Il Libro dei Doni - La dimora del tempo sospeso

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Il Libro dei Doni - La dimora del tempo sospeso
 Il Libro dei Doni ­ Capitolo IV, 4 Poesie sono anche doni. Doni per le creature attente. Doni carichi di destino. (fm) Margherita GUIDACCI Lello VOCE Andrea RAOS Danilo DOLCI Angelo FERRANTE Francesco PISCITELLO Biagio CEPOLLARO Stelvio DI SPIGNO [da: Mattinale, 1995‐2002] Alfabeti I Perché si sbrecci la mia primavera da questo fine lacciolo di settembre ho imparato lingue ed alfabeti – lingue serrate, alfabeti di nomi che tutto attorcono alla loro presa come il vento che si innalza a contraddirli, talvolta – e su queste tavole di pietra che sono – signori – i vostri cervelli, deturpati in piazza dal filare della morte e inghiottiti dalla piana della vostra ragione – magari fiammeggiasse, tenesse testa al rogo dei pensieri come foglie spazzate in alto dal gorgo sciroccale – su queste zolle di carbonchio il vostro nome ho scritto, la tela del nome che sfilando diventa tenue rigagnolo d’altri nomi e così all’infinito finché l’ultimo cielo ricompare sulla terra che nessuno seppe contare sulle carte del mondo. 230 II Da una crepa sberciata nello scoglio un fuoco ormai rappreso si risveglia in cellula sonora – e detta leggi, scova ceppi, ad ogni ramo si aggrappa perché resti imprigionato un segno, una bandiera – – e tra le tante divise di città quella parlante, la crepa sotto l’arte, è un paesaggio di frasi ormai dissolte, il senso del grecale che ribatte mille bandiere in una – Poi colpi – mille colpi – da una scena avversa al tempo dell’aggancio al vero: e frasi – mille frasi – sillabari da un covo di tortura ti scrollano la frusta dalla schiena. E le piccole mani stanno al gioco, a chiudere in ragione il basso scranno dell’occhio ancora umano che ora vibra il colpo non deciso, contraddetto fino alla sera, al prossimo coraggio. III Il topo fabbricante, il topo menzognero, come ci sguazza nel codice più antico a tutto nutrimento dell’anima – il firmamento – che pone accanto al tempo il proprio usciere che non gli dia parole se non sfere per dare agli astri nuovo ordinamento. 231 Incerto sapere Fare, della vita, ipotesi accorata del sapere, tutta, fino al discendere del fuoco nelle aperte lanterne, fino alla notte degli incontestabili spazi dell’interna verità, il punto morto, il chiuso magma, dove mai giunga al ribollire dei sensi, sublime ipotesi dell’accadere lontano piacere a placarsi. La polvere Come di polvere pensosa o di altri commovimenti sembra parlare il tempo posato dalla pigrizia delle stasi e dai voli delle tue ginocchia – anche tu (bastava badarci) portasti la tua parte di sollievo a tormenti inespressi e prezzolati e con essi se ne andò una parte della mia morte insieme a questa polvere di primavera. Il mattino della scelta Sentivo sgrondare – lento – tra le occhiaie il mattino della scelta; si inerpicava al posto mio nel mio disperare, finché mi fu concesso – cieco – di rinunciare; lo sentivo disperare senza alcun martirio come fa il cuore che non dà più nebbia e il passo fino alla fermata è netto. Aspetto l’uscita dei gabbiani dai casermoni dismessi della periferia. Aspetto un volo di falene da un atollo dove non c’è mare, forse, e non c’è via. 232 Sebastiano AGLIECO [da: Il puro dettato di questi giorni, 1994, inedito] Dietro le parole in lontananza ma sentita in noi, presente evocata e presagita sempre da questi occhi, da queste mani precise svagate nell’attesa. * E ancora dormi, scolpita nel mio acciaio, disossata dalla mia claustrofobia ombra della luce mai lenimento, e ferita vilipesa nei clamori ancora dormi in me partita, dai miei occhi innamorati. * Dopo, il soccorso ore slavate nelle sere occidentali in attesa del sangue. L’ago della spina contro gli occhi. Ora appari tu guardata