Storia e cultura ebraica in Europa - Università della Terza Età
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Storia e cultura ebraica in Europa - Università della Terza Età
UTE di ERBA ANNO ACCADEMICO 2014-15 MARE NOSTRUM? LA DISPERSIONE ISRAELITICA IN EUROPA: GHETTI, INTEGRAZIONI, CONVERSIONI FORZATE La diaspora Quella che noi definiamo “diaspora”, una sorta di disseminazione all’intorno, si potrebbe dire che appartiene al DNA del popolo ebraico, che, secondo la sua stessa storia narrata nella Bibbia, è da sempre figlio di un padre “arameo errante” “… e tu pronuncerai queste parole davanti al Signore tuo Dio: Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa …” (Deuteronomio 26,5). La conquista e il possesso della cosiddetta “Terra Promessa” è un’opera che continua nel tempo, anche perché lo stesso padre Abramo non si stabilì in Palestina in maniera definitiva, visto che non aveva nessun possedimento, e che solo con la sepoltura di Sara si preoccupa di “acquistare” un pezzo di terra per deporne il cadavere e poi il suo accanto a lei. Questa maniera di prendere possesso della terra, quella dell’acquisto, più che della conquista, sembra essere stata la modalità conservata nei secoli, visto che anche nel recente rientro gli Ebrei hanno progressivamente acquistato dai Palestinesi quei possedimenti con i quali hanno poi realizzato lo Stato d’Israele. I contatti poi con i popoli locali, tenuto conto che questo fazzoletto di terra è il solo fertile di un vasto mondo desertico e per questo viene sempre conteso dai popoli che vi accedono, hanno determinato lo scontro che permane anche ai nostri giorni. Le sconfitte in presenza di popoli più agguerriti e soprattutto “imperialisti”, come gli Assiri e i Babilonesi, hanno comportato deportazioni e fughe in cerca di altre terre in cui vivere. La diaspora babilonese Se prendiamo, ad esempio in considerazione la prima diaspora traumatica, quella dell’esilio babilonese (586 a.C.), dobbiamo riconoscere che essa avvenne per la scelta del re babilonese di avere a Babilonia l’elite, il gruppo di coloro che potevano servire come artigiani, come fabbri, come lavoratori specializzati, che il profeta Geremia invita a restare in terra di esilio e a favorire i Babilonesi, per avere con essi fortuna e tranquillità (Geremia 29, 1-7). Solo con il secondo assedio e con la sconfitta di Sedecia ci fu la distruzione di Gerusalemme e la dispersione forzata di tanta gente, mentre coloro, come Geremia, che non si erano opposti ai Babilonesi vengono lasciati liberi; costoro si ritroveranno in Egitto. C’è dunque una dispersione forzata e c’è anche una dispersione che viene scelta da alcuni in cerca di un migliore tenore di vita. In Egitto nacque così la più consistente comunità israelitica fuori della Terra Promessa e proprio ad Alessandria si deve riconoscere che questa comunità non fu soltanto una presenza notevole sotto il profilo economico, ma anche per quanto riguarda l’aspetto culturale. Alessandria, fu, fin dalle origini, un centro culturale di prim’ordine soprattutto come espressione di quell’ellenismo che è la diffusione della cultura greca nel Mediterraneo e a questo fenomeno aderirono anche gli Ebrei. Nasce in questo periodo la traduzione greca detta dei 70, che rappresenta lo sforzo notevole di integrazione nel contesto culturale e il desiderio insieme di far conoscere una tradizione religiosa, come quella ebraica, perché nella conoscenza ci può essere un mutuo apporto di ricchezze. Nasce in questo contesto il libro della Sapienza, scritto in greco e non in ebraico, che è – si potrebbe dire – il frutto maturo di questo dialogo fra culture nel mondo della diaspora ebraica. 