non ci si può permettere di essere troppo ingenui. La
Mossos d’Esquadra, la Polizia catalana, è assolutamente severa ed
efficiente nel mantenere l’ordine pubblico e raramente si verificano
episodi di violenza estrema, però furti e scippi, truffe e raggiri sono
sempre minacce incombenti e all’ordine del giorno.
Eravamo impegnati in una guida molto attenta, stavamo facendo
continui slalom fra le macchine più lente, quando si mostrò innanzi a
noi la grande statua di Cristoforo Colombo, con il braccio teso a
indicare il mare. Mai considerato più di tanto in Italia, si propose alla
50
regina di Spagna che lo appoggiò nella sua folle impresa di cercare la
terra oltre il mare. E secoli dopo eccolo ancora lì, sotto di lui la vita
continuava a scorrere con perenne frenesia, ma lassù c’era solo il
silenzio di chi guarda con occhio lontano alle Indie, che era certo di
trovare oltre l’oceano, oltre l’orizzonte.
Di fronte a lui il mare, alle sue spalle le Ramblas, gli immensi viali che
entrano nel cuore della città, di cui ne sono il cuore pulsante. Fu lì che
ci dirigemmo alla ricerca dell’ostello in cui avevamo dormito anni
prima. Ci piaceva l’idea di rivivere l’atmosfera che tanto ci aveva
affascinati, così trovammo un parcheggio proprio di fronte all’edificio
per fare qualche foto ricordo, ma l’ostello non c’era più. Solo
un’enorme impalcatura ricopriva l’edificio che ci aveva ospitati, le
cose erano cambiate e non potemmo fare altro che tenerci i ricordi.
Già, tutto cambia, non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume.
Lo sapevamo, ma non riuscivamo a farcene ugualmente una ragione.
– Mi sa proprio che l’ostello era questo.
– Mi sa anche a me. Chissà perché l’hanno chiuso!
Sicuramente non per mancanza di clienti!
MARCO – Mah, forse una ristrutturazione.
ANDREA – Ci accontenteremo delle foto del ’94. Per me è sempre triste arrivare
in un posto dove sono stato bene e vederlo cambiato, mi dà la malinconia.
MARCO – Anche a me. Però è anche bello che le cose cambino, così se ne vanno
anche quelle brutte. Barcellona ci divertirà ugualmente anche stasera, non temere!
ANDREA – Ne sono certo. È solo il mio rapporto col passato che non mi è chiaro.
Cosa resta di tutto quello che ho vissuto? Solo ricordi? Niente di tangibile?
MARCO – Quello che vivi non lascia solo un ricordo, ti fa diventare quello che sei.
ANDREA – Lo so, è il motivo vero per cui viaggio e voglio vivere più cose diverse
possibili. Mi sento sempre più una persona migliore, più completa, giorno dopo
giorno. Però mi guardo sempre indietro con nostalgia, non c’è nulla da fare.
MARCO – La nostalgia non è un sentimento negativo,
anche quando ti dà malinconia. È molto piacevole essere nostalgici.
ANDREA – Il vero biker è nostalgico e talvolta malinconico, ma va sempre avanti!
MARCO – E noi siamo veri bikers nostalgici e talvolta anche malinconici.
MARCO
ANDREA
51
– Beh, allora chiudiamo i conti con gli anni Novanta e andiamo a
vivere degnamente il nuovo millennio, come si conviene a due veri bikers.
Propongo un litro di sangria seduti a tavolino sulle Ramblas.
MARCO – Che proposta innovativa! Ne parliamo da mesi!
ANDREA – La novità della proposta stava nel quantitativo.
MARCO – Un litro a testa? È proprio il metodo migliore per non partire stasera.
ANDREA – Pensavo a un litro in due, così per iniziare. Perché? Vuoi partire?
MARCO – Non so, ne riparliamo dopo la prima caraffa.
ANDREA
Il nostro carattere positivo ebbe presto il sopravvento e la malinconia
fece posto all’euforia. La città pulsava in ogni dove, le Ramblas erano
sature di umanità e ci sedemmo a mirare lo spettacolo.
Musicisti multietnici suonavano mandolini, chitarre, arpe, armoniche,
percussioni e ogni altro strumento si possa concepire. Mimi variopinti
stavano immobili e cambiavano posizione solo quando qualcuno
metteva una moneta in un cappello a terra. Politici improvvisati
urlavano le proprie idee sul Paese dall’alto di un pulpito. Prestigiatori
vestiti assurdamente ingannavano grandi e piccini con le carte, con i
cappelli, coi nastri di stoffa colorata. Pagliacci coi soliti nasi rossi e
altri ancora più stravaganti facevano finta di litigare e si picchiavano
con enormi clave nodose. Interi sciami di turisti sudati si muovevano
lentamente sotto il peso di zaini e marsupi. Truffatori esperti
irretivano i passanti per spillare loro qualche peseta nei modi più
disparati. Spacciatori di ogni droga possibile sussurravano la propria
merce a possibili acquirenti. Ritrattisti e caricaturisti avevano la fila di
persone che volevano una propria immagine da portare nelle proprie
case. E ovunque femmine meravigliose.
Sembra un luogo comune ma non lo è. Più che in ogni altra località, lì
ci sono ragazze bellissime che non ci si stanca mai di ammirare,
mentre fanno comparsa in quella frenetica passerella cosmopolita, per
poi sparire in un attimo e lasciare posto ad altre creature deliziose.
– Che roba! Non so se posso resistere a tante emozioni!
– Se vuoi mandiamo a cagare l’Africa e stiamo qua un mese.
Non vedremo l’equatore ma torneremo a casa molto paghi, ne sono certo!
MARCO
ANDREA
52
– Mi fa male solo guardarle. Penso a quante donne avrei potuto conoscere
se avessi fatto l’Università e fossi venuto qua in Erasmus. Altro che banca!
ANDREA – È uno dei miei più grandi rimpianti non avere fatto l’Erasmus. Ho
degli amici che hanno vissuto qua un anno e tutte le sere si facevano delle gran feste
sino al mattino e sempre ragazze diverse da tutto il mondo. Non hanno fatto molti
esami, ma cosa vuoi studiare in un posto così? Hanno poi recuperato in Italia.
MARCO – Non li biasimo di certo, hanno tutta la mia approvazione e la mia
invidia. Soprattutto invidia, direi.
MARCO
Arrivò il cameriere e ordinammo una caraffa di sangria. Il passeggio
cresceva ogni minuto di più, si avvicinava la sera e la città si preparava
a vivere al meglio. Marco bevve il primo bicchiere, si alzò e
scomparve fra la folla per fare alcune riprese con l’ingombrante
videocamera che aveva portato con sé. Io rimasi invece seduto a
sorseggiare e a guardare lo spettacolo. Dopo un po’ mi voltai e vidi
nuovamente la statua di Colombo che indicava il mare. Era la stessa
di sempre, ma in quel momento quell’immagine assunse un significato
diverso, sembrò suggerirmi di andarmene, quasi come se il mio
destino mi volesse altrove. Colombo era giudicato un pazzo, con la
sua mania di sfidare l’ignoto, proprio come noi. E il braccio della
statua indicava sì l’America, ma prima ancora Gibilterra, la porta
dell’Africa e dell’oceano. Quello che sembrava certo divenne incerto e
cominciai a essere confuso e frenetico. Stare o andare? La movida di
Barcellona o un’infinita e magica cavalcata nella notte, diretto verso
sud? E Marco che ne avrebbe pensato? Era già perso con la
videocamera a immortalare sensazioni e a pregustare la serata e non
sembrava bello ribaltargli tutto quanto con un ripensamento sulla scia
di un’emozione. Tra un pensiero e l’altro il tempo passava e l’amico
non tornava. Dopo un quarto d’ora si fece breccia tra la folla e sedette
al tavolo a bere ancora sangria. Non dissi nulla di quanto stavo
pensando, decisi di aspettare e vedere che aria tirava.
– Che balotta! Però adesso mi fermo. Mi sono stancato di girare, tanto la
gente prima o poi passa di qua e preferisco aspettarla con la sangria in mano.
MARCO
53
– Sei stato via un bel po’! Pensavo avessi incontrato qualche femmina
del posto e mi avessi abbandonato!
MARCO – Avrei fatto male?
ANDREA – No, avrei cercato anch’io una donna degna di nota!
MARCO – Non avresti fatto fatica! Sono tutte degne di nota!
ANDREA – Dove dormiamo stanotte?
Cerchiamo qualcosa in tempo utile per fare una doccia e uscire a cena?
MARCO – Facciamoci un’altra sangria.
ANDREA – Come dire di no?
MARCO – Però non una caraffa, prendiamone solo due bicchieri,
sennò ci ubriachiamo, viene buio, abbiamo tutti i bagagli sulle moto e siamo
veramente in mezzo a una strada.
ANDREA – Sì, dai. Un altro bicchiere e cerchiamo un albergo.
MARCO – Ok. Comunque mentre passeggiavo ho avuto qualche pensiero.
ANDREA – Cosa hai pensato?
MARCO – Ho voglia di stare qua ma anche di partire.
ANDREA – Come in nave, non è cambiato nulla. Abbiamo detto che ci avremmo
pensato sulle Ramblas e ora che ci siamo non riusciamo a prendere una decisione.
MARCO – Già. Che cosa assurda. Anche tu?
Chiunque a Barcellona prima di cena non avrebbe dubbi, si resta e basta.
ANDREA – Ma noi siamo bikers e i veri bikers sentono il fascino della moto.
Praticamente non siamo ancora partiti, se togli i chilometri sino a Genova,
e adesso vogliamo viaggiare, non si può più aspettare, è più forte di noi.
MARCO – Il vero biker non può stare fermo più di un giorno senza cavalcare.
ANDREA – Rimanendo qua potremmo però cavalcare con una delle passanti!
MARCO – Ah ah! Il vero biker ama comunque cavalcare!
ANDREA – E poi Barcellona è vicina a casa e ci possiamo anche venire in un
qualunque weekend con un volo low cost.
MARCO – Che weekend di paura!
ANDREA – Prima Colombo mi ha detto di partire.
Guarda, ha ancora la mano tesa verso l’Africa, ci vuole indicare anche dove si va.
Gli diamo ascolto? Per me è meglio farlo, lui è uno che di viaggi se ne intende!
MARCO – Se siamo bravi e partiamo subito, domattina all’alba siamo ad
Almeria e guadagniamo un giorno. Possiamo dormire mentre siamo in nave.
ANDREA
54
– Guarda che da qua ad Almeria ci sono più o meno mille chilometri,
te l’ho già detto. Coi mono non ce la facciamo.
MARCO – Vabbè, ci fermeremo quando saremo alla frutta, dormiremo su un
prato in autogrill e ripartiremo. Il tempo lo guadagniamo comunque.
ANDREA – Visto che ormai abbiamo deciso di partire è meglio prendere un caffè
doppio per riprenderci, mica un’altra sangria!
MARCO – Prendiamo una sangria prima e un caffè doppio dopo.
ANDREA – Aggiudicato. Il vero biker non rinuncia mai all’ultima sangria.
ANDREA
E fu uno di quei momenti in cui i nostri progetti cambiarono in modo
repentino, la certezza di dormire a Barcellona si trasformò in una
partenza verso le otto di sera. Avremmo percorso l’autopista, l’infinita
autostrada spagnola che arriva sino ad Alicante, poi avremmo
imboccato l’autovia, la superstrada che taglia il deserto ed entra in
Andalusia, forse la regione più bella di tutta la Spagna. Lì avremmo
raggiunto Almeria, la nostra meta, il porto per l’Africa.
Ci lasciammo Barcellona e la sua movida alle spalle ed entrammo in
autostrada con l’ultimo sole in piena faccia. Una volta sull’asfalto i
pochi dubbi svanirono del tutto; eravamo felici di penetrare la notte
coi nostri fari, sollevati dal peso del caldo e del traffico, talmente
entusiasti di essere in viaggio e determinati a raggiungere la meta
entro l’alba che Almeria ci sembrò ormai a portata di mano, anche se
la distanza la conoscevamo bene ed era decisamente notevole.
Ci fermammo a fare benzina in un autogrill appena fuori città e
ripartimmo prontamente. Andavamo ai centodieci per non affaticarci
e risparmiare il motore e le gomme, il buio era sempre più fitto e
respiravamo indisturbati il profumo dell’aria notturna. Talvolta ci
superava qualche auto che sfrecciava veloce e scompariva quasi subito
nell’oscurità. Ci alzavamo spesso dalla sella per dare un po’ di tregua
al nostro fondoschiena, duramente provato dalle implacabili
vibrazioni che ci imponevano le gomme tassellate sull’asfalto.
Facemmo un paio di pause brevi. Non si arrivava mai, la segnaletica
parlava di diverse centinaia di chilometri, non era certo incoraggiante.
Si cominciò a intravedere in lontananza un chiarore, erano le luci della
grande città di Valencia, prima tappa simbolica della nostra trasferta
55
notturna. Avevamo già guidato per circa quattrocento chilometri,
quasi la metà del percorso, ma ci ritrovammo anche molto stanchi.
– Queste gomme tassellate sono un vero pacco!
MARCO – Ho il culo in fiamme, non le affronto più.
ANDREA – Sono fatte per mordere gli sterrati, mica per l’autopista.
Ce le godremo poi. Il vero biker sa dare valore al sacrificio.
MARCO – Non so te, ma io ho un gran sonno.
ANDREA – Anch’io. È meglio se facciamo poche pause lunghe e non tante corte.
Fermarsi il tempo di una paglia non serve a nulla, siamo stanchi uguali.
MARCO – Giusto, ma è quasi l’una e mancheranno seicento chilometri.
ANDREA – Mica pochi, siamo già a pezzi adesso! Peccato, perché il clima è
fantastico e non c’è anima viva. È proprio una notte per viaggiare.
MARCO – Allora viaggiamo, quando non ci stiamo più dentro ci fermiamo,
ci sdraiamo e chiudiamo gli occhi. Facile, no?
ANDREA – È sempre bello dormire sui prati col sacco a pelo, non si perde il
contatto con la madre terra. E poi non costa nulla.
MARCO – La tua moto va bene o fa ancora delle pippe?
ANDREA – Va più che bene, ho guardato. Un po’ d’olio l’ha bruciato ma è
quasi al massimo. Ad Almeria però ci voglio andare a fondo. Prima guardiamo
quando c’è la nave e facciamo i biglietti, poi, se c’è tempo, cerchiamo un meccanico.
MARCO – Andiamo, la notte è giovane!
ANDREA
E ripartimmo. Eravamo quasi certi di non arrivare entro l’alba ma
non era un problema, non potevamo far altro che proseguire. La
lunga, interminabile autopista non ci lasciava tregua, non finiva mai.
Minuto dopo minuto le costanti vibrazioni diventavano sempre più
insostenibili, avevamo già percorso quasi settecento chilometri da
quando avevamo lasciato le Ramblas e non ce la facevamo veramente
più. Erano le cinque e ci trovavamo alle porte di Alicante, circa
duecentocinquanta chilometri alla meta, certamente non tanti, ma
dovevamo dormire, non c’era alcun dubbio.
– Bona! Il vero biker sa quand’è il momento di fermarsi e questo lo è.
MARCO – Sì, bona! Mi stanno per venire i colpi di sonno e non è proprio il caso.
ANDREA
56
– Potremmo dormire là, dietro quelle siepi, vicino ai due camion greci.
– Ok. Il vero biker si circonda di camionisti.
ANDREA – Meglio lì dove c’è gente, piuttosto che da soli.
MARCO – Il mio sacco a pelo puzza di gas di scarico.
ANDREA – Per forza, penzola vicino alla marmitta, devi legarlo più in alto.
MARCO – C’è troppa roba, non so più dove metterla!
ANDREA – Ci pensiamo domani?
MARCO – Sì, dai. Dormiamo un po’.
ANDREA
MARCO
E stendemmo i sacchi a pelo sul prato secco dell’autogrill prima di
Alicante. Da uno dei camion sentivamo russare, il suo autista stava
dormendo dalla grossa, molto più di quello che avremmo fatto noi
per terra. Inoltre stava albeggiando e questo significava che in poco
tempo ci sarebbero stati rumori ovunque, quel posto avrebbe
cominciato a popolarsi e sarebbe stato difficile riposare. Coprimmo
gli occhi con le bandane e tappammo le orecchie con dei pezzi di
carta appallottolati, per isolarci il più possibile dal mondo esterno,
nella speranza di prolungare il sonno di qualche ora.
57
58
ALMERIA
Il motore di uno dei due camion si accese con un rumore fastidioso e
subito l’aria si impregnò di gas velenosi. Sapevamo bene che il nostro
breve riposo era giunto al termine ma rifiutammo l’idea e facemmo
finta di nulla per qualche minuto. Suoni e odori diventarono sempre
più frequenti e insopportabili, così affrontammo la realtà e togliemmo
le bandane e i tappi, collegandoci pienamente con il mondo esterno.
– Che puzza di merda, quel greco ci vuole uccidere!
ANDREA – Non glielo permetteremo. Ci schiodiamo da qua?
MARCO – Dobbiamo farlo, sennò soffochiamo.
ANDREA – Che ore sono?
MARCO – Le otto. Abbiamo dormito neanche tre ore, tra l’altro male perché ho
avuto un gran freddo. In nave mi faccio una dormita che vedi!
ANDREA – È rinfrescato ben bene verso l’alba, anch’io mi sono svegliato più volte
perché mi ero scoperto e avevo i brividi.
MARCO – Come sei messo? Andiamo a fare colazione?
ANDREA – Sì, sì. Ci facciamo delle gran cose calde, così ci ripigliamo.
MARCO
C’era poca gente, soprattutto camionisti che, come noi, avevano
trascorso la notte lì, anche se in modo più confortevole. L’autostrada
era ancora vuota, ogni tanto si vedevano passare delle auto e qualche
gigantesco tir, che scomparivano subito dopo.
Caricammo le nostre cose sulle moto e andammo in bagno a
sciacquarci la faccia nel tentativo di riprenderci, poi ci dirigemmo al
bar dell’autogrill. Ordinammo un paio di paste, due cappuccini e due
caffè e cominciammo così a chiacchierare sulla dolce scia dei ricordi.
– Non ho mai capito se il caffè lungo ha più o meno caffeina
dell’espresso. Mi sembra che non faccia effetto, non mi ripiglio!
MARCO – Non ti ripigli perché hai guidato per settecento chilometri e hai dormito
neanche tre ore con un gran freddo, girandoti e rigirandoti in cerca di pace.
ANDREA – Già. Più che di caffè avrei bisogno di una camera, una doccia calda e
un letto, senza camionisti che rompano i maroni. Ho forse chiesto troppo?
ANDREA
59
– Mi sa che per una condizione del genere dovrai aspettare stasera,
sempre se saremo in Europa.
Di sicuro in Africa troveremo la camera, ma sulla doccia calda ho dei dubbi.
ANDREA – In Marocco non abbiamo mai avuto problemi di docce!
MARCO – Se definisci docce quegli orrori che ci hanno proposto, allora hai ragione.
Ma ti ricordo il cesso dell’hotel di Merzouga, solo per fare un esempio!
ANDREA – Ah ah! Quando stavo per cadere nella turca!
MARCO – Ma ti pare? Costruire una doccia esattamente sopra la turca,
dove la gente caga? Non potevano spostarla di un paio di metri?
Chissà cosa gli passa per la testa!
ANDREA – Mi ricordo bene! Con le mie ciabatte di plastica, in equilibrio sui due
poggiapiedi della turca mentre mi lavavo e sotto di me un buco nero puzzolente.
Se fossi scivolato, adesso non sarei qui a parlarne, sarei morto fra atroci tormenti.
MARCO – E l’acqua era gelata, sembrava di frigo.
E dire che fuori c’era un caldo allucinante.
ANDREA – Come va adesso? Hai ancora freddo o ti sei ripigliato?
MARCO – Va un po’ meglio. Andiamo via di qua?
C’è un sole splendido e ci scaldiamo in strada.
MARCO
Stavamo per entrare in Andalusia, una terra meravigliosa che talvolta
somiglia tantissimo all’Arizona, dove vennero girati i più famosi film
western americani. È un paesaggio splendido, un ambiente dagli
orizzonti immensi e dal terreno arido che lo avevano reso il luogo
ideale per costruirvi alcuni set cinematografici in cui nacquero i
cosiddetti “Spaghetti Western”, film italiani che narravano di imprese
di indiani e cowboy, rapine alle banche, sceriffi e fuorilegge, assalti alle
diligenze, cercatori d’oro e così via. Avevamo visitato un set l’anno
precedente, vicino a Tabernas, una cittadina nel deserto. Si chiamava
“Little Hollywood” e riproduceva un villaggio americano di frontiera
dell’Ottocento. Non ci saremmo tornati ma poco distante c’era un
bellissimo bar nel deserto che avevamo già frequentato nei nostri
viaggi precedenti verso l’Africa, così pensammo di farci un’ulteriore
sosta in quella occasione. Secondo i nostri calcoli avremmo dovuto
raggiungerlo in un’ora e mezza, forse troppo presto per il pranzo, ma
un paio di birre ce la saremmo bevute di sicuro.
60
– Arriviamo ad Alicante, ormai manca poco, poi prendiamo l’autovia
sino a Murcia e arriviamo ad Almeria.
Mi piacerebbe farmi un birrozzo nel solito bar!
MARCO – È sempre buffo dire “il solito bar” riferendosi a posti sperduti e lontani
migliaia di chilometri da casa! Il vero biker è proprio cittadino del mondo!
ANDREA – Del resto ci siamo stati già due volte. L’anno scorso sembravamo
proprio due cowboy moderni, non a cavallo ma in moto!
MARCO – “Oste della malora! Satanasso! Tu e questo schifo di saloon! Due birre
per noi che abbiamo mangiato la polvere e vogliamo sciacquarci il gargarozzo!”
ANDREA – Ah ah! L’avevamo mangiata veramente. Quando hanno fatto lo
spettacolo dell’assalto alla banca hanno tirato su un polverone allucinante.
MARCO – E noi lì, come poveri idioti, a mangiare la polvere per fare delle foto!
ANDREA – Poveri idioti mica tanto, è bello riguardarle.
Ah ah! Stavi proprio bene in catene nella cella dello sceriffo.
MARCO – Anche tu eri bellino sulla forca, con la corda al collo.
ANDREA – Andiamo dai. È giorno fatto e ho voglia di andare al solito bar.
MARCO – I clienti affezionati non si fanno attendere.
ANDREA
La strada era deserta e un magnifico sole splendeva alle nostre spalle.
Dopo pochi minuti l’autopista finì, eravamo giunti ad Alicante.
Evitammo di addentrarci nel traffico cittadino che ci avrebbe fatto
perdere un sacco di tempo e seguimmo le indicazioni periferiche per
la nostra destinazione. Arrivammo a un bivio dove trovammo
un’indicazione dubbia, erano segnalate due strade diverse che
portavano a Murcia: una lenta e panoramica, che certamente valicava
le colline, l’altra a scorrimento veloce, sicuramente meno bella.
Scendemmo dalle moto, accesi una sigaretta e valutammo che fare.
– L’anno scorso non c’era mica questo bivio.
– Anche a me pare di no. Mi sa che ci siamo sbagliati.
MARCO – Vogliamo prendere la superstrada o cavalcare fra le colline andaluse?
ANDREA – Il vero biker ama cavalcare fra le colline andaluse.
MARCO – Sì, dai, facciamo la panoramica.
Dopo i settecentocinquanta chilometri di autostrada ce la siamo meritata!
MARCO
ANDREA
61
– Però il solito bar lo sappiamo raggiungere dalla superstrada, chissà
quest’altra dove passa. Rischiamo di non trovarlo.
MARCO – Non ne ho idea, ma se ci va di culo lo troviamo comunque,
tanto la direzione è sempre quella.
ANDREA – E se non ci va di culo troveremo comunque qualcosa di degno. Questo
deserto è troppo bello, colline brulle e villaggi bianchi, poca gente e tutta cortese.
MARCO – Ti ricordi l’anno scorso quella immagine struggente?
I vecchi che giocavano a domino nei bar coi ragazzi?
ANDREA – Come no! Quando andavo al bar con gli amici giocavo a briscola e a
tresette, ma giocavamo fra noi, non coi vecchi.
MARCO – Vero, nei nostri bar i vecchi e i giovani si mischiano raramente.
Al massimo due chiacchiere, ma i gruppi sono ben divisi.
ANDREA – la Spagna è più sanguigna, più latina.
Penso ci sia maggior rispetto reciproco qua che in Italia, i vecchi stanno bene coi
giovani e i giovani stanno bene con i vecchi.
MARCO – Infatti la Spagna è un Paese più evoluto dell’Italia.
ANDREA – È un bel popolo, sono i nostri veri cugini, più dei francesi.
MARCO – Sono operosi e lavorano bene ma sanno anche divertirsi.
Pensa che quando sono stato con la donna a Siviglia ho visto due suore sedute
sugli sgabelli al banco del pub e si bevevano due birre!
ANDREA – In Italia scene del genere sono impensabili.
MARCO – Sì, decisamente. Siamo più chiusi di questa gente o forse solo più ottusi.
ANDREA – Mi hai fatto venire in mente i monaci che abbiamo visto in Nepal.
MARCO – Quelli in piazza a Kathmandu?
ANDREA – Proprio loro. Appena scesi dai monasteri dell’Himalaya,
con i capelli rasati a zero e le tuniche bianche, il colore della purezza,
al bar a bere Coca Cola e fumare Marlboro. Ah ah! Che immagine strana!
MARCO – Erano viziosi come le suore di Siviglia! Dai, finisci quella paglia che ce
ne andiamo. Sennò ad Almeria non arriviamo più.
ANDREA – Finita. Andiamo per la panoramica, verso nuove avventure!
ANDREA
Ripartimmo verso Murcia, seguendo quella strada che sembrava
promettere tanto bene. Continuammo a salire e a scendere per dolci
colline sotto un sole cocente, non c’era anima viva, ovunque regnava
il colore giallo acceso della terra arida dell’Andalusia e a tenerci
62
compagnia c’era solo il frinire delle cicale. Talvolta incontravamo dei
campi coltivati, segno della vicinanza di qualche piccolo villaggio.
Erano pochi e molto simili fra loro, con le case tutte bianche, i
balconi con ampie ed eleganti inferriate nere e le insegne della San
Miguel, la birra locale, a indicare un bar. All’ombra dei pergolati
stavano gruppi di persone di ogni età che giocavano a domino o
sorseggiavano le cose più varie fra le chiacchiere di paese. Quando
entravamo nei centri abitati andavamo sempre molto piano, non tanto
per gli autovelox, inesistenti da quelle parti, quanto per essere discreti
e disturbare il meno possibile la loro gente.
Ci fermammo in uno di quei paesini ed entrammo in un locale a fare
uno spuntino e berci una birra. Era proprio un bel posto, col suo
ampio banco in legno massiccio e dietro di esso un omone coi baffi
dalla faccia sorridente. Non ci furono dubbi su cosa prendere. Dietro
il gestore c’erano decine di prosciutti appesi al soffitto con corde
molto spesse, che penzolavano diffondendo nell’aria aromi deliziosi.
Il grasso sembrava quasi volesse grondare a terra, erano proprio
invitanti. Mangiammo così due grandi panini con qualche fetta di
crudo e un po’ di formaggio, il tutto innaffiato da ottima San Miguel.
Anche lì c’era tanta gente che sfuggiva alla calura estiva e qualcuno ci
chiese da dove venissimo e dove fossimo diretti.
La provenienza non destò stupore ma la destinazione chiaramente sì.
Il bar cominciò ad animarsi e quasi tutti commentarono le nostre folli
intenzioni. Eravamo fuori dall’itinerario internazionale, quella gente
non aveva spesso a che fare con forestieri e partì così un tam tam che
informò tutti i presenti, sino a quando due anziani dissero all’oste di
offrire birra ai viandanti venuti da lontano.
Ci augurarono buona fortuna ricordando la loro giovinezza, gli anni
della forza del corpo, degli ideali e dei sogni, delle paure e delle
incertezze, dei progetti e dell’azione. Ma non apparivano tristi, il
dialogo con noi giovani non sembrava dare loro malinconia,
ascoltavano quello che dicevamo, manifestavano comprensione e
ammirazione, curiosità e perplessità, ma nemmeno una volta ci
guardarono con sufficienza o ci trattarono con paternalismo. Era un
dialogo alla pari, come quasi mai succede dalle nostre parti.
63
Ricambiammo offrendo loro due sigarette e non si tirarono indietro.
Ci facemmo dieci minuti di conversazione, loro in spagnolo e noi in
italiano, ci capivamo quasi alla perfezione. Un po’ li invidiavamo,
quantomeno per la serenità che traspariva dai modi di fare e dai
discorsi. Avremmo voluto anche noi arrivare alla loro età con quello
spirito, chissà se ci saremmo riusciti, ci dicemmo.
Come sempre ci accadeva, non trovavamo mai il momento di
andarcene. Ci stavamo divertendo, ma avevamo anche voglia di
arrivare al più presto al porto per sapere gli orari delle navi e
organizzarci al meglio. Io avrei anche dovuto cercare un meccanico
capace che mi desse una risposta al problema della carburazione, più
che altro che mi rassicurasse, che mi dicesse che la moto sarebbe
arrivata ad Abidjan senza nessun problema.
Ringraziammo i due vecchi, poi facemmo un saluto collettivo a tutte
le persone del bar e si sollevò un coro di auguri per la nostra impresa.
Ci indicarono la direzione per Almeria e dissero che non ci saremmo
potuti sbagliare. Lasciammo così il villaggio e fummo nuovamente
sulla strada, più assolata che mai. Incontrammo presto alcuni bivi
imprevisti, non riuscivamo nemmeno a trovare la nostra posizione
sulla carta, non sapevamo dove fossimo e non era per nulla facile
capire che fare. Inoltre non si vedevano più indicazioni e non c’era
nessuno a cui chiedere. Ci fermammo così a cercare una soluzione.
– I tipi del bar hanno detto che non ci si può sbagliare e invece ci siamo
sbagliati e non sappiamo dove siamo!
ANDREA – Non ci si può sbagliare se abiti qua dalla nascita,
ma se sei forestiero ti puoi sbagliare eccome!
MARCO – Dove cazzo siamo? Le strade sono messe sempre peggio e non c’è
un’indicazione neanche a pagarla!
ANDREA – Rischiamo anche di girare in tondo per le colline,
magari ci ritroviamo allo stesso bar fra due ore!
MARCO – Almeno passasse qualcuno! È anche l’ora della siesta,
qua se la dormono sino alle cinque e sono neanche le due.
ANDREA – Se ci orientiamo col sole è fatta, almeno troviamo la direzione giusta.
MARCO
64
– Però non adesso. Ce l’abbiamo sulla testa, siamo all’inizio dell’estate e
a quest’ora è allo zenit. Forse potremmo capirci qualcosa più tardi,
quando sarà più basso, adesso non c’è verso.
ANDREA – E cosa facciamo sino a quel momento?
MARCO – Mah, facciamo ancora qualche tentativo, andiamo per di là.
MARCO
Continuammo a vagabondare romantici fra le colline andaluse senza
capirci nulla, comunque felici di guidare nel sole e nel silenzio, era una
sensazione di libertà che conoscevamo bene e che non ci stancava
mai. Ma eravamo anche a pezzi, le tre ore di sonno per terra, il caldo
feroce e la digestione cominciarono a farsi sentire. Feci quindi un
cenno all’amico e mi diressi in una strada sterrata che terminava sotto
grandi alberi che donavano una certa frescura.
– Basta, mi devo fermare, mi stanno per venire i colpi di sonno.
MARCO – Sono il peggior nemico di chi guida.
ANDREA – Io non rischio mai i colpi di sonno.
Appena sento che stanno per venire mi fermo sempre subito.
MARCO – Saggio, sei un vero biker. Ci facciamo una pennichella all’ombra?
ANDREA – Sì, chiudo gli occhi qualche minuto perché non ci sto più dentro.
MARCO – Senti che casino che fanno le cicale! Non dormiremo mai!
ANDREA – Col sonno che ho non c’è dubbio,
tra due minuti sono già fra le braccia di Morfeo, altro che cicale!
MARCO – Io faccio un giretto e torno, vado a scattare qualche foto.
ANDREA – Mettiamo le moto vicino a me, non vorrei mai che qualcuno si
arricchisse a nostre spese mentre sono collassato!
MARCO – In effetti. Non vorrei mai tornare e trovarti senza le moto!
ANDREA
Così organizzammo la sosta necessaria. Mi sdraiai e persi conoscenza,
Marco invece si aggirò per un po’ nei paraggi, poi mi imitò e riposò
all’ombra di uno degli alberi. Le cicale non furono un problema per
nessuno, continuarono a frinire in modo poderoso ma non ci
impedirono di sprofondare in un sonno ristoratore.
Dopo un tempo indefinito un rumore di trattore mi svegliò. Bevvi
dell’acqua, guardai l’orologio e vidi che eravamo lì ormai da due ore.
65
– Sveglia! Sveglia! Sono le quattro! Se non ci diamo una mossa ci tocca
dormire qua stanotte e non ne ho voglia mezza!
MARCO – Sgrunt! Non si può stare in pace neanche in un deserto.
Sei tu che avevi detto “Chiudo gli occhi qualche minuto!”.
ANDREA – Ci voleva proprio questa pennichella, sono un uomo nuovo.
MARCO – Ormai troveremo qualcuno in giro, l’ora della siesta è passata, no?
ANDREA – Non per tutti, ma abbiamo buone possibilità.
ANDREA
E infatti arrivò una macchina qualche minuto dopo e la invitammo a
fermarsi per aiutarci a capire qualcosa di più. Una donna sulla
cinquantina ci spiegò il percorso in modo dettagliato, eravamo
veramente fuori strada ma ne era valsa comunque la pena, avevamo
visto delle cose belle. La salutammo e ripartimmo.
Cominciammo a scendere dalle colline e raggiungemmo finalmente la
vallata in cui correva la superstrada che ci avrebbe portati ad Almeria.
Un cartello indicava venti chilometri all’arrivo, a breve saremmo
arrivati al porto e forse avremmo lasciato l’Europa entro sera.
Non c’era quasi nessuno, viaggiavamo molto distanti l’uno dall’altro,
lui davanti e io dietro. Stavamo per entrare in città e già si vedevano in
lontananza grosse navi, una delle quali sarebbe stata forse la nostra.
Marco sentì alcuni miei suoni di clacson e guardò nello specchietto.
Mi vide gesticolare animatamente, fermo a bordo strada. Non c’era
nessuno a perdita d’occhio e tornò quindi indietro contromano.
– Che c’è? Qualche problema?
– Mi sono cagato in mano! Ho il cuore che va a manetta!
MARCO – Ma stai bene? Cosa ti è successo? Non tenermi sulle spine!
ANDREA – Sì, sono a posto. Stavo andando ai centoventi e improvvisamente il
motore ha cambiato rumore e si è spento. In un attimo si è piantata la ruota dietro
e ho pattinato sull’asfalto. Mi sono sbilanciato e stavo per cadere,
ma ho tirato subito la frizione e mi sono raddrizzato.
MARCO – Minchia! È andata bene, potevi farti molto male! Ma cos’ha la moto?
ANDREA – Non ne ho idea, è appena successo.
MARCO – Me ne intendo il giusto, ma una ruota bloccata non è un buon segno.
ANDREA – Neanche un po’, anzi, è una cosa pessima. Provo a riaccenderla.
MARCO
ANDREA
66
Ma nemmeno il kick starter ne voleva sapere di muoversi. Caricai
tutto il mio peso sulla leva, ma questa non si spostò neanche di un
centimetro. Mi fermai nel timore di romperla.
– Che sudata! Non si muove più il pistone nel cilindro, non c’è verso,
nemmeno coi miei ottanta chili. Rischio anche di spezzare la leva. Cosa facciamo?
MARCO – Avrai mica grippato?
ANDREA – Ma no, ieri sera in autostrada ho guardato l’olio ed era quasi al
massimo. Vuoi che l’abbia bruciato tutto in così poco tempo?
MARCO – Guardiamoci comunque, no?
ANDREA
Mi inchinai a verificare, estrassi l’asta di controllo dal motore e vidi
che era totalmente asciutta, non c’era più traccia d’olio.
– Ho grippato, cazzo! Ho grippato!
MARCO – Se non c’è olio è anche inutile provare a spingere.
Non so come sia messo adesso il motore ma, anche se parte,
non puoi girare senz’olio, altrimenti lo spacchi del tutto.
ANDREA – Questa moto di merda si è ciucciata un pieno d’olio in cinquecento
chilometri, ti rendi conto? Ieri sera era quasi al massimo e adesso non c’è più.
MARCO – Magari perde la guarnizione della coppa.
ANDREA – No, è asciutta e anche il motore è pulito, non ci sono perdite.
Se l’è bruciato tutto in qualche modo. Ma come cazzo ha fatto, non capisco!
MARCO – È inutile che stiamo qua sotto il sole a fare congetture,
chiamiamo un carro attrezzi e facciamoci portare da un meccanico, poi vediamo.
ANDREA – Fanculo, fanculo, fanculo! Ma tu non hai visto se facevo fumo nero?
Per bruciare tutto ‘sto olio ce ne vuole!
MARCO – Di notte è chiaro di no, ma anche oggi ti sono sempre stato davanti e
non ho avuto modo. Se ti stavo dietro mi accorgevo e adesso non eravamo messi
così. Però che dire? Non si torna indietro.
ANDREA – Affrontiamo la dura realtà, chiediamo aiuto.
Vado alla colonnina dell’SOS, ce n’è una dietro la curva.
MARCO – Però in ogni cosa c’è un lato positivo. Se grippavi là dalle cicale erano
ancora più cazzi, almeno qua siamo già ad Almeria. Dico bene?
ANDREA – Fanculo anche Almeria e l’Andalusia. Ho grippato, cazzo!
ANDREA
67
– Magari il pistone si è solo preso una stretta e con l’olio nuovo si può
ripartire. Ci tiriamo dietro delle latte e lo controlliamo a ogni pausa.
Anche se lo brucia basta starci dietro e si va lo stesso.
ANDREA – Speriamo che si possa fare, comunque temo il peggio. Vado e torno.
MARCO
Nessuno dei due pronunciò frasi che mai avremmo voluto sentire.
Eravamo ancora in Europa e rischiava già di saltare tutto. Se la moto
non fosse stata riparabile avremmo dovuto fare una scelta difficile,
forse rinunciare all’impresa e accontentarci di fare i turisti in Spagna,
forse altro, chissà. Un progetto epico, elaborato in mesi, sarebbe
potuto naufragare da lì a breve. Che prospettiva allucinante!
Marco rimase a cuocere sotto il sole, ogni tanto mi giravo e vedevo
che si inchinava sul motore della Suzuki senza un vero motivo, tanto
la situazione era fin troppo chiara. Feci ritorno dopo una decina di
minuti, ero tutto sudato e ancora più teso di prima.
– Non ci rimane altro che aspettare. Abbiamo ancora dell’acqua?
– No, finita.
ANDREA – Bene, siamo a posto così! Non c’è che dire, con ‘sto caldo è proprio
piacevole stare sotto il sole senz’acqua.
MARCO – Bevi quella del radiatore, tanto non lo usi.
ANDREA – Mi accontenterò di un chewingum. E se ci dicono che non si aggiusta?
Che cazzo facciamo? Hai per caso qualche idea? Io personalmente no!
MARCO – Non è il momento di pensarci, ho troppa sete e sono sudato e
appiccicoso. Ne riparliamo dopo che il meccanico ci avrà detto che aria tira e con
una birra grande e fresca in mano.
ANDREA – Il vero biker prende le decisioni importanti con una birra in mano.
ANDREA
MARCO
Rimanemmo in silenzio ad attendere i soccorsi che arrivarono dopo
pochi minuti. Dal carro attrezzi scese un ragazzo della nostra età e ci
disse che avremmo dovuto smontare i bagagli per caricare la moto
sulla rampa posteriore. Il bauletto, due zaini e il sacco e pelo finirono
così in un angolo del veicolo, poi aiutai lo spagnolo nelle operazioni.
Bloccammo saldamente la Suzuki con dei cunei e delle funi e sedetti
con lui nella cabina di guida. Partimmo tutti insieme, Marco ci seguì e
68
percorremmo gli ultimi chilometri che ci separavano dalla città. La
superstrada finì e ci trovammo in mezzo a un’anonima e deserta zona
industriale. Era lì che avremmo trovato l’arbitro del nostro destino. Il
ragazzo scese dal mezzo ed entrò in officina, ne uscì quasi subito in
compagnia di un uomo sui quarant’anni che ci salutò e ci chiese cosa
fosse successo. Prima di affrontare la sentenza congedammo il nostro
soccorritore che manifestava una certa fretta. Marco gli diede quanto
richiesto, lui ci augurò buona fortuna e se ne andò per la sua strada.
Gli atroci dubbi stavano per svanire, eravamo alla resa dei conti.
Non fu di certo una cosa lunga, il meccanico cominciò a muovere
sapientemente le mani sul motore, toccò il kick starter, fece una
smorfia e poi un cenno col capo che significava un inequivocabile no.
– Non mi dire così! Cos’è successo?
MECCANICO – È grippato il motore.
ANDREA – Si può riparare?
MECCANICO – Tutto si può riparare, ma non ne vale la pena.
MARCO – Cosa si dovrebbe fare?
MECCANICO – Dovrei smontare tutto il motore e vedere com’è messo.
Ti costerebbe comunque già troppo di mano d’opera, più del valore della moto.
ANDREA – Ma come ha fatto a mangiarsi tutto l’olio in cinquecento chilometri?
MECCANICO – È un motore a pezzi.
Guarda, ha tutte le guarnizioni messe male, avrà fatto chissà quanti chilometri.
Probabilmente ieri notte si è rotta definitivamente qualche guarnizione che teneva
l’olio al suo posto e se l’è bruciato tutto il carburatore.
MARCO – Il tipo che te l’ha venduta si sarà fregato le mani, avrà detto
“Meno male che ‘sto coglione non se ne è accorto, gli ho venduto questo bocchino a
un milione e due e adesso posso andare a sperperare il suo denaro!”.
ANDREA – Quello stronzo! Avrà tirato giù i chilometri,
qua indica quarantamila, ma chissà quanti ne ha!
MECCANICO – Quarantamila? Con delle guarnizioni messe così ne avrà almeno
il doppio. Questo motore tra l’altro è già stato aperto e hanno rifatto chissà cosa,
non escludo che abbia passato i centomila.
ANDREA – Che bastardo. Ma dimmi, ad Almeria ci sono i ricambi Suzuki?
ANDREA
69
– Sì, però quelli delle moto più recenti. Questa ha almeno quindici
anni e qua non ho nulla, dovrei sentire a Siviglia, là hanno tutto,
ma ci vogliono dei giorni e un sacco di soldi.
MARCO – Non abbiamo né tempo né soldi.
ANDREA – Quanto tempo?
MECCANICO – Se non ci sono problemi posso aggiustarla in una settimana,
ma ripeto che non ne vale la pena.
Te lo dico contro il mio interesse, ci guadagnerei veramente tanto.
MARCO – A questo punto non ti chiedo nemmeno il costo,
una settimana da stare ad Almeria non ce l’abbiamo di sicuro.
MECCANICO – Dove stavate andando?
ANDREA – In Costa d’Avorio.
MECCANICO – Con delle moto così? Sono troppo vecchie! Anche la Yamaha ha i
suoi anni. Ah ah! Siete pazzi, ma se non avessi tutto questo lavoro verrei con voi!
MARCO – La mia va ancora bene!
ANDREA – La tua.
MECCANICO – Mi dispiace ragazzi, ma siete rimasti con una moto sola.
MARCO – Cosa possiamo fare?
MECCANICO – Tirate via la targa, limate il numero di matricola sul telaio per
evitare problemi e lasciatela qui. La demoliamo noi. Poi in Italia dichiarate che la
moto si è rotta in Spagna, consegnate targa e libretto e chiudete la pratica.
MARCO – Tu non hai una moto vecchia da venderci a buon prezzo?
MECCANICO – Io faccio solo riparazioni , ma andate a vedere all’Honda che c’è
sulla strada che va al porto. Hanno sempre tante occasioni,
magari trovate qualcosa che fa per voi.
ANDREA – Intanto smonto le cose che possono esserci utili,
poi limo il numero di telaio e le diamo l’addio. Sob!
MECCANICO – Io adesso torno in officina che ho da fare. Se ti servono attrezzi
prendi pure tutto quello che ti serve, poi me li rimetti a posto.
ANDREA – Grazie, sei molto gentile. A dopo.
MECCANICO
La Suzuki era morta, senza più nessun’ombra di dubbio. Il meccanico
aveva emesso la sentenza che tanto temevamo di sentire e
sprofondammo in un silenzio per noi innaturale, ci era passata la
voglia di scherzare. Cominciai ad armeggiare sul cadavere a due ruote
70
alla ricerca di qualche ricambio che potesse tornarci utile, anche se
non sapevo per cosa. Nonostante l’infinito sconforto, Marco trovò la
voglia di girare qualche ripresa con la videocamera, fece qualche
zoomata sul motore, sulla mia faccia e sull’officina.
In tutti i nostri viaggi avevamo sempre documentato gli eventi
negativi con foto o con riprese, in una sorta di celebrazione che
imponeva di sdrammatizzare la realtà e di documentarla, certi che un
giorno avremmo guardato quelle immagini con la stessa nostalgia
dedicata agli eventi piacevoli. Un viaggio era fatto di tante situazioni,
belle e brutte, e ciascuna di esse meritava spazio nella nostra mente.
Riuscivamo sempre a scherzare su ogni cosa, a non farci travolgere
dal destino, a trovare il lato comico in vicissitudini che avrebbero
fatto sprofondare quasi tutti nella desolazione.
– Proprio un bel film stai facendo, non vedo l’ora di essere a casa per
riguardarlo. Potresti fare un montaggio di tutte le immagini sfigate raccolte in
questi dieci anni di viaggi!
MARCO – Già! Ne abbiamo un bel repertorio!
ANDREA – Tipo le foto nell’ufficio di Surti, a Bombay,
quando ci hanno detto che la moto non poteva essere sdoganata e che l’avrebbero
trattenuta al porto per chissà quanto tempo.
MARCO – O quelle fatte l’anno scorso a Dakhla, quando non ci hanno accettati
in carovana per andare in Mauritania e siamo tornati con le pive nel sacco.
ANDREA – O quelle in Turchia, al porto di Cesme,
quando ci hanno soppresso la nave e costretti a stare lì una settimana.
MARCO – E anche quelle in autogrill a Roma, quando tornavamo dalla Sicilia e
abbiamo forato la domenica pomeriggio sul raccordo anulare.
ANDREA – Per non dimenticare il viaggio capostipite delle sfighe!
Le foto di Londra e del nostro camper aperto, quando ci hanno derubati!
ANDREA
Nel novembre 1991 eravamo partiti con altri due amici da Novellara e
avevamo raggiunto Londra con un camper preso a noleggio. Era il
nostro primo vero viaggio, un’avventura attraverso l’Europa che
aveva sancito in via definitiva la nostra fratellanza e spirito
d’avventura. Gli altri due ragazzi scomparvero dalle nostre vite dopo
71
alcuni anni, mentre io e Marco continuiamo tuttora imperterriti a
scrivere pagine di storia in comune. In quella occasione qualcuno
entrò nel camper, rompendo e asportando un finestrino, e ci rubò la
scorta di birra; un danno dal valore ridicolo, ma che ci costrinse a un
ritorno in Italia decisamente freddo. Coprimmo alla meglio l’enorme
buco con dello scotch e dei cartoni e ripartimmo, ma ugualmente
l’ambiente era gelato. Una situazione disagiata e sicuramente poco
divertente, ma noi già scherzavamo su tutto e ci divertimmo a
fotografare i segni dell’effrazione, assolutamente convinti che un
giorno ci avremmo riso sopra. E così era sempre stato.
– Potremmo montare un film intitolato “Le sfighe di due giovani bikers”!
ANDREA – Che cazzo facciamo a ‘sto giro? È vero che le altre volte che ci è
successo qualcosa abbiamo sempre trovato una soluzione, ma adesso la vedo grigia.
MARCO – Finisci di limare il telaio, io intanto smonto la targa.
Poi tiriamo giù le lampadine e gli specchietti che possono tornarci utili e andiamo a
berci una birra. Bisogna pensarci con molta calma.
MARCO
In poco tempo facemmo il tutto, chiamammo il meccanico e gli
chiedemmo dove mettere ciò che restava della mia moto. Ci indicò un
angolo dove abbandonarla e così facemmo.
La Tenerè era appoggiata sul cavalletto, smontammo i bagagli di
Marco e li appoggiammo a terra insieme ai miei. Era evidente che non
avremmo potuto caricare tutte quelle cose su un solo mezzo,
saremmo caduti dopo pochi metri. C’erano due bauletti, quattro zaini
e due sacchi a pelo, oltre a vari sacchetti di plastica con materiale
misto che non eravamo riusciti a far stare da nessuna parte.
Chiedemmo al meccanico di lasciare il tutto nella sua officina per
poterci muovere liberamente in città alla ricerca di una soluzione. Ma
cosa avremmo cercato? Cosa volevamo fare?
Per il momento ci interessava solo sederci al banco di un bar a
ristorarci, a mente lucida avremmo trovato le risposte che cercavamo.
Si tornò quindi alla formula abituale delle nostre avventure, guidai
infatti la Yamaha e Marco sedette sul retro. Dopo poche centinaia di
metri trovammo un anonimo locale e ordinammo due birre a banco.
72
– Bene, bando allo sconforto. Il vero biker sa leccarsi le ferite e trovare
presto soluzione a ogni cosa, quindi cerchiamola.
MARCO – Abbiamo solo la Tenerè. Andare in Africa con una moto sola mi
sembra improbabile, ne avevamo già discusso abbondantemente prima di partire.
ANDREA – Basterebbe che tu tenessi due zaini in spalla, poi leghiamo un
bauletto sopra l’altro con delle fascette, fissiamo le altre due borse dietro e mettiamo
le borsine sparse sul portapacchi anteriore.
MARCO – E magari diamo anche un passaggio a qualcuno.
ANDREA – Vabbè, basta scherzare che è quasi sera e siamo nella merda.
Finiamo la birra e andiamo all’Honda, se riusciamo a comprare un buon usato ci
saltiamo fuori, sennò altro birrino e ci pensiamo. Proviamo?
MARCO – Proviamo.
ANDREA
Ripartimmo nel traffico di Almeria, una città non bella, moderna e
portuale, popolata da varie razze, tranquilla e poco stimolante. Se
fossimo rimasti a piedi a Barcellona sarebbe stata una cosa diversa,
ma il pensiero di fermarsi lì più di un giorno era deprimente.
Trovammo presto il luogo che stavamo cercando. Le moto erano
tante ma sembrarono subito costose, molti modelli bicilindrici recenti
stavano in bella mostra a fianco di alcuni mono ugualmente cari,
oggetti da trecentomila pesetas in su, circa quattro milioni di lire.
Chiedemmo informazioni ulteriori al rivenditore ma ci disse che non
avremmo speso meno di quella cifra in tutta la città. Era la disfatta.
Lo salutammo mestamente e risalimmo in sella in silenzio. Ci
fermammo a prendere due lattine di birra in un brutto emporio sulla
strada principale e facemmo quindi ritorno alla tomba della Suzuki.
– Siamo a pecora, abbiamo una moto sola e bagagli per due.
ANDREA – Potremmo lasciare un po’ di bagagli al deposito della stazione dei
treni e tornare in Marocco con la Tenerè, ce lo giriamo il tempo che abbiamo e
ritorniamo qua. Poi io torno in treno in Italia coi bagagli e tu mi segui in moto.
MARCO – Seguo le rotaie sino a casa e tu mi saluti dal finestrino?
ANDREA – Ah ah! Non sarebbe male. Il vero biker ama molto anche il treno!
MARCO – È un po’ un’idea del cazzo, in Marocco ci siamo già stati due volte e
non mi va di viaggiare da solo da qua sino a Novellara. Non mi passa più!
MARCO
73
– Ah ah! Capisco. Allora possiamo andare in Portogallo, che ne dici?
Stessa formula, però torno io in moto e tu in treno.
MARCO – E se provassimo lo stesso ad andare in Costa d’Avorio?
ANDREA – Te lo avevo già proposto, metti due zaini sulle spalle…
MARCO – No, dai. Ci liberiamo dei bagagli superflui e li spediamo in Italia,
poi partiamo con una moto sola e andiamo finché ce la facciamo.
ANDREA – Cioè per poco. La Tenerè si spacca se la carichiamo così sulle strade
dell’Africa. Anche sull’asfalto ci sono buche ovunque, per non parlare della sabbia
e del fango, ammesso che ci arriviamo.
MARCO – Quando si spacca continuiamo in qualche altro modo.
In Africa tutto è possibile, no? E poi a questo punto non ci rimettiamo nulla.
ANDREA – Cioè chiediamo passaggi ai camionisti, usiamo i treni e gli autobus,
andiamo a piedi e cose del genere sino ad Abidjan?
MARCO – Vedremo, abbiamo quasi un mese per arrivarci in qualche modo.
ANDREA – Il vero biker vuole andare ad Abidjan, mica a Lisbona!
Senza compromessi, con o senza moto!
MARCO – O ci andiamo ora o mai più.
ANDREA – Hai ragione, andiamoci ora. Bando alle ciance, organizziamoci e
andiamo via da qua, fuggiamo da questo posto!
ANDREA
Non potevamo credere a noi stessi. Era una disfatta totale, avevamo
speso un sacco di soldi guadagnati faticosamente per nulla, ci
aspettavano alternative proibitive e noi, in neanche un’ora, avevamo
già trovato la voglia di ridere e di progettare.
Il vero biker non si perde mai d’animo e sa sempre trovare la
soluzione giusta, ci dicemmo in vari modi, ormai rinnovati nello
spirito, quasi nulla fosse successo. Avevamo superato il trauma e ci
stavamo riorganizzando al meglio alla luce delle novità sconcertanti.
Marco però dovette affrontare un travaglio interiore che lo turbò
alquanto. Per lui guidare la moto in quel viaggio rappresentava un
traguardo personale di portata immensa. Raggiungere Abidjan su due
ruote era già cosa sconvolgente e gratificante per me, che avevo
tredici anni di esperienza, ma per lui sarebbe stato addirittura epico.
Senza nessuna pratica su moto da enduro, stava per attraversare
mezza Africa, terreno durissimo anche per i piloti della Paris-Dakar, la
74
famosa gara transahariana. La buona volontà c’era tutta e il suo
orgoglio lo portava a una determinazione poderosa che lo avrebbe
certo aiutato a proseguire in ogni situazione. Ma sarebbero stati
elementi sufficienti a sopperire all’inesperienza di guida? Sarebbe
riuscito a cavarsela sui terreni difficili in fuoristrada? Avrebbe avuto la
capacità di affrontare la guida indisciplinata dei camionisti africani?
Conoscevamo il percorso sino a Dakhla, ma da lì in poi era l’ignoto.
Chissà cosa avremmo trovato e in che condizioni! Erano tutte cose
che avevamo già valutato in Italia, il buon senso suggeriva di lasciar
perdere, ma eravamo partiti lo stesso, uno più fatalista dell’altro.
Quel guasto irrimediabile alle porte dell’Africa gli sembrò un segno
del destino, un monito a non proseguire nella guida, a lasciar perdere
l’assurdo e pericoloso progetto di condurre la Tenerè attraverso il
continente nero. Si era già cimentato a sufficienza in Europa, non
poteva tirare troppo la corda, era rischioso.
Si sarebbe affidato a me, che guidavo enduro da tanto tempo e avevo
esperienza di viaggio sui terreni più disparati, ma soprattutto lo avevo
sempre riportato a casa sano e salvo. Di me si fidava, le moto le
conoscevo bene, ero capace e prudente. Anche quella volta avrei
quindi avuto la responsabilità di entrambi e saremmo arrivati in
qualche modo ad Abidjan. Era fatta, avevamo trovato la soluzione.
– Alla fine, gira e rigiri, guidi sempre tu.
ANDREA – Squadra che vince non si cambia.
MARCO – È un segno del destino, non devo guidare in Africa,
troppo rischioso per me.
ANDREA – Non la pensavi così fino a poco fa.
MARCO – Ora la penso così per forza.
ANDREA – Mi dispiace, veramente.
MARCO – Forse è meglio così.
ANDREA – Se qualcun altro ti sentisse, ti farebbe rinchiudere in un manicomio.
MARCO – Ma tu hai capito cosa intendo, vero?
ANDREA – Sì, ti conosco bene. Ci divertiremo comunque, non sarà un motore
del cazzo a toglierci l’entusiasmo. Arriveremo ad Abidjan, costi quello che costi!
MARCO – Bravo! Costi quel che costi! Queste sono le parole di un vero biker!
MARCO
75
– Il vero biker rimane vero biker anche quando non guida la moto!
– Allora io sono un vero biker, non ho più dubbi.
ANDREA
MARCO
Che belli che eravamo, con il nostro entusiasmo che non conosceva
mai fine! Per il momento bastava trovare un hotel, portarci in qualche
modo i bagagli e fare una lunga doccia. Ormai era calata la sera,
avevamo tante cose da sistemare ed eravamo stanchi e sudati.
L’indomani avremmo dovuto fare una selezione e spedire in Italia un
po’ di cose, poi ci saremmo informati sulla prima nave in partenza per
il Marocco e avremmo lasciato quel luogo di lacrime.
– Cerchiamo un hotel nuovo o andiamo in quello dell’anno scorso?
MARCO – Bah, non mi ricordo neanche bene dov’è, comunque è uguale.
Tanto qua siamo in Europa e non dovremmo trovare nulla di troppo indegno.
ANDREA – Ti devo ricordare Gomez?
MARCO – No, ti prego, l’avevo rimosso! Che schifo!
ANDREA – Avevi rimosso Gomez? Ma come? È stato il capostipite dell’orrore!
ANDREA
Stavamo rievocando il primo viaggio in Africa, quando giungemmo in
piena notte ad Algeciras, vicino a Gibilterra, per traghettare in
Marocco. La prima nave sarebbe partita in mattinata e decidemmo
così di cercare un albergo per dormire qualche ora. Presto fatto,
l’Hotel Gomez ci aspettava proprio a poca distanza dalla banchina e
ci sembrò decisamente un’ottima soluzione.
Dopo avere suonato un campanello, ci venne ad aprire un piccolo
uomo scheletrico e orrendo, vestito solo con uno slip bianco. Ci
assegnò una camera con due letti e lì conoscemmo per la prima volta
l’orrore. Una volta scoperte entrambe le lenzuola trovammo ampie
macchie gialle che ricordavano, nel loro insieme, una sagoma umana.
Inoltre, all’altezza dei genitali il colore assumeva un tono rossastro,
tipico delle perdite mestruali. Sicuramente il signor Gomez cambiava
raramente o mai la biancheria, forte del fatto che i clienti fossero tutti
occasionali e non avessero alternative economiche per dormire al
porto, così risparmiava sull’igiene e faceva un sacco di soldi. Da quel
giorno avremmo conosciuto miriadi di sistemazioni analoghe, a volte
76
anche molto peggiori, ma la prima volta non si scorda mai. Avevamo
ricevuto una sorta di battesimo del viaggiatore e non ci saremmo più
meravigliati di nulla, almeno questo pensammo in quel momento, ma
nuove e ancora più terrificanti scoperte nei tempi a venire ci
avrebbero fatto cambiare decisamente idea.
Abbandonammo quindi la rievocazione e non perdemmo tempo a
cercare alloggio, così entrammo nel primo posto dall’aspetto non
troppo caro e presumibilmente pulito. Ci venne assegnata una camera
in un due stelle qualunque, senza personalità, un luogo anonimo in
una strada anonima, che ci andava comunque più che bene, visto che
con la testa eravamo già in Marocco e sicuramente anche oltre.
– Mi caccio una lavata che mi levo la prima pelle!
– Basta che non mi secchi tutta l’acqua calda, c’è un boiler ridicolo.
ANDREA – Non ti preoccupare, sarò parsimonioso.
MARCO – Intanto tiro fuori i vestiti da sera.
ANDREA – È importante essere eleganti.
MARCO – Ci aspetta una seratona in questa città del cazzo!
ANDREA – Penso che sia la più brutta della Spagna.
MARCO – Mi sa di sì, è veramente un posto insignificante, ma tanto dobbiamo
solo fare venire domani. Nei prossimi giorni ci aspetta di meglio, sai cosa intendo.
ANDREA – Già so, già so.
ANDREA
MARCO
Quella dei vestiti da sera era una situazione abituale che si
riproponeva ogni volta che andavamo in moto da qualche parte.
Qualunque fosse la scelta dello spartano e inadeguato abbigliamento
motociclistico, nel bagaglio avevamo sempre una maglia e un paio di
jeans puliti che indossavamo solo la sera, dopo la doccia, per uscire.
Non si sporcavano mai e potevano resistere anche un mese di fila
senza accusare i segni del tempo, ci facevano sentire bene e ci
consentivano di entrare nei locali senza vergognarci. Dopo la meritata
doccia indossammo quindi i vestiti da sera e uscimmo a passeggio sul
lungomare. Andammo al ristorante cinese dell’anno prima, ci eravamo
trovati bene e avevamo voglia di certezze, di un luogo noto e
familiare, se così si può dire, in cui trovare la quiete necessaria per
77
metterci nel nuovo ordine di idee e lanciarci al meglio verso la nostra
meta. Era un cinese come tanti, non diverso da uno qualunque in
Italia, dove mangiammo le solite cose e bevemmo una bottiglia di
rosso spagnolo per allentare ulteriormente la tensione, anche se ormai
eravamo sereni e forse lo stress diventava solo un pretesto per
giustificare il nostro vizio. All’uscita facemmo due passi per l’anonima
città, ci concedemmo qualche drink e facemmo molte chiacchiere sul
passato e su ciò che ci avrebbe atteso nel prossimo mese. Almeria
non ci offrì spunti interessanti per fare tardi e ci venne presto voglia
di riposare. Erano stati due giorni allucinanti e l’indomani avremmo
dovuto essere al meglio per affrontare una giornata molto importante.
78
NADOR
La luce del sole si infiltrò fra le tende oscuranti e presto ci fece capire
che il nuovo giorno era ormai giunto. Difficilmente all’estero è
possibile trovare tapparelle o scuri alle finestre, pare che il buio sia
gradito solo a noi italiani e che gli altri popoli lo detestino, così
appena albeggia è molto difficile non accorgersene.
Si sentivano i soliti rumori della città, una certa frenesia del tutto in
linea con il nostro stato d’animo. Dopo l’ozio rilassante della sera
prima era giunto nuovamente il tempo di agire e di cose da fare ne
avevamo ben tante. La prima in assoluto era sicuramente riuscire a
creare un bagaglio trasportabile sulla Tenerè, valutando pertanto quale
fosse la possibilità di carico del mezzo per liberarci così del materiale
superfluo, che avremmo quindi inviato in Italia con un corriere.
– Buongiorno amico! Il mattino ha l’oro in bocca,
il sole ci sorride e l’Africa ci attende. Ci schiodiamo dal letto?
MARCO – Avrà anche l’oro in bocca ma io sono stanco.
ANDREA – Beh, siamo andati a letto alle due e adesso sono le nove,
ce la possiamo fare. Ascolta me: io mi alzo, vado in bagno e mi ripiglio,
intanto tu ti rigiri un po’ nelle coperte così sei meno scorbutico!
MARCO – Bisogna sentire dal tipo dell’hotel se ci dà il nominativo di un corriere
per spedire la roba in Italia.
ANDREA – Ci vado io quando esco dal bagno, poi non sto a risalire.
Ti aspetto giù per la colazione, così ottimizziamo i tempi.
MARCO – Ok, allora io mi rigiro un po’ nelle coperte, così sono meno scorbutico.
ANDREA – Bravo. A dopo. Spero con buone nuove!
ANDREA
Scesi nella hall e contattai la reception, chiesi se conoscessero
qualcuno che si occupasse della spedizione. In pochi minuti un
incaricato fece alcune telefonate e alla fine mi disse che non ci
sarebbero stati problemi, un corriere era disponibile al trasporto e
sarebbe venuto a ritirare la merce direttamente in albergo. Mi sedetti a
tavola in attesa della colazione, ma Marco continuava a non farsi vivo.
79
Speravo che non si fosse riaddormentato e mi toccasse tornare in
stanza a svegliarlo, ma arrivò poco dopo. Appariva molto sereno.
– Allora? Ti sei ripreso?
MARCO – Dopo la doccia il mondo mi sorride, prima invece mi era ostile!
ANDREA – Già.
MARCO – Allora? Novità?
ANDREA – Sì, il tipo della reception ha trovato un corriere,
viene a prendere la roba appena è pronta. Non ho parlato di soldi,
anche perché non sappiamo ancora quante cose dobbiamo dargli.
MARCO – Già. Ci aspetta una mattinata intensa, abbiamo un sacco di cose
da fare e non sappiamo nemmeno a che ora parte la nave.
ANDREA – Chiediamo al tipo della reception. Gli romperemo un po’ i maroni,
ma poi gli daremo la mancia e lui sarà contento, no?
MARCO – Il vero biker sa ricompensare adeguatamente le persone giuste!
ANDREA – E sa essere spietato con quelle ingiuste.
MARCO – Chiedi tu che siete già amici?
ANDREA – Vado. Tu intanto prendi del cibo anche per me che arrivo.
ANDREA
Appresi con piacere che l’hotel offriva ai propri clienti diversi servizi
utili, tra cui quello che ci serviva. Non avremmo dovuto faticare oltre,
sembrava che il nostro viaggio stesse per ripartire dopo il brusco stop.
Tornai al tavolo a godere la colazione e vidi che Marco era già seduto.
– Tutto a posto!
– Bene.
ANDREA – Non solo mi ha detto l’orario della nave,
ma addirittura ci compra lui i biglietti. Che uomo eccezionale!
MARCO – Cazzo, che servizio completo! E dire che non è un albergo di lusso.
ANDREA – Beh, siamo in un porto, qua l’economia ruota intorno alle navi,
ci sta che tutti siano un po’ imbazzati.
MARCO – A che ora parte?
ANDREA – Questo pomeriggio alle sei, bisogna essere sul molo mezzora prima.
ANDREA
MARCO
80
– Prima dobbiamo selezionare i bagagli, consegnare imballato quello che
è da portare in Italia, caricare tutto sulla Tenerè e cercare un rivenditore Yamaha
per vedere se ha il cavo che si è rotto. Tutto qua. Giornata tranquilla, direi!
ANDREA – Già, sempre ammesso che il problema sia il cavo, il che non è detto.
MARCO – Non ne ho idea. Sei tu l’esperto di moto, mica io!
MARCO
Il giorno prima il contachilometri della moto di Marco aveva smesso
di funzionare. Non era certo un problema grave, soprattutto perché
sarebbe rimasto quello della Suzuki che ci avrebbe potuto dare le
indicazioni utili. Ma visto che la mia moto non c’era più, l’assenza di
quel piccolo strumento pesava come un macigno.
Stavamo per attraversare mezza Africa, su asfalto e chissà quali piste,
senza sapere nulla sulla strada fatta e su quella da fare per raggiungere
la meta. Avremmo potuto calcolare sulla carta una qualunque tappa e
valutare le distanze, ma sarebbe stato comunque un viaggio alla cieca.
Occorreva porre rimedio ed eravamo sicuri che in una città grande
come Almeria non sarebbe mancato di certo un centro di assistenza
Yamaha col cavo che ci serviva, o forse ci limitavamo a sperarlo. La
nave era prenotata, avremmo quindi selezionato al più presto i bagagli
e destinato tutto il tempo restante a risolvere quel problema.
– Vabbè, andiamo a chiudere la questione bagaglio,
poi sistemiamo la questione contachilometri.
MARCO – Così forse chiuderemo la giornata in bellezza, senza altre questioni.
ANDREA
Prendemmo l’ascensore e arrivammo alla stanza. Era tutto sparso
ovunque e non sapevamo da dove iniziare per capirci qualcosa.
– Che pacco, non ne ho voglia un cazzo!
– Chiamiamo il tipo della reception e facciamo fare tutto a lui!
È così gentile… Noi stiamo sul letto e gli diciamo cosa fare. Che ne pensi?
MARCO – Alla faccia della lauta mancia! Io vorrei essere pagato molto bene per
mettere mano a questo orrore! Guarda che casino, è una cosa improponibile!
ANDREA – Dai, affrontiamo la realtà. Questo lavoro s’ha da fare!
MARCO – Già, non c’è verso, s’ha proprio da fare. Facciamolo, allora!
MARCO
ANDREA
81
– Allora inizia tu, che hai le idee più chiare. Cosa spedisci a casa?
– Mah! Non è semplice. Sulla moto ci stanno il bauletto, una borsa,
i sacchi e pelo e poco altro. Ora abbiamo due bauletti, due borse e tanto altro!
ANDREA – Calcola che faremo il bucato una volta alla settimana,
quindi dobbiamo tenere sette mutande, sette paia di calze e sette magliette
per cambiarci dopo la doccia.
MARCO – Poi ci sono gli irrinunciabili abiti da sera. Molliamo i sacchi a pelo.
ANDREA – I sacchi a pelo non si toccano, altrimenti ci ammaliamo!
Chissà quante sistemazioni fetenti troveremo! Ci faranno rimpiangere Gomez!
MARCO – Dormiremo sotto le stelle, è più bello e soprattutto più pulito.
ANDREA – Senza tenda? Ma se arrivano degli animali cosa gli vai a dire?
ANDREA
MARCO
Eravamo sempre più coscienti del fatto che una giusta selezione fosse
infattibile. I bagagli erano già stati limitati all’inverosimile prima di
partire e in quel momento ci si trovava a dimezzarli ulteriormente.
Sembrava non esserci via d’uscita, poi Marco ebbe un’idea.
– Nel baule metti le tue poche cose e sopra ci leghi la borsa con le mie.
Poi leghiamo i sacchi a pelo ai due lati e in cima al bagaglio fissiamo quello che
utilizziamo spesso, tipo l’antipioggia, la giacca a vento, i guanti e così via.
ANDREA – Che ideona innovativa! Grazie al cazzo!
Ma le poche cose nel bauletto e nella borsa sono comunque troppe per starci.
MARCO – Spediamo a casa le magliette, le mutande e le calze e vedrai che lo
spazio si trova. Le cose importanti sono la telecamera e la macchina fotografica,
mentre tutto il resto è sacrificabile!
ANDREA – Il vero biker rinuncia alle mutande ma non alla videocamera.
Ma tu sei fuori! Andiamo via senza intimo di ricambio?
Alla prima sera, dopo la doccia, ce ne pentiremmo amaramente. O ci mettiamo la
roba sudata o giriamo coi jeans senza mutande, è un’alternativa inquietante.
MARCO – Beh, teniamo due ricambi a testa, ogni sera laviamo il tutto e mettiamo
a stendere, la mattina è asciutto e via che si va. Facile, no?
ANDREA – Che storia! Attraversiamo il Sahara e l’Africa nera senza vestiti.
Non siamo mica a posto, tu meno di me, visto che l’hai proposto!
Comunque è un’ottima idea, anch’io non voglio rinunciare alla videocamera.
MARCO – Che cosa meravigliosa! Sarà bello rivedere il film da vecchi sul divano!
MARCO
82
– Ah ah! Già. Non vedo l’ora di essere vecchio per rivedere il film!
– Allora è fatta, ci aggiorniamo fra qualche decina d’anni. Adesso
diamoci dentro che ci schiodiamo da qua e andiamo a sistemare il contachilometri.
ANDREA
MARCO
In fondo sapevamo già che, nonostante l’ingombro fosse eccezionale,
saremmo partiti praticamente senza vestiti, ma andava bene così.
L’importante era tenere con noi solamente la voglia di fare, tutto il
resto era superfluo, sicuramente utile ma non indispensabile. In poco
tempo consegnammo in reception una quantità considerevole di
bagagli e il responsabile telefonò al corriere che arrivò dopo pochi
minuti. Valutammo insieme il peso e il costo della spedizione: si
parlava di cifre da capogiro.
– Il signore chiede la rispettabile cifra di trentamila pesetas per fare
arrivare tutti i bagagli a casa mia.
ANDREA – Merda, ma sono un casino di soldi!
A occhio e croce, più di trecentocinquantamila lire!
MARCO – Siamo messi così. Che facciamo?
ANDREA – Paghiamo e andiamo in Africa.
Questa Europa è sempre più cara, prima ce ne andiamo, prima risparmiamo.
MARCO
E un altro tassello del nostro puzzle si era collocato al suo posto.
Sicuramente il materiale da spedire valeva meno della cifra chiesta dal
corriere, ma la stanchezza mentale derivata dagli ultimi eventi era a
livelli di saturazione e volevamo ripartire al più presto. Pagammo tutti
i nostri creditori e montammo in sella alla Yamaha, nuovamente
pronti a riprendere il viaggio interrotto dalle avversità e dalla mia
leggerezza nel gestire la Suzuki. Era strano e piacevole constatare
come un ribaltamento totale della prospettiva di viaggio fosse stato
accettato da entrambi con serenità. Ci trovavamo nuovamente in
movimento, quasi come nulla fosse accaduto, lanciati verso sud. Mi
domandai se la moto avrebbe retto tutto quel carico, se sarei stato in
grado di affrontare le piste in due coi bagagli. Avevo guidato in
fuoristrada più volte, ma quello che ci attendeva era realmente
misterioso, pertanto non avevo nessun termine di paragone.
83
Così smisi di farmi domande, tanto non avrei avuto nessuna risposta.
Non restava altro da fare che andare avanti sino al nuovo, inevitabile
imprevisto, tanto una soluzione l’avremmo trovata comunque. La
cosa essenziale e imprescindibile era solo l’incolumità fisica. Nessuna
nostra azione avrebbe dovuto minimamente metterci in pericolo in
qualche modo, né in strada né in pista. Se la moto fosse risultata
inguidabile in qualche frangente l’avremmo caricata su un camion, ma
di certo non mi sarei arrischiato in una guida in cui non potessi avere
la piena padronanza del mezzo. Agli occhi di molti nostri amici
apparivamo irresponsabili, ma in realtà eravamo saldamente attaccati
alla vita e, sebbene facessimo cose molto estrose, non ci sentivamo di
rischiare nulla, non ne valeva mai la pena. Il brivido del rischio era
un’emozione che non ci apparteneva, la ritenevamo ostile e non
piacevole. Un incidente stradale è una cosa orribile, può succedere di
tutto, la vita può cambiare radicalmente o addirittura avere fine. Noi
lo sapevamo bene, visto che eravamo entrambi usciti da un anno di
Servizio Civile in Croce Rossa e avevamo prestato soccorso a un
sacco di persone stese sull’asfalto, ma non tutte ce l’avevano fatta.
Rimanemmo qualche minuto in silenzio, ognuno assorto nei propri
pensieri, poi accostai vicino a un’officina moto vista di sfuggita.
– Andiamo a sentire se ci aggiustano il contachilometri.
MARCO – Parcheggia qua, entro io, tu bada ai bagagli.
ANDREA – Meglio. Non vorrei mai che ci rubassero le uniche mutande rimaste!
ANDREA
Dopo un minuto Marco uscì con un ragazzo che indossava una tuta
Honda, probabilmente ci avrebbe dato la consulenza necessaria.
– Il cavo che vi serve lo potete comprare proprio vicino al porto,
c’è un rivenditore Yamaha. Ma avete visto con che catena girate?
È kaputt! Come dite voi in Italia?
ANDREA – Beh, il concetto è chiaro, è da sostituire. Bene! Stavolta sono bastati
solo dieci minuti per avere un nuovo problema, stiamo facendo progressi!
MECCANICO – Ma avete intenzione di andare lontano con questa catena?
MARCO – Beh, sì, la dovremmo usare molto. Stiamo andando in Costa d’Avorio.
MECCANICO
84
Non so se quel ragazzo dall’aria poco sveglia avesse idea di cosa si
stesse parlando, comunque la destinazione aveva un nome che
suonava di posto lontano e inaccessibile, quindi il peggiore nemico di
una catena molto usata: kaputt, per usare il suo colorito linguaggio.
– Ma il tuo meccanico del cazzo non ci aveva guardato?
MARCO – Sì, gliel’ho chiesto. È uscito dall’officina, ha guardato la catena e mi ha
detto “Vai tranquillo, Marco!”. Mi ha dato una pacca sulla spalla,
se n’è tornato al lavoro e non mi ha più cagato.
ANDREA – Non c’è che dire, una diagnosi professionale,
effettuata con accurati strumenti di misurazione!
MARCO – Ha detto “Vai tranquillo” e io me ne sono andato tranquillo.
Del resto, cosa dovevo fare?
ANDREA – Ah ah! Andare tranquillo! Hai fatto bene!
ANDREA
La solita storia: ci eravamo affidati a degli incompetenti che facevano
le cose in modo approssimativo, con una leggerezza superiore
addirittura alla nostra. Ed eccoci quindi a traghettare per l’Africa con
una moto stracarica e una catena ormai da sostituire. Comunque non
c’era molto da dire, potevamo solo cercare il modo di andare avanti.
– Ce la puoi cambiare?
MECCANICO – Non ho il pezzo, dovrei ordinarlo e ve lo monterei fra due giorni.
ANDREA – Ti ringrazio, ma la nave parte fra poco e non possiamo perderla.
MECCANICO – Ok, allora andate piano e tenetela ingrassata. In bocca al lupo!
ANDREA
Ci recammo a comprare il cavo del contachilometri, lo sostituimmo
ma lo strumento continuò a non funzionare. Sicuramente si era rotto
qualche ingranaggio, dunque sarebbe stato necessario ordinare l’intero
pezzo e aspettare che arrivasse, ma non avevamo tempo. Non ci
pensammo troppo, perché eravamo già ridotti ai minimi termini e un
problema del genere diventava un dettaglio secondario.
– Vabbè che siamo veri bikers e che ci adattiamo alle avversità, però…
ANDREA – Abbiamo cominciato male, già. Una moto su due dopo tre giorni.
MARCO
85
– Come se non bastasse, la moto superstite minaccia di decomporsi in
breve tempo. Se ci va di lusso ci troviamo ad attraversare l’Africa alla cieca,
senza sapere quanti chilometri abbiamo fatto e quanti ne mancano.
ANDREA – Beh! Come i grandi esploratori del passato!
Anche loro brancolavano nel buio e guarda cosa hanno scoperto.
MARCO – Il vero biker è un esploratore, mica guarda il contachilometri!
ANDREA – Già, è addirittura contrario, vero? Ma adesso basta stare in Europa,
saliamo sulla nave! La prossima volta che toccheremo terra sarà in Africa.
MARCO – La grande madre!
MARCO
Sbrigammo rapidamente le formalità doganali e salimmo a bordo. La
nave batteva bandiera spagnola ed era stracolma di africani. Si trattava
perlopiù di intere famiglie, probabilmente emigrate, che facevano
ritorno a casa per le ferie, ma non mancavano anche molte persone
sole. I bianchi invece erano veramente pochi, perlopiù giovani
dall’aspetto trasandato, un po’ come noi.
Quando entrammo nella stiva della nave vedemmo macchine
ovunque, tutte stracolme di bagagli; innumerevoli valige stavano
accatastate sui portapacchi, legate con corde più o meno artigianali.
Quando le famiglie africane si spostano portano una quantità di
oggetti assolutamente impensabile per un occidentale, sembra che
traslochino la casa intera su un’automobile. Ci domandavamo spesso
come facessero quei poveri mezzi a sopportare tali sforzi e la risposta
ce l’aveva insegnata Riccardo: in Africa tutto è possibile. Sapevamo
che avremmo avuto ancora molto da imparare, ma stavamo per
entrare in una grande scuola e noi eravamo allievi veramente motivati.
Legammo la moto in un punto indicatoci da un addetto e salimmo sul
ponte a dare l’ultimo saluto alla nostra terra.
– Ciao Europa! Andiamo tra le braccia della grande madre Africa!
MARCO – Bella ‘sta nave, c’è un sacco di roba. Guarda là,
preparano pollo allo spiedo e patatine. Ti va di fare uno spuntino di qualità?
ANDREA – Sì, certo. Sai che quando c’è da mangiare e bere non mi tiro indietro.
MARCO – Ah ah! Lo so! Aspettiamo che la nave salpi o ci abbuffiamo subito?
ANDREA
86
– Possiamo fare entrambe le cose insieme. Compriamo il cibo, poi ci
polleggiamo su quegli sdrai di fronte al parapetto e mangiamo mentre si va.
MARCO – Buona idea, così ci godiamo la brezza marina e la luce del tramonto.
ANDREA
E così facemmo. La nave partì, molte persone si congedarono con
ampi gesti di braccia dalla propria gente rimasta a terra, ognuno con la
sua storia. La costa spagnola si fece sempre più lontana e la luce del
sole sempre più bassa, sino a tramontare sul mare.
Saremmo arrivati a Nador dopo circa sei ore di viaggio, quindi ne
approfittammo per riposare un po’ all’ombra dell’ultimo sole e
recuperare energie che avremmo speso in seguito. Ci svegliammo che
era già buio e faceva molto fresco, in lontananza si vedeva un
chiarore, segno inequivocabile di terra. Stavamo per sbarcare in
Marocco e sarebbe cominciato quello che per noi era il vero viaggio.
– Ti sei riposato? Perché adesso si fa sul serio, sai? Siamo in Marocco!
ANDREA – Cazzo, ci pensi? Sono già tre volte che ci veniamo!
MARCO – Già. 1994, 1999 e adesso.
ANDREA – Secondo te, qual è stato il viaggio più bello? 1994 o 1999?
MARCO – Beh, la prima volta è stata magica, tutto era nuovo, tutto ci stupiva,
ma abbiamo visto ben poco. La seconda volta invece c’era meno stupore,
ma l’abbiamo girato da cima a fondo. Quanti chilometri abbiamo fatto?
ANDREA – Novemilacinquecento, ma siamo partiti da Gibilterra e abbiamo
fatto più strada europea di stavolta. Calcola oltre quattromila solo in Marocco.
MARCO – Che viaggio spettacolo!
ANDREA – Sì, ma che cambiamenti rispetto alla prima volta.
Sono bastati cinque anni di distanza e sembrava quasi di essere in un altro Paese.
MARCO – È uno Stato in via di sviluppo, di forte sviluppo.
Mi sa che nei prossimi anni ne vedremo delle belle!
Saremo noi italiani a migrare in Marocco e non viceversa!
MARCO
La situazione politica del Paese era in forte cambiamento. Nel 1994,
in occasione del nostro primo viaggio, ci trovammo a vivere una
realtà quasi magica e ci sembrò veramente di essere in un’altra
dimensione. Il mondo europeo, tecnologico, ordinato ed efficiente
87
che conoscevamo sin dalla nascita scomparve, lasciando spazio a
un’altra dimensione, dove l’ordine delle cose era differente. Ai bordi
delle strade si trovava di tutto. Interi gruppi di persone camminavano
in zone deserte, spesso seguiti da muli, pecore e capre che
procedevano ordinatamente e colmavano distanze elevate fra un
paese e l’altro. Altri ancora stavano seduti nel nulla in attesa di nulla.
Talvolta faceva la sua comparsa qualche dromedario domestico,
impiegato per il trasporto di frutta e verdura.
In ogni villaggio che attraversavamo c’erano bambini sorridenti che ci
guardavano e salutavano festosamente e quella immagine ci fece
riflettere sul fatto che dalle nostre parti i bambini non girassero più da
soli. Se ne vedevano sino alla fine degli anni Ottanta, poi qualcosa è
cambiato, le famiglie hanno cominciato a tenerli più in casa o
comunque in centri di aggregazione, mai veramente liberi.
Ma nel 1999, dopo soli cinque anni, la situazione si presentò
sensibilmente diversa. Noi eravamo certamente meno inclini allo
stupore, visto che non si trattava più di un impatto con una novità ma
di un gradito ritrovamento di un ambiente già conosciuto, ma non
potemmo fare a meno di notare, con un po’ di malinconia, che tutti
quegli aspetti che rendevano il Paese così diverso dal nostro stavano
lentamente mutando verso una dimensione più occidentale.
Il progresso consentiva al Marocco di essere più efficiente ed era una
cosa buona ma, d’altro canto, quei cambiamenti andavano a discapito
della sua identità. Un fenomeno che, visto su larga scala, avrebbe
portato inevitabilmente, nel tempo, a un appiattimento delle culture e
per noi viaggiatori, alla ricerca di diversità, rappresentava pertanto un
ineluttabile elemento triste e fastidioso, da evitare il più possibile. Era
un Paese meraviglioso, certo, ma in quel nuovo viaggio del 2000 lo
avremmo attraversato in pochi giorni, per dedicare più tempo
possibile alla scoperta del Sahara e dell’Africa nera, probabilmente
non ancora raggiunti dal temuto e anelato progresso.
– Siamo arrivati, si scende! Sbarchiamo in Africa dopo solo un anno.
– Dopo tutta ‘sta nave ho proprio voglia di farmi un bel giro in moto.
ANDREA
MARCO
88
– Ce la toglieremo presto, fidati. Anche se adesso è quasi mezzanotte e
mi sa che la cosa migliore sia trovare un hotel e dormire.
Domattina presto ci si sveglia, si cambiano i soldi e si va a manetta verso sud.
MARCO – Speriamo di non impiegare quattro ore in dogana come nel ’94 a
Ceuta! A quest’ora mi scenderebbe un po’ la catena.
ANDREA – Ma no, dai. L’anno scorso c’abbiamo messo un’oretta.
I marocchini sono diventati efficienti.
MARCO – Sì, ma l’anno scorso eravamo a Melilla, non a Ceuta.
Ti ricordi a Ceuta? C’era quella famiglia marocchina bloccata in frontiera da due
giorni. Poveretti, era come se li avessero sequestrati!
ANDREA – Sì che mi ricordo. E mi ricordo ancor meglio che sembrava non
fregargliene un cazzo, quasi fosse una cosa inevitabile, un ovvio prezzo da pagare
per attraversare il confine. Comunque stavolta non è né Ceuta né Melilla,
ma Nador. Un’altra dogana ancora, speriamo.
MARCO – Hanno un altro senso del tempo, non c’è che dire. Se da noi non parti
subito quando il semaforo diventa verde la gente strippa e comincia a suonarti,
come se quei due secondi in più cambiassero le sorti dell’intera giornata.
ANDREA – Già, altri ritmi, altri tempi. Noi sicuramente siamo più nevrotici,
anche se più efficienti. Ma bando alle ciance, hanno aperto il portellone! Andiamo!
ANDREA
Entrammo subito in dogana, compilammo alcuni moduli e ci vennero
apposti i timbri sui passaporti. Dopo nemmeno un’ora eravamo liberi
e il giorno dopo avremmo potuto spaziare per tutto il Marocco.
Nador è una città portuale e come tale è piena di alberghi di ogni
genere, così non fu certo difficile trovarne uno. Scaricammo l’enorme
bagaglio e legammo la moto di fronte all’hotel. L’albergatore ci disse
che sarebbe stata sorvegliata tutta la notte da una persona preposta. Ci
venne assegnata una stanza con una bella finestra affacciata sulla
strada principale, con due letti singoli e bagno con doccia.
– Eccoci pronti alla prima notte africana. Chi si lava per primo?
MARCO – Fallo tu, io faccio qualche ripresa con la videocamera, c’è un gran bel
passeggio qua sotto. Anche se non è certo niente di nuovo, è sempre molto bello.
ANDREA – Ah ah! Spostati, fammi vedere i soggetti del nostro splendido film!
ANDREA
89
– Che storia, siamo proprio in Marocco. Con quegli abiti e l’oscurità,
questa gente sembra che stia girando in pigiama.
ANDREA – Ultimamente se ne vedono anche a Bologna. Nel ‘94 non ce n’era
quasi nessuno, ora invece sì. Le cose stanno cambiando molto velocemente.
MARCO – Anche a Novellara ce ne sono, ma la maggioranza degli stranieri da
noi sono indiani col turbante, non africani.
ANDREA – Ma come si chiama il vestito lungo fino ai piedi che noi definiamo
“pigiama”? Avrà bene un nome!
MARCO – Boh, non so. Chiederemo.
ANDREA – Vado a lavarmi, buona ripresa.
MARCO
E così a breve fummo entrambi a letto. Per l’indomani avevamo
previsto una tappa di quasi seicento chilometri per giungere sino a
Khenifra, la città delle cicogne, un posto meraviglioso dove gli animali
che portano i bambini nidificavano ovunque. Una tappa sincera,
pesante, che meritava di essere affrontata nel pieno delle forze.
90
KHENIFRA
La giornata appena trascorsa non era certo stata pesante, i letti erano
comodi, l’ambiente silenzioso e ci svegliammo così di buon’ora,
molto riposati. Per motivi mai chiariti, durante i nostri viaggi io mi
alzavo quasi sempre per primo. Anche se, nella quotidianità, Marco
era abituato a svegliarsi molto presto per motivi di lavoro, quando si
era in viaggio la situazione si ribaltava ed ero sempre io, in un tacito
gioco di ruolo, a spronare il dormiglione che non voleva alzarsi.
– Dai, sveglia, il mattino ha l’oro in bocca!
MARCO – Grrrammpprr…
ANDREA – Cazzo hai detto? Cosa stai borbottando?
MARCO – Ho detto “Adesso arrivo”, intanto vai in bagno tu.
ANDREA – Mentre ti ripigli preparo la mia borsa. Schiodati però!
Sono le otto, dobbiamo fare seicento chilometri, non prendiamocela troppo comoda!
MARCO – Dobbiamo anche andare in banca a cambiare i Traveller Cheque.
ANDREA – Già, motivo in più per raggiungere la posizione eretta.
Scendiamo, facciamo colazione, torniamo su a prendere le borse e mentre io carico i
bagagli tu vai in banca a cambiare gli assegni. Facciamo così?
MARCO – Ok, adesso mi schiodo.
ANDREA
E così facemmo. Caricare i bagagli non fu cosa semplice; mi trovai
presto circondato da una piccola folla di curiosi e qualcuno, divertito,
fece qualche commento col vicino. Innumerevoli elastici e strani nodi
sfidavano le leggi della fisica e facevano sì che quella creazione non
rovinasse a terra. Era veramente un carico impressionante,
continuavo a domandarmi se avrebbe tenuto o se dopo poche curve
non sarebbe invece caduto tutto a terra. Marco uscì dalla banca
soddisfatto, aveva cambiato i Traveller Cheque senza problemi e lo
avevano riempito di dirham, la moneta marocchina. Eravamo quindi
pronti a partire, così salutammo la folla di curiosi e ci dirigemmo
verso Guercif, una piccola, anonima città sulla strada per Fes. Distava
centocinquanta chilometri e sarebbe stata la nostra prima tappa.
.
91
Il rumore della moto era veramente poderoso, la marmitta Arrow
conferiva al monocilindrico un suono simile a quello di un trattore.
Ogni tanto Marco mi urlava qualche commento dal retro della sella.
– Guarda quei bambini che fanno i tuffi!
Usano il canale di bonifica in cemento come fosse la piscina comunale.
ANDREA – Da noi ti farebbero la multa. In Italia non puoi fare quasi niente!
MARCO – Già. Guarda come si divertono!
ANDREA – Vuoi fermarti a fare un tuffo con loro?
MARCO – No, dai, siamo appena partiti.
Avremo modo più avanti di fare un po’ di balotta.
ANDREA – Allora vado.
MARCO
Una delle caratteristiche del nostro modo di viaggiare era proprio
quella. Il muoversi insieme sulla stessa sella, piuttosto che su due
mezzi diversi, era indubbiamente scomodo, ma permetteva di fare
tanti piccoli commenti immediati alle molteplici realtà in cui ci si
trovava in modo repentino, situazioni che duravano pochi secondi
per sfumare nello specchietto retrovisore subito dopo. Il continuo
scambio di informazioni ci arricchiva enormemente e il trovarsi a
farlo anche in quella occasione era meraviglioso. Ormai avevamo
dimenticato la morte della Suzuki, eravamo in viaggio, come sempre.
Appena usciti da Nador il traffico scomparve, la strada scorreva
diritta in un’ampia vallata e potei pertanto guidare a una buona
velocità, macinando in poco tempo i chilometri che ci separavano da
Guercif. Non era ancora ora di pranzo, non avevamo granché fame,
ma ci fermammo comunque per uno spuntino in quel luogo anonimo.
– È un po’ bruttino ‘sto posto, non c’è un cazzo.
– Uno dei tanti paesi senza identità lungo la strada.
ANDREA – Va molto di moda la Mercedes da queste parti! Guarda là!
ANDREA
MARCO
Indicai un’area recintata, dentro la quale erano parcheggiate almeno
un centinaio di Mercedes, tutte bianche, tutte usate, tutte in vendita.
92
– I tedeschi sanno farsi apprezzare. Nonostante il prezzo, le Mercedes
sono proprio presenti in tutto il mondo.
ANDREA – Chissà a chi pensano di vendere cento macchine così in una zona
come questa. Vabbè che i ricchi sono sparsi ovunque, ce ne saranno anche qua.
MARCO – E tutti compreranno la stessa macchina bianca.
ANDREA – Così non c’è neanche l’imbarazzo della scelta.
MARCO – Come sei messo? Ripartiamo o stiamo?
ANDREA – Ripartiamo, senza dubbio. Non sono per niente stanco e questo è un
posto senza nulla da vedere, tolte le Mercedes, s’intende.
MARCO – Prossima tappa? Fes?
ANDREA – Tangenziale di Fes. Non entrerei in città,
sennò finisce che ci fermiamo e a Khenifra non si arriva.
MARCO – Peccato, è una città meravigliosa.
ANDREA – Forse la più bella del Marocco, ma l’abbiamo già visitata l’anno
scorso. Stavolta abbiamo un altro obiettivo, non lo scordare!
MARCO – Non me lo scordo. E poi le cicogne di Khenifra sono fantastiche,
con la luce del tramonto faccio delle gran foto.
ANDREA – Andiamo, allora. Bando alle ciance!
MARCO
Ripartimmo così alla volta di Fes, una tappa di circa duecento
chilometri in una grande vallata più bella della precedente. La strada
scorreva deserta al suo interno, alla nostra destra c’era la ferrovia che
portava alla grande città e ancora più in là le propaggini estreme della
catena montuosa del Rif. Alla nostra sinistra si vedevano nitidamente i
primi monti dell’Atlante, la spina dorsale del Marocco, che taglia
l’intero Paese da nord a sud. Il cielo sereno, l’aria tersa e il clima
fantastico rappresentavano le condizioni ideali per fare qualunque
cosa, soprattutto un viaggio in moto.
A un certo punto costeggiammo un grande lago sulla destra e
consultammo la carta per capire dove ci trovassimo. Vedemmo con
gioia che Fes era molto vicina, infatti dopo circa venti minuti si stagliò
di fronte a noi l’imponente sagoma di quella che ritengo sia la più
bella fra le città imperiali. È sede di una prestigiosa Università, ma è
famosa soprattutto la sua Medina, patrimonio mondiale dell’umanità.
Avevamo stabilito di fermarci poco, giusto il tempo di bere qualcosa e
93
fumare una sigaretta, poi saremmo ripartiti verso la nostra meta per
raggiungerla prima del tramonto, quando c’è la luce ideale per le foto.
– Ed eccoci a Fes!
MARCO – Sembra ieri che ci siamo venuti ed eccoci ancora qua.
ANDREA – Il vero biker ha una sua personale cognizione del tempo.
MARCO – Allora niente Medina?
ANDREA – Direi di no, niente Medina stavolta.
Meglio le cicogne di Khenifra all’ombra dell’ultimo sole, non credi?
MARCO – Sì, stavolta sì. Tra l’altro, se non ricordo male,
la strada che c’è adesso sale un bel po’, andiamo in montagna!
ANDREA – Sì, ci arrampichiamo per il Medio Atlante e arriviamo a Ifrane,
poi ad Azrou e dritto fino a Khenifra. Saranno altri duecento chilometri,
ma stavolta ci vorranno almeno tre ore, pause escluse, se ne vogliamo fare.
MARCO – Vabbè, intanto partiamo, poi vediamo come va.
ANDREA
La strada era meravigliosa. I boschi di conifere aumentavano sempre
più, le continue curve dalla traiettoria morbida rendevano la guida
estremamente piacevole e l’aria aveva un fantastico profumo di pino.