dagli occhi dove ti sciogli ora, traslochi nel mio cuore e non mi senti i passi si moltiplicano la notte mi vivi nel tuo respiro. * 233 Fiotto, a voci, dalle tue mani subito inaridita, questo mi resta questo posso pregare. Gli alberi dicono che il fiato non ci appartiene neanche il ricordo che abbiamo accumulato i visi che ci hanno posseduti. A volte è proprio così tra la casa e la cantina incedere nei dirupi e non ti accorgi della lontananza. Aprirmi dal vero, voglio i fiori in attesa della fine i tetti dove viaggiavi gli ulivi sanguinanti. E’ silenzio fatto di respiro è mantice che succhia il cielo fine della campagna fine dei sogni fine della parola fine. Si è spalancata squarciata nel muro della stanza tutto s’incendia e si spalanca. * Il desiderio avanza segni, interpunzioni cosciente che divaghi e non perdoni neanche muta, se ricevuta dai poeti in disonore. Ora viene la notte ora è la stagione delle serre ti sentirò dalle tane delle formiche sangue in bollore caldo, solo forma di sangue accucciato nei miei pori in me si chiude il senso in me si riapre la tua giusta causa. * 234 Queste armi di cartone questo giubilo sempre risucchiato questo rivangarti e non trovarti in nulla conoscerti nella mia prima strozza ricostruirti in me, sibilo possente e in me rinchiuderti, prepotente. Per dire con quel tono che tutto azzera canto delle alte stagioni e degli inganni, definitivo pallore dei dirupi, in quale polla, in quale luogo segreto, in quali silenzi si forma questo senso, questo albeggiare dove sfiati, altro cantare, altro sentirsi celibi per sempre? 235 Lorenzo CARLUCCI [da: Inediti, 1998‐1999] Cordelia Ti seguo sopra il campo militare, tra le tende e i tratti di terriccio mentre si mostra il sole a tratti. Seguo l’orma del piede tuo, Cordelia amata, l’orma lasciata sulla terra molle e secca. Solo una lieve crosta sulla fanghiglia ed il torneo delle farfalle attorno. Ai padiglioni, all’attrito del ferro e della pietra, delicata conchiglia serrata in arenaria agnello smembrato che reggi la colonna torta. Nutri il Leone di Francia, multicolore del viso morto. Il torneo del leone sul deserto. Il tuo piede, Cordelia, seguo astrattamente lo segue l’uomo nella febbrile passione della rena, vinto dall’equilibrio del tuo corpo, con cui scalzi il dosso, dal tuo polpaccio ‐ bianco? Cordelia assente, e rifiutata, giovane donna precras… Ti faccio segno e segno, ascolto del cane bianco le parole del cane intellettuale che scende sul viottolo nella cenere che cade come neve. Il marabou o il fagiano tra i rifiuti, mia Cordelia, tu rifiuto rifiutato. A te vanno gli occhi. Hai l’imbarazzo della verità nel dire giovane giunco non puoi opporre rifiuto né esplicare. E continuamente giri il campo seguendo l’erba nuova schiacciando questa foglia sulla terra che la prende, e la conchiglia del tuo piede, Cordelia, il mio orecchio preso d’arenaria. Tenuti, in pietre divise, in cima a zolle sulla tenera verde ! Muovi la mano alla bocca. La disgiuntura delle dita, e l’articolazione O mia Cordelia! Ridotto in vecchio sasso. Il padiglione militare o meno, il sole medio mentre resti in piedi e poggi ed il tuo peso imprime d’oggi mota e rena. L’orma nella tua terra, noce del tuo peso o spina d’istrice prevista. Il raccoglierti Cordelia, brandello di sorbo, bocca di pungitopo, edera mozza al piede, strada fangosa e colle. * Dall’Oltretomba: non resta dunque che farsi penetrare, dare a chi chiede, stringere il laccio nero della scarpa al pantalone; che non cada, che non cada, per la strada! Non più il luogo, sbatti la testa al muro, il muro alla testa. Cogli l’orrore della forma. Cerca chi ti provoca terrore, presso il cancello che il nulla dal nulla divide, cògli il volto che vuole e sa terrorizzare, il cazzo che sgocciola infocato, scruta l’occhio del toro di ferro