1 La diaspora dopo il 70 Il dramma della diaspora avviene però in occasione della distruzione di Gerusalemme nel 70 d.C. La distruzione della città comporta necessariamente che molti siano costretti dalle circostanze a fuggire e a cercare altrove fortuna, magari nella stessa capitale dell’impero, dove già era fiorente una comunità, che pure creava problemi con lo scontro nei confronti della nuova “setta” dei seguaci di un certo Cresto, come viene denominato da Svetonio. All’epoca di Claudio ( 49 d.C.) ci fu un editto che scacciava gli Ebrei da Roma proprio per ragioni di ordine pubblico: ne abbiamo una indiretta testimonianza negli Atti degli Apostoli (cap. 18), che parlano della coppia Aquila e Priscilla, arrivata a Corinto dove pure arriva contemporaneamente Paolo, e proveniente da Roma per questo motivo. Il lavoro abbandonato a Roma viene ripreso a Corinto ed è lo stesso genere di lavoro di Paolo, che si accasa lì. Il culmine della tragedia ebraica è però nel 135 d.C. con il decreto di Adriano che stabilisce l’impossibilità agli Ebrei di accasarsi in Palestina. Perciò gli Ebrei devono trovare posto altrove … La leggenda dell’ebreo errante Inizia così la “leggenda dell’ebreo errante”, come la definisce Riccardo Calimani nel suo libro “Storia dell’ebreo errante”, che raccoglie nel dettaglio e con documenti quanto è successo nel mondo europeo per la presenza degli Ebrei, sempre perseguitati e comunque sempre decisi a sopravvivere con le proprie tradizioni e la propria cultura. Secondo l’autore, l’ostilità che accompagna questa diaspora ebraica a partire dal 70 è legata ad una aperta rottura tra ebraismo e nascente comunità cristiana che ha il suo primo rappresentante in Paolo. Lo scontro aperto fra Gesù e i farisei descritto nel vangelo sarebbe opera degli stessi evangelisti dopo il 70, quando la tragedia di Gerusalemme spinge a prendere le distanze dal mondo ebraico nella sua rovina, per non finire nello stesso giudizio di condanna, come era stato con l’editto di Claudio nel 49. Di qui la dissociazione dei cristiani dall’Ebraismo e l’abbandono della stessa comunità cristiana di Gerusalemme, che era considerata la Chiesa madre. Secondo Calimani la responsabilità di una simile presa di distanza, che diventa anche ostilità, dovrebbe essere attribuita a Paolo, ma costui era già scomparso prima del 70. Ecco che cosa dice Calimani su Paolo, a conclusione del libro sull’apostolo: Da parte mia, come ebreo, più modestamente, dopo aver cercato di esporre con rigore le idee di Shaul Paolo prendo congedo. Senza particolare tenerezza. L’apostolo ha attraversato il ponte. Ormai siamo su sponde opposte e lontane. Gesù è stato un buon ebreo osservante, Sahul Paolo un ebreo trasgressore. Così si esprime Calimani a riguardo del distacco del mondo cristiano dal mondo ebraico fino a giungere al conflitto, che non sembrava possibile con la presenza della Chiesa di Gerusalemme, come chiesa madre: Si possono intuire così le grandi linee del processo di distacco tra Chiesa e Sinagoga. Gesù ebreo era in poco tempo diventato esclusivamente cristiano. Addirittura, paradosso nel paradosso, nel suo nome, in nome del suo pacifismo e del suo altissimo insegnamento etico, venivano gettate le basi, involontariamente, di un antiebraismo viscerale che si sarebbe più volte concretizzato in violenta repressione. Il segno del crocifisso diventò, per l’ebreo perseguitato, segno di violenza. Nel corso dei secoli i teologi cristiani dettero una giustificazione sofistica e teologica del rifiuto di Israele, trattando l’antico popolo della Bibbia come un vero e proprio anacronismo vivente da opprimere, ma anche da conservare come prova della perfidia, cioè della mancanza di fede: “Oremus et pro perfidis Judaeis”. Le parole sono pietre: perfidia non venne più letta alla latina (mancanza di fede in Cristo), ma, a poco a poco, con il suo significato traslato carico di connotazioni negative: perfidia come espressione di un animo indegno di fiducia. Su questo popolo cominciava a pesare il segno di una incomprensione storica. 2 Minoranza sopportata e perseguitata In tal modo il distacco dei cristiani dagli Ebrei si trasforma sempre più in incomprensione e questa poi in inimicizia, acuita con l’accusa di “deicidio”, che in tante occasioni e in molte regioni è accompagnata dalla convinzione di rituali cruenti in occasione della Pasqua cristiana che si voleva fosse dileggiata con il sacrificio di bambini. La condizione ebraica diventa più problematica quando il Cristianesimo viene tollerato con l’editto di Costantino, all’inizio del IV secolo, e poi dichiarato religione di Stato con l’editto di Teodosio, alla fine del IV secolo. Nelle sue considerazioni Calimani tende a mostrare che, un po’ ovunque in Europa, la condizione degli Ebrei è quella di una minoranza mal sopportata, che non trova se non raramente quel tipo di accoglienza che li rende integrati nel tessuto sociale e