Intorno a noi esplodeva incontrastata e sovrana la natura; solo ogni
tanto incontravamo qualche carretto trainato da un mulo e alcune
persone che camminavano in mezzo al nulla, ma non mancavano i
soliti gruppi di bambini che salutavano festosamente, stupiti e felici
della nostra presenza di centauri. Ovunque regnava una quiete totale.
A un certo punto arrivammo a Ifrane, una sorta di Cortina
d’Ampezzo del Marocco, una località montana dove i ricchi
comprano casa a trascorrono i periodi di villeggiatura. È un posto
strano, non sembra nemmeno di trovarsi in Africa. Se non fosse per i
tratti somatici delle persone, per i loro vestiti e per la lingua che
parlano, sembrerebbe una qualunque elegante località delle Alpi.
– Ma qua l’altra volta ci eravamo fermati?
ANDREA – No, nel ‘94 siamo stati ad Azrou, ma qua no. Bello, vero?
MARCO – Bello sì, ma preferisco proseguire sino a Khenifra, è meglio.
ANDREA – Però potremmo anche fermarci un po’ e mangiare polenta e capriolo!
MARCO
94
– Ah ah! Mi sa che assomiglia alle Alpi solo come natura, ma per il
mangiare penso proprio che sia un’altra storia.
ANDREA – Ma tu hai fame?
MARCO – Un po’. Quanto manca a Khenifra?
ANDREA – Centotrenta chilometri, circa un’ora e mezza.
Chiaramente se la strada si mantiene così.
MARCO – Allora andiamo, così ce la prendiamo comoda.
Facciamo le foto e ceniamo in polleggio.
ANDREA – Bene, si riparte! Il vero biker ama ripartire.
MARCO
E i veri bikers ripartirono. Cominciammo lentamente a scendere
verso valle, raggiungendo così Azrou, una località meno elegante di
Ifrane, più popolare, quindi più vicina a noi e alla nostra indole.
Lungo la strada c’erano tantissime persone, molti venditori di
pannocchie abbrustolite e di ogni genere di mercanzia, ma anche tanti
animali da soma e da cortile. Tutti ci guardavano, molti ci salutavano
e noi rispondevamo a chiunque, senza distinzioni. Era soprattutto
Marco quello preposto alle pubbliche relazioni, perché io non potevo
alzare le braccia in continuazione, altrimenti avrei messo a repentaglio
la nostra incolumità. Uscimmo dal paese e fummo colti dallo stupore,
le montagne irradiavano luce riflessa tutto intorno, colorando di
un’incantevole tinta rosa l’intero ambiente. Le ombre diventavano
sempre più lunghe e Khenifra era sempre più vicina. A un certo
punto vedemmo la prima cicogna e capimmo così di essere arrivati.
– Fermati! Guarda là sul tetto!
ANDREA – Ho visto, ho visto! Adesso mi fermo.
MARCO – Che spettacolo. Chissà perché dalle nostre parti non ci sono.
ANDREA – Non ne so mezza di cicogne, però sono fantastiche.
Guarda lì, è gigantesca. Ma come fa a non sfondare il tetto della casa?
MARCO – Ma dai, amico mio! Sono animali aggraziati, mica dei bisonti!
MARCO
Eravamo giunti a Khenifra, nota appunto per quegli animali che dalle
nostre parti non ci sono più. Non so perché ce ne fosse una
concentrazione simile proprio in quella città, erano indubbiamente
95
affascinanti, evocavano qualcosa nelle nostre memorie, qualcosa di
indefinito e ancestrale. Dopo qualche foto ripartimmo. Trovammo un
albergo nel centro della città a un prezzo veramente basso, ma, del
resto, il Marocco era poco dispendioso ovunque.
Dopo esserci lavati ci concedemmo una lauta cena, proprio al
ristorante dell’hotel. Mangiammo una tajine, una sorta di piccola
anfora di terracotta dentro la quale ci può essere di tutto;
normalmente un misto di carni, verdure e spezie, ma su richiesta si
possono fare infinite variazioni. Una volta scelto il contenuto la si fa
cuocere sul fuoco e il prodotto finale è sempre e comunque delizioso.
– Soccia, che mangiata!
MARCO – Era una tajine per quattro persone, quella.
ANDREA – Sai che in Marocco offrono porzioni generose.
MARCO – Facciamo due passi per digerire?
ANDREA – Sì, volentieri. Ci guardiamo qualche faccia, qualche strada e andiamo
in branda. Domani sai cosa ci aspetta?
MARCO – Sì, andiamo a Tiznit.
ANDREA – Che storia! Un anno dopo ci troveremo a ripassare nello stesso luogo
remoto dell’anno scorso. Incredibile!
MARCO – Ci siamo trovati bene, così ci ritorniamo!
ANDREA – Già.
ANDREA
Il giorno dopo avremmo percorso una tappa molto impegnativa, di
circa seicento chilometri, lunga come quella appena conclusa, ma
molto più faticosa e difficile perché ci sarebbe stato più traffico e
avremmo valicato diverse montagne. Volevamo arrivare a Tiznit, una
piccola cittadina alle porte del Sahara. Eravamo già eccitati all’idea,
così finimmo qualche chiacchiera e ci ritirammo nella nostra stanza,
pronti a continuare la traversata di quello splendido Paese.
96
TIZNIT
Il sole ci sorrise ancora una volta, infiltrandosi con violenza fra le
tende della nostra stanza. Nuovamente Marco diede i soliti segni di
insofferenza all’idea di alzarsi e si replicò il solito copione mattutino.
– Guarda che bel sole, amico!
È proprio il giorno ideale per arrivare alle porte del Sahara!
MARCO – Mgrr… Mmm… Grrr…
ANDREA – Smettila di grugnire con la faccia nel cuscino,
sennò mi sembra di viaggiare da solo! Schiodiamoci e andiamo a sud.
MARCO – Che ore sono?
ANDREA – Sette e mezza. A quest’ora sono tutti svegli, manchi solo tu!
MARCO – Vai in bagno che poi ci vado io.
ANDREA
Scendemmo quindi a fare colazione e sedemmo a un bel tavolo di
legno all’aperto, proprio affacciato sulla via principale di Khenifra.
Uova sode, pane, marmellata, succo d’arancia e abbondante caffè si
presentarono di fronte a noi e non ci facemmo certo attendere.
– Buone le colazioni internazionali, si mangia uguale in tutto il mondo!
– Forse questa è una colazione marocchina.
ANDREA – Semmai francese. Mah, bisogna vedere se la gente del posto si sveglia
e mangia così o se è un trattamento riservato agli occidentali.
MARCO – Appena saremo ospiti da qualcuno lo sapremo.
ANDREA – Sei pronto ad affrontare una giornata pesa? Guarda cosa ci aspetta.
ANDREA
MARCO
Stesi sul tavolo la solita carta geografica del Marocco, stampata nello
Studio F.M.B. di Bologna, assolutamente precisa e affidabile. Ormai
era logorata dall’uso, visto che ci aveva tenuto compagnia negli altri
due viaggi, e anche in quel momento non finiva di esserci utile.
– Siamo a Khenifra, ci dirigiamo sempre a sud-ovest sino a Beni
Mellal, sarà un centinaio di chilometri. Vedi qua?
MARCO – Sì, lo vedo. Ma ci fermiamo? C’è qualcosa di bello da vedere lì?
ANDREA
97
– Non so, non penso. È una vallata abbastanza popolata, a vedere la
carta, quindi trafficata. Però da qui a lì c’è qualche curva che ci fa scendere,
poi è una strada dritta, dovrebbe essere scorrevole.
MARCO – Vabbè. Poi?
ANDREA – Poi si segue questa strada lunga lunga in fondovalle.
Guarda, si passa per El Kelaa Des Srarhna…
MARCO – Ah ah! Sono nomi facili! Chiedi tu alla gente le indicazioni?
ANDREA – Sei tu che parli francese! Io ho studiato solo inglese e un po’ di
tedesco. Sai che nei posti francofoni parli tu e in quelli anglofoni parlo io, no?
Adesso tocca a te, mica fare il furbo!
MARCO – Da qua ad Abidjan sono tutti posti francofoni!
ANDREA – Tu curi le pubbliche relazioni, io guido. Ognuno il suo compito, no?
MARCO – Sì, certo. Ma non mi pare che quel posto abbia un nome francese!
ANDREA – Ti offro l’opportunità di allenarti anche con l’arabo.
Cosa vuoi di più? Dovresti essermene grato, invece di brontolare!
ANDREA
Non avevo mai studiato il francese e quel poco che utilizzavo lo
avevo imparato per strada in Africa, nel corso dei viaggi passati,
accennando dialoghi con chi incontravo. Riuscivo solo a parlare di
direzioni da prendere, di ristoranti e hotel, di distanze e passaporti. Il
mio vocabolario era assolutamente limitato e potevo solo
permettermi comunicazioni superficiali, il che mi dispiaceva non
poco. Dove non arrivavo col lessico integravo però con la mimica,
riuscendo comunque a farmi capire.
– E dopo quel posto dal nome impronunciabile dove si va?
ANDREA – Beh, dopo è una bazza, c’è una strada dritta che ci porta alla mitica.
MARCO – Avvicinami la carta, fa vedere.
ANDREA – Guarda qua, non riesco nemmeno a pronunciare il suo nome
dall’emozione! È troppo forte per me!
MARCO
Marrakech, la mitica città imperiale, la porta del sud, la meta per
antonomasia; un luogo fantastico in cui nel ‘94 avevamo trascorso
alcuni giorni indimenticabili. Il pensiero di passarci nuovamente ci
faceva rabbrividire ma, come era appena accaduto per Fes, non
98
potevamo pensare di fermarci nemmeno un attimo. In luoghi del
genere è impensabile concepire una piccola pausa, sono troppo
magnetici. Se ci si ferma si viene attratti in modo irresistibile e la
permanenza è inevitabile. La nostra meta quella volta era la Costa
d’Avorio e una sosta a Marrakech ci avrebbe sottratto tempo prezioso
al raggiungimento dell’obiettivo.
– Certo che passare a Marrakech e non entrare in città è allucinante!
ANDREA – Lo so, però stasera potremo essere a Tiznit, alle porte del Sahara.
L’Africa è grande, l’Africa è mistica, bisogna fare delle scelte.
MARCO – E delle rinunce.
ANDREA – Per ottenere altri benefici.
MARCO – Già.
ANDREA – Dopo Marrakech dobbiamo raggiungere Agadir e abbiamo due
possibilità: una panoramica, meravigliosa ma lunga,
l’altra meno panoramica, meno meravigliosa ma più rapida.
MARCO – Cioè?
ANDREA – Dobbiamo comunque superare la catena montuosa dell’Alto Atlante.
Nel primo caso, strada panoramica, possiamo inerpicarci sul Tizi-n-Test.
Però è molto pesa, si sale a duemilasettecento metri, sono tutte curve, un gran culo,
ma lo spirito ne guadagna assai. Sarà un panorama simile al Tizi-N-Tichka,
il passo che abbiamo valicato nel ‘94. ricordi?
MARCO – Sì, la strada per Ouarzazate e la mitica Zagora,
alla fine della Valle del Draa. È stato il nostro primo impatto col deserto.
ANDREA – Già. Ah! Nostalgia canaglia! Chiaramente, se non avessimo fretta,
ci si potrebbe tornare. Penso che mi struggerei di nostalgia.
MARCO – Ci faremmo solo del male. Ciò che è fatto è fatto, non si può replicare,
si soffrirebbe in un penoso tentativo di ripetizione.
ANDREA – Lo sappiamo già e i veri bikers fanno sempre tesoro delle esperienze.
MARCO
Era emozionante trovarsi in Marocco ed essere nostalgici di situazioni
vissute proprio in quella terra. Il nostro primo viaggio era stato
sicuramente fantastico ma irripetibile e le emozioni che avevamo
vissuto assolutamente uniche. Avremmo potuto ripercorrere le stesse
strade, visitare gli stessi posti, ma lo spirito sarebbe stato differente.
99
Ogni tentativo avrebbe portato inevitabilmente a una delusione delle
aspettative. Stavamo imparando sempre più che non si possono
vivere due volte gli stessi stati d’animo, anche se è una realtà difficile
da accettare. Ognuno di noi serba nel cuore i ricordi delle emozioni
provate, quello che abbiamo vissuto non scompare mai, perché ci ha
fatti diventare ciò che siamo e la forza delle esperienze passate è
sempre dentro di noi. È una legge non scritta, ma inesorabile, quindi è
indispensabile fuggire dalla tentazione di replicare cose già fatte,
meglio rinnovarsi e mantenere sempre lo sguardo in avanti, alla
ricerca di scoperte e non di ritrovamenti.
– La seconda possibilità è invece proseguire in direzione Essaouira e
arrivati a Chichaoua buttarci a sud in questa strada gialla che ci porta dritti
dritti ad Agadir. Così tagliamo fuori in gran parte l’Alto Atlante.
C’è solo un passo a millesettecento metri ma è tutta un’altra storia rispetto al
Tizi-N-Test che sale a duemilesettecento.
MARCO – Meno bella ma meno faticosa. Direi che non ci sono dubbi,
ci faremo già un gran culo così, non chiediamo troppo ai nostri corpi.
ANDREA – E al nostro tempo, anche perché, arrivati ad Agadir,
ci sono più di cento chilometri a Tiznit e sarà già buio.
MARCO – Bene, il piano di viaggio è stato fatto, non ci resta che muoverci.
ANDREA – Facciamolo. Ho proprio voglia di farmi un bel giro in moto!
ANDREA
Partimmo poco dopo le nove e seguimmo il percorso concordato a
tavolino. Mantenni una velocità ridotta nel primo tratto ancora
montuoso, poi potei andare più veloce nel fondovalle. La strada non
era particolarmente trafficata, così arrivammo a Beni Mellal in breve
tempo. Marco mi fece cenno di accostare, quindi raggiunsi il centro
della cittadina e parcheggiai nella piazza principale.
– Guarda, c’è un posto con dei telefoni, ne approfitto per chiamare la
donna, almeno per un po’ di tempo starà tranquilla.
ANDREA – Allora anch’io chiamo i miei, così per un po’ siamo a posto entrambi.
MARCO – Il vero biker è una persona di cuore, ama sedare gli animi apprensivi.
MARCO
100
I telefoni in Marocco erano efficienti ma non presenti ovunque,
soprattutto quando si trattava di fare chiamate internazionali. Nelle
città grandi non era mai un problema, ma nelle aree rurali poteva
essere più difficile. Lì esistevano dei negozi in cui spesso un addetto
abilitava la linea e a fine chiamata si pagava il corrispettivo, ma
talvolta non era possibile farlo. Marco rassicurò la sua fidanzata, io
feci altrettanto coi miei genitori. Per qualche giorno saremmo stati a
posto, avremmo potuto macinare chilometri senza il pensiero di
chiamare a casa. Continuammo a percorrere la vallata che ci avrebbe
condotti a Marrakech e all’ora di pranzo ci fermammo a mangiare
qualcosa a bordo strada, per poi ripartire verso sud-ovest. A metà
pomeriggio giungemmo alle porte della fantastica città imperiale.
– Signori! Marrakech! Sei anni dopo!
MARCO – Più che Marrakech direi… sobborghi di Marrakech!
ANDREA – Io ho ancora un po’ fame. Ci facciamo un altro spuntino?
MARCO – Non si dice mai di no, anche perché, vista l’ora che si è fatta,
mi sa che sarà una sorta di merenda-cena.
ANDREA – Con lo stomaco pieno poi ci facciamo una bella tirata sino al mare.
ANDREA
Così dedicammo una mezzora a mangiare e a bere, sapendo che in
fondo quella sarebbe stata l’ultima pausa prima della tappa più grande
della giornata, oltre duecentocinquanta chilometri sino ad Agadir,
forse la più nota località turistica marittima di tutto il Marocco,
rinomata per le sue enormi spiagge affacciate sull’Oceano Atlantico.
Sedemmo a un tavolino all’aperto in un locale posto proprio in un
incrocio molto grande della periferia di Marrakech, un luogo da
camionisti. C’erano numerosi segnali stradali che indicavano le
principali località già lette sulla carta in mattinata. Facemmo due
chiacchiere con alcuni ragazzi seduti vicino a noi; perlopiù ci chiesero
dove stessimo andando, che velocità facesse la moto e il suo costo.
Erano sempre le stesse domande che ci venivano rivolte in ogni parte
del mondo, soprattutto quando si attraversavano zone un po’ remote.
Ripartimmo alla volta di Agadir. Il traffico diventò più sostenuto,
molti camion ci rallentarono non poco rispetto alle nostre previsioni,
101
così si fece presto buio e la nostra meta era ancora molto lontana. Mi
girai verso Marco per condividere il mio fastidio e urlai nel tentativo
di sovrastare l’assordante rumore del vento.
– Non ne ho voglia mezza di guidare col buio in mezzo ai camion!
– Stai tranquillo, vai piano che non abbiamo fretta.
ANDREA – Lo so! Il vero biker tiene alla sua vita!
MARCO – Se poi sei stanco ci fermiamo prima e ripartiamo domattina.
Tanto a Tiznit mica ci aspetta nessuno!
ANDREA – Lo so, però voglio arrivarci. Così domattina ci lanciamo nel Sahara.
Vuoi mettere? Niente camion, solo sabbia e asfalto e nessun rompicazzo.
MARCO – Io sono a posto, sei tu che guidi.
Se non sei stanco andiamo pure avanti, sennò fermiamoci.
ANDREA – Non sono stanco, solo stressato da ‘sti camion di merda.
Mi fermo per una pausa paglia.
ANDREA
MARCO
Accostai a bordo strada, bevvi un sorso d’acqua e fumai una sigaretta,
mentre Marco ne approfittò per sgranchirsi un po’ le gambe; poi
ripartimmo nel buio totale, in mezzo al traffico pesante. Intanto ci
stavamo arrampicando sulle colline e la temperatura calava sempre
più, non sembrava nemmeno di essere in estate.
La strada iniziò a scendere, in lontananza si cominciarono a vedere le
luci di Agadir e dietro di esse solo il buio dell’oceano. Da lì a Tiznit
occorreva almeno un’altra ora di viaggio, il freddo era sempre più
pungente, la stanchezza sempre più grande e per un attimo pensai di
trascorrere la notte nella grande città, poi vidi l’indicazione per la
nostra meta e non lo proposi neanche. Marco non parlava da tempo,
ma ero abituato ai suoi lunghi silenzi, facevano parte di lui e del
nostro rapporto ormai consolidato in una decina d’anni di esperienze
in giro per il mondo. Infine arrivammo. Le luci della cittadina ci
accolsero e ci dirigemmo direttamente in piazza a cercare una
sistemazione. Appoggiai la moto sul cavalletto dopo oltre seicento
chilometri di curve, traffico, gas di scarico e freddo. Ero molto
contento e fiero di essere giunto sino a lì, il mio amico pure, ne ero
certo, anche se non me lo aveva ancora detto. Una volta entrati in
102
stanza, Marco mi invitò a fare la doccia per primo e non me lo feci
ripetere. Dopo dieci minuti tornai, ero esausto e avevo solo voglia di
dormire, ma mi attendeva una sorpresa.
– Mentre ti lavavi ho scritto due righe che adesso ti leggo.
Mettiti comodo sul letto che ci vuole un po’ di tempo.
ANDREA – Sono appunti di viaggio?
MARCO – No, ti ho dedicato una poesia.
MARCO
Fu il primo slancio affettivo palese nei miei confronti dopo dieci anni
di esperienze grandiose in giro per il mondo. Era ed è un burbero dal
cuore d’oro, però in quella occasione manifestò una parte di sé che
non amava fare trapelare, ma che conoscevo bene.
– Una poesia? Dedicata a me? Amico mio, mi commuovi e mi stupisci!
MARCO – Spero che ti piaccia.
Goditela perché, come ben sai, non è abituale per me dedicare poesie.
ANDREA – Mi piacerà sicuramente! Leggi!
ANDREA
Mi sdraiai sul piccolo letto in attesa e mi accorsi che il mio amico era
imbarazzato. Sedette e accavallò le gambe, poi spostò inutilmente
alcuni oggetti e bevve un po’ d’acqua da un bicchiere.
– La poesia ha anche un titolo, si chiama “Arrivo a Tiznit”. Vado?
ANDREA – Vai, sono pronto.
MARCO – Ok. Arrivo a Tiznit.
MARCO
Avevo un sonno incredibile, faticavo a tenere gli occhi aperti. Sperai
di non addormentarmi durante la lettura, non sarebbe stato di certo
un bel gesto. Marco si schiarì la voce e diede inizio alla lettura.
Aveva temporeggiato abbastanza, il momento della poesia era giunto.
103
ARRIVO A TIZNIT
Fin quando sentirò qualcosa nel giorno dei seicento chilometri,
con il motore fra le gambe, quando il caldo fa posto al freddo
e le pianure alle montagne.
Quando i vestiti non bastan più
e il gelo sale dalle caviglie al collo,
le ginocchia tremano e i denti stringono.
Ma gli occhi guardano sempre più avanti,
fin quando vedrò il buio imporsi sul giorno e, superata l’ultima collina,
spalancarsi il mare nel giorno dei seicento chilometri.
Senza conoscere quanta benzina,
senza sapere quanta strada
e anche quando le pietre miliari t’abbandonano.
Ma d’un tratto, dietro l’albero, un fungo di luci ti mostra la città.
Il sangue ritorna caldo al profumo dell’arrivo, nel giorno dei seicento chilometri,
tagliati dal vento in cambio di un letto corto e una doccia fredda.
Fin quando sentirò qualcosa non rinuncerò a viaggiare con te, Andrea.
----------------------------------------------------Chiuse quindi velocemente il suo notes e mi guardò sorridendo.
MARCO –
ANDREA
Che ne pensi? È sicuramente migliorabile, però mi è venuta così.
– Bellissima, grazie. Hai descritto la nostra giornata con il cuore.
Marco annuì, si alzò, andò in bagno e tornò ad essere il burbero di
sempre. Era stata una giornata pesantissima, ma eravamo soddisfatti
dell’obiettivo raggiunto. L’ipotesi di una cena non venne presa in
considerazione, non avremmo avuto neanche la forza per masticare.
104
LAAYOUNE
La mattina ci ritrovammo molto stanchi. Anche se avevamo dormito
otto ore, i nostri poveri corpi erano ancora provati dalla pesantezza
della tappa precedente e forse avremmo fatto meglio a pensare di
riposarci un’altra mezza giornata ancora. Ma niente da fare, lo spirito
nostro ci imponeva ben altro. Ogni sosta aveva senso solo quando ci
consentiva di vivere situazioni fantastiche, ma se lo scopo era il riposo
non se ne parlava proprio. Inoltre ci aspettava una tappa che
conoscevamo bene, in quanto già percorsa l’anno precedente; non
avremmo trovato traffico, quindi sarebbe stata riposante. In buona
sostanza, nonostante la stanchezza, eravamo nuovamente pronti per
partire. Ci sedemmo così a un tavolino dell’hotel per la colazione.
– Che fattanza! Non so mica se ci sto dentro!
ANDREA – Ma dai, vecchio biker, non rompere i maroni! Cosa vuoi che sia?
Oggi andiamo a Laayoune, sono cinquecentocinquanta chilometri di strada dritta
senza traffico, roba da sbarbi neopatentati!
MARCO – Ho ancora il culo dolente da ieri. Questa moto vibra di brutto!
ANDREA – Tra qualche giorno il tuo culo diventerà un corpo calloso e non ti darà
più da fare. Anch’io comunque sento qualche dolorino,
del resto stiamo pompando non poco! Siamo quasi nel Sahara.
MARCO
E nel dire questo aprii la carta sul tavolo e mi misi di fianco a Marco
per mostrargli le mie ambiziose intenzioni per la giornata.
ANDREA
– Guarda qua. Siamo a Tiznit.
Fra circa novanta chilometri raggiungiamo Goulimine. Te la ricordi?
MARCO – La porta del Sahara Occidentale. Giusto dietro l’angolo.
ANDREA – Patria di sahariani, marocchini, mauritani, militari,
beduini e tuareg e chi più ne ha più ne metta.
MARCO – È strano trovarsi in un luogo così remoto ed esserci stati solo l’anno
scorso. Non ci sono dubbi, ormai siamo proprio di casa!
ANDREA – Ah ah! Già. Perché si sa che il vero biker è di casa ovunque vada.
105
Il Sahara Occidentale è attualmente parte del Marocco, ma sino a
poco tempo fa era un’area in mano agli spagnoli. Quando questi se ne
andarono, il territorio divenne oggetto delle mire di tanta gente: lo
volevano i marocchini ma anche i mauritani e, non per ultimi, gli
abitanti del posto, che ne reclamavano l’indipendenza.
Nacquero così molti disordini che sfociarono in una vera e propria
guerra fra le parti in causa. Fece la sua comparsa il Polisario, un
gruppo armato per la liberazione del Sahara Occidentale, e da quel
momento la situazione non smise mai di essere calda.
Stavamo quindi per entrare in una zona un po’ particolare. Non che
questo comportasse un vero rischio per noi, ma la massiccia presenza
di militari ci faceva sentire in qualche modo meno liberi.
Arrivare a Goulimine, un piccolo paese nel deserto, senza nulla di
che, rappresentava quindi l’ingresso in un territorio affascinante,
molto differente dal Marocco attraversato sino a quel momento, sia
da un punto di vista antropologico che meramente geografico.
– Dopodiché andiamo sino a Tan Tan.
Sarà un altro centinaio di chilometri.
MARCO – E Tan Tan Plage?
ANDREA – Ah ah! Che cazzo di nomi! Lì ci andiamo dopo!
ANDREA
In quel periodo Tan Tan era un’altra località qualunque, uno dei vari
paesi in mezzo alla sabbia e alla roccia. Cambiava il nome ma erano
quasi tutti uguali, la strada principale li tagliava in due e ai lati
sorgevano delle case di mattoni color sabbia. In nessuno di essi
c’erano cose di rilievo da vedere, sembravano tanti villaggi del Far
West americano. Si trovavano bar, ristoranti, abitazioni, negozi, ma
niente di monumentale o artistico. Del resto, quel luogo ha una storia
ben diversa dal resto del Paese, ben lontana dai fasti imperiali di
Marrakech, Fes, Meknes, Rabat e dalle culture rurali del Rif o
dell’Atlante. Si tratta perlopiù di terre totalmente inospitali, senza
acqua e risorse alimentari, dove il clima è ostile. Molta gente era stata
spinta a vivere lì dal Governo di Rabat, che per favorire il
popolamento dell’area aveva proposto condizioni di favore a chi si
106
fosse trasferito. La benzina costava molto meno e per i residenti
erano previsti forti sgravi fiscali. È evidente che tale prospettiva
garantisse un livello di sopravvivenza più decorosa di quanto non
fosse possibile nel nord del Paese, soprattutto alle molte persone che
avevano difficoltà economiche. Il prezzo da pagare era però quello di
trasferirsi nel Sahara, nel nulla, nulla da fare, nulla da conoscere. Ed
ecco che lì si trova anche oggi la gente di frontiera, gente avventurosa,
impegnata nella sopravvivenza e capace di inventare soluzioni agli
innumerevoli problemi quotidiani, quindi gente in gamba.
– A Tan Tan Plage ci passiamo. Se vuoi ci fermiamo a fare altre foto
ai relitti, ma direi di tirare dritto, anche perché non c’è un cazzo.
MARCO – Vabbè, poi vedremo. Tanto sarebbero uguali alle foto dell’anno scorso.
ANDREA
Tan Tan Plage non era nemmeno un paese, ma semplicemente la
spiaggia di Tan Tan. Si trova sull’Oceano Atlantico e da lì inizia
l’infinita strada costiera che corre lungo tutto il Sahara Occidentale.
Durante il nostro viaggio, l’unica cosa interessante erano i relitti di
alcune navi naufragate in vari momenti e che nessuno aveva pensato
di rimuovere. Si trattava di enormi mercantili, talvolta piccoli
pescherecci, comunque barche di varie forme che la furia dell’oceano
non aveva risparmiato, incagliandole nella spiaggia. Emanavano un
certo fascino, sicuramente un po’ spettrale, ma erano corpi senza vita
che non meritavano troppo, meglio dedicarsi a conoscere le persone.
– E poi via che si va, sino a Dakhla!
Anche se oggi non ci arriveremo di sicuro, direi di dormire a Laayoune.
MARCO – Che sono già cinquecentocinquanta chilometri!
ANDREA – Già… e a Dakhla ne mancheranno quasi altrettanti.
MARCO – Anche se volessimo farlo non ne avremmo il tempo, ci arriveremmo alle
tre di notte. Sempre che al buio non andiamo a sbattere contro qualche cammello!
ANDREA – Il vero biker non ama stamparsi sui cammelli.
MARCO – No, il vero biker ama vederli e cavalcarli, ma non scontrarsi con loro!
ANDREA – Ah ah! Certo che ‘sto vero biker è proprio un uomo intelligente!
ANDREA
107
Le nostre solite amenità sottolineavano il fatto che eravamo sì
temerari, ma non del tutto incoscienti. Raggiungere Laayoune era
assolutamente alla portata, ma andare oltre no, soprattutto in un
territorio come quello. Dakhla è una località a sud di Laayoune,
anch’essa sul mare, ma per raggiungerla occorrono almeno altre
cinque ore. Le distanze fra un luogo e l’altro sono molto elevate,
spesso diverse centinaia di chilometri, e in quei tratti non c’è
assolutamente nulla. Viaggiare di notte è quindi molto rischioso, si
può andare a sbattere contro un cammello, di cui la zona è piena, e
comunque nell’oscurità e nella solitudine più totale ogni eventuale
problema diventerebbe ingestibile. Non vale inoltre la pena
raggiungere un paese di notte, perché si troverebbe tutto chiuso e non
ci sarebbe modo di ristorarsi e di fare alcunché.
– Beh, a questo punto partiamo, tanto la strada la sappiamo, no?
ANDREA – Ah! Sahara Occidentale! Terra nadal!
MARCO – Ma questo è proprio quel tratto di strada dove l’anno scorso stavamo
per soffocare per il caldo?
ANDREA – Già. Ti ricordi quel canyon? Che cazzo di caldo c’era?
MARCO – Sì, sembrava di avere un phon puntato in faccia.
ANDREA – Speriamo fosse un momento eccezionale.
Vabbè che era anche metà luglio.
MARCO – Capirai che differenza! Adesso siamo a fine giugno!
ANDREA – Ah ah! Non puoi capire le stagioni sahariane.
Pochi giorni fanno la differenza!
MARCO – È vero, non posso capire. Andiamo?
Ho voglia di prendere un po’ di caldo.
ANDREA – Presto sarai soddisfatto.
MARCO
Così a metà mattinata lasciammo la piazza di Tiznit, un luogo che
quasi nessuno conosce, eppure per noi tanto familiare. L’anno
precedente ci trovavamo proprio lì in un bar e avevamo assistito,
insieme a una folla locale, al discorso in televisione che Re
Mohammed VI aveva fatto in occasione del suo insediamento al
trono. Egli è il figlio di Hassan II, morto dopo decenni di governo
108
indiscusso, e, per nostra sfortuna, il decesso era avvenuto proprio
mentre noi passeggiavamo per Rabat. Temevamo il peggio, il popolo
era in subbuglio. Non sapevamo quale fosse la situazione politica, la
cosa certa era che un momento del genere rappresentava forse la
condizione ideale per un colpo di Stato da parte delle fazioni
islamiche estremiste e questa prospettiva ci inquietava non poco.
Ma nulla accadde, perché il Marocco non era e non è come gli altri
Stati dell’Africa settentrionale. Sebbene non manchino inevitabili
contrasti al suo interno, il Governo è solido e gli estremisti sono una
minoranza ben controllata. Si tratta di una popolazione tranquilla,
penso sostanzialmente soddisfatta di come vive e di chi la comanda.
Passammo quindi davanti allo stesso bar, era pressoché deserto, così
non ci fermammo nemmeno e proseguimmo verso sud. Appena usciti
dalla città vidi un affascinante cartello segnaletico e accostai.
– Che ne pensi?
MARCO – Cazzo! Foto!
ANDREA – L’anno scorso ci era sfuggito.
MARCO – O forse non c’era.
ANDREA – Mancano cinquecentoquarantanove chilometri a Laayoune.
E fino a qua lo sapevamo già.
MARCO – Millenovecentosessantadue chilometri a Nouakchott.
Quando ci arriveremo?
ANDREA – Nei prossimi giorni, chissà.
MARCO – Per non parlare dei duemiladuecentocinquantasette chilometri che
mancano per raggiungere Saint Louis!
ANDREA – No, parliamone! È appena oltre il Sahara, è già in Africa nera!
MARCO – Cazzo! Dobbiamo attraversare duemiladuecentocinquantasette
chilometri di deserto? È improponibile!
ANDREA – Sì. Che bello!
MARCO – E che caldo!
ANDREA
Era curioso gestire nomi di luoghi così remoti come si parlasse di
località dietro casa, ma la pianificazione di quel viaggio ce li aveva resi
familiari. Nouakchott è la capitale della Mauritania, Saint Louis la
109
seconda città del Senegal, entrambe poste sulla Western Sahara Route,
che noi avevamo l’onore e il piacere di percorrere. Ripartimmo di
slancio, avremmo voluto già essere a Saint Louis, ma ci
accontentammo di un traguardo più vicino.
Ci fermammo quindi a Goulimine, la porta del Sahara Occidentale,
dove ci limitammo a scattare qualche foto, anche perché eravamo
partiti da un’ora e una pausa non avrebbe avuto senso, tanto più che
non c’era niente di particolare da vedere e ci attendeva tanta strada.
– Soccia, che caldo! Sono neanche le undici ma lo si sente tutto.
Mi sa che verso le due non ci staremo più dentro.
MARCO – Dopo Tan Tan Plage però dovrebbe rinfrescare un po’,
visto il vento feroce che viene dall’oceano.
ANDREA – Quello forte e costante dal mare, che piega il collo e costringe a
guidare inclinati. Proprio un gran relax, preferirei il phon puntato in faccia!
MARCO – Non sei mai pago!
ANDREA – E mai domo!
MARCO – Ah ah! Mai pago, mai domo!
ANDREA – Ah ah! Il vero biker non è mai pago e mai domo!
ANDREA
Dopo gli ennesimi scambi di battute ripartimmo verso Tan Tan. Ci
stavamo muovendo in un ambiente incredibile, solo pietre e sabbia a
perdita d’occhio. Il nulla era tagliato solo dalla striscia d’asfalto, che
aveva l’aspetto di un enorme serpentone che si perdeva all’orizzonte.
Le strette dimensioni della carreggiata, larga appena quattro metri e
non delimitata da alcuna linea colorata, rendevano indispensabile non
distrarsi per non finire fuori strada e farsi tanto male. Alle porte di
Tan Tan c’era una strana opera d’arte. Due enormi cammelli in pietra,
alti circa una decina di metri, si ergevano contrapposti sui due lati
dell’unica strada; i loro lunghi colli si protendevano l’uno verso l’altro
e le labbra si univano in un bacio molto sahariano, formando un arco
inusuale che dava il benvenuto in città. Era ora di pranzo e ci
fermammo in un ristorante. Venimmo invitati a salire in una terrazza
al piano superiore, dove ci venne prontamente servita un ottima
tajine. Il torrido clima sahariano era opprimente, quasi insostenibile.
110
– Ma ti rendi conto che non pisciamo mai? Non è mica normale!
– Ci credo, con ‘sto caldo l’acqua mica puoi sprecarla in un cesso,
la si usa per rimanere in vita.
ANDREA – E dire che beviamo! Da quando siamo seduti ci siamo già fatti due
coche e una bottiglia d’acqua grande!
MARCO – E nemmeno si suda.
ANDREA – Mi sa che il sudore non fa in tempo a uscire dai pori che già evapora.
MARCO – Veramente un clima osceno. Ci credo che il Re non fa pagare tasse a
chi vive qui! Se non lo facesse, chi ci verrebbe mai?
ANDREA – Ah! Nessuno! Ma con tutti i fosfati che vengono estratti,
questo posto è una vera miniera d’oro.
MARCO – E dove c’è denaro c’è gente che lo vuole. Tutto il mondo è paese.
ANDREA – All the world is a village! Come sei messo? Ripartiamo?
Ho voglia di andare avanti ancora e ancora e ancora.
MARCO – Andiamo, non chiedo di meglio.
Tanto più che qua abbiamo già dato, no?
ANDREA – Sì, assolutamente. Andiamo a Tan Tan Plage,
poi finalmente avremo un po’ di vento addosso.
MARCO – Laterale e fastidioso.
ANDREA – Ma rinfrescante.
ANDREA
MARCO
In pochi minuti arrivammo alla spiaggia di Tan Tan e vedemmo
innanzi a noi l’Oceano Atlantico, superbo e spaventoso. I famosi
relitti erano ancora lì, a testimonianza del dominio della natura
sull’uomo. Quando il mare è in burrasca bisogna lasciarlo stare,
altrimenti si può morire e lì doveva essere morta proprio tanta gente.
Probabilmente era un punto di forti correnti, perché giacevano
incagliate decine di imbarcazioni di ogni tipo con diversi gradi di
decomposizione, dalle più antiche alle più recenti. Il vento soffiava
costante e impetuoso fra le sagome arrugginite e l’ambiente evocava
scene di navi fantasma e galeoni e anime intrappolate fra cielo e terra.
A partire da quel punto la strada diventa decisamente fantastica. La
striscia d’asfalto è sempre molto stretta, ma il paesaggio, nella sua
affascinante monotonia, è oltremodo unico. Da un lato si estende a
perdita d’occhio l’hammada, il deserto di pietra, ma talvolta esso lascia
111
posto all’erg, il deserto di sabbia, quello più antico e più conosciuto
nell’immaginario collettivo. Le rocce si sgretolano sotto l’azione degli
elementi e lentamente diventano sempre più fini, sino a polverizzarsi.
Ed ecco che il vento continua imperterrito la sua opera infinita e
sposta la sabbia che si è creata, andando a formare delle fantastiche
dune, le cui dimensioni sono spesso impressionanti. Qualche rara
sterpaglia sta a indicare che in quella zona il lungo processo di
desertificazione non è ancora completato, ma nel tempo si giungerà
inesorabilmente all’erg. Dall’altro lato invece arriva un vento molto
forte, costante, freddo. Viene dall’oceano, posto decine di metri più in
basso. La strada corre infatti sulla costa alta e fra enormi strapiombi si
intravede il mare, che si perde all’orizzonte. Eravamo estasiati,
immersi nella natura più estrema. Cielo, mare, sabbia e vento ci
abbracciavano e ci travolgevano e, in qualche modo, anche noi
eravamo diventati elementi della natura, quasi due antichi guerrieri,
vestiti con la loro moderna armatura, che andavano sempre avanti e
tenevano duro, perché non ci si poteva fermare. E il cavallo d’acciaio
continuava a urlare nel vento, si piegava, si dimenava, ma stava lì e
andava avanti insieme a noi, era un tutt’uno con le nostre essenze.
– Ho i muscoli del collo che non ne vogliono più mezza!
Per non parlare di spalle e braccia!
MARCO – Spira una certa brezza.
ANDREA – Alla faccia della brezza!
Se mollo solo un attimo ci troviamo fuori strada!
MARCO – Non mollare!
ANDREA – Che spettacolo! Che natura poderosa!
Quando abbiamo visto la strada sulla carta non potevamo averne idea.
MARCO – Guarda il mare là sotto! Fatti che onde!
ANDREA – Vuoi farti un bagno?
MARCO – No, meglio andare in moto. Certo che con ‘sto cazzo di contachilometri
che non va non è mica facile! Dove saremo?
ANDREA – Mah! Alla fine che t’importa? Siamo in viaggio da due ore, andiamo
più o meno ai cento all’ora, tra cinquanta chilometri dovremmo essere a Tarfaya.
MARCO – Dove ci concederemo una lunga pausa al solito bar, al riparo dal vento.
ANDREA
112
A Tarfaya eravamo già stati l’anno precedente. È un piccolo villaggio
di pescatori, situato a circa un centinaio di chilometri a nord di
Laayoune, capitale amministrativa del Sahara Occidentale, nostra meta
serale. A poca distanza dalla costa si trova Fuerteventura, una delle
isole dell’arcipelago delle Canarie, tuttora territorio spagnolo. In quella
zona di grandi distanze e scarsa densità di popolazione, ogni luogo
diventa una tappa obbligata per chiunque, così non è difficile
pianificare un itinerario ed è molto probabile ricapitare negli stessi
posti. C’è un’unica strada e le località sono poche; inoltre mancano
bivi che possano dare luogo a percorsi alternativi, al limite si può
decidere di tirare dritto o fermarsi.
Arrivammo a Tarfaya nel tardo pomeriggio. Il villaggio era silenzioso
proprio come lo ricordavamo; qualche persona passeggiava nella via
principale polverosa, alcune donne si affacciavano sulla porta di casa a
curiosare, i soliti gruppi di bambini saltellavano felici e salutavano
festosamente i due centauri venuti a fare loro visita.
Innanzi a noi una spiaggia infinita, gigantesca, estesa per alcune
centinaia di metri che ci separavano dai primi flutti dell’oceano e
ovunque solo il rumore del vento. Alcuni uomini sistemavano le loro
reti da pesca, principale o forse unica fonte di sostentamento in quel
territorio dimenticato. Erano a piedi nudi, coi pantaloni rimboccati
sino alle ginocchia, le camicie a maniche lunghe e i visi screpolati dal
sole e dal sale che gli conferivano un aspetto molto vissuto.
Ci fermammo al “solito bar”, come amavamo definire quella piccola
stanza in un posto fuori dal nostro mondo, eppure così familiare.
Anche se ci eravamo stati una volta sola l’anno precedente, ci sembrò
in qualche modo che ci appartenesse da sempre, quasi fosse il nostro
luogo abituale in cui appartarci dopo ogni periodo di vita frenetica in
Occidente. Lì il tempo scorreva lento, tutti apparivano quieti, saggi e
senza pensieri. Sedemmo a un tavolo e ordinammo due caffè.
– Ed eccoci tornati al solito bar, un anno dopo! Che posto incredibile!
ANDREA – È strano definire “solito bar” un luogo così fuori dal mondo come
questo, però è bello farlo, fa molto viaggiatore.
MARCO – Beh, lo siamo, no? Il vero biker ama frequentare i soliti bar nel mondo!
MARCO
113
– Indubbiamente. E nella nostra lista, questo è di certo un bar speciale.
– Guarda quel bimbo. È lo stesso dell’anno scorso!
ANDREA – Sì, un po’ più grande ma è lui!
MARCO – Sarà il figlio del titolare.
ANDREA – Non pensavo che avrei rivisto un bambino,
o comunque un qualunque viso noto, nel Sahara Occidentale!
MARCO – Quanto avrà? Cinque anni?
ANDREA – Sì, non di più.
ANDREA
MARCO
Il bambino ci gironzolava intorno e talvolta ci sorrideva. Non
sembrava troppo incuriosito da noi, aveva un carattere un po’ schivo
rispetto a quello degli altri suoi coetanei del paese. Ci domandammo
se ci avesse riconosciuti, ma non era poi importante saperlo.
– Siamo tornati a Tarfaya. Ci torneremo ancora o è l’ultima volta?
MARCO – Se rifaremo la Western Sahara Route non ci sono dubbi!
Non so, il mondo è così grande e ci sono così tante cose da vedere che il pensiero di
ripassare di qua una terza volta mi suona strano.
ANDREA – Forse ci dedicheremo ad altro, forse no.
MARCO – Il vero biker è imprevedibile e non ama pianificare troppo.
ANDREA – Tanto più che ora inizia un nuovo millennio. Chissà cosa ci serberà
il futuro! Negli anni Novanta, nella nostra giovinezza, ci abbiamo dato dentro coi
viaggi, ma con l’arrivo del nuovo millennio e dell’età matura continueremo così?
MARCO – Non ho dubbi che lo faremo!
ANDREA – Sì! Continueremo fino ai quaranta, poi fino ai cinquanta,
poi fino ai sessanta, poi fino ai settanta… Sto esagerando?
MARCO - Ti ci vedi però a settant’anni a guidare tra il vento e la sabbia?
Ce la farà il tuo corpo? Non ne sarei così certo.
ANDREA – Il mio sì! Il tuo?
MARCO – Direi di pensarci un decennio alla volta, forse avremo meno vertigini.
ANDREA – Comunque vada, penso che quello che stiamo facendo possiamo
chiamarlo “Il viaggio di mezzo”. Che ne pensi? È una bella definizione?
MARCO – Molto poetica. Intendi un viaggio a metà fra due periodi di vita?
ANDREA – Sì, abbiamo concluso un periodo glorioso e ne iniziamo un altro.
ANDREA
114
– È vero, tra l’altro con questo decennio, secolo e millennio si è conclusa
una fase di vita per entrambi e ne inizierà un’altra, chissà quale.
Abbiamo smesso di fare viaggi da ragazzi, d’ora in poi ne faremo da uomini!
ANDREA – Speriamo sia una fase bella! Ma qualunque cosa faremo della nostra
vita, una certezza ce l’abbiamo. Sai qual è?
MARCO – Sì che lo so! Continueremo a viaggiare!
ANDREA – Esatto! Vedo che hai le idee chiare!
MARCO – È l’unica certezza che ho, del resto è buio totale.
ANDREA – Bene, facciamo luce, allora! Pensiamo al decennio, secolo,
millennio in arrivo. Come siamo messi? Tu sei fidanzato e disoccupato,
io sono single e appena laureato. Che faremo, già dopo questa estate?
MARCO – Mah! Non ne ho idea. So solo che mi ero rotto il cazzo di stare in
banca e me ne sono andato, comunque in qualche modo sbarcherò il lunario. Per
quanto riguarda la donna, penso che andremo a vivere insieme, prima o poi. Tu?
ANDREA – Boh! Inizierò a cercare lavoro a settembre.
MARCO – Ottima idea. Ma quale?
ANDREA – Mi piacerebbe insegnare. Mi piace stare in mezzo alla persone,
comunicare ciò che so, trasmettere le mie esperienze.
Non so spiegartelo meglio, è una sorta di istinto.
MARCO – Almeno tu hai un’idea. Io per ora so che non voglio vendere il mio
tempo in cambio di denaro, vorrei fare qualcosa che mi interessi veramente,
ma non so assolutamente cosa. Chissà.
ANDREA – Fai il fotografo, ti piace e sei capace. Prova a proporre le foto di
questo viaggio a qualche rivista e ti apri nuove possibilità.
MARCO – Ce ne sono troppi più capaci di me.
ANDREA – Dovresti credere di più nelle tue risorse, sennò rimani fermo al palo.
MARCO – Vero, ma non è cosa facile. Ma tu, cosa pensi di fare con le donne?
Continuare a cazzeggiare come hai fatto sino ad ora o cercare una storia seria?
ANDREA – Non lo so, sono in crisi. Dopo anni di Università, feste, cazzeggi e
avventure mi sono un po’ rotto i maroni, è sicuramente ora di fermarsi a riflettere.
E un po’ lo sto già facendo qua con te, a questo tavolino, in questo luogo remoto.
MARCO – Settembre è sempre il mese in cui iniziano le nuove fasi di vita,
in cui si vorrebbero mettere in pratica i buoni propositi pensati durante l’estate.
ANDREA – E agosto è il mese in cui si chiudono i conti con la stagione precedente.
MARCO – Giusto. Adesso siamo a luglio, ma comunque va bene lo stesso!
MARCO
115
Una vena di meravigliosa malinconia scorreva in noi e solcava i nostri
visi. L’incertezza del futuro, la mancanza di progetti e di idee concrete
riguardo alle cose importanti da realizzare nella vita erano il nostro
tallone d’Achille. Sapevamo che il viaggio che stavamo facendo non
era solo una condizione fisica, ma anche spirituale. Andare sempre
più in là, scoprire cosa c’è oltre, trovare soluzioni ai problemi,
cambiare programmi da un momento all’altro… Tutto ciò assumeva
una forte dimensione metaforica. Il viaggio geografico diventava così
viaggio interiore; stavamo scoprendo, dialogo dopo dialogo, chi
eravamo veramente, dove stavamo andando e dove avremmo voluto
andare. Le infinite possibilità di scelta e i potenziali pericoli erano
talvolta sconfortanti da affrontare, ma nonostante questo non
saremmo mai tornati indietro: nella vita si va sempre avanti, come in
un qualunque viaggio, piccolo o grande che sia. E il viaggio che
stavamo vivendo era proprio grande, come lo era la nostra vita; ed era
proprio il viaggio di mezzo, perché aveva luogo nell’importante
momento di transizione fra la giovinezza e l’età adulta.
Rimanemmo in silenzio qualche minuto e finimmo il caffè che stava
ormai raffreddandosi, dopodiché ripartimmo con la luce del sole
molto bassa. Il pomeriggio avanzava e le morbide dune di sabbia
affacciate sul mare proiettavano lunghe ombre sul deserto, il mondo
che ci circondava era sempre più fantastico.
Ci aspettava ancora un’ora di asfalto per raggiungere Laayoune e la
passammo nel silenzio più totale. I discorsi appena fatti avevano
lasciato spazio alle riflessioni interiori, ognuno le sue. Solo il rumore
del fedele monocilindrico ci tenne compagnia sino all’arrivo in città.
Parcheggiammo proprio davanti a un hotel sulla strada principale.
– Brr! È venuto freschino!
– Qua appena scende il sole fa freddo. Sarà ‘sto vento del cazzo che non
ti molla mai, che ti entra nelle ossa anche se sei vestito dalla testa ai piedi.
ANDREA – A me questa città non piace per niente, anzi, mi fa proprio cagare.
MARCO – Neanche a me. È tutta moderna, costruita dagli spagnoli ma senza
stile. Niente monumenti, niente a che fare con Barcellona o Madrid, per capirci!
ANDREA
MARCO
116
– Era solo una capitale amministrativa. Da qua gestivano le attività
minerarie, ci vivevano solo gli uomini d’affari con le loro famiglie.
MARCO – Pensa che pacco. Mollavano la Spagna, bella com’è,
e venivano a vivere in un deserto come questo.
ANDREA – Non gliel’aveva mica detto nessuno di farlo!
Erano a caccia di soldi facili, il prezzo da pagare era stare a Laayoune.
MARCO – C’è anche da dire che in miniera ci mandavano i sahariani sottopagati.
Gli spagnoli vendevano i fosfati e facevano i soldi.
In fondo non doveva essere così male, magari però se ci stavi un anno, non di più.
ANDREA – Ma quando hai finito di lavorare che cazzo fai qua?
MARCO – Mah! Giochi a pallone, vai a bere delle birre, cose del genere.
ANDREA – Più o meno quello che facciamo noi, tutto il mondo è paese.
Vabbè, vai a chiedere tu se c’è posto in hotel?
MARCO – Vado. Mi sa che non sarà un problema, chi vuoi che venga qua?
ANDREA – Altre volte pensavamo che avremmo trovato posto e abbiamo girato
ore ed ore. Ti ricordi a Ioannina?
MARCO – Come no? Quando c’erano le elezioni! Che pacco!
Tutta la Grecia era libera e accogliente, invece in quella città tutto occupato.
ANDREA – Speriamo che non ci siano le elezioni a Laayoune!
ANDREA
Non c’era nulla in quella remota città e ci venne assegnata una stanza
al secondo piano. Scaricammo la solita quantità enorme di bagagli,
facemmo una doccia ristoratrice e uscimmo per fare due passi in cerca
di un ristorante. Era veramente un luogo anonimo, anche l’anno
precedente ci aveva colpiti negativamente. Mangiammo qualcosa in
una sorta di rosticceria, poi decidemmo di non perdere tempo in un
passeggio insulso, molto meglio andare a dormire presto per avere
energia da spendere l’indomani. Ci aspettavano cinquecentocinquanta
chilometri di strada come quella appena percorsa per arrivare a
Dakhla, ultima località di rilievo prima del confine con la Mauritania.
Avremmo dovuto raggiungerla non più tardi del primo pomeriggio
per sbrigare diverse pratiche con le Autorità, altrimenti sarebbe stato
troppo tardi per proseguire il nostro viaggio e saremmo rimasti
bloccati per diversi giorni. La sveglia era pertanto prevista per le sette,
veramente presto per due bikers mondani come noi.
117
118
DAKHLA
Passammo una notte tranquilla e riposante e alle sette eravamo in
perfetta forma. Durante la colazione ne approfittammo come sempre
per pianificare la giornata che stava per cominciare.
– Oggi mi sistemo meglio il paracollo, sennò va a finire che quel vento di
merda mi incricca e non riesco più a muovermi.
ANDREA – Non esiste il cattivo tempo, ma solo il cattivo abbigliamento.
È il motto dei bikers, dovresti saperlo!
MARCO – Sì, però esiste anche il bel tempo, cazzo!
E qua invece sembra che sia sempre tutto estremo.
ANDREA – Lo è, siamo nel Sahara. Prendo la carta.
MARCO – Mi sa che oggi la carta è inutile, c’è una strada sola!
ANDREA – Però è sempre bello vedere quello che stiamo per fare.
Da qua a Dakhla sono cinquecentocinquanta chilometri.
Direi di fare una tirata sino a Cap Boujdour.
MARCO – Che sono duecento chilometri, un paio d’ore.
ANDREA – Superiamo Cap Boujdour e proseguiamo sino al ristorante dell’anno
scorso, anche perché è l’unico posto dove possiamo fare benzina.
Saranno altri cinquanta chilometri.
MARCO – Ah ah! I soliti riferimenti assurdi in mezzo al nulla!
ANDREA – Ah ah! Sì! Dove avevamo visto il mauritano, ti ricordi?
MARCO – Sì, quell’omone alto e nero, avvolto nella sua veste bianca,
lunga sino ai piedi, col turbante color indaco.
ANDREA – Era un tuareg, lui! Mica cazzi!
MARCO – Il commerciante di tessuti, quello che mangiava con le mani!
ANDREA – Che gran pezzo di Marcantonio. Era il doppio di me!
MARCO – Ok, mangeremo qualcosa lì,
anche perché dopo sono duecentocinquanta chilometri di niente sino a Dakhla.
ANDREA – Non c’è alternativa.
MARCO – Poi a Dakhla ci fiondiamo subito in Gendarmerie per i documenti,
sennò ci rimaniamo in mezzo e dobbiamo stare là dei giorni.
ANDREA – Il che non sarebbe il massimo, visto che non è proprio una città viva!
MARCO
119
Entrare in Mauritania non era cosa semplice, ma ormai le esperienze
precedenti ci avevano insegnato molto e quella volta eravamo
preparati. Claudio, il motociclista veterano incontrato a Modena, ci
aveva illuminati a dovere e sapevamo che saremmo dovuti giungere a
Dakhla entro il primo pomeriggio di lunedì per potere regolarizzare la
nostra posizione con le Autorità. I nostri nomi e gli estremi del mezzo
sarebbero stati registrati tra gli aventi diritto a fare parte del convoglio
diretto in Mauritania, in partenza il martedì mattina. I militari
avrebbero trattenuto i nostri passaporti per renderceli solamente una
volta giunti al confine. Se avessimo tardato, saremmo stati costretti ad
aspettare il venerdì successivo e l’ipotesi era da scartare.
– Dopodiché andremo al solito campeggio dell’anno scorso e ci
dedicheremo a un bel tagliando alla moto: olio, pressione gomme, catena,
lubrificazione cavi gas e frizione, batteria…
MARCO – Si sta comportando bene, poverina.
Con tutta la fatica che le facciamo fare e gli anni che ha è veramente brava!
ANDREA – Non vorrei portare sfiga, ma è un gran mezzo.
La qualità Yamaha è seconda solo a quella Honda.
MARCO – Beh, non perdiamo altro tempo, sennò ci siamo alzati presto per niente.
ANDREA – Andiamo! Sono carico come una molla!
ANDREA
Era una magnifica giornata di sole. Uscimmo dalla brutta città e
proseguimmo per la Western Sahara Route, in compagnia del deserto
alla nostra sinistra, del mare e del vento alla nostra destra, dell’asfalto
sotto di noi e dell’infinito cielo blu che ci sovrastava. Ogni tanto
qualche cammello lasciava l’hammada e attraversava la striscia
d’asfalto. Era strano vedere sui segnali stradali di pericolo le sagome
di quegli strani animali, ma era normale che fosse così perché ce ne
sono proprio ovunque e costituiscono la quasi totalità della fauna.
In due ore superammo Cap Boujdour e poco dopo raggiungemmo il
ristorante di cui avevamo discusso a colazione. Era un’area di servizio
in mezzo al nulla, con una pompa di benzina e un ristorante in cui
non era possibile scegliere cosa mangiare; veniva infatti preparato un
unico piatto caldo e non si aveva altra scelta. Il locale era pieno di
120
mosche, come del resto lo erano tutti i luoghi chiusi della zona, ma
ormai non ne eravamo infastiditi più di tanto. Ci rendemmo conto
che, giorno dopo giorno, stavamo diventando sempre più africani.
– Cosa prepara la cuoca oggi?
– Mah! Sembra una tajine, comunque la prendiamo,
anche perché l’alternativa è ben più misera.
MARCO – Già, solo dei biscotti vecchi e polverosi.
ANDREA – Qua c’è sempre un sacco di gente!
Ma secondo te sono tutti marocchini o sono anche mauritani?
MARCO – Se i mauritani sono tutti come il marcantonio dell’anno scorso,
allora qua sono tutti marocchini.
ANDREA – Chissà se i mauritani sono tutti tuareg come lui là!
MARCO – Fra poco lo scopriremo.
MARCO
ANDREA
Intorno a noi c’erano tante persone, diverse famiglie e molti uomini
soli, comunque tutti in transito verso chissà quali realtà. Mangiammo
la tajine e fummo presto pronti a ripartire.
– Io sono sazio. Tu?
MARCO – Anch’io. Come siamo messi a benzina?
ANDREA – Bene, ma facciamola comunque,
visto che non ci sono più distributori sino all’arrivo.
ANDREA
Riempimmo il serbatoio e ripartimmo alla volta di Dakhla. Erano le
undici e mezza, in poco più di due ore saremmo arrivati a
destinazione. La strada si trovava a qualche chilometro dal mare, così
il vento era un po’ calato e faceva molto caldo. Improvvisamente
l’interminabile rettilineo finì e fu in quel momento che accadde ciò
che nessuno di noi avrebbe mai voluto nemmeno pensare.
La striscia d’asfalto curvava a sinistra e ai lati si stagliavano due grandi
rocce che limitavano notevolmente la visibilità e restringevano la
carreggiata. Sarei dovuto procedere più lentamente, ma era tale
l’abitudine a mantenere la velocità costante che non lo feci. Mi trovai
di fronte a un camion che occupava tutto lo spazio transitabile e non
121
avevo il benché minimo margine di manovra. Andavo troppo veloce
per fermarmi e non mi rimase altro da fare che lanciarmi fuori strada
per evitare un impatto frontale. Mi buttai sulla destra, uscimmo
dall’asfalto e le ruote affondarono nella sabbia mista a roccia. A quel
punto accelerai per alleggerire il peso sulla ruota anteriore ed evitare
così di affossarci troppo presto, perché a quella velocità sarebbe stato
un colpo troppo forte. Cominciammo a ondeggiare e mi sforzai di
evitare almeno le rocce più grosse per non subire un impatto
devastante. Tenni ancora più saldamente il manubrio, come per
domare un cavallo imbizzarrito, stando attento, nella caduta
imminente, a non lasciare una gamba sotto la moto. Ci inclinammo
troppo sulla destra e Marco venne sbalzato di lato, io strinsi ancora
più forte le manopole, aspettai che la moto toccasse le rocce e mi
lanciai il più lontano possibile. Silenzio.
– Cazzo, che botta che abbiamo preso! Ci sei? È tutto a posto?
MARCO – Sì, ci sono.
ANDREA – È la prima volta che cadiamo in tutti i nostri viaggi.
E non è poco, sono quasi dieci anni.
MARCO – Prima o poi doveva succedere, le moto hanno due ruote.
ANDREA – Sono ferito nell’orgoglio, ma non mi pare nel corpo. Tu come stai?
MARCO – Ho le mani sbucciate e mi sembra nient’altro.
ANDREA – Ti è piaciuto il rodeo? La moto sembrava un toro incazzato!
MARCO – Avevo paura di piantare una ginocchiata su una pietra.
Quando ho visto che stavamo per cadere mi sono lanciato dove ho visto la sabbia
ed è andata bene, sono stato fortunato.
ANDREA – Scusa, ho fatto una cazzata, dovevo rallentare in quella curva cieca.
MARCO – Dai, stiamo bene. E la moto come sta?
ANDREA – Mi ripiglio un attimo e ci guardo.
ANDREA
Dal camion intanto scesero due uomini che si avvicinarono a larghi
passi. Ci offrirono il loro aiuto e dissero che quello era il punto più
pericoloso dell’intero tratto tra Dakhla e Laayoune, c’erano stati un
sacco di incidenti. Quella affermazione però non contribuì a farmi
stare meglio, ero scioccato e deluso dalla mia fatale distrazione.
122
– Si è spaccato uno specchietto e il bagaglio è sparso ovunque, ma del
resto mi sembra tutto ok. Ci è andata bene.
ANDREA – E le forcelle? Sono dritte? Dovrebbero essere a posto, non c’è stato
impatto frontale, è caduta di lato, ma con questo carico non si sa mai.
MARCO – Non so, guarda tu che te ne intendi di più. Mi sembrano dritte.
ANDREA – Sì, direi di sì. Anche se ce ne accorgeremo solo una volta in marcia.
MARCO – La mia moto è un gran ferro!
Prende delle gran botte ma non caga la mossa!
ANDREA – È di una categoria superiore.
Con questo modello ci hanno fatto la Paris Dakar un sacco di volte.
MARCO – Faccio qualche foto dell’accaduto.
Sarà bello riguardarle e ci rideremo sopra a tempo debito.
ANDREA – Solo noi facciamo foto dei disastri che ci colpiscono!
MARCO
E fu così che nel bel mezzo del Sahara, dopo un incidente, Marco
sentì il consueto istinto che lo portò a immortalare l’accaduto: una
borsa lacerata su una roccia, il bauletto graffiato, le proprie mani
sanguinanti e così via.
Il vero biker sa ridere di ogni cosa, ci dicemmo, ed era proprio così.
– Beh, io le foto le ho fatte. Andiamo?
– Aiutami a spingere la moto sull’asfalto, poi vediamo se parte.
Ci faccio un giretto e vedo se va dritta, se frena e così via.
Se è tutto ok carichiamo i bagagli.
MARCO – Ok, vieni che ti spingo.
MARCO
ANDREA
La moto partì al secondo colpo di kick starter. Il meraviglioso suono
del monocilindrico tuonò nell’aria, quasi a sancire la sua supremazia
sul fato avverso. Feci un breve giro, andava tutto alla perfezione, ce
l’eravamo cavata con qualche sbucciatura e uno specchietto rotto,
fortunatamente quello destro, il meno importante.
Caricammo i bagagli e ripartimmo. Ero ancora scosso e guidavo più
lentamente del necessario, ma dopo un po’ ripresi fiducia e accelerai,
ritrovando il giusto ritmo. Erano anni che non cadevo sull’asfalto,
avrei evitato volentieri di farlo ancora a lungo, ma gli incidenti
123
arrivano quando si abbassa la guardia e in quel caso avevo commesso
un errore. Un po’ del mio senso di invulnerabilità se n’era andato, mi
ero ridimensionato. Avevo una grossa responsabilità, verso Marco e
verso di me, e mi dissi che non avrei più commesso leggerezze.
Dopo circa un’ora vedemmo una barca abbandonata in mezzo al
deserto. Era piccola, pochi metri di lunghezza, probabilmente adibita
alla pesca, ma non capivamo perché fosse in mezzo all’hammada, ad
almeno dieci chilometri dal mare, eppure qualcuno si era adoperato
per portarla lì, dove non c’era nemmeno un edificio che giustificasse
la sua presenza. L’Africa è piena di misteri, si dice spesso in giro, e
quello lo era. Facemmo una foto commemorativa e proseguimmo.
Arrivammo così alle porte di Dakhla, sorta sulla linea del Tropico del
Cancro, una zona in cui non piove praticamente mai. Sopra di noi
alcune nubi correvano veloci e scomparivano per lasciare posto ad
altre, c’è così tanto vento in quota che non hanno il tempo di fermarsi
per scaricare a terra la loro acqua. La sua baia è incantevole, delimitata
dalla penisola di Rio de Oro, una lingua di terra di una ventina di
chilometri al termine della quale si trova la cittadina. La strada che la
raggiunge si perde così all’orizzonte fra dune di sabbia e in entrambi i
lati si vede il mare. Era una visione celestiale che donava un’emozione
indescrivibile, così attraente che veniva voglia di lasciare l’asfalto per
lanciarsi in velocità sul bagnasciuga. Nel 1999 avevo fatto un po’ di
fuoristrada proprio lì ed ero caduto rovinosamente, quella volta da
solo, provocandomi una forte contusione a un piede. A un anno di
distanza il ricordo del trauma era però ancora molto vivo e decisi
quindi di lasciare perdere, tanto più che avevo da poco fatto un
incidente, ero ancora turbato e non mi sentivo del tutto in forma.
Anche oggi la città vive soprattutto di pesca, ma è fortissima la
presenza di caserme per i motivi già descritti. Ci sono diversi
ristoranti che servono pesce e qualche locale serale ad uso dei giovani
marocchini che svolgono il servizio militare in quella zona remota.
Entrammo nel centro abitato a passo d’uomo e ci recammo alla
Gendarmerie per avviare le pratiche. Salvo problemi imprevisti,
l’indomani avremmo raggiunto il sospirato confine mauritano scortati
dall’esercito. Saremmo stati in compagnia di chissà quanti e quali
124
viaggiatori, commercianti, persone in visita ai parenti lontani e molti
altri. Marco entrò nell’edificio dove stavano i militari e io aspettai di
fianco alla moto fumando una sigaretta. Dopo nemmeno quindici
minuti era già di ritorno, ci aveva impiegato stranamente poco tempo.
– Hai fatto troppo presto! Problemi?
MARCO – No, sono stati gentilissimi ed efficienti. Domani si parte!
ANDREA – Yuhuu!
MARCO – La carovana si riunisce alle dieci all’uscita della città.
ANDREA – Nel posto dell’anno scorso, quando ci hanno respinti.
MARCO – Proprio lì. Un anno dopo si va. Era scritto che l’avremmo dovuto fare.
ANDREA – Il vero biker quando punta un obiettivo non molla mai.
MARCO – Andiamo al campeggio?
ANDREA – Andiamo, così mi dedico al tagliando della moto.
Mai come ora ne ha bisogno, poverina!
ANDREA
Il campeggio di Dakhla era veramente bellissimo, aveva in sé tutto il
sapore di un avamposto di frontiera. Volendo si poteva piantare la
tenda ma non ce l’avevamo. In alternativa c’erano delle casette a
schiera dai muri rossi, sicuramente più invitanti e confortevoli, che si
intonavano alla perfezione col colore del cielo che si rifletteva nel
mare. Il nostro viaggio era già abbastanza pesante e fino a quando ne
avessimo avuto possibilità avremmo cercato sistemazioni comode. Ci
venne incontro una cagna bianca che scodinzolava silenziosa e felice.
– Laika! Vieni qua, bellissima!
MARCO – Che storia! Conoscere un cane a Dakhla!
ANDREA – Guarda com’è bella e polleggiata! Adesso mentre lo zio Marco si fa
la doccia tu vieni con me a fare il tagliando alla moto. Ti va?
MARCO – È grave parlare ai cani. Mi devo preoccupare?
ANDREA – Questa è Laika, mi terrà compagnia mentre tiro a lucido il ferro.
MARCO – Ok. Allora io mi lavo e ne approfitto per riposare un po’.
Se hai bisogno non farti riguardi, manda pure Laika a chiamarmi.
ANDREA – Ah ah! Ok! Ma penso proprio che ce la farò, è solo un tagliando.
ANDREA
125
L’olio e il liquido della batteria erano al livello massimo, le forcelle
perfettamente allineate, lubrificai i cavi della frizione e del gas con uno
spray apposito, controllai la pressione delle gomme, tirai un po’ la
catena e la ingrassai ben bene. Ero sempre più certo che la Yamaha le
moto le sapesse fare veramente. Dopo sedici anni e chissà quanti
chilometri eccola lì, ci stava trasportando chissà dove e non dava
segni di cedimento. Mi sovvenne la Suzuki abbandonata ad Almeria e
non potei fare a meno di pensare che ero stato proprio truffato, anche
se ormai mi sembrava un lontano ricordo, sebbene fossero passati
solo pochi giorni. È il ritmo che tanto amiamo, pochi giorni
sembrano settimane, soprattutto quando le situazioni cambiano con la
frequenza impressionante che caratterizza il nostro stile di viaggio.
Ogni tanto Laika veniva a trovarmi, si faceva fare qualche coccola e
scompariva soddisfatta per il campeggio, per poi ritornare a farsi
accarezzare ancora. Finiti i lavori andai in stanza e trovai Marco
addormentato. C’erano due materassi appoggiati sul pavimento e un
piccolo vano adibito a doccia, che altro non era che un tubo di
metallo senza diffusore da cui usciva un getto d’acqua fredda. Lo
standard degli alloggi cominciava a calare. Non sapevamo quali vette
avremmo raggiunto, comunque nulla ci avrebbe indignati, ma solo
divertiti. Il sole era molto basso e si avvicinava l’ora di cena, così
svegliai l’amico che, come sempre, si lamentò a modo suo.
– Fatto. La tua moto è perfetta, pronta a partire per la Mauritania!
MARCO – Mrppp… Mmm… Grrrr…
ANDREA – Siamo alle solite! Vedi di ripigliarti che andiamo in centro a
mangiare il pesce e a bere del buon bianco!
MARCO – Mrppp… doccia? Grrr…
ANDREA – Sì, ci metto cinque minuti, intanto vestiti.
Vorrai mica venire in mutande?
MARCO – Però andiamo senza casco, pian pianino. Sarà bello.
ANDREA
Mezzora dopo eravamo in sella, diretti verso il centro. Senza l’enorme
mole di bagagli sembrava di guidare una bicicletta; mi domandai come
facessi a stare in equilibrio con tutte quelle cose accatastate sul retro e
126
non trovai una risposta. Dopo pochi minuti arrivammo a destinazione
e ci fermammo in un bel ristorante sul mare. Eravamo gli unici clienti,
mangiammo un grande pesce sconosciuto e bevemmo una bottiglia di
vino bianco prodotto chissà dove. Non era buono ma l’alcool si fece
sentire e dopo una giornata così ci stava proprio bene.
Facemmo qualche chiacchiera su quello che ci avrebbe atteso
l’indomani e lasciammo infine il locale, per fare ritorno al camping.
Non sapevamo se la notte successiva avremmo dormito in Marocco o
in Mauritania, le notizie forniteci erano confuse. La cosa certa era che
non avevamo garanzia di un alloggio confortevole, quindi sarebbe
stato necessario svegliarsi in forma per affrontare una tappa del tutto
nuova e sicuramente pesante, circa quattrocento chilometri, non più
soli ma in carovana. Non avevamo idea di come sarebbe stato
spostarsi in quel modo, quali conoscenze avremmo fatto e quali
nuove situazioni vissuto, ma lo avremmo comunque imparato presto.
Laika ci sentì entrare e venne a darci la buonanotte a modo suo, poi
scomparve nell’oscurità per tornare alle sue attività di frontiera.
– Beh! Buona ultima notte marocchina!
MARCO – Chissà se sarà l’ultima!
ANDREA – Spero di poterti augurare a breve una buona prima notte mauritana.
Sa molto di mistico e leggendario.
MARCO – Buona ultima notte in un posto noto.
ANDREA – Questo è un augurio ineccepibile. Notte a te.
ANDREA
Dopo pochi minuti però mi alzai, spinto dal desiderio di vedere la
baia di Dakhla di notte un’ultima volta. C’era solo una falce di luna e
già il cielo era rischiarato a giorno. Mi domandai come si presentasse
quel posto con la luna piena, forse non lo avrei mai saputo, forse sì.
Trovai comunque la pace, rientrai in stanza, collassai sul materasso e
mi abbandonai a un profondo sonno ristoratore.
127
128
GUERGUARAT
Verso le otto il campeggio cominciò ad animarsi e diversi rumori
mattutini entrarono nella nostra stanza, segno inequivocabile che era
giunto il momento di darsi da fare coi preparativi. Quasi tutti gli ospiti
della struttura erano lì per andare in Mauritania, quindi a breve ci
sarebbe stata una migrazione di massa verso sud, verso il vero deserto
del Sahara, e noi non volevamo certo essere da meno.
Nonostante ci fossimo appena svegliati, eravamo entrambi carichi
come delle molle, ci sentivamo già proiettati in una situazione che non
sapevamo come si potesse presentare, ma che ci stimolava oltremodo.
Non amavamo viaggiare in gruppo, perché i veri amici sanno essere
solitari insieme, citando una frase che ho letto da qualche parte e che
rappresenta molto bene il nostro stato d’animo. In quel caso però era
obbligatorio farlo, quindi ci apprestammo a vivere al meglio la novità.
Non solo un semplice gruppo, ma addirittura scortati dall’esercito.
– Ben svegliato, compagno di mille avventure!
MARCO – Ahhhh! Che bella dormita su ‘sto materasso! Chissà la prossima notte
cosa ci toccherà, forse un accampamento militare!
ANDREA – Mah! Certo che muoversi in gruppone non deve essere mica facile.
Chissà quanti saremo!
MARCO – E chissà chi saremo, più che altro!
ANDREA – Ti ricordi il tipo dell’anno scorso che trasportava dei cammelli nel
pick up? Ah ah! Le navi del deserto messe in un baule!
MARCO – Sì, e tutte quelle fighette vestite da spiaggia, venute dritte dritte da
Agadir, che si avventuravano nel deserto come andassero a Riccione?
ANDREA – Non c’è che dire, un’umanità molto varia. Ne vedremo delle belle.
MARCO – Da qua al confine dovrebbero essere trecentocinquanta chilometri.
ANDREA – Informazione di cui non ce ne facciamo niente,
visto che non possiamo scegliere a che velocità andare e quali pause fare.
MARCO – Odio i viaggi organizzati, mi sento in gabbia.
ANDREA – Dillo a me! Sono stato in Egitto con mio padre l’anno scorso.
Lui è anziano e non poteva certo viaggiare come facciamo io e te, così abbiamo
comprato un viaggio organizzato, un pacchetto all inclusive Franco Rosso.
ANDREA
129
– Sapevo della cosa, ma non mi hai raccontato. Quanto siete stati via?
– Una settimana. Era una vita che voleva andarci e mi ha chiesto se
volessi accompagnarlo per Natale. Avrei terminato l’Università tre mesi dopo e
sarebbe così stato il suo regalo di laurea, anche se ero io semmai a dovere regalare
qualcosa a lui, con tutto quello che ha fatto per me in questi trent’anni.
MARCO – Già.
ANDREA – Mia madre è andata da una sua amica in campagna e noi due siamo
andati in Egitto. È stata la prima volta in cui sono stato solo con mio padre
all’estero, un’esperienza strana. Io veterano di viaggi di ogni genere, lui invece si è
mosso veramente poco nella sua vita e potere atterrare al Cairo e visitare l’Egitto,
tanto letto e sognato nei libri in una vita, rappresentava una cosa fantastica.
MARCO – E lo è stata?
ANDREA – No. O meglio… Abbiamo visitato l’Egitto in una settimana,
usando pullman, navi da crociera, voli interni, abbiamo visto di tutto e di più,
ma non ho conosciuto gli egiziani.
Eravamo sempre e solo noi del gruppo, nessuno poteva concedersi spazi individuali
di nessun tipo e viaggiare così mi fa proprio cagare. Mai una volta in cui abbia
potuto prendere un’iniziativa o soffermarmi su qualcosa di mio interesse.
Prontamente c’era qualcuno che fischiava e riportava il gregge all’ovile.
Appena finito di mangiare ci si precipitava in pullman, quasi scortati.
No, grazie, non fa per me.
MARCO – E tuo padre?
ANDREA – Beh, per lui era diverso. Non ha fatto viaggi nella sua vita,
almeno viaggi di rilievo, così la novità egiziana era così forte che questi aspetti
negativi non lo toccavano. Io invece mi sentivo un recluso. Pensa che una volta sono
riuscito a staccarmi dal gruppo, a eludere la sorveglianza dei mastini di Franco
Rosso, per cinque minuti. Mi sembrava di essere un evaso! Sono andato a
comprare le sigarette in un mercato, ho parlato con degli egiziani fuori dal circuito
del tour operator, gente più semplice, gente da mercato.
Ho riassaporato la libertà, poi sono tornato alla realtà, mi sono riagganciato al
gruppo e ho tenuto compagnia a mio padre per il resto del viaggio.
Era il suo viaggio con suo figlio, non volevo lasciarlo solo!
MARCO – E ora eccoci qua nuovamente a viaggiare in gruppo!
ANDREA – Sarà solo per poche ore, non temo la cosa, passeranno velocemente.
MARCO
ANDREA
130
– Che ne dici se andiamo a fare colazione? Le dieci si avvicinano, non
vorrei mai che partissero senza di noi!
ANDREA – Ci mancherebbe altro! Cosa staremmo a fare qua altri tre giorni?
MARCO – Qua si fa surf e si pesca.
ANDREA – Meglio andare in moto!
MARCO
Preparammo così tutti i bagagli e facemmo colazione, poi lasciammo
il campeggio e ci dirigemmo dove ci era stato indicato. C’era una
quantità impressionante di persone. Decidemmo di parcheggiare la
moto e andammo a fare un po’ di conoscenze. Era gente multietnica
meravigliosa, tutta diversa, tutta da scoprire.
Il primo incontro fu con quattro ragazzi francesi, più o meno della
nostra età; viaggiavano su un camion con sei ruote motrici e
sembravano determinati a tagliare l’intero Sahara.
Conoscemmo poi un uomo, anche lui francese, sulla quarantina, con
la faccia di uno che la sapeva lunga; era un commerciante di auto, le
prendeva in Francia e le andava a vendere in Africa occidentale. Ogni
tre mesi circa faceva la spola fra Marsiglia e la Mauritania, poi, a
seconda dei momenti e degli affari che aveva in ballo, si recava in
Senegal o in Mali, ma talvolta anche in Burkina Faso e in Niger.
Proseguimmo la nostra passeggiata e incontrammo tre ragazze
tedesche; erano state in Marocco già diverse volte e avevano pensato
bene di ampliare i propri orizzonti spingendosi a sud.
Notammo in seguito un uomo, anch’egli tedesco, alla guida di un
furgone di un’azienda del gas di Colonia. Pensavamo fosse un tecnico
in trasferta, invece scoprimmo che era un viaggiatore solitario; si era
stancato di stare in Germania ed era partito col mezzo con cui
lavorava per andare in Mauritania a fare un giro.
Poi fummo incuriositi da un ragazzo molto giovane, intorno alla
ventina, che stava seduto solo in mezzo alla polvere. La gente si
muoveva senza posa intorno a lui, ma non sembrava nemmeno
accorgersene. Era totalmente assorto nel disegnare ciò che vedeva,
buttava ogni tanto gli occhi in alto o di lato, coglieva dei particolari e
li trasferiva su carta con la sua matita. Era bravo, ma aveva l’aspetto di
un aristocratico cittadino, probabilmente figlio di buona famiglia, che
131
per sfuggire al mondo opprimente che lo aveva visto nascere aveva
pensato bene di dedicarsi a qualcosa di più hippie. Non ci era molto
simpatico, sembrava finto, almeno a confronto con tutto ciò che di
autentico si trovava intorno a noi. Non gli parlammo e proseguimmo
nella nostra galleria d’arte antropologica.
Incontrammo così due marocchini, uno sulla cinquantina, l’altro sulla
trentina; erano uno zio e un nipote che avevano dei parenti a
Nouadhibou e stavano andando a trovarli.
Altre decine e decine di persone avrebbero meritato di essere
conosciute, ma pensammo che avremmo avuto tempo in seguito per
fare chiacchiere costruttive e tornammo alla moto. La cosa certa era
che si trattava di un gruppo fantastico, non ci saremmo certo annoiati,
avremmo potuto parlare con chiunque e stupirci in continuazione.
– Certo che ce n’è di varietà nel mondo!
ANDREA – Soprattutto nel mondo africano, direi!
MARCO – Prima di lanciarmi in questo viaggio non pensavo che ci fosse una tale
quantità di gente interessata alla Mauritania. Io sapevo a malapena che esistesse!
ANDREA – Interessata alla Mauritania sì, ma tieni presente che si passa di qua
per raggiungere tutta l’Africa occidentale.
Se non passi per l’Algeria, che è una pista improponibile,
devi fare la Western Sahara Route, sennò rimani confinato a nord.
MARCO – Sì, però fa impressione lo stesso!
MARCO
Dal centro della città arrivarono numerosi veicoli militari, alcuni
guadagnarono la testa del gruppo, mentre altri si fermarono in coda.
Ci fecero incolonnare e ritirarono tutti i passaporti dei presenti. Ci
tenevano in pugno, se avessimo voluto staccarci dal convoglio
saremmo rimasti senza documenti in mezzo al nulla.
La carovana partì poco dopo. Risalimmo la penisola di Rio de Oro e
ci dirigemmo verso sud, procedendo a bassa velocità, non più di
cinquanta chilometri orari. Pensai che ci avrebbe atteso una giornata
veramente molto lunga e che raggiungere il confine sarebbe stato
molto impegnativo. Si viaggiava abbastanza dilatati, il che faceva
calare la sensazione di oppressione tipica degli spostamenti in massa.
132
La strada continuava senza variazioni, immersa nell’hammada, ogni
tanto qualche duna di sabbia spezzava la continuità e talvolta si
intravedeva in lontananza il mare sulla destra. Dopo circa un’ora ci
fermammo in un’area polverosa piena di baracche e piccoli negozi.
– Mi sono già rotto i maroni di viaggiare a questa velocità ridicola.
MARCO – In Africa il tempo si è fermato.
ANDREA – In Africa tutto è possibile.
MARCO – Da noi si corre sempre, la gente muore d’infarto per i ritmi vertiginosi,
bisogna produrre, produrre, produrre!
ANDREA – Qua non corrono certo questo rischio.
Hanno un polleggio addosso che fa impressione!
MARCO – Non hanno certo l’indole di un imprenditore veneto o bresciano!
ANDREA – No, decisamente. Ma anche l’ambiente è un po’ diverso.
MARCO – Ma perché ci siamo fermati dopo neanche un’ora?
ANDREA – Penso per fare guadagnare qualcosa a questi negozietti,
l’economia gira così. Probabilmente i soldati mangiano gratis e in cambio portano
clienti ai ristoratori. Tutto il mondo è paese.
MARCO – Andiamo a prendere qualcosa anche noi?
ANDREA – Sì, facciamo anche provviste, anche perché non sappiamo dove e se
pranzeremo, dove e se ceneremo. Meglio avere con noi un po’ di scorte.
MARCO – Poverino! Hai paura di patire la fame, grande e grosso come sei?
ANDREA – Il vero biker non ama i morsi della fame, preferisce la pancia piena.
ANDREA
Ci accodammo dietro ad altra gente, pronti a prendere qualche
biscotto o comunque qualcosa di commestibile per le emergenze.
Arrivò così un uomo che, ignorandoci totalmente, ci passò davanti.
Non capivamo perché, pensavamo fosse semplicemente un
maleducato o un idiota e non ci demmo peso più di tanto.
Continuammo pazientemente a rimanere in fila, quando arrivò un
altro che fece esattamente la stessa cosa e allora riflettemmo sul da
farsi. C’era sicuramente qualcosa che ci sfuggiva.
– Ma non ho capito! Chi cazzo siamo? Forse i più coglioni?
MARCO – Sembrano non cagarci di striscio! E dire che siamo grandi e grossi!
ANDREA
133
– Forse qua non usa fare la fila. Chi arriva prima al banco vince e
mangia, gli altri si attaccano! Dobbiamo trovare una soluzione: imponiamoci!
MARCO – Sì, facciamolo! Adeguiamoci all’ambiente!
Il prossimo che arriva lo blocchiamo con fermezza e lo mettiamo al suo posto.
ANDREA – Giusto, cazzo! Il vero biker non si fa pestare i piedi!
ANDREA
E arrivò infatti l’ennesima persona che non ci considerò per niente e
cercò di passarci davanti. A quel punto, con una buona mossa di
basket, gli feci un blocco, lo tagliai fuori dalla sua traiettoria e Marco
gli si piazzò davanti. L’uomo, per nulla risentito, si mise in fila. Fu poi
il turno di un altro che si comportò allo stesso modo, ma ormai il
gioco di squadra era avviato e nessuno poteva più prevaricarci in
alcun modo. Scoprimmo che era necessario fare così, il concetto di
mettersi in fila in base all’ordine di arrivo non apparteneva a quella
gente. Cortesi, ma fermi e decisi, riuscimmo così in breve tempo a
raggiungere il banco e fare finalmente un po’ di acquisti di acqua e
cibo confezionato per le ore successive.
La carovana ripartì e proseguimmo il nostro trasferimento verso il
confine. Le nuvole continuavano da giorni a correre veloci senza
scaricare mai nulla a terra, ma in quel momento il vento cessò
all’improvvisò e sentimmo alcune grosse gocce caderci addosso.
– Cazzo, piove!
ANDREA – È una pioggia sahariana, smetterà fra pochissimo.
MARCO – Intanto però ci bagniamo.
Non è meglio fermarsi un attimo per mettere le tute antipioggia?
ANDREA – S’è anche alzato il vento e sta venendo freschino.
Dai, mi fermo e ci copriamo un po’.
MARCO
La carovana si stava dilatando sempre più, eravamo sempre meno
compatti. Pensammo che i problemi di sicurezza dovessero essere
rientrati di molto, altrimenti l’esercito non avrebbe permesso che dei
gruppetti rimanessero isolati. Indossammo la giacca, i pantaloni
impermeabili e i copriscarpe in plastica, poi cercai invano i guanti,
probabilmente sepolti da qualche parte in fondo al bauletto.
134
– Soccia, che pacco! Non trovo mica i guanti! Li hai visti?
– Non so, li hai usati l’ultima volta in Spagna.
Sei tu che devi stare dietro alle tue cose!
ANDREA – Questo bagaglio proprio non s’affronta.
Già metterci mano alla mattina è pesante, ma strada facendo è improponibile.
MARCO – Sbrigati, sennò gli altri arrivano in Mauritania che siamo ancora qua.
ANDREA – Trovati! Evviva! No, vaffanculo!
MARCO – Perché ti arrabbi?
ANDREA – Nella fretta di Almeria e della selezione dei bagagli ho fatto una
cazzata. Ho tenuto due guanti destri e ho spedito in Italia due guanti sinistri!
MARCO – Ah ah ah ah! E adesso cosa fai? Usi un guanto solo sino ad Abidjan?
ANDREA – No, li indosso entrambi. Anche se nella mano sinistra mi verrà
l’artrite! Sennò con ‘sto vento mi congelo le mani!
MARCO – Ah ah ah ah! Due guanti ambidestri! Ah ah ah ah!
ANDREA
MARCO
Non c’era niente da fare, così mi adeguai alla scomodità e ripartimmo
per raggiungere la carovana che era già avanti qualche chilometro.
Raggiungemmo la coda in breve tempo, i militari non sembravano per
nulla preoccupati del nostro distaccamento e fummo ancora più certi
che il Polisario dovesse essersi calmato non poco in quell’ultimo
periodo, il che ci fece chiaramente un gran piacere.
Sul ciglio della strada notammo una Toyota che faceva parte del
gruppo. I suoi quattro passeggeri erano accampati e avevano acceso
un piccolo fuoco; uno di loro ci fece un cenno garbato con la mano.
– I beduini ci dicono di fermarci!
MARCO – Fermiamoci!
ANDREA
Beduino è una parola che deriva dall’arabo “Bedu”, che significa
“Abitante del deserto”. Di norma ci si riferisce ai nomadi che vivono
nelle steppe e nei deserti dalla Mesopotamia al Sahara, sono divisi in
tribù e ognuna di esse ha una forte struttura patriarcale. Anche oggi
alcuni di loro vivono in accampamenti, costituiti da tipiche tende nere
composte da strisce di stoffa di lana di capra, ma i tempi stanno
cambiando e molti sono diventati stanziali. La loro economia
135
tradizionale si basa sull’allevamento del dromedario, della capra e del
cavallo. Le donne indossano normalmente vesti nere e veli con
lustrini. Alcune utilizzano ancora maschere in pelle, decorate con
monetine, hanno tatuaggi sul viso e gli occhi cerchiati con i colori più
vari. Quegli uomini invece erano abbigliati nel loro stile classico, con
una lunga tunica chiara che li avvolgeva sino alle caviglie. Sulla testa
avevano arrotolata una kefiah nera, il tipico copricapo arabo che
conferiva al loro aspetto un’immagine che evocava remote lande aride
e implacabili tempeste di sabbia.
Erano i veri, indiscussi padroni del deserto e in quel momento
avevano piacere di conoscerci; ci invitarono infatti a bere il the. Uno
di loro accese un fornelletto e lo pose fra alcune pietre vicino
all’automobile, sedemmo in cerchio intorno alla fiamma e iniziammo
la conversazione. Erano due fratelli con uno zio e un amico, di
apparente età compresa fra i trenta e i cinquanta. Il più brutto aveva
un solo incisivo in bocca, ma anche le dentature degli altri non erano
in buone condizioni. Abitavano a Nouadhibou e commerciavano in
tessuti, erano stati in Marocco per affari e stavano tornando a casa. Ci
chiesero qualcosa su di noi e spiegammo i motivi della nostra
presenza nella loro terra. La loro ospitalità fu veramente incredibile,
quasi commovente; non ci era mai capitato, dalle nostre parti, che uno
sconosciuto ci fermasse per strada e ci invitasse a casa sua per il puro
piacere di conoscerci. Erano poveri, mal vestiti, coi denti rotti, eppure
molto ricchi di umanità e così ben disposti verso il prossimo.
– Grazie per il the!
BEDUINO – Grazie della vostra compagnia.
MARCO – Grazie a voi, siete gentilissimi. In Italia non ci è mai capitata una cosa
del genere. È difficile che uno sconosciuto ti inviti a casa sua come avete fatto voi.
BEDUINO – Noi gente del deserto siamo tutti fratelli e chi si trova nel deserto è
nostro fratello. Tutti abbiamo bisogno l’uno dell’altro, nessuno può stare da solo.
ANDREA – In Europa invece siamo più individualisti.
Ma è un discorso lungo, magari lo continuiamo più avanti!
BEDUINO – Sì, ripartiamo, è tardi. Ormai i militari saranno già al confine.
ANDREA
136
Continuammo il nostro viaggio, assorti in piacevoli pensieri su quella
umanità così solidale, così diversa dalla nostra. Ci rendevamo sempre
più conto che il nostro stile di vita non è necessariamente il migliore,
come molti hanno invece la pretesa che sia. Nella povertà aumenta la
solidarietà, nel nostro benessere invece tende a prevalere l’egoismo
nel mantenere le proprietà, il che porta spesso a non condividere con
nessuno, tantomeno con degli sconosciuti, ciò che è proprio.
Eravamo certi che i beduini non avrebbero comunque finito di darci
lezioni, il viaggio era ancora lungo.
Dopo un paio d’ore arrivammo al confine. Da qualche parte doveva
esserci il villaggio di Guerguarat, almeno secondo la carta, ma non ne
vedemmo traccia. Era ormai metà pomeriggio e il gruppo si fermò sul
ciglio della strada, bloccato da una sbarra trasversale che impediva di
proseguire. Sulla sinistra c’erano due o tre case di cemento e dietro di
esse una quantità infinita di rifiuti. L’inciviltà era arrivata pure lì.
– Guarda che merdaio!
– E dire che non ci voleva molto a creare un’area per i rifiuti,
invece è tutto sparso ovunque. Vabbè che siamo nel deserto,
ma un po’ di decoro non guasterebbe neppure qua.
MARCO – Chissà adesso come funziona. Che ore sono?
ANDREA – Le quattro.
MARCO – Nouadhibou è cinquanta chilometri dopo il confine, no?
ANDREA – Sì, se ci mollano adesso saremo là in un’oretta, direi.
Così stasera ci facciamo una prima cena mauritana!
MARCO – Beh, un’oretta non so, mi pare un po’ poco, non credi?
Ma non è qua che c’è la pista bonificata dalle mine? Si andrà a passo d’uomo.
ANDREA – Sì, ma leggevo che c’è solo qualche chilometro così, poi la pista è libera
sino in città e si potrà andare più spediti. Comunque attendiamo istruzioni.
MARCO
ANDREA
Ma le istruzioni non arrivarono. Dopo mezzora chiedemmo in giro e
le opinioni erano discordanti. Qualcuno sosteneva che i militari
stessero per riconsegnarci i passaporti, altri invece che le cose
andassero ancora per le lunghe. Il tempo passava, il sole si faceva
sempre più basso e la seconda ipotesi prendeva sempre più piede.
137
– Se va avanti così mi sa che passiamo la notte in mezzo ai rifiuti.
– Ci sdraieremo sotto la moto! Anzi, uno in sella, uno sotto il motore!
ANDREA – Il vero biker non si separa mai dal suo mezzo!
MARCO – Ma che cazzo staranno facendo questi soldati? Ci tengono in ostaggio?
ANDREA – Sai che in Africa il tempo ha un altro valore!
MARCO – Direi che non ha valore.
ANDREA
MARCO
Poi un po’ di gente cominciò a mormorare e a muoversi, qualcuno si
diresse verso le case di cemento, altri raggiunsero i propri mezzi.
– C’è del fermento, qualcosa accade!
ANDREA – Forse si va. Strano però, ormai è buio.
Dove cazzo andiamo col buio in mezzo alle mine?
MARCO – In Africa tutto è possibile.
ANDREA – Anche saltare in aria.
MARCO
Venimmo a sapere che nelle oltre due ore in cui eravamo lì non era
successo nulla. I militari avevano stabilito di lasciarci sconfinare solo
la mattina dopo e la notte l’avremmo quindi trascorsa in quel posto.
– Ma dove dormiamo? Veramente coi sacchi a pelo sotto la moto?
Sarà di certo affascinante, ma anche molto pesante.
ANDREA – Potremmo chiedere ospitalità ai beduini nella loro Toyota.
MARCO – Si, seduti in sei nell’abitacolo in mezzo alla puzza di capra. Comodo!
MARCO
Ma scoprimmo con gioia che il Marocco non aveva intenzione di
abbandonare al proprio destino i suoi ospiti. Chi non aveva una
macchina o una tenda in cui dormire poteva stare all’interno delle
case. Dentro non c’era assolutamente nulla, se non dei gradoni di
cemento alti circa mezzo metro. Ci trovammo così in una ventina di
persone a condividere uno spazio decisamente molto stretto, ma si sa
che quello non era certo un problema per noi, avidi come eravamo di
fare sempre nuove conoscenze. Sedette al nostro fianco un ragazzo
europeo dall’aria simpatica e iniziammo presto a conversare. Si
chiamava Christoff, aveva ventisette anni ed era francese.
138
– Ma tu Christoff sei già stato da queste parti o è la prima volta?
– Sì, è la prima volta. Sto facendo il giro del mondo.
ANDREA – Il giro del mondo? Ma… quanto tempo starai via da casa?
CHRISTOFF – Non so, inizialmente pensavo due anni, ma forse starò via di più.
MARCO
CHRISTOFF
Certa gente non ha proprio nulla da fare, pensai. Io mi ero sempre
ritagliato dei periodi per viaggiare fra gli esami universitari e i vari
lavori che mi permettevano di vivere, ma mai avrei concepito di stare
via degli anni interi. A parte gli affetti che avrei lasciato a Bologna, mi
domandavo come avrei potuto permettermelo economicamente. Ma
sapevo già che il mio modo di vivere era uno degli infiniti possibili,
che esistevano miriadi di differenti approcci alla vita e non potevo
certo avere la presunzione di pensare che il mio fosse l’unico
realizzabile o comunque il migliore. Forse quel ragazzo era ricco di
famiglia, forse si procacciava un reddito in chissà quali modi strada
facendo. Comunque fosse, il suo esordio mi spiazzò non poco.
– Raccontaci il tuo itinerario.
CHRISTOFF – Sono partito da poco da Lione, sono andato in treno sino a
Montpellier e mi sono fermato un po’ lì a casa di amici.