feroce; attendi la mano che ti strappa le lenti e le scardina, che strappa le viti che con pazienza hai strette nel vetro dei tuoi occhi con scelta attenta di strumenti proprii, sorridi al rostro che ti spacca il viso, strappando il volto, per contemplare infine un fanciullo d’amore; svuota del saio le tasche, sempre più dolcemente ridi a chi ti squatra, frantumando numeri tra i denti. Bacia la mano che ti macchia, saluta chi ti deruba e dimentica chi ti ricorda. Dimentica. Trattieni nell’unghie l’orrore, e spargi cenere su tutto. (Attendi alla porta un istante, pulisci l’immagine allo specchio, non te, e sdraiati nudo su marmo). * 236 Per le vie (Nella vertigine dell’obelisco. Infine è sconsacrato il Tempio. Il Dio vivente si è dato una scrollata. Sul suo groppone infuria la pulce. (Succhia il suo stesso sangue, el mìsmo.) Vertigine d’obelisco). Il transessuale colombiano è elegante, ha un grosso cazzo. Affonda l’occhio nel gocciare dello sperma, nell’ansia del contatto. Strozza con le mani forti la vita, per osservarla al limite di morte, penetra con gli occhi neri il dramma, pozzo d’occhi, notte, pozzo a cui la goccia interminatamente cade. E’ in questa sospensione la sua scienza. Nei quindici anni della sua apertura, nell’assommare limite a limite, soma a soma, trasumanando? no, rifiutando vita e forma, schiacciandosi sotto la colpa della forma altrui, addossandosi la colpa della dualità. Non v’è colpa forse, ma Natura. Non v’è natura doppia, ma scissione, e tu, Natàlia, sei scissione fissata, carnificata; e l’anima tua s’annida come fiera nella fessa pietra, ombra del falco sulla prata, ombra del falco l’anima nel dolore. Ancora la possibilità di una forma, ancora l’imponibilità di una forma. Dice: ‐ Ho posto due guardiani al cuore mio, torridi d’occhi, sfingi affronte mute, per essere l’ergon tra i due opposti. Per essere quella differenza. Che nulla è, che nulla è, anima mia. Libero resto non io, non io, giammai del corpo scarco, semmai spaccato dalla troppa differenza; libero da me l’anima (la ridò a mia madre). Altre forme non seppi sopportare. Schiacci la mandorla tra due sassi, schiacci il cazzo tra due seni sul petto robusto ed inebriato di ragazzo. Cozza contro te stesso, ancora ancora, perdi l’ultima pena in questa stretta vana ogni difesa perdi perdi perdi perdi. Spiri via. * I Chi va spargendo il sale delle stelle Sulla ferùta aperta e l’ossa rotte Incide del suo nome la mia pelle, Affonda il rostro al petto della notte. Gemella forma per la via apparùta Mi dici che non va alla guerra il pazzo E strappi gridi da una bocca muta Mentre ti pieghi per succhiarmi il cazzo. L’orrore che mi stinge il volto allora E’ il penetrar del nome nel mio cuore Che come chiodo la mia carne fora. Nell’occhio tuo si perda il mio colore! Che la tua furia atroce che divora Contempli infine un fanciullo d’amore. 237 Massimo ORGIAZZI [da: Reliqua Realia, 2007] HoursSwap Ho estratto giorni splendidi di rame da questo vento, agli spigoli di ombre da sciami di montagne, dal Sesia arroventato di distanze rovesciate: abitati da bambini sulla ghiaia, a fatica chini, manager di ore: rimangono ridetti tutti i passaggi finiti di un’opzione che si scioglie: che io faccio – albore per albore. Eileen L’antichità è lunga: simula il tuo sorriso, spunta nel giorno steso vivo sugli infissi d’un ospedale. Questa notte sei stata dove parole dimenticate morte hanno un nuovo nome; un battito d’ali che asciuga il sole. Tiri su con il naso da farti venire il batticuore: però il consorzio agricolo, il caffè riarredato, i tuoi occhiali da vista e il ricordo del tatto sulla tua mano lacrimano la sera su una scritta: email me asap, con un fuoco lontano. 