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VERDONE
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Con il patrocinio di
ASSOCIAZIONE ITALIANA INSEGNANTI
REGIONE
ABRUZZO
Presidenza del Consiglio Regionale
di GEOGRAFIA
SEZIONE ABRUZZO
Presidenza della Giunta Regionale
Provincia di Teramo
Provincia di Pescara
Comune di Atri
Commissione Nazionale
Italiana per l’UNESCO
Con il contributo di
Comune di Giulianova
abruzzo
dignità antiche e identità future
Giulianova Lido (Te) 16-21 ottobre 2010
53° Convegno Nazionale Associazione Italiana Insegnanti di Geografia
5° Convegno Nazionale Associazione Italian Insegnanti di Geografia - Giovani
14° Corso Nazionale di aggiornamento e sperimentazione didattica
Con la sponsorizzazione di
Antico Laboratorio Orafo “Armando Di Rienzo”- Scanno
atti
Grafica e composizione
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Presentazione della Presidente AIIG Abruzzo
A distanza di 20 anni il Convegno Nazionale torna in Abruzzo.
In un momento, per la verità, non propriamente felice.
Le ferite per il terremoto dell’Aquila, con tutto il loro bagaglio di dolori e di morti,
oltre che di distruzione del bene comune nel senso più ampio che questo termine assume, sono ancora aperte ed altre se ne stanno aprendo con una ricostruzione che,
sotto la pressione dell’emergenza, sta modificando il territorio senza altro criterio
che la sua disponibilità ad un uso immediato.
Sembra peraltro che nella mancanza di considerazione di specificità, di vocazioni,
di memorie e del loro nesso con le forme prodotte dalla natura e dall’attività dell’uomo si rispecchino le ragioni dei recenti declassamenti di quei saperi che si oggettivano nell’attenzione, descrittiva e critica allo stesso tempo, per la natura e per
le trasformazioni del globo terrestre.
Questa occasione di incontro e di scambio di conoscenze non può eludere, perciò,
l’impatto delle infauste contingenze di cui ho detto con la specificità di questa regione fatta certamente di nature generose, ma anche delle dignità che ancora traspaiono nelle pietre delle nostre contrade come nei mestieri di cui conserviamo la
memoria.
Così come non può eludere, peraltro, l’impatto della nostra storia con le trasformazioni indotte dai processi economici e con le ristrutturazioni che caratterizzano la
società postindustriale.
Credo peraltro che poche discipline abbiano i recinti tanto ampi quanto la geografia
e che solo essa, in fondo, riesca a mantenere un proprio statuto pur inglobando la
vastità dei saperi che concorrono alla trasformazione del pianeta.
I lavori di questo convegno produrranno certamente nuovi confronti e nuove conoscenze e, auspicherei, nuovi impegni su questi temi.
Noi cercheremo di favorirli con l’ospitalità e l’affetto di cui siamo capaci.
Agnese Petrelli
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Discorso di apertura del Presidente Nazionale
Signore e Signori, Autorità, cari Colleghi e Amici
Il 53° Convegno Nazionale, cui si affiancano il 14° Corso nazionale di aggiornamento
e sperimentazione didattica e il 5° Convegno AIIG-Giovani, si inaugura oggi, grazie all’organizzazione della Sezione AIIG Abruzzo.
Al Presidente Agnese Petrelli, ai Vicepresidenti Giovanna Tacconelli e Gabriele Fraternali, a tutti i membri del Comitato ordinatore e di quello scientifico, della Segreteria
organizzativa e a quanti hanno contribuito alla realizzazione del Convegno desidero
manifestare tutta la mia gratitudine, sentita e sincera, nella piena consapevolezza di
quanto sia gravosa e sempre più difficoltosa l’organizzazione di questo importante appuntamento annuale.
È la terza volta, nella storia ormai lunga dell’AIIG, che in Abruzzo viene organizzato
un nostro Convegno nazionale. Il primo si è svolto nel 1975 a L’Aquila, gloriosa città,
devastata dal terremoto dell’aprile 2009. L’AIIG è oggi qui anche per stringersi in un
fraterno abbraccio agli aquilani e a tutti coloro che sono stati colpiti e che in un attimo
hanno perso i propri cari, la propria casa, i propri punti di riferimento, ma che stanno
dimostrando di sapersi risollevare con fierezza e grande dignità da questo sconvolgimento totale.
Quel Convegno del 1975, il ventesimo nella storia dell’AIIG e il penultimo della Presidenza Migliorini, il fondatore nel 1954 della nostra Associazione, fu organizzato da
Michelangelo Ruggieri, coadiuvato da Gerardo Massimi e da Concetta Testa, che per
tanti anni ha guidato la Sezione Abruzzo e che ricordiamo tutti con sincero affetto.
Il secondo Convegno abruzzese si svolse a Montesilvano-Pescara, sul tema “Abruzzo
1990: stereotipi e realtà territoriali” e vide la presenza del compianto presidente nazionale Giorgio Valussi. L’organizzazione di quel bel Convegno, di cui ho ancora nitido
ricordo, fu dovuta a Piergiorgio Landini, dell’Università di Pescara.
Dopo vent’anni esatti da quell’incontro si ritorna in Abruzzo, toccando, però, un’altra
provincia, quella di Teramo. Anche in questa occasione si è deciso di affrontare temi
relativi allo sviluppo regionale, puntando opportunamente su concetti di massima attualità, sia nel contesto scientifico, sia in quello politico: Abruzzo dignità antiche e identità future. Ci attendiamo significativi stimoli per una riflessione.
Da un mese circa è iniziato l’anno scolastico, che vede, dopo i recenti cambiamenti prodotti nel primo ciclo, l’avvio della riforma della scuola secondaria di secondo grado. Si
attendeva da decenni un riordino di questo ordine di scuola, pur se non possiamo ritenerci soddisfatti per i risultati, soprattutto per quanto riguarda la geografia. Devo dire
che, grazie a una mobilitazione mai vista in precedenza, i danni sono stati contenuti rispetto alla situazione ben più grave che si andava profilando per la nostra disciplina.
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Tuttavia la riduzione di ore o l’eliminazione della geografia in alcuni segmenti è gravissima, in quanto i ragazzi vengono privati di saperi di base riguardo alla cultura del
territorio: argomento che proprio nel nostro Convegno sarà ampiamente dibattuto.
Ricerca e didattica si possono confrontare ancora in questa assise su molteplici e interessanti argomenti, in particolare per il territorio che ci ospita e che ci apprestiamo a conoscere meglio, grazie all’organizzazione itinerante dei lavori, a relazioni scientifiche
e didattiche, tavole rotonde, escursioni. Anche questa tradizionale iniziativa, giunta oggi alla sua 53a edizione, va annoverata a merito dell’AIIG, che riesce a esprimere il forte legame tra università e scuola e una continuità tra giovani appena laureati, docenti in
attività e docenti che, pur avendo lasciato il servizio attivo nella scuola, rimangono nell’Associazione ad apportare il loro contributo di entusiasmo e di competenza.
Certo che questa sarà un’occasione propizia per la geografia e per il suo futuro, augurando a tutti un buon lavoro, dichiaro aperto il 53° Convegno Nazionale.
Gino De Vecchis
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La Geografia in mostra
Mario Fondi
La gentile insistenza della collega Agnese Petrelli, Presidente della sezione abruzzese dell’AIIG, ha prevalso sul peso degli anni che mi fanno prendere ormai qualsiasi impegno con una certa lentezza. Anche se si tratta di una breve presentazione del Convegno Nazionale di Giulianova per una disciplina che ho amato e
seguito per tanti decenni. Da molto tempo mancavo, con indubbio rincrescimento, a manifestazioni geografiche, sia perché quando si passa dalla fase attiva alla dovuta messa a riposo, molte cose mutano nella nostra vita, sia perché interpretando alla lettera lo spirito del provvedimento spesso molti dimenticano l’esistenza del “pensionato”, escluso dalle consuete attività didattiche e scientifiche.
Anche se si tratta di trasmettere utili esperienze accumulate nei tempi o di vagliare testi manoscritti per esprimere opportune valutazioni prima della pubblicazione a stampa, oppure scrivere semplici segnalazioni bibliografiche.
Così, con questa importante manifestazioni emergo nuovamente alla Geografia,
da me giudicata (mai disgiunta dalla Storia) una delle maggiori e più antiche «culle del sapere dell’umanità». Ed emergo da una fortunata quanto singolare esperienza: la “promozione da geografo pensionato a fotografo documentario in attività, che ha prodotto un patrimonio ragguardevole di fotografie nell’arco di mezzo secolo. Fondo che sono felice di aver donato alla Società Geografica Italiana.
ma di ciò parlerò con maggiore compiutezza prima dell’apertura della mia Mostra personale, replicata da quella dell’Aquila, in onore delle popolazioni colpite dallo sconvolgente terremoto del 6 aprile 2009.
Vorrei invece dedicare il mio pensiero al presente Convegno, espressione vitale
della nostra disciplina misconosciuta e trasformata anche nella denominazione là
dove l’ammasso di materie incongrue ha contribuito a formare coattivamente certi “Dipartimenti” creatori spesso di conflitti di competenza e di inutili ritardi burocratici.
Questo è il mio parere strettamente personale.
Sia benvenuto quindi il Convegno, che ci restituisce la nobile parola GEOGRAFIA, con un ricco programma di relazioni, dibattiti, presentazioni di nuove tecnologie per lo studio del territorio e della didattica, mostre, lezioni itineranti svolte in escursioni dalle tematiche quanto mai varie, manifestate nella straordinaria
diversità dei paesaggi. Escursioni che mostrano in pieno il valore della interdisciplinarietà sia nella ricerca sia nella stesura degli elaborati conclusivi.
Il programma, così come appare dagli stampati di presentazione, è di grande impegno, ed ha richiesto l’intervento, oltre che della infaticabile presidente Agnese Petrelli, di un buon numero di collaboratori. Tra tanti posso citare il preside
M. Luisa Ceruso, il prof. Giovanni Tacconelli e Domenico Gatto, e la segretaria
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dell’AIIG dott. Carla de Rosso. Termino con il vivissimo augurio di piena riuscita
del Convegno, pari al grande impegno profuso in mesi di preparazione.
Tra bottega e piccola industria: prodromi per una geografia
economica della regione teramana tra XVIII e XIX sec.
Vladimiro Furlani
La regione ancora divisa in Ultra I e II e Citra, tre province che sono di fatto, per dimensione e organizzazione territoriale e morfologica ma anche politica, quasi delle sub
regioni, mostra tra la fine del XVIII sec. e il XIX una dinamicità delle proprie attività
economiche e produttive e una capillarità delle loro reti di distribuzione tale da indurre a configurarne il panorama descrittivo come quello di una vera e propria geografia
industriale proiettata in una dimensione territoriale senza dubbio mesadriatica estendendosi, lungo le principali direttrici di transito, tra Marche e Molise, e dunque tra settentrione e meridione.
Si tratta di una geografia ricca di settori anche molto specializzati, di cui ci siamo ripetutamente occupati, e che spazia dalle costruzioni (scalpellini e maestri fabbricatori1),
alla lavorazione del legno (falegnami, ebanisti, intagliatori), al tessile e piccola confezione, alla metallurgia (fonditori2, argentieri e maestri campanari3, maestri orologiari),
agli strumenti musicali (organari4).
Questa geografia industriale poggia a sua volta su di una rete infrastrutturale che è fatta di collegamenti non solo terrestri ma anche marittimi5 sia verso altre regioni italiane
sia oltremare che vede punti di rilievo proprio in attività industriali, come la cantieristica navale, che ha suoi capisaldi in entrambi gli Abruzzi marittimi Ultra (Giulianova)
e Citra (Ortona-Vasto6) affiancandosi, nello stesso periodo, ad una variegata gamma di
attività protoindustriali tutto sommato ben strutturata, come indicano le maestranze impiegate, tra Sangro e Trigno7.
Il passaggio cruciale tra piccola bottega e industria è tuttavia particolarmente evidente
in alcuni settori, ad esempio la chimica, perché evidenziano come pratiche dal caratte1.
V. Furlani, Scalpellini e mastri fabbricatori operanti nel XVIII e XIX sec. nell’area di confine tra Abruzzi e
Marche in Aprutium a. XIV(1996) n. 3 pp. 77-101.
2.
V. Furlani, Scalpellini e mastri fabbricatori operanti nel XVIII e XIX sec. in Abruzzo e Molise tra alto Sangro e medio e basso Trigno in Quarry and Construction a. 1997, luglio n. 7 pp. 89-92.
3.
V. Furlani, Tecnologie e modalità operative nell’artigianato fusorio delle campane tra Abruzzi e Molise dal
’700 all ’800 in Proposte e Ricerche a. XXII(1999) n. 42 inverno-primavera 1999 pp. 56-74 e V. Furlani,
Brevi stralci documentari interessanti la storia dell’arte fusoria tra Abruzzo e Marche dal XVIII sec. ai primi
del ’900 in Per la Storia dell’Arte dell’Abruzzo e del Molise vol. I in Abruzzo, rivista dell’Istituto di Studi
Abruzzesi aa. XXXVI-XXXVIII gennaio 1998-dicembre 2000 pp. 565-88.
4.
V. Furlani, Scambi di maestranze tra ’700 e ’900 nell’area Mesoadriatica in Associazione Italiana Insegnanti di Geografia, Convegno La Regione mesoadriatrica: realtà e prospettive, Civitella del Tronto 23-24
novembre 2002.
5.
V. Furlani, Contesto e architettura nell’Abruzzo dell’800 in Profilo sociale culturale dell’ottocento in Abruzzo n. monog. in Rivista Abruzzese a. LVI(2003) n. 3 luglio-settembre pp. 268-307.
6.
V. Furlani, Il Consorzio Industriale del Vastese, sviluppo infrastrutture e sistemi operativi in G. MassimiV. Furlani, Vastese e industria, Carsa Edizioni Pescara 1993 Cap. II pp. 73-109.
7.
V. Furlani, Botteghe artisti e artigiani operanti in Abruzzo e Molise tra l’alta valle del Sangro e la media e
bassa valle del Trigno in Aprutium a. XIV(1996) n. i 1-2 pp. 63-96.
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re originariamente domestico, transitano, sulla scia di una discreta disponibilità di capitali, verso produzioni industriali che si avvantaggiano del bagaglio di conoscenze maturate nell’ambito famigliare.
Proprio lo sviluppo della chimica aveva trovato in Vincenzo Comi a Teramo un consistente precedente: la fabbrica infatti di cremor di tartaro risultava realizzata, e a regime,
fin dal 1794 (o 1793) ed era diventata, unica nel Regno di Napoli, ben presto una delle più grandi d’Italia e della stessa Francia.
Il cremore di tartaro, ossia il tartrato acido di potassio, era un derivato molto diffuso in
una regione che produceva vini; si formava infatti nel corso della fermentazione alcolica
dall’acido tartarico contenuto naturalmente nell’uva depositandosi, con l’aumento del grado alcolico, sulle pareti delle botti sottoforma di incrostazioni. Trovava impiego poi, a parte l’uso medicinale (blando purgante) della farmacopea popolare, nella lavorazione delle
lane di cui pure la regione abbondava per via dell’economia associata ai tratturi.
L’impianto del Comi poggiava su una consistente disponibilità di capitale visto che era
costato oltre 18. 000 ducati ma subito aveva garantita una resa media, all’epoca, di 10/12.
000 ducati dal commercio estero attivato principalmente attraverso, appunto, le esportazioni via mare il che evidenzia un’eccellente dinamica degli ammortamenti di capitale.
Questo slancio iniziale venne però penalizzato da fattori di natura politica con il peggiorare della situazione internazionale, la conseguente insicurezza delle rotte marittine
per finire alle gravissime ripercussioni sugli assetti preindustriali determinate dall’occupazione francese del 1799. Così un’iniziativa partita molto bene finirà male tanto che
all’inizio del XIX sec., ossia nel giro di pochi decenni, la fabbrica poteva dirsi già in
uno stato di languore.
Il Comi non era industriale da poco e aveva ben chiara la necessità di diversificare i settori produttivi proprio per far fronte a possibili crisi momentanee, per questo fin dal
1806 si era orientato parallelamente verso il cremore di tartaro e la produzione di pasta
di liquirizia molto apprezzata come iniziativa dal momento che la popolazione ne ritira molti vantaggi dagli andamenti di queste fabbriche, sì per la moltitudine di braccia
che vi sono impiegate, come altresì per la vendita che essa si trova delle loro ripettive
materie prime.
La liquirizia deriva dalla Glycyrrhiza glabra delle Papilionacee spontanea nella regione mediterranea: sia le radici che gli stoloni, opportunamente ridotti in polvere, costituivano una droga di largo impiego nella farmacopea popolare e oggi farmaceutica, come edulcorante ed emolliente. L’estratto acquoso invece, ossia il succo di liquirizia, poteva essere concentrato in masse nere dal caratteristico sapore impiegabili come aromatizzante o masticatorio uso quest’ultimo riservato anche ai rametti giovani essiccati
un tempo normalmente venduti nei mercatini rionali.
L’occupazione era uno degli obiettivi, ma l’attività, non agendo in regime di libera concorrenza, finì per intersecare gli interessi di un altro produttore, ossia il barone Celidonio Farina che aveva aperta una sua fabbrica esclusiva in Silvi molto accreditata presso l’estero e ben avviata perchè favorita dal passato regime da cui lo stesso barone era
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riuscito ad acquisire la privativa della produzione di pasta di liquirizia (derivata appunto
dal succo) e dunque vedeva di mal occhio chi come i Costanzo di Chieti e i Comi mettevano in pericolo un monopolio aprendo in concorrenza loro stabilimenti.
I Costanzo erano ricchissimi, anche se non compaiono nei Parlamenti Teatini della prima metà del XVIII sec., e la loro elevata condizione economica è dimostrata dalla Lista dei più distinti negozianti che il 7 giugno 1809 redasse il Collegio dei commercianti
di Abruzzo Citeriore da cui risulta che Severino Costanzo, in assoluto il più ricco della
città di Chieti, fosse seguito da Giovan Battista Obletter, Giovan Battista Sannoner e
altri mentre il commerciante Camillo Mezzanotte, operante nella provincia e fuori con
merci d’ogni specie, dichiarava un capitale di ben 30. 000 ducati nella sola Orsogna
contro gli appena 106 in Chieti città di sua residenza dove pure aveva negozio8.
In questo caso non tragga in inganno il baronaggio, i capitali in questione non erano
frutto della proprietà terriera del notabilato rurale, ossia non erano affatto quel surplus
prodotto dalle campagne in grado di convertirsi in capitale industriale, bensì frutto del
commercio, poi della finanza speculativa, e infine, solo in superficie nobilitato da un
opportuno titolo baronale acquistato.
Celidonio infatti doveva il titolo al predecessore Francesco Farina il quale nato a Chieti il 19 febbraio 1731 s’era subito mostrato inclinato alla negoziazione come disse il
Ravizza, e grazie al fatto che al genio (avesse) unita la fortuna, arrivò al massimo della propria carriera proprio quando, in associazione con i fratelli Costanzo, aprì ben quattro case di commercio a Marsiglia, Trieste, Napoli e Chieti acquistando in seguito gli
ex possessi dei gesuiti e altre terre feudali che gli valsero il sospirato titolo di barone.
Nel 1793 poi s’era dovuto trasferire a Napoli, con tutto il fasto di un Negoziante di prima sfera, per condurre la ditta Cantante Farina città dove, sempre sensibile al potere
politico, finanziò due squadroni di cavalleria per la guerra contro i francesi ricevendone in cambio la Croce di Commendatore dell’Ordine Costantiniano. L’anno seguente
anzi aveva ottenuto il titolo di Commissario di Guerra come tenente colonnello, quindi colonnello e infine brigadiere per poi tornare a Chieti nel 1795 cinque anni prima
della morte avvenuta il 16 dicembre 1800.
La capacità imprenditoriale dei Farina documenta un’ascesa sociale vertiginosa ma non
è unica, a Chieti una via quasi uguale avevano percorsa altri come gli Zambra, i Cetti,
Durini, Nolli e Tiboni oltre ai personaggi già richiamati9.
Il barone Celidonio Farina quindi, forte delle aderenze politiche e nell’intento di salvaguardare il regime di quasi monopolio di cui godeva, fece un esposto contro i due conV. Furlani, Complesso di S. Maria dei Sette Dolori, Monastero e Conservatorio delle Vergini Serve di Maria
Addolorata (1720-1962), ricognizione analitica della documentazione storica e sviluppo delle fasi formative,
Circolo Letterario Semprevivo, Chieti 2010.
9.
G. Ravizza, Notizie biografiche che riguardano gli uomini illustri della città di Chieti, Napoli 1830 rist. Bologna 1973 pp. 58-59. Nel 1860 Francesco d’Annunzio, padre di Gabriele, si reca ad Ancona con Francesco Farina e con la delegazione Abruzzese per invitare Vittorio Emanuele II a passare il confine ed
entrare nel Regno di Napoli in R. Falconio (a cura di), Domus Pulcherrimae. Dimore storiche d’Abruzzo,
Pescara 1999.
8.
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ci (fabbriche) aperti ex novo avendosi in risposta un controesposto del Comi che inquadrava la propria attività come incoraggiamento dell’industria nazionale richiamandosi al fatto che la privativa concessa a suo tempo e per la quale il Farina sosteneva un diritto trentennale stabilito in 500 ducati annui, in realtà altro non era che un diritto semmai esteso solo dal 1798 al 1810 per di più ottenuto con manovre e collusioni
sottobanco con il vecchio regime operate in danno degli altri concorrrenti cioè il barone Antonio Nolli e persino Saverio Costanzo famiglia con cui era pure imparentato10.
La protoindustralizzazione nelle province litoranee, Ultra e Citra, si concretizzava comunque in un clima di sostanziale euforia maturato già negli anni precedenti all’occupazione francese ereditando parte dell’attivismo derivabile dagli esiti della cultura tardo illuminista.
Significativa appare perciò, benchè di breve durata (solo un anno), proprio a Teramo la
comparsa nel 1792 di un giornale di settore dal titolo Commercio Scientifico d’Europa
col Regno delle due Sicilie diretto dall’allora giovanissimo Vincenzo Comi (era nato
nel 1766 a Torano e morì a Giulianova nel 1830) edito dalla tipografia Bonolis e organo della Società Patriottica o Agraria presieduta da Gianfilippo Delfico11.
L’impiego della liquirizia era una delle risorse locali perchè sistematicamente raccolta
lungo il litorale dove cresceva anche spontaneamente ma dovrà fare i conti con le trasformazioni imposte al territorio nella prima metà del XIX sec. e poi nel periodo postunitario dallo sviluppo sia della ferrovia adriatica che della strada con lo stesso nome:
come ebbe modo di evidenziare il deputato barone Panfilo De Riseis in un discorso alla Camera del luglio 1888 la scelta di un tracciato economico (litoraneo, praticamente
al limitare delle dune) eludeva il fatto che la regione fosse fatta invece di realtà medio
collinari e interne sulle quali la ferrovia aveva poco impatto concreto se non determinato più danni che vantaggi12.
I danni a cui alludeva erano dovuti al fatto che le comunità dell’interno non avessero
infrastrutture di collegamento con i nuovi tracciati rotabili su rotaia o strada e quindi
queste fossero, almeno nell’immediato, irrilevanti ai fini del progresso economico e sociale delle stesse che invece ricevevano in cambio un sensibile danno non solo per le
colture in genere ivi praticate compresa quella della liquirizia ma anche per le modificazioni imposte ai terreni litoranei e al sistema di scolo naturale delle acque: i terrapieni potevano infatti determinare impaludamenti.
In tal senso, una zona ricca era quella compresa nel territorio di Atri e in particolare tra
il Concio della Regolizia e Calvano anzi meglio tra il Rivolo di S. Maria e Torre di CerArchivio di Stato di Teramo (A. S. T.), Intendenza Francese b. 73 lett. s. d. ma c. a 1808; ibidem b. 75
lett. e 20 agosto 1808 e 21 settembre 1808, Intendenza Borbonica b. 155 Manifatture ed Esposizioni 181233 lett. 11 aprile 1818.
11.
A. Scarselli, Una Rivista Teramana del 1792 in Rivista Abruzzese a. I (1948) fasc. II in rist. Rivista Abruzzese Collezione 1948, Bucchianico 1995 pp. 70-71. N. Palma, Storia della città e diocesi di Teramo, Teramo
1981 vol. V pp. 268-70. Delle scienze e delle lettere in Teramo sullo scorcio del XVIII sec. per Carlo Cavalier
Campana, Teramo 1863 p. 13 e su Comi pp. 56-63.
12.
V. Furlani, Tra spontaneismo e programmazione alcuni significativi interventi urbanistici dell’Abruzzo ottocentesco in Aa. Vv., L’Abruzzo nell’Ottocento, Ediars Pescara 1996 pp. 178-79.
10.
14
rano: l’importanza di queste colture che venivano esercitate asportando le radici della
pianta saranno pure all’origine di una disposizione che ne proibiva lo sterro per una fascia di trenta canne dal ciglio della nuova strada costruita, soprattutto verso monte ma
anche a lato mare, al fine di proteggerne il tracciato obbligando anche i tenutari al consolidamento dei fondi interessati13.
Il consolidamento dei terrapieni stradali e ferroviari, oltre che influenzato dalle colture
tipiche della zona, lo era anche dalla natura dei suoli ricchi appunto di fossi e avvallamenti che producevano i loro danni durante le piogge tra Cerrano e il Rivolo di S. Maria a Valle come testimonia l’intervento di Raffaele Iengo in qualità di impresario. Che
lo stesso tracciato stradale nasca inoltre in competizione con la proprietà privata sarebbe dimostrato dall’ampiezza con cui nel 1832-33 veniva ostacolata dal governo la coltura in vista dei lavori stradali accessori da compiersi14.
Così nel 1842, distrutto evidentemente il monopolio del barone Farina, la produzione
industriale della liquirizia si rivelò in grado di alimentare altre nuove fabbriche. Tra queste alcune proprio sul territorio di Atri località in cui già se ne produceva fin dal 1811,
insieme al cremore di tartaro, in alcuni stabilimenti avviati grazie all’iniziativa di Vincenzo e Raffaele De Rosa.
Nel 1836 questa fabbrica avviò la produzione anche nel convento di S. Domenico resosi disponibile per l’allontanamento dei domenicani i quali l’avevano a loro volta avviata da tempo e mantenuta, in proprio, fino alla soppressione del 1809.
A partire dal 1851 a Castellammare, ma anche nei decenni seguenti, uno stabilimento
fu messo in piedi dalle notevoli doti imprenditoriali e organizzative di Michele Muzii dando lavoro a venti operai con una capacità produttiva complessiva che gli permetteva di esportare in Belgio e Olanda. Tuttavia com’era consuetudine allora, basandosi questi stabilimenti sulla sola fornitura locale di materia prima, ossia quella
stagionale della liquirizia, l’occupazione era anch’essa stagionale e limitata a soli
quattro mesi all’anno.
Questa condizione è rilevante ai fini della maturazione di un capitalismo industriale moderno, infatti da un lato la stagionalità consentiva ai contadini trasformati in operai, detentori della conoscenza, di tornare al lavoro dei campi quando non erano occupati e
quindi di conservare una loro indipendenza anche economica che non li stringeva alla
fabbrica e dall’altro induceva gli industriali, detentori dei capitali ma che di loro erano
obbligati a servirsi non avendo la conoscenza, a spostare la liquidità prodotta in altri
settori passivi invece di reinvestirla negli opifici che pure avevano creati.
Che si trattasse di un’anomalia vi è un’esatta percezione già nel 1844 quando Raffaele
De Novelli nelle osservazioni raccolte Sul pauperismo nella Provincia di Abruzzo Citra
stampato in questa data a Chieti la registra relativamente ai produttori di panni di Taranta: Non posso fare a meno di notare a questo proposito due errori, che si commettoA. S. T., Intendenza Opere Pubbliche, Strada Adriatica b. 884 verb. 23 marzo 1829.
Ibidem lett. e 20 aprile e primo dicembre 1833 e certificazione lavori tra Cerrano e Rivolo di S. Maria
del 22 aprile 1830.
13.
14.
15
no dai Fabricanti di panni. Il primo, di tener chiusi e inoperosi gli Opifici per quasi una
metà dell’anno e in quella stagione in cui gli arteggiani hanno maggior bisogno di lavoro per vivere, cioè nell’inverno; senza riflettere alla perdita cui vanno soggetti nel tenere improduttivo il capitale impiegato nelle macchine durante un tal tempo. Il secondo assia più grave, provviene da una sconsigliata vanità che fa loro preferire lo stato
d’indolente e ozioso proprietario di terre, a quello d’industre e onorevole trafficante;
producendosi con ciò un male alla prosperità generale della provincia, col ritirare i capitali impiegati nelle manifatture, in vece di aumentarle e migliorarle; e un altro male a
loro stessi, impiegando nell’acquisto delle terre il denaro al 4 per 100, invece del 25 che
prima ad essi poteva fruttare. È da sperare che con più sano consiglio e maggior conoscenza de’principi economici, cotesti errori non abbiano a rinnovarsi15.
Verso la metà del XIX sec. era intanto iniziato lo spostamento di Castellammare dai colli alla pianura soprattutto dopo che il Muzii, con notevole intuito e anticipo sui tempi
che stavano cambiando con l’avvento della ferrovia, non solo aveva ivi spostata la sua
fabbrica quanto, con preveggenza urbanistica, aveva acquisite vaste proprietà d’arenile allo scopo di lottizzarlo ed edificarvi palazzi, in una parola, di urbanizzarlo tanto che
la zona divenne presto nota come Villa Muzii.
Con già 56 operai nel 1855-56 la fabbrica da parte sua andava molto bene anche se era
sempre influenzata dalla stagionalità della produzione così che gli addetti alla lavorazione erano impiegati solo 5 mesi all’anno con orario continuato notte e giorno per gli
uomini e solo per 5 ore per le donne.
L’opera di Michele fu poi seguita dai figli Leopoldo e Giulio Muzii: anzi nel 1883 Leopoldo aveva avviata la realizzazione della sede estiva Convitto Nazionale di Chieti lungo la vecchia via romana che collegava come Salara con le saline alla foce del fiume
Saline: la zona era stata fino ad allora emarginata sia dallo sviluppo dei colli che da
quello della marina e inizierà a progredire proprio grazie a queste lungimiranti attività
industriali e immobiliari speculative.
Il cremore di tartaro invece fu prodotto a Campli grazie a Nicola Romandini con ottimi livelli qualitativi se potè essere presentato all’Esposizione delle Manifatture del Regno a Napoli del 1838 e a Teramo dove Michele Gaspari aveva rilevata la già menzionata fabbrica di cremore di tartaro di Vincenzo Comi, andata in rovina, mantenendola
con alterne vicende aperta fino a tutto il 1874.
Nonostante l’inventiva del Comi e dei suoi seguaci, tuttavia il bilancio provinciale in
questo settore resta solo limitato dovendo fare i conti con una tradizione agricola radicata, mai evoluta del tutto, che continuava a spingere i proprietari, come dice il Novelli, a reinvestire più nei coltivi che nella nascente industria. Lo stesso cremor di tartaro
che caratterizzò la prima metà del secolo nella seconda non è quasi più lavorato a causa dell’incetta di materia prima che altri fanno sul posto facendola poi lavorare altrove
V. Furlani, Il ruolo sociale, economico, storico e ambientale dei fiumi della provincia, Provincia di Chieti, Il
Nuovo editore Vasto-Chieti 2003 vol. I pp. 318 e s. ti. e Sul pauperismo nella Provincia di Abruzzo Citra
osservazioni raccolte da Raffaele De Novelli, Chieti 1844 p. 61 n. 1.
15.
16
così la produzione di acido tartarico dal 1881 al 1887 passa da 1. 876 quintali a 924 nell’esportazione, cioè si dimezza, e cresce a dismisura da 106 a 1. 261 nell’importazione, aumentando di quasi 12 volte, il che vuol dire che la bilancia commerciale in questo settore diventa totalmente negativa16.
Anche Riccardo Comi aveva aperta fin dal 1809 una nuova fabbrica per la produzione
congiunta di liquirizia e cremore di tartaro a Giulianova dove operavano pure quelle di
cremore di tartaro di Camillo Massei e Gaudioso Mancini esportando tutte sia in Inghilterra che in America; sempre Vincenzo Comi dopo l’impianto per la produzione di
liquirizia di Giulianova aperto dallo stesso anno aveva avviate altre sue fabbriche di
cremore di tartaro a Grottammare di Ascoli nello Stato Pontificio e a Popoli (l’ultima
in ordine di tempo nel 1823), iniziando, ancora dal 1809, la raffinazione della potassa
purificata e dal 1802 la concia dei cuoi17.
La potassa ossia il carbonato di potassio puro recuperato come sottoprodotto della sgrassatura della lana o dai residui della lavorazione delle barbabietole da zucchero e di altri vegetali è il principale prodotto di partenza per la preparazione dei sali potassici puri che trovavano impiego sia nell’industria vetraria per produrre vetri più resistenti che
nella lavorazione di ceramiche e smalti.
La fabbrica di liquirizia dei Comi a Giulianova verrà alla fine, nel 1873, rilevata da Giulio e poi da Gerolamo Acquaviva d’Aragona quando l’impianto da bottega s’era trasformato in stabilimento vero e proprio capace di dare lavoro ormai a 52 operai e smerciare il proprio prodotto in piccola parte a Milano e per il resto sulle piazze estere e in
particolare in Inghilterra, Germania e a New York18.
Se i Comi avevano avviata una produzione con livelli semindustriali attingendo a manovalanza che tuttavia proveniva dalla piccola bottega a gestione famigliare, la chimica domestica intorno al secondo decennio dell’800 restava responsabile, con metodi
spesso antiquati, della produzione pressoché integrale dei saponi circolanti nella provincia ed erano pochi e piccoli gli impianti.
Questi si localizzarono a Penne, Loreto e Pianella in grado di produrre il più raffinato
sapone all’uso di Marsiglia e di Genova dal momento che anche questo settore, come
la liquirizia e le sete, era stato gravato del peso delle privative in questo caso devoluta
per un quinquennio al principe di Satriano. Viene infatti documentata la produzione fin
dal 1818 di un solo saponetto odoroso di una qualche qualità allestito dalle monache
del convento di S. Pietro di Atri e dunque con metodi del tutto famigliari e piccolo-artigianali e per questo irrilevante dal punto di vista industriale19.
L’industria nella Provincia di Teramo. Memoria di Pasquale Ventilij, Teramo 1813 pp. 56-57.
R. Forlani, Tramonto e alba di alcune industrie dell’Abruzzo Teramano in Rivista Abruzzese di Scienze Lettere ed Arti a. XXXI(1916) fasc. VII luglio 1916 sull’industria della liquirizia pp. 368-375.
18.
A. S. T., Intendenza Borbonica b. 150 Società Economiche Rapporto della Società Economica a. 1842, b.
156 Manifatture per l’Esposizione di Napoli 1834-58, b. 155 Manifatture ed Esposizioni 1812-33, Elenco di
saggi de’ prodotti della Industria napolitana maggio 1838, Napoli 1838. Aa. Vv., Monografia della Provincia
di Teramo, Teramo 1892 vol. III pp. 262-63 e 287, 296. L’industria nella Provincia di Teramo. Memoria di
Pasquale Ventilij, cit. pp. 71-73.
16.
17.
17
Liquirizia e cremore di tartaro sostengono la parte maggiore della protoindustrializzazione ma questa si orienta anche verso altre produzioni minoritarie come la cera: a questo proposito, di Teramo, nell’Esposizione delle Manifatture del 1838 compare Vincenzo Iselli per le sue cere e nella successiva del 1840 il candelificio di Saverio Alessandrini in associazione col figlio.
Un’altra fabbrica sarà nella seconda metà del XIX sec. aperta dal dalmata Girolamo Pusik e sempre intorno al 1840 un’altra ancora, che poi resterà in vita per circa un decennio, questa volta a Giulianova da tale Bartolomeo De Bartolomeis. La produzione di
acquavite sarà invece avviata nel 1839 da Beniamino Rozzi nei pressi di Notaresco20.
Sebbene abbastanza lontani come prodotto dalla chimica che tentava, non senza difficoltà, di avviarsi verso un assetto industriale, e forse più di altri settori legati a strutture artigianali famigliari o a queste assimilabili, vanno qui ricordati i produttori di polveri da sparo e in particolare quegli artigiani che hanno lasciato un loro nome come produttori di polveri pirotecniche offrendo prestazioni ad Ascoli: Consorti Consorte di Atri
che cura gli allestimenti del 1664-65 e del 1679, il cosiddetto canonico di Teramo che
cura quelli del 1774, Casimiro Eugeni di Campli per quelli del 1781 e infine, ma proveniente da Abruzzo Citeriore, Saverio d’Urbano di Fara San Martino21.
In una regione in cui l’allevamento stanziale o di transito aveva da sempre avuto un ruolo non secondario nei profili economici, la conceria è forse, con la chimica, il settore
che più di altri si prestava alla conversione industriale. Alcune rilevanti concerie sono
così concentrate a Penne, Teramo e Castellammare.
A Penne la più grande apparteneva alla famiglia Del Bono e risaliva al XVIII sec. tuttavia, com’era accaduto per i Comi, s’era rovinata in conseguenza dei fatti del 1799 allorchè era stata obbligata ad equipaggiare di scarpe, stivali e giberne le truppe mandate nello Stato Pontificio per contrastare l’armata francese discesa in Italia. In quell’occasione i Del Bono erano stati costretti, come industriali, ad anticipare 18. 000 ducati
che non gli furono più restituiti determinandone la crisi col conseguente passaggio dalle 40. 000 libbre lavorate prima del 1799 alle sole 12. 000 del 1808.
Sempre a Penne c’era l’altra conceria di Nicola De Cesaris che, a differenza della prima, non occupava però più di cinque persone anche se era in grado di lavorare circa 7.
000 libbre in ogni caso ben diversa, quanto a consistenza, dall’altra di Domenico Cantagalli che impiegava ben 30 operai ed era stata premiata con medaglia d’argento all’Esposizione del 1832.
Negli anni ’30/’40 del XIX sec. industrie per la lavorazione dei cuoiami risultano installate a Campli da Felice Cantoresi e ad Elice da Impicciatore Tolomeo segnalato an19.
A. S. T., Intendenza Borbonica b. 150 Società Economiche lett. e 28 ottobre 1824 e 22 febbraio 1825 e
doc. a. 1835, b. 155 Manifatture ed Esposizioni 1812-33 lett. 11 aprile 1818.
20.
Ibidem Intendenza Borbonica b. 156 Manifatture per l’Esposizione di Napoli 1834-58 Esposizione del
1836 e b. 155 Manifatture ed Esposizioni 1812-33 Elenco di saggi de’ prodotti della Industria napolitana
maggio 1838, cit.. Aa. Vv., Monografia della Provincia di Teramo, cit. vol. III p. 261. L’industria nella Provincia di Teramo. Memoria di Pasquale Ventilij, cit. su Pusik p. 12, su Beniamino Rozzi p. 13.
21.
G. Fabiani, Artisti del sei-settecento in Ascoli, Ascoli Piceno 1961 p. 293.
18
che questo nell’Esposizione del 1838, mentre operano stabilmente a Teramo Silvestro
e Pasquale Stancherini (o Stanchini) premiati entrambi nelle Esposizioni del 1830 e
1836 con medaglia d’argento e soprattutto Nicola Bonolis medaglia d’argento all’Esposizione del 1828 il cui stabilimento però, forse perchè ceduto, nell’Esposizione del
1840 risulta tenuto da tale Berardo Mancini.
La fabbrica dei De Fabritiis poi era stata fondata a Teramo nel 1779 dai fratelli Giuseppe e Ubaldo De Fabritiis e da impresa del livello di bottega artigiana era rapidamente
salita ai 30/45 dipendenti vedendosi affiancata da quelle fondate più tardi nel 1840 dai
Mancini e dai Cameli e ottenendo per i suoi cuoi lavorati nelle Esposizioni del 1819 e
del 1836 una medaglia d’argento e ancora presente con propri prodotti nella successiva del 183822.
Significativi riconoscimenti vanno anche alle concerie di Castellammare di Luigi Protasco Lemaire premiata con medaglia d’oro nell’Esposizione del 1818 e di Francesco
Bonnet medaglia d’argento nel 1826 mentre un’altra medaglia d’argento va a Filippo
Lamij per il migioramento della tecnica di lavorazione dei cuoi colorati nel 1830 e ancora nel 1832.
Sul livello raggiunto dalle concerie di Castellammare va ricordato che Lemaire e Bonnet appaiono premiati con medaglia d’argento anche nel 1836 e Vittorio di Giuseppe
premiato nell’Esposizione termana del 1888 per la produzione di calzature23.
Lo scambio culturale sia all’interno della regione che fuori è alla base anche dello sviluppo dell’industria tipografica che ruota intorno a diverse figure tra cui preminente è
quella dei Facio. Il fatto che i fratelli Facio di Teramo per circa due anni fin dal 159293 fossero documentati come stampatori per aver trasferito in Campli una loro tipografia testimonia dell’esistenza di attività radicate connesse con la produzione cartaria.
Infatti il frate francescano Giovanni da Teramo fin dal 1496 aveva impianta un’officina nel convento di S. Maria di Solestà di Ascoli seguito appunto da Isidoro Facio, che,
provenendo da Monteprandone, aveva installata nella stessa città nel 1588 un’altra officina per rientrare poi in Teramo nel 1591 e passare quindi prima in Campli e poi, con
il fratello Lepido Facio, all’Aquila e infine da solo in Chieti ove, come dice il Ravizza,
qual cittadino fu considerato, sì per avervi fissato il domicilio con tutta la sua famiglia,
A. S. T., Intendenza Francese b. 73 lett. 11 ottobre 1808; Intendenza Borbonica. b. 155 Manifatture ed
Esposizioni 1812-33 lett. 11 aprile 1818, b. 150 Società Economiche Rapporto della Società Economica a. 1842,
b. 155 Manifatture ed Esposizioni 1812-33 per i De Fabritiis, lett. 21 gennaio 1820, b. 156 Manifatture per
l’Esposizione di Napoli 1834-58 in Catalogo di Saggi de’ prodotti della Industria Nazionale presentati nella solenne Esposizione de’ 30 maggio 1834, Napoli 1834 che contiene l’elenco dal 1818 al 1834 e anche De’ Saggi delle Manifatture napolitane esposti nella Solenne Mostra del 1836 articolo inserito nel fascicolo XXI degli
annali civili da R. Liberatore, Napoli 1836 infine Elenco di saggi de’ prodotti della Industria napolitana maggio 1838, cit. Aa. Vv., Monografia della Provincia di Teramo, cit. vol. III pp. 303-304. L’industria nella Provincia di Teramo. Memoria di Pasquale Ventilij, cit. pp. 85 e 87-9023.
A. S. T., Intendenza Borbonica b. 156 Manifatture per l’Esposizione di Napoli 1834-58 in Catalogo di Saggi
de’ prodotti della Industria Nazionale presentati nella solenne Esposizione de’ 30 maggio 1834, cit. contiene l’elenco dal 1818 al 1834 e anche De’ Saggi delle Manifatture napolitane esposti nella Solenne Mostra del 1836
articolo inserito nel fascicolo XXI degli annali civili da R. Liberatore, cit.. Relazione Generale compilata da
Giuseppe Savini per l’Esposizione Provinciale Operaia di Teramo nell’anno 1888, Teramo 1889 p. 2322.
19
come pel mestiere da lui esercitato tanto utile, e necessario per lo commercio delle Lettere e per l’aumento de’ Letterati24.
Lepido in particolare, che in Ascoli aveva lavorato con il tipografo Pinetti, s’era portato via furtivamente dalla bottega di quest’ultimo del materiale tipografico che non fu
possibile recuperare per il suo trasferimento dal 1599 in Roma. Va ancora notato come
vi fosse l’abitudine di spedire le carte migliori nel Regno di Napoli lasciando ad Ascoli i prodotti più scadenti al punto che la cosa aveva indotto, evidentemente senza esito,
il vescovo di Faenza Annibale de’ Grassi, ad Ascoli nel 1587, a minacciare la concessione di autorizzazioni all’importazione di materiale di buona qualità25.
La stamperia che Berardo Carlucci e compagni avevano inoltre aperta a Teramo nel
1806 con l’intento di rendere note le leggi che Giuseppe Napoleone e il suo governo
emanavano ben illustra, nello spirito connesso al lancio dell’iniziativa, il clima di speranza e rinnovata fiducia che accompagna il nuovo ordine sostenendo che nel nuovo
stato di cose, non abbiamo che conoscere la presente legislazione, la quale emanando
da’ sorgenti più vicine a’ diritti naturali e di società, non può (far) a meno che non ristabilisca l’ordine e la felicità pubblica da tanto tempo sospirata dalla buona Filosofia. Clima per altro sottolineato anche dall’avvio alla preparazione di ricognizioni di
studio sul posto preparate, per valorizzare le risorse naturali, ad esempio dalla venuta
del botanico e naturalista Michele Tenore da Napoli l’anno successivo26.
Sulla provenienza della materia prima, cioè le carte, già il Nardi nel 1789 aveva rilevata
la mancanza pressochè totale nella provincia di cartiere, infatti nel 1808 c’è n’è una sola,
e tale resterà, a Loreto appartenente in origine al principe di Melissano (Caracciolo) ma
ceduta in seguito ad un nuovo proprietario che produceva una carta scadente per mancanza, come egli stesso affermava, di uno strumento detto all’Olandese costringendo così la richiesta interna a rivolgersi per carte di qualità fuori Stato sulla piazza di Ascoli.
Che in generale l’industria regionale potesse essere gravata dall’impiego di macchinario
obsoleto è smentito nel 1832 proprio dal suddetto Michele Tenore il quale nella Relazione del viaggio fatto in alcuni luoghi di Abruzzo Citeriore nella state del 1831 afferma:
Molte sono le fabbriche (in questo caso di panni a Palena)... tra le più considerevoli figurano in primo luogo le valchiere del barone Perticoni, che per la solidità, l’ampiezza ed
il perfezionamento delle macchine nulla lasciano a desiderare. Il sullodato barone, sulla
contigua sponda dell’Aventino ha fatto costruire un altro gran fabbricato col proposito
di stabilirvi una cartiera, di cui i voti generali fanno desiderare il compimento27.
Per quanto attiene all’olandese l’allusione è al fatto che alla fine del XVII sec. gli olandesi avessero introdotta una macchina per raffinare la pasta di stracci ottenendo così
una carta a tessitura più omogenea e perfettamente bianca, queste macchine (impiegate ancora oggi) presero appunto il nome di olandesi quando iniziarono a diffondersi in
Europa e alla mancanza di tale macchina si attribuisce la scarsa qualità del prodotto finito. In realtà l’ex cartiera del principe di Melissano risultava essere di bassa levatura
qualitativa non tanto per l’inadeguatezza dei macchinari quanto piuttosto per l’ignoranza delle procedure e per la mancanza di fondi per provvedersi le materie prime28.
Tra stentate sopravvivenze, passata infine a Candido Vecchi e da questo potenziata la
cartiera vinceva due medaglie d’argento nelle Esposizioni del 1830 e poi del 1832 e sarà presente anche in quella del 1838 ma come piccola azienda non era più gestita da
personale locale dal momento che il Vecchi risulta all’epoca imprenditore in Ascoli e
pure ascolano era il direttore Girolamo Cappone29.
Non sappiamo che nesso vi sia tra questa cartiera e le sopravvivenze della toponomastica né se esista una relazione con l’analoga cartiera dislocata sul fiume Tavo menzionata, insieme ad una gualchiera, nel Catasto preonciario di Moscufo del 1614, va tuttavia
osservato come il fiume transitasse in origine più a settentrione dell’attuale alveo e che
la sua ex sede per questo acquistasse la denominazione attuale di Acqua morta ossia a
ridosso del toponimo Cartiera di Loreto subito a valle dell’ex molino in località Cardito e non lontano dal recente Pastificio di Blasio poi sorto nello stesso posto (Cartiera).
Infatti quanto a macchinario di base per la produzione della carta si adoperavano in sostanza, come trasformazione del tradizionale molino idraulico, le gualchiere per panni
che hanno così non poche affinità con gli analoghi impianti adoperati per la produzione
della carta e non solo per il sistema di sfruttamento dell’energia idraulica a mezzo di ruote in legno, ma anche per l’analogia dei sistemi di battitura e compressione delle fibbre
tessute nella gualchiera e ridotte in pasta dagli stracci di canapa e lino nelle cartiere.
Il rapporto tra le due produzioni (panni e carta) non è casuale, fin dall’XI sec. infatti
s’erano iniziati a sviluppare sistemi che permettessero di trasformare il movimento rotatorio in movimento alternativo che attuasse la battitura dei tessuti e dunque la follatura per compressione, lo stesso procedimento era utilizzabile nella lavorazione degli
stracci per produrre carta e il molino delle cartiere di solito nasceva proprio da un normale molino da grano.
Michele Tenore, Relazione del viaggio fatto in alcuni luoghi d’Abruzzo Citeriore nella state del 1831, Napoli 1832 pp. 101-104 e V. Furlani, Artigianato e piccola impresa in Abruzzo dal XVIII sec. al 1940, tracce
ricostruttive per l’artigianato storico tra Molise, Abruzzo e Marche, Chieti 2002 pp. 247-48.
28.
