Storia e cultura ebraica in Europa - Università della Terza Età

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Storia e cultura ebraica in Europa - Università della Terza Età
UTE di ERBA
ANNO ACCADEMICO 2014-15
MARE NOSTRUM?
LA DISPERSIONE ISRAELITICA IN EUROPA:
GHETTI, INTEGRAZIONI, CONVERSIONI FORZATE
La diaspora
Quella che noi definiamo “diaspora”, una sorta di disseminazione all’intorno, si potrebbe
dire che appartiene al DNA del popolo ebraico, che, secondo la sua stessa storia narrata
nella Bibbia, è da sempre figlio di un padre “arameo errante”
“… e tu pronuncerai queste parole davanti al Signore tuo Dio: Mio padre era un Arameo
errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione
grande, forte e numerosa …” (Deuteronomio 26,5).
La conquista e il possesso della cosiddetta “Terra Promessa” è un’opera che continua nel
tempo, anche perché lo stesso padre Abramo non si stabilì in Palestina in maniera
definitiva, visto che non aveva nessun possedimento, e che solo con la sepoltura di Sara
si preoccupa di “acquistare” un pezzo di terra per deporne il cadavere e poi il suo accanto
a lei.
Questa maniera di prendere possesso della terra, quella dell’acquisto, più che della
conquista, sembra essere stata la modalità conservata nei secoli, visto che anche nel
recente rientro gli Ebrei hanno progressivamente acquistato dai Palestinesi quei
possedimenti con i quali hanno poi realizzato lo Stato d’Israele.
I contatti poi con i popoli locali, tenuto conto che questo fazzoletto di terra è il solo fertile
di un vasto mondo desertico e per questo viene sempre conteso dai popoli che vi
accedono, hanno determinato lo scontro che permane anche ai nostri giorni. Le sconfitte
in presenza di popoli più agguerriti e soprattutto “imperialisti”, come gli Assiri e i
Babilonesi, hanno comportato deportazioni e fughe in cerca di altre terre in cui vivere.
La diaspora babilonese
Se prendiamo, ad esempio in considerazione la prima diaspora traumatica, quella
dell’esilio babilonese (586 a.C.), dobbiamo riconoscere che essa avvenne per la scelta del
re babilonese di avere a Babilonia l’elite, il gruppo di coloro che potevano servire come
artigiani, come fabbri, come lavoratori specializzati, che il profeta Geremia invita a
restare in terra di esilio e a favorire i Babilonesi, per avere con essi fortuna e tranquillità
(Geremia 29, 1-7).
Solo con il secondo assedio e con la sconfitta di Sedecia ci fu la distruzione di
Gerusalemme e la dispersione forzata di tanta gente, mentre coloro, come Geremia, che
non si erano opposti ai Babilonesi vengono lasciati liberi; costoro si ritroveranno in
Egitto. C’è dunque una dispersione forzata e c’è anche una dispersione che viene scelta
da alcuni in cerca di un migliore tenore di vita.
In Egitto nacque così la più consistente comunità israelitica fuori della Terra Promessa e
proprio ad Alessandria si deve riconoscere che questa comunità non fu soltanto una
presenza notevole sotto il profilo economico, ma anche per quanto riguarda l’aspetto
culturale. Alessandria, fu, fin dalle origini, un centro culturale di prim’ordine soprattutto
come espressione di quell’ellenismo che è la diffusione della cultura greca nel
Mediterraneo e a questo fenomeno aderirono anche gli Ebrei. Nasce in questo periodo la
traduzione greca detta dei 70, che rappresenta lo sforzo notevole di integrazione nel
contesto culturale e il desiderio insieme di far conoscere una tradizione religiosa, come
quella ebraica, perché nella conoscenza ci può essere un mutuo apporto di ricchezze.
Nasce in questo contesto il libro della Sapienza, scritto in greco e non in ebraico, che è –
si potrebbe dire – il frutto maturo di questo dialogo fra culture nel mondo della diaspora
ebraica.
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La diaspora dopo il 70
Il dramma della diaspora avviene però in occasione della distruzione di Gerusalemme nel
70 d.C.
La distruzione della città comporta necessariamente che molti siano costretti dalle
circostanze a fuggire e a cercare altrove fortuna, magari nella stessa capitale dell’impero,
dove già era fiorente una comunità, che pure creava problemi con lo scontro nei confronti
della nuova “setta” dei seguaci di un certo Cresto, come viene denominato da Svetonio.