culturale dei Paesi europei. Se qualche sovrano e qualche città si avvalgono delle competenze specifiche degli Ebrei, o di coloro che, pur essendo Ebrei, hanno comunque abilità tecniche, in altri ambienti sorgono spesso delle diffidenze che poi sconfinano nella persecuzione e nella sommossa che fa stragi. Nella sua analisi storica, sempre documentata, prevale comunque una lettura che dà rilievo ai casi di persecuzione, ai testi, compresi quelli dei Padri della Chiesa, che accusano con veemenza gli Ebrei di deicidio, ai decreti governativi con cui gli Ebrei hanno a che fare per la vita quotidiana sempre più limitata e resa costantemente difficile per le proibizioni e le forme di ghettizzazione. Manca o è solo accennata la documentazione di approcci positivi tra i due mondi, che certamente appaiono più spesso contrapposti. Gli Ebrei di Spagna: I SEFARDITI Tra le comunità più ragguardevoli nel numero e soprattutto nella capacità di inserirsi bene nel contesto geografico è da segnalare quella spagnola, i cosiddetti SEFARDITI. Sefarad è il termine con cui si designa la Spagna e di fatto coloro che abitano nella penisola iberica e seguono la religione ebraica. Quando però furono costretti ad emigrare dalla Spagna, allora gli Ebrei si rivolsero nei territori arabi e di qui viene l’attribuzione di questo termine anche agli Ebrei che si trovano nel Maghreb e nella penisola arabica, soprattutto nello Yemen, da cui solo recentemente la gran parte è fuggita per riparare in Israele, in presenza delle minacce dei gruppi terroristici. Quella ebraica spagnola fu una comunità molto prospera e - dopo la dura parentesi visigotica - essa poté operare fruttuosamente per numerosi secoli grazie alle sostanzialmente favorevoli condizioni di vita garantite dai musulmani che conquistarono il paese iberico ai primi dell'VIII secolo. Era tale l'intesa fra ebrei e musulmani in al-Andalus da far parlare di "complicità" i cristiani che, sovente, accusarono gli ebrei di aver favorito la conquista islamica per odio nei confronti dei loro persecutori visigoti. Dopo la Reconquista iberica, conclusasi nel 1492, gli ebrei vengono espulsi, per opera dei Cattolicissimi Reali Isabella I di Castiglia e Ferdinando II di Aragona, dal neonato stato spagnolo e dai territori ad esso soggetti (quale la Sicilia), disperdendosi in Italia, nei Balcani, e in tutto il bacino del Mediterraneo, venendo accolti dalle comunità ebraiche ivi già residenti, in particolare nel Maghreb (in particolar modo Algeria e Marocco) e nell'Impero Ottomano, grazie alla politica tollerante attuata da governanti musulmani. Alcuni hanno fatto notare che i rabbini lanciarono un grave “cherem” alla Spagna, un anatema, secondo il quale dopo quattro secoli una terribile minaccia fratricida sarebbe gravata sugli spagnoli, e che dopo circa quattro secoli (in realtà 450 anni) la guerra civile spagnola con la dittatura franchista avrebbe rappresentato la realizzazione di tale maledizione. 3 Secondo Calimani, fu in Spagna che l’esperienza storica degli ebrei toccò i vertici culturali e sociali più alti. Con luci ed ombre, naturalmente. Gli insediamenti giudaici in quella terra (detta in ebraico Sefarad) si perdono nella notte dei tempi. Granada da tempo immemorabile era detta “città degli ebrei” e importanti centri ebraici erano a Tarragona, Cordoba, Saragozza e Tortosa. Esistevano famiglie nobili e antiche che, come gli Abranel, vantavano una discendenza diretta dalla stirpe di Davide. Altri dicevano di essere usciti da Israele prima della distruzione del Tempio, per non essere considerati corresponsabili della morte di Gesù e sfuggire così alle accuse di deicidio. Tra le personalità di rilievo del mondo ebraico in Spagna va ricordato MAIMONIDE MOSES BEN MAIMON è il più originale esponente del pensiero ebraico medioevale. Nato in Spagna nel 1135 durante la dominazione musulmana, studiò la Torah sotto la guida di suo padre Maimon e del rabbino Joseph ibn Migash. Nel 1148 Cordova venne conquistata dagli Almohadi che deposero i più tolleranti Almoravidi. Gli Almohadi, il cui oltranzismo li portò ad avviare contro gli ebrei e i cristiani una vera azione di persecuzione, sia in al-Andalus sia in Nordafrica, offrendo loro come unica alternativa alla morte la conversione all'Islam in completo spregio della