A. S. T., Intendenza Francese b. 73 lett. 11 ottobre 1808. G. F. Nardi, Saggi su l’agricoltura arti e commercio della Provincia di Teramo, Teramo 1789 rist. in Un riformatore abruzzese del ’700 G. F. Nardi a cura
di A. Marino, Crognaleto 1984 p. 84.
29.
A. S. T., Intendenza Borbonica b. 155 Manifatture ed Esposizioni 1812-33 lett. 11 aprile 1818, b. 150 Società Economiche Rapporto della Società Economica a. 1842, b. 156 Manifatture per l’Esposizione di Napoli
1834-58 in Catalogo di Saggi de’ prodotti della Industria Nazionale presentati nella solenne Esposizione de’ 30
maggio 1834, cit. contiene l’elenco dal 1818 al 1834, b. 155 Manifatture ed Esposizioni 1812-33 Elenco di
saggi de’ prodotti della Industria napolitana maggio 1838, cit.
27.
24.
Isidoro Facii fu amico in Chieti dello storico connazionale Sinibaldo Baroncini che in questa città s’era
trasferito da Camerino nel 1592 a seguito dell’arcivescovo Matteo Samminiato in G. Ravizza, Appendice
alle notizie biografiche degli Uomini Illustri della Città di Chieti, Napoli 1834 rist. Bologna 1973 pp. 27-29
25.
Giovanni da Teramo e Facio in G. Fabiani, Ascoli nel ’500, vol. II Ascoli 1959 rist. Ascoli 1982 pp. 291,
297-98 e 302. G. Fabiani, Artisti ed artigiani abruzzesi in Ascoli nella seconda metà del sec. XVI in Rivista
Abruzzese a. XII(1959) n. 2 pp. 6-67.
26.
N. Farina, Campli la badia celestina e la pittura di Giacomo, Campli 1988 p. 20. A. S. T., Intendenza Francese b. 70 Manifesto che pubblicizza l’iniziativa in data 26 agosto 1806, su Tenore lett. del 17 giugno
1807 del Ministro dell’Interno all’Intendente.
20
21
La diversità risiedeva, come d’altra parte nelle gualchiere diffuse tra il XVII e il XVIII
sec., nella capacità di sostituire mediante sporgenze in legno dell’albero motore, la rotazione con l’azione di sollevamento di magli e pestelli che si muovevano in vasche di legno dette pile a magli. La stessa attrezzatura era in grado di lavorare il rame da laminare
come anche gli stracci macerati per la produzione cartaria per questo dipendente dall’acqua doppiamente, per l’energia idraulica sfruttabile ma anche perchè per quest’artigianato occorrevano grandi quantità d’acqua pura per non produrre carte opache o colorate.
Nè può essere considerata una coincidenza che la richiesta di materia prima, cioè di residui della confezione tessile, oltre che di energia idraulica, facesse in modo che l’industria cartaria fosse localizzata alle origini proprio dove si fabbricava tela30.
Con la produzione cartaria dipendente da tecnologie e sistemi di lavorazione d’importazione totalmente marchigiana, regione che in questo settore deteneva un giusto primato, altro significativo indice del regime degli scambi tra Stati limitrofi al di qua e al
di là del Tronto è senza dubbio la produzione di vasellame e stoviglie in cotto quest’ultima tutta e solo concentrata a Castelli dove esistono nel 1743, sui dati del relativo
vecchio catasto, 35 botteghe pari a circa una ogni 28 abitanti ridotte nel 1808 a 33 completamente artigiane, vincolate a maestranze quasi tutte del posto e fortemente ancorate ad una tradizione locale originale e ben radicata.
Nel 1856 vi sono 35 botteghe con 408 artigiani e 126 animali da soma per i trasporti in
grado di produrre complessivamente 11. 010 ceste di maioliche che redono 26. 793 ducati e vengono vendute nel Regno di Napoli in Abruzzo (6. 894 ceste), Puglia (1. 806
ceste), Calabria (80 ceste) e Napoli (20 ceste) o sono smerciate di contrabbando nella
Marca Anconitana oppure legalmente offerte sulle piazze di Ancona (1. 880 ceste per
la maggior parte di terza classe) e Senigallia (510 ceste) da dove vanno, tra l’altro, poi
in Dalmazia, Grecia e Turchia31.
La produzione di vasellame divisa per metà verso il mercato nazionale e per metà verso l’esportazione orientata non solo al territorio italiano ma anche a diversi paesi europei, annovera tra le varie botteghe alcune di buona rinomanza come quelle di Gesualdo Fuina nota per la bellezza del disegno e dei De Dominicis (forse deve intendersi De
Martinis) apprezzata invece per nitore e splendore della vernice o quella di Angelo Maria Celli di cui resta menzione nell’Esposizione del 1838.
Va però detto che tutte esportano verso lo Stato Pontificio i soli prodotti meno rifiniti e
più dozzinali perchè quelli di alto livello qualitativo a mala pena riescono a coprire la
domanda interna nazionale.
La collocazione riguarda ovviamente anche Fermo e Loreto Marche anche se, su un bilancio globale di 5. 000 ceste nella prima decade del XIX sec., l’esportazione appare
orientata pressochè interamente verso la fiera di Senigallia dove sono convogliate 1.
200 ceste al costo di 3 ducati l’una mentre le maioliche destinate all’interno assommaV. Furlani, Il ruolo sociale, economico, storico e ambientale dei fiumi della provincia, cit. vol. I, p. 304 .
C. Rosa, Notizie storiche delle maioliche di Castelli e dei pittori che le illustrano, Napoli 1857 rist. Bologna
1978 pp. 35 e 106 e prospetto allegato sulla produzione del 1856 a p. 114.
30.
31.
22
no a 1. 500 ceste a 5 ducati l’una e destinate in buona parte alla provincia dell’Aquila32.
Per queste ragioni la produzione era tenuta tanto in buon conto dallo stesso governo
centrale da indurre Ferdinando I, col decreto del 2 gennaio 1820, a liberare Castelli da
tutte le pastoie che ordinariamente colpivano l’artigianto napoletano. Alla luce di quanto su accennato appare significativo il drastico giudizio dell’Intendenza: la Provincia
in genere d’arti non ha un commercio attivo che per le maioliche di Castelli, pel Cremore di Tartaro e per succo di Liquirizia.
Le ceste erano grandi e piccole ed entrambe adatte ad un trasporto sia su carri che someggiato dovendosi in quest’ultimo caso fissare ai lati dei basti caricati su asini, muli
e cavalli. Come riferimento si può tener conto del fatto che la cesta grande arrivasse a
trasportare un carico di circa 200 piatti che equivaleva ad un peso approssimativo di
quasi un quintale tutt’altro che irrilevante per questo tipo di veicolazione specialmente
se si trattava di strade equitabili com’erano dette le mulattiere che però consentivano
di arrivare anche nei posti più isolati per cui la distribuzione della merce era, per grandi carichi, obbligata a seguire le carraie.
I rapporti con Ascoli in particolare sono evidenti nel ripetersi degli acquisti fatti a Castelli in occasioni di particolare prestigio per la città: per la venuta del cardinale Sforza
legato di Gregorio XIII nel 1580, nel 1589 per la venuta di Camilla Peretti sorella di Sisto V, nel 1592 per le feste patronali, nel 1603 e infine nel 1613 per la venuta del cardine Felice Centini si fanno acquisti di stoviglie e accessori, nel 1672 poi addirittura un
castellano, tale Giovanni Antonio di Cesare, è documentato, forse per l’esercizio della
propria attività, in Ascoli33.
La richiesta di ceramiche castellane era dunque forte dal Regno Italico, come lo Stato
Pontificio si disse all’epoca dell’occupazione militare francese, e avrebbe potuto favorire questo importante settore commerciale attivo con la bilancia estera della provincia
potenziando i mercati più ricettivi di Ancona e Senigallia.
Se ciò non avveniva, era perché in primo luogo sussisteva una totale inadeguatezza della compagine organizzativa proprio delle piccole botteghe che nella struttura famigliare di gestione evidentemente trovavano il limite principale e poi anche perchè, nel periodo francese in particolare, permaneva un’indubbia difficoltà a reperire materie prime fondamentali come lo stagno e il piombo occorrenti alla produzione della vernice
piombifera o smalto bianco che aveva reso nota Castelli per essere stata una delle prime ad adottarla in Europa e basato sulla loro fusione in fornelli a riverbero fino a ridurli
allo stato di ossido.
La decadenza della prima metà del XIX sec. spinse perciò a favorire l’addestramento
di artigiani di Castelli a Napoli per favorirne la ripresa e a fondare nel 1840 una scuo32.
M. Scarselli, Castelli, terra della badia di S. Salvatore, Chieti 1979, pp. 9 e 45-46. Su Gesualdo Fuina Artisti abruzzesi, pittori scultori architetti maestri di musica fonditori cesellatori figuli dagli antichi ai moderni.
Notizie e documenti di V. Bindi, Napoli 1883 pp. 128 e 19 su maestro Renzo lancianese che avrebbe importato la tecnica di lavorazione della ceramica nel teramano.
33.
G. Fabiani, Ascoli nel ’500, cit. pp. 275-76 anche G. Fabiani, Artisti ed artigiani abruzzesi in Ascoli Piceno nella seconda metà del secolo XVI cit. pp. 24-25.
23
la pubblica a Castelli stessa sotto l’egida del Consiglio Generale della Provincia e sostenuta da provvedimenti di contorno come la resa franca dei metalli necessari alla produzione degli smalti nonchè la premiazione dei miglioramenti apportati ai sistemi produttivi per incentivarne la qualità e resa34.
Nonostante tutto nell’Esposizione dei prodotti dell’industria nazionale dell’agosto del
1812 mentre le medaglie di bronzo e argento andarono alla fabbriche di cappelli Ariento di Chieti e al lanificio Domenico Raffaele di Taranta (Peligna), nella provincia si segnalarono, oltre ai prodotti dei Comi, proprio e solo le terraglie di Castelli appena affiancate dalla marginale e occasionale produzione di saponetto odoroso di Atri35.
Altre fabbriche risultano nel 1888 impiantate ed Elice e Penne che subito acquisiscono una certa notorietà per la statuaria in cotto e di stoviglie a Campli, Nereto e
Loreto Aprutino la cui forma è rozza, ma la qualità dell’argilla è resistente senza
che tuttavia possano competere con la produzione castellana che riguardava da tempo però anche settori colti come quello delle chiese, mattonelle maiolicate vennero
infatti utilizzate per costruire la Via Crucis della chiesa di S. Maria degli Angeli di
Bisenti forse da attribuire a Bernardino Gentile (1727-1813) aiutato dal fratello Giacomo Gentile e probabilmente con la supervisione del padre Carmine Gentile e anche per gli otto pannelli che Vincenzo Fuina apprestò per Fano a Corno di cui sette
dedicati ai Dolori della Madonna.
A Offida poi nella chiesa del miracolo eucaristico di S. Agostino si conservano varie
maioliche poste ad ornamento degli armadi di sacrestia che sono attribuite alcune ai
Grue e altre a Candeloro Cappelletti36.
A. S. T., Intendenza Francese, b. 73 lett. 20 settembre 1808 e lett. 21 ottobre 1808 lett. 25 agosto 1810.
Fuina (1755-1822 o 1827) disegnava soprattutto fiori, insetti, farfalle dipinti su un fondo bianco o cinerino lasciandosi influenzare dalle cineserie di moda all’epoca. I De Dominicis (storpiatura forse da
identificare con Silvio De Martinis nato nel 1731) invece era portatore delle tecniche acquisite nella
Reale Fabbrica di Capodimonte dove s’era recato da giovane prediligendo gli effetti pittorici ottenuti su fondo bianco in C. Rosa, Notizie storiche delle maioliche di Castelli e dei pittori che le illustrano, cit. su
Fuina pp. 66-68 e su De Martinis pp. 96-97, il decreto di Ferdinando I è a p. 129, Aa. Vv., La ceramica
di Castelli, L’Aquila 1989 pp. 48 e 49 e B. M. De Luca, I maestri castellani, sintesi illustrata della antica
maiolica di Castelli, Chieti 1992 p. 26. Aa. Vv., Monografia della Provincia di Teramo, cit. vol. III pp. 31517. Sull’origine della produzione castellana A. Nicodemi, I Conti di Pagliara e l’inizio dell’arte ceramica
in Castelli in Rivista Abruzzese a. VI(1953) n. 2 aprile-giugno pp. 33-40.
35.
A. S. T., Intendenza Francese, b. 73 Catalogo di Saggi de’ prodotti dell’Industria Nazionale presentati nella solenne esposizione de’ 23 agosto 1812, Napoli s. d. ma 1812 dalla tipografia dei fratelli Masi. Intendenza Borbonica b. 155 Manifatture ed Esposizioni 1812-33 Elenco di saggi de’ prodotti della Industria
napolitana maggio 1838, cit.
36.
Relazione Generale compilata da Giuseppe Savini per l’Esposizione Provinciale Operaia di Teramo nell’anno 1888, cit. p. 27. L. De Carolis, Bisenti, storia leggende tradizioni folclore, Teramo 1970 e G.
Di Nicola, Paesi d’Abruzzo, vol. II, S. Gabriele 1977. L’industria nella Provincia di Teramo. Memoria di Pasquale Ventilij, cit. pp. 105-109. G. Sargiacomi, Il Miracolo Eucaristico di Offida, Ascoli Piceno 1967 p. 178.
34.
24
Geografia
Franco Farinelli
Ogni manuale, e questo è a suo modo un manuale di geografia, si fonda su di una duplice fiducia: che quello di cui si scrive abbia un ordine e che tale ordine sia riproducibile sulla carta, sulla pagina. Come molti anni fa si veniva messi in guardia: “non si può
scrivere un trattato su una realtà che non è fattualmente tratteggiabile”. Ma un libro di
geografia non è un libro qualsiasi perché più di ogni altro esso, anche se l’autore non
se ne accorge, si riferisce fin dall’inizio al mondo intero, a quella cosa che, senza più
saperlo, indichiamo ogni volta che allarghiamo le braccia per significare rassegnazione: gesto che si riferisce all’impossibilità del compito che occasionalmente si ha davanti, ma che appunto deriva dal primo originario tentativo, quello di afferrare e portare con sé, nella direzione voluta, la “totalità dei fatti” di cui il mondo si compone. Nel
gesto, a farvi caso, gli arti non sono perfettamente stesi ma lievemente arcuati, il gomito non è rigido e le dita puntano in avanti rispetto all’asse dell’avambraccio, perché
la totalità che si vorrebbe abbracciare ha forma sferica: essa è infatti il globo, la sfera
terrestre, la palla, anzi la “balla” dei traduttori moderni di Tolomeo, termine che al giorno d’oggi è ancora sinonimo, nel linguaggio corrente, di quel che è fandonia e frottola,
oppure uno stato di dionisiaca ebbrezza , una sbornia. L’impossibilità diventa in tal modo incredulità, come se soltanto attraverso il ricorso alla fantasia o all’incoscienza potessimo fare i conti con il mondo così come davvero esso è.
Per essere il mondo i fatti devono essere nello “spazio logico”. Se i filosofi leggessero
i geografi e viceversa, si sarebbe compreso da tempo che tale espressione equivale alla rappresentazione cartografica, alla mappa. Si sarebbe compreso che il Tractatus è
l’unico vero manuale di logica cartografica finora scritto, il più coerente tentativo mai
compiuto di comprensione geografica del mondo, fondata cioè sulla riduzione di quest’ultimo a una carta geografica. Da piccoli non ci hanno insegnato nulla. O meglio ci
hanno insegnato a fare le cose senza più avere memoria del loro significato. Nessuno
ci ha mai spiegato che le aste, i piccoli artificialissimi segmenti rettilinei con cui siamo
stati introdotti al mistero della scrittura, erano le lance dei guerrieri. Nessuno ci ha mai
spiegato che ogni volta che squadriamo un foglio con riga e compasso torniamo come
Ulisse ad accecare Polifemo, a ridurre il mondo a spazio. Polifemo, il “mostro dal pensiero illogico”, rappresenta il mondo prima di ogni ragione, il potere basato sulla pura
forza fisica. E questo mondo coincide con il globo, con l’enorme e pesante masso che
sbarra l’ingresso della grotta e impedisce ai greci di tornare in libertà. Per essi, quando
finalmente riusciranno a tornare alla luce, davvero nulla sarà più come prima, tra loro
e il mondo vi sarà qualcosa che prima non c’era: la Terra.
L’aggressione a Polifemo viene sferrata soltanto dopo che il gigante si è allungato al
suolo, ebbro di vino e di carne umana, dopo che la sua mole da torreggiante e verticale si è mutata in una estensione orizzontale. Così nell’azione vengono in contatto due
25
assi o linee: quella del corpo steso a terra e il palo sorretto da cinque tremebondi esseri umani. Scaglionati lungo l’asta ad intervalli regolari, essi costituiscono una vera e
propria scala vivente, archetipo e matrice di quella metrica o grafica che ancora oggi
distingue una rappresentazione cartografica da un semplice disegno. Ancora oggi le tacche sulla riga, che corrisponde appunto al tronco levigato e reso diritto, rappresentano
Ulisse e i suoi compagni, esattamente nell’ordine d’attacco: ad un’estremità il capo, e
ad identica distanza l’uno dall’altro i suoi uomini. Nell’insieme il corpo e il palo allestiscono due semidiagonali a squadra, incentrate sul punto d’incrocio alle loro estremità: per spingere al meglio il legno nell’occhio è necessario un angolo d’una certa ampiezza, e al verso 382 dell’Odissea si dice che il tronco viene “alzato”, dunque è lecito
supporre che tale ampiezza non sia molto discosta dai 90 gradi. E proprio e soltanto perché l’occhio deve servire da centro Polifemo è un Ciclope, cioè un essere dall’occhio
(o dal viso) circolare, il cui contorno appare già dunque predisposto per la sua funzione, già pronto per la traumatica inserzione che segna la nascita della centralità. Il tronco incandescente “arde” il perimetro dell’occhio e “frigge” le sue radici, dice ancora il
testo. In tal modo ogni profondità viene cancellata, di quello che era un globo resta soltanto una piatta distesa. E così selvaggiamente enucleato e definito il centro scotta ancora: dentro la circolare assemblea che delimiterà la prima forma di attività politica così come il profilo ideale della città nessun guerriero o cittadino sarà in grado di occuparne a lungo la posizione, ma dovrà poco dopo cederla ad un altro. Il risultato di tale
andirivieni sarà quel che chiamiamo democrazia.
Ma quant’è lungo il tronco d’ulivo? Ulisse comanda di tagliarlo per la lunghezza di due
braccia, dice ancora il testo: le sue braccia vien da pensare, dal momento che in tutto l’episodio il palo agisce da protesi del suo corpo. E si tratta in questo caso di braccia ben
stese, in asse dalla spalla alla punta delle dita, rigide e diritte il più possibile, a prefigurazione della sintassi rettilinea (il contrario di quella sferica) il cui ricorso davvero condurrà alla salvezza. Tale misura è in ogni caso decisiva, perché consente di sviluppare finalmente le due rette del corpo e del tronco nelle due diagonali che per prima tracciamo
quando squadriamo un foglio. E permette anche di comprendere che cos’è davvero il
compasso. Tagliare un tronco per la lunghezza di due braccia implica anzitutto l’apertura di un paio di braccia, con il conseguente automatico intervento della simmetria tra destra e sinistra propria del corpo umano. Ed è proprio tale simmetria a governare il prolungamento in vere e proprie diagonali delle due semidiagonali originarie: il centro resta fisso, ma in tal modo esso diviene l’incrocio di quattro semirette, la seconda coppia
delle quali è l’immagine speculare della prima, e va ad occupare l’altra metà del foglio,
che in tal maniera resta allora completamente attraversato da un vertice all’altro. Dopodiché chi disegna lascia riga e matita, che sono due diverse e distinte versioni del palo
d’ulivo, e apre il compasso, che altro non è che le due braccia di Ulisse, ciascuna dotata di una delle due funzioni del tronco acuminato e carbonizzato, pungere e scrivere: il
mondo può finalmente trasformarsi nel suo modello, l’introduzione può iniziare.
Da F. Farinelli “Geografia”, Einaudi, 2003 (pp. 3-5)
26
Gli amboni in Abruzzo
Gabriella Albertini
Premessa
Tracciare la storia della costruzione di amboni in Abruzzo nel periodo romanico,
vuol dire seguire un percorso storico, che ai valori dell’arte affianca quelli conservati e custoditi in una terra, conosciuta sì, ma ancora non del tutto svelata. Con questo s’intende dire che la ricerca merita, tuttora, di essere approfondita e proseguita
nei vari settori, al fine di chiarire ulteriormente la posizione della regione nei confronti degli altri territori italiani.
Tra il 1132 e il 1267 l’Abruzzo ha avuto una produzione di amboni superiore a tutte le altre regioni della nazione non solo per numero, ma anche per pregio della qualità e dell’originalità. Prendendo in considerazione solo gli amboni che sono giunti
completi, o quasi, ai nostri giorni, si può indicare una mappa alquanto precisa. Nel
lungo periodo, che intercorre tra il sec. XII e il primo tempo del terzo millennio, diversi sono stati i terremoti, che hanno colpito alcuni dei citati elementi; anche l’ultimo, del sei aprile 2009, ha recato danni, per fortuna non irreparabili, ma decisamente seri, di conseguenza dovendone parlare, si ritiene opportuno considerare la
“traccia” nella sua integrità, anche se, per il momento non è permesso visitare tutti
i luoghi di cui sarà proposta una descrizione.
Sulla motivazione che ha portato all’inizio della lavorazione di amboni (1132) e alla datazione dell’ultimo esemplare (1267), si è soliti seguire le ipotesi avanzate da
Otto Lehmann-Brockhaus1, studioso tedesco, che visse a lungo in Italia, occupando
per molti anni l’incarico di direttore della Biblioteca Hertziana ed estendendo la sua
ricerca soprattutto in Abruzzo. Lehmann-Brockhaus non vede una impostazione di
carattere locale nei resti di alcuni amboni risalenti ad anni precedenti il 1132: uno è
conservato nella chiesa di S. Michele a Vittorito (AQ) e due sono incorporati in supporti sistemati all’ingresso della Collegiata di Città Sant’Angelo (PE). L’attenzione,
invece, si appoggia sulle probabili motivazioni che, a suo giudizio, dettero origine
alla suddetta produzione. L’Abruzzo, regione di confine con il Lazio, risentì delle
vicende storiche di Montecassino, che nel sec. XI raggiunse il massimo splendore
sotto la guida dell’abate Desiderio2. Sono testimonianza di questa realtà la fonda1.
OTTO LEHMANN-BROCKHAUS, Gli amboni abruzzesi, in “Abruzzo”, Edizioni dell’Ateneo, Roma, anno VI, n. 2-3,1968, pp. 333-350. Altro testo di grande importanza è: OTTO LEHMANN-BROCHKHAUS,
Die kanzeln der Abruzzen im 12 und 13 jahrhunder, Verlag Anton Schroll § Co., Wien, 1942-43. L’opera ancora non è stata tradotta nella lingua italiana.
2.
Il nobile longobardo Dauferio, nato ed educato a Benevento (lo ricorda Leone Ostiense, monaco, vescovo e
storico di alta cultura), si fece monaco da giovane con il nome di Desiderio, presso il Monastero di S. Sofia a
Benevento. Nel 1058 divenne abate di Montecassino. Il I° ottobre 1071 consacrò la nuova chiesa di Montecassino e dette un grande impulso vitale a tutto l’ordine monastico. Venne eletto papa con il nome di Vittore
III nel 1086, morì nel 1087.
27
zione di edifici religiosi e le ricostruzioni, che confermarono l’Abruzzo come luogo di missione per la regola benedettina, promossa da Montecassino. L’altro movente può essere di carattere storico: l’incorporazione dell’Abruzzo al regno siciliano dal 1140 (circa) rese la regione più produttiva per l’attività, che veniva suggerita dagli ambienti politici e culturali del Sud Italia. Per quanto riguarda l’improvviso termine della lavorazione di amboni, Lehmann-Brochkaus avanza due eventualità. Nel sec. XIII la crescente importanza della borghesia spostò l’interesse dal monastero (isolato tra le montagne) alla cattedrale (situata nella città), che naturalmente venne ornata di elementi architettonici a essa attinenti, tra questi l’ambone. L’Abruzzo non fu agevolato, nel suo sviluppo, dall’esistenza di una solida borghesia,
quindi venne meno una autentica cultura urbana e mancò uno sviluppo cittadino.
Lehmann-Brochkaus cita solo l’eccezione del tardo esempio di Campli. Un altro motivo per l’improvvisa scomparsa degli amboni potrebbe essere stato l’inserimento di
nuove proposte artistiche, che vennero introdotte in Abruzzo dalla casa d’Angiò. Di
notevole importanza fu la costruzione della chiesa di S. Maria della Vittoria a Scurcula Marsicana, fatta erigere da Carlo d’Angiò con la direzione di maestranze francesi, dopo la vittoria del 1268 su Corradino di Svevia. Sembra che la chiesa sia stata costruita tra il 1274 e il 1282 con la presenza di uno stile ispirato al nascente gotico, però nel tempo andò distrutta.
Le ipotesi proposte sono quelle che tuttora vengono seguite al fine di affrontare la
conoscenza di uno dei “tempi” più importanti della storia dell’arte abruzzese.
Cenni sulla storia dell’ambone
L’ambone è un elemento architettonico, perché costruito ai fini di una determinata
funzione; spesso è completato da commenti scultorei e ornato da interventi di vario
’ ναβαινω
materiale. Il termine “ambone” per molti studiosi deriva dal verbo greco α
= salgo. A tale riguardo va ricordato che fra i canti religiosi vi è il “graduale”, che il
solista modulava su un luogo elevato, al quale si accedeva per gradini (gradus). Nella liturgia della S. Messa, celebrata fino agli anni Sessanta del Novecento, il “graduale”, considerato una invocazione penitenziale, nelle grandi ricorrenze era cantato dopo la lettura dell’Epistola3. Di frequente l’ambone era collegato al recinto della schola cantorum e accanto aveva il “cero pasquale”. In Italia l’ambone spesso è
citato come pulpito4, mentre in Francia permane l’idea delle cattedra: chaire; in Germania viene nominato kanzel.
Dal momento che l’ambone serviva anche per la lettura del Nuovo Testamento, accadde che in alcune chiese ne costruirono due: uno per l’Epistola e l’altro per il Vangelo. Nei tempi più lontani serviva anche per l’incoronazione dei sovrani, come acL. EISENHOFER- J. LECHNER, Liturgia romana, editrice Marietti, Torino 1961, p. 230.
Un termine analogo all’ “ambone” è il “pulpito” (leggermente più grande e usato in epoca posteriore). La parola “pulpito” deriva dal latino pulpĭtum. Presso i Romani era una piattaforma elevata su cui il personaggio saliva per farsi ascoltare e vedere. Il pulpito viene chiamato anche “pergamo” con un riferimento alle rocche e alle alture, identificate come luoghi in cui si custodiscono gli ideali della fede.
3.
4.
28
cadeva a Bisanzio, nella chiesa di S. Sofia (purtroppo dell’importante struttura si sono perse le tracce).
Nel periodo antico si potevano avere due tipi di amboni: l’“ambone alto” per l’accoglienza del diacono, del suddiacono e, a volte, di due accoliti. La sua misura è di
cm 120-130 di larghezza, con una profondità di cm 70-80. L’“ambone basso” era
meno largo, perché il suddiacono si disponeva dietro il diacono, mentre gli accoliti
si fermavano nelle adiacenze.
Pochi sono i resti degli amboni antecedenti il Mille; la produzione si sviluppò soprattutto nei secoli XII, XIII. Amboni di alto livello li vediamo nella Puglia (Bari,
Bitonto,Troia), nella Campania (Ravello, Salerno, Amalfi); risalgono al secolo XIII
e all’inizio del secolo XIV quelli di Nicola e Giovanni Pisano in Toscana, successivamente dell’epoca rinascimentale si ammirano i due amboni di Donatello nella chiesa di S. Lorenzo del Brunelleschi a Firenze. Vi sono altri validi esempi, ma nessuna
regione, come l’Abruzzo, ha avuto una produzione, così continua, copiosa e coerente
in un tempo più lontano.
In linea di massima, l’ambone in Abruzzo architettonicamente si presenta come un
parallelepipedo sorretto da più colonne, oppure solo da due con un lato appoggiato
a una parete; è posizionato nella navata centrale della chiesa verso la metà della sua
lunghezza. Una scaletta laterale o sul retro, permette l’accesso alla zona superiore;
solo nella Marsica esiste un esempio a doppia scala. L’originalità maggiore, tuttavia, è offerta dalla interessante raffigurazione scultorea realizzata sui parapetti e nei
capitelli. Si tratta di una iconografia ricca di immagini, che attinge ispirazione dai
testi sacri e dal repertorio dei simboli. Quest’ultimo aspetto è quello che evidenzia
più di altri la capacità creativa, l’originalità inventiva e la vivacità del pensiero di
alcuni artisti, che nel periodo romanico lavorarono in Abruzzo nell’anonimato, lasciando un esempio di autentica professionalità.
Per inquadrare e impostare una lettura degli amboni abruzzesi, si ritiene opportuno
offrire una suddivisione, corrispondente a
riferimenti cronologici e a caratteri stilistici, i quali verranno presentati nella singola esposizione di ogni opera.
Primi amboni nel secolo XII
S. Maria in Cellis a Carsoli nella Marsica
(primo ambone, databile al 1132).
Produzione delle opere realizzate da Rogerio, Roberto e Nicodemo.
Poco prima del 1150: Ciborio in S. Clemente al Vomano (firmato da Rogerio e il Rosciolo. S. Maria in Val Porclaneta. Ambone
(particolare).
figlio Roberto).
29
Anno 1150: Ciborio e ambone in S.
Maria in Val Porclaneta (Marsica) firmato da Roberto e Nicodemo.
Anno 1159: Ambone in S. Maria del
Lago a Moscufo, firmato da Nicodemo.
Anno 1166: Ambone in S. Stefano a
Cugnoli, di Nicodemo.
Amboni che caratterizzano il prototipo abruzzese alla fine del secolo XII
S. Clemente a Casauria - S. Pelino a
Corfinio, S. Liberatore alla Maiella a
Serramonacesca - S. Maria Assunta a
Bominaco, Sant’Angelo (o S. Maria
Maggiore) a Pianella.
Amboni del secolo XIII
Gli amboni del sec. XIII sono presenti
soprattutto nella Marsica:
S. Pietro ad Alba Fucens, S. Giusta di
Bazzano, S. Nicola a Prata d’AnsidoMoscufo. S. Maria del Lago. Ambone
nia, S. Pietro a Rocca di Botte, Santi
(particolare).
Rufino e Cesidio a Trasacco, S. Nicola a Corcumello (ultimo ambone datato nel 1267).
Possibilmente al sec. XIII risale un ambone proveniente dal monastero di S. Salvatore nel teramano; ora è conservato smontato nell’interno della parrocchiale di S.
Giovanni Battista a Castelli.
Frammenti scultorei probabilmente provenienti da amboni
Plutei all’ingresso della Collegiata di Città Sant’Angelo, pluteo a S. Michele di Vittorito, resti da S. Maria Assunta ad Assergi, avanzi da S. Maria delle Grazie a Civitaquana, frammento da S. Giovanni in Venere, bassorilievo da S. Maria delle Grazie a Luco dei Marsi, testimonianze dal Duomo di Teramo e da quello di Atri, lastre
scolpite in S. Vittorino, pannello da S. Pietro a Campovalano.
Diversi degli esemplari sopra citati attualmente sono documentati solo da fotografie antiche.
PRIMI AMBONI DEL SECOLO XII
S. Maria in Cellis a Carsoli (1132)
Il primo ambone databile è quello conservato nella chiesa di S. Maria in Cellis a Carsoli, nella Marsica. L’elemento architettonico è addossato alla parete, poggia su co-
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lonne lisce con capitelli di ordine tuscanico, in parte sono collegate con un muro sottile, mentre da un lato vi è una scala di accesso. L’elemento architettonico è costituito da una cassa volumetrica, formata dalla successione di lastre così ravvicinate
da addolcire il passaggio dei piani, tanto che l’insieme appare quasi semicircolare.
L’architrave, invece, è curvo ed è decorato da uno stelo recante fiori liliacei con foglie stilizzate a tre punte, nascente dalle fauci di un animale fantastico. Le lastre che
formano il cassone, si alternano nel seguente modo: una è liscia, l’altra propone nuovamente un disegno di foglie liliacee, oppure un motivo di fiori a sei petali, racchiusi
in girali. Alla base di alcuni dei suddetti motivi vi è un animale (un quadrupede o un
uccello). Il leggìo è sorretto da un’aquila stilizzata (simbolo dell’Evangelista Giovanni), in marmo bianco con venature blu. Questo ambone viene datato 1132, perché la decorazione vegetale descritta è uguale a quella che si trova in una lastra dello stipite destro del portale maggiore nella medesima chiesa. Detto portale aveva dei
battenti in legno, che sono conservati nel Museo del Castello di Celano (AQ). L’opera, ora gravemente rovinata, aveva dei fregi molto raffinati con delle iscrizioni: in
una di queste lo studioso I. C. Gavini lesse la data 1132. Per i riferimenti stilistici
esistenti tra i battenti, il portale e le decorazioni dell’ambone, tutti coerenti tra loro,
si è ritenuto opportuno attribuire la stessa data agli altri elementi compositivi, di conseguenza l’ambone è riferibile al 1132.
Il laboratorio operativo di Rogerio, Roberto e Nicodemo (prima del 1150-1166)
Tra il 1150 (circa) e il 1166 in Abruzzo operò una maestranza che testimonia la presenza di tre artisti: Rogerio, Roberto e Nicodemo. Negli anni precedenti il 1150 Rogerio con il figlio Roberto firmò il ciborio di S. Clemente al Vomano (TE); nel 1150
Roberto con Nicodemo lavorò nella Marsica e a S. Maria in Val Porclaneta presso
Rosciolo (AQ) realizzò il ciborio e l’ambone. Nel 1159 Nicodemo eresse l’ambone
di S. Maria del Lago a Moscufo (PE); successivamente, nel 1166, eseguì quello, che
un tempo era nel convento di S. Pietro e ora è conservato nella parrocchiale di S.
Stefano a Cugnoli (PE). L’origine dei tre Maestri non si conosce. Essi proposero uno
stile inconfondibile per la ideazione delle composizioni scultoree, per il materiale
usato e, di conseguenza per il procedimento tecnico applicato: tutti elementi che non
hanno riscontri con altre opere della regione, né prima né dopo l’esecuzione dei suddetti lavori. Dal momento che nelle loro creazioni si evidenzia una certa ispirazione di carattere orientale, si ritiene che essi provenissero dal Sud, ovvero dalla corte
normanna di Altavilla. Se quanto è stato esposto è da ritenersi probabile, si deve considerare S. Clemente al Vomano, luogo dove è collocata la loro prima opera, l’estremo nord raggiunto dall’espansione dell’arte arabo-normanna, che da Palermo e
dalla Campania si inoltrò nella penisola.
L’originalità di questa maestranza, come è stato accennato, consiste nel materiale
usato, nel procedimento tecnico e nell’iconografia. Lo svolgimento operativo (materiale e tecnica) si può sintetizzare in tre momenti, che esporrò riportando gli appunti del dott. re Antonio de Dominicis, che generosamente me li ha dati per questo
31
preciso fine: io sarò sempre grata alla sua memoria. Egli restaurò il ciborio e l’ambone di S. Maria in Val Porclaneta negli anni Quaranta del Novecento.
Ecco in sintesi la descrizione delle tre fasi esecutive:
Sul luogo venivano lavorate le strutture “portanti” (gradini, basi, colonne, e altro),
eseguite con pietra informe, appena sbozzata; in seguito dette strutture erano rivestite con un conglomerato di calce, gesso e pietrisco. Su questo impasto, una volta
indurito, i Maestri incidevano, ovvero scolpivano, le loro composizioni.
Fuori opera preparavano strutture di poco spessore, che non richiedevano una ossatura in pietra, realizzate con il solo conglomerato di calce, gesso e pietrisco.
Completamento, in situ, dell’opera: venivano saldati i vari elementi con il solito conglomerato di calce, gesso e pietrisco.
L’iconografia investe un altro settore molto importante, che in questa sede potrà essere trattato solo nelle linee essenziali per la vastità dell’argomento.
La prima opera firmata da questa piccola, ma significativa maestranza, è il ciborio conservato a S. Clemente al Vomano (TE), che si fa risalire a prima del 1150. L’iscrizione
riportata sul prospetto, al di sopra degli archi e al di sotto della fascia di coronamento,
riporta quanto segue: Pluribus expertus fut hic cum patre Robertus Rogerio duras reddentes arte figuras. Nello scritto si dichiara la presenza di due artisti e si osserva che
Roberto (notare il caso nominativo) è figlio di Rogerio; quest’ultimo, forse perché in
età avanzata, lasciò al figlio l’incarico di primo artefice.
Nel 1150 Roberto con Nicodemo firmò il ciborio e l’ambone nella chiesa di S. Maria
in Val Porclaneta a Rosciolo (AQ) nella Marsica. L’ambone subì gravi danni nel terremoto del 1915 quando andarono distrutte delle zone, perdute irreparabilmente. Il piccolo organismo architettonico è appoggiato al secondo pilone della chiesa, a sinistra,
con una scaletta laterale; la pianta è quadrata e la struttura poggia su quattro pilastri ottagonali, la cui base è formata da semplici massi di pietra. Simili al ciborio sono i capitelli e l’arco trilobato: quest’ultimo per la prima volta compare in Abruzzo. Come si
è accennato, poche sono le raffigurazioni scolpite giunte a noi, tuttavia si può fornire
un rapido cenno di quelle alle quali potremo dedicare qualche osservazione. Gli elementi ornamentali predisposti nella mostra degli archi e nella cornice dei parapetti presentano disegni di carattere orientale. Si parla di caratteri “cufici”, che si avvicinano
molto ai motivi dell’“incrocio” e dell’“intreccio”. Per quanto riguarda la raffigurazione degli Evangelisti, resta solo il corpo acefalo del leone alato (simbolo di S. Marco).
In alcune formelle sono rappresentati dei personaggi, diaconi o santi: uno reca un libro
(forse S. Lorenzo), un altro un turibolo (forse S. Stefano, primo santo e primo martire).
Due formelle hanno più personaggi: in una si distingue bene una donna che danza al
cospetto di un re (Salomè, o il riferimento a un episodio della patristica riguardante David). Nell’altra formella vi è un uomo che lotta contro un orso (episodio biblico). Nel
parapetto delle scale, in due riquadri, è riportata la storia di Giona.
Completo è giunto a noi l’ambone, conservato in S. Maria del Lago a Moscufo (PE),
firmato da Nicodemo nel 1159. Una volta compreso il processo lavorativo e vista
32
l’impostazione architettonica, in questo ambone l’interesse più vivo riguarda l’iconografia. I simboli degli Evangelisti sono ben visibili: nel lettorino frontale l’angelo (S. Matteo) è posto sopra al leone alato (S. Marco), mentre in quello laterale l’aquila (S. Giovanni) è sopra al toro alato (S. Luca). Tornano le piccole figure dei diaconi: S. Vincenzo, con il calice, S. Lorenzo, con il libro, S. Stefano con il turibolo;
inoltre il Santo dai lunghi capelli, Sant’Onofrio o S. Giovanni Battista. Due formelle: una con l’uomo che combatte contro l’orso e l’altra con l’uomo che lotta con il
leone. Dimensioni maggiori ha la scena di “S. Giorgio e il drago”, mentre l’interesse più originale è la presenza di quattro piccoli uomini, ognuno dei quali si arrampica o scende lungo le colonnine laterali alla cassa dell’ambone; a questi è legata la
storia del “cavaspine”, che merita un discorso articolato e lungo5. Sul parapetto della scaletta laterale è illustrata la vicenda di Giona.
Nel 1166 Nicodemo firmò l’ambone, che era stato nella chiesa di S. Pietro annessa
a un convento cistercense; quando la costruzione venne abbattuta, l’opera di Nicodemo fu trasportata nella vicina parrocchia di S. Stefano a Cugnoli. L’artista riprese le raffigurazioni viste a S. Maria del Lago, ma apportò delle modifiche, come, per
esempio, nei riguardi dell’episodio di Giona.
L’iconografia delle immagini nell’opera di Rogerio, Roberto e Nicodemo indica una
delle pagine più interessanti e dense dell’arte romanica in Abruzzo.
AMBONI CHE CARATTERIZZANO IL PROTOTIPO ABRUZZESE ALLA
FINE DEL SEC. XII
S. Clemente a Casauria
S. Clemente a Casauria conserva l’ambone che, per primo s’impone con una impostazione stilistica regionale. L’impianto architettonico è semplice, perché si tratta di
un parallelepipedo sorretto da colonne con l’inserimento del lettorino sul lato rivolto alla navata. La base delle colonne è di stile attico con foglie protezionali. I quattro capitelli, uno diverso dall’altro, presentano composizioni ispirate alla foglia di
palma, raffigurata con un significato emblematico: la vita eterna, la bellezza del paradiso, ma anche il martirio. In alcuni capitelli le foglie si articolano e si espandono
con raffinatezza, intervallate da racemi, che assumono, come scrive Gavini, l’idea
di un “alberello”. Interessanti sono gli architravi: quello rivolto alla navata centrale
presenta un intreccio simmetrico di palmette, fiori, frutta, mentre quello laterale è
caratterizzato da un preciso “motivo casauriense”: un tralcio nasce dalle fauci di un
drago e, con volute ed elementi floreali e pigne, pur raggiungendo il centro, riprende il percorso finendo nelle fauci di un altro drago. Questo secondo tratto può considerarsi anche come un’altra origine, che percorre il tracciato in senso inverso. Alla simbologia del drago e della pigna se ne aggiunge un’altra, che apre una pagina
GABRIELLA ALBERTINI, La scuola di Rogerio, Roberto e Nicodemo nel XII sec., in “Abruzzo”, Edizioni
dell’Ateneo, Roma. 1966, anno VI, n. 2-3, pp. 405-420. L’articolo intero fornisce informazioni sui soggetti
iconografici citati nello scritto.
5.
33
significativa nella
storia dell’ornato:
non si tratta di forme nuove, bensì di
elementi ben noti,
alcuni scelti dal repertorio preesistente nel suolo abruzzese, ma rielaborati, reinventati, interpretati con rinnovata sensibilità. Uno
degli esempi è un
grande fiore, classico nella derivazione del suo disegno.
A questi viene attribuita la denominaS. Clemente a Casauria. Ambone
zione di “rosa”. Nella “rosa”, che vedremo schiudere i suoi petali nei modi più diversi, si è voluta vedere l’allegoria della vita, come era consuetudine nel Medioevo6. Si precisa che la sua forma è racchiusa
entro un cerchio o un quadrato immaginari. Considerando il senso emblematico delle due forme geometriche, si può dire, in questo caso, che la “rosa” è la vita, raccolta
e racchiusa nella continuità del tempo (il cerchio) e nell’equilibrio dello spazio (il
quadrato). Al di sopra dei grandi fiori (uno diverso dall’altro), che si stagliano ad altorilievo nei riquadri della cassa dell’ambone, si elevano, su ognuno, un intreccio di
foglie entro girali, oppure un leggiadro alberello (simbolo dello scettro abbaziale7).
Sul “lettorino”8, disposto nel lato principale, è rappresentata l’aquila (S. Giovannievangelista), anch’essa ad altorilievo, con gli artigli appoggiati su un libro aperto, a
sua volta posato sulla groppa di un leone alato (S. Marco-evangelista), che a sua volta regge un volume chiuso. Il lato dell’ambone rivolto verso l’altare è danneggiato
e non è giunto a noi integro.
Il pregevole elemento architettonico-scultoreo venne realizzato nel periodo in cui
l’abbazia ebbe un momento di grande ripresa creativa: al tempo in cui fu abate Leonate, che nell’ultimo tratto della sua reggenza, tra il 1176 e il 1182, dette un impulso vitale con l’iniziativa di nuovi lavori. Dopo la morte di Leonate, l’organizzazioROSARIO ASSUNTO, Ipotesi e postille sull’estetica medioevale, Marzorati, Milano 1975, pp13-15.
I. C. GAVINI, op. cit. p. 226.
8.
In questo scritto per “lettorino”, nei riguardi dell’ambone, s’intende il pluteo semicircolare, sormontato dal
leggìo, posto nel centro del prospetto principale.
6.
ne si disgregò e molti maestri impegnati a S. Clemente lasciarono la sede e si recarono a impiegare il loro lavoro in altri luoghi della regione.
Sull’abbazia di S. Clemente a Casauria esiste una ricca bibliografia, che fornisce
molte notizie sull’architettura e gli elementi scultorei dell’edificio, considerato il
prototipo dello stile romanico abruzzese.
San Pelino
L’ambone di San Pelino a Corfinio (AQ) è datato nel periodo in cui venne costruito quello di S. Clemente a Casauria, ovvero tra il 1176 e il 1182. Lo storico dell’arte Damiano Venanzio Fucinese9 riporta che l’ambone fu realizzato al tempo in cui
fu vescovo Odorisio da Raiano, tra il 1168 e il 1188, quindi non si esclude che sia
Corfinio. S. Pelino. Ambone (particolare).
antecedente a quello di S. Clemente a Casauria; a tale riguardo testimonia il risultato delle sue ricerche.
La cassa dell’elemento in questione è sorretta da colonne lisce con basi attiche e foglie protezionali. I capitelli, diversi tra loro, sono composti da foglie di palma sormontate da caulicoli accordati a foglie angolari. Tutto è caratterizzato da un effetto
chiaroscurale, reso ancora più intenso dalla linea curva e decorata dell’abaco, che
nel centro ha un fiore scolpito. In alto, sul parapetto, agli spigoli, vi sono piccoli capitelli, che assumono la funzione di porta-cero. I quattro architravi monolitici sono
7.
34
DAMIANO VENANZIO FUCINESE, La cattedrale basilica di Valva a Corfinio, Edizioni Tracce, Pescara
1995, pp. 31; 61-62.
9.
35
commentati da fregi ornamentali realizzati con alta maestria tecnica: di notevole interesse è il motivo scultoreo denominato dal Gavini “palmette ad acroterio”. I simboli evangelici non sono rappresentati e il lettorino, rivolto verso la navata centrale, è caratterizzato da quattro piccole colonne sormontate da arcatelle, simili a quelle che si vedranno anche in S. Maria Assunta di Bominaco. I plutei, come si è detto, sono riquadrati da fasce decorate: hanno nel centro la “rosa” a rilievo (non forte
come a S. Clemente), egualmente racchiusa a volte nel cerchio, altre nel quadrato. I petali del fiore a sinistra (di chi
guarda) del lettorino, si rigonfiano dall’interno all’esterno, mentre in quello
di destra si accartocciano dall’esterno
all’interno. Quest’ultimo fiore e il successivo sul pluteo laterale, alle estremità hanno leggeri gambi tortuosi, ognuno terminante con un piccolo fiore.
Bominaco. S. Maria Assunta. Ambone
(particolari).
36
Santa Maria Assunta di Bominaco
L’ambone di S. Maria Assunta di Bominaco risale al 1180 come si legge in
una iscrizione sull’architrave. Anch’esso,
a somiglianza dei due precedenti, è formato da quattro colonne collegate dall’architrave, che sorreggono i davanzali rettangolari. Tre fusti delle colonne
sono cilindrici, mentre uno (quello sul
retro, a sinistra) ha tenere scanalature a
spirale. Semplici e sagomate sono le basi. Di pregio è la lavorazione dei capitelli, che s’ispirano liberamente allo stile corinzio romano; in essi è da osservare l’abaco, dove in ognuno è presente una decorazione: un bucranio, due uccelli in posizione araldica, una bestia
fantastica, una foglia. Gli architravi, racchiusi tra due listelli, propongono il motivo del “tralcio abitato”: tra plastici girali vegetali sono disposti (cominciando dalla sinistra di chi guarda): una piccola figura, due “rose”, un quadrupede
e, nel centro, uno splendido leone, reso
con un indovinato gioco chiaroscurale. L’animale si gira su se stesso mostrando di
profilo una fluente criniera; lo scatto e la levità del movimento sono resi dalla posizione inconsueta, che lo vede appoggiare solo una zampa anteriore. La dolce curva
del dorso accentua il senso di sospensione, divenuto ancora più irreale dal virgulto
uscente dalla bocca del leone: esso lo avvolge nel corpo, poi se ne allontana per immergersi nel contesto vegetale della composizione. Sull’architrave rivolto verso l’altare maggiore, sono scolpiti dei lupi: due sono interi, uno si vede in parte, mentre di
un quarto è rappresentato solo il muso. Tutti tentano di sbranare un agnello. La raffigurazione, molto probabilmente, vuole ricordare il sacrificio del Cristo, simboleggiato nell’agnello. Il lettorino, molto semplice, ha tre arcatelle a tutto sesto (come in
S. Pelino). I plutei, due sulla navata centrale e due sul lato destro) sono caratterizzati da grandi “rose” scolpite, simili a quelle di S. Pelino: la più interessante è quella disposta nel riquadro a destra di chi guarda, nel prospetto rivolto verso la navata
principale. Si tratta di un fiore dai lunghi petali spinti verso l’alto (struttura inconsueta in Abruzzo). Questo elemento è disposto in uno spazio nitido, mentre la posizione è volutamente spostata verso l’alto, senza alcuna considerazione della centralità. Il metodo di comporre ponendo un soggetto importante in posizione decentrata è una caratteristica prettamente regionale, riscontrabile in altre composizioni.