All’epoca di Claudio ( 49 d.C.) ci fu un editto che scacciava gli Ebrei da Roma proprio per
ragioni di ordine pubblico: ne abbiamo una indiretta testimonianza negli Atti degli
Apostoli (cap. 18), che parlano della coppia Aquila e Priscilla, arrivata a Corinto dove
pure arriva contemporaneamente Paolo, e proveniente da Roma per questo motivo. Il
lavoro abbandonato a Roma viene ripreso a Corinto ed è lo stesso genere di lavoro di
Paolo, che si accasa lì.
Il culmine della tragedia ebraica è però nel 135 d.C. con il decreto di Adriano che
stabilisce l’impossibilità agli Ebrei di accasarsi in Palestina. Perciò gli Ebrei devono
trovare posto altrove …
La leggenda dell’ebreo errante
Inizia così la “leggenda dell’ebreo errante”, come la definisce Riccardo Calimani nel suo
libro “Storia dell’ebreo errante”, che raccoglie nel dettaglio e con documenti quanto è
successo nel mondo europeo per la presenza degli Ebrei, sempre perseguitati e
comunque sempre decisi a sopravvivere con le proprie tradizioni e la propria cultura.
Secondo l’autore, l’ostilità che accompagna questa diaspora ebraica a partire dal 70 è
legata ad una aperta rottura tra ebraismo e nascente comunità cristiana che ha il suo
primo rappresentante in Paolo. Lo scontro aperto fra Gesù e i farisei descritto nel vangelo
sarebbe opera degli stessi evangelisti dopo il 70, quando la tragedia di Gerusalemme
spinge a prendere le distanze dal mondo ebraico nella sua rovina, per non finire nello
stesso giudizio di condanna, come era stato con l’editto di Claudio nel 49. Di qui la
dissociazione dei cristiani dall’Ebraismo e l’abbandono della stessa comunità cristiana di
Gerusalemme, che era considerata la Chiesa madre. Secondo Calimani la responsabilità
di una simile presa di distanza, che diventa anche ostilità, dovrebbe essere attribuita a
Paolo, ma costui era già scomparso prima del 70.
Ecco che cosa dice Calimani su Paolo, a conclusione del libro sull’apostolo:
Da parte mia, come ebreo, più modestamente, dopo aver cercato di esporre con rigore le idee di Shaul Paolo
prendo congedo. Senza particolare tenerezza. L’apostolo ha attraversato il ponte. Ormai siamo su sponde
opposte e lontane. Gesù è stato un buon ebreo osservante, Sahul Paolo un ebreo trasgressore.
Così si esprime Calimani a riguardo del distacco del mondo cristiano dal mondo ebraico
fino a giungere al conflitto, che non sembrava possibile con la presenza della Chiesa di
Gerusalemme, come chiesa madre:
Si possono intuire così le grandi linee del processo di distacco tra Chiesa e Sinagoga. Gesù ebreo era in poco
tempo diventato esclusivamente cristiano. Addirittura, paradosso nel paradosso, nel suo nome, in nome del
suo pacifismo e del suo altissimo insegnamento etico, venivano gettate le basi, involontariamente, di un
antiebraismo viscerale che si sarebbe più volte concretizzato in violenta repressione. Il segno del crocifisso
diventò, per l’ebreo perseguitato, segno di violenza.
Nel corso dei secoli i teologi cristiani dettero una giustificazione sofistica e teologica del rifiuto di Israele,
trattando l’antico popolo della Bibbia come un vero e proprio anacronismo vivente da opprimere, ma anche
da conservare come prova della perfidia, cioè della mancanza di fede: “Oremus et pro perfidis Judaeis”. Le
parole sono pietre: perfidia non venne più letta alla latina (mancanza di fede in Cristo), ma, a poco a poco,
con il suo significato traslato carico di connotazioni negative: perfidia come espressione di un animo
indegno di fiducia. Su questo popolo cominciava a pesare il segno di una incomprensione storica.
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Minoranza sopportata e perseguitata
In tal modo il distacco dei cristiani dagli Ebrei si trasforma sempre più in
incomprensione e questa poi in inimicizia, acuita con l’accusa di “deicidio”, che in tante
occasioni e in molte regioni è accompagnata dalla convinzione di rituali cruenti in
occasione della Pasqua cristiana che si voleva fosse dileggiata con il sacrificio di bambini.
La condizione ebraica diventa più problematica quando il Cristianesimo viene tollerato
con l’editto di Costantino, all’inizio del IV secolo, e poi dichiarato religione di Stato con
l’editto di Teodosio, alla fine del IV secolo.