ANDREA – Sei universitario?
CHRISTOFF – Ho finito, sono laureato in sociologia.
ANDREA – La giusta conoscenza per affrontare un giro del mondo!
CHRISTOFF – Ah ah! Sì. Poi da Montpellier sono sceso pian piano sino a
Gibilterra col treno e con l’autobus. Sono stato una settimana a Barcellona,
poi a Valencia, poi mi sono fermato in Andalusia una quindicina di giorni.
MARCO – Ti fermi settimane o mesi in posti dove noi stiamo un giorno!
Abbiamo un modo un po’ diverso di spostarci!
CHRISTOFF – A me piace stare nei posti per conoscere bene la gente,
se sei di passaggio non conosci granché.
MARCO
Era una grande verità. Io e Marco ne avevamo discusso a lungo ed
eravamo convinti che l’idea del francese fosse giusta, però la nostra
indole differente ci faceva cercare gli spostamenti continui, non la
stasi. Avevamo uno spirito nomade e non amavamo stazionare nei
139
posti, coprivamo distanze per il puro gusto di farlo. In un qualunque
periodo di tempo preferivamo vedere tante cose velocemente
piuttosto che poche in modo approfondito, così da vivere la
mutevolezza delle situazioni nel loro rapido succedersi. Sicuramente
questo andava a discapito della conoscenza più autentica, ma era
inutile rallentare se questo non ci dava piacere. Seguivamo il nostro
istinto, senza porci troppe domande.
– E poi Christoff? Racconta, dopo la Spagna che giro hai fatto?
– Sono arrivato in Marocco un mese fa, sono sbarcato a Tangeri.
MARCO – Ah ah! Un mese! Noi invece siamo in Marocco da cinque giorni e
abbiamo coperto la stessa distanza tua.
CHRISTOFF – L’ultima settimana sono stato a Dakhla,
ospite di un amico marocchino che ho conosciuto all’Università a Lione.
ANDREA – Che storia curiosa. Un marocchino di Dakhla che studia a Lione.
Deve essere uno di buona famiglia!
CHRISTOFF – Sì, ha finito gli studi l’anno scorso e ora è tornato a casa sua.
È proprietario di qualche barca e guadagna bene con la vendita del pesce.
Ci siamo salutati stamattina, chissà quando lo rivedrò.
MARCO – Ma dove stai andando?
CHRISTOFF – Per ora a Nouadhibou. Vorrei girare un po’ la Mauritania,
poi vedrò. Penso di stare in Africa qualche mese, non so dove andrò.
Comunque il prossimo inverno vorrei trascorrerlo in Libano.
ANDREA – In Libano? Perché questa scelta precisa?
CHRISTOFF – Mi hanno detto che d’inverno c’è un clima delizioso,
è il periodo migliore per una permanenza.
ANDREA
CHRISTOFF
Che personaggio curioso. Non che non lo fossero gli altri incontrati
sino a quel momento, ma quel ragazzo che rimbalzava da una parte
all’altra del globo senza apparente criterio mi confondeva non poco.
Dopo poco il gruppo diventò sempre più silenzioso. Cenammo con
qualche biscotto e stendemmo così i nostri sacchi a pelo sui gradoni
di cemento, rassegnati a trascorrere una notte che si preannunciava
scomoda. L’indomani avremmo sconfinato, non sapevamo come
sarebbe stata la Mauritania, ma sicuramente non ci avrebbe delusi.
140
NOUADHIBOU
La notte era trascorsa con grande fatica delle nostre schiene che,
appoggiate per ore sul duro cemento, continuavano a lamentarsi. Era
veramente presto ma tutti scalpitavano, apparentemente pronti a
proseguire il viaggio. Facemmo colazione con qualche resto dei
biscotti della cena e qualcuno degli altri ospiti ci offrì del caffè appena
fatto. Ritrovammo così un po’ del vigore che avevamo perduto.
– Che notte del cazzo! Ho la schiena spezzata, provavo a girarmi e
rigirarmi ma era comunque scomodo.
ANDREA – Anch’io non mi sono dato pace, ho cercato la giusta posizione ma c’è
poco da fare, dormire sul cemento è improponibile.
MARCO – Eppure ce l’hanno proposto.
ANDREA – E noi abbiamo accettato.
MARCO – Anche perché l’alternativa era dormire in mezzo ai rifiuti!
ANDREA – Vabbè, dai. Gli incubi svaniscono con l’alba,
tra poco si cambia Stato!
MARCO – Speriamo presto, anche perché qua non c’è un cazzo,
né da mangiare, né da bere, né da fare.
ANDREA – Abbiamo solo dei gran biscotti.
MARCO – Che soprattutto sono buoni! Bleah!
ANDREA – Sono squallidi sapori industriali, prodotti tecnologici in pieno
Sahara. Preferirei della carne di capra!
MARCO – Andiamo dai beduini a fare zuppetta nel the.
ANDREA – Buona idea, ci presentiamo là coi biscotti osceni e mendichiamo!
MARCO
Erano le sette e pensavamo che in non più di mezzora saremmo
partiti, ma ci furono numerosi falsi allarmi, sembrava spesso che il
convoglio stesse per muoversi, invece nulla accadeva.
A mezzogiorno eravamo veramente stanchi di stare lì, ma non
potevamo fare niente, se non continuare a domandarci inutilmente
perché non fossimo ancora partiti e chiacchierare con gli altri
compagni di sventura. Pareva comunque che quella attesa non li
disturbasse più di tanto, quasi fosse una cosa normale, invece erano
141
ormai sei ore che non accadeva assolutamente niente. A un tratto
vedemmo un ragazzo marocchino avvicinarsi a noi con fare gentile.
– Ciao ragazzi.
MARCO – Ciao.
RAGAZZO – Da dove venite?
ANDREA – Dall’Italia.
RAGAZZO – Bella l’Italia!
MARCO – Si, è bella. Ci sei stato?
RAGAZZO – No, ma mio cugino lavora a Bari.
RAGAZZO
Quella era una realtà che avevamo già vissuto tante volte. Quasi ogni
marocchino con cui parlavamo elogiava il nostro Paese senza esserci
mai stato; comunque tutti avevano un parente, vicino o lontano, che
viveva in Italia. Un po’ lo facevano sicuramente per cortesia, un po’
forse per sentito dire, comunque il copione era sempre quello.
– E tu come ti chiami?
RAGAZZO – Mohammed.
MARCO – Un altro? Ma quanti ne abbiamo già conosciuti?
ANDREA – Ah ah! Troppi!
Del resto è il nome più diffuso in tutto il mondo arabo.
MOHAMMED – Sì, tanti Mohammed, tanti. Bella la moto, che velocità fa?
ANDREA – Centosessanta chilometri all’ora, ma con questo carico non superiamo
mai i cento, anche se la strada è libera.
MOHAMMED – E quanto costa?
ANDREA
Anche quella era una situazione alla quale ormai eravamo abituati. In
tutto il mondo africano e asiatico che avevamo girato ci venivano
chiesti la velocità e il prezzo della moto. Provai a trasformare in
dirham la cifra che avevamo pagato per l’acquisto e ne uscì un
numero veramente elevato, quasi imbarazzante. Il ragazzo sorrise.
– Così tanto? Per me è veramente troppo costosa. Posso salirci?
MARCO – Ma sì, salici pure, figurati! Però stai attento che è molto pesante.
MOHAMMED
142
Mohammed montò in sella con vivo entusiasmo, tolse il cavalletto e si
improvvisò motociclista. Era buffo vederlo in quell’atteggiamento
infantile, mentre mimava con la bocca il rumore del motore. Non
soddisfatto, fece anche finta di impostare due curve. Dapprima scelse
di piegare a destra, scese un po’ e ritrovò subito la posizione verticale,
ma quando fu il turno della sinistra le cose andarono diversamente.
Una volta inclinata, la moto infatti stentò ad alzarsi. Il ragazzo smise
di sorridere e mimare rumore, sul suo viso era evidente lo sforzo di
colui che non riusciva più a reggere il peso e che ce la stava mettendo
tutta per risollevarla. Mi lanciai prontamente ad aiutarlo ma era
troppo tardi e la Yamaha cadde rovinosamente sull’asfalto. Io e
Marco guardammo la scena basiti, increduli.
– Mi dispiace veramente! Non pensavo che fosse così pesante!
ANDREA – Ma cazzo, Mohammed! Te l’aveva anche detto il mio amico, no?
Non potevi limitarti a fare il rumore con la bocca, senza fare anche le pieghe?
MOHAMMED - Mi dispiace!
MARCO – Guarda che danno! Si è rotto… ed era l’ultimo!
MOHAMMED
In soli due giorni eravamo rimasti senza specchietti retrovisori.
Provammo a fissarlo con dello scotch, ma non c’era niente da fare.
– Il tipo è sfigato, ma noi lo siamo stati più di lui!
Perché abbiamo dato la moto in mano a una sconosciuto?
MARCO – Non pensavo che avrebbe fatto dei danni da fermo!
ANDREA – Infatti siamo sfigati. Adesso come cazzo faccio a guidare?
Mi devo sempre girare per vedere che aria tira dietro?
MARCO – Beh, facile! Tu mi dici che vuoi sorpassare e io ti faccio da specchietto,
mi giro e ti dico se puoi andare.
ANDREA – Comodo! Non ci avevo pensato, sei la solita miniera di risorse!
MARCO – Ah ah! Tu sorpassa poco. Che vuoi fare? Siamo messi così!
ANDREA – E abbiamo superato solo uno Stato dei cinque africani previsti,
tra l’altro il più facile! Chissà cos’altro potrà succedere nei prossimi quattro!
MARCO – Non lo so, però ricordati che il vero biker guarda sempre avanti e non è
per niente disfattista. Ama pensare positivo e non sa cosa sia lo sconforto!
ANDREA
143
Mohammed era giustamente costernato. Rinunciammo a chiedergli
dei soldi, tanto il danno era fatto e non sarebbe cambiato nulla.
Accettammo le sue scuse e gli dicemmo che comunque non era un
danno grave. Subito dopo arrivarono alcuni militari che ci
consegnarono i passaporti e pochi minuti dopo la carovana si mosse.
Finalmente ci si toglieva da quella strada.
L’asfalto finì e la carreggiata iniziò a restringersi sino a diventare uno
sterrato sabbioso, largo non più di due metri. Intorno a noi c’erano
grandi dune di sabbia e tante sterpaglie, mentre erano del tutto
scomparse le pietre. L’hammada aveva lasciato posto all’erg, stavamo
entrando in Mauritania, la terra delle sabbie.
Ci trovavamo nella famosa e decantata pista bonificata dalle mine. Ai
suoi lati c’erano numerosi militari a poca distanza l’uno dall’altro che
fungevano da deterrente, in modo che a nessuno venisse in mente di
abbandonare il percorso segnato, finendo così probabilmente su uno
degli innumerevoli ordigni antiuomo e anticarro sepolti ovunque.
Dopo alcuni minuti vedemmo un’immagine che ci fece riflettere.
– Guarda là i resti di quella Jeep!
ANDREA – Cazzo, è stata dilaniata da una mina!
MARCO – Giusto a pochi metri da noi.
Non mi piacerebbe l’idea di lasciare questo sicuro tracciato, proprio no!
ANDREA – Non temere, non lo farò!
MARCO
I resti del fuoristrada erano arrugginiti e molto rovinati, ma si
distinguevano i pezzi della scocca. La mina l’aveva letteralmente
spezzata in due e i suoi occupanti non dovevano avere fatto una bella
fine. Poco più avanti notammo un cartello giallo su cui era disegnato
un veicolo che saltava in aria, ma la cosa più inquietante era senza
dubbio l’avvertimento posto poco più in basso.
– Ma perché c’è scritto “Attenzione! Mine anticarro” in italiano?
MARCO – Siamo grandi esportatori di morte nel mondo.
Siamo la terra della pizza e delle canzoni, ma mentre mangiamo e cantiamo, da
qualche parte nel mondo la gente salta sulle nostre mine e ci maledice per questo.
ANDREA
144
– Che cazzo c’hanno fatto poi i marocchini e i mauritani! Che schifo la
guerra! Che schifo gli affaristi che guadagnano sulla pelle altrui.
ANDREA
Il cartello scritto in italiano era segno inequivocabile del ruolo che il
nostro Paese aveva avuto nel lungo conflitto fra i due Stati per il
possesso del Sahara Occidentale. La quasi totalità della nostra
popolazione non aveva nemmeno idea di che luoghi si trattasse, ma i
ricchi commercianti di morte lo sapevano eccome.
La pista finì e davanti a noi si presentò una grande tenda azzurra.
Qualche metro più in alto, in cima all’asta, sventolava la verde
bandiera della Mauritania. Eravamo arrivati.
Oltre a tutta la gente della carovana, vedemmo anche diversi beduini e
i primi tuareg, un popolo che per noi era una leggenda. Li avevamo
già conosciuti nella Valle del Draa, in Marocco, in occasione del
nostro primo viaggio nel 1994 e ne eravamo rimasti estasiati.
Abitano in quasi tutta l’Africa settentrionale, ma sono stanziati in
prevalenza nel Sahara centrale e centro-meridionale. Si distinguono
per l’elevata statura e la corporatura molto longilinea, la testa alta e
allungata con il viso tondo in cui si evidenzia un naso dalla forma
quasi aquilina, ben differente da quello schiacciato, tipico della
maggioranza delle popolazioni nere di quella zona.
Come già riferito per i beduini, anche in questo caso si tratta di una
tribù inizialmente composta da pastori nomadi, che successivamente
divennero stanziali e si dedicarono all’allevamento di cammelli e
cavalli. Molti di loro vivono ancora in tende di forma poligonale
composte da stuoie o pelli di pecora o capra cucite tra loro.
Per quanto riguarda l’abbigliamento, la maggior parte dei tuareg
indossa il tipico vestiario tradizionale. Quello dei maschi consiste in
una casacca corta e pantaloni larghi con il cavallo molto basso, una
grande tunica, di solito color indaco, e il tipico copricapo composto
da una calotta di feltro rosso, avvolta in un grande velo nero, bianco o
indaco, nel quale compare solo una piccola fessura per gli occhi.
Le donne invece indossano una gonna lunga, seminascosta da una
casacca e spesso da un grande mantello che copre dal capo ai piedi,
ma il volto è sempre scoperto. Anche loro, come i beduini, sono i veri
145
simboli del deserto, i capi indiscussi. Sanno muoversi e sopravvivere
in un ambiente totalmente ostile e il solo vederli evoca forti
sensazioni profonde, primordiali e misteriose.
Venimmo invitati da due militari ad entrare nella grande tenda, che
altro non era che l’ufficio doganale; al suo interno si trovavano solo
un tavolone di legno e qualche sgabello, appoggiati sulla sabbia.
Alcuni beduini e tuareg, funzionari dello Stato, ci chiesero i passaporti
e ci fecero pagare un po’ di denaro per l’assicurazione della moto. Il
visto d’ingresso l’avevamo già ottenuto all’Ambasciata mauritana di
Roma, pertanto in poco tempo fummo finalmente liberi di entrare nel
Paese per raggiungere la città di Nouadhibou.
Stavamo per partire, quando sentimmo urlare e ci fermammo a vedere
cosa stesse succedendo. Era quell’uomo di Colonia, già visto a
Dakhla, che viaggiava col suo furgone del gas. Che tipo strano! Stava
imprecando contro dei marocchini perché, a dire suo, non erano
abbastanza efficienti nel prestargli aiuto. Si era infatti insabbiato e il
suo buffo mezzo non voleva saperne di muoversi. I suoi aiutanti ce la
mettevano tutta e lui, invece di ringraziarli e spronarli in qualche
modo positivo, non trovava di meglio da fare che insultarli per la loro
inettitudine. Dopo poco la loro pazienza finì e lo lasciarono da solo,
in balia del suo destino, rivolgendogli frasi adeguate alla situazione.
Non mancava molto a Nouadhibou ma eravamo decisamente stanchi,
affamati e assetati e non vedevamo l’ora di potere riposare in qualche
posto confortevole. Faceva molto caldo, il termometro posto
all’ombra vicino alla tenda segnava quarantanove gradi. Era proprio
un ambiente inospitale e incuteva un po’ di timore, con l’aria
totalmente secca, pregna della sabbia sollevata dal vento fortissimo. Si
fece sempre più strada il pensiero di ciò che ci attendeva.
Quanto tempo sarebbe servito per superare il Sahara? Ce l’avremmo
fatta con l’unico mezzo rimasto? Non potevamo fare altro che
proseguire e sperare. Dopo pochi metri iniziò una pista sabbiosa e
non si riusciva ad andare avanti. La ruota posteriore si affossava e
slittava, il motore ruggiva furioso, ma il peso era troppo elevato e il
mezzo non si spostava. Ci fermammo a pensare al modo di uscire da
quella situazione, quando improvvisamente apparvero i beduini del
146
giorno prima, i nostri angeli custodi; appena ci videro si fermarono e
ci chiesero se avessimo bisogno d’aiuto. Smontammo i bagagli e li
caricammo sulla loro auto, anche Marco salì con loro e io potei così
guidare la moto molto più agevolmente.
Ripartimmo quindi con ben altre prospettive. Io non avevo però mai
avuto esperienze sulla sabbia, mi potevo solo avvalere delle
conoscenze teoriche apprese da Riccardo, che sembrava si fosse
divertito un mondo a scorrazzare più volte nelle piste mauritane con
diverse moto. Mi aveva detto che avrei dovuto sgonfiare un po’ le
gomme, stare arretrato col peso e tenere sempre il motore su di giri, al
fine di potere letteralmente galleggiare sulla sabbia, senza fare mai
affossare la ruota anteriore. Provai così a mettere in pratica quei
consigli, ma in pochi secondi andai a sbattere contro una sterpaglia.
Appoggiai prontamente il piede a terra ed evitai la caduta. Riprovai,
andai contro un’altra sterpaglia e nuovamente appoggiai il piede. Ero
già esausto. Il caldo, la sabbia, la sete, la fame… tutto giocava contro
di me. Cominciai a pensare che i suggerimenti di Riccardo fossero
validi in una spiaggia ampia e libera da ostacoli, dove si può
raggiungere una velocità e mantenerla, non in una pista come quella,
costellata di ostacoli di ogni genere. Comunque fosse non sapevo che
fare. Provai ad andare molto piano, usando solo la prima e la seconda,
ma mi trovai letteralmente ad arare la sabbia con la ruota posteriore
mezza sepolta, le due gambe a terra a mantenere un equilibrio
improbabile, quasi come fossero due sci da slitta, e la ruota anteriore
che andava dove voleva, comunque mai nella direzione giusta.
La cosa più grave però era che non vedevo più la carovana.
Viaggiavano tutti in macchina e su quel terreno costituiva un
vantaggio, inoltre era quasi tutta gente del posto, abituata a transitare
in quel luogo ostile, così mi avevano seminato.
Provai ad accelerare un po’ nel tentativo di raggiungerli, non
potevano comunque essere troppo lontani, ma avevo un limite
tecnico e non potevo fare diversamente. Poi mi trovai di fronte a un
bivio e non avevo idea se i miei compagni fossero andati a destra o a
sinistra, anche perché c’erano tracce di pneumatici in entrambe le
direzioni. Non sapevo che fare, poi pensai che forse le due strade si
147
sarebbero ricongiunte a breve e sarei così riuscito a ritrovare il
gruppo. Non ero nemmeno certo che si fossero accorti della mia
assenza, ma questo aspetto non mi preoccupava, perché confidavo
che Marco non mi avrebbe abbandonato in mezzo al deserto.
Mi feci coraggio, tirai a caso e andai a destra, ma dopo pochi minuti
scomparirono le tracce e capii così che quelli che avevo visto erano
segni lasciati da altri mezzi, passati ben prima di quelli che cercavo.
Poi venni colto dal panico. Ricordai che la zona era stata bonificata
dalle mine ma solo nei percorsi segnati, mentre tutt’intorno ce n’erano
ancora chissà quante inesplose. Ad aumentare la mia paura già
considerevole, mi sovvenne anche di avere letto che spesso qualche
cammello, in cerca d’acqua, saltava in aria e i brandelli del suo
sfortunato corpo concimavano l’arido deserto.
Dove mi trovavo? Per quel che ne sapevo potevo essere a pochi
centimetri da una mina anticarro. La paralisi mi colse, cominciai a
sudare freddo, non riuscivo a ragionare. Mi sforzai di frenare il
panico, respirai in modo profondo e regolare e ritrovai una parvenza
di lucidità. L’unica cosa da fare era percorrere a ritroso l’ultimo tratto,
seguendo con la massima precisione le tracce dei miei pneumatici.
Avrei dovuto anche fare molto presto, perché il vento stava già
cominciando a cancellare i segni del mio passaggio.
E così feci, raggiunsi il bivio e mi fermai. Non c’era nessuno a perdita
d’occhio e pensai quindi di tornare alla tenda di frontiera, dove
almeno sarei stato al sicuro, quando in lontananza vidi materializzarsi
la Toyota dei miei angeli custodi. Marco era fuori dall’auto e
sbracciava animatamente per farsi notare.
La mia gioia fu immensa, avevo ritrovato il mio compagno e la
carovana intera. Da solo non contavo assolutamente nulla, avevo
bisogno degli altri, lo sapevo già ma in quel frangente mi fu lampante.
– Dove cazzo eri finito? Hai fatto balotta coi doganieri?
ANDREA – Lascia stare, mi sono cagato in mano!
Avevo sbagliato strada, mi ero perso e avevo paura di saltare in aria su una mina!
MARCO – Non ci pensare neanche, non è il momento per queste cose.
Prima di saltare in aria dobbiamo arrivare ad Abidjan, non te lo scordare!
MARCO
148
– Promesso, non lo faccio più. Però prova a dire ai nostri amici di
andare più piano, io non riesco mica a guidare su ‘sta sabbia di merda!
MARCO – Strano, Riccardo diceva che era semplice.
ANDREA – Beh, non qua o non per me. Se vado forte per galleggiare sulla sabbia
cado, se vado piano sembro un trattore che sta arando un campo.
In pratica non so come fare!
MARCO – I nostri amici beduini si stanno un po’ spazientendo ad aspettare,
dicono che hanno da fare a casa.
ANDREA – Non so che dire, proverò ancora, magari mi abituo e ci tiro.
MARCO – Prova. Divertiti!
ANDREA
I risultati non migliorarono per nulla, mi consolava un po’ il fatto che
anche altre auto si piantassero nella sabbia, questo mi faceva sentire
meno solo nella mia inettitudine. Era bello e quasi commovente
vedere che l’intera carovana si fermava ogni volta che questo
accadeva e tutti aiutavano il malcapitato di turno. La solidarietà
regnava sovrana, non c’era nessuno spazio per gli individualisti nel
deserto, la natura troppo forte e ostile non permetteva di esserlo.
Procedetti per due ore a passo d’uomo, temendo che la moto
fondesse sotto lo sforzo immane, ma era veramente un trattore,
continuava ad andare come niente fosse. Altro che la Suzuki, pensai.
Ogni dieci minuti ci si fermava ad assistere il bisognoso di turno e si
ripartiva. A un certo punto stavamo spingendo un’auto insabbiata,
quando il suo proprietario marocchino, dopo l’infruttuoso sforzo
immane, totalmente sudato, cominciò a imprecare con furia.
– Che posto di merda! Vaffanculo! Non ne posso più! Questa
non è vita! Come cazzo fate voi mauritani a vivere in un posto così?
MAROCCHINO
Uno dei nostri amici beduini lo guardò senza espressione e gli rispose.
– Noi ci siamo nati. Ma scusa, perché stai andando in Mauritania?
MAROCCHINO – Sto andando con mio fratello a trovare la nostra famiglia a
Nouadhibou. Ma non penso che ci tornerò, almeno sino a quando non costruirete
una strada. Sono delle ore che siamo qua e abbiamo percorso pochi chilometri!
BEDUINO
149
– Non hai la macchina giusta, noi col nostro fuoristrada saremmo già
arrivati da un bel po’, eppure siamo qua ad aiutare voi. Non ti lamentare,
fatti aiutare; un’altra volta sarai tu ad aiutare chi avrà bisogno.
BEDUINO
E il marocchino tacque, certamente cosciente di essersi lasciato
andare a uno sfogo inadeguato verso persone che non meritavano
certo di esserne il bersaglio. La terra è ostile, i mauritani lo sanno e si
aiutano. Non è un caso che in un Paese enorme come quello non ci
siano nemmeno tre milioni di abitanti; è veramente un posto
invivibile, anche se indubbiamente affascinante.
Dopo un’altra ora di agonia sentimmo un fischio in lontananza, stava
arrivando il treno, l’unico dell’intero Stato. Avevamo letto qualcosa in
merito sulla nostra guida Lonely Planet. Esso collega Nouadhibou
con Zouerat, una località mineraria dell’interno; la sua funzione
principale è quella di trasportare il ferro dalle miniere al mare, ma
effettua anche il trasporto di passeggeri e di auto. Sembrava un lungo
serpente di ferro che strisciasse nel deserto, arrivava direttamente
dall’orizzonte sabbioso e procedeva lento ma inesorabile verso di noi.
– Signori! Il treno più lungo del mondo! Almeno così ho letto!
Tre chilometri di treno merci. Oltre alla locomotiva ci sono un paio di vagoni per i
passeggeri, il resto sono dei cassoni pieni di ferro.
ANDREA – Guarda che roba! Non si vede la fine.
Sarà una locomotiva incazzata per tirarsi dietro un peso del genere!
MARCO – E pensa che freni deve avere.
ANDREA – Già. Tre chilometri di treno a pieno carico avranno una forza
d’inerzia devastante, quando è partito non si ferma facilmente!
MARCO
Dopo molto tempo apparve finalmente la coda del treno, che terminò
così la sua sfilata e sparì all’orizzonte. Era veramente immenso.
Continuammo il viaggio, il sole stava ormai calando e non si sapeva
quanto mancasse a destinazione. Con l’oscurità crescente si vedevano
più distintamente i bagliori della città, ma l’assenza di punti di
riferimento non ci permetteva di percepire la reale distanza. Altri
insabbiamenti, altre imprecazioni, altre stelle sostituivano lentamente
150
la luce del sole. Erano ormai le nove di sera, avevamo lasciato la
frontiera sette ore prima e percorso pochissimi chilometri. In quel
momento l’urgenza principale era quella idrica. Avevamo finito
l’acqua da molte ore, un tempo lungo già in condizioni normali, ma
col caldo, la sabbia e la fatica mi sembrava di essere sul punto di
svenire. La gola faceva molto male e le energie erano sempre di meno.
Un beduino aprì una scatola di ananas sciroppato e me ne donò una
fetta con le mani sporche di ogni cosa possibile. Fu certamente il più
bel regalo che avessi mai ricevuto nella mia vita. Noncurante di tutto
lo tenni in bocca a lungo, quasi a non volermene privare, a non
rinunciare ad un benessere senza fine. Non avevo mai provato una
sete del genere, era una sensazione tremenda che non conoscevo, che
non potevo supporre. Dopo mezzora il piacere datomi dal frutto
divenne solo un lontano ricordo e la gola mi doleva più di prima.
Durante una delle innumerevoli soste per liberare le auto insabbiate
mi aggirai in cerca di qualsiasi cosa da bere. Notai sul sedile di una
macchina una bottiglietta di liquido trasparente destinato al radiatore.
L’aprii e vidi che era acqua torbida, però a quel punto avevo perso
ogni decoro, misi da parte la vergogna e me ne impossessai senza
chiedere a nessuno. Ne bevvi un paio di sorsate e la rimisi al suo
posto, sperando che il proprietario non se ne accorgesse e mi
picchiasse lì su due piedi, lasciandomi sanguinante nella sabbia. Non
avrei avuto capacità di reazione, non sarei certo stato in grado di
difendermi. Mi resi conto che ci voleva veramente poco a mettere un
uomo alle strette, bastava porlo a confronto coi suoi bisogni più
primordiali. Senza acqua si può diventare dei veri e propri animali,
come avrei imparato meglio qualche giorno dopo.
Guardai l’orologio, era quasi mezzanotte, un orario inconcepibile.
Dopo nove ore dalla partenza dalla frontiera si erano percorsi solo
cinquanta chilometri e avevo toccato un livello di stanchezza mai
raggiunto sino a quel momento. Quale sarebbe stato il mio limite?
Improvvisamente apparve l’asfalto e la sua visione mi fece sentire
come Cristoforo Colombo quando sbarcò in America. Scesi dalla
moto, mi prostrai sulla strada e la baciai. Marco mi guardò divertito,
comodamente seduto nel sedile posteriore della Toyota.
151
– Terra! Nouadhibou! Civiltà! Asfalto! Fatti baciare! Smack! Smack!
– Sarai mica stanco per il giretto di oggi?
Adesso regalerai le perline agli indigeni, come fece Colombo?
ANDREA – No, mi limiterò a ringraziare i nostri benefattori.
MARCO – Sono già andati via. Vabbè che in Africa il tempo non conta,
però erano in ritardo di otto ore e avranno avuto le loro cose da fare. Ti salutano.
ANDREA – E i bagagli?
MARCO – Ce li hanno scaricati lì.
ANDREA – Che uomini!
Hanno perso otto ore del loro tempo per aiutare degli sconosciuti.
MARCO – Già. Non so cosa pensare.
ANDREA – Ci penseremo poi, adesso voliamo a cercare un alloggio! Voglio bere
ogni cosa, mangiare, lavarmi e dormire. Che ne pensi del mio programmino?
MARCO – Ineccepibile.
ANDREA
MARCO
Trovammo in breve tempo un albergo con un grande cortile
recintato. Ci venne assegnata una stanza spoglia di tutto, ad eccezione
di due materassi appoggiati sul pavimento. Niente bagno, ma era
possibile lavarsi in una casupola con una doccia spartana, la solita
senza diffusore d’acqua, col getto che piomba violentemente sulle
spalle. Un ragazzo del personale andò chissà dove in città per
procurarci cibo e liquidi, perché era molto tardi e l’hotel non offriva
più servizi. Tornò poco dopo con due lattine di Coca Cola gelata e un
pollo allo spiedo. Ringraziammo e lo congedammo.
– Ahhhhhhhhhh! Godimento!
ANDREA – Ahhhhhhhhh! Godo anch’io! Non ho mai goduto così tanto nella
mia vita! Ma che libidine è questa coca dopo nove ore di deserto?
MARCO – È un’emozione che nessuno potrebbe capire, è indescrivibile.
ANDREA – Il problema è che l’abbiamo seccata. Adesso cosa beviamo col pollo?
MARCO – Riempiamo una bottiglia d’acqua e sterilizziamola con l’Amuchina.
ANDREA – Vabbè, anche se è calda non vedo alternative.
È passata la mezzanotte, se andiamo a svegliare il tipo, poi finisce che s’incazza.
MARCO – Dopo questa coca farà un po’ cagare, ma è meglio non tirare la corda.
MARCO
152
Decidemmo di prenderci tutto il giorno dopo per riposare, avremmo
fatto il bucato e preso contatti per trasportare la moto sul treno, poi ci
saremmo dedicati alla visita del luogo che ci ospitava, di cui avevamo
letto qualcosa di generico sulla guida.
La città venne fondata dai francesi che la chiamarono Port Etienne,
dopodiché assunse il nome arabo di Nouadhibou. È il secondo centro
abitato del Paese e nel periodo del nostro viaggio contava circa
ottantamila abitanti. Data la sua posizione strategica, è sicuramente il
principale polo commerciale di tutto lo Stato. Si trova sulla penisola di
Capo Blanco ed è la prima località mauritana che si incontra sul
percorso della Western Sahara Route. La principale attività è la pesca,
in quanto le acque che la bagnano sono fra le più pescose
dell’Atlantico; tuttavia l’economia è basata perlopiù sulla lavorazione
del ferro, che giunge in città dalle remote zone minerarie
dell’entroterra con il treno lungo tre chilometri, che avevamo avuto il
piacere di incontrare. Le principali strade sono asfaltate, ma appena si
esce dal centro abitato ci sono solo piste di sabbia più o meno
compatta che portano ovunque. È quindi molto isolata, non è per
niente facile raggiungerla, si tratta di una sorta di prigione chiusa dal
mare e dal deserto. Non è certo un luogo particolarmente ricco di
fascino, almeno secondo i nostri parametri. Eravamo più attratti da
realtà rurali piuttosto che cittadine, ma si trattava di una sosta
indispensabile. Facemmo ancora un po’ di conversazione, dopodiché
le forze ci lasciarono definitivamente. Rinunciammo anche all’idea di
lavarci, perché avevamo finito i vestiti puliti e l’idea di indossare
mutande e magliette sporche dopo la doccia era raccapricciante. In
quel momento volevamo solo dormire e così facemmo. L’ambiente
molto silenzioso e l’infinita stanchezza arretrata ci lasciarono privi di
sensi fino a tarda mattinata, quando la temperatura divenne eccessiva
e ci svegliammo per il disagio, totalmente disidratati.
– Ma che cazzo di caldo! Ho la bocca secca, è evaporata anche la saliva!
ANDREA – È il clima sincero della Mauritania, amico mio!
MARCO – Sarà, ma non l’affronto! La sabbia è finita perfino nelle mutande!
ANDREA – Lavati, poi potrai indossare gli stessi vestiti di ieri. Sai che libidine!
MARCO
153
– Se facciamo il bucato ora, con ‘sto vento e ‘sto caldo è tutto asciutto in
mezzora, così poi ci laviamo e mettiamo dei vestiti puliti.
ANDREA – Però il vento alza la sabbia e siamo daccapo,
i vestiti puliti saranno nuovamente insabbiati.
MARCO – Beh, prendiamo un battipanni e, una volta asciutti,
li sbattiamo uno a uno e togliamo la sabbia.
ANDREA – Non sapevo avessimo un battipanni fra i bagagli.
MARCO – Chiederemo a qualche inserviente, sennò lo facciamo a mano.
ANDREA – Prendiamo a schiaffi i vestiti!
MARCO – Allora... Prima si fa colazione, sennò non stiamo in piedi, poi facciamo
il bucato e ci rintaniamo in pantaloncini in stanza ad aspettare che asciughi.
Intanto facciamo un po’ di progetti. Quando i vestiti sono asciutti ci possiamo
concedere la meritata doccia e indossare poi le cose pulite.
ANDREA – Si può fare, ma l’importante è non girare in pantaloncini per
l’albergo. Qua sono tutti islamici e daremmo sicuramente scandalo.
Hai visto gli uomini in giro? Non ce n’è nemmeno uno che non abbia gambe e
braccia coperte. Coi nostri fisici da spiaggia saremmo un po’ troppo provocatori!
MARCO – Vabbè, un ultimo sforzo con questi abiti indegni. Ormai è quasi
mezzogiorno, facciamo una colazione abbondante e siamo a posto sino a cena.
MARCO
Sembravamo due gemelli, vestiti in modo pressoché identico. Non era
un abbigliamento né da passeggio, né da moto, era una nostra libera
creazione, elaborata appositamente per muoversi in quel clima
torrido, che non trovava equivalenza in altri bikers.
Come già accennato in precedenza, ci distinguevamo assai dallo
stereotipo del motociclista. Normalmente i motociclisti indossano
stivali, mentre noi preferivamo le scarpe da ginnastica, che ci
permettevano di passeggiare liberamente durante la pause.
Normalmente i motociclisti indossano pantaloni con protezioni alle
ginocchia, mentre noi preferivamo dei larghi pantaloni di cotone, un
po’ come quelli dei tuareg, che facessero respirare la pelle e la
proteggessero allo stesso tempo dal sole e dalla sabbia. Normalmente
i motociclisti indossano una giacca pesante, con solide protezioni sulle
spalle e sui gomiti; soffrono tremendamente il caldo ma lo ritengono
l’ovvio prezzo da pagare per spostarsi su due ruote. Noi invece
154
indossavamo una maglietta di cotone per assorbire il sudore, una
camicia un po’ robusta e nient’altro: non concepivamo di
surriscaldarci più del necessario. Immancabile era la bandana avvolta
intorno al collo. Essa aveva una funzione duplice, in quanto
proteggeva dal vento e, all’occorrenza, la si poteva trasformare in una
maschera oscurante, che ci permetteva di dormire in qualunque
ritaglio di tempo. Quando si viaggia a certi livelli è essenziale riposare
e lo si può fare nei momenti e nei luoghi più disparati. Alcuni non
risentono della luce e si addormentano senza difficoltà, altri hanno
bisogno del buio per riposare bene. Noi apparteniamo alla seconda
categoria ed ecco che le bandane sugli occhi ci garantivano anche la
possibilità di creare un effetto notte in ogni momento. Talvolta i tappi
nelle orecchie, ricavati con semplici pezzi di carta arrotolata,
completavano l’isolamento dal mondo esterno, aumentando l’effetto
benefico. Un abbigliamento brutto, inadeguato al passeggio e anche al
motociclismo, almeno secondo i canoni occidentali, ma comunque a
noi piaceva così e non ci creava disagio, anche perché, quando ci si
trova fra beduini e tuareg, le normali concezioni estetiche sono messe
in seria discussione. Prendemmo così contatti con il personale
dell’albergo e sedemmo in una stanza, in attesa della colazione.
– Bene, intanto che arriva l’omino col cibo vediamo di capire come
siamo messi col nostro progetto.
MARCO – Coi vestiti siamo messi male!
ANDREA – Ma con lo spirito no! Dobbiamo riuscire ad attraversare il Sahara,
per farlo abbiamo una moto di sedici anni, quaranta chili di bagaglio e tanta
buona volontà. Non è mica poco!
MARCO – Soprattutto quaranta chili di bagaglio. Ti ricordo ieri come eravamo
messi, se non c’erano gli angeli custodi eravamo ancora là ad arare il terreno!
ANDREA – Già, c’è un po’ di sabbia. Riccardo e Claudio non ce l’avevano detto!
MARCO – Un po’ di sabbia? Ah ah ah ah!
Meglio dire che c’è un po’ di asfalto, del resto sabbia dappertutto!
ANDREA – Forse lo davano per scontato, visto che si parla di Sahara.
Siamo stati noi a pensare, chissà perché, che si trattasse di piste in terra battuta.
ANDREA
155
– E comunque dovremmo essere qua con due moto e il peso limitato ed
equilibrato, mica con una sola, stracarica come un somaro!
MARCO
Arrivò il cameriere che riempì la nostra tavola di frutta, pane,
marmellata e succo d’arancia. Mentre Marco stava spostando il cibo in
un angolo per creare spazio, io aprii con fierezza non più la carta del
Marocco, ma quella dell’Africa occidentale.
– Si cambia carta! È un chiaro segno di avanzamento;
non più quella provinciale della F.M.B. di Bologna per vedere il Marocco,
ma la più autorevole 953 Michelin, Africa nord e ovest!
MARCO – Che ci terrà compagnia sino alla fine.
ANDREA – Già, la seconda e ultima carta. Guarda qua, Nouadhibou.
MARCO – Cazzo, qua intorno è giallo ovunque, siamo circondati dalla sabbia.
ANDREA – Siamo in pieno deserto. Dobbiamo in qualche modo raggiungere
Nouakchott, la capitale, che è qua, proprio a sud di Nouadhibou.
Sono circa quattrocentocinquanta chilometri, da lì poi comincia l’asfalto ed è fatta.
MARCO – Beh, facile, no? Ieri ci abbiamo messo un giorno per fare cinquanta
chilometri, se ce la prendiamo comoda in nove giorni arriviamo.
Che bazza attraversare il Sahara!
ANDREA – Ah ah ah ah! Vero! Peccato che con la storia della bassa marea
siamo costretti a farlo in poche ore, altrimenti anneghiamo!
MARCO – Magari non è tutta sabbia, forse c’è qualche pista diversa.
Dobbiamo chiedere a qualcuno che ne sa.
ANDREA
Era già un anno che si fantasticava sull’area che stavamo per
attraversare. Ne eravamo giunti a conoscenza da Riccardo, che aveva
scorrazzato in lungo e in largo in terra d’Africa, e il fascino che
emanava era fortissimo. La Western Sahara Route taglia tutto il parco
nazionale di Banc d’Arguin, che si estende sulla spiaggia per centinaia
di chilometri da nord a sud, fra Nouadhibou e Nouakchott. La grande
quantità di terreno paludoso ospita milioni di uccelli provenienti
dall’Europa settentrionale, dalla Groenlandia e dalla Siberia. Le dune
del deserto arrivano fino all’Oceano Atlantico, creando un contrasto
spettacolare fra il giallo della sabbia e il blu del mare. L’unico modo
156
per attraversare quella zona è viaggiare sulla battigia, con le onde che
lambiscono le ruote dei fuoristrada, spaventando i gabbiani e i
pellicani che stanno sulla riva. Ma non è per niente facile farlo, in
quanto la pista si può percorrere solo durante la bassa marea. Se c’è
l’alta marea si deve invece aspettare, perché la spiaggia scompare
completamente per qualche ora, inghiottita dal mare.
Il nostro problema era evidente. Non sapevamo quanto tempo
avremmo avuto a disposizione prima di essere sommersi dalle acque,
ma eravamo certi di non essere in grado di percorrere quasi
cinquecento chilometri di spiaggia con il nostro mezzo e, soprattutto,
con l’enorme mole di bagaglio che ci portavamo appresso. Il giorno
prima ci eravamo permessi di impiegare molte ore per spostarci, ma
nel Banc d’Arguin non sarebbe stato possibile. Se fosse arrivata l’alta
marea avremmo dovuto guadagnare la cima di qualche duna,
altrimenti la moto sarebbe stata spazzata via dalle onde e con essa
sarebbe naufragato il nostro progetto.
Avremmo potuto cercare un passaggio per Marco e i bagagli;
probabilmente sarei riuscito a guidare sulla spiaggia con la moto
alleggerita, ma coprire una distanza del genere, incalzato dalla
necessità di fare presto, non sarebbe stata certamente una cosa facile e
avremmo messo a repentaglio la riuscita dell’intero viaggio. Era
necessario trovare un’alternativa. Il cameriere tornò al nostro tavolo
per vedere se avessimo bisogno di qualcosa e ne approfittammo per
chiedere qualche informazione in più sul fantasticato Banc d’Arguin.
– Scusa, volevo chiederti una cosa.
CAMERIERE – Dimmi.
MARCO – Come si fa ad andare a Nouakchott?
CAMERIERE – Dovete passare per la spiaggia, attraversando tutto il parco
naturale. Sono circa cinquecento chilometri sull’oceano, è una pista fantastica.
ANDREA – Ma non c’è un’alternativa? La nostra moto è molto pesante e non so
se riesco a guidarla sulla spiaggia.
CAMERIERE – Ma sì che riesci!
Tante moto passano per di qua e tutti vanno a Nouakchott per la spiaggia!
MARCO – Lo so, ce l’hanno detto, ma la nostra è veramente troppo pesante!
MARCO
157
Tutti i motociclisti che passavano di lì erano chiaramente organizzati
in modo differente. Normalmente si spostavano in gruppo con una
macchina d’appoggio, sulla quale stavano tutti i bagagli, quindi si
dilettavano nella guida sul Banc d’Arguin in leggerezza.
In caso di alta marea, l’intero gruppo andava sulle dune e aspettava
che le acque si ritirassero, magari bivaccando, poi proseguivano il
viaggio. Noi invece potevamo contare solamente sulla gentilezza di
qualche passante, ma non era di certo una condizione accettabile.
– In città ci sono agenzie turistiche che organizzano lo spostamento.
Uno guida la moto, l’altro sale su un’auto con autista e andate a Nouakchott.
ANDREA – Bella storia! Potrebbe essere un’idea! Ma quanto costa, secondo te?
CAMERIERE
E il cameriere sparò una cifra astronomica, una quantità di soldi che
non avevamo nemmeno. Gran parte dei turisti che volevano provare
il brivido del Banc d’Arguin erano persone con i soldi, non viaggiatori
spartani e proletari come noi. Capimmo pertanto che avremmo
dovuto trovare una soluzione ben diversa per raggiungere la capitale.
– Mi sa che non possiamo permetterci di spendere così tanto.
Non sai se qua in città c’è qualche camionista che vada a Nouakchott e che ci
possa caricare la moto e dare un passaggio?
ANDREA – Mica male sarebbe! In camion sul Banc d’Arguin! Che storia!
CAMERIERE – I camion è difficile che passino per di lì.
Vanno perlopiù verso Atar, seguendo la pista che costeggia la ferrovia,
poi da lì è molto semplice, c’è l’asfalto sino a Nouakchott.
MARCO
Il nostro progetto, elaborato nei mesi invernali, era di seguire tutta la
Western Sahara Route, quindi di attraversare la tanto discussa e
sospirata spiaggia sulle due moto leggere. Ma la morte prematura della
Suzuki aveva cambiato le carte in tavola e ci trovammo così a
guardare la carta con occhio diverso. Il cameriere ci stava parlando di
una pista che andava verso est, lunga più o meno come quella
costiera, che ci avrebbe portati in una località del deserto. Ci saremmo
allontanati tantissimo dalla nostra meta, ma quantomeno da quel
158
punto avremmo trovato l’asfalto e raggiunto facilmente Nouakchott.
Si trattava quindi di percorrere cinquecento chilometri di pista, magari
chiedendo un passaggio a qualche camionista, per poi farne altri
quattrocento di asfalto fino alla capitale.
– Ma com’è la pista da qua ad Atar? È terra battuta o sabbia?
CAMERIERE – Dipende i tratti, un po’ terra, un po’ sabbia.
MARCO – Questo significa che non ce la possiamo fare. Ci serve un passaggio.
ANDREA – Inutile negarselo. Comunque una certezza l’abbiamo raggiunta.
MARCO – Quale?
ANDREA – Che il Banc d’Arguin lo vedremo solo in foto. Sob! Che tristezza!
MARCO – Però vedremo il vero deserto mauritano, mica questo assaggino costiero.
Andiamo nell’entroterra!
CAMERIERE – Perché non prendete il treno?
ANDREA
Il treno del ferro, il treno di tre chilometri, il treno più lungo del
mondo. L’avevamo visto solo il giorno prima e ne eravamo rimasti
affascinati. Sapevamo che andava nelle miniere di ferro, non avevamo
considerato l’ipotesi di salirci con la moto, anche perché si dirigeva ad
est e noi procedevamo verso sud. Ma in quel momento vedemmo la
luce dopo tanta oscurità.
– Intendi il treno del ferro?
CAMERIERE – Sì, parte tutti i giorni da Nouadhibou verso le due del pomeriggio.
Caricate la moto e scendete a Choum, da lì c’è una pista di neanche cento
chilometri che vi porta ad Atar, poi è tutto asfalto sino a Nouakchott.
MARCO – Ma la pista da Choum ad Atar com’è messa? Sempre sabbia?
CAMERIERE – In Mauritania la sabbia è dappertutto, ma non dovreste avere
problemi, c’è molta gente che viaggia fra le due città e una soluzione si trova.
ANDREA – Sì, ma dopo la giornata di ieri sono un po’ scioccato dalla sabbia!
CAMERIERE – Semmai uno chiede un passaggio e l’altro guida la moto,
comunque qualcuno che vi aiuta lo trovate. In Mauritania tutti aiutano tutti.
ANDREA – Questo è vero, siamo qui solo da un giorno ma ce ne siamo accorti
subito. Dalle nostre parti invece la cosa è un po’ diversa.
ANDREA
159
Il cameriere venne chiamato in cucina, ma prima di andarsene ci
suggerì di recarci alla stazione ferroviaria per avere informazioni.
L’avremmo fatto quanto prima.
– Bene, anche stavolta pare che abbiamo trovato la soluzione a un
problema irrisolvibile. Siamo dei professionisti!
ANDREA – In Africa tutto è possibile, dovresti saperlo!
MARCO – Ah ah! Vero, lo dimentico troppo spesso. Comunque a questo punto
facciamo il bucato e la doccia, poi andiamo in stazione a vedere che aria tira.
ANDREA – Se va tutto bene partiamo da qua domani pomeriggio.
E oggi cosa facciamo?
MARCO – Beh, cazzeggiamo un po’ in giro, poi più tardi c’è la partita.
ANDREA – Italia / Olanda. Chissà i mauritani per chi tifano!
MARCO – I mauritani non so, ma il vero biker tifa Italia!
MARCO
In quei giorni c’erano gli Europei di calcio e in serata la Nazionale
avrebbe disputato la semifinale. In genere non ci interessavano le
partite, ma in occasione di campionati europei o mondiali sentivamo
fluire in noi lo spirito patriottico e ci faceva piacere seguire le gesta dei
nostri campioni.
– Vabbè, dai, la guardiamo qua in albergo.
La tv c’è e non credo ce lo negheranno.
MARCO – Penso anch’io. Ma ora bando alle ciance!
Andiamo a fare il bucato e laviamoci!
ANDREA
Tornammo in stanza, svuotammo il baule e lo riempimmo di acqua e
detersivo. Mettemmo così in ammollo i vestiti di Marco e l’acqua
assunse un colore marrone, che non ispirava certo un senso di pulizia.
– Ah ah! Che schifo! Guarda quanta merda che esce dai tuoi vestiti!
MARCO – Voglio proprio vedere quando ci metterai i tuoi!
ANDREA – Ah ah! Non prendertela, è solo che sei una persona poco pulita!
Dai, andiamo a sfregarli, poi li sciacquiamo e ci dedichiamo a cose più belle.
ANDREA
160
Ripetemmo l’operazione con i miei vestiti e chiaramente il colore
dell’acqua era uguale. La sporcizia stava lentamente scomparendo.
– Oh! Ma che bei vestiti che abbiamo ora! Sembrano nuovi!
Per una settimana almeno siamo a posto!
ANDREA – Ah ah! Già, certo, è sempre bello mettere vestiti puliti.
Aiutami a tirare lo spago da questa colonna a quel palo là, così stendiamo tutto.
MARCO – Mi sa che possiamo fare di meglio.
Prima ho visto che sulla terrazza ci sono degli stendipanni.
Bisogna sbattersi a portare su i vestiti, ma c’è un gran sole e un po’ meno sabbia.
ANDREA – Perfetto! Cacciamo tutto nelle sportine a andiamo in terrazza.
MARCO
Dal tetto dell’hotel si vedeva tutta la città, si estendeva a perdita
d’occhio in tutte le direzioni, limitata solo dalle acque dell’oceano. Le
case erano basse, talvolta costruite con mattoni grezzi, altre intonacate
nei colori più vari, comunque tutti di una tonalità chiara e opaca. Il
vento incessante alzava la sabbia e l’aria ne era intrisa, tutto appariva
sfocato, mancava la nitidezza dei contorni.
Guardai in direzione del Banc d’Arguin, ero triste per l’esperienza
mancata, mi domandai se avessimo valutato al meglio la situazione. In
Africa tutto è possibile, però non si deve avere fretta e noi ne
avevamo. Il superamento di quella spiaggia poteva significare giorni e
giorni in più di viaggio, il che sarebbe andato a discapito del tempo
che avremmo dedicato all’attraversamento dell’Africa nera. Chissà
come sarebbe stato quell’ambiente! Sicuramente affascinante, fonte di
continui e nuovi stupori, ma non sarebbero mancate nuove avversità
da affrontare. Meglio pertanto procedere con il viaggio in treno,
sembrava essere la soluzione più rapida. Mentre stavamo stendendo i
panni arrivò una capra che annusava in giro in cerca di cibo e
sperammo non ci mangiasse i vestiti stesi. Ci ritirammo così in stanza
in attesa che le nostre cose fossero asciutte e decidemmo di riposare
un’altra oretta. Puntammo la sveglia per evitare di svegliarci col buio.
Era nostra intenzione recarci in stazione per informarci sul tipo di
viaggio che avremmo potuto fare l’indomani; non potevamo
permetterci di perdere il treno per una dormita troppo lunga.
161
– Ahhhh! Che bel riposino! È già il secondo da quando siamo arrivati!
– Ce la stiamo prendendo comoda. Del resto sono dieci giorni che ci
stiamo facendo un gran culo e ci siamo meritati un po’ di polleggio.
ANDREA – Tanto più che nei prossimi giorni non si sa come andrà a finire!
MARCO – Senti che caldo di merda!
Le nostre mutande non saranno solo asciutte, saranno secche!
ANDREA – Ah ah! Comodo! Stare in sella con le mutande incrostate di sabbia!
ANDREA
MARCO
Avevamo fatto la scelta giusta. Dopo appena un’ora i vestiti erano
perfettamente asciutti, inoltre senza traccia di sabbia perché la
terrazza era in una posizione riparata. In seguito controllai la moto;
nonostante l’assurdità del viaggio del giorno prima era tutto in ordine,
non aveva consumato nemmeno un grammo d’olio. Memore delle
parole del meccanico di Almeria, mi limitai a pulire la catena e a
ingrassarla. Se si fosse spezzata, il viaggio motociclistico sarebbe finito
e avremmo dovuto proseguire in altro modo.
Dopo la meritata doccia andammo così a cercare la stazione
ferroviaria della città. Non doveva essere una cosa difficile, sarebbe
stato sufficiente seguire gli unici binari su cui correva il treno più
lungo del mondo. A scanso di equivoci chiedemmo in giro e
venimmo indirizzati in un’anonima casupola alla quale mai avremmo
dato importanza, sembrava una delle tante abitazioni.
Entrammo, sembrava deserta, c’era sabbia depositata ovunque. A
terra, nella penombra, si intravedevano alcuni stracci sporchi, coperti
da una quantità abnorme di mosche; sopra a un tavolo fatiscente si
trovava una specie di notes con un timbro.
– Il tipo ci ha detto che qua c’è l’ufficio prenotazioni, ma a me sembra
più che altro che siamo finiti in una cantina dismessa. Che ne pensi?
ANDREA – È tutto buio e impolverato. Per essere un ufficio è messo malino,
ma soprattutto non ci sono impiegati.
MARCO – Forse qua si fanno prenotazioni self service!
ANDREA – Avranno risparmiato sul personale!
MARCO – Mah! Forse basta scrivere i nostri nomi sul notes, timbrare ed è fatta!
MARCO
162
Improvvisamente lo sciame di mosche spiccò il volo, invadendo lo
spazio intorno a noi, e una paurosa sagoma umana si alzò in piedi.
Non si trattava di stracci, come pensavamo, bensì degli abiti di un
beduino, totalmente mimetizzato nella penombra incolore, che stava
facendo un riposino nell’ora più calda della giornata, in compagnia di
un migliaio di insetti. Era proprio la persona che stavamo cercando.
IMPIEGATO
– Buongiorno signori, benvenuti. Di cosa avete bisogno?
E sbadigliò platealmente, esibendo una dentatura piena di tartaro.
– Vorremmo prenotare due posti sul treno per domani,
vogliamo andare a Choum. Però abbiamo anche una moto.
MARCO
L’impiegato farfugliò alcune parole, poi scrisse qualcosa sul notes.
– Il treno parte alle due del pomeriggio,
dovete essere in stazione almeno mezzora prima per caricare la moto.
MARCO – Ma i biglietti li facciamo adesso qui?
IMPIEGATO – Sì.
MARCO – Quanto dura il viaggio sino a Choum?
IMPIEGATO – Circa dodici ore.
ANDREA – Ma ‘sti cazzi! Non ci passa più!
IMPIEGATO – Non fate tardi perché ci sono pochi posti per i passeggeri e chi
arriva per primo se li prende. Altrimenti vi toccherà sedere sui vagoni merci.
ANDREA – All’aperto? In mezzo al ferro? Tra sabbia e vento per dodici ore?
MARCO – Beh, forse il ferro non ci sarà. Visto che lo estraggono nella miniera,
i vagoni saranno vuoti all’andata. Però rimane il resto dell’orrore.
ANDREA – Arriveremo moooolto prima!
Non voglio viaggiare all’aperto sino alle due di notte, non ce la potrei fare!
IMPIEGATO
L’addetto fece alcuni conti e chiese a Marco il denaro necessario, era
veramente economico. Una volta riscossa la somma ci consegnò la
ricevuta e tornò subito a sdraiarsi in mezzo alle mosche. Avevamo
stranamente un po’ di tempo libero da spendere, ma decidemmo
163
ugualmente di tornare all’hotel a bere e mangiare, forse anche a
guardare la partita. Era un posto abbastanza accogliente e pensammo
di fare un abbondante scorta di agio e comodità, in previsione
dell’imminente prolungato disagio dei giorni a venire. L’incontro di
calcio sarebbe iniziato a breve e sedemmo così sul divano di fronte
alla tv, dove venne a tenerci compagnia il proprietario dell’albergo,
così chiacchierammo un po’ con lui. Venimmo a sapere che tutto il
popolo mauritano tifava Francia, squadra che si era guadagnata
l’accesso alla finale sconfiggendo il Portogallo. Se l’Italia avesse
sconfitto l’Olanda si sarebbe pertanto scontrata con l’antica rivale
d’oltralpe e ne avremmo viste delle belle.
Tornò il cameriere conosciuto in mattinata e ci chiese se volessimo
consumare qualcosa durante lo spettacolo. La Mauritania è un Paese
islamico assolutamente osservante, così non è possibile trovare
alcolici, se non di contrabbando. Ma non ci perdemmo d’animo,
eravamo di bocca buona e mangiammo e bevemmo ogni cosa che ci
venne proposta. La Nazionale sconfisse l’Olanda ai rigori, perciò
dopo due giorni ci sarebbe stata la finale con la Francia e noi
l’avremmo vista in mezzo al Sahara, di certo in qualche luogo remoto.
– Bene, siamo in finale. Gli rompiamo il culo ai francesi!
– Mah! Speriamo! Chissà dove saremo quella sera! La cosa certa è che
a vedere la partita saremo gli unici bianchi in mezzo a orde di beduini e tuareg!
MARCO – Speriamo siano mansueti!
Non vorrei che si incazzassero con noi quando l’Italia sconfiggerà la Francia!
ANDREA – Non sono mica degli hooligans! Lo vedi che sono buoni, no?
MARCO – Se ce la vedremo brutta diremo “Vive la France!”
ANDREA – Mai! I francesi devono subire!
MARCO – Non sapevo fossi un tifoso!
ANDREA – Ah ah! Non lo sono quasi mai! Devi sapere che lo divento solo
quando c’è la Nazionale, ma soprattutto quando ci si scontra con la Francia.
MARCO – È giusto, i francesi sono un po’ troppo colonialisti per i miei gusti.
ANDREA – Anche un po’ nazionalisti e un po’ presuntuosi.
MARCO – Non criticare i nostri cugini!
Lo sai che il vero biker va d’accordo con tutti o te ne sei forse dimenticato?
MARCO
ANDREA
164
– Se è per questo, ricordati che i nostri veri cugini sono gli spagnoli,
sono più simili a noi e meno sboroni.
MARCO – Comunque è strano che tutti i mauritani tifino per la Francia.
E dire che li hanno dominati per anni, dovrebbero detestarli, altroché sostenerli!
ANDREA – È la sindrome di Stoccolma, un fenomeno psicologico inquietante per
cui la vittima si innamora del proprio carnefice!
MARCO – È di Stoccolma ‘sta sindrome?
ANDREA – Ah ah! Penso di sì.
ANDREA
Era ormai sera e non avevamo niente da fare, così continuammo a
chiacchierare di argomenti seri e faceti fino quasi a mezzanotte. Il
treno sarebbe partito nel primo pomeriggio, ci attendeva una lunga
nottata che saggiamente avremmo dedicato al riposo. Avevamo già
percorso alcune migliaia di chilometri e il gioco si stava facendo duro.
Era finita l’Africa che conoscevamo e ci eravamo appena addentrati in
una zona magica e misteriosa, non sapevamo quali strade avremmo
trovato, quali piste, quale gente, quali imprevisti.
Ignoravamo ogni cosa e ci stavamo avventurando nell’ignoto, ma
eravamo forti e questo ci bastava. Forti della nostra giovinezza, della
nostra resistenza fisica, della nostra determinazione a superare le
avversità, della nostra sete di conoscere. Sembrava che nulla potesse
fermarci e sino a quel momento nulla lo aveva fatto.
165
166
CHOUM
Ancora una volta, con il sorgere del sole la stanza era diventata un
vero e proprio forno e questo ci portò a cercare un po’ di aria fresca.
Dopo nove ore di sonno, mi alzai per primo e aprii le persiane.
– Ah! Che bella dormita!
MARCO – E che bella sudata! Giuro che non mi lamenterò mai più del caldo
della Bassa. Che ore sono?
ANDREA – Le nove e mezza. Che bello tutto questo polleggio!
Adesso facciamo colazione con calma e aspettiamo l’ora di partire.
MARCO – Non ti abituare troppo a questi ritmi, è solo un’eccezione, mi sa.
ANDREA – Una piacevole eccezione.
MARCO – Ho paura che in treno faremo tempo a romperci i maroni.
Dodici ore sono veramente tante, tra l’altro sarà sicuramente scomodo.
ANDREA – Beh, faremo delle chiacchiere coi mauritani!
MARCO – Ma tu avevi mai conosciuto dei mauritani?
ANDREA – Mai. Mi sa che in Italia non ce ne sono neanche.
Quelli che si spostano vanno in Francia, cosa vuoi che vengano a fare da noi?
MARCO – Quello che vengono a fare tutti gli stranieri, cercare lavoro!
ANDREA – Forse li avremo incrociati per strada senza accorgercene.
Anche perché non penso che in Europa girino vestiti da tuareg o da beduini!
MARCO – Hanno lineamenti strani. Alcuni sono neri, altri quasi bianchi.
ANDREA – Ho letto che fino a pochi anni fa c’era ancora la schiavitù.
Alcuni mauritani neri, non so quali, erano schiavi dei mauritani quasi bianchi.
E i francesi non c’entravano nulla, era una loro organizzazione sociale.
MARCO – Sì, ho letto anch’io.
Mi pare che sia stata dichiarata fuorilegge negli anni Ottanta.
ANDREA – Quando eravamo adolescenti, qua c’erano i mercati degli schiavi.
Che storia! Non ne parlava mica nessuno!
MARCO – Ufficialmente la schiavitù è stata bandita,
ma in realtà pare che persista ancora a livello sotterraneo.
ANDREA – Meno male che siamo bianchi!
Non mi piacerebbe essere catturato e ridotto in schiavitù, proprio no.
MARCO – Facciamo colazione? Poi si va in stazione a prendere il treno del ferro!
ANDREA
167
Rimanemmo seduti a tavola per circa un’ora, consultando come
sempre la carta e provando a immaginare come si sarebbe presentato
il territorio che stavamo per attraversare. C’era un alternanza di aree
gialle con altre bianche; probabilmente un colore indicava la sabbia,
l’altro la roccia. Leggere nomi assurdi di località sconosciute, che
presto sarebbero diventate note, emanava sempre un certo fascino.
– Guarda qua, la prima stazione sembra essere Bou Lanouar,
a circa cento chilometri da qui, poi altri centocinquanta e si arriva a Inal,
poi una minitappa di una cinquantina di chilometri sino a Tmeimichat,
poi gli ultimi centocinquanta sino a Choum.
Totale quattrocentocinquanta chilometri in dodici ore.
MARCO – I soliti nomi impronunciabili che tra poco impareremo a dire. Più che
altro è un treno stralento! Quanto cazzo va? Neanche ai quaranta all’ora?
ANDREA – Beh, farà anche delle soste nei pochi paesi. Comunque, lungo com’è
dovrà andare piano, perché se deve fermarsi per qualche motivo non è mica facile.
Sai che spazi di frenata deve avere una roba così lunga e pesante?
MARCO – Comunque sarà una bella storia. Sono contento di andare in treno!
ANDREA – Anch’io. Chissà che umanità incontreremo!
ANDREA
Avevamo già deciso di arrivare alla stazione con largo anticipo, per
limitare il rischio di non riuscire a trovare posto negli unici due vagoni
destinati ai passeggeri ed essere così costretti a viaggiare in un vagone
merci. Inoltre non ci erano state fornite informazioni in merito alla
moto, non sapevamo dove avremmo potuto caricarla e quanto tempo
ci sarebbe voluto, quindi era meglio prendersela comoda e andare
subito là. E così facemmo. Saldammo il conto, salutammo le poche
persone con cui avevamo avuto a che fare e partimmo.
In pochi minuti arrivammo a destinazione e ci trovammo di fronte a
un edificio alto non più di tre metri e lungo una ventina. Il lato che
dava sulla strada era del tutto simile a un’abitazione, con pareti
colorate di azzurro tenue a strisce bianche verticali. Nulla poteva fare
pensare a una stazione ma lo era. Superammo così un cancello e ci
trovammo davanti a una distesa di sabbia, cento metri più avanti c’era
l’unico binario che si perdeva nell’orizzonte giallo e piatto. Il lato
168
interno dello stabile presentava un ampio portico affacciato sulla
ferrovia, sotto il quale aveva trovato riparo una cinquantina di
persone variopinte, veramente poche rispetto alle nostre previsioni.
La cosa più strana però era l’assoluta mancanza di personale, nessuno
aveva le sembianze di un addetto ferroviario, sembravano tutti
normali passeggeri., almeno nei parametri mauritani. Beduini e tuareg,
uomini e donne di varia età ci guardavano con curiosità insistente,
cosa normale visto che eravamo gli unici occidentali, perlopiù con una
moto che doveva sembrare loro un’astronave. Sapevamo che il treno
trasportava anche automobili, ma non vedemmo traccia di alcun
veicolo e, anche se ci fosse stato, non capivamo come sarebbe stato
caricato. Non c’erano rampe, non c’erano gru, non c’era nulla.
– Che cazzo di stazione è?
ANDREA – Ah ah! Assomiglia a quella di Novellara!
MARCO – Nel mio paese non c’è la sabbia,
ma soprattutto non c’è questa gente qua!
ANDREA – Vedi qualcuno che assomigli al capo stazione?
A chi chiediamo informazioni per caricare la moto?
MARCO – Mah! Dovrebbe partire fra un’ora e mezza, ma con i tempi africani
non si sa mai. Certo che se devono caricare delle auto ci vorrà del tempo.
ANDREA – Tu che sai bene il francese, prova a chiedere.
MARCO
Marco si rivolse a qualche persona ma nessuna di esse pareva essere al
corrente di nulla. Infine un tuareg gli rispose e il mio amico tornò da
me con un’ espressione alquanto perplessa.
– Non tenermi sulle spine! Cosa ha detto il tipo? Spero buone notizie!
MARCO – Che il treno arriva qua, dobbiamo solo aspettare.
ANDREA – Informazione utile!
MARCO – Gli ho chiesto se sa chi si occuperà di caricare la moto e mi ha detto che
i mezzi di trasporto andranno sugli ultimi vagoni.
ANDREA – Gli ultimi vagoni dall’inizio o dalla fine?
Sono tre chilometri di treno, sarà meglio saperlo subito, non dopo!
MARCO – Non si sa, è faticoso capirsi! Parlano un francese un po’ strano!
ANDREA
169
– Ragioniamoci un attimo. Se questa è la stazione ed è piena di gente,
vuol dire che qua si fermano i vagoni passeggeri. Giusto?
MARCO – Spero. In Africa tutto è possibile, lo sai.
ANDREA – E i mezzi vengono caricati negli ultimi vagoni.
Ieri il treno l’abbiamo visto. Com’era fatto?
MARCO – Beh, fammi pensare… Ricordo la locomotiva, poi due vagoni,
poi una fila interminabile di cassoni per il ferro.
ANDREA – In effetti non abbiamo visto auto.
O ieri nessuno le ha trasportate o c’è qualcosa che non va.
MARCO – C’è qualcosa che non va.
ANDREA – Ascoltami. Abbiamo tempo, vola a chiedere al tipo di ieri, quello che
dormiva sepolto dalle mosche. Magari dobbiamo andare a tre chilometri da qua.
MARCO – Ma ci ha detto di andare in stazione, cazzo! Sarà mica così idiota!
ANDREA – Non lo escluderei. Comunque resta il fatto che qua ci sono solo
passeggeri a piedi, non vedo auto pronte a partire.
ANDREA
Stavamo cercando di capirci qualcosa, quando improvvisamente il
suono di un fischio lacerò l’aria. Il treno stava arrivando con un’ora di
anticipo e la piccola folla cominciò a rumoreggiare. Eravamo fermi,
non sapevamo assolutamente che fare.
Fece la sua comparsa il primo vagone merci, poi un altro ancora, poi
una fila interminabile di container aperti. I tre chilometri di treno
stavano sfilando davanti ai nostri occhi e scomparivano all’orizzonte.
Dopo alcuni minuti si sentirono stridere i freni, i vagoni vibrarono
violentemente, sembrava che i giunti che li univano dovessero cedere
da un momento all’altro. Infine con un tonfo il treno si fermò.
Davanti a noi c’erano i due vagoni passeggeri e la poderosa
locomotiva, in grado di muovere un convoglio di quelle assurde
dimensioni. La gente cominciò a correre verso le carrozze. Chi fosse
arrivato per primo si sarebbe conquistato l’agognato posto, i
ritardatari sarebbero invece stati relegati nei vagoni merci all’aperto.
Un uomo senza una gamba puntò con energia le stampelle nella
sabbia e, a modo suo, partecipò alla folle competizione. L’avanguardia
del gruppo raggiunse il treno. Alcuni salirono dalle uniche due porte,
altri si arrampicarono dai finestrini e, una volta entrati, allungarono le
170
braccia all’esterno e aiutarono altri ancora ad arrampicarsi. Era una
gara all’ultimo sangue, ma nessuno sembrava scomporsi. Chi aveva
già raggiunto la meta urlava frasi incomprensibili agli amici o ai
parenti ancora a terra e questi lanciavano le proprie borse all’interno
del mezzo, per poi provare a loro volta a salire.
– Questi sono matti! Ma da ‘ste parti il treno si prende così?
ANDREA – Ah ah! Sì! Forse dovremmo correre anche noi!
MARCO – Abbiamo una moto! Dove cazzo la mettiamo?
La lanciamo sul treno come fanno quelli là con le borse?
ANDREA – Potrebbe essere un’idea. Cosa facciamo? Vedi qualche addetto?
MARCO – No, chiaramente! È da quando siamo qua che lo cerchiamo!
E comunque di vagoni con delle auto non c’è nemmeno l’ombra!
MARCO
Non sapevamo che fare, eravamo paralizzati di fronte a quella scena
surreale. Uno dei passeggeri ci fece cenno di muoverci, perché il treno
stava per partire. Marco gli chiese qualcosa ma non riuscii a cogliere le
parole, c’era un rumore impressionante. Tutta la gente, rimasta
silenziosa sino a quel momento, alla vista del convoglio aveva
cominciato a urlare, sembrava un vero e proprio assalto al treno,
come solo nei film western avevamo potuto possibilità di vedere.
– Cosa avete deciso tu e il tuo amico mauritano?
MARCO – Dice di andare là con la moto.
Ci aiuteranno a caricarla su uno dei vagoni passeggeri. Ah ah! Che ne pensi?
ANDREA – Ma la moto peserà quasi due quintali! Come cazzo facciamo ad
alzarla a più di un metro da terra e farla passare per una porticina così stretta?
MARCO – In Africa tutto è possibile. E poi non abbiamo alternative, quindi…
ANDREA – Non ho parole! Vabbè, vediamo come va a finire.
Vai là con lui, io accendo il motore e sgommo sino alla carrozza.
ANDREA
Tutta quella folla che correva aveva alzato un polverone incredibile,
così coprii il viso con la bandana per ripararmi e assunsi proprio
l’aspetto di un rapinatore, perfettamente in linea con l’assalto al treno
che stava avendo luogo. Rinunciai a pensare a quanto stava accadendo
171
e mi limitai a seguire le istruzioni di quella gente. Non sapevo perché
non ci fosse il vagone per il trasporto delle auto, come non sapevo
nemmeno perché il giorno prima ci avessero venduto un biglietto che
comprendeva anche il trasporto della moto.
L’unica cosa chiara era che il treno stava veramente partendo e, se
non volevamo stare lì, non potevamo fare altro che provare a caricarla
in quel modo assurdo. Arrivai alla prima carrozza col motore su di giri
e la piccola folla assiepata si aprì per farmi passare. Fermai il mezzo
proprio sotto la porticina larga meno di un metro, poi con l’aiuto di
Marco scaricai tutti i bagagli e insieme li lanciammo all’interno del
treno. Fu così che diversi tuareg e beduini alzarono la Tenerè come
fosse un ramoscello, infilandola nel vagone. La parcheggiarono
proprio davanti all’ingresso dell’unico bagno e subito mi domandai
come avrebbe fatto tutta quella gente, noi compresi, a usufruire dei
servizi con una moto che bloccava l’ingresso. Marco rise di gusto.
– Ah ah ah ah! Il capo stazione è stato di parola!
La moto sul treno ci è arrivata. Ah ah ah ah!
ANDREA – Questi qua sono tutti fuori! Prova a caricare una moto su un treno
italiano e parcheggiarla davanti a un cesso! Ah ah ah ah! Te la vedi la scena?
A questi invece sembra che non gliene freghi un cazzo, che vada bene così!
MARCO – Se avessimo avuto una macchina l’avrebbero caricata a braccia in un
vagone del ferro! Ah ah ah ah! Qua sono pieni di risorse!
MARCO
Ancora una volta eravamo stati aiutati da sconosciuti. Non c’era
traccia di chi avrebbe dovuto occuparsene per lavoro, ma, come aveva
detto il nostro angelo custode il giorno prima, in Mauritania tutti
aiutano tutti e i problemi sembrano risolversi sempre.
Il treno partì così con mezzora di anticipo. La moto non si
appoggiava sul cavalletto, perché il manubrio era incastrato tra la
parete della carrozza e la porta del bagno. Stava praticamente dritta da
sola, ma temevo fortemente la prima frenata. Avevo visto i vagoni
scuotersi con violenza, quasi tamponarsi in un effetto domino e i
giunti vibrare sotto lo sforzo durante l’arrivo in stazione. Cosa
sarebbe accaduto al nostro mezzo? Spazio per cadere non ce n’era,
172
ma forse si sarebbe spezzato il manubrio con la forza dell’urto. Pensai
che la cosa migliore fosse stare seduto in sella per essere più padrone
della situazione, ma dodici ore di viaggio erano decisamente troppe.
– Come la vedi la moto?
– Mah! Finché il treno va dritto tutto ok. Intanto ci sto sopra,
se poi alla prima frenata va tutto bene vedrò di scendere.
MARCO – Il vero biker non si separa mai dalla sua moto.
ANDREA – Mai! Neanche quando va in treno. Ah ah ah ah!
MARCO
ANDREA
Decidemmo di darci il cambio in sella con una certa frequenza e
quando fu il mio turno libero ne approfittai per fare un giro nella
carrozza. Non esisteva nemmeno un sedile, era totalmente stipata di
persone sedute a terra e mancava lo spazio per camminare. In un
angolo stava un’infinità di bagagli accatastati senza criterio, sembrava
una piccola montagna alta oltre due metri. Mi domandai come fosse
possibile trovare i propri al momento di scendere, se non ribaltando il
tutto ad ogni stazione. Molti fumavano e l’aria diventò lentamente
sempre più pesante, un misto di odori corporei, di fumo e
dell’immancabile sabbia che penetrava da ogni dove.
Una donna velata si diresse verso il bagno, ma la porta era bloccata
dalla moto. Senza scomporsi, la signora molto atletica si sdraiò quasi a
terra e strisciò fra le forcelle e il motore, riuscendo a raggiungere
l’entrata, quindi uscì con la stessa tecnica. Noi provammo un certo
imbarazzo, lei invece sorrise cordialmente e tornò da dove era venuta.
– In un treno italiano prima ti insultano, poi ti rigano la moto,
poi chiamano il capotreno per lamentarsi.
MARCO – Sì, è incredibile. Secondo me sono talmente abituati alla vita dura che
una situazione del genere è una quisquilia.
ANDREA – Sarà così. Guarda quelli là fuori.
ANDREA
E indicai a Marco un folto gruppo di persone sedute all’aperto nel
vagone merci. Erano coperte dalla testa ai piedi per proteggersi dal
vento, dal sole e dalla sabbia. Qualcuno parlava, ma la maggioranza
173
attendeva in silenzio di arrivare chissà dove. Improvvisamente si sentì
un rumore di freni e la carrozza cominciò a scuotersi in modo
preoccupante. Avevo appena dato il cambio a Marco e mi trovavo
sulla sella, quando mi resi conto che la moto era così tanto incastrata
da non risentire di qualunque movimento del treno. Il convogliò si
fermò bruscamente e in quel momento mi accorsi che stava uscendo
della benzina dal tappo del serbatoio. Tutte quelle vibrazioni erano
state fatali e una bella chiazza di carburante bagnò così il pavimento.
– Che brutta storia! Come facciamo?
Se qua spurga benzina ogni volta che frena sono cazzi!
MARCO – Non so che dire! Certo che viaggiare con il pieno non è il massimo in
una situazione del genere. A saperlo avremmo messo la benzina in una tanica.
ANDREA – Già, ma qua non si sapeva un cazzo! Del resto la benzina ci serve.
Non possiamo mica farci la pista da Choum ad Atar senza benzina!
MARCO – Cerchiamo uno straccio per asciugarla.
ANDREA
Tamponammo alla meglio la pozzanghera infiammabile con un telo
trovato per terra, ma il problema non era certo risolto. Il treno aveva
cominciato a vibrare fortemente anche nella marcia normale e questo
provocava una lenta, costante fuoriuscita di benzina dal tappo. Provai
allora ad avvolgerlo con uno straccio, ma non ottenni buoni risultati e
mi bagnai le maniche e i pantaloni.
– Si preannuncia un viaggio del cazzo.
Siamo in giro da due ore e guarda come siamo messi. Ne abbiamo altre dieci!
MARCO – La situazione sta degenerando. Qua per terra è sempre più bagnato.
ANDREA
Arrivò un ragazzo che doveva andare in bagno. Anche lui strisciò
dietro le forcelle, però scivolò sulla benzina e si bagnò per bene. Ma
nemmeno in questo caso ci furono reazioni di sorta: si rialzò, sorrise,
entrò nella porticina e ne uscì come nulla fosse.
– Invece di linciarci continuano a sorriderci. Vediamo quanto durerà!
ANDREA – Sono fiducioso! Sembra che qua i problemi ce li mettiamo solo noi!
MARCO
174
– Perché non siamo incoscienti! Tra l’altro c’è una puzza insostenibile!
– Già. Benzina, sudore, fumo, sabbia. Che orrore!
MARCO – Ma con tutta questa gente che fuma, non è che salta tutto in aria?
MARCO
ANDREA
L’improvviso timore era assolutamente fondato. La pozzanghera
andava spargendosi per la carrozza a causa delle forti vibrazioni e un
sacco di gente aveva la sigaretta accesa. Se un solo lapillo fosse
entrato a contatto con la benzina saremmo morti tutti in un rogo.
Andai da ogni persona che stava fumando e l’avvisai del pericolo.
Anche se non parlavo bene il francese mi aiutai con la mimica e riuscii
nel mio intento, ma non tutti compresero la gravità della situazione.
– Io l’ho detto, ma qualcuno ha annuito e ha continuato a fumare come
niente fosse. Forse non sono coscienti del pericolo o sono semplicemente stupidi.
MARCO – Speriamo in bene. Qua comunque sembra che la benzina non esca più.
ANDREA – Provo a svitare il tappo, così ci rendiamo conto.
Guarda, avremo perso un paio di litri.
MARCO – Asciughiamo ancora bene, limitiamo i rischi.
ANDREA
Non sapevamo più che fare, ma il peggio sembrava passato.
Nonostante le forti vibrazioni e le brusche fermate nelle stazioni, da
quel momento il carburante rimase al suo posto e tirammo un sospiro
di sollievo. Dopo molte ore e diverse soste guardai l’orologio: era
appena passata la mezzanotte.
– Tra un paio d’ore dovremmo essere arrivati, almeno lo spero!
MARCO – Mi sfugge una cosa.
ANDREA – Quale?
MARCO – I mauritani ci daranno anche una mano a scaricare la moto, spero!
ANDREA – Ma sì, dai! Chiederemo a quelli che scendono a Choum.
Adesso però io sono un po’ stanco e farei volentieri una pennichella.
MARCO – E dove?
ANDREA – Mi appoggio qua, sulla montagna di valige.
MARCO – Comodo! Buon riposo. Io sto in sella, non si sa mai.
ANDREA – Bravo, ottima idea. Fai buona guardia, mi fido di te. Buonanotte.
ANDREA
175
Mi adagiai in diagonale sui bagagli accatastati e mi sembrò di essere su
uno scivolo, era decisamente scomodo. Praticamente stavo dormendo
in piedi, una posizione decisamente scomoda, ma in quelle assurde
condizioni pareva persino essere confortevole.
Dopo un periodo indefinito mi svegliai infastidito con i piedi
informicolati. Guardai l’orologio, erano trascorse due ore. Tornai da
Marco e lo vidi seduto di fronte alla moto con le gambe incrociate,
era immobile e sembrava stesse meditando in perfetto stile orientale.
– Ah ah! Stai riflettendo? Ma dove siamo?
MARCO – Mah! Qua non ci si ferma più, è buio pesto e ne so come te.
Sono abbastanza pago di questo treno.
ANDREA – Dovremmo esserci, sono più di dodici ore che siamo qua sopra.
MARCO – Ma Choum che posto è?
ANDREA – L’unica cosa che so è che in passato era un luogo strategico,
ci passava una pista importante che tagliava il Sahara non so in che direzione,
poi è decaduto. Adesso ha cinquemila abitanti, quindi un paesino del cazzo, direi.
MARCO – Dobbiamo stare attenti, perché in tutte le altre stazioni nessuno ha mai
detto nulla. Rischiamo di superarla senza accorgerci e trovarci chissà dove.
ANDREA – Il treno si è svuotato abbastanza, non so questa gente dove scenda,
dormono tutti. Comunque fra le varie località sulla strada ferrata Choum è
importante, vedrai che non passerà inosservata.
ANDREA
Il treno proseguì la sua marcia per un’altra mezzora. Erano quasi le
tre, quando sentimmo l’ormai familiare rumore di freni e in poco
tempo il convoglio si fermò. Mi affacciai in cerca di riferimenti, ma
eravamo avvolti dal buio più totale. Pensai a una sosta fuori
programma per qualche motivo, quando passarono alcune persone
scese dall’altra carrozza, che scomparirono subito nell’oscurità. Vidi
poi camminare un ragazzino di undici o dodici anni e lo fermai.
– Scusa, sai dirci dove siamo?
RAGAZZINO – Siamo a Choum.
MARCO – Eh?
RAGAZZINO – Siamo a Choum. È un piccolo paese, non so se lo conosci.
ANDREA
176
Mi guardai intorno, tutti continuavano a dormire e degli altri scesi
prima non c’era traccia. La situazione era decisamente problematica.
– Bello, siamo a Choum. E adesso la moto come la tiriamo giù?
MARCO – Non so, non c’è nessuno là sotto che ci può aiutare?
ANDREA
Il treno si mosse, ma dopo pochi metri si fermò nuovamente.
– Soccia! Qua riparte! Dobbiamo scendere subito!
Chiediamo al cinno se ci aiuta!
MARCO – Poverino, è piccolo, che cazzo vuoi che faccia?
ANDREA
Il ragazzino ci guardò, aveva certamente capito il dramma che
stavamo vivendo e si offrì di aiutarci. Avremmo dovuto tirare giù la
moto con le nostre forze, se avessimo temporeggiato ci saremmo
trovati l’indomani alle miniere di ferro di Zouerat, almeno altri
duecento chilometri all’interno, il che avrebbe comportato chissà
quali altri problemi e variazioni di itinerario. La cosa migliore sembrò
quella di fare uscire la moto dalla porticina sull’altro lato della
carrozza, opposta a quella utilizzata per caricarla.
– È surreale, ma ci pensiamo poi. Facciamo così, tu e il cinno andate
giù e io resto qua. Spingo pian piano la moto verso l’uscita, quando la ruota
davanti esce dal treno voi la agguantate e proviamo a controllare la discesa.
MARCO – Speriamo di non tranciarci le dita nei raggi.
ANDREA – Terrò frenata la ruota. Attento al cinno, spiegaglielo bene,
non vorrei vederlo schiacciato sotto la Tenerè!
ANDREA
Così Marco illustrò con cura al nostro ignaro collaboratore lo
strampalato piano che avevamo ordito. Il poverino annuì, un po’
spaventato, un po’ soddisfatto all’idea di potere aiutare i bikers venuti
da lontano. Cominciai lentamente a spingere la moto sino al ciglio,
fino a quando la ruota non uscì completamente dal vagone. I due a
terra la impugnarono, ma era evidente che il ragazzino non ce la
potesse fare. Leggevo la paura nei suoi occhi nel vedere il mostro
177
giapponese di ferro e acciaio guardarlo minacciosamente col suo faro
giallo. Tirai la leva del freno con la mano destra, mentre con la sinistra
impugnai saldamente il portapacchi e mi sforzai di rallentare la
discesa. Era chiaro che a breve avremmo perso il controllo e sarebbe
caduta a terra, ma ci sforzammo di avvicinarla il più possibile al suolo
prima che ciò accadesse. Ad un tratto il treno fece un sussulto e partì.
ANDREA
– Attenti, io la mollo!
E così feci. I due a terra non poterono fare nulla, se non spostarsi per
non rimanere travolti. La fedele compagna cadde vicino al binario. Il
treno si stava muovendo e non c’era tempo da perdere, ribaltai la
montagna di bagagli nella ricerca affannosa delle nostre borse, le
scaraventai letteralmente fuori dalla porta e per ultimo mi lanciai
anch’io nell’oscurità. Atterrai su entrambe le gambe e riuscii a
mantenere l’equilibrio. Era fatta.
– Inoltrerò un reclamo formale alle ferrovie mauritane!
ANDREA – Giusto! Queste sono parole sagge! E scrivi che non si fa così, cazzo!
MARCO – Ah ah! Magari ci penserò una volta a Nouakchott. Tutto a posto?
ANDREA – Io sì. E voi?
MARCO
Il ragazzino sorrise, stava bene. Ci fece un cenno con la mano e
scomparve nell’oscurità, probabilmente era arrivato a casa.
– La moto ha preso una gran botta, non ho ancora guardato com’è
messa. Se non si è rotto niente è un miracolo.
ANDREA – Speriamo bene!
MARCO
Era buio pesto e non capimmo granché, ma sembrava che si fosse
solo piegato un po’ il manubrio. Sarebbe bastato allentare un paio di
viti e l’avremmo raddrizzato facilmente.
– Ma dove cazzo siamo? Sarà mica Choum ‘sto posto assurdo?
Non c’è niente di niente, siamo in mezzo al nulla! Altro che importante località!
MARCO
178
– Il cinno ha detto convinto che siamo a Choum. Cosa dovevamo fare?
– Sta a vedere che non ci siamo capiti e ci siamo lanciati dal treno in un
altro posto! In Africa tutto è possibile, no?
ANDREA – Mah! Diamo un’occhiata in giro.
ANDREA
MARCO
Lentamente i nostri occhi si abituarono al buio. C’era una quantità di
stelle mai vista prima, splendevano talmente tanto da illuminare
l’ambiente circostante, così distinguemmo la sagoma di alcune
capanne poco distanti. Ci dirigemmo in quella direzione e vedemmo
diverse persone che dormivano all’aperto, adagiate su coperte di lana.
– Non so dove siamo, ma penso che ci convenga spingere la moto fino a
qua, sdraiarci sui sacchi a pelo e aspettare il sole.
MARCO – Ok, fra poche ore sarà giorno, proviamo a ripigliarci un po’.
ANDREA
Non tirava un filo di vento, la temperatura era mite. Individuammo
un piccolo spiazzo in cui stendere i sacchi a pelo e ci adagiammo a
terra a contemplare la volta celeste, Non eravamo certi di essere a
Choum, ma in fondo non ce ne importava granché. La visione del
cielo stellato e il silenzio totale ci donarono uno splendido stato
d’animo e ci lasciammo dolcemente cullare dalla quiete della notte.
Presto sarebbe arrivato il nuovo giorno e saremmo stati nuovamente
pronti a rimetterci in gioco e ad affrontare in qualche modo il deserto.
179
180
AKJOUJT
Un paio di mosche si davano il cambio a tormentarmi, ne cacciavo
una e prontamente veniva rimpiazzata dalla compagna, molesta come
l’altra. Provai ad avvolgermi totalmente nel sacco a pelo come fossi
una mummia, ma il sole, già alto nel cielo, aveva reso l’aria molto
calda e dopo pochi minuti di dormiveglia mi trovai fradicio di sudore.
Intorno a me continuavano a crescere i rumori mattutini di un
villaggio che era sveglio da tempo. Sentivo voci e grida di bambini che
giocavano e madri che li chiamavano all’ordine, carretti che
stridevano, toni sommessi di uomini e donne che discutevano delle
loro faccende, rumori di auto in lontananza.
Mi decisi ad affrontare la realtà e aprii gli occhi. La gente che avevo
intravisto sdraiata a terra la notte prima non c’era più, in compenso
mi trovai circondato da una miriade di giovanissimi che guardavano
me e la moto, poi se ne andarono per dare il cambio ad altri passanti
che, attratti dalla novità, si soffermarono a loro volta per cercare di
capire chi fosse arrivato nel loro villaggio nel cuore della notte. Erano
tutti certamente molto poveri, abbastanza scuri di pelle, i lineamenti
delicati e i capelli corti e crespi. Indossavano abiti ricavati da vestiti
dismessi di provenienza europea. Le madri avevano infatti assemblato
le stoffe in una miscela di tagli e colori arditi, creando per i loro figli
un guardaroba molto economico ma allegro, sgargiante, una vera e
propria esplosione di colori dai toni spesso decisi, con accostamenti
improbabili. Tutti camminavano a piedi nudi, probabilmente le scarpe
e le ciabatte erano un lusso destinato ad altri.
Mi trovavo in un villaggio immerso in un mare di sabbia che si
perdeva all’orizzonte in ogni direzione. Tutti gli edifici erano costruiti
in argilla, con i tetti in lamiera e gli infissi in legno verniciati di verde,
il colore dominante della bandiera della Mauritania. Non esistevano
strade e le case sorgevano un po’ ovunque, senza un criterio
urbanistico, a comporre un mosaico informe di costruzioni che si
estendeva nel deserto. Marco non c’era, ma sicuramente doveva
essere in giro a fare delle foto con la splendida luce del mattino. Ero
ancora avvolto nel sacco a pelo, solo la testa spuntava all’esterno.
181
Dovevo sembrare una specie di tartaruga e la cosa faceva ridere molto
i bimbi tutt’intorno a me. Alcuni di loro confabularono a bassa voce e
risero, anche se in modo discreto, così sorrisi anch’io e uscii dal mio
sarcofago, guadagnando la posizione eretta. Il mio pubblico si ritrasse
un po’, quasi a lasciarmi maggiore spazio di manovra, poi tutti mi
circondarono nuovamente, si misero in fila e, uno ad uno, mi diedero
la mano. Si accodò infine un giovane uomo, apparentemente della mia
età, che sorrideva e aveva voglia di conoscermi, al pari dei bambini.
– Buongiorno, mi chiamo Andrea, vengo dall’Italia.
MAURITANO – Buongiorno a lei, signore. Benvenuto a Choum.
ANDREA
Eravamo quindi nel posto giusto. Lo avevamo immaginato in modo
molto diverso, pensavamo a una cittadina, invece altro non era che un
gruppo di case di argilla in pieno deserto, senza acqua corrente, senza
luce, senza strade. Vidi Marco spuntare dal retro di una casa, con la
macchina fotografica al collo continuava a catturare nuove immagini.
– Hai fatto un reportage?
MARCO – C’è una luce meravigliosa a quest’ora, fra un po’ il sole sarà troppo
alto e le foto non verranno più così belle.
ANDREA – Ma che ore sono?
MARCO – Le otto e mezza.
ANDREA – Mi diceva questo signore che siamo a Choum,
ma tu lo sapevi già, visto che sei stato in giro.
MARCO – Sono sveglio da mezzora. Non è che ci sia poi tanto da fotografare,
qua le case sono tutte uguali e le prospettive pure. C’è solo sabbia.
ANDREA – E dire che sulla carta è indicata come una località di un certo rilievo,
forse la più grande fra quelle poste sulla strada ferrata.
MARCO – Pensa le altre come devono essere!
ANDREA – Ci saranno ancora meno case.
MARCO – Le uniche fotografie che meritano di essere fatte sono quelle alle persone.
Hai visto quanti e quali colori hanno addosso? Non sono certo abiti sobri!
ANDREA – Già. Hanno inventato proprio gli accostamenti più arditi del mondo.
MARCO – Credo che di soldi ne abbiano veramente pochi, ma sono tutti sorridenti.
ANDREA
182
Tutti apparivano sereni, nessuno lasciava trasparire la minima ombra
di tristezza o manifestava qualche preoccupazione. Erano alla soglia
della sopravvivenza, eppure sembravano felici. Un bimbo di circa
quattro anni mi sorrise, mi si avvicinò e mi abbracciò una gamba in
uno slancio di affetto, così gli accarezzai la testa e mi accorsi che era
piena di croste, frutto di chissà quale malattia. Provai dispiacere, avrei
voluto curarlo, essergli d’aiuto, ma sapevo bene che non ero in grado
di fare nulla. La povertà e la mancanza di salute vanno sempre di pari
passo, lo sapevo già, ma non potei comunque fare a meno di
rattristarmi. L’uomo di prima si rivolse ancora una volta a me.
– Siete arrivati stanotte col treno, vero?
ANDREA – Sì, siamo diretti ad Atar. È una buona pista?
MAURITANO – Sì, buona pista.
MARCO – Ma è terra o sabbia?
MAURITANO – Un po’ terra, un po’ sabbia.
ANDREA – Ci sono dei segnali, delle indicazioni?
MAURITANO – Dovete andare di là, dopo un po’ c’è un bivio e andate a sinistra.
MAURITANO
Guardammo nella direzione indicata ma non vedemmo nulla, se non
un’enorme distesa di sabbia e pietre. Per quanto saremmo dovuti
andare avanti? Ma soprattutto, come avremmo fatto a mantenere una
direzione, visto che il percorso non era tracciato? Non c’erano segnali
di nessun genere, ci saremmo probabilmente persi nel deserto.
– Il tipo la fa facile, lui è di qua,
ma se ci muoviamo da soli ci rimaniamo in mezzo, non è pensabile.
MARCO – Ah ah! Dice che basta andare dritto poi a sinistra. Facile no?
ANDREA – Tra l’altro c’è già della gran sabbia qua in paese, figurati come
diventerà questa pista più avanti. Guidare con te dietro e il bagaglio la vedo dura.
MARCO – Vabbè, arricchiamo un po’ questa gente. Assoldiamo una guida col
fuoristrada, io vado in macchina coi bagagli e tu vai in moto, così arriviamo a
destinazione. Ce la fai a guidare o assisterò a quella scena penosa di tre giorni fa?
ANDREA – Mah! Qua sembra una pista vera e propria, non vedo sterpaglie.
MARCO – Ah ah! Potrai mettere in pratica gli insegnamenti del tuo mentore!
ANDREA
183
– Già. Farò come ha detto Riccardo: peso arretrato, motore su di giri e
quando la sabbia aumenta ci apro ancora di più e ci galleggio sopra.
MARCO – Se poi non ci salti fuori vediamo di legare la moto sulla macchina.
Adesso non ci rimane altro che trovare un pick up ed è cosa fatta.
ANDREA
Chiedemmo se qualcuno fosse disposto ad accompagnarci ad Atar e
subito trovammo diversi volontari. Per loro doveva rappresentare una
fonte di reddito non indifferente, pertanto gli uomini del villaggio
cominciarono a confabulare per stabilire chi dovesse essere la nostra
guida. Dopo pochi minuti si propose un ragazzo con un fuoristrada,
ma non era un pick up. Pare che nel villaggio ci fossero poche auto e
nessuna rispondesse alla nostra esigenza.
Non mi rimaneva altro da fare che cimentarmi nuovamente nella
guida sulla sabbia. Certamente la prospettiva mi affascinava, ma ero
anche impaurito, avevo paura di cadere. In oltre dieci anni di viaggi
avevo consolidato la mia esperienza su asfalto, ma in fuoristrada la
situazione era diversa. Avevo fatto qualche percorso enduro in
passato, ma perlopiù si trattava di strade sterrate, piccoli guadi,
sentieri di montagna in terra battuta e così via. La sabbia era un’altra
cosa, mi pareva un ostacolo troppo grande per le mie possibilità, ma a
quel punto non potevo fare altro che superare le mie esitazioni e
partire. Mancava solo la colazione e saremmo stati pronti, così
comprammo qualche biscotto e qualche ciambella in un negozietto, in
cui ci venne offerto anche del buon the.