238 Orli Abbiamo linee addosso io e te, linee di fondo – ed estraiamo da grida di corvi gli orli di un volto, biforcazioni di un unico sonno. La terra di qui, che s’allunga, schiena frontiere di anni taglia in due tutta una morte, concima cieli a se stanti, prendendo a se i due estremi della notte faina. Tu sola che spingevi appena sfiorandola – la carrozzina. 239 Ritratto di noi stessi Un sole largo si rigira in acqua: ha un peso in pagine che smonta fino alla grazia ben oltre la fiacca a conferma dei crolli nelle estati di tutti i silenzi d’ufficio, pomeridiani, spaiati; fa passare ai capi elettrificati del cielo, alianti di carovane, convogli di ricorrenze in cerca del muscolo, delle cose, tra le pietre, le ostriche e i nostri inquieti martìri gemelli – infranti di spalle; riesuma ombre di pròtesi, batteri maturati come ipotesi di amianto. L’aria – lei – migra sul filo più stabile del mondo in sciami di frangenti minuscoli, proiettili di formule e cervello tra pozze cadute dal cielo e zone più povere di realtà. E come ci stavamo sopra, noi sorridendo, è un semplice ricordo: come su una diga di coltello contro crampi di ferie, attualità; le ottiche centrate in pieno dallo scopo in un feedback di orizzonte smerlato da poco su cui se ne vanno rimorsi come fabbriche distanti nella calura; alberi – impianti che costudiscono pioggia. Tre, le miriadi di croci intraviste sul cemento: noi siamo otturazioni di ritardo, bancarotte del tempo. 240 Electio dierum Sono belle le tre del pomeriggio ed è un disastro l’essere chiamati a credere nel pianto che viene a piovere tra i tempi, come un incrinarsi di bicchieri. Ci sembreranno sacche, stupidi orbitali di labili facciate rase al sole; ci sembrerà dolore di ottima qualità sentendolo migrare come masse d’alghe in profondità color dei funghi morti, delle micce spente; oppure splendere di inerzia propria dagli urli più importanti crepati per capriccio. Sarà per una volta una questione di travisamento della descrizione, di cercare nello spiovere del mare il fronte aperto la speranza delle cose le ferite membranose, le attese, i crampi del rumore, il punto dove si toccano le curve delle pagine in mezzo ai libri, la cuspide parola. Una voragine. Vedi, ecco: una follia da poco sventola sul fondo, sbandierando l’universo magro, si vede dentro, bene aperto: spicca ogni mia domenica ridicola. 241 Resa ad una sera virale E’ già uguale a tutto – e ne vuoi dire della notte che attracca ai campanili e stacca brevi parole suicide; uccide le tracce, le spore del pianto anteriore succhiandone copie precise quanto malfatte e fallaci, sfiancandosi dentro spingendo nei timpani, intasandone il tempo, il comunque limato, onesto, in fondo imparziale ed offerto disossato, attraverso. E pure dura delicato, pizzica appena e si conserva nel fiato, nell’orlo al fondo radioso di cosmo insufflato, nello stare domenica sempre. E cresce – sembra – in un riso rifatto, semplice, cavo d’ingombro, a cucchiaio: poco più in là spunta esatto e preciso il buio: dalla sua schiena possiamo vedere tutto il secolo scorso, un sorriso scassato, un rimbombo solare di dopo pranzi in un torpore già morto. Noi eravamo – ricordi ? – la scelta lasciata smagrire per sbaglio in una lesione del cielo, un cifrario d’intraducibili, minimi strilli. Ed ora stiamo ad ascoltare fasci di settembri incastrati nel sonno leggero, le desinenze del fresco, le classi di senso tra le migliaia di nuche del testo. Ma è l’altra la vita: è aspersa di fianco, ravviva a poco a poco lucore al limite d’angolo di visuale. Sarà diseguale, crollerà nei giri dei camposanti. Negli aerei al sole. 242 Alfonso GATTO [da: Osteria flegrea, 1962] Finale Se a voltarmi più non ti vedo chi di noi due manca, chi dal suo pensiero un fatto ha visto correre sì veloce da spingersi oltre le nebbie dei morti che guardano indietro? Se a voltarmi più non ti vedo chi di noi due manca? Col suo povero arredo di morto chi di noi due imbianca