LibertàEdizioni

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Fabrizia Orisia Scipioni
LE COSE DI LIA
ROMAZO
LibertàEdizioni
A mia mamma Angela e a mio papà Edmondo
Ringraziamenti:
Armando, per avermi fatto da revisore
Teresa e Stefano, per essere state le prime persone
a credere che io potessi diventare un’autrice di romanzi
Tutti quelli che sono saliti in un modo o nell’altro
sul treno della mia vita
LE COSE DI LIA
Nota dell’autrice.
So bene che quello che sto scrivendo in questo momento
non è “per tutti”. Ogni persona ha la sua storia, la sua
strada e le proprie convinzioni. Mi sento ugualmente di
farlo, con la consapevolezza che queste mie righe potrebbero giocarmi la credibilità di chi è scettico su certi
argomenti.
Questo mio romanzo è ambientato a Sète. %on c’ero
mai stata prima dell’estate 2004, e il manoscritto consegnato risale al 2003.
Tornando da Madrid, mio marito mi ha regalato una
breve vacanza di due giorni nel luogo descritto in Le
cose di Lia. Sapevo della famosa spiaggia lunghissima e
che Paul Valery era nato lì, solo questo.
Entrando a Sète, ho subito pensato che avrei riscontrato
le incongruenze tra i miei racconti e la realtà del luogo.
Mi sono data conforto ricordandomi che, in fondo il mio
era un romanzo di fantasia.
Dopo avere scartato diversi alberghi ci siamo fermati a
l’Orque Bleue, tutto senza un motivo apparente.
Solo nel tardo pomeriggio, dopo avere riposato, ho
chiesto in reception se Rue Paul Valery fosse lontana.
Mi sarebbe piaciuto vederla, ma il tempo a nostra disposizione era poco, non volevamo usare l’auto.
Rue Paul Valery era la via di fronte, oltre il canale,
raggiungibile a piedi, in due minuti.
La palazzina in Paul Valery 3 corrisponde a quella descritta nel mio romanzo, è a due piani, c’è la pasticceria
sotto casa dove Lia correva a comprare le paste per
Pierre, è reale la possibilità di vedere dal canale il fumo uscire dalla finestra.
Mentre il giorno dopo, stavamo lasciando Sète, ci siamo
accorti di essere rimasti senza sigarette. Il tabaccaio un
po’ nascosto, era situato all’interno di un bel ristorante
che si chiamava Le Menestrel.
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Sapevo che Le Menestrel era un ristorante francese rinomato, ho scelto questo tra tanti perché il nome mi riportava all’amore, al piacere del raccontare.. %on mi
aspettavo che a Sète ce ne fosse uno, tant’è che nel romanzo lo cito in altra città.
In quei due giorni le combinazioni sono state molte e
andavano tutte a confermare che io Sète la conoscevo.
La basilica dedicata a Saint. Pierre, il molo che porta il
nome dell’amico che mi ha seguito nella stesura, la finestra sulla strada, la pasticceria, la distanza tra
l’abitazione e il canale. I mille gabbiani.
Sarà dunque un caso?
%on amo farmi domande le cui risposte mi superano.
È stato inevitabile pensare, ancora una volta, che se
l’uomo avesse impegnato nella ricerca sullo spirito, le
stesse forze che ha messo nello studio di tecnica e materia, chissà…forse vivremmo meglio, con più risposte sul
perché delle nostre vite.
TA%TI BACI AI %OSTRI A%GELI, CELESTI E TERRE%I, A QUELLI DALLE GRA%DI ALI E A QUELLI
CO% ALI TARPATE, CHE I% FO%DO TARPATE %O%
SO%O MAI.
Il bacio più grande però, lo mettiamo, delicatamente,
sulle ali di un cherubino, che lo porterà nell’isola dei
bambini. Dovete sapere, che loro, di tanto in tanto, volgono il capino a noi per vedere se tutto è a posto, e
quando ci vedono preoccupati sospirano e ricominciano
a giocare.
E i gabbiani continuano a volare.
Buona lettura,
Fabrizia.
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LE COSE DI LIA
Attraverso questa storia che intreccia romanzo e verità,
l’autrice mette a disposizione dei lettori quello che pensa di avere imparato vivendo.
“C’è qualcosa d’immenso e misterioso dentro ognuno di
noi che sempre ci riconduce al primordiale e alla nostra
autentica natura”.
La quotidianità spesso riesce a disorientare impedendo
il fluire libero delle nostre verità: prendono piede supposizioni, congetture, incatenamenti.
Guardando con occhio analitico i personaggi principali,
si può riscontrare che in realtà sono le medaglie e il loro
rovescio unite nelle stesse anime.
Un romanzo che cerca d’essere come la musica; un linguaggio di emozioni che agiscono direttamente sulla
mente e sul corpo evocando affetti, sensazioni, sentimenti, ed eludendo il controllo della coscienza.
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Lia aveva lavorato per una vita come biologa per il laboratorio dell’università marina di Montepellier.
Era dolce e raffinata, ingenua, intelligente e indulgente.
Sembrava a volte e a chi la conosceva, una marziana in
un mondo proteso alla furbizia e all’arrivismo. Era bello
stare con lei per la serenità che infondeva.
Abitava a Sète che è a pochi chilometri da Montpellier.
Trascorreva il tempo libero preferibilmente in solitudine. Anche durante la stagione fredda non rinunciava alle
camminate lungo il mare.
Quando Lia ricevette l’incarico all’università, si trasferì
con molto piacere. Erano passati molti anni da allora.
La casa in affitto era stata sempre la stessa, vicino alla
spiaggia, sul cordone litoraneo che separa lo stagno di
Thau dal Mar Mediterraneo. Era una bella abitazione
all’interno di un’antica palazzina a due piani. Dal balcone si vedeva il canal Royal. Séte era una Venezia mi11
niata. L’appartamento era accogliente e di sapore vagamente orientale, tappeti indiani e piante ovunque, persino in bagno. All’ingresso c’era un acquario con pesci e
vegetazione tropicale e la stampa di un dipinto di Paul
Klee. In ogni stanza le pareti erano di colore diverso,
seguendo una sequenza armonica, segno del buon gusto
che Lia metteva anche nella cura dei dettagli. Appesi ai
muri, batik, ricordi di viaggio e serigrafie d’autore. In
sala un grande poster, nel quale una bambina dagli occhi
blu rideva allegramente. Lo studio profumava di fiori,
che nel vaso sull’antico scrittoio, non mancavano mai.
La casa di Lia ispirava pace e benessere.
Abitualmente staccava il telefono di casa lasciando attivo il servizio di segreteria. Non amava essere distolta
dai suoi momenti di riflessione, né interrotta quando era
impegnata in qualche cosa.
Era schiva fin da bambina, ma stava bene coi suoi fratelli e giocava volentieri con Marianne, la sua unica amica…
Lia era la maggiore di tre figli. Amava molto i suoi fratelli, Corinne e Jean.
Per natura ed educazione ricevuta, era una persona che
rispettava chiunque, poi valutava dentro sé e assegnava
valori secondo i suoi parametri personali. Tutti erano
importanti, ma oltre alla famiglia, a Marianne e a Pierre,
nessuno lo era abbastanza da meritare troppa considerazione. Non imponeva le sue opinioni, a volte nemmeno
le diceva, ma alla stessa stregua non era condizionabile
da quelle altrui. Pensava che fosse importante lanciare
un suggerimento se pareva buono, ma senza insistere,
giusto “un buttare lì”, poi la conclusione se prenderlo o
lasciarlo spettava all’idea che scaturiva dal cervello di
ognuno. Accadde una volta che una collega si sfogò in
laboratorio riguardo la sua sofferta storia d’amore. Stava
rileggendo ad alta voce un messaggio sul display
dell’aggeggio infernale. Una seconda collega le afferrò
il cellulare dalle mani e si arrogò il diritto di cancellare
sia il testo sia il numero del fidanzato dalla rubrica, dicendo: “Guai a te se lo risenti”. Lia spalancò occhi e
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bocca, incredula di tanta confidenza inopportuna; mai e
poi mai si sarebbe permessa e nessuno avrebbe osato
farlo con lei. Vide immediatamente le due colleghe sotto una luce diversa. Pensò che il rispetto dovesse venire
prima di tutto, anche se si crede che l’altra persona stia
sbagliando. Come si può violare tanto facilmente gli
spazi di chi abbiamo vicino? Non disse nulla. Si dedicò
con attenzione all’analisi batteriologica del campione
d’acqua di mare nella beuta che aveva davanti, prese la
pipetta, aspirò, controllò i “cc” e soffiò il liquido nella
provetta.
Andò a prendere i reagenti.
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La spiaggia si era finalmente liberata. L’appuntamento coi
gabbiani sempre intorno alle sei, a quell’ora l’acqua del mare
si sollevava dall’impegno di dedicarsi ai bagnanti. L’aria finalmente non incontrava tanti ostacoli sul suo percorso. Le
passeggiate al tramonto sul bagnasciuga del litorale di Sète la
rilassavano. Riusciva in quei momenti a mettersi in modo
compiuto in contatto con sé stessa, con la sua parte incontaminata. Era l’ora dei podisti estivi che corrono sulla battigia
per chilometri. Lia preferiva camminare lentamente, guardandosi intorno; lasciare le impronte sulla sabbia e vedere con
quanta determinazione l’onda riusciva a cancellarle.
S’innescava così la sfida tra i suoi piedi, la sabbia e il mare:
quando un’onda non la spuntava, quella successiva assolveva
il compito giocoso con successo, lasciando la rena liscia e lucida senza alcuna prova e indizio del suo passaggio.
Verso la fine della passeggiata, il rito prevedeva la chiacchierata coi gabbiani, cosicché oltre alla sceneggiatura naturalmente armoniosa di suo, si creava la colonna sonora di cui lei
si fingeva l’esperto maestro d’orchestra: le onde, il tonfo intermittente sulla sabbia bagnata delle scarpe da ginnastica dei
podisti, il gridolino dei gabbiani e gli schiaffi che lei stessa
dava all’acqua con gambe e piedi mentre camminava nel mare
tenendosi il vestito per non bagnarlo.
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Si fermava sempre a guardare un pino marittimo, ogni volta
scoprendone un nuovo dettaglio; non poteva fare a meno di
paragonarlo alla vita dell’uomo: non sarebbe esistito quel
grande albero se non avesse avuto le radici immerse nel terreno, che si inoltravano nel buio schivando pietre e subendo la
compagnia dei vermi, ma anche d’insetti che eliminavano i
parassiti. La grande pianta si nutriva di tutto ciò di cui aveva
bisogno in quel momento, e anche la terra glielo forniva. Aveva preso tanto dalla luce quanto dal buio. La natura aveva dato
alle piante la capacità di discernere? Nemmeno a loro. Potevano ammalarsi e morire per uno stupidissimo attacco da parte
di un insettino invisibile.
Erano passati molti anni dall’incontro con Pierre.
Ai tempi era il professore di latino che dava ripetizioni a suo
fratello Jean.
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Con Pierre, Lia parlava di tutto, ma più frequentemente
di culture, popoli e terre lontane.
In realtà il professore non aveva viaggiato molto nei
suoi quarant’anni, ma era riuscito a sopperire con interessanti vagabondaggi tra le pagine di volumi ricercati
nelle biblioteche e in libreria.
La moglie era titolare della libreria più antica di Nimes,
una donna sobria, intelligente e affascinante. Lui insegnava latino in una prestigiosa scuola privata e il pomeriggio impartiva ripetizioni nel suo studio della città
vecchia, alle spalle della cattedrale di St. Castor. Non lo
faceva per il bisogno di arrotondare lo stipendio, tantoché ai ragazzi provenienti da famiglie indigenti chiedeva un pagamento minimo per non umiliarli con prestazioni gratuite. Il latino e l’insegnamento erano le sue
passioni.
Lia abitava nella stessa città ma dalla parte opposta, in
Rue Florian.
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L’amore vero non è l’innamoramento, è un’altra cosa,
quella che continua oltre quei giorni in cui tutto ti pare
più luminoso, facile e bello.
Cominciò ad amare Pierre la prima volta che lo vide.
Era rimasta incantata dai modi eleganti, dal fisico asciutto e dai bei lineamenti. La personalità forte di
quest’uomo, così attento e appassionato, riusciva a farla
felice ogni volta che lo vedeva. Non era certamente un
donnaiolo, troppo lucido e misurato, ma era inevitabile
per un tipo così suscitare interesse.
La sua aria dava l’impressione fin dalla prima occhiata
di una persona appagata e felice. Ciò nonostante Lia non
lo lasciava indifferente.
Un giorno che aveva nevicato, lei si presentò in studio
da sola, con la scusa di riscaldarsi un po’.
La guardò mentre entrava, era bellissima, aveva le
guance rosse per il freddo, i capelli raccolti nel bavero
del giaccone, si limitò a darle una carezza affettuosa sulla testa.
L’incontro settimanale si protrasse per l’intera durata
della scuola. Era il secondo anno consecutivo che Lia
accompagnava suo fratello a lezione da lui e nell’attesa,
anziché andare a fare una passeggiata per le vie del centro, preferiva restare nella sala d’attesa ad ascoltare.
Al termine dell’anno scolastico, Lia e il professore salutandosi si ripromisero di passare insieme qualche ora
andando a pranzo a “Le Menestril” lo splendido palazzo
antico, un classico per la borghesia francese d’ogni
tempo. Effettivamente, pensò Lia allontanandosi, Pierre
aveva tratti aristocratici, un po’ snob. Era interessata a
quel pranzo, sia per assaggiare la famosa cassoulet tolosana del “Le Menestril” sia per stare con lui.
L’invito non ebbe seguito.
Meglio, pensò lei quando non lo risentì più. Meno male,
si disse in cuore lui.
L’amore giovane è ardito, c’è tempo per rifarsi. Alla soglia dei quarant’anni invece, richiede un coraggio notevole e tanta consapevolezza, salvo che non si voglia ri15
schiare di mandare a monte quello che si è costruito fino
a quel momento.
Purtroppo o per fortuna, non c’è niente di più testardo di
un destino che ha già deciso, e l’amore è il suo più stretto collaboratore. Il vero amore è un’entità solitaria e rara, viaggia da solo ed è incorruttibile. Arriva vestito da
spettro. Lo vedi svegliandoti di soprassalto una notte e
tremi come una foglia. T’infili sotto le coperte anche
con la testa, speri che non ti veda o che quantomeno non
ti riconosca.
I fili della tua inquietudine percepiscono che non se
n’andrà ed è allora che preghi perché almeno non ti faccia troppo male.
Lui scorge la tua sagoma, tasta tra le lenzuola, senti che
ha ossa calde e non gelide come ti aspettavi. Quando ha
verificato che sei proprio tu, ti scopre con determinazione e prende la tua mano.
Sei costretto a seguirlo nella foresta incantata, speri in
un suo momento di distrazione per scappare, ma
l’amore non si distrae. Allora cerchi di stare tranquillo,
fai appello a tutta la tua razionalità e intelligenza per
riuscire ad ingannarlo, ma l’amore non è ingannabile.
Con voce sinistra, comincia il suo canto atavico, un’ode
che in quel momento solo tu sentirai.
Non aveva più incontrato il professore, nemmeno per
caso. Era rimasta delusa perché non si era neppure interessato all’esito degli scrutini di Jean.
Comprando dei biglietti di una lotteria, aveva vinto un
viaggio per due persone a Londra da farsi a fine luglio.
Invitò sua sorella che accettò felicissima.
Pierre non era mai stato nella capitale del Regno Unito e
desiderava da sempre visitarla, la moglie approfittò di
un viaggio organizzato da alcuni amici per regalargli
una settimana in Inghilterra, lei sarebbe rimasta a Nimes, il lavoro la impegnava.
Lia non riusciva a credere ai suoi occhi quando lo riconobbe all’imbarco
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― Pierre, ma che ci fai qui? Anche tu vai a Londra?
Si salutarono con l’entusiasmo di vecchi amici che da
qualche tempo non si vedono e s’incontrano per pura
casualità.
Presentarono vicendevolmente i loro compagni di
viaggio.
Le ragazze furono invitate quasi subito ad unirsi al goliardico gruppo.
― No grazie, abbiamo l’albergo prenotato! ― disse Lia
contenta che fosse così.
― Era presumibile. Possiamo stare insieme durante il
giorno. ― rinnovò la proposta Alain, subito ripreso da
Pierre
― Non insistere, lascia che facciano come preferiscono,
avranno un programma loro.
L’impressione che ebbe Lia fu quella che volesse tutelarsi o forse semplicemente non aveva piacere di stare
con loro.
Entrambi intuivano l’angosciosa presenza dello spettro
arrivato a prenderli.
― Dai Lia! Io preferirei stare in compagnia. Potremmo
dormire in albergo e la mattina trovarci con loro.
L’obiettivo è per tutti visitare Londra. Che ti cambia?
L’inquieta sorellina aveva puntato il figlio d’Alain e
Anne.
Continuare nel rifiuto sarebbe diventato scortese. Cercò
nella sacca il depliant dell’albergo. Alain copiò
l’indirizzo e il numero di telefono.
― Ok. Allora stasera chiamo verso le otto e ci mettiamo
d’accordo.
Riconsegnò l’opuscolo.
Pierre era silenzioso e preoccupato, Lia sentiva il sangue scorrere e darle un gran calore, ma s’imponeva di
riprendere le redini di sé stessa, cacciando le emozioni
che provava.
L’hostess invitò i passeggeri del volo BA 735 per Londra a salire a bordo.
Arrivarono a destinazione.
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Nessuno poteva percepire il turbamento di Pierre e Lia,
tranne lo spettro invisibile che era da tredici mesi a
Londra su incarico del destino. Davanti al Big Ben
camminava avanti e indietro, era certo che sarebbero arrivati, ma non sapeva quando.
La campana del palazzo di Westminster suonò le ventidue, lo spettro impaziente li vide arrivare da lontano.
Andò loro incontro con gran baldanza; in quel momento, entrambi sentirono la raccapricciante presenza. Di riflesso si scontrarono l’un l’altro mentre guardavano attorno. Egli imperante prese le loro mani e li portò
attoniti con sé. Erano ormai dentro la foresta incantata.
In quello stesso attimo lei sentì dei forti brividi di freddo
e Pierre una farragine di pensieri cui non era abituato.
Cercarono di prendere distanza da una situazione imbarazzante.
Cenarono sul tardi in un locale nel cuore della city, dove
volendo era possibile trasferirsi nella sala da ballo al
piano superiore.
Lia a tavola fu richiamata più volte in tono scherzoso
dalla sorella che la vedeva assente.
― Sono solo un po’ stanca.
Anche Pierre dal canto suo cercava il controllo che gli
era proprio e gli sembrava di essere riuscito nell’intento,
ciò nonostante il suo sguardo andava a posarsi spesso
sulla giovane amica.
Evitarono per tutta la sera ogni contatto che non fosse
necessario.
I ragazzi vollero andare a ballare, e gli adulti non disdegnarono la possibilità.
Alain invitò Lia a ballare un lento, la moglie fece la
solita battuta ironica:
― Mi raccomando!
Pierre provò quella che dentro sé definì un’assurda gelosia e reagì evitando di guardare. Prese a parlare con
gli altri amici sorseggiando il Cognac e giocherellando
col ghiaccio, facendolo girare nel bicchiere.
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Il suo amico era un uomo con un passato allegro ed era
rimasto divertente, ma certamente fedele. Guardò Anne,
la moglie d’Alain, per rassicurarsi.
Vide finalmente i due amici smettere di ballare e dirigersi verso di lui.
― Ora tocca te. ― disse Alain sorridente, senza immaginare minimamente nulla. Con modi cavallereschi consegnò la dama all’amico.
Le note di “Hei Jude” la vedevano ondeggiare con grazia. Le grandi mani di Pierre sembravano incastrarsi
perfettamente ai bei fianchi di lei, era come se Dio ci
avesse messo tutta l’attenzione possibile.
― Mi hai pensata qualche volta?
― Qualche volta.
― Cosa pensavi?
― Che non ti avrei probabilmente più vista.
― Come stai?
― Bene.
La musica, la lontananza da casa, l’atmosfera, quel corpo che si muoveva lentamente e il vestito di seta a fiori,
le luci basse.
Intorno a loro niente e nessuno esisteva più.
Lo spettro soddisfatto, appoggiato alla colonna li guardava con le braccia conserte e i piedi incrociati.
Ad Alain cadde lo sguardo sul suo amico, ebbe una
strana sensazione di paura, ma di che? Scosse la testa
per scrollare via quel pensiero.
Finita la canzone tornarono al tavolo, si era fatto molto
tardi. Corinne, la portò di botto nella realtà togliendola
da quella sorta di torpore degli innamorati
― Anne mi ha chiesto se dormo da loro. Hanno un letto
vuoto. Ti spiace?
― Ma Corinne, non sei proprio mai contenta.
― Ti prego Lia!
Anne intervenne.
― Stai tranquilla, siamo brava gente, lasciala. Alain e
Pierre potrebbero accompagnarti.
Guardarono Alain che dormiva sulla poltroncina.
La donna rise.
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― Rettifico, Pierre potrebbe accompagnarti.
L’imbarazzo dell’uomo fu tanto.
S’incamminarono. Non era lontano e per arrivarci si doveva passare in una vietta buia e deserta. Pierre
l’avvicinò prendendola per un braccio.
― Allora ti tocca dormire sola.
― Gesù, non riesco mai a dire no ai miei fratelli. Corinne era così felice.
― Hai paura?
― No, se fossi stata sola forse.
― Non mi riferivo alla via, intendevo se hai paura a
dormire sola in una città che non conosci.
― No.
― Credimi, in questo momento vorrei essere una donna,
non mi era mai capitato. Potrei proporti una nottata a
chiacchierare insieme senza fraintendimenti. Vorrei essere una delle tue amiche.
― Ho un’amica sola, Marianne. La vedo poco, si è sposata ed è andata a vivere a Narbonne. Sali ugualmente
se vuoi. Siamo adulti.
Pierre rise.
― Io sono adulto, tu… ma sì anche tu.