San Liberatore alla Maiella
L’ambone di San Liberatore alla Maiella presso Serramonacesca (PE), addossato al
pilastro destro nella navata centrale, è stato ricomposto dopo i lavori di restauro terminati all’inizio degli anni Settanta del Novecento. Si fa risalire ai lavori effettuati
intorno al 1180; dal punto di vista architettonico è come quelli di S. Clemente a Casauria, S. Pelino a Corfinio e S. Maria Assunta a Bominaco. I capitelli e alcuni ele-
Serramonacesca. S. Liberatore a Maiella. Ambone,
(particolare-disegno).
37
menti ornamentali sono affini a quelli dei citati amboni; nei plutei, invece compaiono
altri soggetti anche se mancano le immagini degli Evangelisti. Espressivo è il motivo del “grifone”, dalla cui bocca esce un racemo: questi si evolve creando una grande voluta in cui è racchiusa una “rosa”. Altre due “rose” sono unite a tralci che, armonizzandosi a dei girali con foglie, accolgono nel contesto compositivo, due “pavoni”, uno di fronte all’altro. Molto curata è la realizzazione delle “rose”, il cui numero di petali conduce il discorso sulla simbologia del fiore e sui tanti significati
che esso contiene. Un elemento di particolare interesse è la raffigurazione del leone
con due corpi e una sola testa. In questa strana figura, sistemata nel “tralcio abitato”, che anima l’architrave del prospetto principale, sono racchiusi tanti significati
tra i quali quello “della dualità che si fonde nell’unità”. In Abruzzo vi sono altri esempi della singolare figura10. In questa sede è impossibile soffermarsi sul “racconto”
emblematico delle numerose raffigurazioni, per la conoscenza delle quali si consiglia la consultazione di testi specifici.
Sant’Angelo o Santa Maria Maggiore a Pianella
L’ambone di S. Maria Maggiore a Pianella (PE), chiesa dedicata anche a S. Michele Arcangelo, quindi detta pure Sant’Angelo, per la maggior parte dei ricercatori risale alla fine del sec. XII, dopo il 1182 (con un probabile slittamento ai primi anni
del secolo successivo), epoca in cui, morto Leonate, gli artisti lasciarono Casauria e
si recarono altrove per lavorare diffondendo ovunque il valore delle loro conoscenze operative. Si suppone che Magister Acutus, che firmò l’ambone di Pianella, sia
venuto da Casauria. Per conoscere gli elementi caratterizzatori dello stile casauriense
si prende in considerazione, per il momento, solo la scultura. In tal caso il discorso
si circoscrive ai motivi decorativi, che si possono individuare nei seguenti elementi: il fiore detto “rosa”, spesso inscritto in un cerchio o in un quadrato, il drago con
il tralcio di vite, il motivo delle foglie legate con un nastro dall’andatura circolare,
denominato dal Gavini “palmetta ad acroterio”11, mentre è lo stesso autore a chiamare un altro ornamento “palmetta a pannocchia”12 riproducente una forma simile
alla precedente, ma con una foglia più grande. Nei capitelli sono tipiche le foglie di
palma chiuse e accoppiate, dette “foglie dei martiri”; è noto anche il capitello “a cesto”, composto dall’intreccio di steli, a forma di nastro, con l’inserimento di palmette: tutto l’insieme conferisce alla campana del capitello un aspetto che ricorda il
cesto usato nelle campagne abruzzesi13. Gli elementi, che sono stati citati si ritrovano nell’opera di Pianella; l’impostazione architettonica dell’ambone è leggermente
diversa da quella dei precedenti, mentre in alcune raffigurazioni vi sono riferimenAlcuni elementi simbolici, per quanto riguarda il panorama dell’arte in Abruzzo sono contenuti nel libro:
GABRIELLA ALBERTINI, Simboli d’arte nel romanico abruzzese, Ediars, Pescara 1998.
11.
IGNAZIO CARLO GAVINI, Storia dell’architettura in Abruzzo, Casa Editrice d’Arte Bestetti e Tumminelli, Milano-Roma 1926, vol. I, p. 225; 239 (disegno).
12.
I. C. GAVINI, op. cit. pp. 53-54.
13.
I. C. GAVINI, op. cit. p. 224.
10.
38
ti ben distinti. L’ambone, ideato sempre come una cassa a base rettangolare, si trova nella navata sinistra, appoggiato alla parete ed è sorretto da due colonne sul davanti, prive di base. Sono decorate due facce dei davanzali (ognuno dei quali è suddiviso in due lastre); un prospetto è inserito nel muro perimetrale della chiesa, l’altro (quello laterale rivolto verso l’altare maggiore) è aperto (forse vi era una scala
andata distrutta). L’insieme è lineare, perché manca la sporgenza del lettorino. Molto interessanti, invece, sono le immagini in esso scolpite. L’iscrizione su una fascia
dell’architrave attribuisce all’abate Roberto la commissione dell’opera, mentre un
altro scritto, sul leggìo, così riferisce: Magister Acutus fecit hoc opus.
Il prospetto dell’ambone rivolto verso la navata centrale presenta due lastre, riquadrate da una decorazione casauriense, sullo sfondo liscio vi sono i simboli di due
Evangelisti. A sinistra vi è un’aquila (S. Giovanni) di profilo, posizionata in alto; essa regge un libro su cui sono incisi alcuni versi di Sedulio14; a destra è raffigurato un
leone alato (S. Marco), di profilo, al di sopra di un libro, con la testa leggermente
voltata all’esterno e spostato verso l’alto al fine di lasciare il posto a una “rosa” in
simmetria rispetto all’asse verticale, ma sistemata verso il basso. L’architrave è decorato con le “palmette ad acroterio”. Nel versante laterale, a sinistra, spiega le ali
un angelo (S. Matteo) in posizione frontale. La figura si distingue nella sua limpida
struttura, che è molto simile a quella dell’angelo scolpito nella lunetta del portale laterale a sinistra nella facciata di S. Clemente a Casauria. Nell’altro riquadro il toro
(S. Luca) si solleva oltre una originale “rosa”, decisamente decentrata. Ecco, quindi, tornare quel particolare stilistico della “decentralità”, che si era precedentemente notato nella “rosa” dell’ambone in S. Maria Assunta a Bominaco. I due capitelli
sono costituiti, uno dalle “foglie dei martiri” mentre l’altro propone il tipico capitello “a cesto”.
Nell’esposizione degli amboni descritti in questo capitolo, si distinguono caratteri
rispondenti a eguali concetti, pur avvalorando la diversità tra loro. Vi sono elementi rispondenti a determinati principi, simili tra loro, ma non ripetitivi. Per esempio:
la struttura architettonica del parallelepipedo, la presenza degli elementi decorativi
di stile casauriense, l’applicazione di un concetto compositivo cosciente di una propria originalità dovuta alla decentralità di alcuni elementi, l’assenza della figura umana, l’essenzialità e la cura esecutiva dei soggetti scelti, la raffigurazione di animali
singolari (si ricordi il leone a due corpi e una testa) e di elementi floreali con l’espandersi di molte “rose”, altamente simboliche per la forma, per il numero dei petali e per la loro posizione nella struttura della composizione. Si tratta di un insieme, stretto nel tessuto di una storia serrata, coinvolgente, regionale sì, ma anche capace di inserirsi nel contesto di una narrazione ben più ampia, abile nel superare i
confini delle alte montagne e dell’esteso mare. Questo è l’Abruzzo, una terra apSedulio era un prete originario della Gallia meridionale o della Spagna. Egli è considerato il maggiore poeta
epico del V sec. d. C.; compose il Carmen Paschale nei cinque libri in cui sono esposti gli eventi più straordinari del Vecchio Testamento e della vita di Gesù.
14.
39
prezzata e amata, ma forse non sufficientemente conosciuta e valorizzata. L’apprendimento di quanto essa possiede deve essere iniziato, forse, anche e soprattutto
dalle “cose” meno evidenti e più “sue”. Lo studio degli amboni è uno di quegli aspetti che offrono molte possibilità di apprendimento e di chiarificazione. Molto si è fatto, ma tanto c’è ancora da “approfondire e diffondere”.
AMBONI DEL SECOLO XIII
Nel secolo XIII la lavorazione degli amboni si profila in un modo diverso. Nel secolo XII abbiamo visto che dopo la presenza della piccola, ma importante, maestranza dei tre artefici Rogerio, Roberto e Nicodemo, l’attenzione si sposta sulla produzione delle opere di fine secolo, caratterizzate dai cinque amboni di impianto prettamente abruzzese, di cui si è offerta una illustrazione nel precedente capitolo. Nei
primi tempi del secolo XIII, invece, si profila nella Marsica l’influsso artistico suggerito dalla vicina Roma. Le differenze che si noteranno negli amboni che verranno presentati, vanno interpretate positivamente, perché chiariscono la capacità che
hanno avuto i nostri operatori di accettare l’intervento di altri artisti al fine di ampliare le personali conoscenze, senza per questo venire meno a una individuale espressione creativa e compositiva. È, questa, una prerogativa che va riconosciuta all’estro abruzzese, pronto a cogliere le novità del momento, al fine di farne tesoro per
rinnovare e migliorare il proprio operato.
San Pietro ad Alba Fucens
L’ambone conservato nella chiesa di S. Pietro ad Alba Fucens, commissionato dal-
l’abate Odorisio, venne realizzato da Giovanni (figlio di Guido), che fu l’autore dell’ambone eretto in S. Maria in Castello a Corneto Tarquinia nel 1209. La datazione
non è precisata e si considera posteriore a quella citata per il lavoro prestato nella
città laziale.
Successivamente, forse perché chiamato altrove, Giovanni lasciò al collega Andrea
il compito di realizzare l’iconostasi nella medesima chiesa. Andrea si fece aiutare
da maestranze locali permettendo, così, di estendere nella Marsica la conoscenza dei
contenuti esecutivi e compositivi suggeriti dallo stile romano, che consisteva prevalentemente nell’applicazione di tessere musive disposte su un disegno fantasticamente geometrico. Questo originale metodo era stato impartito da due prestigiose
maestranze: i Cosmati e i Vassalletto. Lo stile romano, però, proponeva un’altra sostanziale differenza, quella dell’adozione di due scalette laterali, per accedere alla
piccola piattaforma dell’ambone, munito di due lettorini: uno davanti e uno sul retro. Possibilità, quest’ultima, del tutto conseguenziale, perché l’ambone era progettato come una costruzione isolata e autonoma.
A S. Pietro ad Alba Fucens, l’ambone è situato tra due colonne, sul lato sinistro della navata centrale; è munito di due lettorini. Le preziose tessere (ve ne sono molte
anche in oro) creano disegni geometrici racchiusi entro pannelli inquadrati da modanature decorate con il motivo della “palmetta diritta”15. Una figuretta umana, una
piccola aquila e altri elementi fantastici sono scolpiti nelle mensole che reggono le
colonnine tortili (commentate con tessere musive) del lettorino. Anche i capitelli sono finemente lavorati. Nel centro, sul prospetto principale è l’effigie dell’aquila (S.
Giovanni), in posizione frontale, non grande. L’ambone e l’intera chiesa, furono distrutti dal terremoto del 1915: tutto è stato ricostruito fedelmente ed è stato restituito al suo originale splendore.
San Pietro a Rocca di Botte
L’ambone di S. Pietro a Rocca di Botte (AQ) non è datato e si fa risalire a un’epoca posteriore a quella di S. Pietro ad Alba Fucens, quindi nella seconda o terza decade del sec. XIII. L’elemento architettonico, a base rettangolare, è formato da un
cassone sorretto da quattro colonne. Quelle sul davanti hanno basi attiche poggianti su basamenti. Il fusto delle colonne è sfaccettato. I capitelli sono affini a quelli di
S. Clemente a Casauria, sia per la forma che per la trattazione della foglia d’acanto
e di quella della palma. Questa constatazione fa pensare alla presenza di maestranze abruzzesi, che lavorarono insieme ad altre romane. I parapetti e gli architravi dell’ambone, sono realizzati con lo stile cosmatesco. Si suppone, quindi, che il lavoro
sia stato suddiviso così: leoncini, basi, colonne, mensole con figure scultoree, cornici con il motivo della palmetta, tutto affidato a maestri, la cui preparazione era di
derivazione casauriense. La decorazione dei plutei e delle colonnine tortili, che de-
S. Pietro ad Alba Fucens. Ambone
40
15.
I. C. GAVINI. op. cit. vol. I, p. 61; 239 (disegno).
41
terminano il lettorino, l’applicazione delle tessere musive, disposte in un disegno
geometrico, potrebbero essere, invece, dei maestri provenienti dall’educazione stilistica di ambiente romano. Particolare accattivante è la presenza di due leoni stilofori accovacciati (unici negli amboni abruzzesi), che caratterizzano le colonne del
prospetto principale. Le colonne retrostanti poggiano, invece, su basi di tipo attico.
Santa Giusta di Bazzano
Nella chiesa di S. Giusta a Bazzano (AQ) si delineò un momento importante nel
1238, quando vi confluirono dei maestri di cultura
casauriense ai fini di partecipare al completamento
della costruzione con il loro contributo operativo. Essi, pur restando legati alla
fonte della loro preparazione, apportarono delle
modifiche al metodo applicato, tanto da suggerire
l’origine di una corrente innovativa. Questo orientamento è riscontrabile nell’architettura, ma si evidenzia anche negli elementi
scultorei dell’ambone, che
si ritiene contemporaneo
del portale, in cui è riportata la data 1238. Molto
probabilmente questo ambone subì gravi danni nel
terremoto del 1461 e quando venne ricomposto, forse non fu rispettato il primitivo impianto16. L’eleBazzano. S. Giusta. Ambone (particolare).
mento architettonico è posizionato in maniera insolita: sono visibili due prospetti, gli altri sono inseriti nel muro. Il lato più grande è
nei pressi dell’altare maggiore, al di sopra della volta posta all’ingresso della cripta, di conseguenza in posizione frontale rispetto all’ingresso. Il lato minore è sulla
parete laterale sinistra, tuttavia, pur così “ridotto” l’ambone è molto interessante. Il
16.
I. C. GAVINI, op. cit. , vol. I, pp. 325-327.
42
lato frontale è costituito da tre lastre contornate da cornici, costituite dal motivo delle “palmette diritte”, seguite da tralci vegetali. La lastra centrale ha funzione di lettorino e anche se la parte superiore è mùtila, in quella inferiore la cornice si incurva marcandone la funzione. Tutta l’area è occupata da un arco, sorretto da due colonnine con basi e capitelli; nell’interno vi è l’Agnello con la Croce (Agnello crucigero) disposto di profilo con la testa volta all’indietro. Nella lastra laterale, a sinistra di chi guarda vi sono l’aquila e il toro, alla destra l’angelo e il leone: tutte le figure sono rivolte verso il centro. I simboli degli Evangelisti sono rappresentati due
a due, uno sopra l’altro, in una composizione aderente ai limiti della lastra, serrata,
differente dalle precedenti, in cui l’elemento isolato, si misura in un’ariosa superficie. Si noti, per esempio, la grande differenza che intercorre con quello di Sant’Angelo a Pianella dove sono rappresentati, come in questo, gli Evangelisti. Le quattro
figure sono realizzate con un vibrante senso plastico, che valorizza l’effetto chiaroscurale e la vivacità del movimento. Nel prospetto laterale vi è una lastra interamente
occupata da due grandi “rose” circolari, una sull’altra, tra le poche in Abruzzo perfettamente uguali17: sembra che vogliano richiamare la posizione degli Evangelisti
disposti uno sull’altro, come si vedono nel lato maggiore. Tale particolarità segna
una nuova creazione compositiva, che sposta l’attenzione su altri argomenti, come
per esempio quello del simbolismo, riferito, in questo caso, al tema del “dualismo”18.
San Nicola a Prata d’Ansidonia
L’ambone, che attualmente si trova nella chiesa parrocchiale di S. Nicola a Prata
d’Ansidonia (AQ), un tempo era nella chiesa di S. Paolo a Peltuino da dove venne
rimosso per motivi di sicurezza, forse nel 1796. Fu commissionato dal preposito
Tommaso nel 1240; resta, invece, sconosciuto il nome dell’autore che fu certamente un artista di raro talento.
L’ambone presenta lo schema già diffuso in Abruzzo con la cassa a forma di parallelepipedo poggiante su colonne, delle quali, in questo caso, non è rintracciabile la
provenienza. L’Antinori scrive di averlo veduto “sopra quattro colonne ottagonali”19.
Attualmente l’ambone poggia su sei colonne disuguali, munite di base e sormontate da capitelli, uno diverso dall’altro. Molto singolare è quello posto sulla colonna
addossata alla parete, l’unica dal fusto poligonale: la campana è a forma di piramide tronca rovesciata, accordata al fusto senza collarino; le decorazioni sono fiori e
foglie, che si avvolgono in volute sotto l’abaco formato da due tavolette. Per quanto riguarda le colonne dell’ambone e, soprattutto, quella sopra descritta, esiste un
determinato discorso, che porta al di fuori del campo prettamente artistico, perché
sullo strano capitello sono state lette sigle ed iscrizioni, che hanno fatto supporre il
Due rosette perfettamente uguali, ma più semplici e anteriori a quelle prese in esame, sono scolpite su pietra nello stipite di sinistra nel portale di S. Giovanni ad Insulam, nel teramano.
18.
Cfr. G. ALBERTINI, Simboli d’arte nel romanico d’Abruzzo,.op. cit, pp. 16-18.
19.
I. C. GAVINI, op. cit. vol. I. p. 426. Si leggano anche le note nn. 33,34, 36 a p. 439, in cui sono citate le
fonti di Antinori, Piccirilli e Bertaux.
17.
43
messaggio di segrete opinioni.
Vi sono discordanze stilistiche
tra le due parti dell’ambone:
quella superiore e quella inferiore. Le due colonne angolari
sulla parete frontale, presentano caratteri stilistici simili a quelli delle colonnine del lettorino.
La parte superiore dell’ambone
è ben conservata e si presenta
con riferimenti storici, ricchezza di immagini e virtuosismo
scultoreo. Il fregio dell’architrave, sul lato frontale e sul sinistro propone un ornamento di
foglie d’acanto, fortemente incise, che si svolgono in girali
nel cui centro vi è un fiore molto in rilievo. L’autore si distacca dalla realtà e si muove, in piena libertà, con elementi floreali e vegetali, che armonizza con
la perizia e la fantasia di una individuale interpretazione. Il prospetto frontale, come a Bominaco e a Corfinio, ha il lettorino caratterizzato da quattro colonne, che determinano tre spaPrata d’Ansidonia. S. Nicola. Ambone
zi archivoltati, di cui, quello a
(particolare).
sinistra è trilobato. Nell’interno
delle arcatelle laterali vi è un tralcio, di tirso a sinistra, di vite a destra. Il tirso e la
vite hanno simili valori emblematici, riferibili anche alla segreta forza vitale dell’universo e alla eternità. Nella zona centrale compare una figura molto singolare, anche perché ispirata alla realtà. Si tratta di una giovane donna con il braccio sinistro
alzato nell’atto di reggere un libro sul quale si appoggia l’aquila evangelica. Sul capo ha un fazzoletto ripiegato, tipico delle donne del popolo, mentre la mano destra
raccoglie le vesti sollevandole oltre il ginocchio sinistro. Figura molto inconsueta e
originale per la sua non chiara identificazione, ma anche problematica per la sua collocazione, tanto più che in Abruzzo è rarissima sull’ambone la raffigurazione della
presenza umana, particolarmente se non santificata. Personaggio laico, quindi, ma
con quale valore e quale significato, non è possibile dirlo. Nello stesso Abruzzo l’ac-
44
quasantiera nel Duomo di Atri, di epoca posteriore, presenta una donna simile; figure analoghe si trovano in altre regioni d’Italia, ma non è semplice decifrare il loro messaggio. Alla semplice interpretazione che vede nell’effigie l’immagine di una
popolana, si contrappone l’ipotesi di O. Lehmann-Brochkaus, secondo il quale si
tratta di una Sibilla. Sono le Sibille, infatti, a predire nell’Antico Testamento la venuta del Cristo, quindi la loro presenza è comprensibile nella piccola costruzione dove si legge il Nuovo Testamento. È ancora da definire la qualifica di questa donna
in pietra.
Nei plutei laterali, che fiancheggiano il lettorino, è scolpito un grande fiore, ovvero
la “rosa”, una delle più alte espressioni dei marmorari abruzzesi. Le due “rose” si
possono inscrivere, ognuna, in un quadrato ideale. Si tratta dello stesso principio
analizzato a Casauria, ma qui è tutto più espanso, grande, arioso: è la piena maturità di un’epoca irripetibile, oltre la quale non si può procedere: è l’ultima fioritura
nell’immaginario roseto del romanico d’Abruzzo.
Il davanzale di sinistra è occupato dalle figure di S. Paolo, S. Tito, Sant’Apollo, rara rappresentazione, ben modellata nella ricerca di effetti realistici. Nel davanzale
di destra sono scolpite solo due “rose”, una sopra all’altra, come a Bazzano, ma non
sono uguali., tuttavia si accordano armoniosamente alle composizioni del prospetto
frontale.
L’ambone di Prata d’Ansidonia resta isolato nel contesto di una regione molto produttiva; l’artista che lo ha realizzato, con questa sua opera, lascia l’ultima testimonianza di una grandezza non più superata nel territorio abruzzese.
Chiesa dei Santi Rufino e Cesidio a Trasacco
Nella chiesa dei Santi Rufino e Cesidio a Trasacco (AQ), è stato adibito a lettorino,
sistemato alla sinistra dell’altare, un elemento architettonico semicilindrico, di media grandezza, che probabilmente faceva parte di un ambone andato distrutto. Nella premessa è stato scritto, che nella presente ricerca sarebbero stati trattati solo gli
amboni completi; in questo caso si ritiene opportuno analizzare il suddetto “pezzo”,
perché le immagini scolpite sono interessanti e testimoniano, ancora una volta, la
singolarità e la varietà degli amboni abruzzesi. Il blocco di pietra lavorata, preso in
considerazione, in alto termina con un giro di foglie diritte. Nel centro della superficie è scolpita una colonna, con base attica e capitello a piccole volute. Quasi nel
mezzo della colonna, che potrebbe avere un significato aniconico, è rappresentato
l’Agnus Dei con la Croce (l’Agnello crucigero) nella posizione consueta: il corpo di
profilo e la testa girata (posizione di contrasto20). Alla destra l’angelo (S. Matteo)
che sovrasta il leone alato (S. Marco); alla sinistra l’aquila (S. Giovanni) è disposta
sopra il toro alato (S. Luca). Le figure sono plastiche, vibranti nello spazio, mentre
OLIVIER BEIGBEDER, Lessico dei simboli medioevali, Jaka Book, Milano 1989, alla voce “Incrocio”,
pp. 161-172.
20.
45
il loro movimento è reso ancora più ampio dallo stendersi delle ali (ogni immagine
le possiede) con le penne rigorosamente incise. Le immagini sono rivolte verso il
centro, ovvero verso l’Agnello crucigero, mentre una fascia, realizzata con un leggero motivo musivo (ricordo dell’insegnamento romano), le sottolinea, le marca e
le accompagna nella loro posizione. La “rosa”, cara alla tematica della simbologia
abruzzese, fa una lieve apparizione in basso, a sinistra: non è più la grande protagonista interpretata con sicuro modellato; è un semplice fiore a sei petali, intagliati nel
piano di una superficie circolare.
Nella Marsica è forse questo l’ambone, che può essere considerato più tipico dello
stile abruzzese, perché si suppone che, completo, sia stato organicamente composto.
Sono stati visti i due amboni di S. Pietro ad Alba Fucens e quello di S. Pietro a Rocca di Botte, imponenti nella loro bellezza e preziosità; essi vanno considerati di derivazione romana. È significativo menzionarli a questo punto, perché si evidenzia il
grado di assimilazione nell’ambiente abruzzese di una realtà diversa e il suo inserimento nella creatività originale della regione.
L’ambone non è datato, ma la maggior parte degli studiosi è concorde nel farlo risalire alla seconda metà del secolo XIII.
questo è l’ultimo datato e sembra risentire della mestizia recata dalla “fine”. Va considerato, tuttavia, con l’interesse dovuto a tutto ciò che riguarda l’opera dell’uomo,
perché, per esempio, è di qualche suggestione l’accordo dei colori: alla brillantezza
del mosaico si accosta il bruno della pietra, che porta a riflettere sull’impiego dei
vari materiali e al significato dei loro contenuti (si pensi al valore dell’oro spesso
presente nel mosaico e alla umiltà della forte pietra). Queste, però, sono quelle considerazioni personali, che si formulano quando si conclude l’osservazione su un ciclo storico, i contenuti del quale sono tanti, diversi, e, sotto certi aspetti ancora non
del tutto chiari. Con questo ambone termina un lungo capitolo di Storia dell’Arte,
ma anche di storia umana, politica e sociale: pensiamo agli avvenimenti storici contemporanei alle opere, all’organizzazione delle maestranze, all’individuale conflitto giornaliero. Il corso del tempo prosegue e nell’Abruzzo non avremo più una produzione simile: essa resta caposaldo e pietra miliare di un momento storico importante, “unico”, inevitabilmente legato particolarmente all’ispirazione, al sentimento, al pensiero, suggeriti dalla terra stessa, che, come tale, è procreatrice feconda, ma
anche silente e segreta custode dei suoi averi.
S. Nicola di Corcumello
L’ambone conservato nella chiesa parrocchiale di S. Nicola a Corcumello (AQ) un
tempo era nell’abbazia di S. Pietro, ricordata in una bolla di Clemente III del 1118.
Una iscrizione letta dall’Antinori, attribuisce l’opera a Stefano di Moscino, un abruzzese che la realizzò nel 1267, su commissione dell’abate Berardo e di due monaci.
L’ambone ha la struttura tipica abruzzese con cassa a pianta rettangolare, appoggiata a colonne e lettorino sporgente. Le colonne sul davanti hanno base attica molto
rialzata, i capitelli sono composti con foglie angolari, che nella disposizione accennano allo stile borgognone; queste ultime si avvolgono sotto l’abaco creando dei bottoni laterali, mentre una modanatura a guscio tondo lega la campana del capitello all’abaco stesso. L’architrave, piuttosto alto, ha un fregio con tralci vegetali e qualche
raro animale. Alcune zone, decorate a mosaico, fanno supporre che il motivo ornamentale musivo dovesse essere continuo; nella zona frontale del lettorino campeggia, ad altorilievo, l’aquila, che, con gli artigli afferra un serpente. Nei pannelli laterali vi sono raffigurati: a sinistra, uno sull’altro, il leone alato (S. Marco) e il toro
alato (S. Luca), a destra, con eguale posizione, l’aquila (S. Giovanni) e l’angelo (S.
Matteo). Le figure, statiche nella loro posizione, sono di profilo e non si volgono
verso il centro. Viene spezzato, così, l’organico concetto della composizione assiale con l’interesse rivolto verso la zona principale. Si pensa, tuttavia, che tale posizione sia venuta a crearsi in seguito a un montaggio sbagliato, avvenuto nel corso
del trasloco dell’ambone dal luogo dove era all’origine. Nel prospetto di sinistra vi
sono S. Pietro e S. Paolo, mentre a destra è scolpita una figura femminile e accanto
una “rosa”. È trascorso il periodo glorioso della costruzione di amboni in Abruzzo;
San Giovanni Evangelista a Castelli
All’interno della chiesa parrocchiale di S. Giovanni Evangelista a Castelli (TE), sono conservati i resti di un ambone proveniente dall’abbazia di S. Salvatore (nel teramano) andata distrutta. L’elemento architettonico-scultoreo va
citato, perché anche se non è del
tutto completo e, per giunta, anche
smontato, merita di essere ricordato e, soprattutto salvato. Adagiati
per terra, vicino all’ingresso della
chiesa, sono disposti gli elementi
giunti a noi. Si suppone che l’ambone sia stato eseguito dopo il 1180,
quindi alla fine del secolo XII o nei
primi anni del secolo XIII. Si evidenziano due pannelli in pietra: in
uno è riconoscibile la raffigurazione dell’Agnus Dei posto sotto una
grande “rosa”. Nel riquadro accanto
sono disposte due “rose” uguali,
una sopra all’altra. Gli elementi citati e la loro composizione riportano alla memoria le “rose” viste nel- Castelli. S. Giovanni Evangelista. Ambone.
46
APPENDICE
47
l’ambone conservato a S. Giusta di Bazzano. L’altro pannello è anch’esso diviso in
due riquadri, nel primo è scolpito un angelo (S. Giovanni) in una statica posizione
frontale, con la testa “a pera” e i capelli a caschetto (particolari alquanto arcaici);
originale è la posizione delle ali, perché quella destra è ribassata e aderente al corpo, l’altra è alzata e sconfina nel motivo decorativo della cornice. Nell’altro riquadro sono scolpiti il leone alato (S. Marco) e il toro alato (S. Luca), anch’essi in un
modo già visto non solo a Bazzano, ma anche in alcuni amboni della Marsica. Manca l’aquila, simbolo di S. Giovanni, forse presente in un “pezzo” andato disperso.
L’elemento più originale, il solo in Abruzzo, visibile in questo ambone, è la base di
una colonna, la sola rimasta. Si tratta della raffigurazione tridimensionale di un leone formato da due corpi e una testa21. Si è fatto cenno a questa figura particolare scrivendo dell’ambone di S. Liberatore alla Maiella, dove è visibile nell’architrave. In
bassorilievo troviamo nella regione qualche altro esempio di questo strano “essere”,
mentre in tuttotondo, quello di Castelli è l’unico. La testa del leone è distinguibile
in alcune fotografie degli anni Quaranta del Novecento; ora non c’è più, perché distrutta dall’usura del tempo e dall’incuria dell’uomo: quest’ultima permane, perché
nel corso di tanti anni nessuno si è interessato di sistemare questi pochi elementi in
un luogo adeguato. Oltretutto la tragedia del terremoto del 6 aprile 2009, non agevola la richiesta di una progettazione per una eventuale “messa in opera”.
Il Gran Sasso d’Italia, una montagna mediterranea
Gabriele Fraternali - IRSPS Università d’Annunzio, Pe
Bibliografia
Nell’impossibilità, per limiti di spazio, di fornire una bibliografia dettagliata, si consiglia di consultare: DAMIANO VENANZIO FUCINESE, Arte e Archeologia in Abruzzo, Università degli Studi di
Roma, Istituto di Fondamenti dell’Architettura, Officina Edizioni Roma 1978.- Il testo offre un’ampia informazione bibliografica.
Dopo il 1978 sono stati pubblicati diversi libri, tra i quali è essenziale la consultazione dei volumi della raccolta DAT-Fondazione Cassa di Risparmio di Teramo. Direzione Luisa Franchi dell’Orto, Comitato di edizione Ferdinando Bologna, Mario Del Trecco, Antonio Giuliano, Comitato di redazione Adelmo Marino, Nerio Rosa.
Numerosi volumi e guide, pubblicati dalla casa editrice Carsa (Pescara), redatti da insigni studiosi, sono dedicati a costruzioni monastiche del romanico abruzzese.
GABRIELLA ALBERTINI, Amboni e portali nel romanico abruzzese, Ediars, Pescara 1994.
GABRIELLA ALBERTINI, Simboli d’arte nel romanico d’Abruzzo, Ediars, Pescara 1999.
FRANCESCO GANDOLFO, Scultura medievale in Abruzzo, Carsa, Pescara 2004.
AA. VV. Maestro Nicodemo (a cura di Giovanna Di Matteo), testi di Giovanna Di Matteo, Elsa
Flacco e Lucio Taraborelli, Comune di Guardiagrele, 2004.
Tra i periodici che trattano argomenti di abruzzesistica si citano: tutte le pubblicazioni della “Deputazione di Storia Patria”, “Rivista Abruzzese”, “Oggi e Domani”, “D’Abruzzo”, “Il Monitore”.
Per la conoscenza dei significati simbolici del leone con due corpi e una testa: O. BEIGBEDER, op. cit.,
pp. 180-181.
21.
48
Geografia e Clima
Il termine Gran Sasso d’Italia fu formulato dopo il 1860 e inizialmente era circoscritto
alle sole cime del Corno Grande e del Corno Piccolo; nella carta del 1785 dell’Abruzzo Ulteriore e Citeriore (fig. 1), il gruppo montuoso non ha un nome comprensivo e la
cima più alta era denominata Monte Corno circondata da diverse anticime, così come
le descrisse lo studioso e gentiluomo teramano Orazio Delfico, quando nel 1794 munito di barometri misurò l’altitudine della vetta orientale. Nella stessa carta risalta il toponimo di Monte Elvino, oggi suddiviso nelle cime di Monte Camicia, Monte Prena,
Torri di Casanova, Infornace e Brancastello.
Attualmente il gruppo montuoso del Gran Sasso comprende una serie di rilievi che si
estendono su un’area lunga circa sessanta chilometri, dalle Gole di Popoli al Passo delle Capannelle.
Le cime si orientano in due allineamenti sub-paralleli, le catene, ad andamento est-ovest.
La catena settentrionale, possiede le quote più elevate e va da Vado di Sole al Monte
49
Sierra Nevada, nel sistema Betico della penisola Iberica. La montagna mediterranea più
alta si trova in Anatolia negli Antitauri 3. 916 m s. l. m..
Nel Gran Sasso le pendenze sono elevate, le vette piramidali e le creste sono molto aerate; nell’Intermesoli è presente una scarpata di 550 m inclinata di 51°, la vetta Orientale sormonta una parete di 1. 100 m di dislivello. Il versante nord del Camicia è costituito da uno sbalzo di 1300 m con inclinazioni medie di 45°.
Queste morfostrutture sono il risultato del connubio tra forze tettoniche e azione glaciale quaternaria che ha favorito lo scavo di circhi e truogoli che si raccordano alle depressioni con bruschi cambiamenti di pendenza, (fig. 3).
La catena orientale si trova a circa 125 chilometri dal mare Tirreno e a 45 dall’Adriatico,
ma nonostante la vicinanza a questo, non possiede caratteristiche spiccatamente marittime.
Le precipitazioni aumentano con la quota diminuendo la differenza che sussiste tra i
due versanti, più umido il settentrionale, arido il meridionale (Demageot, 1965). Il versante settentrionale è sede di precipitazioni orografiche che hanno un contenuto idrico
non paragonabile ai rilievi marittimi, l’apporto dell’umidità per opera del mare è importante ma ridotta, ad esempio, rispetto all’Appennino ligure e alle Alpi marittime.
Una conseguenza dei tenori di umidità sono i diversi valori dei gradienti termici medi
Fig. 1 - Carta dell’Abruzzo Ulteriore e Citeriore 1783.- Regione Abruzzo settore Turismo, 2005.
Corvo, la meridionale inizia dal Monte Capo di Serre e termina al Monte San Franco,
(fig. 2).
I due allineamenti sono separati da un’ampia depressione mediana, che è divisa a sua
volta, nel lato occidentale da tre quinte trasversali: Sella di Monte Aquila, Sella dei Grilli, Forchetta della Falasca, e in quattro distinte conche, gli ex bacini glaciali di Campo
Imperatore, anticamente denominato Campo Radduro, Campo Pericoli (fig. 3), Venaquaro e Valle del Chiarino.
Superato Vado di Sole, si distingue una sola catena che, flettendosi assume andamento meridiano e termina geograficamente nei pressi delle Gole di Popoli, ma geologicamente questa prosegue oltre il fiume Pescara nell’allineamento del Monte Morrone, (figg. 2, 3).
La catena orientale si affaccia direttamente sulle colline adriatiche, non ci sono rilievi
di raccordo e possiede caratteristiche morfologiche alpine, alquanto singolari nel contesto geografico regionale e peninsulare. La vetta principale misura 2. 912 m s. l. m., è
la montagna più elevata dell’Italia peninsulare e si trova al settimo posto nei rilievi del
bacino mediterraneo, in cui occupa una posizione centrale.
Le montagne maggiori della penisola Balcanica (Rodopi e Olimpo) sono di poco più
elevate, supera i 3. 000 m s. l. m. anche il più alto rilievo del Libano 3. 088, mentre la
cima maggiore dei Pirenei misura 3. 141 m s. l. m., e 3. 478 è la vetta principale della
50
Fig. 2 - Schema geologico - strutturale (L. Adamoli, 2002).
51
che sono significativamente più elevati nei versanti meridionali rispetto a quelli settentrionali e complessivamente minori in inverno rispetto all’estate (Pecci 2004).
I valori termici e il gradiente sono influenzati dal vento che favorendo l’evaporazione
e la sublimazione raffredda la superficie e mantiene il manto nevoso più a lungo nel
tempo e per un’estensione aerale maggiore. L’isoterma 0° C, in queste condizioni, si
abbassa di quota e la primavera è ritardata; il vento produce quindi un importante effetto di contrasto ai valori termici tipici di queste latitudini, garantendo coperture nevose riscontrabili in aree sicuramente più settentrionali.
Alle alte quote si registrano 230 giorni di vento l’anno, sulla sommità del Corno Grande 300, di cui 53 giorni con velocità superiori ai 54 km/h e valori che raggiungono 120
km/h e punte di 160 km/h. (Demageot, 1965).
I versanti settentrionali sono più freddi dei meridionali, circa 1°C a parità di quota, e
provocano lo spostamento in basso dei livelli bioclimatici, circa 250/300 m; a 1. 000 m
si registrano 55 giorni di neve all’anno che diventano 190 a 2. 000 m e 365 sulla sommità del Corno Grande, (limite delle nevi perenni).
L’innevamento è inferiore, a parità di quota, alle Alpi Marittime francesi ma superiore alle Alpi Cozie (Colle del Monginevro, Col d’Izoard). L’Abruzzo è una delle regioni più nevose d’Europa (Demageot, 1965), neve e ghiaccio permangono a lungo sia al suolo sia nel
sottosuolo, arrivando sovente a quote collinari e di pianura nei versanti nord-orientali.
In questo lato della catena, protetto all’interno di una conca, giace il ghiacciaio più meridionale d’Europa, ora ridotto e suddiviso in due frazioni, l’unico del bacino mediterraneo, il Calderone (42°, 28’ Lat. N.).
Il primato l’ha conquistato all’inizio del XX secolo, dopo che si è estinto il ghiacciaio
del Corral di Veleta nella Sierra Nevada spagnola, posto a una latitudine inferiore ai 38°.
Il soleggiamento, la distribuzione delle precipitazioni e il vento rivelano l’aspetto mediterraneo della montagna che, nel versante aquilano, ricorda i paesaggi della Tessaglia
(Grecia); l’energia solare assorbita, in assenza di copertura nuvolosa, produce forti innalzamenti termici in primavera che, fondendo il manto nevoso, provoca l’aumento del
numero di cicli gelo-disgelo con evidenti effetti, specialmente nei versanti meridionali
e nel tardo periodo estivo in quota, del disfacimento dei versanti lapidei.
L’influenza mediterranea si evidenzia soprattutto nella stagione arida estiva per l’espandersi verso nord dell’anticiclone africano che comporta temperature minime sempre superiori a 0°C, in quota, e due stagioni umide, a caratteristiche diverse.
Le prime precipitazioni nevose iniziano alla fine dell’estate, ma solo tra ottobre e novembre la neve permane al suolo e resiste fino a maggio in alta quota, e in zone protette fino a giugno.
L’intensità e la distribuzione stagionale della quantità idrica meteorica sono responsabili della genesi di forme di dilavamento superficiale caratteristici, di alvei aperti, asciutti e anastomizzati, di una rete idrica scarsamente organizzata, di un elevato carico solido e di aste che terminano a delta nella piana di Campo Imperatore che funge da bacino endoreico.
52
Fig. 3 - La conca glacio-carsica di Campo Pericoli e la catena occidentale con il Passo della Portella e Pizzo Cefalone 2. 533 m s. l. m. (meteonetwork).
Forme riconducibili ai debris-flow (fig. 4), si aprono nella piana e in corrispondenza dei
cambiamenti di pendenza nelle valli maggiori, sono in stretta relazione con litologia e
morfologia dei versanti dai quali estraggono materiali.
Fiumi di pietre, block-stream, si articolano da nicchie di nivazione, nevati, accumuli
clastici e bacini sommitali, questi sono sede di temporanei deflussi idrici superficiali e
forniscono una certa alimentazione anche a stagione inoltrata.
Queste forme si attivano allo scioglimento del manto nevoso e raggiungono la loro massima intensità alla fine dell’estate/inizio autunno quando i contrasti termici atmosferici
scatenano forti rovesci e i suoli sono vulnerabili all’azione dilavante delle acque correnti e meteoriche per l’impoverimento della vegetazione e per l’azione termoclastica.
Sono forme, tipiche dei paesaggi aridi mediterranei che si osservano nei versanti meridionali della catena e negli altopiani, dove l’effetto conca ne esalta la formazione e la
distribuzione, consentendo l’incontro tra il regime climatico mediterraneo e alpino.
Nelle aree di accumulo il flusso dei detriti è soggetto a variazioni laterali, affiancandosi a
depositi dinamicamente inattivi, evidenziati dallo spessore del suolo, dalla copertura vegetale, dallo stato di ossidazione delle superfici lapidee e dall’immobilità dei clasti, (fig. 4).
Nel periodo invernale la morfogenesi trae alimento dalla dinamica della neve e nella for-
53
mazione di permafrost che, per i ripetuti cicli di gelo-disgelo, ha una dinamica elevata.
Le correnti aeree non trovano ostacoli in questa regione dell’Italia centrale, e in montagna queste aumentano di velocità e intensificano i loro effetti.
Fig. 4 - Debris flow con terminazioni a delta nel bacino endoreico di Campo Imperatore; Località
Stazzo del Lepre, (Tonelli).
La ventilazione si concentra per lo più tra aprile e novembre con durate, per ogni singolo evento, che può raggiungere la settimana.
La direzione favorisce gli apporti da ovest, sud-ovest 60%, poi quelli da nord il 17% e
infine da est nord-est il 14%.
Dai quadranti occidentali giungono le perturbazioni atlantiche, apportatrici di umidità
che sono intercettate dalle meno elevate catene appenniniche poste a ovest: Simbruini
e Velino-Sirente, e quando raggiungono il Gran Sasso, hanno perso una parte dell’umidità iniziale. Sono venti responsabili di una forte asimmetria del manto nevoso e accumulano notevoli spessori sottovento, neve soffiata, e formano cornici, (fig. 6).
Queste perturbazioni sono spesso anticipate dal Libeccio, vento di sud-ovest che raggiunta la cresta sommitale scende lungo i versanti settentrionali, vento di ricaduta, e si
riscalda, riducendo lo spessore della neve. Queste condizioni meteo-climatiche sono visibili anche a distanza per la formazione di nubi lenticolari a ridosso del lato orientale
delle cime più elevate.
Dai quadranti meridionali la montagna riceve lo Scirocco, vento arido di origine africana, che innalza velocemente le temperature nelle aree sopravento, e provoca effetti
54
analoghi al Libeccio, e nel semestre invernale altera la stabilità per
il rapido e generalizzato scioglimento del manto nevoso, aumentando di conseguenza il pericolo di valanghe.
Questa massa d’aria asporta e distribuisce materiale fine che ricade come precipitazione secca nelle zone sottovento (Pecci, 2009),
colorando a volte il manto nevoso di rosa, é sabbia del Sahara che
ci ricorda l’aspetto cromatico delle montagne del Sinai.
La deflazione eolica riduce il manto fino a eliminarlo completamente nelle aree particolarmente esposte, sottoponendo cime,
guglie e pareti a intense smerigliature, (fig. 3).
Nelle superfici pianeggianti delle
conche e su versanti omogenei
esposti è un intrecciarsi di ripples,
sastrugi (Grigio e Maschio), fig. Fig. 5 - Sastrugi. Forme d’erosione eolica nivale che cau5, e dune di neve, les congères sano variazioni orizzontali di coesione del manto nevoso,
(Bianchi et alii 2003), che al cam- quando le depressioni si colmano di neve ventata.
biamento delle condizioni meteo
climatiche, metamorfizzano e “congelano” le strutture sedimentologiche che possono rivelare informazioni utili per comprendere la dinamica della variazione degli spessori laterali del manto nevoso.
A differenza degli accumuli eolici osservati in Antartide, Groenlandia e nelle Svalbard
queste forme hanno vita breve e non sempre sono facilmente visibili.
La montagna è esposta ai venti provenienti da settori settentrionali e orientali che dalla porta di Trieste e dai Balcani raggiungono velocemente le pareti del Gran Sasso.
Sono venti artici freddi che portano rapidi abbassamenti nelle temperature; nella stazione di Campo Imperatore si registrano, in queste circostanze, valori uguali e/o inferiori a -20°C in inverno.
Il soffio da nord ripristina condizioni termiche alpine in quota, e nei versanti esposti a
queste masse d’aria.
55
Geomorfologia nivale
Il trasporto periodico e sistematico di neve e ghiaccio a quote inferiori in aree più stabili a cui si associa del detrito, provoca una ben delineata morfologia nei versanti interessati, che ha in comune con quella glaciale e periglaciale l’ambiente morfoclimatico,
mentre con quella gravitativa la dinamica del trasporto.
Fig. 6 - Cornici nivali nei versanti sottovento, in secondo piano il M. Camicia 2. 564 m s. l. m.
(Cetemps).
In una valanga, come in una frana, si distingue un’area di distacco, una di scorrimento
e una di accumulo; l’area di distacco tende ad assumere una forma a imbuto, ma può
essere condizionata dalla forma del versante, (fig. 7).
Può avvenire anche all’interno di un canale, con pendenze elevate (30°/45°) ed è in relazione con le caratteristiche meccaniche e strutturali del substrato e la periodicità degli eventi che, incidendo il solco di scorrimento, tende ad infossarlo e farlo retrocedere all’interno del versante.
Queste zone sono situate superiormente al limite della vegetazione evoluta e caratterizzano morfologicamente le aree concave del rilievo attuale; insistono frequentemente nei circhi glaciali quaternari fig. 3, dove si sostituiscono ai ghiacciai nell’azione geomorfica (Fraternali-2009).
Aree di distacco sono pure frequenti sulle pareti rocciose, dove la neve può accumularsi in quantità limitate, ed è per questo motivo, soggetta a svasamenti sommitali.
Pendii morfologicamente meno evoluti con pendenze elevate e superfici omogenee, sono aree di distacco che, quando sono prossime, alimentano un unico corpo valanghivo
amplificandone gli effetti, (fig. 11).
56
La zona di scorrimento si articola alla base della struttura a imbuto, in sezione longitudinale, ha
lunghezza variabile, la base concava, in sezione trasversale, è dovuta alla maggior erosione nella
parte centrale rispetto alle aree laterali, come nel flusso gravitativo, e l’andamento si adatta alla
morfologia del versante per le valanghe radenti ed è tendenzialmente rettilineo o leggermente sinuoso. Nelle valanghe nubiformi, prevalendo la componente aerea, il movimento è indipendente dalla morfologia del versante
che non riesce a produrre ostacoli
e la velocità di scorrimento è molto elevata. Quando il flusso della neve è abbondante e s’introduce nelle aree del bosco, rimangono i segni dell’abbattimento
unidirezionale e nastriforme della fustaia (fig. 10,11) che tende
Fig. 7 - Valanga a debole coesione. Direttissima per il Corad assumere un profilo superio- no Grande: si distingue la morfologia dell’area di distacco
re orizzontale digitiforme lungo e della zona di scorrimento, (meteonetwork).
il versante, in cui la faggeta e le
aree arbustive non soggette a valanghe e/o deflussi gravitativi, si innalzano di quota.
La morfologia del substrato, in questi casi, si presenta generalmente convessa (semiconi, semicilindri) e/o si trova su linee di spartiacque gravitativi fig. 11, oppure è a valle di aree a basso rischio valanghivo.
La causa della penetrazione del flusso di neve e ghiaccio nel bosco è da ricondurre alle particolari condizioni meteo-climatiche, alla capacità della nicchia di distacco, alla
pendenza della zona di scorrimento ed alla coalescenza di diverse aree di deflusso che
ne amplifica la portata (fig. 11).
Nel versante occidentale del Monte Siella 2. 027 m s. l. m, nella piana di Fonte Vetica
1. 632 m s. l. m, sono visibili alcune di queste tracce che risultano dalla coalescenza di
più nicchie di distacco che si sono attivate a marzo 2005, le quali hanno divelto e trasportato fusti di abeti che, dalle dimensioni, avevano presumibilmente trenta anni di età.
Il luogo in cui fu effettuato il rimboschimento presenta le caratteristiche geomorfologiche di un area valanghiva, come è possibile verificare dalle immagini del versante ef-
57
Fig. 8 - Nevato di Fonte Rionne, 2. 190 m s. l. m. (settembre 2009).
fettuate prima del 2005. Le valanghe di maggiori dimensioni, che per loro natura raggiungono le quote inferiori, tendono a ripetersi negli stessi luoghi con frequenze che
hanno un periodo pluridecennale.
I canali di deflusso hanno morfologie peculiari rilevabili geomorfologicamente e permettono di valutarne la vulnerabilità e la sua estensione alle quote inferiori.
Nel periodo estivo, in questi solchi converge il movimento di pietrisco e detriti, resi instabili dall’azione criogenica e mobilitati dalla gravità e dal dilavamento superficiale.
L’azione è particolarmente intensa durante i rovesci violenti e i clasti selezionandosi
durante il percorso si accumulano a valle sedimentandosi sui coni di origine nivali,
(Campo Pericoli, Campo Imperatore...).