lontano dalla sua voce? In treno, all’alba Parlare senza parole tradirmi fatuo e così assorto freddo e riso sembrava un correre nel corpo. Volevo tornar sconfitto. Dissi al vicino di viaggio: sono le quattro. «Le quattro», disse. Nuda, una donna, è solo il modo di pensarla, una conferma sul treno d’essere uguali. Dissi: non faccio il mio dovere voglio tornar sconfitto. Pensiero d’altro pensiero, pensava ad altro mia madre e dentro le nascevo. Ma è una sigaretta accorgersi che si parla fissi come un gatto che ha occhi solo per sé. No, non sono un soldato. Passa tutto il passato anche la morte. La mano è il pieno. Aggalla. Solo chi non ha pace può darla. 243 L’agnello Questo dico pensando, la sera è così chiara tu potresti apparire, ma sei morto da quando più non credemmo in te. Una sera così rara in questo triste inverno, ci sembra di fiorire nel tepore dell’aria, chiari come il freddo che non c’è. Dove ci porta a bere ‐ a quale vento ‐ la tua memoria viva, e a quanta quiete s’abbevera la sete? Il breve, eterno momento che mai arriva. Donne alla finestra Per la schiettezza d’un gesto una mano portata al capo e l’altra che si va facendo. Le donne, laggiù. Una pienezza cieca le affaccia al sole delle allegorie. Sopra un ritratto Passano al tempo dei tuoi occhi passano gli occhi e l’ombra che alla mano ricetta e fonde la mano, di quanto a sparire fu nulla il palpito ove rinvieni, di quanto alla nebbia canuto fissi il ricordo del sole. Oblio la strada che ricordi, memoria la strada che oblii. Ma non destarti con la tua parola, o morto di quanto a morire fu bello. 244 Notturno per Mondrian Più o meno, croci armoniose dell’alfabeto che non parla mai. Di sé solo perfetto cimitero di segni l’infinito. Il Dio povero Il Dio povero all’ala della sera al rapinoso grido alzava il volto, al pensiero remoto che lo chiama. E sorridendo a credersi sottile senza rumore col suo passo eguale alla dolcezza d’essere credeva. Parve a se stesso innamorato, buono, da amare con parole che le mani accompagnano a lungo, le parole comuni che non sembrano mai dette. Povero Dio dei poveri a Milano. 245 Antonella PIZZO [da: In stasi irregolare, 2007] QUI I si provò il supplizio della roncola l’indizio, l’orma, la traccia della falce la lingua fu voltata e rivoltata si cospirò d’ondulate festuche c’era un’aria di solletico quel giorno e i soffioni frusciavano fra loro sotto lastroni di basalto la bella rumoreggiava in linda camicetta oh lenzuola larghe e bianche ossa ossa orizzontali ossa oh castagne pallide latte e capelli ed ossa oh lunette rosse orbite svuotate ed ossa oh mie morbide ossa ossa verticali ossa dove il mio sangue, dove la mia carne, dove le mie ossa vita che mi si è strappata addosso come un foglio di carta cinerina qui è un dormiveglia in riparo dal crack e spesso anelo a vetri trasparenti IV eccitamento e chiacchiere, sorrisi risolini occhi umidi e brillanti d’astri nuovi sono persi nell’intestino di un universo inesplorato, pietre poste una sopra l’altra squadrate e riquadrate per innalzare un muro nell’interstizio un ramoscello di felce fra capelli di venere ed erba vento. chi ti ripara, chi ti prende. chi mi ricompone chi l’acqua fredda sul viso non sente? 246 VII anche noi si va e si torna, si gira intorno in tutto girotondo che mai concluso e cerchio che mai finisce, sono lunghe le dita da afferrare, sono tante le mani da aggiungere sono dita da aggrappare con forza, catena lunga che anello dopo anello e aggancio scorre sperando in un tondo finito ed è un cerchio che avvolge il mondo e più e più volte e che non pesa che calpesta le strade vostre in uno spazio che non è più spazio, in un luogo che non più è luogo. le vostre grida ci giungono stridenti i vostri canti sono ultrastonati così abbiamo piombato le orecchie abbiamo posto un cuscino di pietra. possiamo