Tre giorni prima avevamo impiegato dieci ore per fare cinquanta
chilometri dal confine a Nouadhibou, mentre da Choum ad Atar
avremmo dovuto percorrerne circa cento, quindi si prospettavano
tempi biblici, ma ci venne detto che si trattava di una pista veloce e
che saremmo giunti a destinazione in un paio d’ore. Comunque fosse
non ci fidavamo di quella stima e acquistammo sei litri d’acqua, non
volevamo correre il rischio di patire la sete come già era accaduto il
giorno del nostro ingresso in Mauritania. Caricammo i bagagli sul
fuoristrada e salutammo la folla intorno a noi. Eravamo emozionati e
timorosi, comunque pronti a continuare la traversata del Sahara.
184
– Vabbè, allora io vado! Ormai non è più tempo di tergiversare!
– Vado anch’io, vedi di guidare bene che ti riprendo con la videocamera.
ANDREA – Mi sforzerò di non cadere.
Sono un esperto teorico di guida su sabbia, lo sai bene!
MARCO – Hai avuto un grande maestro come Riccardo,
ti ha illustrato tutte le tecniche in pizzeria!
ANDREA – Ah ah! Mah! Voi andate avanti, io vi seguo a distanza per non
mangiarmi il polverone. Tienimi d’occhio!
ANDREA
MARCO
Montai in sella e diedi un energico colpo al kick starter. Dopo qualche
tentativo a vuoto il motore si avviò e la piccola folla di bambini che
mi circondava si aprì. Salutai quindi con ripetuti cenni di mano e tutti
ricambiarono, poi mi lanciai nel nulla.
All’inizio facevo fatica a rimanere dritto, la sabbia mi si parava innanzi
in ogni momento e la ruota anteriore sprofondava, sbilanciandomi in
continuazione. Occorreva andare un po’ più forte, non c’erano dubbi,
dovevo vincere la paura e raggiungere la velocità di galleggiamento.
Arretrai sulla sella il più possibile, aprii il gas e finalmente l’avantreno
volò sulla sabbia; mi trovai così a guidare quasi in una costante
impennata, era una sensazione fantastica. Quando vedevo che la
sabbia aumentava davo ancora più gas e la moto ci volava
letteralmente sopra. Ma su quel terreno non era per niente facile fare
repentini cambi di traiettoria, dovevo pertanto guardare molto
lontano alla ricerca di ostacoli e muovermi con largo anticipo per
evitarli. Un centinaio di metri più avanti, sulla mia sinistra, c’era la
macchina che mi indicava la giusta direzione e dietro di essa un
branco di dromedari liberi che correvano insieme a noi verso Atar.
Talvolta incontravo alcune sterpaglie ma non mi davano problema,
erano molto diradate e potevo evitarle senza sforzo. Era una gran
bella pista, niente a che vedere con l’orrore di tre giorni prima. Vidi
Marco affacciato al finestrino, aveva la telecamera in mano e stava
riprendendo. Dopo un’ora l’auto si fermò nel nulla e la raggiunsi.
– Ma che libidine! Questo sì che è il vero deserto! Sto godendo di brutto!
MARCO – Vedo che hai imparato a guidare sulla sabbia! Altro che l’altro giorno!
ANDREA
185
– I consigli di Riccardo erano validi, basta avere davanti dello spazio e
si va che è una meraviglia. All’inizio mi cagavo un po’ in mano,
poi mi sono abituato e adesso mi sembra di essere in autostrada!
Avrò fatto almeno i settanta orari!
MARCO – Io ho fatto delle gran belle riprese, vedrai che film!
ANDREA – Hai filmato anche i dromedari?
MARCO – Sì, certo.
ANDREA
La guida si avvicinò a noi, era sorridente, come del resto tutta la gente
con cui avevamo avuto a che fare sino a quel momento.
– Siamo arrivati.
MARCO – Arrivati dove?
GUIDA – Al bivio. Qua girate a sinistra e arrivate ad Atar.
Mancheranno trenta chilometri, non vi potete sbagliare.
ANDREA – Ma com’è la pista? C’è sabbia?
Se c’è sabbia io non riesco a guidare in due coi bagagli!
GUIDA – Non c’è più sabbia. La strada sale in collina, è tutta pietra.
State tranquilli, non c’è problema.
MARCO – Ma tu non ci puoi accompagnare in città? Sarebbe meglio.
GUIDA – No, amico. Devo tornare a Choum. Ma qua è facile, non c’è problema.
GUIDA
Non sapevamo se le difficoltà fossero realmente terminate, la cosa
certa era che la nostra guida non voleva saperne di proseguire. Ma in
fondo trenta chilometri di pista pietrosa non sembravano certo un
problema, anche col maggior carico. Avrei guidato molto piano e
saremmo arrivati ad Atar in meno di un’ora. Con sei litri d’acqua
sicuramente non avremmo patito la sete, anche se ormai erano già
passate le undici e faceva veramente caldo. Scaricammo le borse e
ricomponemmo l’enorme bagaglio sul retro della moto, pagammo la
quota pattuita alla nostra guida e ci salutammo cordialmente. Mi fece
uno strano effetto tornare a guidare con quel carico estremo. Prima
mi ero abituato a volare, ma in quel momento avrei dovuto
ridimensionarmi e prestare la massima attenzione al terreno. Se avessi
colpito una pietra troppo grande saremmo certamente rovinati a terra.
186
– È bello averti ancora con me! Mi sentivo solo su questa sella larga!
– Certo che quel cazzone poteva anche portarci in città!
ANDREA – Hai visto anche tu, non ne voleva mezza.
Ha anche rifiutato i soldi in più che gli abbiamo offerto.
MARCO – Sì, strano. E dire che gli avrebbero fatto sicuramente comodo.
ANDREA – Avrà avuto un impegno improrogabile.
MARCO – In questo deserto un impegno improrogabile?
ANDREA – Magari aveva appuntamento con un commerciante di dromedari.
ANDREA
MARCO
Continuammo a dire qualche sciocchezza, poi rimanemmo un po’ in
silenzio. Procedemmo a passo d’uomo per qualche chilometro,
quando la pista si inerpicò su una collina e dall’alto vedemmo il
deserto tutt’intorno a noi: non c’era traccia di civiltà da nessuna parte.
– Speriamo che sia la strada giusta!
ANDREA – Bivi non ce n’erano, hai visto anche tu.
La carta dice che tra un po’ dovremmo raggiungere il passo di Te-N-Zak,
poi si scende e si raggiunge la valle dove sorge Atar.
MARCO – Potrebbe essere questo, ma non c’è nulla, niente cartelli,
niente di niente. Mah! Io ho una gran sete.
ANDREA – Sì, anch’io, facciamo una pausa.
Speravo di fermarmi in un posto all’ombra ma non ce n’è traccia.
MARCO
Avevamo fissato le quattro bottiglie d’acqua al bagaglio con degli
elastici, pensavamo fosse una buona soluzione ma non lo era. Appena
appoggiai la moto sul cavalletto sentii un tonfo, poi un altro, poi un
altro ancora e vidi le bottiglie volare a terra e rotolare nella pietraia.
Una sola era rimasta illesa, mentre le altre si erano lacerate sulle pietre
aguzze. Vedemmo rivoli d’acqua scomparire nel sottosuolo.
– Noooo! Cazzo! Non ci credo! La nostra acqua! Che danno assurdo!
MARCO – Merda! Che disastro! E dire che le avevamo fissate bene!
ANDREA – Con ‘sti scossoni! Fissate così andavano bene sull’asfalto, non qua!
MARCO – Ci è rimasta una bottiglia sola.
ANDREA – Che pacco! Vedremo di farla bastare, speriamo che manchi poco.
ANDREA
187
– Poco poco direi di no. Guardati intorno, non c’è nemmeno l’ombra di
una traccia umana, ci sono solo pietre.
MARCO
Il caldo aumentava sempre più. Non sudavamo, non urinavamo, ma
avevamo sempre più sete. Prendemmo così altre sorsate dall’unica
bottiglia superstite e l’acqua rimasta era sempre di meno.
– Dai, ripartiamo. Questa bottiglia la tengo in mano, tanto tu vai piano.
ANDREA – Vabbè, inutile stare a disperarsi. Andiamo via da questa collina e
speriamo di trovare qualcuno fra poco.
MARCO
Il viaggio continuò. La guida era molto difficile, dovevo stare attento
a non perdere l’equilibrio e l’enorme carico non mi agevolava di certo.
Marco era un passeggero formidabile, non mi sbilanciava mai, ma
comunque pesava ottanta chili e in una pietraia in discesa non era un
aspetto trascurabile. I muscoli mi dolevano per lo sforzo, talvolta
incontravo degli avvallamenti e dovevo alzarmi dalla sella per
scaricare parzialmente sulle gambe la spinta verso il basso e alleggerire
così gli ammortizzatori. Allo stesso tempo impugnavo saldamente il
manubrio per impedire all’avantreno di slittare da qualche parte,
altrimenti saremmo caduti e rotolati a valle. Arrivammo alla fine della
discesa e la pista diventò più semplice. Davanti a noi c’era un lungo
rettilineo sterrato di cui non si vedeva la fine, ma l’assenza di bivi non
ci portò a nessuna considerazione, potevamo solo andare avanti.
Talvolta incontravamo qualche alberello troppo piccolo per creare
un’ombra sufficiente a ristorarci un po’. Un’altra sosta sotto il sole
non ci andava proprio, non sarebbe stata per nulla riposante, inoltre
non avevamo nulla da bere e questo ci demotivava non poco. Così
proseguimmo per inerzia, nella speranza di trovare da un momento
all’altro qualche segnale di vita, ma niente da fare. Dopo qualche
chilometro vedemmo una capanna di paglia sulla nostra sinistra, però
era disabitata e non ci fermammo. Poi la situazione precipitò. Lo
sterrato si riempì lentamente di sabbia, facevo sempre più fatica a
tenere la moto dritta e non potevo guadagnare velocità per provare a
galleggiare. Con quel peso era anche impossibile riuscire a cambiare
188
direzione, ogni volta che provavo ad accelerare trovavo un ostacolo
che mi costringeva a rallentare e la ruota anteriore si affossava nella
sabbia. Marco era immobile dietro di me e non ci dicevamo nulla.
Rischiai di cadere un paio di volte, così mi arresi all’evidenza e mi
fermai per evitare ulteriori danni. Eravamo entrambi molto alterati.
– Quello stronzo aveva detto che non ci sarebbero stati più problemi!
Tutto ok sino ad Atar, solo pietre, niente sabbia! E questa cos’è, cazzo?
MARCO – No problema, amico, no problema. Buona pista, no problema.
ANDREA – Fanculo a lui!
MARCO – E adesso che cazzo facciamo?
ANDREA – Non ne ho idea. Qua non si va avanti, rischiamo di distruggere tutto.
MARCO – Non abbiamo acqua, c’è un sole che spacca, non c’è nessuno,
non riusciamo ad andare avanti. Dimentico qualcosa?
ANDREA – No, direi di no.
Aggiungi che non sappiamo neanche dove siamo e il quadretto è completo.
MARCO – In pratica quella testa di cazzo ci ha mollati in mezzo al deserto!
ANDREA – In pratica sì. Tanto è buona pista, no problema. Ma vaffanculo!
MARCO – Beh, se avanti non si va abbiamo due possibilità.
O stiamo qua e aspettiamo che passi qualcuno o torniamo indietro.
ANDREA – Indietro dove? A Choum? Con tutta quella sabbia non ci arriviamo!
MARCO – Andiamo in quella capanna di paglia che abbiamo visto qualche
chilometro indietro. Anche se non c’è nessuno, almeno stiamo un po’ all’ombra.
ANDREA – Facciamo così. Se sto ancora sotto il sole strippo.
ANDREA
Tornammo quindi sui nostri passi e in poco tempo raggiungemmo la
capanna. Nel frattempo però qualcuno aveva legato un dromedario
sul retro, forse avremmo trovato aiuto. Ci avvicinammo e sentimmo
dei rumori provenire dal suo interno. Ne uscì un tuareg anziano
vestito di indaco, aveva un solo dente in bocca e parlava una lingua
incomprensibile. Marco mimò il gesto di bere da una bottiglia, ma in
cambio ricevette un rifiuto. Quindi gli facemmo intendere che
cercavamo un po’ d’ombra per riprenderci e questi sorrise, ci fece
cenno di stare dove volevamo. Provai a parlare di Atar e indicai la
direzione in cui avrebbe dovuto esserci la città. Il vecchio annuì.
189
– Soccia, che sfiga! Troviamo una persona e non ha neanche un po’
d’acqua. Però pare almeno che la direzione sia giusta.
MARCO – Forse è di passaggio. Chissà chi è, da dove viene e dove va.
ANDREA – Mah! È venuto col dromedario da qualche parte,
non di certo dalla nostra pista.
MARCO – Chissà quanti e quali sentieri ci sono e noi non li vediamo.
ANDREA – Comunque non può girare senz’acqua, dai!
Per me non ha capito, proviamo a curiosare e vediamo se ne troviamo.
ANDREA
Ci aggirammo con indifferenza intorno alla capanna, buttammo un
occhio al suo interno, il tuareg ci sorrise e noi ricambiammo. Era
totalmente vuota e capimmo così che l’unica cosa che avremmo avuto
da lui sarebbe stata l’ombra. La nostra faticosa attesa non durò oltre.
Sentimmo infatti un rumore di motore provenire dalla direzione di
Atar e vedemmo presto un pick up bianco venire verso di noi.
– Guarda, altri angeli custodi!
– Che meraviglia! Siamo salvi, la nostra pazienza è stata premiata!
MARCO – Beh, pazienza… diciamo che non potevamo fare molto altro!
ANDREA – Chiediamogli di caricare la moto sul cassone e di portarci ad Atar.
Sono talmente sfatto che non so mica se riesco a guidare ancora.
MARCO
ANDREA
Erano ormai molto vicini, così Marco sbracciò a indicare che
avevamo bisogno e il pick up si fermò proprio davanti a noi. Scese un
beduino vestito di bianco, mentre il suo compagno rimase al posto di
guida. Avevano facce che non ispiravano fiducia, sembravano loschi.
– Buongiorno. Non riusciamo più a proseguire, c’è troppa sabbia.
BEDUINO – Eh, sì, tanta sabbia.
MARCO – Ci potete dare un passaggio sino ad Atar? Magari carichiamo la moto
sul retro, il mio amico è stanco e non riesce più a guidare.
BEDUINO – Non c’è problema.
MARCO – Abbiamo finito l’acqua. Avete da bere?
BEDUINO – Sì, certo.
ANDREA – Sono di poche parole ‘sti tipi! È gente rude, gente da deserto!
MARCO
190
Tutto sembrava andare per il meglio, avevamo trovato il passaggio
per la civiltà. L’uomo entrò nell’abitacolo e prese una bottiglia senza
nessuna etichetta, probabilmente era acqua di pozzo, molto rischiosa
da bere, ma in quelle condizioni estreme non ci demmo il giusto peso.
– Non so mica se è buona. Dovremmo mettere l’Amuchina,
ma in questo momento non me ne frega un cazzo dei microorganismi.
MARCO – Ma sì! E poi è sepolta in fondo ai bagagli.
Se hai voglia tu di prenderla fa pure, io non ho voglia mezza.
ANDREA – Nemmeno io.
ANDREA
Così bevemmo avidamente. L’acqua scivolò copiosa nelle nostre gole,
facendo svanire il malessere che ci aveva colti già da un po’ di tempo.
– Che bontà! Stavo già cominciando a sentire i sudori freddi.
ANDREA – È la disidratazione. Io ho un po’ di mal di testa. Dai, concorda il
trasporto ad Atar che ho voglia di sedermi all’ombra e bere Coca Cola ghiacciata!
MARCO
Marco ringraziò il beduino per il passaggio che stava per offrirci e
chiese se potessimo ricompensarlo in qualche modo. La prima
impressione si rivelò giusta, non erano persone gentili e disponibili
come quelle incontrate sino a quel momento, bensì degli squallidi
profittatori. Dissero che se avessimo voluto il passaggio avremmo
dovuto pagare il servizio. Non ci sarebbe stato niente di male, ma la
cifra richiesta era esorbitante; si trattava di una somma che ci avrebbe
letteralmente prosciugato le finanze. La disidratazione, la stanchezza e
la rabbia di avere di fronte quei due avvoltoi mi fecero perdere il lume
della ragione e reagii con una violenza verbale a me sconosciuta. Non
provai nemmeno a insultarlo in francese, ma lo feci d’istinto nella mia
lingua, urlandogli improperi a poca distanza dalla faccia.
– Tu sei un gran pezzo di merda!
Vuoi fotterci tutti ‘sti soldi per un viaggio di venti minuti? Ma come sei messo?
Stronzo! Piuttosto che dare dei soldi a te vado ad Atar a piedi! Brutto bastardo!
ANDREA
191
Sentii un forte impulso a tirargli un pugno in faccia, però mi era
rimasto un barlume di ragione e capii che una colluttazione nel
deserto avrebbe sicuramente portato a conseguenze ben più gravi. Ma
mi prudevano le mani e dovevo perciò eliminare al più presto quella
figura dalla mia vista per non cadere nella tentazione di colpirlo, così
mantenni fede alla mia minaccia e mi incamminai verso Atar,
lasciando dietro di me tutta la combriccola. Non so quali fossero le
mie reali intenzioni, probabilmente non stavo pensando a nulla, ero
totalmente irrazionale. Marco mi seguì, lasciando moto e bagagli
davanti alla capanna. I beduini non si mossero. Percorsi un centinaio
di metri e venni raggiunto dal mio compagno.
– Ci sei?
– Ci sono. Stavo per tirargli un pugno in faccia a quel pezzo di merda!
MARCO – Non merita altro, ma è meglio lasciar perdere.
ANDREA – Lo so, lo so. Adesso mi ripiglio, giuro che mi calmo.
MARCO
ANDREA
Improvvisamente un altro rumore di motore lacerò l’aria immobile.
Era un altro pick up, anch’esso proveniente da Atar. Dalla macchina
appena giunta scesero due tuareg. Dovevano avere in parte assistito
alla mia sfuriata e ci chiesero cosa stesse succedendo, così Marco
illustrò loro la situazione. Alla vista dei nuovi venuti, i due profittatori
si avvicinarono velocemente a noi. Non capivamo cosa stesse
succedendo ma eravamo all’erta, tirava un’aria pesante.
Quando Marco riferì la cifra richiesta, lo sguardo dei due tuareg si
rivolse ai beduini ed era carico di odio. Iniziarono a discutere
animatamente, non capivamo nulla e uno dei due nuovi arrivati venne
a darci spiegazioni. I profittatori temevano che i tuareg ci volessero
portare ad Atar gratuitamente, perché in quel caso avrebbero perso
tutti i soldi che intendevano estorcerci.
Era evidente che non ci sarebbe stata scelta. Superata l’emozione del
momento avremmo dovuto cedere al ricatto e quelli lo sapevano
bene, ma l’arrivo dell’altra coppia aveva rovinato i loro piani malvagi e
rischiavano quindi di vedere sfumare un guadagno certo. Il tono della
discussione aumentò sempre più. Il nostro nuovo amico era uno che
192
sapeva il fatto suo, incalzava il beduino in progressione e con un
modo molto aggressivo. Lentamente quest’ultimo cominciò a perdere
la grinta che aveva dimostrato sino a quel momento.
– Merda! Quel tuareg è meglio averlo amico. Hai visto che incazzo?
– È indignato con quello stronzo! Magari adesso gli tira il pugno che
avrei già dovuto dargli io prima! Giuro che se parte gli do manforte e mi tolgo la
soddisfazione! Odio la gente che si approfitta dei bisognosi, sono i peggiori!
MARCO
ANDREA
Ma non ci fu nessuna aggressione. Il tuareg puntò negli occhi il
beduino e non discostò lo sguardo nemmeno per un attimo, era
veramente arrabbiato e sicuro di sé. Capimmo che gli aveva detto che
ci avrebbe portati lui ad Atar e che l’altro avrebbe dovuto andarsene.
Lo scontro volse quindi a nostro favore. I due squallidi individui
continuarono a urlare improperi, ma i nostri nuovi angeli custodi non
si fecero intimorire per nulla e agli sciacalli non rimase altro da fare
che andarsene. L’altro tuareg era rimasto vicino a noi, visto che il suo
amico sapeva cavarsela benissimo da solo con quei due cialtroni. Fu
così che Marco si rivolse a lui con una frase che mi fece sbalordire.
MARCO
– Quell’uomo non è un buon mauritano, proprio no!
Il mio amico aveva superato il segno, sembrava che conoscesse quella
gente da una vita e non da soli tre giorni, che fosse in grado di
identificare i tratti essenziali dello spirito di quel popolo. Comunque il
tuareg apprezzò e ci spiegò meglio come stavano le cose.
– Quei due uomini fanno avanti e indietro fra Atar e Choum e sono in
cerca di persone rimaste a piedi. C’è sempre qualcuno che ha qualche problema e
loro se ne approfittano, lo fanno per guadagnare e basta.
ANDREA – Bastardi.
TUAREG – Hanno litigato col mio amico perché dicevano che noi volevamo
rubargli il lavoro. Allora il mio amico si è arrabbiato veramente.
Noi siamo tuareg e aiutiamo chiunque si trovi nella nostra terra.
A quelli là invece non interessa niente, lo fanno solo per soldi, sono squallidi.
TUAREG
193
ANDREA
TUAREG
– Sei troppo buono! Sono dei gran pezzi di merda, altro che squallidi!
– Sì, pezzi di merda. Ah ah!
Nonostante io parlassi in italiano, il tuareg aveva capito benissimo e le
mie espressioni colorite lo facevano sorridere.
I due ci aiutarono a caricare la moto sul loro pick up, la legammo
saldamente e ci avviammo verso Atar. La sabbia cedette presto il
passo all’asfalto, iniziarono le prime capanne e dopo nemmeno un
quarto d’ora giungemmo in città. Eravamo veramente vicini, ma
anche una piccola distanza può diventare insormontabile se ci si trova
in condizioni estreme. Erano le due del pomeriggio, il sole batteva
implacabile e non tirava un filo d’aria; c’era un caldo impressionante,
quando ci fermammo finalmente davanti a un invitante ristorante con
una bella e ampia terrazza ombreggiata da un pergolato.
Non sapevamo bene come comportarci. Avevano perso almeno
un’ora del loro tempo, stavano trasportando della merce da Atar a
Choum ed erano tornati indietro solo per noi, sconosciuti viandanti
occidentali. Non sapevamo se offrire loro del denaro, temevamo di
offenderli, poi decidemmo di farlo e fu una mossa vincente. Quello
che aveva allontanato il beduino fece per rifiutarli, ma il saggio amico
gli disse di accettarli. Aveva ragione, quel denaro se lo meritavano
tutto. Ci salutammo velocemente e se ne andarono per la loro strada.
– Siamo in un ristorante di Atar, non ci posso credere!
MARCO – Quell’angelo mauritano ci ha veramente salvato la vita.
ANDREA – Già. Forse era il nostro angelo custode sceso in terra vestito da tuareg.
Ah ah! E lo sciacallo invece non è un buon mauritano, proprio no! Ah ah ah ah!
MARCO – Ah ah ah ah! Che frase del cazzo che mi è uscita! Ah ah ah ah!
ANDREA – Ah ah! Mitico!
MARCO – I tuareg sono più bravi dei beduini.
ANDREA – Ti correggo, i nostri angeli custodi di tre giorni fa erano beduini.
MARCO – Diciamo che se uno è stronzo è stronzo, beduino o tuareg che sia!
ANDREA – Già. È una legge valida ovunque, gli stronzi sono sparsi nel mondo.
MARCO – E nei nostri viaggi passati ne abbiamo incontrati tanti.
ANDREA – Già. Siamo esperti, ormai li sappiamo riconoscere a prima vista!
ANDREA
194
Arrivò il cameriere, ordinammo pollo con patate e l’immancabile
Coca Cola fresca, così potemmo mangiare e bere avidamente.
Continuavo però a non riprendermi, ero surriscaldato, avevo bisogno
di una doccia fresca e chiesi se fosse possibile farla da qualche parte.
Il cameriere si informò e mi disse che sarei potuto andare a lavarmi in
una camera in un albergo poco distante. Accettai di buon grado.
– Beh, io vado a rinfrescarmi. Tu che fai?
MARCO – Io sto qua a bere coca e a leggere la guida del Senegal.
ANDREA – Ma dai! Guarda che in Mauritania ci stiamo ancora almeno due
giorni, c’è tempo per il Senegal! Adesso è il momento di godere il deserto, no?
MARCO – Ah ah! Non ce lo siamo goduti abbastanza? Metto le mani avanti.
ANDREA – Vabbè, io vado a ripigliarmi. Ho anche un po’ di mal di pancia.
MARCO – Ti aspetto qua.
ANDREA
Il cameriere mi fece strada e passeggiammo verso l’hotel. Era una
cittadina ben tenuta, pulita, e non mancavano la corrente elettrica e
l’acqua; gran parte degli abitanti erano i soliti tuareg e beduini, i due
grandi popoli del Sahara, ma alcuni vestivano in stile occidentale.
Mi venne aperta una stanza dove avrei potuto farmi la doccia fresca e
ritrovare così il vigore perduto. Mi spogliai e aprii l’unico rubinetto,
ma mi accorsi con raccapriccio che l’acqua era calda. La lasciai
scorrere ma la temperatura non accennò a calare. Mi lavai di dosso la
sabbia, ma di refrigerio nemmeno l’ombra.
Capii che in Mauritania il problema è opposto rispetto a quanto
accade in buona parte del mondo. Noi siamo abituati a pagare l’acqua
calda perché sono necessarie delle caldaie per ottenerla, lì invece c’è
un clima tale che i pozzi sono arroventati, pertanto tutta l’acqua è
quasi bollente e la gente ricca è disposta a pagare per raffreddarla con
dei frigoriferi. Rinunciai alle mie mire di refrigerio e tornai da Marco.
– Che pacco! C’era solo l’acqua calda!
Qua in Mauritania ignorano il freddo!
MARCO – Io sto meglio, ho bevuto di brutto e ho letto un po’ sul Senegal.
Quella deve essere veramente Africa nera! Non vedo l’ora di arrivarci!
ANDREA
195
– Avremo modo. Ci schiodiamo da qua? Sono già le quattro e mezza e
Nouakchott dista quattrocentotrenta chilometri.
MARCO – Se è tutto asfalto, come sembra dalla carta,
ci arriviamo per cena o poco dopo.
ANDREA – Se non collasso prima. Sono fiacco e ho mal di pancia.
MARCO – Vedi di non ammalarti!
ANDREA – Non mi sento malato, solo spossato dal caldo e con la pancia gonfia.
Tu stai bene o senti qualche sintomo simile ai miei?
MARCO – Ma sì, sto bene.
ANDREA – Vabbè, dai. Partiamo. Sarebbe bello passare la serata nella capitale.
ANDREA
Uscimmo dalla cittadina nell’unica direzione in cui c’era asfalto e
presto ci lanciammo ai cento all’ora sull’infinito rettilineo. Faceva uno
strano effetto la velocità, era una guida totalmente diversa,
stranamente riposante. Le fatiche assurde di poco prima erano solo
un ricordo, ma avevano lasciato il segno nel mio corpo.
Non stavo bene, il male alla pancia aumentava insieme a un senso di
nausea che non faceva presagire nulla di buono. Pensai all’acqua che
ci era stata offerta poche ore prima e che non avevamo sterilizzato,
forse poteva essere la responsabile del mio malessere, ma il mio amico
stava bene, sebbene avesse bevuto con me. Allora mi sforzai di
ricordare qualche altro momento in cui potessi avere assunto qualcosa
di dannoso, ma non mi venne in mente nulla. Ero stato sempre
attento, avevo bevuto liquidi chiusi ermeticamente in bottiglia e
mangiato cibi sicuri, non capivo dove avrei potuto contrarre qualche
batterio o microbo dannoso. Non trovai una risposta e purtroppo il
malessere e la nausea aumentavano sempre più.
Avevamo lasciato Atar da circa un’ora e mezza, la strada asfaltata
tagliava l’erg mauritano e puntava decisa verso la capitale, ancora
tanto distante. Eravamo in mezzo al nulla, quando improvvisamente
cominciò a tirare un forte vento contrario e dovetti ridurre
drasticamente la velocità. Si alzò tantissima sabbia e il cielo diventò
giallo, ci stavamo muovendo quasi alla cieca. Dovetti rallentare
ancora, temevo che presto ci saremmo trovati in mezzo a una
tempesta e cercai un luogo dove ripararci, ma non si vedeva niente
196
che facesse al caso nostro, così non mi rimase altro da fare che
proseguire lentamente, nella speranza che la situazione migliorasse.
– Se continua così ci ritrovano sepolti nella sabbia fra qualche anno!
MARCO – Hai visto che storia? Il cielo è diventato marrone!
ANDREA – Non si vede un cazzo!
MARCO – Tu vai piano.
ANDREA – Starò facendo i quaranta!
Più che altro sarebbe bello trovare un riparo.
MARCO – La carta cosa dice? Quanto manca all’arrivo? Tra un po’ viene buio.
ANDREA
Ci fermammo per consultare la mappa e leggemmo il nome di una
località sulla strada che stavamo percorrendo. Distava centoottanta
chilometri da Atar e si chiamava Akjoujt. Non doveva mancare
molto, avremmo raggiunto quel paese e trascorso la notte; non aveva
senso viaggiare al buio, già non si vedeva niente così, con l’oscurità
saremmo finiti fuori strada o anche peggio. Stavamo per ripartire,
quando avvertii una fitta di dolore alla pancia. Strani gorgoglii mi
attraversarono l’intestino in lungo e in largo, fino a quando sentii
l’improvviso bisogno di andare di corpo. Non esisteva nessun riparo,
così mi allontanai un po’ nel deserto in una parvenza di privacy. Stavo
male, avevo la diarrea, ormai era certo che avessi mangiato o bevuto
qualcosa che mi aveva fatto male. Tornai sconsolato dal mio amico.
– Che brutta storia! Ho avuto dieci secondi per fuggire,
se avessi temporeggiato me la sarei fatta addosso!
MARCO – Hai la diarrea del viaggiatore, avrai bevuto dell’acqua infetta.
ANDREA – No! A parte oggi, chiaramente. Ma l’hai bevuta anche tu e stai bene.
MARCO – Per ora. Comunque speriamo in bene. Come stai? Ripartiamo? Stare
qui in mezzo al vento e alla sabbia mi ha un po’ rotto le palle.
Andiamo in quel paese dal nome impronunciabile e ci concediamo un riposino?
ANDREA – Sì, andiamo.
ANDREA
Ma dopo pochi minuti dovetti nuovamente fermarmi per un’altra
improvvisa scarica di diarrea, ancora peggiore della precedente.
197
– Sei proprio un cagone! Hai intenzione di concimare tutto il deserto?
– Che pacco! Ho la pancia gonfia e tesa come un tamburo.
MARCO – Vabbè, ripartiamo. Speriamo che la via crucis sia finita!
ANDREA – Ah ah! Sono quattordici stazioni, ne ho fatte solo due!
MARCO
ANDREA
Non avevo perso la voglia di scherzare, ma ero veramente a pezzi. Fui
costretto a fermarmi altre due volte nella mezzora successiva, mi
stavo disidratando e i muscoli mi dolevano per lo sforzo.
Era ormai buio, ma il vento smise di molestarci e la sabbia si depositò
lentamente a terra, liberando così il cielo che tornò a essere bardato di
stelle. Verso le nove arrivammo ad Akjoujt, un’anonima cittadina di
circa ottomila abitanti a circa duecentocinquanta chilometri da
Nouakchott. Ci fermammo in un negozio lungo la strada per chiedere
informazioni; era una specie di emporio in cui si vendeva un po’ di
tutto, gestito da un ragazzo dai modi molto gentili.
– Buonasera. Ci sa dire se c’è un hotel in paese per passare la notte?
– Sì, ce n’è uno vicino alla moschea, ma non so se troverete posto.
MARCO – Non pensavo che avremmo fatto fatica a trovare un alloggio nel Sahara!
NEGOZIANTE – Ah ah! È vero, è una cosa strana, ma in questi giorni ad
Akjoujt c’è un sacco di gente per una festa religiosa e non sarà facile,
mi sa che i due hotel del paese sono pieni.
ANDREA – Che sfiga! Andiamo comunque a vedere, io non sono in grado di
guidare. Se mi fermo ogni dieci minuti, come ho fatto sino ad ora,
sai quando arriviamo a Nouakchott?
MARCO – Più che altro non so se ci arriviamo, potresti dissolverti prima!
NEGOZIANTE – Lasciate perdere, non c’è problema. Se volete potete dormire nel
mio cortile dietro al negozio. Venite a vedere.
MARCO – Che mito questo uomo!
Ci conosce da cinque minuti e già ci offre un alloggio.
ANDREA – Ah! L’ospitalità mauritana! Questo sì che è un buon mauritano,
altro che quel pezzo di merda di prima! Ah ah ah ah!
MARCO – Ah ah! Lui non era un buon mauritano, proprio no!
ANDREA – Come si diceva, noi i pezzi di merda li sappiamo riconoscere eccome!
MARCO
NEGOZIANTE
198
Andammo dietro al bancone e ci trovammo in un piccolo magazzino,
dove c’era una porta da cui si accedeva in un cortile interamente
delimitato da un muretto alto poco più di un metro. Al centro c’era
l’immancabile sabbia, ma anche una bella palma. Avremmo dormito
all’aperto col sacco a pelo, non potevamo di certo rifiutare l’allettante
offerta. Il ragazzo si affrettò a dirci che non avrebbe voluto denaro in
cambio. Lui era proprio un buon mauritano, senza alcun dubbio.
– Che mito! Ci ospita così, senza conoscerci, a casa sua.
Potremmo anche essere dei malintenzionati e saccheggiargli il negozio.
MARCO – Avrà letto nei nostri sguardi che siamo bikers buoni.
ANDREA – Il vero biker non è un ladro, è una brava persona!
MARCO – È un burbero dal cuore d’oro!
ANDREA – Beh, andiamo in paese a mangiare qualcosa,
poi mi imbottisco di farmaci per la diarrea e ci facciamo una bella dormita.
MARCO – Un bel programmino. Io però sono a pezzi.
Prima la notte in terra a Choum dopo dodici ore di treno, poi oggi mi sono
disidratato, poi adesso la tempesta di sabbia. Sono tutto appiccicoso.
ANDREA – Ci credo! Ad Atar potevi anche venire con me a farti la doccia, no?
MARCO – Domani non mancherò, giuro.
ANDREA
Mangiammo qualcosa di caldo in un piccolo bar del paese. L’asfalto si
trovava solo sulla strada principale, del resto c’era sabbia ovunque. Gli
uomini vestivano lunghe tuniche e kefiah di vari colori e le poche
donne in giro indossavano tutte il velo. Gli edifici erano pressoché
identici a quelli di Choum, abbastanza anonimi, spiccava solo una
bella moschea intonacata di bianco nella piazza principale. Secondo i
nostri progetti il giorno dopo saremmo dovuti arrivare a Nouakchott
per pranzo e da lì avremmo proseguito il nostro viaggio verso sud,
sino a Rosso, al confine col Senegal. Ma eravamo troppo a pezzi per
parlarne in quel momento, così tornammo al negozio.
Ci sdraiammo presto sui sacchi a pelo nel centro del cortile. Il nostro
ospite chiuse la porta, ci augurò la buonanotte e si adagiò a sua volta
su un telo vicino a noi. C’erano altri due ragazzi, forse suoi parenti,
che avrebbero trascorso la notte in nostra compagnia; ci sorrisero,
199
non dissero nulla e si misero subito a dormire. Contemplai il cielo
stellato, avvolto nei miei pensieri. Stavo per addormentarmi, quando
improvvisamente un brontolio intestinale mi ricordò la mia triste
condizione. Avrei dovuto trovare un luogo appartato entro un
minuto, altrimenti sarebbe successo il peggio.
Mi alzai e mi guardai intorno, l’unica porta era quella di accesso al
negozio, ma era chiusa a chiave. Decisi quindi di scavalcare il muro e
andare all’esterno, nella speranza che nessuno mi vedesse. Sarei stato
scambiato per un ladro, forse mi avrebbero bloccato e prima di avere
il tempo di spiegare me la sarei fatta addosso. Mi mossi di soppiatto,
superai l’ostacolo e mi trovai in strada. Mi acquattai dietro ad un
muretto alto meno di un metro e diedi sfogo ai miei bisogni più
bestiali. Il silenzio della notte amplificò gli inevitabili rumori e proprio
in quel momento si avvicinò un gruppo di ragazze velate. La vergogna
mi colse, mi abbassai il più possibile nella speranza di non essere visto
e il gruppetto mi passò a pochi metri, forse non mi avevano notato.
Ma cominciarono a ridere di gusto ed ebbi conferma che, con quel
silenzio, gli orrendi rumori prodotti non mi avevano certo fatto
buona pubblicità. Non mi rimase altro da fare che nascondermi al
riparo discreto del cortile. Scavalcai quindi nuovamente il muro di
cinta stando attento a non svegliare nessuno, mi sdraiai sul sacco a
pelo e potei finalmente abbandonarmi ad un sonno ristoratore.
200
ROSSO
Durante la notte non ebbi ulteriori problemi intestinali e mi svegliai
alle prime luci dell’alba. Il sole illuminava la palma posta al centro del
cortile e proiettava la sua ombra sul muro del negozio.
Marco era ancora addormentato, mentre i tre mauritani parlavano
silenziosamente in un angolo del cortile, probabilmente per non
disturbare il nostro sonno mattutino. Appena mi alzai si zittirono e mi
sorrisero. Il nostro ospite non disse nulla, entrò in negozio e ne uscì
con pane e marmellata, poi andò a scaldare dell’acqua per fare il the.
Nel frattempo anche Marco si era alzato, così sedemmo tutti insieme
di fianco alla palma e facemmo colazione in silenzio, interrotto solo
da qualche scambio di battute fra noi.
– Che notte strana. Avevamo già dormito sotto le stelle,
ma stavolta è stata una cosa seria. La sabbia, la palma, i tuareg…
MARCO – Molto romantico, ma parliamo di cose serie.
Dimmi… dove sei andato stanotte quando ti sei alzato?
ANDREA – Ah ah! Mi hai sentito?
MARCO – Ah ah! Sì! Mi stavo per addormentare, quando ti ho visto scavalcare il
muro. Non nego che ho pensato a un appuntamento segreto e galante!
ANDREA – Sì, con una donna velata! Ah ah! Avevo motivi ben più miseri!
MARCO – Ancora la diarrea?
ANDREA – Già, non ci stavo più dentro,
così mi sono imboscato qua vicino, dietro a un muretto.
MARCO – Chissà che orrore!
ANDREA – È anche passato un gruppo di ragazze velate.
Non penso che mi abbiano visto, ma ridevano tutte!
MARCO – Forse non ti hanno visto, ma di certo hanno sentito i rumori osceni.
Ah ah ah ah! Avranno pensato a un bombardamento! Ah ah ah ah!
ANDREA – Spero che il farmaco faccia effetto, non reggerei un’altra giornata così.
MARCO – Il Dissenten è un farmaco portentoso.
Mi è già stato molto utile in Marocco, in Siria e in India. Come va adesso?
ANDREA – Bene, anche se ho paura che non durerà. Speriamo in bene!
ANDREA
201
I tre tuareg continuavano a mangiare in silenzio e ci sentimmo un po’
inadeguati con le nostre risate. Marco si rivolse al nostro ospite per
fare qualche chiacchiera di cortesia.
Venimmo a sapere che i tre erano fratelli e abitavano lì. La sera
chiudevano il negozio, andavano nel retrobottega e accedevano al
giardino interno. Non possedevano una casa e non c’erano stanze da
letto da nessuna parte, dormivano sempre sotto le stelle, adagiati su
panni di lana. Suppongo che, in occasione delle rare piogge,
trovassero riparo nel negozio o nel magazzino. Per cucinare era stato
attrezzato un angolo con un fornelletto a gas e una griglia per la carne.
Non avevamo visto il bagno, ma da qualche parte doveva pure
esserci; era impensabile che quelle persone scavalcassero sempre il
muretto come avevo fatto io la notte precedente.
– Certo che abitare in un cortile non è mica facile, è una scelta radicale!
ANDREA – Sono uomini del deserto, hanno altre esigenze.
MARCO – Non mi è facile concepire di rinunciare alla mia casa,
al salotto, alla cucina, alle stanze per vivere nella sabbia.
Vabbè che questi ci sono nati, ma è veramente una vita estrema.
ANDREA – Una vita improponibile, direi! Eppure guardali, sprizzano serenità
da tutti i pori. Ti sembrano stressati per le dure condizioni di vita in cui versano?
MARCO – No, decisamente. Hanno una tunica, una kefiah, la pelle bruciata dal
sole e levigata dalla sabbia e basta. Eppure non sembra mancargli nulla.
ANDREA – Noi invece siamo sempre in perenne movimento, in cerca di qualcosa,
chissà cosa! Ma cosa ci manca? Tu lo sai?
MARCO – Forse un obiettivo, uno scopo da perseguire. Ed eccoci qua a vagare
come trottole in cerca di qualcosa che ci dia veramente piacere.
È una ricerca affannosa!
ANDREA – Affannosa sì, anche perché non c’è vento favorevole per il marinaio
che non sa dove andare, come diceva il saggio Seneca! A me quello che facciamo dà
piacere ed è un piacere fine a se stesso, è già un obiettivo di per sé.
In fondo godo già nel farmi trasportare dal vento, anche se non so dove mi porterà.
MARCO – Ne sapeva ‘sto Seneca! Ma io replico con “Ride to live, live to ride”.
ANDREA – Viaggiare per vivere, vivere per viaggiare. Lo conosco ‘sto detto!
MARCO – L’ho letto su un’Harley Davidson, penso che sia un motto americano.
MARCO
202
– Ne ho un altro! La vita è un viaggio, chi viaggia vive due volte.
– E questo di chi è?
ANDREA – Non so, però è bello, vero?
MARCO – Bello sì! Allora noi viviamo due vite!
ANDREA – Sicuramente! Ma forse ora è meglio partire, sennò viviamo di meno!
MARCO – Sì, andiamo, così pranziamo a Nouakchott.
Due ore e mezza e ci siamo.
ANDREA – Salvo diarree e tempeste di sabbia.
ANDREA
MARCO
Lasciammo i tuareg nel loro mondo sabbioso, sembravano veramente
sereni, anche se non capivamo come potessero esserlo vivendo in
quel modo. Stavano in un paese in mezzo al deserto, non avevano
una casa e vivevano all’aperto tutto l’anno. Probabilmente non erano
mai usciti dalla regione, non conoscevano nulla del mondo, ma
sembrava che a loro andasse bene così. Non c’era traccia di ansia nei
loro movimenti, nelle loro espressioni e nelle loro parole. Erano la
personificazione della serenità. Noi invece avevamo bisogno di
muoverci, lo sapevamo bene. Non amavamo la stasi, era opprimente.
Ed eccoci lì, a cavallo della Tenerè, a tagliare il deserto che ci separava
da Nouakchott. Era molto presto, il sole basso e l’aria quasi fresca ci
donavano un certo benessere. La striscia d’asfalto continuava diritta e
infinita, ovunque solo e unicamente sabbia gialla, ogni tanto delle
carcasse di auto e di camion ai lati della strada spezzavano la
magnifica monotonia dell’ambiente. Dopo un’ora e mezza vedemmo
alcune capanne in mezzo alla sabbia, erano poco distanti e
decidemmo di fare una sosta. Marco scese dalla moto per agevolarmi
la guida e si incamminò verso le abitazioni. Non c’era nessuno.
– Che strano posto, così nel nulla. Chissà chi ci abita.
– Si fa presto a costruire casa da queste parti! Guarda qua, fango e
paglia impastati insieme, qualche ramo a fare da telaio per tenere in piedi il tutto e
la casa è fatta. Se non consideri quegli arbusti intrecciati, non c’è nemmeno il tetto!
MARCO – Tanto qua non piove mai, non ha senso spendere soldi per una lamiera!
ANDREA – È vero. A confronto, i tuareg di stamattina vivono da gran signori!
MARCO
ANDREA
203
– Sono le dieci, qua non c’è un cazzo da fare. Che facciamo? Andiamo?
Dovrebbe mancare un centinaio di chilometri a Nouakchott,
magari ci scappa un pranzo di qualità in qualche ristorante.
ANDREA – Andiamo in zona Ambasciate, là troveremo cucina internazionale.
MARCO – Magari una pizza!
ANDREA – Ah ah! Magari! Proveremo la famosa pizza mauritana!
MARCO
Man mano che ci avvicinavamo alla città aumentava la vegetazione,
prima solo piccole e sparute sterpaglie, poi aree irrigate per consentire
quel poco di coltivazione necessaria alla sopravvivenza. Ai bordi delle
strade non c’erano più capanne o case in mattoni d’argilla, ma edifici
in cemento che, seppure fatiscenti, facevano intendere che eravamo
entrati nell’area più civile dell’intero Paese. Arrivammo alle porte di
Nouakchott in meno di un’ora e ci fermammo da un benzinaio a fare
il pieno, dopodiché ripartimmo alla ricerca del centro, anche se la
totale assenza di indicazioni rendeva molto difficile orientarsi.
Girovagammo per le strade larghe e polverose, delimitate da palme
gigantesche, all’ombra delle quali trovavano riparo dal sole gli abitanti
della città. Solo alcuni venditori ambulanti offrivano la propria
mercanzia, mentre quasi tutti stavano seduti a fare nulla, aspettando
che il tempo scorresse. C’era gente ovunque, vestita nei modi più
disparati. In breve tempo ci trovammo in un quartiere più moderno e
curato. Eravamo giunti nella zona che stavamo cercando e
decidemmo così di trattarci bene, dopo tante sistemazioni precarie ci
saremmo concessi un ristorante di lusso.
Entrammo in un luogo elegante, vestiti da straccioni. Se fossimo stati
mauritani ci avrebbero respinti, ma eravamo occidentali, quindi
venimmo trattati in modo squisito, quasi fossimo anche noi dei
diplomatici, magari un po’ eccentrici. Seduti ai tavoli vedemmo alcuni
bianchi in giacca e cravatta, forse funzionari delle Ambasciate, che
mangiavano carni dal profumo invitante. Altri invece si dedicavano a
una pizza dall’aspetto non del tutto sgradevole e la sola visione ci fece
montare voglia d’italianità. Non sarebbe stata certamente la scelta
migliore, lo sapevamo bene, ma decidemmo ugualmente di emularli.
204
– Che bel posto! Qua mangeremo la vera pizza di Nouakchott!
– Famosa in tutto il Sahara!
ANDREA – Che strane scelte fa la gente!
C’è chi lascia l’Europa per venire a vivere in mezzo alla sabbia.
MARCO – Tra l’altro ricostruendo una parvenza dell’Occidente che hanno
lasciato, bei vestiti e ristoranti eleganti.
ANDREA – Ognuno fa la vita che vuole.
Certo che decidere di stare qua è strano, bisogna essere un po’ fuori!
MARCO – Leggevo che la metà della popolazione vive con poco,
addirittura meno di due dollari al giorno.
ANDREA – Qua siamo ricchi persino noi! Pensa questi delle Ambasciate,
saranno pieni di soldi e non si faranno mancare nulla.
MARCO – Non gli mancherà nulla, ma sono in un deserto.
Io preferisco stare in Europa ed essere meno ricco.
ANDREA – Anch’io, senza dubbio. Pensa che questa città ha più o meno gli
abitanti di Bologna ed è la più grande di tutto lo Stato.
MARCO – Non solo, è la città più grande di tutto il Sahara dopo Il Cairo.
ANDREA – Leggevo anche che fino agli anni Settanta era poco più di un paesino
di pescatori, poi è arrivata la siccità, il deserto si è esteso e i nomadi dell’interno si
sono trasferiti qua in massa per trovare acqua. Molti sono diventati stanziali,
ma altri stanno in città un po’, poi levano le tende e tornano nell’entroterra.
Quando la siccità aumenta troppo allora tornano qua.
Insomma! È tutto un via vai!
MARCO – Che vita pesante! Gliela lascio volentieri.
ANDREA
MARCO
Ci portarono le pizze, non erano per niente male. Continuammo a
parlare di quella strana e anonima città nel bel mezzo del nulla, poi
sentimmo un forte impulso a partire per conoscere nuove realtà.
– Mi sta montando la voglia di Africa nera.
Stasera arriviamo al confine e domani si cambia registro!
MARCO – Già. Il Senegal ci attende!
ANDREA – E noi non lo faremo aspettare! Ci sono duecento chilometri da qua al
confine, tutto asfalto. Un gran lusso!
MARCO – Non male. Salvo imprevisti, ci metteremo un paio d’ore o poco più.
ANDREA
205
Eravamo in partenza per Rosso, la terza città della Mauritania, circa
cinquantamila abitanti, sorta nell’estremo sud-ovest, sul fiume
Senegal, il confine naturale fra il Sahara e il Sahel, l’immensa zona di
transizione fra il deserto e le foreste pluviali dell’Africa centrale.
L’indomani avremmo lasciato il Paese, stavamo per concludere la
nostra meravigliosa traversata sahariana, conquistando finalmente
l’Africa nera, di cui non avevamo mai avuto esperienza. Non
sapevamo come si sarebbe presentata, comunque eravamo certi che
avremmo avuto infinite occasioni per stupirci.
Ci dirigemmo quindi verso sud. La vegetazione era sempre scarsa,
solo le palme sembravano trovarsi bene con quel clima e crescevano
un po’ ovunque. Ogni tanto c’era qualche capanna lungo la strada,
sullo stile di quelle viste in mattinata. Fuori da esse si trovavano
piccoli gruppi di persone di varia età, probabilmente famiglie di
nomadi, che trascorrevano il tempo a guardare la striscia d’asfalto. Mi
domandai dove e come ricavassero il loro sostentamento, ma non mi
diedi una risposta. La strada era in buone condizioni, anche se talvolta
trovavamo un po’ di sabbia sulla carreggiata e occorreva prestare
attenzione, ma la guida era comunque riposante, nonostante il traffico
relativamente sostenuto. Arrivammo a Rosso nel tardo pomeriggio.
Le strade cittadine non asfaltate rendevano l’ambiente molto
polveroso. L’edilizia era simile a quella di Choum, ma non mancavano
le onnipresenti capanne fatte di legno e fango, sparse un po’ ovunque.
C’erano molti animali in giro, perlopiù cani randagi, pecore e capre,
ma anche qualche dromedario e molti muli impiegati per il trasporto
delle merci. Tanti gruppi di bambini correvano felici in mezzo alla
sabbia e alla polvere e al nostro passaggio lanciavano urla di gioia e
sbracciavano per salutarci. Accostai vicino a un bar, una piccola folla
era assiepata davanti alla tv posta sotto a una veranda.
– Oggi è un giorno speciale! Ti ricordo che c’è la finale degli Europei!
MARCO – È vero, mi ero scordato! Che ore sono?
ANDREA – Le sette e mezza, comincia fra mezzora! Non possiamo perderla!
MARCO – Beh, cosa facciamo? Sarebbe proprio bello guardarla coi mauritani!
ANDREA
206
– Pensa che storia, saremo gli unici bianchi, perlopiù tifosi dell’Italia,
in mezzo a una folla di neri che tifano Francia!
MARCO – Speriamo che siano tutti dei buoni mauritani!
Non mi piacerebbe fare una rissa per una partita del cazzo!
ANDREA – Ma dai! Cerchiamo subito un hotel o lo facciamo dopo la partita?
MARCO – Secondo me è meglio cercarlo dopo,
anche perché inizia fra poco e rischiamo di rimanerci in mezzo.
ANDREA – Ok, allora fermiamoci qua.
Ci sediamo a un tavolo, mangiamo qualcosa per cena e ci godiamo il match.
ANDREA
Le persone sedute davanti alla tv ci guardarono con curiosità, noi
salutammo e tutti ricambiarono cortesemente. Dicemmo di essere
italiani in viaggio e che ci saremmo fermati a vedere la finale. La folla
cominciò a rumoreggiare divertita, alcuni ci strinsero la mano e
scambiarono qualche battuta con noi.
La Francia in quel periodo era una squadra temibile. Aveva vinto due
anni prima i Mondiali disputati in casa e sembrava che nulla potesse
fermarla, ma la nostra Nazionale faceva paura e i mauritani vedevano
in me e Marco due avversari rispettabili, quasi le personificazioni di
Alessandro Del Piero e Francesco Totti, i grandi goleador azzurri.
– Che storia! Sembriamo due ultras in trasferta!
MARCO – E che trasferta! Siamo venuti nel Sahara a vedere Italia – Francia!
ANDREA – Guarda questi tipi, sono più attratti da noi che dalla finale. Forse si
sono accorti che non siamo francesi, sarà per la nostra espressione più simpatica!
MARCO – In effetti non credo che qua conoscano molti bianchi diversi dai francesi.
ANDREA
Le due squadre erano allineate a centro campo, quando giunse il
momento degli inni nazionali. I mauritani cantarono quello francese e
noi tacemmo, poi fu il turno dell’Italia, così ci alzammo e cantammo
l’inno di Mameli nel rispettoso silenzio del pubblico avversario. Ci
guardarono con ammirazione. Un cameriere ci portò due panini col
formaggio e una bottiglia d’acqua, quando la partita ebbe inizio. Per
tutto il primo tempo non accadde nulla di rilievo, ma finalmente nella
ripresa la Nazionale ci donò la grande soddisfazione che aspettavamo.
207
– Totti… Totti, fa un colpo di tacco, passa la palla a Pessotto…
Attenzione! Cross in area di Pessotto, trova Delvecchio, goal di Delvecchio!
CRONISTA
I mauritani non erano convinti, sbuffarono e si lamentarono, mentre
io e Marco esultammo senza alcun ritegno. L’incontro continuò. La
Nazionale era indietreggiata per difendere il vantaggio e i francesi non
riuscivano a trovare il pareggio. Il tempo passava, i nostri giocatori
crearono altre occasioni da goal ma non riuscirono a concretizzare.
Ormai si era superato il novantesimo minuto e pensavamo di avere
già la vittoria in pugno, ma purtroppo non era ancora finita.
CRONISTA
– Wiltord, supera Cannavaro, tiro, goal!
Al quarto minuto di recupero la Francia pareggiò con un tiro
rasoterra. La folla andò in delirio, tutti cominciarono a saltare. Io e
Marco, molto delusi, applaudimmo sportivamente. Si era così andati
ai tempi supplementari, chi avesse segnato per primo avrebbe vinto
gli Europei. Gli Azzurri erano demoralizzati e cominciarono a subire
l’iniziativa degli avversari, fino alla disfatta finale.
– Trezeguet! Trezeguet! Goal! La Francia è campione d’Europa!
La Francia è campione d’Europa!
CRONISTA
Trezeguet era un fuoriclasse, lo avevamo già visto all’opera ai
Mondiali due anni prima e agli Europei si fece nuovamente valere: la
Francia si era riconfermata campione. I mauritani ci strinsero la mano,
dissero che avevamo giocato bene, ci fecero sentire benvoluti. In
fondo non ce ne fregava granché, ma perdere in quel modo ci diede
veramente fastidio. Ci congedammo dalla piccola folla di tifosi e
cercammo un albergo. In pochi minuti parcheggiammo di fronte al
Cafè de la Paix, che ci avrebbe ospitati per quella notte. Entrammo e
ci trovammo in un bar, con le pareti verniciate di rosso fuoco. Alcuni
tavoli di plastica e sedie di metallo poggiavano sul polveroso
pavimento di terra battuta. Dietro a un modesto bancone in legno
consunto stavano alcune file di scaffali destinati alle bevande, ma
208
erano completamente vuoti. Venimmo accolti da un uomo distinto,
sulla quarantina, vestito con pantaloni e camicia. Aveva la pelle chiara
e piccoli baffi. Si presentò cordialmente, era il proprietario del locale.
– Buonasera signori.
– Buonasera, cerchiamo una stanza per questa notte.
PROPRIETARIO – Certo, non c’è problema. Oltre il bar c’è un cortile e lì troverete
una casa. È tutta vostra, ci sono dei materassi e anche la moquette.
Fuori c’è il bagno con la doccia.
ANDREA – Che lusso! Noi ci trattiamo sempre bene!
MARCO – Aspetta di vedere prima di parlare!
PROPRIETARIO
MARCO
Il proprietario aprì una porta e scomparve, per tornare però dopo
pochi minuti. Con aria soddisfatta, disse di avere incaricato qualcuno
di sistemare la nostra stanza e che a breve ci saremmo potuti entrare.
– Bevete qualcosa intanto?
– Sì, io prendo una coca.
ANDREA – E io un caffè.
PROPRIETARIO
MARCO
Si alzò e andò prontamente dietro il banco a prendere quello che
avevamo ordinato, continuando la conversazione con noi.
– Da dove venite?
ANDREA – Dall’Italia.
PROPRIETARIO – Dall’Italia? Ma avete visto la partita?
MARCO – Sì, in un bar qua in città.
Che tristezza, andare ai supplementari dopo quattro minuti di recupero!
PROPRIETARIO
E il mauritano non la smise più di parlare di calcio, fece i nomi di un
sacco di giocatori francesi, descrisse azioni, parate, strategie. Non ce
ne importava veramente nulla, ma per cortesia simulammo interesse.
Capimmo anche che nei giorni successivi sarebbe andata nello stesso
modo, dato che la parte d’Africa che intendevamo attraversare era
tutta composta da ex-colonie francesi e quella partita sarebbe stata
209
probabilmente l’argomento dominante di chissà quante conversazioni.
Riuscimmo a cambiare discorso e chiedemmo qualcosa in merito
all’attraversamento del fiume per raggiungere il Senegal. Ci disse che i
traghetti erano molto frequenti ma che ci avrebbe comunque aiutati,
visto che conosceva qualcuno in dogana che si sarebbe premurato di
risolvere velocemente la nostra situazione. Senza tale aggancio
avremmo impiegato ore intere per uscire dalla Mauritania. Pareva che
quella persona prendesse servizio solo in tarda mattinata, quindi ce la
saremmo presa comoda. Probabilmente avremmo raggiunto il Senegal
per l’ora di pranzo. Finalmente il nostro alloggio fu pronto, così
lasciammo il bar, attraversammo uno squallido cortile abbellito da un
pergolato con qualche panca ed entrammo in un piccolo, anonimo
edificio. Ci trovammo in un’enorme stanza, anch’essa verniciata di
rosso, con due materassi appoggiati sulla moquette blu, piena di
polvere. Non c’erano armadi, comodini, appendiabiti, non c’era nulla.
– Abbiamo aspettato mezzora per fargli preparare la stanza e non c’è un
cazzo da sistemare! Cosa avranno fatto in tutto questo tempo?
ANDREA – Forse era piena di roba e l’hanno svuotata.
O forse hanno semplicemente pulito la moquette!
MARCO – Ah ah! Allora figurati come doveva essere prima!
ANDREA – Su quale materasso vuoi dormire?
MARCO – Su questo qua vicino al muro.
ANDREA – Allora io mi metto sotto il finestrone.
MARCO
Appoggiammo le nostre cose a terra e facemmo un giro per
orientarci. In un lato dell’ampio cortile c’era un’altra casupola in
mattoni di argilla, senza tetto e col pavimento in terra battuta, divisa
in due vani, chiusi da misere porte in legno grezzo. Da uno di essi
usciva un odore nauseabondo, ci facemmo forza ed entrammo.
Vedemmo solo un orrendo buco, il cui scopo era fin troppo chiaro.
– Ma che schifo di posto! Qua c’è da prendere delle malattie!
Bisogna stare attenti a non caderci dentro, altrimenti sarà il nostro ultimo gesto!
MARCO
210
– Che odore improponibile, neanche una turca in ceramica c’hanno
messo! Hanno scavato un buco gigante e basta.
MARCO – Non c’è neanche l’acqua per lavarsi!
ANDREA – Una volta fatti i tuoi bisogni andrai a fare la doccia!
Più che altro spero che le mie turbe intestinali siano finite,
altrimenti sarà un’agonia! Mi ci vedi a venire in questo cesso ogni dieci minuti?
MARCO – Ah ah ah ah! Dovrai fare la doccia ogni dieci minuti!
Ma poi, quale doccia? Dov’è? La vedi tu?
ANDREA – Forse nella stanzetta qua di fianco, andiamo a vedere.
ANDREA
Trovammo effettivamente una delle solite docce senza diffusore
d’acqua. Non c’era nulla su cui appoggiare vestiti e asciugamani, forse
avremmo potuto appenderli a cavallo del muretto divisorio, ma se
fossero caduti dall’altra parte li avremmo persi per sempre nel pozzo
nero. Dal rubinetto usciva un getto debole, non sarebbe stato facile
lavarsi. Inoltre mancava un canale di scolo, quindi l’acqua si sarebbe
dispersa nel cortile, che sarebbe così diventato presto fangoso.
– Ascolta, ci organizziamo così. Tu ti lavi, io aspetto fuori e ti faccio
da attaccapanni, così non rischi di vedere i tuoi vestiti finire nel cesso.
Poi quando hai finito facciamo cambio.
MARCO – Sempre dei posti del cazzo troviamo!
ANDREA – Cafè de la Paix. Il nome evoca eleganti ambienti parigini!
MARCO – Ah ah! Alla faccia di Parigi! Invece è solo uno squallido bar,
con una stanza orrenda e una doccia e un cesso indescrivibili.
ANDREA – Ah ah! Certo che ne abbiamo visti di hotel osceni in questi anni!
MARCO – Questo però ha una marcia in più!
ANDREA
Ci lavammo col metodo proposto e ridemmo di ogni cosa. Era bello
essere lì, in quel posto orripilante, a due passi dal confine. I bagni belli
li avremmo ritrovati a casa, per il momento ci saremmo goduti la
bruttezza di quel posto che, ne eravamo certi, ci avrebbe donato
piacevoli ricordi nei tempi a venire. Tornammo così nella stanza.
Stavamo per dormire ma ricevemmo la visita di un ragazzo, nero
come la pece, vestito con una camicia dai colori sgargianti e con
211
lunghi pantaloni gialli di cotone. Era un senegalese, lavorava lì e aveva
voglia di fare delle chiacchiere con noi. Non voleva raccontare di sé,
più che altro voleva sapere di noi, così gli dicemmo le solite cose, che
venivamo dall’Italia, che stavamo andando in Costa d’Avorio, che la
Mauritania era bella e così via. Non avevamo molta voglia di parlare,
eravamo stanchi e lui probabilmente se ne accorse, infatti dopo pochi
minuti disse che si era fatto tardi e che sarebbe andato a dormire.
Non insistemmo troppo affinché rimanesse. Il mio intestino
sembrava essersi quietato, erano ormai diverse ore che non dava segni
ostili e mi addormentai nella speranza che la disidratazione fosse
finita. Giurai a me stesso che non avrei più bevuto acqua non
sterilizzata; ero consapevole che forse non sarei stato sempre in grado
di rispettare il mio proposito, ma sicuramente ci avrei provato.
212
MBAKÈ
Avevamo puntato prudenzialmente la sveglia alle nove per non
correre il rischio di alzarci all’ora di pranzo, anche se non c’era nulla
da fare oltre a caricare i bagagli sulla moto e andare alla dogana. Ma il
mio materasso era posto proprio sotto l’ampia finestra senza tende
oscuranti, così mi svegliai verso le otto, accecato dal sole che
splendeva comunque già da un po’ di tempo sul mio viso. Guardai
all’esterno e venni salutato da tre uomini seduti su una delle panche
nel cortile a pochi metri da noi, chiacchieravano fra loro e ogni tanto
buttavano lo sguardo all’interno della nostra stanza per curiosare.
Non potevamo fare nemmeno un gesto senza essere visti da estranei.
– Molto discreto questo alloggio!
MARCO – Già, l’ideale per venirci con la donna!
ANDREA – Ma cosa sta facendo quella gente lì fuori sulla panchina?
MARCO – Niente, come quasi tutti, del resto. Aspettano che venga sera.
ANDREA – Potrebbero almeno svegliarsi più tardi!
La giornata sarebbe più breve e si annoierebbero di meno.
MARCO – Qua non sembra annoiarsi nessuno.
A noi se stiamo fermi mezzora sembra di perdere tempo,
loro invece sono capaci di stare seduti ore ed ore senza battere ciglio.
ANDREA – È vero. Infatti l’Europa è più ricca, più evoluta:
noi facciamo le cose, loro no.
MARCO – Ah ah! In fondo è vero. Chi dorme non piglia pesci!
ANDREA – Mi sa che qua chi lavora lo fa ogni tanto,
non esiste il concetto di tempo pieno.
MARCO – È brava gente, sono generosi e disponibili,
però non sono certo rapidi. Tutto procede a rallentatore.
ANDREA – Vediamo di non fare come loro, adesso ci alziamo e facciamo
colazione. Prima però onoro il bellissimo bagno che abbiamo visto ieri sera.
Chissà com’è con la luce del sole!
MARCO – Come vuoi che sia? Non penso sia migliorato durante la notte.
Ma hai ancora la diarrea di ieri o va meglio?
ANDREA – No, penso e spero che il problema sia rientrato, devo solo fare pipì.
ANDREA
213
– Rientrato in così poco tempo sarebbe un vero successo! Altre volte ci
abbiamo impiegato giorni e giorni a riprendere il controllo degli sfinteri.
ANDREA – Comunque vada, giuro che d’ora in poi berrò solamente acqua in
bottiglia o con l’amuchina, giuro! Ricordamelo se dovessi cambiare idea!
MARCO – Sì, fino al prossimo deserto! Ah ah!
ANDREA – Meno male che il Sahara è finito, in Africa nera non dovremmo più
avere problemi a trovare l’acqua, soprattutto in questa stagione delle piogge.
MARCO
Andai in bagno e conobbi l’orrore. Dal pozzo nero usciva il solito
odore nauseabondo, ma era veramente eccessivo, non avevo mai
sentito prima un tanfo simile, così guardai al suo interno per capire la
causa di tale intensità. Vidi un esercito di vermi giganteschi che
strisciavano fra i rifiuti organici, giusto un metro più in basso, e mi
allontanai d’istinto, quasi temessi che quegli animali potessero saltarmi
addosso. Nessuno aveva pensato di scavare una buca profonda, forse
sarebbe stato troppo faticoso, così si erano limitati a creare un
accenno di pozzo ed ecco le conseguenze di quella scelta scellerata,
davanti ai miei occhi e soprattutto sotto al mio naso. Tornai subito in
camera, desideroso di coinvolgere Marco nella situazione tragicomica.
– Prendi la videocamera, dobbiamo girare importanti riprese del film!
– Hai visto qualcosa di bello?
ANDREA – Non bello, meraviglioso! Ascolta, adesso tu accendi e io faccio finta di
essere un tour operator che presenta le meraviglie del nostro alloggio.
Partiamo dalla stanza, passiamo per il cortile e concludiamo lo spot in bagno.
MARCO – Ok, mi incuriosisci non poco! Vai pure quando vuoi, io ci sono.
ANDREA
MARCO
Marco mi inquadrò e vidi accendersi il led rosso della telecamera:
stava riprendendo. Assunsi quindi un tono da imbonitore televisivo…
– Signori, buongiorno. Sono il vostro Franco Rosso. Oggi voglio
presentarvi una meravigliosa struttura alberghiera sorta nel deserto del Sahara.
Siamo in Mauritania, a Rosso, sul fiume Senegal, a due passi dal confine con lo
Stato omonimo. Seguitemi e ammirate! Ecco qua! La struttura consiste di diversi
locali, per soddisfare tutte le esigenze, anche quelle dei nostri clienti più sofisticati.
ANDREA
214
MARCO – Ma
che bello! Questa puntata si preannuncia veramente interessante!
– Certo, come sempre! Questa è una meravigliosa stanza per due
persone. Come potete vedere non manca proprio nulla, ci sono persino due comodi
materassi, sapientemente posizionati sulla lucente moquette blu oltremare.
MARCO – Ma mi dica signor Franco Rosso,
non le pare che un armadio avrebbe aumentato il livello di comfort?
ANDREA – No, mio acuto osservatore! Noi della Franco Rosso abbiamo pensato
a tutto e abbiamo sacrificato l’armadio, è troppo convenzionale.
Il posto giusto per riporre i propri abiti è senz’altro l’ampio pavimento,
altrimenti resterebbe inutilizzato, non le pare?
MARCO – Certo, non ci avevo pensato! È proprio un’ottima soluzione!
ANDREA
Il nostro cabaret continuò all’esterno. Facemmo qualche commento
stupido sul cortile e sui tre nullafacenti seduti sulla panca, che ci
guardarono con interesse, quasi stessimo facendo veramente delle
riprese per immortalare la bellezza del luogo. Probabilmente non
erano consapevoli dello squallore in cui vivevano e pensavano di
offrirci realmente un servizio di standard elevato.
– Sono certo che la struttura che vi ho presentato sino a questo
momento è stata di vostro gradimento, ma la vera punta di diamante del Cafè de
la Paix è sicuramente la toilette. Suvvia! Andiamo a vedere insieme!
ANDREA
Mi diressi verso la doccia e il cameraman mi seguì. Volevo tenere il
pozzo nero per ultimo, sarebbe stato il gran finale col quale sarebbe
terminato l’agghiacciante spettacolo pubblicitario.
– Ora, gentili ospiti, voglio farvi una domanda. Dopo avere
attraversato il deserto del Sahara, qual è il primo desiderio di ogni viandante?
MARCO – Io lo so! Fare una doccia rinfrescante!
ANDREA – Esatto, mio acuto viaggiatore! Ed ecco che il Cafè de la Paix ha
quello che fa per voi. Il vano doccia è perfettamente funzionale. Il getto dell’acqua
non esce troppo forte, per impedirvi di schizzare e bagnare così i vostri vestiti!
MARCO – Scusi l’interruzione, signor Franco Rosso. Vorrei farle una domanda.
ANDREA – Certo! Mi dica, mio acuto intervistatore! Sono qui proprio per Lei.
ANDREA
215
– Mi domando, una volta che mi denudo, dove posso appoggiare gli abiti,
dato che non vedo attaccapanni. Avete valutato questo aspetto?
ANDREA – Noi della Franco Rosso abbiamo pensato anche a questo,
mio raffinato ospite. Potrà appoggiare tutto a cavallo di questo muro divisorio,
così non avrà materiale ingombrante a limitare i suoi movimenti.
MARCO – Capisco, non ci avevo pensato, che sciocco che sono!
E dell’altra parte del muro cosa c’è di bello?
ANDREA – Il fiore all’occhiello dell’intera struttura, mio acuto curiosone!
Mi segua, andiamo a vedere insieme quali meraviglie ha inventato il nostro staff.
MARCO
E così indicai finalmente a Marco il buco in cui si trovava l’immonda
quantità di vermi. Illuminai il fondo del pozzo con una torcia e gli
suggerii di usare lo zoom al massimo per aumentare l’effetto scenico.
– Ah ah ah ah! Ma signor Franco Rosso,
mi pare che la toilette non sia in perfette condizioni igieniche, non crede?
ANDREA – Ma no, mio limitato, ottuso e superficiale defecatore!
È un innovativo sistema Franco Rosso che permette di eliminare lo sciacquone.
Lei si limita e defecare all’interno dell’orifizio, dopodiché i nostri vermi faranno
piazza pulita dei suoi miseri resti. Geniale, no?
Abbiamo persino eliminato la tazza, per valorizzare al massimo gli spazi.
MARCO – La ringrazio per l’eccellente presentazione, ma soprattutto per l’ottima
scelta della struttura. I vostri standard sono sempre eccellenti. Complimenti!
MARCO
Il cabaret era finito, lo riguardammo e ci facemmo delle sonore risate.
I tre uomini continuavano a stare seduti sulla panca, senza capire la
situazione. Sorridevano e ci facevano cenni cordiali. Andammo così a
fare colazione al bar, dove prendemmo accordi con il proprietario.
– Ho chiesto in dogana, ci aspettano per le undici.
In mezzora si farà tutto, poi potrete salire sul traghetto e andare in Senegal.
ANDREA – Abbiamo ancora un paio d’ore, ce la possiamo prendere comoda.
Ma cosa c’è da fare esattamente?
PROPRIETARIO – Timbrare il passaporto e registrare i documenti della moto.
ANDREA – Ok. E Lei pensa che senza il suo amico ci vorrebbe molto tempo?
PROPRIETARIO
216
Sospettammo che il proprietario non ce la stesse raccontando giusta.
Perché mai quella persona in dogana avrebbe dovuto prendersi a
cuore la nostra situazione, se non per guadagnarci? Avevamo avuto
molte prove della generosità di quel popolo, ma solo in seguito a un
rapporto diretto, non da parte di chi non ci aveva nemmeno visti in
faccia. Fino a quel momento non ci erano stati chiesti dei soldi, ma
temevamo che sarebbe accaduto da un momento all’altro. Del resto,
in un posto del genere rappresentavamo una fonte di reddito non
indifferente e quella era una ghiotta occasione per spillarci del denaro.
Decisi di giocare d’anticipo e glielo chiesi esplicitamente.
– Ma bisogna spendere dei soldi per uscire dalla Mauritania o no?
PROPRIETARIO – C’è da pagare una tassa. Potreste farlo anche da soli, s’intende,
ma qua i doganieri sono molto lenti. Basterà invece che diate un po’ di denaro al
mio amico e lui provvederà a dare le mance alle persone giuste, così fate presto.
MARCO – Avevamo visto giusto. Qua bisogna ungere gli ingranaggi,
altrimenti perdiamo delle ore e in Senegal arriviamo chissà quando.
ANDREA – Vabbè, in fondo lo sapevamo, no? Adesso ce l’ha confermato,
ma che ce ne frega? Stiamo attenti a non farci derubare, ma pago volentieri
qualcuno per evitare di stare ore fermo alla dogana, come avevamo fatto in Siria.
MARCO – Ah ah! Su questo non c’è dubbio.
Ma allora eravamo più giovani e più inesperti, adesso invece siamo cresciuti!
ANDREA
Quattro anni prima ci trovavamo in moto alla frontiera fra la Turchia
e la Siria. Era stata un’esperienza traumatizzante, avevamo perso non
so quante ore girovagando in numerosi uffici, dove ogni funzionario
che incontravamo voleva spillarci del denaro coi pretesti più vari. Alla
fine avevamo speso un sacco di soldi e perso una giornata intera. Per
raggiungere il Senegal ci veniva invece proposto di pagare un uomo
solo, che avrebbe a sua volta dato le mazzette alle persone giuste,
anche se inevitabilmente era prevista una ricompensa per il servizio.
Avremmo concordato prima la cifra, per evitare inutili discussioni e
perdite di tempo. L’ora era giunta, così caricammo i bagagli e ci
spostammo sulle rive del fiume; dopo pochi minuti arrivò anche il
proprietario dell’albergo. Gli demmo i documenti e la cifra pattuita,
217
quindi scomparve negli uffici doganali. Nell’attesa ci guardammo un
po’ intorno. C’erano tuareg e beduini ovunque, con le solite tuniche
color indaco, bianche o color sabbia e le immancabili kefiah sulla
testa, ma si vedevano anche tanti neri che si apprestavano a superare
il grande fiume. Questi ultimi, nonostante il caldo feroce, erano vestiti
da capo a piedi e in modo abbastanza formale, con camicia e
pantaloni. Nella cultura dell’Africa occidentale, indossare magliette
senza maniche, pantaloni corti o abiti trasandati è usuale fra i
bambini, gli operai, i contadini sul lavoro e la gente veramente povera,
ma il resto della popolazione cura molto l’estetica. Molte donne erano
vestite con lunghi teli di cotone arancioni, gialli, blu e di altri colori,
con la testa spesso avvolta in sgargianti foulard. Molte avevano
tatuaggi sul viso e orecchini enormi, alcune esibivano anche grandi
sigari in bocca. Era tutto più vivace, più vario; dopo l’ambiente
monocromatico del Sahara venimmo travolti da una vera e propria
esplosione di colori. Stavamo per lasciare la Mauritania per
raggiungere un posto molto diverso, di cui respiravamo già tutto il
fascino. Sulla spiaggia c’erano alcuni camion che avrebbero presto
trovato posto sul grande traghetto piatto, che faceva continuamente la
spola fra le due sponde ammantate di vegetazione.
Dopo circa mezzora il nostro collaboratore fu di ritorno con i
documenti in regola. Le mazzette erano andate nelle tasche giuste e
avremmo così sconfinato in poco tempo. Lo ringraziammo, ci
salutammo e scomparve nella folla. Vedemmo arrivare il traghetto e ci
incolonnammo per salire, ma tutte le persone davanti a noi ci fecero
cenno di passare, così guadagnammo presto la testa del gruppo.
– Le solite gentilezze imbarazzanti. In Italia col cazzo che ti fanno
salire per primo se arrivi per ultimo! Che umanità multietnica!
Qua sono neri di brutto! Che siano tutti senegalesi?
ANDREA – Mah! Non me ne intendo, per me i neri sono tutti uguali, ma non
penso che siano solo senegalesi. È un confine importante, ci sarà gente di ogni dove.
MARCO – Non ne sappiamo un cazzo di questi popoli. È un enorme continente,
ma in Europa si parla sempre e solo di neri, quasi fossero uguali dappertutto.
MARCO
218
– Tra poco ne sapremo di più. La cosa certa è che erano organizzati in
tribù, poi sono arrivati i bianchi e li hanno stravolti, hanno creato Stati a
tavolino, non hanno minimamente rispettato le loro organizzazioni sociali
originarie e li hanno divisi nei territori in base alle esigenze economiche europee.
Quindi puoi trovare una tribù, con una certa cultura, che è stata smembrata e
divisa in tre Stati diversi, ognuno dei quali ha leggi sue.
Da qua è nata gran parte dei casini dell’Africa, le guerre tribali e così via.
MARCO – L’uomo bianco è stato molto arrogante, è venuto e si è impossessato di
tutto. Qua i francesi, da altre parti gli inglesi, gli olandesi, i belgi.
ANDREA – E gli italiani nel Corno d’Africa. Ce n’era per tutti e nessuno voleva
essere da meno. È per questo che mi stupisce che questa gente tifi Francia!
Sono stati dominati, oppressi, ma sembra che la Francia l’adorino!
MARCO – Come già ti dicevo, non ne sappiamo molto, è una realtà complessa.
ANDREA – Comunque vada, torneremo in Italia con un occhio diverso.
Quando vedremo un africano forse riusciremo a capire da dove viene. Per ora
sappiamo distinguere un marocchino da un mauritano e un beduino da un tuareg!
MARCO – Sì, ma solo dai vestiti, non dal viso. Comunque è un buon inizio.
ANDREA
Il traghetto partì e molta gente a bordo salutò altre persone rimaste a
terra. Ci domandammo dove fossero diretti i nostri compagni di
traversata, da dove venissero e da quante e quali realtà fossimo
circondati. Sull’imbarcazione c’erano due camion e la nostra moto,
tutte le altre centinaia di persone andavano in Senegal a piedi, il che la
diceva lunga sulla scarsità di denaro in circolazione. In tutta l’Africa
attraversata sino a quel momento avevamo sempre visto mezzi
pubblici pieni all’inverosimile, mentre le auto erano pochissime. Molti
commercianti si spostavano invece su vecchi camion variopinti, anche
se non si capiva come facessero a non schiantarsi al suolo, visto che
erano sempre carichi in modo abnorme.
Arrivammo in pochi minuti sull’altra sponda, il deserto era finalmente
terminato e avevamo raggiunto il Senegal, la porta dell’Africa nera.
La ricchezza d’acqua aveva favorito la crescita di una lussureggiante
vegetazione, ma allontanandosi dal grande fiume sarebbe presto
sparita per lasciare posto alla savana, l’immensa zona di boscaglia
anche conosciuta col nome di Sahel. Nel periodo del viaggio la
219
popolazione senegalese era di circa dieci milioni di abitanti, composta
da tre tribù dominanti e da varie minoranze, comunque in buoni
rapporti fra loro. La religione più diffusa era quella islamica, ma di un
livello più moderato rispetto a quello dei vicini mauritani. Non
esistevano infatti divieti di consumare alcolici. Il Senegal appartiene
politicamente all’Africa occidentale, un’area immensa, composta da
numerosi Stati che, ottenuta l’indipendenza dalla Francia, avevano
adottato una moneta unica, il franco CFA.
– Adesso bisogna fare l’assicurazione e anche cambiare i soldi.
ANDREA – Già, speriamo che sia una cosa semi rapida!
MARCO – Riccardo ha detto che i senegalesi sono efficienti e simpatici.
ANDREA – Speriamo che non abbia detto una cazzata.
Ti ricordo che ci ha anche detto che guidare sulla sabbia è facile e divertente!
MARCO
Per usare la moto avremmo dovuto inoltre stipulare una polizza
assicurativa, che sarebbe stata valida in tutta l’Africa occidentale e ci
avrebbe coperti pertanto sino ad Abidjan. Eravamo quindi a un punto
importante del viaggio, non avremmo potuto compiere errori che si
sarebbero ripercossi sulla buona riuscita dell’intero progetto.
– Beh, adesso mi imbosco da qualche parte per non dare nell’occhio e
tiro fuori i franchi francesi che ho con me, così vai a cambiarli in franchi CFA.
MARCO – Cambiamo tutto?
ANDREA – No, teniamo dei franchi francesi, li cambieremo più avanti, non si sa
mai. Adesso cambiamo i miei, quando li abbiamo finiti cambiamo i tuoi.
MARCO – C’è anche da fare l’assicurazione della moto.
ANDREA – Sì, prendi tutti i documenti, io sto qua a badare la moto e i bagagli.
MARCO – Vabbè, vado.
ANDREA – Buona missione. Fatti fare un buon cambio!
ANDREA
Marco scomparve all’interno di un edificio giallo, fuori dal quale
stavano due guardie dell’esercito senegalese. Io mi accesi una sigaretta
e mi guardai intorno, quasi tutte le persone che passavano vicino a me
mi osservavano con forte curiosità. Ero vestito in modo trasandato e
220
questo non deponeva certo a mio favore, visto che loro curano molto
l’abbigliamento, però ero occidentale e viaggiavo a bordo di un mezzo
decisamente inusuale. C’erano altre moto, ma tutte vetuste e di
piccola cilindrata, mentre la Yamaha era decisamente grande,
aggressiva e spaventosa, sebbene non fosse di certo una novità
assoluta per nessuno, visto che la Paris – Dakar era passata in quelle
zone tante volte. La capitale del Senegal è piuttosto vicina a quel
luogo di confine, non più di quattrocento chilometri.
Venni avvicinato da un uomo che mi si rivolse in inglese, cosa del
tutto nuova sino a quel momento, dato che tutta l’area è francofona.
Veniva dal Gambia, un piccolo Stato incuneato in territorio
senegalese, un tempo colonia britannica; stava aspettando dei parenti
coi quali sarebbe tornato a casa e ne approfittò per fare due
chiacchiere con me. Fu piacevole parlare con un nero in Africa, visto
che fino a quel momento mi ero limitato a biascicare qualche frase
banale in francese. Marco ritornò e aveva la faccia soddisfatta.
– Vedo che hai fatto amicizia!
ANDREA – Sì, questo signore viene dal Gambia e parla inglese,
così ne ho approfittato per fare un po’ di conversazione.
MARCO
I due si presentarono stringendosi la mano e accennarono un sorriso.
– Fatto tutto?
MARCO – Sì, tutto. Pensa che c’era la fila e l’ufficiale allo sportello mi ha fatto
cenno di passare davanti a tutti.
Io ero imbarazzato, gli ho detto che avrei atteso, ma anche la gente davanti a me
mi ha fatto cenno di passare, hanno quasi insistito.
ANDREA – Sono molto gentili!
MARCO – Non solo, mi pare siano anche servili.
Forse la dominazione francese ha lasciato i suoi frutti,
però non mi piace essere trattato così, mi mette in imbarazzo.
ANDREA – Già, anche a me.
Vedremo di fargli capire che noi italiani non siamo come i francesi.
ANDREA
221
– Pensa che tutta la gente con cui ho avuto a che fare in quegli uffici mi
ha tirato in ballo la partita di ieri.
Appena hanno saputo che sono italiano è stata la fine, non parlavano d’altro!
ANDREA – Ah ah! Non ci passerà più!
La partita ci perseguiterà per giorni e giorni!
MARCO – Comunque i passaporti sono a posto, ho cambiato i soldi e ho fatto
l’assicurazione della moto. Siamo a posto sino ad Abidjan.
ANDREA – Beh, grande! Allora andiamo!
MARCO
Salutammo l’uomo del Gambia e partimmo alla volta di Saint Louis,
una delle più grandi città del Paese, a un centinaio di chilometri dal
confine. Nel 2000 era abitata da circa centocinquantamila persone. La
strada tagliava una fitta e lussureggiante foresta. Il traffico era intenso
ma ordinato, oltre ai soliti camion stipati all’inverosimile si vedevano
anche diverse macchine francesi molto vecchie, di proprietà di
senegalesi benestanti, che sparavano nuvole di fumo nero nell’aria.
Spesso incontravamo forti rallentamenti perché la carreggiata era
occupata da carretti trainati da muli, colmi di prodotti agricoli.
Nessuno però si spazientiva per l’incolonnamento o accennava
nevrotici sorpassi azzardati, erano tutti assolutamente tranquilli. Molte
persone camminavano ai bordi della strada, anche in zone totalmente
disabitate. Gli uomini non avevano niente con loro, sembravano
passeggiare nel nulla, senza uno scopo, mentre le donne
trasportavano sulla testa enormi ceste colme di verdure. Nei paesi
sorgevano sempre capanne, ma diverse da quelle tuareg della
Mauritania. Erano ugualmente costruite in paglia e fango, però
avevano il tetto non più piatto ma a forma di cono, probabilmente
per favorire il deflusso dell’acqua piovana. In Senegal la stagione secca
coincide con l’inverno, mentre quella umida con l’estate, dove
normalmente piove abbondantemente per diversi mesi e questo crea
notevoli problemi di smaltimento idrico, soprattutto nelle zone rurali.
Stavamo pertanto addentrandoci nell’Africa occidentale in piena
stagione delle piogge, di certo il momento peggiore per farlo, ma
avevamo tempo solo in quel periodo e per compiere quel viaggio non
avevamo alternativa, così eravamo partiti contro ogni logica.
222
L’urbanizzazione cominciò lentamente a crescere, alle capanne si
affiancarono sempre più edifici in cemento. Stavamo entrando a Saint
Louis. Il cuore della vecchia città coloniale è situato su un’isola di
fronte alla foce del fiume Senegal. È lì infatti che nella metà del
Seicento alcuni commercianti francesi iniziarono a costruire le prime
abitazioni. La città venne chiamata così in omaggio al re di Francia,
Luigi XIV, ed è stato il primo insediamento europeo in Senegal.
Intorno al 1800 divenne la capitale della federazione francese delle
colonie dell’Africa e circa un secolo dopo Dakar divenne la sede del
Governo dell’intera Africa occidentale francese. Saint Louis continuò
però a essere la capitale del Senegal e della Mauritania fino alla metà
degli anni Cinquanta, quando lo Stato sahariano ottenne l’agognata
indipendenza e tutte le funzioni amministrative furono trasferite a
Dakar. La città vecchia si estende sull’isola, mentre quella più recente
è sorta in parte sulla terraferma, ma anche su una lunga penisola. In
quel punto il fiume è separato dall’Oceano Atlantico a ovest da una
stretta lingua di sabbia, larga alcune centinaia di metri, dove sorge il
cosiddetto quartiere dei pescatori.
Superammo un lungo ponte e raggiungemmo il cuore coloniale della
città. Sotto di noi molti bambini e ragazzi facevano il bagno nelle
acque melmose. Notammo che le case dei francesi erano tutte molto
simili fra loro. Costruite ai lati delle ampie strade e intonacate con
colori chiari, si sviluppavano su due piani e in quelli superiori si
trovavano lunghi balconi chiusi da eleganti verande in ferro battuto,
che si affacciavano sul passeggio sottostante. Vedemmo l’insegna di
un ristorante, era già tardi e avevamo molta fame, così ci fermammo.
– Bello il quartiere francese, si respira proprio un’aria coloniale!
ANDREA – Già, sembra anche a me. Ma com’è fatta l’aria coloniale?
MARCO – Così. Insegne in francese, muri chiari e un po’ scrostati, balconi e
verande in ferro battuto… c’è aria di eleganza decaduta.
ANDREA – Speriamo che non sia decaduto anche quel ristorante lì,
ho una gran voglia di mangiare del pesce e bere della birra!
Andiamo a spazzolargli le provviste!
MARCO – Il gestore sarà entusiasta! Non immagina nemmeno cosa lo attende!
MARCO
223
– Il vero biker ama mangiare buon pesce e bere birra in abbondanza!
– Soprattutto dopo tante privazioni in Mauritania!
ANDREA
MARCO
Entrammo nel locale. Due uomini bianchi mangiavano seduti vicino a
una vetrata in angolo, mentre due ragazzi senegalesi, che stavano in
piedi dietro a un bancone, vennero prontamente ad accoglierci con un
gran sorriso e ci fecero sedere a un tavolo in legno al centro della sala.
Ordinammo birra e gamberoni a volontà. Continuammo a bere e
chiacchierare nell’attesa del pasto, quando entrarono due ragazzi neri
molto giovani, uno avrà avuto diciotto anni, l’altro un paio di meno.
Erano vestiti in modo semplice, con jeans chiari e maglietta. Ci
sorrisero e si avvicinarono al nostro tavolo. Dovevano averci sentiti
parlare, perché uno di loro si rivolse a noi in italiano.
– Scusate, è vostra quella bella moto qua davanti, piena di bagagli?
MARCO – Sì, è nostra. Veniamo dall’Italia!
RAGAZZO – Sì, ho sentito. Che bello conoscere degli italiani!
Abbiamo dei parenti in Italia!
ANDREA – Dove abitano?
RAGAZZO – Hanno viaggiato molto, ma da qualche mese abitano a Bolzano.
RAGAZZO
I due ragazzi erano simpatici e la conversazione si prospettava
piacevole, così li invitammo prontamente a sedere con noi. Avevamo
proprio voglia di fare conoscenza, di entrare al più presto in sintonia
con l’ambiente. Si chiamavano Mustafà e Mammadou ed erano cugini.
Avremmo offerto loro il pranzo, ma avevano già mangiato, così ci
limitammo a ordinare delle birre, che accettarono con gioia.
– Bolzano è una bella città. E voi due siete mai stati in Italia?
– No, io no. Mi piacerebbe andarci, ma non ho soldi per farlo.
MAMMADOU – Io nemmeno, però appena abbiamo un po’ di soldi vogliamo
andare a Bolzano a trovare i nostri parenti.
ANDREA – In Italia è pieno di senegalesi. Se non ricordo male, credo che siano
stati i primi neri a venire nel nostro Paese, forse già a metà degli anni Ottanta.
ANDREA
MUSTAFÀ
224
Intanto arrivarono sul tavolo quattro birre grandi e due piatti di
gamberoni alla griglia. Non ci facemmo certo attendere, la grande
abbuffata stava avendo inizio. La conversazione continuò.
– Che belle ‘ste bottiglie di birra Gazelle! È un nome molto africano!
– Ah ah! Me lo dicevi sulla nave, la birra della gazzella o della giraffa!
ANDREA – Ah ah! La giraffa! Avevo sbagliato animale!
MUSTAFÀ – La birra Gazelle è la più famosa del Senegal.
Ma cos’è la birra della giraffa?
ANDREA – Non penso che esista, ero io che mi ero sbagliato! Ah ah!
MAMMADOU – Italia e Senegal sono molto amici.
Voi italiani siete brave persone, ci trattate bene, non fate come i francesi.
MARCO – Come fanno i francesi?
MAMMADOU – Ci trattano come fossimo ancora i loro schiavi,
ma il Senegal non è più una colonia, ora siamo liberi!
ANDREA – Lo so, i francesi si sentono superiori agli altri, lo fanno anche con noi.
Sono nazionalisti e ti guardano dall’alto al basso.
ANDREA
MARCO
Uno dei due uomini bianchi seduti nell’angolo chiamò il cameriere
con un fischio. Questi si attardò un attimo perché stava sistemando
dei piatti e il bianco si lamentò dell’attesa. I nostri nuovi amici
guardarono la scena con lo sguardo triste e arrabbiato. Era evidente
che i francesi non si fossero certo fatti apprezzare per la loro cortesia.
Pensammo però che la stima verso l’Italia fosse un po’ esagerata,
anche se sembravano sinceri, ma forse i loro parenti a Bolzano si
trovavano veramente bene e avevano elogiato il nostro popolo. In
pochi minuti finimmo le birre e i gamberoni, così ci concedemmo il
bis di entrambi, offrendo ancora da bere ai nostri nuovi amici che in
poco tempo avevano già svuotato le loro due bottiglie grandi. Si
stavano rivelando buoni bevitori e ci erano sempre più simpatici.
– Che fate di bello qua a Saint Louis?
MUSTAFÀ – Io sono commesso in un negozio che vende un sacco di cose,
ma soprattutto prodotti di artigianato in legno.
MAMMADOU – Io vado a scuola, ma ogni tanto aiuto mio padre, che è pescatore.
ANDREA
225
L’alcool aumentò la qualità e l’intensità della conversazione, ma mi
fece anche venire idee curiose. Prima di iniziare il pranzo si era
stabilito che a breve saremmo andati in giro per la città a fare delle
riprese con la videocamera, ma per ottenere un buon risultato
avremmo avuto bisogno di una guida. Avevamo però già speso
abbastanza in frontiera e non volevamo pagare ancora. Quei due
ragazzi del posto facevano al caso nostro, però, anche se erano
simpatici, ci avrebbero probabilmente chiesto una cospicua mancia
per il servizio e non avevo per niente voglia di contrattare, così optai
per una piccola truffa. Se fossi riuscito nel mio intento sarebbero stati
felici di accompagnarci e avremmo avuto due guide gratis.
– Noi invece siamo giornalisti, andiamo in giro a fare delle riprese e
vendiamo i nostri film alle tv.
ANDREA
Marco sorrise e mi rivolse uno sguardo complice, aveva chiaramente
capito dove volevo arrivare e mi resse il gioco senza esitare.
– Ma adesso siete qua in vacanza o per lavoro?
MARCO – Entrambe le cose. Giriamo il Senegal e intanto facciamo delle riprese.
MUSTAFÀ – Che bel lavoro! E a quali televisioni vendete i film?
ANDREA – Dipende. Normalmente lavoriamo con le emittenti del nord Italia:
tv di Milano, Venezia, Bologna, ma anche Verona, Trento e Bolzano…
MAMMADOU
Al sentire il nome della città in cui vivevano i loro parenti i due
traboccarono di entusiasmo. Di certo doveva essere inusuale che
qualcuno a Bolzano potesse vedere un film girato a Saint Louis.
– Ma avete già fatto delle riprese qua in città o non ancora?
– No, siamo appena arrivati, pensavamo di andarci dopo pranzo.
MUSTAFÀ – Vi possiamo accompagnare noi! Così vi mostriamo le cose più belle.
MAMMADOU – Ma poi i nostri parenti a Bolzano ci vedranno in televisione?
MARCO – Penso di sì, abbiamo spesso dei contatti con Tele Bolzano. L’unica cosa
importante è che il film sia bello, che si vedano cose interessanti e non banali.
MAMMADOU
ANDREA
226
Addirittura Tele Bolzano. Marco stava dando il meglio di sé, la truffa
stava andando in porto. Non ci sentivamo particolarmente malvagi,
ma per lenire i sensi di colpa offrimmo ancora loro altra birra, che
chiaramente accettarono. Noi ci concedemmo l’ennesimo piatto di
gamberoni, erano squisiti e non dovevano costare molto.
Li ubriacammo per bene. Quei ragazzi non avevano di certo il denaro
per permettersi una bevuta di quella portata ed eravamo contenti di
donare loro un pomeriggio diverso dal solito. In fondo era il nostro
modo di ricompensarli per ciò che stavano per fare per noi.
Probabilmente ci avrebbero guidati lo stesso gratuitamente, ma ormai
ci eravamo compromessi e non avrebbe avuto senso tornare indietro.