Si formano in questo modo dei conoidi poligenici, particolarmente sviluppati nella sinistra idrografica della Val Maone, della Valle del Rio Arno e nelle pendici nord della
Vetta Settentrionale d’Intermesoli, (fig. 9).
La zona di accumulo della neve in una valanga, è caratterizzata da una pendenza inferiore che causa il rallentamento e/o l’arresto della massa in movimento, dove l’energia
della massa nevosa si riduce notevolmente fino ad azzerarsi.
Un deflusso di neve in movimento si muove anche su pendii di 18° di pendenza (McClungSchaerer, 1996).
58
Il deposito di considerevoli volumi di neve, e il relativo costipamento, riducono la porosità, favorendo l’aggregazione e la formazione di nevati che, per forme
e dimensioni, sono analoghi a piccoli ghiacciai, alla base di questi,
in zona frontale è possibile osservare la formazione di ghiaccio
compatto stagionale, (fig. 8).
I nevati maggiori occupano particolari zone depresse uno è prossimo al limite superiore della vegetazione evoluta (Fondo della
Salsa), e distribuiscono e conservano notevoli volumi di neve e ghiaccio.
Il fronte dell’accumulo ha una
pendenza elevata poiché l’angolo di attrito interno della neve, a queste quote dopo il rotolamento e successivo mescolamento di strati a diverso grado
di metamorfismo, permette una
stabilità maggiore.
Fig. 9 - Conoide poligenico, Valle del Rio Arno.
Le masse nevose che si accumulano a valle sono pertanto eterogenee nella struttura e composizione e inglobano detriti
rocciosi, e una parte organica in taluni casi rilevante, visibile nel tardo periodo estivo per
la copertura che conferiscono alla superficie nevosa.
Massi anche di un metro di diametro, rimangono inglobati e/o sospesi sulla coltre nevosa e solo nella fase di ablazione (fusione) si compattano, muovendosi e generando
instabilità nella zona di accumulo.
La superficie prospiciente al fronte di accumulo tende ad abbassarsi formando depressioni circondate da accumuli a festoni e a semiluna: le nivomorene (D’Alessandro, Pecci... 2003-2004). Nelle pendenze maggiori e dove avviene un’evidente variazione di acclività, gli accumuli detritici assumono la forma a ventaglio, e a conoide quando la pendenza è elevata (fig. 9).
59
Conclusioni
Le morfostrutture valanghive attive
occupano ora superfici ridotte e si trovano a quote superiori, se paragonate a quelle non attive o relitte fig. 10,
è lo stesso fenomeno che ha ridotto e
traslato le forme glaciali: l’innalzamento dell’isoterma 0 C° ha portato
il livello delle nevi perenni nel Gran
Sasso a superare i 3000 m di quota,
(Fraternali-2009).
L’accumulo nevoso che si determina
in aree protette da particolari condizioni
morfologiche è causa di formazione e
mantenimento di glacio-nevati e nevati eccezionalmente sviluppati in dimensioni e numero in questo gruppo
montuoso.
La diffusione di queste forme è comunque insignificante rispetto ai ghiacciai rigenerati e alle relative nivomorene relitte che troviamo alle quote inferiori, a ridosso di salti morfologici (Valle delle Cornacchie).
Questi ci ricordano gli accumuli gravitativi di ghiaccio e detriti avvenuti nelle passate glaciazioni. Le nivomorene e Fig. 10 - Pizzo Intermesoli, Vetta settentrionale.
i conoidi detritici valanghivi durante l’a- Nicchia di distacco nell’ area prativa, e antico canablazione estiva perdono il cemento di le di scorrimento nel bosco parzialmente rimarginaneve interno, cui segue la diminuzione to dalla vegetazione. In alto a sinistra in evidenza nicdel valore di attrito interno di questi cla- chia di distacco su roccia e area di accumulo di vasti che, nei versanti ripidi, rotolano a val- langhe recenti nel bordo settentrionale del bosco.
le come nel trasporto gravitativo.
Gli accumuli di neve valanghiva alle quote inferiori prolungano i tempi di scioglimento e favoriscono l’alimentazione idrica superficiale e profonda nei mesi estivi.
In una montagna carsica che si trova al di sotto del livello delle nevi perenni questa alimentazione risulta particolarmente importante e necessaria, dato che nei mesi estivi
l’apporto idrico meteorico a questa latitudine è modesto se non del tutto scarso.
Il Gran Sasso è a rischio anche per valanghe sismo-genetiche, fenomeno che ha favorito il distacco della coltre nevosa nell’aprile 2009 di tre flussi paralleli nel versante meridionale della Cresta delle Malecoste a nord dell’abitato di Assergi - AQ, fig. 11.
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Fig. 11 - Area valanghiva: Le Malecoste. Canali valanghivi e di distacco, deflusso e accumulo di pietrisco. Analisi geomorfologica satellitare. (Fraternali-2009).
L’evento del 6 aprile 2009 ha causato crolli e caduta di neve nel versante orientale del
Corno Piccolo e, in concomitanza con le scosse maggiori si sono verificati cedimenti
del manto nevoso nell’area di Prati di Tivo.
I versanti orientali sono soggetti, per la loro morfologia, a svasamenti e crolli nivali dalle pareti e per le particolari condizioni termiche, di umidità e delle precipitazioni alla
formazione di valanghe di neve a scarsa coesione.
Le forme generate dal trasporto valanghivo, associate agli ambienti crio-nivali, hanno
un’evoluzione rapida nell’Appennino Centrale in particolare nella catena del Gran Sasso d’Italia.
La latitudine e l’esposizione dei suoi versanti sottopongono questa montagna a numerosi e rapidi sbalzi termici che incidono sul metamorfismo della neve e sulla variazione altimetrica dell’isoterma 0° C.
Una delle conseguenze dell’innalzamento delle isoterme stagionali è la fusione del ghiaccio presente nelle fratture di pareti rocciose in alta quota e delle condizioni di instabilità e pericolo di crolli che ne deriva, (frana versante nord-est vetta orientale, 23 agosto
2006). Nelle aree di accumulo valanghivo si depositano ciottoli e brecce che lo scioglimento della matrice nevosa mobilita (Val Maone).
Nel semestre estivo, alla dinamica valanghiva si sostituiscono il dilavamento meteorico e il trasporto gravitativo di ciottoli e brecce resi vulnerabili a questi agenti poiché
non più protetti e legati dal ghiaccio e dalla neve.
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Conoidi di detrito poligenici particolarmente sviluppati arealmente raggiungono quote
considerevolmente elevate lungo i versanti della catena nel lato settentrionale testimoniando l’intensità e la frequenza di questi fenomeni. I debris flow (La Canala, La Fornaca...)nel versante orientale di Campo Imperatore, si formano quando la matrice si arricchisce di materiali particolarmente fini come le miloniti che da monte Aquila attraverso Vado di Corno risalgono il versante occidentale di monte Brancastello fino al Prena, oppure come le argille bituminose che dal Prena raggiungono il Camicia attraverso
Vado di Ferruccio (Adamoli-2002).
L’attività valanghiva è in relazione con le condizioni meteo-climatiche e le caratteristiche geomorfologiche del rilievo, e modifica i versanti creando morfostrutture che nel
semestre estivo converge dilavamento e trasporto di massa.
Anche quest’ultime morfologie sono in relazione con le condizioni meteo-climatiche e
la tipologia di rilievo. Le due azioni sono quindi connesse e interdipendenti e, quando
sono giustapposte, scorrono all’interno degli stessi canali di deflusso e alimentano gli
stessi conoidi, concorrendo ad amplificarne gli effetti, (fig. 9).
Tra geografia e fotografia. Mario Fondi e l’Abruzzo
Marco Maggioli, Nadia Fusco*
Infinite volte il cammino ci porta attraverso la libera natura e percepiamo, con i più diversi gradi di attenzione, alberi e acque, prati e campi di grano, colline e case, e tutti i mille cambiamenti della luce e delle nuvole - ma per il fatto che
osserviamo questi singoli particolari o anche vediamo insieme questo o quello di loro, non siamo ancora convinti di
vedere un «paesaggio». Anzi un tale singolo contenuto del
campo visivo non può continuare ad avvincere i nostri sensi. La nostra coscienza ha bisogno di una nuova totalità, unitaria, che superi gli elementi, senza essere legata ai loro significati particolari ed essere meccanicamente composta da
essi - questo soltanto è il paesaggio.
[GEORG SIMMEL, Saggi sul paesaggio, p. 53]
1. PREMESSA
Queste brevi riflessioni che accompagnano la mostra fotografica L’Abruzzo negli scatti e nello sguardo di Mario Fondi rispondono a due precise esigenze. La
prima, piuttosto evidente, si connette strettamente e tecnicamente, a quel processo
di selezione delle immagini e di costruzione degli itinerari possibili il cui esito
ultimo è appunto la messa in posa dell’Abruzzo. La seconda, più ampiamente,
cerca di riconnettere i numerosi fili che il lavoro di ricerca su fotografia e geografia, e in particolare sulla storia del geografo Mario Fondi, ha in qualche modo innescato.
In questo senso, il contributo che qui viene presentato, si compone essenzialmente
di due parti. Nella prima si opera il tentativo di far dialogare, come realmente è
accaduto nelle fasi di preliminari di costruzione della mostra, tre elementi che ci
sono apparsi centrali e impliciti nel discorso tra noi e soprattutto tra noi e lo stesso Autore. Si tratta in buona sostanza delle tre parole chiave di questa mostra:
paesaggio, memoria e rappresentazione che hanno trovato una loro collocazione
all’interno del lavoro preliminare. Si tratta evidentemente di termini e concetti
che trascinano con sé implicazioni molto più ampie e articolate di quanto si possa realmente fare nel contesto di un breve contributo e che tuttavia ci è parso indispensabile evidenziare. Nella seconda parte si tracciano invece le linee principali della struttura portante della mostra. In particolare sono abbozzate le ragioni della stretta relazione tra geografia, fotografia e memoria nell’Autore e le sezioni all’interno delle quali il vasto materiale fotografico è stato collocato.
Un ringraziamento particolare e un abbraccio affettuoso è per il prof. Mario Fondi per
averci accordato il suo tempo e per averci raccontato una parte del suo sentiero.
* I contenuti del presente lavoro sono frutto di un lavoro comune. Tuttavia l’elaborazione del paragrafi 5 e 6 è
da attribuire a Nadia Fusco, mentre quella dei paragrafi 1, 2, 3, 4 e 7 a Marco Maggioli.
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2. MEMORIA E PAESAGGIO
In un recente volume Jean Marc Besse sottolinea come l’essenza stessa del paesaggio e le modalità di rapportarsi ad esso consista nella narrazione di qualcosa di rilevante per la comprensione dell’essere umano. Una delle dimensioni caratterizzanti
il paesaggio, dice il geografo francese, risiede infatti proprio nel rapporto intimo che
l’uomo instaura con il visibile, oltre dunque la semplice rappresentazione geometrica e quantitativa dello spazio: «Il paesaggio esprime innanzitutto la restrizione del
mondo visibile al campo visuale che si apre a partire da questa ripartizione primordiale» (Besse, 2008, p. VIII) e ancora «vi è innanzitutto questa parte invisibile dello spazio, che confina e sconfina costantemente con il visibile, e ricorda quanto il
paesaggio, al tempo stesso delimiti un mondo e lasci intuire ai suoi margini la presenza di una vita tumultuosa» (ibid., p. IX).
Per Besse, che fa riferimento qui all’ascesa di Petrarca al Monte Ventoso, l’esperienza del e sul paesaggio rappresenta l’occasione per un lavoro sulla memoria che prende la forma della confessione e, in un certo senso, dell’esame di coscienza.
Esperienza, questa della memoria, che in qualche modo, ricorda Simmel (2006), può
essere anche interpretata come vero e proprio atto crudele, una vera e propria “violenza” che il paesaggio esercita sul soggetto. L’ascensione alla montagna si risolve in
effetti in una disillusione. Cosa scopre Petrarca nel momento in cui raggiunge la vetta del Ventoso? «Essenzialmente lo spazio, ma nella forma più crudele che quest’ultimo possa darsi, cioè sotto forma del lontano inespugnabile, sotto l’apparenza della distanza insuperabile, di un intervallo che, tanto sul piano geografico quanto su quello
temporale, non può essere colmato, ma solo percorso dallo sguardo e dalla riflessione
della coscienza. La separazione si vive su entrambi i piani: quello, topografico, del qui
e del laggiù, e quello, cronologico del presente e del passato» (ibid, p. 7). È la distanza tra sé e il mondo, scoperta accompagnata da inquietudine e tormento.
La memoria quindi come atto costitutivo degli individui e dei gruppi sociali, ma anche la memoria che si colloca negli oggetti anche loro spesso avvolti dal lavoro della memoria che continuamente ne cambia il senso e la percezione. E ancora la memoria dell’abitare, attenta fin dall’origine alle stesse configurazioni geologiche assunte come modello dalle collettività in perfetta sintonia con l’ambiente circostante. «Memorie dei luoghi che si rimescolano raccontando, attraverso tracciati invisibili, le storie di uomini e del loro lavoro o le comunità spezzate del disordine anonimo postindustriale» (Tarpino, 2008, p. 6). Questo tipo di lettura dei paesaggi, che
si fanno tali anche in relazione al ricordo, risulta - anche sulla scia di quanto Luisa
Bonesio citando il Tramonto dell’Occidente di Spengler suggerisce - effettivamente e «impietosamente efficace nella diagnosi dell’attualità e dello scempio (o anche
solo dell’incuria) riservato al patrimonio culturale che proviene dal passato, trattato o come inciampo e fastidioso fardello, oppure come morta congerie di oggetti,
edifici e tradizioni la cui estraneità consente di archiviarli e magari spettacolarizzarli
a fini economici» (Bonesio, 2007, p. 192)1.
64
3. RAPPRESENTARE PER FRAMMENTI
Per altri versi, ci ricorda Martin Heidegger, uno dei tratti cruciali della modernità
consiste nella riduzione del mondo ad immagine. È per questa via che l’essenza intima della ricerca consiste nella rappresentazione, nell’anticipazione cioè mentale
delle condizioni date in presenza delle quali qualcosa può rivelarsi per quello che
effettivamente è. La ’cosa’ sta insomma come noi la vediamo. Per altri versi, e senza allontanarci troppo da quanto ci proponiamo in queste brevi note, ci appare altrettanto evidente come questa riduzione ad immagine del mondo sia esplicita, oltre
che nella fotografia, nella tendenza che la stessa carta geografica - la raffigurazione
in piano della superficie sferica della terra - ripete per i mezzi di rappresentazione
della globalizzazione il processo di conquista del mondo (Slodertijk, 2006; Farinelli, 2003). I planisferi mettono in secondo piano i globi, lo stesso Atlante non si presenta più come colui che sostiene il mondo, ma è comodamente disponibile e consultabile come libro. Se nel Rinascimento la fruizione e l’interesse delle classi medie per le riproduzioni topografiche e geografiche ricoprirà un ruolo centrale sul modo di vedere il mondo contribuendo così a comunicare conoscenze - reali o meno su luoghi ed eventi nuovi e a volte strani (Woodward, 2002) così la nascita e la divulgazione della fotografia a partire dalla prima metà dell’Ottocento avrà un ruolo
non secondario nel disvelamento dell’alterità e nel progressivo ’annullamento’ delle distanze.
In questo senso le fotografie quindi, così come le cartografie, cercano di assicurare
un qualche possesso dello spazio, un suo controllo e un suo dominio. Fruizione soggettiva e individuale dei luoghi o di porzioni di essi, mezzi, strumenti, per la formazione delle coscienze e per l’orientamento dell’opinione pubblica. Entrambe tuttavia, cartografia e fotografia, impossibilitate a rappresentare completamente la realtà ambientale e storico-culturale che raffigurano, ma che possono coglierne solamente frammenti e porzioni, punti di vista e scelte: «qualsiasi operazione di cartografia e di fotografia non può dare una riproduzione globale dei patrimoni o ambientali o culturali di una data area, ma implica soluzioni e scelte fra le cose da mettere a fuoco e cose da lasciare in ombra» (Gambi 1974, p. 271).
Il problema, nel caso della fotografia, molto più che nella cartografia risiede, probabilmente, proprio in questa serie di “scelte”. Nella riduzione, ad un insieme di tipi ’spettacolari’ i soggetti rappresentati, un rito, un ritratto, un paesaggio, un borgo, costituiscono l’occasione irrinunciabile e suggestiva, per un discorso anche su se stessi. La
fotografia diventa ed è il risultato inevitabile di una catena continua di scelte, razionali o meno, operate dai fotografi - e dai cartografi? - che come sosteneva Roland Barthes altro non sono che i testimoni della propria soggettività (Barthes, 1985)2.
1.
Sul tema del rapporto tra paesaggio e processi identitari si veda anche quanto presente in Bonesio, 2001 e 2002
e Raffestin, 2005.
2.
Senza per questo entrare nel merito di osservazioni filosofiche sulla fotografia che non ci competono direttamente vanno tuttavia necessariamente ricordati alcuni punti fondamentali delle notissime tesi di Barthes: 1. la
65
4. GEOGRAFIA E FOTOGRAFIA
Senza andare troppo lontano il rapporto tra fotografia e geografia risulta essere, già
al suo debutto, concretamente conflittuale3. Alexander von Humbolt ad esempio fa
riferimento al mezzo fotografico sia nel Kosmos (Farinelli, 1980) sia in qualità di
membro della commissione incaricata di verificare l’autenticità della scoperta di Daguerre. Si tratta, nell’ipotesi humboldtiana, di una tecnica, di un ausilio della memoria, di un mezzo per la registrazione della realtà, «non certo un linguaggio in grado di riuscire ad essere, al pari di quello pittorico, intermediario delle impressioni
suscitate dalla natura e al tempo stesso dalle conoscenze sulle sue leggi» (Rossetto,
2004, p. 881).
Questo tipo di conflittualità sembra esprimersi soprattutto in relazione all’attribuzione di significati e prospettive da conferire proprio al paesaggio. Per dirla con Cosgrove, che si riferisce all’avvento del capitalismo industriale in Gran Bretagna: «La
divisione intellettuale tra arte e scienze e l’innovazione tecnologica della fotografia
significò la morte del paesaggio come era stato tradizionalmente concepito e come
soggetto dell’interesse culturale permanente. In questo periodo la scienza della geografia iniziò ad appropriarsi del paesaggio come sua area particolare di interesse
scientifico mentre nelle fotografie e sui belvedere turistici il paesaggio assunse le
proprietà di una merce, le cui connessioni con i mezzi della sua produzione erano
una volta di più mistificate» (Cosgrove 1990, p. 31).
Cosgrove inserisce nel volume del 1990 un capitolo La macchina fotografica e il
paesaggio (pp. 235-237) nel quale indicando come «la macchina fotografica abbia
giocato un ruolo importante nel declino della pittura figurativa» afferma che «la fotografia aveva un’integrazione più stretta con il paesaggio, un’integrazione che, nonostante tutta la sfida della pittura, per alcuni aspetti dava luogo al modo tradizionale di vedere il paesaggio. All’epoca essa diede allo stesso tempo al soggetto individuale la possibilità di un controllo visivo sulla realtà esterna - consentendogli di registrarla per consumo puramente personale, soggettivo - attribuendo tuttavia all’immagine fotografica quella oggettività, quella precisione scientifica nel riprodurre
il mondo che i paesaggisti dei primi anni del diciannovesimo secolo avevano cercato così ardentemente» (Cosgrove 1990, p. 236)4.
Questa differenziazione tra la fruizione collettiva e individuale dello spazio ci appare come lo scarto fondamentale che l’immagine fotografica, così come la cartografia, introduce nelle dinamiche sociali moderne.
fotografia è un messaggio senza codice; 2. il contenuto del messaggio fotografico è il reale preso alla lettera.
La funzione documentaria si impone senz’altro, per il senso comune, non certo perché l’immagine viene scambiata con la realtà ma perché l’immagine fotografica si presenta come l’analogo perfetto. Perfezione analogica
che, pur comportando una riduzione (di proporzione, prospettiva e colore), non è mai una trasformazione (Barthes 1985, p. 7).
3.
Sul rapporto tra geografia e fotografia l’apparato bibliografico inizia ad essere del tutto rilevante. Uno dei primi riferimenti al tema può essere rintracciato, per la geografia italiana, in Sensini, 1908. Per una trattazione più
sistematica e per alcuni versi più tecnica si veda Bergami, Bettanini, 1975. L’uso della fotografia in chiave di-
66
5. MARIO FONDI: TRA GEOGRAFIA, FOTOGRAFIA E MEMORIA
Ogni paesaggio costituisce dunque, nella coscienza collettiva e nella memoria individuale, un vero e proprio museo immaginario sedimentato, attraverso l’esperienza,
nelle molteplici strategie dello sguardo, nelle narrazioni, nelle descrizioni e nelle
progettualità (Turri, 2002 e 2003). Il paesaggio traduce così, per dirla con Turco,
«iconicamente il processo di territorializzazione, o alcuni suoi segmenti» (Turco,
2002, p. 44). Immagini e punti di vista diversi si accumulano e si sovrappongono
entrando a far parte della configurazione stessa dei paesaggi, proprio come personaggi di un testo letterario.
Alla fotografia, e ai paesaggi, si accompagna al tempo stesso, un vissuto, un’esperienza individuale, un flusso di memorie. La fotografia suscita in ciascuno emozioni diverse, ma si offre a tutti, e per tutti, allo stesso modo quale richiamo a un ’paesaggio reale’, mettendone in luce le componenti e gli elementi di connessione quali può cogliere lo sguardo.
La mostra che qui si presenta è stata pensata proprio in questa ottica di molteplice
scambio tra vissuto e descrizione, tra memoria e rappresentazione fotografica. La
messa appunto dell’itinerario, la scelta delle immagini ’da far vedere’, l’allestimento stesso sono state l’occasione non solo per illustrare il percorso professionale e
umano di Mario Fondi, un geografo che ha espresso in maniera del tutto originale
uno dei punti di vista possibili nelle vicende della disciplina geografica a cavallo tra
gli anni Cinquanta e Novanta del secolo scorso, ma anche per introdurre la pratica
memoriale come una delle fonti possibili della narrazione geografica.
Il valore scientifico di Fondi non lo si scopre certamente con la mostra. Come è ben
noto la produzione scientifica dell’autore si è sedimentata nel corso del tempo anche grazie alle ricerche sul terreno e ha trovato espressione in decine di scritti che
spaziano da quelli sulla casa rurale, e più in generale sull’insediamento in regioni
rurali, alle indagini sui centri urbani e su intere regioni e subregioni, particolarmente meridionali (Campania, Molise e soprattutto Abruzzo), con una costante attenzione al dato fisiografico come fondamento degli esiti dell’antropizzazione. Testimonianza preziosa della peculiarità di Fondi è il suo essere, anche fotografo5.
dattica è stato oggetto di numerosi interventi. Un contributo abbastanza recente in questa direzione è presente
in Schwartz, 2002. Per un quadro d’insieme cfr. infine Rossetto, 2004.
4.
Il rapporto tra rappresentazione pittorica, fotografica e geografia, soprattutto in riferimento all’oggetto del paesaggio, è stato oggetto di numerosissime analisi. In questa sede si può ricordare, tra gli altri in Claval, 1976.
L’autore, riprendendo qui una tesi che ci appare al centro di molte riflessioni da von Humboldt in poi sostiene
ad esempio che: «la fedeltà meccanica di una fotografia è incapace di rendere le sfumature che il vero artista è
in grado di cogliere» (p. 86). E ancora più avanti immagine fotografica e immagine pittorica rappresentano la
metafora necessaria per un discorso sulla regione geografica : «ciò che un pittore traduce in un ritratto e che
spesso sfugge alla fotografia è l’anima, quei tratti psicologici della personalità che non si possono acquisire in
un istante, ma che solamente la vita che è trascorsa tradisce. Nello stesso modo, la comprensione di una regione non può essere completa, se non se ne conosce la storia». Spunti molto suggestivi si possono inoltre rintracciare in Turco, 2002 e per alcuni versi anche in Bonollo, 2000.
5.
Per un quadro completo dell’attività scientifica e delle opere di Mario Fondi cfr. Mautone, 1997.
67
La passione per la fotografia, sviluppatasi fin da giovanissimo, ha trovato modo di
coniugarsi con le sue esigenze professionali che nel caso dell’Abruzzo si concretizzano nella realizzazione della monografia regionale nella nota collana Le regioni
d’Italia è stata, tra l’altro, lo stimolo per conoscerne il territorio e per fotografarlo.
Ma vi è qualcosa in più forse in quello che Renato Biasutti, con cui Fondi si laurea
nel 1951 a Firenze, afferma ne Il paesaggio terrestre (1947): «Vi è il paesaggio sensibile o visivo, costituito da ciò che l’occhio può abbracciare in un giro d’orizzonte
o, se si vuole, percettibile con tutti i sensi; un paesaggio che può essere riprodotto
da una fotografia (meglio se a colori) o dal quadro di un pittore, o dalla descrizione,
breve o minuta, di uno scrittore. Quest’ultimo può già introdurvi qualche elemento
che attenui l’immobilità dell’immagine, perché il paesaggio terrestre è sempre animato, non foss’altro per effetto delle oscillazioni luminose termiche alle quali è esposta ogni parte della superficie della terra. La cinematografia perciò, più di ogni immagine fissa, è giunta a rappresentare il mezzo più adatto a rendere con fedeltà, anche nel loro dinamismo, gran parte degli elementi di questo paesaggio visibile» (p.
1). E lo stesso Fondi ricorda nell’intervista realizzata in occasione della mostra come «fu Biasutti che iniziò a farmi vedere la casa rurale come elemento costituente
il paesaggio e che riflette un’economia».
6. LE SEZIONI DELLA MOSTRA
Gli itinerari che la mostra propone sono rintracciabili negli stessi scritti dell’autore.
Si fa riferimento, in particolare, a due volumi. Nel primo caso si tratta del già ricordato dodicesimo volume della Collana Le Regioni d’Italia dedicato all’Abruzzo e
Molise curato da Mario Fondi. Il secondo testo, più divulgativo, è la Guida d’Italia
dell’editore Fabbri del 1986 che contiene anch’esso, fotografie e testi dell’aurore relativamente all’Appennino abruzzese e alla Marsica.
Le sezioni sono le seguenti:
tracce di paesaggi essenziali: tra memoria storica e natura. In questa sezione sono
esposte immagini che si riferiscono ai più rilevanti fulcri di polarizzazione umana
ed economica dell’Abruzzo interno (conca del Fucino, aquilana e peligna). Qui si
possono rintracciare diverse conformazioni paesaggistiche dove l’abbondanza delle acque e la struttura morfologica ha garantito protezione naturale e opportunità di
sfruttamento dei suoli più fertili. Ne è derivata, come è logico, una diversificata conformazione paesistica come nel caso del paesaggio delle bonifiche della conca del
Fucino, dell’organizzazione policolturale tradizionale nella conca aquilana, della varietà dei paesaggi agrari della conca peligna. Ciascuna di queste conche costituisce
un riferimento essenziale per la suddivisione del territorio abruzzese in unità regionali minori.
Paesaggi urbano industriali e orizzonti marini. In questa sezione sono esposte immagini che si riferiscono sostanzialmente a due macro paesaggi. Il primo La regione urbano-industriale di Chieti e Pescara e la val Pescara definita già storicamente come ’porta dell’Abruzzo’, la seconda Il subappennino Frentano ampia fascia
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collinare, prevalentemente argillosa, che presenta diversificati paesaggi agrari, dai
seminativi arborati ai vigneti, dagli orti agli oliveti alle vaste plaghe aperte e coltivate a cereali.
7. CONCLUSIONI
La selezione degli scatti che Fondi ha realizzato per fissare, nella sua e nella nostra
memoria, i paesaggi della varietà regionale abruzzese sono documenti di indubbio
pregio, complessità e originalità; essi rappresentano un ideale “percorso”, ancora
una volta individuale e, forse anche generazionale, utile per una ricostruzione della
memoria storica e dell’identità nell’Abruzzo attuale.
I percorsi, gli itinerari, le sollecitazioni presenti in queste immagini costituiscono in
qualche modo l’occasione per riflettere attorno a tematiche ancora oggi pienamente al centro dell’attenzione tanto della pratica pianificatoria quanto di più ampie questioni come la sostenibilità, la valorizzazione dei patrimoni materiali e immateriali
regionali, il turismo nelle aree interne, le forme del paesaggio, i processi di valorizzazione e di sviluppo delle aree montane.
Lo sguardo di Fondi ci racconta le vicende stesse della natura, degli uomini che questi paesaggi hanno costruito materialmente e vissuto appassionatamente, proiettandovi incessantemente il loro senso del vivere e dell’agire. Ne deriva un invito a guardare, a ’leggere’ e ad interpretare il paesaggio, un esercizio che, nel paradosso della modernità, dove le immagini scorrono continue ma non si ’fissano’, ci appare profondo ed essenziale.
Da un altro punto di vista, quella cioè della concreta esperienza di ricerca che si è
accompagnata alla scelta e alla selezione delle immagini, si è resa possibile proprio
a partire dalla conoscenza diretta con l’autore e ha riguardato non solo l’analisi delle diverse articolazioni e forme del paesaggio, gli usi del territorio, e gli itinerari possibili (turistici o più ampiamente geografici, storici e antropologici) ma anche, e in
maniera forse ancora più intensa, una ricerca sulle fonti possibili, e ancora solo parzialmente esplorate, dell’indagine geografica come ad esempio la memoria storica
e il racconto orale da un lato e l’apporto degli strumenti audiovisivi dall’altro.
Fotografie che hanno l’intenzione di proporsi quali proiezioni dell’organizzazione
territoriale ma che hanno la consapevolezza di essere solo una condizione episodica, momentanea. Proprio come episodici e ’momentanei’ sono i modi di presentarsi del paesaggio.
Mostra plurale dunque così come plurale ci appare l’Abruzzo in cui si intersecano e
dialogano linguaggi e generazioni, narrazioni e carta geografica, fotografia e audiovisivo, storia e geografia.
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2002 (ed. or. 1986).
70
l Gran Sasso d’Italia:
dal caldo mare tropicale alla nascita della catena montuosa
Leo Adamoli
Premessa
Una montagna, così come la vediamo oggi con le sue rocce ed i suoi paesaggi geomorfologici, è generalmente il risultato di una lunga e complessa storia geologica, le
cui tappe fondamentali sono essenzialmente tre: la formazione delle rocce, il loro sollevamento tettonico e quindi la “nascita” vera e propria della montagna, il modellamento recente.
Qui di seguito, dopo un breve accenno ai principali lineamenti orografici della catena
del Gran Sasso d’Italia, sarà prima descritta la successione stratigrafica delle varie formazioni geologiche affioranti, quindi sarà esaminata la complessa struttura tettonica
della catena stessa. L’analisi e l’interpretazione dei dati stratigrafici e tettonici consentiranno, quindi, la ricostruzione dell’affascinante storia geologica di questa montagna.
Sempre in riferimento al massiccio del Gran Sasso d’Italia, saranno infine brevemente
esaminate tematiche geologico-ambientali di particolare rilevanza sociale quali: le risorse idriche sotterranee del grande acquifero carsico, che rappresenta la più importante fonte di alimentazione idropotabile dell’intero Abruzzo, i fenomeni franosi, che costituiscono un notevole rischio geologico per gran parte del territorio montuoso, i principali sistemi di faglie “attive”, storicamente “silenti”, ma potenzialmente in grado di
generare terremoti con epicentro locale anche di elevata magnitudo.
Lineamenti orografici
Il massiccio del Gran Sasso d’Italia domina in termini percettivi l’intero Abruzzo e può
essere suddiviso, per orientamento e caratteri morfologici, in due parti principali. La
prima si estende per quasi 40 km dall’alta Valle del F. Vomano alla Valle del F. Tavo e
comprende aspri ed accidentati rilievi montuosi allineati in direzione circa E-W; la seconda parte, caratterizzata da rilievi meno accentuati, assume progressivamente un andamento N-S e si estende per circa 20 km dall’alta Valle del F. Tavo fino alle Gole di
Popoli incise dall’Aterno-Pescara.
Il primo settore, più imponente e con caratteristiche geoambientali prettamente “alpine”, è a sua volta suddiviso in due catene montuose allineate secondo due direttrici subparallele, separate da una profonda ed ampia depressione morfologica.
La catena settentrionale, più vicina al mare, comprende le cime più elevate del Gran
Sasso (M. Corvo, m 2623; Pizzo d’Intermesoli, m 2635; Corno Grande, m 2912; Corno Piccolo, m 2655; M. Aquila, m 2495; M. Brancastello, m 2385; M. Prena, m 2561;
M. Camicia, m 2564; M. Tremoggia, m 2350; M. Siella, m 2027) ed incombe con pareti ripide, a tratti verticali e di notevole altezza e spettacolarità, sulla fascia collinare
teramana caratterizzata da morfologie più dolci.
La catena meridionale, più interna, raggiunge altitudini meno elevate (M. S. Franco, m
71
2132; M. Ienca, m 2208; Pizzo di Camarda, m 2332; Pizzo Cefalone, m 2533; M. Portella, m 2385; M. Scindarella, m 2233; M. Bolza, m 1927) ed è limitata a Sud da pendii alti ed acclivi, in alcuni luoghi decisamente aspri. La restante area montuosa estesa
a Sud della catena meridionale è caratterizzata da dorsali minori e depressioni interne
allungate in direzione appenninica (NW-SE), che digradano verso la conca aquilana e
la piana di Navelli.
I due allineamenti montuosi sono separati da una depressione morfologica longitudinale di origine tettonica, ma sono ancora collegati, nel settore più occidentale, da tre
contrafforti (Sella Venacquaro, Sella dei Grilli, Sella di M. Aquila) orientati in direzione normale all’asse delle vette, i quali delimitano le conche intermontane del Venacquaro e di Campo Pericoli. Queste conche si aprono verso Nord attraverso lunghe e
profonde valli modellate in passato dai ghiacciai: la Valle del Venacquaro e la Val Maone-Valle del Rio Arno. Nel settore orientale invece i due allineamenti montuosi sono
completamente separati e la depressione tettonica interna, subpianeggiante e di dimensioni imponenti, forma il grandioso altopiano di Campo Imperatore.
I “DOCUMENTI GEOLOGICI”
La successione stratigrafica
Le rocce sedimentarie del massiccio del Gran Sasso d’Italia si sono depositate in un
ambiente marino, in un lungo intervallo di tempo che va dal Trias superiore, 220 milioni di anni or sono, al Miocene superiore, 5 milioni di anni fa.
In linea generale possiamo distinguere un’area prevalentemente carbonatica (dolomie
e calcari di vario tipo) costituita dalla catena vera e propria, ed una zona essenzialmente terrigena (arenarie ed argille) costituita da quasi tutta l’ampia fascia collinare pedemontana e dai Monti della Laga.
Nell’ambito della catena si possono distinguere, nell’intervallo Trias superiore - Lias
inferiore, due sequenze basali eteropiche. La prima, più estesa arealmente e magnificamente esposta sulla parete SE del Corno Grande e, parzialmente, sul versante meridionale del tratto di catena M. Brancastello - M. Prena, è costituita da dolomie a Megalodonti e dolomie stromatolitiche seguite verso l’alto da calcari ciclotemici riferibili
all’ambiente di paleopiattaforma carbonatica. La seconda sequenza, affiorante alla base del versante meridionale del tratto di catena M. Prena - M. Camicia - M. Siella, costituita essenzialmente da dolomie bituminose con livelletti carboniosi, è invece riferibile ad un ambiente di sedimentazione costituito da un paleobacino marino inizialmente
euxinico, che diventa progressivamente sempre più aperto ed ossigenato. Al disopra di
questo articolato basamento calcareo-dolomitico segue, in continuità stratigrafica, il resto della successione (Lias medio - Miocene medio) costituita da calcari micritici con
selce, calcari bioclastici, calcareniti e calciruditi risedimentate, spesso canalizzate e torbiditiche, calcari marnosi e marne, riferibili ad un ambiente di scarpata - bacino prossimale, posto tra il margine della Piattaforma carbonatica laziale-abruzzese e l’antistante Bacino pelagico umbro-marchigiano-sabino, caratterizzato da acque profonde.
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Nei settori centrale ed occidentale
della catena del Gran Sasso d’Italia
(Corno Grande, M. Aquila, M. Rofano, ecc.), è possibile inoltre distinguere anche sequenze stratigrafiche,
essenzialmente giurassiche, di spessore notevolmente ridotto, lacunose
e/o condensate, costituite soprattutto da calcari nodulari e calcari emipelagici, depositatesi su estesi ed articolati “alti strutturali” (seamounts),
cioè aree variamente rilevate rispetto al resto del fondale del bacino marino, in parte forse emersi ed in parte sommersi.
Ad iniziare dalle formazioni geologiche più antiche, i caratteri litologici e biostratigrafici della successione stratigrafica tipo delle rocce carbonatiche, che con uno spessore complessivo di oltre tremila metri costituiscono il massiccio del Gran Sasso d’Italia, possono essere così riassunti (fig. 1).
Fig. 1 - Successione carbonatica della catena del Gran
Dolomia Principale
Sasso d’Italia.
Ben esposta nella parte basale della
grandiosa parete SE del Corno Grande (fig. 2) e sul versante meridionale del tratto di catena M. Brancastello - M. Prena
(fig. 3), la formazione, che raggiunge uno spessore massimo affiorante di circa 600 m,
è costituita da dolomie biancastre, grigie e nocciola in banchi e strati medi e sottili, con
intercalazioni di calcari dolomitici, organizzati in cicli lagunari tidali, con Megalodonti e lamine stromatolitiche. Essa, cioè, è costituita da una successione ciclica di dolomie subtidali (banchi con Megalodonti) e inter-sopratidali (strati con stromatoliti e pisoliti). L’età della formazione, sulla base del contenuto macrofossilifero costituito da
grossi Lamellibranchi (Megalodon sp.) e Gasteropodi (Worthenia solitaria), e di quello microfossilifero rappresentato da microforaminiferi (Triasina hantkeni) ed Alghe
Dasycladaceae (Dasycladales “Tr”), può essere attribuita al Trias superiore. La Dolomia Principale del Gran Sasso è simile, per caratteri litologici, per età e per significato
paleoambientale, alla Dolomia Principale delle Alpi, dove costituisce le famose Dolomiti Bellunesi e Cadorine.
73
Fig. 3 - Dolomia Principale affiorante sul versante meridionale del tratto di catena M. Brancastello
- M. Prena.
Fig. 2 - Sulla parete SE del Corno Grande, alla Dolomia Principale, affiorante nella parte basale,
segue verso l’alto il Calcare Massiccio.
Calcare Massiccio
Alle dolomie triassiche segue, in modo sfumato e graduale, e con uno spessore che sul
Corno Grande raggiunge i 600 metri, il Calcare Massiccio (fig. 2), riferibile al Lias inferiore e costituito da calcari bianchi in strati (5-50 cm) e banchi (1-5 m) organizzati in
una tipica successione ciclotemica, spesso con strati basali parzialmente dolomitizzati.
La sequenza ciclotemica è prevalentemente costituita da calcari con ooliti, oncoliti, bioclasti, peloidi e livelli a pisoliti vadose. Il Calcare Massicio del Corno Grande, inoltre,
è attraversato da numerosi “filoni sedimentari” modellati sulla geometria delle fessure
subverticali aperte, generalmente caratterizzati da una forma prismatica a sezione triangolare chiusa verso il basso. Presentano una direzione prevalente E-W ed un andamento
rettilineo e continuo che può superare anche i 600 m di lunghezza, con una profondità
massima visibile in affioramento di circa 30 m. Il riempimento dei filoni è costituito sia
da micrite dolomitizzata riferibile alla Corniola del Lias medio (Conca degli Invalidi Passo del Cannone - “Sentiero Ricci” alla Vetta Orientale) sia da brecce cementate ros-
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sastre e verdastre con clasti riferibili alla Scaglia bianca e rossa ed alla Scaglia cinerea
del Cretaceo superiore - Oligocene, alle quote più elevate del Corno Grande. Il contenuto paleontologico del Calcare Massiccio è dato soprattutto da Alghe calcaree (Palaeodasycladus mediterraneus, Thaumatoporella parvovesiculifera) e Foraminiferi bentonici.
Sempre nell’intervallo Trias superiore - Lias inferiore, come già accennato in precedenza, nel settore orientale del Gran Sasso, alla base del versante meridionale del tratto di catena M. Prena - M. Camicia - M. Siella, il basamento calcareo-dolomitico della paleopiattaforma carbonatica passa verso oriente ad una particolare ed interessantissima facies eteropica di paleobacino marino, costituita dal basso verso l’alto dalle seguenti formazioni:
Dolomie Bituminose
Riferibile al Norico (Trias superore), rappresenta la formazione geologica più antica affiorante sul Gran Sasso d’Italia, ed è costituita da dolomie bituminose grigio-scure sottilmente stratificate, alternate a sottilissimi straterelli carboniosi neri, fogliettati, raramente con noduli e livelletti di selce, ed a dolomie massive. A luoghi si possono osservare slumpings decimetrici e, soprattutto a Fornaca fra il M. Prena ed il M. Camicia,
olistoliti calcareo-dolomitici provenienti dalla Dolomia Principale della vicina paleopiattaforma. Lo spessore massimo affiorante delle Dolomie Bituminose è di circa 200
metri, mentre il contenuto fossilifero è dato da Palinomorfi.
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re, e pertanto sono da considerare eteropici del Calcare Massiccio del Corno Grande.
A partire dal Lias medio, in continuità stratigrafica sulle sequenze carbonatiche di paleopiattaforma e di paleobacino, su tutta l’area della catena del Gran Sasso si sedimenta una successione di scarpata-bacino prossimale costituita, dal basso verso l’alto, dalle seguenti formazioni (fig. 1).
Corniola
Databile Lias medio, affiora soprattutto nel settore centro-orientale della catena, con uno
spessore variabilissimo da oltre 400 metri fino a qualche decina di metri o addirittura
completamente assente in corrispondenza degli “alti strutturali”. Litologicamente è caratterizzata da calcari micritici nocciola in strati medio-sottili (10-50 cm), con lenti e noduli di selce grigia e rossastra, e con spesse intercalazioni biocalcarenitiche e calciruditiche, talora torbiditiche e canalizzate. La componente calcareo-clastica non è uniformemente distribuita in tutta l’area del Gran Sasso, ma diminuisce evidentemente allontanandosi dal margine della piattaforma, e nella stessa direzione diminuiscono anche le
dimensioni dei clasti. Spesso sono osservabili strutture sedimentarie tipo slumpings, mentre meno frequentemente sono presenti, nel settore meridionale dell’area, ammassi caotici di elementi carbonatici anche di grosse dimensioni che costituiscono delle “megabrecce”. In corrispondenza degli “alti strutturali”, dove gli spessori sono ridotti, la formazione è caratterizzata da sottili strati micritici grigio-scuri con selce senza le intercalazioni calcareo-clastiche. Per quanto riguarda il contenuto fossilifero è presente, nei livelli micritici, la biozona a Radiolari e spicole di Spugne, e sono altresì rinvenibili Foraminiferi (Orbitopsella praecursor, Haurania amiji), Alghe calcaree (Palaeodasycladus mediterraneus, Cayeuxia sp.) e resti di Idrozoi, Echinodermi e Molluschi.
Fig. 4 - Calcari bioclastici inferiori affioranti sulla parete orientale del Corno Piccolo.
Dolomie di Vradda
La sequenza di paleobacino, interamente osservabile a Vallone di Vradda salendo verso il M. Camicia, continua in modo sfumato con le Dolomie di Vradda, costituite da dolomie grigio-chiare in strati medio-sottili con lenti e noduli di selce. La formazione raggiunge uno spessore poco inferiore ai 150 metri, ed il contenuto paleontologico è rappresentato unicamente da rari resti di Ostracodi. L’età può essere attribuita al Retico
(Trias superiore). Questa, e la sottostante formazione delle Dolomie Bituminose, sono
eteropiche della Dolomia Principale.
Calcari Maculati e Strati Ammonitici di Vradda
Seguono, con uno spessore di circa 150 metri, i Calcari Maculati, costituiti da calcari
micritici rosati in banchi con caratteristiche chiazzature, spesso dovute a bioturbazione,
quindi gli Strati Ammonitici di Vradda che costituiscono un orizzonte di 30 metri, caratterizzato da calcari micritici sottilmente stratificati, con selce grigia e calcareniti fini
contenenti lumachelle ad Ammoniti. L’età delle formazioni è da riferire al Lias inferio-
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Verde Ammonitico
Affiorante con uno spessore variabile, ma comunque entro un valore massimo di circa
100 metri, la formazione è costituita da sottili strati micritici con selce in liste e noduli, marne verdastre fogliettate e calcari marnosi nodulari, con intercalazioni di calcari
bioclastici, calcareniti torbiditiche ed alcuni sottili, caratteristici livelli oolitici rossastri
(Sella dei Due Corni, M. Aquila, M. Tremoggia, ecc.). Localmente sono presenti slumpings e livelli di debris flow costituiti da elementi clastici provenienti dal margine della piattaforma, mentre in corrispondenza degli “alti strutturali” sono talora osservabili
(M. Aquila) superfici nodulari rossastre ed incrostazioni ferro-manganesifere (hard
grounds) presenti a varie altezze stratigrafiche. Il contenuto paleontologico, oltrechè da
Radiolari e spicole di Spugne, è caratterizzato dalla comparsa della biozona a “resti filamentosi” (Lamellibranchi pelagici a guscio fine) e dalla presenza di Brachiopodi
(Rhynconelle), Ammoniti, Antozoi e Idrozoi. L’età del Verde Ammonitico viene attribuita al Lias superiore.
Calcari bioclastici inferiori
Questa formazione, di età Dogger - Malm, affiora con uno spessore medio di circa 300
metri e dà in genere origine a morfologie piuttosto aspre, come a Corno Piccolo (fig. 4).
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Litologicamente è caratterizzata da spessi banchi amalgamati generalmente a geometria
lenticolare, talora torbiditici, costituiti da calcareniti bioclastiche biancastre e nocciola,
a volte oolitiche, inglobanti, a luoghi, brandelli di micrite e, più diffusamente, di selce.
Alla base sono generalmente presenti strati medio-sottili di calcareniti e biocalcareniti a
volte gradate, e calcari micritici nocciola in strati sottili. Al passaggio con la sovrastante Maiolica, sono localmente presenti, solo nel settore occidentale della catena (Pizzo
Cefalone, Monte S. Franco), fitte alternanze centimetriche di calcari micritici silicei e
diaspri, con intercalazioni di strati e banchi lenticolari di biocalcareniti. Il contenuto fossilifero è costituito dalla biozona a “resti filamentosi“, oltre a microforaminiferi (Protopeneroplis striata ) ed abbondanti resti di Ellipsactinie, Coralli ed Echinodermi.
Maiolica
Affiora su tutta la catena del Gran Sasso, con uno spessore che in media si aggira intorno ai 300 metri. Litologicamente è costituita da strati medio-sottili di calcari micritici di colore bianco-avorio (generalmente grigio-chiaro in prossimità degli “alti strutturali”) con selce bianca, nera, rosata e violetta, in straterelli, lenti e noduli, con intercalazioni di strati e banchi calcarenitici e biocalcarenitici biancastri, talora torbiditici,
che tendono a diventare più frequenti e grossolani verso l’alto della formazione. Dal
punto di vista fossilifero, caratteristica è la comparsa, nei livelli micritici, di microforaminiferi planctonici tipo Tintinnidi (Calpionella alpina) che permettono di attribuire
la formazione al Malm (parte alta) - Cretaceo inferiore.
Calcari bioclastici superiori
La litologia di questa formazione, di spessore variabile da alcune decine di metri fino
ad oltre 100 metri, è caratterizzata da calcareniti e calciruditi bioclastiche biancastre in
banchi amalgamati, talora lenticolari e di notevole potenza (anche 10 metri), con intercalazioni micritiche. Solo nel settore occidentale della catena, nella parte bassa della
formazione, sono localmente presenti (Pizzo Cefalone, Pizzo di Camarda) sottilissimi
livelli di calcari marnosi e marne verdastre. Fra i macrofossili compaiono i primi frammenti di Rudiste e sono altresì osservabili resti di Coralli e Briozoi. L’età di questa formazione può essere attribuita alla parte alta del Cretaceo inferiore.
Scaglia bianca e rossa
Affiorante su quasi tutta la catena del Gran Sasso, con uno spessore variabile, ma che
più frequentemente è dell’ordine dei 200 metri, è costituita da calcari micritici bianchi
e rosati, in strati sottili, con lenti e straterelli di selce rossa e grigia ed intercalazioni di
calcareniti e calciruditi biancastre. Fra i microfossili è caratteristica la comparsa di Foraminiferi planctonici tipo Globotruncane che consentono di ascrivere la Scaglia bianca e rossa all’intervallo Cretaceo superiore - Eocene inferiore.
Scaglia cinerea
Databile Eocene medio - Oligocene, presenta uno spessore massimo di 150 m ed è costituita da alternanze di marne calcaree verdastre, sottili straterelli micritici verdastri e
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bianchi, e strati medio-spessi di calcareniti e calciruditi biancastre, più frequenti verso
la base. Il contenuto fossilifero è rappresentato da Foraminiferi planctonici (Globorotalie, Globigerine), e macroforaminiferi (Lepidocycline, Discocycline, Nummuliti). Interessante è la presenza di impronte di Zoophycos (tracce dell’attività di scavo di policheti limivori) nei calcari marnosi rossastri affioranti al Passo delle Capannelle e sulle
pendici nord-occidentali di M. S. Franco.