dire e dunque vediamo del passato e del presente e del futuro che è aperto portone sulla piazza delle finestre spalancate alla bisogna ci affacciamo per disegnare un angolo per buttare un’occhiata svagata sulla fiacca mosca che svolazza nelle stanze e stanze susseguenti noi possiamo visitare o dimorare attraversare ogni singola giornata 247 IN LUOGO E MOTO I strepita il tetto fa un assolo lungo il catenaccio è nota alta da tenere dura fiamma, inconsapevole fiamma che divori corpetti e sottane scioglimi i nodi figlio che aspetti pentola che cuoce salato porridge non c’è futuro nella cenere, non si legge la ventura ma storia che sfrigola di pelle e carne puoi contarmi le ossa se vuoi, puoi ricompormi se riesci, dove finisce l’omero incomincia la mia fine dove era il mio occhio oggi c’è mare e il cielo alcione che mai volai, l’unto mi accoglierà intonerà canti di gloria, comprami ora una cassa di legno d’acero o di salice, distendimi in fogli, uno per ogni ora della ribellione, fammi forma, fammi libro testimonianza, incidi il mio profilo nell’onice, col carbone scrivi il mio nome verranno i giorni dell’acacia dealbata a festeggiarlo II avrei voluto per gli occhi il cibo e per le mani scale da appoggiare ai muri pietruzze lucenti e cuoricini d’avorio ricamati sulle balze della mia gonna a ruota avrei voluto gonfiare il pane e i lieviti moltiplicare nelle giare i giorni sgranati alle buone lingue alle inchieste alle deposizioni vere non distorte, ma voi assassini voi giudici voi imputati sbarrati alle celle amavate un suono di topi corvi che discutevano di buchi ragni che intonavano la storia: sentinelle hanno abbandonato le stazioni illuminate nel luogo dove si entra senza chiedere permesso senza scuse e senza bussare il buio è interminabile 248 III A nord c’è il bianco e il freddo c’è l’indice puntato alto chiarezza evanescente io cerco e scavo nelle nevi e orme seguo m’accuccio nel cappotto stretta e nel capello spiove cenere e veramente sento che il silenzio è senza voce e che i rumori sono quelli che fanno i miei pensieri congelati facessero un racconto di rami e foglie di pini aghi un bel cucito e strappi non più aperti ma lembi avvicinati di nembi e cirri d’arcaiche forme di archi in cielo di baleni facessero la conta per sapere con contezza che qui nessuno manca ma il manto è bianco e tutto copre e niente s’ode se non la musica stridente di un iceberg spezzato tragitto andato a male, disastrato 249 Daniele DE ANGELIS [da: Inediti, 2007] L’escursione (I versanti cedono avvalli nell’accostarsi, v dal percorso indifferente, dove la neve lascia l’erba più grassa) Così ricontava le direzioni girando la testa; (dalla cima svettano altre cime e paesi cerchiati da uniche strade d’andata e ritorno; attorno il massiccio è uno spazio di gobbe e borri, che si spande senza indice di fine, ed ogni cresta diventa confine. Un luogo che ovunque è luogo, e sentieri affiorano dove i passi restano terra e sassi) Il pescatore ‐ Ci sta’ le volte che li ripeschiamo, a tirare sulla barca le reti, assieme a pesci e calamari i morti… quelli dei barconi e dei gommoni vecchi quanto il mare, a fondo, sotto al peso della calca, per la spinta in più di qualche onda… corpi di negri arabi africani, che chi sa quanti ne restano a sparire sotto, tra sabbia e morsi… – Non c’era vento a smuovere nulla ne’ funi, ne’ spuma, neppure odori; e allora l’acqua sulla tolda sopra i pontili ed il molo, sopra la pelle, gli sembrava in altre gocce camuffare gli spazi certi del sudore, il sale con il sale. 250 L’incidente Disseminati svrecchi tra i chilometri, pneumatici riassunti sull’asfalto; tra tanti simili vale il gioco dei contrari, la differenza esatta. Nella piazzola l’auto spenta, la sua ombra mobile, rovente, i finestrini abbassati ad indicare meglio – lì sul guardrail, lo vedi