tradizione che nei confronti della "Gente del Libro" (Ahl al-Kitāb) esige solo la sottomissione politica e il pagamento dell'imposta di "protezione" (jizya), erano una dinastia di berberi originaria del Marocco. Quando gli Almohadi furono a loro volta deposti, la Spagna islamica tornò ad essere tollerante verso i cristiani e gli ebrei. Nei dieci anni seguenti la sua famiglia si spostò nel sud della Spagna tentando di sfuggire la conquista almohade ma finì per fermarsi, nel 1160, a Fès in Marocco (anch'esso sotto il controllo almohade), dove riuscirono a farsi passare per musulmani, finché - anche a causa della crescente popolarità dell'ingegno di Moshe - non vennero scoperti. A Fès Maimonide studiò nell'università al-Qarawiyyin, proprio qui iniziò una approfondita conoscenza di Ippocrate e dei suoi insegnamenti in ambito medico, sempre a Fès studiò l'evoluta medicina islamica del tempo. Già attorno al 1158 iniziò la stesura di alcune opere: un trattato in ebraico sul calendario e un trattato in arabo di logica, probabilmente il suo unico scritto a carattere strettamente filosofico. Iniziò al contempo la creazione del Commento alla Mishna, trattazione giuridica dell'etica ebraica, che lo vedrà impegnato per buona parte della sua vita. A Fez scrisse anche una Risāla (Epistola) contro l'apostasia. Di fronte alla certezza di finire giustiziati come apostati, fuggirono dal Marocco per raggiungere, toccando Acri, Hebron, Gerusalemme, l'antica città del Cairo, al-Fustāt. In Egitto egli poté portare a compimento nel 1168 la prima versione del Mishneh Torah e, a seguito di numerosi eventi luttuosi che colpirono anche la sua famiglia, finire lo studio della medicina. Secondo la tradizione, è nel 1171 che assunse il ruolo di nagid (guida) della locale comunità ebraica. Negli stessi anni compose anche opere minori di carattere dottrinario e nel 1180 ca. concluse definitivamente il Mishneh, nella forma che possiede tutt'oggi, e dieci anni dopo “La guida dei perplessi”. L'ultimo ventennio di Maimonide si dimostrò essere il più fecondo dal punto di vista della produzione letteraria e nei successi della carriera: dimostrò il suo attaccamento alla professione medica compilando alcuni trattati in lingua araba su diversi argomenti, dall'igiene ai veleni, e diventando attorno al 1185 medico personale del visir al-Qādī al-Fāḍil al-Baysāmī, ministro per l'Egitto di Saladino (Ṣalāh al-Dīn). I suoi trattati divennero influenti per generazioni di medici. Conosceva la medicina greca e araba, e seguiva i principi della teoria umorale nella tradizione di Galeno, senza però accettare ciecamente autorità passate ma usando invece il proprio senso di osservazione e la propria vasta esperienza. Dai tratti biografici si evince che quest’uomo, vivendo in un contesto storico e geografico particolare, diventa l’espressione di una cultura che sa integrare al meglio il contributo di tutti con un genere di ricerca che lo fa essere avanti nei tempi almeno nel metodo e al di là dei risultati concreti nelle sue discipline. Qui traspare un metodo che deriva molto dall’osservazione dei fenomeni e dai calcoli logici, senza per questo tradire la propria cultura e la propria fede acquisita nell’educazione ricevuta. 4 Nei suoi scritti medici Maimonide non cercava di esplorare nuove idee, bensì di interpretare opere autorevoli già esistenti nel campo, in modo da renderle accettabili. Nelle sue interazioni coi pazienti, dimostrava attributi che oggigiorno verrebbero chiamati consapevolezza interculturale e rispetto per l'autonomia del paziente. Sebbene scrivesse frequentemente del suo desiderio di solitudine per potersi avvicinare sempre di più a Dio e approfondire le sue riflessioni – elementi considerati essenziali per un'esperienza profetica secondo la sua filosofia - dedicò quasi tutto il suo tempo alla cura degli altri. In una famosa lettera, Maimonide descrive la sua routine quotidiana: dopo avere visitato il palazzo del Sultano, arrivava a casa stanco e affamato, e trovava "anticamere piene di gentili ed ebrei ... allora li visitavo e scrivevo ricette per curare le loro afflizioni ... fino a sera ... e diventavo estremamente debole." Continua poi a scrivere in questa lettera che anche di Shabbat riceveva membri della comunità. Appare rimarchevole che, nonostante