Nelle sue considerazioni Calimani tende a mostrare che, un po’ ovunque in Europa, la
condizione degli Ebrei è quella di una minoranza mal sopportata, che non trova se non
raramente quel tipo di accoglienza che li rende integrati nel tessuto sociale e culturale
dei Paesi europei. Se qualche sovrano e qualche città si avvalgono delle competenze
specifiche degli Ebrei, o di coloro che, pur essendo Ebrei, hanno comunque abilità
tecniche, in altri ambienti sorgono spesso delle diffidenze che poi sconfinano nella
persecuzione e nella sommossa che fa stragi.
Nella sua analisi storica, sempre documentata, prevale comunque una lettura che dà
rilievo ai casi di persecuzione, ai testi, compresi quelli dei Padri della Chiesa, che
accusano con veemenza gli Ebrei di deicidio, ai decreti governativi con cui gli Ebrei
hanno a che fare per la vita quotidiana sempre più limitata e resa costantemente difficile
per le proibizioni e le forme di ghettizzazione. Manca o è solo accennata la
documentazione di approcci positivi tra i due mondi, che certamente appaiono più
spesso contrapposti.
Gli Ebrei di Spagna: I SEFARDITI
Tra le comunità più ragguardevoli nel numero e soprattutto nella capacità di inserirsi
bene nel contesto geografico è da segnalare quella spagnola, i cosiddetti SEFARDITI.
Sefarad è il termine con cui si designa la Spagna e di fatto coloro che abitano nella
penisola iberica e seguono la religione ebraica. Quando però furono costretti ad emigrare
dalla Spagna, allora gli Ebrei si rivolsero nei territori arabi e di qui viene l’attribuzione di
questo termine anche agli Ebrei che si trovano nel Maghreb e nella penisola arabica,
soprattutto nello Yemen, da cui solo recentemente la gran parte è fuggita per riparare in
Israele, in presenza delle minacce dei gruppi terroristici.
Quella ebraica spagnola fu una comunità molto prospera e - dopo la dura parentesi visigotica - essa
poté operare fruttuosamente per numerosi secoli grazie alle sostanzialmente favorevoli condizioni di
vita garantite dai musulmani che conquistarono il paese iberico ai primi dell'VIII secolo. Era tale
l'intesa fra ebrei e musulmani in al-Andalus da far parlare di "complicità" i cristiani che, sovente,
accusarono gli ebrei di aver favorito la conquista islamica per odio nei confronti dei loro persecutori
visigoti.
Dopo la Reconquista iberica, conclusasi nel 1492, gli ebrei vengono espulsi, per opera dei Cattolicissimi
Reali Isabella I di Castiglia e Ferdinando II di Aragona, dal neonato stato spagnolo e dai territori ad
esso soggetti (quale la Sicilia), disperdendosi in Italia, nei Balcani, e in tutto il bacino del Mediterraneo,
venendo accolti dalle comunità ebraiche ivi già residenti, in particolare nel Maghreb (in particolar
modo Algeria e Marocco) e nell'Impero Ottomano, grazie alla politica tollerante attuata da governanti
musulmani.
Alcuni hanno fatto notare che i rabbini lanciarono un grave “cherem” alla Spagna, un anatema,
secondo il quale dopo quattro secoli una terribile minaccia fratricida sarebbe gravata sugli spagnoli, e
che dopo circa quattro secoli (in realtà 450 anni) la guerra civile spagnola con la dittatura franchista
avrebbe rappresentato la realizzazione di tale maledizione.
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Secondo Calimani, fu in Spagna che l’esperienza storica degli ebrei toccò i vertici culturali e sociali più alti.
Con luci ed ombre, naturalmente. Gli insediamenti giudaici in quella terra (detta in ebraico Sefarad) si
perdono nella notte dei tempi. Granada da tempo immemorabile era detta “città degli ebrei” e importanti
centri ebraici erano a Tarragona, Cordoba, Saragozza e Tortosa. Esistevano famiglie nobili e antiche che,
come gli Abranel, vantavano una discendenza diretta dalla stirpe di Davide. Altri dicevano di essere usciti da
Israele prima della distruzione del Tempio, per non essere considerati corresponsabili della morte di Gesù e
sfuggire così alle accuse di deicidio.
Tra le personalità di rilievo del mondo ebraico in Spagna va ricordato
MAIMONIDE
MOSES BEN MAIMON è il più originale esponente del pensiero ebraico medioevale.
Nato in Spagna nel 1135 durante la dominazione musulmana, studiò la Torah sotto la guida di suo
padre Maimon e del rabbino Joseph ibn Migash.