Mi alzai per pagare il conto ed ebbi una piacevole sorpresa. Ogni
piatto di gamberoni costava una cifra ridicola, circa settanta centesimi
degli attuali euro, mentre la birra era addirittura più economica.
Inoltre eravamo nella seconda città del Paese, quindi i prezzi
dovevano essere particolarmente elevati rispetto alle zone rurali che
stavamo per raggiungere. Nei giorni successivi, nonostante i nostri
scarsi averi, avremmo fatto quindi la vita dei signori.
– Vengo a vivere qui! È una gran bazza, la roba non costa un cazzo!
MARCO – In Italia i gamberoni sono un cibo per ricchi!
ANDREA – E che buoni che erano! Per non parlare della birra!
Quante bottiglie abbiamo preso?
MARCO – Ah, direi dodici da tre quarti.
ANDREA – Ah ah! Guarda Mustafà e Mammadou se sono felici!
MUSTAFÀ – Tanta birra! Io cammino un po’ storto, ma tanto felice!
ANDREA
Mammadou doveva avere accusato un po’ il colpo, perché sorrideva
in modo ebete e parlava con voce più incerta e screpolata di prima.
– Dai Mammadou, ripigliati! Andiamo a fare il film!
MAMMADOU – Va bene, ma tanta birra, testa meno buona, grazie.
MARCO
Vagammo per la parte vecchia della città coloniale. Mustafà ci mostrò
il negozio in cui lavorava e suonò un ritmo tribale coi bonghi, mentre
227
Marco riprendeva il tutto per Tele Bolzano. Il tour continuò e
arrivammo al mare, nel quartiere dei pescatori. L’urbanistica era molto
diversa: non più ampie strade asfaltate ma infiniti vicoli stretti e
fangosi; non più case coloniali, ma edifici più piccoli e poveri, alcuni
in cemento, ma molti erano semplici capanne in compensato e
lamiera. Talvolta i loro abitanti si affacciavano dagli usci e i loro visi
erano resi ancora più scuri dall’ombra creata da quegli spazi angusti.
Sulla lunga e luminosa spiaggia c’erano innumerevoli barche da pesca
che si estendevano a perdita d’occhio, verniciate con colori molto
brillanti, vere e proprie opere d’arte, tutte diverse fra loro, tutte
bellissime. Su molte di esse stavano gruppi di ragazzi e ragazze che
chiacchieravano e scherzavano nell’attesa che la giornata avesse fine.
– Qua nel quartiere dei pescatori la Polizia non entra.
MARCO – Perché?
MAMMADOU – Perché qua c’è una legge diversa, non è come nel resto della città.
Il capo del quartiere ha preso accordi con la Polizia e le ha promesso che qua non
ci sarà mai nessun problema.
MUSTAFÀ – Tutti i problemi del quartiere vengono risolti nel quartiere. Ad
esempio, se qualcuno ruba viene punito dal capo del quartiere, non dalla Polizia.
MAMMADOU
Qualche banda o associazione criminale controllava quindi quella
zona centrale della città, la Polizia non voleva problemi ed era più che
contenta che l’ordine sul territorio fosse comunque garantito. Ma non
ci meravigliammo troppo di quella rivelazione, in fondo anche in
certe zone d’Italia avevamo esempi simili.
Il sole stava scendendo inesorabilmente, erano già le quattro del
pomeriggio e noi volevamo continuare il nostro viaggio verso sud.
Quel giorno avevamo percorso solo cento chilometri, troppo pochi
per due bikers come noi. Non sapevamo dove avremmo dormito,
comunque non a Saint Louis. Tornammo così tutti insieme al
ristorante, davanti al quale ci attendeva la nostra Yamaha, pronta
quanto noi a macinare altra strada. I due ragazzi ci chiesero come
fosse possibile contattarci in Italia. Avevamo già avuto esperienze
negative gli anni precedenti, durante i viaggi in Marocco e in India,
228
dove, sulla scia dell’entusiasmo, ci era capitato più volte di lasciare i
nostri veri indirizzi a numerose persone. Dopo poco tempo ci erano
però giunte numerose lettere con richieste di aiuti economici o favori
di altro genere, come, ad esempio, invitare qualcuno nel nostro Paese
e aiutarlo a cercare lavoro. Non era certamente una cosa semplice da
gestire e per non subire pressioni di nessun tipo avevamo deciso di
non ripetere più lo stesso errore. Ma non era certamente carino
negarsi in modo così categorico, così ricorremmo a un semplice
stratagemma che ci avrebbe permesso di uscirne nel migliore dei
modi. Ci saremmo chiamati come i più famosi cronisti sportivi della
nostra amata Nazionale di calcio e avremmo avuto curiosi indirizzi di
dubbia moralità. Anche se la cosa sarebbe stata poco plausibile per un
qualunque italiano, di certo non avrebbe destato perplessità a loro.
– Ecco, questo è il mio indirizzo:
Andrea Martellini, Strada della Sorca, 12 – 40100 Bologna - Italy.
MARCO – Il mio è: Marco Pizzul, Via della Fava, 31 – 40100 Bologna - Italy
MUSTAFÀ – Grazie, ci sentiamo! Buon viaggio!
MAMMADOU – Sì, grazie!
ANDREA – Di nulla, grazie a voi!
MARCO – Ciao ragazzi!
ANDREA
Ci congedammo dai nostri nuovi amici, accesi il motore e partimmo.
Guardai le loro immagini nello specchietto retrovisore e le vidi
sfumare, probabilmente non ci saremmo più rivisti, come del resto
era accaduto con la quasi totalità delle persone che avevamo
incontrato nei nostri viaggi. Ma non eravamo comunque mai in cerca
di rapporti duraturi, quelli li avevamo già in Italia e ci bastavano. Lo
scopo di ogni viaggio era per noi conoscere realtà sempre diverse,
fatte di luoghi, persone, abitudini, emozioni e atmosfere, ma non
cercavamo legami di sorta, se non limitati nel tempo e nello spazio. I
rapporti che si venivano a creare avevano quindi valore solo nei
singoli contesti in cui ci trovavamo, poi non ci interessavano più.
Uscimmo dalla città e puntammo verso sud, in direzione di Dakar.
Dopo pochi minuti ci fermammo per valutare quale strada percorrere.
229
– Oggi non avevamo ancora tirato fuori la cartina. È la prima volta da
quando siamo partiti! Come si spiega?
ANDREA – Già, è una giornata speciale.
Guarda qua, se continuiamo a sud arriviamo a Dakar ma non ne vale la pena.
Dovremmo tagliare a sud-est, verso la Guinea.
MARCO – Andiamo a sud-est. Ma stanotte dove ci fermiamo? Fa vedere.
ANDREA – Mah! Fra settanta chilometri c’è Louga,
sembra una cittadina abbastanza grande ma è troppo vicina; meglio macinare un
po’ di più, così domani dobbiamo farci meno culo per arrivare a Tambacounda.
MARCO
La meta prevista per l’indomani distava alcune centinaia di chilometri
e si trovava quasi al confine con la Guinea. Era una delle tappe
senegalesi che avevamo stabilito già dall’Italia, perché da quelle parti
avremmo trovato un enorme parco naturale pieno di animali selvaggi.
– Arriviamo a Louga e scendiamo per questa stradina gialla che si
collega con la statale per Tambacounda.
Ci fermiamo in un posto a caso quando sta per venire buio.
ANDREA – Ok, tanto non ne sappiamo mezza di ‘sti posti, un paese vale l’altro.
MARCO
Talvolta è bello partire e non sapere in anticipo dove ci si fermerà,
aumenta il fascino dell’ignoto. Proseguimmo sulla strada costiera
trafficata per Dakar, dopo un’ora superammo la cittadina di Louga e
ci addentrammo nel vero entroterra senegalese. L’asfalto peggiorò ma
non c’era nessuno e la guida fu piacevolissima. Stavamo tagliando la
savana, era ormai scomparsa ogni traccia del verde incontrato sul
fiume poche ore prima, c’erano solo arbusti bassi e alberi molto radi.
Solo un po’ di foschia rese i colori più pallidi. Vedemmo sulla nostra
destra un albero gigantesco, così ci mettemmo in posa sotto il grande
fusto per fare una foto con l’autoscatto, poi ripartimmo.
Era quasi sera quando arrivammo a Mbakè, una cittadina di cui non
avevamo letto nulla, ma sembrava fare al caso nostro. Capitammo in
un campeggio, dove ci venne assegnato un piccolo bungalow circolare
in cemento bianco e tetto conico in lamiera, che assomigliava molto a
un trullo pugliese. Non avremmo potuto chiedere di meglio, c’erano
230
due letti singoli e il bagno con una bella doccia calda. Ci lavammo e
passeggiammo sino a giungere in centro. La via principale in terra
battuta era piena di bar, fuori dai quali stavano molti giovani che
trascorrevano la serata, perlopiù senza consumare nulla, forse per
mancanza di denaro. Eravamo ancora sazi dal pranzo di Saint Louis,
così sedemmo a un tavolo in un piccolo locale senza sapere di cosa
avessimo voglia. Passò un ragazzo, un venditore ambulante che ci
propose un enorme sacchetto di arachidi. Sulle prime esitammo, poi
decidemmo di acquistarlo. Subito dopo venne un cameriere cortese
ma dal viso inespressivo e ordinammo due birre.
– Una bella cenetta leggera! Arachidi e birra! È il paradiso dei lipidi!
MARCO – Ah ah! In effetti è una cena un po’ tossica!
Ma stasera va così, quando le ho viste ho capito che avevo voglia di arachidi.
ANDREA
Una ragazza si alzò da un tavolo vicino al nostro. Vestiva elegante ed
era in compagnia di alcuni suoi coetanei, tutti molto puliti e curati nei
particolari. Curiosamente si avvicinò a Marco con fare deciso.
– Ciao, mi dai dei soldi?
MARCO – Dei soldi? Me lo chiedi così?
RAGAZZA – Sì, dammi dei soldi.
MARCO – No, non te li do.
RAGAZZA
Così tornò sui suoi passi, sedette coi suoi amici e continuò la serata.
– Ah ah! Che storia strana! La tipa voleva essere pagata!
MARCO – Mah! Chissà poi per cosa! Ah ah! Certo che è stata proprio sfacciata!
ANDREA – Mah! Ti ha visto un bell’uomo, vestito bene, bianco.
Avrà pensato che dispensassi denaro a tutti i neri!
MARCO – Era vestita meglio lei!
Io ho i soliti vestiti da sera e la barba incolta da dieci giorni!
ANDREA – Sarà stato il fascino della barba.
Ah ah ah ah! A me non l’ha mica chiesto, forse il mio pizzetto l’ha spaventata!
MARCO – È vero, la mia barba è più bonaria del tuo pizzetto, ispira simpatia.
ANDREA
231
Da quando eravamo partiti avevamo rinunciato a raderci. A Marco,
molto più villoso di me, era cresciuta una barba impressionante; io
invece mi ero limitato a sagomare un pizzetto sul mento. In occasione
dei viaggi amavamo calarci nella parte degli avventurieri, degli uomini
di mondo, e la barba lunga contribuiva così al raggiungimento
dell’obiettivo. Trovavamo che fosse del tutto inelegante, ma ci piaceva
molto ridere di noi stessi, quindi non avevamo remore a ostentarla al
prossimo, quantomeno in quelle zone remote. Nella vita quotidiana in
Italia eravamo invece sempre perfettamente rasati. Ci abbuffammo
ancora di arachidi, finimmo la birra e ci ritirammo nel nostro
bungalow del tutto simile a un trullo pugliese. L’indomani saremmo
stati pronti a raggiungere la sperduta città di Tambacounda.
232
NIOKOLO KOBA
Un bellissimo sole filtrava dalle fessure delle persiane in legno e
donava all’ambiente una discreta penombra. La notte era trascorsa
silenziosa, ci sentivamo riposati e pronti a procedere. Facemmo
colazione al campeggio; un ragazzo ci portò pane, marmellata e caffè.
– Stavo ripensando alla tipa di ieri sera. Che cosa allucinante.
ANDREA – Quella che voleva i soldi?
MARCO – Già, tutta elegante, in compagnia di amici, si è alzata ed è venuta a
chiedermi dei soldi. Come te lo spieghi?
ANDREA – In effetti è stata una scena strana.
Di mendicanti ne abbiamo incontrati non pochi, ma quella non ne aveva l’aria.
MARCO – È come se fossimo in un pub a Reggio e andassimo in un altro tavolo a
chiedere dei soldi a della gente, così, alla cazzo.
ANDREA – Mi sa che dietro quegli abiti eleganti dovesse esserci una gran povertà.
Di cosa vuoi che viva questa gente? Siamo in una delle zone più povere del mondo,
anche se si tengono dietro e sorridono sempre, hanno poco da stare allegri.
MARCO – Vabbè, ho visto anche questa.
ANDREA – Il vero biker non finisce mai di stupirsi, è un eterno bambino.
MARCO – Grande, grosso e con la barba lunga.
ANDREA – Soprattutto tu!
MARCO – Quanti chilometri ci facciamo oggi?
MARCO
Mi ero chiaramente portato dietro la cartina e la distesi sul tavolo.
– Mbakè non è nemmeno indicata sulla guida.
MARCO – In effetti non c’è un cazzo, si sarà fermata ben poca gente qua!
ANDREA – Comunque sulla cartina c’è. Andando verso sud abbiamo più o meno
cento chilometri di strada gialla, che immagino sarà più o meno messa come il
tratto di ieri pomeriggio, e arriviamo a Kaffrine.
MARCO – Fammi vedere se c’è scritto qualcosa.
ANDREA
Marco consultò la guida Lonely Planet che avevamo con noi, una
sorta di Bibbia di ogni viaggiatore che si rispetti, scritta sulla base di
233
appunti di altri che hanno visitato le zone più varie del pianeta. Anche
noi avevamo contribuito l’anno precedente a un aggiornamento di
quella del Marocco e ne andavamo molto fieri, segnalando alcuni
hotel e ristoranti del Sahara Occidentale in cui eravamo stati, la qualità
delle stanze, il cibo proposto e i costi sostenuti.
– Niente, Kaffrine non esiste. Sarà sicuramente un posto insulso.
ANDREA – Vabbè, vedremo. Comunque da lì c’è una bella strada statale che ci
porta dritta fino a Tambacounda, saranno altri duecentocinquanta chilometri.
Poi si va a sud e sono altri cinquanta sino all’ingresso del Niokolo Koba.
MARCO
Avevamo letto che il parco nazionale di Niokolo Koba era il più
grande del Senegal, si estendeva per quasi un milione di ettari ed era
considerato patrimonio mondiale dell’umanità, nonché una delle
riserve internazionali della biosfera. Ci saremmo trovati in un
ambiente abbastanza pianeggiante, con basse colline sparse, abitato da
tantissimi tipi di uccelli, antilopi, scimmie, facoceri, bufali, ippopotami
e coccodrilli, ma soprattutto da leoni, leopardi ed elefanti, nomi che
evocavano in noi l’Africa più nera che ci fosse. Purtroppo nella
stagione delle piogge buona parte delle piste non sarebbe stata agibile
a causa del fango, ma ci saremmo accontentati.
– Ti voglio vedere a guidare in mezzo al fango, con quaranta chili di
bagaglio e tutte quelle bestie feroci!
ANDREA – Io guido e tu le tieni a bada!
Ti togli il casco e le spaventi con la barba! Ah ah ah ah!
MARCO – Comunque ci saranno i ranger, chiederemo a loro di accompagnarci.
ANDREA – Beh, basta pagare.
Ci prendiamo un fuoristrada con una guida e ci facciamo trasportare.
MARCO – Quindi ci aspetta una giornatina da quattrocento chilometri.
Sarà meglio affrettarsi!
ANDREA – Beh, finiamo la colazione e fuggiamo.
MARCO – Cambiamo altri soldi qua in città? Non so nei prossimi giorni che aria
tirerà, se entriamo nella giungla potremmo non riuscire a cambiare così facilmente.
MARCO
234
– Cambiamo pure. Certo che potevamo anche pensarci ieri, adesso
saremmo più snelli. Ma che conti abbiamo fatto? Eravamo rincoglioniti?
MARCO – Un po’, ma con quel casino che c’era in dogana siamo giustificati.
ANDREA
Lasciammo il campeggio e ci dirigemmo in piazza alla ricerca di una
banca. La trovammo subito e cambiammo velocemente un bel po’ di
franchi francesi in franchi CFA. Vista di giorno la città era ancora più
brutta e anonima di quanto non sembrasse la sera prima, la sporcizia
regnava ovunque. La tanta gente in giro era vestita bene, ma avevamo
già avuto prova che dovesse essere tutta apparenza, un modo per
provare a lenire la tristezza della povertà.
Lasciammo quel luogo e proseguimmo il nostro viaggio attraverso la
savana, percorrendo uno strada secondaria in cui non passava
nessuno. Nonostante fossimo in piena stagione delle piogge il cielo
era sereno, ma ai bordi delle strade si vedevano veri e propri acquitrini
che col caldo evaporavano, saturando l’aria di umidità. Inoltre
venivamo dal caldo secco del Sahara e il contrasto era quindi più
evidente; cominciammo così a provare un fastidio molto diverso da
quello conosciuto nei giorni precedenti.
La vegetazione aumentò nel giro di pochi chilometri, gli arbusti bassi
e le piccole piante lasciarono presto spazio ad alberi maestosi e a prati
verdi. Superammo diversi villaggi recintati con palizzate di rami alte
poco più di un metro, che avevano probabilmente lo scopo di
impedire agli animali di entrare. All’interno sorgevano delle capanne
in legno e fango, ma nessuna abitazione in cemento.
Dopo un’ora la strada deserta finì e arrivammo a Kaffrine, l’anonima
località nemmeno menzionata sulla guida, piena di camion variopinti
che sparavano fumo nero ovunque, un luogo veramente inospitale.
– Ci credo che la Lonely Planet non ne parla, guarda che posto orrendo!
ANDREA – Posti da camionisti, guarda quanti ce ne sono!
Se andiamo a destra arriviamo a Dakar, a sinistra invece si va a Tambacounda.
Vuoi fare una pausa o proseguiamo?
MARCO – Fare una pausa qui è tossico, ci respiriamo solo dello smog.
ANDREA – Già, è proprio un posto osceno. Andiamocene via prima di soffocare.
MARCO
235
Era già mezzogiorno e il traffico calava sempre più. La maggior parte
dei camion andava verso Dakar, mentre noi eravamo diretti nella
direzione opposta, nella zona meno popolata. Dopo mezzora
arrivammo in un piccolo paese, non bello ma meno rumoroso di
Kaffrine, non c’erano più camion e si respirava un’aria pulita.
– Non so mica se in ‘sto posto c’è da mangiare!
Vedi qualcosa che assomiglia a un ristorante?
MARCO – Mah! Ci sono solo delle capanne e delle baracche di compensato.
Secondo me non è un posto molto gettonato, comunque proviamo a chiedere.
ANDREA – A chi? Non c’è nessuno!
MARCO – Non disperare, facciamo due passi e buttiamo l’occhio dentro alle case,
ci sarà pure qualcuno con un po’ di cibo da vendere!
ANDREA
In effetti qualcuno c’era. Dalla strada non si vedevano, ma le persone
stavano sulla porta per rimanere al fresco, nessuno aveva chiaramente
voglia di sciogliersi al caldo umido dell’ora di pranzo.
Salutammo una donna molto corpulenta che avrà avuto la nostra età,
avvolta in un grande telo di cotone viola, con un foulard giallo sulla
testa. Le chiedemmo se fosse possibile mangiare qualcosa e ci fece
cenno di seguirla. Camminammo per nemmeno un minuto e ci fece
entrare in una casupola di compensato col tetto in lamiera e il
pavimento in terra rossa. Non c’era praticamente nulla, solo due
sgabelli di legno molto bassi e una brace sulla quale stava una grande
pentola fumante. La signora uscì e ci fece cenno di aspettare. Dopo
poco arrivò un’altra donna, questa un po’ più magra e più anziana,
avvolta in un grande telo di cotone giallo e con il capo scoperto.
Aveva una folta capigliatura crespa e lo sguardo aperto e gentile. Ci
salutò e non chiese nulla, prese due ciotole di metallo e le riempì con
un brodo che stava in caldo nella pentola. Solo qualche piccolo
frammento di carne galleggiava a dare consistenza a quella zuppa
troppo liquida, non cattiva ma di certo poco nutriente per chiunque.
– Il vero biker mangia quello che c’è!
MARCO – Ma il vero biker vuole nutrirsi e con ‘sto brodino andiamo poco in là.
ANDREA
236
– È vero, però mi sa che questo è l’unico ristorante del paese, quindi…
– Ti sembra forse un ristorante ‘sto posto qua?
A me sa che questa è la casa della tipa e ristoranti non ce ne sono.
ANDREA – Ah ah! Comunque ci sta dando ristoro!
MARCO – Ah ah! Chiamalo ristoro! Ma secondo te come fa la tipa di prima a
essere cicciona se qua non mangiano un cazzo?
ANDREA – Me lo stavo domandando anch’io. Quasi tutti gli uomini sono grossi e
muscolosi, le donne sono molto larghe e nessuna mangia. Com’è?
MARCO – Mah! Forse un giorno risolveremo anche questo mistero.
ANDREA
MARCO
Finimmo il pasto, lasciammo qualche soldo alla signora e ripartimmo
verso Tambacounda. La vegetazione aumentava sempre più, la
Mauritania e le sue sabbie sembravano un lontano ricordo, invece ci
eravamo sino al giorno prima. Fra gli arbusti ai lati della strada, in
mezzo alla terra rossa, sorgevano innumerevoli ed enormi termitai,
alcuni alti quasi quanto noi. Ci fermammo a osservarli.
– Ma sono formicai?
MARCO – Ho letto che sono termitai, ma più o meno penso che sia la stessa cosa.
Comunque direi proprio di sì, anche se formiche qua non se ne vedono.
ANDREA – Sono veramente giganteschi! Rompiamone uno e vediamo che succede.
ANDREA
Colpii uno di quei cumuli di terra con un colpo di tacco, ma era molto
compatto e non si ruppe. Presi allora la rincorsa, sferrai un calcio
volante e si frantumò, ma non vedemmo traccia di formiche o termiti.
– Sembrano disabitati. O forse sono tutte sottoterra,
scavano le gallerie e portano i detriti in superficie.
ANDREA – Può essere, ma ci terremo il dubbio. Non ho certo voglia di scavare!
MARCO
Proseguimmo il nostro viaggio. L’enorme, infinito rettilineo d’asfalto
costellato di buche si perdeva all’orizzonte, la vegetazione era sempre
più rigogliosa e ampie pozzanghere allagavano la terra rossa. Il sole
subtropicale continuava velocemente la sua corsa verso il basso e le
ombre sul terreno diventavano sempre più lunghe. In lontananza vidi
237
un ostacolo dai contorni non ancora definiti, quindi rallentai un poco.
Poco dopo distinsi la sagoma di un grande camion ribaltato. Era
lungo almeno una decina di metri e ostruiva tutta la strada.
– Soccia, che botta che ha preso!
– Ma come cazzo ha fatto a ribaltarsi in un rettilineo come questo?
È tutto dritto e non ci sono incroci.
ANDREA – Sarà stato ubriaco! Ma più che altro hai visto quanta ruggine?
Questo camion è qui da un sacco di tempo, è mica una cosa fresca!
MARCO – E nessuno si è preso la briga di toglierlo. Avranno pensato che tanto
basta uscire di strada e superarlo da uno dei due lati. Perché sbattersi?
ANDREA – Beh, in moto è un attimo, ma un camion fa fatica a passare lì in
mezzo al fango, non c’è mica tanto spazio.
MARCO – Non avevano voglia, avranno detto “Cazzi loro!”.
ANDREA – Adeguiamoci, facciamo un po’ di fuoristrada e rientriamo là davanti.
ANDREA
MARCO
La cosa aveva dell’incredibile, un camion ribaltato su una strada
importante, lasciato lì ad arrugginire e nessuno che avesse pensato di
liberare il passaggio. Era una situazione che la diceva lunga su quanto
fossero selvaggi i luoghi che stavamo per raggiungere.
Dopo mezzora trovammo delle transenne che bloccavano ancora una
volta la strada e venimmo dirottati in una pista di terra rossa,
costellata di grandi pozzanghere. Eravamo in piena campagna,
procedevo a passo d’uomo per non perdere il controllo della moto e il
tempo passava sempre più, il sole già tramontato aveva lasciato spazio
al crepuscolo. Dopo un po’ ritornammo sull’asfalto e raggiungemmo
Tambacounda. Era buio pesto e intravedemmo solo lunghe file di
baracche lungo la strada, da alcune usciva il chiarore di candele o
lampade a olio a rischiarare la notte. Talvolta si scorgeva qualche
sagoma umana, che spariva prontamente, inghiottita dall’oscurità.
Solo un’altra mezzora ci separava dall’ingresso del parco, così non ci
fermammo nemmeno e proseguimmo verso sud. L’ultima tappa fu
veramente pesante, gli elementi della natura sembravano essere
coalizzati contro di noi. Faceva freddo ed era anche calata la nebbia.
238
– Minchia, che tappa atroce! Non ci sto più dentro, voglio arrivare!
– È un gran freddo! E poi guarda quanti insetti morti sui miei vestiti!
ANDREA – I tuoi vestiti? Guarda la mia visiera, piuttosto! Sembra un cimitero
di insetti! Tra nebbia e animali, qua non ci vedo più un cazzo e devo tenerla
aperta, ma ‘ste bestie mi si infilano dappertutto.
Devo socchiudere gli occhi per non rimanere accecato!
MARCO – In Africa la natura è estrema. Tieni duro, ormai ci dovremmo essere.
ANDREA
MARCO
Sopportai il disagio e rallentai ulteriormente per limitare i rischi, infine
l’oscurità venne squarciata da una grande luce al neon sulla destra.
Eravamo infreddoliti ed esausti, ma finalmente arrivati.
Tutta l’area era recintata da un muretto di argilla. Un uomo venne ad
accoglierci, aprì una sbarra di metallo e ci invitò a entrare con la moto.
Era il gestore del campeggio del parco; appena saputa la nostra
provenienza cominciò anch’egli a rievocare le fasi salienti della finale
degli Europei e fummo costretti nuovamente ad affrontare un
argomento che ci interessava sempre meno. Subito dopo l’ingresso
c’erano un edificio in cemento, probabilmente destinato agli uffici, e
un’ampia veranda con diversi tavoli e sedie in metallo. Tutto intorno
sorgevano tanti bungalow a pianta circolare e intonacati di bianco,
molto simili a quello di Mbakè; avevano il tetto in lamiera ricoperto di
rami assolutamente inutili, che conferivano però un aspetto più
rustico e gradevole all’intero ambiente.
Il nostro ospite ci chiese se volessimo mangiare subito, ma eravamo
sporchi e infreddoliti e avevamo bisogno assoluto di lavarci. Ci
assegnò così un bungalow senza corrente elettrica e un inserviente ci
diede due candele. All’interno c’erano due letti con i telai fatti di rami,
ma fortunatamente non mancavano i materassi e le lenzuola; era
provvisto persino di un piccolo bagno, con water, lavandino e doccia.
Dopo una mezzora, lavati e coi vestiti puliti, ci sembrò di essere rinati.
Raggiungemmo quindi l’ampia veranda illuminata da potenti luci al
neon, sedemmo a tavola e ordinammo due birre.
Il turismo in quel campeggio era esclusivamente invernale, durante il
periodo secco. Intorno a noi si alternavano perciò diverse persone,
certamente speranzose di ottenere una lauta mancia dagli unici clienti.
239
MARCO
– Non c’è proprio nessuno, è il parco più grande del Senegal ed è deserto.
– Chissà come sono messe le piste! Vabbè, dopo cena ci informeremo.
ANDREA
Arrivò un ragazzo con due bottiglie grandi di birra. Dopo una
giornata come quella appena trascorsa fu una visione celestiale,
riempimmo i bicchieri e li svuotammo rapidamente, con profonde
sorsate. Nessuno ci chiese cosa volessimo mangiare. Ci vennero
portate due lunghe baguette, due ciotole di yogurt bianco, degli
spiedini di carne di pecora, qualche pomodoro e qualche cipolla.
– Qua in Senegal prediligono i menù fissi!
ANDREA – Poche pippe! Se hai fame mangi quello che ti portano, sennò digiuni.
È dura la vita in Africa, altro che menù e menù!
MARCO – Beh, sul brodo di oggi avrei qualcosa da ridire!
ANDREA – Ah ah! Faceva veramente cagare!
MARCO
Arrivò il gestore e lo invitammo a sedere al nostro tavolo. Era un
uomo distinto, sulla quarantina, vestito con una camicia bianca e i
pantaloni scuri. Gli chiedemmo informazioni sul parco.
MARCO
– Domani è possibile fare un giro con una macchina?
– Sì, ci sono tanti tipi di escursioni. Dipende quanto volete stare via.
GESTORE
Non avevamo pensato a nulla di preciso, ma di certo non vi avremmo
dedicato molto tempo. Ci attendevano ancora migliaia di chilometri e
i giorni trascorrevano in modo inesorabile.
– Pensavamo di cominciare con un giro di una giornata.
GESTORE – Dovete però decidere adesso. Se fate un giro in giornata potete
raggiungere Simenti, che è un resort qua vicino, e tornare indietro in serata.
Se invece vi volete addentrare nel parco c’è da organizzarsi,
bisogna che vi attrezziate con delle tende e delle provviste.
MARCO – Beh, noi vorremmo vedere i leoni e gli elefanti. Li troviamo a Simenti?
GESTORE – No, non a Simenti. Quegli animali stanno sulle colline al centro del
parco, con tutto il fango che c’è serve almeno una settimana per andare e tornare.
ANDREA
240
Si parlava di distanze incredibili e tempi biblici. Per raggiungere la
zona in cui stavano quegli animali sarebbe servito un sacco di tempo e
purtroppo non potevamo permettercelo. Avremmo vissuto di sicuro
un’esperienza formidabile, dormendo in tenda in mezzo alla foresta e
vivendo chissà quali situazioni, ma sarebbe stato un altro viaggio. Noi
eravamo lì di passaggio, il Niokolo Koba non era il nostro obiettivo.
– Vabbè, ho capito. Niente leoni stavolta.
MARCO – Peccato, ma una settimana è un po’ troppo.
GESTORE – Come vi dicevo, col poco tempo che avete vi conviene andare a
Simenti. È un’escursione che fate in giornata in Jeep con l’autista;
vedrete comunque un sacco di scimmie, antilopi, bufali e uccelli strani.
Poi pranzate al resort e nel pomeriggio siete di ritorno.
ANDREA – Che ne dici, amico?
MARCO – Facciamo così, ci divertiremo comunque.
ANDREA – Questo è sicuro, noi ci divertiamo dappertutto!
ANDREA
Concordammo di partire l’indomani alle nove. Stavamo continuando
a mangiare, quando un forte ronzio interruppe la quiete della sera. Un
enorme insetto, lungo almeno dieci centimetri, si aggirava minaccioso
intorno a noi, probabilmente attratto dalla luce o dal profumo del
cibo. Io avevo sempre avuto un cattivo rapporto già con i suoi simili
europei ben più piccoli e quell’essere mi inquietò non poco. Ma era
solo l’inizio, perché presto arrivarono altri animali volanti e ronzanti
che ci circondarono inesorabilmente.
– Aiuto! Ma che cazzo di bestie sono? Mandamele via, ti prego!
MARCO – Ah ah! E come faccio? In Africa tutto è più grande!
ANDREA – Anche il mio terrore lo è!
Come faccio a mangiare con delle cose del genere che mi ronzano intorno?
MARCO – Dai, non fanno niente! Vedi i camerieri che non cagano la mossa?
ANDREA – Dici così perché sei cresciuto in campagna!
A Novellara ci sono questi elicotteri?
MARCO – Ah ah! No, lì ci sono solo le zanzare, anche se molto cattive.
ANDREA
241
Sentii che uno di essi si era appoggiato sulla maglietta e mi stava
camminando sulla schiena, poi si spostò sul collo. Mi irrigidii, non
sapevo che fare. Il gestore capì il mio dramma e disse a uno dei
camerieri di togliermelo di dosso. Il ragazzo lo prese in mano con due
dita senza fare una piega, lo scagliò a terra e lo frantumò sotto un
piede. Aveva il corpo nero e tozzo ed era lungo diversi centimetri.
Non so cosa fosse ma non mi piaceva per niente. Altro personale
intervenne a liberare l’aria dagli animali, agitando stracci e muovendo
lampade a olio, e gli ospiti sgraditi finalmente se ne andarono.
– Ah ah! Attraversi mezza Africa in moto e hai paura di un piccolo
animaletto volante! Ah ah ah ah!
ANDREA – Non era un animaletto, era un demone alato senegalese!
MARCO – Ah ah! Pensa domani nella foresta cosa ci sarà! Ah ah!
ANDREA – Mi difenderò, stanne certo!
MARCO
Quello che diceva Marco era vero. Non avevo paura quasi di nulla, mi
lanciavo in avventure indubbiamente rischiose attraverso deserti e
foreste, mi muovevo con relativa disinvoltura negli ambienti degradati
delle periferie metropolitane, ma avevo paura degli insetti. Strana cosa
la paura. A volte nasce da esperienze negative, altre volte invece
sembra essere innata, come in quel caso, e non sapevo dominarla. In
breve tempo terminammo la cena, bevemmo un’altra birra e
chiudemmo la serata con due Nescafè, il caffè solubile più diffuso al
mondo, quindi anche in quel luogo remoto. Eravamo stanchi e felici.
Ci ritirammo nel nostro bungalow, lasciammo accese le candele per
un po’ e continuammo a ridere e scherzare, poi il sonno ci colse e la
giornata ebbe fine. Ma poco dopo iniziò un vero e proprio incubo,
perché fummo svegliati di continuo dal canto dei galli che stavano sui
tetti dei bungalow. Sembrava che si dessero il cambio per molestarci.
Facemmo così una grande fatica ad alzarci. Quegli odiosi animali ci
avevano impedito di dormire bene e quando vedemmo la luce del sole
filtrare fra le fessure del bungalow capimmo che il tempo del riposo si
era tristemente concluso. Ma ci attendeva comunque una giornata
magnifica e ci rassegnammo quindi ad affrontarla con poche energie.
242
– Ma il gallo non è uno solo e canta all’alba? Almeno io sapevo così!
– Si vede che qua in Senegal non glielo hanno detto! Qua sono tanti e
cantano tutta notte, mentre all’alba vanno a dormire. Amano la vita mondana!
MARCO – Fanculo a loro!
ANDREA – Affrontiamo la realtà. Ci alziamo, facciamo una bella colazione e
andiamo in Jeep in mezzo alla foresta. Bello, no?
MARCO – Bello, ma sono a pezzi, spero di riprendermi.
MARCO
ANDREA
Avevamo nuovamente terminato i vestiti puliti. Quella sosta di due
giorni rappresentava una buona occasione per fare il bucato, ma
serviva del tempo ed eravamo in partenza per l’escursione; saremmo
rientrati solo in serata, troppo tardi per mettersi a lavare e sperare che
tutto fosse asciutto per la mattina dopo. Decidemmo quindi di
trattarci da signori e chiedemmo al personale se qualcuno potesse fare
il bucato al posto nostro. Una giovane donna prese in consegna tutti i
nostri abiti insabbiati e sudati e disse che ce li avrebbe lavati, asciugati
e stirati entro la mattina dopo. Sarebbero stati soldi spesi benissimo,
non potevamo chiedere di meglio. Eravamo soddisfatti, per la
giornata avremmo indossato gli unici vestiti rimasti, quelli da sera,
custoditi gelosamente e riservati alle passeggiate serali in società, in cui
avremmo fatto bella figura. Andammo così a fare colazione, ci
vennero serviti pane, burro e marmellata, oltre al solito Nescafè.
– Che bazza la tipa che ci lava i vestiti!
MARCO – Non abbiamo chiesto quanto vuole, ma visto l’andazzo sono fiducioso.
ANDREA – Ce lo possiamo comunque permettere.
MARCO – È nuvoloso oggi. Senti che umidità che c’è nell’aria.
ANDREA – Per ora ci è andata bene, ma non dimentichiamo che siamo nella
stagione delle piogge. Hai visto che pozzanghere? Qua quando piove lo fa sul serio!
MARCO – Vedremo nei prossimi giorni in moto. Per ora non temo, siamo in Jeep!
ANDREA – Prendiamo comunque l’impermeabile, se piove non ci passa più.
MARCO – Va bene. Vediamo anche di concordare il prezzo prima di partire,
perché non vorrei mai che ci sparasse una cifra abnorme stasera al rientro.
Sarebbe un po’ tardi per contrattare!
ANDREA – Giusto, lo faremo prima, è meglio. Mai contrattare a posteriori.
ANDREA
243
Si avvicinarono al nostro tavolo due ragazzi. Uno avrà avuto una
trentina d’anni e ci avrebbe fatto da guida, mentre l’autista ne
dimostrava non più di venti. Pensavamo che venisse con noi una
persona sola, sarebbe stata indubbiamente sufficiente e avremmo
speso meno, ma in fondo non ce ne importava granché. Era sempre
tutto molto economico e ce lo potevamo permettere. Inoltre, potere
aiutare quelle persone così cortesi e bisognose ci faceva anche piacere.
Entrambi camminavano con ciabatte infradito molto logore. La guida
indossava brutti pantaloni beige di cotone e camicia a quadri, mentre
l’autista aveva un look meno classico, un po’ più ribelle. Portava
infatti braghe molto larghe a quadri che gli cadevano sui talloni e
quasi strisciavano a terra, una maglietta sportiva blu esageratamente
lunga e un cappellino rapper con il logo J&B, che evocava il whisky e
il vizio. Arrivò infine il gestore, vestito come la sera prima; ci salutò
con un sorriso e ci illustrò quello che stavamo per fare.
– Buongiorno signori, dormito bene?
– Sì, il bungalow è molto confortevole.
Peccato per i galli che hanno cantato per tutta la notte.
GESTORE – Eh, sì, ma loro non danno fastidio.
GESTORE
MARCO
Davano fastidio eccome, ma sicuramente lui era assuefatto a quei
lamenti e non ci faceva più caso. Comunque non era certo colpa sua,
così non ne parlammo più e ci dedicammo ad argomenti più utili.
– Ieri non abbiamo parlato di quanto ci costerà l’escursione.
GESTORE – Non preoccupatevi, abbiamo buoni prezzi!
Volete anche il pranzo a Simenti?
ANDREA – Sì, certo. Lei ci dica il totale.
Tenga presente che stanotte resteremo qua, partiremo domattina dopo la colazione.
MARCO – Sì, ci faccia il prezzo tutto compreso. L’auto, la guida e l’autista, il
pranzo al resort, il lavaggio dei vestiti, le notti in campeggio, le cene e le colazioni.
ANDREA
Nelle precedenti esperienze africane, in Marocco, Egitto e Tunisia, la
contrattazione a priori si era sempre rivelata essenziale ma estenuante.
244
Non esisteva mai un listino dei prezzi, così era necessario iniziare una
lunga negoziazione che seguiva un copione immutabile ovunque. Il
venditore sparava cifre assurde e noi replicavamo con importi anche
dieci volte inferiori a quello richiesto. Lui si dimostrava indignato per
l’esiguità della nostra proposta e sosteneva che il suo prodotto o
servizio fosse di eccellente qualità e valesse ben di più. Allora gli
davamo ragione per non urtarlo e alzavamo un po’ la nostra offerta,
così lui abbassava un po’ la sua richiesta. Era un gioco che poteva
durare un sacco di tempo, sino a quando subentrava lo sfinimento
reciproco e si concordava la cifra finale, solitamente non troppo
distante dalla nostra proposta iniziale.
La contrattazione estrema era una componente della loro cultura,
radicata a un punto tale che, quando non lo avevamo fatto, eravamo
stati guardati con diffidenza, quasi fossimo degli spendaccioni
eccentrici. Per noi rappresentava una fatica necessaria, ma per il
venditore sembrava essere addirittura piacevole. Questo era accaduto
in tutta l’Africa settentrionale, ma in Senegal le abitudini dovevano
essere diverse. Ci venne infatti mostrato un elenco con il dettaglio dei
singoli servizi; si trattava di costi bassissimi che accettammo di pagare
senza contrattare e quasi ci sembrò di essere tornati in Occidente.
– Che bello non stare mezzora a menarsela!
MARCO – Soprattutto con queste cifre ridicole! Abbiamo speso veramente poco,
se andiamo avanti così ci rimangono addirittura dei soldi!
ANDREA – Beh, non esagerare! Riusciremo certamente a spenderli,
sai che abbiamo le mani bucate!
MARCO – Ah ah! Sì, ma mi sa che nei prossimi giorni non ci saranno molte
occasioni per sperperare. Ci sono solo delle piste e dei villaggi sperduti!
ANDREA – Sai che, quando si vuole spendere, le occasioni non mancano mai!
ANDREA
Tornammo nel bungalow per lavarci i denti e l’avventura fuoristrada
ebbe inizio. La nostra auto non si presentava molto bene, era una
vecchia Jeep bianca e arrugginita, con quattro piccoli sportelli e un
telo protettivo logoro che copriva l’intero abitacolo. La guida e
l’autista sedettero chiaramente davanti e noi venimmo relegati in uno
245
spazio angusto nel retro. Stavamo veramente stretti, la primitiva barra
antiribaltamento era troppo bassa e ci arrivava giusto sulla fronte,
costringendoci a stare un po’ gobbi.
Il gestore ci augurò buon viaggio e partimmo. La vegetazione divenne
subito fitta, le folte chiome di grandi alberi verdi sovrastavano lo
stretto sentiero in terra battuta e impedivano alla luce di passare.
Cominciarono presto le prime, enormi pozzanghere e il sentiero
peggiorò sempre più. In molti tratti sembravano veri e propri laghi di
fango ed era necessario evitarli per non sprofondare definitivamente.
L’autista guidava in modo pessimo, non era in grado di impostare
nessuna traiettoria intelligente e finiva sempre per centrare le buche
più profonde, alzando grandi schizzi e facendo slittare le gomme,
logore come tutto il resto dell’auto. I continui sobbalzi ci facevano
sbattere la testa sulla barra antiribaltamento, quindi provammo a
modificare un po’ la nostra posizione ma non riuscimmo comunque
ad evitare robuste ginocchiate contro i sedili. Il cambio stava per
collassare, rumori di terribili grattate si diffondevano nell’abitacolo
ogni volta che l’incompetente cambiava marcia o provava a farlo. La
guida simulava indifferenza, ma si vedeva chiaramente che era
indignata quanto noi dalla scarsa qualità del suo infausto collega.
– È bravo questo autista!
ANDREA – Beh, sai, costava poco! Non si può pretendere, no?
MARCO – Sembra che faccia apposta a finire nelle buche. Ma non le vede?
ANDREA – Secondo me è la prima volta che guida questa macchina.
O forse è la prima volta che guida e basta!
MARCO – Avrà saputo che c’era un lavoro per lui e si è improvvisato autista!
ANDREA – Gli avranno detto “Guarda, devi girare il volante e schiacciare i
pedali, del resto la macchina fa tutto da sola!”
MARCO – Ah ah! Certo che a ‘sto mondo ce n’è di gente che si improvvisa!
MARCO
Chiaramente parlavamo in italiano, abbastanza velocemente, usando
spesso modi di dire e mantenendo un tono neutro che celasse le
emozioni, così da non permettere ai due di capire il senso dei nostri
discorsi. Dopo qualche minuto il sentiero uscì dal sottobosco e ci
246
trovammo in una grande radura. Le pozzanghere diventarono sempre
più numerose, larghe e lunghe, e Riccardo sosteneva che fossero
anche molto profonde. La cosa certa è che di acqua ne era venuta giù
tanta e le nuvole sopra di noi non facevano certo presagire nulla di
buono. L’autista poté parzialmente riscattarsi, visto che il sentiero non
era più delimitato dalle file di alberi e fu quindi possibile uscire dal
tracciato acquitrinoso per evitare gli avvallamenti più visibili. Poi ci
fermammo improvvisamente, la guida ci fece cenno di stare immobili
e in silenzio. Mi rivolsi così a Marco con un filo di voce.
– Parla piano! Sss!
MARCO – Perché vuole che stiamo zitti? Sss!
ANDREA – Mah! Lui è la guida, il nostro oracolo, dobbiamo fidarci di lui. Sss!
MARCO – Speriamo che sia più professionale dell’autista. Sss!
ANDREA
I due si voltarono e guardarono l’ultima enorme pozzanghera che
avevamo appena evitato. Era lunga almeno sette metri. Scesero
dall’auto e ci fecero cenno di seguirli, senza parlare.
GUIDA
– Sss! Guardate.
Ci indicò la pozzanghera, ma non vedemmo assolutamente nulla.
– Cosa c’è?
GUIDA – Coccodrillo. Sss!
ANDREA
La guida si avvicinò all’acqua. Recitava la parte dell’uomo misterioso
che la sa lunga, ma non gli riusciva molto bene. Continuavamo a non
vedere niente, solo dell’acqua fangosa e stagnante. Prese un lungo
bastone da terra e cominciò ad infilarlo nella pozzanghera. Era
profonda non meno di un metro. Avevamo un po’ paura, non ci
sembrava saggio andare a molestare un coccodrillo a poca distanza da
noi. La suspense si protrasse qualche minuto. L’autista stava vicino
all’auto senza avere un ruolo preciso, la guida continuava ad agitare il
bastone nell’acqua, ma dell’animale non c’era la minima traccia.
247
– La guida ha iniziato bene il suo compito… con un’allucinazione!
– Ah ah! È proprio un degno compare dell’autista.
ANDREA
MARCO
I due fecero finta di nulla, quasi non provassero imbarazzo per averci
tenuti lì fermi a vedere un animale inesistente. Stavamo per partire,
quando mi cadde l’occhio su una affascinante costruzione.
– Guarda lì che termitaio! Altro che quello di ieri!
MARCO – Vacci vicino che ti faccio una foto.
ANDREA
Era un cumulo di terra enorme, sembrava una torre alta non meno di
cinque metri. Le termiti di quel posto dovevano essere veramente
gigantesche. Salimmo sull’auto e continuammo l’escursione.
In quella grande radura c’erano molti animali, ma non quelli che
speravamo di vedere. Antilopi e bufali si muovevano fra l’erba alta e
stavano molto distanti dal sentiero, mentre uccelli colorati di varie
dimensioni volavano indisturbati nel cielo senegalese.
Ci addentrammo nuovamente nella foresta e si presentarono gli stessi
problemi. Il sentiero era molto stretto e l’autista non riusciva a evitare
le buche, sbatteva contro ogni ostacolo possibile, che fosse una pietra
o un grosso ramo non faceva differenza. Per evitare difficili manovre,
forse impossibili per lui, si infilava spesso alla cieca nelle lunghe
pozzanghere, senza valutare minimamente quanto potessero essere
profonde. Temevamo che prima o poi ci avrebbe fatto impantanare
definitivamente e saremmo stati costretti a tornare al campeggio a
piedi. Lo sterzo aveva un gioco impressionante e non permetteva di
impostare traiettorie precise, condizione esasperata dall’imperizia del
guidatore. Continuavamo a prendere botte in testa, nei gomiti e nelle
ginocchia. Anche la guida dava segni di scontento, sbuffava, si
rivolgeva al collega con fare accusatorio. Poi si girò verso di noi,
aveva un’ espressione imbarazzata ed esitò un po’ prima di parlare.
– Questo autista non è professionale.
– Sì, potrebbe fare di meglio.
Anche se va detto che non è un sentiero facile, è pieno di buche e di pozzanghere.
GUIDA
MARCO
248
– No, il sentiero non c’entra, è lui che non è capace a guidare! Ho fatto
questo percorso tante volte con altri autisti ed era un’altra cosa.
GUIDA
Il ragazzo al volante tacque con fare imbarazzato, certamente
dispiaciuto della critica subita. Del resto, non meritava certo elogi. Il
viaggio continuò e io e Marco commentammo l’accaduto fra noi, con
tono di voce basso per non farci sentire.
– Ah ah! Non è professionale, proprio no! Ah Ah!
– Ah ah! Se n’è accorto anche la guida! Vabbè che ci vuole poco!
ANDREA – Per me quando torna al campeggio lo prende a calci in culo.
MARCO – È pieno di disoccupati. Questo lo licenziano e ne prendono un altro.
ANDREA
MARCO
Il bosco finì nuovamente e ci trovammo in un’altra radura, più ampia
della precedente. Vedemmo lì vicino un piccolo aeroplano monoelica.
– Questo è un aeroporto, siamo vicini a Simenti. Nella stagione delle
piogge poche piste sono praticabili, così i trasporti delle merci vengono fatti in aereo.
ANDREA – Ma Simenti cos’è esattamente?
GUIDA - È un’area attrezzata del parco. Ci sono un ristorante, un hotel,
un orto botanico e uno zoo, dove potrete vedere i leopardi.
MARCO – Che storia! Siamo in un parco in Senegal e i leopardi li vediamo in
gabbia. È come andare allo zoo di Pistoia!
ANDREA – Ah ah! A Pistoia non ci sono però le buche e le pozzanghere grandi
come dei laghi. E poi il personale è più professionale. Ah Ah!
MARCO – Vabbè che in un giorno non possiamo pretendere granché.
ANDREA – Meglio un giorno che una settimana!
Ti ci vedi a stare una settimana in Jeep con questo pazzo che guida?
MARCO – Ah ah! No, no, ti prego! Basta Jeep, è molto più sicuro in moto!
GUIDA
Arrivammo al resort. Il paesaggio era meraviglioso, la struttura
sorgeva sulla riva di un fiume che scorreva in una vegetazione
lussureggiante. Nell’aria echeggiavano i suoni di una grande varietà di
uccelli, ci eravamo addentrati nel parco solo pochi chilometri e già
l’ambiente era molto selvaggio. Ci domandammo quanto dovesse
249
essere bella la zona più interna, quella distante diversi giorni di
fuoristrada. Venimmo accolti in un’ampia veranda col tetto di rami
intrecciati, sotto cui stavano grandi tavoli, sedie di legno massiccio e
un elegante bancone da bar, con bottiglie di alcolici in mostra. Ci
sedemmo e ordinammo, come al solito, due birre per ristorarci.
– Ho guardato la carta. La pista che va in Guinea passa sempre per il
Niokolo Koba, anche se molto lontano da qua, quindi mi sa che queste belle
pozzanghere le dovremo affrontare presto anche noi.
MARCO – Beh, in moto sarà più facile.
E poi tu non sei fuori come il nostro autista, dico bene?
ANDREA – Ah ah! Spero proprio di no!
Non possiamo rischiare di finire in una pozzanghera, sennò anneghiamo!
MARCO – Hai visto quant’era grossa quella del coccodrillo che poi non c’era?
ANDREA – Sì, comunque Riccardo mi diceva che in Guinea sono profonde anche
un metro e mezzo. Quando inizia la stagione delle piogge i camion continuano a
girare lo stesso e affondano sempre più nel fango, così pian piano creano degli
avvallamenti che poi si riempiono d’acqua e diventano dei veri e propri laghi.
MARCO – Ci penseremo una volta che ci saremo in mezzo. Hai fame?
ANDREA – Io ho quasi sempre fame, sono un biker gigante e senza fondo!
ANDREA
Si era fatta ora di pranzo. Ci vennero portate più o meno le stesse
cose della sera prima, non c’era molta varietà ma la cosa non ci
infastidì per niente. La guida e l’autista chiacchieravano con altri
ragazzi che lavoravano a Simenti, ma non consumarono nulla. Forse
stavano bene così, ma la loro magrezza ci fece supporre che fossero
veramente squattrinati e che limitassero pertanto i pasti all’essenziale.
Avevano un lavoro, ma era decisamente troppo sporadico per
garantire un po’ di tranquillità. Noi eravamo gli unici clienti e per i
mesi a venire non si prospettava di certo una buona situazione;
probabilmente non ci sarebbero state molte altre persone sino a
Natale, quando finalmente i ricchi turisti occidentali sarebbero giunti
dal cielo con l’aereo a portare nuova, relativa ricchezza.
Era strano trovarsi di fronte alla vera povertà. Non avevamo mai
avuto problemi di cibo, anche nei momenti di maggiore ristrettezza
250
economica il frigorifero era sempre stato ben fornito. Non
conoscevamo nemmeno altre persone che dovessero affrontare il
problema dell’alimentazione, era una realtà nuova e inquietante.
Terminato il pasto, ponemmo fine alle nostre considerazioni e ci
concedemmo così una passeggiata digestiva tra i sentieri dell’orto
botanico. Non sapevamo nulla di quelle piante, del resto il mondo
vegetale era per noi un argomento sconosciuto e ci limitammo così a
una breve visita. Due leopardi si muovevano sonnolenti in una
gabbia, ma vederli così in cattività non ci trasmise emozione e
capimmo quindi che Simenti ci aveva già dato tutto quello che poteva.
Sentimmo voglia di ripartire, salutammo tutti e continuammo la
scoperta del parco, anche se con la digestione in corso aumentò il
timore del pessimo stile di guida del nostro autista.
– Abbiamo mangiato bene, forse un po’ troppo.
ANDREA – Soprattutto con quello che ci aspetta ora.
Speriamo di non vomitare in macchina!
MARCO – Che ne pensi di Simenti?
ANDREA – Bello, ma sicuramente artificiale.
I leopardi, le piante, tutto messo lì ad hoc. Preferisco esplorare,
scoprire le cose, non trovarmele già confezionate ed esibite.
MARCO – Beh, parla per te! Il leopardo io preferisco vederlo in gabbia,
piuttosto che trovarmelo di fronte in moto!
MARCO
Lasciammo la grande radura e ci addentrammo nuovamente nella
foresta. L’acqua era aumentata e la macchina sbandava paurosamente,
quando l’autista sbagliò l’ennesima manovra, le ruote slittarono sul
fango e facemmo un testacoda. L’incapace provò a mettere la retro,
ma il cambio non ne voleva sapere, quindi dovette desistere dal suo
proposito e provò ad infilarsi nel bosco per rientrare nel sentiero in
un altro punto. Uscimmo dal fango, ma udimmo un forte tonfo nel
sottoscocca e il mezzo si fermò. La guida cominciò a sbraitare verso il
collega, che provò a difendersi senza risultati. I due scesero dall’auto e
si inchinarono a vedere cosa fosse successo. L’autista si infilò sotto il
veicolo, strisciando nel fango. Ne uscì con la faccia triste e colpevole.
251
– Ha preso una botta incredibile! È tutto a posto o si è rotto qualcosa?
– Ha colpito una grossa pietra e si è staccata la marmitta!
ANDREA – Non è professionale, proprio no!
MARCO – E adesso che si fa?
GUIDA – La ripariamo, ci vorrà un po’ ma non c’è problema.
MARCO
GUIDA
Il nostro giro rischiava di essere compromesso dall’incidente, ma la
situazione ci divertiva. Quei due erano veramente incapaci, la guida
non serviva a nulla, ci aveva solo segnalato un coccodrillo che in
realtà non esisteva, mentre l’autista non merita altri commenti.
Iniziarono i lavori di riparazione. Entrambi cominciarono a girare
lentamente intorno all’auto, senza nessun apparente motivo.
– Cosa stanno facendo i tipi?
MARCO – Ah ah! Non so! Forse cercano una pianta!
ANDREA – Ma non dovrebbero aggiustare la marmitta? Mi aspettavo che
prendessero degli attrezzi, invece sono lì che girano in mezzo alla foresta!
MARCO – Saranno in cerca di ispirazione!
ANDREA
Nel frattempo l’autista tornò a sdraiarsi nel fango e guardava il danno
che aveva causato, senza fare assolutamente nulla. Dopo poco arrivò
l’altro con alcune lunghe foglie molto strette e mostrò evidente
soddisfazione per il risultato ottenuto.
– Non ho parole. Uno sta nel fango e guarda, l’altro torna con delle
piante ed è contento. Ma sono scemi?
ANDREA
I due accesero un fuoco vicino all’auto e passarono una foglia sulla
fiamma. Dopo pochi minuti fu totalmente essiccata e cominciarono
pazientemente ad arrotolarla su se stessa, trasformandola lentamente
in una corda lunga quasi un metro. Ripeterono l’operazione più volte
e ne ottennero così altre, le legarono insieme e crearono una fune
molto lunga. L’autista tornò sotto la Jeep e fissò in qualche modo la
marmitta al telaio con quella corda improvvisata. Dopo oltre un’ora di
sosta forzata ci sorrisero e dissero che eravamo pronti a ripartire.
252
– Incredibile! Non avrei mai pensato a una riparazione del genere!
– Sì, ma vediamo comunque quanto tiene!
ANDREA – Se si staccherà la legheranno ancora, tanto non hanno mica fretta!
MARCO – Sono un po’ scemi ma decisamente ingegnosi!
Tu avresti pensato a fissare la marmitta con delle piante?
ANDREA – No, ma qua se non impari ad arrangiarti non vivi a lungo.
MARCO – Dopo i libici che cuciono con ago e filo le gomme squartate,
adesso abbiamo visto anche questa.
ANDREA – Se la moto avrà dei problemi la affideremo alle loro cure!
MARCO – Forse ti avrebbero aggiustato anche la Suzuki!
Ah! Li avessimo incontrati ad Almeria!
ANDREA – Ah ah! Magari mettendoci un pistone di legno!
MARCO – Che pacco che ti hanno tirato!
Invece la mia moto continua ad andare che è uno spettacolo!
ANDREA – Sì, anche se ultimamente fa un po’ fatica a partire, non si accende
mai al primo colpo. In Marocco invece era perfetta. Speriamo non peggiori.
ANDREA
MARCO
Da alcuni giorni il nostro unico mezzo dava qualche problema. Non
aveva il motorino d’avviamento e si usava pertanto il kick starter, ma
non era un’operazione per niente facile. Occorreva fare qualche
tentativo a vuoto, senza spingere con forza, per portare il pistone nel
punto di massima compressione, poi si doveva dare una forte
pedalata e il motore si avviava. Ultimamente però erano necessari
sempre più tentativi prima di riuscire nell’intento. Temevo fosse
l’inizio di un problema più serio, ma non c’era nulla da fare, se non
sperare che il poderoso mezzo non ci giocasse qualche brutto tiro.
– Vedrai che ci porta ad Abidjan! Ho comprato un mezzo affidabile, io!
ANDREA – Vero, ma se ciocca il kick starter ci toccherà accenderla a spinta,
magari nel fango, e non sarà certo una cosa semplice!
MARCO
Eravamo persi nelle nostre amenità e ormai non facevamo più
nemmeno caso ai continui scossoni che continuavano a martoriarci.
Non riuscivamo a vedere animali, fatta eccezione per qualche
sporadico uccello, ma ormai eravamo soddisfatti e saremmo tornati
253
presto al campeggio per riprenderci un po’. La foresta era sempre più
fitta, le pozzanghere sempre più larghe, l’autista sempre più tonto. Di
fronte a noi ci attendeva un sentiero molto stretto, chiuso fra due file
di grossi alberi e interrotto dall’ennesimo lago di fango. Era
sicuramente il caso di fare retromarcia per uscire dal tracciato e
aggirare così l’enorme pozzanghera, ma l’incosciente non lo fece. Si
lanciò a una discreta velocità, forse certo di superare quella che poteva
essere una buca poco profonda, ma si alzarono due alti muri d’acqua
e le ruote della Jeep affondarono totalmente nell’immenso pantano.
Provò a uscirne, ma ad ogni misero tentativo l’auto sbandava in tutte
le direzioni e si affossava sempre più, sino a quando non ci fu più
verso di muoverla. Eravamo definitivamente piantati.
La guida inveì di nuovo contro l’autista, non capivamo nulla ma era
abbastanza chiaro che lo stesse insultando per la sua colpevole
dabbenaggine. Il ragazzo tacque e continuò a provare a uscire dalla
buca, ma senza risultati. Io e Marco scoppiammo a ridere e questo
stemperò un poco gli animi. Rise prima l’autista, poi anche la guida.
– Mi spiace, non mi era mai successo, è colpa di questo imbecille!
ANDREA – Dai, non trattarlo così male! Noi ci stiamo divertendo molto!
MARCO – Ah ah! Che piantata! E adesso che si fa?
GUIDA
I due non risposero e scesero dal mezzo, guardarono il punto in cui
l’auto era quasi sommersa dall’acqua e scambiarono dei commenti fra
loro, poi dissero che saremmo dovuti scendere a spingere.
– Mi stai dicendo che dovremmo entrare in un metro d’acqua fangosa?
GUIDA – Mi spiace, ma se non spingiamo siamo bloccati e il campeggio è molto
distante, almeno venti chilometri.
MARCO – Ma è meglio con le scarpe o a piedi nudi?
ANDREA – Ci vai tu a piedi nudi là in mezzo! Chissà cosa c’è là sotto, sepolto in
quel fango! Teniamo le scarpe, poi le asciugheremo in qualche modo al campeggio.
MARCO – Speriamo che si asciughino, sennò domani andiamo in moto in ciabatte!
ANDREA – Ah ah! In ciabatte no! Non ce la posso fare! Se sono ancora bagnate
le metteremo ugualmente, tanto si asciugheranno col vento strada facendo.
ANDREA
254
Tenemmo quindi le scarpe, rimboccammo i pantaloni il più possibile
e ci avventurammo nell’ignoto. L’autista andò al suo posto e noi tre
spingemmo con forza dal retro. Il motore urlò con prepotenza e gli
spruzzi di acqua putrida ci ricoprirono totalmente, sembravamo due
statue di fango. Dopo un po’ la macchina si mosse e uscì dal pantano.
– Ah ah ah ah! Proprio una bella escursione nel Niokolo Koba!
MARCO – Ah ah ah ah! Non è professionale, proprio no!
ANDREA – Chiederemo al tipo uno sconto! In fondo abbiamo lavorato anche noi!
ANDREA
Non riuscivamo a smettere di ridere. I due invece erano molto seri,
sicuramente si sentivano in colpa nel vederci ridotti in quelle
condizioni e temevano le nostre rimostranze col loro capo. Ci
guardarono perplessi, sicuramente non capivano cosa ci trovassimo di
divertente. Nella mezzora successiva non accadde stranamente nulla,
persino la marmitta legata con le foglie rimase al suo posto contro
ogni previsione, e arrivammo finalmente al campeggio.
Il gestore ci venne incontro sorridente, ma quando ci vide incrostati
di fango cambiò subito espressione e si rivolse con fare accusatorio ai
suoi buffi collaboratori, che subirono un duro rimprovero. Tenevano
la testa bassa e solo sporadicamente accennavano una difesa, ma non
avevano di certo molti argomenti a loro favore.
– Signori, non ho parole, mi spiace veramente! È tutta colpa nostra!
MARCO – Ma no, ci siamo divertiti! Dopo una bella doccia sarà tutto a posto.
ANDREA – Semmai può chiedere alla signora di lavarci anche questi vestiti?
GESTORE – Ma certo, signori, figuratevi! È il minimo che possa fare per voi!
GESTORE
Gli altri abiti erano già stesi e asciutti, così ne prendemmo qualcuno
per cambiarci. Arrivò la donna che ci aveva fatto il bucato e si mise
prontamente al lavoro con i nuovi indumenti infangati. I nostri
accompagnatori si scusarono nuovamente e noi li rassicurammo,
capirono che eravamo comunque soddisfatti della giornata e che non
ce l’avevamo con loro. Ci salutammo cordialmente e la Jeep se ne
andò fuori dal parco, portando con sé i due scellerati compari.
255
Ci lavammo e sedemmo a tavola. Era stata una giornata sicuramente
inusuale, come del resto tutte quelle trascorse dalla nostra partenza
dall’Italia. L’indomani avremmo affrontato la pista che ci avrebbe
portati in Guinea, si preannunciava un viaggio umido e fangoso, ma
soprattutto molto lento. La carta non era chiara, sapevamo che
mancavano quasi duecento chilometri al confine, dopodiché saremmo
arrivati in una città poco distante chiamata Koundara, ma non
capivamo quando finisse l’asfalto e iniziasse la pista. Lo avremmo
comunque scoperto a breve ed eravamo già eccitati all’idea.
Speravamo solo che il tempo reggesse, se fossimo stati sorpresi da un
acquazzone in mezzo alla foresta non sarebbe stato per niente facile
uscirne in buone condizioni. Andammo a dormire molto presto,
volevamo partire poco dopo l’alba per sfruttare al massimo la luce.
Era indispensabile arrivare in qualche posto civile entro il tramonto.
256
KOUNDARA
Ci alzammo alle sei e mezza, decisamente molto presto, ma la poca
gente del campeggio era già tutta in attività. Marco andò in bagno e io
uscii per controllare il livello dell’olio e la tensione della catena e vidi
con piacere che era tutto a posto. Poi andai a prendere il bucato e la
signora mi fece cenno di aspettare, entrò in una capanna e ne uscì con
tutti i nostri vestiti. La ringraziai e tornai nel bungalow.
– Ce li ha addirittura stirati, è quasi un peccato metterli nelle borse!
MARCO – Lei ci ha dato delle soddisfazioni, ha riscattato l’onore del campeggio!
ANDREA – Ho guardato la moto, è tutto ok. Vestiamoci già da viaggio,
prepariamo il bagaglio e carichiamo tutto, così dopo colazione scheggiamo via.
MARCO – Se siamo bravi partiamo per le otto.
ANDREA
Sedemmo sotto la solita veranda e ci venne portata la solita colazione.
Aprii la carta per valutare il percorso e condividere con Marco la
lunga giornata che avremmo avuto davanti.
– Dobbiamo tornare a Tambacounda e sono cinquanta chilometri che
conosciamo. A quest’ora non dovrebbero esserci quegli insetti bastardi, spero!
MARCO – Quando siamo in città voglio vedere se per caso trovo una pila per la
videocamera, questa ormai è a pezzi e non ha più autonomia.
ANDREA – Guardiamo pure, ma dubito che la troveremo. Ti ricordo che siamo in
mezzo a una foresta e che Tambacounda non ha nemmeno la corrente elettrica!
MARCO – In Africa tutto è possibile.
Comunque vada, poi scendiamo per questa strada rossa che va verso la Guinea.
ANDREA – Sì, ma chissà se ci sono delle indicazioni valide!
Se scazziamo ci ritroviamo ancora sulla strada per Dakar.
MARCO – Chiederemo.
ANDREA – Comunque da Tambacounda al confine dovrebbero essere circa
centoventi chilometri, poi altri settanta sino a Koundara.
MARCO – Se la carta è giusta troviamo l’asfalto per poco, poi è tutta pista.
ANDREA – Temo la pista, se è come quella di ieri sono cazzi. Centoventi
chilometri tra le pozzanghere significa metterci almeno sei ore, salvo imprevisti.
MARCO – Tipo cadute nel fango, coccodrilli, strani incontri e cose del genere.
ANDREA
257
– Sì, cose del genere. Ma ti ricordo che dobbiamo superare anche due
dogane e l’esperienza ci insegna che possono essere tempi molto lunghi.
MARCO – Dai, schiodiamoci, prima andiamo e meglio è.
ANDREA
Salutammo tutti e partimmo. In poco più di mezzora giungemmo in
città e facemmo qualche tentativo per trovare la pila della
videocamera, ma, come supponevamo, non avemmo successo. Non
esistevano veri e propri negozi, ma fatiscenti empori che vendevano
un po’ di tutto. Decidemmo di soprassedere e iniziammo a cercare il
bivio che ci avrebbe portati al confine. Arrivammo a un incrocio
senza nessuna indicazione, ma ci sembrava proprio quello giusto. Ci
fermammo comunque a valutare la situazione.
– Che pacco ‘sta pila! Dopo quindici minuti devo rimetterla in carica.
ANDREA – Li faremo bastare. Ma secondo te, questa strada è quella giusta?
MARCO – Mah! Non possiamo comunque prenderla a caso,
rischiamo di fare dei gran chilometri per niente.
ANDREA – Chiediamo a qualcuno.
MARCO – Ottima idea, ma non c’è nessuno.
ANDREA – Torniamo a Tambacounda e ci informiamo,
altrimenti è capace che stiamo qua nel nulla per chissà quanto tempo.
MARCO
Ci trovavamo solo un paio di chilometri fuori dalla città e ci sembrò la
cosa giusta da fare. Era strano che una strada che ci avrebbe portati al
confine di Stato non fosse segnalata in nessun modo, ma avevamo già
imparato che in quelle zone remote le cose non funzionavano come
da noi. L’unico modo per saltarci fuori era chiedere alla gente del
posto. Facemmo numerosi tentativi, ma nessuno pareva conoscere
l’esistenza di un qualunque percorso che portasse in Guinea. Come
era possibile? Vedemmo un ragazzo dall’aria sveglia che stava
scendendo da un camion, era quello che cercavamo. I camionisti sono
sempre esperti di strade e in Senegal la cosa non sarebbe stata diversa.
– Scusa, stiamo cercando il bivio che porta in Guinea. Sai dirci se per
caso è quello sulla sinistra, due chilometri fuori città? Non ci sono indicazioni.
MARCO
258
– In Guinea? Non si può andare in Guinea in questa stagione.
– No, mi sono spiegato male. Guarda qua il percorso che intendo.
CAMIONISTA
MARCO
Un piccolo brivido mi attraversò, ma tacqui e aspettai. Marco mostrò
la carta al ragazzo e gli indicò la strada che stavamo cercando.
– Ah! Ma intendi la strada per Linkiring! Sì, è quella che dici.
MARCO – Sì, ma non dobbiamo andare a Linkiring. Quello è solo un paese sul
percorso che poi continua sino a Boundou ed entra in Guinea.
CAMIONISTA – No, la strada si ferma a Linkering. So che dopo c’è una pista
ma non ci passa nessuno, è chiusa già da qualche mese, in questo periodo è tutta
allagata. Se vuoi passare per di lì lo puoi fare solo d’inverno, quando non piove.
MARCO – Ma tu col camion non vai mai in Guinea? Non c’è un’altra strada?
CAMIONISTA – Non ci sono mai stato, ma so che se ci vuoi andare adesso devi
passare per la Guinea Bissau e da lì prendere la strada per la Guinea Conakry.
CAMIONISTA
Si tratta di due Stati diversi, Bissau e Conakry sono le loro rispettive
capitali e si usa indicarle per distinguere i differenti Paesi in cui si
trovano. Quel ragazzo ci stava dicendo che per andare in Guinea
Conakry, il nostro obiettivo, non avremmo potuto percorrere i
duecento chilometri previsti, ma avremmo dovuto farne alcune
migliaia. Saremmo dovuti tornare verso l’Oceano Atlantico, lasciare il
Senegal per entrare in Gambia, poi sconfinare nuovamente per
entrare in Guinea Bissau e da lì prendere altre infinite strade sino alla
Guinea Conakry. Il piccolo brivido di poco prima si ripropose in
modo più violento, perché mi accorsi che i nostri progetti
sembravano destinati a naufragare. Non avevamo più molto da dirci,
così lo salutammo e affrontammo la nuova realtà.
– Non ho parole. E adesso che cazzo facciamo? Hai qualche idea?
MARCO – Mah! Sembra che la Costa d’Avorio non sia alla nostra portata.
Se la pista è allagata non si va, inutile pensarci.
ANDREA – Vabbè che non abbiamo nessun appuntamento, però che pacco!
MARCO – Andiamo nel Mali, almeno siamo sicuri che lì le strade sono asciutte.
ANDREA
259
Ormai eravamo afflitti, allo sbando, non sapevamo più che fare. Vista
l’impossibilità di andare a sud e raggiungere la Guinea, sembrava che
il viaggio potesse proseguire verso est o verso ovest, perché a nord
c’era la ormai nota Mauritania. Nell’ipotesi di dirigerci verso est
saremmo entrati nel Mali, per poi fare ritorno nel Sahel e da lì
avremmo magari raggiunto il Burkina Faso. In alternativa saremmo
potuti andare a ovest fino alla Guinea Bissau, ma avremmo impiegato
un sacco di tempo e saremmo ripassati per territori in parte già visti.
– Che pacco, che pacco, che pacco! Odio non sapere che fare!
MARCO – Tra l’altro abbiamo già i Visti della Guinea e della Costa d’Avorio
sul passaporto, mentre non sappiamo come funzioni per entrare in altri Paesi.
ANDREA – In Africa tutto è possibile, quindi sarà possibile anche superare
qualunque dogana. Basterà pagare!
MARCO – Beh, visto che in Africa tutto è possibile,
proviamo lo stesso a passare per la pista allagata, no?
ANDREA – Non ha detto che è difficile, ma che è proprio chiusa.
MARCO – A questo punto però non abbiamo nulla da perdere.
Se non ci riusciamo torniamo indietro, tanto lo faremmo comunque.
ANDREA – Il vero biker non torna mai indietro, va sempre avanti!
E soprattutto il vero biker vuole andare a sud, mica da altre parti!
MARCO – È vero, cazzo! Scordavo che il vero biker ci prova sempre sino alla fine!
ANDREA
Eravamo alla follia. Nel giro di dieci minuti eravamo passati dalla
certezza di proseguire all’idea del fallimento, poi ancora alla ferrea
convinzione di potercela fare ugualmente, il tutto senza fondamento
di nessun genere, se non la ripetizione ossessiva dei motti che ci aveva
insegnato Riccardo, quasi fossero una sorta di Vangelo.
In Africa tutto è possibile; quelli che sono i limiti occidentali, là
sembrano non esistere, la gente riesce a fare tutto con niente. In parte
lo avevamo constatato di persona, stavamo diventando sempre più
africani, sempre più onnipotenti, nulla ci era precluso. Mi tornò poi in
mente il racconto della segretaria del Console di Guinea a Milano,
l’odissea di suo marito che era fuggito dalla dittatura ed era riuscito ad
arrivare in Senegal senza possedere nulla. La gente lo voleva uccidere,
260
era nudo, affamato, eppure con la sua intelligenza e un’infinita forza
di volontà era riuscito a fuggire e a raggiungere la sua donna in Italia.
E noi? In buona salute, pieni di forze ed energie da spendere, coi soldi
in tasca, non saremmo riusciti a entrare in Guinea? Ci saremmo fatti
fermare da qualche pozzanghera? Sì, a quel punto ne ero certo, ci
avremmo provato e ci saremmo riusciti. Del resto, già ad Almeria
eravamo andati in crisi e stavamo valutando alternative inferiori, poi la
nostra volontà aveva sconfitto le avversità ed eravamo arrivati sino a
quel punto. Avremmo superato anche il nuovo ostacolo.
– Andiamo allora, cosa stiamo a fare qua? Se poi non riusciamo
proprio a passare, vendiamo la moto e proseguiamo in qualche altro modo.
MARCO – Passeremo, vedrai.
ANDREA – Ne sono certo anch’io.
ANDREA
Arrivammo al bivio e ci dirigemmo verso la nostra meta. L’asfalto
durò solo poche decine di chilometri, poi lasciò il posto a una terra
rossa compatta e a una vegetazione incredibile. Il fondo era buono,
dovevo spesso evitare le pozzanghere, ma niente a che fare con quelle
viste il giorno prima. Eravamo ancora all’interno del Niokolo Koba,
anche se in tutt’altra zona rispetto a quella visitata.
Non incrociammo nessuno per molti chilometri, poi la pista
attraversò un villaggio di capanne. Molte donne, vestite in teli di
cotone dai colori sgargianti, camminavano sul ciglio della pista e
portavano sulla testa enormi sacchi bianchi, pieni di frutta e verdura.
Gli uomini erano vestiti nel solito modo classico, con camicie a
maniche lunghe e pantaloni di cotone, e stavano seduti a fare nulla.
Molti ci osservarono passare con stupore e ci salutarono con la mano.
– Ci credo che ci guardano, qua non passa nessuno!
Si chiederanno dove stiamo andando!
MARCO – La moto si sentirà arrivare chilometri prima con questo silenzio.
ANDREA – È veramente rumorosa!
MARCO – Un rumore possente! Comunque per ora è una gran pista.
ANDREA – Godiamocela finché dura. Facciamo pausa che mi fumo una paglia.
ANDREA
261
Ci trovavamo appena fuori dal villaggio, mi accesi una sigaretta e
subito sentii un uomo urlare. Mi voltai, era davanti a una capanna
distante un centinaio di metri e ce l’aveva con me. Sembrava
abbastanza arrabbiato e mi fece cenno di non fumare. Non capivo
perché mi chiedesse una cosa del genere, ma non avevo voglia né di
polemiche né di chiarimenti, così lo rassicurai e lo accontentai.
– Ci hai capito qualcosa tu?
MARCO – Non gli piace il fumo.
ANDREA – Ah ah! Ho capito! Ma che cazzo gliene frega se fumo io?
MARCO – Bah! Sarà qualche pippa religiosa tribale, chissà.
Di certo non temono gli incendi, con tutta questa acqua!
ANDREA – Incredibile, non si finisce mai di stupirsi. Andiamo?
MARCO – Andiamo, Koundara è molto lontana.
ANDREA – Speriamo non troppo.
ANDREA
Dopo il villaggio la pista peggiorò a vista d’occhio. Diventò molto più
stretta e le pozzanghere aumentarono, così non potei più andare
dritto e cominciai a zigzagare per non finire in acqua. Inoltre dovetti
rallentare non poco, perché la terra battuta era sempre più viscida e si
rischiava di cadere. Gli alberi diventarono sempre più grandi e il
sottobosco sempre più rigoglioso. Era l’ora di pranzo e splendeva un
bel sole, ma l’ombrello di rami che ci sovrastava rendeva la pista quasi
buia. Poi incontrammo una sbarra chiusa, al suo fianco stava una
casupola in cemento da cui uscì un militare con passo indolente.
– Saremo mica già arrivati al confine?
ANDREA – Non penso, siamo in viaggio da poco, dovrebbe essere molto più in là.
MARCO
L’uomo solitario ci fece cenno di raggiungerlo all’interno dell’edificio.
Non eravamo al confine, si trattava solo di un controllo in quanto
stavamo lasciando un Comune per entrare in un altro. Ci disse che
per raggiungere la frontiera avremmo incontrato altre sbarre, altri
confini comunali. Era una strana realtà che in Europa non esisteva
più, evocava i secoli passati della nostra storia, ma in quella parte
262
remota del Senegal era un fatto del presente. Strano che nel resto del
Paese non fosse così, forse eravamo in una sorta di regione a statuto
speciale, ma non ci interessava e non approfondimmo l’argomento.
– Buongiorno. Da dove venite? Sono tre mesi che non passa nessuno.
– Dall’Italia.
MILITARE – Dall’Italia? Ah ah! Avete visto la partita?
ANDREA – Sì, in un bar in Mauritania. Che sfortuna, vero?
MILITARE – Sono due grandi squadre, ma la Francia è superiore.
MARCO – Forse, ma sicuramente è stata molto fortunata.
MILITARE – Fortunata e brava. Ma non siate tristi, è solo una partita!
Ma ditemi, adesso dove state andando?
ANDREA – In Guinea.
MILITARE – La pista è interrotta. Fino al prossimo posto di blocco è più o meno
così, dopo però è allagata. È impossibile proseguire sino al confine.
MARCO – Nemmeno in moto?
MILITARE – Qua moto non ne passano, non saprei. Magari se lasciate il sentiero
e riuscite a passare per la foresta può darsi. Nel sottobosco c’è meno fango, chissà.
MILITARE
MARCO
Ci stava dicendo ciò che speravamo. Saremmo passati per la foresta,
magari solo nei punti peggiori, quelli più allagati, poi avremmo ripreso
la pista appena possibile. Ma ce l’avremmo fatta con tutto quel carico?
Si trattava del solito dilemma, però eravamo troppo lanciati per
pensare alle infinite eventualità negative, così salutammo il militare e
ripartimmo. La pista peggiorò ancora, le pozzanghere diventarono
immense e procedevo a passo d’uomo, a volte stavo in equilibrio su
nemmeno mezzo metro di superficie fangosa sopravvissuta alle
piogge. Se fossi scivolato saremmo finiti a mollo e avremmo perso la
moto. Ci fermammo a guardarci intorno.
– Ci siamo, qua il gioco si fa duro. Guarda che roba che c’è!
MARCO – Avremo pane per i nostri denti. Non ci si può permettere di sbagliare.
ANDREA – Queste non sono pozzanghere, sono laghi. Sono lunghe dieci metri!
MARCO – Già. Vediamo se sono davvero così profonde come sosteneva Riccardo.
ANDREA
263
Prendemmo uno dei tanti rami da terra e lo affondammo nella
pozzanghera. Era veramente un cratere, non meno di un metro e
mezzo, proprio come ci era stato detto.
– Ah ah! Se ci finiamo dentro ci tocca nuotare!
– Finché ci sono queste strisce di terra ce la facciamo anche,
ma se si stringono non so mica. A parte il fatto che posso anche scivolare e
abbiamo finito il nostro viaggio in moto.
MARCO – Più che altro saremmo fottuti. I soldi, i passaporti, la videocamera!
ANDREA – Teniamo tutto nello zaino e lo tieni a tracolla.
Se vedi che stiamo per cadere lo lanci nella foresta.
MARCO – Mah! Proviamo, però tu vedi di non cadere che è meglio.
MARCO
ANDREA
Andammo ancora avanti e la situazione peggiorò sempre più. Ormai
le strisce di terra erano sottilissime e soprattutto non seguivano una
linea retta, talvolta era necessario fare bruschi cambi di direzione per
non finire a mollo e questo aumentava i rischi di caduta. Durante una
di quelle manovre colpii un grosso arbusto e la ruota scivolò, così
cademmo in mezzo al fango. Fortunatamente era un punto
abbastanza favorevole e non rotolammo nella pozzanghera.
– Che botta! Ti sei fatto male?
ANDREA – Solo nell’orgoglio!
MARCO – Guarda che orrore!
MARCO
Nell’impatto era crollato l’enorme carico e tutte le borse si trovavano
così nel fango, ma per fortuna nessuna di esse era affondata nelle
pozzanghere. Marco non aveva lanciato nel bosco lo zaino dove
stavano le cose più vulnerabili, ma era comunque tutto intatto.
Rimontammo i bagagli e proseguimmo fino a giungere a un ulteriore
posto di blocco, dove un altro militare ci guardò stupiti.
– Ma da dove venite?
– Siamo italiani, veniamo da Tambacounda e andiamo in Guinea.
MILITARE
ANDREA
264
Anche quell’uomo cominciò a parlare di calcio, ma non ne avevamo
proprio voglia, così lo liquidammo cortesemente per discutere del
nostro viaggio. Purtroppo le notizie continuavano ad essere negative.
– Non si riesce a passare per di qua, dovete tornare indietro!
– Il suo è un divieto o un consiglio? Noi vorremmo provarci lo stesso.
MILITARE – No, no, non è vietato. Provateci pure, ma non riuscirete a
raggiungere il confine. Ci sono ancora trenta chilometri ed è tutto allagato.
ANDREA – Come questo ultimo tratto?
MILITARE – Non so, però non passa nessuno da mesi.
MARCO – In macchina, ma non in moto. Siamo già riusciti ad arrivare sino a
qua e ci avevano già detto che non ce l’avremmo fatta.
MILITARE – Non c’è problema, passate pure. Ma mi sa che ci rivedremo presto.
ANDREA – Ah ah! Spero proprio di no!
MILITARE
MARCO
La pista proseguiva ma ormai non c’era quasi più terra, solo qualche
breve striscia sporadica. Sembrava un lungo fiume fangoso e noi lo
stavamo navigando. Spesso dovevamo fermarci, Marco scendeva e io
cercavo un passaggio nel sottobosco, mentre lui mi seguiva a piedi,
perché gli ostacoli insormontabili mi costringevano a guidare fuori
pista per alcune centinaia di metri.
– È meraviglioso, ma ci mettiamo due giorni per fare trenta chilometri!
MARCO – Beh, il sole è ancora alto e il confine è vicino.
ANDREA – Sì, ma al confine poi non c’è niente, siamo daccapo.
MARCO – Se ce la vediamo brutta chiediamo ospitalità ai militari e ripartiamo
domattina. Tanto a questo punto cosa vuoi fare?
ANDREA – Il vero biker sa sempre cosa fare!
ANDREA
Le pozzanghere cominciarono stranamente a calare e potemmo
rimanere sulla pista per qualche chilometro. Eravamo felici di quella
novità, ma poco dopo si presentò una nuova difficoltà.
– Guarda! Vedi anche tu quello che vedo io o è colpa della stanchezza?
MARCO – No, non è la stanchezza. Qua sono cazzi nostri! Ma quante sono?
ANDREA
265
– Almeno una cinquantina! E non è finita, ne stanno arrivando altre.
– Saranno buone?
ANDREA – Mah! Non ho mai incontrato delle scimmie in libertà,
le ho sempre e solo viste dentro le gabbie.
MARCO – Penso che siano babbuini. Senti che casino che fanno!
ANDREA – Sembra che vogliano bloccarci la strada.
MARCO – Non vedranno nessuno da mesi e non sono più abituate all’uomo,
penseranno che vogliamo invadere il loro territorio!
ANDREA – Cosa facciamo?
Non possiamo certo tornare indietro per qualche scimmia del cazzo!
MARCO – Qualche scimmia? È un esercito!
ANDREA
MARCO
I babbuini non si avvicinarono, erano fermi a un centinaio di metri e
ci chiudevano il passaggio. Sicuramente dovevano essere spaventati
quanto noi, anche se il trovarsi in branco poteva rassicurarli. Non
sapevo nulla di quegli animali, però non avevo mai sentito parlare di
attacchi all’uomo, Marco nemmeno. Ma forse eravamo solo ignoranti.
– Io provo ad andare avanti un po’, vediamo che fanno.
Dobbiamo dimostrare sicurezza, se si accorgono che abbiamo paura siamo fottuti.
MARCO – Forse sono infastiditi dal rumore del motore, qua c’è un gran silenzio.
ANDREA – Proviamo a spaventarli, magari fuggono.
Vado avanti molto lentamente e apro il gas a manetta, potrebbe funzionare.
MARCO – Deve funzionare! Se ci saltano addosso che cazzo facciamo?
ANDREA – Non lo faranno, l’uomo è un animale pericoloso e loro lo sanno bene.
ANDREA
Ostentavo una sicurezza che non avevo per niente, ma non vedevo
altra soluzione. Partii lentamente e spalancai il gas, l’aria venne
lacerata dall’urlo del monocilindrico, amplificato dalla marmitta
aperta. Agli occhi loro dovevamo sembrare un animale spaventoso e
molto cattivo, infatti si dileguarono in pochi secondi e ci defilammo
così velocemente. Nei chilometri successivi ne incontrammo altri, ma
ormai avevamo trovato il modo giusto per farli scomparire. A un
tratto vedemmo una piccola costruzione sulla sinistra e ci fermammo.
Dentro c’era un guardiano del parco Niokolo Koba, relegato in quel
266
luogo sperduto chissà per quale motivo. Non capimmo cosa ci fosse
da controllare, in mezzo a un’enorme foresta, con la strada non
transitabile, eppure veniva pagato per stare lì. Gli chiedemmo in che
condizioni fosse la pista sino al confine ma non lo sapeva, era
veramente un uomo inutile. Ripartimmo verso sud e la situazione
tornò ad essere nuovamente difficile. Dovemmo abbandonare più
volte il tracciato nel modo già descritto, ma ormai con la testa
eravamo già in frontiera e non ci saremmo certi lasciati fermare
dall’acqua. Continuavamo a ripeterci che le cose basta volerle e queste
accadono, a quel punto il nostro senso di onnipotenza ci aveva
pervasi irrimediabilmente. Incontrammo un’altra sbarra, eravamo
finalmente arrivati in dogana. All’interno di un piccolo edificio stava
l’ennesimo militare che ci sorrise e ci invitò ad entrare con un cenno.
Era seduto dietro a una scrivania e ci fece sedere su due sgabelli.
– Buonasera.
MILITARE – Buonasera a voi. Da dove venite?
MARCO – Da Tambacounda.
MILITARE – Ma la pista è allagata, sono mesi che non passa nessuno di qua!
MARCO – Ce l’hanno già detto in tanti, ma finora siamo riusciti a passare.
MILITARE – D’inverno passano tante moto, ma d’estate non ne ho mai viste!
ANDREA – Ah ah! Noi siamo speciali!
MILITARE – Sì, sicuramente! Andate in Guinea?
MARCO – Sì, ma solo di passaggio, siamo diretti ad Abidjan.
MILITARE – In Costa d’Avorio? Ma è lontanissimo!
E poi nella stagione delle piogge è veramente difficile arrivare là.
MARCO – Ma Lei sa se la strada migliora?
MILITARE – Non so, non sono mai stato in Guinea,
però in questo periodo piove in tutta l’Africa occidentale.
ANDREA – In questi giorni però non è piovuto.
MILITARE – Sì, ma fino a cinque giorni fa è piovuto tutti i giorni,
infatti vedete quanta acqua c’è. Beh, buon viaggio ragazzi, arrivederci in Senegal!
MARCO
Quindi non pioveva più da quando avevamo superato il Sahara. Era
un momento di quiete, ma il maltempo sarebbe presto tornato, non
267
c’erano dubbi. Noi comunque saremmo andati avanti lo stesso. Dopo
nemmeno un chilometro vedemmo una grande pietra miliare bianca a
sinistra della pista, quasi un monumento, alto più di tre metri. C’erano
scritti in rilievo i nomi dei due Stati, avevamo raggiunto la terra di
mezzo fra le due dogane, in una foresta fittissima. Ci fermammo per
festeggiare il risultato ottenuto e fare qualche foto.
– Amico, siamo usciti dal Senegal e là davanti c’è la Guinea! Evviva!
MARCO – E tutti dicevano che non ce l’avremmo fatta!
ANDREA – Era gente senza palle!
MARCO – E senza moto!
ANDREA – Adesso superiamo la dogana e andiamo a Koundara.
MARCO – Quanto mancherà?
ANDREA – Saranno cinquanta chilometri, forse poco più, ma che importa?
MARCO – Sono le quattro, abbiamo ancora qualche ora di luce.
ANDREA – Dai che ce la facciamo!
MARCO – Vabbè, muoviamoci. E speriamo che siano doganieri celeri.
ANDREA
Arrivammo quindi in Guinea. Un militare sollevò la sbarra di confine
e ci invitò a entrare in uno dei soliti edifici di cemento, poi ci chiese
qualcosa sulla pista. Avevamo molta fretta di andarcene, così fummo
abbastanza sbrigativi nelle risposte. Ma un vecchio problema si
ripresentò dopo anni e minacciò il nostro viaggio.
MILITARE
– I passaporti sono a posto. Mi date il carnet des passages, per favore?
Ne avevamo parlato a lungo in Italia, durante la progettazione del
viaggio, e l’ultima volta appena entrati in Senegal. Il temuto
documento ci era stato chiesto ancora una volta. Riccardo ci aveva
detto che in Africa non sarebbe servito, ma in caso contrario
avremmo potuto allungare una mancia e tutto si sarebbe risolto. Gli
avevamo creduto o semplicemente ci mancava la voglia di caricarci di
ulteriori oneri organizzativi. Comunque fosse, eravamo partiti senza.
Il mio amico simulò ignoranza, io potevo solo attendere in silenzio.
268
– Il carnet des passages? Ma cos’è? Intende forse dire l’assicurazione ?
– No, non è l’assicurazione.
È un documento che vi serve per viaggiare in Guinea con la moto. L’avete?
MARCO – Adesso ho capito. Ma al Consolato di Guinea a Milano ci hanno
detto che non serve, che avremmo potuto viaggiare senza.
MILITARE – Aspettate qua un attimo che chiedo al mio capo.
MARCO
MILITARE
Se ne uscì dalla stanza, lasciandoci in spasmodica attesa. Confusi e
spaventati dalla situazione, non ci eravamo nemmeno giocati la carta
della partita di calcio, che avrebbe potuto renderci più simpatici agli
occhi di tutti, aumentando la possibilità di passarla liscia. Ma
fortunatamente poco dopo tornò e ci diede il benvenuto in Guinea.
Non dicemmo nulla, ringraziammo velocemente e ripartimmo.
– Via, prima che cambino idea!
MARCO – Ma tu hai capito cosa è successo?
ANDREA – No, per niente. Già ne sanno poco in Italia di ‘sto carnet,
figurati qua in mezzo alla foresta!
MARCO – Ce l’ha chiesto, poi ha detto che non serviva. Mah!
ANDREA – Non porti troppe domande. Piuttosto, guarda il cielo!
MARCO – Brutta storia! Diamoci una mossa!
ANDREA
Il sole era scomparso, grandi nuvole grigie si stavano addensando
ovunque e oscuravano sempre più l’ambiente circostante; l’immenso
manto erboso stava cambiando colore, da verde acceso diventava
sempre più cupo. Rischiavamo di rimanere sotto un diluvio.
Le pozzanghere erano diventate più piccole e potemmo andare ad
una velocità un po’ più sostenuta, comunque sempre ridotta, perché
c’era fango ovunque. Dopo pochi chilometri incontrammo un’altra
sbarra chiusa. C’era un certo fermento, molta più gente che in dogana
si aggirava senza apparente criterio fra diversi edifici grigi tutti uguali,
che sorgevano un po’ ovunque. Tanti fuoristrada e camionette
dell’esercito sostavano ai lati della strada sterrata. Nessuno sembrava
essersi accorto del nostro arrivo, attendemmo qualche minuto e ad un
certo punto un soldato ci venne incontro con un accenno di sorriso.
269
– Che pacco ‘sti controlli! Ma cosa li fanno a fare se ce n’è uno qualche
chilometro prima e c’è solo questa strada?
MARCO – È da Tambacounda che è così. Sono dogane interne, non si capisce.
ANDREA
La cosa sembrava andare per le lunghe. Diversi camion erano fermi, i
militari controllavano documenti e merci e gli autisti pagavano
mazzette alla luce del sole, senza il minimo ritegno.
– Abbiamo scoperto perché ci sono tanti posti di blocco,
servono a spillare dei gran soldi ai camionisti di passaggio!
MARCO – Qua le mazzette sono legalizzate, pare.
ANDREA – Speriamo che non tassino anche noi.
MARCO – A parte il carnet, abbiamo la coscienza pulita!
ANDREA – E dici poco?
ANDREA
Due soldati ci fecero entrare in un’angusta palazzina, con i muri
bianchi totalmente scrostati. Venimmo introdotti in una stanza
fatiscente, dove un ufficiale ci accolse con un accenno di sorriso.
Dietro di lui c’era una fotografia di un pezzo grosso, un militare
pluridecorato, probabilmente il presidente della Guinea. Mi sovvenne
nuovamente il racconto della segretaria del Console e pensai come
dovesse essere quel posto durante la dittatura, quando i soldati non
invitavano cortesemente le persone a entrare in un locale, ma le
spingevano con cieca violenza al suo interno e non si sapeva se ne
sarebbero mai uscite con le proprie gambe.
Ci chiese i passaporti e il carnet des passages. Tirava una brutta aria,
Marco ripeté le stesse cose dette pochi minuti prima, ma quell’uomo
sembrava irremovibile, senza carnet non avremmo potuto proseguire.
– Questo non ci vuole fare passare.
ANDREA – Forse vuole la mazzetta. Anzi, speriamo che sia così.
MARCO – Tu hai mai proposto una mazzetta? Io non sono mica pratico!
ANDREA – No, mai fatto. Però penso che sia meglio proporglielo in modo un po’
velato, poco diretto. Non vorrei mai che si offendesse!
Potresti chiedergli se si può avere qualche permesso di transito, magari pagando.
MARCO
270
Marco tradusse in francese la mia proposta di corruzione e l’ufficiale
ci fece cenno di attendere. Si alzò e andò in un ufficio limitrofo a
consultarsi con altri militari. Pensammo subito che stessero stabilendo
quanto denaro estorcerci. Dopo qualche minuto tornò e disse che ci
avrebbe rilasciato un permesso per andare sino a Conakry, poi una
volta là avremmo provveduto a regolarizzare la nostra posizione.
– Ma che proposta è? Cosa significa “Regolarizzare la posizione”?
E poi noi non dobbiamo andare a Conakry, facciamo un’altra strada!
MARCO – Secondo me non lo sa neanche lui, ma è meglio assecondarlo,
almeno ce ne andiamo. Tanto mi pare che qua chiunque faccia a modo suo,
non c’è una legge o la ignorano, tutti improvvisano.
ANDREA – Sicuramente. Ma quanto ci costa?