tutto ciò, riuscisse anche a includere la composizione di voluminosi trattati, non solo di medicina e altri studi scientifici, ma anche alcune delle opere più influenti, profonde e sistematiche sull'Halakhah (legge rabbinica) e la filosofia ebraica mai scritte nel Medioevo. È stato inoltre asserito che questo suo "incessante faticare" gli abbiano rovinato la salute e causato una morte prematura a 69 anni. I suoi scritti rabbinici sono tuttora una fonte fondamentale e "senza confronti" per gli ebrei religiosi contemporanei. Gli ultimi anni della sua vita trascorsero in relativa pace, rispettato e onorato tanto nel mondo arabo in qualità di filosofo, quanto nelle comunità europee della diaspora come medico e maestro. Morì il 13 dicembre del 1204, amato e compianto. Si crede che venisse per breve tempo sepolto nello studio presso la corte della sinagoga, e che, poco dopo e secondo i suoi desideri, la salma fosse esumata e portata a Tiberiade per una sepoltura definitiva. La Tomba di Maimonide sulla sponda occidentale del Mare di Galilea a Israele segna la sua collocazione, a volte contestata dagli ebrei cairoti che tradizionalmente affermano sia rimasto sepolto in Egitto. Maimonide è altamente rispettato in Spagna ed una sua statua si trova a Cordova, presso l'unica sinagoga della città che non fu distrutta durante le persecuzioni; sebbene non più utilizzata come luogo di culto ebraico, la sinagoga è aperta al pubblico. Gli Ebrei nel Medioevo Possiamo dire che almeno in questo angolo d’Europa gli Ebrei godettero di una certa libertà di movimento, almeno fino alla Reconquista, alla fine del secolo XV. Dobbiamo ricordare, come fa anche Calimani, pur con tanti distinguo, che nel cuore del Medioevo spagnolo c’è la figura di S. Raimondo di Penafort, catalano, il quale sia da generale dell’Ordine Domenicano, sia da superiore locale, si prodigò per una scuola di arabo e di ebraico al fine di un dialogo più aperto e più rispettoso nei confronti di maomettani e di israeliti, come il vero antidoto alle crociate e a quel genere di dispute che spesso sorgevano, soprattutto nei confronti degli ebrei, con l’intento di dichiarare la superiorità della religione cristiana al fine di convertire coloro che spesso venivano trattati peggio degli eretici. Raimondo di Penafort trasse … la conclusione che forse occorreva affinare gli strumenti per portare con più efficacia gli ebrei sulla strada della conversione, e fondò una vera e propria scuola di studi ebraici ed aramaici. Ma va dato atto che anche altrove in Europa non mancarono momenti di relativa calma e di una certa prosperità. La possibilità in concreto di esercitare l’usura, che era proibita dai Papi e dalla Chiesa Cattolica, ma di fatto esercitata sia per sostenere singoli cittadini nel bisogno che essi avevano di prestiti, sia per sostenere gli Stati e i Signori che avevano bisogno di ingenti capitali per le guerre, consentiva agli Ebrei di coltivare quel sistema bancario, quello cioè di fornire capitali e prestiti con relativo interesse. Il sistema può funzionare in periodi prosperi; diventa invece ingestibile quando l’impossibilità di far fronte alle restituzioni scatena le violenze che vanno a colpire non solo gli usurai, ma un po’ in maniera indiscriminata, anche con le accuse più infamanti e senza prova alcuna. Le autorità spesso non sanno neppure come fra fronte a simili sommovimenti che in alcuni centri diventano veri e propri stermini di massa. 5 Le difficoltà per gli Ebrei aumentano nei periodi peggiori, quelli contrassegnati da problemi notevoli, come guerre e calamità, compresa la peste del 1348: qui vennero accusati di essere degli untori, perché le loro stesse abluzioni rituali venivano ritenute come forme di unzione per portare il male, che sembrava non toccare i luoghi in cui abitavano gli Ebrei, proprio per il loro senso di igiene. I quartieri ebraici delle città apparivano immuni da queste forme di contagio (anche se non era infrequente pure qui il morbo) I GHETTI EBRAICI Potremmo dire che esistevano già nel Medioevo quei quartieri che poi saranno definiti “ghetti”, sia perché gli Ebrei cercavano luoghi in cui coabitare, anche per sentirsi più uniti e più a contatto, soprattutto nei luoghi di culto, sia per un soccorso vicendevole, sia perché erano più facilmente