Nel 1148 Cordova venne conquistata dagli Almohadi che deposero i più tolleranti Almoravidi. Gli
Almohadi, il cui oltranzismo li portò ad avviare contro gli ebrei e i cristiani una vera azione di
persecuzione, sia in al-Andalus sia in Nordafrica, offrendo loro come unica alternativa alla morte la
conversione all'Islam in completo spregio della tradizione che nei confronti della "Gente del Libro" (Ahl
al-Kitāb) esige solo la sottomissione politica e il pagamento dell'imposta di "protezione" (jizya), erano
una dinastia di berberi originaria del Marocco. Quando gli Almohadi furono a loro volta deposti, la
Spagna islamica tornò ad essere tollerante verso i cristiani e gli ebrei.
Nei dieci anni seguenti la sua famiglia si spostò nel sud della Spagna tentando di sfuggire la conquista
almohade ma finì per fermarsi, nel 1160, a Fès in Marocco (anch'esso sotto il controllo almohade), dove
riuscirono a farsi passare per musulmani, finché - anche a causa della crescente popolarità dell'ingegno
di Moshe - non vennero scoperti. A Fès Maimonide studiò nell'università al-Qarawiyyin, proprio qui
iniziò una approfondita conoscenza di Ippocrate e dei suoi insegnamenti in ambito medico, sempre a
Fès studiò l'evoluta medicina islamica del tempo.
Già attorno al 1158 iniziò la stesura di alcune opere: un trattato in ebraico sul calendario e un trattato
in arabo di logica, probabilmente il suo unico scritto a carattere strettamente filosofico. Iniziò al
contempo la creazione del Commento alla Mishna, trattazione giuridica dell'etica ebraica, che lo vedrà
impegnato per buona parte della sua vita. A Fez scrisse anche una Risāla (Epistola) contro l'apostasia.
Di fronte alla certezza di finire giustiziati come apostati, fuggirono dal Marocco per raggiungere,
toccando Acri, Hebron, Gerusalemme, l'antica città del Cairo, al-Fustāt. In Egitto egli poté portare a
compimento nel 1168 la prima versione del Mishneh Torah e, a seguito di numerosi eventi luttuosi che
colpirono anche la sua famiglia, finire lo studio della medicina. Secondo la tradizione, è nel 1171 che
assunse il ruolo di nagid (guida) della locale comunità ebraica. Negli stessi anni compose anche opere
minori di carattere dottrinario e nel 1180 ca. concluse definitivamente il Mishneh, nella forma che
possiede tutt'oggi, e dieci anni dopo “La guida dei perplessi”. L'ultimo ventennio di Maimonide si
dimostrò essere il più fecondo dal punto di vista della produzione letteraria e nei successi della carriera:
dimostrò il suo attaccamento alla professione medica compilando alcuni trattati in lingua araba su
diversi argomenti, dall'igiene ai veleni, e diventando attorno al 1185 medico personale del visir al-Qādī
al-Fāḍil al-Baysāmī, ministro per l'Egitto di Saladino (Ṣalāh al-Dīn). I suoi trattati divennero influenti
per generazioni di medici. Conosceva la medicina greca e araba, e seguiva i principi della teoria
umorale nella tradizione di Galeno, senza però accettare ciecamente autorità passate ma usando
invece il proprio senso di osservazione e la propria vasta esperienza.
Dai tratti biografici si evince che quest’uomo, vivendo in un contesto storico e geografico
particolare, diventa l’espressione di una cultura che sa integrare al meglio il contributo di
tutti con un genere di ricerca che lo fa essere avanti nei tempi almeno nel metodo e al di
là dei risultati concreti nelle sue discipline. Qui traspare un metodo che deriva molto
dall’osservazione dei fenomeni e dai calcoli logici, senza per questo tradire la propria
cultura e la propria fede acquisita nell’educazione ricevuta.
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Nei suoi scritti medici Maimonide non cercava di esplorare nuove idee, bensì di interpretare opere
autorevoli già esistenti nel campo, in modo da renderle accettabili. Nelle sue interazioni coi pazienti,
dimostrava attributi che oggigiorno verrebbero chiamati consapevolezza interculturale e rispetto per
l'autonomia del paziente. Sebbene scrivesse frequentemente del suo desiderio di solitudine per potersi
avvicinare sempre di più a Dio e approfondire le sue riflessioni – elementi considerati essenziali per
un'esperienza profetica secondo la sua filosofia - dedicò quasi tutto il suo tempo alla cura degli altri. In
una famosa lettera, Maimonide descrive la sua routine quotidiana: dopo avere visitato il palazzo del
Sultano, arrivava a casa stanco e affamato, e trovava "anticamere piene di gentili ed ebrei ... allora li
visitavo e scrivevo ricette per curare le loro afflizioni ... fino a sera ... e diventavo estremamente
debole." Continua poi a scrivere in questa lettera che anche di Shabbat riceveva membri della
comunità. Appare rimarchevole che, nonostante tutto ciò, riuscisse anche a includere la composizione
di voluminosi trattati, non solo di medicina e altri studi scientifici, ma anche alcune delle opere più
influenti, profonde e sistematiche sull'Halakhah (legge rabbinica) e la filosofia ebraica mai scritte nel
Medioevo. È stato inoltre asserito che questo suo "incessante faticare" gli abbiano rovinato la salute e
causato una morte prematura a 69 anni. I suoi scritti rabbinici sono tuttora una fonte fondamentale e
"senza confronti" per gli ebrei religiosi contemporanei.