Calcareniti glauconitiche
Di età Miocene inferiore, questa formazione, affiorante con uno spessore variabile da
50 a poco più di 100 m, è costituita da calcareniti grigio-verdastre in strati e banchi, con
abbondanti granuli di glauconite e con selce nera e grigiastra in lenti e noduli. Il contenuto fossilifero è dato essenzialmente da macroforaminiferi (Miogypsinidi e Rotaliidi)
e spicole di Spugne.
Marne con cerrogna
Affiorante lungo il bordo settentrionale del Gran Sasso, con uno spessore che può superare i 300 m, la formazione, riferibile alla parte alta del Miocene inferiore - Miocene
medio, è caratterizzata da marne e marne calcaree grigio-verdi con intercalazioni di strati e banchi (spessi anche 10 m) di calcareniti e calciruditi flussotorbiditiche grigiastre e
nocciola. La frequenza e lo spessore degli orizzonti detritici raggiungono i valori massimi nell’area del Montagnone. Sono presenti resti di Pectinidi, Lamellibranchi ed orme di limivori.
Marne a Pteropodi
Affiorante a tratti alla base del fronte della catena, questa formazione, di spessore modesto (10-30 m), è costituita da marne calcaree e marne emipelagiche grigio-azzurre,
talora argillose e di colore scuro, con sottili intercalazioni di calcari marnosi. L’associazione fossilifera è costituita da Pteropodi (Gasteropodi planctonici), e l’età si estende dal Tortoniano al Messiniano basale.
Formazione della Laga
Alla base dei versanti settentrionale ed orientale della catena del Gran Sasso d’Italia e
naturalmente nei Monti della Laga e nel restante territorio alto-collinare e pedemontano, alle formazioni calcareo-marnose del Miocene medio-superiore seguono, in continuità stratigrafica, i depositi torbiditici silicoclastici di avanfossa. Si tratta di un’imponente successione terrigena sintettonica, nota in letteratura come Formazione della Laga del Miocene superiore, che testimonia la presenza nel Mediterraneo, all’incirca dai
7 ai 5 milioni di anni fa, di un profondo bacino di avanfossa, e testimonia altresì una fase importante del processo di costruzione dell’Appennino centrale. Tale formazione, il
cui spessore si aggira complessivamente intorno ai 3000 metri, è costituita da un corpo
arenaceo-argilloso torbiditico, deposto cioè da correnti di torbida, caratterizzato da varie associazioni litologiche (arenacea, arenaceo-pelitica, pelitico-arenacea, pelitica) che
presentano rapporti variabili sia in senso verticale che laterale. L’evoluzione comples-
79
Fig. 5 - Sulla parete SE del Corno Grande, il
piano di faglia inversa (thrust superiore) sovrappone le dolomie triassiche ai calcari giurassici.
Fig. 6 - Sul versante settentrionale del M. Prena,
il thrust superiore sovrappone la Dolomia Principale triassica alla più recente successione giurassica coinvolta in vistose pieghe rovesciate.
siva della sedimentazione mostra comunque, in generale, una tendenza alla diminuzione verso l’alto della granulometria, dello spessore degli strati e del rapporto arenaria/argilla.
Depositi continentali
Ai sedimenti marini meso-cenozoici sono
infine sovrapposti depositi continentali del
Quaternario, di varie genesi e costituzione
litologica, quali ad esempio:
- le brecce calcaree stratificate e ben cementate del Pleistocene inferiore, affioranti sul versante settentrionale del Gran Sasso
(Arapietra, Pietracamela, Macchia S. Pietro,
ecc.);
- i depositi morenici riferibili al Pleistocene
superiore - Olocene ed affioranti in varie zone della catena ed in particolare a Campo
Imperatore;
- le lingue ed i cordoni di rock glaciers inattivi e di nivomorene, attribuibili al Pleistocene superiore - Olocene;
- i depositi glacio-lacustri sabbioso-limosi,
i depositi fluvio-glaciali ghiaioso-sabbiosi,
gli imponenti conoidi alluvionali, tutti affioranti a Campo Imperatore e riferibili al
Pleistocene superiore - Olocene;
- i coni detritici, i detriti di falda e le estese
coperture detritico-eluviali, che bordano i
versanti del Gran Sasso e sono riferibili all’Olocene;
- le alluvioni attuali e recenti ghiaioso-sabbiose, ed i depositi eluvio-colluviali posti
essenzialmente sul fondo delle depressioni
tettono-carsiche chiuse, attribuibili sempre
all’Olocene.
La struttura tettonica
L’Unità tettonico-stratigrafica del Gran Sasso rappresenta un’importante testimonianza del processo di costruzione della catena appenninica, sviluppatosi essenzialmente
nel Neogene, in seguito all’interazione tra le placche europea, africana e le relative mi-
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Fig. 7 - Sul M. Corvo, nel settore occidentale della catena, è molto evidente la piega anticlinalica
frontale dell’Unità del Gran Sasso d’Italia.
croplacche sardo-corsa ed adriatica (Adria). In particolare, la suddetta unità strutturale
costituisce parte integrante dell’edificio tettonico dell’Appennino centrale esterno, strutturatosi essenzialmente nel Miocene superiore - Pleistocene inferiore, in seguito all’evoluzione di un sistema orogenico (catena-avanfossa-avampaese) con migrazione delle deformazioni compressive dai settori più occidentali tirrenici verso quelli orientali
adriatici, sul quale si sovrappone successivamente la tettonica distensiva associata all’apertura del Mar Tirreno, anch’essa in migrazione da Ovest verso Est.
L’Unità del Gran Sasso costituisce una complessa e spettacolare struttura ad andamento arcuato e convessità nord-orientale, costituita da un segmento settentrionale a direzione E-W ed uno orientale ad andamento N-S, accavallata sull’Unità della Laga - Monti Gemelli caratterizzata da pieghe e sovrascorrimenti a direzione meridiana.
Il tratto orientale, che si estende all’incirca da Farindola a Bussi sul Tirino, è costituito
da una struttura anticlinalica con asse N-S e fianco orientale da verticale a rovesciato,
parallela alla direzione del piano di sovrascorrimento basale che determina la sovrapposizione della struttura sulla Formazione della Laga.
Il segmento settentrionale dell’Unità del Gran Sasso, ad andamento E-W, corrisponde
al settore più elevato della catena ove emerge l’imponenza e la grandiosità del suo edificio strutturale, il cui assetto generale, nel dettaglio piuttosto complesso, mostra chiaramente un progressivo aumento dell’entità dell’accavallamento sull’Unità della Laga
- Monti Gemelli, procedendo da Ovest verso Est.
81
Nel settore centrale ed orientale della catena, all’incirca dal Corno Grande - Corno Piccolo al M. Camicia, caratterizzato da un maggiore tasso di raccorciamento, la tettonica
compressiva ha determinato l’impilamento di tre principali unità tettoniche sovrapposte
con vergenza verso NNE, separate da due piani di sovrascorrimento principali (thrust inferiore e thrust superiore), ed interessate da piani inversi secondari, distribuiti secondo
un sistema embricato, che danno localmente origine a scaglie tettoniche sovrapposte.
L’unità tettonica intermedia (Unità dei Prati di Tivo - S. Colomba), affiorante sul fronte compressivo della catena, dal settore medio-alto alla base del versante, è caratterizzata da vistose pieghe rovesciate nord-vergenti ed è costituita dalla successione di età
compresa tra il Lias medio (Corniola) ed il Messiniano (Formazione della Laga). L’unità tettonica superiore (Unità di Corno Grande - M. Prena), sovrapposta alla precedente, si sviluppa invece lungo la cresta ed il versante meridionale della catena con un
assetto a monoclinale delle formazioni triassico-liassiche. Sempre sulle pendici meridionali è comunque visibile, in “finestra tettonica”, l’unità intermedia, come per esempio a Fornaca fra il M. Prena ed il M. Camicia ed appena a Sud del M. Brancastello.
La superficie di sovrascorrimento tra le due unità (thrust superiore), a prevalente direzione E-W e debolmente immergente a meridione, è uno dei tratti salienti della geologia
del Gran Sasso e può essere agevolmente seguita sul terreno dalla base del versante NW
di Corno Piccolo alla base della parete SE del Corno Grande, dove è ben visibile sul Fosso della Valle dell’Inferno (fig. 5). Quindi si segue con molta evidenza nella parte medio-alta del fronte, dal Brancastello al Prena (fig. 6), fin sulla parete nord del M. Camicia dove, in prossimità del Dente del Lupo, assume un’immersione verso settentrione e
probabilmente si ricongiunge con il piano di sovrascorrimento basale (thrust inferiore)
determinando così la terminazione laterale dell’unità tettonica intermedia.
Procedendo verso il settore occidentale del fronte del Gran Sasso, ad Ovest del Corno
Grande - Corno Piccolo, in corrispondenza del tratto compreso tra Pizzo d’Intermesoli e M. Corvo , a causa della progressiva diminuzione verso Ovest dell’entità del raccorciamento, il sistema di pieghe rovesciate sopra ricordato, acquisisce gradualmente
una geometria sempre meno serrata, e la superficie di sovrascorrimento superiore, le
cui ultime tracce sono ancora appena visibili sul versante orientale di Pizzo d’Intermesoli, andando verso il M. Corvo non raggiunge più la superficie topografica e tende verosimilmente a svilupparsi come sovrascorrimento cieco (blind thrust). In questo settore, pertanto, il fronte del Gran Sasso è caratterizzato da un’anticlinale rovesciata che
tende progressivamente a verticalizzarsi procedendo verso occidente (fig. 7), e con brusca terminazione periclinalica della piega appena ad Ovest di M. Corvo.
Il piano di sovrascorrimento basale del Gran Sasso (thrust inferiore), che ne determina
l’accavallamento sull’Unità della Laga - Monti Gemelli, è poco evidente sul terreno ed
è probabilmente ubicato all’interno della Formazione della Laga, la quale alla base della catena è caratterizzata da una associazione pelitico-arenacea, ed è in continuità stratigrafica con la sovrastante successione carbonatica rovesciata. Il piano può essere verosimilmente localizzato a breve distanza dalla base del versante carbonatico, cioè nel-
82
l’area in cui gli strati argilloso-arenacei della Laga, da rovesciati assumono una giacitura stratigrafica normale e dove sono talora visibili numerosi motivi di taglio inversi.
Procedendo verso il settore più occidentale della catena, il thrust basale, dopo aver assunto anch’esso il carattere di sovrascorrimento cieco, si ricongiunge probabilmente
con il thrust superiore e tende progressivamente a radicarsi verso Ovest.
Sul retro del fronte di sovrascorrimento del Gran Sasso, infine, si sviluppano le faglie
dirette a direzione variabile da NW-SE ad E-W e subordinatamente quelle orientate
NNE-SSW, le quali, a partire dal Pliocene superiore - Pleistocene inferiore, ribassano
prevalentemente verso SSW le unità accavallate dando origine ad una serie di blocchi
monoclinali immergenti verso Nord.
Le faglie dirette più importanti ad andamento medio WNW-ESE, che bordano a meridione i due allineamenti montuosi principali e tagliano o si raccordano ai preesistenti
piani di sovrascorrimento, sono essenzialmente: la “Faglia delle Tre Selle-Corno Grande” e la “Faglia di Campo Imperatore”, che delimitano rispettivamente il tratto M. Corvo - Corno Grande ed il settore orientale della catena dove originano la piana di Campo Imperatore, nonché, più a Sud, la “Faglia di M. S. Franco - Pizzo Cefalone - Monti
della Scindarella”. Tali sistemi di faglie raggiungono rigetti massimi di circa 1500 m e
sviluppi longitudinali continui fino a 10-15 km. Alcune di esse, inoltre, come per esempio la “Faglia delle Tre Selle - Corno Grande”, sono state riconosciute come faglie presovrascorrimento riutilizzate durante la tettonica distensiva quaternaria.
Le tappe della storia geologica
L’analisi delle caratteristiche lito-stratigrafiche e dell’assetto strutturale della catena del Gran Sasso d’Italia, consente la ricostruzione di una lunga ed avvincente storia geologica, tuttora in corso di svolgimento, che inizia nel Trias superiore, circa
220 milioni di anni fa: questa, infatti, è l’età delle rocce più antiche affioranti nell’area montuosa in esame.
In quel periodo, poco dopo l’inizio dell’Era Mesozoica, l’Oceano Atlantico ed il Mediterraneo occidentale non esistevano ancora e tutte le terre emerse erano riunite in un
unico grande blocco continentale chiamato Pangea (“tutta Terra”). Questo grande supercontinente presentava lungo la costa orientale, più o meno all’altezza dell’equatore,
un ampio golfo marino denominato Mare della Tetide, all’incirca di forma triangolare,
incuneato e chiuso ad Ovest in corrispondenza dell’attuale area del Mediterraneo ed
aperto ad Est verso l’oceano sconfinato della Panthalassa (“tutto Oceano”).
Nel momento in cui inizia la storia del Gran Sasso, il margine del Pangea ha appena cominciato a frammentarsi (fase di rifting continentale), il Mare della Tetide penetra sempre di più nella massa continentale, inizia la fase embrionale che porterà gradualmente
all’apertura dell’attuale Oceano Atlantico e dell’Oceano Ligure-Piemontese (quest’ultimo completamente scomparso durante la successiva collisione tra le placche Africana ed Euroasiatica), e cominciano a delinearsi i due grandi paleocontinenti: Laurasia
(America settentrionale + Eurasia) nell’emisfero boreale e Gondwana (America meridionale + Africa) in quello australe.
83
Le successioni carbonatiche che costituiscono l’ossatura dell’Appennino centrale si
sedimentano su un segmento crostale di tipo continentale appartenente alla cosiddetta “microplacca Adria”, la quale rappresenta probabilmente un frammento disarticolatosi dal margine settentrionale della grande
placca africana all’inizio del Mesozoico. Su
tale segmento crostale, i processi distensivi
Fig. 8 - Dolomie Bituminose laminate con sot- legati al progressivo ampliamento del Matili livelli carboniosi affioranti al Vallone di Vrad- re Tetide, determinano, a partire dal Triassida, sul versante meridionale del M. Camicia.
co superiore, la formazione e lo sviluppo di
grandi unità paleogeografico-strutturali come la Piattaforma carbonatica laziale-abruzzese ed il Bacino pelagico umbro-marchigiano-sabino, in continua subsidenza compensata da un’attiva sedimentazione, le quali hanno prima consentito la formazione di
migliaia di metri di spessore di rocce carbonatiche e successivamente hanno svolto
Fig. 9 - Schema della situazione paleogeografi- un ruolo fondamentale nel controllare l’eca nel Giurassico superiore, secondo un profi- voluzione geodinamica e la costruzione del
lo orientato SSE-NNW.
complesso edificio strutturale dell’Appennino centrale.
Le tappe fondamentali della storia geologica del Gran Sasso d’Italia, che rappresenta
pertanto un dettaglio dell’evoluzione geodinamica di tali grandi elementi paleogeografico-strutturali, possono essere schematizzate come segue.
Da 220 a 200 milioni di anni fa (Trias superiore - Lias inferiore)
Circa 220 milioni di anni or sono, sul margine meridionale della Tetide, il territorio montuoso in esame faceva parte di una paleopiattaforma carbonatica di acque marine basse, estesa quanto l’attuale Appennino centrale, in cui si depositava la Dolomia Principale, oggi magnificamente esposta nella porzione basale della parete SSE del Corno
Grande (Valle dell’Inferno) e sul versante meridionale e su quello settentrionale (parte
alta) del M. Prena.
La Dolomia Principale, caratterizzata da una successione ciclica di banchi di dolomie
subtidali, talora con Megalodonti, e di strati di dolomie inter-sopratidali con lamine stromatolitiche e pisoliti vadose, testimonia chiaramente che la paleopiattaforma triassica
era soggetta a periodiche (più o meno ogni diecimila o centomila anni) fluttuazioni del
livello del mare ed era piuttosto simile, per caratteristiche ambientali e fisiografiche, alle attuali piane di marea o piane tidali (tidal flat), passanti nel tempo e nello spazio a lagune e bassi fondali marini. Quando era sommersa sotto qualche metro d’acqua, l’area
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era caratterizzata dalla presenza di grossi molluschi lamellibranchi, i Megalodonti, i
quali vivevano parzialmente infossati sul fondo fangoso delle lagune e dei bassi fondali marini antistanti. Quando invece il mare si ritirava, il fondo della piana, parzialmente all’asciutto o interessato dai soli livelli dell’alta e bassa marea, veniva colonizzato da tappeti di Alghe cianoficee che intrappolavano il fango carbonatico, le cosiddette stromatoliti, le quali potevano ricoprire anche vaste superfici. Durante l’esposizione subaerea, le umide superfici fangose, sottoposte al caldo e relativamente arido clima triassico, potevano essiccarsi e brecciarsi variamente.
Le condizioni paleoambientali rimasero sostanzialmente le stesse fino alla fine del Lias
inferiore, circa 200 milioni di anni fa, salvo un clima sempre caldo ma decisamente più
umido rispetto a quello triassico. Così, in un ambiente di paleopiattaforma carbonatica
di acque marine basse, con ampie lagune protette da barre oolitiche e bioclastiche e scogliere a Coralli ed Alghe calcaree, molto simile all’attuale arcipelago delle Bahamas, si
depositò, in continuità stratigrafica sulla Dolomia Principale, il Calcare Massiccio, attualmente esposto nel settore più elevato del Corno Grande ed in diverse altre zone della catena (M. Aquila, versante Sud di Pizzo Cefalone, ecc.). Il Calcare Massiccio presenta anch’esso un’organizzazione ciclica, con unità subtidali massive, costituite da calciruditi bioclastiche, calcari oolitici, oncoliti, biocostruzioni ad opera di Alghe calcaree, testimonianti condizioni di acque marine generalmente più mosse rispetto a quelle triassiche, e con frequenti livelli a pisoliti vadose che indicano invece le prolungate
emersioni dei bassi fondali marini.
La continuità dell’estesa paleopiattaforma carbonatica era localmente interrotta dalla
presenza, sempre nell’intervallo Trias superiore - Lias inferiore, di un paleobacino marino embrionale (Bacino del M. Camicia), inizialmente a sedimentazione euxinica, la
cui genesi è da riferire alle iniziali fasi distensive triassiche del rifting tetideo. Queste
vistose eteropie di facies sono osservabili nel settore orientale della catena del Gran Sasso, nel tratto M. Prena - M. Camicia - M. Tremoggia - M. Siella. Mentre infatti la successione del Corno Grande è costituita unicamente da facies di piattaforma carbonatica di acqua bassa (Dolomia Principale e Calcare Massiccio ), e sul versante meridionale di M. Prena affiora una facies di transizione piattaforma-bacino con Dolomie Bituminose basali seguite dalla Dolomia Principale, poco più ad Est, invece, come a Fornaca tra Vado di Ferruccio e M. Camicia, e lungo il Vallone di Vradda tra il M. Camicia ed il M. Tremoggia, è ben esposta una successione interamente bacinale testimoniante la presenza in quest’area di un paleobacino che probabilmente si raccordava alla più estesa paleopiattaforma carbonatica per mezzo di rampe poco inclinate, lungo le
quali la piattaforma stessa poteva facilmente progradare, cioè accrescersi frontalmente. Tale bacino, inizialmente a circolazione ristretta e con fondali asfittici, come dimostra la sedimentazione delle dolomie grigio-scure bituminose con intercalazioni di strati fogliettati neri (fig. 8), ricchi di sostanza organica (Dolomie Bituminose del Norico),
divenne successivamente sempre più aperto ed ossigenato come indica la sedimentazione delle Dolomie di Vradda (Retico), dei Calcari Maculati e degli Strati Ammoniti-
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ci di Vradda (Lias inferiore) fino a perdere la propria individualità nel Lias
medio, quando entrò a far parte del ben
più vasto Bacino pelagico umbro-marchigiano-sabino.
Lo straordinario interesse scientifico
delle Dolomie Bituminose del Gran Sasso è dato non soltanto dalla loro età e
dal loro particolare significato paleoambientale ma anche dal fatto che
tali rocce bituminose possono essere
Fig. 10 - Schema paleogeografico del Gran Sasso d’I- considerate le principali rocce madri del
talia all’inizio del Lias medio, poco meno di 200 mi- petrolio attualmente estratto nel mare
lioni di anni or sono. Risultano evidenti: il margine
Adriatico.
della piattaforma carbonatica e la scarpata di faglia
che lo raccorda bruscamente al bacino pelagico e l’esteso ed articolato “alto strutturale”, forse in parte
emerso, del Corno Grande - M. Rofano.
Fig. 11 - Ammonite presente nei calcari marnosi
del Lias superiore.
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Da 200 a 140 milioni di anni fa (Lias
medio - Malm)
Poco meno di 200 milioni di anni fa,
nella fase iniziale del Lias medio, un’accentuazione della tettonica distensiva,
connessa con l’ampliamento della Tetide occidentale, provocò la frammentazione della piattaforma carbonatica
ed il suo parziale “annegamento”. È in
questa importante fase di rifting tetideo,
pertanto, che avvenne la suddivisione
dell’area corrispondente all’Appennino centrale, in due grandi settori paleogeografici ben distinti: la Piattaforma
carbonatica laziale-abruzzese a Sud,
che rimase in condizioni di mare sottile, ed il Bacino pelagico umbro-marchigiano-sabino a Nord, che fu invece
caratterizzato da un mare aperto e profondo.
In questo momento l’area del Gran Sasso venne a trovarsi nella zona di transizione tra questi due grandi domini paleogeografici, la cui separazione avveniva, piuttosto bruscamente, tramite una
scarpata costituita da stretti gradini di
faglia discendenti all’incirca verso Nord. Le
paleofaglie che costituivano la scarpata, alta presumibilmente 200-300 metri, oggi non
sono osservabili sul terreno, ma si possono
orientativamente ricostruire tenendo conto
di vari elementi quali le variazioni delle facies e dello spessore dei sedimenti.
Nell’area dell’attuale catena del Gran Sasso si instaurò quindi un ambiente di piede di
scarpata-bacino prossimale, posto tra il margine della piattaforma carbonatica ubicata
immediatamente a Sud della catena nella zona Castel del Monte - S. Stefano di Sessanio, ed il bacino pelagico che si sviluppava
nelle aree più settentrionali (fig. 9). In particolare, mentre sul margine della piattaforma, in un ambiente di acque basse ad elevata energia e ben ossigenate, si sedimentavano calcari granulari e/o biocostruiti quali: calcari oolitici, calcari bioclastici e costruzioni organogene ad Alghe calcaree, Antozoi, Idrozoi, Briozoi, con associati Molluschi, Echinodermi e Foraminiferi bentonici, nello stesso intervallo di tempo, nell’ambiente di piede di scarpata-bacino prossimale si depositavano, alternandosi variamente, i fanghi carbonatici (calcari micritici) tipici dell’ambiente di mare profondo,
contenenti organismi pelagici di vario tipo,
ed i materiali detritici e bioclastici, da fini a
grossolani, provenienti dal margine della
piattaforma.
L’instabilità tettonica delle scarpate di faglia
e l’azione distruttiva del moto ondoso favorivano infatti lo smantellamento dei depositi del margine della piattaforma, e quindi la
produzione di abbondante materiale detritico e bioclastico, il quale poteva formare accumuli caotici di frana sottomarina ai piedi
delle scarpate (megabrecce), oppure, più frequentemente, trasportato da correnti di tor-
Fig. 12 - Coralli delle barriere organogene
presenti nel Dogger - Malm sul margine della
piattaforma carbonatica.
Fig. 13 - Rudista (organismo costruttore di
scogliera) rinvenuta nei calcari del Cretaceo
superiore.
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bida o da flussi gravitativi ad alta densità (tipo debris flow), andava a depositarsi sul
fondo del bacino marino antistante, percorrendo distanze chilometriche. La risedimentazione torbiditica, innescata da frane sottomarine originatesi sia sul margine della piattaforma sia lungo la paleoscarpata, avveniva preferenzialmente entro estesi solchi tipo
valli sottomarine, formatisi a causa dell’azione erosiva esercitata sul fondo marino dalle torbide ad elevata densità durante l’avanzamento. Esempi di riempimenti di profondi e larghi solchi di erosione orientati all’incirca S-N, costituiti da voluminosi corpi lenticolari di calcareniti e calciruditi torbiditiche incassati entro i sedimenti micritici di mare profondo, sono visibili in varie zone della catena del Gran Sasso d’Italia, come per
esempio a Monte S. Franco ed a Monte S. Vito.
La fisiografia del fondo marino, inoltre, era piuttosto articolata, con differenze batimetriche di notevole entità anche fra zone molto vicine. Dai fondali emergevano infatti alcuni blocchi di piattaforma rimasti in posizione rilevata e variamente rialzati (alti strutturali), i quali costituivano montagne sottomarine in parte probabilmente emerse (Corno Grande, M. Rofano) ed in parte variamente sommerse (M. Aquila). Su questi ultimi
si deposero, essenzialmente nel Giurassico, successioni di spessore fortemente ridotto,
lacunose e/o condensate, con incrostazioni ferro-manganesifere, calcari nodulari e calcari pelagici.
In questo quadro paleogeografico (fig. 10), nel Lias medio, mentre nell’area Castel del
Monte - S. Stefano di Sessanio, la sedimentazione del margine della piattaforma era
rappresentata soprattutto da calcari algali alternati a sabbie oolitiche, nell’area della catena del Gran Sasso si depositava invece la Corniola, costituita da calcari micritici con
lenti e noduli di selce, ai quali si intercalavano, soprattutto nella parte bassa della formazione, strati e banchi di calcareniti e calciruditi frequentemente torbiditici, spesso in
corpi canalizzati, megabrecce e slumpings, cioè strutture deformate prodotte da frane
sottomarine, intercalate tra strati indisturbati. Spessa fino a 400-500 m nelle zone bacinali più profonde, la Corniola si riduce drasticamente di spessore (pochi metri) in corrispondenza degli “alti strutturali”, dove si depositavano essenzialmente strati sottili di
calcari micritici grigio-scuri.
Nel Lias superiore, poco più di 180 milioni di anni or sono, la situazione paleogeografica rimase immutata, diminuirono gli apporti torbiditici dal margine della piattaforma, la relativa bassa velocità di sedimentazione favorì nel bacino la presenza
degli Ammoniti (fig. 11), diminuì l’energia ambientale e una certa quantità di argilla, di incerta provenienza, invase l’area bacinale dove, mescolandosi ai fanghi carbonatici diede luogo all’episodio marnoso del Verde Ammonitico. Analogamente alla Corniola, anche lo spessore di questa formazione diminuisce notevolmente nelle
successioni di “alto strutturale”.
Dopo il periodo di relativa calma, nell’intervallo Dogger - Malm, da 180 a 140 milioni di anni fa, in relazione ad una ripresa dell’attività tettonica distensiva delle paleofaglie che formavano la scarpata, si ebbe una sedimentazione bacinale essenzialmente detritica, mentre sul margine della piattaforma, imponenti barriere organogene ad Idro-
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zoi, Antozoi e Briozoi (fig. 12), proteggevano le zone più interne della piattaforma, caratterizzate da uno scarso ricambio delle acque.
L’instabilità tettonica favoriva lo smantellamento penecontemporaneo dei depositi del
margine della piattaforma, i quali andavano ad accumularsi, in maniera più o meno caotica, nelle parti più interne del bacino dove brandelli di selce e di micrite pelagica già
parzialmente diagenizzati, potevano essere strappati dal fondo stesso ed inglobati nella pasta biodetritica. Questi depositi (Calcari bioclastici inferiori), in banchi spesso
amalgamati e raramente intervallati da sedimenti pelagici, sono oggi ben esposti soprattutto a Corno Piccolo, e la variazione dello spessore della formazione testimonia la
persistenza di fondali articolati con differenti batimetrie.
Da 140 a 10 milioni di anni fa (Cretaceo inferiore - Miocene medio)
Nel Cretaceo inferiore, 140 milioni di anni fa, con la deposizione della Maiolica, caratterizzata da calcari micritici bianco-avorio con selce, alternati a strati calcarenitici
più spessi, si ebbe una netta diminuzione dell’attività tettonica sinsedimentaria, una progressiva diminuzione della pendenza della scarpata ed un minore apporto di materiale
detritico nel bacino, testimoniato dalla generale minore granulometria delle facies detritiche e dalla sporadicità dei grossi corpi canalizzati indicativi di flussi ad alta densità. Contemporaneamente sul margine della piattaforma le barriere organogene furono
via via sostituite da costruzioni algali incrostanti che intrappolavano sabbie organogene e tutta l’area assunse l’aspetto di un vasto bassofondo. La scarpata a pendio più dolce, inoltre, tendeva a dissipare l’energia del moto ondoso e delle correnti che investivano il margine della piattaforma e di conseguenza, in questo periodo, l’ambiente di
margine ad alta energia tendeva a ridursi arealmente.
Nell’antistante bacino pelagico intanto, una generale subsidenza portò ad un’ulteriore
riduzione dell’alto strutturale Corno Grande-Monte Rofano, di cui permase probabilmente solo il Corno Grande. In generale persisteva, comunque, una certa articolazione
batimetrica del fondale ereditata dal Giurassico.
Alla fine del Cretaceo inferiore, circa 100 milioni di anni fa, una nuova intensa fase tettonica sinsedimentaria interessò sia le aree bacinali che quelle di piattaforma e favorì
l’accumulo nel bacino dei Calcari bioclastici superiori, in banchi talora amalgamati.
Successivamente, dal Cretaceo superiore all’Oligocene, con la sedimentazione prima
delle micriti della Scaglia bianca e rossa e poi delle marne calcaree verdastre della Scaglia cinerea, si ebbe un sempre più rado apporto detritico dal margine della piattaforma, dove nel Cretaceo superiore, con l’avvento delle Rudiste (fig. 13), si ebbe lo sviluppo di nuove scogliere organogene. Nello stesso periodo si attenuarono ulteriormente i dislivelli della preesistente, articolata morfologia dei fondali e le condizioni paleoambientali del bacino divennero più uniformi.
La diminuzione dell’apporto detritico dalla piattaforma al bacino, nonchè le lacune stratigrafiche cretacico-paleogeniche riconosciute nell’area, sono da mettere in relazione
non tanto con le oscillazioni eustatiche quanto con i primi eventi collisionali Africa-Eu-
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ropa che, seppure per il momento distanti, portarono ad un’attenuazione della subsidenza e quindi a fasi di locale emersione della piattaforma, margini compresi. Le lacune stratigrafiche riconosciute nella successione paleogenica del Gran Sasso, variabili
come estensione nei diversi settori della catena, sono tentativamente interpretabili come fasi di non sedimentazione in regime subacqueo o come conseguenza di scivolamenti gravitativi dei sedimenti pelagici lungo scarpate instabili.
Nell’intervallo Miocene inferiore - Miocene medio, più o meno dai 24 ai 10 milioni di
anni fa, mentre sulla piattaforma riprese la sedimentazione carbonatica con depositi di
bassa profondità costituiti da biocalcareniti a macroforaminiferi, nell’area del Gran Sasso s’instaurò un ambiente deposizionale di tipo rampa carbonatica, dove si depositarono prima le Calcareniti glauconitiche e successivamente le Marne con cerrogna.
Da 10 milioni di anni fa ad oggi (Miocene superiore - Quaternario)
Poco meno di 10 milioni di anni fa (Miocene superiore), la deposizione di alcune decine di metri di sedimenti marnosi scuri (Marne a Pteropodi), segnò l’inizio delle prime
fasi di flessurazione di questo settore dell’Appennino che, trasformatosi di lì a poco in
bacino di avanfossa, consentì un veloce accumulo (quasi 2 mm/anno) di migliaia di metri di depositi terrigeni torbiditici. È in questo momento, pertanto, che prese l’avvio la
storia orogenetica del Gran Sasso d’Italia, e la sedimentazione carbonatica, che aveva
dominato la scena a partire dal Trias superiore, lasciò repentinamente il posto alla deposizione terrigena silicoclastica della Formazione della Laga. In questo momento, l’interazione tra le placche europea, africana e la microplacca Adria, aveva già sostanzialmente prodotto, da circa 50 milioni di anni, la strutturazione della catena alpina, ed aveva avviato, da circa 15 milioni di anni, la costruzione della catena appenninica a partire dai settori occidentali.
Riferendoci al settore dell’Appennino centrale, si può dire che la strutturazione della
catena, costituita da diverse unità tettoniche derivanti dalla deformazione sia del basamento che delle coperture sedimentarie della microplacca Adria, sia avvenuta in seguito
al suo coinvolgimento nel sistema orogenico catena, avanfossa, avampaese, in migrazione dal Tirreno verso l’Adriatico con una velocità di circa 2-3 cm/anno. In particolare, la subduzione della litosfera continentale della microplacca Adria verso SW al disotto di quella tirreno-appenninica, ha causato un progressivo arretramento verso oriente della zona di flessura della litosfera dell’avampaese adriatico e tale arretramento ha
determinato la migrazione dell’avanfossa e della catena verso Est. Sul fronte della catena che avanza, cioè verso l’Adriatico, si hanno settori in compressione, alle sue spalle invece, cioè verso Ovest, nei settori in distensione si è aperto il bacino tirrenico, tuttora in espansione.
Nel territorio montuoso in esame, la sedimentazione nel Tortoniano delle Marne a Pteropodi segna, come già detto, l’inizio della flessurazione cioè della subsidenza tettonica di questo settore di avampaese, e quindi rappresenta il primo momento del coinvolgimento di quest’area nel sistema catena-avanfossa. Successivamente, la sedimenta-
90
zione terrigena della Formazione della Laga nel Messiniano, testimonia la formazione
e lo sviluppo del bacino di avanfossa, la migrazione verso oriente del depocentro torbiditico, e quindi il pieno coinvolgimento dell’area nel sistema orogenico in migrazione verso l’Adriatico. Infine, la deposizione nel Pliocene inferiore, in forte discordanza
angolare su un substrato carbonatico meso-cenozoico già ampiamente deformato, dei
Conglomerati di Rigopiano (interpretabili come depositi di bacino satellite posto sul
bordo di una catena in via di strutturazione), testimonia l’incorporazione dell’area nel
dominio di catena.
Chiarito il quadro generale dell’evoluzione del sistema orogenico, le tappe fondamentali del processo di costruzione del massiccio del Gran Sasso d’Italia possono essere
così sintetizzate.
Nel Messiniano, circa 7 milioni di anni fa, le deformazioni compressive dell’orogenesi appenninica, in propagazione da Ovest verso Est, investirono l’area in esame e si ebbe lo sviluppo dell’ampio bacino della Laga, come già precedentemente descritto, il
quale assunse i caratteri di una avanfossa in forte subsidenza. Tale bacino si estendeva
verso Est lungo una blanda rampa di avampaese fino alle aree centrali dell’Adriatico,
ed era delimitato, verso Sud, da una zona di alto sinsedimentario ad andamento all’incirca E-W, localizzato in corrispondenza della piattaforma carbonatica e della relativa
fascia di transizione al bacino pelagico. Esso inoltre presentava il fondale articolato in
dorsali e depressioni longitudinali ed era suddiviso, da una dorsale corrispondente all’attuale struttura Monti Gemelli - Montagnone, in due sub-bacini principali: uno occidentale più interno, corrispondente all’attuale zona dei Monti della Laga, ed uno orientale più esterno, ad est dei Monti Gemelli. La ridotta circolazione dell’acqua e quindi
la mancanza di ossigeno nella massa idrica inferiore del bacino, inibiva inoltre la vita
organica sul fondo, mentre nelle acque superficiali a stento sopravvivevano pochi organismi planctonici come testimonia lo scarso contenuto microfossilifero della Formazione della Laga.
Nel corso del Messiniano, in soli due milioni di anni (da 7 a 5 m. a.), si ebbe un veloce
riempimento del bacino con dispersione dei sedimenti principalmente da Nord a Sud.
È da settentrione, infatti, che provenivano le correnti torbide le quali, dopo aver percorso lunghi tragitti trasportando in sospensione ingenti quantità di materiali sabbiosi,
colmarono velocemente l’avanfossa, dando vita ad un enorme apparato arenaceo-argilloso torbiditico, interpretabile come un sistema di conoidi sottomarine coalescenti.
Sempre nel Messiniano, contemporaneamente alla formazione ed al riempimento dell’avanfossa, iniziarono le prime fasi della costruzione della catena del Gran Sasso, le
quali si realizzarono attraverso lo sviluppo iniziale di sovrascorrimenti ciechi (blind
thrust) nella successione carbonatica di piattaforma a comportamento prevalentemente fragile, e di grandi pieghe anticlinali, anche rovesciate, nella sovrastante successione di scarpata-bacino prossimale a prevalente comportamento deformativo duttile. L’andamento arcuato del sovrascorrimento del Gran Sasso (E-W che passa gradualmente a
N-S) è probabilmente ereditato dalla paleogeografia giurassica ed è dovuto al fatto che
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le paleofaglie che delimitavano a Nord ed a oriente la piattaforma, analogamente a quelle che delimitavano gli “alti strutturali”, controllarono lo sviluppo iniziale dei sovrascorrimenti ciechi, e la successiva traslazione di tutto l’edificio tettonico avvenne riutilizzando i blind thrust che tagliarono tutta la successione carbonatica. L’inizio della
strutturazione, con vergenza verso NNE, viene riferito al tardo Messiniano in quanto
nel settore orientale della catena, in particolare nella zona di Farindola tra Rigopiano e
la Valle del Tavo, i Conglomerati di Rigopiano, del Pliocene inferiore, ricoprono in forte discordanza i piani di accavallamento e le pieghe frontali della catena, ed essendo a
loro volta piegati con geometria discordante rispetto al substrato e, unitamente a questo sovrascorsi sulla sottostante Unità della Laga, testimoniano la persistenza delle deformazioni compressive verosimilmente fino al Pliocene medio-superiore.
Nel Pliocene inferiore, circa 5 milioni di anni fa, il bacino della Laga, raggiunto dalle
spinte tettoniche compressive dirette verso l’Adriatico, iniziò anch’esso a strutturarsi in
catena e l’assetto definitivo di tutto il sistema a pieghe e sovrascorrimenti ad andamento
N-S e vergente ad Est, venne raggiunto nel Pliocene medio in quanto a tale età sono riferibili i livelli più recenti implicati.
Nel Pliocene medio-superiore, circa 3 milioni di anni or sono, sempre nel quadro di una
progressione in sequenza della deformazione verso l’avampaese adriatico, si ebbe la
definitiva messa in posto del fronte di sovrascorrimento E-W del Gran Sasso d’Italia.
In questo momento, infatti, soprattutto lungo il piano di sovrascorrimento basale, si
completò l’accavallamento sull’Unità della Laga del sistema a pieghe e sovrascorrimenti nord-vergenti del Gran Sasso, con avanzamento frontale ed entità di raccorciamento progressivamente decrescente da Est ad Ovest del fronte. Lungo il piano di sovrascorrimento più interno e geometricamente più elevato (thrust superiore), ben visibile in superficie, si ebbe una traslazione dell’Unità di Corno Grande - M. Prena sull’Unità di Prati di Tivo - S. Colomba, di entità variabile da almeno 2 km in corrispondenza del M. Prena (fig. 6), a circa 500 m all’altezza del Corno Piccolo, fino a radicarsi nei pressi del M. Corvo dove il thrust superiore tende a svilupparsi come sovrascorrimento cieco (fig. 7).
Un ruolo determinante nel controllare l’evoluzione strutturale della catena del Gran Sasso d’Italia hanno sicuramente avuto, come già accennato, le preesistenti faglie distensive giurassiche responsabili delle differenziazioni paleogeografiche mesozoiche, la cui
riattivazione si è manifestata sia con le medesime direzioni di movimento che in modo
opposto. Evidente è per esempio l’inversione tettonica nell’area del Corno Grande, dove le faglie distensive giurassiche, che isolavano a Nord gli “alti strutturali”, durante la
costruzione della catena sono state ruotate e riutilizzate con cinematica inversa.
Tra la fine del Pliocene superiore e l’inizio del Quaternario, poco meno di 2 milioni di
anni or sono, mentre il fronte della compressione raggiunse la costa adriatica, l’area del
Gran Sasso cominciò ad essere sottoposta ad un’intensa tettonica distensiva associata
al sollevamento che, talora riutilizzando in profondità i più antichi piani di sovrascorrimento e le preesistenti discontinuità giurassiche, disarticolò le strutture compressive
92
e generò, lungo sistemi di faglie dirette, vaste depressioni tettoniche come quella di
Campo Imperatore. In questo momento le dorsali raggiunsero le quote attuali e i lineamenti orografici del Gran Sasso erano già sostanzialmente acquisiti. L’attività tettonica naturalmente è continuata fino ai tempi attuali, ed è tuttora in corso di svolgimento
come testimoniano le faglie “attive” presenti sul Gran Sasso e delle quali si parlerà più
avanti.
Nel corso del Quaternario poi, l’azione demolitrice e modellatrice dei ghiacciai, delle
acque superficiali e della gravità, modellano gli originari rilievi montuosi che assumono gradualmente l’attuale aspetto geomorfologico. È questa, per il momento, l’ultima
pagina “scritta” della storia geologica di questa montagna, una pagina nella quale si
possono iniziare a leggere anche gli avvenimenti che riguardano la preistoria e la storia dell’uomo.
LA RISORSA ACQUA ED I MOVIMENTI RECENTI
L’acquifero carsico del Gran Sasso d’Italia
I depositi carbonatici, i depositi terrigeni silicoclastici, nonché i depositi continentali
quaternari, affioranti nel territorio montuoso in esame, presentano caratteri idrogeologici piuttosto differenziati. In generale, mentre la successione carbonatica, permeabile
per fessurazione e per carsismo, assume il ruolo di serbatoio per le acque sotterranee,
la successione terrigena, data la scarsa permeabilità, svolge il ruolo di “acquiclude” nei
confronti dell’acquifero carbonatico; vario, invece, data la permeabilità per porosità
piuttosto variabile, è il ruolo idrogeologico svolto dai depositi detritici continentali quaternari.
Nell’ambito delle suddette successioni è possibile, comunque, riconoscere e valutare
delle differenze idrogeologiche fra le varie formazioni, le quali, sulla base dei caratteri
litologici, sedimentologici e strutturali, illustrati in precedenza, possono essere raggruppate nei seguenti complessi idrogeologici aventi caratteri abbastanza omogenei.
Complesso dei depositi detritici continentali (Quaternario)
È costituito essenzialmente dalle coltri detritiche pedemontane caratterizzate da eterogeneità litologica e da spessori molto variabili. I depositi poggiano sia sopra un substrato carbonatico permeabile sia sopra un substrato impermeabile o poco permeabile
costituito dalle associazioni pelitico-arenacee della Formazione della Laga. Il complesso può contenere acquiferi di spessore ed estensione variabili con la geometria
e la prevalente natura litologica del deposito. L’alimentazione dell’acquifero è data
dall’infiltrazione di acque meteoriche e/o da perdite laterali degli acquiferi carbonatici o arenacei.
Complesso dei depositi torbiditici arenacei, arenaceo-pelitici e pelitico-arenacei
(Messiniano)
È costituito dalle sequenze terrigene silicoclastiche caratterizzate da alternanze variabili di arenarie in strati e banchi e peliti in prevalenti strati medi e sottili. Nell’insieme
93
queste successioni torbiditiche, per la presenza di livelli impermeabili, limitano le possibilità di infiltrazione e di immagazzinamento in profondità delle acque meteoriche,
svolgendo la funzione di “acquiclude” nei confronti dell’acquifero carbonatico. Dove
però le sequenze arenacee raggiungono spessori consistenti e sono più fratturate, la conseguente maggiore permeabilità e capacità d’immagazzinamento favoriscono la presenza di modesti acquiferi che alimentano sorgenti caratterizzate da un regime stagionale e da portate molto basse, di solito inferiori ad 1 l/sec.
Complesso marnoso-calcarenitico (Miocene medio-superiore)
Costituito dalla successione marnoso-calcarenitica miocenica (Marne con cerrogna e
Marne a Pteropodi), il complesso è presente nella parte basale del versante settentrionale del Gran Sasso e nell’area del Montagnone. Le rocce, generalmente piuttosto fratturate e localmente interessate da processi carsici in profondità dove prevale la litofacies calcarenitico-calciruditica delle Marne con cerrogna, presentano una permeabilità d’insieme medio-bassa. L’infiltrazione efficace media annua, per precipitazioni di 1.
000 mm/anno, può essere stimata circa 300 mm.
Complesso calcareo-silico-marnoso (Lias medio - Oligocene)
Molto esteso arealmente, il complesso è costituito dalla successione calcareo-silicomarnosa di scarpata - bacino prossimale, che sulla catena del Gran Sasso presenta frequenti e talora potenti intercalazioni calcarenitiche e calciruditiche risedimentate che
ne aumentano la capacità di immagazzinamento e la permeabilità d’insieme. I pochi livelli marnosi, presenti a varie altezze stratigrafiche, possono sostenere localmente modeste “falde sospese” poste a quote diverse. Prevale comunque un drenaggio verticale
lungo le faglie distensive che attraversano i livelli marnosi. L’infiltrazione efficace media annua può essere stimata intorno ad un minimo di 750 mm per precipitazioni di
1000 mm/anno.
Complesso dolomitico e calcareo-dolomitico basale (Trias superiore - Lias inferiore)
Si tratta di affioramenti poco estesi arealmente, alla base stratigrafica del complesso calcareo-silico-marnoso. È caratterizzato da una successione di dolomie e calcari dolomitici, fratturati e cataclasati soprattutto lungo le superfici di faglia. La cataclasite, finissima, può riempire le fratture e ridurre così la permeabilità d’insieme, generalmente caratterizzata da valori piuttosto bassi; elevata è invece la capacità di immagazzinamento. L’infiltrazione efficace può essere stimata intorno a 200÷300 mm per precipitazioni di 1000 mm/anno.
Caratteri dell’idrostruttura
Il massiccio carbonatico del Gran Sasso d’Italia costituisce una struttura idrogeologica
indipendente la cui area di alimentazione si estende su un territorio di circa 970 km2,
posto a quote comprese fra 2912 e 250 m s. l. m. Il limite dell’idrostruttura, ben definito a Nord e ad oriente, nei tratti in cui il massiccio carbonatico si sovrappone ai sedimenti terrigeni silicoclastici che rappresentano l’acquiclude regionale, appare invece
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incerto a SW, lungo la valle
dell’Aterno, dove è quasi certa la possibilità di importanti
travasi idrici dalla vicina catena del Sirente verso la sorgente di Capo Pescara.
L’idrostruttura del Gran Sasso
è costituita da tutti i complessi carbonatici descritti. I caratteri litologici e lo stato di fagliazione e fratturazione delle
rocce, nonché la presenza in
quota di una fascia a carsismo Fig. 14 - Idrostruttura del Gran Sasso d’Italia con le principali linee di flusso dell’acquifero profondo e l’ubicazione delle
diffuso di circa 100 m di spes- più importanti sorgenti alimentate.
sore, la notevole diffusione di
forme carsiche superficiali e la
presenza a quote elevate di depressioni endoreiche tettonocarsiche, favoriscono l’infiltrazione della maggior parte
dell’afflusso pluviometrico e
nivale e quindi l’alimentazione di un imponente acquifero
basale di tipo compartimentato che a sua volta alimenta, con
una portata complessiva annua
attualmente valutabile intorno
a 23,5 m3/s (pari ad un volume
idrico annuo di 740 milioni di
Fig. 15 - La frana di crollo si è avuta alla base del “4° Pilamc), le sorgenti poste ai mar- stro”, sulla parete ENE del Corno Grande, chiamata per antogini dell’idrostruttura, e quin- nomasia “il paretone”. È evidente la nicchia di distacco della
di il reticolo fluviale (fig. 14). frana, appena sopra il canalone Jannetta.
La compartimentazione dell’acquifero carsico, che nonostante la complessità della struttura può essere ritenuto, in
senso regionale, unico, è determinata dalla presenza sia di discontinuità litostratigrafiche che di faglie caratterizzate da spesse fasce di cataclasiti finissime, le quali, fungendo da diaframmi impermeabili sotterranei limitano, ma non impediscono totalmente, le
comunicazioni tra i diversi e contigui settori dell’acquifero.
La circolazione idrica nella falda profonda, la cui principale area di ricarica è costituita dalla vasta depressione tettonica di Campo Imperatore, risulta comunque sostanzialmente condizionata, oltrechè dal reticolo carsico a prevalente sviluppo orizzontale in
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quota, anche dai sistemi di faglie dirette ad andamento appenninico che costituiscono
zone a maggiore permeabilità e quindi a maggiore drenaggio. Le linee di flusso idrico
sotterraneo sono pertanto tendenzialmente orientate nella medesima direzione e cioè
dalle aree più elevate del massiccio verso la zona più depressa a SE, costituita dalla Valle del Tirino e dalla profonda incisione del fiume Aterno a Popoli.
La maggior parte dell’acqua immagazzinata nell’acquifero carbonatico profondo va
quindi ad alimentare le sorgenti di Capodacqua del Tirino, di Capestrano, di S. Calisto
e di Capo Pescara poste appunto alla base SE della catena. La restante parte alimenta
principalmente le sorgenti del Chiarino, di Rio Arno, del Ruzzo e della Vitella d’Oro,
sul fronte esterno della catena, e le sorgenti di Vetoio, Tempera e Capo Vera sul fronte
interno aquilano. Le acque di queste sorgenti presentano tutte un identico chimismo di
tipo bicarbonato-calcico, in quanto l’acquifero compartimentato è caratterizzato da settori con litofacies più o meno simili. Alle quote medio-alte, inoltre, sono presenti numerose sorgenti minori a regime variabile e con portate di 0,1 - 5 l/sec, alimentate da
locali falde sospese di limitata estensione, generalmente contenute nei depositi quaternari o localmente sostenute dai livelli marnosi presenti nelle sequenze carbonatiche.