riconoscibili, soprattutto in riferimento alle loro attività economiche per le quali erano ricercati. In alcune località dovevano poi avere degli abiti che li rendessero riconoscibili o dei segni o distintivi che permettessero di individuarli, anche fuori del loro habitat quotidiano. Potremmo dire che il sistema del ghetto, non certamente unico per l’Italia, sia però una creazione, anche per il termine, tipico del nostro Paese. Nella sua “Storia del ghetto di Venezia”, Riccardo Calimani parte dalla figura dell’ebreo Shylock, inventato da Shakespeare come uno dei protagonisti del “Mercante di Venezia” e divenuto un po’ il simbolo dell’uomo perseguitato perché ebreo e per ragioni di ordine economico, mentre quelle di ordine religioso sono solo pretesto per poter meglio giustificare gli attacchi e la condanna. Così si esprime Calimani: In tali parole vibrano gli echi del destino dell’ebreo del Medioevo, perseguitato, deriso disprezzato, ma anche blandito e cercato spesso per la sua insostituibile finzione economica di prestatore di denaro. Shylock, personaggio immaginario, ma verosimile, di carne e di sangue, di odio e di vendetta, è straordinariamente moderno: domanda l’uguaglianza nella diversità, sottolineando la sua identità, prima di tutto, di uomo. Le sue parole sono un colpo di frusta. Per quanto riguarda le origini del Ghetto, così come lo conosciamo, dobbiamo riferirci al primo ghetto, definito con questa stessa parola, che è a Venezia e che compare definito così in un documento del 1516, riportato nel libro di Calimani. Il termine ghetto deriva dall'omonimo quartiere di Venezia del XIV secolo. Prima che venisse designato come parte della città riservata agli ebrei, era una fonderia di ferro: il nome del quartiere deriva dal veneziano “geto”, pronunziato “ghèto” dai locali ebrei Aschenaziti di origine tedesca, inteso come getto, cioè la gettata (colata) di metallo fuso. Dall'esempio del Ghetto di Venezia il nome venne trasferito ai vari quartieri ebraici. Vale la pena di notare che il quartiere ebraico di Venezia (il Ghetto), era una parte ricca della città, abitata da mercanti e prestatori di denaro. Ai non ebrei non era permesso di vivere nel Ghetto di Venezia e i suoi cancelli venivano chiusi di notte. A differenza della vicina Mantova, dove più di 2.000 ebrei venivano rinchiusi la sera nel ghetto, Vespasiano Gonzaga a Sabbioneta dette rifugio alla popolazione di religione ebraica, non ghettizzandola. Solo successivamente, dunque, ghetto andò a indicare un quartiere povero. Nel 1555 Papa Paolo IV creò infatti il Ghetto di Roma ed emise la bolla "Cum nimis absurdum", che forzava gli ebrei a vivere in un'area specifica e prevedeva una serie di restrizioni particolari, che sarebbero poi state in vigore per secoli. Papa Pio V raccomandò che tutti gli stati confinanti istituissero dei ghetti e, nel corso del XVI e XVIII secolo, tutte le città principali ne avevano uno (con le uniche eccezioni, in Italia, di Livorno e Pisa). Nell'Europa Centrale del medioevo i ghetti esistevano a Praga, Francoforte sul Meno, Magonza e altrove. Non ci furono mai ghetti in Polonia, né in Lituania. (A Cracovia, in Polonia, il ghetto medioevale, Kazimierz, era quasi una cittadina staccata da Cracovia, con sue proprie mura; solo con l'espansione di Cracovia divenne un quartiere della città stessa). 6 I ghetti vennero progressivamente aboliti e le loro mura furono demolite nel XIX secolo, seguendo gli ideali della Rivoluzione Francese. Quello di Roma fu l'ultimo ghetto a venire abolito in Europa Occidentale, nel 1870. I ghetti ebraici Le caratteristiche dei ghetti hanno subito molte variazioni con il passare del tempo. In alcuni casi, il ghetto era un quartiere ebraico con una popolazione relativamente benestante (ad esempio il ghetto ebraico di Venezia). In altri casi i ghetti connotavano impoverimento (ad esempio quello di Roma). Gli ebrei non potevano acquisire terreni al di fuori del ghetto, e spesso nemmeno in quello. Dovevano in ogni caso vivere confinati all'interno dei ghetti, quindi durante i periodi di crescita della popolazione le case, spesso ormai piene, dovevano essere rialzate sempre di più. I ghetti avevano quindi strade strette e case alte e affollate. Ma la cosa più terribile era che il recinto del ghetto (proprio