ANDREA
Marco chiese informazioni in merito e l’ufficiale gli disse che non
avremmo speso nulla. Sempre più strano, sicuramente non in linea
con quanto stava accadendo fuori. Tutti pagavano, noi no. Forse i
pezzi grossi dello Stato avevano vietato ai soldati di applicare
mazzette ai rari turisti, perché costituivano una risorsa economica in
crescita da qualche anno e questo non era di certo un aspetto
trascurabile per uno dei Paesi più poveri del mondo. Comunque
fosse, sembrò che la situazione volgesse al meglio. Un impiegato
compilò un modulo con una macchina da scrivere, lo timbrò, lo firmò
e ce lo consegnò. Ed eccoci pronti a ripartire con il nostro
lasciapassare; anche se non sapevamo se avrebbe funzionato a lungo,
era pur sempre un buon inizio. Ci sentivamo già arrivati a Koundara,
ma dopo numerosi tentativi, la moto continuava a non avviarsi.
– Qua c’è un problema, inutile negarselo.
Ogni volta è sempre peggio, non vuole saperne di partire.
MARCO – Ma no che parte! Devi solo cercare il giusto punto di compressione!
ANDREA – Ah ah! Sono belle parole, ma la tua moto non ne vuole più mezza!
ANDREA
Dopo qualche minuto di sudore e fatica, finalmente si accese. Stava
calando la sera e il cielo diventava sempre più minaccioso, si sentiva
271
anche qualche tuono. Eravamo esausti e affamati, ci fermammo sotto
una capanna disabitata a mangiare qualche provvista comprata a
Tambacounda e ripartimmo. Fortunatamente la pista era migliorata e
non facemmo troppa fatica a proseguire, così giungemmo finalmente
a Koundara con le ultime luci del crepuscolo.
Non sapevamo nulla di quel posto dimenticato, ma ci accorgemmo
subito che non c’era corrente elettrica, solo qualche candela
rischiarava l’oscurità più totale. Non capivamo nemmeno quale fosse
la direzione per raggiungere il centro, si intravedevano solo delle
capanne e delle baracche in compensato e lamiera, quando a un tratto
scorgemmo un’insegna di un hotel sulla sinistra e vi entrammo senza
indugiare. Venimmo accolti da un uomo con una candela in mano,
che ci mostrò un ambiente molto povero, con le pareti di mattoni
d’argilla e il tetto in lamiera. Ci venne assegnata una stanza illuminata
da qualche candela e arredata solo con due letti e una grande brocca
colma d’acqua, appoggiata sul pavimento di terra. In un angolo del
locale c’era una piccola porta, probabilmente l’ingresso del bagno.
– Non c’è che dire! Un mobilio sicuramente essenziale!
ANDREA – Il giusto comfort per due bikers venuti da lontano!
MARCO – Sono talmente stanco che non sarà certo un problema.
Quella brocca mi fa temere che non ci sia nemmeno l’acqua corrente.
ANDREA – Andiamo a vedere cosa c’è dietro quella porta.
MARCO – Andiamo, affrontiamo il nostro destino.
MARCO
I nostri sospetti erano fondati. Non si trattava di un vero e proprio
bagno, ma di una stanza angusta, pressoché buia e totalmente vuota,
in cui c’era solo un orifizio nel pavimento. Fortunatamente non
sentimmo odori nauseabondi, probabilmente un canale di scolo
faceva defluire i rifiuti organici da qualche parte. Avremmo fatto
quindi i nostri bisogni in quel buco scuro, dove sarebbe poi finita
anche l’acqua della brocca con cui ci saremmo lavati.
Sicuramente un ambiente squallido, ma eravamo entusiasti di essere lì,
non avremmo potuto chiedere di meglio. Quel luogo remoto della
foresta emanava il tanto amato fascino del precario e dell’avventura.
272
– Che posto magnifico! Ne è valsa la pena. Ti rendi conto dove siamo?
– È sicuramente il luogo più remoto che abbiamo mai visitato.
Non c’è acqua, non c’è luce, non c’è asfalto, ma solo centinaia di chilometri di
foresta in ogni direzione. In poche parole, siamo tagliati fuori dal mondo civile.
ANDREA – È bello essere qui.
Domattina facciamo un giretto e vediamo com’è fatta la città.
MARCO – Città? Mi sa che ci sono solo capanne.
ANDREA – Già, una città di capanne. Siamo proprio nell’Africa nera!
MARCO – Più nera di così! Non vediamo un bianco da Saint Louis.
ANDREA – Tra l’altro il nord della Guinea è proprio la parte più arretrata del
Paese. A sud c’è il mare, la capitale, i commerci e le strade asfaltate,
qua invece niente, solo contadini, montagne e piste.
MARCO – E domani si va a Labè!
ANDREA – Certamente! È da quando siamo partiti che ci penso!
Il racconto di Riccardo mi ha infuocato di brutto!
MARCO – Domattina a colazione ne parliamo.
Adesso sono a pezzi, voglio dormire.
ANDREA – Anch’io. Tanto abbiamo già cenato!
MARCO – Capirai che cena! A bordo strada, in mezzo all’erba bagnata,
con una capanna fatiscente che ci offriva una parvenza di riparo,
due ciambelle e qualche biscotto!
ANDREA – Roba da viandanti! Anzi, roba da bikers!
ANDREA
MARCO
Era stata una giornata infinita e non ci pareva vero di esser arrivati
sino a lì, contro ogni previsione. Spegnemmo le candele e ci
addormentammo, ma dopo mezzora venimmo svegliati da poderosi
tuoni e da una violenta pioggia che batteva sul tetto in lamiera.
L’indomani avremmo dovuto affrontare una lunga pista di
duecentocinquanta chilometri e quel diluvio non era certo di buon
auspicio. Ci riaddormentammo quasi subito, esausti ma felici.
273
274
LABÈ
Venni svegliato da alcune voci che provenivano dall’esterno, guardai
l’orologio ed erano le otto. Non sentivo più rumore di pioggia e la
cosa mi rassicurò non poco. Marco non dava segni di vita, eravamo a
letto da almeno nove ore, ma avevamo così tanta stanchezza arretrata
da smaltire che la notte non sembrava mai bastare.
– Sveglia, amico! Siamo finalmente a Koundara! Su! Gioisci con me!
– Mmm! Mrrr! Grrr!
ANDREA – Dai, smettila di borbottare cose incomprensibili!
Oggi ci aspettano paesaggi grandiosi!
MARCO – Che tempo c’è?
ANDREA – Non so, ma la pioggia sul tetto non si sente, è un buon inizio.
ANDREA
MARCO
In breve tempo uscimmo nel piccolo cortile all’esterno dell’hotel, un
luogo molto squallido pieno di pozzanghere, recintato da lamiere alte
un paio di metri che impedivano ogni visuale. Non c’erano né tavoli
né sedie e venimmo invitati da un inserviente a sederci su due casse di
plastica. Poi prese due bidoni e vi appoggiò sopra un asse di legno,
ottenendo così una base sulla quale avremmo fatto colazione. Non
pioveva, ma il cielo coperto non lasciava presagire nulla di buono.
– Grazioso questo posticino!
ANDREA – Ah ah! Che orrore! Ma perché avranno messo una lamiera così alta?
Sarebbe stato bello vedere un po’ di passeggio.
MARCO – Ameranno molto la propria privacy!
ANDREA – Ho una gran fame. Ieri sera non abbiamo nemmeno cenato,
siamo a digiuno dalla merenda oltre confine.
MARCO – Adesso ci rifaremo. Guarda, arriva il tipo. Pancia mia, fatti capanna!
CAMERIERE – Buongiorno signori, cosa volete per colazione?
MARCO – Prendiamo due Nescafè.
CAMERIERE – Bene, ve li preparo subito. E da mangiare invece cosa volete?
Va bene se vi porto delle fette di pane?
ANDREA – Sì, va bene. Tante fette di pane con del burro e della marmellata.
MARCO
275
– Mi spiace, non c’è la marmellata, abbiamo solo la margarina.
– Pane e margarina?
CAMERIERE – Sì.
ANDREA – Hai qualcos’altro?
CAMERIERE – No, mi spiace, questa mattina abbiamo solo questo.
CAMERIERE
ANDREA
Non capimmo perché ci avesse chiesto cosa volessimo mangiare
quando non esistevano alternative al pane e alla margarina, comunque
non potemmo fare altro che accettare per sfamarci in qualche modo.
– Una colazione essenziale, calorie allo stato puro.
ANDREA – Forse era meglio mangiare solo il pane, la margarina è un pacco!
MARCO – Mi sa che da queste parti ci sia poca scelta.
Del resto, ti faccio presente che non ci sono strade. I rifornimenti arriveranno da
sud, ma anche lì sono centinaia di chilometri di pista.
ANDREA – Che brutta dieta! Vabbè, nell’attesa guardiamo la strada di oggi.
MARCO
Eravamo a un punto importante del viaggio, stavamo per addentrarci
nell’altopiano del Fouta Djalon, decantato mirabilmente da Riccardo
come il posto più bello che avesse mai visto in vita sua. Sapevamo che
ci aspettava una regione ammantata di vegetazione, con grandi
frutteti, fattorie e mandrie di animali lasciati liberi a pascolare. Ci
saremmo trovati di fronte a un panorama bucolico, con ampie vedute
su dolci colline e catene montuose alte sino a mille metri. Tra l’altro,
nella stagione delle piogge il verde esplodeva rigoglioso in ogni dove;
doveva essere proprio fantastico e non vedevamo l’ora di ripartire.
– Finalmente vediamo il Fouta Djalon!
ANDREA – Sì, finalmente! E dire che ieri sembrava che dovessimo rinunciare!
MARCO – Non potevamo rinunciare!
ANDREA – La carta dice che è un continuo saliscendi sino a Labé,
tutta pista per duecentocinquanta chilometri.
MARCO – Bello, ma speriamo che non sia come ieri, una distanza così con la pista
allagata la vedo dura. C’è da impiegarci almeno due giorni, salvo imprevisti!
MARCO
276
– Mah! Spererei di farcela in qualche ora, invece! Lo scopriremo presto.
Poi a Labè ritroveremo l’amato asfalto, lì inizia la parte civile della Guinea.
ANDREA
Arrivò il cameriere col pane, un vasetto di margarina e i due Nescafé.
Mangiammo senza troppo entusiasmo ma eravamo veramente
affamati e non lasciammo nulla. La pista molto lunga che avevamo
pensato di percorrere avrebbe richiesto tanto tempo, così pagammo il
conto, caricammo i bagagli e ce ne andammo.
Ma dopo avere fatto benzina decidemmo comunque di parcheggiare
la moto per dedicarci a una breve visita della città. Con la luce si
presentava ancora peggio di quanto avessimo intuito la sera
precedente. Non c’era una piazza, un luogo di aggregazione o qualche
edificio particolare, ma solo un’accozzaglia di capanne e baracche in
legno e lamiera, sempre uguali, sempre sporche. Passeggiammo un
po’ per le vie e ovunque si respirava un’estrema povertà, la gente era
tutta molto magra e indossava abiti logori. Non vedemmo anziani in
giro, le dure condizioni esistenziali impedivano a quel popolo di
invecchiare. L’aspettativa di vita era infatti estremamente limitata,
addirittura intorno ai trentacinque anni. Raggiungemmo un’ampia
area fangosa, nella quale sorgeva un mercato. Alcuni commercianti
avevano allestito bancarelle artigianali con rami intrecciati, ma i più
esponevano la mercanzia su un telo colorato, appoggiato sul terreno
umido. Si vendeva ogni cosa, era un’incredibile varietà di colori,
intensi e accesi come il verde circostante. Tante persone ci
guardavano e sorridevano in modo cortese e ospitale, alcune ci fecero
anche gesti di benvenuto con la mano.
Erano ormai le dieci e decidemmo quindi di andarcene, il viaggio sino
a Labè si preannunciava lungo e molto difficile e non potevamo
temporeggiare oltre. Uscimmo dalla città e la strada cominciò presto a
salire sull’altopiano. La pista era di terra rossa, abbastanza dritta e
larga, costellata da infinite pozzanghere che evitavo con continui
slalom. Una vera e propria esplosione di verde ci avvolse, esistevano
tutte le tonalità possibili, dalle chiare distese erbose che luccicavano
per la pioggia appena caduta alle scure macchie di vegetazione sulle
colline, vestite di alberi di varie forme e dimensioni. In seguito
277
vedemmo spesso grandi mandrie di mucche, tori, e bufali che
pascolavano ovunque, anche sulla pista, e mi costringevano a guidare
a passo d’uomo. Sperammo che a nessuno di loro venisse in mente di
incornarci, ma era un timore infondato, ogni volta ci guardavano in
modo inespressivo e si spostavano lentamente per lasciarci passare.
Talvolta incontravamo dei contadini e sempre ci salutavano con ampi
gesti; tutto era quieto, uomini, animali e natura erano fusi alla
perfezione in un’armonia che non conoscevamo. Solo raramente
superavamo qualche fatiscente automobile, perlopiù taxi con almeno
sette persone a bordo, stracolmi di bagagli sul portapacchi, che
sembravano dovessero schiantarsi al suolo sotto l’enorme peso che
trasportavano. In molti luoghi poveri sono diffusi questi mezzi di
trasporto. Noncurante di eventuali limiti di omologazione e sicurezza,
il proprietario carica tutte le persone che riesce e queste dividono il
costo della corsa; decisamente un buon modo per spostarsi in
economia. Proseguendo venimmo salutati da una ragazza avvolta in
un pareo rosso, con un grande seno scoperto; aveva in braccio una
piccola creatura di pochi mesi e al suo fianco c’era una bambina di
non più di cinque anni. Si trovavano a pochi metri da noi e stavano
lavando dei vestiti in una grande pozzanghera fangosa. La pista era
sempre uguale eppure sempre diversa e continuava a inerpicarsi
interminabile sulla montagna. La vita rurale continuava a scorrerci
innanzi come in un film, con le sue infinite sfumature.
Dopo un paio d’ore ci trovammo di fronte a una sbarra, segno che
stavamo lasciando un Comune per entrare in un altro. Tante persone
erano in attesa di chissà cosa e qualche ambulante vendeva cibo ai
passanti. Un soldato ci sorrise e fece cenno di accostare, guardò
distrattamente i nostri passaporti e disse che potevamo proseguire.
Fortunatamente non ci parlò di carnet. Anche se possedere il
lasciapassare sino a Conakry ci infondeva un po’ di sicurezza, la
nostra era pur sempre una condizione precaria, lo sapevamo bene, e
quella parola preannunciava sempre problemi da risolvere.
– Meno male che è andata liscia. A questo il carnet non interessava.
MARCO – Forse non sa nemmeno cos’è. Ormai si sa come vanno queste cose, no?
ANDREA
278
– Beata ignoranza! Speriamo che non lo sappiano nemmeno i suoi
colleghi che incontreremo da qui ad Abidjan!
Hai visto che storia il Fouta Djalon?
MARCO – Qualcuno deve esser venuto qui con una tavolozza e deve avere
spruzzato del verde ovunque.
Sembra l’opera di un artista, mai visti dei colori così accesi.
ANDREA – Riccardo aveva ragione, è un posto grandioso. A tratti sembra la
Svizzera, ma le capanne e le donne seminude ti fanno capire che non è così!
MARCO – Ma che posto è questo?
ANDREA – C’e scritto Kifaja, fammi vedere sulla carta.
ANDREA
Era un paese a circa cinquanta chilometri da Koundara e avevamo
impiegato due ore per raggiungerlo, chiaro segno che arrivare a Labè
con la luce sarebbe stata un’impresa ardua.
Ripartimmo verso sud, il paesaggio era sempre fantastico e la pista
praticabile, anche se con fatica. Procedemmo in silenzio, le mandrie
sempre più numerose mi costringevano a continui rallentamenti.
Dopo circa un’ora avevamo una gran fame, così ci fermammo in un
piccolo villaggio lungo la strada, popolato da tantissimi bambini e da
qualche adulto. Continuavano a non esserci anziani, ormai era certo
che la gente in Guinea morisse presto. Doveva essersi sparsa la voce
del nostro arrivo, perché dalle capanne uscivano sempre più persone,
stupite dalla nostra presenza nella loro terra. Eravamo pacificamente
circondati, alcuni bambini risero e noi ricambiammo, poi, imbarazzati,
cercarono protezione tra le pieghe delle gonne delle loro madri. I loro
vestiti molto colorati ricordavano lo stile già visto in Mauritania.
Infatti anche in Guinea gli accostamenti erano improbabili, tutti
indossavano abiti ricavati da vestiti dismessi di provenienza europea.
Alcuni adulti ci dissero che eravamo i benvenuti in Guinea, noi
ringraziammo e decantammo la bellezza della loro terra. Chiedemmo
se fosse possibile mangiare qualcosa, così venimmo accompagnati
sotto una veranda di rami e fatti sedere su una panca di legno molto
bassa, davanti alla quale stava un piccolo tavolo. Ci venne portato un
brodo di pollo decisamente poco nutriente, ma quella gente non
aveva nulla e non avremmo potuto chiedere altro. Pagammo il conto
279
e ripartimmo verso Labé. La pista peggiorò in modo drastico, le
pozzanghere diventarono sempre più grandi e frequenti, sino a
quando fui costretto a fermarmi. Un vero lago di fango occupava
tutta la strada, era lungo almeno una decina di metri. L’acqua aveva
sommerso anche la pianura erbosa circostante e non era quindi
pensabile fare una deviazione fuori dal percorso.
– E adesso? Questo come lo affrontiamo? Ci servirebbe una zattera!
MARCO – Beh, come al solito. Io scendo e tu lo aggiri, passi in mezzo all’erba.
ANDREA – Qua è ancora peggio di ieri, non si passa da nessuna parte.
MARCO – L’unica è provare a passare sul bordo di fango,
tra il lago e l’erba allagata. Mi sembra l’unica, no? Io ti raggiungo a piedi.
ANDREA – Mah! E se scivolo?
MARCO – Non devi farlo! Tiriamo giù un po’ di bagaglio, così ti muovi meglio.
ANDREA
Sembrava non esserci altra soluzione, così alleggerimmo la moto e mi
accinsi a superare l’ostacolo. Le ruote sprofondarono nel fango fino al
mozzo e fui così costretto ad aprire il gas per uscire dalla melma
prima che fosse troppo tardi. Alzai due muri d’acqua laterali e
sembrava che non riuscissi più ad andare avanti, ma infine il poderoso
motore riuscì a togliere le ruote dal pantano e schizzai letteralmente
fuori dalla pozzanghera. Mi ero bagnato per bene, ma ce l’avevo fatta.
Vidi Marco che mi stava raggiungendo e rideva.
– Ah ah! Come va?
– Sono fradicio dalla vita in giù, del resto era da dire!
MARCO – Rimanere asciutti da queste parti è dura. Ti asciugherai col vento!
ANDREA – Ne dubito. Hai visto il cielo? È sempre più scuro.
MARCO – Già. E c’è anche qualche tuono. Che pacco!
ANDREA – Che facciamo? Ci mettiamo le tute antipioggia o andiamo avanti?
MARCO – Andiamo avanti, magari sfoga da un’altra parte.
ANDREA – Il tuo ottimismo è superiore solo al mio! Vabbè, andiamo pure.
MARCO
ANDREA
I tuoni aumentavano sempre più, le nuvole scure correvano veloci e
tirava anche un po’ di vento. Era inevitabile, a breve ci saremmo
280
trovati sotto un acquazzone. Un taxi ci superò a forte velocità. Era
una vecchia Renault station wagon, colorata di azzurro e giallo, con
diversi metri cubi di bagagli sul portapacchi e un numero imprecisato
di passeggeri. Si infilò in una pozzanghera, alzò un muro d’acqua e
fece grandi sobbalzi, poi scomparve dietro a una curva.
Dopo qualche chilometro di saliscendi, la strada si inerpicò decisa su
una montagna e vedemmo le prime gocce stamparsi sulle visiere dei
caschi. Ci fermammo per indossare i vestiti impermeabili e riparare
l’enorme bagaglio. Eravamo attrezzati in modo spartano ma efficace.
– Ci siamo, la stagione delle piogge ci dà il benvenuto!
MARCO – Era da dire, prima o poi doveva accadere.
ANDREA – Speriamo non sia un nubifragio! Con tutto ‘sto fango non sarà facile.
MARCO – Tu vai piano che non ti sbagli.
ANDREA – Dammi una mano a coprire i bagagli.
ANDREA
Avevamo con noi dei grandi sacchi neri per la spazzatura. Ne
aprimmo un paio e ottenemmo così delle ampie coperte impermeabili
che fissammo con degli elastici sul carico. Indossammo poi il nostro
abbigliamento antipioggia in plastica: giacca, pantaloni e copriscarpe.
Eravamo pronti a sfidare il diluvio imminente.
Le poche e sporadiche gocce aumentarono sempre più e i tuoni si
fecero sempre più minacciosi. La strada stava rapidamente allagandosi
e il fango era sempre più viscido. Arrivammo in cima alla montagna,
non c’erano più molti alberi a proteggerci ma solo grandi prati. In
pochi minuti la pioggia diventò veramente battente e dovetti
procedere a passo d’uomo, non solo per le condizioni della pista, ma
anche per la scarsa visibilità. Iniziò poi una discesa e fui costretto a
rallentare ancora per non scivolare. Entrammo in un fitto sottobosco
che ci riparò sì dal temporale, ma che fece anche calare di molto la
luminosità e si vedeva ben poco. La pista si trasformò in uno stretto
sentiero tortuoso, che presto si riempì di acqua e assunse sempre più
l’aspetto di un torrente dal fondo scivoloso. Scendemmo a lungo con
estrema cautela, ero totalmente concentrato, le condizioni estreme di
guida non mi permettevano distrazioni. Continuammo così per
281
almeno mezzora, poi il sentiero si allargò, gli alberi si diradarono e
finalmente la discesa terminò. Il percorso era interrotto da un grande
fiume e ricominciava sull’altra sponda. Una zattera di metallo stava
venendo verso di noi, era fissata a una fune d’acciaio e faceva la spola
fra le due rive. In quel momento trasportava un taxi e alcune persone.
– Sono provato, è freddo e ho le braccia indolenzite per lo sforzo.
MARCO – Ci credo, sono condizioni improponibili!
Guarda le gocce di pioggia nel fiume, viene giù di brutto.
ANDREA – Nel sottobosco sembrava quasi che avesse smesso, invece niente!
MARCO – Pazienza, oggi va così, è una giornata umida. Che bella quella zattera!
ANDREA – Bella sì, ma mi preoccupa. Spero di non cadere. Hai visto quelle
rampe di metallo per salire? Sono sicuramente scivolose e belle pendenti.
Per non parlare della salita fangosa sull’altra sponda.
MARCO – Beh, come al solito te la farai da solo. Tanto ormai sei abituato!
ANDREA
Fu un momento magico. Eravamo in piena Africa nera, in mezzo alla
foresta nella stagione delle piogge, con quella moto che sembrava
veramente volerci portare a destinazione contro ogni previsione.
L’idea dell’Italia e dei suoi agi, della mia vita ordinaria e delle mie
abitudini mi appariva una realtà molto lontana, nello spazio ma anche
nel tempo. Avevamo lasciato casa da una ventina di giorni, ma mi
sembrava che fossero trascorsi mesi interi.
La zattera arrivò e si svuotò rapidamente, noi eravamo gli unici a
traghettare dall’altra parte e due ragazzi ci assisterono nella manovra.
Marco salì a piedi senza difficoltà, io avrei dovuto invece fare una
manovra pericolosa per riuscire a non cadere sulla rampa di metallo
scivoloso. Mi mossi molto lentamente, stando attento a rimanere più
dritto possibile, e riuscii così a superare l’ostacolo. In un paio di
minuti arrivammo dall’altra parte e ripartimmo.
Il brodo di pollo non ci aveva certo sfamati, così ci fermammo in un
villaggio simile al precedente, sorto proprio a ridosso del fiume, dove
trovammo due belle baguette molto grandi e finalmente ci saziammo.
Tanti bambini scalzi si avvicendavano intorno a noi e curiosavano
con i loro grandi occhi scuri e carichi di stupore. Ogni abitante ci
282
salutò, erano tutte persone splendide nella loro immensa cortesia. Nel
frattempo aveva anche smesso di piovere, ma eravamo abbastanza in
alto e faceva comunque freddo. Tenemmo così indosso le tute
antipioggia e proseguimmo imperterriti verso sud. La pista cambiò e
ci trovammo su un ampio saliscendi delimitato da file di grandi alberi
con le folte chiome che ci sovrastavano, sembrava di essere in una
galleria, quasi non si vedeva il cielo. Inoltre il fondo era quasi asciutto.
– Qua la pista è diventata una bazza!
Tutte quelle foglie hanno riparato la strada dalla pioggia e si va che è un piacere.
MARCO – Vedrai che durerà poco, non ti esaltare.
ANDREA – Speriamo invece che continui così per un bel po’!
Mi sa che siamo a metà strada, se riusciamo a mantenere questa velocità
arriviamo a Labé a un orario decoroso.
MARCO – Attento, l’Africa non regala nulla!
ANDREA – Non è vero, questo è un grosso dono, niente acqua e fondo asciutto.
ANDREA
Il saliscendi continuò a lungo, poi gli alberi si diradarono e
improvvisamente mi trovai di fronte a un lungo rettilineo in discesa
pieno di fango. Uscivo da un tratto di strada molto scorrevole e stavo
guidando un po’ veloce, ma non potei frenare per non cadere, così mi
limitai a scalare una marcia. Poi alcuni alberi mi chiusero la visuale e
mi trovai in un attimo davanti a una curva. Era troppo tardi per
impostare la giusta traiettoria e finimmo improvvisamente a terra con
un tonfo, strisciando per alcuni metri sul terreno viscido.
– L’Africa non regala nulla!
ANDREA – Già, me ne sono accorto.
MARCO – Tutto a posto?
ANDREA – Sì, solo una gran botta, ma il fango è morbido!
MARCO – E la moto?
ANDREA – Mah! Sembra che stavolta siamo stati fortunati. È infangata da fare
schifo, ma pare che sia tutto a posto. Non si è nemmeno staccato il bagaglio.
MARCO – Che culo! Una gran botta e nessun danno. Non dobbiamo nemmeno
perdere tempo a rimontare il bagaglio. Possiamo ripartire come nulla fosse!
MARCO
283
L’Africa non regala nulla. Non so se si trattasse di un’invenzione di
Marco o si fosse limitato a riportare qualche frase celebre, ma diceva
una grande verità. Era una terra meravigliosa ma ostile, non faceva
regali di nessun tipo. Ogni volta che ci sembrava che le cose fossero
migliorate, ecco che nasceva qualche nuovo problema. Avremmo
dovuto conquistare il nostro obiettivo metro dopo metro, senza
potere allentare mai la concentrazione.
Ormai era buio e non sapevamo dove fossimo. Talvolta incrociavamo
qualche villaggio, ma non sembrava esserci traccia di un alloggio. Non
ci piaceva girare di notte, tantomeno su un terreno del genere, ma non
si poteva fare altrimenti e procedevamo per inerzia. Anche se il fondo
era sempre meno ostile, guidavo molto piano per limitare al massimo
i rischi già considerevoli. Inoltre non avevamo certo problemi di orari,
il sole era già tramontato e non ci cambiava nulla.
Stavamo procedendo nell’oscurità più totale, quando incontrammo
una grande sbarra che bloccava la pista. Era un posto di blocco
dell’esercito, molto più grande di quelli visti il giorno prima. Un
soldato ci fece passare e accostare. C’erano militari ovunque con fucili
a tracolla e si aggiravano inquietanti veicoli dotati di mitragliatrice.
Non capimmo cosa potesse giustificare un tale spiegamento di forze
in una zona agricola come quella. Venimmo scortati all’interno di una
piccola roulotte illuminata da una lampadina penzolante, dove stava
un uomo enorme che aveva l’aria di essere un ufficiale. Fuori dal
veicolo rimasero di guardia due soldati armati. Ci fece sedere su due
piccoli sgabelli malfermi, ci guardò e cominciò a farci delle domande.
– Buonasera signori, da dove venite?
MARCO – Siamo italiani. Lei è un ufficiale, vero?
UFFICIALE – Sì, sono il capo in questo posto. Voi cosa fate in Guinea?
MARCO – Siamo turisti di passaggio, stiamo andando in Costa d’Avorio.
UFFICIALE
Nel corso dei viaggi passati avevamo capito sempre più come
comportarci con i militari dei Paesi sottosviluppati. Avevano bisogno
di sentirsi importanti e cercavano questo riconoscimento dalla gente
comune, così era necessario dimostrarsi sottomessi e lusingarli il più
284
possibile. In questo modo si riusciva a entrare nelle loro grazie. Il
fatto che Marco lo avesse riconosciuto come ufficiale indicava che si
era reso conto a prima vista della sua estrema importanza e questo lo
riempì di orgoglio. Pensai subito che fosse un po’ stupido. Cosa mai
avrebbero potuto fare due tipi come noi su una moto se non del
turismo? Infangati come eravamo, non avevamo certo l’aspetto di due
uomini d’affari. Lo strano interrogatorio non accennava a finire.
– Avete fatto le vaccinazioni obbligatorie?
– Sì, quella contro la febbre gialla. Comunque ecco i documenti medici.
UFFICIALE
MARCO
Marco mostrò a quell’uomo le tessere sanitarie internazionali, sulle
quali erano registrate le vaccinazioni effettuate. Le guardò con finto
interesse, non era ancora soddisfatto e continuò con le domande.
– Non vi siete vaccinati contro il colera. È obbligatorio.
MARCO – No, non esiste un farmaco per prevenire il colera. Il vaccino coprirebbe
solo il 50% dei rischi, quindi non è stato nemmeno messo in commercio.
UFFICIALE
In quel periodo non esisteva effettivamente una vaccinazione efficace
contro quella malattia e il mio amico stava dicendo il vero. Per
apparire persone di un certo spessore, spesso i militari frustrati si
inventavano delle cose assurde per dimostrare competenza. Era un
metodo sicuramente efficace con gli ignoranti con cui avevano a che
fare quasi sempre, ma non poteva funzionare con noi, abituati da anni
a fronteggiare richieste assurde. Marco ostentò quindi una cortese
sicurezza e tutto si risolse in un nulla di fatto.
UFFICIALE
– Va bene, non c’è problema. Mi mostri i passaporti per favore.
Ci disse che era tutto a posto e che avremmo potuto proseguire. Non
fece il minimo riferimento ai documenti della moto ed evitammo così
altre lunghe discussioni. Continuammo quindi a seguire la pista verso
Labè. Erano ormai le dieci, avevamo fame e freddo ma avanzavamo
imperterriti. Incontrammo un altro posto di blocco, non ne potevamo
285
più. Si ripeté il solito rituale, ci venne fatto cenno di accostare e
fummo così condotti da due militari in un edificio in cemento. Al suo
interno c’era una grande porta di legno, i soldati bussarono e una voce
ci disse di entrare, mentre loro si misero sull’attenti di fianco all’uscita.
Ad attenderci in piedi c’era un altro pezzo grosso pluridecorato, che
minacciava di farci perdere ancora molto tempo.
– Buonasera.
MARCO – Buonasera.
UFFICIALE – Dove state andando?
MARCO – Andiamo a Labè, siamo partiti stamattina da Koundara.
UFFICIALE – Ah, Koundara.
UFFICIALE
Era un altro idiota, non c’erano dubbi. La pista conduceva a Labè,
non c’erano alternative. Dove saremmo mai potuti andare? Il dialogo
non aveva alcun senso e non capivamo cosa volesse da noi. Poi
smascherò il suo misero gioco: anche lui era in cerca di gratificazioni.
UFFICIALE
– Io sono il capo qui, decido tutto io.
E nel dire questo alzò molto il tono di voce, a marcare il suo potere.
– Si vede che Lei è un capo, i soldati la guardano con rispetto.
UFFICIALE – Sì, se io decido che loro devono stare qua, loro stanno qua!
MARCO – Certo, loro devono obbedire ai suoi ordini.
UFFICIALE – Sì.
MARCO – Vuole vedere i nostri passaporti?
UFFICIALE – No, andate pure. Buon viaggio in Guinea.
MARCO – Grazie.
MARCO
Era veramente un uomo squallido, molto insicuro di sé, al punto tale
da cercare consenso da due motociclisti di passaggio. L’ufficiale
sorrise, era certo che avessimo compreso la sua importanza, così non
aveva senso che ci fermassimo ancora. Fece un brusco cenno ai due
soldati, che prontamente aprirono la porta e ci riportarono alla moto.
286
Ripartimmo così l’ennesima volta, speravamo fosse l’ultima sosta, non
ne potevamo più e sognavamo un ristorante e una doccia. Dopo oltre
dodici ore in sella i riflessi mi si erano allentati non poco, quindi
guidavo piano e chiacchieravo con Marco, mentre l’infinita pista
scorreva sotto di noi e la luce gialla del faro penetrava la notte.
– Ma quanto era sfigato il capo di prima?
MARCO – Tanto! Mi sa che in questi Paesi essere militari significhi veramente
avere tanto potere e volare molto in alto.
ANDREA – Cazzo, hai visto che arroganza e che boria? Non aveva decoro.
MARCO – Pensa cosa dovevano essere questi posti quando c’era la dittatura.
Sai quante torture, quante umiliazioni, quanti abusi!
ANDREA – Poveri civili, quante devono averne passate!
Terrorizzati dagli uomini in divisa, gradassi, boriosi, superbi. Che orrore.
MARCO – Qua non c’è la Polizia, solo del gran esercito.
ANDREA – Troppi militari. Ma poi oggi a cosa servono? Forse il presidente della
Guinea non si sente al sicuro, qualcuno vuole fargli la pelle e prendere il suo posto.
MARCO – Può essere. Nell’Africa centrale i colpi di Stato e i massacri sono
all’ordine del giorno, esplodono quando meno te lo aspetti.
ANDREA – Speriamo che non ci sia un golpe proprio adesso. Pensa che sfiga!
ANDREA
Tra una chiacchiera e l’altra si era fatta quasi mezzanotte e ci
trovavamo in mezzo alle tenebre. Eravamo partiti da Koundara
quattordici ore prima e non sapevamo dove fossimo, ma poco dopo
la strada cominciò a fare qualche curva e improvvisamente apparvero
delle luci. Sotto di noi la terra battuta lasciò il posto all’asfalto,
eravamo giunti a Labè. Ce l’avevamo fatta.
– Yuhuu! Ci siamo! Duecentocinquanta chilometri di pista in più di
quattordici ore. Che tempi biblici!
MARCO – Cerchiamo subito un hotel, non ci sto più dentro.
ANDREA – Speriamo di trovarlo, è già mezzanotte.
ANDREA
Non sapevamo nulla di quella città, ma si presentò subito più evoluta
di Koundara, con una discreta illuminazione, poche capanne e molti
287
edifici di cemento. Proseguendo per la strada trovammo un’insegna
luminosa che indicava un hotel, sembrava anche di qualità. Ci venne
incontro una ragazza alta, vestita molto elegante, che ci fece entrare
nella hall. Era pulita, ben arredata con mobili in legno pregiato e un
bel tappeto sul pavimento piastrellato, niente a che fare con la
sistemazione della notte prima. Le chiedemmo se fosse troppo tardi
per mangiare, lei rispose che la cucina era già chiusa ma che ci
avrebbe accontentati ugualmente. Andò a chiamare delle persone che
si misero prontamente ai fornelli. Mangiammo carni alla griglia e
patate al forno e bevemmo due birre grandi. Ci sembrò di rinascere.
Ringraziammo e ci ritirammo nella stanza assegnata, anch’essa pulita,
ma non certo elegante come la hall. Aveva pareti intonacate di un
giallo pallido, due letti singoli abbastanza piccoli, un armadio di legno
di scarsa qualità e un pavimento interamente coperto da un brutto
tappeto. Facemmo una lunga doccia calda, poi facemmo il punto della
situazione. Stendemmo infatti a terra la carta dell’Africa occidentale e
tracciammo con un pennarello l’itinerario percorso sino a Labè.
– Che meraviglia! È veramente grande l’Africa.
ANDREA – Anche noi! Siamo quasi ad Abidjan!
MARCO – Beh, quasi! Manca ancora un sacco di strada.
ANDREA – Sì, ma dovrebbe essere tutto asfalto. E poi dopo oggi cosa temi?
MARCO – Ah ah! Nulla! È stato veramente un gran culo!
ANDREA – Già. E abbiamo patito la fame e il freddo e le vessazioni dei militari!
MARCO – Ah ah! Io sono il capo qui! Ah ah!
ANDREA – Se io dico che devono stare lì, loro stanno lì! Ah ah! Che sfigato!
Domani invece giornata di tutto riposo, solo centocinquanta chilometri di asfalto
sino a Mamou, così consegniamo la lettera della segretaria del Console ai suoi
parenti. Se ci va di lusso ci ospitano anche!
MARCO – Saranno due ore di viaggio, non sono mica abituato a ritmi così blandi.
ANDREA – Così domattina dormiamo a oltranza e recuperiamo un po’ di forze.
ANDREA
Eravamo entusiasti di essere arrivati sino a lì, di avere superato piste
impraticabili e di avere raggiunto finalmente l’asfalto. Eravamo fieri di
noi. Ci appoggiammo sui letti e cademmo quasi svenuti, senza forze.
288
MAMOU
Eravamo andati a dormire veramente tardi. Escludendo la tappa
notturna nell’autostrada spagnola, non ci era mai capitato dall’inizio
del viaggio di fare le ore piccole. Amavamo molto la vita mondana,
non si contano le volte in cui in Europa avevamo fatto bisboccia sino
all’alba, la notte era una dimensione magica che amavamo
profondamente vivere. Ma un viaggio del genere prevedeva di
percorrere migliaia di chilometri in condizioni ardue ed era pertanto
necessario sfruttare appieno la luce del sole. Inoltre non eravamo stati
certo in località rinomate per la loro vita notturna, pertanto avevamo
regolato i nostri orologi biologici su orari diurni per vivere nel
migliore dei modi la nostra avventura.
Il giorno precedente era stato eccezionale sotto ogni punto di vista.
Avevamo attraversato un territorio meraviglioso, conosciuto la
pioggia tropicale e raggiunto la civiltà, lasciando il primitivo nord della
Guinea alle nostre spalle; ci trovavamo così in una città relativamente
evoluta, con strade, acqua corrente ed energia elettrica. Ci attendeva
quindi una tappa molto breve sino a Mamou. Avremmo avuto tutto il
tempo di fare altra strada e raggiungere luoghi più lontani, ma un
giorno di riposo non sarebbe certo stato tempo sprecato. Ci saremmo
ricaricati per bene dopo le privazioni dei giorni precedenti e avremmo
trovato nuove energie per vivere al meglio le ultime tappe della nostra
impresa sino a giungere al Golfo di Guinea, dove sorge Abidjan, la
grande metropoli dell’Africa occidentale, il capolinea del nostro
magnifico viaggio. Non avevamo pertanto puntato nessuna sveglia e
ci svegliammo spontaneamente solo verso mezzogiorno.
– Che bella dormita!
ANDREA – Già, ci voleva proprio! Non mi pare vero di potercela prendere in
polleggio. Abbiamo la giornata libera!
MARCO – Non ci capitava da un bel po’!
ANDREA – Adesso usciamo e andiamo a piedi a vedere la città, mangiamo
qualcosa in giro e partiamo per Mamou, così arriviamo per l’ora dell’aperitivo!
MARCO – Ah ah! Andremo in qualche capanna esclusiva a mangiare i salatini.
MARCO
289
– Vediamo però di essere a casa dei nostri amici a un orario decente,
così saranno contenti di avere notizie della loro parente, talmente felici che non
potranno non invitarci a cena e poi a dormire!
MARCO – Ah ah! Non sapevo che avessi degli amici a Mamou!
ANDREA – Non lo sanno neanche loro, ma si fa presto a fare balotta.
Due motociclisti grandi e grossi che portano una lettera da Milano di una parente
ormai perduta… Vedrai che ci vorranno subito bene!
MARCO – Ma ti ha scritto l’indirizzo o dobbiamo chiedere in giro?
ANDREA – No, no, abbiamo l’indirizzo.
Deve essere una città civile, ci sono addirittura le vie e i numeri civici.
MARCO – Ah ah! Incredibile, non sono mica più abituato a queste cose!
ANDREA – Vabbè, dai. Lasciamo le borse in reception e andiamo a fare un giro.
ANDREA
A breve ci trovammo a passeggiare per le strade di quella città di cui
in Italia ignoravamo persino l’esistenza, ma con tutta la fatica spesa
per raggiungerla si era inserita a pieno titolo fra i luoghi mitici delle
nostre esperienze ormai decennali in giro per il mondo.
Si tratta della principale località dell’intera regione del Fouta Djalon,
ma in quel periodo non vedemmo assolutamente nulla che la rendesse
peculiare. Niente palazzi di rilievo, piazze o monumenti di nessun
genere, solo una serie di case più o meno brutte sorte qua e là senza
nessun preciso piano urbanistico. Avevamo letto che c’era una sola
banca in cui non sarebbe stato però facile cambiare i franchi francesi
rimasti, ma avevamo ancora abbastanza franchi CFA per non porci il
problema, ci avremmo pensato in seguito. In giro si vedeva la solita
gente. La popolazione dell’Africa nera ci sembrava tutta uguale, con
gli stessi abiti, lo stesso modo di parlare a voce alta e una sviluppata e
pittoresca gestualità che accompagnava i discorsi.
Le altre persone che erano state in quelle zone prima di noi ci
avevano parlato invece di profonde differenze estetiche e
comportamentali fra le varie tribù. Sicuramente sarà stato vero, ma
noi non ce n’eravamo accorti, probabilmente anche a causa della
velocità con cui attraversavamo intere regioni, che non ci lasciava il
tempo di comprendere appieno la realtà circostante. Entrammo in un
brutto ristorante qualunque e mangiammo carne, yogurt e qualche
290
verdura. Quel luogo ci aveva già stancati, le città non erano certo il
punto di forza dell’Africa, la magia stava sempre nella natura esplosiva
delle aree rurali. Decidemmo così di andarcene.
Tornammo all’hotel, pagammo il conto, caricammo i bagagli e
partimmo verso Mamou. Il paesaggio era sempre meraviglioso, del
tutto simile a quello conosciuto il giorno precedente, ma finalmente si
viaggiava sull’asfalto ed era tutta un’altra cosa. Potevo tenere una
velocità costante, senza stare sempre con gli occhi puntati sulla strada
per evitare pozzanghere immense e ostacoli di vario genere; era
decisamente più riposante, anche se sicuramente meno affascinante.
Dopo circa un centinaio di chilometri raggiungemmo una grossa
località chiamata Dalaba. Non eravamo per niente stanchi ma
facemmo ugualmente una sosta, tanto era molto presto e non
avevamo fretta. Mi accesi una sigaretta e mi guardai intorno. In una
grande piazza non asfaltata sorgeva uno dei soliti mercati
improvvisati, praticamente identico a quello di Koundara, con
baracche, capanne e tanti teli colorati stesi sul terreno, dove i
venditori esibivano la propria mercanzia. Non era certo un luogo
interessante, così decidemmo di muoverci e percorrere gli ultimi
cinquanta chilometri che ci separavano da Mamou.
Il motore non ne voleva però sapere di partire. Feci ripetuti tentativi e
cominciai a sudare per lo sforzo, provai ancora e ancora fino a
quando mi scivolò il piede dal kick starter e mi feci male a una gamba.
– Cazzo, che dolore! Fanculo ‘sto kickstarter!
– Ti sei tagliato?
ANDREA – No, ho solo preso una gran botta sulla tibia con ‘sto pedale di merda!
MARCO – Non parte più?
ANDREA – No, non ne vuole sapere. Trovo il punto giusto, pompo, ma niente.
Ogni giorno è sempre peggio e adesso non ne vuole proprio mezza.
MARCO – Che sia cioccata la candela?
Magari si è sporcata con tutto quello che abbiamo fatto e adesso è morta del tutto.
ANDREA – Beh, sarebbe veramente un problema da poco, il ricambio l’abbiamo,
ma non penso che c’entri. Proviamo a tirarla giù e vediamo com’è messa.
ANDREA
MARCO
291
Smontammo la candela ma non ci sembrò compromessa, il problema
doveva quindi essere un altro. La sostituimmo comunque per vedere
se ci fossimo sbagliati. Con la gamba ancora dolorante salii in sella e
provai nuovamente a farla partire, ma non c’era niente da fare.
– Abbiamo appurato che non è la candela.
ANDREA – Comunque se non parte mi sa che è un problema elettrico.
MARCO – Tipo che non arriva corrente alla candela?
ANDREA – Se non arrivasse proprio non andrebbe del tutto e invece ci ha portati
sino a qua. Sono già dei giorni che ha questo difetto, ma è continuata ad andare.
C’è caso invece che non arrivi quando il motore è caldo, perché a freddo parte più
facilmente. Forse si sta rompendo lo statore e quando si scalda fa fatica a dare
corrente. Ma sai che di impianti elettrici ne so veramente poco!
MARCO – Lo statore è l’alternatore?
ANDREA – Sì, non so perché ma i meccanici moto lo chiamano così.
MARCO – Ok, comunque abbiamo con noi la centralina di ricambio che ci ha
dato Riccardo. Proviamo a sostituirla, magari è quella.
ANDREA – Ma c’è da perderci del tempo, mi rompe farlo qui in mezzo alla
strada. Proviamo a farla ripartire, magari lo facciamo domattina con più calma.
MARCO
Feci altri tentativi e infine il motore si avviò. Fummo relativamente
soddisfatti, ma temevamo che ci piantasse in asso da un momento
all’altro e Abidjan era ancora molto lontana. Decidemmo comunque
di rimandare l’intervento a una prossima occasione.
Sebbene la strada per Mamou fosse una delle più importanti di tutto il
Paese, non c’era per niente traffico. Il poco denaro in circolazione
non consentiva a molte persone di potersi pagare un mezzo e quasi
nessuno si spostava, la maggior parte di loro nasceva, viveva e moriva
nello stesso luogo. Si vedevano spesso gruppi di donne che
trasportavano sulla testa il raccolto agricolo in enormi sacchi di tela.
Mi colpì particolarmente una contadina curva sul campo, stava
zappando con il figlio neonato legato sulla schiena come fosse uno
zaino. Sicuramente un’esistenza dura, certo, ma l’aspetto che mi dava
più da riflettere era che quelle fossero le condizioni di vita dominanti
nel pianeta. I nostri lussi e le nostre comodità sono riservate a una
292
piccola fetta della popolazione mondiale, di cui ho la fortuna di fare
parte, ma non posso certo pensare di essermelo meritato. Sono nato
in Italia e ho così avuto tanti strumenti per evolvermi e vivere bene,
ma se avessi visto la luce in Guinea sarei stato come loro, costretto a
fatiche immani solo per sopravvivere. Da questi pensieri maturai la
certezza che appartenere a una qualunque nazione non sia mai una
qualità o un difetto, ma solamente una caratteristica non voluta, una
fortuna o una sfortuna. Quindi chiunque è degno del massimo
rispetto, ma soprattutto lo è chi è nato e cresciuto in un Paese povero.
Superammo un camion sopra al quale stavano seduti cinque ragazzi.
Ci salutarono festosamente, come sempre accadeva dal nostro
ingresso in Africa nera. Entrammo così in città, che subito si presentò
del tutto simile a Labè, anonima, senza personalità. C’era un sacco di
gente che faceva di tutto, chi camminava per la via principale, chi
trasportava oggetti enormi sulla testa o su carretti in legno, chi
chiacchierava davanti alle botteghe.
Vedemmo anche alcune moto enduro nuove di piccola cilindrata.
Sebbene fossero appena uscite dalla fabbrica, erano modelli già visti
in Europa almeno vent’anni prima. Sapevamo che, una volta
terminata la produzione di alcuni veicoli destinati all’Occidente,
perché ormai obsoleti, le grandi aziende impiegavano le catene di
montaggio dismesse per proseguire la fabbricazione nei Paesi poveri.
Quindi venivano realizzati mezzi nuovi utilizzando una tecnologia
anacronistica, per essere così venduti sul mercato locale a prezzi più o
meno sostenibili per la maggioranza della popolazione.
Da un locale uscirono alcuni ragazzi che salirono con fierezza in sella
alle loro moto nuove e al contempo d’epoca. Ci guardarono e
commentarono divertiti e stupiti il nostro arrivo. La Yamaha doveva
sembrare loro una specie di astronave e un po’ lo era, senza dubbio.
Dopo sedici anni di vita europea l’avevamo portata in Africa, anzi, era
stata lei a farlo e, anche se ultimamente sembrava malata, continuava
a svolgere egregiamente il suo compito. Non ci avrebbe abbandonati,
ne eravamo quasi certi, o forse lo speravamo.
Chiedemmo in giro dove fosse l’indirizzo che cercavamo e dopo
qualche tentativo infruttuoso arrivammo a destinazione. Si trovava
293
sulla strada principale in estrema periferia, era una bella casetta con
giardino, tutta pulita e curata. Sembrava proprio appartenere a gente
benestante. Entrammo con la moto e una donna di circa quaranta
anni ci venne incontro molto stupita. Era vestita con un grande telo
fucsia e aveva la testa avvolta in un foulard bianco. La salutammo e
Marco le spiegò la situazione, ma la signora pareva non capire. Le
consegnò allora la lettera, la donna la lesse ma non esultò come
pensavamo; sembrava che le avessimo consegnato un volantino
pubblicitario, non preziose notizie della cara parente lontana. Ci invitò
comunque in casa e ci fece accomodare sul divano.
Era un ambiente decoroso, non elegante ma pulito, abbastanza vicino
ai nostri standard popolari. Presto entrarono in sala due bambini di
circa dieci anni, un ragazzo e una ragazza adolescenti vestiti in stile
occidentale e un uomo sulla trentina, che indossava una maglietta
della Shell. Ci presentammo, la signora spiegò alla famiglia il motivo
della nostra presenza, ma nessuno parve emozionarsi, sembravano
disinteressati. Ci chiese se volessimo fermarci per cena e chiaramente
accettammo, sarebbe stata una buona occasione per dialogare con
loro e conoscere meglio il popolo guineano. Ma al tavolo eravamo
soli, il resto della famiglia continuò a fare le proprie cose, solo la
signora si curava di noi portandoci formaggi, uova, carne e verdure.
– Questa non me l’aspettavo proprio. Pensavo che avrebbero fatto una
gran festa, invece non gliene frega niente!
MARCO – Mi dà anche un po’ di imbarazzo stare qua a mangiare da soli.
Sembra proprio che ci abbiano invitati perché si sentivano obbligati,
ma si vede che non gli interessa niente di noi, che preferirebbero che non ci fossimo.
ANDREA – Sì, anche a me prende male.
E dire che la segretaria sembrava entusiasta all’idea di potermi dare quella lettera!
MARCO – Probabilmente è ancora legata alla sua terra, si ricorda di quando era
ragazza e abitava qua, mentre questi se la sono scordata e fanno la loro vita.
ANDREA – Boh! Misteri della migrazione. Ma, secondo te… il tipo con la
magliettina della Shell è un benzinaio oppure pensa che sia un vestito elegante?
MARCO – Ah ah! Può darsi! Direi comunque di darci una mossa e di schiodare
al più presto da qua, così cerchiamo un hotel. La famiglia guineana ne sarà felice!
ANDREA
294
– Ne ho visto uno qua vicino, sulla strada che abbiamo percorso prima.
– Ok, andiamoci e torniamo in centro, voglio telefonare a casa.
ANDREA – Anch’io devo chiamare, è un sacco di tempo che non mi faccio vivo.
ANDREA
MARCO
Ringraziammo tutti per l’ospitalità, questi annuirono ma non dissero
nulla di più, ulteriore conferma che non eravamo graditi. Salutammo e
partimmo verso l’hotel. Eravamo gli unici ospiti e ci venne assegnata
una stanza confortevole, con due letti puliti, un armadio e il bagno
con water e doccia. Sembrava quasi uno standard occidentale.
Andammo in centro per telefonare. Diversi negozi fornivano il
servizio, ma in nessuno di essi fu possibile prendere la linea. Gli
operatori continuarono a provare ma inutilmente. Non avremmo
potuto chiamare nessuno, ci venne detto che alla mattina sarebbe
stato più probabile riuscirci, così ce ne andammo con l’idea di
riprovarci dopo colazione. Un’operazione semplice come fare una
telefonata era diventata un’impresa ardua, ma non dovevamo
dimenticare che ci trovavamo in uno dei Paesi più poveri del mondo e
la tecnologia era ancora molto arretrata.
Comprammo due bottiglie di birra, le portammo con noi all’hotel e
rimanemmo un po’ svegli a fare delle chiacchiere. Non eravamo
troppo stanchi, ma decidemmo di concederci ugualmente un lungo
riposo e recuperare così altre energie per affrontare i giorni successivi.
295
296
MAGENTA
La giornata precedente era stata di tutto riposo e avevamo anche
dormito più di otto ore, così ci svegliammo pieni di energie, pronti ad
affrontare una tappa di tutto rispetto. Ci venne servita la colazione in
una grande stanza illuminata da uno splendido sole che filtrava da
un’ampia vetrata. La stanchezza conosciuta nei giorni precedenti era
ormai solo un piacevole ricordo, traboccavamo di entusiasmo e
avevamo voglia di macinare chissà quanti chilometri. Il rituale
mattutino si ripeté ancora una volta, la mitica carta Michelin
dell’Africa occidentale venne nuovamente aperta sul tavolo. Ero
smanioso di partire e cominciai a fare progetti molto ambiziosi.
– Che sole spettacolare!
MARCO – Già, non c’è una nuvola. L’ideale per un bel giro in moto!
ANDREA – Ah ah! Avrai pane per i tuoi denti!
MARCO – Non chiedo di meglio! Oggi ci facciamo una gran tappa, basta poltrire!
ANDREA – Certo! Arriveremo vicini al confine con la Costa d’Avorio!
MARCO – Proviamoci, ma guarda che non è mica vicino, guarda quanta strada!
ANDREA – Meno di quanto sembri. Facciamo due calcoli. Dunque…
quasi duecento chilometri e arriviamo a Faranah, altri centoquaranta e arriviamo
a Kissidougou, poi centonovanta sino a Nzerékoré, poi gli ultimi quaranta sino a
Lola ed è fatta! Dopo qualche chilometro siamo in Costa d’Avorio.
MARCO – Facile! Che scemo che sono a sollevare questi dubbi! Quant’è il totale?
ANDREA – Beh, sono meno di seicento chilometri. Cosa vuoi che sia?
Se teniamo una media dei settanta siamo là in meno di nove ore.
MARCO – Sì, senza pause per la benzina, per mangiare,
per riposare il culo, per fare delle foto e così via. Solo moto!
ANDREA – Sì, solo moto! Che ne pensi?
MARCO – Ah ah ah ah! Una distanza degna di una tappa autostradale europea!
ANDREA – Ti ricordo che nel ’94 abbiamo fatto una giornata da milleduecento,
da mezzogiorno alle due di notte, da Almeria sino al confine francese!
MARCO – Mi ricordo bene, tutta la Spagna in giornata.
Ma avevamo l’Africa Twin bicilindrica, mica una Tenerè mono!
ANDREA
297
– La mia moto meravigliosa, confiscata da quei doganieri bastardi di
Bombay! Non mi ci fare pensare! Comunque sono circa seicento chilometri da qua
al confine. Claudio ci aveva parlato bene di Nzerékoré,
magari potremmo puntare ad arrivare lì, poi domani sconfiniamo.
MARCO – Ma cosa c’è di bello a Nzerékoré?
ANDREA – Non mi ricordo assolutamente, ma di sicuro non la città.
Ormai abbiamo visto l’andazzo, le città sono orrende e tutto il resto è
meraviglioso. Da qua al confine sono tutte foreste e la strada ci passa in mezzo.
MARCO – Comunque direi di non porci obiettivi.
Andiamo verso la Costa d’Avorio e appena viene buio ci fermiamo.
ANDREA – Sono d’accordo, non poniamoceli e partiamo.
ANDREA
Finimmo di mangiare pane, burro e marmellata e di bere il pessimo
Nescafé, poi sistemammo le nostre cose sulla moto e raggiungemmo
il centro, per provare nuovamente a telefonare alla nostra gente in
Italia; Marco andò in un negozio, io in un altro poco distante.
Dopo un paio di tentativi infruttuosi mi rispose mio padre, lo
rassicurai e gli dissi dove mi trovavo, omettendo gli aspetti
preoccupanti ed esaltando i pregi dell’esperienza. Sembrava essere
tranquillo, aveva una buona cultura e riusciva a seguire i miei discorsi
geografici, anche se mi accorgevo che stavo utilizzando parole che per
lui non dovevano avere nessun significato; parlavo di località dai nomi
strani e sconosciuti e riferivo distanze assolutamente inconcepibili.
Ma anche se ciò che gli dicevo non doveva essergli del tutto chiaro lo
sentivo sereno, perché si fidava di me. Sapeva bene quello che avevo
fatto negli anni precedenti e non era timoroso del mondo come mia
madre, che infatti mi sembrò preoccupata e mi chiese subito quando
intendessi tornare, tutto il resto le interessava poco. Con lei il discorso
fu quindi ben diverso, non argomentai l’esperienza che stavo vivendo
ma mi concentrai sulle rassicurazioni e sulla data prevista per il
ritorno, che però non conoscevo assolutamente. Non ero nemmeno
certo che la moto ci avrebbe portati sino a destinazione, ma l’avrei
comunque richiamata nei giorni successivi. Uscii dal negozio e tornai
alla moto, vidi Marco che mi aspettava appoggiato alla sella.
298
– Fatto, ho parlato con entrambi, tutto a posto. Sei riuscito anche tu?
– Sì, ce l’ho fatta.
ANDREA – Novità a casa?
MARCO – Niente di nuovo, Federica è tranquilla e ha voglia di vedermi,
mia nonna invece è preoccupata.
ANDREA – Ma le hai detto dove siamo?
MARCO – Più o meno, ma sai che le interessa poco. Posso dirle un posto o un
altro che non cambia più di tanto, vuole sapere più che altro quando torno.
ANDREA – Ah ah! Come mia madre!
Poverette, hanno sempre paura, bisogna rassicurarle e basta!
MARCO – E tuo padre?
ANDREA – Beh, con lui si può parlare di più. Dal tono della sua voce sentivo
una certa invidia. Un po’ è incazzato perché sono in giro per il mondo invece di
cercare un lavoro serio, ma un po’ mi invidia perché sto facendo delle cose che
avrebbe voluto fare anche lui ma non ha fatto.
MARCO – Beh, il lavoro serio lo cercherai a settembre, come me, del resto.
ANDREA – Ah ah! Il vero biker cerca lavoro a settembre per girare in moto
d’estate! Sì, gliel’ho detto e lo farò. Del resto, un viaggio del genere,
senza sapere quando si tornerà, lo puoi fare solo in questi periodi di transizione,
quando non hai nessun impegno programmato, studio o lavoro che sia.
MARCO – Transizione fra le certezze e l’ignoto. Io fra il lavoro in banca e
l’ignoto, tu fra la laurea e l’ignoto. Ah ah! Chissà cosa faremo poi a settembre!
ANDREA – Non lo so, ma so che inizieremo un altro viaggio con le stesse
difficoltà di questo. Infinite difficoltà da affrontare e superare,
momenti in cui prendere decisioni dall’esito irreversibile e così via.
Comunque vada, adesso ci stiamo allenando per bene a transitare verso l’ignoto,
non sappiamo nemmeno dove dormiremo stanotte!
MARCO – Beh, stavolta almeno sappiamo di volere arrivare ad Abidjan,
mentre a settembre non sappiamo nemmeno dove vorremmo arrivare. Ma la cosa
certa è che se non ci diamo una mossa finisce che dormiamo ancora a Mamou!
ANDREA – No, no, basta questa città!
Andiamo via, voglio dormire da qualche parte in una foresta.
MARCO – Non sarà difficile, da qua ad Abidjan ci sono solo foreste.
ANDREA – Ma non avevamo pensato di sostituire la centralina della moto? Io me
ne ero completamente dimenticato. Non che ne abbia molta voglia, però se serve…
ANDREA
MARCO
299
– Bah! L’avevamo pensato, ma finché si va avanti lasciamo perdere.
Se poi rimarremo veramente a piedi proviamo a sostituirla e vediamo se riparte.
Tanto non cambia nulla, il ricambio ce l’abbiamo,
se è colpa sua abbiamo risolto, sennò siamo a piedi per sempre. Semplice, no?
ANDREA – Sono d’accordo, anche perché, come ti dicevo, non ho molta voglia di
smontare mezza moto! Andiamo via, sfruttiamo questa bella giornata.
MARCO
Erano già le dieci e ci trovavamo ancora a Mamou. La folle idea di
arrivare a Nzerèkorè era decisamente naufragata, ma in fondo lo
sapevamo già e non ce ne importava granché.
Uscimmo dalla città e ben presto ci trovammo soli sulla striscia
d’asfalto che correva nella valle fra due montagne. Il paesaggio era
meraviglioso e la guida piacevole, il sole donava al verde della Guinea
una lucentezza mai vista prima. Dopo circa un’ora venimmo fermati a
un piccolo posto di blocco. Un ufficiale molto cortese ci diede il
benvenuto e si limitò a chiederci da dove venissimo. Appena sentì
parlare di Italia il copione si ripeté e non la smise più di parlare della
finale degli Europei, così lo assecondammo e ci scherzammo un po’
sopra. Infine ci lasciò andare, senza nemmeno chiederci i documenti.
Proseguimmo nella stretta vallata e ci fermammo vicino a un gruppo
di capanne. Un segnale stradale aveva attirato la nostra curiosità.
– Sierra Leone. Il cartello dice di andare di là e poi non c’è la strada!
ANDREA – Significa che devi attraversare la foresta! Ah ah!
Ti ricordo dove siamo, qualora te ne fossi scordato. Non lasciarti ingannare dalla
strada asfaltata, qua siamo nel cuore dell’Africa nera.
MARCO – Ma adesso sono tranquilli in Sierra Leone?
ANDREA – Non lo so, ma l’anno scorso si massacravano a colpi di machete.
MARCO – Fa un po’ paura pensare che ci siamo così vicini.
Del resto è vero, questa strada corre sul confine, ci sarà una pista di qualche
chilometro nella foresta, poi la Guinea finisce e inizia la Sierra Leone.
MARCO
Fino a pochi mesi prima i telegiornali avevano trasmesso inquietanti
notizie sulla Sierra Leone. C’era stata una guerra civile sanguinosa,
iniziata nel 1997 con un colpo di Stato, in seguito al quale il
300
presidente era fuggito proprio in Guinea, mentre un’ondata di
saccheggi, terrore e brutalità avevano devastato il Paese. Ovunque
scarseggiavano il cibo e il combustibile e migliaia di persone erano
fuggite all’estero. L’anno successivo una forza di pace dell’Africa
occidentale era riuscita a espellere i leader della giunta militare golpista
e a riprendere il controllo della capitale Freetown, senza riuscire però
a impedire che i ribelli in fuga saccheggiassero e distruggessero tutti i
villaggi che incontravano sul loro percorso. Il presidente era stato
infine nuovamente insediato, ma in modo precario, e si attendevano
quindi nuove elezioni, previste proprio nel periodo in cui ci
trovavamo in Guinea. Non era quindi per niente una situazione
stabile, nuove insurrezioni sarebbero potute accadere da un momento
all’altro e il buon senso ci suggeriva quindi di allontanarci al più presto
da quella zona certamente pericolosa.
Un uomo si affacciò da una delle capanne, ci sorrise e ci salutò.
Dietro a lui, avvolti nella penombra dell’abitazione, stavano una
donna e una grande quantità di bambini che ci guardavano con timida
curiosità. Avevano un’espressione serena, ma anche un po’ distaccata
e timorosa. Pensammo che dovessero avere vissuto il grande esodo
dei profughi sino a poco tempo prima e che avessero assistito a scene
atroci, situazioni che non potevamo nemmeno concepire. Il sole
aveva lasciato il posto a qualche nuvola, ma non c’era minaccia di
pioggia. Ripartimmo alla volta di Faranah, una grande città sul nostro
percorso, dove avremmo pranzato.
Arrivammo a destinazione in poco tempo. Incontrammo un posto di
blocco all’ingresso del centro abitato, ma ci venne fatto cenno di
passare. Regnava un gran fermento, tante persone stavano davanti alle
loro povere abitazioni, altre cercavano un passaggio sui camion per
andare chissà dove, altre ancora trasportavano frutta in grandi ceste e
provavano a venderla ai passanti. Non ci sentivamo troppo tranquilli
a lasciare la moto con i bagagli in mezzo a tutta quella confusione,
così cercammo qualcuno che ce la custodisse per permetterci una
passeggiata e un pranzo senza il timore di essere derubati. Non fu una
ricerca lunga, la prima persona a cui chiedemmo informazioni ci fece
parcheggiare nel suo cortile. Ci incamminammo così verso il centro.
301
– Guarda che gran bordello di gente! C’è più casino qua che a Mamou.
– Diciamo meglio che nelle città c’è sempre casino,
che sia Mamou o Faranah o Tambacounda non cambia molto.
ANDREA – Già. Stessa povertà, stesse baracche, stessi venditori ambulanti di
ogni cosa che si aggirano per le strade, stessi vestiti colorati, stessi mercati.
Ne sono sempre più certo, le città sono tutte uguali.
MARCO – Sono tutte uguali perché sono tutte povere.
Nessuno ha soldi, così tutti si costruiscono baracche, usano vestiti riciclati,
girano per provare a guadagnare qualcosa per comprare da mangiare e così via.
ANDREA – Però questa città è speciale.
MARCO – Cos’ha di speciale?
ANDREA – Qui è nato Sekou Tourè, il dittatore sanguinario che ha terrorizzato
il suo popolo per anni. Ho letto che qua aveva costruito un centro per le conferenze.
MARCO – Conferenze in mezzo alle capanne e alle baracche?
Un bel contrasto! Chissà cosa aveva da dire!
ANDREA – Immagino la solita propaganda di regime.
Comunque adesso è stato trasformato in un albergo.
C’è anche una pista dove atterrava il suo Concorde privato.
MARCO – Si trattava bene!
ANDREA – Tutti i capi di Stato si trattano bene, in genere a spese del popolo.
ANDREA
MARCO
Passeggiando per le strade però non si vedeva traccia di quel triste
passato, la città era in massimo fermento, ma non diversa dalle altre.
Ci sedemmo a mangiare qualcosa su una panchina in un giardino
pubblico, quando vicino a noi si fermò un camion. Sul cassone aperto
c’erano almeno cinquanta persone stipate e un’infinità di borse,
taniche, tappeti, sacchi di tela pieni di verdure e ogni altro oggetto
possibile. Si avvicinarono due donne che provarono a vendere delle
banane ai passeggeri, ma con scarsi risultati.
Arrivò poi una bambina di circa dieci anni che aveva in testa un
vassoio con grandi fette di avogado e le cose andarono diversamente.
Molti apprezzarono la nuova frutta che veniva loro offerta e ne
acquistarono in quantità, poi il mezzo partì e si diresse fuori città,
mentre i suoi occupanti mangiavano avidamente la polpa, buttando i
resti in strada. Tutti si davano da fare, senza distinzioni di età, tutti
302
cercavano denaro. Intanto era tornato il sole, così tornammo a
prendere la moto, ma nuovamente non ne voleva sapere di partire.
Impiegai cinque minuti di tentativi, poi finalmente il rumore del
motore ci rasserenò. La mia teoria sembrava essere corretta, a freddo
si accendeva senza problemi, a caldo faticava sempre più. Era
sicuramente un problema elettrico, il peggiore che potesse capitare. I
guasti meccanici si possono generalmente riparare con una relativa
facilità, in una qualunque officina del luogo probabilmente avremmo
trovato qualcuno in grado di metterci mano, ma l’impianto elettrico è
spesso la parte più vulnerabile. Se si fosse rotto definitivamente un
componente non avremmo certo trovato un ricambio.
Abbandonammo i cattivi pensieri e ripartimmo.
La tappa successiva sarebbe stata di circa centoquaranta chilometri e
avremmo raggiunto Kissidougou, un altro nome misterioso sulla
nostra strada per Abidjan. Il paesaggio era invariato, niente traffico e
strette vallate verdissime. Procedemmo per circa un’ora e mezza nel
silenzio, spezzato solo dal fedele rumore del motore, quando
arrivammo alle porte della città, dove incontrammo l’ennesimo posto
di blocco. Diversi veicoli erano incolonnati in attesa del controllo e
un militare ci fece cenno di superare la fila e di raggiungerlo.
– Qua c’è l’esercito prima di ogni città, speriamo che non ci facciano
perdere del gran tempo con domande assurde, tipo la sera fra Koundara e Labé!
MARCO – Ah ah! Quello del colera?
ANDREA – Sì, e quell’altro idiota che diceva di essere il capo!
MARCO – Certo che questa fila non lascia presagire nulla di buono.
Speriamo che non siano dei rompipalle e che ci mollino dopo un po’ di chiacchiere.
ANDREA
Il soldato sorrise e ci diede il benvenuto in Guinea. Erano sempre
molto gentili, entusiasti che qualcuno si avventurasse nella loro terra
per visitarla. Ci chiese di mostrargli i passaporti, li guardò senza
troppa attenzione e quando si accorse che eravamo italiani,
chiaramente cominciò a parlare di calcio. Anche quella volta non
potemmo fare altro che commentare nuovamente l’infausta finale
perduta e dopo qualche battuta ci disse che potevamo andare.
303
Ma ancora una volta la moto non partì, così la spingemmo qualche
metro più avanti per non essere d’intralcio. Prima che potessimo fare
qualunque cosa venimmo avvicinati da tre ragazzi ventenni. Erano
vestiti sportivi, con ampie maglie colorate, pantaloni larghi a cavallo
basso e cappellino da rapper. Ci chiesero se potessimo fotografarli. Si
trattava di una questione delicata e mai del tutto chiara. Molte persone
non amavano essere immortalate e quando vedevano un obiettivo
puntato su di loro si defilavano o si nascondevano. Altre invece
sembravano abbastanza neutrali, ma era sempre comunque meglio
iniziare un qualche dialogo prima di scattare, instaurare un minimo di
conoscenza che legittimasse la foto stessa. Ben pochi amavano
diventare improvvisamente un bersaglio, si sentivano in qualche
modo violati nella loro dimensione privata. Altri ancora invece si
mettevano letteralmente in posa, ma volevano denaro in cambio.
Quindi ogni volta che si voleva fotografare della gente era necessario
valutare la situazione per non creare attriti di qualche tipo.
– Siamo alle solite!
ANDREA – Ah ah! Già. Forse ti chiederanno di spedirgliela dall’Italia,
come è già successo un sacco di volte negli altri viaggi. Oppure vogliono dei soldi.
MARCO
Marco li fece mettere in posa e scattò. Loro ringraziarono con una
certa enfasi, ci strinsero la mano e andarono via, verso la foresta.
– No, non gli interessa avere la foto e nemmeno i soldi. Che strano!
Questi volevano essere fotografati e basta.
ANDREA – Per me sono fieri del loro look sportivo,
così vogliono lasciarci un buon ricordo della Guinea.
MARCO – Magari sperano che mostriamo la loro foto in Italia, così i nostri amici
vedono che anche in Africa nera i ragazzi vestono alla moda occidentale.
MARCO
Quei tre ragazzi non rientravano in nessuna categoria conosciuta,
volevano essere fotografati per soddisfare una qualche loro esigenza,
comunque non economica. La discussione ci aveva quasi fatto
scordare che la moto non era ripartita. Salii nuovamente in sella e
304
cominciai a spingere sul kick starter. Dopo qualche minuto il solito
rassicurante rombo ci sollevò il morale. Superammo la cittadina e ci
trovammo nuovamente soli in mezzo alla foresta. L’asfalto stava
peggiorando, talvolta finivo dentro a profonde crepe e la moto
sobbalzava paurosamente. Il timore peggiore era quello di squarciare
una gomma, saremmo stati costretti a farla cucire con ago e filo, visto
che un ricambio del genere non lo avremmo certo trovato. Ma le
Michelin T63 erano eccezionali, sembrava che nulla potesse ferirle.
Avevano superato l’autostrada europea, le sabbie del Sahara, il fango
degli ultimi giorni e non apparivano per niente usurate. Era stata una
scelta veramente azzeccata, non avremmo potuto trovare di meglio. Il
cielo tornò a coprirsi di nuvole e qualche goccia cominciò a cadere.
– Ci risiamo, la stagione delle piogge non perdona!
MARCO – Beh, se rimane così ci va di lusso. Il cielo è comunque chiaro,
non ci sono quei nuvoloni che abbiamo visto a Koundara.
ANDREA – Speriamo. Per ora non mi fermo, non ho voglia mezza di vestirmi.
Tanto il bagaglio è già coperto e abbiamo tutto a portata di mano.
MARCO – Secondo me smette presto, là in fondo è già sereno.
ANDREA
Infatti, dopo pochi minuti superammo un grande fiume e cessò di
piovere. Improvvisamente tornò il sole e apparve un meraviglioso,
grandissimo arcobaleno che inondò di colori il paesaggio e la terra
stessa. La gente uscì dalle misere capanne di terra e paglia e ammirò
con noi quel maestoso spettacolo della natura.
Il paesaggio stava lentamente cambiando, era sempre più verde e
selvaggio, ma anche più popolato, persino nelle campagne. Ci
trovavamo nell’angolo sudorientale della Guinea, totalmente ricoperto
da lussureggianti foreste e bagnato da infiniti torrenti, ma in
quell’ambiente paradisiaco non mancavano seri problemi, legati al
contrabbando e ai profughi provenienti dalla vicinissima Sierra Leone.
La città in cui stavamo per arrivare era infatti nota perché ospitava un
gruppo numeroso di persone scappate dalla guerra civile e per il suo
enorme mercato che richiamava i commercianti provenienti da ogni
parte del Paese e dagli Stati vicini. Avremmo trovato pertanto
305
un’umanità estremamente varia e sarebbero inevitabilmente aumentati
i rischi di fare incontri spiacevoli. Anche se non avevamo paura,
alzammo comunque il nostro livello di attenzione.
Dopo qualche chilometro venimmo fermati ad un posto di blocco in
un piccolo paese e per la prima volta fummo trattati con scortesia.
Una poliziotta ci chiese bruscamente i passaporti e andò all’interno di
una casupola con i nostri documenti per fare chissà cosa. Dopo un
po’ uscì ancora più contrariata e ci tempestò di domande inusuali.
– Perché siete in Guinea?
MARCO – Siamo qui per turismo.
POLIZIOTTA – Turismo? Ma non potete girare in Guinea!
MARCO – Come no? Siamo stati autorizzati dal Console di Guinea a Milano.
POLIZIOTTA – Non so di cosa stia parlando, ma qua decido io, non voi!
MARCO – Ma scusi, cosa sta dicendo?
POLIZIOTTA – Dico che se la Polizia non vuole farvi proseguire,
voi non proseguite! C’è forse qualcosa di poco chiaro in quello che vi ho detto?
POLIZIOTTA
Quella persona non sapeva cosa fosse un’Ambasciata o un Consolato,
non concepiva il turismo e certamente non era felice della nostra
presenza nella sua terra, così stava cercando un modo per metterci i
bastoni fra le ruote e impedirci di proseguire. Io stavo zitto e lasciavo
continuare Marco nell’assurda opera con quella donna scorbutica e
stupida. Sembrava refrattaria ad ogni argomento, la sua ignoranza era
tale che risultava impossibile qualunque comunicazione. Il mio amico
le mostrò il Visto di ingresso, ma lei non fece una piega e rifiutò
persino di prenderlo in considerazione.
– Questa tipa è fuori! Chiedile di parlare con qualche suo collega,
non potrà mai essere più stupido!
MARCO – Ah ah ah ah! Sì, è proprio fuori, ci odia e non vuole che stiamo qua!
ANDREA – Non avrà mai visto un turista in vita sua, deve averci scambiati per
dei bianchi profittatori che vogliono fare il bello e il cattivo tempo con la povera
gente del posto. Poveretta! Prova a farle dei complimenti, magari si scioglie!
ANDREA
306
– Ah ah! Non credo proprio! I complimenti glieli fai tu a ‘sta tipa qua!
Sì, anche a me sembra una che non è mai contata un cazzo e adesso che ha un po’
di potere non ci sta più dentro. Non le pare vero di potere fermare l’uomo bianco.
MARCO
La situazione surreale stava volgendo al termine, in quanto dalla
casupola uscì un poliziotto in divisa che chiese quali problemi ci
fossero. Una volta saputo come stavano le cose ci sorrise e si rivolse a
lei con fare imbarazzante, trattandola da sottosviluppata quale era.
– Adesso ti spiego. Uno dei nostri capi è andato a vivere in Italia e
ha stabilito che questi signori sono bravi e sono i benvenuti nel nostro Paese.
POLIZIOTTO
Lei sembrava che continuasse a non capire, ma era sicuramente una
sottoposta del nuovo arrivato, in quanto assunse un fare remissivo e
annuì debolmente con la testa. Talvolta lanciava occhiate laterali
cariche di odio verso di noi. La spiegazione continuò.
– Se degli stranieri girano in Guinea devono avere il permesso del
nostro capo sul passaporto. Guarda, si chiama Visto e loro ce l’hanno.
POLIZIOTTO
La nostra stupida nemica era distrutta, non sapeva più che fare, così si
limitò a prendere atto delle parole del suo capo e si ritirò nell’ombra,
probabilmente senza avere compreso appieno quanto era successo. Il
poliziotto scambiò due chiacchiere con noi e inevitabilmente si finì a
parlare di calcio, poi ci congedammo e ripartimmo, commentando
l’accaduto strada facendo.
– Non ci credo. Ma dove hanno trovato quella tipa? In un manicomio?
MARCO – Ah ah! No! Avrà fatto un concorso pubblico e superato dei test!
ANDREA – Non di intelligenza e cultura generale, spero! Come fanno a mettere
in strada dei poliziotti che non sanno leggere i passaporti e non conoscono i Visti?
MARCO – Mi sa che da queste parti di stranieri se ne vedono pochi e la tipa va
benissimo per controllare gli indigeni, loro non hanno né passaporti né Visti.
ANDREA – Già, deve essere così. Ma una così stupida darà fastidio a tutti.
ANDREA
307
Arrivammo quindi nella città di Guekedou senza incontrare posti di
blocco e ci trovammo presto nel caos più totale. C’erano persone
dappertutto, anche in mezzo alla strada, e dovetti procedere a passo
d’uomo per alcuni chilometri, fino a quando non mi trovai di fronte a
un ponte che collegava le due sponde di un grande fiume. In quel
punto la strada era stranamente libera, così proseguii. Ma appena
giunto dall’altra parte venni fermato da un poliziotto che cominciò a
fischiare con forza e mi guardò come se avessi commesso un crimine.
– Buonasera, c’è qualche problema?
POLIZIOTTO – Sì, ti avevo detto di fermarti e tu hai passato il ponte lo stesso!
Qua è senso unico alternato, dovevi aspettare.
ANDREA – Ma io non me n’ero accorto! È pieno di gente, non l’ho vista proprio!
E poi non c’era nessuno e non c’è neanche un cartello, che senso unico alternato è?
POLIZIOTTO – Dovevi fermarti. Adesso vieni con me in centrale!
ANDREA – In centrale? Ma non ho mica fatto niente! Se c’è da pagare una
multa la pago, ma non capisco perché sia una cosa così complicata.
POLIZIOTTO – Non mi interessa! Dovevi fermarti!
ANDREA
Anche Marco provò a darmi manforte ma il poliziotto era
irremovibile. Allora gli chiedemmo come avremmo fatto a
raggiungere la centrale e lui rispose che la moto sarebbe rimasta lì e
che avremmo dovuto seguirlo a piedi.
– Io la moto qui non la lascio, mi possono rubare tutto!
– Non ti rubano niente. Il tuo amico resta qua e tu mi segui.
MARCO – Io qua da solo non ci resto, andiamo insieme!
ANDREA
POLIZIOTTO
Marco aveva ragione, era sempre e comunque meglio non separarsi;
in caso di problemi di qualunque tipo sarebbe stato sempre meglio
essere in due. Quindi si rivolse al poliziotto per trovare una soluzione.
– Ma mi scusi… non potremmo invece seguirla in moto a passo d’uomo?
– No, assolutamente! Potreste scappare!
MARCO – Ma cosa sta dicendo? Dove vuole che andiamo? Questo è fuori di testa.
MARCO
POLIZIOTTO
308
– Ascolti me. Adesso Lei ci fa strada, noi la a seguiamo con il motore
spento. Spingiamo la moto e andiamo in centrale tutti insieme. Che ne pensa?
ANDREA
La mia proposta lo soddisfò e così ci trovammo in mezzo ai vicoli del
mercato, circondati da una folla variopinta, fra le solite baracche
fatiscenti e l’infinità di merce esposta ovunque. Tutti ci guardavano
con stupore, probabilmente non capivano cosa avessimo fatto per
essere scortati dal poliziotto. Era molto faticoso, avevamo
abbandonato la strada principale asfaltata e il terreno fangoso rendeva
difficile l’avanzamento. Inoltre non sapevamo quanto potesse ancora
durare quel supplizio, dove fosse la centrale di cui si parlava.
Dopo almeno venti minuti ci fermammo di fronte a un edificio,
eravamo arrivati. Venimmo accompagnati in una stanza dove alcuni
suoi colleghi stavano seduti intorno a un tavolo. Chiacchieravano,
scherzavano, ridevano e sembravano di buon umore. La nostra scorta
riferì con tono acceso l’accaduto, quasi ci fossimo macchiati di chissà
quale colpa. Uno di loro, certamente un suo superiore, gli sorrise con
una vena di compatimento, non gli rispose e si rivolse a noi.
– Da dove venite?
MARCO – Dall’Italia, stiamo visitando il vostro Paese.
UFFICIALE – Ah! L’Italia! Avete visto la partita?
Non meritavate di perdere! È stata una vera beffa!
ANDREA – Ah ah! Sì, un vero peccato, non ci volevamo credere!
Anche se c’è da dire che la Francia è una grande squadra.
UFFICIALE – Sì, è vero, ma anche l’Italia è una grande squadra.
UFFICIALE
Sapevamo già per esperienza che simulare un forte interesse per il
calcio era sempre una mossa vincente, soprattutto nei rapporti
gerarchici. Ci avvicinava alla gente, ci rendeva più simpatici, diventava
un argomento che annullava le distanze culturali, così non avemmo
remore a dimostrarci dei veri ultras della Nazionale, quali invece non
eravamo. Si vedeva chiaramente che il nostro interlocutore nutriva
una crescente simpatia nei nostri confronti. Il poliziotto che ci aveva
scortati sino a lì continuava a guardare in basso, sembrava frustrato
309
dal comportamento del suo superiore. Probabilmente non riusciva a
capire perché usasse un tono così cordiale nei nostri confronti.
– Bene, ragazzi. Benvenuti in Guinea, vi auguro buon viaggio!
MARCO – Grazie. Possiamo andare?
UFFICIALE – Certo!
UFFICIALE
E si rivolse alla nostra scorta con fare molto brusco, non capimmo
nulla di ciò che gli stava dicendo, ma sembrava rimproverarlo per
averci costretti ad andare in centrale a spinta, facendoci perdere
un’ora buona per una sciocchezza come quella. L’ufficiale ci fu
immediatamente simpatico e godemmo non poco nel vedere la
frustrazione che aveva colto il suo sottoposto. Salutammo tutti e ce
ne andammo, ma ancora una volta il motore non si avviò. Mi
rassegnai all’ennesima sudata, ma per fortuna dopo pochi minuti di
tentativi riuscimmo finalmente a lasciare quel posto.
– Ma quanto era sfigato quel tipo? Si faceva il viaggio dell’uomo
onnipotente per una cazzata del genere?
MARCO – La frustrazione regna sovrana.
Sono uomini che non sono mai contati niente e non gli pare vero di avere il potere.
Una divisa può fare grossi danni sulle persone sbagliate.
ANDREA – Ok, ma comunque non mi ero fermato a uno stop intimato cento
metri prima. Mica avevo scippato qualcuno!
MARCO – Forse voleva farsi bello, portando in centrale due pericolosi criminali
italiani! Ma l’ufficiale gli ha fatto fare una figura di merda, non meritava altro!
ANDREA – Io provo molto fastidio quando un essere inferiore fa l’arrogante!
MARCO – Beh, gli arroganti sono sempre esseri inferiori, perché gli esseri superiori
non hanno motivo di essere arroganti, stanno già bene così.
Comunque sia, l’asso nella manica rimane sempre la nostra amata Nazionale!
ANDREA – Ah ah ah ah! È vero! Viva la Nazionale! Viva l’Italia!
MARCO – Quella partita l’ha vista proprio tutta l’Africa!
ANDREA
Uscimmo dalla città che era già tardo pomeriggio, presto sarebbe
diventato buio. Probabilmente ci saremmo fermati per la notte a
310
Magenta, una città distante un centinaio di chilometri, al massimo
un’ora e mezza di strada. Ma non era possibile fare veri progetti, gli
imprevisti incombevano nell’aria. Infatti, fuori dal centro abitato
incontrammo l’ennesimo posto di blocco, dove stavano come sempre
alcuni soldati, ma quella volta il loro ufficiale capo era una donna
enorme e molto brutta, vestita con abiti militari, dalla faccia arcigna,
con due incisivi d’oro che le conferivano un’espressione sgradevole.
Si avvicinò a noi con fare superbo e capimmo che ci avrebbe creato
problemi, anche se non sapevamo ancora quali. La salutai e provai a
sorriderle per vedere di smuovere il suo viso granitico, ma lei non
rispose e non ricambiò minimamente il sorriso. Tirava una brutta aria.
UFFICIALE
– Datemi i passaporti.
Marco le allungò in silenzio i documenti, questa cominciò a osservarli
da varie angolazioni e mi accorsi che non era avvezza a maneggiarli.
Non guardò nemmeno le pagine giuste, li sfogliò distrattamente e ce li
restituì con la stessa glacialità dimostrata sino a quel momento.
UFFICIALE
– Adesso i documenti della moto.
Marco le consegnò l’assicurazione e il libretto di circolazione,
omettendo di fare riferimento al lasciapassare sostitutivo del carnet
des passages. Li esaminò distrattamente, si vedeva che non le
interessava nulla di ciò che le consegnavamo, anche se era lei stessa a
fare richieste precise. Poi, come prevedibile, cominciarono i problemi.
– Dovete tornare indietro. Di qua non potete passare senza permesso.
MARCO – Ma quale permesso?
UFFICIALE – Questa è una dogana e non avete il permesso di transito.
UFFICIALE
Marco mantenne una grande calma e continuò così l’assurdo dialogo.
– E chi ci rilascia il permesso di transito?
UFFICIALE – L’ufficio della dogana a Guekedou. Adesso è chiuso, apre domani.
MARCO
311
MARCO
– E non si può avere questo permesso qui, senza tornare domani in città?
– No, dovevate pensarci prima, adesso è tardi.
UFFICIALE
A quel punto sentii montare dentro di me la rabbia e intervenni
nell’assurda discussione. Cosa stava dicendo? Cosa voleva da noi
quella donna insulsa e scortese? Mi sforzai di moderare il tono.
– Ma scusi, quale dogana? Siamo sempre in Guinea, no?
Abbiamo il Visto per stare nel vostro Paese, abbiamo attraversato tutto lo Stato
da Koundara, superato decine di posti di blocco e adesso non si può proseguire?
ANDREA
Non rispose, mi guardò con disprezzo e andò a sedersi poco lontano.
Ci si avvicinò quindi un soldato che cominciò a parlarci a voce bassa.
– La signora è molto arrabbiata con voi, l’avete trattata male.
ANDREA – Male? Ma è lei che ci tratta male da quando siamo qui!
Cosa significa che non possiamo passare, ne sa qualcosa Lei?
SOLDATO – Provate a chiederle scusa, forse cambia idea.
MARCO – Ma scusa per cosa?
SOLDATO – È molto arrabbiata col suo amico.
SOLDATO
Era arrabbiata con me. Non ci capivo molto, ma sicuramente non
intendevo trascorrere la notte in quella città di militari frustrati, volevo
andarmene al più presto, così chiesi consiglio al soldato, che sembrava
stare dalla nostra parte. L’orrenda donna continuava a stare seduta
con aria corrucciata, ogni tanto buttava un’occhiata nella nostra
direzione, attenta a non farsi scoprire, anche se con scarsi risultati.
– Beh, a questo punto proverò a scusarmi!
Speriamo che poi la tipa sia soddisfatta e ci lasci andare!
Però io non so abbastanza il francese per imbastire un discorso di scuse.
MARCO – Glielo dico io. Tu guardala con aria sottomessa e colpevole e fai gli
occhi da cerbiatto. Speriamo che funzioni!
ANDREA – È una cosa folle, comunque proviamo pure. Vai, sono pronto!
ANDREA
312
Marco fece intendere alla donna che voleva parlarle. Questa si alzò
con faccia soddisfatta e fare spocchioso, avevamo assoluto bisogno di
lei e pensava che le avremmo riconosciuto finalmente la giusta
importanza. Mi guardò in silenzio dall’alto al basso. Mi faceva pena e
mi repelleva allo stesso tempo; avrei voluto insultarla e farla sentire
l’essere inferiore che era, ma mi controllai e lasciai parlare Marco.
– Il mio amico è molto dispiaciuto di averle mancato di rispetto.
Gli dispiace, è molto stanco dal viaggio, ma questo certo non lo giustifica.
MARCO
La guardai a fatica e mi sforzai di sostenere le parole di Marco con
espressioni adeguate. Il suo viso cominciò a mutare, stava assumendo
un’espressione vittoriosa. Il discorso continuò.
– Lui non parla bene francese, ma le vorrebbe chiedere se per favore non
potesse farci passare anche senza il permesso. Sappiamo che avremmo dovuto
pensarci prima, ma forse Lei ha l’autorità per farci proseguire ugualmente.
MARCO
Il gioco era fatto. La donna aveva sentito la magica parola “Autorità”
e questo significava che eravamo finalmente consapevoli del suo
valore. Disse che mi ero comportato molto male, ma che
generosamente ci avrebbe concesso di proseguire. Continuai a recitare
la parte del pentito e la sbarra si aprì. Avevamo perso oltre mezzora,
quella città era veramente ostile, non vedevo l’ora di essere altrove.
– Cosa ne pensi?
MARCO – Ah ah! Cosa vuoi che pensi? Di certo sei stato molto maleducato!
ANDREA – Era veramente fuori. Di gente sfigata ne ho conosciuta molta,
ma così tanto mai. È di un livello irraggiungibile!
MARCO – Ci ha detto che avremmo dovuto passare la notte lì,
hai giustamente protestato e quella è strippata. Ah ah ah ah!
ANDREA – Non si finisce mai di imparare! Mi sa che la prossima volta giocherò
d’anticipo, appena mi fermano mi scuso subito. Ah ah!
MARCO – Più che altro quei due sfigati ci hanno fatto perdere un sacco di tempo,
ormai sta tramontando il sole e non è molto prudente proseguire. Cosa facciamo?
ANDREA
313
– Almeno a Magenta ci dobbiamo arrivare, prima c’è solo un piccolo
villaggio ma mi sa che non c’è niente. Saranno circa cento chilometri, ci arriviamo
col buio, ma non c’è alternativa. A meno che non vogliamo tornare dalla nostra
amica e chiederle ospitalità per la notte!
MARCO – Ah ah! E poi magari le sorridi ancora e le dici che sei veramente
dispiaciuto per prima e te la intorti! Ah ah ah ah!
ANDREA – Il vero biker è anche seduttore, ma solo con persone meritevoli.
MARCO – Ah ah! E lei non lo è!
ANDREA
La strada si perdeva all’orizzonte, deserta e diritta, ma l’asfalto era in
pessime condizioni. Gigantesche buche disseminate ovunque erano
talvolta così larghe da occupare tutta la carreggiata. Spesso riuscivo a
evitarle, talvolta invece quasi mi fermavo e ci entravo con cautela, ma
altre volte non riuscivo a fare nulla e la moto sobbalzava fra
inquietanti rumori. Temevo che le gomme esplodessero o che i cerchi
potessero piegarsi nella forza dell’urto, ma la Yamaha resistette, come
sempre. Ormai era buio e le buche continuavano a rendere il viaggio
molto difficile. Nessun cartello ci indicava dove fossimo e non
potevamo fare altro che andare avanti.
Vedemmo un gruppo di capanne sulla sinistra, da una di esse usciva
una luce di candela, dentro c’erano due ragazzi che stavano
preparando un the e ci fecero cenno di fermarci. Accettammo l’invito,
rimanemmo fermi qualche minuto a sorseggiare la bevanda calda,
lasciammo loro qualche moneta e ripartimmo.
Dopo pochi minuti vedemmo in lontananza un chiarore, eravamo
arrivati a Magenta. Ci interessava solo trovare un hotel con un
ristorante, non avevamo più voglia di girare, nemmeno per una
passeggiata. Non fu difficile, ne vedemmo uno proprio sulla strada e
ci infilammo nel piccolo sentiero che portava a un grande edificio blu.
C’era una grande veranda con dei tavoli bianchi di legno, proprio
vicino a quella che sembrava essere la porta principale, da cui uscì un
uomo elegante sulla quarantina che ci accolse con un bel sorriso,
doveva essere il titolare. Subito chiamò un giovane inserviente che ci
accompagnò alla nostra stanza. Era un luogo pulito, senza pretese. Al
centro spiccava un grande letto matrimoniale con lenzuola blu, in
314
tinta con i muri esterni; inoltre non mancava il bagno in camera con
l’acqua calda. Una volta lavati e cambiati andammo a sedere sotto la
veranda e attendemmo che il cameriere si facesse vivo.
– Anche oggi è stata una giornatina niente male!
– Sì, anche se dopo il Koundara - Labè tutto passa in secondo piano.
ANDREA – Ah ah! Sì, è vero. A confronto oggi è sembrata una gita fuori porta.
E dire che abbiamo fatto quasi cinquecento chilometri.
MARCO – Da Koundara a Labé erano la metà, ma il culo è stato doppio.
ANDREA – Anche triplo!
ANDREA
MARCO
Arrivò il cameriere, che ci propose di mangiare pollo arrosto con
patate e chiaramente accettammo. Disse però che ci sarebbe voluto
un po’ di tempo, ma non avevamo certo fretta. Ordinammo due birre
grandi per ingannare l’attesa, ma dopo circa tre quarti d’ora
cominciammo a nutrire qualche dubbio sulla qualità del ristorante.
– La birra l’abbiamo finita e non si è visto più nessuno.
Ma il pollo sono andati a comprarlo in città?
ANDREA – Mah! Ci hanno abbandonati qua! Forse sono andati a letto.
MARCO
Le nostre domande stavano per trovare una risposta. Dalla porta al
nostro fianco uscì infatti il titolare che si avvicinò al nostro tavolo.
– Signori, volete qualcosa d’altro da bere intanto che aspettate?
– Sì, ci porti altre due birre. Ma perché ci vuole così tanto tempo?
TITOLARE – Il cuoco ha dovuto uccidere il pollo, poi ha dovuto togliere il sangue,
pulire le interiora, spennarlo… ci vuole del tempo a cucinare la carne, mi spiace!
MARCO – Capisco, ci sono proprio tante cose da fare. Ma fra quanto sarà pronto?
TITOLARE – Beh, non molto, ormai sarà a buon punto. Al massimo mezzora.
TITOLARE
MARCO
Capimmo così il motivo di tutta quella attesa. La gente comune
mangiava perlopiù verdure e qualche uovo, oppure il latte e i formaggi
delle pecore e delle capre. La carne era invece un alimento per ricchi,
quindi quasi nessuno la chiedeva e probabilmente non avevano
315
nemmeno un frigorifero. Ecco che, di fronte alle rare richieste, il
cuoco andava nel pollaio e uccideva all’istante il malcapitato animale.
– Che storia! Gli chiedi un pollo, lo ammazzano e lo cucinano al volo.
Non si può certo dire che non sia carne fresca!
MARCO – Altro che i nostri supermercati.
ANDREA – A saperlo prima potevamo prendere dei formaggi,
ho una fame che non ci sto più dentro.
MARCO – Anch’io, non ci rimane che bere la birra!
ANDREA
Un altro cameriere arrivò finalmente con un vassoio, sul quale
stavano in bella mostra il sospirato pollo e tante patate fritte.