quel bozzo? lì immagina il primo colpo… poi il rimbalzo ed il ritorno al centro della strada, lo schianto contro al cemento dello spartitraffico… ed ancora un riandare, dall’altra parte a tranciare lamiere con lamiere – Le inflesse contorsioni del ferro ai lati del varco, rilucevano sempre più distanti nel bruciore degli occhi, ed i frammenti a terra di vetri dentro segni di gesso, come a segnalare lavori in corso, un imbocco già pronto per uno svincolo a venire, teso verso i campi, teso verso il bosco. Il suicida Inattesa ogni volta, era l’ultima curva a gomito, prima della serpentina sterrarta; un segmento di case allignate lungo i bordi, di parcheggi risicati negli slarghi. (Dalla rimessa degli attrezzi, quella mattina, salì fino al balcone una nuvola nera, sulle finestre a posarsi cenere, come un segnale di fumo a chi lo cercava a ridosso dei campi) (Ancora, la tettoia ondulata e combusta, i mattoni calcinati; in due lo tirarono fuori, un corpo spento a coperte e secchiate, un tizzone che nelle strette delle mani, sgranava) 251 L’imbianchino All’improvviso a sniffare l’aria della stanza, ritrovarsi come cani ragionando ogni respiro, cogliere il segnale familiare, immaginarlo impresso sopra al muro sotto intonaco e vernice; un odore rappreso un alone d’una qualche secrezione, umore di neglette giornate. (Questo appartamento non ha mai conosciuto tanto sole come adesso, vuotato e sfitto d’ogni orpello); la luce come l’eco sulle pareti piatte e bianche; (da lucidare e spolverare restano piastrelle e porte impiallacciate) (Restasse vuoto, senza parole) pensava (oppure occupato da marocchini e senegalesi, cingalesi indiani e nigeriani, cinesi e rom, pachistani; tutte le stanze colme fino all’eccesso, fino a coprire di vesti e scarpe ogni minimo strapunto, e sulla calce altri segni, altri raspi; disabitato in un istante, in una notte, prima delle volanti) 252 Il bosco Glielo disse apertamente come stesse investigando ‐ Il suo racconto sulla storia della bimba? – ‐ Ne so quanto tutti gli altri – gli rispose dal gradino ‐ solo che ci passarono settimane là dentro al bosco, con i cani i pali e tutto il resto, misurando e numerando e catalogando ogni foglia ramo o sasso, rivoltando per intero le cortecce; e quando se ne andarono sembrava non si fosse impresso nulla; e fu sospetto restare con niente, neppure uno strappo di veste o pelle, neppure una ciocca tra la ramaglia; certo è stato il vento, la pioggia, il secco i corvi e le bestie… certo lì dentro dove incessante è il settaccio e il fugare d’ogni cosa. – Quasi uno scherzo lo spiazzo di terra, la distanza, tra la case ed i tronchi. 253 Andrea INGLESE [da: Quello che si vede, 2006] 1. Quello che si vede, poco, è sempre di nuovo sotto gli occhi, come ripetendosi, ma non è lo stesso, non tornerà mai così, radente, evasivo, come ora, non sarà quindi mai visto, anche se ci metterai anni a leggerlo, anni per capirlo qualunque cosa fosse, anche solo da vicino, in prossimità, un labbro, i solchi della pelle, un’iride, quando quel che si vede scivola sotto la visione e morde silenzioso o sfiora, tutta la mente è invasa, lo sguardo fitto, gremito di traiettorie colorate, i caratteri cubitali, i simboli nitidi: animali, montagne a cono, alberi di ginepro, remi, scafo, o solo un sacco di plastica lacerato da cui filtra un suolo impossibile senza luce o spazio, una fossa forse, se poi uno a forza di lanciare sguardi avanti, finisse fossile a camminare fermo nel niente 254 2. Non esistono tracce, o ce ne sono troppe appese, esposte dietro vetri, ben illuminate, le sciolgono dagli imballi, scoppiano dentro le valige. Non devi mettere in ordine nulla. Quando cammini, separi la strada, e la strada a tua volta ti separa, in pensieri che non hanno fiato, perché qui nessuno respira, nell’assiepata vicinanza. Quando cammini, gli anni, prendendo un remotissimo slancio, salgono con te, dove i rami fanno coltre incostante, e le finestre dei palazzi contengono in un quadro cedimenti di vite, abbracci malfermi, piedi nudi che cercano ancora e ancora aderenza. Dal battito strambo dei passi, vengono ritmi che spingono avanti la città, oltre il suo muro, oltre la disciplina, l’apnea, lo sguardo morto al quadrante. 