Lia era serena, sentiva che il tono di quest’uomo era amichevole e disinteressato. Del resto era palese che
Pierre fosse un uomo sobrio, senza grilli per la testa e
molto responsabile.
I suoi capelli brizzolati dovevano essere stati neri, gli
occhi chiari facevano sognare terre lontane e oceani con
velieri antichi che navigavano. Riusciva a vederci bambini neri che giocavano, indiani d’america cantare. In
quegli occhi c’erano tutti i viaggi che avrebbe voluto
fare.
Suonò il campanello, il portiere notturno aprì.
Lia prese la chiave della sua stanza. Si aspettava che
l’uomo chiedesse chi fosse Pierre, ma non lo fece.
Salirono le scale, sul pianerottolo una bella pianta in un
gran vaso di terracotta, le foglie erano lucide e curate;
lei aprì la porta, all’ingresso un vaso di fiori freschi e
colorati.
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― Gli anemoni sono i miei preferiti, mi ricordano i diciotto anni. Marianne me ne regalò un gran mazzo, il
bigliettino era bellissimo, lo conservo ancora… in carta
di riso marrone, con sopra scritta una citazione che mi
pare di ricordare appartenesse a Shakespeare, lei lo adora. I fiori, il bigliettino e una scatolina portagioie che
confezionò personalmente, pensa, riuscì ad incorporarci
una fotografia di noi due insieme all’età forse di un anno, al massimo due.
― Anche a me piace Shakespeare. Forse domani andiamo a vedere l’Otello. Che frase era?
Lia si concentrò un attimo socchiudendo gli occhi e
mordendosi il labbro inferiore.
― … “È dentro quel che conta veramente, e quello resta
sempre con te”. Sì insomma, le parole non saranno esatte, ma il senso è questo.
― … “È dentro quel che veramente vale, e quello è qui,
sempre con te rimane”.
― Ma che bravo! ― disse Lia ridendo d’approvazione.
Si sedettero sulle due poltroncine in velluto liscio color
verde salvia.
Pierre sentì un forte desiderio di lei, deglutì.
Non un uomo o una donna da portarsi a letto, ma
quell’uomo e quella donna che è vietato desiderare così
immensamente.
Lia sospirò e ruppe il silenzio
― Vuoi bere? C’è il frigorifero.
― Se c’è del tè. Grazie.
Lia raccolse tutto il coraggio che poteva.
Se non ci fosse paura che razza di coraggio sarebbe?
Gli portò il bicchiere di tè freddo e si sedette vicino, lo
guardò in silenzio, senza strategie di seduzione, era un
tacito “son qui”.
Pierre appoggiò con attenzione il bicchiere sul tappeto.
Cominciò il viaggio più bello e importante della loro
vita.
Correvano nella foresta, la ricca vegetazione sfrecciava
davanti ai loro occhi, la primitiva formazione, il richiamo della foresta esercitato su chi l’aveva abbandonato
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scegliendo altri modi di vivere con ispirazioni più razionali, ma che sente in modo forte quella struggente nostalgia delle origini.
Pierre l’accolse, rimise le mani su quei fianchi magici
che sapevano d’incantesimo, come per riprendere dal
ballo lento interrotto.
Non c’era più paura, né tensione, solo loro due. Non esisteva scissione tra corpo e anima, né scissione di pensieri. La consapevolezza era arrivata poco prima, ora il
momento chiedeva solo di essere vissuto.
Pierre sollevava l’abito di seta a fiori che ricadeva dolcemente al suo posto come in un gioco, il vestito tornava a nascondere quello che nemmeno l’aria avrebbe mai
dovuto sapere. Il desiderio cresceva ad ogni respiro. Le
mani godevano nel poter fare quello che avevano sognato qualche ora prima nella sala da ballo. Tutto muoveva
ancor i sensi. Quel tessuto, al tatto, faceva immaginare
ancora di più l’immaginabile.
Le carezze lungo i fianchi ben disegnati, quel pochino di
ventre accennato che sa di donna. La pelle senza un difetto, liscia, calda, invitante. Era tutta per lui.
Le labbra si toccarono per la prima volta, ne sentì la
morbidezza e il calore. La baciò come mai aveva fatto
con nessuna donna, l’avidità mista a tenerezza che non
gli era mai stato concesso provare.
Ebbe la sensazione di stare sotto una cascata refrigerante, di bere dopo il trattenuto desiderio per provare il limite dell’arsura.
Lia gli baciava il viso, accarezzava i capelli sulla nuca,
si premeva contro il suo corpo per sentirlo vivo il più
possibile. L’istante eterno.
Pierre le accarezzava il corpo con insolita trepidazione.
La sensazione di osare, “il vorrei ma non posso” muoveva ancor di più il suo desiderio.
Il corpo di Lia lo chiamava in modo forte e autoritario.
La voglia che aveva da sempre di lei, la faceva scoprire
brava ed esperta, ma forse era solo una sua proiezione o
semplicemente era amore, quello grande e vero che arriva a toccarti l’anima in tutta la sua pienezza; l’incastro
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perfetto tra due persone, di mente, anima e persino ossa,
come nel gioco enigmistico dove due parole innestate
tra loro, vanno a formarne una terza.
Lentamente le slacciò il davanti del vestito per scoprirne
i seni.
Avrebbe voluto averla tutta dentro di sé, si riempì le
grandi mani della sua carne, dei suoi capelli, del suo
volto.
Riempirsi dell’altro in una danza cosmica. Nessuno avrebbe potuto intromettersi tra loro, l’energia vitale lavorava per questo momento.
Una delicata furia. Sempre di più.
La sentiva muoversi dolcemente d’eccitazione.
Il corpo di lei lo risucchiò. La forza che resiste e che poi
t’appaga stava finendo. Non si ritrasse più.
La danza si concluse in un sonno senza alcun senso di
colpa. Tutto sapeva di pace. Ogni cosa si era collocata
nel suo spazio, al suo posto. La sensazione che si ha
quando si è soddisfatti per avere fatto le cose giuste, li
colse di sorpresa.
Il giorno seguente si trovarono con il gruppo al centro
della città, in Hyde Park.
Solo Alain sospettò qualche cosa, ma si rassicurò che
non poteva essere.
Corinne andò subito da Lia.
― Tutto bene?
― Sì e tu?
― Eravamo stanchissimi, volevamo chiacchierare e fare
giorno, ma ci siamo addormentati come dei sassi appena
la testa ha toccato il cuscino.
― Noi abbiamo chiacchierato e ci siamo appisolati solo
un po’. ― disse Lia vedendo Pierre imbarazzato.
― Non abbiamo alcun dubbio sulla rettitudine e la fedeltà di Pierre. ― qualcuno aggiunse.
Alain guardò l’amico.
Passeggiarono in Hyde Park. Lia, tra quegli alberi secolari, che parlavano di cammino incessante nella storia,
sentiva, dentro sé, il percorso compiuto dalla prima
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donna all’ultima; il forte battito di cuori messi alla prova, intelligenze femminili sperimentate come quando i
cani vengono sguinzagliati durante la caccia alla volpe.
In quegli istanti, percepiva di avere nell’anima la sapienza dell’universo.
― Ci sono giorni in cui siamo talmente immersi che è
impossibile pensare che verrà la sera. ― disse Lia.
Sentiva in sé la saggezza del percorso compiuto dalla
prima donna all’ultima, il cammino dei loro cuori messi
alla prova, intelligenze femminili sperimentate come
quando i cani vengono sguinzagliati durante la caccia
alla volpe. In quegli istanti percepiva di avere
nell’anima la sapienza dell’universo femminile che
l’aveva preceduta, la ricerca spesso obbligata di conoscere, indagare, saggiare i sentimenti e le intenzioni
proprie e dell’uomo amato.
Si diressero al laghetto artificiale, videro il podio dello
Speaker’s Corner, dove chiunque poteva salire ed esporre le idee ai passanti. Attraversarono il ponte che collega
il parco a Kensington Garden, mangiarono velocemente
dei panini e si diressero a piedi verso la residenza reale.
Riuscirono a visitare le sale aperte al pubblico. Chiesero
informazioni al portiere per assistere alla rappresentazione di Shakespeare al Regent’s Park, ma erano ormai
fuori orario. Appuntarono per andarci l’indomani.
La fame cominciò a farsi sentire. Cenarono al ristorante
cinese, Anne ordinò per tutti.
― Ravioli al vapore e involtini primavera, maiale in agrodolce, riso alla cantonese e tè al gelsomino. Va bene
per tutti?
Il gruppo acconsentì con una variante, Lia non mangiava carne.
Erano talmente stanchi che nessuno parlava e rimandarono ogni commento.
Georges, collega di Pierre, insegnante di matematica,
segnò sulla guida il tour per il giorno dopo; chiedeva
consensi e tutti assicuravano in modo svogliato che andava bene.
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Il viaggio per Lia e Corinne prevedeva tre pernottamenti, mentre il resto del gruppo si sarebbe fermato fino alla
domenica.
Quella notte Lia dormì con la sorella nel loro albergo,
era un silenzioso accordo. Corinne non chiese nulla, sapeva che Lia non le avrebbe permesso nuovamente di
dormire fuori.
L’ultimo giorno visitarono il British Museum e quello
delle cere, Madam Toussaud.
― L’ingresso al British era gratuito, in compenso per
vedere le cere c’è da vendere il sangue! ― disse Alain
mentre distribuiva i biglietti d’ingresso.
Riuscirono anche ad assistere all’Otello in Regent’s
Park, come si erano prefissati. Corinne pianse quando
Desdemona morì innocente.
La moglie di Alain, Anne, si fermò a discutere
dell’invidia di Jago, quel sentimento che porta a non essere contenti della felicità altrui, che cerca di fare del
male agli altri per rovinare il loro star bene. Il male fine
a sé stesso. Parlarono dell’ignoranza di Emilia, che pecca senza pensare alle conseguenze che i gesti possono
avere e che si riscatta sul finale, quando ormai non serve. Fu lei a procurare il fazzoletto al marito.
Solo Lia, tra loro, vide la gelosia di Otello come un sentimento controllabile, gli altri furono d’accordo nel riconoscere che può sfociare naturalmente e senza consapevolezza in sospetti e accuse ingiustificate.
― Guarda te che casino per un fazzoletto. ― disse
Alain.
― A te non sarebbe successo; in vent’anni non mi hai
mai fatto un regalo! ― affermò Anne.
Corinne, pronta frugò nella borsa, tirò fuori un fazzolettino e lo mise in mano alla simpatica signora.
― Forza Anne, dai inizio alla tragedia. ― la invitò
Georges.
Tutti risero.
Poi Corinne si rifece seria.
― Non sopporto i tradimenti, meno male che è teatro.
25
― Purtroppo di Jago nella vita se ne incontrano, e non
solo uno. ― puntualizzò Pierre.
― Basta tenerli alla larga. Siamo noi stessi a permettere
certi comportamenti. ― aggiunse Lia, subito contrastata
da Alain che affermò con tono un poco tormentato, che i
malvagi riuscivano ogni volta a disorientarlo.
Pierre si chinò ad allacciarsi una scarpa e Lia non poté
fare a meno di dargli un’affettuosa spettinata ai capelli.
Lui subito alzò lo sguardo, approfittando dell’occasione
che quella intimità appena accennata gli dava.
― A che ora avete l’aereo domani?
― Nel primo pomeriggio. ― rispose lei.
― Allora se volete, alle sei vi aspetto nella hall del vostro albergo.
― Alle sei?
― Di mattina, sì. Non potete partire senza fare almeno
una capatina ai mercatini.
Lia spalancò gli occhi e la bocca di stupore, amava da
sempre esagerare la mimica facciale.
― Meritano?
― Dicono di sì.
― Corinne, vuoi venire domani mattina alle sei al mercato?
Scoppiò a ridere prevedendo la reazione della sorella
che guardandola costernata, disse:
― Ma tu sei matta! Mica ho le uova da vendere.
Pierre divertito chiarì che erano i mercatini
dell’antiquariato e che gli intenditori si muovono
all’alba per accaparrarsi i pezzi migliori.
― È vero, l’ho letto sulla guida ― confermò Georges,
sempre informatissimo.
― E saremmo noi due gli intenditori? ― chiese Lia
all’amico speciale.
― Direi di sì. ― rispose ridendo, e Lia ebbe modo di
vedere quello spazietto che gli separava gli incisivi che
a lei piaceva tanto, era orgogliosa di quel difetto che lei
stessa aveva, la sua nonna diceva sempre che era un
portafortuna.
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La visita ai mercatini dell’antiquariato era chiaramente
una proposta premeditata che non pretendeva nascondere il desiderio di stare con lei.
Come d’accordo all’alba si trovarono alla reception del
Concorde.
Insieme si completavano, stavano bene. Pierre conosceva i gusti di Lia, avevano parlato molto quando accompagnava il fratello Jean a ripetizione. Ricordava il trasporto per le sue origini italiane.
Vide su un banco una collezione affascinante di oggetti
in disuso; attirò la sua attenzione una serie di chiudilettera italiani, che tanto entusiasmarono i collezionisti della Belle Époque. Il venditore mostrando passione per il
suo lavoro spiegò:
― Ci fu una produzione ampia in Germania, quelli italiani sono più rari. Una volta le lettere erano costituite
da un foglio doppio che piegato lasciava lo scritto nella
parte interna.
Fece capire meglio piegando della carta da lettera tra le
mani.
― Così vedete? L’indirizzo rimaneva all’esterno. Non
erano in uso le buste e si doveva sigillare con ceralacca.
I chiudilettera sostituirono la ceralacca. Anche se poi la
ceralacca è una di quelle cose che ci siamo portati avanti
fino ai giorni nostri. Ha un gran fascino, secondo me.
― Io la uso. ― disse Lia.
Pierre le regalò la collezione di chiudilettera.
Poco dopo lei volle ricambiare, comprando all’amico un
vecchio lunario.
Verso le nove entrarono in una caffetteria a fare colazione con croissant e caffè.
― È vero che il caffè espresso è stato inventato in Italia,
ma questo è veramente buono ― affermò lui.
― Perché sei abituato alla nostra sbobba francese.
― Sei stata recentemente in Italia?
― Sì, con Marianne, sulle Dolomiti. A proposito sai che
stiamo organizzando un viaggio in India? Vuoi venire?
― Magari.
27
Il suo sguardo disse che non poteva permetterselo essendo un uomo sposato.
Lia continuò il racconto descrivendo le Alpi orientali.
― Veneto, Trentino Alto Adige! Conosci professore?
Sono bellissime, tutte guglie e spuntoni, boschi, pascoli
verdissimi e rocce. Le abbiamo girate un po’ tutte. La
Marmolada e il lago Misurina sono i posti che mi sono
piaciuti di più. Invece, non ho trovato divertente la pubblicità dei piatti locali che propinano polenta e cervo.
Non mangio niente che abbia avuto una faccia da quando avevo dodici anni. Vidi uccidere degli agnellini e
sentii gli strilli loro e delle mamme pecore, inorridii.
― Hai un viaggio nei tuoi sogni?
― Sì, le cascate del Niagara.
― Chissà se ci sarà dato andarci insieme.
― Chissà! Che ne sappiamo! Avresti mai detto che ci
saremmo trovati a Londra?
Pierre la guardò perdendosi nell’espressione di lei, così
beffarda e incurante del futuro, si schiarì la voce.
― Andiamo va, Corinne starà aspettandoti. Le valigie
sono pronte?
― Non le abbiamo disfate.
Una volta arrivati all’inizio della via, dove si intravedeva l’hotel, Pierre la salutò di fretta. Era in ritardo. Una
stretta di mano e un bacio sulla guancia.
Ai primi di dicembre, Lia partì per l’India con l’amica
del cuore. Quel viaggio che negli anni a venire, lei e
Marianne chiamarono “il viaggio dell’incoscienza”. Al
rientro restò fino al mese di maggio ospite dell’amica e
del marito.
Non aveva più sentito e nemmeno incontrato Pierre, ma
andava benissimo così. Secondo lei, per l’anima, tempo
e spazio erano solo pregiudizi.
Quando dovette rientrare a Nimes, la sua città, ogni sera
faceva più di un’ora di macchina per andare dai suoi
amici a Narbonne.
Nel mese di giugno una sera, all’uscita dal lavoro, trovò
il professore ad aspettarla.
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Come se si fossero lasciati il giorno prima, si salutarono
e decisero di cenare insieme nel famoso ristorante del
cassoulet tolosano. Lia avvisò Marianne che avrebbe
fatto tardi e che forse si sarebbe fermata a dormire dai
suoi a Nimes.
Arrivarono al locale ma lo trovarono chiuso per turno.
― Ti trovo ingrassata, sei più bella. Come sono cresciuti i tuoi capelli!
― È passato molto tempo. Sono tanto felice di vederti.
― Credevi che non ci saremmo più sentiti?
― Nemmeno per idea, alla fine ti avrei rivisto… ma
come hai saputo che lavoro qui?
― Ho aspettato Jean all’uscita da scuola, gli ho chiesto
del latino ed è stato lui stesso a dirmi di venirti a salutare. Raccontami di te. Come è andata in India?
― Bene ci sono andata con la mia amica Marianne,
quella che vive a Narbonne, credo di avertene parlato. È
stato un viaggio importante, penso il più importante fatto fino ad ora, ma sempre aspetto il Niagara con te, ricordatelo.
Gli raccontò del viaggio, ma prima prese nella borsa un
piccolo contenitore di vetro col tappo in sughero ben pigiato sull’imboccatura. Glielo porse.
― Tieni. È sabbia del golfo del Bengala, l’ho presa per
te sul litorale di Puri, nell’Orissa. Lo riempivo e ti pensavo con tutta l’anima; guardai il cielo cercando di raggiungerti, come in un gioco esoterico.
Pierre prese il vasetto e guardò la sabbia in trasparenza.
― Lia è gentile e carina ― commentò parlando in terza
persona.
― Dai, raccontami tutto ― le disse.
Lei cominciò a parlare, la miseria delle bidonville alle
porte delle grandi città, le piantagioni di tabacco, le belle pitture murali nelle grotte e nei templi monolitici;
parlò di vacche sacre, musiche indiane e della filosofia
dello yoga, come sistema morale e religioso.
― Sai Pierre, in India si crede all’esistenza di un’anima
primordiale, nata prima della materia e si sostiene che
l’unione tra prima e seconda dia origine alla vita, lo spi29
rito della vita, Mahanatma. A dirti il vero non sarei più
rientrata, ma Marianne aveva un marito a casa ad aspettarla. Lui è una persona in gamba, la lascia veramente
libera e lei ricambia con amore, ma approfittarne non
sarebbe stato bello. Comunque, guarda che secondo la
mia esperienza, anche in India l’uomo è attaccato alla
materia, questa idea del tutto spirito ce la siamo fatta noi
occidentali.
La interruppe.
― Un giorno mi spiegherai meglio. Sai che ore sono?
Mezzanotte. Non ti ho nemmeno portata a cena.
― Fa niente, non ho fame! Preferisco stare qui in macchina a parlare.
Pierre sorrise, ma lei nemmeno ci fece caso e tutta presa
dal suo racconto continuò.
― Sono rientrata dall’India in marzo, poi sono rimasta a
Narbonne da Marianne fino a quando mi hanno telefonato dal laboratorio: la persona che mi stava sostituendo
con un particolare contratto a termine, aveva trovato un
lavoro fisso e doveva andarsene. Mi trovo bene in questo laboratorio, i colleghi sono gentili e disponibili. Comunque a breve mi dovrei trasferire a Montpellier, pare
abbiano accettato la mia offerta di collaborazione
all’università.
― È un’ottima opportunità. ― commentò lui.
Mise in moto l’auto e l’accompagnò alla vettura.
― Sono contenta di trasferirmi a Montpellier, sarò più
vicina a Marianne.
Poi, dopo una breve pausa aggiunse:
― Auguri Pierre, non so precisamente quando, ma in
questo periodo dovresti avere un anno in più, la sabbia
del Bengala è il mio regalo.
Lo baciò sulla guancia.
― Incontrarsi può essere un caso, darsi un bacio no!
Gli fece spiritosamente l’occhiolino e scese.
Pierre sorrise divertito, Lia gli metteva la stessa allegria
di un gelato al cioccolato…
― Però a Montepellier voglio una casa sul mare. ― gli
disse.
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La guardò salire sull’auto, chiudere lo sportello e partire
salutandolo con la mano.
Nel mese d’ottobre, Lia ebbe la conferma dell’incarico e
cominciarono i preparativi per l’imminente trasloco. Alla famiglia spiaceva, ma Montpellier non era poi così
lontana da Nimes. Prima di partire, pensò di rintracciare
il suo bel professore, ma non sapeva come fare senza disturbare. Per evitare di essere invadente rinunciò.
Per la serie, quando le cose devono accadere accadono,
il giorno prima di partire mentre usciva dalla profumeria, si sentì chiamare.
Il suo volto s’illuminò nel vedere l’uomo dei suoi desideri dirigersi verso lei. Scosse la testa incredula.
― No, questa volta non ci credo! Sei Pierre? Sei davvero tu?
Scrisse su un foglietto della sua agendina l’indirizzo
nuovo - Sète, Rue Paul Valery, 3 - e lo mise nelle mani
più belle che avesse mai visto in un uomo.
― Verrò a trovarti. ― le disse.
― Ci conto!
Si sorrisero. Pierre le chiese di aspettarlo un attimo, andò all’automobile e tornò con in mano un libro che aveva comprato per sé solo qualche giorno prima, lo porse
a Lia, erano poesie di Paul Valery.
― Tienilo come mio augurio di buona vita.
Lia ne rimase stupita, stentava a credere che tutto ciò
fosse opera del destino: incontrarlo all’ultimo momento
per potergli dare l’indirizzo e ricevere in dono un libro
di poesie dello scrittore nato a Sète a cui era intestata la
via della sua nuova abitazione. Paul Valery… il cultore
dell’intelletto. Poteva essere tutto un caso?
Qualche mese più tardi, Pierre mantenne la promessa.
La trovò sulla spiaggia, mentre passeggiava infagottata
nella giacca di lana beige che aveva fatto lei stessa.