così veniva spesso chiamato) era chiuso da una o più porte. Queste venivano chiuse al calar del sole, per essere riaperte solo all'alba. Durante le ore buie gli ebrei non potevano per nessuna ragione allontanarsi dal ghetto. Spesso i residenti necessitavano di un visto per poter uscire dai limiti del ghetto anche durante il giorno. I residenti del ghetto avevano il loro sistema giudiziario indipendente, come se si trattasse di una vera e propria piccola città nella città. I ghetti nazisti Il nazismo ripristinò il sistema dei ghetti come tappa temporanea finalizzata alla realizzazione della «soluzione finale» in Europa orientale. Durante la seconda guerra mondiale i ghetti servirono come contenitori in un forzoso processo di concentramento della popolazione ebraica, che ne facilitava il controllo da parte dei nazisti. Gli abitanti dei ghetti dell'Europa orientale, trasportati da varie regioni europee, privati di ogni diritto, sottoalimentati e obbligati a lavorare per l'industria bellica tedesca nei lager, man mano che perdevano la capacità lavorativa, venivano progressivamente deportati nei campi di sterminio durante l'olocausto. Ghetti in Italia L'istituzione dei ghetti a partire del XVI secolo fu limitata al Centro-Nord d'Italia, poiché come conseguenza dei decreti di espulsione non esistevano più all'epoca comunità ebraiche nel Meridione. In alcune realtà locali gli ebrei furono capaci di ritardare (come in Piemonte) o evitare (come a Livorno o a Pisa) l'istituzione del ghetto, o limitarne alcuni degli effetti restrittivi. Fu solo comunque alla fine del Settecento, con la diffusione degli ideali della rivoluzione francese e l'occupazione francese che i ghetti furono progressivamente aboliti. L'emancipazione degli ebrei promossa in Piemonte fin dal 1848 dallo Statuto Albertino divenne legge del nuovo Stato italiano. L'ultimo ghetto ad essere abolito fu quello di Roma nel 1870, all'indomani dell'annessione. Molti dei ghetti furono abbandonati dalla popolazione ebraica e caddero in una situazione di degrado e abbandono, altri rimasero il centro (non più coatto) della vita della comunità locale. A cavallo tra Ottocento e Novecento molti dei ghetti furono interessati dall'opera di risanamento di cui furono oggetto molti degli antichi centri storici delle città italiane. Alcuni ghetti furono totalmente demoliti (Firenze), in altri casi largamente rimaneggiati con demolizioni e sventramenti (Roma, Mantova). In altri casi il ghetto si è conservato pressoché integro (Venezia). Oggi è in molti casi ancora possibile riconoscere l'area dei vecchi ghetti, il luogo dove erano collocate le porte, le abitazioni con i loro cortili e passaggi interni, le sinagoghe che di regola dovevano essere nascoste e prive di segni esteriori di riconoscimento. In anni recenti, i ghetti sono diventati una attrazione turistica e sforzi sono stati compiuti da alcune amministrazioni locali per preservarne le tracce rimaste e farne parte fruibile di itinerari turistici. La logica della preservazione della memoria e della conservazione di ambienti anche non monumentali ma di interesse storico sta sostituendosi alla politica dell'abbandono e dell'incuria che specie nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale ha causato perdite inestimabili al patrimonio storico, artistico e culturale italiano. 7 La parola “ghetto” è oggi sinonimo di posto chiuso, isolato, da circoscrivere, perché chi vi abita sia relegato, tenuto ai margini dal resto della società. Esprime dunque una connotazione che va nella direzione opposta alla integrazione, anche perché spesso quel luogo, quel rione, assume le caratteristiche di una specie di città nella città. Se in origine si chiudevano le porte di notte, se era a volte necessario un documento per entrarvi e soprattutto per uscirne, oggi non è più così; e tuttavia in esso si possono trovare tutti gli ambienti adatti al vivere di persone che vogliono seguire la religione ebraica e quindi non solo il tempio, cioè la sinagoga, ma anche negozi, scuole, centri di aggregazione che di fatto sono accessibili ai soli ebrei. Il fenomeno delle conversioni forzate L’inserimento nella società civile di un ebreo a pieno titolo con gli altri, prima della Rivoluzione francese e prima dello Statuto albertino in Italia, era possibile