Gli ultimi anni della sua vita trascorsero in relativa pace, rispettato e onorato tanto nel mondo arabo in
qualità di filosofo, quanto nelle comunità europee della diaspora come medico e maestro. Morì il 13
dicembre del 1204, amato e compianto. Si crede che venisse per breve tempo sepolto nello studio presso
la corte della sinagoga, e che, poco dopo e secondo i suoi desideri, la salma fosse esumata e portata a
Tiberiade per una sepoltura definitiva. La Tomba di Maimonide sulla sponda occidentale del Mare di
Galilea a Israele segna la sua collocazione, a volte contestata dagli ebrei cairoti che tradizionalmente
affermano sia rimasto sepolto in Egitto. Maimonide è altamente rispettato in Spagna ed una sua statua
si trova a Cordova, presso l'unica sinagoga della città che non fu distrutta durante le persecuzioni;
sebbene non più utilizzata come luogo di culto ebraico, la sinagoga è aperta al pubblico.
Gli Ebrei nel Medioevo
Possiamo dire che almeno in questo angolo d’Europa gli Ebrei godettero di una certa
libertà di movimento, almeno fino alla Reconquista, alla fine del secolo XV.
Dobbiamo ricordare, come fa anche Calimani, pur con tanti distinguo, che nel cuore del
Medioevo spagnolo c’è la figura di S. Raimondo di Penafort, catalano, il quale sia da
generale dell’Ordine Domenicano, sia da superiore locale, si prodigò per una scuola di
arabo e di ebraico al fine di un dialogo più aperto e più rispettoso nei confronti di
maomettani e di israeliti, come il vero antidoto alle crociate e a quel genere di dispute che
spesso sorgevano, soprattutto nei confronti degli ebrei, con l’intento di dichiarare la
superiorità della religione cristiana al fine di convertire coloro che spesso venivano
trattati peggio degli eretici.
Raimondo di Penafort trasse … la conclusione che forse occorreva affinare gli strumenti per portare con più
efficacia gli ebrei sulla strada della conversione, e fondò una vera e propria scuola di studi ebraici ed
aramaici.
Ma va dato atto che anche altrove in Europa non mancarono momenti di relativa calma e
di una certa prosperità. La possibilità in concreto di esercitare l’usura, che era proibita
dai Papi e dalla Chiesa Cattolica, ma di fatto esercitata sia per sostenere singoli cittadini
nel bisogno che essi avevano di prestiti, sia per sostenere gli Stati e i Signori che avevano
bisogno di ingenti capitali per le guerre, consentiva agli Ebrei di coltivare quel sistema
bancario, quello cioè di fornire capitali e prestiti con relativo interesse.
Il sistema può funzionare in periodi prosperi; diventa invece ingestibile quando
l’impossibilità di far fronte alle restituzioni scatena le violenze che vanno a colpire non
solo gli usurai, ma un po’ in maniera indiscriminata, anche con le accuse più infamanti e
senza prova alcuna. Le autorità spesso non sanno neppure come fra fronte a simili
sommovimenti che in alcuni centri diventano veri e propri stermini di massa.
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Le difficoltà per gli Ebrei aumentano nei periodi peggiori, quelli contrassegnati da
problemi notevoli, come guerre e calamità, compresa la peste del 1348: qui vennero
accusati di essere degli untori, perché le loro stesse abluzioni rituali venivano ritenute
come forme di unzione per portare il male, che sembrava non toccare i luoghi in cui
abitavano gli Ebrei, proprio per il loro senso di igiene. I quartieri ebraici delle città
apparivano immuni da queste forme di contagio (anche se non era infrequente pure qui il
morbo)
I GHETTI EBRAICI
Potremmo dire che esistevano già nel Medioevo quei quartieri che poi saranno definiti
“ghetti”, sia perché gli Ebrei cercavano luoghi in cui coabitare, anche per sentirsi più
uniti e più a contatto, soprattutto nei luoghi di culto, sia per un soccorso vicendevole,
sia perché erano più facilmente riconoscibili, soprattutto in riferimento alle loro attività
economiche per le quali erano ricercati. In alcune località dovevano poi avere degli abiti
che li rendessero riconoscibili o dei segni o distintivi che permettessero di individuarli,
anche fuori del loro habitat quotidiano.