Camminarono insieme raccogliendo conchiglie e per la
seconda volta fecero l’amore. Una sonata di pianoforte
li avvolse, saliva in potenza per poi dolcemente discen31
dere. Abili dita accarezzavano i tasti, li sfioravano, li
colpivano con forza.
Erano le mani dello spettro a suonare, rassegnato a doversene andare, il suo lavoro era finito; sorrideva contento che non fosse un amore impaurito, ma consapevole e appagato di quello che aveva; è per questo che esisteva.
Un grande amore destinato solo a crescere, rispettoso,
che non aveva altro da rivendicare che la sua stessa esistenza. Forte, testardo, temerario ma tranquillo, a dispetto degli amori incontentabili, eternamente insoddisfatti.
Quando ebbe finito di suonare, si alzò, li salutò con la
mano e andò via.
Qualcuno giura di averlo visto sulla strada del ritorno
camminare tutto fiero di sé. Quello sarebbe stato un amore immenso e sereno, per la cui realizzazione era stato scelto lui, uno spettro speciale.
Lia capì quella volta che era iniziata seriamente una relazione. Non si erano incontrati per caso. Lui non era
andato da lei perché non aveva niente di meglio da fare.
Pierre tornò a casa la sera stessa.
Lia non chiedeva mai niente, non nominava la moglie,
temeva di mischiare la sacralità della famiglia con la
profanità dell’amante, non sapeva se fosse realmente
così la cosa, ma accettava la concezione cattolica. Una
notte sognò una bellissima statua di madonna col bambino in braccio, Maria aveva una gamba che usciva dalla veste azzurra, non era sconcia ma bellissima. Al risveglio, Lia si pose un sacco di domande: perché non le
veniva in mente neppure uno scultore o un pittore che
avesse rappresentato la sessualità della vergine? Sarebbe
stato possibile farlo anche in modo pulito e naturale; la
madonna dipinta in modo audace da Munch, non era
quello che intendeva Lia, niente di ostentato e inquietante. Si riferiva invece ad una sensualità dolce e sobria,
quella più simile alla sua. Le venne in soccorso la “Ia
Orana Maria” di Gauguin. Non era proprio quello che
andava cercando, ma almeno si rincuorò un pochino, tra
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l’altro la madonna tahitiana aveva con sé il suo bambino.
Comunque lei con Pierre stava meglio, nel senso che
stava bene anche quando lui non c’era fisicamente, ma
la sola presenza emotiva la riempiva di belle sensazioni
e non le importava quali fossero nomi e ruoli da assegnare in questa storia.
Andò da lei molte altre volte, era bello raggiungerla. Per
loro ogni minuto diventava importante, cucinare, parlare
o fare l’amore, non c’era differenza.
Non avevano mai il progetto di finire a letto, non necessariamente. Spesso non accadeva. L’importante era
condividere appieno le ore in cui si trovavano nello
stesso posto, a respirare la stessa aria. Capitava che
Pierre fosse nervoso e alzasse la voce per delle banalità
che nascondevano, forse, il bisogno che aveva di Lia, di
stare di più in contatto con la sua purezza e serenità. Erano i momenti in cui lei si divertiva maggiormente, esagerando la mimica di quell’amico specialissimo. Pierre adorava la sottile ironia, era sintomo di
un’intelligenza raffinata. Lia era certamente la donna
più singolare che avesse conosciuto. Probabile che fosse
semplicemente la più affine a lui. Le diceva spesso che
con lei non riusciva a litigare e questo lo meravigliava.
Pierre aveva il suo tallone d’Achille: non sopportava essere contraddetto. Quand’era certo della sua idea, la sosteneva con molta animosità, in malo modo, anche a costo di troncare i rapporti più importanti. Se Lia sentiva
che l’atmosfera si stava facendo tesa, con simpatia, dolcezza e se necessario silenzio, riusciva a tranquillizzare
l’uomo che tanto amava.
Il silenzio, se ci si conosce bene e ci si vuole bene, a differenza delle parole riesce a comunicare facendo riflettere.
Ognuno ha le proprie vulnerabilità, e lasciamogliele! Se
amiamo quella persona è perché è così, in altro modo ne
ameremmo una diversa.
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Tra Lia e Pierre la distanza e il tempo, erano riusciti ad
accrescere un rapporto pieno di “ancor di più”. Nessuno
dei due aveva mai detto ti amo all’altro, forse perché era
vero.
Lia, che era la più coraggiosa, ogni tanto arrivava con
un simpatico,”io ti!”. Pierre sorrideva divertito.
Con lei non riusciva a tenere nessuna coerenza d’uomo
forte. Lia era la sua debolezza, lei poteva tutto, persino
spettinarlo e pizzicargli la faccia.
Era affascinato da sempre dal cuore pulito di questa
donna, dal suo modo di fare composto e gentile.
Lui arrivava a Sète e lei, ancor prima di salutarlo, correva nell’elegante pasticceria sotto casa, per farlo felice
offrendogli i suoi pasticcini preferiti.
Pierre era l’amore. Non ci sarebbe stato nessun uomo
nella sua vita in grado di occupare quel posto e Lia non
era atta ai ripieghi. Per lei il sesso era un dono, una celebrazione. Aveva in sé la fiera dolcezza delle donne
giapponesi nel dedicarsi al proprio uomo. Il gusto buono
di prendergli la mano e condurlo lungo le vie del piacere
della vita, ma sempre con soave dignità. Il cibo, il gioco,
la seduzione, la protezione, donargli gentilmente tutta la
forza interiore di chi è consapevole di essere nato per
procreare e propagare amore. Assecondava ogni desiderio di Pierre con gran soddisfazione senza attendere
niente in cambio, perché il riscontro era insito in lei, la
gratuità del donarsi. L’accoglienza dell’altro, non
l’assillo di stupire o renderlo felice ad ogni costo, ma
la rassicurazione che ogni uomo nel suo profondo desidera.
Non temevano di lasciarsi e soffrire, non sarebbe accaduto. Pierre o nessuno, e così fu per tutti quegli anni.
Rimaneva settimane senza vederlo, allora alcune sere si
metteva allo scrittoio e buttava sui fogli fiumi di parole,
cose che non gli aveva detto per non turbare i suoi equilibri, spiegazioni, desideri, racconti della giornata, che
cominciavano sempre con: “Mio caro Pierre…” Poi, sigillava con ceralacca e bruciava nel camino, anche
d’estate. Quante volte aveva avuto la tentazione di dirgli
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il suo grande segreto, quello che solo Marianne e Jo sapevano.
4
Lia era una donna in contatto con i suoi sentimenti e li
esprimeva con la semplicità delle persone sane, sapeva
quello che voleva e ciò che preferiva fare.
Amava e capiva perfettamente i sentimenti che il prossimo provava per lei.
Specificava che il prossimo, secondo l’etimologia, non è
tutto il mondo, ma le persone che si hanno più vicine,
molto vicine… ”Ama il prossimo tuo come te stesso”.
Era generosa, utile, gradevole e simpatica, coglieva
l’essenziale; non le importava essere, non si poneva
domande, semplicemente ricercava la miglior qualità
possibile della vita.
Era di carattere a volte arrendevole, ma mai sciocco. La
caratteristica che tutti amavano in lei era il non cercare
approvazione, agiva per sé e mai per dimostrare. Produttiva e creativa, credeva al serbatoio dell’altra dimensione, quello in cui vivono eternamente i pensieri costruttivi e le azioni importanti della gente comune.
Riteneva perciò che il comunicare fosse spesso una cosa
in più: chi deve conoscere conoscerà.
Tutto quello in cui si applicava le riusciva abbastanza
facilmente.
Pierre a volte la trovava geniale, e quando lo diceva lei
rideva, dichiarando, solo con lui, che una parte di verità
doveva pur esserci in questa affermazione, vista la sua
propensione per la solitudine; se è vero che tutti i geni
sono un po’ folli, non per questo tutti i matti sono geniali, anzi per paradosso i matti spesso si arrogano il diritto
dei geni mentre i geni si ritirano in solitudine.
Per “matti”, Lia, non intendeva i malati psichiatrici per i
quali nutriva gran rispetto, nella sua famiglia materna ce
n’erano stati. Suo zio era morto in manicomio e la sensibilità di Lia, spesso le faceva rivivere questa nota cruda della stirpe da cui lei proveniva. Si chiamava Piero,
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deportato politico a Mauthausen, al campo di concentramento classificato di classe tre, campo di punizione e
annientamento, uno dei lager nazisti più terribili. I prigionieri sopravvivevano in condizioni disumane, schiavi
nelle cave, fame, uccisioni. Si moriva per le violenze
delle SS, impiccagioni, fucilazioni, avvelenamenti, i più
fortunati tramite iniezioni al cuore o nelle camere a gas.
Lia da bambina ascoltava i racconti dello zio Piero a
bocca aperta, le sembravano invenzioni, fiabe
dell’orrore, di lupi cattivi. Una volta sua madre disse al
fratello di non raccontare quelle cose ai bambini, Piero
si giustificò affermando che ai bambini si può dire tutto
perché capiscono tutto, quello che conta è la maniera in
cui si raccontano le cose: bisogna farlo con attenzione
perché comprendano cosa si vuole dire senza rimanerne
turbati. Del resto a Lia piacevano le storie vere. Lo zio
raccontava di deportati che venivano inzuppati d’acqua
e lasciati morire al gelo delle fredde notti austriache.
”Non tutti gli uomini sono così” aggiungeva sempre sul
finale.
Duecentomila deportati videro la cava di granito di
Mauthausen, uomini e donne. Lo zio tornò a casa, il
nonno era nel frattempo morto supplicando il suo ritorno; per questo figlio aveva il trasporto che si ha per i
primogeniti. La mamma di Lia, che era la sorellina minore, si fece fare un grembiulino con la stoffa della divisa; il triangolo di contrassegno con la sigla della nazionalità italiana e il numero li volle sulla pettorina, le
sembrava una cosa bellissima. Lo zio non disse nulla,
era una bimba, era giusto così. Piero visse ancora molti
anni, tentò di costruire una famiglia, che presto finì a rotoli; cercò di impostare un avvenire ai suoi figli acquistando un alberghetto a Bassano del Grappa, niente da
fare. Nonostante il suo impegno, il cervello forse già
predisposto, iniziò a non funzionare più. Morì nel manicomio di Montecchio Maggiore.
Nel suo sguardo e sulle sue dita gialle di nicotina, Lia
aveva visto ogni volta quei forni crematori in cui lui
stesso doveva fare entrare i deportati, compresi gli ami36
ci; per non dire di quel piccolo ebreo senza colpa né
peccato che girava per il campo e veniva preso a pedate
e fatto spaventare per il divertimento dei nazisti. Poteva
avere al massimo tre anni, “Però, appena era possibile,
noi lo coccolavamo” diceva lo zio con gli occhi lucidi.
Lia si sentiva molto italiana per le sue radici da parte di
madre, una vera alpina del Monte Grappa.
La deportazione dello zio l’aveva sentita scottare sulla
sua pelle.
La storia della nostra famiglia ci sarà addosso per sempre, anche se il vissuto non è stato strettamente
personale, resterà il nostro patrimonio che pur se a volte sgradevole da amministrare, è roba obbligatoriamente nostra.
Le persone che conoscevano Lia, ne decantavano intelligenza e forza, e lei pur essendone consapevole ironizzava affermando che aveva sangue italiano e riusciva a
vendere fumo.
Il dolore, secondo Lia era una costante che esisteva, faceva parte della natura stessa; anche le gemme in primavera soffrono, ne era sicura. Guardava la natura e
imparava: come poteva pretendere l’uomo di essere più
forte del giorno? Il giorno accetta la variabilità del tempo: sole, pioggia, caldo, freddo, temporali d’agosto.
Dava alla sua progenie il merito della forza con cui sapeva affrontare le difficoltà e i dolori.
Riusciva a fare sua la possibilità di liberarsi nella contemplazione estetica.
Le piaceva conoscere la saggezza dei popoli e prenderne
alcune briciole da inserire nella sua vita.
Amava lo yoga, conosciuto in India e poi praticato in
modo più da occidentale con Marianne. Considerava un
atteggiamento interessante e indispensabile la distanza
che tengono i giapponesi, il “wa”. Spesso affermava che
con le persone bisogna tenere “la distanza di sicurezza”,
come in automobile. La sua mente aperta ed elastica non
dava nulla per scontato, c’era sempre qualche cosa da
imparare; ogni volta che scopriva delle novità che valessero delle riflessioni, riconfermava dentro di sé il con37
cetto della dotta ignoranza, tramandato dal suo amico
Socrate quasi certamente per parola di Platone. Socrate
come Gesù non lasciò nulla di scritto.
Amava Pierre perché non le aveva mai proposto l’amore
in qualche spoglio alberghetto fuori porta, né in splendidi hotel, quasi fosse d’obbligo tra amanti. Non avrebbe potuto accettare lo squallore, l’obiettivo finale e
spesso anche iniziale, se non unico, di unire i corpi.
Per lei l’amore era arte.
L’arte concepita anche nel desiderio, energia basata non
solo sul genio o il trasporto che possono fluire in una
confusione di gambe, lenzuola, emozioni e sentimenti. Il
valore di un’opera d’arte che vuole sì il genio, ma anche
lo studio, l’esperienza e il dono della verità comunicata,
quella interiore, la più importante. L’autenticità umana
non come concupiscenza precedente l’estasi di un banalissimo orgasmo che chiunque può provare in qualsiasi
momento; veniamo dagli animali, il desiderio dell’altro
è così facile.
È possibile che i rapporti riescano a funzionare ugualmente in mille modi diversi, anche quelli più sgangherati, ma Lia voleva di più, il suo spirito artistico e perfezionista pulsava anche in amore e in Pierre aveva trovato il suo esatto incastro.
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A quindici anni è concesso non saper distinguere ciò
che è bene da quello che non lo è, a quaranta no. Aveva
visto il livello intellettivo e affettivo delle persone raggiungere i minimi dei comuni mortali. Dai quarant’anni
in poi non c’è più molto tempo da perdere, è ora di darsi
da fare sul serio: via i rapporti filacciosi, un taglio deciso ai rami secchi, una gran potata nell’attesa dell’arrivo
della bella stagione che ora è bene dia dei frutti. Le radici sono ben fisse nel buio del terreno e le foglie sanno
di cadere in autunno ma di rispuntare in primavera.
L’albero non guarda più con malinconia il fogliame rosso a terra, ma ne è fiero dei bei colori che fanno speciale
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l’autunno e consolano dai primi freddi. Questa è l’età
della forza, quella vera e centrata, la maturità della pianta. Ancora capita di barcollare, ma si sa come camminare e riprendere il passo. Non spaventano le intemperie
della vita, sono normali e inevitabili, si riesce a tenere
tutto sotto controllo, però si teme per le persone che amiamo di più, abbiamo avuto modo di vedere che alberi
sani e robusti sono stati ridotti a legna da ardere quando
erano convinti ormai di avercela fatta.
Lia era preoccupata per sua sorella Corinne.
― Corinne, impegnati a coltivare il giardino che hai
dentro. Hai qualità che nemmeno tu sai. In te batte un
cuore da leone, grande, forte e generoso.
― A me va bene vivere così.
― Sì, fino a quando non cadi nelle tue depressioni cicliche che siamo tutti costretti a vivere, bambini compresi.
Ti voglio bene!
Corinne si era sposata giovane mentre ancora frequentava l’università, era riuscita a laurearsi nonostante nel
frattempo avesse avuto i due figli. Decise poi di dedicarsi alla famiglia a tempo pieno. Atipica da sempre.
La sua agitazione era spesso scambiata per vivacità, energia, intelligenza, Lia la pensava diversamente.
Conosceva la sorella benissimo. Da bambina sì che era
allegra, da ragazzina un po’ troppo ribelle. Ora che era
madre e moglie, a volte sembrava una matta, tra
l’isterico e il nevrotico, ma tanto brava come mamma,
attenta senza essere ansiosa, era il giocattolo preferito
dei suoi figli, con loro usciva tutto il suo equilibrio.
Spesso alternava momenti di euforica felicità con altri di
profonda depressione, una continua altalena d’umori
difficile da arginare e sostenere, soprattutto per sé stessa; ma per i suoi bambini tornava ogni volta disponibile
e allegra, attenta e amorevole, li mangiava di baci e sussurrava nell’orecchio dei gran “ti amo”, “grazie di esistere”, “siete la cosa più bella della mia vita”.
Corinne, una faccia da schiaffi, quell’espressione furba,
intelligente, simpatica, capace di conquistare chiunque,
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un viso d’angioletto ribelle che non lo frega nessuno.
Adorabile Corinne! Fregarono anche lei.
Da ragazzina non si faceva pregare per farsi mettere le
mani tra le gambe. Questo vogliono i ragazzi? Diamoglielo, così poi si potranno dedicare anche alla scoperta
del mio cervello, ai sentimenti, perché se si concentrano
su quella cosa, distolgono l’attenzione dal resto e io sono altro. Diventano falsi e strategici per arrivare lì, ma
io li frego subito. Tieni quello che vuoi e poi vediamo
chi sei veramente.
Corinne la pensava così. Del resto il suo primo pene lo
toccò a sette anni ad un pedofilo che cercò di tirarla nello scantinato della casa popolare dove viveva; a lei era
sembrato pane quando la invitò a tenerlo tra le mani, poi
uscì un liquido che pensò fosse urina, fu in quell’esatto
momento che dal serbatoio della sapienza del mondo
scese l’informazione giusta, aveva sentito quella vocina
dentro che l'avvisava che qualcosa non stava andando
bene. Seguirono altri tentativi di perversione su Corinne
bambina, piaceva molto a quei tipi, forse in loro era
prepotente il desiderio inconscio di annientare un cuore
forte e intrepido, che chi parte con una marcia in più,
spesso non riesce a nascondere... oppure erano semplicemente dei poveri schifosi.
Era talmente carina, simpatica e aggraziata, da muovere
i desideri di quei bastardi che dovrebbero morire alla
nascita. Imparò a schivare quelle attenzioni, da sola senza parlarne a nessuno, tenendo il segreto, doveva farcela. Fu forse allora che decise di andare avanti a denti
stretti e iniziò a congelare la sua anima gentile.
Aveva quindici anni e nella sua semplicità era bella da
morire; stava sperimentando la seduzione in modo dolce
e gentile, ma anche lì qualcuno la fermò. Le fu proposto
un lavoro estivo, seguì quell’uomo in giacca e cravatta,
soddisfatta di portare a casa dei soldi alla famiglia, i
suoi primi guadagni. Che sorpresa avrebbe fatto a tutti.
Due “uomini” la stavano aspettando, non era un ufficio
come le avevano fatto credere ma una camera di prostituzione, il letto, il lavandino e un comò; quando disse
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d’essere vergine, si fermarono. Le proposero allora degli incontri con uomini molto ricchi ed importanti. Un
giro di prostituzione ad alto livello, soldi e lusso, personaggi insospettabili che avrebbero contato sulla sua discrezione.
Corinne capì che l’unica cosa da fare era portare a casa
la pelle, finse di essere interessata alla proposta per uscire di lì illesa. Le misero in mano molto denaro, non ebbe il coraggio di darlo ai suoi genitori come avrebbe voluto, lo conservò tutta la vita per non dimenticare mai di
aver peccato d’ingenuità, lo mise in mezzo agli slip di
quel giorno, erano di cotone color panna con stampate
delle roselline.
Non vendette mai la sua verginità, la regalò ad un bastardo.
Era diventato naturale per il suo inconscio mischiare
bene e male, giusto e sbagliato, girare frittate, ma non
era bugiarda. A volte nei suoi occhi s’intravedeva la follia del genio che vuole esplodere, e che qualcuno cerca
di tenere calmo.
Dopo il matrimonio pareva essersi calmata, partorì due
figli splendidi, fece esperienze un po’ mortificanti di pasta scotta e patate bruciate ma alla fine riuscì a diventare
una perfetta donna di casa. Col marito andava
d’accordo, tutto bene fino a quando scoppiò una crisi
depressiva molto forte e lui, distrutto, propose una riunione di famiglia, dove chiese di essere aiutato. Si sarebbe occupato da solo dei bambini ma Corinne doveva
assolutamente essere ricoverata. Non si poteva continuare così.
Lia prese qualche giorno di ferie e la portò con sé a Sète, ma vi rimase solo qualche giorno, fino a quando Jean
tramite un amico trovò posto in una clinica.
Corinne stava malissimo, l’unico scopo per rimanere a
vivere erano i suoi figli, come spesso capita quando non
si vive più. Capiva che una mamma triste non è l’ideale
per un bambino.
Ma l’amore di una mamma non cessa un attimo, nemmeno nella depressione, anzi pensi a loro, a quanto sarà
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duro vivere, vorresti rimetterteli nella pancia e non farli
uscire più, poi vedi che loro sono forti, ce la fanno. Se
Corinne, nel periodo del ricovero, non avesse avuto le
faccine dei suoi bambini sempre nella mente, non ce
l’avrebbe fatta. Un suo suicidio li avrebbe segnati dentro per sempre e davanti all’ignoranza della gente avrebbero potuto restare marchiati come i figli di quella
che si è uccisa. Qualcuno avrebbe anche aggiunto che
era pazza. Ma che ne sa la gente di quando la sofferenza
dell’anima supera il limite.
Corinne tornò a casa e dopo diversi giorni di “non voglia” che passava a dormire, riprese a vivere serenamente con marito e bambini.
Tutto filò perfettamente.
Un anno, per il carnevale, si mascherò anche lei e andò
in giro coi suoi bambini per le strade di Nimes, le amiche non la riconobbero fino a quando parlò, allora
commentarono ridendo allegramente:
― Ma guarda te se una mamma di due figli può travestirsi da medico pazzo.
La conoscevano fin da bambina e provavano per lei stima e simpatia. Le volevano bene.
― Sono o non sono laureata in medicina? ― replicò
Corinne divertita.