– Pancia mia, fatti capanna!
MARCO – Mi sa che sarà una capanna piccola, questo pollo è tutto pelle e ossa!
ANDREA – Soccia, è vero! Non c’è la carne! Ci hanno dato un pollo denutrito!
MARCO – Mi sa che qua sono talmente poveri che non hanno nemmeno da dare
da mangiare ai polli. Se non fosse stato ucciso, sarebbe morto di fame a breve!
ANDREA – Ah ah, che orrore! Un’ora e mezza di attesa per delle ossa e dei
nervi. Meno male che ci sono le patate, mi ci butterò a capofitto!
ANDREA
Mangiammo tutto quello che c’era di commestibile, poi finimmo le
birre e ci ritirammo in stanza. Stavo per andare a dormire, quando mi
accorsi di avere scordato le sigarette sul tavolo dove avevamo cenato.
Uscii per recuperarle e vidi una scena incredibile. I due camerieri
stavano letteralmente sbranando i nostri avanzi. Riuscivano a
mangiare ogni singolo nervo o pezzo di grasso del pollo, tutto ciò che
per noi era uno scarto non lo era per loro. Nei pochi minuti trascorsi
avevano già completato l’opera e la carcassa dell’animale si era ridotta
al solo scheletro. Presi le mie sigarette con un certo imbarazzo, ma
loro non fecero nemmeno una piega e continuarono avidamente
nell’opera. Compresi che quella gente doveva veramente patire la
fame. Erano vestiti eleganti, puliti e curati, l’albergo in cui lavoravano
si presentava anche bene, ma era tutta una facciata che nascondeva la
vera, triste condizione in cui versavano. Non potevano permettersi di
316
mangiare carne di pollo e i nostri scarsi avanzi dovevano essere stati
considerati come una vera manna dal cielo. Nei miei trent’anni di vita
non avevo mai passato un solo giorno senza mangiare quello che mi
andava, spesso avevo lasciato sul tavolo un po’ di cibo perché ero già
sazio o semplicemente per tenere un po’ di spazio nello stomaco per
una portata successiva più appetitosa. Quei ragazzi nemmeno
ventenni invece stavano sbranando i miei resti con disinvoltura. In
Guinea era normale non mangiare carne, sicuramente un cibo troppo
costoso per poterselo permettere, e non si fecero scappare quella
ghiotta occasione. Quello che per me sarebbe stato soltanto un
comportamento vergognoso, per loro era invece una grande e
irrinunciabile opportunità di nutrimento.
La scena mi rattristò, avrei voluto lasciare loro dei soldi, poi rinunciai.
Riferii a Marco ciò che avevo appena visto, quella volta non
trovammo aspetti divertenti nell’accaduto e non ci scherzammo
sopra, come eravamo soliti fare. Avevamo toccato con mano l’aspetto
più triste e noto del Terzo Mondo, avevamo conosciuto la fame.
317
318
DANANÈ
Il cielo era totalmente coperto di nuvole chiare, non minacciava di
piovere ma non c’erano nemmeno grandi possibilità di vedere
spuntare il sole. La giornata che stava per cominciare sarebbe stata
speciale, avremmo superato il confine e raggiunto la Costa d’Avorio,
l’ultimo Stato del nostro viaggio transafricano. Sedemmo nuovamente
al tavolo della sera prima e arrivarono i due camerieri con la
colazione. Sul loro viso non c’era la minima espressione di imbarazzo
per essere stati sorpresi a mangiare i nostri resti, per loro doveva
essere sicuramente una cosa normale e forse era giusto che lo fosse.
– Hanno proprio un altro modo di pensare, di intendere la vita.
Da noi sarebbe inconcepibile finire pubblicamente gli avanzi del cibo di sconosciuti.
MARCO – Qua il cibo non va sprecato, è troppo prezioso.
E forse chi lo abbandona viene guardato con diffidenza, se non con disprezzo.
Chissà cosa hanno pensato di noi! Ordiniamo un pollo,
ci mettono un’ora e mezza a farlo e noi, ingrati, lo lasciamo lì.
ANDREA – Beh, abbiamo lasciato lì dei nervi, visto che la carne praticamente non
c’era. Era già uno scheletro, tanto era magro!
MARCO – Loro mangiano tutto, noi facciamo i fighetti e cerchiamo solo le parti
più pregiate, scartando tutto il resto, anche se è commestibile.
Abbiamo un approccio da ricchi o forse da viziati.
ANDREA – E dire che hanno un bel fisico, non sono denutriti!
MARCO – Forse proprio perché mangiano tutto ciò che è organico,
senza distinzioni. Comunque mi sa che qua sono tutti grossi per una questione
genetica, in Marocco mangiano meglio ma sono più esili.
ANDREA – Lo penso anch’io. Anche le donne sono corpulente e non penso
proprio che si abbuffino! Ti ricordi la culona che ci ha portati a bere il brodino in
quel paese dopo Kaffrine, prima di Tambacounda?
MARCO – Ah ah! Sì! Non penso certo che fosse un culone da eccesso di calorie,
come capita quasi sempre in Italia!
Certo che è ben strano, non mangiano e sono grossi se non obesi. Tra l’altro sono
sempre in movimento per sopravvivere, non fanno certo una vita sedentaria.
ANDREA – Non lo so, non me lo spiego. Misteri della genetica e della vita.
ANDREA
319
– E dire che pensavo di essere uno che mangia di tutto! Dopo questa
scena mi dovrò mettere in seria discussione!
ANDREA – La maggior parte della gente che conosco è molto più fighetta di noi.
Lasciano sul tavolo almeno la metà delle portate, sono schizzinosi. E pensa che
alcuni credono addirittura che finire il cibo sia un indice di maleducazione.
MARCO – Ah ah! Vallo a dire a questi!
ANDREA – Vabbè, ne riparleremo. Adesso passiamo a cose più importanti!
Prendo la carta Michelin dell’Africa occidentale. Che ne pensi?
MARCO – Un’ottima idea, soprattutto nuova!
MARCO
Aprii per l’ennesima volta la mappa sul tavolo. Fu una grande
emozione vedere che la Costa d’Avorio era molto vicina alla città in
cui ci trovavamo. Il nostro progetto, nonostante le infinite avversità,
si stava ormai concretizzando ed eravamo quasi giunti a destinazione.
– La strada sembra bella e soprattutto breve.
Guarda qua, saranno circa duecento chilometri al confine!
MARCO – E anche la Guinea se ne va. Stiamo macinando strada a raffica!
ANDREA – Già, centocinquanta chilometri e siamo a Nzerèkorè,
poi un’altra cinquantina e arriviamo a Lola.
Che pacco, guarda! Dopo sembra che ci sia una pista!
MARCO – Vabbè, ma saranno trenta chilometri.
Inutile dire che dopo il Koundara – Labè…
ANDREA – Ah ah! Certo! Trenta chilometri sono ben poca cosa! Comunque la
pista ci porta a Nzoo, proprio al confine, e da lì siamo in Costa d’Avorio.
MARCO – La nostra sospirata meta.
ANDREA – Beh, la nostra meta è Abidjan, sono quasi mille chilometri.
Mi piacerebbe fare un paio di tappe prima di arrivare in città, ma è inutile
pianificare, lo faremo domani, anche perché non si sa dove dormiremo. Tu lo sai?
MARCO – Ah ah, no! Potremmo però pensare di fermarci a Man, è la prima
località grande dopo il confine, anche se è un po’ fuori dal percorso per Abidjan.
ANDREA – Un posto vale l’altro, vediamo stasera a che punto siamo,
poi leggiamo la guida e decidiamo cosa ci conviene fare.
MARCO – Come sempre, del resto. Vabbè, allora paghiamo e andiamo via.
ANDREA
320
Ci attendeva così l’ultima tappa in Guinea. Era una mattina fresca e
umida, una leggera foschia avvolgeva il paesaggio e gli toglieva quella
nitidezza che lo aveva sempre caratterizzato nei giorni precedenti.
Avevamo definitivamente abbandonato le meraviglie del Fouta
Djalon nel nord rurale del Paese e ci trovavamo nel sud, una zona
molto più evoluta dove era in corso una massiccia opera di
disboscamento che incideva visibilmente sul paesaggio. I magnifici
colori della fitta vegetazione erano sempre più lontani e lasciavano
lentamente il posto ad ampie radure. Le dure e implacabili leggi
dell’economia avrebbero presto portato a gravi danni ambientali, che
già avevano devastato altre parti del mondo.
La strada era larga e in ottime condizioni, il traffico molto scarso, così
potemmo lanciarci in velocità verso il confine. Dopo qualche decina
di chilometri la carreggiata si allargò ulteriormente e si trasformò in
una superstrada con due corsie per ciascun senso di marcia. Era un
inequivocabile segno del progresso che stava vivendo l’intera regione,
non attraversavamo più i villaggi come avevamo sempre fatto, la
lingua d’asfalto correva indisturbata nell’ampia vallata disboscata e
puntava decisa verso la Costa d’Avorio. Tanti camion viaggiavano in
entrambe le direzioni, quasi tutti trasportavano legname, ma la strada
era larga e non fu necessario rallentare. Superammo lo svincolo di
Nzerèkorè e raggiungemmo presto Lola, ultima località di rilievo
prima della frontiera. Avevamo percorso duecento chilometri in poco
più di due ore, erano tempi di marcia del tutto simili agli standard
europei. Ci fermammo per fare il punto della situazione.
– Che bazza questa superstrada! Altro che Koundara – Labé!
MARCO – È un Paese di contrasti. Si passa da piste di fango di centinaia di
chilometri a superstrade appena costruite.
ANDREA – C’è anche da dire che sul Fouta Djalon non c’è nulla,
mentre qua è pieno di gente che disbosca e c’è un gran giro di camion!
MARCO – Dove c’è denaro ci sono strade e dove ci sono strade c’è denaro.
ANDREA – Mi piace comunque meno. È bello potere guidare in scioltezza,
ma preferisco di gran lunga le piste, c’è poco da fare. Sono più africane!
MARCO – Vedrai che non sarà sempre così. Godiamoci il comfort finché c’è!
ANDREA
321
– E poi non bisogna mai dimenticare che l’Africa non regala nulla!
– Ah ah! Vero! Mai dimenticare questa perla di saggezza!
ANDREA – Adesso dovrebbe iniziare la pista di trenta chilometri che arriva a
Nzoo, al confine. Seconde te cosa è meglio fare?
Mangiamo qua o festeggiamo con un pranzo in Costa d’Avorio?
MARCO – Mah, secondo me è meglio arrivare in frontiera a stomaco pieno.
Metti che ci tengono lì per qualche motivo, tipo carnet des passages,
siamo costretti al digiuno per chissà quanto.
ANDREA – Giusto, facciamo uno spuntino e ripartiamo.
ANDREA
MARCO
L’asfalto era finito con la superstrada e Lola si presentava quindi
come tutti i villaggi visti sino a quel momento, poveri e polverosi, con
le solite pozzanghere a rallentare la viabilità. Comprammo qualcosa da
mangiare da un venditore ambulante e in nemmeno mezzora fummo
nuovamente in sella, lanciati verso la foresta.
Iniziò una pista meravigliosa, il disboscamento non aveva ancora
devastato quella zona e la vegetazione era così fitta che non si vedeva
nemmeno il cielo. Quell’ombrello naturale aveva impedito alla pioggia
di allagare il fondo di terra rossa e potei guidare senza difficoltà. A un
certo punto pensai di avere visto un grosso ramo davanti a me e feci
per schivarlo, ma improvvisamente si mosse zigzagando e uscì
velocemente dalla pista. Si trattava di un lungo serpente che,
sentendoci arrivare, si era affrettato a nascondersi nel sottobosco.
– È la prima volta che vediamo un serpente in strada!
– Fa sempre un certo effetto!
ANDREA – Era anche strano che non ne avessimo visti sino ad ora.
Leggevo che questa zona è piena di rettili, tipo coccodrilli, pitoni, vipere e amenità
del genere! Però pare che abbiano paura di noi e scappino.
MARCO – Anche noi abbiamo paura di loro!
Quella bestia di prima però non era una vipera, sarà stata lunga due metri!
ANDREA – Non lo voglio nemmeno sapere!
ANDREA
MARCO
Continuammo quindi indisturbati il nostro viaggio verso il confine.
Raggiungemmo un piccolo gruppo di capanne senza nome, dove
322
stavano alcune persone che ci guardarono con la solita espressione di
stupore. Chiedemmo dove fossimo e ci confermarono di essere a
Nzoo, l’ultimo centro abitato della Guinea. Proseguimmo così per
nemmeno un chilometro e trovammo una sbarra, eravamo finalmente
arrivati alla frontiera. Un solo militare poltriva all’interno di una
casupola e sentendoci arrivare uscì ad accoglierci con un sorriso.
– Buongiorno signori. State uscendo dalla Guinea?
MARCO – Sì, andiamo in Costa d’Avorio.
MILITARE – Vi è piaciuto il nostro Paese?
ANDREA – È meraviglioso e la gente è molto ospitale.
MILITARE – Sì, è vero. Mi date i passaporti, per favore?
MILITARE
Marco glieli consegnò e venimmo invitati a seguirlo all’interno della
casupola. Sedette dietro a un tavolo, mentre noi attendemmo in piedi
che finisse il controllo. Dopo poco ce li restituì e ci chiese anche i
documenti della moto. Gli consegnammo il libretto di circolazione e
l’assicurazione, evitando di fare ogni riferimento al lasciapassare, nella
speranza che si accontentasse di ciò che gli avevamo dato e che non
pretendesse altro. Purtroppo le cose non andarono per il verso giusto.
– Mi date anche il carnet des passages, per favore?
MARCO – Non abbiamo il carnet, ma ci è stato rilasciato un permesso di
circolazione in dogana vicino a Koundara.
MILITARE – Me lo può mostrare, per favore?
MILITARE
Quel maledetto documento continuava a essere il nostro incubo
peggiore. Al solo sentirlo nominare ci si accapponava la pelle, quella
parola era sempre portatrice di sventura. Marco gli consegnò quanto
richiesto in un silenzio carico di tensione.
– Il mio collega a Koundara ha scritto che voi potete andare fino a
Conakry e una volta lì potrete regolarizzare la vostra posizione.
Mi spiace, ma di qua non potete passare, dovete andare per forza a Conakry.
MILITARE
323
– Ma scusi, il suo collega deve essersi sbagliato! Noi quel documento non
lo abbiamo nemmeno letto, ma gli abbiamo detto che saremmo dovuti andare in
Costa d’Avorio passando per Nzerèkorè e lui probabilmente non ha capito!
MILITARE – Mi spiace, ma qua c’è scritto che dovete andare a Conakry per farvi
fare un altro permesso di circolazione. Con questo di qua non potete passare.
MARCO – Ma sono centinaia di chilometri, noi abbiamo un aereo che parte da
Abidjan fra pochi giorni e lo perderemmo! Non c’è un’alternativa?
MILITARE – Mi spiace, non dipende da me. Io con questi documenti non posso
farvi passare. Se tornate a Lola c’è una caserma dell’esercito, provate a chiedere là.
MARCO
Sapevamo che i progetti non erano quasi mai del tutto attendibili, che
potevano verificarsi infiniti imprevisti che ci avrebbero costretti a
rivedere i nostri piani, ma non pensavamo proprio che non ci
facessero uscire dal Paese. Capivamo che potesse essere difficile
entrare, ma non di certo andarsene. Eravamo caduti in una rete di
problemi burocratici che sembrava inestricabile. Anche se avevamo
dichiarato esplicitamente il nostro itinerario, l’ufficiale di Koundara
aveva ignorato la cosa, prendendo l’iniziativa di pianificare il nostro
percorso. Saremmo dovuti andare a Conakry, che ci interessasse o
meno farlo, e in quel momento l’ufficiale che ci stava di fronte non
poteva fare altro che prendere atto delle decisioni di una persona
superiore a lui, che aveva stabilito che noi dovessimo necessariamente
raggiungere la capitale. Capimmo che non c’erano margini di manovra
e l’unica cosa da fare sarebbe stata tornare a Lola, cercare la caserma
di cui ci aveva parlato e dare quindi fondo a tutta la nostra pazienza,
nella speranza di trovare qualcuno che si prendesse a cuore la nostra
situazione e ci regolarizzasse in qualche modo, chissà quale, i
documenti, così da lasciare la Guinea in giornata.
Ripercorremmo la pista nel massimo silenzio, eravamo delusi,
arrabbiati e preoccupati dalla prospettiva di perdere ore a spiegare a
chissà chi l’ingarbugliata situazione. Arrivammo in città e trovammo
subito la caserma. C’era un gran via vai di macchine fuoristrada,
camion e giovani soldati armati sino ai denti che si spostavano senza
posa da un edificio all’altro per chissà quale motivo. Non sapevamo
assolutamente da dove cominciare, così entrammo in una stanza che
324
aveva l’aria di un ufficio e incontrammo due militari dall’aria gentile.
Marco spiegò la situazione e questi ci chiesero di esaminare il
documento. I due lo lessero insieme, confabularono un po’ e uno di
loro ci fece cenno di aspettare, dopodiché uscì dal locale, lasciandoci
in compagnia del suo collega, che cominciò a farsi gli affari suoi.
– Il tipo se n’è andato col nostro permesso.
ANDREA – Speriamo che abbia capito!
Sembra un tipo sveglio, ma non mi illuderei troppo.
MARCO – Ma se non ci fanno passare che cazzo facciamo? Andiamo a Conakry?
ANDREA – Mah! Non saprei! Hai visto dov’è Conakry?
MARCO – Sì, dobbiamo rifare la stessa strada sino a Mamou,
poi abbiamo altri duecentocinquanta chilometri sino al mare.
ANDREA – Già. Ma il problema maggiore è che là poi siamo bloccati.
Si potrebbe raggiungere Abidjan seguendo la strada costiera,
ma passa attraverso la famigerata Sierra Leone e la Liberia.
MARCO – Ah ah! Bella strada! In Sierra Leone è appena finita la guerra civile e
in Liberia non so, ma ogni tanto in tv parlano di colpi di Stato e scontri etnici.
Insomma, non è proprio una zona tranquilla!
ANDREA – E così la Costa d’Avorio salterebbe. In alternativa si potrebbe
andare verso nord ed entrare in Guinea Bissau, ma non so nemmeno se serva il
Visto, se lo facciano al confine o meno. Quindi è un po’ un’idea del cazzo.
MARCO – Oppure da Conakry, coi documenti a posto,
dovremmo ritornare qua e proseguire per la nostra vecchia strada.
ANDREA – Comodo! Mah! Che dire! Speriamo bene.
MARCO
L’ufficiale tornò e cominciò a farci un lungo discorso. Sembrava che
la cosa non fosse fattibile e che saremmo stati costretti ad andare nella
capitale, poi ci disse di aspettare ancora perché gli era venuta un’idea,
chissà quale. L’agonia si protrasse per alcune ore, non ricordo in
quanti uffici venimmo portati alla ricerca di una soluzione. Marco
spiegò la stessa cosa più volte a diverse persone, ognuna delle quali
sembrava possedere la verità, ma alla resa dei conti si presentava
sempre qualche nuovo intoppo. Stava venendo sera, non sapevamo
ancora nulla e ci stavamo rassegnando all’idea di trascorrere la notte a
325
Lola, quando il primo ufficiale con cui avevamo avuto a che fare ci
disse con soddisfazione che un impiegato stava scrivendo un nuovo
permesso col quale avremmo potuto sconfinare a Nzoo. Non so cosa
fosse accaduto in quelle ore, l’unica cosa certa è che si era preso a
cuore la nostra situazione e aveva seguito passo dopo passo tutta la
vicenda, giungendo infine alla soluzione. Ci consegnò lui stesso il
nuovo permesso e lo ringraziammo sentitamente. Eravamo liberi di
uscire dalla Guinea e lo avremmo fatto immediatamente, giusto il
tempo di ripercorrere nuovamente la solita pista. Ma per l’ennesima
volta la moto non voleva saperne di partire. Impiegai veramente tanto
e cominciai a pensare che l’impianto elettrico si fosse rotto in via
definitiva, quando il rassicurante rombo del monocilindrico risuonò
nell’aria. Potevamo contare ancora sulla fedele Yamaha.
Superammo quindi velocemente la frontiera e un centinaio di metri
dopo ci fermammo vicino ad un’altra baracca, ultimo ostacolo fra noi
e la sospirata Costa d’Avorio. Trovammo due funzionari molto gentili
che non ci fecero perdere tempo, si limitarono a un controllo molto
rapido ai passaporti e non fecero nessuna ulteriore richiesta. Non si
poteva mai essere certi di nulla, talvolta si stava fermi ore intere, altre
pochi minuti, tutto dipendeva da chi si incontrava.
L’ultimo Paese del nostro viaggio si presentò ancora più selvaggio
della Guinea. Eravamo avvolti dalla vegetazione e la pista si restrinse
drasticamente, diventando solo un piccolo sentiero che si snodava fra
i fitti alberi. Il terreno era irregolare, pieno di grandi buche e asperità
che rendevano la guida molto difficoltosa, la moto sobbalzava di
continuo e il grande carico la faceva oscillare pericolosamente. Stavo
uscendo da una curva, quando mi trovai improvvisamente di fronte a
un dosso. Provai a raddrizzarmi per superare l’ostacolo, ma l’enorme
peso mi sbilanciò e non riuscii nel mio intento. In un attimo capii che
la caduta era inevitabile. Andavo molto piano ma non ebbi il tempo di
fare niente, se non sfilare la gamba per evitare che rimanesse
schiacciata sotto centinaia di chili, così cademmo con un tonfo
nell’erba. Non mi ero fatto nulla e mi rialzai prontamente, ma vidi
Marco ancora sdraiato a terra. Era sporco di fango e stringeva una
gamba con le mani. Temetti subito che a lui fosse andata peggio.
326
– Che pista di merda! Mi dispiace, scusa. Come va? Ti sei fatto male?
– Insomma! Ultimamente stai attentando un po’ troppo alla mia vita!
ANDREA – Chiedo perdono, ma sono arrivato sul dosso che ero ancora in piega
da quella curva e non sono riuscito a tenerla su. Tutto a posto?
MARCO – No, mi sono fatto male a una gamba.
Ho preso una gran botta sulla tibia e mi sono tagliato. Guarda quanto sangue!
ANDREA – Che sfiga! C’era solo quella pietra e ci sei finito sopra!
MARCO – Non è il posto migliore per farsi male, guarda dove siamo!
ANDREA – Non perdiamo la calma, abbiamo lavorato un anno in Croce Rossa,
non ci faremo certo spaventare da un taglietto così!
MARCO – Non è un taglietto, è un taglio. E per giunta sulla mia gamba!
ANDREA – Dai, su, non fare così! Adesso prendo l’acqua e laviamo la ferita,
poi la fasciamo con la garza e ci togliamo da qua.
C’è una città a cinquanta chilometri, ci sarà anche un ospedale,
così ti affido alle amorevoli cure di un medico ivoriano.
MARCO – I medici ivoriani sono rinomati nel mondo per la loro perizia, vero?
ANDREA – Ah ah! Sì, sono i migliori! Dai, tieni duro, è solo un taglio,
non ti sei mica rotto la tibia! Il vero biker non si perde mai d’animo.
ANDREA
MARCO
Sollevai la moto da terra, fortunatamente era intatta. Tornai così da
Marco e feci una prima medicazione con i pochi mezzi a nostra
disposizione. Tolsi la terra dalla ferita con l’acqua e avvolsi una garza
intorno a tutta la gamba, ma era meglio fare un controllo medico.
Secondo la carta avremmo dovuto percorrere quella pista per
cinquanta chilometri, dopodiché saremmo giunti a Dananè, una città
abbastanza grande, in cui avremmo potuto trovare aiuto. Ma
nuovamente il motore non si accese. Marco mi aspettava sdraiato a
terra mentre io continuavo a tirare poderose pedalate sul kick starter.
Ogni volta occorrevano tempi sempre più lunghi per farla partire e
dopo un quarto d’ora di tentativi mi fermai a riprendere fiato.
– Ho una buona notizia per allietarti lo spirito.
MARCO – Fammi indovinare… la moto è rotta e dobbiamo andare a piedi!
ANDREA – Più o meno. Ma non essere pessimista, direi che non è ancora partita,
però sono certo che è solo questione di tempo! Mi riposo la gamba, poi riprovo.
ANDREA
327
– Speriamo. Non è il momento migliore per una passeggiata nella foresta!
– Beh, nella peggiore delle ipotesi torniamo in dogana a chiedere aiuto.
MARCO – Dai, riprova, lo sai che sono fiducioso.
La mia moto non ci pianterebbe mai in asso nel bel mezzo di una foresta.
MARCO
ANDREA
E la fedele Yamaha partì ancora una volta. Era esausta, ma non
voleva mollare, proprio come noi. La pista continuava ad essere
stretta e accidentata, stavo attentissimo a non commettere mosse
sbagliate ma non era per niente facile. In più dovevo evitare il più
possibile di centrare buche o pietre per rendere il viaggio meno
doloroso possibile al mio amico ferito.
Avevamo caricato la moto all’inverosimile, era pressoché inguidabile
già ad Almeria. Su strada asfaltata occorreva valutare con largo
anticipo ogni manovra, non potevo pensare di schivare ostacoli
improvvisi o fare brusche frenate, in quanto la forza d’inerzia
dell’immenso bagaglio non lasciava spazio all’improvvisazione. In
fuoristrada inoltre la situazione peggiorava drasticamente a causa della
scarsa tenuta degli pneumatici, quindi per diverse volte ne avevamo
fatto entrambi le spese, anche se fino a quel momento senza danni di
rilievo. Potevo solo guidare piano, così in caso di caduta le
conseguenze sarebbero state minime.
Ormai era diventato buio e ci trovavamo in mezzo alla fitta foresta,
non si vedeva quasi nulla, nonostante il faro fosse acceso. Mi fermai a
pulirlo dagli insetti spiaccicati e subito tornò a penetrare l’oscurità con
la sua luce gialla. Attraversammo un villaggio di capanne ma
rinunciammo a chiedere aiuto, molto meglio proseguire e arrivare in
città. Dopo un tempo indefinito vedemmo dei lampioni davanti a noi,
eravamo finalmente giunti a Dananè.
Diverse persone vagavano lungo la strada polverosa, ne fermai una a
caso e le chiesi dove fosse l’ospedale, si trovava proprio lì vicino. Era
un grande edificio bianco con piccole finestre e una porta di legno
come unico ingresso. Più che un ospedale sembrava una caserma.
Entrammo e ci trovammo in un ampio cortile, delimitato ai quattro
lati da un porticato, scarsamente illuminato da poche lampadine.
Sotto di esso stavano sedute a terra numerose persone, tutte mal
328
vestite, sporche e dalla faccia triste. Pensai che fossero dei pazienti
ricoverati, ma davano più che altro l’idea di essere in attesa di
qualcosa, forse di un’assistenza che non arrivava. Lungo il perimetro
c’erano diverse porte, tutte chiuse, che avevano l’aria di essere
ambulatori dismessi. Quell’atmosfera triste, cupa e decadente non ci
fece certo una bella impressione, era un’immagine molto deprimente.
– Dove cazzo mi hai portato?
ANDREA – Siamo in uno dei più grandi ospedali della Costa d’Avorio!
MARCO – Soprattutto bello, ispira un certo senso di efficienza.
E quelli lì per terra secondo te chi sono?
ANDREA – Mah. Forse sono in attesa di essere visitati, chissà da chi,
visto che non sembra esserci traccia nemmeno di un infermiere!
MARCO – Mi devo sedere con loro?
ANDREA – Ah ah! No, dai, informiamoci!
MARCO
Il mio amico chiese a uno dei presenti, che gli indicò una porta vicina.
– Beh, allora io busso.
ANDREA – Bussa, siamo qua apposta! E non temere, starò al tuo fianco!
MARCO – Questo mi rassicura assai!
ANDREA – Ah ah! Dai, bussa, fatti medicare e andiamo a cercare un hotel.
MARCO
Venne ad aprirci un ragazzo della nostra età che indossava un camice
bianco e ci invitò ad entrare. L’ambulatorio era molto spartano,
illuminato da una brutta luce al neon, con tanta polvere ovunque, i
muri scrostati e arredato con una rozza scrivania in metallo, una sedia
arrugginita e un lettino fatiscente. Ma il pezzo forte era senz’altro
l’apparecchio per sterilizzare gli strumenti. Molto simile a un forno a
microonde, non era collegato alla corrente e al suo interno giacevano
alcuni bisturi e pinze su una grata sporca di grasso, colato dai cardini
dello sportello aperto. C’era inoltre un unico armadietto destinato
normalmente ai farmaci, alle garze e ad ogni altra cosa utile, ma
tristemente vuoto. Non sembrava di certo un ambulatorio, ma solo
una brutta stanza dentro la quale stava un medico o presunto tale.
329
MARCO
– Bello questo posto. La mia cantina è certamente più elegante e pulita.
– Non essere prevenuto, illustra al dottore ciò che ti affligge!
ANDREA
Così Marco si sdraiò timoroso sul lettino e mostrò al medico la ferita.
– È un taglio abbastanza profondo, è necessario disinfettarlo e dare dei
punti di sutura, sennò la ferita non si chiuderà bene.
MEDICO
L’idea di farsi penetrare da un ago proveniente da quello sterilizzatore
spento e sporco di grasso nero riempì Marco di orrore. Non potevo
certo biasimarlo, le possibilità di contrarre malattie erano elevate.
– Io però non vorrei i punti. Si può solo disinfettare e fasciare stretto?
– Sì, si può fare. Però le rimarrà una brutta cicatrice.
Non ne vale la pena, si fidi, è meglio dare i punti.
MARCO – La ringrazio, ma preferisco la cicatrice, ho paura dei punti.
MARCO
MEDICO
Il medico si rassegnò e disse che si sarebbe limitato a fare ciò che
Marco gli stava chiedendo. Andò così a sedere dietro la scrivania,
cominciò a scrivere su un foglio e dopo poco me lo consegnò.
– Scusi dottore, cosa ha scritto?
MEDICO – È una richiesta per la farmacia. Il suo amico deve andare a comprare
il disinfettante, la garza e il cerotto a nastro, poi torna qua e faccio tutto.
MARCO
Così capimmo il motivo dell’armadietto vuoto. L’ospedale non aveva
nulla al suo interno, si trattava solo di un edificio in cui lavoravano i
medici, ma le cure erano riservate solo a chi poteva pagarsi i farmaci,
cioè a ben poche persone. Fortunatamente noi i soldi li avevamo e
quel piccolo incidente si sarebbe risolto senza problemi, ma se
fossimo stati poveri Marco non avrebbe ricevuto le cure e la ferita si
sarebbe infettata, con chissà quali conseguenze.
In quelle terre dell’Africa nera il confine tra la vita e la morte era più
che mai labile e in quella occasione ci fu ancora più chiaro perché non
vedessimo nemmeno un vecchio. Solo i più forti sopravvivevano.
330
ANDREA
MARCO –
– Beh, vado in farmacia. Tu aspettami qua, non ti muovere che torno!
Ah ah! Fai presto, intanto faccio due chiacchiere col dottore.
Uscii dall’edificio, attraversai la strada e mi trovai di fronte a un
negozio chiuso con un robusto cancello di acciaio, sorvegliato da una
guardia armata di fucile. Sembrava uno dei posti di blocco che
avevamo incontrato sino a poco prima e non l’ingresso di una
farmacia. Le medicine, tutte importate dalla Francia, erano molto
costose, quasi nessuno se le poteva permettere e tanti ne avevano
bisogno. Senza una vigilanza armata, quel luogo sarebbe stato
sicuramente bersaglio quotidiano di furti e rapine. Mi avvicinai e la
guardia mi chiese di mostrarle la richiesta del medico, la guardò e mi
fece cenno di passare. Stavo per entrare ma la porta non si aprì e la
farmacista mi servì rimanendo chiusa dietro il cancello. Prima riscosse
la somma, poi mi consegnò il materiale.
L’accaduto mi scosse non poco. Compresi il motivo della presenza di
tutta quella povera gente sotto il portico dell’ospedale, probabilmente
avevano bisogno di cure e non potevano permettersele, così
aspettavano che qualcosa accadesse, forse che qualcuno li aiutasse,
forse altro. Ero sempre più contento di avere avuto la fortuna di
nascere in Europa, dove potevo mangiare tutti i giorni, avere
assistenza medica di qualità, abitare in una bella casa con l’acqua, la
luce e il riscaldamento. E ancora una volta ebbi conferma che la vita
che conducevo da trent’anni non era la normalità, ma condizione
privilegiata di chi aveva avuto la grande fortuna di nascere in un
ambiente benestante. Sarei tornato a casa con uno spirito diverso, non
avevo dubbi. Sicuramente avrei vissuto con maggiore gioia la mia
quotidianità italiana, godendo delle piccole cose che possedevo, senza
più rattristarmi per tutto ciò che non avevo. Rasserenato da quei
pensieri, tornai nell’ambulatorio e consegnai al medico il materiale.
– Ho fatto tutto. Mi sei costato un capitale!
MARCO – Con tutto quello che ci sputtaniamo, questi sono soldi spesi bene!
ANDREA – Questo è sicuro! Con pochi soldi ritornerai ad essere il solito biker!
ANDREA
331
Il medico disse a Marco di sdraiarsi sul lettino per fare la medicazione.
Il mio amico si mosse con lentezza, di certo non era troppo convinto.
MEDICO
– Adesso pulisco la ferita col disinfettante. Forse le farà un po’ male.
Quel farmaco doveva essere veramente molto potente, poiché Marco
cominciò a cambiare colore in viso. Doveva bruciargli tantissimo, così
cercò di lamentarsi in francese, ma non conosceva le parole giuste per
farlo con efficacia e pronunciò frasi insensate.
MARCO
– Uuuuuuu! È troppo! Uuuuuuu!
Il medico si fermò, lo guardò con espressione interrogativa e riprese a
sfregare la garza imbevuta di disinfettante sulla ferita. Marco continuò
con la sua lamentela analfabeta, limitandosi ad alzare il tono.
MARCO
– Uuuuuuu! È troppo! Uuuuuuu!
Non è facile lasciarsi andare a frasi emotive in una lingua che si
conosce poco. Ero dispiaciuto che il mio amico stesse soffrendo, ma
riuscii a stento a trattenere una risata, che sarebbe stata del tutto
inadeguata. Il taglio era quindi pulito e il farmaco poderoso doveva
avere certamente svolto il suo compito. Una volta fasciata per bene la
ferita, ci venne presentata la parcella per il lavoro svolto. Al cambio
attuale, l’intera operazione ci era costata all’incirca venti euro, una
cifra decisamente bassa per noi, ma irraggiungibile per quasi ogni
ivoriano. Ringraziammo entrambi il medico e tornammo alla moto.
Partimmo alla ricerca di un hotel e ne trovammo uno grazioso appena
fuori dalla zona centrale. Era un luogo abbastanza elegante e ci venne
addirittura assegnata una bella stanza con il condizionatore. Marco
dovette rinunciare alla doccia e fu costretto a lavarsi con estrema
cautela per non bagnare la medicazione. Mi sentivo un po’ in colpa.
– Mi spiace, non cadevo da dieci anni e stavolta ho recuperato per bene.
MARCO – Ah ah! Puoi dirlo forte! Hai attentato alla mia vita ben quattro volte!
ANDREA
332
– Beh, dai, adesso non esagerare! Sono state tutte piccole cadute, anche
se fortemente simboliche. Pensa! Ne abbiamo fatta una per ogni Stato africano!
MARCO – Ah ah ah ah! È vero, non ci avevo pensato! la strettoia nel deserto in
Marocco, il pezzo di palma a terra in Senegal, il fango in discesa in Guinea e ora
il dosso appena entrati in Costa d’Avorio. Solo la Mauritania ci ha graziati!
L’Africa non regala nulla! No, dai, scherzo, sono soddisfatto.
Quando ho visto come era messa la moto ad Almeria, non pensavo che saremmo
nemmeno riusciti a partire. Figurati arrivare sino a qua!
ANDREA – Ah ah! Sì, anch’io avevo dei dubbi.
Non mi capacitavo di come avrei fatto a tenere in equilibrio quel carrozzone!
MARCO – Comunque, tra una caduta e l’altra, tra un problema e un altro…
in Costa d’Avorio ci siamo arrivati eccome!
ANDREA – E domattina si parte per il mare!
MARCO – Facciamo una cosa. Chiediamo subito al tipo dell’hotel se ci dà da
mangiare qualcosa, anche se è molto tardi e la vedo dura.
Poi a stomaco pieno leggiamo qualcosa sulla Costa d’Avorio.
ANDREA – Giusto. A stomaco pieno il mondo ti sorride!
ANDREA
L’orario non fu un problema, il cuoco si mise prontamente ai fornelli
e mangiammo quindi al ristorante dell’hotel. Carne, formaggi e birra
in abbondanza ci tennero compagnia sino a mezzanotte, poi la
stanchezza sopraggiunse e decidemmo di rimandare la consultazione
della guida al giorno dopo. Non sapevamo quasi nulla della Costa
d’Avorio, non ci eravamo informati più di tanto. Avremmo letto
qualche informazione in mattinata durante la colazione, poi saremmo
partiti verso il Golfo di Guinea. Abidjan era sempre più vicina.
333
334
SASSANDRA
Marco si alzò dal letto per primo e andò in bagno. Zoppicava un
poco. Ero sempre più dispiaciuto e mi sincerai delle sue condizioni.
– Uuuuuuu! È troppo! Uuuuuuu! Ah ah ah ah!
Chissà cos’ha pensato il medico a sentire quei lamenti in un francese improbabile!
Forse che sei un mollaccione!
MARCO – Simpatico! Avrei voluto vedere te come ti saresti lamentato,
con quel tipo che ti sparava fuoco liquido nella ferita!
ANDREA – Avrei detto “Uuuuuuu!”. Come stai?
MARCO – Direi bene, adesso non mi fa tanto male.
ANDREA – Tieni duro, Abidjan è vicina. Se ti dai una mossa andiamo a fare
colazione e tiriamo fuori la cartina per la penultima volta.
MARCO – Una mossa non credo! Sono convalescente e me la prendo comoda!
ANDREA – Giusto, è un tuo diritto.
ANDREA
Marco si vestì con lentezza, stando bene attento a non strappare la
fasciatura. Lo imitai prontamente e ci recammo in una saletta per la
colazione e per dedicarci al rituale che tanto amavamo perpetuare.
– Apro la carta la penultima volta! Vado?
MARCO – Vai! Sembra ieri che siamo partiti…
ANDREA – Ah ah! Si dice sempre così, ma stavolta non mi sembra proprio ieri,
siamo in giro da un sacco di tempo e lo sento tutto.
MARCO – È stato un periodo intenso!
Abbiamo attraversato mezza Europa e mezza Africa in neanche un mese.
ANDREA – Pensa a quante cose diverse abbiamo fatto in questo periodo!
In viaggio il tempo scorre lentamente, un mese a casa sembra ben più corto.
MARCO – Vero. Sono talmente tante le situazioni diverse che si vivono,
che ogni giorno sembra durare una settimana.
ANDREA – È il ritmo frenetico della routine quotidiana che fa volare via il
tempo. Quando si fanno le solite cose, anche se belle, la giornata passa in un
attimo e così trascorrono le settimane, i mesi e gli anni.
Ma quando fai sempre cose diverse ogni momento, la giornata invece è infinita.
ANDREA
335
– E quando guardi indietro ti sembra di averci messo molto più tempo.
– Già, proprio così. E anche il senso della difficoltà cambia tantissimo.
Prima di partire mi sembrava di dovere superare ostacoli pressoché insormontabili,
ma adesso che ce l’abbiamo quasi fatta, mi sembra che le difficoltà future siano
delle banalità. Superare l’intera Costa d’Avorio non mi impensierisce per nulla,
anzi, mi pare di dovere fare una scampagnata!
MARCO – Anche per me è così, si è alzata la soglia di considerazione delle
difficoltà. Siamo uomini di mondo! Siamo abituati a fare cose grandiose,
cosa vuoi che sia attraversare uno Stato in moto sotto la pioggia?
ANDREA – Ah ah! Una scampagnata, come ti dicevo!
MARCO – Una scampagnata alternativa! Tra l’altro in un posto sconosciuto.
ANDREA – Che storia! Ci sbattiamo a fare seimila chilometri di asfalto,
sabbia e fango sotto il vento, il sole e la pioggia per raggiungere un posto di cui non
sappiamo assolutamente nulla! Ti pare una cosa normale?
MARCO – Sì, perché siamo degli esploratori, mica ci interessa il punto d’arrivo,
ma tutto quello che ci sta in mezzo. Il vero biker non è attratto da ciò che sta per
raggiungere, la gioia gli viene dalla strada, con i suoi infiniti spettacoli.
MARCO
ANDREA
Così in serata avremmo forse raggiunto il Golfo di Guinea, poi
solamente pochi chilometri ci avrebbero separati dalla meta del nostro
viaggio. Avevamo pensato di soggiornare un paio di giorni a
Sassandra, un paesino di pescatori consigliatoci da Claudio. Stava
terminando un lungo viaggio in moto ed era stanco di vivere in brutti
alberghi e nutrirsi malamente lungo la strada, così aveva trascorso lì
qualche settimana a mangiare aragoste e a oziare, concedendosi ogni
genere di comfort senza spendere praticamente nulla. Noi però
avevamo un'altra concezione del tempo e vi avremmo dedicato solo
un paio di giorni, dopodiché saremmo partiti per Abidjan.
– Ah ah! Beh, comunque mi sa che qua non ci saranno tanti dubbi
sulle infinite variabili, la strada per andare ad Abidjan è molto semplice. Oggi
arriviamo a Sassandra, domani stiamo là e dopodomani arriviamo alla metropoli.
MARCO – Allora per il momento leggiamo solo qualcosa sulla Costa d’Avorio in
generale e su Sassandra, così almeno stasera ci orientiamo un po’ in quel villaggio.
ANDREA
336
– Sì, ma non ora, magari stasera, quando arriviamo. Dobbiamo
macinare non so quanti chilometri, sono già le dieci e il cielo minaccia pioggia.
MARCO – Ah ah! Le condizioni ideali! Tanta strada, poco tempo e pioggia!
ANDREA – Allora, facciamo così. Schiodiamo da questo posto e facciamo una
bella tappa sino a Duekouè. Sono centosettanta chilometri.
MARCO – Una vera cagata! Una proposta indegna di un biker della tua levatura!
ANDREA – Poi il meritato pranzo, poi altri cento chilometri sino a Issia,
poi centodiciotto chilometri sino a Soubrè, poi…
MARCO – Poi cosa? Dov’è finito ‘sto cazzo di paesino di pescatori?
ANDREA – Tieni duro, ci siamo quasi. Dicevo… poi centocinquantaquattro
chilometri sino a San Pedro, poi gli ultimi sessantuno e siamo arrivati!
MARCO – Che bello! Saremo freschi come rose. Arriveremo a notte fonda!
ANDREA – Macché! Sono solo seicentotre chilometri, tutto asfalto.
MARCO – Seicentotre non sono mica pochi, è quasi come andare da Bologna a
Napoli. Inoltre si parla di asfalto africano, sicuramente pieno di buche e ostacoli
vari e la mia gamba mi duole. Ma in fondo che ce ne frega?
Partiamo e arriviamo fino a dove si riesce.
ANDREA – Come sempre, del resto! Sai che amo macinare chilometri!
MARCO – Ah ah! Anche a me non dispiace!
ANDREA
Così partimmo per una tappa che appariva veramente molto pesante.
Avevamo attraversato il deserto, la savana e la foresta e non ci faceva
certo paura una strada asfaltata, ma seicento chilometri in una
giornata erano comunque un obiettivo considerevole.
Uscimmo dalla cittadina che ci ospitava da poche ore. Avevamo visto
solo l’ospedale e l’albergo, ma non ci interessava visitarla. Per noi la
Costa d’Avorio era un semplice punto d’arrivo, il coronamento di un
progetto, di un sogno; ci saremmo accontentati di attraversarla in
velocità e di percepire sensazioni, odori, immagini e suoni che non
sarebbero stati poi troppo diversi da ciò che avevamo già conosciuto.
E cosi fu. Già dalla periferia di Dananè si ripresentarono le stesse
capanne, le stesse facce, la stessa povertà. Quest’ultima era e continua
ad essere un triste filo conduttore dell’intero continente. Infatti, pur
vivendo in uno degli Stati più ricchi dell’Africa occidentale, un quarto
della popolazione ivoriana vive tuttora con circa un euro al giorno.
337
La striscia d’asfalto si perdeva diritta all’orizzonte, intorno a noi solo
distese d’erba e palme. Sui corsi d’acqua incontravamo persone che
lavavano vestiti e al nostro passaggio spesso interrompevano il lavoro
per guardarci stupite o per salutarci sorridenti. Dopo nemmeno
mezzora di viaggio qualche goccia cominciò a cadere dal cielo.
Speravamo che smettesse al più presto, invece aumentò. Eravamo in
prossimità di un villaggio e riuscimmo a ripararci all’interno di una
capanna disabitata. Giusto in tempo, perché neanche un minuto dopo
la pioggia diventò un vero e proprio nubifragio, la gente cominciò a
correre all’impazzata e ognuno trovò rifugio da qualche parte.
– Piove! La stagione delle piogge si fa sentire!
MARCO – E non poco. Peccato, si stava così bene all’asciutto!
ANDREA – Meno male che c’è questa capanna, altrimenti saremmo affogati.
MARCO – Avremmo chiesto ospitalità, non si nega aiuto a due motociclisti.
ANDREA – Cosa facciamo? Ci mettiamo le tute antipioggia e ripartiamo subito
nella bufera o aspettiamo che cali un po’?
MARCO – Beh, aspettiamo, adesso è veramente improponibile!
ANDREA – Ho letto sulla guida che in Costa d’Avorio piove più che da altre
parti, a volte senza sosta anche per giorni interi.
MARCO – Potremmo accamparci qua per qualche giorno, così andiamo sul sicuro.
ANDREA – Vabbè, aspettiamo un po’. Intanto mi fumo una paglia e facciamo
qualche chiacchiera sulla Costa d’Avorio. Ieri sera ho letto qualche cosa.
MARCO – Io so che si chiama Costa d’Avorio perché in passato c’erano tanti
elefanti, ma a furia di cacciarli per prendere le loro zanne d’avorio si sono estinti.
ANDREA – Anch’io lo sapevo. Ho letto anche qualcosa sulla schiavitù.
L’Africa occidentale è stata duramente provata dal fenomeno,
ma qua la gente è stata catturata di meno rispetto agli altri abitanti della zona.
La maggior parte degli schiavi proveniva dal Ghana, perché là ci sono delle spiagge
e per i negrieri era più facile sbarcare. Qua invece è pieno di scogli, di promontori
rocciosi e arcipelaghi sabbiosi e questo ha in parte salvato i suoi abitanti.
MARCO – Poveretti! Pensa che cosa assurda. Sei in casa a farti i cazzi tuoi e vedi
entrare della gente pallida che ti porta via e ti imbarca in una stiva puzzolente.
ANDREA – Già. E poi ti tirano fuori in condizioni pietose dopo chissà quanti
giorni e ti trovi con le catene ai piedi a coltivare dei campi per sedici ore al giorno.
ANDREA
338
– Alla faccia dei diritti dei lavoratori! So che la schiavitù esiste anche
oggi, molti bambini sono costretti a lavorare gratis nelle piantagioni di cacao.
Tutti lo sanno, ma nessuno fa niente di concreto per liberarli.
ANDREA – Alta economia, interessi dei potenti e così via.
È la solita merda, non c’è niente da fare. Gli uomini sono malvagi.
MARCO – Ho saputo anche che in questo piccolo Stato esistono circa sessanta
popoli diversi. Pensa che casino fare delle leggi per mettere d’accordo tutti!
ANDREA – I bianchi ci sono riusciti bene, a suon di bastonate, frustate e così via.
MARCO – Ma non tutti, noi siamo bianchi buoni!
ANDREA – Ah ah! Speriamo che la pensino così anche queste persone intorno a
noi! È un bel po’ che non incontriamo dei bianchi, mi sa che siamo gli unici in
centinaia e centinaia di chilometri. Penso che li troveremo solo ad Abidjan.
MARCO
Il tempo cominciò lentamente a migliorare, così pensammo di non
trattenerci oltre in quel posto anonimo e di proseguire per Sassandra.
Ci vestimmo con tutti gli abiti antipioggia a nostra disposizione e
fummo così pronti a ripartire, ma ancora una volta la moto non ne
voleva sapere. Cominciai a spingere sul kick starter più volte, ormai
rassegnato a faticare un bel po’ prima di sentire l’adorato rumore del
motore, ma dopo alcuni minuti di frenetici tentativi continuava a non
dare segni di vita. Lo sforzo ripetuto mi fece sudare copiosamente
sotto lo strato impermeabile, ma non potevo fare altro che continuare
a provare e così feci. A breve fui esausto e mi fermai sconsolato.
– Merda, che fatica! Stavolta è veramente dura.
– E se provassimo a spingerla?
ANDREA – Mah! Ci toccherebbe tirare giù tutti i bagagli,
altrimenti non la spostiamo, e non ho mica tanta voglia.
E poi l’asfalto è bagnato e rischieremmo anche di cadere.
MARCO – Anche se mi sa che non risolveremmo molto. Se il problema è elettrico,
come sembra, non cambierebbe nulla. Se non arriva corrente non c’è verso.
ANDREA – Sono sempre più convinto che sia cioccato lo statore.
Se è così non arriva corrente alla candela e io ho ben da pompare.
MARCO – Proviamo comunque a sostituire la centralina?
Avremmo già dovuto farlo da qualche giorno, ma non ne vogliamo mezza, vero?
ANDREA
MARCO
339
– Beh, sono vere entrambe le cose. Siamo stati dei coglioni, ma si era
rimessa ad andare bene! Comunque, a parte la voglia che non c’è, ti ricordo che c’è
da smontare mezza moto. Sono cose da fare con calma in hotel, non sotto l’acqua.
MARCO – Questo problema però c’è solo a motore caldo, a freddo parte subito.
ANDREA – Beh, quasi subito. Comunque è inutile che continuiamo a ripeterci le
solite cose, tanto di soluzioni non ne abbiamo!
MARCO – Già. Lo avevamo già pensato prima di arrivare a Mamou.
C’è caso che il filo di rame dello statore sia cotto e a caldo non funzioni,
invece quando si raffredda la corrente arriva.
ANDREA – È solo un’ipotesi, ma a questo punto non cambia nulla.
Se si è rotto definitivamente siamo fottuti, altrimenti potrebbe funzionare
nuovamente fra un po’, ma sono solo congetture inutili.
MARCO – Vabbè. Aspettiamo che si raffreddi ancora di più e riproviamo.
ANDREA – Certo sarebbe il colmo che ci lasciasse a piedi a questo punto!
Mancano ottocento chilometri all’arrivo, ne abbiamo fatti quasi seimila!
MARCO – Sono fiducioso. Vedrai che la mia fedele Yamaha partirà!
ANDREA – Dai, Tenerè! Non piantarci in asso proprio adesso!
Sei stata bravissima, ti abbiamo chiesto tanto, lo sappiamo, ma ora abbiamo
bisogno solo di un ultimo sforzo. Se arrivi ad Abidjan ti facciamo curare!
ANDREA
La mia preghiera venne ascoltata e dopo mezzora il rombo della
fedele Yamaha lacerò l’aria umida ancora una volta. Quel problema ci
aveva bloccati sotto la capanna un sacco di tempo, era già
mezzogiorno e ci aspettavano ancora oltre cinquecento chilometri
prima della meta. Nel migliore dei casi saremmo arrivati col buio, ma
non era possibile fare piani. Se la nostra ipotesi fosse stata vera e il
filamento di rame si fosse bruciato del tutto, in un qualunque
momento il motore si sarebbe spento per sempre e non avremmo
potuto fare niente. Lo statore poteva essere riparato, ma solo in
un’officina attrezzata e in molto tempo, cose che non avevamo.
Abidjan era veramente vicina, eppure non potevamo ancora cantare
vittoria, così ripartimmo verso sud, nella speranza che quella moto
eccezionale non esalasse l’ultimo respiro prima di avere terminato il
suo compito. La pioggia scendeva senza sosta su quel luogo fra i
tropici e l’equatore, tutti stavano al riparo nelle loro capanne tranne
340
noi, che penetravamo la cortina d’acqua e migravamo solitari fra
campi e palmeti. Eravamo i padroni indiscussi della strada. Dopo
oltre un’ora e mezza giungemmo stanchi e affamati a Duekouè ma
non ci fermammo, volevamo andare avanti, avvicinarci alla meta il più
possibile. Tra l’altro aveva anche smesso di piovere, così
proseguimmo sino ad Issia, che distava altri cento chilometri, dove ci
concedemmo una meritata pausa in un bar arredato in stile messicano,
con tavoli e sedie in vimini, le pareti colorate di rosso vivo e un
sombrero appeso alla parete. Quando eravamo fermi gli abiti
impermeabili facevano sudare tantissimo, così preferimmo svestirci
per non soffrire più del dovuto. Sembrava non esserci nessuno,
comunque ci sedemmo e aspettammo che qualcuno si facesse vivo.
– Che strano posto! Faranno i tacos e le tortillas?
ANDREA – Speriamo! Non sarebbe male, piuttosto che il solito riso col pollo!
MARCO – Chissà cosa ci fa un locale messicano qua in mezzo all’Africa nera!
ANDREA – Si vede che qua la gente del posto ha i soldi e può permettersi anche i
ristoranti etnici, non solo i soliti riso e pollo.
MARCO – O forse cucinano riso e pollo e di messicano c’è solo l’arredamento.
MARCO
Avevamo torto entrambi. Arrivò infatti un cameriere che ci disse che
ci avrebbe offerto solo panini col formaggio, non c’era alternativa.
Mangiammo quindi l’unico piatto proposto e ci preparammo a
ripartire. Il cielo era molto nuvoloso e sarebbe potuto piovere da un
momento all’altro, così indossammo ugualmente le tute per non
essere costretti a vestirci eventualmente sotto l’acqua. Speravamo che
la moto non facesse i capricci di prima e che partisse al primo colpo,
ma rimanemmo delusi. Eravamo ormai rassegnati a perdere un’altra
ora se non peggio, ma dopo alcuni minuti di tentativi il rombo del
motore echeggiò nell’aria silenziosa e potemmo così lasciare la città.
Dopo nemmeno un chilometro il cielo rovesciò nuovamente su di noi
tutto quello che poteva, la visibilità era molto ridotta e fui costretto a
procedere lentamente sino a Soubrè. Avevamo percorso solo
centoventi chilometri in due ore e ormai stava diventando buio. Ne
mancavano ancora altri duecento e le nostre energie calavano sempre
341
più. La strada continuava ad essere deserta e in buone condizioni, ma
l’oscurità e la cortina d’acqua mi costringevano a un’andatura ridotta.
Superammo San Pedro, solo una sessantina di chilometri ci
separavano dal traguardo, ma eravamo allo stremo delle forze e
sembrava proprio una distanza incredibile.
Arrivammo infine a Sassandra. Il villaggio di pescatori era avvolto
dall’oscurità e ci dirigemmo verso le uniche luci che si vedevano in
lontananza, nella speranza di trovare qualcuno che ci indicasse un
hotel dove potere trovare il meritato ristoro dopo quella infinita
giornata sotto la pioggia. La fortuna ci sorrise, si trattava proprio di
un grande campeggio ben attrezzato, dove ci venne proposto un
bungalow che chiaramente accettammo. Scaricammo i bagagli sotto
una pioggia torrenziale, entrammo nell’edificio, togliemmo le tute
impermeabili e ci sdraiammo esausti su due ampi letti muniti di
zanzariera. Rimanemmo in silenzio a fissare il soffitto bianco.
– Non ci sto più dentro. Che gran fattanza!
– Io di più.
MARCO – Siamo stati sotto l’acqua almeno dieci ore.
ANDREA – Seicento chilometri di strada, acqua, cibo scarso e fatica.
MARCO – Ma alla fine la mia fedele Yamaha ci ha portati a Sassandra.
ANDREA – Altri duecentocinquanta chilometri e siamo ad Abidjan.
Sempre se la tua fedele non muore, s’intende.
MARCO – Ce la farà. Domani non sarà brutto mangiare il pesce in spiaggia.
ANDREA – Claudio ci è rimasto un mese, noi un giorno.
MARCO – Noi non siamo Claudio.
ANDREA – No, decisamente. Siamo qua da dieci minuti e le zanzare mi hanno
già divorato la poca carne scoperta, sono pieno di punture sulle mani e sul collo.
MARCO – Dobbiamo spruzzarci lo spray senza lesinare, sperando che funzioni.
Qua c’è la malaria, anche se stiamo facendo la profilassi è meglio non rischiare.
ANDREA – Sono veramente a pezzi. Non so mica se ho la forza di alzarmi.
MARCO – Dai, facciamolo. Così mangiamo qualcosa qua al campeggio,
poi andiamo in branda e ci stiamo finché ci va.
ANDREA – Giusto. Domattina niente sveglia.
MARCO – No, niente sveglia. È una cosa rara e ce lo siamo certamente meritata.
MARCO
ANDREA
342
– Dai, andiamo a dire che vogliamo mangiare, sennò qua vanno a letto
tutti e rimaniamo a digiuno. Poi facciamo la doccia e collassiamo sino a domani.
ANDREA
Al ristorante del bungalow non c’era nessun cliente, ma solo un
ragazzo dietro al bancone del bar che armeggiava con bicchieri e
tazze. La cosa ci stupì, pensavamo che, nonostante l’orario, in una
struttura di quella portata ci fosse qualche altro avventore, ma forse il
camping era deserto e lo avremmo saputo l’indomani con la luce. In
poco tempo qualcuno ci cucinò un po’ di riso e pollo che
consumammo in silenzio, non avevamo più nemmeno la forza per
conversare. Andai in bagno per lavarmi e Marco si appoggiò sul letto
nell’attesa, ma si addormentò in un attimo e lo imitai prontamente.
Venni svegliato dal rumore della doccia. La luce filtrava dalle tende
oscuranti e illuminava debolmente la stanza che ci ospitava. Ero
ancora molto stanco, avrei voluto continuare a dormire ma guardai
l’orologio e vidi che erano già le undici, così pensai di fare uno sforzo
e mi alzai. Sul pavimento giacevano tutte le nostre cose abbandonate
selvaggiamente la sera prima senza un criterio, quando l’estrema
stanchezza ci aveva impedito di svolgere qualunque attività. Dopo
poco Marco uscì dal bagno, aveva un asciugamani bianco avvolto
intorno alla vita e un altro arrotolato sulla testa ad asciugargli i capelli.
– Ahhhh! Che bella lavata! Ho persino sagomato la barba!
ANDREA – In effetti te lo volevo dire, era veramente incolta.
Sembravi Bud Spencer con quella barba!
MARCO – Almeno tagliarla sotto il mento è necessario,
altrimenti il cinturino del casco mi dà un fastidio atroce.
ANDREA – A me dà fastidio anche il mio pizzetto, quando mangio si attacca il
cibo ai baffi e non lo sopporto. Come fa certa gente a tenere sempre la barba?
MARCO – Non lo so, non l’ho mai capito. Forse lo fanno per sentirsi più maschi,
pensano di piacere alle donne o semplicemente si piacciono di più. La mia
comunque è una barba da vero uomo, il tuo pizzetto non è certo all’altezza!
ANDREA – Io sono meno peloso di te e mi posso permettere solo il pizzetto,
tu invece sei impressionante, un vero barbone!
Ma anch’io sono più rude coi peli sul viso, vero? Potremmo stare così anche a casa!
MARCO
343
– Ah ah! Che schifezza! Tu fai pure, io me la taglio appena torniamo.
È divertente tenersi la barba da veri viaggiatori che la sanno lunga,
ma finito il viaggio non ci penso neanche!
ANDREA – Ah ah! Anche a me darebbe molto da fare! Meglio la faccia pulita!
MARCO
Dopo pochi giorni saremmo tornati in Italia e avremmo smesso di
fare gli avventurieri, per diventare così due uomini in cerca di un
futuro più o meno stabile. Il tempo delle grandi imprese e dei giochi
avrebbe lasciato posto alla ricerca del lavoro e la barba scaramantica e
giocosa sarebbe stato solo un simbolo di un viaggio che non aveva
certo bisogno di essere ricordato con qualche elemento tangibile.
Marco aprì le tende e avemmo conferma di essere i soli ospiti.
Vedemmo infatti numerosi bungalow simili al nostro, dai quali però
non usciva nessun segnale di vita. Non c’era più il sole a inondare di
colori il paesaggio come nei giorni precedenti e tutto tendeva al grigio,
per certi versi sembrava di trovarsi in qualche posto povero di una
periferia europea. Era bello pensare di non essere costretti a rifare i
bagagli come ogni mattina, potere riposare un giorno intero senza
affrontare la fatica quotidiana della vestizione motociclistica e della
preparazione dell’enorme carico che ci portavamo appresso da
Almeria. Ci attendeva una giornata in qualche spiaggia a mangiare
pesce, proprio come aveva fatto Claudio per un mese intero. Ci
saremmo lasciati trasportare dall’ozio e avremmo goduto del
piacevole torpore donato dal vino bianco fresco, parlando dei
massimi sistemi o semplicemente conversando con chiunque
avessimo avuto l’occasione di incontrare.
Indossammo qualche abito a caso e andammo a fare colazione.
Chiedemmo al cameriere dove ci convenisse dirigerci per realizzare il
nostro proposito e venimmo indirizzati in una spiaggia che si trovava
a qualche chilometro di distanza. Non sapevamo dove fossimo e non
avevamo nessuna indicazione differente da valutare, pertanto
accettammo il suggerimento e partimmo verso il mare, rigorosamente
senza casco, per assaporare meglio il piacere della libertà.
Sassandra era un villaggio non certo bello, dove le case migliori di
cemento grezzo cedevano spesso il posto alle solite capanne che
344
ormai ci accompagnavano già dall’ingresso in Senegal. Poche strade
asfaltate permettevano una guida rilassante, mentre quelle di terra
battuta con le piogge frequenti si erano trasformate in vere e proprie
piste di fango, non molto diverse da quelle percorse in Guinea.
Sebbene fosse un giorno feriale non c’era nessuno in giro, sembrava
un paese fantasma. Seguimmo le indicazioni del cameriere e ci
trovammo presto in uno stretto sentiero che si snodava in un esteso
palmeto. Era quasi tutto allagato, ma dopo avere percorso la strada
fra Kundara e Labè ci voleva ben altro per spaventarci.
A un tratto un raggio di sole si infiltrò tra le nuvole e l’ambiente
cambiò aspetto. I colori esplosero con prepotenza, il verde delle
palme e il marrone del fango si illuminarono e tutto diventò più
gioioso, fino a quando la vegetazione finì e vedemmo nuovamente il
cielo. Continuavano a esserci tante nubi, ma un’ampia schiarita
proveniva dal mare e rompeva prepotentemente la cappa grigia e
uniforme, donando all’Africa nera il suo aspetto più conosciuto
nell’immaginario collettivo. Il sentiero cominciò a scendere, superò un
altro piccolo palmeto e all’improvviso terminò in una grande spiaggia.
E fu così che davanti a noi esplose immenso e incontrastato il mare.
– L’Oceano Atlantico.
– Padrone indiscusso, massimo rispetto.
MARCO – Siamo arrivati.
ANDREA - Già. Già.
MARCO – Guarda quella nave. Ha osato sfidare il mare e ha perso.
MARCO
ANDREA
Il mio amico mi indicò un enorme relitto di un peschereccio, del tutto
simile a quelli visti a Tan Tan Plage. Quei marinai avevano osato
sfidare il possente oceano, facendo così naufragio, spinti da una forza
inarrestabile su arcipelaghi sabbiosi, una vera e propria barriera
naturale fra la costa e il mare aperto. Quei resti sarebbero rimasti lì,
arenati sulla battigia, per chissà quanto tempo.
Intravedemmo in lontananza un paio di capanne sulla lunga spiaggia e
ci lanciammo sulla grande distesa di sabbia per raggiungerle. Due
uomini ci vennero incontro sorridendo. Chiedemmo loro di mangiare
345
del pesce, ma ci dissero che purtroppo quel giorno la pesca non era
andata bene, però avrebbero potuto offrirci dei cibi ormai molto noti.
– Pollo e riso anche a Sassandra? Ma non se ne può più!
MARCO – Ah ah! Sì, è vero, non se ne può proprio più!
ANDREA – Io già sognavo immensi crostacei o quantomeno pescioni oceanici,
invece sembra che qua amino gli animali da cortile!
Il pollo è l’animale nazionale della Costa d’Avorio!
MARCO – Sicuramente Claudio è stato da un’altra parte.
Vabbè che in un mese avrà avuto tutto il tempo di orientarsi meglio.
ANDREA – È un gran pacco, ma del resto qua intorno non c’è un cazzo,
non so mica se valga la pena di tornare in paese. Il sentiero finisce qui e non
c’erano bivi, dovremmo ripercorrerlo tutto per mezzora e ricominciare la ricerca.
MARCO – E poi è già l’una e mezza e lo stomaco brontola.
ANDREA – Ah! Che bello! Finalmente a Sassandra potremo abbuffarci di pesce e
di vino bianco! Che pacco! Pesce non ce n’è, speriamo almeno che ci sia il vino.
MARCO – O almeno della birra.
ANDREA – Sì, col pollo ci sta bene. Magari il pesce ce lo mangiamo stasera,
tanto qua all’equatore viene buio presto, si tratta in fondo di aspettare qualche
ora. Intanto potremmo oziare su quell’amaca appesa fra le due palme là in fondo.
MARCO – Sì, ma ce n’è solo una e noi siamo in due!
ANDREA – Giusto, meglio fare una passeggiata, così facciamo delle chiacchiere.
ANDREA
Era meraviglioso e utile trovare sempre aspetti positivi in tutto ciò
che accadeva, riuscire a vedere il bicchiere mezzo pieno e mai mezzo
vuoto in ogni situazione. Col tempo avevamo imparato ad affrontare
tutto con spirito giocoso e a ridere di noi stessi, ma senza che questo
comportasse la mancanza di efficienza e di concretezza. Era la nostra
carta vincente, lo strumento che ci permetteva di superare ogni
difficoltà, che impediva allo sconforto di sopraffarci e che ci aveva
permesso di arrivare sino a quel punto, nonostante le numerose
avversità con le quali ci eravamo scontrati.
Accettammo quindi la proposta e ingannammo l’attesa passeggiando
sul mare. Dopo pochi minuti uno di loro ci chiamò, teneva per il collo
due polli vivi, che provavano inutilmente a divincolarsi per cercare la
346
fuga. Ci chiese quale dei due animali volessimo mangiare. Erano
identici, ma ci accorgemmo che non si trattava di una scelta semplice.
– Io la carne che mangio l’ho sempre vista al supermercato nelle scatole di
polistirolo e avvolta dal cellophane o al massimo dal macellaio, ma già sotto forma
di possibile bistecca o qualcosa del genere! Qua è un po’ diverso.
ANDREA – Dillo a me! Almeno tu sei un ragazzo di campagna e sei cresciuto fra
le galline, pensa a me che sono di città!
MARCO – Guarda che anche se abito in un paese non vuol dire che…
ANDREA – Sì, sì, la so la storia! Comunque valuta tu,
che sei un ragazzo di campagna e ne sai di più!
MARCO
Sembrava quasi che i due animali ci guardassero, nel tentativo di
condizionare la nostra decisione. Ne avremmo scelto uno e sarebbe
stata la sua fine, mentre l’altro avrebbe continuato a vivere. La loro
esistenza dipendeva da noi e ci sentimmo dei giudici pronti a emettere
una condanna a morte. Infine Marco si decise e l’uomo tornò nella
piccola capanna dove stava la cucina, chiuse la porta dietro di sé e un
grido strozzato risuonò nell’aria. La sentenza era stata eseguita.
– Assassino! Verrà il giorno in cui giustizia sarà fatta!
– Ah ah! Dai, non dirmi così che già mi sento male.
L’altro avrà comunque vita breve, è lì apposta.
ANDREA – Ogni giorno di vita in più è tanto di guadagnato. Magari lo tengono
per i prossimi turisti e, visto che non c’è nessuno, potrebbero passare mesi.
MARCO – E magari il pollo riesce a scappare!
ANDREA – Ah ah! Glielo auguro, ma dubito che glielo permetteranno!
ANDREA
MARCO
L’altro uomo si arrampicò su una palma e scese con una noce di
cocco, la tagliò di netto in due parti con un colpo di machete, sorrise
e ce le porse come aperitivo, insieme a due bottiglie di birra Flag.
– Cazzo! Visto che lama il machete? Ha aperto la noce in un colpo solo!
– Sì. Sono le stesse armi che molti popoli usano per massacrarsi fra loro
durante le innumerevoli guerre civili. Ti ricordi gli Hutsi e i Tutsi in Ruanda?
MARCO
ANDREA
347
– Sì che mi ricordo. Ne hanno parlato i telegiornali qualche anno fa,
quando il Lago Vittoria era pieno di cadaveri mutilati a colpi di machete.
Mi pare che ci fosse stato più di un milione di morti, ma forse molto di più.
ANDREA – Esatto. Ricordo anche che alla notizia erano stati dedicati solo due
minuti di telegiornale alla fine del notiziario, quasi fosse una notizia d’appendice.
MARCO – Molti non sanno nemmeno che è accaduto.
ANDREA – Siamo qua in uno dei rari momenti di pace.
Speriamo che duri almeno finché non decolliamo.
MARCO – E che a nessuno venga in mente una bella mattina che i bianchi sono
sgraditi e che vadano massacrati col machete!
ANDREA – Brr! Non mi ci fare pensare! Ma sai che sono fiducioso, come sempre!
MARCO
Il cibo continuava a non arrivare, così bevemmo altra birra e ci
concedemmo una passeggiata sulla spiaggia infinita. Il sole era
scomparso e il vento spirava a piccole raffiche, alimentando lunghe
onde che si frangevano ritmicamente sui grandi scogli. Marco si
sdraiò su una panchina e io continuai a vagare senza nessuna
direzione, cercando di fare qualche ripresa significativa con la
telecamera. Dopo oltre un’ora e mezza dalla morte del pollo, di
mangiare non se ne parlava ancora. Ci volle almeno un’altra mezzora
per sederci a tavola, dove potemmo finalmente avventarci sui resti del
malcapitato animale. Per nostra fortuna era un po’ più in carne di
quello offertoci a Magenta, così riuscimmo quasi a saziarci.
Era pomeriggio inoltrato e dopo poco sarebbe diventato buio, così
decidemmo di andarcene da quel luogo che ormai aveva già
cominciato ad annoiarci e ci dirigemmo verso Sassandra. Arrivammo
al campeggio, pronti a prepararci per la serata imminente, anche se
non avevamo idea di cosa avremmo potuto fare. Ci fermammo così
davanti al nostro bungalow per fare il punto della situazione.
– Che si fa? Ormai sono le sei, al massimo fra un’ora viene buio.
MARCO – Io non so perché Claudio sia stato qua un mese. Ma è fuori? Non c’è
un cazzo! Lascia pure che ci siano altri posti da vedere, ma un mese è troppo!
ANDREA – Ah ah! Lo sai che i viaggiatori sono un po’ strani! Se avessimo tutto
quel tempo arriveremmo in Sudafrica, altro che stare a oziare a Sassandra!
ANDREA
348
– Come quelli che scrivono sulla Lonely Planet e consigliano di stare una
settimana in posti del cazzo in cui noi stiamo mezza giornata! Ah ah!
Hai presente? Spesso si legge “In quel posto c’è un panorama mozzafiato e
tantissimi mercati in cui perdersi, ma una settimana è più che sufficiente per godere
al meglio dell’atmosfera”.
ANDREA – Ah ah! Noi invece daremmo consigli un po’ diversi, tipo “In quel
posto ci sono tanti mercatini e un bel panorama, ma un’ora è più che sufficiente!”.
MARCO – Chiediamo al tipo del ristorante un consiglio per la cena.
Anche se è sicuro che ci inviterà a mangiare qua da lui, visto che ci guadagna!
ANDREA – Ascolta me, non chiediamoglielo neanche.
Visto dove ci ha mandati prima, non penso che sia troppo affidabile.
O ci mettiamo noi alla ricerca adesso o lasciamo perdere e stiamo qua.
MARCO – Mah! Se ci fa del pesce e ha del vino possiamo anche stare qua.
Tanto al mare siamo già stati e anche se andiamo da un’altra parte non è che
vedremo dei panorami mozzafiato, tantomeno col buio.
ANDREA – Ah ah! Sembri la Lonely Planet! Comunque hai ragione.
A questo punto chiediamo info sul pesce e se ci dice di sì saremo suoi clienti.
MARCO – Gli unici clienti! Non capisco proprio perché tengano aperto un posto
del genere se non c’è nessuno. Potrebbero fare altro.
ANDREA – Forse il personale non verrà pagato una cifra fissa,
ma avrà solo una percentuale sugli incassi.
MARCO – Sui non incassi, intendevi?
ANDREA – Ah ah! Sì, ma non penso che abbiano molte alternative.
MARCO
Il cameriere andò a informarsi e tornò presto con notizie positive. Ci
attendevano pesce e vino, anche se non sapevamo ancora di che si
trattasse di preciso. Comunque ci andava benissimo, non avremmo
cercato alternative perché l’indomani saremmo partiti per Abidjan e
quel pensiero dominava ormai le nostre menti. Sassandra ci aveva un
po’ delusi, forse ci aspettavamo un luogo più mistico, ma sicuramente
eravamo stati troppo influenzati dai racconti di Claudio, al quale
davamo sempre un credito infinito, suggestionati totalmente dal
fascino che emanava. Era ormai giunto il tramonto e ovunque si
aggiravano zanzare fameliche che ci attaccavano senza sosta.
Occorreva coprirsi il più possibile e dare fondo agli spray repellenti,
349
così ci chiudemmo all’interno del bungalow e ne uscimmo attrezzati
per la solitaria cena all’aperto. Non capimmo di che pesce si trattasse,
tantomeno avemmo notizie sul vino bianco già scaraffato, ma
mangiammo e bevemmo tutto ciò che ci venne proposto. I nostri
discorsi continuarono per almeno un paio d’ore, pervasi dalla
creatività che ci distingueva e amplificati dall’alcool che lentamente
stimolava e accelerava le associazioni di pensiero. Caffè e liquore
chiusero infine la cena e la nostra giornata diversa dalle solite.
350
ABIDJAN
Ci svegliammo abbastanza presto e ci accorgemmo di essere stati
massacrati dalle zanzare, nonostante ci fossimo protetti in tutti i modi
possibili. Avevamo infatti spruzzato lo spray repellente sulle parti
scoperte e chiuso le zanzariere sopra i letti, ma purtroppo gli insetti si
erano infiltrati inesorabilmente da qualche buco e ci avevano
raggiunto, nutrendosi indisturbati del nostro sangue.
La malaria era probabilmente il pericolo più remoto che correvamo,
visto che stavamo facendo la profilassi con la meflochina. In Africa si
possono contrarre tanti tipi di malattie a causa degli insetti, ma l’unica
vera precauzione consiste nell’evitare il più possibile di farsi pungere,
dato che non è pensabile assumere troppi farmaci e comunque per
diverse patologie non esiste nemmeno una prevenzione chimica. Ma a
quel punto non c’era nulla da fare, saremmo stati ancora più attenti
sino ad Abidjan, che ormai ci attendeva a poca distanza.
Cominciammo a sistemare i bagagli, eravamo pronti all’ultima tappa.
– Zanzare di merda! Mi hanno divorato!
Certo che potrebbero anche aggiustare ‘ste zanzariere, bucate non servono a niente!
MARCO – Anche lo spray repellente non repelle per niente. Forse le attira!
ANDREA – Mah! Speriamo bene! I medici mi hanno fatto una lista infinita delle
possibili malattie da punture di insetti che è meglio non pensarci.
MARCO – Non pensiamoci. Piuttosto, non è che abbia molta voglia di sistemare
tutti i bagagli! Guarda che casino siamo riusciti a fare!
ANDREA – Lo vedo! Si fa fatica persino a camminare!
Però consolati, dovrebbe essere l’ultima volta.
MARCO – Già, ormai ci siamo. Anche se un po’ mi dispiace, se non avessimo
impegni a casa si potrebbe proseguire e arrivare al Capo di Buona Speranza.
Più o meno saranno gli stessi chilometri che abbiamo già fatto!
ANDREA – Beh, a casa non è che abbiamo poi così tante incombenze!
Tu sei disoccupato e cercherai un lavoro, mentre io ho una laurea in tasca e devo
capire cosa fare della mia vita. Sarebbe un buon momento per esplorare l’intero
continente, ma ci accontenteremo così. Chissà se ci ricapiterà mai l’occasione!
ANDREA
351
– Più che altro non abbiamo soldi e la mia donna la prenderebbe un po’
male se le dicessi che sto via un altro mese!
ANDREA – Ti ama e capirebbe. Ah ah! Dai, prova a dirglielo!
MARCO – Ah ah! No, meglio di no!
MARCO
Facemmo un’abbondante colazione e caricammo tutti i bagagli sulla
Yamaha, enfatizzando ogni singolo movimento in modo solenne,
quasi stessimo celebrando un rito religioso. Sarebbe stata
probabilmente l’ultima volta che lo avremmo fatto e il solo pensiero
generava sentimenti contrastanti. Era grande la soddisfazione per
avere compiuto l’impresa tanto fantasticata durante i mesi di
preparativi, ma altrettanto forte era la percezione di essere giunti al
capolinea e tale consapevolezza ci rattristava. Comunque fosse andata,
a breve saremmo stati nuovamente in Italia e avremmo dovuto
prendere in mano la nostra vita, il tempo delle imprese epiche stava
per finire. Lasciammo il campeggio verso le undici e dopo pochi
chilometri raggiungemmo il bivio per Abidjan. Trovammo subito
molto traffico, del resto non poteva essere altrimenti, visto che era la
principale strada dell’intero Paese e portava in una delle città più
importanti dell’intero continente. Ma la carreggiata larga e l’asfalto in
ottime condizioni mi permisero di tenere una discreta velocità e in
nemmeno un paio d’ore arrivammo quasi a destinazione.
Il primo tratto non presentava un paesaggio troppo diverso da quello
già visto, ma giunti a qualche decina di chilometri dalla città
l’urbanizzazione cominciò a crescere drasticamente. Stavamo infatti
entrando nell’hinterland di Abidjan, l’enorme area metropolitana nella
quale vivevano oltre cinque milioni di persone. Avevamo una certa
fame e pensammo così di fermarci per il pranzo, dopodiché ci
saremmo persi nel caos cittadino alla ricerca di un hotel. Arrivammo
di fronte a un ristorante che apparve subito molto lussuoso, diverse
auto costose erano sorvegliate da guardie armate e capimmo che
doveva essere un posto per gente con i soldi, quindi non per noi, ma
decidemmo comunque di concederci un lusso imprevisto. Venimmo
accolti da un cameriere vestito in giacca e cravatta, non ci era ancora
capitato dall’inizio del viaggio di trovare tanta eleganza. L’uomo ci
352
fece sedere al centro della sala, in un grande tavolo di legno di noce su
cui stava un vaso di vetro traboccante di bellissimi fiori di tanti colori.
– Speriamo che i prezzi di tanto lusso siano comunque africani!
Non è che abbiamo poi tanti franchi CFA!
ANDREA – Non ti preoccupare, all’ingresso c’è scritto che accettano le carte di
credito, siamo in una botte di ferro.
MARCO – Tu sei in una botte di ferro, visto che la carta è la mia!
ANDREA – Ah ah ah ah! Ma dai! Tanto si fa cassa comune, no?
MARCO – Intanto l’addebito sul conto me lo becco io!
ANDREA – Col primo stipendio ti pagherò sino all’ultimo centesimo, giuro!
MARCO – Non sapevo che avessi uno stipendio!
ANDREA – Nemmeno io, ma lo avrò a breve, ne sono certo.
MARCO
Venne un altro cameriere vestito come il precedente e ci porse un
ricco menù. I prezzi erano comunque contenuti e ci lasciammo
decisamente andare, concedendoci una grigliata di carne mista con
patatine e del vino rosso francese. In fondo ce lo eravamo meritati.
– Una volta usciti di qua ci tuffiamo nella grande città,
anche se di fatto siamo già arrivati, quantomeno nell’area metropolitana.
MARCO – Quando troveremo il cartello “Abidjan” ci faremo una gran foto!
ANDREA – Claudio ci aveva un po’ parlato della città, ricordi?
MARCO – Non è che l’abbia ascoltato più di tanto, ero più interessato alle sue
descrizioni del deserto e delle foreste. Mi ricordo solo che sorge su una laguna,
dove ci sono diverse penisole e isole collegate da ponti e che c’è un gran casino.
ANDREA – Ci sono diversi quartieri. In centro ce ne sono due: Le Plateau e
Cocody. Lì ci saranno degli alberghi cari, quindi suggerirei di evitare di cercarne
uno proprio da quelle parti. Potremmo andare nella baraccopoli di Adjamé,
sulla riva nord della laguna. Coi pochi soldi rimasti, forse è la soluzione migliore!
MARCO – Ah ah! La vedo male! Non vorrei finire il viaggio venendo rapinati!
ANDREA – Hai ragione, due gentiluomini come noi meritano di alloggiare a
Deux Plateaux, il quartiere degli affari e dei diplomatici. Che ne dici?
MARCO – Che ideona! Diplomatici lo siamo, ma uomini d’affari direi di no!
ANDREA – Come no? Dobbiamo vendere la moto, l’affare lo facciamo eccome!
ANDREA
353
Le deliziose portate arrivarono sulla nostra tavola e smettemmo
subito di parlare. Il vino era squisito e molto forte, così gli effetti si
fecero sentire presto. Una piacevole ebbrezza avvolse i nostri discorsi.
– Ricordi che Claudio ci ha parlato anche di Treichville?
È uno dei quartieri più popolati, il Bronx di Abidjan.
ANDREA – Come no! Forse peggio della baraccopoli di Adjamé!
MARCO – Quindi dove cerchiamo? Il centro è caro, la zona diplomatica non
c’entra con noi, nella baraccopoli e a Treichville ci lasciamo le penne…
ANDREA – C’è il quartiere di Marcory, a sud. Pare sia residenziale e tranquillo,
però non so nulla in merito. Poi le mie conoscenze sono finite.
MARCO – Vabbè, in sintesi non abbiamo nessuna indicazione valida, quindi
tanto vale andare verso il centro e affidarci alla sorte. Qualcosa troveremo, no?
ANDREA – Su questo non ho dubbi. Comunque evitiamo i postacci malfamati,
meglio spendere un po’ di più e andare in una zona abitata da gente normale,
da cui sia poi facile muoversi senza rischiare rapine, aggressioni e così via.
MARCO – Tanto c’è la mia Visa per pagare, vero?
ANDREA – Ah ah! Vero!
MARCO
Ci alzammo da tavola e Marco andò a saldare il conto con la sua carta
di credito. Uscimmo e vedemmo una delle guardie armate che
ammirava la nostra moto, facendo commenti con il suo collega. Era
strano vedere la Tenerè sporca di fango all’inverosimile, parcheggiata
fra eleganti e luccicanti Mercedes e BMW. Fino a quel momento
avevamo sempre incontrato mezzi più o meno fatiscenti ed era un
chiaro segno che il luogo che stavamo per raggiungere sarebbe stato
molto diverso dagli ambienti già conosciuti. Salii sulla moto, ma dopo
diversi tentativi il motore continuava a non avviarsi e ottenni come
unico risultato di trovarmi stanco e completamente fradicio di sudore.
– Ti do una notizia: la moto non parte.
MARCO – Strano, non me lo spiego proprio! E dire che è sempre andata bene…
ANDREA – Ah ah! Simpatico! Adesso mi riprendo un attimo, poi ci riprovo.
MARCO – Io intanto mi preparo a una lunga attesa. Ne approfitterò per riposare.
ANDREA – Ah ah! Simpatico il mio amico! Dimostrami almeno solidarietà!
ANDREA
354
Feci tentativi infruttuosi per almeno mezzora, sembrava che la fedele
avesse esalato l’ultimo respiro. Eravamo ormai alle porte di Abidjan,
ad Almeria non avremmo certo scommesso nulla che saremmo
arrivati sino a quel punto, però era veramente beffardo pensare di
rimanere a piedi a pochi chilometri dalla meta.
– Io mi sono rotto i maroni di pompare in questo modo!
Sto sudando tutto il vino che ho bevuto e tra un po’ vomito la grigliata di carne!
MARCO – Chiediamo alle guardie se c’è un meccanico. Qua ormai siamo in città,
ci sarà bene qualcuno che ci possa aiutare! Anche perché se vogliamo venderla è
meglio che parta, sennò non ce la compra nessuno.
ANDREA – Chiediglielo, io intanto mi riposo.
ANDREA
Marco andò quindi ad informarsi e tornò dopo nemmeno un minuto.
– Allora? Buone nuove?
MARCO – Qua non ce ne sono. Siamo in un paese dell’area metropolitana,
ma pare che non ci sia nulla, solo gente di passaggio.
Dicono che bisogna andare in città, poi ne troveremo quanti ne vogliamo.
ANDREA – Ok, ma non possiamo andarci a piedi!
Gli hai chiesto se è possibile chiamare dal ristorante un carro attrezzi?
MARCO – Sì, hanno detto che si può fare.
ANDREA – Potremmo spingerla fuori dal parcheggio, poi la strada è in discesa.
Se saliamo sulla moto e ci lanciamo in folle c’è caso che parta, anche se dubito.
Ma se non parte rischiamo di fermarci in un posto ancora più insulso di questo.
MARCO – Comunque vale la pena provare. Al massimo tu resti a guardare la
moto e io torno qua a telefonare a un carro attrezzi.
ANDREA – Vabbè, proviamo.
ANDREA
Salutammo le guardie e iniziammo a spingere il pesante mezzo sino
alla strada. Una volta in sella prendemmo presto velocità col cambio
in folle, quindi provai a ingranare la terza, ma non ci fu niente da fare.
– Lasciamo perdere, non dà segni di vita. Povera Tenerè! È tanto che
ci dice che non ne vuole più mezza e noi abbiamo sempre ignorato le sue richieste.
ANDREA
355
– A questo punto l’idea del carro attrezzi pare l’unica. Anche se dubito
che un meccanico di qua abbia dei ricambi per un mezzo del genere.
ANDREA – Mah! In Africa tutto è possibile, non scordarlo mai.
MARCO – A te si era già rotto uno statore tempo fa, con la vecchia Africa Twin.
Se non ricordo male, non l’avevi cambiato ma fatto aggiustare.
ANDREA – Sì, da un artigiano a Bologna. Mi aveva sostituito il filo di rame,
poi l’aveva messo in un forno a scaldare e non so cos’altro avesse fatto.
Comunque ci ha messo quindici giorni, non possiamo stare ad Abidjan così tanto!
MARCO – Sempre ammesso che sia lo statore. Proviamo a cambiare la centralina?
ANDREA – Che palle ‘sta centralina! Quante volte ci siamo detti di cambiarla?
MARCO – Troppe. Però tutte le volte che l’abbiamo detto è ripartita poco dopo.
ANDREA – Ah ah! Vero! Magari dirlo porta bene! Preferisco provare a motore
freddo, non vorrei che ogni tentativo a caldo peggiorasse la situazione.
Aspettiamo mezzora, tanto in Africa il tempo è relativo.
MARCO
Sedemmo in un prato sul ciglio della strada per un bel po’, poi mi
decisi a riprovare e fu così che il motore partì al primo colpo. Non ci
intendevamo di impianti elettrici, ma la cosa certa era che avremmo
dovuto trovare qualcuno che ce la potesse riparare in qualche modo,
altrimenti sarebbe stato molto improbabile riuscire a venderla.
– Altro che il tuo bocchino di moto! Questo sì che è un mezzo!
Ormai è in coma, ma non ci lascia a piedi!
ANDREA – Non ho parole. Quanto litri di sudore ho perso in questo viaggio per
un po’ di filo di rame rovinato? Però va! Andiamo ad Abidjan e cerchiamo subito
qualcuno che ce la ripari, poi vediamo che fare.
MARCO – Andiamo, non vedo l’ora di fare la foto al cartello d’ingresso in città!
MARCO
Ma il tanto agognato segnale non c’era o quantomeno non lo
vedemmo. Comunque l’urbanizzazione crebbe sempre più e dopo
poco ci trovammo su una superstrada molto trafficata, di fronte a noi
si stagliavano maestosi i grandi grattacieli del Plateau, il quartiere degli
affari di Abidjan. La foto simbolica non l’avevamo scattata, ma
l’obiettivo era stato raggiunto. Avevamo percorso quasi settemila
chilometri di asfalto, sabbia e fango, affrontato difficoltà di ogni
356
genere che minacciavano ogni volta di precluderci la meta, ma infine
eravamo giunti ad Abidjan. Ce l’avevamo fatta, ma soprattutto ce
l’aveva fatta quella moto eccezionale, che in quel momento tagliava
incontrastata la linea dell’arrivo, facendo risuonare trionfalmente
nell’aria umida e ormai equatoriale il magnifico rumore del motore
monocilindrico: sordo, possente, fedele.
Sarebbe stato pericoloso fermarsi in quella strada, così ci limitammo a
festeggiare la buona riuscita della fantastica impresa dalla sella della
moto, urlando a squarciagola il nostro giubilo fra le visiere dei caschi.
– Guardaaa i grattacieliii! Sai dove siamoooo?
MARCO – Abidjaaan!
ANDREA – Dimmelo ancooraaa!
MARCO – Abidjaaaaaaan!
ANDREA – Ce l’abbiamo fattaaaa! Cazzoooo! Ce l’abbiamo fattaaaa!
MARCO – Ad Almeriiaaa…
ANDREA – Eh?
MARCO – Ad Almeriaa… non ci avrei scommessooo nemmeno le mutandeeee!
ANDREA – Lo sooo! Infattiiii… le hai spedite in Italiaaaa!
MARCO – Ah ah ah ah!
ANDREA
La superstrada tagliava la laguna ed eravamo circondati dall’acqua.
Non vedemmo indicazioni che ci permettessero di capire dove
fossimo, così vagammo senza nessuna direzione e ci affidammo
all’istinto. Poi improvvisamente ci trovammo nel caos cittadino e fu il
delirio. Macchine parcheggiate nei modi più disparati, boutique
eleganti affiancate a empori di infima qualità, gente di ogni razza, viali
alberati, macchine della Polizia e dell’esercito, mercati all’aperto e
mercati coperti, benzinai, banche. Tutto sembrava essere messo lì a
caso, senza un preciso piano urbanistico, una divisione di qualche
tipo. L’unica cosa che non riuscivamo a scorgere era però quella che
ci interessava di più, cioè l’insegna di un hotel. Vagammo nella giungla
metropolitana per oltre un’ora, quando scorgemmo in una strada
laterale ciò che stavamo cercando. Non avemmo dubbi, non
sapevamo dove ci trovassimo ma decidemmo di fermarci comunque.
357
Abidjan ci aveva travolti ed eravamo da tempo stanchi di girare a
vuoto, ci attendevano una doccia e dei vestiti puliti, poi avremmo
chiesto all’albergatore qualche indicazione e saremmo stati presto in
grado di pianificare al meglio le nostre attività.
Scoprimmo di trovarci a Deux Plateaux, il quartiere più ricco della
città, zona di diplomatici e uomini d’affari, scartato a priori perché
probabilmente troppo costoso per noi. In un ampio cortile ghiaiato
all’esterno dell’hotel sostavano persone molto diverse fra loro.
Ovunque c’erano bianchi e neri, tutti vestiti molto eleganti, alcune
coppie multietniche dell’alta società africana, donne delle pulizie con
scope e stracci in mano, qualche auto lussuosa parcheggiata qua e là.
A pochi metri sorgeva però un cimitero di automobili, un’ampia area
dove giacevano abbandonati i mezzi non più funzionanti. Era un
forte segno di degrado urbano che strideva con la particolare o
presunta eleganza dell’albergo. In Europa esistono chiaramente
alberghi di lusso e anche demolitori di auto, ma mai nello stesso
posto, come invece accadeva in quel momento.
L’Africa è stata spesso definita una terra dai forti contrasti, dove il
bene e il male, il bello e il brutto, il buono e il cattivo coesistono in
un’armonia che non è ritrovabile altrove. Lo sapevamo già e in quel
momento ne avevamo un ulteriore esempio sotto i nostri occhi.
Per la prima volta dalla partenza non eravamo più al centro
dell’attenzione, non venivamo guardati con insistenza da nessuno, se
non dalle numerose prostitute che stazionavano un po’ ovunque in
attesa di clienti e che confidavano sicuramente in un nostro interesse.
Chiacchieravano fra loro e ogni tanto ci lanciavano qualche occhiata
ammiccante, che noi ricambiavamo per cortesia. Entrammo così
nell’edificio e Marco prese i contatti con la ragazza che stava alla
reception. Dopo poco lo vidi tornare con un’espressione perplessa.
– Che storia! Non sono mica abituato!
ANDREA – Che c’è? Costa troppo per le nostre finanze?
MARCO – No, anzi, costa poco. Ma la tipa mi ha chiesto quante ore ci fermiamo.
ANDREA – Ah ah! Beh, con tutte queste puttane in giro non c’è da meravigliarsi!
MARCO
358
– Ah ah! Sì, infatti! Le ho detto che siamo due uomini d’affari che
vogliono farsi una bella trombata, poi ripartiremo per Yamoussoukro,
dove parteciperemo a un importante convegno.
ANDREA – Ah ah ah ah! Due uomini d’affari in moto a un convegno nella
capitale! E vestiti come noi! Ah ah ah ah!
MARCO – Giusto il tempo per un po’ di sesso, una bella doccia e via che si va
nella capitale per importanti questioni economiche. Chissà quanti lo faranno!
Hai visto che giro? Ci sono più puttane che clienti!
ANDREA – Gli africani ricchi non si fanno mancare nulla.
MARCO
Un ragazzo dello staff ci mostrò la nostra stanza al secondo piano.
Sulle scale incrociammo diverse persone, perlopiù uomini d’affari
accompagnati dalla prostituta prescelta, ma anche qualche coppia
regolare; tutti erano comunque con una donna, a parte noi. Del resto
ci trovavamo nel quartiere degli affari e le cose andavano così.
La nostra piccola stanza verniciata di giallo acceso si presentò da
subito angusta e opprimente. Una piccola finestra faceva filtrare un
po’ di sole sull’ampio letto matrimoniale che occupava quasi tutto lo
spazio, ma era necessario tenere la luce accesa per vederci chiaro. Il
minuscolo bagno non permetteva troppi movimenti, ma la cosa più
curiosa era sicuramente la televisione, chiusa all’interno di una gabbia
di metallo appesa al muro, per evitare che qualche cliente la rubasse.
– Non si può nemmeno guardare la tv! Lo schermo è coperto dalle sbarre!
ANDREA – Dà un senso di carcere!
Strano però, qua ci vengono a trombare, mica a guardare la tv!
MARCO – Che strano posto! Fuori è elegante e accogliente, dentro è una prigione.
ANDREA – Tanta forma e niente sostanza.
Se fossi un uomo d’affari vorrei essere trattato meglio!
MARCO – In effetti sembra più una squallida locanda del porto.
ANDREA – Il porto è a Treichville, lo vedremo domani, forse.
MARCO – Chissà quante e quali facce da galere ci saranno!
ANDREA – Lo impareremo. Intanto mi abituo un po’ qua alla vita da carcerato.
MARCO – Certo che se hanno costruito quella gabbia, significa che qualcuno ha
provato a scendere per le scale con una televisione in spalla. Sono proprio fuori!
MARCO
359
Marco andò a farsi la doccia per primo e nell’attesa mi guardai un po’
di tv dietro le sbarre. Erano tutti programmi in francese e mi limitai a
fare un veloce zapping senza particolare interesse. Dopo essermi
lavato anch’io, sedemmo sul letto a fare il punto della situazione.
– Mentre eri in doccia ho letto un po’ la guida.
Ho cercato qualche buon ristorante per stasera, bisogna festeggiare!
ANDREA – Giusto! Cosa propone la Lonely Planet?
MARCO – C’è un ristorante italiano proprio in questo quartiere.