Potremmo dire che il sistema del ghetto, non certamente unico per l’Italia, sia però una
creazione, anche per il termine, tipico del nostro Paese.
Nella sua “Storia del ghetto di Venezia”, Riccardo Calimani parte dalla figura dell’ebreo
Shylock, inventato da Shakespeare come uno dei protagonisti del “Mercante di Venezia” e
divenuto un po’ il simbolo dell’uomo perseguitato perché ebreo e per ragioni di ordine
economico, mentre quelle di ordine religioso sono solo pretesto per poter meglio
giustificare gli attacchi e la condanna. Così si esprime Calimani:
In tali parole vibrano gli echi del destino dell’ebreo del Medioevo, perseguitato, deriso disprezzato, ma
anche blandito e cercato spesso per la sua insostituibile finzione economica di prestatore di denaro. Shylock,
personaggio immaginario, ma verosimile, di carne e di sangue, di odio e di vendetta, è straordinariamente
moderno: domanda l’uguaglianza nella diversità, sottolineando la sua identità, prima di tutto, di uomo. Le
sue parole sono un colpo di frusta.
Per quanto riguarda le origini del Ghetto, così come lo conosciamo, dobbiamo riferirci al
primo ghetto, definito con questa stessa parola, che è a Venezia e che compare definito
così in un documento del 1516, riportato nel libro di Calimani.
Il termine ghetto deriva dall'omonimo quartiere di Venezia del XIV secolo. Prima che venisse
designato come parte della città riservata agli ebrei, era una fonderia di ferro: il nome del quartiere
deriva dal veneziano “geto”, pronunziato “ghèto” dai locali ebrei Aschenaziti di origine tedesca,
inteso come getto, cioè la gettata (colata) di metallo fuso.
Dall'esempio del Ghetto di Venezia il nome venne trasferito ai vari quartieri ebraici. Vale la pena di
notare che il quartiere ebraico di Venezia (il Ghetto), era una parte ricca della città, abitata da
mercanti e prestatori di denaro. Ai non ebrei non era permesso di vivere nel Ghetto di Venezia e i
suoi cancelli venivano chiusi di notte. A differenza della vicina Mantova, dove più di 2.000 ebrei
venivano rinchiusi la sera nel ghetto, Vespasiano Gonzaga a Sabbioneta dette rifugio alla
popolazione di religione ebraica, non ghettizzandola.
Solo successivamente, dunque, ghetto andò a indicare un quartiere povero.
Nel 1555 Papa Paolo IV creò infatti il Ghetto di Roma ed emise la bolla "Cum nimis absurdum", che
forzava gli ebrei a vivere in un'area specifica e prevedeva una serie di restrizioni particolari, che
sarebbero poi state in vigore per secoli. Papa Pio V raccomandò che tutti gli stati confinanti
istituissero dei ghetti e, nel corso del XVI e XVIII secolo, tutte le città principali ne avevano uno (con
le uniche eccezioni, in Italia, di Livorno e Pisa).
Nell'Europa Centrale del medioevo i ghetti esistevano a Praga, Francoforte sul Meno, Magonza e
altrove. Non ci furono mai ghetti in Polonia, né in Lituania. (A Cracovia, in Polonia, il ghetto
medioevale, Kazimierz, era quasi una cittadina staccata da Cracovia, con sue proprie mura; solo con
l'espansione di Cracovia divenne un quartiere della città stessa).
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I ghetti vennero progressivamente aboliti e le loro mura furono demolite nel XIX secolo, seguendo
gli ideali della Rivoluzione Francese. Quello di Roma fu l'ultimo ghetto a venire abolito in Europa
Occidentale, nel 1870.
I ghetti ebraici
Le caratteristiche dei ghetti hanno subito molte variazioni con il passare del tempo. In alcuni casi, il
ghetto era un quartiere ebraico con una popolazione relativamente benestante (ad esempio il ghetto
ebraico di Venezia). In altri casi i ghetti connotavano impoverimento (ad esempio quello di Roma).
Gli ebrei non potevano acquisire terreni al di fuori del ghetto, e spesso nemmeno in quello.