Quel giorno i suoi occhi rotondi sembravano finestre
spalancate sul mondo. Come in un cerchio composto esclusivamente di elementi salutari, circolava liberamente aria fresca, che una luce luminosa impreziosiva ulteriormente. Era come se dal quel grande cuore arrivasse
tutta la sua vocazione a gioire. Il benessere che le persone e le circostanze riescono a dare se ci sentiamo in
perfetta forma, riusciva a sfiorare chiunque
l’avvicinasse. I suoi bambini erano al settimo cielo dalla
felicità.
Vivere tutto in modo amplificato era la peculiarità di
Corinne. La sua mente era certamente più sana di quella
della massa, ma perdeva equilibrio ogni volta che cercava di sintonizzarsi sul mondo e lo trovava tanto diverso da lei. Inoltre, si portava dietro traumi che avrebbe
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potuto superare. Traumi pronti a diventare alibi nelle
menzogne che lei stessa si diceva.
Dopo un periodo di bonaccia, durante il quale l’intera
famiglia tirò il fiato, ricominciarono di nuovo bizze e
tormenti per tutti.
― Corinne, vuoi fermarti stanotte? ― le chiese Lia durante una visita domenicale della sorella con i bambini.
― Grazie, ma c’è a casa mio marito solo, mi spiace.
― Ma dai, non casca il mondo per una sera.
I ragazzi cominciarono a saltarle intorno, volevano restare al mare dalla zia.
― Ma mamma, quante volte non torni la sera e il papà
resta solo e non dice niente.
Lia si sentì male, sua sorella le stava mentendo. Le sensazioni scatenate dalla telefonata di Jean erano giuste.
Corinne cercò di mettere un tappo su quell’attimo.
― Va bene dai, restiamo. Ma domani andiamo via
presto.
Poi rivolgendosi a Lia, quasi intuendo il suo pensiero:
― Come sta mio fratello?
― Bene; lavora, viaggia e ha sempre due o tre donne in
contemporanea.
― Se la gode, fa bene! La vita è una.
Lia mise i bambini a letto, mentre Corinne non smetteva
di telefonare tutta presa da sé stessa. La guardò per un
attimo, era così semplice, e forse questa semplicità era
quello che conquistava di lei, il suo carattere pane al pane e vino al vino.
Quando i bambini si addormentarono, Lia tornò in sala.
Corinne stava ancora telefonando. Riappese finalmente
il ricevitore imbarazzata e si scusò cercando di fare la
simpatica.
― Sai, quando inizio a chiacchierare non riesco più a
fermarmi.
Lia non era per niente divertita, la guardò seria.
― Corinne, perché non ti fermi a pensare. Quest’euforia
non va bene, lo sai.
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― Fermarmi in che senso? Mi sembra che già sono immobile rispetto a quanto vorrei muovermi.
― Tu sei libera di fare della tua vita quello che credi,
ma non devi trascurare i bambini. Cosa vuoi da te
stessa?
― Stai delirando Lia, io adoro i miei figli, sto bene a
casa mia, ma la famiglia non è tutto. Ho bisogno d’altre
cose. Cerca di capire, le possibilità non sono molte, o
sto in casa con quello che ho e sto male, o me ne vado
via, o cerco fuori qualche cosa che mi faccia poi stare
bene anche in famiglia.
― Un amante? Che devo dirti… basta che ti faccia stare
bene, ma cerca di fare le cose con la testa.
― Non è questione di avere l’amante, ho dei nuovi amici. Come in un centro culturale: momenti di discussione, altri di comunione, uno scambio di esperienze e
di idee. Pensa Lia, ho anche un’amica inglese. Ci sono
diversi stranieri e volendo è possibile imparare da loro
le lingue.
Mischiava verità e bugie con gran spudoratezza e spontaneità. Stava per uniformarsi al gruppo, i difensori della
trasgressione e della libertà ad ogni costo, i paladini della giustizia nell’età matura. I cultori del “carpe diem”,
una locuzione di cui neanche loro conoscevano fino in
fondo il significato, che arrivati alla soglia dei quarant’anni ricominciavano a tornar bambini. Non l’essere
bambini dentro, ma l’agire senza consapevolezza e responsabilità, consapevolezza che tra l’altro, persino i
bambini hanno adeguatamente alla loro età.
Lia sapeva di rischiare affrontando questo argomento, le
aveva detto qualche cosa Jean durante una telefonata
fatta con lo scopo di avvisarla di ciò che stava succedendo a Corinne. La vedeva presissima da quelle persone che secondo lui dovevano essere senza arte né parte,
ma che certamente avevano argomenti e modi convincenti per un tipo inquieto come Corinne.
― C’è da preoccuparsi Lia, credimi! ― le aveva detto
Jean, e se lo affermava una persona fuori da ogni schema come lui, c’era da crederci davvero.
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Con una parola sbagliata avrebbe potuto peggiorare le
cose. Questa storia che rasentava la demenzialità richiedeva la massima intelligenza.
Ci sono situazioni in cui vorremmo avere la possibilità
di andare via per non rischiare di sbagliare, ma questa
possibilità non c’era.
Lia conosceva il percorso sessuale della sorella e riteneva che parte delle sue stranezze derivassero dal passato,
che passato non era mai. Prima di sposarsi aveva avuto
una storia inquietante con un donnaiolo, voleva cambiarlo ad ogni costo, quasi per riscattarsi verso gli uomini.
Non riuscì, perché difficilmente le persone cambiano.
Non ebbe mai rapporti con quell’uomo dal momento
che non intendeva darsi ad una persona per la quale le
donne erano come le sirene di Ulisse, che con la loro
musica irresistibile attiravano i naviganti per poi divorarli, con la differenza che quell’uomo riusciva a sedurle
e che, secondo la gelosia di Corinne, quelle contendenti
anziché l’arte delle muse, usavano la solita solfa. Non
voleva essere una delle tante, ma la compagna speciale.
Poi incontrò Paul che diventò suo marito, una persona
molto equilibrata, un punto fisso nella sua vita così traballante.
Su una caratteristica poteva contare Lia per dissuaderla,
la sorella era facilmente convincibile, nel senso che teneva presente i discorsi degli altri e si metteva in discussione, anche troppo.
Nonostante queste considerazioni, Lia pensava che
spesso la comprensione facesse proseguire chi si ama
nella strada che porta ai precipizi. Pensava preoccupata
quale fosse la migliore condotta da tenere, Corinne cercava cose che forse nemmeno esistevano. Bisognava,
forse, lasciarla libera di sbagliare fino in fondo o forse
nemmeno stava sbagliando… poteva essere la sua preoccupazione a farle vedere le cose in modo esagerato.
Certamente Corinne stava perdendo di individualità, ed
era fuor di dubbio una mancanza. Santo cielo, era tutto
così difficile.
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Che circostanza delicata.
Se la comprensione l’avrebbe fatta proseguire sulla stessa strada, una reazione impetuosa sarebbe riuscita ad intestardirla nella scelta, pur sapendo che probabilmente
era sbagliata.
“Noi della Maison”, così si facevano chiamare le persone che Corinne aveva iniziato a frequentare così assiduamente. Erano convinte di avere intrapreso la via della conoscenza e della libertà interiore.
Corinne aveva due bambini, si doveva partire da lì e non
perdere di vista l’obiettivo.
Fino all’anno prima sembrava serena, e lo era veramente. Rinunciò ad un ottimo lavoro in ospedale per dedicarsi completamente alla famiglia, decise però di fare il
medico part-time nell’ambito del volontariato.
Nonostante Lia fosse contraria a sapere la sorella tra
malati psichici, barboni e drogati, ritenne che poteva essere un bene vederla soddisfatta.
Di vera generosità e autentica gratuità ce n’è veramente
poca a questo mondo. Corinne era indubbiamente un animo buono e gentile, pareva contenta nel ruolo della
dama di carità, e questo era apprezzabile; il suo porsi
era differente da quello di altri volontari che lo facevano
per sentirsi importanti e avevano certamente un sacco di
virtù, ma non l’altruismo.
Dopo anni di servizio, improvvisamente smise: fu sufficiente sentire Raul, il suo migliore amico, raccontare di
lei come di una madonna occupata nel sociale. Inconsapevolmente era andato a toccare un tasto dolente, madonna o puttana, l’eccesso sempre latente in Corinne.
Non era né l’una né l’altra, possibile che nemmeno Raul
capiva? Stare in equilibrio tra il rosso provocante e il
bianco del candore non le riusciva, di conseguenza non
sopportava nulla che glielo facesse notare. Non era
l’equilibrio da ricercare, ma la fusione del rosso con il
bianco: il rosa. A Lia piaceva pensare che fosse questo
il motivo per cui si identifica il rosa con il colore femminile.
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Il periodo a seguire rimase in ogni caso sereno, fino a
quando cominciò a frequentare la “Maison”.
Non era chiaro cosa quelle persone andassero a rappresentare in lei. Certamente gente che soffriva di solitudine o con problemi, questo li accomunava. Da quando li
aveva incontrati ne parlava in continuazione, nei suoi
occhi s’intuiva la libertà povera ritrovata da una quarantenne.
― Lia, dovresti venire una volta a una serata. Non è una
religione, è un modus vivendi. Capisci vero? Una sorta
d’ideologia, non una setta, né un culto.
― Sì, certo, capisco, ma lasciami pensare che tutto
quello che si subisce passivamente, non richiede granché d’intelligenza, partecipare è facile. Tu sei molto intelligente, allora tanto valeva nascere scemi! Le cose
vanno studiate e capite, dopodiché si può pensare se
fanno al caso nostro, oppure no. Modus vivendi è anche
quello dei barboni, che cercano immondizia quando il
mercato è finito e raccolgono le verdure che andrebbero
altrimenti buttate. Capisci?
Cercava di non andare ad urtare la suscettibilità di sua
sorella pur provando a dire i suoi pensieri. Doveva restare tutto sotto controllo.
Corinne continuò con gesti studiati che non le appartenevano. Accese una sigaretta muovendo il braccio da
star e soffiando fuori il fumo arricciando le labbra; aveva stampato sulla faccia un sorriso da asceta a cui dispiace tanto d’essere stato prescelto, ma che non può
nulla per gli altri, che sono semplicemente più in basso
nella loro crescita personale. Lia non riusciva a capire,
ma Corinne fingeva anche con sé stessa che non fosse
così.
― Sono felice che tu comprenda. Vedi, quando vado alla Maison sono felice, sono me stessa. Mi fanno sentire
viva. Quando apro quella porta è com’entrare nella luce,
mi sento realizzata, trovo persone a cui importa quello
che penso e dico, la mia storia. Organizziamo cene, balli, ci divertiamo, alcuni s’innamorano, tutto circoscritto
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tra noi, gli altri non capirebbero questo ritorno alla purezza, all’essenza dell’essere.
Guardò Lia e proseguì:
― No, non ho amanti, tranquilla. È solo che fuori dal
mondo della Maison è tutto così complicato, difficile.
Tra noi c’è luce ed energia positiva, ci divertiamo, ma
confrontiamo anche le nostre idee. Capisci? È un
bell’ambiente, credimi! Vorrei farti contenta, ma senza
di loro non riesco a dare un senso a niente.
― E questo ti sembra normale? Per me siete un po’ depressi se la vedete tutti in questo modo. Ma stai scherzando? Solo tra noi, tutto tra noi, la luce, se non ci sono
loro non mi sento viva. Ripigliati Corinne. Il mondo è
come lo vediamo noi. Non quello che accade, ma come
lo si vive. Devi toglierti gli occhiali. È vero, ci sono difficoltà oggettive, ma deve essere così. Non si può sempre cantare e battere le mani, non credi? Ho
l’impressione che tu stia proiettando tutto all’esterno.
Paul cosa dice?
― Mio marito? All’inizio era contento di vedere in me
tanto entusiasmo, ora vorrebbe che andassi da loro solo
qualche volta, secondo lui sono troppo presa da questi
amici.
― Perché non viene con te?
― Perché non voglio, questo è uno spazio mio, solo
mio. Lui ha i suoi limiti, non capirebbe le relazioni
all’interno del gruppo, noi siamo tornati ragazzi, anche
in amore.
Lia la guardò abbassando gli occhiali, li aveva messi per
leggere la rivista che svogliatamente aveva preso. Stava
perdendo il controllo.
― Cosa vuol dire ”anche in amore”. Ehi, sorella sveglia! Quello che facciamo, è fatto per sempre. Non ho
nulla contro gli amanti, ma storie fatte bene, col cervello, non che portino allo sconvolgimento della vita costruita fino a quel momento. Non fare la cretina, dammi
retta. Ma questo posto d’illuminati non sarà un luogo
d’incontro per cuori solitari?
― Stai alludendo ad una specie di puttanaio?
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― Non ti arrabbiare, cerco solo di mettere a fuoco.
― Ma quali cuori solitari. Siamo persone che hanno ripreso in mano la loro vita. Ci si diverte e stiamo bene
tra noi.
― Penso che molti di loro facciano bene ad uscire da
una casa dove forse sarebbero soli.
― Certo che sì. Non tutti amano la solitudine come te!
E preferiscono uscire a vivere, a divertirsi.
― Sarà che io non ho mai avuto l’idea del divertimento
come sfogo passionale che volge altrove… Comunque,
credo che chi ha fatto già le proprie scelte debba rispettarle e perseguirle, o quantomeno valutarle con lucidità.
Tu non hai una vita che ti permette di fare quello che
vuoi.
― Lia, se la metti su questo piano non parliamone. Ma
vi capisco, siete persone incatenate, vi siete piegati alla
società del perbenismo. Ecco cosa siete, dei moralisti
ipocriti.
― Ipocriti siete voi, che usate questo mezzo per tradire
le famiglie, per poi tornare a casa tutti felici, senza viverci veramente.
― Non ho tradito ancora nessuno.
― Che coraggio! Mancare alla parola data, agli impegni
presi, mentire, venire meno agli affetti, ai doveri… tu
come lo chiami? Ogni tuo istante è caratterizzato dai
momenti con quelli del gruppo, ha ragione Jean.
― Perché, cosa ti ha detto mio fratello?
― È molto preoccupato. Nei pochi momenti che riesce
a rubarti, quando madama la marchesa concede la sua
presenza, ti vede insofferente, sente che hai voglia di liberarti di lui quanto prima per correre dai tuoi amici illuminati, e anche mentre sei con lui la tua testa è da
un’altra parte, parli solo di loro. Dice che sei diventata
persino bugiarda coi bambini. Quanto tempo togli alla
tua famiglia? Fare delle cose toglie tempo al farne altre,
questo è pacifico. Dove sono finiti i tuoi vecchi interessi? Facevi dei bei lavori con le mani, eri così creativa…
Alimentavi la tua cultura con documentari, cinema, li49
bri; organizzavi feste per i tuoi figli da togliere il fiato.
E adesso?
― Adesso basta, in questo momento ho bisogno di questa cosa, punto. Ho superato un livello, mi sono finalmente tolta le catene. Io sono viva Lia… so-no-vi-va!
Adoro quel gruppo, stop. Sono i miei veri amici.
― Ma come fai a definirli veri amici, dopo solo qualche
mese di frequentazione basato sul divertimento. Cosa
sai della loro vita? E loro della tua? Tuo amico è Raul,
mia amica è Marianne. L’amicizia pretende una lunga
condivisione o una simpatia immediata, ma che richiede
comunque del tempo per scortecciarsi e vedersi nella
verità. Certo, ci sono diversi livelli di amicizia, ma caspita, tu ne parli come fossero tuoi amici da una vita.
Corinne la interruppe:
― Guarda che ci confidiamo molto! Siamo affini, hai
presente le affinità elettive di Goethe?
― Se vi fate ispirare dal comportamento amoroso di
Goethe siamo a posto. Insomma Corinne, non credo che
si possano trovare tutte queste affinità in un posto solo.
― Vorrei veramente che tu capissi, è solo un modo di
vivere diverso dal vostro. Un prolungamento voluto e
cosciente della giovinezza ed è questa la vera gioventù,
quella consapevole, gli anni dell’anima, del cammino di
luce. La vita è una e dobbiamo viverla con libertà e pienezza, ogni momento potrebbe essere l’ultimo. Con
questi amici raggiungo il benessere perfetto, punto e basta! Siamo come un puzzle, ognuno di noi è come se
fosse un pezzo che ha trovato l’altro, e componiamo
l’insieme.
Lia sentiva un’angoscia al petto, proprio all’altezza del
plesso solare. Sua sorella era una delle persone più intelligenti che avesse conosciuto. Perché quest’inquietudine
e non la scelta di stare bene veramente? Respirò profondamente con la pancia. Forse Corinne non era
intelligente quanto lei aveva sempre ritenuto, forse
l’aveva sempre vista con gli occhi del cuore.
Le sembrava di non riconoscerla nemmeno più, camminava con le braccia conserte come uno scienziato che
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stesse cercando disperatamente la formula. Ogni tanto si
fermava a fare schioccare le dita delle mani. Se si agitava a quel modo c’era speranza. Conoscendo Corinne,
stava iniziando a mettersi in dubbio.
― Continua pure a camminare avanti e indietro se vuoi,
ma preferirei che sedessi al mio fianco; ad ogni modo,
fai come preferisci.
Corinne si sedette sul divano di fronte.
― Allora Corinne, io ti voglio molto bene e te ne vogliamo tutti, non discuto sul fatto che probabilmente te
ne vorranno un po’ anche loro, è facile volertene. Queste possono essere solo mie considerazioni, ho saputo le
cose a spizzichi e bocconi, però credo di essermi fatta
un’idea, che per l’amor di Dio potrebbe anche non essere giusta. Lessi da Raimon Panikkar che la verità è quella che si cerca, non quella che si trova e mancando di
quest’esperienza, la mia potrebbe essere un’inconsapevole
bugia. Secondo me, pur non conoscendo quell’ambiente e
nemmeno le persone, c’è qualche cosa che non va tanto
bene. Mi permetto di farti osservare alcuni punti. Non
metterti sulle difensive, te ne prego! Questo gruppo è
per te un mondo rassicurante; la comunione d’intenti
rassicura ad ogni età, ma il vostro mi sembra un atteggiamento adolescenziale, la ricerca dell’appartenenza al
branco n’è un esempio. Mi sembra che sia una regressione che inevitabilmente porterà al ristagno. A me degli altri non importa, di te sì. Conoscendoti, temo che ad
un certo punto, da quello stagno uscirà un odoraccio che
t’investirà e starai male; basterebbe una scortesia o una
cattiveria da parte di uno dei membri, e vedresti ancora
una volta crollare il mondo pieno di benessere e armonia che da sempre cerchi. Naturalmente potrebbe non
succedere, ma cerca di tirare un po’ di somme.
― Proprio tirando le somme sono diventata una di quelli della Maison, cosa vuoi saperne tu di somme. Tu, che
ti sei rintanata qui e non hai mai avuto un uomo. E sai
cosa penso? La tua è stata una scelta dettata solo da una
paura fottuta di affrontare il mondo, l’amore e il sesso.
Sei una vigliacca codarda Lia, ti sei sempre tirata indie51
tro. Non fai altro che andare avanti e indietro da una vita
per stare con la tua amica Marianne, e ciò ti basta. Pensaci, l’anormale sei tu!
― Ti sbagli Corinne, ti sbagli; ma è di te che stiamo
parlando. Con loro vivi in un mondo parallelo, i problemi veri sono accantonati per dare spazio alle stupidate, all’esaltazione. Il non avere consapevolezza dei nostri problemi non li toglie, solo li rimanda. Stai vivendo
fuochi fatui. Pensaci, in quel posto vi siete uniformati ad
un modo di vivere perché avete trovato la fusione,
l’intreccio con fondamenta che affondano sulla fragilità
delle persone che devono dipendere tra loro per sentirsi
vive, dipendere è insano.
Corinne l’ascoltava in silenzio, erano cose che già sapeva. Aveva acutezza a cui preferiva non prestare ascolto.
Qualche sentore di cattiveria alla Maison l’aveva già
avuto.
Lei era come una ragnatela, per turbarla bastava un granellino di polvere, un moscerino, o un leggerissimo alito
di vento. Le percezioni e tutto ciò che andava a toccare
quei fili le metteva ansia, perché diventava quel ragnetto
bravissimo a tessere, ma che lasciava ogni volta tutto il
suo lavoro in sospeso per correre a vedere cosa fosse
successo.
Corinne pensò che la sorella stava guardando solo una
parte della medaglia, quella che la vedeva allontanarsi
dalla famiglia. Immaginò che stesse facendo solo opera
di persuasione da ignava per questo motivo.
Riprese in mano il discorso con tono rabbioso, appena
se n’accorse andò a bere dell’acqua per calmarsi e fumò
una sigaretta. Tornò in sala.
― È una rigenerazione per me Lia. Non mi basta lavare,
stirare e preparare torte, mi sentirei una mediocre. Non
sarei felice. Tu vuoi che sia felice?
― Sì, ma non di una felicità da educanda. Poi, la mia
preoccupazione è vederti tanto presa, mi pare una cosa
da malridotti. Con tuo marito come va?
― Bene, lo infastidisce quando sto troppo alla Maison,
ma basta che ci vado a letto e gli passa tutto.
52
― Parlagliene.
― Macché. Che vuoi che gli dica? Gli uomini sono
questo. A letto passa ogni problema, mi sono rassegnata.
― Non devi rassegnarti, è qui che devi mettere le tue
energie anziché in un gruppo che è diventato fondamentale nelle tue giornate. Se è questa la peculiarità di quelli
della Maison, sono certa che vi limitate uno con l’altro
eludendovi persino dalla vita sociale. Di cosa parlate là
dentro?
― Di tutto. Guarda che non siamo dei diversi, solo abbiamo capito d’essere stanchi delle solite cose e non ci
adattiamo ad accettarle passivamente.
― Questa la trovo una cosa positiva, ma non credo sia
necessario e nemmeno sufficiente condividere ogni
momento libero tra voi. Perché Corinne non cerchi di
recuperare il tuo rapporto con Paul, sono sicura che non
va bene, altrimenti non cercheresti una vita parallela da
cui lasciare fuori i problemi.
Corinne non rispose e Lia continuò.