Che ne dici? Ci facciamo una pizza?
ANDREA – Ah ah! La solita pizza degli italiani all’estero! Ok, ormai abbiamo
mangiato di tutto e un prematuro ritorno in patria non mi dispiace di certo.
MARCO – Forse farà cagare, ma qua dice che si mangia bene.
ANDREA – Al massimo rimarremo delusi. Proviamo.
MARCO
Io indossai i soliti abiti puliti della sera, Marco invece mi stupì,
esibendo una camicia e dei pantaloni mai visti prima, totalmente
variopinti. Di certo non sarebbe passato inosservato in un ambiente
come quello, in cui i bianchi erano comunque vestiti in stile classico.
Era proprio buffissimo, sembrava un nostalgico hippie anni Sessanta.
– Ah ah! Ma come cazzo ti sei vestito? E soprattutto…
da dove saltano fuori quelle cose lì? Le avevi nascoste per farmi una sorpresa?
MARCO – Ah ah! Sì, sono gli abiti della gran festa finale!
ANDREA – Veramente meravigliosi!
MARCO – Lo so, tu invece mi farai vergognare!
ANDREA – Sì, so di non essere all’altezza di tanta eleganza! Ah ah!
ANDREA
Salimmo così sulla moto coi vestiti puliti e raggiungemmo in pochi
minuti il ristorante. Si presentava molto bene, poteva essere un
qualunque locale elegante del nostro Paese. La clientela era vestita in
modo curato, perlopiù composta da bianchi, ma non mancava
qualche nero dell’alta società. Mangiammo una buona pizza e
bevemmo birra, poi decidemmo di tornare in hotel per riposare. La
mattina dopo ci saremmo alzati presto, perché ci aspettava una
360
giornata molto lunga. Avremmo dovuto trovare un elettrauto per
riparare la moto e addirittura un acquirente che ci pagasse in contanti,
poi ci saremmo dedicati alla parte più semplice di tutto il viaggio,
ovvero la ricerca di un aereo che ci riportasse a casa. I primi due
erano obiettivi veramente difficili da raggiungere, soprattutto in poco
tempo e in una città portuale dell’Africa occidentale, ma avevamo
imparato che in quei luoghi tutto era possibile e tale convinzione ci
dava molta fiducia nella buona riuscita del progetto.
Una volta usciti dal locale impiegai almeno un quarto d’ora ad
accendere la moto. Era decisamente esausta, non ce la faceva proprio
più; ma anche se ci aveva portati ad Abidjan, non ci voleva piantare in
asso prima di avere svolto pienamente il suo compito.
La notte trascorse indisturbata e la sveglia suonò molto presto,
ricordandoci che ci aspettava un giorno speciale, del tutto diverso dai
precedenti. Eravamo giunti al capolinea, ma avevamo ancora tante
cose da fare prima di imbarcarci su un aereo per l’Europa. Per la
prima volta nelle nostre esperienze in giro per il mondo non era stato
ancora scritto l’epilogo. Avevamo quasi sempre fatto viaggi con la mia
moto, partendo da Bologna per poi ritornarvi in un giorno già
stabilito a priori. Ogni volta Marco aveva dovuto chiedere ferie alla
banca in cui lavorava e non avevamo mai avuto il privilegio di
pianificare un ritorno in data imprecisata. Solo in Turchia, quattro
anni prima, eravamo rimasti bloccati alcuni giorni in più rispetto alle
previsioni. La nave che avrebbe dovuto riportarci in Italia era stata
infatti soppressa e avevamo dovuto aspettare che partisse la
successiva. Per me non era stato un problema, non avevo impegni
particolari da onorare, ma il mio amico aveva faticato molto per fare
quadrare il rigido piano ferie previsto dal contratto che tanto
detestava. In Costa d’Avorio la situazione era però diversa e
potevamo permetterci pertanto di prendercela comoda, anche se i
soldi stavano per finire e questo ci indusse a non concederci
nemmeno un giorno di pausa per visitare la città. L’avremmo
comunque girata in lungo e in largo per portare a termine tutte le
attività. Scendemmo quindi a fare colazione, seguiti dallo sguardo
ammaliatore delle prostitute che si aggiravano nei locali dell’hotel.
361
– Bene, eccoci qua! Oggi niente carta geografica dell’Africa occidentale,
ma solo quella della città. Se facciamo le cose per bene, domani siamo in volo.
MARCO – Mah! Dici? Ci vuole un bel po’ di culo per riuscirci in così poco tempo!
ANDREA – Beh, andiamo in giro e cerchiamo dei venditori o meccanici di moto e
da lì, passo dopo passo, troviamo chi fa per noi. Facile, no?
MARCO – Ah, sì. Facilissimo!
ANDREA – Anche se è vero che finora di moto come la nostra non ne abbiamo
vista nemmeno una; ci sono solo dei gran catorci, vecchi e di piccola cilindrata.
MARCO – Se è per questo non abbiamo visto nemmeno dei venditori o dei
meccanici. Meglio chiedere in quale parte della città ci convenga andare,
sennò rischiamo di passare delle ore a vagare in zone inutili.
ANDREA
Marco chiese informazioni alla persone che lavoravano all’hotel, che
consigliarono di recarci proprio nella zona di Treichville. Pareva che
ci fossero molte attività commerciali, tra cui quelle che probabilmente
interessavano a noi, ma l’indicazione mi lasciò alquanto perplesso.
– A Treichville? Ma è un postaccio, ne parliamo da mesi!
Più che comprarci la moto, mi sa che ce la fottono!
MARCO – Vabbè, dai! Non di giorno, almeno spero. Ci sarà un sacco di gente!
ANDREA – Lo so, hai ragione. E poi non nego che la prospettiva di visitare il
quartiere feccia mi alletta non poco. Andiamoci subito!
MARCO – Ah ah! Ti pareva! Manco a dirlo!
ANDREA
Partimmo così verso Treichville. Non sapevamo dove fosse con
esattezza, ma capimmo di essere arrivati a destinazione dalla gente
diversa che ci circondava. Non più eleganza ma abiti trasandati, non
più belle case ma edifici sporchi e pericolanti, ma soprattutto tanta,
tanta umanità. Non ci fidavamo assolutamente a parcheggiare la moto
per fare una ricerca a piedi, con ogni probabilità ce l’avrebbero rubata
anche in pieno giorno. Decidemmo così di rivolgerci alle persone
senza nemmeno scendere dal mezzo, scegliendo quelle che ci
sembrassero più adeguate al tipo di informazioni che cercavamo.
Scartammo quindi tutte le donne e dedicammo attenzione solo agli
uomini, possibilmente giovani, che avessero l’aria di operai o
362
meccanici, anche se non era certo una selezione facile. Dopo qualche
tentativo infruttuoso la fortuna ci baciò e un ragazzo ci indicò un
luogo dove avremmo trovato addirittura una concessionaria Honda.
Treichville cominciò a rivelarsi una scelta azzeccata.
– Che botta di culo! Addirittura un’Honda!
MARCO – Saranno Honda degli anni Settanta, comunque è un buon inizio.
ANDREA – Da cosa nasce cosa!
MARCO – Hai visto che casino c’è?
Sembra che tutti siano in giro a fare spese, a vendere e comprare qualcosa.
ANDREA – Il quartiere pullula di vita! A dire il vero speravo che qualcuno ci
fermasse per chiederci quanto vogliamo per la nostra moto!
MARCO – Ah ah! Non sarebbe male!
ANDREA
Arrivammo al negozio, che subito si presentò inusuale. Infatti, nelle
tre vetrine molto eleganti erano esposti solo insulsi motorini mai visti
prima. Non potevamo certo chiamare fuori il proprietario per
discutere una cosa così importante, così decidemmo di parcheggiare la
moto proprio di fronte alla porta d’ingresso, in modo da tenerla
costantemente d’occhio dall’interno. Venimmo accolti cordialmente
da un ragazzo della nostra età, ma purtroppo non ci fu d’aiuto per
nulla. Non era interessato all’acquisto, non sapeva chi potesse esserlo
e non sapeva nemmeno dove fosse un elettrauto o un meccanico. Ci
congedammo delusi e stupiti di tanta ignoranza.
– Che uomo inutile!
MARCO – Passi che non voglia comprarlo, ma nemmeno conoscere un elettrauto!
ANDREA – Si vede che le sue motorette non si guastano mai!
MARCO – Beh, che dire? Continuiamo a cercare.
ANDREA – Facciamolo. Usiamo la stessa tecnica della richiesta casuale?
MARCO – Ne conosci una migliore?
ANDREA – Se trovassimo un elenco telefonico potremmo saltarci fuori meglio.
MARCO – Andiamo in un locale un po’ degno e chiediamo se ne hanno uno.
ANDREA – Torniamo in quella strada di prima, dove c’era un casino di gente,
lì dal mercato. Io faccio la guardia alla moto e tu ti avventuri nella bolgia.
ANDREA
363
– Parlare il francese è un po’ un pacco! Devo fare sempre tutto io!
– Beh, io guido nel caos metropolitano e faccio la guardia con la mia
imponenza fisica. Non è una cosa da poco, no?
MARCO – Ah ah! Col tuo fisico vai poco in là, qua sono tutti più grossi di te!
ANDREA – Già, ma sembrano buoni, almeno per ora.
MARCO – Quindi dovrò girare da solo per Treichville?
ANDREA – Ma no, solo nelle vie del mercato pedonale! Io ti aspetto all’ingresso
sulla strada! Cosa vuoi che ti succeda? Sei vestito come un pezzente,
non hai portafogli visibili, né orologi, né anelli, inoltre hai la barba lunga.
Sembri uno scaricatore di porto, gente rude, da lasciare stare se non cerchi guai!
MARCO – Ah ah! Parla lui, così raffinato, un vero damerino dell’alta società!
ANDREA – Non ti devi offendere. Guarda che ti ho fatto un complimento!
Tu sei molto più rude, ti invidio molto! Ah ah ah ah!
MARCO
ANDREA
Terminato lo scambio di battute ci dirigemmo verso l’enorme
mercato visto in precedenza. Chiedendo a tante persone sarebbe
aumentata la possibilità di trovare qualcuno che sapesse indirizzarci
nel luogo giusto. Marco scese dalla moto e scomparve nei vicoli. Visto
da dietro sembrava proprio un portuale, era meraviglioso con quella
sua aria precaria mentre si confondeva nella folla variopinta del
quartiere malfamato. Io rimasi in piedi e fumai una sigaretta. Mi trovai
una posizione in bella mostra, sperando che qualcuno mi chiedesse
qualcosa sulla moto, ma tutti scivolavano via veloci, senza degnarmi
di troppa attenzione. Marco tornò dopo nemmeno un quarto d’ora e
stava parlando a un ragazzo molto giovane che lo accompagnava.
– Che rapidità! Fatto tutto? Vedo che hai un nuovo amico!
MARCO – Tutto no, però questo tipo mi ha indicato un meccanico moto qua
vicino. Dice che ci accompagna lui, è un amico suo.
ANDREA – Che belli i quartieri popolari, tutti si conoscono! Altro che
Le Plateau! Lì sono tutti snob e un po’ sulle loro, qua invece è molto diverso.
MARCO – Beh, più che snob direi puttanieri, almeno nel nostro hotel! Dice che è
molto vicino a qua e si va a piedi, ma è meglio che tu ci venga dietro in moto, direi.
ANDREA – Certo, vi seguo a passo d’uomo. andate avanti che io non vi perdo.
ANDREA
364
Dopo una breve camminata i due si fermarono davanti a un’officina.
All’esterno vidi un‘infinità di moto, alcune veri e propri ruderi, altre
tenute meglio, ma soprattutto non solo piccole ma anche di grossa
cilindrata, simili alla nostra, anche se erano modelli mai visti prima.
Forse avevamo trovato il posto che faceva per noi. Il ragazzo salutò il
meccanico e gli spiegò la situazione. Vidi Marco parlare con entrambi,
io mi tenni fuori dalla discussione e aspettai buone nuove.
– Dice che la moto non la compra, ma ci ripara lo statore in due ore,
sempre ammesso che il problema sia quello.
ANDREA – Due ore? Ma a Bologna ci hanno messo quindici giorni! Come fa?
MARCO – In Africa tutto è possibile.
ANDREA – Mah! Vedremo. Gli hai chiesto a chi la possiamo vendere?
MARCO – No, non ne sa mezza. Però direi di lasciargliela,
intanto noi ci muoviamo a piedi per Treichville e rompiamo le palle a tutti,
prima o poi combineremo qualcosa.
ANDREA – Sei un venditore nato! Va bene, ripariamola.
Anche perché se troviamo un acquirente è chiaro che la voglia provare e a caldo
ormai non parte più. Sai che pacco se c’è uno interessato e poi non va?
MARCO – Allora che facciamo? Gli dico di sì?
ANDREA – Diglielo, anche se secondo me le due ore di cui parla sono un delirio.
O il tipo di Bologna è un coglione o questo è un superficiale o un truffatore.
MARCO – Beh, ho chiesto quanto ci costa e mi ha detto una cifra ridicola.
ANDREA – Ok, almeno questo va bene. Salutiamo e andiamo alla ricerca.
MARCO
Ma nonostante il nostro impegno non riuscimmo a ottenere il benché
minimo risultato. Non trovammo nulla, né un elenco telefonico, né
un suggerimento di qualche tipo, tantomeno una qualunque persona
interessata all’acquisto. Dopo avere mangiato qualcosa in giro ci
accorgemmo che le due ore previste erano trascorse, così tornammo
speranzosi all’officina e scoprimmo con delusione che la moto era
totalmente smontata e abbandonata all’esterno del locale. Fummo
presi da un certo sconforto, anche se, in fondo, un po’ ce lo
aspettavamo. Non ce n’era bisogno, ma avemmo ulteriore conferma
che in Africa il tempo era una dimensione relativa, forse troppo.
365
– Me lo aspettavo! Altro che due ore! Fanculo ‘sto meccanico del cazzo!
– Vabbè, non essere troppo esigente! È solo un po’ indietro nei lavori!
ANDREA – Chissà poi se ci sta lavorando!
Magari adesso se ne esce dicendo che ha dovuto ordinare il filo di rame,
chissà dove, e che ce la consegna fra una settimana!
MARCO – Ah ah! In quel caso lasceremmo Le Provencal e cercheremmo una
stamberga a Treichville, è un quartiere che ci rappresenta di più!
ANDREA – Oppure gli molliamo la moto in officina,
diciamo che torniamo a prenderla e chi si è visto si è visto.
MARCO – Ti ricordo che i biglietti aerei dobbiamo ancora comprarli e che
abbiamo finito i contanti. Non vorrai mica usare ancora la mia carta, spero!
ANDREA – Vabbè, dai! È cassa comune! Ah ah ah ah!
ANDREA
MARCO
Nel frattempo il meccanico uscì e ci sorrise. Disse che il lavoro stava
procedendo bene, che stava scaldando il rame e che al massimo dopo
un’ora saremmo potuti ripartire. Non sapevamo bene se credergli, ma
non avevamo nessuna alternativa e decidemmo così di stare lì ad
aspettare, nella speranza che la pressione dei nostri sguardi lo
sollecitasse un po’, ma anche perché non era per niente facile cercare
un acquirente senza nemmeno mostrare la moto. Dopo una ventina
di minuti uscì dall’officina con lo statore nuovo fiammante. Ci disse
che il vecchio filo di rame era praticamente carbonizzato e non si
spiegava come avesse potuto funzionare sino a quel momento. Lo
aveva perciò sostituito e sottoposto a un trattamento termico, quindi
si trattava di rimontare il tutto e la Yamaha sarebbe tornata nuova.
– Era lo statore, ora ne abbiamo la conferma. Ne sappiamo a pacchi!
ANDREA – Almeno abbiamo la soddisfazione di sapere che non abbiamo perso
tempo inutilmente a sostituire la centralina.
MARCO – Quel filo di rame carbonizzato ne deve avere patite tante!
Sedici anni di vita prima di partire per l’Africa, poi mezza Europa,
poi il Sahara, poi la giungla, infine la metropoli equatoriale.
ANDREA – Vero! Però non capisco ancora perché ‘sto tipo faccia in tre ore quello
che a Bologna hanno fatto in due settimane, ma vedrò di farmene una ragione.
MARCO – Mah! Non so che dire, l’importante è che funzioni sino alla vendita!
MARCO
366
Il meccanico fu di parola e poco dopo potemmo ripartire. La moto si
avviò al primo colpo e lui apparve subito fiero della qualità del suo
lavoro. Lo ringraziammo e continuammo la nostra ricerca.
Ci fermammo a fare benzina e venimmo avvicinati da un gruppo di
ragazzi molto giovani che passavano le proprie ore seduti al
distributore a fare nulla, se non guardare le gente che passava. Ci
fecero i complimenti per la moto e si discusse dei soliti dettagli
tecnici: peso, velocità, cilindrata e così via. Noi ne approfittammo per
chiedere se conoscessero qualcuno disposto ad acquistarla e subito
questi cominciarono a confabulare fra loro. Non sapevamo se fossero
realmente interessati a comprarla o se studiassero un metodo per
derubarci, ma rimanemmo comunque guardinghi, in attesa degli
eventi. Uno di loro, quello dall’aria più sveglia, ci disse che il
pomeriggio dopo sarebbe passata di lì una persona interessata
all’acquisto, quindi a breve avremmo probabilmente concluso l’affare.
– Che ne pensi? Sarà affidabile ‘sto tipo?
– Mah! Mi sa di pacco, ma dirgli che ripasseremo non ci costa nulla.
ANDREA – Giusto, intanto noi continuiamo la ricerca e se non troviamo niente
ritorniamo qua domani e vediamo che aria tira.
MARCO – Proviamo a cambiare quartiere? Magari Treichville è troppo pezzente
per trovare qualcuno che compri una moto grande.
ANDREA – Facciamolo, così intanto visitiamo un po’ Abidjan.
MARCO – Andiamo in centro, nella via dei negozi e delle banche.
Chissà, magari facciamo qualche incontro fortunato e ci va di lusso.
ANDREA – Ok, liquida il tipo e andiamocene.
ANDREA
MARCO
Marco prese accordi generici col ragazzo, saremmo passati di lì
l’indomani nel primo pomeriggio. Partimmo per raggiungere il centro,
ma dopo pochi minuti la moto si spense improvvisamente durante la
marcia, cosa che non era mai accaduta prima. Accostai sconsolato.
– Ma stavolta cos’è successo? Ha fatto tutto da sola?
– Già, è morta improvvisamente.
MARCO – Non ho parole! È proprio una bella novità! Dai, prova a riaccenderla.
MARCO
ANDREA
367
Feci gli abituali tentativi e cominciai come sempre a sudare per lo
sforzo, infine il motore partì con lo splendido rumore di sempre.
– Ora va. Comunque è un guasto nuovo, quello sfigato ci ha messo sì
tre ore, ma la sua riparazione ha resistito mezzora! Ora capisco!
MARCO – C’è poco da capire. Torniamo da lui e diamogli il fatto suo!
ANDREA
Ci dirigemmo verso l’officina, ma dopo nemmeno un minuto la moto
si spense di nuovo, così la riaccesi ancora una volta e raggiungemmo
la meta. Il meccanico si dimostrò dispiaciuto e perplesso, però disse
che avrebbe risolto il problema. Sarebbe stato necessario smontare
nuovamente tutto per vedere cosa non funzionasse, ma era già molto
tardi e stava per chiudere, l’avrebbe sistemata solo l’indomani.
– Che palle! Del resto se non va non va, non ci rimane molta scelta.
ANDREA – No, però ‘sto facilone mi sta sul cazzo.
Prima sembra che sappia fare tutto in un attimo, poi ripartiamo e la moto collassa
come non aveva mai fatto in tutto il viaggio!
MARCO – Speriamo che sia una cosa da poco e ce la riconsegni in forma.
ANDREA – Domattina lo impareremo, ma adesso che facciamo?
MARCO – Mah, niente! Facciamo un po’ gli africani, andiamo a cazzeggiare in
giro, poi torniamo in hotel e ci prepariamo per la serata. Chiaramente in taxi!
ANDREA – Chiaramente. Tra l’altro in questo modo rischiamo che ci salti anche
la punta coi tipi dal benzinaio, ma questo è un dettaglio! Che pacco!
MARCO
Raggiungemmo il centro e ritrovammo nuovamente la gente elegante
già conosciuta poche ore prima. Non c’erano più tracce né di moto né
di concessionari, ma decidemmo di provare ugualmente a chiedere in
giro. Prima di lanciarci nella ricerca, andammo in un bar a ristorarci.
– Ormai non abbiamo più soldi nemmeno per pagarci un panino.
Mi sa che è ora di prelevare dei soldi con la tua carta ma…
MARCO – Non continuare, già so cosa mi vuoi dire!
ANDREA – Ah ah! Non c’è nemmeno bisogno di dirlo! Tanto è cassa comune!
ANDREA
368
– Povero il mio conto, quante ne sta subendo! Tra l’altro non so
nemmeno quanto mi è rimasto, ma lo imparerò al ritorno, anche se temo il peggio!
ANDREA – Tieni duro, ci salterai fuori! Per ora andiamo a prelevare, qua è
pieno di bancomat e c’è l’imbarazzo della scelta, siamo nel quartiere business.
MARCO
A pochi metri dal bar trovammo uno sportello, così Marco infilò la
sua carta e si accinse a digitare il PIN, quando sul display apparve un
messaggio che ci fece impallidire. La carta era stata trattenuta e il
titolare si sarebbe dovuto rivolgere alla propria filiale per chiarimenti.
– Che sfiga incredibile. Hai letto?
ANDREA – Sì, siamo nella merda.
MARCO – La mia filiale è a Novellara, qua siamo ad Abidjan!
ANDREA – Che il conto sia totalmente asciutto?
MARCO – No, non penso proprio. Non sono ricco ma nemmeno a secco.
Comunque, anche se non ci fosse disponibilità, me la dovrebbe rendere ugualmente.
ANDREA – C’è qualcuno in banca? Magari ci può dire come possiamo fare.
MARCO – Non so, andiamo a vedere, ma vista l’ora ne dubito.
MARCO
Non trovammo nessuno, inoltre erano le sei del pomeriggio di
venerdì e sino a lunedì la banca non avrebbe riaperto. Eravamo senza
un soldo, dovevamo anche pagare l’albergo che ci ospitava e avevamo
davanti almeno due giorni di totale povertà da affrontare. Non
sapevamo assolutamente i motivi per cui la carta fosse stata trattenuta,
pertanto non era per niente certo che quella banca ci sarebbe stata
d’aiuto. Ci trovammo improvvisamente in una condizione che non
conoscevamo, quella dei poveri, quella di coloro che non hanno da
mangiare, in una terra straniera dove non conoscono nessuno, senza
nemmeno la possibilità concreta di tornare a casa propria. Ci
sentimmo perciò come i tanti emigrati in Italia che non sanno come
guadagnare qualcosa per potere almeno sfamarsi.
– Che bello! Siamo in mezzo a una strada popolata da gente elegante e
noi siamo senza un franco e con degli stracci addosso. Che triste esperienza!
ANDREA – E per giunta senza moto. Adesso che cazzo facciamo? Qualche idea?
MARCO
369
– Non so, sicuramente non ha senso che stiamo qua. Torniamo in hotel.
– È un’ottima idea. Viste le nostre finanze, però andiamo a piedi!
MARCO – Sob! È vero! Non abbiamo nemmeno i soldi per pagarci un taxi!
Vabbè che non è lontano, però non possiamo ridurci così!
ANDREA – Idea! Chiamiamo l’Ambasciata Italiana!
Siamo in una situazione di emergenza, non possono negarci un aiuto!
MARCO – Proviamo, al massimo non ci cagheranno e non ci rimetteremo nulla.
Qualche moneta per il telefono l’abbiamo ancora. Cerco il numero sulla guida.
MARCO
ANDREA
Dopo qualche squillo si attivò una segreteria telefonica. Gli uffici
erano chiusi, ma mi venne comunicato un numero di cellulare per le
emergenze. Fu così che mi rispose una voce femminile in inglese.
– Hello. That’s the Italian Embassy.
ANDREA – Good evening. Can I speak Italian?
VOCE – Sì, buonasera, mi dica.
ANDREA – Buonasera. Mi chiamo Andrea Lado, sono cittadino italiano di
passaggio ad Abidjan. La chiamo perché ho avuto un problema abbastanza serio
qualche minuto fa. Io e un amico ci siamo fermati in una banca a Plateau Deux
a prelevare del contante, ma lo sportello si è tenuto la carta, l’unica che avevamo,
e ora siamo senza denaro e non sappiamo come fare.
VOCE – Ho capito. Senta, facciamo così. Io le lascio l’indirizzo di un ristorante
in cui mi trovo con mio marito. Quando arrivate chiedete della segretaria
dell’Ambasciatore d’Italia e fatevi accompagnare al nostro tavolo, poi ne parliamo.
ANDREA – Va bene, grazie. Per quanto tempo vi fermate al ristorante?
SEGRETARIA – Siamo appena arrivati, fate pure con comodo, vi aspettiamo.
ANDREA – Grazie, Lei è gentilissima. Non abbiamo più nemmeno i soldi per il
taxi, ma siamo vicini al nostro hotel, forse in camera è rimasta qualche moneta.
SEGRETARIA – Ah ah! Siete proprio al verde!
Comunque trovate il modo di raggiungermi, io sono qua.
ANDREA – Ah ah! Sì, siamo proprio alla frutta!
Ci vediamo comunque fra un’ora circa, grazie ancora.
SEGRETARIA – Bene, a dopo. Prenda da scrivere, segni l’indirizzo del ristorante.
ANDREA – Sono pronto. Ma me lo detti lentamente, perché senza soldi non posso
permettermi di sbagliare indirizzo. Come li pagherei due taxi? Sarebbe la fine!
VOCE
370
Chiaramente non sapevo dove potesse trovarsi quel luogo, così mi
limitai a prendere nota e a chiedere conferma un paio di volte, poi
avremmo valutato come fare per raggiungerlo. In tasca ci restavano
solo poche monete, insufficienti per qualunque spesa diversa da una
telefonata, che sarebbe comunque potuta risultare essenziale alla
nostra sopravvivenza. Le custodimmo così con cura e tornammo a
piedi all’hotel, ribaltammo i bagagli ma non uscì nemmeno un soldo.
– Che tristezza!
– È la tragica realtà, però sono certo che l’Ambasciata ci tirerà fuori
dai guai. Per ora prendiamo atto che non abbiamo i soldi per fare nulla,
nemmeno per il taxi. È una novità interessante, non credi?
MARCO – Meravigliosa! Mi concederà di vivere una condizione nuova,
quella del bianco derelitto in un Paese di neri.
ANDREA – Ah ah! Vero! Siamo più poveri di quasi tutta la gente della città!
MARCO – Che triste condizione! Ma il ristorante dov’è?
ANDREA – Non ne ho idea, potremmo chiedere ma ci perderemmo di sicuro,
ci vorrebbe troppo tempo e la tipa vorrà anche andare a letto, no?
Chiediamo a qualcuno dell’hotel se ci dà un passaggio, visto che il taxi non ce lo
possiamo permettere. Gli spieghi la situazione, non potranno dirci di no!
MARCO – Vabbè, scendiamo e vediamo che aria tira.
MARCO
ANDREA
Nella hall c’era un grande movimento, perlopiù si trattava di uomini
d’affari che, appena scesi dai taxi o da eleganti auto private, venivano
agganciati dalle prostitute e raramente si assisteva a un rifiuto.
A un tratto uscì dal bar una coppia nera di una certa età, dall’aria
distinta, che si diresse nel cortile. Seguimmo i due con discrezione e li
vedemmo salire su un’auto parcheggiata. Forse avremmo potuto
chiedere un passaggio proprio a loro. Lui fece manovra e si fermò
all’incrocio con la strada principale, per dare la precedenza alle
macchine che transitavano. Fu in quel momento che Marco, senza
dire nulla, si lanciò nella loro direzione e bussò al finestrino del
conducente. Questi aprì e il mio amico gli parlò per pochi secondi,
dopodiché l’elegante signore nero gli diede qualche spicciolo.
371
– Ah ah! Sei incredibile! Cosa gli hai detto di bello per farti pagare?
– Gli ho chiesto se ci dava un passaggio, ma ha detto “No, grazie”.
Allora gli ho chiesto qualche soldo per il taxi perché siamo rimasti senza nulla.
ANDREA – E lui ha pagato? Ah ah! Ha fatto bene, si è parato il culo!
Avrà pensato che fossi un delinquente! Avrà temuto per sua moglie!
MARCO – Ah ah! Infatti, appena gli ho chiesto dei soldi ha guardato la moglie
che gli ha fatto di sì con la testa. Meglio liquidare al più presto gli uomini bianchi!
Ad Abidjan i neri hanno paura dei bianchi e da noi i bianchi hanno paura dei
neri! Facile, no? Tutti hanno paura della gente diversa.
ANDREA – Beh, anch’io avrei avuto paura, fossi stato in lui. Ti arriva un uomo
bianco con la barba lunga e dei vestiti orrendi, cosa vuoi pensare?
MARCO – Ma dai! Non ho l’aspetto di un rapinatore!
ANDREA – Neanche di un galantuomo! Ah ah ah ah!
MARCO – Beh, intanto ci paghiamo il taxi e andiamo dall’Ambasciatrice.
ANDREA – È solo una segretaria, non ti montare la testa!
ANDREA
MARCO
Eravamo nuovamente ricchi e potemmo quindi fermare un taxi e farci
portare nel ristorante indicatoci. Coprimmo una distanza che a piedi
era impensabile, attraversando probabilmente le zone più eleganti
della metropoli. In un lungo viale alberato grandi macchine europee,
berline e cabrio, sfornavano eleganti giovani di colore che si recavano
nei locali per trascorrere una serata mondana. Nessuno guidava, tutti
avevano un autista. I loro abiti ricercati non recavano traccia della
povertà vista poco prima a Treichville. Il nostro look invece era molto
più adeguato ai quartieri malfamati che non a quella zona riservata
all’alta società. Non che ci vergognassimo in modo particolare, ma
venimmo pervasi da un certo disagio quando arrivammo al ristorante.
Era lo stereotipo dell’eleganza, arredato con grandi lampadari di
cristallo, ampi divani in velluto e tappeti sicuramente pregiati,
camerieri in livrea che portavano calici di champagne e aragoste,
signore con collane di pietre preziose, tacchi a spillo, anelli di brillanti,
cappelli parigini e ogni accessorio che contribuisse a marcare la
differenza fra la gente normale e l’elite. Infine c’eravamo noi, con
pantaloni larghi e sporchi, scarpe da ginnastica duramente provate da
un mese di viaggio, magliette di cotone con disegni spiritosi e barba
372
incolta da tempo immemorabile. Ma nonostante ci fossimo presentati
con questo look indecoroso non venimmo guardati con la diffidenza
che si potrebbe supporre, perché avevamo un autorevole requisito.
– Che storia squallida! Se fossimo neri e non bianchi ci avrebbero già
cacciati senza nemmeno chiederci che vogliamo.
MARCO – Questo è sicuro, triste ma sicuro. Qua sanno che i bianchi sono ricchi,
così l’orrore che portiamo addosso non scalfisce la nostra immagine.
Abbiamo i soldi, quindi siamo degni di rispetto.
ANDREA – Certo che la tipa si tratta bene, mica ci ospita in un brutto posto!
MARCO – Senza dubbio. Ma ci invita a cena?
ANDREA – Non ho avuto il coraggio di chiederglielo. Sarebbe bello, però!
In mezzo a queste belle fighe tutte eleganti faremmo un figurone!
MARCO – Il vero biker fa sempre un figurone, anche quando è coperto di stracci!
ANDREA – Ah ah ah ah! Giusto! Il vero biker cucca anche quando puzza!
ANDREA
Ma nonostante fossimo bianchi, la nostra singolare presenza non
passò inosservata troppo a lungo. Venimmo infatti avvicinati da un
inserviente che ci chiese cosa desiderassimo. Al sentire il nome della
segretaria il cameriere diventò ancora più ossequioso e ci fece strada
in quell’ambiente d’elite, dove la gente più ricca di Abidjan stava
cenando. Attraversammo l’elegante sala e tutti ci guardarono con
curiosità e diffidenza, eravamo veramente straccioni e inadeguati a
quel luogo aristocratico, ma non potemmo fare altro che proseguire a
testa alta, quasi fosse naturale essere in quelle condizioni in un posto
del genere. Arrivammo a un tavolo dove sedeva una coppia bianca
sulla sessantina. Lui era abbastanza anonimo, mediamente alto e
magro, con i capelli brizzolati corti e pettinati all’indietro, mentre lei
era molto bassa e aveva una voluminosa gobba che le rovinava la
silhouette, conferendole un aspetto da topo di biblioteca.
– Buonasera ragazzi, accomodatevi!
ANDREA – Buonasera. Noi ci sediamo volentieri, ma le ricordo che non abbiamo
un soldo e questo locale non sembra propriamente economico.
SEGRETARIA – Lo so, non vi dovete preoccupare, questa sera siete nostri ospiti.
SEGRETARIA
373
– Grazie mille, speriamo di non farvi vergognare! Mi spiace essere vestito
così, ma sa, non prevedevamo di venire in un locale di questo genere.
SEGRETARIA – Ah ah! Non preoccupatevi! Qua ad Abidjan si vede di tutto,
non siete certo i primi bianchi ineleganti a essere ospiti in un locale del genere.
MARCO – Lo stavamo proprio dicendo poco fa. Se fossimo neri e vestiti così,
non penso che ci avrebbero fatti entrare, dico bene?
SEGRETARIA – No di certo. In Costa d’Avorio i neri appena possono comprano
vestiti eleganti per distinguersi dalla massa povera. Se un nero è vestito male vuol
dire che è povero, mentre un bianco vestito male è comunque ricco, anche se magari
eccentrico. Quindi nessuno si sognerebbe mai di allontanarlo da un locale.
MARCO
L’uomo al suo fianco ci guardava senza dire nulla, limitandosi ad
annuire di fronte ad alcune affermazioni che lo richiedevano. Sapevo
che si trattava di suo marito, ma non dissi nulla sino a quando non fu
lei stessa a presentarcelo. Veniva dall’Argentina e si erano conosciuti
in giro per il mondo, entrambi avevano infatti alle spalle anni e anni di
carriere diplomatiche in numerosi Stati in tutti i continenti. Lei invece,
originaria di Genova, ma aveva perso totalmente ogni accento ed era
un perfetto esempio di corretta dizione.
Si trovavano ad Abidjan da alcuni anni e avrebbero voluto essere
trasferiti in Europa al più presto, ma i tempi non erano ancora maturi.
Nel frattempo arrivò il cameriere e la segretaria ci chiese cosa
volessimo mangiare. Fu imbarazzante scegliere il cibo, in quanto non
potevamo pagarlo e non ci sembrava bello ordinare piatti troppo
costosi. Ma la signora, decisamente avvezza a decifrare le persone più
varie, ci rassicurò prima ancora che decidessimo una qualunque cosa.
– Scegliete quello che volete, non fatevi riguardi. Semmai state
attenti ai vini troppo costosi, perché sennò l’Ambasciatore mi licenzia. Ah ah!
MARCO – Ma scusi, siamo ospiti suoi o dell’Ambasciata?
SEGRETARIA – Dell’Ambasciata. Lo Stato ha un fondo a disposizione per le
emergenze e questa lo è, anche se non si tratta di una cosa grave.
ANDREA – Ah ah! Affrontiamo un’emergenza nel primo ristorante di Abidjan?
SEGRETARIA - Questo ristorante è bello, ma non è il primo. Ci sono dei posti
incredibili in questa città, cose che non ho mai visto nemmeno in Europa.
SEGRETARIA
374
– Abbiamo notato che in questo quartiere c’è un gran giro di denaro!
– Qua sì, siamo nella zona ricca. In questa parte del mondo si è
ricchi o poveri, in Costa d’Avorio non esiste molta classe media.
ANDREA – E i bianchi sono sempre ricchi, anche se ineleganti. I neri dipende.
MARCO
SEGRETARIA
Prendemmo una grigliata di carne con verdure, il tutto accompagnato
da un ottimo vino rosso cileno consigliato dal taciturno marito della
segretaria. La nostra conversazione continuò durante l’intero pasto.
– Bene, spiegatemi la situazione e vediamo cosa si può fare.
MARCO – La situazione è semplice. Stavamo per prelevare dei contanti,
così ho inserito la carta di credito nello sportello e non è più uscita.
SEGRETARIA – Ho capito, è stata trattenuta su disposizione delle Autorità.
ANDREA – Cioè? Che significa?
SEGRETARIA – Dieci giorni fa c’è stato un tentativo di colpo di Stato,
ma non è riuscito. Il Governo ha così imposto alle banche di bloccare l’erogazione
dei contanti, per impedire ai golpisti di avere il denaro per comprare altre armi.
ANDREA – Hai capito i casi della vita? Fossimo partiti dall’Italia qualche
giorno prima ci saremmo trovati nel bel mezzo di un golpe!
MARCO – Che strano rimedio! Tutti i conti del Paese bloccati,
compreso il mio di Reggio Emilia! Ma adesso che posso fare?
SEGRETARIA – Prelevare in Costa d’Avorio in questi giorni non sarà facile.
Venite domattina in Ambasciata e vediamo di trovare una soluzione.
Si dovrebbe riuscire a farvi un prestito, ma bisogna vedere quanto vi serve.
ANDREA – Siamo a fine viaggio, dovremmo almeno pagarci l’aereo per l’Italia.
SEGRETARIA – Non è poco, è una cifra un po’ alta, comunque ne parliamo con
l’Ambasciatore. Per ora posso lasciarvi un po’ di soldi per vivere le prossime ore.
SEGRETARIA
E fu così che la signora ci consegnò un po’ di denaro con cui
avremmo pagato il taxi di ritorno per l’hotel e ce ne sarebbe persino
avanzato per fare altro. Ringraziammo e ci alzammo dal tavolo. Fu
strano trovarsi di fronte all’elegante ristorante a fermare un taxi vestiti
come mendicanti di Treichville, ma eravamo bianchi, quindi ricchi e
rispettabili. Nessuno ci rivolse infatti sguardi di commiserazione o
disprezzo, suscitammo solamente un bel po’ di perplessità del tutto
375
comprensibile, visto che non era certo facile inquadrarci in una
qualche tipologia di persone note all’ambiente che ci ospitava. Non
sapevamo assolutamente cosa ci aspettasse, la moto non funzionava,
non avevamo trovato nessun acquirente e da qualche ora eravamo
senza soldi in terra straniera. Vista la situazione precaria decidemmo
di fermarci in hotel. Facemmo una doccia e aiutai Marco a rifare la
medicazione alla gamba, la ferita stava guarendo bene e mi limitai a
sostituire la garza e la fasciatura. Concludemmo la serata sperperando
i pochi averi in qualche bottiglia di birra che bevemmo sulla terrazza
dell’albergo, contemplando le infinite luci della città che ci ospitava da
un paio di giorni, una metropoli dai mille contrasti che minacciava di
trattenerci a lungo. Dopo tutta la fatica spesa per raggiungerla, ecco
che non ci avrebbe lasciati ripartire così facilmente come pensavamo.
376
AMSTERDAM
La nostra giornata da poveri iniziò non troppo presto. In Costa
d’Avorio gli orari di lavoro erano molto variabili e anche l’Ambasciata
se la prendeva comoda. La segretaria ci aveva detto di essere là non
prima delle dieci e mezza, così puntammo la sveglia alle nove.
– È già la seconda mattina che ci svegliamo nella stessa stanza. Strano!
ANDREA – Ah ah! È vero! In viaggio è una cosa rara,
siamo sempre in movimento! Adesso invece siamo in pausa forzata.
MARCO – Speriamo di non rimanere clienti troppo a lungo.
Me ne partirei volentieri, sai? Basta Abidjan.
ANDREA – Anch’io, non so se per tornare a Bologna o proseguire verso l’Africa
meridionale, ma me ne partirei anch’io.
MARCO – Per ora siamo a pecora. Niente soldi, moto non venduta e nemmeno
funzionante. Ci restano solo i passaporti!
ANDREA – E la nostra faccia da culo! Soprattutto la tua! Ah ah!
Dopo l’elemosina di ieri sera ti sei conquistato un posto di tutto rispetto!
Ah ah! Oggi farai il bis per andare in taxi in Ambasciata?
MARCO – Ma no! Ho tenuto da parte la somma che ci serve!
Vabbè mendicare, ma non vorrei prenderci troppo la mano!
ANDREA – Vedrai che la nostra patria non ci pianterà in asso in Africa
occidentale. Hanno bisogno di noi e lo sanno!
MARCO – Certo! Non possono permettersi la fuga di due menti così fertili!
ANDREA – Non sono mai stato in un’Ambasciata Italiana all’estero, chissà che
giro c’è. Ma soprattutto, chissà cosa ci proporranno per toglierci dai casini!
MARCO – Mah! A noi in fondo servono solo dei soldi.
ANDREA – Ce ne daranno. E se non dovesse accadere chiameremo in Italia e ci
faremo spedire del denaro. Nell’attesa saremo ospiti dell’Ambasciata!
MARCO – Gira e rigira, qualcuno ci deve dare del denaro,
sennò ci tocca fare qualche rapina a Treichville.
ANDREA – Ah! Proprio vero! L’amore e il denaro muovono il mondo!
MARCO
Dopo colazione fermammo un taxi. L’auto si diresse in una bella zona
della immensa città, pulita e piena di viali alberati, e ci lasciò davanti a
377
un edificio circondato da un muro alto circa tre metri, con un unico
ingresso presidiato da una guardia armata. Le riferimmo per sommi
capi l’accaduto e dopo nemmeno un minuto fummo scortati
all’interno dello stabile. Ci accolse un usciere che ci invitò a sedere in
attesa che qualche funzionario si liberasse da chissà quali impegni.
– Ho notato che sinora abbiamo avuto a che fare solo con neri.
Ma non è forse l’Ambasciata Italiana? Pensavo fossero tutti nostri compatrioti!
MARCO – Beh, nera la guardia e nero l’usciere, ma sono certo che i funzionari
saranno tutti bianchi! Sennò che Ambasciata è?
ANDREA – Com’è se è nero anche l’Ambasciatore? Ah ah ah ah!
MARCO – Ah ah! Basta che paghi, poi può essere del colore che preferisce!
ANDREA
Da un ufficio uscì un bianco che ci salutò in italiano. Andava di fretta
e non si fermò nemmeno, poi scomparve in un’altra stanza.
– Visto? Uomini bianchi. Qua c’è aria di casa!
– Visto. Sarà il vicesegretario.
MARCO – Ah ah! Perché non l’Ambasciatore?
ANDREA – Usciva da un ufficio poco sofisticato, ha l’aria di un galoppino!
MARCO
ANDREA
Da un corridoio arrivò la segretaria conosciuta la sera prima, che ci
salutò senza aggiungere altro ed entrò in un’altra stanza ancora.
– Com’è che qua tutti ci salutano e nessuno ci caga?
– Non ne ho idea, ma sembrano tutti indaffarati.
In fondo noi non siamo che due turisti senza soldi, pensa a tutti i casini che
avranno avuto gli imprenditori italiani dopo il fallito colpo di Stato.
ANDREA – Non so quanti italiani ci siano in questo posto. Non tanti, credo.
MARCO – Sì, certo. Comunque quei pochi faranno riferimento a questo posto.
ANDREA
MARCO
Un’altra donna uscì da un ufficio, ci fece un frettoloso cenno di saluto
e proseguì per la sua strada. Ricambiammo e rimanemmo in paziente
attesa di qualche sviluppo. Dopo circa venti minuti venimmo invitati
dalla segretaria a seguirla in una stanza e così facemmo. Lei sedette
378
dietro a una scrivania, dove stavano un telefono e un computer.
Anche se eravamo in Costa d’Avorio, ci trovammo nuovamente in
Italia, in un luogo importante, un luogo di decisioni internazionali e
forse anche di soluzioni al nostro problema.
In quel momento entrò l’altra donna vista poco prima. Era più
giovane della segretaria, avrà avuto circa quaranta anni, alta e magra,
con i capelli lunghi e neri. Si muoveva in modo molto affrettato, ogni
gesto che faceva sembrava incompleto e lasciava subito posto a
un’azione successiva, sembrava non volesse perdere tempo. Prese
alcuni documenti sul tavolo, ne guardò uno e lo ripose prontamente,
poi alzò la cornetta del telefono e, mentre digitava un numero, con
l’altra mano estrasse un foglio uscito dal fax. Disse qualcosa in
francese all’interlocutore telefonico e lo liquidò in brevissimo tempo,
poi ci guardò e intervenne nella discussione con un forte accento
toscano. Era impiegata del Ministero degli Esteri presso l’Ambasciata
e già sapeva tutto, non dovemmo spiegarle nulla.
– Buongiorno. Mi diceva la segretaria che avete una moto da vendere.
MARCO – Sì, anche se ora è dal meccanico per una riparazione.
IMPIEGATA – Come si chiama il meccanico?
MARCO – È un nome impronunciabile. Tenga, legga qua.
IMPIEGATA
L’impiegata toscana prese il biglietto da visita e lo guardò. Suggerì
quindi alla segretaria di telefonare al nostro meccanico incapace e
chiedergli se fosse interessato all’acquisto del mezzo o eventualmente
se potesse darsi da fare per trovare un potenziale acquirente. Una
volta dato il consiglio uscì dalla porta e scomparve. Fu così che la
nostra salvatrice lo chiamò e lui le confermò che non ne voleva
sapere. Ma lei insistette e si congedarono con la promessa che, se lui
avesse saputo qualcosa, avrebbe contattato direttamente l’Ambasciata.
Per il meccanico si era alzato decisamente il livello delle relazioni
sociali, da due semplici motociclisti trasandati alla segretaria
dell’Ambasciatore d’Italia in Costa d’Avorio. Ma nonostante questo
aspetto, non sembrava che la nostra situazione potesse migliorare.
379
– Ma pensa che si farà vivo? È già successa una cosa del genere?
– Guardi, Andrea, qua accade di tutto, ma di moto non ne ho mai
vendute. Comunque è l’unica risorsa che avete, se riuscite a venderla potete
comprare il biglietto per l’aereo, altrimenti sarà dura accontentarvi.
MARCO – Cioè… Niente moto, niente aereo, niente Italia?
SEGRETARIA – Per legge possiamo concedere un prestito a un cittadino italiano,
ma si tratta di cifre basse, per la sopravvivenza.
Non penso che con quei soldi possiate pagarvi il volo.
ANDREA – Mentre se vendiamo la moto riusciamo a decollare subito.
SEGRETARIA – Esatto. Io continuo a fare altre telefonate a meccanici,
chissà che non abbiamo un colpo di fortuna.
ANDREA
SEGRETARIA
Mi piaceva il modo di fare di quella donna. Si stava prendendo a
cuore la nostra situazione, coniugava i verbi come se la cosa la
riguardasse in prima persona e vedevo che ci metteva della passione.
Non svolgeva certo un lavoro comune, era una rappresentante della
nostra Nazione all’estero e aiutare noi due italiani in difficoltà
sembrava gratificarla oltremodo. Rimanemmo seduti di fronte a lei e
la guardammo mentre consultava l’elenco telefonico in cerca di
nominativi utili. Fece altre chiamate, ma l’esito fu negativo.
Nonostante questo non voleva demordere e continuò imperterrita
nella sua opera. Nel frattempo entrò il giovane uomo che ci aveva
salutati appena entrati in Ambasciata; anche lui era un impiegato del
Ministero degli Esteri e aveva un forte accento romano.
– Qualche giorno fa è successo un bel casino qua. Siete arrivati giusto
quando la situazione si è normalizzata, anche se non del tutto.
ANDREA – Ti riferisci al tentato colpo di Stato?
IMPIEGATO – Certo, siamo rimasti chiusi in Ambasciata due giorni.
Non sapevamo come sarebbe andata, ci siamo cagati addosso!
MARCO – Non é successo nulla?
IMPIEGATO – No, l’Ambasciata non è stata toccata, ma se la gente avesse
cominciato a girare armata per le strade, sarebbe stato un attimo venire qua
dentro. Non sono certo le nostre poche guardie che possono fermare una rivolta.
ANDREA – No di certo, un popolo inferocito è inarrestabile. Vi è andata bene!
IMPIEGATO
380
– Comunque si sono messi d’accordo e tutti i golpisti sono stati
neutralizzati. Qua tentano spesso colpi di Stato, è proprio un posto del cazzo!
IMPIEGATO
Fu strano sentire parlare male del Paese che ci ospitava proprio da un
funzionario italiano. Pensavamo che fosse garantita l’osservanza di
una certa etichetta, ma probabilmente il trovarsi in compagnia di due
viaggiatori fuori da ogni giro diplomatico lo aveva indotto a lasciarsi
andare e ad esprimere i suoi sentimenti più autentici. La segretaria
smise di telefonare e fece il punto della situazione.
– Niente da fare, sembra che nessuno voglia comprare la vostra
moto. Voi oggi dovete tornare a ritirarla, vero?
MARCO – Sì, ci ha detto che l’avrebbe sistemata in mattinata, ormai sarà pronta.
ANDREA – Sempre che vada, visto che ce l’ha già consegnata più guasta di prima!
SEGRETARIA – Facciamo così. Adesso l’Ambasciatore è impegnato, appena sarà
libero vi riceverà nel suo ufficio e vi dirà quanti soldi vi può prestare e cosa si può
fare. Comunque vi ripeto che la moto è il vostro lasciapassare rapido per l’Italia,
se non riuscite a venderla rischiate di dovere stare qua ancora diversi giorni.
IMPIEGATO – Comunque ragazzi non vi abbandoniamo! Dove pranzate oggi?
MARCO – Mah! Con i nostri scarsi averi non ci rimane altro che digiunare!
ANDREA – Abbiamo sperperato tutto il denaro della signora in taxi e ci siamo
anche concessi qualche birretta ieri sera in hotel!
SEGRETARIA – Ah ah! Avete fatto bene!
IMPIEGATO – Se vi va, oggi a pranzo venite da me. Non ho molto,
ma un po’ di pasta e del vino in casa di un italiano non mancano mai.
MARCO – Italiano vero! Lo diceva anche Toto Cutugno!
ANDREA – Ah ah ah ah! Italiano vero! Hai anche una chitarra?
IMPIEGATO – Ah ah! No, la chitarra no, non so suonarla. Però ho lo stereo!
MARCO – Accettiamo volentieri, chiaramente!
Penne all’arrabbiata e vino dei Castelli Romani. Un ritorno in patria prematuro!
SEGRETARIA
Continuammo a scherzare per un po’, poi l’impiegata toscana venne a
dirci che l’Ambasciatore ci avrebbe ricevuti subito nel suo studio. Ci
ricomponemmo in un attimo, il momento solenne era finalmente
giunto. Uscimmo dalla stanza e percorremmo un lungo corridoio, poi
381
salimmo alcuni scalini e giungemmo davanti a una pesante porta in
legno massiccio. Il suo ufficio era sopraelevato rispetto agli altri locali,
il che mi sembrò un simbolo indiscusso del ruolo di capo assoluto
della delegazione italiana in Costa d’Avorio. L’impiegata bussò e
sentimmo dall’altra parte una voce grave che disse di entrare.
L’Ambasciatore era un uomo sulla sessantina, dal forte accento
napoletano, coi capelli grigi un po’ lunghi e abbigliato in modo
informale, con una camicia intrisa di sudore sotto le ascelle, forse per
la tensione. Si muoveva nervosamente all’interno della stanza e pensai
che quello stato d’animo non dipendesse dalla nostra presenza, ma
che fosse causato da qualche situazione più importante, che aveva
probabilmente affrontato subito prima di riceverci.
– Scusate il ritardo con cui vi ho accolti, ragazzi, ma ho tanti
di quei casini da risolvere che non so nemmeno da che parte cominciare.
MARCO – Non si preoccupi.
AMBASCIATORE – Mi diceva la segretaria che vi servono dei soldi.
Qua è successo un casino, le banche sono bloccate. Ma quanto vi serve?
ANDREA – Non lo sappiamo con esattezza. Dobbiamo tornare a casa e non
abbiamo il biglietto aereo, quindi ci serve una somma per comprarne due.
Abbiamo una moto da vendere, ma per ora non ci siamo riusciti.
AMBASCIATORE – Voi continuate a provare.
Io posso darvi cinquecentomila lire a testa, ma se vi serve di più mi occorre
un’autorizzazione da Roma e di questi tempi non sarà semplice.
MARCO – Beh, grazie, li accettiamo volentieri. Comunque continuiamo a provare
a vendere la moto, sperando di riuscirci a breve.
AMBASCIATORE – Ora vi lascio che devo sistemare altri casini urgenti. Auguri.
AMBASCIATORE
E fu così che diede alcune disposizioni all’impiegata che ci aveva
accompagnati da lui e uscimmo quindi dallo studio per tornare
all’ingresso. Ci vennero chiesti i passaporti, poi compilammo dei
moduli e dopo poco fummo nuovamente ricchi, trovandoci in mano
il corrispettivo di un milione di lire in franchi CFA. Una volta in Italia
ci saremmo dovuti recare al più presto in Polizia per saldare il debito.
Ringraziammo e salutammo tutti i presenti, così uscimmo dall’edificio
382
in compagnia dell’impiegato romano e andammo insieme a casa sua
per gustarci un pranzo di qualità. Abitava in una zona residenziale
non lontana dal posto di lavoro, arroccata su una collina. Era un
quartiere elegante, con giardini ben curati e belle macchine
parcheggiate negli ampi viali. Non sembrava nemmeno di trovarsi in
Africa occidentale, somigliava molto a una periferia europea ben
tenuta. L’ascensore ci portò al terzo piano, dove il nostro nuovo
amico abitava a spese dello Stato italiano. Andammo sul balcone e
vedemmo la città da una differente prospettiva. Davanti a noi si
ergevano maestosi i grattacieli del Plateau e proprio sotto di essi
sorgeva una tremenda baraccopoli fatiscente. Avevamo più volte
conosciuto forti contrasti, ma quello era veramente eccessivo.
L’impiegato romano colse la nostra perplessità e ci illustrò alcuni
aspetti della vita cittadina che ignoravamo.
– Vi piace il panorama che si vede dalla mia casetta?
MARCO – Bello, si vede tutta la città.
IMPIEGATO – Sì, è bello perché siamo in alto, ma avete visto quella baraccopoli?
ANDREA – Sì, è orrenda. Ma più che altro è strano che sia stata costruita sotto i
grattacieli del Plateau. Perché non in altri posti meno in vista?
IMPIEGATO – No, non è strano. Dovete sapere che quei grattacieli sono vuoti.
MARCO – Come vuoti? Sono decine di piani!
IMPIEGATO – Vuoti. Sono stati costruiti per dare una bella immagine della città,
un’idea di economia galoppante, così da attirare gli stranieri e indurli a investire
ad Abidjan, però dentro non c’è un cazzo. Tutti i locali sono vuoti, al massimo ci
abitano delle famiglie abusive che nessuno si prende la briga di cacciare.
ANDREA – Tutta forma e niente sostanza! E la baraccopoli?
Non dà fastidio agli investitori stranieri?
IMPIEGATO – Intanto c’è da dire che qua le baraccopoli spuntano come funghi e
non è facile limitarle, perché la maggior parte della popolazione vive nella miseria e
non può permettersi una casa. Per il Governo è importante che nei viali del
Plateau e di Plateau Deux non ci sia traccia di povertà, così i soliti investitori non
si spaventano e portano denaro in Costa d’Avorio, poi tutto il resto è permesso.
ANDREA – Capito. La baraccopoli si vede da qua, ma non dai viali del Plateau.
Così sono tutti contenti, i poveracci e gli investitori che non vedono i poveracci.
IMPIEGATO
383
– Il Governo fa un po’ come chi che non ha voglia di pulire per terra e
nasconde la polvere sotto il tappeto, così l’ospite pensa di essere in una casa pulita.
ANDREA – Già. Non migliora la vita della propria gente ma la nasconde, per
fare credere ai ricchi europei che si trovino nel paese dei balocchi!
IMPIEGATO – Esatto. Avete capito in che posto di merda mi hanno messo a
lavorare? Vabbè, voi fate quello che volete, intanto io metto su l’acqua della pasta.
MARCO
Il nostro ospite aveva sicuramente voglia di sfogarsi, di urlare la
propria rabbia di confinato in Africa nera e noi due facevamo proprio
al caso suo. Innanzitutto eravamo di passaggio e dopo poco saremmo
usciti dal suo mondo per non tornarci più; inoltre era chiaro che non
avevamo nessun interesse economico, politico o diplomatico e non lo
avremmo pertanto tradito in nessun modo. Ci chiamò a tavola e
durante tutto il pranzo lo sfogo crebbe di livello.
– Vi verso del vino? Con le penne all’arrabbiata ci sta molto bene!
ANDREA – Sì, grazie, ma non disturbarti, facciamo da soli!
IMPIEGATO – Nessun disturbo, mi fa piacere avere due ospiti diversi dalla solita
gente che frequento in questa città del cazzo!
MARCO – Dai, non essere triste! Ci saranno pure delle cose che fai volentieri, no?
IMPIEGATO – Bah! Da lunedì a sabato sono in Ambasciata, la sera sto a casa,
anche perché non saprei che fare. La domenica ci si vede talvolta con la gente del
nostro giro, gente delle Ambasciate. Si fanno delle gite nei parchi e cose del genere.
MARCO – Cosa sono le cose del genere?
IMPIEGATO – Qualche mese fa abbiamo fatto una gara podistica in un grande
parco, hanno partecipato molti impiegati delle Ambasciate di Abidjan.
I primi tre classificati sono saliti sul podio e gli sono state messe al collo delle
ciambelle del water, così sembravano dei cessi!
ANDREA – Divertente!
IMPIEGATO – Divertente? È penoso! Ma ti pare che ci si possa divertire così?
ANDREA – Beh, in effetti noi ci dedichiamo ad altro!
Ma dimmi una cosa: frequentate anche gente del posto o state solo fra occidentali?
IMPIEGATO – Gente del posto poca, magari qualche bella figa, perché quelle non
mancano. Basta pagare pochi franchi e ti fai delle trombate da paura! Anche se c’è
da stare attenti con l’AIDS, non ci si può muovere alla leggera, c’è da morire!
IMPIEGATO
384
MARCO
– Beh, non è una novità nemmeno in Europa. Usa il profilattico, no?
– Quello è sicuro! Ma mi fido poco ugualmente, qua sono appestate!
IMPIEGATO
La tristezza di quell’uomo trasudava da ogni poro della sua pelle.
Detestava in modo assoluto la vita che conduceva, così non potei fare
a meno di chiedergli cosa lo frenasse dall’andarsene altrove.
– Ma scusa, se la vita qua è così opprimente, perché non ti fai trasferire
da qualche altra parte? Ci saranno bene delle alternative!
IMPIEGATO – Non è facile. Io sono dipendente del Ministero degli Esteri e ogni
volta che mi devono trasferire mi offrono possibilità di scelta. Una volta che ho
deciso ci devo però stare alcuni anni, non posso cambiare perché ci ho ripensato.
MARCO – E tu perché hai scelto la Costa d’Avorio?
IMPIEGATO – L’alternativa era la Russia, ma venivo già da alcuni anni di vita
in Norvegia e mi ero stancato di stare al freddo. Così ho scelto una zona vicino
all’equatore, ma se tornassi indietro non lo farei di sicuro!
ANDREA – Ma guadagnerai bene! Sei giovane, appena avrai terminato qua
potrai goderti un po’ i risparmi in qualche posto migliore.
IMPIEGATO – Quello è l’unico vantaggio di stare qua. Sono spesato totalmente e
tutto ciò che guadagno lo metto da parte. In futuro mi troverò un bel gruzzolo,
ma per il momento faccio una vita di merda. Sapete chi è che sta bene veramente?
MARCO – No. Chi?
IMPIEGATO – L’Ambasciatore. Guadagna quaranta milioni di lire al mese!
ANDREA – Quaranta milioni al mese? Ma ‘sti cazzi!
MARCO – Vabbè che è una vita rischiosa. Se non ricordo male,
il suo predecessore era stato ucciso per sbaglio in un ristorante.
Pensavano che fosse un altro politico, ma resta il fatto che l’hanno freddato.
IMPIEGATO – Sì, è vero, corre dei rischi. Ma prova a fare un po’ di conti,
con quaranta milioni al mese, in cinque anni quanto si mette da parte!
ANDREA – Visto che è tutto spesato, sicuramente più di te.
MARCO – Sob! Io quaranta milioni li guadagno in quasi due anni!
IMPIEGATO – Meglio guadagnare poco in Italia che essere ricchi qua, fidati.
MARCO – Sforzati di inserirti meglio nella vita della città.
Non frequentare più solo gli ambienti diplomatici, ma anche gente del posto.
Su milioni e milioni di abitanti ci sarà bene chi farà al caso tuo, no? O sbaglio?
ANDREA
385
– La gente del posto? Ma sai di chi stiamo parlando? Se qua i
bianchi se ne vanno, questi tornano a vivere nella foresta come i loro antenati!
IMPIEGATO
Il rancore e l’insoddisfazione per la vita che stava conducendo lo
avevano portato al totale disprezzo del Paese che lo ospitava. Aveva
scelto di andarsene dall’Italia per girare il mondo, ma era rimasto
intrappolato nella sua stessa scelta e questo lo riempiva di
frustrazione. Ci fece una profonda pena, ma rinunciammo a fargli
cambiare idea, era più interessante ascoltarlo.
– Ma scusa, avranno bene imparato le tecniche per produrre!
I bianchi hanno aperto le aziende e hanno assunto i neri, poi da cosa nasce cosa,
no? I neri imparano e aprono aziende a loro volta.
IMPIEGATO – Teoricamente sì. In realtà, ogni volta che un’azienda europea ha
chiuso un’attività, nessuno dei dipendenti neri ha avuto l’idea di prenderla in
mano e proseguire. Hanno cercato invece un qualunque lavoretto per guadagnare
qualche soldo, per poi dimettersi dopo poche settimane.
MARCO – Nel senso che l’azienda li avrebbe tenuti ma loro non hanno voluto?
IMPIEGATO – Esatto, proprio così. Lavorano quel tanto che basta per procurarsi
da mangiare per un po’, poi se ne vanno. Non hanno minimamente la cultura del
posto di lavoro fisso, dei risparmi per il futuro, di portare avanti un’azienda e di
farla crescere. In poche parole, non gliene frega un cazzo di niente.
ANDREA – Quindi per loro il lavoro è solo uno strumento per mangiare. Niente
impegni duraturi, ma tanta libertà, anche se questa genera la povertà più estrema.
MARCO – Un po’ li invidio. Io mi sentivo talmente oppresso in banca che mi sono
dimesso, però adesso cercherò un altro lavoro, non voglio mica diventare povero!
IMPIEGATO – Ah ah! Hai fatto bene! Mai sentirsi oppressi, sennò fai la mia
fine! Ma noi europei non possiamo concepire di stare senza tutte le comodità a cui
siamo abituati e questo possiamo permettercelo solo lavorando costantemente.
ANDREA – Già, per noi niente libertà eccessiva, ma solo un po’ di tempo libero in
cui sperperiamo i soldi guadagnati con fatica. Il ritmo occidentale e quello africano
sono i due estremi, bisognerebbe sforzarsi di trovare una giusta via di mezzo.
ANDREA
I nostri discorsi continuarono a crescere di intensità. L’impiegato
romano si lamentava della sua vita e accusava Abidjan di essere l’unica
386
responsabile di tanto malessere, mentre io e Marco partecipavamo
con interesse alla conversazione per trovare validi spunti per i tempi a
venire. Quale lavoro avremmo mai fatto? Stabile o precario? E
sarebbe dipeso da una nostra scelta o dalle contingenze?
Il caffè e l’amaro chiusero il nostro pranzo, le nostre riflessioni e la
nostra permanenza in quell’elegante appartamento sulle colline di
Abidjan. Ci scambiammo i saluti e quando uscimmo il nostro ospite ci
guardò con un’aria triste. Quello sfogo doveva essergli stato d’aiuto,
ma sapere che saremmo tornati presto in Italia lo aveva certo riempito
di una nostalgia difficile da sconfiggere. Lui era destinato a stare ad
Abidjan a lungo, molto a lungo, forse troppo.
Noi invece no, non vedevamo l’ora di andarcene e ricominciammo
così a concentrarci sul nostro obiettivo per velocizzare i tempi. Era
ora di andare a Treichville per ritirare la moto dal meccanico, giusto in
tempo per l’appuntamento con quei ragazzi dal benzinaio. Avremmo
dovuto incontrare il potenziale acquirente della fedele Tenerè e, anche
se non ci credevamo per niente, era comunque una carta da giocare
assolutamente. Fermammo un taxi e ci facemmo portare all’officina.
Il meccanico ci salutò calorosamente e disse di avere individuato il
guasto, non era proprio niente di serio e aveva sistemato il tutto.
– Ma gli crediamo? Visto com’è andata ieri!
MARCO – Mah! A questo punto ha poca importanza. Ce la facciamo consegnare
e voliamo dal benzinaio, se il tipo la compra ci defiliamo al volo, andiamo in hotel,
carichiamo tutto in un taxi e decolliamo col primo aereo per l’Europa.
ANDREA – Se la vendiamo è un’ottima idea!
MARCO – Ah ah! Se non la vendiamo invece torniamo in hotel e ci prendiamo
qualche birretta, come ieri sera! In fondo abbiamo già il piano di riserva!
ANDREA – Ah ah! Se va avanti così finisce che ci prendiamo delle gran sbronze e
non ci schiodiamo più. Almeno sino a quando abbiamo i soldi dell’Ambasciatore!
MARCO – Dai! Sistemiamo la faccenda, così scriviamo la parola fine a questo
viaggio e ce ne torniamo nella nostra amata terra!
ANDREA
Nessuno dei due ci credeva per niente, ma scherzarci sopra ci veniva
naturale e ci piaceva molto. Salutammo nuovamente il meccanico,
387
nella speranza di non rivederlo mai più. Lui ricambiò e aggiunse che
stava chiudendo il negozio, dato che era sabato pomeriggio e voleva
riposarsi per il fine settimana. Avrebbe riaperto lunedì mattina,
quindi, in caso di problemi ulteriori, saremmo dovuti ripassare dopo
un paio di giorni, ma era assolutamente convinto che non ce ne
sarebbe stato bisogno. Non avemmo nulla da replicare e ci dirigemmo
così al luogo dell’appuntamento, dove vedemmo alcuni dei ragazzi
conosciuti il giorno prima, ma il nostro interlocutore, quello più
sveglio, non era fra loro. Parcheggiammo e ci avvicinammo al
gruppetto. Marco si informò e un ragazzo gli disse che il presunto
acquirente non si era ancora fatto vivo, ma che sarebbe arrivato.
– Bene, sono contento! Ma chiedigli anche a che ora verrà!
– Sai che qua il tempo è relativo, potrebbe arrivare adesso come mai.
ANDREA – Che due maroni questa relatività del tempo!
Non si riesce a organizzare mai nulla!
MARCO – In Africa tutto è possibile.
ANDREA – Ah ah! Basta con le massime, ti prego!
Sennò ti dico che il vero biker non ama le attese, ma sa attendere quando serve!
Vabbè, digli che lo aspettiamo, anche perché non mi vengono idee migliori.
ANDREA
MARCO
L’idea di attendere l’arrivo del fantomatico acquirente parve subito
ottima a tutti i presenti, che annuirono in modo convinto, come se
avessimo proposto chissà che cosa. Ma dopo mezzora cominciammo
ad annoiarci, nessuno parlava con noi, tutti si facevano gli affari
propri senza muoversi. La nostra insofferenza era evidente, tanto che
uno di loro si avvicinò a Marco e gli disse che sarebbe stato meglio
andare a cercare il nostro sconosciuto benefattore. Sapeva dove
abitava e quali luoghi frequentava, quindi sarebbe venuto in moto con
me e saremmo andati a stanarlo chissà dove.
– Quindi questo tipo vuole che io lo scarrozzi in moto per la metropoli?
MARCO – Già, così trovate l’acquirente e lo mettete con le spalle al muro.
Non se lo aspetterà! Non potrà sottrarsi all’acquisto!
ANDREA – Non sarà mica un trucco per derubarci? Non ti sembra un po’ losco?
ANDREA
388
– In Africa tutto è possibile, ma in pieno giorno non dovrebbe accadere.
– Mah! Non ne sono del tutto sicuro, comunque ci provo.
I soldi però li lascio a te, del resto non ho nulla.
MARCO – Se non la moto. Stai comunque attento, non andare in luoghi isolati,
stai in mezzo alla gente, non parcheggiare e andare via e cose del genere.
ANDREA – Tranquillo, il vero biker non si fa inculare facilmente!
MARCO
ANDREA
Non mi sentivo per niente rilassato, i miei sensi erano tesi a percepire
per tempo eventuali pericoli. Ci trovavamo nel cuore del quartiere più
malfamato della città e stavo caricando un ragazzino di cui non
sapevo nulla, ma pensai che anch’io non dovevo avere poi una faccia
molto raccomandabile e che eventuali rapinatori ci avrebbero pensato
due volte prima di molestarmi. Ma forse non ci credevo nemmeno io
ed era solo un modo per infondermi coraggio.
Tanto per iniziare mi portò nel bel mezzo di una baraccopoli satura di
umanità, dove l’asfalto finì e la strada si trasformò in una fitta rete di
viottoli sterrati. Scese dalla moto e mi fece cenno di aspettare fra
misere baracche che si estendevano a perdita d’occhio in ogni
direzione. Erano tutti scalzi, tutti mal vestiti, ma soprattutto tutti mi
guardavano. Il ragazzino scomparve in chissà quale angolo di
quell’infinito agglomerato urbano, lasciandomi nel mezzo di una folla
in frenetico movimento. Non avevo paura, era molto difficile che
qualcuno tentasse di farmi scendere dalla moto per rubarmela in
mezzo a così tanta gente. Dopo dieci minuti però cominciai a dubitare
che avrei rivisto il mio accompagnatore e mi preparai mentalmente a
ritornare dal benzinaio, percorrendo a ritroso il percorso seguito sino
a quel punto. Invece riapparve. Anche se non riuscivamo facilmente a
comunicare, mi fece capire di non avere trovato chi cercava.
Uscimmo così dalla baraccopoli e ci dirigemmo verso il mare, per
infilarci in una strada sterrata e deserta nella zona del porto, quindi
rischiosa. Mi disse di accostare vicino ad alcuni capannoni vuoti, scese
nuovamente dalla sella e scomparve prontamente chissà dove. In
quella occasione non mi fidai per niente e rimasi col motore acceso,
guardandomi intorno in continuazione alla timorosa ricerca di
eventuali malviventi, pronto così a fuggire da dove ero venuto.
389
Ma dopo un paio di minuti la moto si spense. Il problema dello
statore non era stato risolto nemmeno quella volta e il meccanico
avrebbe riaperto solo lunedì, anche se non c’era sicuramente da
fidarsi, visto come aveva lavorato sino a quel momento. Diedi
qualche colpo sul kick starter e il motore ripartì, girò al minimo
qualche minuto e si spense nuovamente. Lo riaccesi e poco dopo
tornò la mia guida con l’aria di chi non aveva risolto nulla. Mi fece
strada per andare quindi dal solito benzinaio e la Yamaha si fermò
ancora una volta, per giunta su una strada a scorrimento veloce.
Accostai imbarazzato, mentre le macchine sfrecciavano a poca
distanza da noi, ma il mio passeggero non parve essere minimamente
interessato all’accaduto. Le possibilità di venderla andavano sempre
più dissolvendosi, mi domandavo che figura avrei fatto col potenziale
acquirente se il motore si fosse fermato durante il giro di prova. La
Tenerè si spense altre tre volte e per tre volte la riaccesi e ripartii. Dal
retro della sella non giungeva nessun segno di disappunto, sembrava
che per quel ragazzino fosse una cosa normale fermarsi ogni pochi
minuti per un’avaria e forse ad Abidjan lo era. Quando vidi Marco in
compagnia della stessa gente di prima, senza nessun volto nuovo e
promettente, capii che le cose non stavano andando per niente bene.
– Bene, sono contento di rivederti. Fatto tutto?
ANDREA – Ho fatto un tour dei bassifondi di Abidjan. Belle zone, meritano!
MARCO – Ah ah! Dove ti ha portato?
ANDREA – In una baraccopoli e in una zona remota del porto.
Inutile dire che dell’acquirente non si è saputo nulla,
il tipo ha girato chissà dove ed è tornato con le pive nel sacco.
MARCO – I tipi qua mi dicevano di provare domani, sono ottimisti.
ANDREA – Mi sembra che la cosa vada un po’ per le lunghe, sa di pacco.
E poi la moto si è spenta un sacco di volte e la mia guida lo sa,
quindi le possibilità di venderla a qualcuno che conosce sono calate assai.
MARCO – Come si è spenta? Ancora? Ma ‘sto meccanico ci prende per il culo?
ANDREA – Già, stessa cosa di ieri, solo che adesso lo fa talmente spesso che è una
cosa impressionante. L’ultima volta ha fatto anche molta fatica a ripartire.
La Tenerè sta morendo, è un dato di fatto, bisogna prenderne atto e regolarci.
MARCO
390
– Allora seppelliamola e andiamocene via in qualche altro modo!
– Sì, ma quale? Se avessimo i biglietti aerei potremmo buttarla in un
canale dopo avere tolto la targa e cancellato il numero di telaio,
ma con le nostre scarse finanze diventa un problema.
MARCO – Beh, adesso andiamo in hotel. Soldi ne abbiamo, lunedì torniamo in
Ambasciata e chiediamo un prestito più massiccio, diciamo le cose come stanno.
Staremo qua il tempo che serve, non vedo che altro si possa fare.
ANDREA – Niente, per ora. Secondo me la via giusta è quella dei meccanici,
anche se la segretaria ha ricevuto solo dei due di picche.
MARCO – Domani è domenica e non ha senso muoversi.
Facciamoci una lista di negozi con relativi indirizzi e indichiamoli con un
pennarello sulla pianta della città, poi ci facciamo un bel giro di persona.
ANDREA – Un giro a piedi, visto che la moto non va quasi più. Comunque ora
torniamo all’hotel e ci prendiamo un po’ di tempo per riflettere. Intanto la pulisco
per bene, visto che il massimo che possiamo fare è renderla più bella.
MARCO
ANDREA
Ci dirigemmo verso l’hotel e la moto si spense quattro volte lungo il
tragitto, non ne poteva veramente più. Salimmo in camera a darci una
rinfrescata, dopodiché Marco si addormentò e io scesi in cortile.
Armato di spugna, acqua e detersivo cominciai una lunga e
approfondita pulizia della gloriosa Tenerè.
Vicino a me sedettero due ragazzi, uno di loro aveva in mano un
pollo vivo e con un coltello gli tagliò di netto il collo. Il sangue colò
verso il mio cavalletto e macchiò gli pneumatici. Dovevano essere i
cuochi dell’hotel che avevano ricevuto un’ordinazione, all’incirca
come ci era successo a Sassandra. Mi colpì la naturalezza con la quale
si misero al mio fianco per uccidere l’animale, in mezzo alla strada,
senza minimamente appartarsi. In Europa non sarebbe certo una
buona immagine per il locale, mentre in quel caso sembrava quasi che
avessero scelto apposta quel luogo frequentato, quasi a testimoniare
alla clientela che in quel ristorante veniva servita solo carne fresca. A
quel punto mi accorsi di essere quasi in vetrina e sperai che qualcuno
di passaggio fosse attratto irresistibilmente dalla moto e me la
portasse via su due piedi. Un’idea assurda, ma non avevo nulla da
perdere e mi misi in vista il più possibile. E l’impossibile accadde.
391
Arrivò il proprietario dell’hotel, un uomo di colore, alto, grosso, ben
vestito; disse qualcosa ai due ragazzi, che presero il cadavere e
scomparirono nelle cucine. Subito dopo cominciò a fare degli
apprezzamenti sulla moto e, anche se non capivo bene le sue parole,
realizzai che mi stava chiedendo se la volessi vendere.
Non mi pareva vero, pensai di avere equivocato le sue frasi, ma era
proprio intenzionato ad acquistarla. Non potevo lasciarmi sfuggire
un’occasione così irripetibile, avevo bisogno assoluto di Marco a
darmi manforte. Gli dissi che la moto non era mia e che sarei andato a
chiamare il proprietario. Mi catapultai letteralmente in stanza,
schivando le prostitute sulle scale, quasi come se ogni attimo di attesa
potesse fargli cambiare idea, destandomi dal sogno che stavo facendo.
– Sveglia! Sveglia! Mi servi sveglio ed efficiente!
MARCO – Mgrrrff! Che c’è?
ANDREA – Il proprietario dell’hotel vuole comprare la moto!
MARCO – Il proprietario? Noi stiamo girando come dei coglioni da quando siamo
arrivati e proprio la prima persona che abbiamo incontrato la vuole?
ANDREA – Già, è incredibile, ma adesso ascoltami! Gli ho detto che è tua e che
saresti sceso a contrattare. Voliamo prima che cambi idea!
MARCO – E quanto gli chiediamo? Ti ha fatto qualche offerta?
ANDREA – No, nulla. Ho preferito che ci fossi anche tu, io il francese non lo
mastico abbastanza per contrattare una cosa così importante.
MARCO – Quanto gli chiediamo?
ANDREA – Non ne ho idea, meglio che gli chiedi quanto è disposto a pagare,
così evitiamo di sparare troppo alto o troppo basso.
MARCO – Ma non funziona! È rotta!
ANDREA – In Africa tutto è possibile. Andiamo giù e vediamo che aria tira.
MARCO – Comunque vada scendiamo coi bagagli. Se gliela vendiamo è meglio
scomparire subito, più stiamo più rischiamo che si accorga che la moto è un pacco.
ANDREA – Giusto, prepariamoli al volo e fiondiamoci giù. Speriamo in bene!
ANDREA
Scendemmo le scale con aria da uomini d’affari, cortesi e competenti,
quelli che sapevano il fatto loro e che non si sarebbero fatti
imbrogliare dal primo venuto. In realtà non avevamo minimamente
392
idea di come gestire la cosa. Marco strinse la mano al proprietario e gli
chiese quanto sarebbe stato disposto a pagare per il mezzo. Per
invogliarlo ulteriormente aggiunse anche che eravamo in parola con
un meccanico che l’avrebbe comprata lunedì.
L’offerta superò ogni aspettativa, ci propose seicentocinquantamila
franchi CFA, circa due milioni di lire, oltre il doppio del prezzo di
acquisto in Italia. Ci sembrò di toccare il cielo con un dito, non
avemmo nemmeno il coraggio o la forza di simulare una
contrattazione che ci desse più credibilità. Dopo un rapido scambio di
sguardi, Marco gli disse che la cosa si sarebbe potuta fare, così il
proprietario ci chiese di aspettare e se ne andò all’interno dell’hotel.
– Non ci credo.
– In Africa tutto è possibile.
ANDREA – Anche questa botta di culo smisurata? Due milioni di lire?
Ci compriamo i biglietti e ce ne avanzano anche! Oltre ogni previsione!
MARCO – Non gli ho detto che non funziona bene lo statore.
ANDREA – Tra l’altro è anche un gigante, se si incazza siamo fottuti!
MARCO – Comunque non sospetta che ci siano guasti, è chiaro.
Ci ha visti arrivare dall’Italia, è ovvio che funzioni, no?
ANDREA – Sì, è ovvio, però non funziona. Se non se ne accorge è fatta,
sennò rischiamo che ce la lasci o che tiri sul prezzo o che ci riempia di botte.
ANDREA
MARCO
Non facemmo a tempo a terminare le nostre considerazioni che il
proprietario tornò, ma non da solo. Insieme a lui c’era un altro uomo
di colore, ancora più gigante. Saranno stati almeno duecentocinquanta
chili di muscoli in due, ci stavamo infilando in una situazione non
certo semplice. Avrebbe voluto provarla? Nel caso si fosse spenta,
avremmo fatto le facce stupite o agito diversamente? Era assurdo che
la comprasse senza fare nemmeno un giro, quindi eravamo pronti ad
affrontare l’inevitabile imbarazzo che ne sarebbe derivato, anche se
non sapevamo come. I due ci chiesero di seguirli e così facemmo.
Entrammo in una stanza vuota dell’albergo, il proprietario estrasse un
enorme fascio di banconote e le fece cadere sul letto matrimoniale,
invitando Marco a contarle. Io rimasi in piedi coi giganti e il mio
393
amico tornò a essere il bancario che era stato sino a poco tempo
prima. Il conteggio diede esito positivo e concludemmo quindi
l’affare. Stringemmo la mano a entrambi e uscimmo coi soldi nascosti
nelle tasche più varie. La Tenerè era parcheggiata nel cortile a pochi
metri dall’edificio e l’acquirente la portò a spinta di fronte all’ingresso
dell’hotel. Subito si sparse la voce dell’acquisto e numerose prostitute
uscirono a vedere la novità. Tutte sorridevano, lo abbracciavano e si
congratulavano per la scelta, qualcuna lo baciava, comunque tutte lo
lisciavano per bene e lo facevano sentire ancora più uomo.
Era il momento di andarsene. Marco fermò uno dei numerosi taxi che
passavano in zona e salimmo velocemente all’interno dell’abitacolo:
destinazione aeroporto. Dall’interno dell’auto vedemmo il gigante che
tentava di accendere la moto, ma era abbastanza imbranato e non
dava al kick starter i giusti colpi. Non sembrava però scoraggiato,
continuava a sorridere e con lui le sue donne che non smettevano di
lodarlo e incoraggiarlo. Il taxi partì e noi tememmo a lungo di essere
inseguiti da qualcuno non troppo benevolo nei nostri confronti. Non
avevamo detto a nessuno la destinazione, ma era abbastanza intuibile
e non ci sentivamo per niente tranquilli.
Giungemmo infine all’aeroporto. Il taxi ci lasciò in un parcheggio
dove incontrammo un ragazzo che ci propose di cambiarci in dollari i
franchi CFA che avevamo. Era uno dei soliti modi che le persone dei
Paesi poveri avevano adottato per guadagnare, applicando tassi più o
meno sfavorevoli per il cliente. Ma non sapevamo ancora se saremmo
riusciti a pagare i biglietti con valuta locale o se la compagnia aerea
avrebbe preteso una valuta più forte. Avevamo già vissuto
un’esperienza analoga durante il viaggio in Siria, dove alcuni alberghi
non volevano il pagamento in lire siriane, ma in dollari, quindi non
era un’ipotesi da scartare del tutto. In quel caso avremmo dovuto
cercare una banca che ce li cambiasse, i tempi si sarebbero dilatati e
non potevamo permettercelo. Temevamo che il proprietario ci
venisse a stanare fino a lì, furibondo per avere acquistato una moto
guasta, e non vedevamo l’ora di essere in volo. Dicemmo così al
ragazzo che saremmo andati a informarci sulle modalità di pagamento
dei biglietti e, in caso di bisogno, ci saremmo certamente rivolti a lui.
394
C’erano numerose possibilità, ma l’aereo più economico sarebbe
atterrato ad Amsterdam e da lì avremmo poi preso un altro volo per
Milano. Pagammo con i franchi CFA senza problemi e superammo i
controlli doganali. Ce l’avevamo fatta. Dopo alcuni minuti eravamo
seduti su una panca in attesa dell’imbarco, quando venne una guardia
e ci disse che una persona ci stava aspettando fuori dall’aeroporto,
sembrava che fosse una cosa molto urgente.
– Ci siamo, il tipo dell’hotel ci ha denunciati e adesso sono cazzi.
– Beh, denunciati per cosa? Non penso! Noi gli abbiamo venduto una
moto e lui l’ha comprata, mica l’abbiamo costretto!
ANDREA – Era comunque peggio se ci bloccava il taxi prima. Pensa, se ci tirava
fuori e ci ripassava per benino! Almeno qua possiamo invocare protezione.
MARCO – A questo punto andiamo a vedere che vuole.
Non possiamo fare finta di nulla, sa che siamo qua, sarebbe peggio.
ANDREA – Andiamo. Se ci mettono in carcere chiameremo la solita Ambasciata.
MARCO – Ah ah! Non ne potranno più di noi!
ANDREA
MARCO
Ma la fortuna ci stava sorridendo, non era il proprietario dell’hotel, si
trattava semplicemente del ragazzo che voleva cambiarci i soldi.
Sperava di fare un buon affare e non voleva farsi sfuggire due
possibili clienti danarosi. Gli dicemmo che avevamo già pagato coi
franchi e lo congedammo, tirando un grosso sospiro di sollievo.
Quando l’aereo decollò era già buio e non potemmo vedere granché
sotto di noi. Sapevamo però che avremmo sorvolato mezza Africa e
coperto in poche ore lo stesso spazio percorso in quasi un mese fra
infinite difficoltà. L’arrivo in Olanda in prima mattinata fu traumatico,
non più neri intorno a noi ma bianchi dai capelli biondi, non più il
caos primordiale di Abidjan ma la grande efficienza di Amsterdam.
395
396
EPILOGO
Dopo poco partimmo per l’aeroporto di Malpensa, dove arrivammo
verso l’ora di pranzo di una domenica d’estate. Un ultimo treno delle
Ferrovie Nord e ci trovammo in centro a Milano. Faceva un caldo
incredibile, le strade erano pressoché deserte e noi ci trascinammo
con i nostri puzzolenti abiti africani e i bagagli ancora sporchi di terra
alla ricerca di una pizzeria. La trovammo in una strada qualunque.
– Siamo arrivati, ce l’abbiamo fatta.
ANDREA – Sì, ce l’abbiamo fatta. Che meraviglia!
Sono un po’ stordito da tutte queste realtà sovrapposte in così poco tempo.
MARCO – Già, anch’io. Dovremo rielaborare un po’ tutto quello che abbiamo
vissuto per trovare un nuovo equilibrio, ma abbiamo tempo.
Tu che farai in agosto? Andrai a Rapallo?
ANDREA – Sì, sicuramente. Mi concedo un paio di giorni per ripigliarmi,
poi prendo la moto e riparto. A Bologna d’estate non ci resto.
MARCO – Ah ah! Ancora in moto! Ah ah! Ma non sei pago?
ANDREA – Il vero biker non è mai pago di moto!
E poi vado al mare a fare vita mondana, mica attraverso l’Africa! Tu invece?
MARCO – Beh, anch’io mi concedo qualche giorno di pausa,
poi andrò via con la donna da qualche parte. Cose tranquille, cose da vacanzieri!
ANDREA – Vabbè, ci aggiorniamo in settembre, così ci diremo cosa abbiamo
pensato di fare delle nostre vite. La cosa certa è che cercheremo entrambi lavoro.
MARCO – Già, mi fa un po’ paura. Però comunque vada, qualunque sarà la
nostra scelta, questo viaggio mitico ce lo siamo fatto!
ANDREA – Non avevo dubbi! Lo sai che non parliamo mai a vanvera,
si era detto che l’avremmo fatto e l’abbiamo fatto! Dove andiamo l’anno prossimo?
MARCO – Ah ah! Siamo alle solite! Siamo ancora in giro e già pensiamo al
prossimo viaggio! Ma è bello così. Ci penseremo col fresco.
ANDREA – Quando smetteremo di farlo non saremo più noi!
MARCO – Vero! Comunque ci aggiorniamo a settembre a Castelfranco da Isidoro,
giusto il tempo di riordinare le idee dopo il viaggio di mezzo.
ANDREA – Giusto, troppe cose si sovrappongono nel cervello, serve del tempo.
MARCO
397
Uscimmo dal locale e ci dirigemmo alla stazione della metropolitana,
quindi arrivammo in stazione centrale, salimmo sul primo treno utile
e ci addormentammo quasi subito. Marco scese a Reggio Emilia,
aveva detto che sarebbe venuta a prenderlo la sua ragazza e lo
avrebbe riportato con sé nelle sue terre. Lo salutai dal finestrino senza
troppa enfasi, come amavamo fare nei congedi, per non sentire
troppo la malinconia della fine. Tornai a sedere e il treno ripartì.
E così una fase di vita era terminata e una nuova stava per iniziare.
Lasciavamo dietro di noi la giovinezza e tanti viaggi epici che ci
avevano fatti diventare ciò che eravamo. Il futuro si presentava
oscuro, l’unica certezza era che avremmo continuato a viaggiare, del
resto non sapevamo che fare della nostra vita nell’imminente
maturità. Ma avremmo continuato a cercare la risposta sino a trovarla,
per poi perseguire l’obiettivo con determinazione sino a raggiungerlo.
Sicuramente ci attendevano momenti faticosi e difficili, ma ce la
saremmo cavata bene, ne eravamo certi.
398
POSTFAZIONE
Torno spesso a Kundara. Con l’immaginazione, s’intende. Ci torno
con la mente tutte quelle volte che ho voglia di pensarmi nel posto
più lontano e isolato possibile, da tutto ciò che è il mio mondo solito
e la mia solita gente. Intorno a Kundara esistono gli spazi e i fatti di
cui Andrea ha appena reso testimonianza. Sopra il tetto in eternit di
quella baracca, che era poco più di un pollaio col pavimento di terra
bagnata, quella notte sembrava rovesciarsi tutta la pioggia che l’Africa
potesse sperare. Mentre ci lavavamo con l’acqua raccolta dentro a
giganteschi bidoni per olio motore, intorno a noi e a quella fioca
candela l’immenso continente era pronto per rinnovare la sfida cui
fino a quel momento avevamo a stento tenuto testa. Con la bella luce
del mattino seguente avremmo dato inizio ad un giorno tra i nostri
più duri e memorabili. “Kundara-Labè” sarebbe diventato per noi il leit
motiv sinonimo di “Giornata campale”.
Quando Andrea mi telefonò, dicendomi che avrebbe approfittato
dell’improvvisa polmonite virale che lo aveva colpito per mettere
mano ai ricordi del viaggio del duemila, pensai: “Ci risiamo. Lo farà di
nuovo. Come la varicella beccata in età adulta gli aveva dato la
possibilità di rendere possibile la pubblicazione del nostro viaggio in
Mesopotamia, ecco che anche stavolta riuscirà nel mettere a frutto
una circostanza negativa che per quasi tutti non significherebbe altro
che ore e ore di divano e tv.” E così è stato. C’era da giurarci.
Non ho ancora letto le pagine che precedono queste righe. Ho
preferito non farlo, per non farmi travolgere dalle descrizioni e dai
nomi (che Andrea ricorda molto meglio di me) in modo da ascoltare
soltanto quello che, a distanza di dodici anni, scoprirò essermi
rimasto dentro. A pensarci soltanto un po’, son sicuro che non avrà
sentito la necessità di romanzare l’accaduto; già gli avvenimenti sono
degni di una storia avvincente, col finale al fulmicotone.
Eccitazione, paura e sollievo, rammarico e stupefazione sono le prime
sensazioni che mi vengono. Gli odori, i preparativi, la partenza, la
novità di una moto per me. Poi la delusione di dovere cedere il
manubrio al più esperto compagno, dopo le grandi difficoltà
399
incontrate e superate nel corso del viaggio, si sarebbe trasformata in
ringraziamento verso il fato o la divina provvidenza, verso la spilla
della “Madonnina della Fossetta” che mi impose la nonna.
Ma poi chissà… Certo il vissuto e il visto mi hanno ripagato di
qualsiasi sforzo e rinuncia. Appollaiato su quella sella corta, dura e
vibrante, ho pensato a tutto quanto fosse possibile; passare in
successione la vita trascorsa e quella probabile futura, a cavallo tra la
terza e la quarta decade. Il paesaggio e i messaggi che il corpo mi
trasmetteva mi facevano sentire più vivo e pulsante che in qualsiasi
altra circostanza. La consapevolezza della fortuna e dell’opportunità
di partecipare a momenti che tante esistenze non avrebbero neppure
sfiorato. Quante volte la Luna mi aveva visto guardarla.
Siamo caduti in terra più volte in quel viaggio che in tutti quelli fatti
fino ad allora e fino ad oggi. “L’Africa non regala nulla” era il nostro
motto. “È dura la vita in Africa” diceva il nostro amico di Rosso. “In
Africa, in qualche modo, ci si salta sempre fuori” e “L’Africa non te la
scorderai mai” si dice. Sembrano frasi fatte, ma è tutto vero.
Ogni volta che vado o capito in un luogo, fino a quando non sarò
troppo vecchio, penso sempre che non sarà per l’ultima volta, che un
giorno ci ripasserò, prima o poi. Non riesco ancora a pensare che non
avrò l’occasione e il tempo di tornare o di rivivere certe circostanze e
talvolta ne ho avuto conferma. A distanza di anni vedo che la vita mi
ha concesso di ripassare inaspettatamente per località come Tan Tan
Plage, coi suoi relitti arenati nella sabbia, simili a cetacei arrugginiti. O
come Dakhla, per un saluto alla cagnolina Laika. O a pranzare ancora
sul pavimento pieno di mosche di un posto ristoro nel deserto…
Beh, nonostante questo, sinceramente non credo però mi ricapiterà di
cercare una batteria per la mia vecchia Nikon nel mercato di
Tambacounda (oddio, esiste un nome più africano di questo?).
Mangiare badilate di gamberoni alla griglia a Saint Louis con due
amici senegalesi pret a porter. Lanciarmi con una moto giù da un
treno in movimento nel deserto di Choum. Chiedere la carità ad un
ricco ivoriano su un auto lussuosa e la sera stessa consumare un ricco
pasto offerto dall’Ambasciata Italiana. Contare mazzette di franchi
francesi sul letto di un hotel di dubbia moralità e “scappare” al volo
400
dal continente nero per raggiungere la nostra cara, vecchia Europa.
Qualche anno dopo un amico della Transilvania ci avrebbe detto che,
secondo una credenza locale, quando una persona muore, la sua
anima fa visita a tutti i posti in cui è passato quand’era in vita. Andrea
ed io ci saremmo guardati e all’istante avremmo liberato una risata
compiacente. Migliaia di luoghi (molti bar) si sarebbero materializzati
davanti ai nostri occhi. “Un lavoraccio” pensammo. Il nostro amico
sapeva che quella storia ci avrebbe resi allegri e fieri.
Parallelamente al piacere della partenza e all’eccitazione del viaggio ho
sempre cercato di gustarmi fino in fondo la malinconia del ritorno, il
sapore della fine dell’avventura e dello scampato pericolo. Ero già
parzialmente dentro al processo che sedimenta i fatti in ricordi,
quando alla mia fermata del treno ci salutammo con lo stesso calore e
trasporto che avrebbero manifestato Bud Spencer e Charles Bronson.
Però ricordo che appena scesi dalla sella, arrivati ad Abidjan, gli strinsi
la mano e gli dissi “Sei davvero bravo ad andare in moto”. Una frase
preparata da tempo. Ma tra noi va bene così.
Avevo detto ad Andrea che sarebbe venuta a prendermi la mia
fidanzata, ma una volta sceso dal treno preferii non telefonarle.
Volevo rientrare a casa da solo, fino in fondo, fino alla poltrona del
mio salotto. La littorina locale mi portò al paese. Quasi desideravo
che i miei indumenti, ma soprattutto il mio puzzo e la mia barba,
parlassero e raccontassero tutto quanto alla gente che mi guardava, ai
vecchi seduti al bar che mi fissavano al passaggio sotto ai portici della
piazza; tra loro poteva esserci mio padre. “Sono tornato. Lasciatemi
stare. Lasciatemi un po’ sulla mia poltrona”.
La sera avrei fatto la doccia e abbandonato la barba lunga di un mese.
La ferita alla gamba, perfetta come trofeo, l’avrei vista trasformarsi in
cicatrice e salutarmi tutte le mattine per gli anni a venire. Quella notte,
sotto le lenzuola con me, lo spettacolo del Fouta Djalon, l’infinito
treno del ferro, l’angelo mauritano che forse ci salvò la vita.
Tutto era già un ricordo. Per sempre.
Marco
401
402
INDICE
Prologo
5
Progettazione
17
Partenza
33
Barcellona
43
Almeria
59
Nador
79
Khenifra
91
Tiznit
97
Laayoune
105
Dakhla
119
Guerguarat
129
Nouadhibou
141
Choum
167
Akjouit
181
Rosso
201
Mbakè
213
Niokolo Koba
233
Koundara
257
Labè
275
Mamou
289
Magenta
297
Dananè
319
Sassandra
335
Abidjan
351
Amsterdam
377
Epilogo
397
----------------------------Postfazione
399
403
404