Dovevano in ogni caso vivere confinati all'interno dei ghetti, quindi durante i periodi di crescita della
popolazione le case, spesso ormai piene, dovevano essere rialzate sempre di più. I ghetti avevano
quindi strade strette e case alte e affollate. Ma la cosa più terribile era che il recinto del ghetto
(proprio così veniva spesso chiamato) era chiuso da una o più porte. Queste venivano chiuse al calar
del sole, per essere riaperte solo all'alba. Durante le ore buie gli ebrei non potevano per nessuna
ragione allontanarsi dal ghetto. Spesso i residenti necessitavano di un visto per poter uscire dai limiti
del ghetto anche durante il giorno.
I residenti del ghetto avevano il loro sistema giudiziario indipendente, come se si trattasse di una
vera e propria piccola città nella città.
I ghetti nazisti
Il nazismo ripristinò il sistema dei ghetti come tappa temporanea finalizzata alla realizzazione della
«soluzione finale» in Europa orientale.
Durante la seconda guerra mondiale i ghetti servirono come contenitori in un forzoso processo di
concentramento della popolazione ebraica, che ne facilitava il controllo da parte dei nazisti.
Gli abitanti dei ghetti dell'Europa orientale, trasportati da varie regioni europee, privati di ogni
diritto, sottoalimentati e obbligati a lavorare per l'industria bellica tedesca nei lager, man mano che
perdevano la capacità lavorativa, venivano progressivamente deportati nei campi di sterminio
durante l'olocausto.
Ghetti in Italia
L'istituzione dei ghetti a partire del XVI secolo fu limitata al Centro-Nord d'Italia, poiché come
conseguenza dei decreti di espulsione non esistevano più all'epoca comunità ebraiche nel Meridione.
In alcune realtà locali gli ebrei furono capaci di ritardare (come in Piemonte) o evitare (come a
Livorno o a Pisa) l'istituzione del ghetto, o limitarne alcuni degli effetti restrittivi. Fu solo comunque
alla fine del Settecento, con la diffusione degli ideali della rivoluzione francese e l'occupazione
francese che i ghetti furono progressivamente aboliti. L'emancipazione degli ebrei promossa in
Piemonte fin dal 1848 dallo Statuto Albertino divenne legge del nuovo Stato italiano. L'ultimo ghetto
ad essere abolito fu quello di Roma nel 1870, all'indomani dell'annessione.
Molti dei ghetti furono abbandonati dalla popolazione ebraica e caddero in una situazione di
degrado e abbandono, altri rimasero il centro (non più coatto) della vita della comunità locale. A
cavallo tra Ottocento e Novecento molti dei ghetti furono interessati dall'opera di risanamento di cui
furono oggetto molti degli antichi centri storici delle città italiane. Alcuni ghetti furono totalmente
demoliti (Firenze), in altri casi largamente rimaneggiati con demolizioni e sventramenti (Roma,
Mantova). In altri casi il ghetto si è conservato pressoché integro (Venezia).
Oggi è in molti casi ancora possibile riconoscere l'area dei vecchi ghetti, il luogo dove erano collocate
le porte, le abitazioni con i loro cortili e passaggi interni, le sinagoghe che di regola dovevano essere
nascoste e prive di segni esteriori di riconoscimento. In anni recenti, i ghetti sono diventati una
attrazione turistica e sforzi sono stati compiuti da alcune amministrazioni locali per preservarne le
tracce rimaste e farne parte fruibile di itinerari turistici. La logica della preservazione della memoria
e della conservazione di ambienti anche non monumentali ma di interesse storico sta sostituendosi
alla politica dell'abbandono e dell'incuria che specie nei decenni successivi alla seconda guerra
mondiale ha causato perdite inestimabili al patrimonio storico, artistico e culturale italiano.
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La parola “ghetto” è oggi sinonimo di posto chiuso, isolato, da circoscrivere, perché chi vi
abita sia relegato, tenuto ai margini dal resto della società.
Esprime dunque una connotazione che va nella direzione opposta alla integrazione,
anche perché spesso quel luogo, quel rione, assume le caratteristiche di una specie di
città nella città. Se in origine si chiudevano le porte di notte, se era a volte necessario un
documento per entrarvi e soprattutto per uscirne, oggi non è più così; e tuttavia in esso
si possono trovare tutti gli ambienti adatti al vivere di persone che vogliono seguire la
religione ebraica e quindi non solo il tempio, cioè la sinagoga, ma anche negozi, scuole,
centri di aggregazione che di fatto sono accessibili ai soli ebrei.