― Sai, penso che tu ancora una volta ti stia facendo violenza. Perché non provi a trattare con dolcezza quella
bimba che hai dentro? Mi viene da pensare al famoso
venticinque aprile del Portogallo.
― Me lo ricordo. I capitani dell’esercito si fecero portavoce del popolo e attuarono il colpo di stato noto come
“A Revolucao dos cravos”. I militari misero nei loro fucili e cannoni i fiori, attraversarono Lisbona per esiliare
il dittatore. I capi di stato furono costretti a prendere atto
della situazione in favore della rivoluzione.
La tensione si stava morzando.
― Ecco Corinne, così potrebbe accadere anche nella tua
interiorità e per la tua crescita personale, i risultati arriverebbero più gentilmente se non muovessi guerre massacranti contro te stessa., dovresti imparare da quei capitani, sparare fiori sulla tua anima; se è preziosa e delicata con la violenza le fai solo paura.
Poi prese una mano tra le sue.
53
― Che mani fredde hai sempre… Ascoltami, ti faccio
un esempio; da bambina ti piacevano un sacco i miei esempi.
Corinne si rilassò e sorrise amabilmente per rispetto
verso la piccola Corinne della sua infanzia.
― Mi piacevano e me li ricordo, ogni tanto affiorano
nella mente ancora oggi. Mi sembravano parabole.
Lia proseguì.
― Poniamo il caso che il tuo televisore non funzioni e
che tu inserisca una videocassetta per vedere un film. Lo
schermo resta nero, allora provi a cambiare canale con i
tasti del telecomando, niente da fare. Cambi videocassetta, ma anche quella non si vede. A questo punto capisci che il televisore non funziona e anziché chiamare il
tecnico, continui a provare tutte le cassette che ti capitano tra le mani e a scaraventarle perché non funzionano.
Questo è quello che fai tu.
― Non hai capito Lia, io amo la Maison. Loro sono diventati la mia vita. Non è vero che abbiamo scambi culturali, cioè non proprio... frequentare la Maison dà senso
alla mia vita, punto. Tutto qui.
― Ecco il nodo. Nulla per te è più degno di interesse se
non ha a che fare col giro. Ogni momento lo vivi per loro. “Alzati e cammina”, disse Gesù a Lazzaro. E il peggio è che sei convinta di essere in piena resurrezione.
― Lo sono.
Non riusciva proprio a farla ragionare e tanto meno a
capirla, forse per il fatto che personalmente non amava
avere vincoli. Non riuscì a trattenersi.
― Vi definite liberi? Ma se non sapete più vivere uno
senza l’altro? Liberi da che? Da cosa? Questo piacere
troverà il suo finale in un cieco abbattimento. Ti senti
onnipotente solo perché ti concentri sul piacere che ha
inizio e fine nel gruppo. Un fiore non è più un fiore se
non lo guardi con quel gruppo, oppure se ti sembra un
bel fiore lo raccogli e lo porti alla Maison. Mi sembra di
avere capito che funziona così. Ma tu non sei una persona che si adatta a lungo. Seguirà frustrazione perché
inevitabilmente ne rimarrai delusa, sei troppo in gamba
54
per ingoiare tutto, vomiterai Corinne! E il piacere ci rimetterà.
― Ho sete, vado a bere.
Corinne, tornò con la bottiglia dell’acqua e due bicchieri, uno infilato nell’atro, cercava di tenere tutto in equilibrio. Vedendola arrivare, Lia rivide in lei la sorellina
che faceva così con bicchieri, piatti, libri e giocava a tenere in equilibrio ogni pila di oggetti che le capitava di
dover trasportare.
Arrivata al tavolino, li separò appoggiandoli e li riempì,
uno lo porse a sua sorella evitando di incontrarne lo
sguardo, ma ricominciò con le sue motivazioni.
― Mi spiace che tu non sia in grado di capire. L’uomo
nasce libero, libero in tutti sensi, anche di fare l’amore
con tutti quelli che vuole e quando vuole, di avere gli
amici che preferisce e frequentarli quando lo desidera.
Alla Maison si fa il gioco della rivelazione di sé stessi,
un uomo e una donna si trovano senza parlare in una
stanza buia, fanno sesso e non sapranno mai con chi,
questo per non interrompere le energie e la magia, per
toccare le profondità. Tranquilla, io non l’ho mai fatto,
ma può essere che un giorno lo faccia. Però capisco
quanto voi siate indietro rispetto a noi, con tutti i falsi
moralismi e le ipocrisie.
― Ancora con questa parola, ma sai cos’è l’ipocrisia? O
la nomini tanto perché in questo momento ti appartiene.
Dai su, smettila, escine! Cerca un buon motivo per farlo
e perseguilo. Se pensi che il problema sia Paul, verifica
e se mai vi lasciate.
― Lia, non hai capito, senza di loro io non ci sto, in
questo momento è così. Può essere che passi. Capisco il
tuo punto di vista, capisco la compulsività e
l’ossessione, ma non riesco a farne a meno. Io voglio
stare bene e con loro sto benissimo. Del resto come dicevi prima, la tua potrebbe non essere la verità, poiché
manchi di questa esperienza.
― Fatti aiutare da un medico. Io ci sono, e potrai venire
ogni volta che vorrai, sola o coi bambini. Credo che stare lontana da Nimes e dalla Maison ti farebbe bene, riu55
sciresti a staccarti un po’ e vedere meglio le cose. Sai
com’è, da vicino non si riesce a mettere a fuoco per bene. Hai bisogno di essere ascoltata e io lo faccio volentieri. Vuoi fuggire da qualche cosa? Cerchiamo di capire
da cosa. Un’altra possibilità potrebbe essere che vai lì
per dirti delle cose che non sai dirti in altro modo. È necessario capire, questo sì, altrimenti ti troverai di nuovo
a questo punto. Se non impariamo la lezione, la vita ci
rimanda a settembre.
Lia accennò un sorriso dolcissimo e le pizzicò la spalla
affettuosamente, come in un gesto di complicità.
― Corinne, mi prometti che almeno ci penserai?
― Ma come faccio a farti capire? Io non ho problemi,
cerco la profondità dell’effimero, la passione silente, i
rapporti veri che sono nella dimensione eterea del fugace, la comprensione trascendente, le risposte inconsce
che è bene rimangano tali per agire nella verginità animica. Tutto questo è geniale.
― Porca vacca, Corinne, ripigliati! Esci da questo incantesimo. Sei una madre che deve tornare!
― Oh! Finalmente l’hai detto. Ecco cosa ti interessa veramente, non la mia felicità ma quella dei miei figli. Io
non sono la serva di nessuno. La famiglia è un cuscino
in faccia che mi soffoca.
― Non gridare che svegli i ragazzi. La famiglia non è
una cosa messa lì solo per rompere le balle, cara illuminata.
― Mettetevi bene nella testa che io sono uno spirito libero.
― Ma vai a quel paese va! Anzi, vattene proprio. I
bambini li porto a casa io domani. Così, almeno per
questa notte, non avrai il cuscino che ti soffoca. Vattene
Corinne, vai alla Maison, vai in albergo, vai dove cavolo vuoi.
Si aspettava che andasse in camera a prendere i bambini, invece raccolse la sua roba ed uscì, lasciandola sbigottita.
Mentre guidava, Corinne già immaginava a quando avrebbe suonato il citofono dei suoi amici, l’avrebbero
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accolta a braccia aperte. Solo loro riuscivano a capirla
perché avevano gli stessi problemi. Solo con loro stava
bene, erano sempre disponibili senza fare storie, lei era
una di “quelli della Maison” e solo l’idea di questa appartenenza al gruppo la rincuorava, quasi fosse il pezzettino trovato di un puzzle.
Arrivata a Nimes, passò davanti alla scuola elementare
dove sua sorella andava ogni giorno a prenderla; si ricordò delle risate, di quando si tiravano le palle di neve,
della primavera e di Lia che ogni volta diceva con aria
trasognata che la primavera era bella e poi faceva un respiro tanto forte quasi tentasse di mettersela tutta nei
polmoni. La ricordò quando arrivò a scuola in bicicletta,
con Jean che aveva le ginocchia sbucciate e sanguinanti.
Per non fare due viaggi, caricò la piccola Corinne sul
manubrio… e via tutti e tre alla volta di casa, dove la
mamma ― che non sapeva ― li stava aspettando tranquilla. Quando arrivarono a casa, Lia li fece scendere
tenendo in equilibrio la bicicletta perché non cadessero
e solo dopo chiamò la mamma.
Il ricordo le entrò nel cuore. Si asciugò gli occhi con le
maniche della maglia e cercò un fazzoletto per soffiare
il naso.
Tornò a Sète.
Quando entrò nella casa della sorella, era già mattina,
ebbe l’impressione che i bambini fossero dispiaciuti nel
vederla tornare.
Lia la salutò distrattamente mentre faceva colazione con
loro.
― Non frequenterò più la Maison, sto qui con te per
un po’.
I bambini corsero da lei.
― Davvero mamma? Ma anche quando torneremo a casa non andrai più alla Maison?
― No, non andrò più.
― Che bello mamma, allora arriverai puntuale a prenderci a scuola e qualche volta andremo al cinema, e poi
ci porterai ancora all’oratorio. Qualche domenica andremo anche in campeggio?
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Solo in quel momento Corinne prese coscienza di avere
trascurato i bambini, era tutto vero e lo sapeva fin
dall’inizio, ma era più facile dirsi altre cose. Mandò via
l’immagine di quando tornava a casa tardi e trovava i
suoi cuccioletti in pigiama addormentati sul divano, suo
marito che russava... e lei che in silenzio andava al telefono a chiamare quelli della Maison.
La discussione con Lia ottenne l’effetto di una bastonata
sulla testa che ti fa tornare la memoria. Sono bastonate
che fanno più male a chi le da che a chi le riceve.
All’inizio, quelli del giro cercarono di riprendersi Corinne, le telefonarono molte volte per informarla di cene, amori, e ricordarle i bei momenti trascorsi insieme.
C’era bisogno di lei.
Il giardino della Maison la reclamava, non era bello come quando se n’occupava lei. Mancava a tutti la sua allegria, la fantasia che metteva in quello che faceva, la
passione.
L’ultima volta che suonò il telefono, era la sua amica
del gruppo, una mamma come lei, che però, a sua differenza era inzuppata come una spugna di Maison. Le
propose una vacanza con tutti gli amici. Corinne provò
una gran pena, la tristezza che le mettevano i film muti
quand’era bambina. Quelle attrici con gli occhi cerchiati
di nero e gli attori con baffetti e cappello: i loro sorrisi
che duravano troppo tempo per essere credibili e le espressioni esagerate per dare senso a una scena senza
voce.
L’aveva gratificata l’appartenenza ad un gruppo così unito, tra l’altro ne usciva come una delle persone più
sveglie ed intelligenti, ma il problema era la compulsività, la costrizione, l’ossessione. Aveva ragione Lia, per
quanto la riguardava, la frequentazione della Maison
mascherava velatamente una sorta di depressione e la
serenità per lei era altrove.
Pensava che sarebbe stato difficile deporre quella dipendenza, invece si rivelò più facile del previsto riuscire
a stare senza di loro.
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Dio mio, visti da lontano le sembravano persone che avevano perso il senno. Non sentiva il bisogno di loro,
ma nel suo profondo non stava bene ugualmente.
Pensò allo zio Piero, essere dichiaratamente pazza sarebbe stato un sollievo, un alibi per fare e dire tutto
quello che voleva, gridare, spaccare tutto, andare via e
ritornare, senza dover rendere conto a nessuno, tantomeno a sé stessa.
Si rivolse ad una giovane psicologa che prendeva molto
a cuore i suoi pazienti e con il suo aiuto e l’amicizia di
Raul, cominciò a star meglio.
Quando si è nel buco nero la famiglia sta peggio di noi,
essendo coinvolta nella nostra sofferenza, e lì sentiamo i
veri amici bussare alla nostra porta chiusa a due mandate. Da principio non rispondiamo, speriamo che se ne
vadano, e loro lo fanno. Ma ritornano. Raul aveva avuto
un ruolo importante.
Riuscì in seguito a vivere veramente in modo sereno,
conquistando a piccoli passi la sua autenticità e un concreto benessere mentale.
Decise di scongelare la Corinne bambina e di coccolarla
un pochino, povera piccina l’aveva chiusa nel ripostiglio, non per castigarla, ma per sottrarla alle angherie
del mondo. Ora invece, quando i suoi figli erano a scuola, il marito al lavoro e rimaneva sola, la chiamava, la
faceva sedere vicino e le leggeva le favole, stavano tanto bene insieme. Quella piccina era rimasta incontaminata, come se il tempo non fosse trascorso, era come allora. Lessero insieme Pinocchio e fecero diventare Lia il
grillo parlante, che si beccò una sassata, perché sì che
diceva la verità, ma quanto rompeva le scatole! La loro
storia preferita era la stessa, incredibile quanto si somigliassero... si capivano al volo.
“Vivevano nel bosco tre porcellini, il lupo voleva mangiarli, allora decisero di costruirsi ognuno una casetta. Il
primo la fece di paglia, ma il lupo la buttò giù con un
solo soffio, il secondo la fece di legno, ma il lupo riuscì
a distruggerla con due soffiate, e il terzo usò calce e
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mattoni; la casetta risultò solida e accolse i fratellini, il
lupo non poté fare loro del male.” Risero nel pensare
che il terzo porcellino, costruendo la casa di mattoni fischiettava. La Corinne piccina si metteva la mano sulla
bocca dal troppo ridere, e la Corinne grande la guardava
felice e divertita. Sarebbe mai riuscita a costruire dentro di sé la casetta con calce e mattoni, magari fischiettando?
E il lupo chi era?
Capì di stare davvero bene quando riuscì a passare davanti alla casa bianca senza scappare, fermarsi al gran
cancello di ferro battuto e leggere l’incisione sulla targa
dorata: “Maison”.
Ricordò il primo giorno che partecipò ad una riunione,
per caso, se il caso esiste.
― Benvenuta cara amica nella casa della rigenerazione.
Qui nella maison non userai il tuo vero nome, ne sceglierai uno esclusivamente per noi. Ti piacerebbe Aurora?
― Mi piace, è bello e lo sento mio. ― rispose con entusiasmo.
Tutti i presenti all’assemblea applaudirono la nuova arrivata e lei si sentì importante. Le sembrava fosse finalmente arrivato, dopo tanta attesa, il suo momento di popolarità.
Corinne morì a poco più di quarant’anni, e le ultime parole le rivolse al prete mentre stava dando l’estrema unzione:
― I miei figli dove sono?
Al funerale presenziò anche Pierre, nonostante non
l’avesse più incontrata in tutti quegli anni.
In fondo alla chiesa c’era Raul, che arrivò all’ultimo
momento, aveva insolitamente gli occhiali da sole.
Lia scelse personalmente la lettura, Marco 9.33 “...chi
scandalizzerà uno di questi piccoli che credono in me,
meglio sarebbe per lui che gli sia legata al collo una
macina d’asino e lo si getti nel mare”.
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Ogni tanto si sentiva qualcuno soffiare il naso.
Era stato sufficiente un po’ di ghiaccio perché l’auto
andasse a schiantarsi contro un palo dell’elettricità. Non
morì sul colpo, anzi, pareva fosse andata bene, fino a
che i medici diagnosticarono un’emorragia interna che
pose fine alla sua esistenza terrena.
“…La morte è fin d’una pregione oscura
a l’anime gentili; a l’altre è noia,
ch’anno posto nel fango ogni lor cura
Et ora il morir mio, che sì t’annoia,
ti farebbe allegrar, se tu sentissi
la millesima parte di mia gioia.”
(Triunphus mortis - F. Petrarca)
La morte di un giovane genitore o di un figlio è una
crudeltà della vita, un tradimento. È possibile avere fede
e non porsi domande, ma la risposta dolorosa vien da sé.
Al termine della cerimonia, Lia salutò la famiglia e
Raul. Entrambi se ne andarono subito via, non avevano
voglia di condoglianze e strette di mano.
Molto spesso le persone approfittano dei funerali per
potersi permettere di piangere un po’, quando muore
una persona giovane o che ha le caratteristiche per
commuovere, non si riesce ad entrare in chiesa da tante
persone che ci sono. Quanto piangere! È bello piangere!
Fanculo. Vai a vederti un film.
Lia tornò a Sète, Pierre l’accompagnò.
Durante il viaggio nessuno dei due parlò. Lia guardava
fuori dal finestrino e pensava a Corinne.
I ventenni più intriganti sono quelli che si pongono
spesso domande sull’esistenza senza trovare risposte e
gli adulti più interessanti sono quelli che ancora non si
sono garantiti risposte definitive, ma che vivono con rettitudine. Corinne era stata anche questo.
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Arrivarono a Sète sul tardi.
― Come stai?
― Sto come quando la vita continua. In questi frangenti
credo che sia veramente crudele sopravvivere a chi ami.
Sapeva quanto fosse legata ai suoi fratelli, parlò per uscire lui stesso dalla morsa del dolore.
― Accendo il riscaldamento.
― Sì. Cosa mangiamo?
― Minestrina italiana.
― Bene.
Mise l’acqua nel pentolino, Pierre aprì il frigorifero e le
passò il burro e un dado.
Buttò la pastina a freddo, a lui piaceva così.
La notte stessa sognò Corinne, bellissima, i capelli lunghi e ricci, portava lo scialle della nonna sulle spalle,
cercava di entrare in una piccola casa per le bambole.
Lia le andò vicino chiedendo cosa stesse facendo, lei si
voltò guardandola con uno sguardo che trapassava e con
voce infantile da bimba, rispose:
― Quando diventerò vecchia sarà bellissimo tornare a
pettinare le mie bambole e giocare come quando ero
bambina.
Poi la vide abbassarsi ed entrare dalla porticina con la
stessa grazia di quando era la sua sorellina più piccola,
all’ultimo momento vide che teneva un pettine tra le
mani e la sua bambolina, si chiamava Ninette.
Permettersi il tutto emozionale richiede maturità, era
probabilmente questo il messaggio di Corinne. Solo chi
ha coltivato il suo mondo interiore con molta cura e
saggezza, si può permettere di tornare bambino, sa dove
fermarsi e conosce le vie del ritorno.
Si svegliò inquieta e spaventata. Si accorse solo allora
che Pierre era già partito senza disturbarla. Guardò
l’orologio, era l’alba. Si sentì scoperta, andò a prendere
dal baule lo scialle della nonna, sapeva d’infanzia, delle
ginocchia sempre sbucciate di Jean e degli zoccoletti di
legno di Corinne. La rivide bambina buttarsi per terra
dal tanto ridere perché Jean era caduto, dondolarsi
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sull’altalena nel giardino della vecchia casa e ripetere
scioglilingua in italiano. Le sembrò di sentirla, la lingua
le si ingarbugliava nella erre francese, ma lei non si arrendeva e ricominciava da capo impegnandosi: “Sopra
la panca la capra canta, sotto la panca la capra crepa”.
Corinne non smise mai di andare in altalena, il suo umore, le sue allegrie e tristezze, su e giù per tutta la vita.
Si ricordò il profumo di minestrone, il broncio di suo
fratellino che non lo voleva mangiare e la voce indimenticabile della mamma affermare che non si può mangiare solo quello che piace, ma anche quello che fa bene.
La casetta del sogno, forse, stava ad indicare il gioco
che nell’età critica dà le emozioni che si vanno perdendo. I capricci degli adulti che vogliono riprendersele ma
non sanno come, perché essere bambini è dei saggi.
Era una birbante sorridente e serena Corinne, fino a
quando gli “uomini” non cominciarono a metterle gli
occhi addosso, maledetti maiali. Qualcuno ha detto che
dalle cicatrici esce l’anima. Balle, le cicatrici sono segni
indelebili sulla pelle che rivedi ogni volta che ti lavi.
Corinne, avrebbe voluto portare avanti un compito e vederne i risultati: educare i suoi figli nel rispetto della
sessualità propria e altrui. Una sessualità sana. Le basi
le aveva già piantate. Negli anni a seguire, Lia non fece
mai mancare affetto e attenzioni ai suoi nipoti. Sapeva
che comunque erano in ottime mani, Paul era il miglior
padre che potessero avere. Corinne aveva scelto bene.
6
Pierre riconosceva il valore di sua moglie.
Questa coppia, come tante altre, era stata provata dal
dolore; anni prima era morta la figlia in un incidente
stradale. Aveva cinque anni, guidava Pierre. In parte inconsciamente, la moglie cominciò ad odiarlo, lui stesso
non riuscì mai a perdonarsi quell’assurdo errore. Nessuno dei due parlò più con l’altro d’Agnes, come non fosse mai esistita, come se fosse fuori dalla loro anima. I
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rapporti andarono peggiorando di mese in mese. Cominciarono a non amarsi più.
Carmen non avrebbe mai pensato di dover vedere la sua
bambina morta. Aveva pianto tanto su quel visino che
aveva perso i lineamenti originali. La toccava e non era
morbida come avrebbe voluto ritrovarla, era diventata di
legno, eppure da quel corpicino usciva amore. Sentiva
dentro sé il respiro, che non passava più attraverso i
polmoni, l’apnea s’impadroniva di lei. Aveva tanto pregato perché il Signore si muovesse a pietà, perché rifacesse un miracolo, aveva sperato che i suoi occhi potessero riaprirsi, aveva aspettato senza che nulla accadesse.
La sua bambina continuava a stare lì, immobile. Il custode la invitò ad uscire, doveva chiudere i cancelli.
Carmen realizzò che non sarebbe potuta restare con lei
per sempre; e invece sì, sarebbe stata la piccola a non
lasciarla, perché Carmen sarebbe rimasta la mamma di
Agnes oltre la vita. Un genitore può avere altri figli, un
figlio può avere solo quel genitore.
Si cercano ragioni e risposte metafisiche al dolore, e si
possono anche trovare, si trova sempre un senso, basta
volerlo.
Un giorno Pierre trovò in un libro che stava leggendo,
un foglio, la scrittura era di Carmen.
Te ne sei andata
Lasciandomi nel buio.,
Le mani piene di pietre pesanti,
Pietre
che ancora frantumo.