Gli scavi in sotterraneo, eseguiti negli anni ’70 per la realizzazione del Traforo autostradale del Gran Sasso, hanno comportato il drenaggio e quindi la mobilizzazione di
enormi volumi idrici, i quali sono stati sottratti in parte alle sorgenti, che hanno subito
un deciso decremento delle portate (fino al 50-60% in meno) rispetto ai valori pre-traforo, ed in parte alle riserve permanenti dell’acquifero determinandone un consistente
ed irreversibile impoverimento.
I fenomeni gravitativi
Il paesaggio geomorfologico del Gran Sasso d’Italia, così come lo vediamo oggi con i
suoi scenari di incommensurabile bellezza, è il risultato di diverse cause quali soprattutto: l’azione morfogenetica dei ghiacciai quaternari, il fenomeno carsico, l’azione delle acque correnti superficiali e della gravità. Relativamente ai processi gravitativi, tutti
i versanti della catena, data la complessità orografica e l’elevata energia del rilievo, risultano interessati da numerosi e diffusi fenomeni franosi di diversa tipologia ed estensione, la cui distribuzione è strettamente influenzata dalle condizioni lito-strutturali,
geotecniche e morfologiche dei pendii nonchè dallo stadio di evoluzione geomorfologica raggiunto nelle diverse zone.
Nei settori più elevati della catena, le strapiombanti pareti carbonatiche sono soggette a
numerose frane di crollo, condizionate prevalentemente dalla presenza di numerose discontinuità strutturali (fratture, faglie etc.). Porzioni più o meno rilevanti di ammassi rocciosi e blocchi poliedrici isolati di varie dimensioni, a volte notevoli e in equilibrio precario, sono presenti lungo tutte le pareti principali e il loro improvviso distacco ed accumulo al piede dei ripidi versanti alimenta estese falde detritiche. Fenomeni di crollo
di grandi dimensioni hanno interessato nel passato soprattutto il versante nord del settore centro-orientale della catena, ed in particolare la grandiosa e strapiombante parete ENE
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Fig. 16 - La polvere bianca prodotta dall’impatto ai piedi del versante degli ammassi calcarei franati avanza in direzione dell’autostrada.
della vetta orientale del Corno Grande, detta per antonomasia “il paretone”, dove nel
1897 una frana di crollo di notevolissime dimensioni diede origine, nella zona di distacco, ad una gigantesca sagoma di farfalla, ancora oggi ben visibile sulla parete a causa
della differenza di colore dovuta all’alterazione superficiale della roccia. Sulla stessa parete, alla base di quello noto alpinisticamente come “quarto pilastro”, all’incirca a q. 2600
s. l. m., il 22 agosto 2006 si è verificata l’ennesima, importante frana di crollo, con un
distacco di un rilevante volume (quasi 20. 000 mc) di roccia calcarea biancastra intimamente fratturata (fig. 15), riferibile al Calcare Massiccio, il quale precipitando per circa
1100 m si è completamente frantumato ed i detriti si sono accumulati alla base del versante lungo le “Coste di S. Nicola”. L’impatto lungo alcuni tratti della parete ed ai piedi
del versante degli ammassi calcarei cataclasati ha prodotto la formazione ed il sollevamento di imponenti nuvole di “polvere” bianca, di grande effetto scenografico e mediatico, che hanno raggiunto il paese di Casale San Nicola e l’autostrada, provocandone la
temporanea chiusura a causa di problemi di visibilità (fig. 16). È opportuno rilevare che
sia l’abitato che l’autostrada non sono a rischio in quanto protetti dai rilievi collinari di
Colle Castello e il Moio che fanno da sbarramento naturale ad eventuali massi lapidei
che dovessero provenire dalla parete ENE del Corno Grande.
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Le principali cause scatenanti questi movimenti sono da ricercare nelle forti sovrappressioni provocate dall’acqua all’interno delle fratture e legate agli eventi meteorologici e di scioglimento delle nevi, così come alle quote più alte la presenza di neve per lunghi periodi e i cicli gelo-disgelo diurni e stagionali. Infine anche gli scuotimenti dovuti
ad eventi sismici possono costituire un’importante causa scatenante.
Altri fenomeni franosi molto diffusi sono costituiti dagli scorrimenti traslativi delle coltri detritiche, soprattutto lungo i versanti settentrionali e la fascia pedemontana della catena del Gran Sasso. Frane di questo genere hanno spesso dimensioni chilometriche e
interessano spessori più o meno potenti di coperture detritiche con velocità di movimento
generalmente lente, come nel caso del versante di Intermesoli. Qui è presente una copertura (spessore fino a 40-50 m) costituita da accumuli caotici di frammenti litici di varie dimensioni fino ai grandi blocchi, con matrice siltoso-sabbiosa più o meno abbondante. La copertura stessa è attualmente interessata da movimenti che avvengono lungo
la superficie di contatto con il substrato a profondità di 40 - 50 m.
Meno frequenti e soprattutto di dimensioni generalmente ridotte appaiono gli scorrimenti
rotazionali che si verificano soprattutto nelle sequenze marnoso-calcaree e che frequentemente interessano anche le spesse coltri detritiche.
Altri fenomeni franosi, di genesi complessa, sono presenti lungo i versanti settentrionali del massiccio del Gran Sasso d’Italia dove crolli e scorrimenti rotazionali spesso evolvono in scorrimenti traslativi e/o colamenti delle estese colti detritiche. Un esempio spettacolare di questi movimenti è costituito dalla Lama Bianca, ad est di Vado di Corno, dove il fenomeno gravitativo, derivante dalla combinazione di frane di crollo nella parte
alta della parete e di uno scorrimento traslativo dei detriti nella parte bassa del pendio,
ha uno sviluppo complessivo in lunghezza di oltre 1,5 km. Un altro spettacolare esempio di frana complessa di notevoli dimensioni (scorrimento rotazionale che evolve in colamento di detrito e terra) è osservabile sul versante teramano del Gran Sasso, sulla destra idrografica del Fosso della Valle dell’Inferno, a monte di Casale San Nicola. Il fenomeno franoso, che si è innescato nella primavera del 2005 ed ha interessato la facies
pelitico-arenacea della Formazione della Laga e la sovrastante coltre detritica, si sviluppa in lunghezza dalla base del versante (contatto carbonatico-terrigeno) a q. 1300 m,
fino oltre il canale di gronda dell’Enel, all’incirca a q. 1000 m.
Abbastanza diffuse, inoltre, sono le frane di colamento le quali presentano caratteristiche e velocità piuttosto variabili in relazione ai terreni coinvolti. Le più frequenti nel settore montuoso, come ad esempio sul versante orientale del tratto Pizzo d’Intermesoli Sella dei Grilli, sul versante settentrionale del Monte Brancastello, o sul versante meridionale del M. Prena, sono costituite dalle colate di detrito (debris flow): in genere si tratta di movimenti rapidi con spessori di detrito coinvolto molto variabili, i quali si verificano in corrispondenza dei principali eventi meteorici o dello scioglimento delle nevi e,
localmente, possono essere associate a fenomeni valanghivi.
Le peculiari condizioni morfologiche e lito-strutturali hanno infine favorito l’innesco e
lo sviluppo di processi gravitativi che coinvolgono considerevoli porzioni di versante e
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che si manifestano su una scala spazio-temporale molto ampia, assumendo i caratteri
propri delle Deformazioni Gravitative Profonde di Versante.
Le DGPV consistono in movimenti di massa molto complessi che in genere coinvolgono grandi volumi di roccia, con superfici di rottura e di distacco generalmente impostate lungo discontinuità preesistenti quali faglie, fratture, piani di stratificazione o contrasti litologici. Il processo deformativo della massa rocciosa è per lo più lento e progressivo (velocità media di deformazione dell’ordine di grandezza dei mm/anno o cm/anno),
e le evidenze morfologiche più significative consistono in: trincee anche di notevoli dimensioni parallele al versante, scarpate, grandi e piccoli ripiani in contropendenza nelle porzioni intermedie del versante, sdoppiamento della cresta, fratture di tensione nei
settori sommitali dei versanti e rigonfiamenti nelle zone basali. In tale contesto di instabilità geomorfologica generalizzata, determinata dai processi gravitativi sull’intero sistema crinale-versante-fondovalle per profondità che superano il centinaio di metri, si
inseriscono generalmente fenomeni franosi superficiali a piccola scala, la cui disposizione areale ed i cui caratteri genetici ed evolutivi sono verosimilmente connessi, con relazioni causa/effetto, ai movimenti profondi.
Esempi di DGPV si osservano lungo i versanti settentrionali di Corno Piccolo e di Pizzo d’Intermesoli. Uno dei casi più eclatanti è costituito dall’area di Pietracamela, dove
il movimento è in atto, e dai versanti degli abitati di Cerqueto, Intermesoli, Fano Adriano e Nerito. A Pietracamela registrazioni inclinometriche ottenute attraverso sondaggi
profondi hanno consentito di individuare una superficie di scorrimento ad una profondità di circa 150 m a cui sono associati fenomeni franosi superficiali che interessano la
fascia superiore di spessore massimo pari a circa 30 metri.
A conclusione dell’argomento si segnala che in questi ultimi anni, nell’area del Gran Sasso, è stato osservato un deciso incremento dei movimenti franosi, consistenti non solo
nella riattivazione di frane quiescenti ma anche nell’innesco di nuovi fenomeni gravitativi di varia genesi ed estensione.
Faglie attive e sismicità
Nell’area della catena del Gran Sasso d’Italia sono osservabili, nelle formazioni carbonatiche e per tratti chilometrici, numerose evidenze geologiche e geomorfologiche
di fagliazione recente ed attiva (scarpate e “nastri di faglia”, faccette triangolari e trapezoidali, ecc.) che caratterizzano le faglie dirette quaternarie, le quali, indubbiamente, sono tra le più spettacolari dell’intero Appennino. Frequente, inoltre, è il contatto
tettonico tra i terreni carbonatici ed i depositi continentali del Pleistocene superiore Olocene (morenici, alluvionali e di versante), che testimonia l’attività recente di tali
faglie, analizzata da numerosi lavori scientifici che hanno studiato ed indagato le suddette evidenze neotettoniche su basi geologico-strutturali, morfotettoniche, sismologiche e paleosismologiche.
Durante il progressivo sollevamento del massiccio del Gran Sasso, i processi estensionali hanno vistosamente sgradonato verso SSW i rilievi più alti, dando origine ad una
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Fig. 17 - L’alta Val Maone è tagliata trasversalmente da una scarpata di faglia “attiva”, immergente
a sud ed alta fino a due metri. La rottura di pendenza costituisce un’anomalia geomorfologica nel
profilo longitudinale della valle e suggerisce un’attività post-glaciale della faglia.
serie di depressioni tettoniche, collocate a quote variabili dai 1500-1800 m di Campo
Imperatore ai 500-600 m dell’Aterno (L’Aquila). Le principali faglie distensive della
catena, alle quali può essere riferita l’attività quaternaria, mostrano in affioramento una
dominante orientazione WNW-ESE con immersione verso SSW ed inclinazioni variabili dai 45° agli 80°, e sono organizzate in “sistemi” allungati fino a 20-30 km e disposti secondo un assetto en-echelon sinistro, con ampi tratti di sovrapposizione. Tali faglie attive, che in superficie si presentano segmentate e discontinue, sono verosimil-
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mente interconnesse alla profondità di enucleazione ipocentrale degli eventi sismici (515 km) e, sulla base di considerazioni strutturali e geomorfologiche, possono essere raggruppate nei seguenti tre sistemi principali: 1) Tre Selle - Corno Grande; 2) Campo Imperatore; 3) Monte San Franco - Monte Ienca - Pizzo Cefalone - Monti della Scindarella - M. Bolza.
Il Sistema di faglie delle Tre Selle - Corno Grande si sviluppa in lunghezza per oltre 11
km, lungo i versanti meridionali del Monte Corvo, Pizzo d’Intermesoli e Corno Grande, attraversando le tre selle: Sella di Monte Corvo, Sella dei Grilli e Sella del Corno
Grande. La maggior parte del rigetto geologico associato alla faglia, valutabile fino ad
un massimo di circa 1. 000 m, è da riferire all’attività sinsedimentaria meso-cenozoica,
pre- e sin-orogenica. Il piano di faglia è osservabile solo localmente e le migliori esposizioni si hanno nella Valle del Venacquaro e nella Val Maone dove, per esempio, la
scarpata di faglia attiva, alta fino a quasi 2 m ed immergente a sud, taglia trasversalmente l’alta Val Maone, dislocando i Calcari bioclastici inferiori (fig. 17). La rottura
di pendenza che ne deriva costituisce un’anomalia geomorfologica nel profilo longitudinale della valle e suggerisce un’attività post-glaciale della struttura stessa. Ricerche
e studi paleosismologici condotti da A. A. a Solagne, nel Venacquaro, a Campo Pericoli e nella Val Maone, hanno evidenziato la dislocazione di depositi glaciali ed alluvionali nel Pleistocene superiore-Olocene, consentendo di identificare almeno 4 eventi di fagliazione di superficie negli ultimi 18. 000 anni, e propongono un probabile intervallo di ricorrenza dei terremoti tra 2. 500-3. 000 e 6. 000-7. 000 anni.
Il Sistema di faglie di Campo Imperatore si sviluppa in lunghezza per circa 20 km, da
Vado di Corno a M. S. Vito, e quindi sui versanti meridionali del M. Brancastello, del
M. Prena, del M. Camicia, che bordano a nord la depressione tettonica di Campo Imperatore. Il piano principale si sviluppa per buona parte al limite tra il substrato ed i depositi quaternari e quando si rinviene sul Calcare Massiccio dolomitizzato (tratto Vado di Corno - Stazzo del Lepre) la zona di deformazione è costituita da una fascia cataclastica ampia decine di metri, dove il substrato ha originato tipiche morfologie “calanchive”. A Monte Faeto si può osservare il contatto tettonico tra le brecce di versante attribuibili al Pleistocene superiore e il substrato mesozoico lungo un piano di faglia
diretta con pendenze di 50°-60°. Alla base del versante, sepolta dai depositi olocenici
di conoide alluvionale, è presente un’altra faglia, sub-parallela a quella principale, che
genera delle faccette triangolari (Monte Faeto, Le Mandrucce) e trapezoidali (Stazzo
del Lepre), localmente impostate sui depositi del Pleistocene superiore. Indagini paleosismologiche di A. A. hanno evidenziato una ripetuta attivazione della Faglia di Campo Imperatore nel corso dell’Olocene e magnitudo massime attese tra 6. 5 e 7. 0.
Il Sistema di faglie di Monte San Franco - Monte Ienca - Pizzo Cefalone - Monti della
Scindarella - M. Bolza costituisce senz’altro l’elemento tettonico più evidente e continuo della catena del Gran Sasso d’Italia (complessivamente oltre 25 km). Tale sistema
può essere sudiviso in almeno tre segmenti maggiori disposti in modo en-echelon sinistro, rappresentati dalle faglie del Monte San Franco, da quelle che bordano i versanti
101
meridionali del M. Ienca, Pizzo Cefalone e Monti della Scindarella e dalle faglie del M.
Bolza. La faglia del versante meridionale del Monte S. Franco, per esempio, mostra una
spettacolare esposizione del piano di faglia nei calcari, su cui spesso poggiano in contatto tettonico i depositi continentali tardo-quaternari. Nel tratto più orientale della struttura, uno spettacolare liscione di faglia pone a contatto la Maiolica con una sequenza
di depositi del Pleistocene superiore, vistosamente deformata, testimoniando un’attività tardo-quaternaria.
I dati della sismicità storica documentano l’assenza di terremoti storici importanti (M>6),
ma le suddette chiare evidenze geologiche di fagliazione recente testimoniano che sul
massiccio del Gran Sasso d’Italia sono possibili, anche se con tempi di ritorno molto
lunghi, riattivazioni dei suddetti sistemi di faglie attive e quindi terremoti con epicentro locale anche di elevata magnitudo (fino a M 7).
Il più alto livello di sismicità storica è concentrato nel territorio aquilano, recentemente interessato da una serie di eventi culminati nella notte del 6 aprile 2009, con
una scossa principale (mainshock) di magnitudo Richter Ml=5,8 e magnitudo momento Mw=6,3, avvenuta a circa 9 km di profondità. A questo terremoto sono seguiti altri due eventi importanti con magnitudo Ml>5 e profondità ipocentrale di circa 15 km. Più precisamente il 7 aprile con Ml=5,3 ed epicentro nella parte settentrionale della media Valle dell’Aterno ed il 9 aprile con Ml=5,1 ed epicentro in prossimità del Lago di Campotosto.
Le analisi dei dati geologici, geofisici e macrosismici disponibili indicano che l’attività sismica, caratterizzata da meccanismi focali di tipo distensivo (confermati dai caratteri dello sciame, duraturo e con ipocentri migranti) e con energia distribuita, nel tempo, lungo l’asse di massima distensione avente direzione NE-SW, è concentrata ad una
profondità ipocentrale variabile dai 5 ai 18 km e si è sviluppata lungo due segmenti di
faglie dirette ad attività tardo-quaternaria: la Faglia di Paganica, immergente verso SW
ed attivata per una lunghezza di circa 15-20 km, e la più settentrionale Faglia dei Monti della Laga, immergente verso WSW e solo parzialmente attivata.
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Scienza, coscienza e conoscenza.
Il rischio sismico si può prevenire? Si può e si deve fare.
Enrico Miccadei - Docente di Geografia Fisica e Geomorfologia strutturale
Università d’Annunzio Chieti-Pescara
Il territorio abruzzese rappresenta, nel panorama geologico e geomorfologico italiano,
uno splendido esempio della varietà e della complessità di processi e fenomeni che caratterizzano e rendono unico l’intero territorio nazionale. La coesistenza all’interno dell’areale regionale delle tracce di una storia evolutiva tuttora in corso rende l’Abruzzo
un’area ad alto rischio sismico, perchè le tessere della sua storia geologica sono ancora di difficile interpretazione e lo sono ancor di più da riposizionare in una ideale spirale del tempo e dello spazio.
Il 6 Aprile 2009 alle ore 03:32 la zona de l’Aquila è stata colpita da un forte terremoto
(magnitudo Richter (Ml) 5. 8, magnitudo momento (Mw) 6. 3). La sequenza sismica è
iniziata alcuni mesi prima della scossa del 6 aprile e continua la sua evoluzione con
moltissime repliche monitorate in continuo dall’INGV. Tre eventi di M>5 sono avvenuti il 6 aprile (Ml=5. 8), il 7 aprile (Ml=5. 3) e il 9 aprile (Ml=5. 1). I terremoti di Ml
compresa tra M=3. 5 e 5 sono stati in totale 31. Dall’esame dei segnali riconosciuti automaticamente alla stazione INGV MedNet de L’Aquila, sono state conteggiate oltre
20. 000 scosse.
Il terremoto, come evidenziato dai dati sismologici inquadrati nel contesto geologico e
geomorfologico dell’area aquilana, è stato legato all’attività di faglie di tipo estensionale e con piani orientati prevalentemente NW-SE, immergenti a SW, e l’estensione si
sviluppa su direzioni antiappenniniche. Le scosse hanno interessato tutta la zona che si
estende dall’Aquila verso sud, verso la valle dell’Aterno per una lunghezza di circa 30
km: L’Aquila, Paganica, Tempera, Onna, ed altre, tutte gravemente colpite, addirittura
alcune quasi completamente rase al suolo. Nell’area epicentrale, si sono verificati diffusamente effetti geomorfologici come frane di crollo, cadute di detrito, riattivazione
di frane di piccole dimensioni, fratture e fessure di direzioni estremamente superficiali variabili su depositi di diversa genesi, fratture del manto stradale, crolli dalle scarpate degli argini fluviali, fenomeni di liquefazione, ed anche piccole slavine.
Le osservazioni di tali effetti di superficie e della distribuzione dei danni, non risultano
in linea con gli effetti attesi in relazione all’entità del sisma secondo quanto riportato in
letteratura nella Scala delle intensità ESI 2007.
Le analisi e gli studi condotti nell’immediato dopo terremoto hanno fatto emergere
aspetti ormai chiari, ma anche problematiche ancora aperte, nel quadro geomorfologico strutturale e geologico quaternario dell’area. Questo è particolarmente evidente in
riferimento alle relazioni fra depositi continentali quaternari, elementi geomorfologici
di superficie e elementi geomorfologici sepolti, che si ritiene possano aver avuto un ruolo importante nella distribuzione degli effetti cosismici di superficie (fig. 1).
103
La valle dell’Aterno e la valle del Tirino,
nel quadro dell’assetto morfostrutturale dell’Appennino centrale, sono valli tettoniche
molto complesse e articolate, risultato di
fenomeni di sollevamento regionale e differenziale, legati a una tettonica estensionale sviluppatasi lungo elementi tettonici a
direzione prevalentemente NW-SE ma a
geometria complessa; esse fungono da depocentri, interni alla catena appenninica,
della deposizione di articolate successioni
continentali quaternarie che registrano alternate fasi di erosione e deposizione.
Numerosi, infatti, sono gli studi che hanno
Fig. 1- Sezione geologico-geomorfologica delaffrontato l’analisi degli aspetti geologico
l’area interessata dal terremoto aquilano.
quaternari e geomorfologici ed in particolare relativi all’assetto neotettonico a partire dagli studi di Beneo (1940), Ge. Mi. Na. (1963), Demangeot (1972) e Raffy (1976,
1982), poi di Bertini e Bosi (1970, 1993), Bosi (1975), per passare agli studi finalizzati alla Carta Neotettonica (CNR-PFG, 1987); poi gli studi di Bagnaia et alii (1992, 1996),
Bertini et alii (1992), D’Agostino et alii (1994), Blumetti et alii (1995, 2002, 2007), Basili et alii (1997, 1999), Miccadei et alii (1999), Bosi et alii (2000), Galadini e Galli
(2000), Moro et alii (2002), Serva et alii (2002), Tallini et alii (2002), D’Alessandro et
alii (2003), Boncio et alii (2004a,b), per citare solo alcuni dei lavori principali che si sono occupati dei depositi continentali quaternari e delle caratteristiche geomorfologiche.
I fogli geologici 359 L’Aquila e 368 Avezzano, 369 Sulmona, costituiscono, infine, il
quadro cartografico più recente relativamente all’area in oggetto.
I geologi, grandi assenti dell’evento sismico del 6 aprile 2009, studiano come già detto da anni tutto il territorio italiano, che è uno dei più difficili al mondo, soprattutto per
l’imprevedibilità dei terremoti. Questi avvengono perchè l’Appennino abruzzese è giovane e sta crescendo: ogni volta che cresce è come se strappasse i suoi vestiti e questo
crea un terremoto.
I geologi possono studiare il territorio attraverso le analisi storico-statistiche e attraverso le indagini di terreno fondamentali per la pianificazione territoriale. Per questa forte conoscenza del territorio non vengono mai chiamati ai tavoli, anzi vengono classificati cassandre, portasfortuna fino a non ultimo terroristi. Questo è non cultura... è vedere i propri figli passare davanti alle bare... come è stato purtroppo a L’Aquila.
Una analisi attenta delle rocce e delle forme e quindi della storia geologica e geomorfologica dei terreni del territorio della Valle Peligna ci indica che è una zona a rischio
sismico. I terremoti storici (come quello del 1706, celebrato, discusso ed analizzato in
un congresso tenuto a Sulmona quattro anni fa) ce lo ricordano continuamente. Questo
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è lavorare in maniera corretta ed intelligente da parte dei cittadini e delle istituzioni per
il futuro dei propri figli, nipoti e pronipoti.
Partendo da questo, quindi, conoscendo si deve pianificare, ma non in maniera scellerata e senza criterio. Perché le case sono sì fatte con cemento armato, calcestruzzo, legno... ma poggiano su un suolo, su un terreno, su una roccia che risponde da luogo a
luogo in maniera diversa alle sollecitazioni di un terremoto.
I geologi studiano i terremoti su base statistica, oltre che storica (basata sulle memorie
dei terremoti occorsi nel passato).
I geologi studiano i terremoti sul terreno cercando di capire attraverso le rocce, le faglie, le espressioni geomorfologiche del terreno quali e quanto devastanti possano essere stati i terremoti già accaduti in un’area.
La conoscenza dei terremoti si accresce ogni volta che ne accade uno nuovo, ogni volta che gli effetti indotti da un terremoto aprono nuove prospettive interpretative.
Il territorio italiano, e soprattutto l’Appennino centrale, è tutto geologicamente molto
giovane e vengono da tutto il mondo gli studiosi che vogliono confrontarsi con le problematiche di un territorio geologicamente in evoluzione.
La regione abruzzese è studiata da centinaia di anni da quando la geologia e la geomorfologia del Quaternario rappresentavano nell’area discipline quasi pionieristiche,
seguite da pochi studiosi e insegnata da docenti che credevano fortemente che la conoscenza è alla base del progresso e della civiltà di un popolo. Nelle ricerche effettuate si
è cercato di fornire un contributo per risalire alle età delle rocce presenti; per capire come sistemi fluviali, palustri, lacustri e di versante possano aver interagito nel tempo
(non quello che tutti conoscono ma in quello geologico, in cui l’unità di misura non è
il minuto, ma le migliaia di anni...). Tutto ciò può rappresentare un utile contributo per
la pianificazione antropica di queste aree.
Questo è avere conoscenza dalla scienza e quindi coscienza...
I terremoti, allo stato attuale delle conoscenze, non sono prevedibili in nessuno modo,
ma sono prevenibili, perché sappiamo che avverranno. Noi dobbiamo imparare a conoscere per evitare nuovi dissesti come ad Onna (fig. 2).
In questo momento è più facile pensare a come difendersi da un terremoto, piuttosto
che prevedere quando e dove possa avvenire e con quale intensità.
Gli studi che effettuano i geologi sono quindi per PREVENIRE e non per PREVEDERE.
Il terremoto de L’Aquila diventerà il tema di base per centinaia di pubblicazioni scientifiche... tutto ciò deve diventare materiale per l’educazione ambientale geologica e deve essere recepito dal legislatore affinché dalla tragedia possano nascere norme e leggi che aiutino a far bene una PIANIFICAZIONE TERRITORIALE, con uno spirito interdisciplinare in cui i geologi preparati e motivati possano dire la loro, certi di poter
essere ascoltati e non derisi.
Per l’ennesima volta, come dopo ogni tragedia del genere, si scopre che la gente non
sa che esistono studi geologici; la gente non sa che esistono ricercatori e professioni-
105
Un primo bilancio sul terremoto
Antonio Perrotti
Fig 2- Onna vista dall’alto oggi: a sinistra la parte distrutta dall’evento sismico, a destra le case ricostruite.
Si ringrazia il Corpo Forestale dello Stato per la foto ed in particolare il Nucleo Elicotteri di Pescara.
sti che operano diligentemente nell’ottica della PREVENZIONE.
Conoscere oggi significa che la geologia oggi non è più la Cenerentola delle scienze...
la geologia oggi è pronta ad aiutare a legiferare bene oppure a far conoscere e rispettare le leggi che già esistono. “Usando” opportunamente un geologo si può conoscere bene il territorio, si può fare una diagnosi accurata e individuare la cura migliore per il nostro futuro. Curare e pianificare sono gli obiettivi dei geologi e dei ricercatori delle Scienze della Terra. Oggi esistono tante specializzazioni geologiche, tante quante le specializzazioni mediche, e tutte concorrono ad un unico obiettivo: migliorare la qualità della vita dell’uomo.
La gente della regione abruzzese deve sapere che i terremoti sono un fenomeno naturale, non dipendente dall’uomo, con il quale, in un’area come quella del Centro Abruzzo, bisogna convivere.
L’UNESCO ha dichiarato il triennio 2007-2009 Anno Internazionale del Pianeta Terra
e nell’art. 1 dice di “Ridurre per la società i fattori di rischio naturali ed antropici”.
Pochi o nessuno hanno divulgato questo.
Prevenire si può e si deve.
106
A un anno e mezzo dal sisma stanno venendo fuori tutti i problemi nella loro
reale complessità.
Va innanzitutto evidenziata l’inadeguatezza delle soluzioni adottate nella
fase di emergenza .
Già la Legge iniziale mentre ha delineato la (lungimirante) soluzione FINTECNA società finanziario-immobiliare per l’acquisizione-recupero di patrimonio immobiliare privato, non ha
voluto riconoscere in analogia agli altri terremoti un rinvio di almeno 5 anni delle tasse e il rimborso al 100 % dei
danni per qualsiasi tipologia di proprietà.
Le stesse soluzioni praticate nella fase
di emergenza hanno imposto, per i piccoli comuni, nuovi villaggi MAP (sostitutivi!) e, per L’Aquila, un Piano C.
A. S. E. (per 4. 500 alloggi) sottodimensionato, sperequante e costoso (per
solo il 30 % delle famiglie - circa 13.
000 - con alloggi “E” a più lungo tempo di rientro).
Particolarmente devastante nel comune di L’aquila è stata anche la scelta
dell’A. C. di consentire per 36 mesi (al
momento!) interventi in precario (baracche) dovunque e comunque con la
conseguenza, oggi evidente, di aver
aperto una falla difficilmente riconducibile a norma e ordine urbanistico e
di aver causato un conseguente degrado-consumo di territorio. Siamo infatti ormai, nel comune di L’Aquila, (tra
C. A. S. E., MAP. MUSP, e baracche
Prefettura a L’Aquila
S. Pietro a L’Aquila
Piazzale Paoli a L’Aquila
107
Villa Sat’Angelo
Villa Sant’Angelo
Hotel Duca degli Abruzzi a
L’Aquila
108
varie), a circa 300 ha di insediamenti
realizzati in contrasto con la pianificazione previdente e a danno del suolo agricolo.
Con la reiterazione a inizio anno 2010
del “commissariamento” a Chiodi-Cialente-Fontana, sono poi sopravvenute
linee ed indirizzi “dilatori e fuorvianti”, tesi ad imporre defatiganti (quando non inutili!) fasi di pianificazione,
(dal Piano Strategico a quello di Ricostruzione), fino alla soluzione obbligatoria dei comparti-aggregati con annesso Statuto-tipo. A tale riguardo, infatti, è bene sottolineare che non è stata delineata nessuna copertura finanziaria per i piani e che, a tutt’oggi, è rimasto inevaso il problema del superamento dei limiti di rimborso per la sola “prima casa del residente”, che rende inutile ed impraticabile tutta la filosofia degli aggregati (vogliamo qui ricordare che nei comparti del C. S. di
L’Aquila le case principali sono poche,
mentre nel resto dei centri storici del
cratere, ci troviamo di fronte ad un patrimonio edilizio esistente appartenente a emigrati, turisti di ritorno, o senza referenti per mancate divisioni e successioni).
A questo magma gestionale e programmatico, mentre nei piccoli centri
alcuni Sindaci provano a riproporre anacronistiche visioni impiantistico-ricettive al servizio del turismo e, di contro,
la situazione langue e si affacciano i
fantasmi dell’abbandono, nel comune
di L’Aquila (ormai... terra di conquista!), si vanno aggiungendo nuove operazioni immobiliari per nuovi capannoni industriali per 16 ha, nuove strut-
ture ricettive universitarie per 62 ha, altre strutture
direzionali a Piazza D’Armi e, (addirittura!), a Parco di Sole.
Con l’ultima ordinanza viene aggiunto un nuovo
Commissario fiduciario del mondo immobiliare ecclesiastico, Cicchetti già noto a questa città per gli
sperperi fatti per “la Perdonanza” e soprattutto vengono delineate ulteriori espansioni MAP/MAR per
circa 20 ha in zone irrigue o alluvionali.
Un vero e proprio “assalto alla diligenza” che avrà
nella variante per le “zone bianche” un ulteriore colpo letale per la qualità dell’abitare e per la tutela del
suolo; infatti tutte queste zone destinate nel PRG vigente ad uso pubblico (verde, servizi e attrezzatu- Villa Sant’Angelo
re), preordinate all’esproprio e a vincolo decaduto,
devono essere rinormate... “possibilmente - dice la
partitocrazia! - a residenziale con un indice che va da 0,20 a 0,40 mq/mq di SU”.
Alcuni autorevoli personaggi di Giunta e Consiglio si sono da tempo spesi per tale ipotesi e, ignorando le stesse esigenze (evidenziate dal terremoto) di aree libere preordinate ad un più aggiornato ed esteso Piano per l’Emergenza, vogliono riproporre tale sconsiderato atto con la conseguenza di contaminare almeno altri 1.
120 ha di aree libere interne all’abitato consolidato.
Anche in campo energetico nel cratere si vanno addensando campi eolici e almeno due/tre centrali “bio”, senza che alcuno si preoccupi di verificarne praticabilità economica, bacino di rifornimento per le biomasse e eventuali interrelazioni negative aggiuntive.
Bisogna arrestare questo processo di proliferazione di inziative estemporanee portandole a Valutazione Ambientale Strategica e inibirne gli effetti aggiuntivi correlati che nel loro insieme possono produrre sulla piana agricola aquilana e più in
generale sulle aree del cratere.
In tale ottica è ormai improrogabile che la Regione, superando l’illegittima fase
di commissariamento, si riappropri dei compiti di coordinamento della ricostruzione e adotti un Progetto Speciale regionale per le aree del cratere che dia indicazioni produttive, direzionali e infrastrutturali e che delinei un vero e proprio Piano Pluriennale di Attuazione supportato economicamente capace di dare certezze
ai comuni e ai cittadini.
Va altresì superata l’attuale pletora di momenti di verifica (CINEAS; RELUISS;
FINTECNA; Comuni; Genio Civile; Sovrintendenza) che ha portato a tempi lunghissimi di istruttoria, per istituire “uno Sportello Unico” che verifichi e valuti
contestualmente e in 60/90 giorni tutte le istanze di ricostruzione.
27 settembre 2010.
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Lo zafferano dell’Aquila
Fernando Tammaro
Lo zafferano è conosciuto da millenni in alcune zone del Mediterraneo e dell’Asia per
i suoi stimmi scarlatti utilizzati per le qualità medicinali, aromatiche e coloranti. È infatti raffigurato in papiri egiziani del 2° secolo a. C. ed in pitture parietali - il raccoglitore di zafferano - del palazzo minoico di Cnosso, a Creta (circa 1600 a. C.), citato nell’Iliade (IX e XII libro), riportato nella Bibbia fra le piante aromatiche e profumate, nel
Cantico dei Cantici, IV, 14. Anche per il Kashmiri (India) le segnalazioni della coltivazione dello zafferano risalgono al V secolo a. C. (Forbes, 1961; Madam et al., 1966;
Basker et Negbi, 1983; Moazzo, 1983; Stearn, 1983). Numerosi sono le citazioni e gli
usi nel mondo romano, medioevale e rinascimentale (Tammaro, 1987).
Lo stesso nome scientifico Crocus deriva dal greco Krokos, cioè filo dei tessitori, in riferimento alla lunghezza degli stimmi, mentre il nome volgare nelle principali lingue
europee (zafferano, saffron, azafran, safran, zafoura) deriverebbe dall’arabo zaafaran
derivato dal persiano sahafaran e cioè da asfar che significa giallo.
Lo zafferano (Crocus sativus L., Iridaceae) è una pianta alta circa 15 cm., che supera
l’avversa stagione - il periodo caldo-arido dell’estate - perdendo totalmente le foglie e
conservandosi unicamente come sotterraneo in forma di bulbo-tubero (geofita bulbotuberosa).
Il suo centro di origine è ignoto. Tenendo conto della distribuzione attuale delle entità
affini a Crocus sativus ritengo possa essere stato il territorio compreso fra il Medio
Oriente, Asia Minore, Creta e la Grecia Orientale meridionale insulare.
La pianta non esiste allo stato spontaneo, è incapace di produrre frutti e semi, essendo
uno sterile triploide con 2n=24 (Matthew, 1977). La sua diffusione avviene solo con la
coltivazione.
Essa pertanto non costituisce una specie biologica, il cui concetto è in riferimento alla
possibilità di interfecondità e fertilità da parte delle popolazioni, ma una specie tassonomica, cioè un complesso di popolazioni, riconoscibili con appropriato nome scientifico per un insieme di caratteri.
Origini
Vi sono differenti ipotesi circa l’origine dello zafferano.
Ibridazione: lo zafferano potrebbe essere derivato dall’incrocio in natura fra Crocus
cartwrighitianus Herbert (syn. C. graecus Chapp.), pianta fertile a 2n=16 (mathew,
1977), la cui attuale distribuzione abbraccia la Grecia meridionale ed insulare, con C.
oreocreticus pianta endemica delle montagne di Creta. Taluni autori non concordano
con tale ipotesi poiché C. oreocreticus sarebbe solo una forma montana di C. cartwrightianus.
Noi ipotizziamo, in base agli areali che l’ibridazione naturale possa essere avvenuta fra
Crocus cartwrightianus e C. Pallasii, essendo gli areali in parte sovrapposti e coinci-
110
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denti, o fra Crocus pallasii e C. thomasii
Ten., specie questa strettamente affine a C.
sativus L., tanto da essere ritenuta dagli antichi sistematici (Fiori, 1929) una varietà
(fertile) di C. sativus L. Questo taxon ha un
areale (Paradies, 1957) che si estende dall’Italia meridionale (da Bari alla Calabria)
fino alla Penisola Balcanica Meridionale,
ed è assai prossimo, nella porzione più meridionale, a quello di Crocus pallasii.
Il fiore di zafferano (Crocus sativus)
Il prodotto dell’incrocio - C. sativus L. - ha
acquisito dimensioni di gigantismo sia nelle parti vegetative (foglie, bulbi, asse fiorale, brattee) che fiorali (stami, stimma, tepali), di molto superiori rispetto a quelle di altri Crocus.
Vi sono autori che ipotizzano l’origine dello zafferano per effetto di una selezione
colturale dalle piante spontanee di Crocus cartwrightianus (Mathew, 1983) operata
dall’uomo.
Vi è infine chi ritiene (Chicchiriccò, in press) che lo zafferano sia derivato per un processo di autopoliploidia (triploidia) da specie affini, probabilmente da C. thomasii
(2n=16) per la notevole affinità, nelle varie fasi dello sviluppo embriologico, con C. sativus, o anche da C. cartwrightianus (2n=16).
C sativus L. essendo sterile triploide si riproduce solo per via vegetativa, questa funzione è favorita dalla coltivazione. L’uomo intervenendo periodicamente evita il graduale rimpicciolimento dei bulbi lasciati per lungo tempo nel terreno e con le concimazioni li riporta alle “normali” dimensioni. L a propagazione è avvenuta da secoli ed
avviene per via clonale: le piante di zafferano di differente provenienza, asiatica o mediterranea, manifestano caratteristiche biologiche omogenee, stabili e comuni (morfologia floreale e fogliare, corredo cromosomico ecc.); esse appartengono pertanto ad
un’entità tassonomica e cioè a Crocus sativus L. (Brighton, 1977). Si riscontra invece
una apprezzabile diversità fra piante di differente provenienza.
La coltura annuale è pertanto da ritenere il
risultato plurisecolare di una strategia messa in atto dall’uomo per far sopravvivere
lo zafferano in un ambiente per tale entità
mediterraneo-subdesertica.
Probabilmente se lo zafferano fosse stata
una pianta spontanea non avrebbe mai potuto radicare coi mezzi naturali nell’aquilano. In conclusione lo zafferano italiano
cioè lo zafferano di Navelli prospera in zone non aride, ma temperato fresche. Queste condizioni sono del tutto dissimili da
quelle di altre zone a zafferano del Mediterraneo.
Come vuole la tradizione (Piccioli, 1932)
fu un frate di Navelli, di ritorno dalla Spagna, che modificò nel secolo XV le pratiche coltuali spagnole adattandole al clima
ed al suolo del suo paese. In particolare,
specifico adattamento a Navelli fu di sviluppare la coltura di un ciclo annuale. Ogni
anno i bulbi-tuberi a Navelli vengono cavati dal terreno all’inizio dell’estate e reimpiantati a fine agosto, dopo essere stati selezionati sia in ordine alle dimensioni che
ad eventuali altri fatti (marciume, parassi- Il fiore di zafferano (Crocus sativus e stimmi)
ti, virosi, ecc.). Tale ininterrotta selezione
ha determinato il reimpianto delle sole piante migliori e perciò la conservazione dei migliori caratteri morfologici e fitochimici. Da ciò deriva che il materiale aquilano risulta il più selezionato nel mondo e perciò massimamente pregiato.
Lo zafferano di Navelli: la coltivazione
La coltura dello zafferano di Navelli si trova in un territorio atipico e quasi limite tenendo conto delle caratteristiche bio-ecologiche della pianta. Le coltivazioni aquilane
ricadono infatti in un territorio submontano (le colture sono impiantate fra 650-1100
m), il più elevato dell’area mediterranea ove si coltiva lo zafferano, con piovosità annua di circa 700 mm e precipitazioni anche in estate (oltre 40 mm). Per circa tre mesi
e mezzo le medie minime mostrano valori negativi (da dicembre a gennaio), da ottobre
a maggio si possono avere minimi assoluti negativi. L’innevamento può durare 30 giorni. Lo zafferano di Navelli sopporta senza danno le basse temperature invernali. Possono nuocere le nevicate precoci soprattutto se è in fioritura. I fiori gelano e si decompongono ed il bulbo-tubero si spacca e marcisce.
Principali pratiche agrarie
La coltivazione richiede una lavorazione profonda di circa 30 cm mediante aratura nei mesi precedenti l’impianto dei bulbi-tuberi. La concimazione avviene interrando letame ovino o bovino ben maturo. Il terreno è suddiviso in aiuole. L’aiuola si prepara aprendo con apposita zappa a punta, quattro solchi paralleli a 2 a 2,
profondi circa 10 cm, distanti 10-15 cm. I bulbi sono poggiati o leggermente infissi con la punta verso l’alto, in genere a contatto tra loro. Il bulbo viene rincalzato con la terra che si apre dal solco vicino. Ogni 4 file costituiscono una aiuola,
denominata rasa; ciascuna è larga circa 80 cm, leggermente sopraelevata di 10-15
cm, lunga circa 50 m.
Da giugno a luglio i bulbo-tuberi vengono cavati dal terreno con zappa o mezzo mec-
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canico, trasportati a casa e conservati in sacchi di canapa. Prima di essere riseminati sono distesi su teli e singolarmente esaminati e scelti.
A Navelli i bulbi-tuberi non subiscono trattamenti di disinfestazione e non sono effettuate irrigazioni.
La fioritura avviene in autunno, circa 40 giorni dopo l’impianto, e si prolunga per circa
tre settimane, da metà ottobre al 7-10 novembre. Durante il periodo antesico si è notato
(Tammaro, 1982) che la maggior concentrazione fiorale - oltre il 60% di piante fiorite contemporaneamente - si ha nell’ultima decade di ottobre. È il periodo che gli Spagnoli indicano come “giorni del manto”, quando cioè si verifica la massima esplosione antesica,
ed il paesaggio agrario rimane abbellito come se avesse indossato un manto floreale.
La raccolta del fiore è manuale. Il raccoglitore avanza nello stradello dell’aiuola raccogliendo nelle due fila si sinistra e destra alternativamente. Il fiore viene colto stringendolo tra pollice ed indice di una mano e reciso con l’unghia. I fiori recisi vengono
raccolti in canestri di vimini per evitare il loro pressamento. I cesti, portati a casa, sono
svuotati su tavole di legno e prontamente, nella stessa mattinata, inizia l’azione di “mondatura”, cioè l’apertura del fiore e la separazione degli stimmi dalle altre parti florali. I
fiori vengono raccolti al mattino presto, a fiore ancora chiuso a tubulo, prima che si
aprano le corolle. In questo stato il fiore si raccoglie più rapidamente e successivamente
si riesce ad aprire con maggiore facilità e velocità per staccarne gli stimmi.
La produzione dei fiori a Navelli dipende soprattutto dalle condizioni climatiche stagionali e dall’attacco dei parassiti. Da un ettaro di zafferano si ottengono 40-50 qli di
fiori freschi. Per ogni kg di stimmi freschi occorrono circa 75 kg di fiori recisi.
Dopo la “sfioratura” o “mondatura” gli stimmi vengono sistemati in un setaccio ben stesi e messi ad asciugare sopra la brace viva di legna di quercia roverella, a circa 20 cm di
distanza. Il setaccio è collegato da tre corde ad un unico punto di sostegno e può essere
facilmente fatto ruotare. In tal modo la tostatura è uniforme. Con l’essiccazione alla brace lo zafferano conserva il colore rosso porpora, fragranza ed aroma.
Usi
Lo zafferano ha perso molti degli usi che ebbe nella medicina del passato fino al secolo scorso, quale abortivo, stimolatore di appetito, sedativo della tosse, analgesico dentale e per molti altri usi medicinali. Nel mondo classico veniva anche usato come profumo e nelle cerimonie religiose o celebrative. Lo zafferano fu anche usato come colorante per veli, fili di ricamo, vetri e ceramiche.
Attualmente è considerato un’importante fonte di vit. B2 con circa 100 gamma per g di
stimmi secchi. Sembra inoltre che la crocetina abbia effetti nella cura dell’arteriosclerosi e delle malattie cardiovascolari.
I principali usi attuali sono nell’industria liquoristica (aperitivi, fernet, vermouth) e dolciaria per le qualità coloranti ed aromatizzanti dei principi attivi. Nell’industria alimentare ed in cucina ha uso quale colorante di paste alimentari, formaggi e per la preparazione di piatti tipici (risotto alla milanese, paella valenciana, ecc.).
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Diversità floristica e vegetazionale sul Gran Sasso e sui
Monti della Laga
Fernando Tammaro
Torrioni rocciosi, Corno Grande, Vetta Orientale del Gran Sasso
Riassunto: il Gran Sasso ed in minor misura i Monti della Laga si caratterizzano per il
cospicuo contingente di entità relitte del glacialismo quaternario, alpine e circumboreali. Numerose sono anche le orofite endemiche, le S e le SE europee, non poche delle quali a distribuzione illirico-appenninica (anfiadriatiche) e le mediterraneo-montane.
Parole chiave: diversità floristica, orofite, Appennino centrale, montagne, Abruzzo,
Italia.
Introduzione
Il Parco del Gran Sasso-Monti della Laga è costituito da due imponenti massicci montuosi appenninici. Il Gran Sasso è esteso da da Passo delle Capanelle (1300 m, a Nord)
alle Gole di Popoli (250 m, a Sud); i Monti della Laga si protraggono a Nord di Passo
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delle Capanelle attraverso il lago di Campotosto, fino ai territori sovrastanti Amatrice
(Rieti) ed Acquasanta Terme (Ascoli Piceno). Geograficamente il Parco è compreso
perciò per larga parte nel settore nord-occidentale della Regione abruzzese con propaggini che rientrano in territorio marchigiano e laziale.
Amministrativamente interessa 3 Regioni (Abruzzo, Lazio, Marche) e 4 Province
(L’Aquila, Teramo, Rieti, Ascoli Piceno). E copre una superficie di 148.935 ha, di
cui 125. 151 nella Regione Abruzzo. I due complessi montuosi che costituiscono il
territorio del Parco Nazionale del Gran Sasso-Laga risultano notevolmente diversi
tra loro per substrato geologico, struttura e morfologia, ed in parte anche per le componenti biologiche vegetali.
Il Massiccio del Gran Sasso
Il Gran Sasso, massiccio montuoso che annovera la vetta più elevata degli Appennini
(Corno Grande, 2.912 m) nel settore settentrionale si caratterizza per le pareti precipiti, i paesaggi alpestri, le conche glaciali e le
morene, con evidenti aspetti di paesaggio di
montagna alpina, dove gli allineamenti montuosi delimitano splendide valli a morfologia glaciale: Campo Pericoli, Venacquaro e
Doline di Campo Imperatore, Gran Sasso
Chiarino.
Tra i due versanti del massiccio vi sono differenze notevoli sia dal punto di vista climatico che floristico-vegetazionale. Nel versante rivolto a Nord-Est si registra una maggiore piovosità. La vegetazione prevalente
è del tipo suboceanico, con dense faggete. Alle quote più basse di questo versante prevalgono molasse ed argille. Al contrario, il versante orientale e meridionale appare spoglio di boschi e con vaste praterie aride, sia per la minore quantità di precipitazioni che
per il substrato calcareo, maggiormente permeabile. Il clima presenta caratteri più spiccatamente continentali. Il versante settentrionale racchiude bellissime valli boscose e
fresche (Valle del Chiarino, Valle del Venacquaro, Val Maone), con dense faggete e vegetazioni erbacee microtermiche (seslerieto appenninico, festuceto dimorfo). Oltre il limite del bosco, sul versante Nord, sottostanti le cime, si osservano relitte brughiere a
mirtillo nero (Vaccinium myrtillus), su suoli decalcificati e a reazione acida. I vaccinieti
sono localizzati soprattutto sulle pendici di M.te San Franco, M.te Ienca, M.te Tremoggia
e soprattutto M.te Corvo.