3. Dentro questa luce avverrà il collasso per via dei venti che in alto non si governano e le chiodature delle menti dopo lunga, sonnolenta quiete. Tutto vorrà far male, anche sulle parti più tenere. Si drizzano i fili d’erba di taglio e feriscono. Feriranno. Ma nella lunga distrazione, scendendo, pensavamo al colore sbiadito della giacca, ad una cosa da comprare il cui nome smarriva. Ed il luogo sembrava come prima. I passanti svelti nel teatro di vetrine. 255 6. E poi mi sono messo a guardare le scarpe. Le mie, estive, di pelle, marroni chiare. Non la suola accidentata, segata sul tacco nel lato esterno di entrambe, no, dentro, perché le calzo a piede nudo, e si devastano progressivamente con straordinaria armonia, aprendo brecce dove poggia il calcagno, per sfregamento, entropia minima, ad ogni passo, con tutta la memoria lì, del passaggio mio sulle superfici, quel camminare sempre insano, fitto, che si ignora, fuggendo avanti, a scavalcare il proprio camminare, sorvolandolo a mente, come perdendo i propri pezzi altrove, sfilati fuori, immateriali, a mulinare d’ansia nell’aria, anzi in atmosfera zero, implacata, dei miraggi. E solo le scarpe registrano tutto lo sforzo dei passi, la concretezza dello slancio, ogni metro, per gradini, prati, ghiaie, lastre irregolari, asfalti monotoni. Non io, che le sfilo entrato in casa, dimenticando la terra che sempre mi tiene a posto, sul punto d’appoggio, appiedato nel mondo, certo almeno di questo. 256 7. Non bastava essere veloci, muovendosi su pattini lungo i marciapiedi, o guardare dentro schermi, nelle mobili immagini, le fasce di colore, le cifre che ingrandiscono nel nucleo rosa, il prezzo dell’andata‐e‐ritorno, o sapere a memoria il codice segreto, per entrare in casa, prelevare denaro, accedere alla posta, o trovare sul dorso dell’involto il codice a barre, e gli altri numeri del giorno, non bastava, esigeva l’alba, con il gattino piccolo inarcato, attraversato da tremiti, gli occhi scoppiati fuori, il filo di sangue dalla bocca, esigeva su quell’asfalto la sua morte un punto di vista (anche la patata, sepolta che nel minimo calore pronta a figliare si rompe, spinge nel buio i getti, ostinata) 10. Non hai confinato la tua mente al frammento, al pezzo separato, al detrito d’immagine posto come campo assoluto, sommario di mondo. Vedi che la pietra apparente del reale, la città nostra filmata, contiene una segreta lotta di viventi, fatiche per stringere l’entrata della luce, ferimenti per aprire… E il monumento del visibile: il morente chiamato al microfono, tirato in piedi sulla sabbia, sotto un’ombra organizzata, è tagliato via dai suoi torturatori, apparsi altrove, in altre ore, dentro camicie fresche di lavaggio e stiratura, usando penne su fogli e non uncini su carni disarmate. 257 11. La schiena che vedi martoriata, è quella di Anika, sei anni, sua la macchia di sangue nella cornea, e la cicatrice sulla palpebra, il ventre gonfio come d’un gas venefico. La testa rasata a zero è della zia, quella che ora piange, che la batteva con un attaccapanni di legno dopo averle spalmato peperoncino sul corpo. Così nasce, nel più comune non amore, la perfetta tortura, così procede, su menti ignare, il patto di schiavitù: l’ordine mondiale delle sevizie, così Anika non sa, dove il dolore di vivere è evitabile, e non conoscerà quella terra che gli occhi urtati dalla luce guardano al mattino senza apprensione e panico. 258