Violentata dal destino
ho arrancato, strisciato.
Aggrappandomi
ad ogni barlume di luce,
di vita,
sentendomi addosso la colpa,
l’ingiustizia.
La rabbia bollente ha trapanato
le viscere,
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ed ora
appesa per i piedi
lascio scivolare via rivoli di fiele,
amara,
tanto amara
perché non mi è stato risparmiato questo calice.
Dalla mamma alla sua principessa dell’isola dei bambini.
(Testo originale di Maria Carmen.S., scritto per la sua
bambina Marta, che è andata in quell’isola… ma prima
o poi tutti i genitori rivedranno i loro bambini diventati
angeli e li riconosceranno dai baci. Vero Carmen? Un
pensiero al mio piccolo Francesco.)
Pierre rimise la poesia tra le pagine, esattamente dove
l’aveva trovata. Ricordò l’espressione decisa della sua
bambina, mentre diceva:
― Un giorno andrò molto lontano, nell’isola dei bambini, devo andare perché sono la loro principessa.
Poi con la manina chiusa a pugno davanti al naso, e il
ditino indice alzato aggiungeva con soddisfazione:
― E voi non ci potrete venire!
E il suo ditino dritto faceva no. Ricordò quante volte
glielo avrebbe voluto mordicchiare, quel ditino furbo
furbo. Era una bambina speciale Agnes; quando si arrabbiava si chiudeva a chiave nella sua camera e se
qualcuno andava a bussare con tono fermo rispondeva:
― Ora sono mooolto arrabbiata, poi mi passa e apro.
Nessuno poteva insistere oltre, Agnes aveva già dato la
sua spiegazione, stop.
Non c’era mai stato il minimo tradimento tra lui e Carmen, non ne avevano mai sentita la necessità, ma
l’incontro di Londra aveva scatenato in lui la voglia di
sedurre ed essere sedotto.
Bastò cominciare e verificare quanto fosse facile piacere
alle donne per continuare ad avere relazioni extraconiu65
gali, quasi come per mettere in atto un esorcismo sul
tempo che passa.
No, non era un comportamento dettato dalla disperazione per la perdita di un figlio, non una reazione, almeno
non cosciente; lo scatenarsi dell’affermazione con
l’altro sesso, gli dava conferma che a quarant'anni e oltre, ancora si può conquistare e scoprire che si è più abili che a venti. Ma tutto ciò doveva necessariamente nascondere un’incognita.
La sua amicizia con Alain e gli altri terminò nel momento in cui chiese il loro appoggio per le sue numerose
scappatelle. Prima del previsto, anche la moglie lo lasciò senza chiedersi nulla, la tradiva, questo bastava.
Era una donna molto determinata. L’ultima volta aveva
visto la macchina del marito fuori da un albergo. Era diventato un cretino!
Quando Pierre a tarda notte rientrò, gli fece trovare le
valigie e il biglietto da visita della casa albergo, che per
educazione e rispetto per tutti quegli anni di matrimonio
gli aveva prenotato, il portiere lo stava aspettando. Sul
bigliettino una scritta a penna, ”La reception ha il tuo
nome”.
Incredibile, si sentiva bene, ancora più libero, nessun
rimorso, e nemmeno rancore. Era giusto così.
Nessuno aveva sospettato il nome di Lia tra le sue amanti. In realtà, da allora era rimasta l’unica costante
delle sue relazioni, del resto lei non c’entrava assolutamente con la decisione della moglie di separarsi.
Pierre pensò di non dire a Lia che si era separato, lei era
un’altra cosa, una persona nata libera, non avrebbe accettato di condividere la quotidianità nemmeno con lui e
il venire a conoscenza di questa situazione avrebbe potuto destabilizzare il loro rapporto, la paura di dovere
subentrare alla moglie.
Dopo qualche settimana, trovò una casa in affitto e si
trasferì.
La relazione con Lia, non subì alcuno scossone. Lei non
aveva intuito niente, preferiva non sapere nulla della vi66
ta privata del suo compagno. Pierre era quello che era
quando stavano insieme, e insieme stavano benissimo.
Mai avrebbe immaginato che dietro ci fosse una simile
storia di donne e tradimenti, tantomeno che fosse ridiventato libero.
Era rimasto un rapporto a due, come avevano desiderato
dal principio. Nessun contatto che potesse distrarli, o
inquinare il loro amore. Mai un’uscita ad un bar o in un
ristorante. Si erano sempre bastati stando soli. Una solitudine a due voluta, non avevano tempo da sprecare,
non ne avevano mai avuto, ma neppure cercato.
In genere, i rientri a Nimes di Pierre erano preceduti da
una breve passeggiata sulla spiaggia.
― Lia, hai mai desiderato un figlio mio?
Lo baciò con affetto sulla fronte, alzandosi in punta di
piedi. Sapeva del grande dolore per la perdita di quella
bambina della quale le raccontò solo una volta, senza
dirle neppure il nome.
― Non ci ho pensato. E tu?
― Non ci ho pensato.
Lia si fermò un attimo a riflettere poi proseguì.
― Ma ti sarebbe piaciuto? Perché ormai siamo in ritardo.
― No, già la vita è complicata, poi i figli… no, no.
Lia sorrise, giocherellando con i suoi stessi piedi.
― E poi Pierre, credo che un figlio debba possibilmente
avere entrambi i genitori. Tu non avresti potuto fare il
papà, non di mio figlio.
― Mi fai sentire in colpa.
― No, sapevo che eri sposato. Non ho mai voluto portarti via a lei. Del resto, Pierre, sai bene quanto io sia allergica alle convivenze, figurati al matrimonio. Non ti
avrei mai messo davanti a una scelta.
― Già.
― Un figlio è una cosa seria. Può succedere che la vita
gli tolga un genitore, ma la partenza prevede mamma e
papà. Non sarei stata abbastanza forte da crescere un figlio da sola, il ruolo di ragazza madre deve essere faticosissimo, la scuola, le domande, non avere nessuno
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con cui dividere le preoccupazioni e i problemi. Essere
soli nell’impostare il suo futuro, magari sbagliando.
Non avere più tempo e spazi propri. No, non sono fatta
per i sacrifici. Ma dimmi il vero Pierre, avresti voluto un
figlio da me?
― Tu non c’entri, io non voglio lasciare niente sulla terra di mio quando non ci sarò più. Ci provai, ma non era
destino. Via io, via tutto di me!
Lo guardò.
― Tutto bene, Pierre?
― Certo, tutto bene!
Si sorrisero.
― Lia, sei convinta che l’amore non preveda rinunce. È
vero?
― La rinuncia costa sempre e spesso si finisce col farla
pagare cara. Il primo a non volere le nostre rinunce è chi
ci ama. D’altro canto, l’egoismo e la generosità sono
sentimenti contigui, facilmente confondibili nei rapporti
umani. L’amore vuole impegno, questo sì.
― In cosa ci siamo impegnati?
― Nell’amarci come fine e non come mezzo.
Per Lia e Pierre, il loro amore era quel qualcosa in più
che rende la vita ancor più bella e interessante. Non si
ritenevano fondamentali l’un l’altro ma complementari.
Lia ritenne tra sé, di non essere stata esauriente nella risposta riguardo la possibile maternità. Voleva dissipare
in lui ogni dubbio.
― Se avessi desiderato diventare mamma, avrei impostato la mia vita in modo diverso. Io ti ho amato tanto, e
l’amore basta all’amore. Mi sono realizzata nel rapporto
con me stessa, ascoltando fino in fondo i miei sentimenti e tralasciando le cose che tutti fanno perché sono previste. Se avessi avuto marito e figli, non sarei riuscita a
rimanere tanto centrata su me. Non pensare sia egoismo,
ma amore della conoscenza di me stessa. Un po’ difficile spiegarlo!
― Ho capito benissimo. Ti conosco a meraviglia.
― Ma poi, cosa ti viene in mente dopo tutto questo
tempo, non sarà che il tuo matrimonio è in crisi?
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― No, assolutamente, tutto benissimo.
― Potevo essere sterile, o avrei potuto sposare una persona ed essere infelice. Con te sono stata molto libera e
soddisfatta.
Abbassò lo sguardo.
― È ora che tu vada Pierre. Vado a prendere i fiori.
Tornò con un gran mazzo di rose rosse che gocciolavano, lo scrollò fuori dall’uscio e lo avvolse in una carta di
giornale.
Erano per la tomba di Corinne.
Il solito bacio di saluto sulla guancia.
― Pensami. ― gli disse mentre partiva.
La sua mente poi corse dietro a quel mazzo di rose. Anche lei come sua sorella Corinne, era abile ad innescare
il meccanismo di difesa che ti fa pensare ad altro.
Nemmeno per un secondo si fermò a riflettere sul dialogo con Pierre.
Pensò invece a Corinne. Era la sorella che avrebbe scelto tra tutta l’umanità, l’esatto opposto con cui confrontarsi. Eternamente insoddisfatta, impulsiva, eccessiva.
Si ricordò della notte in cui dovette andare a recuperarla
ad una festa, mentre nuda e ubriaca ballava sul tavolo.
Povera piccola, perché tanta voglia di affermazione in
lei? Forse si sentiva trascurata o inadeguata, forse inferiore agli altri, oppure tanto superiore da sbattere loro in
faccia, con strafottenza, il menefreghismo che in realtà
non le apparteneva, non così. Eppure aveva tutte le carte
in regola per vincere qualsiasi partita senza eccessi e
sprechi. Probabilmente tutte le domande erano inutili
perché il suo destino era di entrare nella sofferenza estrema dell’anima; la vita l’aveva scelta perché era la
più forte, il serbatoio della sapienza aveva bisogno di informazioni da far piovere poi lentamente sull’umanità, e
da qualcuno doveva farle salire al cielo, Corinne ce
l’avrebbe fatta.
Quando conobbe il marito, si tranquillizzò, e diventò
improvvisamente pacata, forse troppo, pensandoci col
senno di poi. Una perfetta regina della casa. Ora Lia ca69
piva che anche allora stava giocando pericolosamente
con sé stessa, come sempre; non passò molto tempo che
cominciarono le depressioni, per arrivare infine alla
Maison, dove i suoi modi estremi avevano trovato il nido. Corinne aveva nostalgia per tutto quello che le persone non devono fare. Era davvero una persona singolare quella sua sorella.
Rise ricordandone l’espressione da simpatica insolente e
l’aria di sfida. Aveva una dote spiccata, sapeva convincere chiunque, e alla fine pareva che avesse sempre ragione lei.
Rise ancora pensando alla Corinne del periodo dei figli
dei fiori, convinse Lia persino a farsi uno spinello.
Il rimpianto di Lia, in realtà, andava a toccare il discorso
con Pierre, ma dall’angolo più spigoloso: non aveva
trovato il modo per rendere partecipe Corinne e nemmeno la madre della relazione con lui, da cui era nata
Marie; ora era tardi per poterlo fare, ma forse loro dal
cielo avevano capito, da lassù tutto è più chiaro.
Riuscì a tenere nascosta la gravidanza partendo per il
viaggio dell’incoscienza, l’India, e tornando a Narbonne
giusto in tempo per partorire. Tutto questo con la complicità di Marianne che non condivideva la scelta
dell’amica, ma la rispettava e la aiutava a portarla avanti
con tutta la serenità possibile.
Aveva deciso di vivere in segreto la maternità per non
muovere gli equilibri della vita di chi amava, la mamma
e soprattutto Pierre.
Marie era cresciuta serenamente, da sempre sapeva chi
era il suo papà e perché non poteva vivere con loro, la
mamma glielo aveva spiegato bene fin dal principio e
lei non si era fatta altre domande.
I bambini hanno più capacità che gli adulti di avere ben
chiare le cose. Le accolgono senza bisogno di molte
spiegazioni. Non sono schematizzati.
Laddove i bambini nemmeno vedrebbero il problema,
arrivano i grandi a dare risposte senza avere ricevuto
domande, con la presunzione di sapere cosa pensano e
di cosa hanno bisogno i bambini. Per i piccoli uomini il
70
tempo è oggi, come per il resto degli esseri viventi appartenenti al nostro regno della natura.
Marie aveva ben chiaro che era nata dall’amore di un
padre, che aveva conosciuto la sua mamma per seconda,
e nonostante si amassero tanto, dovevano rispettare la
scelta che il papà aveva fatto prima, sposarsi con
un’altra donna.
Era cosciente che Marianne non era la donna che
l’aveva portata nella pancia, ma l’amica della mamma
che si occupava di lei quando Lia doveva lavorare. Non
era però una baby sitter, perché le voleva bene come ad
una bambina sua, era “mamma Marianne”.
Papà Jo, come chiamava il compagno di Marianne, era
come un vero papà, giocava e le portava il gelato,
l’andava a prendere a scuola e quando era a casa
l’aiutava a svolgere i compiti.
Sapeva anche che per Lia non era stata una scelta facile
affidarla ad altri, anche se non l’avrebbe lasciata con
nessuno oltre a quegli amici di cu si fidava come di sé
stessa.
Sentiva il suo cuore scoppiare di felicità, ogni volta che
vedeva dalla finestra arrivare la Jeep della mamma. Allora correva giù per le scale e le saltava in braccio
― Cosa mi hai portato?
C’era sempre un regalo, se pur piccolo. Anche una caramella bastava per dire che l’aveva pensata.
Lia, faceva volentieri la spola. Riusciva, in questo modo, con qualche salto mortale, ad essere attenta e
presente nella vita di Marie.
Un giorno, quando la bimba aveva circa tre anni e avrebbe cominciato a frequentare la scuola materna, Lia
pensando ad una soluzione per farla vivere con lei a Sète, le propose il cambiamento; Marie felice rispose che
era un’idea bellissima e invitò subito papà Jo e mamma
Marianne a preparare le valigie, perché sarebbero andati
ad abitare a Sète. Lia sorrise e la riempì di baci. Marie
aveva talmente forte l’idea della famiglia allargata a
quei due amici, che aveva dato per scontato che si dovessero trasferire tutti per continuare a stare insieme.
71
Così Lia, continuò con Marie, la vita fatta fino ad allora;
a volte la portava a casa sua, altre si fermava da Marianne e dormivano nel suo lettino, ne approfittavano
per abbracciarsi forte. Quando decidevano di stare insieme per periodi più lunghi, Lia avvisava tutti che partiva per lavoro. Più il tempo passava e più diventava difficile raccontare questa storia ai famigliari e a Pierre.
Un Natale, la famiglia era riunita nella casa di Sète. Corinne, guardando il poster appeso alle pareti più attentamente del solito, trovò che la figlia di Marianne assomigliasse anche a Lia.
― Chi ti ha detto che è la figlia di Marianne?
― Allora chi è?
― Mia! ― rispose Lia.
Tutti risero pensando che scherzasse, tranne sua madre
che la guardò con fare indagatorio.
Quello era stato l’ultimo Natale della mamma.
Portò Marie in Italia e gliela fece amare, Milano, Venezia, Firenze, Perugia, Roma. Stavano d’incanto insieme;
in quei momenti Lia sentiva di avere fatto la scelta giusta, aveva una bambina felice.
Le insegnò ad ascoltare la musica, dedicarsi alla lettura,
sentirsi in sintonia con la natura e l’universo, parlare coi
gabbiani; facevano yoga e meditazione, discutevano
persino di filosofia, perché i bambini capiscono tutto;
Marie imparò anche a lavorare l’argilla e a dipingerla.
Pregavano insieme ringraziando e chiedendo al Signore
di proteggere papà Pierre che non poteva stare con loro
perché erano arrivate dopo.
Corinne morì in inverno. L’estate che seguì, Jean andò a
trascorrere qualche giorno a Sète.
Lia lo trovò spento. Non era più riuscito ad andare a casa di Corinne, aveva provato, ma non sopportava i cani
che piangevano ancora dopo tutto quel tempo davanti
all’uscio, almeno… così motivava! In verità era probabile che fosse il suo stesso dolore a non sopportare, i cani glielo facevano rimarcare. Accade.
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Quando Corinne era in vita lo riempiva d’allegria, era
sempre pronta, quando stava bene, a fare scherzi, ma
mai pesanti; secondo lei uno scherzo doveva divertire
anche chi lo riceveva.
Ora che non c’era più, riuscivano a mancargli persino le
sue nevrosi, le esplosioni di rabbia. Si sentiva come se
gli fosse passato sopra un treno lasciandolo illeso fisicamente. A pezzi, disorientato.
Una sera si sedette sul divano e cominciò a leggere a
Lia una relazione che aveva rilasciato la psicologa alla
loro sorella, quando decise di impegnarsi seriamente per
stare meglio.
― …la signora è giunta alla mia presenza per una valutazione psicodiagnostica. Sono stati effettuati alcuni
colloqui di valutazione ed anamnesi, un’indagine testologica ed un colloquio di restituzione. La richiesta era
relativa alla valutazione di dubbi riguardanti la sua instabilità psichica, avendo la signora avuto casi in famiglia di ricoveri obbligati. All’esame psicologico è risultato che la coscienza è integra, la percezione è libera da
errore; attenzione e concentrazione dipendono
dall’interesse provato rispetto al compito che sta svolgendo; la memoria non presenta particolari difficoltà.
La comprensione di contenuti cognitivi è pronta, perspicace e vivace; quando si tratta di comprendere meglio i suoi moti affettivi si riscontrano certe difficoltà;
l’ideazione presenta un flusso abbondante. Sembra che
la capacità di giudizio di verità sia sottesa a dei suoi bisogni affettivi. La signora è dotata di un’emotività che a
tratti è labile e in altri momenti è estremamente gioiosa
e vivace. Lo stile relazionale della signora è caratterizzato da una fortissima tensione a mettere le carte in tavola, aprirsi ed esprimersi, fidarsi e contare sull’altro.
La scala intelligenza Wais ha presentato un QI 110
(+5/-5). Il test di Rorschach ha messo in evidenza un
certo interesse per lo specifico, il dettaglio. È molto evidente il tentativo di controllare il suo mondo interno…
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Lia lo interruppe.
― Basta, questa cosa mi sta angosciando un po’. Pur
avendola capita, non ho fatto niente per aiutarla nel modo giusto.
― Ma smettila di avvelenarti, Lia! Ognuno è responsabile della propria vita.
Con Lia si rilassava, stava bene come quando era bambino e andava in vacanza dalla nonna.
― Ti ricordi Lia, quando giocavamo a nascondino dalla
nonna, ti ricordi quando toccava a Corinne cercarci e
voleva fare la forte?
― E come faccio a non ricordare. Poi lei cominciava a
chiamare. Io uscivo sempre per prima, non potevo lasciarla nemmeno per un attimo con quel patema
d’animo.
Non continuò per evitare la piaga, ma entrambi sentirono la vocina di Corinne: “Lia, Jean… venite fuori! Non
lasciatemi sola, ho paura”.
Lui aprì forte gli occhi, poi li chiuse fregandosi le palpebre con le mani per non piangere, lei respirò e cambiò
discorso.
― Jean, fino a quando resti?
― Metà agosto.
― Hai qualche nuova fidanzata?
― Boh!
Alla sorella maggiore lo accomunava l’allergia per i
rapporti stabili di convivenza.
Era diventato davvero un bell’uomo, interessante, un bel
tenebroso ma anche solare e gioioso quando poteva lasciarsi andare; mille donne ma fedele a nessuna. Non
cercava le donne, ne subiva il fascino, in realtà era il suo
stesso fascino che subiva.
Non tornava da una cena o da un viaggio senza raccontare di una nuova storia, iniziata e già quasi finita. Lia
non riusciva a capire come potesse non innamorarsi
mai, lui ribatteva che s’innamorava sempre, solo che si
stancava facilmente; allora lei lo rimproverava di questa
sua debolezza.
Jean andò in cucina, gridò per farsi sentire:
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― Facciamo il caffè ?
Lia lo raggiunse.
― Sì, poi vado in spiaggia, i gabbiani mi aspettano.
― Vengo anch’io, ma con i gabbiani non ci parlo. Lia,
sai una cosa? Corinne si preoccupava del fatto che non
hai mai avuto un uomo, pensava che il tuo destino fosse
morire vergine, aveva anche pensato che tu e Marianne…, secondo lei non era normale che tu andassi così
spesso a Narbonne.
― Ma ti pare? Che persone strane i mie fratelli.
― Ceppo saldo e razza di belle facce, ci diceva sempre
la nonna. Guarda che siamo davvero tutti e tre belli.
Ognuno a modo suo. L’unica che non si è impegnata sei
stata tu.
― Impegnata in che?
― Non hai mai fatto sesso, e non sai cosa ti sei persa…
― Un giorno ti dirò.
― Cosa?
Che ci sono persone per le quali, fare sesso significa fare l’amore, arrivare a toccare le profondità; altre, come
te, che amano sfiorare e divertirsi come durante una bella partita a calcio o una serata piacevole tra amici. Ma
va bene comunque.
Jean non disse niente. Non intendeva infierire oltre, con
un argomento dove sarebbe uscito vincente ancora prima di iniziare. Secondo lui, ad un uomo per essere felice, bastava una valigia e la pelle di una donna un po’
puttana.
Bevvero il caffè e mangiarono i biscotti che si erano dilettati a fare insieme la sera prima.
― Lia, pensi che passerà il dolore per Corinne?
― Non prendere più la relazione della psicologa tra le
mani.
― Sto parlando di dolore.
― Sì, passa tutto, dobbiamo solo volerlo. Hemingway
affermava che la vita ne ha per tutti, poi qualcuno si
rialza. Devi scegliere a quale gruppo appartenere. Ti ricordi quando andavamo a Judo? Quel tonfo sul tatami,
pareva che ci spaccassimo in due, poi mettevamo le
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braccia in avanti per dare equilibrio al corpo e con un
balzo saltavamo in piedi.
Era inevitabile le poche volte che stavano insieme parlare anche di Corinne, inutile cercare di evitare
l’argomento. Risultava più facile sopportare l’assenza
mettendola in mezzo a loro, che sentirsela addosso come un fantasma silenzioso di cui è vietato parlare.