Sotto la vetta del Corno Grande si trova, anche se in fase di sempre più accentuata regressione, il Ghiacciaio del Calderone, l’unico dell’Appennino, relitto della glaciazione wurmiana. Nel versante meridionale prevalgono nelle vaste praterie xeriche le piante steppico-continentali; tra queste le conche dei dintorni di Santo Stefano di Sessanio,
di Barisciano, di Castel del Monte sono quelle più caratteristiche.
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LE DIVERSITÀ DI SPECIE SUL GRAN SASSO
Manca uno studio di sintesi, ma verosimilmente sono circa 1500-1600 le entità floristiche di questo territorio. Almeno 300-350 sono alberi ed arbusti.
Le principali categorie corologiche sono:
A - Piante mediterranee e relitti xerici
Le piante mediterranee si rinvengono nelle zone basali ed assommano a circa il 25%
della flora totale del massiccio. Gli elementi xerici e steppici sono accantonati in conche interne aride. Sono relittuali di periodi interglaciali, secchi e caldi. Esempi di specie mediterranee: Matthiola fruticulosa (Conca di Capestrano, Conca Aquilana, Marsica); di piante steppico-continentali: Stipa Capillata.
B - Piante boreali ed alpine
Provenienti dalle Alpi o da zone boreali ancora più settentrionali nel corso delle glaciazioni quaternarie, al ritiro dei ghiacciai le piante sopravvissute si sono rifugiate nei
settori più elevati del massiccio. Rimaste isolate geograficamente, si sono conservate
come relitti (Dryas octopetala, Vaccinium myrtillus, Juniperus communis subsp. alpina, Gentiana nivalis, Silene acaulis, ecc.) o si sono differenziate in entità endemiche,
spesso di valore geografico locale (razze geografiche) (es., Matthiola italica da M. valesiaca gr.; Viola magellensis da Viola cenisia; Vitaliana primuliflora subsp. praetutiana, ecc.)
Gli elementi nordici assommano a circa il 10% della flora totale del massiccio. Ricordiamo, oltre quelli già citati, il ginepro sabino (Juniperus sabina), il salice erbaceo (Salix herbacea), l’anemone di montagna (Anemone narcissiflora), la carice rupestre (Carex rupestris), il giunco trifido (Juncus trifidus).
C - Piante europeo-orientali ed asiatiche
Di particolare interesse sono le specie appennino-balcaniche, la cui distribuzione abbraccia anche territori al di là dell’Adriatico. Nella flora del Gran Sasso la componente orientale s. l. assomma a circa il 25% (con oltre 350 entità); di esse circa il 5% sono
appenninico-illiriche.
Appartengono a tale contingente sia piante di altitudine (Leontopodium alpinum subsp.
nivale, Gentiana dinarica, Aster alpinus subsp. cylleneus) che delle conche interne
collinari e submontane (Chamaecytisus spinescens, Ranunculus illyricus, Linum tenuifolium, Dianthus ciliatus, Quercus pubescens, Onosma echioides, ecc.). alcune di
esse sono presenti, relativamente all’Italia, solo in Abruzzo e talvolta in regioni liimitrofe: Aster alpinus subsp. cylleneus; Papaver degenii, Silene parnassia, Gentiana dinarica, ecc.
D - Endemismi
Si tratta di piante esclusive di un territorio, talvolta di una sola località. Sul Gran Sasso
gli endemismi e sub endemismi (di varia ampiezza di areale)sono circa il 6% (oltre 100
entità). Insieme alle piante ornamentali ed ai relitti glaciali gli endemismi sono gli elementi floristici di maggiore importanza scientifica della Flora abruzzese.
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L’abetina di Fonte Vetica è un bosco di conifere impiantato per adattare sul Gran Sasso alcune specie
forestali delle Alpi. Sovrasta l’erta emergenza di Monte Camicia, che nel versante Teramano (Adriatico) sviluppa pareti a picco di centinaia di metri, conferendo al paesaggio un aspetto dolomitico.
Macchia grande di Assergi, siepi e querceto
GENERI PIÙ RAPPRESENTATI
È interessante sottolineare che nella Flora del Gran sasso i generi più riccamente rappresentati sono, oltre quelli tipicamente nordici ed alpini [Gen. Alchemilla (9 specie),
Gentiana (12 specie), Saxifraga (18 specie), Androsace (4 specie), Dryas, Vaccinium,
Juncus, Adoxa, ecc.], soprattutto quelli steppico-continentali [Astragalus/Oxytropis con
Astragalus sesameus, A. depressus, A. australis, A. danicus, A. glycyphyllos, A. vesicarius, A. aquilanus, Oxytropis campestris, O. pilosa; Anthemis (7specie), Achillea (10
specie), Gen. Bromus (14 specie), Gen. Linum (10 specie), tra cui L. capitatum subsp.
serrulatum, L. viscosum, L. hirsutum, L tommasinii; Gen. Euphorbia con 9 specie tra
cui E. samnitica, E. myrsinités, E. Nicaeensis All. subsp. japygica, Gen. Stipa con 5
specie, tra cui S. capillata, S. dasyvaginata subsp. apenninicola, S. pennata subsp. eriocaulis, S. martinovskyi].
PIANTE DI MAGGIORE INTERESSE E RARE SUL GRAN SASSO
Tra le piante del Gran Sasso, di più particolare interesse sono gli endemismi puntiformi, le piante cioè tipiche ed esclusive del massiccio.
a) Goniolimon italicum (Pulmbaginaceae), pianta dei pascoli parasteppici delle valli
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interne dell’Abruzzo (Valle di Capestrano, Valle dell’Aterno), sistematicamente vicina
a piante congeneri delle steppe rumene ed ucraine.
b) Astragalus aquilanus (Leguminosae), pianta dedicata alla città dell’Aquila nelle cui
vicinanze è stata per la prima volta rinvenuta in pascoli aridi.
c) Matthiola italica (Cruciferae), endemismo delle alte quote dei principali monti abruzzesi, con una variante geografica anche in Dalmazia, sistematicamente collegata con
specie affini del Vallese e della Carnia.
d) Carex flacca Schreber subsp. praetutiana (Cyperaceae), pianta delle piccole torbiere montane abruzzesi, dedicata dall’illustre botanico di Firenze, F. Parlatore, all’antico
popolo italico dei Pretuzi, abitanti l’attuale territorio di Teramo, essendo per la prima
volta rinvenuta nei Monti della Laga teramana. Tale entità è vicariante nell’Appennino
abruzzese di Carex flacca Schreber subsp. claviformis (Hoppe) Br.-Bl., rinvenibile in
analoghi ambienti umidi delle Alpi.
e) Gentiana majellensis (Gentianaceae), sistematicamente affine a genziane dei Carpazi e delle Alpi, propria delle praterie di vetta delle montagne abruzzesi.
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f) Stipa martinovskyi (Graminaceae), scoperta sui costoni assolati basali del Gran Sasso, presso Pizzoli, S. Vittorino (AQ) e zone limitrofe.
PIANTE RARE DELLA FLORA ITALIANA PRESENTI SUL GRAN SASSO
Un interessante gruppo di piante abruzzesi è costituito da entità rare per la Flora italiana; alcune sono solo di località abruzzesi. Tra esse ricordiamo:
Orlaya daucorlaya, presente in ambienti incolti e margini di strade dei dintorni de L’Aquila e presso Salle e Caramanico, nella Valle dell’Orte;
Ranunculus marsicus, sui pascoli acquitrinosi di Scanno, Roccaraso, Piano di Fugno di
Paganica e Piana di Voltigno;
Erigeron epiroticus, sulle pietraie di vetta dei principali monti abruzzesi e del Vettore
(Marche).
IL GRAN SASSO E LE PIANTE MEDICINALI
Sul Gran Sasso si è mantenuto un ricco patrimonio di usi fitoterapici ed una notevole
ricchezza di piante medicinali (Tammaro, 1976). Alcuni usi di piante sono strettamente localizzati e tipici di alcune valli dell’Aquilano e del Gran Sasso teramano. Alcuni
settori del Gran Sasso orientale (Farindola e dintorni) abbondano di piante officinali. Si
rinvengono sia piante mediterranee (nelle zone basali, quali issopo, marrobio, elicriso,
ononide, assenzio, rosa canina, ecc.) che montane (nelle zone più elevate, quali genziana maggiore, ginepro comune, belladonna, iperico, colchico, uva orsina, genepì appenninico). Anche le zone umide (Capo d’Acqua) sono habitat ricchi di piante officinali quali equiseti, valeriana, dulcamara, ulmaria, ecc.
Geografia del gusto. La filiera del latte e dei formaggi ovini*
Armando Montanari - Università di Roma “La Sapienza”
Numerosi sono i cambiamenti che hanno interessato il rapporto tra il consumatore e il
cibo, intervenuti nell’ultimo ventennio. Alcuni di questi sono stati attivati dall’evoluzione metodologica, che ha interessato alcune discipline come la storia, l’economia politica e le scienze sociali. Si è, infatti, avuta una maggiore attenzione nei confronti di
tutti gli aspetti della vita materiale, delle catene produttive, delle reti di prodotto, dello
sviluppo locale, ed infine nella qualità piuttosto che nella quantità, anche come risultato di una maggiore attenzione verso i consumi tipici di una società articolata e complessa come la nostra. Una società sempre più in movimento è naturalmente interessata ai cibi ’esotici’, prima assaggiati nei paesi di produzione e poi resi disponibili nel supermercato sottocasa. Di queste nuove tendenze si sono accorti ben presto anche i media, che hanno cominciato a inserire nei giornali, nei programmi televisivi e nei film tematiche relative ai cibi, alla loro preparazione e al loro consumo. L’attenzione verso il
cibo è divenuta anche preoccupazione nevrotica, quando l’internazionalizzazione delle produzioni e dei consumi alimentari ha lasciato spazio a truffe e a manipolazioni pericolose per la salute dei cittadini. Il mondo contemporaneo si trova di fronte ai dilemmi di una società del benessere, che nei paesi industrializzati rischia la salute per gli eccessi di cibo e nei paesi in via di sviluppo soffre la fame e la malnutrizione. Due geografi britannici, Atkins e Bowler (2001), hanno identificato, a partire dagli anni Ottanta, un terzo régime alimentare, che è il risultato delle crisi economiche degli anni Settanta, della crescita dei flussi commerciali, dall’insorgenza di multinazionali nel settore agroalimentare, e dei cambiamenti nei rapporti di forza e nei diversi ruoli assunti dalle grandi potenze economiche, tanto da far prevedere per il prossimo futuro una vera e
propria rivoluzione che interesserà il cibo, la nutrizione e le politiche agricole (Lang T.,
Heasman M., 2004).
La geografia del gusto
In questo complesso di approcci interdisciplinari il geografo ha provato ad inserire la
componente del territorio. Alla territorializzazione del cibo hanno certo contribuito gli
eccessi di globalizzazione e le conseguenze negative per la salute umana generate da
alimenti prodotti con i metodi dell’industrializzazione avanzata. Proprio negli Stati Uniti, inoltre, dove le grandi catene di fast food si vantavano di servire milioni di pasti al
giorno si è ormai da tempo sviluppata una tendenza salutista che, sebbene ancora minoritaria, ha contribuito a formare una nuova cultura del cibo. Negli anni novanta alcuni studiosi, per esempio i geografi Shortridge e Shortridge (1998), hanno utilizzato
per la prima volta il concetto di gusto in relazione ad un luogo, e quindi alla geografia,
*Articolo pubblicato sulla Rivista “L’Universo”, edizione dell’Istituto Geografico Militare n. 4
luglio-agosto 2009 - Tutti i diritti riservati - Autorizzazione prot. n. 6595 del 09/09/2010.
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come espressione di cibo regionale o etnico. Il ‘cibo locale’ si era perduto, come prodotto e come cultura, spazzato via dagli effetti indesiderabili della globalizzazione dell’alimentazione, e invece andava ricercato, studiato, riportato alla luce come contributo alla cultura, ma, anche e soprattutto, alla salute del cittadino. Sulla base di analoghe
considerazioni, negli anni Novanta erano stati sviluppati, in Italia e in Europa, marchi
di qualità, in cui il territorio e la geografia assumevano un ruolo rilevante nella definizione ed operatività dei prodotti alimentari (Papotti D., 2007).
La geografia ‘ufficiale’ ha invece usato per la prima volta il termine ‘geografia del gusto’ in occasione del 29o Congresso Mondiale della UGI, che nell’anno 2000 si è tenuto in Corea del Sud: il tema scelto, Living in diversity, faceva riferimento alla necessità di assumere la diversità come riferimento di sviluppo per il nuovo secolo, da contrapporre all’omologazione, che era stata imposta dai processi di internazionalizzazione del secolo appena concluso. La geografia per definizione studia le relazioni e le differenze tra luoghi diversi. La ‘diversità’ contribuisce alla stabilità del sistema ambientale, sociale ed economico e, quindi, è essenziale per lo sviluppo sostenibile. La ‘diversità’ mette in evidenza e promuove le caratteristiche specifiche di ciascuna società,
aiuta le diverse società a svilupparsi, poiché lo sviluppo è facilitato dalla presenza di
elementi che interagiscono tra le culture. La ‘diversità’ amplia le capacità della società
a svolgere attività creative, in quanto la creatività meglio si sviluppa in una società che
cresce e pensa sulla base delle proprie caratteristiche culturali e, quindi, non dipende da
una cultura dominante. Il Comitato promotore del Congresso ebbe il merito di chiedere a Jean-Robert Pitte di presentare, durante la sessione plenaria, una riflessione sull’alimentazione e la qualità del cibo applicati al tema della diversità. Pitte era già assai noto per i suoi studi sulle dimensioni sensibili della realtà geografica, quindi i paesaggi, i
sapori (Pitte J. R.,1991; 2004), gli odori (Dulau R., Pitte J. R.,1998), che poi gli hanno
valso l’elezione nel 2003 a Rettore della Università Sorbonne. Intorno al lavoro di Pitte, e sulla base di ulteriori incontri e discussioni promossi nell’ambito della IGU e della Società Geografica Italiana, sono stati raccolti altri contributi, in cui la diversità è stata considerata non solo in termini geografici, ma anche dal punto di vista di altre discipline come la sociologia, l’economia, la storia, la geologia e la chimica dell’alimentazione (Montanari A., 2002). Secondo Pitte (2002) l’uomo, al contrario degli altri esseri viventi, non si ciba unicamente per una necessità biologica, ma lo fa per conoscere e
quindi per migliorare le proprie condizioni economiche, sociali e culturali. Per soddisfare questo stimolo di conoscenza è anche disposto a viaggiare e a migrare. Per Pitte
la ‘geografia del gusto’ si deve intendere come studio della ‘diversità geografica del gusto’, al fine di recuperare quelle diversità che sono state banalizzate dai processi di globalizzazione e che, sebbene desiderate, si riescono a recuperare solo con grande difficoltà. In uno studio promosso nel 2004 dalla Università dello Iowa si ritorna a far riferimento alla geografia del gusto, per auspicare la produzione di determinati prodotti
esclusivamente da parte di quelle aree che ne sono naturalmente e culturalmente vocate. In questo modo i produttori potrebbero meglio controllare la quantità e la qualità del
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prodotto che viene immesso sul mercato e,
quindi, garantirne il marchio: per ’geografia
del gusto’ si intende quindi il territorio che
è in grado di produrre al meglio un determinato prodotto enogastronomico di qualità (Pirog R., Paskiet Z., 2004).
La geografia del gusto cui si fa riferimento
in questo saggio, prevede invece un approccio
metodologico alternativo (Montanari A.,
2002; 2006). Questa geografia ha infatti come oggetto le componenti naturali, culturali, economiche e sociali di quel filo invisibile che lega le varie fasi della produzione
alimentare, dal produttore al consumatore;
il modo in cui sono organizzate le singole
fasi; le misure di prevenzione e controllo che
devono essere introdotte per rassicurare i
consumatori e per creare quei presupposti Figura 1. Allevamento ovino, filiera del gusto.
scientifici che permettano uno sviluppo sostenibile. La filiera dei prodotti gastronomici deve avere un profondo radicamento nel
territorio, quindi deve essere collegata alle risorse naturali e culturali, e costituire un
elemento del suo sviluppo.
Nella figura 1 si fa riferimento alla filiera di produzione del latte e dei formaggi ovini.
Si tratta di una filiera totalmente integrata, in cui un solo produttore decide la scelta delle razze ovine da allevare, in funzione delle risorse naturali e culturali di una determinata area, e sulla base di queste scelte preliminari egli produce latte e formaggi, lana,
carne, cultura, informazione ed anche energia e li fornisce direttamente al consumatore. Si è provato ad indicare la filiera di produzione, differenziando con colori diversi i
luoghi dove queste attività avvengono e, quindi, si collegano con le primitive risorse
naturali e culturali.
Il gusto della geografia
Con queste modalità la geografia del formaggio ovino di qualità costituisce per il consumatore avvertito l’oggetto di ciò che Urry (1990) definisce gaze. Prima ancora di visitarlo il consumatore è attratto da quel territorio, da ciò la definizione di gusto della
geografia. Le fasi di produzione sono inserite nell’ambiente e nella cultura del luogo,
si arricchiscono di quel fascino e di quella poesia che rende la visita una esperienza indimenticabile, poiché ripetibile con la mente ogni volta che si sentirà il profumo o si
assaggerà il formaggio di quei luoghi. Il consumatore verifica la qualità, ne certifica di
per sé la denominazione di origine e ne definisce il disciplinare etico. Se esiste una geografia del gusto allora deve esistere anche un gusto della geografia. Il concetto elabo-
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rato nell’ambito della disciplina geografica (Montanari A., Costa N., Staniscia B., 2007)
è stato, in realtà, introdotto da uno storico, Massimo Montanari (2002 e 2004), che lo
usa per spiegare, negando la storia in un apparente controsenso, che archetipi storici
non erano mai esistiti. «Il gusto della geografia non appartiene al passato», poiché l’interesse per la cucina cosiddetta regionale si sviluppa proprio a partire dalle prime fasi
dei processi di industrializzazione. Egli ammette che differenze regionali siano sempre
esistite e, quindi, esalta la geografia, quando afferma che è proprio il concetto di territorio, inteso come dato positivo, ad essere una «invenzione nuova» (Montanari M.,
2004, pp. 114-115). Assolutamente in linea con Calvino (1995), che in un articolo del
1982, allora intitolato “Sapore Sapere”, ci spiega che il vero viaggio implica la necessità di «inghiottire il paese visitato», non solo il cibo o le pratiche della cucina, ma anche «l’uso dei diversi strumenti con cui» si opera per produrre. Immagino che lo scrittore si riferisse alla necessità di assaggiare, «far passare per le labbra e l’esofago», guardare, ma anche toccare, riconoscere il profumo e i suoni, del risultato di una specifica
manualità. Il rapporto biunivoco tra la geografia del gusto e il gusto della geografia si
alimenta della creatività del produttore e della sua capacità di introdurre innovazione,
mentre conserva le peculiarità naturali e culturali del territorio, così come avviene nei
prodotti di quella soft economy descritta da Cianciullo e Realacci (2005). Per meglio
identificare le proprietà positive di questo binomio ‘conservazione - innovazione’ gioverà ricordare che, per attivare il gusto della geografia, bisogna avvicinare almeno tre
condizioni essenziali: la qualità del prodotto enogastronomico, l’innovazione dell’offerta, una efficace comunicazione per promuovere prodotti che sono esclusivi, perché
irripetibili e irriproducibili al di fuori di quel territorio. Il gusto della geografia attiva
nuovi flussi di visitatori e turisti disposti a pagare il giusto - che non è poco - per prodotti di cui riescono a percepire la qualità e, quindi, contribuisce a creare quel valore
aggiunto necessario per assicurare la sopravvivenza dell’impresa, anche nel passaggio
generazionale.
La filiera del latte e dei formaggi ovini
Nella figura 2 è rappresentata una produzione di ‘gusto della geografia’ come viene proposta in un’azienda della Associazione Regionale Produttori Ovi-caprini (ARPO) della Regione Abruzzo. La filiera produttiva è stata immessa sul territorio ed è divenuta
oggetto di attività culturale da parte del produttore, che invita il consumatore a visitare
le pecore, i formaggi, la lana, la carne e i luoghi di produzione dell’energia rinnovabile. Tutte attività strettamente collegate ad un territorio particolarmente prezioso al confine del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise e a poca distanza dai confini del
Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga e del Parco Nazionale della Majella. In particolare nella figura vengono indicati percorsi di turismo enogastronomico
legati all’allevamento della pecora, che sono stati scelti per presentare specifici temi e
programmi. Si tratta di programmi di 3-5 giorni di durata, che invitano a seguire il gregge e a svolgere le normali attività del pastore, a identificare le specie vegetali di cui si
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nutrono le pecore, a partecipare alla mungitura e alla preparazione del formaggi, a seguire i processi di affinatura e stagionatura. Una variabile di questo programma, realizzabile nel
periodo primaverile, prevede
la partecipazione a tosatura, preparazione, lavorazione e coloritura della lana mediate l’uso
di piante tintorie. Questi due
programmi prevedono il pernottamento nelle abitazioni dell’antico centro di Anversa, con Fig. 2 Allevamento ovino. Gusto della Geografia
la formula dell’albergo diffuso, e l’assaggio dei formaggi nell’azienda agrituristica. Vi è anche la possibilità di seguire i pastori per una settimana, dormendo all’addiaccio insieme al gregge, percependo la presenza degli animali selvatici del Parco Nazionale.
Il programma “adotta una pecora”
Tra gli elementi innovativi questa azienda dell’ARPO ha ‘proposto’ di adottare una pecora e, quindi, di mantenerla e di poterne ricevere quanto da questa prodotto in formaggi
e in lana. Il messaggio ha avuto grande successo con un investimento puramente ‘intellettuale’, l’idea innovativa, piuttosto che economico. La spesa per la pubblicità sarebbe stata comunque sproporzionata per l’azienda, troppo costosa ed inutile, perché
avrebbe sollecitato una domanda presumibilmente in quantità tali da non essere facilmente esaudibile per la dimensione di una produzione di
qualità. Il messaggio è stato talmente forte che ha superato i confini regionali e nazionali ed ha prodotto un migliaio
di articoli, sia in Italia sia all’estero, e trasmissioni sulle televisioni di tutto il mondo. L’azienda ha stabilito una filiera per la produzione di salumi di pecora, lane, formazione
diffusa, servizi turistici, assistenza all’affitto di abitazioni
ed, infine, di pecorini di qualità, che hanno vinto i primi
premi nelle principali manifestazioni del settore, tra cui il
recente Biocaseus tenutosi a Pienza nel settembre 2007. La
curiosità suscitata ha richiamato turisti, visitatori, consumatori, ma anche giovani provenienti da tutto il mondo,
che chiedono di lavorare nell’azienda per apprendere la filosofia dei processi e, contemporaneamente, lasciando il Programma “adotta una pecora”: certificato di adozione.
sapere della propria cultura e delle proprie tradizioni.
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Il programma “Enduring Cheese” in Afghanistan
La internazionalizzazione importata è divenuta esperienza esportata nel progetto “Enduring Cheese”, che l’ARPO ha promosso
in Afghanistan. Il nome del progetto rientra
nelle finalità del più noto programma “Enduring Freedom”, proponendosi di insegnare
ai nomadi pastori Kuchi l’arte tutta mediterranea di rendere ’durevole’nel tempo, appunto trasformandolo in formaggio, il latte.
Alcuni soci dell’ARPO sono già andati in
Afganistan a prendere contatto con i pastoAgosto 2006, prove di formaggio a Kabul da ri Kuchi, i quali verranno, in una fase sucparte dei soci ARPO con il caldaio e gli stru- cessiva, sulle montagne abruzzesi per mementi acquistati nel bazar locale (fotografia di glio apprendere l’arte del casaro e per diN. Marcelli).
ventare a loro volta promotori di nuove micro-realtà economiche.
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Per una geografia del gioiello - Il caso “Presentosa”
Adriana Gandolfi
Nella società preindustriale, quale quella abruzzese fino al secondo conflitto mondiale,
l’identità femminile veniva rappresentata attraverso l’esibizione dell’ornamento, ne sono esempio emblematico le donne riferite ad ogni età ritratte dai grandi artisti del “verismo” abruzzese di fine ottocento ed è grazie alla loro documentazione pittorica se si
è conservata memoria dell’antico repertorio di gioielli tradizionali altrimenti sconosciuti
perché caduti in disuso negli anni trenta del novecento (fig. 1).
L’oreficeria tradizionale corrispondeva ai
gusti ed alle esigenze delle persone “comuni”, provenienti dalle classi subalterne
che, per consuetudine culturale, coniugavano la valenza estetica ed economica dell’ornamento con quella simbolica e funzionale, risultando poco inclini a seguire i
capricciosi dettami stilistici nell’alternanza delle mode, invece, appannaggio dei ceti più abbienti.
Caratteristica dei gioielli di questo tipo era
la bassa percentuale di oro utilizzato nella
lega con altri metalli, soprattutto con il rame e l’impiego di vetri colorati e pietre semi-preziose, come corniole, granati, madreperla, perle “barocche” (scaramazze).
La produzione si avvaleva delle tecniche
della fusione, dello sbalzo e del cesello ma,
soprattutto in alcuni centri quali PescocoFig. 1 - F. P. Michetti, Donna in costume
stanzo e Sulmona, i maestri orafi eccellevano nella realizzazione di gioielli in filigrana.1
In un’epoca in cui il costo del lavoro era di molto inferiore a quello della materia prima, questa lavorazione permetteva di realizzare manufatti leggerissimi di grande effetto decorativo, consistenti in sottilissimi fili di metallo prezioso intrecciati, battuti e saldati attorno ad un telaio in lamina, disegnando motivi floreali e spiraliformi che arricchivano il risultato estetico.
Comunque, più che nelle tecniche, l’oreficeria popolare si distingueva per le decorazioni con motivi simbolici magico-religiosi, spesso ispirati al mondo naturale, associando il risultato estetico dell’oggetto con quello magico-simbolico, anche di tipo apotropaico (protezione dalle influenze nefaste e dal malocchio).
Nella storia dell’ornamento prezioso, infatti, non bisogna dimenticare l’importante ruo-
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lo svolto, nei secoli passati, dall’abbigliamento tradizionale, in special modo nei centri di
Pescocostanzo e Scanno tuttora interessati sia,
da una discreta produzione orafa che, dalla persistenza nell’uso del “costume femminile” fino ad epoca recente.
In tale contesto, risulta evidente come il gioiello, contribuiva a caratterizzare l’individuo in
senso etnografico, rivelandone non solo la condizione civile e sociale ma soprattutto, segnalandone il territorio di provenienza. (fig. 2)
Destinati ad ornare ed a fornire precise connotazioni culturali, soprattutto al genere femminile, la maggior parte degli ornamenti preziosi era destinata all’occasione nuziale e tra questi, risalta la cosiddetta presentosa, emblematico gioiello di dannunziana memoria:
«Portava agli orecchi due grevi cerchi d’oro e
Fig. 2 - Abito nuziale antico del paese di
sul petto la presentosa: una grande stella di fiScanno, Tav. XVIII del vol. di E. Canzialigrana con in mezzo due cuori»2
ni, 1928
Si presenta come un medaglione riproducente un
simbolo solare, realizzato in lamina ritagliata, contornata da volute in filigrana (fig. 3).
Veniva donata alla ragazza prescelta dal pretendente, in occasione del primo incontro
tra le due famiglie, come presentènze e rappresentava nei confronti del contesto sociale la promessa di matrimonio, da quel momento la ragazza risultava impegnata, da cui
la denominazione presentòsa.
Per tale caratteristica, la decorazione centrale riportava come motivo prevalente simboli cuoriformi o comunque di ispirazione amorosa, offrendo numerose varianti al motivo originario. Probabilmente ogni orafo ambiva a differenziare ed arricchire la sua opera,
spesso creando uno stile personale, oppure si
adeguava alle richieste specifiche del fidanzato committente, in tal modo la presentosa si arricchiva di contenuti semantici specifici, anche
di matrice apotropaica, a seconda dell’occasione e dell’inventiva personale.
Erano famose le collane prodotte ad Agnone e
L’Aquila nella prima metà dell’800, costituite
da festoni in lamina traforata collegati a presentose di varie dimensioni che scendevano a
coprire tutto il petto dell’abito nuziale, allora
Fig. 3 - Presentosa, Agnone metà ’800
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piuttosto di colore scuro e non candido come quello attuale, proprio per favorire l’ostentazione dell’oro. A L’Aquila questo vistoso pettorale era denominato cròna de petto, poiché “incoronava” il mezzobusto della donna maritata come una regina e veniva
ereditato da una generazione all’altra, ogni passaggio si arricchiva di nuove catenelle e
presentose (fig. 4).
Cosicché, in mancanza
di marchi di identificazione, oltre alle differenze tecnologiche i motivi simbolici che ne decorano i repertori divengono “indicatori” geografici per le manifatture di provenienza, riscontrabili presso depositi votivi, collezionisti
e musei.3
Infatti dalla ricerca sul
territorio, sono emerse
ben otto tipologie cosiddette “storiche” delle quali ben sei riportano il simbolo del cuore
con varianti: cuori affiancati, uniti da un crescente lunare, fiammeggianti, sanguinanti o lacrimanti, uniti da chiave, cuore singolo.
A queste fanno riscontro
altrettante zone e/o botteghe orafe di riferimento, distribuite per gran
parte del territorio degli
“Abruzzi”, eccettuando
l’area picena e teramana. Fig. 4 - Collana a festoni, Agnone, sec. metà ’800
Fig. 5 - Pescocostanzo, Primi ’900
Cuore semplice, cuore accoppiato, prevalgono nella lavorazione pescolana (fig. 5), i cuori sormontati da fiammelle provengono da botteghe aquilane (fig. 6), mentre il motivo dei cuori uniti da crescente lunare di distingue
nella produzione agnonese, guardiese e scannese (fig. 7).
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Fig. 6 - L’Aquila, sec. metà ’800
Fig. 7 - Scanno, primo ’900
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La donna, in quanto tramite necessario e fondamentale per trasmettere discendenza alla famiglia, doveva preservare e propiziare la sua fecondità,
per questo i suoi ornamenti suggerivano simbolici riferimenti allusivi di
fertilità e benessere.
Il cuore unito da mezzaluna, infatti,
evoca unione feconda della coppia,
così come la chiave “serra” i cuori
per riservarli l’uno in potere dell’altro (fig. 8).
Anche la figura di una nave, segnala
metaforicamente alla ragazza la promessa d’amore da conservare, in un
medaglione sul cuore, finchè non tornerà, per sposarla, il fidanzato emigrato oltre oceano (fig. 9).
Invece, una colomba dello “spirito santo” con eucaristia nel becco rappresenta il ricordo della “prima comunione”4 (fig. 10).
Oltre alla decorazione centrale, la differenza stilistica risulta anche dall’esecuzione dell’elaborato in filigrana.
Il termine “filigrana” indica generalmente manufatti prodotti in filo metallico, anche solamente ritorto e avvolto in cordellina semplice, ma la tecnica originaria consiste nell’intreccio
“martellato” di un doppio filo che, osservato di profilo, mostra segmenti trasversali a “spiga di grano”.
Ebbene, soltanto gli esemplari di Pescocostanzo, Sulmona e Scanno5 riportano ornati in filigrana vera e propria, il resto delle manifatture preferisce realizzare elaborati più semplici,
talvolta arricchendo la composizione
con gemme e smalti.
Dal riscontro archivistico, relativo
questo gioiello, se ne desume un’origine settecentesca a partire dalle eccellenti manifatture orafe di Pescocostanzo, Guardiagrele, Agnone6, per
scavalcare l’Appennino peligno - frentano e diffondersi su gran parte del’allora Regno Borbonico, soprattutto in area garganica e campana (fig.
11).
Probabilmente, tale diffusione stilistica venne favorita dalla pratica della pastorizia transumante; migrazione stagionale di andata e ritorno che
gli armentari dell’Appennino abruzzese effettuavano verso le pianure
meridionali, sin da epoca preromana.
Tanto successo riscosse infatti questo modello, che nell’ultimo secolo
è stato riprodotto persino in versione
“sarda” dove viene chiamato “su sole” (fig. 12).
Anche in questo caso sono stati i contatti di lavoro intercorsi, nel dopoguerra,
tra pastori dei mari opposti, AdriaticoTirreno, a permetterne rielaborazioni
in stile “isolano”, soprattutto dagli orafi di Oliena e Dorgali.
Nonostante la crisi di tutte le arti ap- Fig. 8 - Sulmona, sec. metà ’800
plicate intervenuta negli ultimi de- Fig. 9 - Agnone, fine ’800
cenni per la massiccia produzione industriale intervenuta in nome “dell’economia di mercato” e grazie ad un’appropriata “acculturazione” per il recupero
dei valori caratterizzanti l’identità del territorio, nell’ultimo periodo l’oreficeria si
rivela di protagonista di rinnovata arte che nella presentosa ha ritrovato la sua creazione più rappresentativa.
Attualmente, operano nella regione un discreto numero di laboratori capaci sia di rivisitarne il repertorio tradizionale che di realizzarne accattivanti rielaborazioni, operanti non soltanto in centri di antica “vocazione professionale” ma anche in località
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meno storiche come quelle costiere,
ampliando così la geografia di una
rinnovata consapevolezza culturale
attorno ad un emblematico e prezioso simbolo d’amore.
Pescocostanzo
Francesco Sabatini
Fig. 10 - Casoli, primi ’900
Pescocostanzo, Piazza Municipio
Fig. 11 - Presentosa variante di Monte Sant’Angelo - FG
Fig. 12 - variante sarda dell’orafo S. Mastroni,
primo ’900 Oliena - NU
Per eventuali approfondimenti sull’argomento, cfr. A. Gandolfi, E. Mattiocco, “Ori e argenti d’Abruzzo. Dal
medioevo al XX secolo; PE 1996
2.
G. D’Annunzio: “Il trionfo della morte”, 1894.
3.
Cfr. gli esiti della ricerca pubblicati nel saggio A. Gandolfi, “La presentosa. Un gioiello abruzzese fra tradizione e innovazione”, IV ediz. Dic. 2007
4.
Un orafo di Casoli la realizzò personalmente per ricordare alla figlia la sua “prima comunione”, un raro caso
di donativo extra-nuziale.
5.
In questa località la presentosa è stata riprodotta soltanto a partire dal primo ’900
6.
Attualmente in provincia di Isernia, ma assegnata al tenimento di Chieti fino al 1811
1.
132
Pescocostanzo - il cui nome è formato dal termine Pesco, di derivazione osca (significa “roccia, arce”), e dal nome di un personaggio rimasto sconosciuto - ha le sue origini nel generale fenomeno dell’“incastellamento” delle popolazioni dell’Appennino
abruzzese nell’XI secolo. Appare già come Universitas, con un suo stemma, nel secolo XIV e mostra chiari segni di crescita nel secolo successivo, quando gode di una certa libertà che le proviene dall’essere a più riprese sotratta a feudatari e tenuta nel demanio regio.
Attesta le sue buone condizioni economiche l’immediata ricostruzione dopo il terremoto del 1456: nel 1466 è già risorta, in dimensioni notevoli che saranno via via ingrandite (fino alle attuali cinque navate), la chiesa di Santa Maria del Colle. Ma ciò che
la caratterizza subito, e le darà un volto inconfondibile per il futuro, è l’acquisizione stabile di un folto gruppo (anzi, di più gruppi giunti a ripetizione) di quelle maestranze
lombarde affluite in Abruzzo dopo il sisma. La ricca committenza locale, la collocazione del paese su un itinerario stradale di forte dinamismo (la “Via degli Abruzzi” che
collegava Napoli alla Toscana da una parte e alle Maqrche, all’Emilia e alla Lombardia dall’Altro), la reperibilità di ottima pietra da taglio nelle cave dell’area circostante
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Pescocostanzo, Santa Maria del Colle
Pescocostanzo, Piazza Municipio
(qualcuna conserva i loro nomi sulla roccia), attrassero in modo particolare a Pescocostanzo i “Lombardi”, i quali vennero a inserire nella comunità una compatta categoria
di artigiani delle diverse specialità: della pietra e del marmo, dell’intaglio ligneo, del
ferro battuto. L’arrivo anche delle loro donne introdusse il merletto a tombolo (del tipo
a “punto Milano”). La colonia lombarda addirittura importò e impose alla comunità intera un elemento del rito liturgico ambrosiano, il battesimo per immersione, praticato
ancora oggi; e gli artigiani conservarono gelosamente il loro gergo di mestiere, la “lingua lombardesca”, di cui c’è ancora traccia (qui come a Vasto, l’altro centro di forte loro insediamento).
Nella prima metà del ’500 si era già creato quel circolo virtuoso che, mettendo insieme
la forte capacità finanziaria della classe abbiente (fatta di armentari), il suo alto livello
culturale (testimoniato dalle numerose biblioteche) e la disponibilità in loco di raffinate maestranze, avviò Pescocostanzo a diventare una città d’arte, addirittura dotata di una
specie di magistratura per l’edilizia (approvata nel 1535 dalla feudataria Vittoria Colonna). Ne fa fede un insieme di tratti urbanistici: l’ampiezza delle strade, l’espansione
dei nuovi quartieri in aree pianeggianti, il fissarsi di un’edilizia minore tipica (la casa
con scala e ballatoio esterni, che costituivano il “vignale”), l’allinearsi di una ventina
di palazzi e palazzetti (Manzi, D’Amata, Schieda, Ricciardelli, De Massis, Grilli, Grillo, Mosca, Cocco-Palmeri, Colecchi, Cocco, Sabatini, Pitassi, Colabrese, Vulpes, De
Capite e altri), sulle vie principali, la presenza di artistiche fontane, edicole, colonne
commemorative, la fantasia dei cento portali, la profusione di motti e stemmi su porte
e finestre. A metà del ’500 questa città di alta montagna ha perfino il suo poeta, Antonio De Matteis, un ricco e colto armentario che decanta la nobiltà di questo ambiente e
la fonte della sua ricchezza, la pecora.
Vi sorsero 16 chiese, tra cittadine ed extraurbane, e tre sono particolarmente grandi, una
delle quali addirittura basilicale. Riassumerne la storia è qui impossibile. Mi limito ad
alcune considerazioni generali e a un cenno speciale per la Collegiata di Santa Maria
del Colle, divenuta il vero museo della civiltà pescolana.
Nell’insieme degli edifici religiosi si stratificano pochi resti due-trecenteschi (il grande portale della Collegiata, la statua lignea della Madonna del Colle), più consistenti
opere di età rinascimentale (gli edifici principali e vari altari lapidei e lignei) e poi la
profusione delle più fantasiose ma ben calibrate realizzazioni barocche. Intorno al 162030 il grande architetto e scultore Cosimo Fanzago (lombardo-napoletano) dirige a Pescocostanzo più cantieri e vi introduce, realizzando un grandioso altare nella chiesa dei
Francescani, l’arte dei marmi “commessi”, che poi fiorisce in loco per altri tre secoli.
Si afferma una scuola di architetti delle facciate delle chiese barocche (i Cicco) e dei
grandi soffitti lignei scolpiti, dorati e dipinti (in questo genere opere spettacolari esegue
nella Collegiata Carlo Sabatini, venuto da Anversa nel 1653; celebre sarà nel ’700 Ferdinando Mosca). Tra i maestri del ferro battuto, il fabbro pescolano Sante di Rocco realizza (nel 1699-1705) uno dei capolavori di quest’arte in Italia, il cancello della Cap-
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pella del Sacramento, unico per la lavorazione a tutto tondo di figure umane, ferine e
fantastiche. Per la pittura, invece, si attinge all’esterno, soprattutto a Roma e a Napoli:
nel 1614 viene commissionata una grande tela addirittura al caravaggesco Tanzio da
Varallo.
Pescocostanzo era in quel secolo all’apogeo della sua fortuna. La popolazione ammontava a circa 2200 abitanti; le aziende armentizie mettevano insieme 32. 000 capi
ovini. Ma da allora, gradatamente questa industria andò ridimensionandosi, un po’ per
una tendenza generale, un po’ perché andava crescendo il ceto degli artigiani (marmorari, intagliatori, scalpellini, orafi) e degli artisti, che accumulavano ottimi guadagni con
la loro arte, fortemente richiesta anche fuori della loro patria. Furono tutti questi i fattori che dettero alla comunità la forza per giungere all’atto più emblematico della sua
storia civica: la “ricompra”, ossia riscatto con denaro proprio, nel 1774, dal feudatario
del tempo, un Testa Piccolomini di Roma. Da quel momento Pescocostanzo si intitolò
Universitas Sui Domina ,“Comunità padrona di sé”.
Ma dalla fine del ’700 la fioritura artistica si esaurì. Fece in tempo a giungervi il neoclassico, ma ai soffi di una modernità artistica di più ampio respiro questo mondo era
irrimediabilmente chiuso. Invece fu questo il periodo in cui vi fiorì decisamente la moderna cultura intellettuale e scientifica, irradiata da Napoli: in perfetta sintonia con il
formarsi della grande generazione degli intellettuali e scienziati, e ferventi patrioti per
la causa italiana, emersero qui ai primi del secolo XIX le figure di Ottavio Colecchi e
di Benedetto Vulpes, ricordate in apertura di questo saggio.
Le trasformazioni generali prodotte dall’unificazione nazionale portarono in questo ambiente un improvviso generale abbassamento del tono di vita. La classe dirigente, ricca e colta, emigrò e si distaccò quasi del tutto; si interruppe il fecondo rapporto con Napoli, non subentrò quello con Roma. L’artigianato artistico non trovò più sbocchi. Il ceto popolare si dimezzò con l’emigrazione transoceanica. Il paese si chiuse davvero in
se stesso e non fu raggiunto da nuovi stimoli, nemmeno quando, ai primi del ’900, si
cominciò a scoprire dall’esterno (grazie al fitto rapporto tra Gaetano Sabatini e Corrado Ricci) il suo patrimonio d’arte. Una scoperta sostanzialmente senza frutti: il turismo,
che aveva portato nuova intensa vita nella vicinissima Roccaraso e a Scanno, per oltre
cinquant’anni qui non attecchì. Il soggiorno di alcuni intellettuali di spicco (Adolfo
Omodeo, Giuseppe Tucci, Ugo Cerletti) non fece mai notizia.
Il decollo turistico di Pescocostanzo data agli anni ’60 e ’70 del secolo appena trascorso: successivo, ma non ben definito, è anche il suo programma di “riattivazione” di una
funzione culturale, che potrebbe tra l’altro svolgere pienamente (ma il processo si è appena avviato) nella cornice del Parco Nazionale della Maiella, del quale è uno dei centri vedetta.
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Il Parco Nazionale della Maiella: aspetti della flora e della
vegetazione
Gianfranco Pirone* e Giampiero Ciaschetti**
*Dipartimento di Scienze Ambientali, Università dell’Aquila;
**Parco Nazionale della Majella;
CENNI FISIOGRAFICI
Il Parco della Majella si trova nella porzione orientale dell’Appennino centrale, a poche decine di chilometri dalla costa adriatica. Esso è caratterizzato fondamentalmente
dalla presenza di due grossi massicci montuosi che occupano la porzione centrale e settentrionale del territorio del Parco, la Majella, da cui il Parco prende il nome, ed il Morrone, separati dalla sella di Passo S. Leonardo.
Il massiccio della Majella ha la forma di una possente e compatta cupola calcarea, il cui
motivo strutturale dominante è rappresentato da una grandiosa anticlinale. Nella porzione centrale del massiccio si ergono le cime più elevate, tra cui M. Acquaviva (2740
m), M. Focalone (2676 m), M. S. Angelo (2669 m), M. Rotondo (2656 m), Pescofalcone (2657 m) e M. Macellaro (2631 m), che culminano nei 2793 m di Monte Amaro,
seconda vetta dell’Appennino.
Un tavolato ondulato, posto ad un’altitudine di 2100-2300 m, costituisce il cuore del
massiccio ed è ricoperto da detrito e lastroni calcarei che formano immensi ghiaioni sui
versanti acclivi.
I fianchi della montagna, nelle porzioni orientale e settentrionale, sono incisi da profondi valloni che nella loro porzione inferiore formano strette forre dominate da spettacolari pareti rocciose.
Il massiccio del Morrone, la cui cima più elevata è M. Morrone (2061 m), è una lunga
e stretta catena montuosa allineata in direzione NO-SE, affusolata nella parte settentrionale alla cui estremità le Gole di Popoli segnano il passaggio alle prime propaggini
meridionali del Gran Sasso.
A sud dei due massicci, oltre la depressione di Campo di Giove, M. Porrara (2137 m),
M. Pizzalto (1966 m) e M. Rotella (2129 m), tre dorsali parallele allineate in direzione
NW-SE declinano negli ampi pianori carsici degli Altipiani Maggiori, formati dalle unità del Piano delle 5 miglia e dei Quarti.
I Monti Pizzi, all’estremità sudorientale del Parco, sono costituiti da una serie di piccoli monti allineati in direzione SW-NE, tra cui M. Secine (1883 m), Serra Tre Monti
(1822 m), M. S. Domenico (1612 m), M. Lucino (1626 m).
Fondamentalmente, la Majella è formata da poderose stratificazioni calcaree, nelle quali sono rappresentati in pratica tutti i periodi geologici dal Triassico in poi. Intenso è stato il modellamento glaciale; forme di erosione e di accumulo dei ghiacciai sono molto
frequenti nel settore centrale, con circhi, valli e morene. Comuni sono anche i fenomeni carsici, come, tra quelli epigei, le “polje” (ad es. la valle ed il Fondo di Femmina
Morta) e le doline (ad es. tra i Tre Portoni e M. Amaro, o tra Cima dell’Altare e Tavo-
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la Rotonda) e, tra quelli ipogei, le grotte (Grotta del Cavallone, Grotta Nera, Grotta Scura, Grotta delle Praie, ecc.).
Più o meno stessa natura geologica hanno il massiccio del Morrone e l’allineamento M.
Porrara-M. Pizzalto-M. Rotella, quest’ultimo appartenente però ad una autonoma piattaforma carbonatica, sebbene i fenomeni glaciali siano molto meno evidenti per via delle quote più modeste.
Sui Monti Pizzi prevalgono i flysch pelitico-arenacei di formazione sia autoctona che
alloctona. Nel Parco sono inoltre presenti altri depositi di origine terrigena risalenti al
Cenozoico tra cui marne, calcareniti, evaporiti e argille varicolori, nonchè depositi quaternari quali brecce e conglomerati, terre rosse e depositi detritico-colluviali.
Ai particolari caratteri geomorfologici e litologici è legata la rete idrografica, fortemente
condizionata dal carsismo sui massicci calcarei. Qui, infatti, le sorgenti sono quasi del
tutto assenti al di sopra dei 900 metri, e sono invece molto diffuse a quote inferiori dove alimentano i bacini di vari fiumi (Orta, Foro, Verde, Aventino, ecc.).
Una fitta rete idrografica superficiale è invece presente sui Monti Pizzi e nell’ampia fascia di flysch che caratterizza la valle dell’Orta.
Relativamente al clima, l’ampia estensione territoriale ed altitudinale del Parco fa sì che
vi siano rappresentati numerosi tipi inquadrati nei bioclimi Mediterraneo, che si realizza all’estremità nordoccidentale del Parco, e Temperato, nettamente prevalente. Notevole è infatti l’articolazione sia dei tipi termici, che variano prevalentemente in relazione all’altitudine, sia di quelli ombrici. Le precipitazioni, nel territorio magellense,
superano generalmente i 1000 mm annui, con massimo tra novembre e dicembre; i mesi meno piovosi sono luglio e agosto. I temporali sono molto frequenti, improvvisi e
violenti, tanto che la Maiella è ricordata da Rigo (1872), famoso botanico ottocentesco,
come “capricciosa di tempeste”. Le nevicate, abbondanti, si concentrano nel periodo
che va dalla metà di settembre alla fine di maggio, ma non è improbabile che nevichi
anche negli altri mesi dell’anno.
LA FLORA1
La copertura vegetale del Parco della Majella è ricca, complessa e variamente articolata, come conseguenza delle più svariate condizioni climatiche, della notevole estensione altitudinale e dell’aspra morfologia, oltre che della millenaria presenza dell’uomo.
Le esplorazioni botaniche sulla Majella sono iniziate nel secolo scorso ad opera di Michele Tenore (1780-1861) e sono poi proseguite nello stesso secolo con Vincenzo Cesati, Gregorio Rigo, Emile Levier, per citare i botanici più famosi. Numerosi sono stati i contributi floristici di questo secolo (cfr. Tammaro e Pirone, 1995).
Notevole è la ricchezza floristica della Majella. Dal Repertorio Sistematico della Flora
del massiccio (Tammaro, 1986) e dai successivi contributi (Conti, 1987; Conti e Pellegrini, 1989; Conti et alii, 2002, 2006; Conti & Tinti, 2006), si deduce che le entità cenPer la nomenclatura si fa riferimento, salvo qualche eccezione, alla Checklist della Flora Italiana (Conti
et alii., 2005).
1
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site fino ad oggi sono oltre 2100, pari a circa il 30% della flora italiana e ad oltre il 15%
di quella europea, dall’Atlantico agli Urali.
Numerose sono le entità il cui epiteto specifico deriva dal nome del massiccio (Ranunculus majellensis, Aquilegia majellensis, Viola magellensis, Cynoglossum magellense,
ecc.), in quanto scoperte e descritte per la prima volta sulla Majella o anche perché molto diffuse sul massiccio.