Il fenomeno delle conversioni forzate
L’inserimento nella società civile di un ebreo a pieno titolo con gli altri, prima della
Rivoluzione francese e prima dello Statuto albertino in Italia, era possibile solo con la
conversione e spesso si assisteva a conversioni forzate, anche per sfuggire con le accuse
più infamanti a processi e a condanne terrificanti, a cui l’Inquisizione aggiunse pure i
suoi metodi.
IL MARRANESIMO
Il termine, derivato dallo spagnolo, appunto perché di lì proviene, ha un sapore
dispregiativo, perché è una forma di insulto con cui si dà del maiale ad una persona; e
probabilmente così erano chiamati coloro che divenuti cristiani da ebrei che erano
potevano ora mangiare la carne di maiale; anzi, molto spesso la cerimonia del loro
riconoscimento come cristiani, dopo il battesimo, era proprio data dal mangiare carne di
maiale, per dimostrare che la conversione era sincera. Costoro erano spesso invisi sia ai
loro correligionari, anche se qualcuno poi di nascosto tornava ai vecchi riti; ed erano
invisi ai cristiani proprio perché già una volta avevano dimostrato l’apostasia e proprio
per questo risultavano infidi.
I marrani (in spagnolo marranos, probabilmente dall'ebraico, marah, che significa "ribellarsi") erano
ebrei sefarditi (ebrei della Penisola iberica) che vennero costretti ad abbracciare la religione
cristiana, sia con la coercizione come conseguenza della persecuzione degli ebrei da parte
dell'inquisizione spagnola, sia per "libera" scelta, per una questione formale. Molti marrani
mantennero le loro tradizioni ancestrali, professandosi pubblicamente cattolici, ma restando in
privato fedeli al giudaismo.
I Marrani e i loro discendenti possono essere divisi in tre categorie.
Convertiti per opportunismo
La prima di queste era composta da coloro i quali, privi di qualsiasi vero attaccamento al giudaismo e
indifferenti a qualsiasi forma di religione, abbracciarono volentieri l'opportunità di cambiare la loro
condizione oppressa di ebrei, in vista delle brillanti carriere che si aprivano loro davanti grazie
all'accettazione del cristianesimo. Essi simulavano la fede cristiana, quando ciò tornava a loro
vantaggio, e deridevano gli ebrei e il giudaismo. Ci furono anche molti che, per mostrare il loro
nuovo zelo, perseguitarono i loro ex correligionari, scrivendo libri contro di loro e denunciando alle
autorità quelli che desideravano tornare alla fede dei loro padri, come avvenne frequentemente a
Valencia, Barcellona, e in molte altre città.
Convertiti solo esteriormente, per necessità
La seconda categoria consisteva di coloro, i quali conservarono come cosa preziosa l'amore per la
fede giudaica, nella quale erano cresciuti. Essi preservarono le tradizioni dei loro padri e, nonostante
le importanti posizioni che occupavano, frequentavano in segreto la sinagoga e combatterono e
soffrirono per la religione degli avi.
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Convertiti solo formalmente, per forza maggiore
La terza categoria, che era di gran lunga anche la più numerosa, comprendeva quelli che cedettero
alle circostanze, ma nella vita privata rimasero ebrei e colsero la prima opportunità di affermare
apertamente la loro vera fede. Essi non portarono volontariamente i loro figli al fonte battesimale; e,
se obbligati a fare ciò, al ritorno a casa lavavano il punto in cui era stata versata l'acqua del
battesimo. Non mangiavano carne di maiale, celebravano la Pasqua ebraica e portavano l'olio alla
sinagoga.
« Nella città di Siviglia un inquisitore disse al reggente: "Mio signore, se desidera sapere come i
Marrani rispettano il Sabbath, saliamo sulla torre." Quando raggiunsero la cima, il primo disse al
secondo: "Sollevi gli occhi e guardi. Quella casa è l'abitazione di un marrano; lì eccone una che
appartiene ad un altro; e là molte altre ancora. Non vedrà fumo uscire da alcuna di esse, nonostante
il freddo rigido; non hanno fuoco perché è il Sabbath." Pretendendo che il pane lievitato non gli
piaccia, un marrano ha mangiato pane non lievitato per tutto l'anno, allo scopo di essere in grado di
consumarlo durante la Pasqua ebraica senza destare sospetti. Nelle feste in cui gli ebrei suonano il
shofar, i marrani si recano fuori città e rimangono sui monti e nelle vallate, così che il suono non
raggiunga la città. Impiegano un uomo col compito di macellare gli animali, dissanguandoli, e
consegnargli la carne a casa, e un altro per eseguire in segreto la circoncisione. ».
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MARC CHAGALL
AUTORITRATTO
MARC CHAGALL
EVA
(GUACHE)
MARC CHAGALL
RESURREZIONE