Dovevano darsi tempo per riformulare il loro rapporto
senza di lei.
Corinne era nata diversa, chiamata in continuazione dal
suo lato misterioso. C’è qualcosa dentro di noi
d’immenso che non si adatta. Ognuno ha le sue chiavi di
lettura per cercare di capire la vita, lei aveva un mazzo
troppo numeroso.
Nessuno può dirci con certezza dove vanno i nostri morti, ma sappiamo che ci resteranno dentro per il resto della vita e che il “dopo dolore” riuscirà a farci sorridere
ancora con loro, nel ricordo di un momento spiritoso
trascorso insieme o immaginando una loro battuta vedendoci fare una stupidata. Siamo il risultato dei momenti trascorsi con le persone che abbiamo amato e se
queste se ne vanno prima di noi? Usiamole nei momenti
in cui la vita ci diventa insopportabile, impegnandoci a
vivere al meglio anche per loro, perché loro avrebbero
voluto stare ancora un po’ con noi.
― La vita è bella. ― disse Jean.
― Perché sono spettinata! ― disse Lia senza alcun
senso.
La guardò stranito, non era la prima volta che sua sorella se ne usciva con frasi senza significato, poi allacciando le scarpe da ginnastica proseguì, come se non avesse
sentito:
― Mens sana in corpore sano.
Lia lo guardò felice, la tristezza stava passando.
― Macte nova virtute, puer; sic itur ad astra. Virgilio!
― E no caro saputello! Il verso originale è di Stazio,
Virgilio lo riprese.
― Ma Virgilio ebbe più fortuna. Uno a zero per me.
― Uno a zero? Te lo concedo se traduci correttamente.
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― “Coraggio fanciullo, è così che arriva la gloria”.
Comunque hai ragione, lo scrisse Stazio e Virgilio lo riprese e lo continuò nell’Eneide. Ti accordo il pareggio.
Dopo una breve pausa.
― Lia, hai più visto Pierre? Il professore di latino. Io
qualche volta di sfuggita, credo che non mi abbia riconosciuto e nemmeno mi ha dato il tempo di fermarlo,
sempre assorto nei suoi pensieri e d’evidente fretta.
― È una storia lunga, ora vai, vai!
Rispose Lia dribblando. Avrebbe anche avuto voglia di
raccontargli tutto, ma lui era sempre così sfuggevole.
Il quindici agosto Jean rientrò a Nimes, la settimana dopo sarebbe partito per il Kenia con un suo amico.
In macchina, mentre guidava sulla strada del rientro, si
fermò a fare delle considerazioni.
Lia non era più lei, era diventata distratta, strana. Non
glielo aveva fatto notare solo perché si era accorto che
lei stessa viveva con imbarazzo questa situazione:
l’aveva vista riporre i biscotti nel congelatore anziché
nella credenza, arrivare puntualmente col sale al posto
dello zucchero e un giorno uscire di casa con il giaccone
invernale piegato sul braccio, quando le chiese se doveva portarlo in tintoria, dopo un attimo di pausa, lei rispose che no, si era sbagliata e rientrò a posarlo.
A volte usciva con affermazioni per niente pertinenti.
Ma la capiva, anche per lui era difficile superare quel
momento tanto doloroso. La mancanza di Corinne si
sentiva ogni giorno di più. Ci voleva tempo, dirottò i
suoi pensieri sul viaggio in Kenia.
Lia rimase sola, con la voglia di piangere tutte le lacrime che aveva dentro al cuore.
Le persone forti non piangono, le persone forti non gridano.
Ogni cosa accade perché ha un senso, deve averlo, è necessario trovarlo, è solo questione di metodo poterci capire qualcosa.
In età adulta si capisce che le cose non dipendono solo
da noi. Più avanti andiamo, più vita lasciamo alle spalle
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e più ci rendiamo conto di quanti incroci si sono presentati, un sacco di momenti in cui avremmo potuto prendere una strada anziché l’altra. Il peggio è non sapere
come sarebbe andata se la scelta fosse stata un’altra. La
vita non offre controprove. Capita di non ricordare cosa
ci abbia indotto ad un passo, mentre potrebbe essere un
ottimo mezzo per non provare rimpianti o rancori. Capita di dimenticarsi che alcuni percorsi sono stati obbligati; ma ci siamo davvero dimenticati o ancora una volta
la mente… mente! E ci frega! O in realtà ci soccorre?
Dopo tanti anni ci siamo abituati persino a stare nel torpore di chi lascia che sia. Preferiamo far dormire la parte di noi che potrebbe altrimenti svegliarsi troppo e crearci sofferenza. Abbiamo imparato che la vita arriva a
svegliarci in ogni caso e allora riposiamo fin tanto che si
può; in genere lo scossone ci piomba addosso
all’improvviso, mentre siamo intenti in altri piani o
stiamo facendo altre cose. Quante volte abbiamo temuto, grazie a Dio inutilmente, la fatidica telefonata, “Suo
figlio ha avuto un incidente”, e ci vediamo nel nostro
immaginifico correre come pazzi dal nostro bambino di
vent’anni, il cuore in mano e la passione per i figli che
sanno trasmettere solo certe mamme di Napoli. Invece
all’alba lui arriva, più sereno e soddisfatto che mai. Ci
guarda, e che strano, è vivo! Lo sgridiamo. Lui ci fissa
come se fossimo diventati matti, e ci chiede come mai
non siamo a dormire. Capiamo che era la nostra ansia
che dovevamo spegnere, a lui la vita è continuata indipendentemente da noi e da quello che stavamo provando
e facendo. Già, perché se servisse preoccuparsi, ci concentreremmo molto di più per poter fare andare meglio
la vita di tutti.
Poi, quando magari stiamo cucinando o uscendo dalla
doccia, e non pensiamo a niente di niente, arriva la notizia, ci avvisano che il nostro amico Michele ha un tumore, e la nostra testa sballa, non eravamo preparati,
non avevamo mai pensato che potesse accadere. In questi momenti alcuni di noi cercano di dire una preghiera,
e si accorgono solo allora di avere dimenticato le parole
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del “Padre Nostro”, cercando e ricercando nello schedario del pensiero.
Pianse molto Lia, per non essersi mai confidata con sua
sorella, per non averla resa partecipe della sua storia
d’amore, per non averle fatto conoscere Marie. Pianse
perché si sentì in colpa di avere negato a Pierre la paternità, e a sua figlia il padre, la gioia di condividere le feste in famiglia, l’affetto di zii e cuginetti, e la nonna.
Marie mai aveva potuto provare l’equilibrata intensità
con cui amano i nonni.
Aveva agito così, esclusivamente per tutelare la loro serenità, ma forse, inconsapevolmente, soprattutto la sua.
Chi lo può dire!
In quel momento suonò il telefono, perché Dio c’è, comunque lo si concepisca. Scattò la segreteria, era la voce di Pierre.
― Ciao Lia, ho voglia di stare con te. Ti chiamo stasera.
Si lasciò accarezzare dalla voce senza rispondere, non
voleva farsi sentire triste. Era strana la voce di Pierre,
cambiava a secondo dell’umore; no non il tono, proprio
la voce.
Accese la radio, sembrava che stesse parlando a lei.
― Lascia depositare l’acqua torbida e non sarà più torbida, è scritto nel Tao Te Ching.
È incredibile sentire che il mondo esterno si apre o si
chiude a noi, eppure accade.
Può essere un caso, ma anche la possibile esistenza di
una dimensione che ci è sconosciuta perché non visibile.
Se l’uomo si fosse impegnato di più a studiare seriamente lo spirito, quanto l’ha fatto per la tecnica e la materia, forse ci sarebbe dato capire molte più cose che ancora appartengono al mistero e ci fanno dubitare che chi
le professa sia un pazzo. Noi, tante lucertole che trascorrono l’intera vita in un tubo in disuso del giardino, siamo convinti che il mondo sia solo quello che vediamo
dai buchi, e qualcuno ha persino la sfortuna che siano
toppati.
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7
La morte di Corinne destabilizzò non poco Lia.
Nonostante il passare del tempo, rimaneva un dolore inalterato. Più lancinante di quello della perdita dei genitori.
Aveva provato lo stato d’animo di chi è perennemente
inquieto, senza darsi tregua, una fatica per lei insostenibile.
In più ci si metteva la distrazione, non era possibile che
in così pochi mesi le fosse venuta l’arteriosclerosi,
quindi doveva assolutamente cercare di riprendersi. Era
solo un po’ di spossatezza.
Se a nulla fosse servita la volontà, sarebbe passata dal
medico per una bella cura di vitamine, non poteva assolutamente permettersi di perdere la memoria. I suoi
gabbiani come avrebbero fatto senza lei? Cosa avrebbero pensato non vedendola?
Si sarebbero preoccupati, e lei invece li voleva tranquilli
e beati.
Incredibile come la sua sottile ironia vincesse ancora su
tutto il resto, quando accadeva si stupiva lei stessa e ne
era contenta; in fondo non si cambia mai irreversibilmente.
Il suo equilibrio notoriamente serafico non era tornato,
ma era solo questione di tempo, ne era certa.
I suoi gabbiani esistevano ancora e ancora gridavano,
mangiavano e volavano.
Un giorno poi andò dal medico.
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Pierre e Lia, un amore cresciuto sempre di più, senza
condividere, di fatto, i giorni e la vita dell’altro, come
invece vorrebbe un rapporto senza tarpature inconsapevoli. Pierre aveva troppo rispettato la necessità
d’indipendenza di lei, ma poi era reale?
A volte non chiediamo per mille ragioni, preferiamo
presumere, ed ecco che scatta il meccanismo: ipotesi,
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congetture, supposizioni su quello che l’altra persona
supponiamo che pensi, fino a convincere noi stessi che
solo quella sia la verità, senza ombra di dubbio. Povere
vittime dell’inconscio. Ma forse, in questo caso, oltre
che dell’inconscio, lo siamo dell’arroganza di sapere
sempre tutto, di dare per ovvio quello che ci accade intorno, anche ciò che crediamo pensino gli altri.
L’amore evita complicazioni all’altro, lo vuole sereno e
si comporta con troppi riguardi, impedendo a volte
all’amato di crescere ed andare veramente dove vorrebbe, magari nella nostra direzione e magari no.
In fondo, di quel che ne sarebbe stato di Lia se Pierre le
avesse chiesto di condividere in modo più costante tutti
quegli anni, non lo possiamo sapere. Forse ne sarebbe
stata felice, probabilmente era il suo desiderio più forte
e più nascosto, l’armadietto posto in alto in cui non metteva le mani, perché una volta arrivata lì, sarebbero finiti gli scopi, i motori che l’avevano fatta funzionare.
Sull’amore per Pierre non aveva mai avuto dubbi. Il dolore per Corinne, aveva solo aperto la porta dei sentimenti veri, quelli che non vogliamo guardare perché farebbero troppo male. Ma una volta che questa porta è
aperta ecco arrivare l’onda irrefrenabile e travolgente di
quello che Freud definì “il magma ribollente”.
Ultimamente provava rimpianto per la vita che si era
negata. Quando lui ripartiva per Nimes, in lei sentiva
schiudersi una ferita che solo quando lo vedeva tornare
riusciva a non vivere come un decubito doloroso. Era
stato la sua vita per tutti quegli anni e non sapeva quasi
nulla di quello che faceva quand’era lontano, non aveva
voluto essere invadente ed era riuscita a disinteressarsene, denominando questa sua scelta ”rispetto”.
Pierre in fondo si era comportato nello stesso modo.
Carmen l’aveva lasciato a seguito dei continui tradimenti, ma il perché di queste donne disponibili con cui passare qualche ora piacevole, andava ricercato nel suo inizio, dopo la vacanza a Londra.
Quei giorni avevano forse dispiegato le ali della libertà,
o forse, con questo comportamento si era creato incon81
sapevolmente un alibi per non proporre a Lia quello che
in realtà desiderava, una vita insieme.
Pensò che se Lia avesse saputo delle sue numerose storie d’amore, sarebbe riuscita, senza neppure parlare, a
farlo sentire ridicolo nei suoi atteggiamenti da seduttore
e amatore. Se provava a guardare con gli occhi di lei
quelle storie, gli apparivano buffe, e il colmo era
l’essere certo che difficilmente Lia avrebbe mosso
commenti, se non con due parole striminzite che
l’avrebbero fatto sentire ancora più scemo. In Lia erano
i silenzi che gridavano, ridevano e piangevano. Al diavolo lei e la sua fottutissima sobrietà.
Giunto al suo autunno, era arrivata la risposta alla domanda che si era fatto durante la bella primavera della
vita: l’anima gemella esiste.
Relazioni con donne diverse altro non celavano che la
sua voglia di condividere in modo pieno, la vita con la
donna che l’aveva travolto fin dal principio.
Ora, finalmente, tutto gli era chiaro. Avrebbe trovato la
forza di chiedere a Lia di vivere con lui. Al limite gli
avrebbe risposto di no. Non c’era nulla da perdere nel
provare a proporglielo.
Ma siccome la mente… mente, ed è sempre tempestiva
nel farlo, successe l’imprevisto. Pierre iniziò a trovare
molto interessante Giselle, una delle sue amanti, giornalista. Ne rimaneva affascinato ogni volta che lei apriva
bocca per parlare, seguiva tutti i suoi articoli con grande
passione; Lia era scesa di un gradino. Era sicuro di avere finalmente, in età realmente matura, incontrato la
donna della sua vita, la signora con cui dividere il resto
della sua esistenza, il tempo, i progetti, il letto e la casa.
Lia passò per la prima volta da protagonista a comparsa.
La gente è anche questo. Però lo zio Piero, quello di
Mauthausen, concludeva i suoi racconti assicurando che
non tutti gli uomini sono così.
Con Giselle, Pierre stava vivendo la primavera del suo
autunno. Quando uscivano insieme, spesso lei veniva riconosciuta per i suoi reportage di successo e Pierre
gioiva della sua gloria, quasi fosse un suo braccio, un
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occhio; rifletteva in lei la sua ambizione, era lusingato
di essere l’uomo di una donna in carriera che aveva
sfondato nel mondo per intelligenza e cultura che tra
l’altro, secondo lui, erano una grossa difesa. Per chiudere la bocca a qualcuno gli bastava dimostrare il suo sapere e l’altro comunemente restava spiazzato.
Giselle era la sua signora e quanto prima l’avrebbe accompagnata in un viaggio di lavoro. Inoltre avevano il
progetto comune di diffondere la lingua dei loro padri, il
latino. Presto lei si sarebbe concessa una lunga vacanza
e insieme si sarebbero buttati nella realizzazione di un
centro culturale. Da quando Giselle era comparsa in
modo stabile nella sua vita, Pierre stava avendo molte
soddisfazioni personali, dopo anni si era realizzato persino il suo sogno di diventare docente all’università.
Quando le veniva alla mente Lia, subito si diceva che
del resto lei non avrebbe mai accolto la proposta di trasferirsi da Sète, e lui non sarebbe stato disposto a lasciare il tanto ambito incarico all’università finalmente ottenuto. Concretizzare con Giselle era la conclusione sicuramente più giusta. Già convivevano nell’attico di lei,
ma presto Pierre avrebbe disdetto il suo appartamento in
affitto per mettere su casa insieme, un’abitazione nuova
e solo loro, dove nessun amore precedente aveva potuto
o voluto lasciar fantasmi. Mobili scelti insieme, colori,
luci e chissà, forse in un futuro non lontano, avrebbero
regolato legalmente la loro unione.
Anche il bisogno di mettere la testa a posto con una
compagna fissa si stava appagando.
Era molto preso da questa donna. Il nuovo entusiasmo
gli dava energia. Pensava sempre meno a Lia, a Sète e al
mare e quando gli capitava di farlo, era per decidere
come dirle la verità senza ferirla. Alla fine avrebbe dovuto farlo, glielo doveva certamente dopo tutti quegli
anni. L’amore con Lia era stato una storia sacrificata e
lei si era rivelata una grand’egoista.
I pensieri scorrevano velocemente nella testa di Pierre,
aveva trovato il bandolo della matassa. Lui e Lia avevano vissuto un rapporto che si era trascinato nel tempo,
83
un amore più platonico che altro, una storia senza reali
significati, solo un’infatuazione per una donna fuori dagli schemi, un po’ matta, troppo presa dalle sue fantasie,
poco concreta. Giselle invece era una compagna vera,
coi piedi per terra, non avrebbe mai perso del tempo a
raccontarsela coi gabbiani, aveva vissuto impegnandosi,
raccogliendo frutti in moneta e carriera, e ora condivideva tutto con lui.
Un giorno, questa sua magnifica donna gli mandò una email dall’altra parte del mondo e lo invitò ad acquistare
una rivista. Pierre si catapultò in edicola a comprarla e
sfogliandola trovò un articolo di Giselle con una dedica
“A colui che mi ha insegnato a volare”. Fu molto orgoglioso di sé.
A lei doveva rendere conto dei suoi spostamenti anche
quando era lontana, proprio come ad una moglie, e
quando era con lui in Francia, anche delle telefonate che
riceveva. Andare a Sète era diventato difficile ma doveva trovare assolutamente il modo di farlo.
Inventando l’esistenza d’amici mai conosciuti, riuscì a
prendersi due giorni di vacanza.
Erano circa due mesi che non andava.
Lia, un po’ preoccupata per il suo silenzio più lungo del
solito, stava per rintracciarlo, sarebbe stata la prima volta, non se lo era mai permesso.
Pierre arrivò verso sera, andò direttamente in spiaggia,
vide da lontano la sua Lia che stava buttando il pane ai
gabbiani.
Lei ne avvertì subito la presenza e si voltò, lo vide, mise
la mano sulla bocca e cominciò a piangere di felicità, gli
corse incontro come tanti anni prima. Come poteva dire
addio a questa donna? Doveva farlo immediatamente o
non sarebbe più riuscito.
― Ciao Lia, sono venuto per parlarti.
― Pierre, quanto ti amo.
E l’abbracciò forte.
― Andiamo in casa. ― disse lui.
― Come sei serio, è successo qualche cosa di brutto?
Ero sul punto di cercarti, mi stavo preoccupando.
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Inusualmente gli prese la mano, lui la lasciò fare.
Con Lia era tranquillo, gli infondeva pace, il buon sapore di un’esistenza intensa. A loro bastava l’istante che
stavano vivendo insieme, come in un ringraziamento
continuo e silenzioso all’infinito.
Immaginare la vita senza Giselle era possibile, senza
Lia impensabile. Con Giselle era tutto più esaltante, ma
con Lia si sentiva libero, con lei nessuno poteva sentirsi
costretto, nemmeno lui. Per lei tutto era com’era, anche
lui.
Pierre si trovava ad un nuovo bivio.
Lia, di fatto, non avrebbe dovuto ostacolarlo, cambiava
solo la persona, la circostanza era la stessa, prima Carmen ed ora Giselle. Ma non era questo che lui andava
cercando: voleva stabilità, il tempo delle mele era finito
da un bel pezzo.
Si trovava a Sète per troncare quel rapporto, e aveva
molti dubbi sulla trasformazione amore-amicizia. Ora
che era lì, il pensiero di non rivederla più lo tormentava.
Ricordò una partita di calcio disputata quand’era bambino, lui e Alain l’avevano desiderata e attesa molto, ma
quel giorno il suo amico del cuore non aveva potuto
giocare e per lui tutto aveva perso senso. Vinse la sua
squadra, ma senza Alain non era la stessa cosa.
Giselle era l’entusiasmo. Lia l’altra parte di sé, quel
qualcosa in più che lo conduceva “nell’oltre”. Se Giselle
era trainanate e coinvolgente nella ricerca di obiettivi,
Lia non se ne poneva ritenendo che la ricerca fosse già
di per se una mancanza.
Pensò tra se che avrebbe seguito i suggerimenti degli attimi a venire; un istante dopo l’altro, l’attesa dei mutamenti che si susseguono con la naturalezza delle stagioni, cambiamenti lenti e invisibili all’occhio umano, ma
che fanno ugualmente di un albero spoglio quello con
foglie, fiori e frutti.
Questo epilogo dimostrava in modo evidente che la sua
anima stava prendendo la strada di Lia. Questa concezione della vita era più rispondente a Lia che a Giselle.
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Se è vero che quando siamo pieni di energia le idee fluiscono con maggior vigore, lo è altrettanto quando la
stanchezza provoca il loro ritiro e riemerge la parte di
noi meno chiassosa. La più autentica e immacolata.
Lia improvvisamente gli bloccò il passo mettendosi davanti a lui e abbracciandolo forte, gli riempì il viso di
baci innocenti. Pierre le mise di riflesso le mani sui
fianchi tirandola a sé. Subito provò l’antico abbandono
di cui solo lei era capace. L’attimo con Lia era ancora
capace di chiamare a raccolta la mente, il corpo, l’anima
e ogni suo senso, anche il più assopito. Colpa della sua
sensualità spontanea e pudica che andava tutt’ora a
combinarsi con tutto sé stesso. Questo non l’aveva previsto. Tutto di lei gli piaceva un’altra volta.
Entrando in casa vide dei pacchi di pasta sullo scaffale
dei libri, gli sembrò strano, Lia era sempre stata ordinata
e precisa.
La guardò, non l’aveva mai vista così importante, non in
quei termini.
Cercò di pensare a Giselle, sempre attenta agli abiti, al
trucco, alla tinta dei capelli, alle unghie laccate di rosso;
una donna che non perdeva occasione per dimostrare
femminilità, cultura e fascino, che quando andava in
viaggio portava abiti comodi ma in ogni caso firmati.
Giselle amava incantare.
Poi, studiò Lia come non aveva mai fatto. Com’era vera.
La pelle chiara con le prime macchie dovute agli anni
che avanzavano, il viso mostrava le rughe con tutto
l’orgoglio e la fierezza che poteva, lo sguardo si era fatto più intenso, velato dal dolore che la vita non risparmia a nessuno, con quell’espressione di chi ha deciso di
camminare dentro alla sofferenza come unico modo per
superarla veramente; i suoi capelli iniziavano ad ingrigire, erano raccolti sulla nuca, il corpo aveva perso tono,
ma era diventato ai suoi occhi più rassicurante. Quella
morbidezza che le donne assumono col passare degli
anni lo avvolgeva e gli confermava con sicurezza
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l’amore che provava per lei. Forse era arrivata anche alla menopausa, pensò. L’inizio della seconda età aveva
reso il suo profumo ancora più intenso. Quando sorrideva, si formavano delle piccole pieghe ai lati della bocca
che avevano preso il posto delle fossette.