solo con la conversione e spesso si assisteva a conversioni forzate, anche per sfuggire con le accuse più infamanti a processi e a condanne terrificanti, a cui l’Inquisizione aggiunse pure i suoi metodi. IL MARRANESIMO Il termine, derivato dallo spagnolo, appunto perché di lì proviene, ha un sapore dispregiativo, perché è una forma di insulto con cui si dà del maiale ad una persona; e probabilmente così erano chiamati coloro che divenuti cristiani da ebrei che erano potevano ora mangiare la carne di maiale; anzi, molto spesso la cerimonia del loro riconoscimento come cristiani, dopo il battesimo, era proprio data dal mangiare carne di maiale, per dimostrare che la conversione era sincera. Costoro erano spesso invisi sia ai loro correligionari, anche se qualcuno poi di nascosto tornava ai vecchi riti; ed erano invisi ai cristiani proprio perché già una volta avevano dimostrato l’apostasia e proprio per questo risultavano infidi. I marrani (in spagnolo marranos, probabilmente dall'ebraico, marah, che significa "ribellarsi") erano ebrei sefarditi (ebrei della Penisola iberica) che vennero costretti ad abbracciare la religione cristiana, sia con la coercizione come conseguenza della persecuzione degli ebrei da parte dell'inquisizione spagnola, sia per "libera" scelta, per una questione formale. Molti marrani mantennero le loro tradizioni ancestrali, professandosi pubblicamente cattolici, ma restando in privato fedeli al giudaismo. I Marrani e i loro discendenti possono essere divisi in tre categorie. Convertiti per opportunismo La prima di queste era composta da coloro i quali, privi di qualsiasi vero attaccamento al giudaismo e indifferenti a qualsiasi forma di religione, abbracciarono volentieri l'opportunità di cambiare la loro condizione oppressa di ebrei, in vista delle brillanti carriere che si aprivano loro davanti grazie all'accettazione del cristianesimo. Essi simulavano la fede cristiana, quando ciò tornava a loro vantaggio, e deridevano gli ebrei e il giudaismo. Ci furono anche molti che, per mostrare il loro nuovo zelo, perseguitarono i loro ex correligionari, scrivendo libri contro di loro e denunciando alle autorità quelli che desideravano tornare alla fede dei loro padri, come avvenne frequentemente a Valencia, Barcellona, e in molte altre città. Convertiti solo esteriormente, per necessità La seconda categoria consisteva di coloro, i quali conservarono come cosa preziosa l'amore per la fede giudaica, nella quale erano cresciuti. Essi preservarono le tradizioni dei loro padri e, nonostante le importanti posizioni che occupavano, frequentavano in segreto la sinagoga e combatterono e soffrirono per la religione degli avi. 8 Convertiti solo formalmente, per forza maggiore La terza categoria, che era di gran lunga anche la più numerosa, comprendeva quelli che cedettero alle circostanze, ma nella vita privata rimasero ebrei e colsero la prima opportunità di affermare apertamente la loro vera fede. Essi non portarono volontariamente i loro figli al fonte battesimale; e, se obbligati a fare ciò, al ritorno a casa lavavano il punto in cui era stata versata l'acqua del battesimo. Non mangiavano carne di maiale, celebravano la Pasqua ebraica e portavano l'olio alla sinagoga. « Nella città di Siviglia un inquisitore disse al reggente: "Mio signore, se desidera sapere come i Marrani rispettano il Sabbath, saliamo sulla torre." Quando raggiunsero la cima, il primo disse al secondo: "Sollevi gli occhi e guardi. Quella casa è l'abitazione di un marrano; lì eccone una che appartiene ad un altro; e là molte altre ancora. Non vedrà fumo uscire da alcuna di esse, nonostante il freddo rigido; non hanno fuoco perché è il Sabbath." Pretendendo che il pane lievitato non gli piaccia, un marrano ha mangiato pane non lievitato per tutto l'anno, allo scopo di essere in grado di consumarlo durante la Pasqua ebraica senza destare sospetti. Nelle feste in cui gli ebrei suonano il shofar, i marrani si recano fuori città e rimangono sui monti e nelle vallate, così che il suono non raggiunga la città. Impiegano un uomo col compito di macellare gli animali, dissanguandoli, e consegnargli la carne a casa, e un altro per eseguire in segreto la circoncisione. ». 9 MARC CHAGALL AUTORITRATTO MARC CHAGALL EVA (GUACHE) MARC CHAGALL RESURREZIONE