Si avvicinarono, quasi come stesse avendo inizio un rito
sacro.
Invecchiare insieme è sacralità.
Sentiva di amare lo scorrere del tempo che vedeva riflettersi sul viso di Lia, colei che in realtà aveva condiviso con lui i punti cruciali, gli incroci, i bivi. Non era
importante che non fosse stata presente fisicamente nelle sue giornate, perché era l’unica donna che aveva portato ininterrottamente con sé, dentro all’anima e al corpo in ogni momento.
Era confuso. Non sapeva cosa fare. Forse amava due
donne contemporaneamente. Avrebbe avuto voglia di
gridare, ma contro chi e che cosa?
Le persone forti non alzano mai la voce.
Nello stesso momento, invece, dall’altra parte del mondo, qualcuno stava gridando come un pazzo. Era scoppiata una forte lite tra lo spettro e il destino. Ad un certo
punto lo spettro uscì dalla sala della sorte sbattendo la
porta. Il destino rimasto solo, riprese a scrivere sul tomo
che aveva davanti a sé.
Pierre provò un amore talmente grande per Lia da riuscire ad amare appieno persino sé stesso. Sentì la voglia
di gridarle un grazie da fare venire i brividi.
Lia andò a prendere due bicchieri, e come usava fare,
riempì d’acqua una bottiglia particolare. Quella bottiglia
piaceva a tutti, a boccia col tappo a sfera, in vetro trasparente; sembrava così preziosa, eppure era solo di
vetro. Doveva essere la sua trasparenza ad affascinare
tanto.
― Questa bottiglia è sempre bella. ― disse Pierre prendendola tra le mani.
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― Secondo me è la sua limpidezza a dare piacere. ―
puntualizzò Lia.
Gliela tolse dalle mani e versò da bere.
― Cosa devi dirmi Pierre?
Lui ci pensò ancora un attimo prima di rispondere, poi
guardandola negli occhi, finalmente parlò:
― Che ti amo. Tanto!
Lia sorrise, fu allora che gli occhi di Pierre si riempirono di lacrime per la ritrovata scelta. Le lasciò scorrere, e
si fece coraggio.
― Ascoltami bene Lia, non voglio amareggiarti, ma ci
sono cose di me che devi assolutamente sapere.
Anni addietro, lei avrebbe esagerato la mimica facciale,
magari spalancando gli occhi, ma ora non le riusciva
più, non ne aveva più voglia.
Le diede una carezza e cominciò a parlare senza preamboli.
― Dal mio rientro a Londra, ho iniziato a tradire Carmen, fino a quando non potendone più, mi lasciò.
Lia stentava a capire, si accarezzò il collo e roteò il
capo.
Lui continuò senza smettere di guardarla.
― Vivo solo da anni. Mai avevo tradito mia moglie
prima di conoscere te. Credo di averti cercata in ogni
donna.
― E perché non me l’hai mai detto?
― Temevo che sentissi minacciata la tua libertà.
Lia si morse il lato sinistro del labbro e lo tenne a modo di vezzo tra i denti per concentrarsi, seguì una riflessione.
― Sai Pierre cosa penso? Che ci siamo rispettati troppo,
dando per scontato che le nostre percezioni fossero i desideri o i bisogni dell’altro. Quanto avrei voluto vivere
con te, nemmeno lo immagini. Quante volte ho immaginato di essere insieme alle cascate del Niagara, mentre
gridavamo forte perché il rumore dell’acqua copriva le
nostre voci. Sapevo che sarebbero restati sogni, mi dicevo naturalmente che i sogni o si fanno bene o non si
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fanno, e che la loro realizzazione potrebbe non corrispondere all’impulso che li ha generati. Così sono riuscita a darmi delle ragioni e delle regole per andare avanti così com’era.
Respirò intensamente e proseguì.
― Che assurdità! Le nostre voci le abbiamo coperte noi
stessi, e non c’è stato grido che reggesse.
Pierre l’abbracciò e lei si lasciò andare senza il minimo
impaccio, come forse non era mai successo.
― Non ho finito Lia, devo dirti ancora una cosa.
― Sei certo di volermela dire?
― No.
― E allora non dirla. Le parole sono il più delle volte
bolle! Arrivano e pluf…
accompagnò la metafora, riproducendo con il gesto della mano una bolla che sale verso il cielo… e scoppia in
modo sordo.
Lia conosceva bene Pierre e aveva capito che stava girando intorno a un discorso perché non sapeva da che
parte prenderlo. Ma soprattutto perché non ci credeva.
― Anch’io Pierre, arrivati a questo punto ho una cosa
importante da dirti. Ero tornata da Londra, e nel mese di
dicembre andai con Marianne in India, ti ricordi?
― Sì.
― Poi andai a casa sua a Narbonne. Sai perché non
rientrai a Nimes?
― Avevi una storia e speravi di non incontrarmi più per
poterla continuare senza esitazioni e ripensamenti.
Seguì una pausa.
Per la serie “la lingua batte dove il dente duole”, Lia capì con quella frase cosa Pierre avrebbe dovuto dirle.
― Non ti sarai sposata?
Rincarò la dose Pierre, aspettando la risposta incredulo.
― No. A Narbonne nacque la nostra bambina. Non l’ho
mai detto a nessuno, nemmeno alla mia famiglia, temevo che lo potessi venire a sapere e ti sentissi obbligato
nei nostri confronti.
Pierre era a dir poco sbalordito, lei continuò.
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― Decisi di farla vivere con Marianne e Jo, sapevo che
non avrebbero avuto figli, lei è sterile. Una baby sitter
non sarebbe stata la stessa cosa, Marianne per me è speciale. Sono stata con la piccola ogni giorno, le ho dato il
mio latte. Che corse ho dovuto fare Pierre, non puoi
immaginare. Quel tiralatte quanto male mi faceva, lo
usavo per riempire i biberon che poi restavano a disposizione nelle ore in cui non potevo esserci. Non le ho
mai tenuto nascosto che i suoi genitori siamo io e te. È
stata una bambina meravigliosa, sapeva che non potevi
vivere con noi perché ti eri sposato prima di conoscermi, lei alzava le spalle con la rassegnazione intelligente
dei bambini, di quelli che non vivono un’infanzia estrema, ma tranquilla e appagata per la serenità che il
mondo che li circonda riesce a comunicargli. Mi dava i
fiorellini da portarti, li ho conservati nel dizionario.
Andò nello studio a prenderlo e glielo mise sul tavolino
davanti al divano.
― Mille volte mi sono detta che non era un mio diritto
tenertela nascosta, e tanto meno vietarle di conoscere
suo padre. Pierre senti, non ho trovato altre soluzioni
possibili. Mi sono comportata nel modo che ho ritenuto
fosse il meno peggio.
― Lia, mi sembra di diventare matto, non posso credere
che tu abbia tenuto una verità così grande solo per te.
Ora dov’è? Come si chiama?
― Vive a Narbonne, ha una casa sua e viaggia spesso
per lavoro. Si chiama Marie.
Poi, indicando con il dito indice il poster appeso alla parete.
― Guarda Pierre… è lei.
A lui venne un gran nodo alla gola. Pensò a quante volte
aveva evitato di incontrare lo sguardo di quella bambina
perché gli ricordava la sua piccola Agnes. E sempre si
era convinto che fosse la sua mente a giocargli brutti
scherzi.
― Lia, ma ti rendi conto di quello che hai fatto? Che ci
hai fatto! Sono sconvolto, pensare che credevo di scon90
volgerti io. Porco Giuda Lia, tu sei completamente
pazza.
― No, non ancora.
Fece una pausa e riprese.
― Non lo sono ancora. Comunque… nostra figlia ha
imparato quattro lingue sul posto, ha vissuto a Berlino,
Londra, Roma e Madrid. Ha un lavoro importante come
traduttrice simultanea di un’azienda argentina che organizza congressi in tutto il mondo. Le piace. Marianne e
Jo sono stati un supporto educativo importante. Marie
ora è una giovane donna equilibrata e gioiosa. Non le
siamo mancati, fidati!
― Ma come fai a dirlo? E poi… io non le sarò mancato,
tu c’eri e te la sei goduta, hai avuto i suoi baci, i suoi
abbracci, la soddisfazione di sentire le sue prime parole,
di vederla tutta sporca di cioccolato, mentre io ignaro
vivevo come un cretino senza sapere di avere una figlia.
Tu mi hai fatto passare da cretino, ma te ne rendi conto
o no? Non posso perdonarti questa cosa, qualunque sia
stata la motivazione.
― Il cioccolato a Marie non piace.
A questo punto dire di Giselle sarebbe stato facile, il
problema era che non aveva proprio voglia di farlo. Avrebbe voluto restare per sempre a Sète con lei, conoscere la figlia; senza però annaspare in cerca del tempo
perduto, ma solo vivere tranquillamente. Aveva una famiglia, non ci poteva credere. Per quanto fosse paradossale, la sensazione che provava era piacevole.
Lia attraversò la sala e senza fermarsi si diresse in cucina. Con noncuranza, a voce alta proseguì.
― Ancora non ho finito le novità.
― Ti prego basta, non voglio sapere più niente.
La seguì per conoscere il resto, qualsiasi altra rivelazione non avrebbe potuto turbarlo oltre.
― Mi hanno diagnosticato un inizio di morbo
d’Alzheimer. ― affermò senza guardarlo, mentre apriva
il frigorifero in cerca delle cipolle per fare la frittata.
Subito a lui vennero in mente i pacchi di pasta tra i libri.
― Ma stai scherzando! Sei ancora giovane.
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― Abbastanza vecchia perché inizi. Marianne vorrebbe
che mi trasferissi a Narbonne, lì ci sarebbero lei e Marie. Non voglio assolutamente che Marie rinunci al suo
lavoro, che la porta spesso a viaggiare lontano. Vicino a
Narbonne c’è una casa di cura a lunga degenza per questo genere di malattie. Vorrei informarmi già ora. Avrò
prima o poi bisogno d’assistenza, il che figurati quanto
piacere può farmi. Del resto è inevitabile. Diventerò una
bambina, non capirò molto. Già faccio cose strane, come riporre oggetti in luoghi impensati. Poi, non sempre… va a giorni… per ora.
Richiuse il frigo, posò le cipolle sul tavolo.
― Sono felice Pierre che tu abbia avuto delle donne in
questi anni, trovane una che ti stia vicino. Hai la mia
benedizione, perché ti ho amato, ti amo e ti amerò finché avrò respiro e oltre. Ricordatelo sempre, anche
quando la malattia sarà tanto peggiorata da non riuscire
a riconoscerti. Ogni volta che ti chiederò chi sei, promettimi che immaginerai che ti stia dicendo quanto sei
stato importante e quanto ti ho amato a dispetto di tutto.
“Hiemme et aestate et prope et procul usque dum vivam
et oltre".¹ Sono stata la tua allieva preferita, e dillo!
Il viso di Lia, aveva assunto l’espressione dispettosa a
cui lui non aveva mai saputo resistere.
― Ehi Rodolfo Valentino, hai messo un po’ di pancetta!
E gliela accarezzò.
― Non dire fesserie, sono piatto come a trent’anni.
― Che fai Pierre, ti fermi a dormire o torni a casa?
Non rispose alla domanda, ma fece un sospiro di pazienza e assunse l’aria che Lia definiva da “Pierre sopportante”. Prese i piatti dalla credenza per aiutarla ad
apparecchiare la tavola. Lei lo spiava di sottecchi.
― Allora Lia, se ho ben capito andrai a vivere a Narbonne. Hai deciso già tutto, fai sempre tutto tu da una
vita. Brava, complimenti, continua così. Ma questo Helzeimer, sei sicura che ci sia?
― Certo, sono andata dal medico, ho fatto tutti i controlli possibili.
― Ti porterò da un professore amico mio.
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------------1. In inverno e in estate e da vicino e da lontano finché
vivrò e oltre.
― Lascia perdere, non ho voglia di sentirmi ridire le
stesse cose. Sono già andata da un sacco di dottori, persino da un luminare con mio fratello, che non tende a
rassegnarsi. Crede di poter stabilire lui il corso della vita. Per favore non fare anche tu come lui. È necessario
capire quali sono le cose che si possono cambiare e
quelle che non meritano il minimo impegno in quella direzione.
Lui taceva e allora lei proseguì:
― L’unico impegno deve essere riposto nel vivere al
meglio la malattia. Questa è la vita!
Pierre continuava a tacere. Lia allora, per alleggerire la
tensione, mise il viso a un palmo dal suo, avvicinandosi
sempre più, fino ad essere naso contro naso e disse:
― O no?
Lui la scostò quasi infastidito.
― Senti Pierre, ora basta. Parla! Non sopporto il silenzio che in questo momento grida più di ogni parola. Mi
stai rendendo tutto più difficile. Tutti voi mi state rendendo questa cosa ancora più difficile. Ma per voi
l’amore è questo? Andate tutti a farvi fottere.
Si ritirò nello studio.
Pierre dopo poco andò a cercarla e la trovò addormentata sulla poltroncina di vimini, andò in camera da letto a
prendere lo scialle e la coprì.
Quando Lia si svegliò andò a fare la doccia e lo raggiunse in cucina.
Pierre stava sbattendo le uova.
― Sono qui! Lascia... faccio io. ― gli disse spostandolo.
― Come sarà il decorso? ― chiese allora lui.
― Per ogni malato può essere diverso. Sì ma non fare il
tragico.
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― Non faccio il tragico, cerco di capire.
― Non c’è niente da capire.
― Avrei piacere di parlare anch’io con un medico, per
sapere meglio le cose.
― E quando le avrai sapute, deciderai se restare con me
o andare da lei?
― Taci, per favore taci. Fammi pensare.
Pierre si sedette sul divano con la testa tra le mani.
Lei continuò a cucinare.
Dopo dieci minuti, Lia lo sentì alzarsi. Andò sulla porta
della sala per vedere cosa stesse facendo, lo vide dirigersi verso il telefono e comporre un numero. Le venne
una rabbia indescrivibile. Come si permetteva di offenderla in modo tanto prevaricante?
― Pierre, ho detto no! Non voglio andare da nessun
medico. Non ora!
Lui non la considerò. Lia uscì di casa e andò al Pont de
la Savonnerie: il canale che scorreva sulle luci riflesse
di Sète; i pescherecci ormeggiati e le reti sulla banchina
del piccolo porto, la rimisero subito in pace. La luna era
alta. I gabbiani non c’erano.
Pierre si aspettava la segreteria telefonica, invece dopo
tre squilli rispose Giselle.
― Amore mio, quanto mi sei mancato. Dimmi tesoro,
dove preferisci cenare domani sera? Sarebbe meglio
prenotare.
― No Giselle lascia stare. Scusami davvero, se puoi, ma
non se ne fa più niente.
Sentì in quel mentre l’odore della frittata che stava bruciando.
― Miseria! Scusami davvero tanto Giselle, devo andare!
― Di cosa non se ne fa più niente?
― Di tutto.
― Pierre, ma cosa sta succedendo?
― Niente, stai serena.
― Serena? Dici niente.
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― È stato tutto molto bello con te ma ora c’è la frittata
che brucia. Dai, ciao.
E riappese il ricevitore. Non era certo stato rispettoso,
tanto meno elegante ma il pensiero di Lia malata era tutto quello che gl’interessava.
Corse in cucina, chiuse la porta e aprì le finestre.
Lia dal canale vide tutto quel fumo provenire dalla sua
abitazione, pensò ad un incendio.
Corse a casa. Quando vide cos’era successo, tra un colpo di tosse e l’altro si rivolse a Pierre:
― Ma cos’hai combinato?
― Ah, io? Guarda che sei stata tu a lasciare la frittata
sul fuoco.
― Mi dispiace, questa malattia non ci voleva. Vattene
Pierre e non tornare più. I momenti insieme sono da ricordare, ma vai. Preferisco così! Marie potrai
ugualmente conoscerla, le spiegherai e lei capirà tutto,
ancora una volta.
― Dimmi solo se ti farebbe piacere continuare la vita
insieme. Il resto riguarda solo me.
― Che domande!
Pierre, la settimana seguente tornò a Nimes, organizzò il
trasferimento, preparò le valigie e gli scatoloni; passò a
salutare Giselle, le disse solo dell’amore per Lia, evitando di raccontarle di Marie e della malattia.
Lei ci rimase male, ma capì, perché in passato aveva
amato un uomo in modo totale.
Da donna forte e intelligente quale era, lo tranquillizzò e
lo salutò con un sorriso e un abbraccio forte “Pierre comunque sia andata è stato un successo!”.
Dopo pochi giorni, Pierre era da Lia con in tasca i biglietti aerei per andare in America.
Entrò in casa mentre lei stava asciugandosi i capelli.
― Preparati, venerdì abbiamo il volo. ― le disse.
― Il volo per dove?
― Tu preparati.
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― Allora Pierre non hai capito niente. Pensi di conoscermi e non mi conosci affatto. Se la vita insieme significa questo, passare da un medico all’altro… no, non
la voglio.
Le mise in mano una busta.
― È il programma di viaggio, almeno leggilo.
Lia la fece volare fuori dalla finestra.
Pierre scoppiò a ridere e andò giù a recuperarla.
Poco dopo Lia lo sentì gridare dalla strada:
― Ti volevo solo portare a vedere le cascate del Niagara!
Incredula si affacciò al balcone, in accappatoio e con i
capelli ancora bagnati.
― Ma dai! Ma davvero?
Pierre tirò fuori i biglietti dalla busta e li sventolò.
― Ma allora mi ami!
― Tanto Lia. Tanto!
Qualche minuto e uno stormo di gabbiani si alzò gridante in volo sul mare di Sète.
Allora lo spettro tornò dal destino, che senza smettere di
scrivere disse:
― Ho fatto quello che ho potuto.
― Vorresti dire che l’amore può far cambiare idea al
destino? ― chiese lo spettro.
― Solo a volte.
Rispose lui, mettendo il punto sul foglio.
Il forte rumore del grosso tomo che veniva richiuso ruppe il silenzio che seguì.
Il destino si alzò a riporre il volume dell’opera al suo
posto.
― Quanti libri. ― commentò lo spettro.
96
CALATO IL SIPARIO
Quando s’inizia a scrivere un romanzo, non si sa dove
si va a finire, i personaggi prendono vita da soli e ti
conducono.
Sono stata bene con tutti loro durante questi mesi.
Mi hanno fatto una gran compagnia.
Il giorno prima di scrivere l’ultima pagina, hanno preparato le valigie.
Che malinconia.
Quella sera siamo stati svegli fino a tardi a parlare.
%on tutti sono rimasti soddisfatti del loro ruolo o della
storia.
Il giorno dopo ho fatto le ultime correzioni alla bozza.
La commedia di carattere era finita.
Che silenzio.
Calato il sipario, li ho accompagnati alla stazione.
Eravamo in un’altra dimensione o forse solo in
un’epoca lontana.
Poi, l’ultimo sguardo ai binari vuoti.
Mi piaceva stare ad ascoltare il silenzio intorno,
rotto solamente da quel ciuf ciuf di un treno a vapore
che si allontanava,
e da quel fischio, che ormai si sente solo nei film.
Tornata a casa ho trovato a fianco del computer alcuni
fogli, erano i loro appunti, o i saluti.
Ho pensato di farvi cosa gradita inserendo quelli che mi
hanno colpita di più.
Corinne
Ho ininterrottamente cercato di tenere le briglie della
mia vita.
Mi sono accorta solo verso la fine d’averle strette troppo forte,
tanto da ferirmi le mani.
Pensavo di avere intravisto sulla strada degli innocui
rubagalline, invece erano vampiri. Sentendo l’odore del
mio sangue mi corsero dietro per berne.
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Era sangue dolce, buono, sano.
Chiusi gli occhi per non provare paura, e incitai i cavalli ad andare più veloce.
Solo una, tra quelle sanguisughe riuscì a raggiungermi,
la più furba, o quella che meglio mi conosceva.
Sentii la sua lingua sulle mie ferite, le sue labbra succhiare famelicamente.
Dolore e piacere si confondevano in me.
Mi suscitai coraggio e aprii gli occhi per vedere.
Dovevo.
Solo in quel momento mi accorsi che quella lingua impregnata di sangue era la mia.
Ero stata il vampiro di me stessa.
I figli di Corinne
La mamma è la mamma.
%on abbiamo capito perché è morta sul più bello.
Con noi era stata sempre divertente e allegra.
Di tutti quei malesseri nemmeno ce ne siamo accorti,
non sappiamo dire se perché li ignoravamo o semplicemente perché quando stava con noi stava bene.
La sua allegria ci sarà compagna.
Qualcuno disse che i figli sono la voce delle loro mamme nel mondo. Ci piace pensare di essere la sua.
Pierre
Col passare degli anni alcune persone diventano
d’annata, altre sanno di tappo.
È un rischio che corre anche il migliore dei vini.
Marie
Sono stata benissimo in questo romanzo, e ci tornerei
con una variante, conoscere i nonni, gli zii, i cuginetti e
mangiare il cioccolato davanti a mio padre.
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Alain
%ei nostri pensieri Pierre è rimasto quello del prima di
Londra.
Abbiamo discusso tra noi sulla possibilità che il nostro
allontanamento fosse una difesa. Il tastabile timore che
quello che stava facendo potesse contagiarci. %iente
tocca se non tocca.
Raul
Corinne era molto più forte di quanto potesse sembrare,
forse solo disorientata come molti cuori puri e indomabili.
Lia
Ciao e grazie.
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INDICE
9
%ota dell’autrice
11
1
13
2
14
3
35
4
38
5
63
6
80
7
80
8
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Calato il sipario
Stampato in Italia
nel dicembre 2008 per conto di
LibertàEdizioni