La Majella costituisce per molte entità (oltre 50) il “locus classicus”, cioè la località da
cui provengono i campioni con cui gli Autori hanno descritto le specie; ne sono esempi Adonis distorta, Alyssum cuneifolium subsp. cuneifolium, Androsace mathildae, Aquilegia magellensis, Artemisia umbelliformis subsp. eriantha, Ptilotrichum rupestre subsp.
rupestre, Ranunculus magellensis.
La flora magellense è caratterizzata, dal punto di vista corologico, dalla prevalenza delle entità eurasiatiche e nordiche che, complessivamente, ne costituiscono quasi la metà. Abbondanti sono anche le entità mediterranee, soprattutto nei settori basali, che partecipano per un terzo circa.
Elevato è anche il numero delle entità orientali, tra cui spiccano le balcanico-appenniniche, il cui areale principale gravita nei settori balcanici; ne sono esempi Leontopodium nivale, Gentiana dinarica, Sesleria juncifolia subsp. juncifolia, Artemisia umbelliformis subsp. eriantha.
Altra importante peculiarità della flora magellense è costituita dal nutrito contingente
di entità endemiche, che ammontano a 142, pari a quasi il 7% della flora del Parco.
Nel seguente quadro sono riportati alcuni esempi di endemismo.
A - Endemiche esclusive del
Parco della Maiella
Pinguicula fiorii, Soldanella minima subsp. samnitica, Centaurea
tenoreana
B - Endemiche dell’Appennino centrale
Adonis distorta, Androsace mathildae, Aquilegia magellensis, Ptilotrichum rupestre subsp. rupestre, Minuartia glomerata subsp.
trichocalycina, Cymbalaria pallida, Campanula fragilis subsp. cavolini, Anthemis cretica subsp. petraea, Euphorbia gasparrinii
Boiss. subsp. samnitica, Leontodon montanus subsp. breviscapus,
Saxifraga italica, Thlaspi stylosum, Viola magellensis
C - Endemiche dell’Appennino (non ristrette all’Appennino centrale)
Acer cappadocicum subsp. lobelii, Astragalus aquilanus, Cerastium tomentosum, Galium magellense, Carum flexuosum, Carduus affinis subsp. affinis, Festuca violacea subsp. italica, Myosotis ambigens, Lomelosia crenata subsp. pseudisetensis, Cynoglossum magellense, Crepis lacera, Geranium austroapenninum,
Ophrys bertoloniiformis, Sedum magellense subsp. magellense.
B - Endemiche dell’Appennino centrale
Melampyrum italicum, Micromeria subsp. tenuifolia, Salix apennina, Scabiosa holosericea, Scabiosa holosericea.
Il massiccio è sede di accantonamento di numerose specie relitte, legate alle trascorse
vicissitudini geologico-climatiche ed in particolare all’alternanza di periodi glaciali ed
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1. La Valle di Femmina Morta, ampia depressione tettonica, carsificata e rimodellata dai ghiacciai; sullo sfondo il M. Amaro (foto G. Ciaschetti).
2. Le Murelle ed il M. Acquaviva, visti dal Martellese (foto G. Ciascheti).
interglaciali nel Quaternario. Esempi di relitti glaciali sono Dryas octopetala, Vaccinium myrtillus, Anemone narcissiflora subsp. narcissiflora, Moneses uniflora, Cypripedium calceolus. Tra i relitti xerotermici citiamo, invece, Matthiola fruticulosa, Carduus corymbosus, Dianthus vulturius subsp. vulturius.
vi. Solo negli ultimi tempi della storia della presenza umana nel Parco si è assistito a
tentativi di ricostituzione delle foreste, spesso però attraverso l’uso di materiale vegetale non in linea con le caratteristiche ecologiche e biogeografiche dei siti.
Alla luce di queste considerazioni si può affermare, quindi, che la vegetazione del massiccio risulta caratterizzato da un numero molto elevato di comunità vegetali, legate tra
loro secondo rapporti sia di tipo dinamico, cioè che evolvono l’una nell’altra, sia semplicemente di tipo topografico.
La vegetazione
Anche il quadro vegetazionale risulta ampio e articolato, soprattutto in relazione ai differenti piani bioclimatici. A questi ultimi corrispondono alcune formazioni vegetali più
evolute: così al piano collinare sono legati i boschi di caducifoglie termofile, a dominanza di roverella, e semi-mesofile, a dominanza di cerro e/o carpino nero, oltre che i
nuclei extrazonali di leccio; al piano montano le foreste di caducifoglie mesofile, soprattutto faggete; al piano subalpino le brughiere ipsofile (mugheta, ginepreti a ginepro
nano, ecc.); al piano alpino le praterie di altitudine e la tundra alpina.
In realtà l’articolazione del paesaggio vegetale è molto più complessa, sia per la presenza, in particolari condizioni stazionali, di numerosi tipi di vegetazione azonale
(cioè non legata alle caratteristiche climatiche ma alla presenza di un fattore edafico
quali, ad esempio, la presenza di acqua o di roccia), sia perchè situazioni morfologiche particolari, come i valloni, favoriscono la risalita in quota di stirpi mediterranee
e, per contro, la discesa di piante tipiche delle zone culminali. A questo c’è da aggiungere l’azione millenaria dell’uomo che ha trasformato pesantemente il paesaggio vegetale distruggendo le foreste originarie per far posto alle praterie ed ai colti-
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Piano collinare
La vegetazione di questa fascia, nella sua componente forestale, è molto frammentata
a causa degli antichi ed intensi disboscamenti ed è rappresentata da cenosi miste di caducifoglie con dominanza di roverella (Quercus pubescens subsp. pubescens), cui si accompagnano più frequentemente l’orniello (Fraxinus ornus subsp. ornus), il carpino
nero (Ostrya carpinifolia), la carpinella (Carpinus orientalis subsp. orientalis), il sorbo domestico (Sorbus domestica), l’acero campestre (Acer campestre) e quello minore (Acer monspessulanum subsp. monspessulanum). Queste formazioni si presentano
come boscaglie aperte e luminose, storicamente governate a ceduo e solo recentemente più o meno convertite all’alto fusto. La copertura non totale della volta forestale favorisce lo sviluppo di un folto strato erbaceo nel quale spesso prevale spesso il falasco
(Brachypodium rupestre) e, tra gli arbusti, quelli maggiormente amanti della luce (biancospini, citisi, rose, ginepri, ecc.). Non mancano tuttavia le specie più schiettamente ne-
141
3. La dorsale di Scrimacavallo colonizzata dalla mugheta; sullo sfondo la sagoma tabulare del Block-Haus
(foto G. Pirone).
morali, quali Viola alba subsp. dehnhardtii, Cyclamen hederifolium subsp. hederifolium, Buglossoides purpurocaerulea, Brachypodium sylvaticum subsp. sylvaticum, Tamus communis, ecc. e, tra le legnose, la berretta da prete (Euonymus europaeus), il corniolo (Cornus mas), i caprifogli (Lonicera etrusca, L. caprifolium, L. xylosteum), il ligustro (Ligustrum vulgare), ecc.
Sotto il profilo della composizione floristica, si distinguono due tipologie che in linea
di massima si avvicendano su base altimetrica. I querceti posti alle quote meno elevate e alle esposizioni più favorevoli sono caretterizzati dalla presenza di diverse specie
tipiche della macchia mediterranea quali, ad esempio, la rosa di S. Giovanni (Rosa sempervirens), la robbia selvatica (Rubia peregrina subsp. peregrina), l’asparago selvatico (Asparagus acutifolius), il ciclamino primaverile (Cyclamen repandum subsp. repandum) e, talora, l’alaterno (Rhamnus alaternus subsp. alaternus) e la fillirea (Phillyrea latifolia).
Alle quote più elevate del piano collinare, la seconda tipologia assume invece caratteri floristici di transizione con i boschi della fascia altimetrica superiore, evidenziati dalla presenza di specie più mesofile quali il citiso a foglie sessili (Cytisophyllum sessilifolium), l’acero opalo (Acer opalus subsp. obtusatum), il nocciolo (Corylus avellana)
e, tra le erbacee, Poa nemoralis, Festuca heterophylla, Hepatica nobilis, ecc.
A testimonianza dei notevoli influssi mediterranei, nel piano collinare sono relativamente frequenti le cenosi miste di sclerofille sempreverdi e di caducifoglie, in stazioni
favorevoli dal punto di vista termico e su substrati generalmente calcarei o arenacei, generalmente su pendii acclivi e con affioramenti rocciosi. Trattandosi di consorzi legati,
nelle loro espressioni più tipiche, al clima mediterraneo, nel territorio del Parco assumono significato di extrazonalità. Sotto il profilo strutturale, queste formazioni si presentano generalmente come macchia alta o, nelle stazioni più favorevoli sotto il profilo edafico, come boscaglia più o meno fitta. Alla costruzione di queste fitocenosi partecipano prevalentemente il leccio (Quercus ilex), il terebinto (Pistacia terebinthus), la
142
fillirea (Phillyrea latifolia), il carpino orientale (Carpinus orientalis), l’orniello (Fraxinus ornus), l’acero minore (Acer monspessulanum), la roverella (Quercus pubescens) ed il carpino nero (Ostrya carpinifolia) e, limitatamente allo strato arbustivo, la robbia selvatica (Rubia
peregrina subsp. peregrina), l’asparago selvatico (Asparagus acutifolius), il laurotino (Viburnum tinus subsp. tinus), la fiammola (Clematis flammula), la rosa di S. Giovanni (Rosa sempervirens), il caprifoglio mediterraneo
(Lonicera implexa subsp. implexa), la salsapariglia (Smilax aspera) e, soprattutto nelle conche interne, la dafne
olivella (Daphne sericea) ed il terebinto (Pistacia terebinthus subsp. terebinthus). Lo strato erbaceo è geralmente molto povero ed è costituito prevalentemente dai
ciclamini primaverile ed autunnale (Cyclamen repandum
subsp. repandum, C. hederifolium subsp. hederifolium),
cui si associano poche altre specie quali, ad esempio, Asplenium adiantum-nigrum subsp. adiantum-nigrum e Carex
hallerana.
4. Il pino mugo (Pinus mugo)
edifica impenetrabili boscaglie nel piano subalpino (foto
G. Pirone).
Nel piano collinare sono molto appresentati anche i boschi misti di caducifoglie mesofile e semi-mesofile, di cui i più diffusi sono quelli a Carpino nero (Ostrya carpinifolia). Gli ostrieti si affermano soprattutto sui versanti freschi esposti ai quadranti settentrionali o all’interno di valli strette, spesso in contatto, superiormente, con la faggeta,
generalmente su substrati calcarei e suoli superficiali, ricchi di scheletro. Probabilmente,
la ceduazione secolare dei boschi del Parco della Majella, come nel resto dell’Italia peninsulare, ha favorito queste formazioni per via dell’elevata capacità pollonifera del carpino nero, specie tra l’altro assai frugale e pertanto molto indicata negli impianti di riforestazione.
Come già visto per i querceti a roverella, anche i boschi a dominanza di carpino nero si
differenziano su base floristica a seconda che il corteggio sia differenziato da specie termofile a carattere mediterraneo o da specie mesofile. Un aspetto particolare, che si insedia su substrati acclivi ricchi di detrito, è caratterizzato dalla massiccia affermazione
di Sesleria nitida, una graminacea cespitosa molto pioniera, che spesso forma un tappeto erbaceo abbastanza compatto.
I mantelli di vegetazione, cioè quelle particolari comunità vegetali arbustive che si insediano ai margini del bosco, sono edificati principalmente da specie pioniere ed eliofile quali i ginepri (Juniperus communis subsp. communis, J. oxycedrus subsp. oxycedrus), la ginestra comune (Spartium junceum), il biancospino (Crataegus monogyna),
il prugnolo (Prunus spinosa), il citiso a foglie sessili (Cytisophyllum sessilifolium), l’emero (Emerus majus), i caprifogli (Lonicera etrusca, L. caprifolium), la marruca (Pa-
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5. La dorsale del Morrone (foto G. Ciaschetti).
liurus spina-christi) e, qualche volta soprattutto all’interno delle conche intermontane,
il bosso (Buxus sempervirens). Le specie sopra ricordate spesso invadono i vicini pascoli ed i campi abbandonati, talora anche coprendo superfici ampie, formando nuclei
di ricostruzione nella dinamica della vegetazione forestale.
I pascoli del piano basale possiedono una netta impronta xerica e molti rientrano nel tipo indicato con il termine di “parasteppa”, ricca di elementi mediterranei. Se ne distinguono di due tipi, a seconda che le erbe caratterizzanti la fionomia siano annuali (terofite) o perenni (emicriptofite). Nel primo caso si tratta di cenosi spesso derivanti dall’abbandono di aree coltivate e fortemente condizionate dall’aridità estiva. Tra le specie più rappresentate vi sono le graminacee Trachynia distachya, Cynosurus echinatus,
Triticum ovatum, Catapodium rigidum subsp. rigidum, Vulpia sp. pl. e inoltre Crepis
sancta subsp. sancta, Cerastium semidecandrum, Holosteum umbellatum s. l., Trifolium stellatum, Saxifraga tridactylites, ecc.
Nel secondo tipo, che generalmente si sviluppa, nelle sue forme più tipiche, a partire
dagli 800 metri circa, dominano graminacee cespitose tra cui prevalentemente Bromus
erectus, al quale si accompagnano altre emicriptofite come ad esempio Hieracium pilosella, Galium lucidum s. l., Eryngium amethystinum, ecc. e numerose camefite quali
Asperula purpurea subsp. purpurea, Teucrium chamaedrys subsp. chamaedrys, Artemisia alba, Sedum rupestre subsp. rupestre, Sideritis italica ecc. Anche questi pascoli
assumono talora, soprattutto in corrispondenza delle conche intermontane, un caratte-
144
6. Una veduta primaverile del Quarto di S. Chiara (foto G. Pirone).
re parasteppico, testimoniato dalla dominanza di graminacee perenni del genere Stipa
(Stipa capillata, S. dasyvaginata subsp. apenninicola).
Alla dinamica regressiva delle cenosi miste di sempreverdi e di caducifoglie, come anche a quello dei querceti a roverella e di altre caducifoglie termofile e semimesofile, alloquando i suoli sono molto erosi per l’intenso pascolamento, appartengono le garighe,
formazioni vegetali tipicamente mediterranee a struttura discontinua, edificate da piccoli arbusti generalmente alti non più di qualche decina di centimetri e spesso con portamento prostrato o pulvinato. La struttura è data prevalentemente dalla santoreggia
(Satureja montana subsp. montana), dal citiso spinoso (Cytisus spinescens), dal ranno
spaccasassi (Rhmnus saxatilis), dagli eliantemi (Helianthemum oelandicum subsp. incanum, H. apenninum), dal camedrio polio (Teucrium capitatum subsp. capitatum), dalle fumane (Fumana thymifolia, F. procumbens), dall’elicriso (Helichrysum italicum
subsp. italicum), dai timi (Thymus sp. pl.) e dall’issopo meridionale (Micromeria graeca s. l.), ecc. Alle quote inferiori, fino ai 500-600 m s. l. m., queste garighe sono caratterizzate da specie termofile come i cisti (Cistus creticus subsp. creticus, C. creticus
subsp. eriocephalus, C. salvifolius), l’euforbia spinosa (Euphorbia spinosa) e la ginestrella (Osyris alba), mentre a quote più elevate sono differenziate da entità a carattere
più montano quali le vedovelle (Globularia meridionalis), l’erba stregonia (Sideritis
italica), l’assenzio bianco (Artemisia alba), la peverina tomentosa (Cerastium tomentosum) ed il fiordaliso giallo (Centaurea rupestris) (Pirone e Tammaro, 1997). Lungo
il versante orientale della Majella vi sono inoltre aspetti di gariga basso-montana ca-
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ratterizzata dalla presenza di scabiosa crenata (Lomelosia crenata subsp. pseudisetensis).
La vegetazione rupicola è anch’essa presente
in questa questa fascia bioclimatica. Le tipologie individuate sono a dominanza di
Adiantum capillus-veneris, negli aspetti legati alle rupi con stillicidio. Sulle rupi asciutte si assiste, di volta in volta, alla dominanza di Campanula fragilis subsp. cavolinii,
specie endemica dell’Appennino centrale,
di valeriana rossa (Centranthus ruber subsp.
ruber), soprattutto alla base dove dove si accumulano sostanze azotate, e di crassulacee
del genere Sedum, negli aspetti con roccia
più o meno fratturata.
I popolamenti igrofili lungo i corsi d’acqua
sono costituiti da nuclei pionieri di salici (Salix alba, S. triandra, S. purpurea, S. elaeagnos) e pioppi (Populus nigra, P. alba, P.).
7. Il profondo canyon inciso dal fiume Orta
Le cenosi elofitiche sono formate soprattut(foto G. Pirone).
to da specie dei generi Phragmites, Typha
e, molto raramente, Schoenoplectus e Bolboschoenus (Pirone, 1987).
Piano montano
La vegetazione più evoluta e stabile di questa fascia è rappresentata dalla faggeta, che
costituisce la formazione forestale più estesa e caratterizzante del massiccio, tra gli 800900 ed i 1700-1800 metri. Il bosco di faggio (Fagus sylvatica subsp. sylvatica), di cui
si rinvengono esempi notevoli al Pizzalto ed ai Monti Pizzi, è contrassegnato, alle quote inferiori, da aspetti di faggeta mista, con diverse specie accompagnatrici come aceri, cerri, carpini, frassini, maggiociondoli, tigli, tassi e agrifogli; generalmente si tratta
di cedui a volte molto invecchiati. Più in alto, intorno ai 1400 metri, il faggio, con l’accentuarsi di un clima fresco-umido, diventa il dominatore incontrastato. Il sottobosco è
in genere piuttosto povero, costituito prevalentemente dalla rosa cavallina (Rosa arvensis), dal rovo ghiandoloso (Rubus hirtus), dalla berretta da prete maggiore (Euonymus latifolius), varie felci (Polistichum sp. pl., Dryopteris sp. pl., Polystichum sp. pl.),
dentarie (Cardamine sp. pl.) e inoltre Galium odoratum, Sanicula europaea, Viola reichenbachiana, Anemone ranunculoides, A. apennina, ecc.
Una nota di grande effetto paesaggistico è costituita dalle radure, che in alcuni casi sono punteggiate dalle vistose fioriture purpuree delle peonie (Paeonia officinalis subsp.
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italica) o, più frequentemente, dalle compatte cortine roseo-lillacine di Epilobium angustifolium.
Ad aspetti particolari della faggeta è legata la presenza di specie molto rare quali, ad esempio, il caprifoglio nero (Lonicera nigra) di cui
la Majella costituisce l’unica stazione in tutta la catena appenninica,
il rovo erbaceo (Rubus saxatilis), la bella orchidea scarpetta di Venere (Cypripedium calceolus) ed altre ancora.
Per questa fascia ricordiamo ancora i nuclei di pino nero di Villetta
Barrea (Pinus nigra subsp. nigra var. italica), presente sul versante
orientale del massiccio, nelle valli di S. Spirito e del Fossato, e nella valle dell’Orfento (Tammaro e Ferri, 1982; Pellegrini, 1984; Bru- 8. Il tasso (Taxus
schi et alii, 2006). Si tratta di relitti di più ampie popolazioni bo- baccata) è un comschive relative all’antica vegetazione montana mediterranea a facies ponente, ormai raxerofila dell’Appennino, che ebbe vasta diffusione durante il gla- ro, dei boschi freciale (Tongiorgi, 1938; Chiarugi, 1939; Marchetti, 1936). Il suo in- schi montani
(foto G. Pirone).
sediamento sull’Appenino è antichissimo e secondo alcuni AA. risalirebbe addirittura al Terziario (Giacomini e Fenaroli, 1958).
Uno studio specifico meriterebbero le comunità di ginepro sabino (Juniperus sabina),
specie rara presente in diverse località del Parco (Conti et alii, 1986; Conti, 1987; Marcantonio, 2000; Conti & Manzi, 1998).
Citiamo, inoltre, l’interessantissimo popolamento, anch’esso relittuale, di betulla (Betula pendula), posto ai margini della faggeta di Macchia Lunga nel Vallone di Fara S.
Martino (Bortolotti e Pierantoni, 1984).
Gli arbusteti secondari di sostituzione della faggeta sono dominati per lo più dal ginepro comune (Juniperus communis) e, alle quote più elevate, dal ranno alpino (Rhamnus alpina s. l.), accompagnati da lentaggine (Viburnum lantana), lampone (Rubus
idaeus), varie specie di ribes (Ribes sp. pl.) e di cotognastri (Cotoneaster sp.) e, più sporadiche, alcune rose selvatiche (Rosa spinosissima, R. pendulina, R. montana). Alle
quote più elevate di questa fascia, nelle situazioni caratterizzate da suoli calcarei sottili, sono presenti anche arbusteti prostrati a ginepro nano (Juniperus communis var. saxatilis) e, più sporadicamente, a uva orsina (Arctostaphylos uva-ursi), nella cui composizione specifica entrano altri bassi arbusti quali alcune dafne (Daphne oleoides, D.
mezereum), i cotognastri (Cotoneaster integerrimus, C. tomentosus), il citiso spinoso
(Cytisus spinescens), ecc.
Relativamente ai pascoli montani, oltre alle comunità a dominanza di Bromus erectus
già ricordate per il piano collinare, che qui si diversificano anche con aspetti più mesofili (Pirone, 1992), risultano presenti anche altre a dominanza di Sesleria nitida, che realizza un pascolo discontinuo su substrati ricchi di detrito, o di Festuca circummediterranea, che si insedia prevalentemente sui versanti debolmente acclivi e su suoli più evoluti. Relativamente frequenti, soprattutto lungo linee d’impluvio o come prime forme
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di colonizzazione dei pascoli abbandonati, sono le fitocenosi dominate da Brachypodium rupestre e, alle quote più elevate,
da Brachypodium genuense.
Più frammentari invece sono altri tipi di pascolo pioniero tra cui uno rupestre a dominanza di Lomelosia crenata subsp. pseudisetensis, presente lungo gli acclivi versanti orientali del massiccio della Majella (Pirone, 1998) ed uno a Plantago holosteum
ed Helianthemum oelandicum subsp. incanum identificato nel territorio degli Altipiani Maggiori (Pirone, 1997).
Ai pascoli montani secondari è legata la
presenza di specie stenoendemiche rare, tra
cui spicca Centaurea tenoreana, esclusiva
del Parco.
Un cenno meritano anche, per la loro importanza, alcune vegetazioni di prato e di
prato-pascolo presenti negli Altipiani Maggiori (Pedrotti, 1969; Pirone, 1997) e nel9. L’efedra dei Nebrodi (Ephedra nebrodensis subsp. nebrodensis), rarissimo relitto terl’alta valle dell’Orta-P. so S. Leonardo (oss.
ziario osservabile sulle rupi delle valli delpers.). Si tratta di comunità ad elevata biol’Orfento e dell’Orta (foto G. Pirone).
massa che si insediano su suoli umidi o periodicamente inondati. A seconda della forma d’uso e del grado d’umidità nel terreno, le specie dominanti risultano essere Arrhenatherum elatius s. l., Cynosurus cristatus, Deschampsia caespitosa subsp. cespitosa,
Serratula tinctoria subsp. tinctoria, Filipendula ulmaria e Juncus inflexus.
Di grande importanza fitogeografica in quanto rappresentano le propaggini più meridionali, penetrate nella regione mediterranea, dell’areale eurosiberiano, sono le fitocenosi palustri edificate da grandi carici, anch’esse presenti agli Altopiani Maggiori (Pirone, 1988) oltre che al Lago Ticino di Campo di Giove (Pirone, 1998). Si tratta di comunità paucispecifiche in cui dominano, di volta in volta, Carex acuta, C. vesicaria, C.
otrubae e C. paniculata subsp. paniculata. Da noi possono essere considerate come dei
relitti di aggruppamenti favoriti in passato dal clima quaternario più freddo ed umido.
La loro importanza è accresciuta poi dalla presenza di specie molto rare e significative
sotto il profilo geobotanico quali Dactilorhyza incarnata subsp. incarnata, Triglochin
palustre, Epilobium palustre e Carex panicea.
Molto diffusi, soprattutto nei valloni, sono gli ambienti rupestri. In questo piano bioclimatico è presente un’associazione a dominanza di Campanula cavolini, Potentilla
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caulescens e Saxifraga callosa subsp. callosa (Feoli e Foli-Chiapella, 1976); in corrispondenza delle nicchie stillicidiose questa comunità vegetale è differenziata da Aquilegia magellensis e Adiantum capillus-veneris. Altri aspetti legati alle rupi asciutte sono caratterizzati dalla presenza di Trisetaria villosa (Pirone, 1998). Di grande interesse è anche la vegetazione a Pinguicula fiorii, endemismo esclusivo della Majella, insediata su rupi stillicidiose in ambiente di forra, ricchi di muschi ed epatiche (Tammaro & Pace, 1987).
Per il severissimo e selettivo ambiente dei brecciai, sono state individuate diverse tipologie
vegetazionali, che si differenziano prevalentemente sulla base delle dimensioni dei clasti e
del grado di mobilità degli stessi (Pirone, 1998). In particolare. gli aspetti individuati sono:
- a Festuca dimorpha e Drypis spinosa subsp. spinosa (Migliaccio, 1970; Bonin, 1978;
Feoli-Chiapella, 1983), che si sviluppa su brecciai mobili con clasti minuti, in una fascia altitudinale ampia, compresa tra i 1100 ed i 2000 metri;
- a Festuca dimorpha e Galium magellense, nell’intervallo altitudinale di 1600-2350
metri. È l’aspetto più maturo e può essere considerato come termine di passaggio verso forme di vegetazione più stabili come i seslerieti;
- a Cymbalaria pallida, specie endemica dell’Appennino centrale, che si sviluppa sui
brecciai mediamente consolidati con elevata acclività ed esposti prevalentemente a nord;
- a Drypis spinosa subsp. spinosa e Ligusticum lucidum subsp. cuneifolium, quest’ultima entità endemica dell’Appennino centrale. Si insedia su ghiaioni di falda in prossimità di accumuli argillosi fluvio-glaciali. Sulla Majella è stato rinvenuto alla Rava del
Ferro di S. Eufemia e a Feudo Ugni (Pirone, 1998);
- a Festuca dimorpha e Geranium macrorhizum, descritto da Conti e Manzi (1992) per
le Mainarde nel Molise e citato per la Majella da Giglio e Tammaro (1995).
Piano subalpino
Al piano subalpino sono legati i popolamenti ad arbusti prostrati, che sulla Maiella sono rappresentati dalla mugheta e dal ginepreto nano.
La vegetazione di maggiore interesse è, indubbiamente, quella, a carattere relittuale, a
pino mugo (Pinus mugo), che già il Chiarugi (1939) definiva come “brughiera ipsofila
di tipo nordico”, quasi del tutto assente lungo l’Appennino e conservatasi in modo così evidente ed esteso solo sulla Majella. Tale vegetazione, descritta da Migliaccio (1966),
costituisce la vegetazione climacica dell’orizzonte subalpino del massiccio, alla quale
tenderebbero dinamicamente le associazioni di prateria. Per la distinzione delle due tipologie cenologiche individuate sul massiccio, nonché per le considerazioni di carattere fitogeografico, ecologico e dinamico, si rimanda al lavoro di Stanisci (1997).
Nei settori meridionali, più caldi, gli arbusteti prostrati sono dominati dal ginepro nano (Juniperus communis var. saxatilis). Rispetto a quelli già visti per il piano montano,
questi sono differenziati da un contingente di specie di altitudine quali Phyteuma orbiculare, Saxifraga paniculata e Aster alpinus subsp. alpinus.
Per i pascoli, oltre a quelli già ricordati per il piano montano, la cenosi più caratteriz-
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zante di questo orizzonte è quella a Sesleria juncifolia subsp. juncifolia, che si insedia
generalmente sui versanti più acclivi con esposizioni meridionali e suoli superficiali,
poco evoluti e ricchi di scheletro. È un pascolo discontinuo, dal tipico aspetto gradinato; accanto alla sesleria, nettamente dominante, sono presenti numerose altre specie tra
cui diverse di importanza fitogeografica o conservazionistica, come ad esempio Gentiana dinarica, Androsace villosa subsp. villosa, Anthemis cretica subsp. petraea, Biscutella laevigata subsp. australis, Achillea barrelieri subsp. mucronulata, ecc.
Nelle zone più elevate della catena del Morrone è stato rilevato (Pirone 1998) un aspetto diverso di seslerieto, già descritto da Biondi et alii (1988) per l’Appennino centrale,
che si insedia prevalentemente nelle situazioni di cresta, di cui sono specie dominanti,
oltre a Sesleria juncifolia subsp. juncifolia, anche Carex humilis, Festuca circummediterranea, Oxytropis campestris, Carex kitaibeliana subsp. kitaibeliana, Trinia dalechampii e Globularia meridionalis.
A Feudo Ugni (Pirone 1998) è presente un altro pascolo dominato da Festuca laevigata subsp. crassifolia, già descritto da Petriccione e Persia (1995) per i massicci calcarei
dell’Appennino centrale.
Il tipo di pascolo più evoluto, insediato sui suoli più profondi generalmente sui versanti settentrionali, è il Luzulo-Festucetum macratherae, caratterizzato da Festuca violacea subsp. italica, Luzula spicata subsp. bulgarica e Trifolium thalii.
Per quanto riguarda le rupi, è stata descritta (Pirone, 1997), per la fascia subalpina della Majella-Morrone e dell’Aremogna, una comunità Saxifraga exarata subsp. ampullacea e S. italica, entrambe endemiche dell’Appennino centrale. Questa vegetazione si
insedia con i compatti pulvini delle sassifraghe citate su rupi, nicchie e cenge con esposizioni ai quadranti settentrionali.
Interessanti cenosi rupicole sono quelle a Silene pusilla, Pinguicula fiorii e Soldanella
minima subsp. samnitica, che si insediano alla base delle rupi ombrose con esposizioni
settentrionali, spesso in corrispondenza di sgrottamenti (Pirone e De Nuntiis, 2002). Le
due entità citate per seconde rivestono una grande importanza fitogeografica in quanto
esclusive del massiccio della Majella. Nella composizione specifica di queste fiocenosi
entrano, inoltre, Saxifraga sedoides, Veronica aphylla, Cystopteris fragilis, C. alpina e
Ranunculus magellensis, quest’ultima specie endemica dell’Appennino centrale.
La vegetazione di ghiaione è costituita prevalentemente dal tipo già visto per il piano
montano a Festuca dimorpha e Galium magellense
Piano alpino
Al di sopra dei 2200-2300 metri si estende il regno delle fitocenosi erbacee primarie,
incontrastate protagoniste della vegetazione di alta quota. Questo difficilissimo ambiente, rappresentato prevalentemente da aride pietraie punteggiate da zolle pioniere di
vegetazione, permette, attraverso una severa selezione, l’affermazione solo di poche e
specializzate cenosi di enorme interesse fitogeografico, ricche come sono di specie endemiche e relitte.
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Relativamente alle cenosi di prateria, sono state distinti diversi tipi. Uno a Leontopodium nivale, la bellissima stella alpina dell’Appennino, e Sesleria juncifolia subsp. juncifolia è stato rinvenuto a Femmina Morta, alla Tavola Rotonda ed in Valle Cannella
(Blasi et alii, 2005). Rispetto ai seslerieti subalpini, questo presenta una copertura quasi continua e si afferma sulle creste che bordano gli ampi bacini tettonici. Tra le specie
più rappresentate vi sono Aster alpinus subsp. alpinus, Iberis saxatilis subsp. saxatilis,
Carex kitaibeliana subsp. kitaibeliana, C. humilis e Sempervivum aracnoideum.
Un’altra tipologia, che si presenta in chiazze erbacee discontinue che colonizzano aree
a debole pendenza nelle zone di contatto tra i fianchi e le valli o aree pianeggianti tra doline (Blasi et alii, 2005), è caratterizzata da Helianthemum oelandicum subsp. alpestre e
Festuca violacea subsp. italica, cui si accompagnano più frequentemente Leontopodium
nivale, Poa molinerii, Anthyllis vulneraria subsp. pulchella ed Avenula praetutiana.
Nelle stesse aree, ma su suoli ricchi di detrito, si afferma una terza comunità a dominanza di Plantago atrata subsp. atrata e Leontodon montanus subsp. breviscapus, rilevata a Femmina Morta e Grotta Canosa (Blasi et al., 2005). Nel corteggio floristico
le specie più abbondanti sono Armeria magellensis subsp. majellensis, Potentilla crantzii subsp. crantzii, Festuca violacea subsp. italica e Poa alpina subsp. alpina.
Nelle depressioni in corrispondenza delle vallette nivali, con suolo umo-carbonatico,
sono state individuate una comunità a Gnaphalium hoppeanum subsp. magellense e
Plantago atrata subsp. atrata (Feoli Chiapella e Feoli 1977), cui si accompagnano Ranunculus apenninus, Ranunculus magellensis e Soldanella minima subsp. samnitica ed
una a dominanza di Nardus stricta (Blasi et alii, 2005) con, tra le più abbontanti, Luzula spicata subsp. bulgarica, Potentilla crantzii subsp. crantzii ed Erigeron epiroticus.
Pure sul fondo di depressioni, su suoli completamente decarbonatati e privi di scheletro, sono state individuate a Femmina Morta e tra M. Amaro e Pesco Falcone (Blasi et
al., 2005) comunità a Taraxacum apenninum e Trifolium thalii con Taraxacum glaciale, Gnaphalium oppeanum subsp. magellense, Crepis aurea subsp. glabrescens.
Per i suoli di tipo rendzina (originatisi da calcare finemente suddiviso e mescolato a materia organica) Feoli Chiapella e Feoli (1977) hanno descritto una prateria chiusa a dominanza di Kobresia myosuroides, vicariante degli elineti delle Alpi e ricca, come le altre cenosi di altitudine, di specie importanti quali, ad esempio, Oxytropis neglecta, O.
campestris e Leotopodium nivale.
In ambienti simili, su pendii detritici umidi, è stata segnalata, per Valle Cannella (Tammaro, 1986), anche la presenza di Salix breviserrata, orofita alpico-pirenaica, diffusa
in Italia sulle Alpi e, sull’Appennino, nota solo per l’Appennino Emiliano e, poi, Gran
Sasso, Maiella e Parco Nazionale d’Abruzzo. Su pendii stabili a bassa acclività come
in corrispondenza del Terzo Portone ed a Piano Amaro (Di Fabrizio et alii, 2006) è presente, inoltre, una prateria discontinua a dominanza Carex kitaibeliana subsp. kitaibeliana, fisionomicamente simile a quella già vista per il piano subalpino, in cui specie
codominanti sono Potentilla crantzii subsp. crantzii, Armeria majellensis subsp. majellensis, Thymus praecox subsp. polytrichus, Anthyllis vulneraria subsp. weldeniana
151
e Silene acaulis subsp. bryoides.
Recentemente sul massiccio della Majella (Di Fabrizio et alii., 2006; Di Pietro et alii, 2008)
sono state individuate due altre tipologie di prateria mesofila del piano alpino, una a dominanza di Trifolium noricum subsp. praetutianum ed una a Poa alpina subsp. alpina
La vegetazione ad elevata discontinuità della tundra alpina è formata dai pulvini di Silene acaulis subsp. bryoides e di Saxifraga oppositifolia subsp. speciosa. La prima specie, in particolare, è una efficace colonizzatrice di questo ambiente estremo e molte altre specie sopravvivono solo all’interno dei suoi cuscinetti (Blasi et alii 2005; Di Fabrizio et alii 2006).
Per la vegetazione dei brecciai culminali, allo stato attuale delle conoscenze le comunità presenti sono (Migliaccio, 1970; Feoli Chiapella e Feoli 1977; Feoli Chiapella,
1983; Di Pietro et alii, 2008):
- a Isatis apennina e Thlaspi stylosum, in cui relativamente abbondante è anche Heracleum sphondylium subsp. orsinii, che si afferma su substrati molto instabili;
- a Crepis aurea subsp. glabrescens e Leontodon montanus subsp. breviscapus, che si
sviluppa in prossimità degli apici di alimentazione con granulometria medio-fine;
- a Saxifraga oppositifolia subsp. speciosa e Papaver alpinum subsp. ernesti-mayeri,
tipico dei brecciai più o meno consolidati ed a clasti grossolani, pressoché privi di humus;
- ad Adonis distorta e Ranunculus seguierii subsp. seguierii, che si afferma in corrispondenza di suoli “a strisce” caratterizzati da una alternanza di linee di detrito e linee
di particelle fini di suolo.
Sui ghiaioni consolidati, in corrispondenza di stazioni particolarmente umide e a lungo
innevate, sono presenti anche praterie chiuse paucispecifiche a dominanza di Salix retusa, arbusto strisciante al suolo che ospita tra i suoi rami diverse specie tipiche delle
praterie altomontane (Blasi et alii, 2005; Di Fabrizio et alii, 2006).
Per le rupi altomontane è stata descritta da Feoli e Feoli Chiapella (1976) una tipologia
di vegetazione a dominanza di Potentilla apennina subsp. apennina, cui si accompagnano Saxifraga porophylla subsp. porophylla, Saxifraga paniculata e Ptilotrichum rupestre subsp. rupestre.
Un altro tipo, che si rinviene sulle rupi più elevate in situazioni di cresta ed è invece dominato dal genepì appenninico (Artemisia umbelliformis subsp. eriantha), è stato osservato a M. Acquaviva-Cima delle Murelle e a M. S. Angelo (Pirone, 1998; oss. pers.).
Alla base delle pareti rocciose o su terrazzi e gradoni delle rocce su cui si accumula suolo, generalmente ad esepsizioni settentrionali, è presente una comunità vegetale a dominanza di Saxifraga sedoides e S. italica (Di Fabrizio et alii, 2006).
Come già visto per il piano subalpino, anche qui si rinvengono, sulle rupi ombrose, le
cenosi caratterizzate da Silene pusilla, Pinguicula fiorii e Soldanella minima subsp.
samnitica.
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Lineamenti vegetazionali del Parco Naturale Regionale
Sirente-Velino
Gianfranco Pirone e Anna Rita Frattaroli
*Dipartimento di Scienze Ambientali, Università dell’Aquila
Introduzione
Il Parco Naturale Regionale Sirente-Velino, istituito dalla Regione Abruzzo con L. R.
n. 54 del 13 luglio 1989, si estende su circa 55.000 ettari ed è, sotto il profilo naturalistico, uno dei più pregevoli territori dell’Appennino.
Geograficamente, il Parco è delimitato a nord-est dalla Valle del fiume Aterno, ad ovest
dalla Piana di Campo Felice e a sud dalla Conca del Fucino. Nel territorio è presente
una grande varietà di emergenze geomorfologiche ed ambientali: altopiani tettonicocarsici, come L’Altopiano delle Rocche ed il Piano di Pezza; habitat rupestri, come le
Gole di Celano ed il Vallone di Teve; imponenti montagne di natura carbonatica, superanti i 2000 metri di altitudine, come il Monte Velino (m 2486), il Monte Sirente (m
2348) ed i Monti della Magnola (m 2220), che si contrappongono alle morfologie pelitico-arenacee, dalle linee più morbide, come quelle della Valle dell’Aterno.
Queste unità paesaggistiche e geomorfologiche racchiudono una elevata biodiversità
espressa dal ricchissimo patrimonio floristico, vegetazionale e faunistico, cui si aggiungono centri abitati di notevole importanza storica e architettonica, castelli, conventi
e aree archeologiche, oltre a una ricca e varia tradizione etno-gastronomica.
Nel Parco Sirente-Velino anche l’azione dell’uomo sulla natura è stata molto diluita nel
tempo e nello spazio. Nel territorio si interpretano facilmente i segni delle lente trasformazioni dovute alle attività tradizionali che, forse paradossalmente, hanno in effetti contribuito a “migliorare” il paesaggio vegetale. Solo a tratti, come ferite inferte sul
territorio, si notano i segni dell’antropizzazione recente e anche l’occhio più distratto
sa cogliere lo stridente contrasto di questi elementi estranei che non si sono inseriti e
non si potranno inserire mai nelle linee del paesaggio appenninico.
Il clima del Parco mostra caratteristiche non molto diverse da quelle di altre aree dell’Appennino Abruzzese. Si tratta di un clima temperato, caratterizzato da una certa incidenza del freddo invernale che diventa notevole alle maggiori altitudini. Il regime pluviometrico presenta un massimo in autunno-inverno ed un minimo in estate. Le scarse
precipitazioni lungo il versante meridionale dell’allineamento Sirente-Magnola-Velino
ne determinano condizioni di discreta continentalità. Notevole è, comunque, la diversificazione dei singoli bioclimi sulla base dell’altitudine, dell’esposizioni e della topografia.
Un cenno alla Flora
Tra la moltitudine di specie vegetali, annuali o perenni, modeste di aspetto erbaceo, o solenni e monumentali legnose, vistose nelle fioriture o poco appariscenti, alcune più di altre stimolano interesse scientifico o semplice curiosità. I motivi sono diversi e vanno dal-
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la pura e semplice rarità alla particolarità della distribuzione geografica, dalla storia evolutiva alla peculiarità degli adattamenti, dalla caratteristica di essere sensibili campanelli di allarme delle modificazioni
ambientali (i cosiddetti bioindicatori) alla grande plasticità di adattamento alle situazioni più diverse, dalla possibilità di utilizzazione di
alcune piante al pericolo immediato di estinzione di altre.
Tulipano montano (Tulipa australis), vistosa
pianta dei prati
pingui (foto di G.
Pirone).
È possibile quindi stilare delle liste ragionate in cui le specie sono attribuite a varie categorie, quasi sempre su base biogeografica, che rappresentano uno strumento di immediata comprensione dell’importanza della flora di un territorio.
Prima quindi di tracciare i lineamenti della vegetazione, è utile fare
un breve cenno alle peculiarità floristiche del Parco. Dai dati noti fino ad oggi risulta che la flora ammonta a circa 1650entità tra specie
e sottospecie, pari ad oltre il 50% della flora dell’Abruzzo, che annovera oltre 3260 entità: si tratta di un patrimonio biologico di notevole importanza, se si pensa che all’elevato numero di specie si somma anche una grande qualità della flora, evidenziata dalla presenza
di numerose piante di interesse fitogeografico (in particolare le endemiche e quelle relittuali).
Tra le specie endemiche si riportano i seguenti esempi*:
- endemiche dell’Abruzzo: Biscutella laevigata subsp. australis, Herniaria bornmuelleri, Minuartia glomerata subsp. trichocalycina, PtiGenziana metlotrichum rupestre subsp. rupestre;
timborsa (Gen- endemiche dell’Appennino centrale: Androsace vitaliana subsp.
tiana pneumopraetutiana, Adonis distorta, Asperula neglecta, Cerastium thomananthe), rarissisii, Euphorbia gasparrini subsp. samnitica, Iris marsica, Leontodon
mo relitto glaciamontanus subsp. breviscapus, Leucanthemum tridactylites, Ligustile di Campo di
cum
lucidum subsp. cuneifolium, Ononis cristata subsp. apennina,
Rovere (foto di
Paeonia
officinalis subsp. italica, Ranunculus magellensis, SaxifraG. Pirone).
ga italica, Saxifraga oppositifolia subsp. speciosa, Silene cattariniana, Thlaspi stylosum, Nigritella widderi (quest’ultima presente anche
sulle Alpi orientali);
- endemiche dell’Appennino centro-meridionale: Ajuga tenorei, Astragalus aquilanus,
Brasica gravinae, Ranunculus pollinensis, Saxifraga exarata subsp. ampullacea.
Tra le specie relitte del glacialismo quaternario ricordiamo le seguenti:
Androsace maxima, Allium strictum, Betula pendula, Carex vesicaria, Carex vulpina,
Crepis pygmaea subsp. pygmaea, Dactylorhiza incarnata subsp incarnata, Orchis spitzelii, Sesleria uliginosa, Succisa pratensis, Triglochin palustre.
Altre specie rare per l’Abruzzo sono:
* Per la nomenclatura si fa riferimento alla recente Checklist della Flora Italiana (Conti et al., 2005).
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Hieracium naegelianum, Klasea lycopifolia, Orlaya daucorlaya, Pseudolysimachion barrelieri, Pulsatilla montana subsp. montana, Saponaria bellidifolia, Andracne telephioides, Carex depressa subsp. basilaris, Myosotis stricta, Myosotis speluncicola, Quercus crenata, Ranunculus polyanthemos subsp. polyanthemoides.
Le specie citate, di grande prestigio nel panorama regionale ed italiano, sono quasi tutte inserite nelle Liste Rosse Regionali delle Piante d’Italia.
Primula orecchia
Tuttavia se dovessimo scegliere una specie vegetale emblematica del d’orso (Primula
Parco Sirente-Velino, il pensiero andrebbe subito alla specie più fa- auricula), tipica
mosa per lo meno dell’area sirentina: il narciso (Narcissus poeticus), pianta rupicola
(foto di G. Piroben noto per la celebre festa di Rocca di Mezzo. Ma se controlliamo ne).
la lista delle emergenze floristiche del Parco il narciso non è incluso,
perché non è raro, non è un endemismo, né, tantomeno, un relitto glaciale. Eppure è una pianta che ha molto da raccontarci sotto il profilo storico e mitologico, che imprime una peculiare fisionomia al paesaggio dell’Altopiano delle Rocche.
La conoscenza per così dire “scientifica” della flora e delle problematiche connesse a volte ci allontana dalla percezione dell’intenso rapporto uomo-piante che ha avuto molta più importanza in passato ma
che ancora oggi ha una sua ragione d’essere profonda e motivata.
I boschi, i prati, le praterie d’altitudine sono state la fonte primaria
Adonide curvadelle economie delle aree montane del Parco (e la pastorizia e le utita (Adonis dislizzazioni forestali ne sono esempi evidenti), ma gli ambienti naturatorta), rarissimo
li sono stati anche fonte primaria per l’approvvigionamento di quel- endemismo dei
le piante i cui principi attivi, spesso veleni dalla potenza inaudita, ve- ghiaioni culminivano comunemente usati, in adatte dosi, nella cura di malanni e ma- nali dell’Appennino centrale (folattie vere o ipotetiche.
Quindi per centinaia e centinaia di anni stregoni, sacerdoti pagani e to di G. Pirone).
monaci cristiani hanno raccolto la belladonna (Atropa belladonna) negli stessi luoghi, ai margini delle faggete, dove anche oggi la possiamo ritrovare, per curare il mal di denti o per lenire i dolori reumatici. E poi ancora, nei pascoli d’alta quota,
la genziana maggiore (Gentiana lutea) insuperabile nei principi digestivi, il cui uso è stato tramandato dalla medicina popolare fino ai nostri giorni, ma anche il veratro (Veratrum album) la cui somiglianza con la precedente è talmente sconcertante, quando le
piante non sono fiorite, che ha provocato, nel volgere dei secoli, non pochi casi di avvelenamento per chi la utilizzava erroneamente come digestivo invece di impiegarlo, in
piccolissime dosi, come sedativo, anestetico ed antiparassitario esterno. Assai ricercato
anche l’iperico (Hypericum perforatum) o cacciadiavoli, i cui principi benefici antidepressivi e quelli come cicatrizzante per le piaghe da decubito, le scottature solari e le
ustioni, trovano oggi più che mai impiego in erboristeria e nella medicina omeopatica.
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Molte specie, ricche in oli essenziali, come la santoreggia (Satureja
montana), i timi (Thymus sp. pl.), la mentuccia (Calamintha nepeta),
ecc. sono state e sono tuttora impiegate in cucina e nella medicina naturale e rappresentano un patrimonio culturale di grande importanza,
ma anche una potenziale risorsa economica da incentivare favorendone la coltivazione rigorosamente biologica.
La stella alpina
dell’Appennino
(Leontopodium
nivale), rara ed
emblematica
pianta delle praterie culminali.
Pulvino di vitaliana abruzzese
(Androsace vitaliana subsp. praetutiana), endemismo cenro-appenninico
(foto G. Pirone).
La genziana appenninica (Gentiana dinarica),
altra specie delle
praterie di alta
quota (foto G. Pirone).
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La Vegetazione
Se la diversità floristica del Parco è elevata, non meno complesso è il
panorama della vegetazione, come conseguenza dell’articolato mosaico ambientale, della tormentata geomorfologia e dei numerosi tipi bioclimatici
Il territorio del Parco Sirente-Velino è considerato, a ragione, d’importanza strategica nella logica della “connettività ambientale” in
quanto costituisce un “corridoio” naturale che, senza soluzione di continuità, mette in relazione l’Appennino centro-meridionale con quello centro-settentrionale, consentendo alla fauna di spostarsi lungo l’asse della catena senza incontrare barriere insormontabili.
Un ragionamento analogo può essere fatto per le comunità e per le
specie vegetali non tanto in senso longitudinale quanto trasversale. Il
Parco Sirente-Velino rappresenta un mosaico d’ aspetti ecologicamente distinti che idealmente collegano il mondo mediterraneo, le
cui vestigia sono ancora ben identificabili nelle Gole di San Venanzio e nella bassa valle dell’Aterno, a quello alpino molto ben rappresentato nei settori sommitali delle catene del Sirente e del Velino, passando attraverso il mondo continentale delle praterie, delle garighe,
delle steppe e dei querceti caducifogli, largamente diffusi nei settori
interni, arricchendosi in questo percorso della componente oceanica
rappresentata delle grandi faggete che ammantano soprattutto i suoi
versanti esposti a settentrione. Una sintesi veramente peculiare di ambienti assai diversi che pure sfumano gli uni negli altri a costituire
un’”unità ambientale” di grande valore, che trova analogia solo negli altri gruppi montuosi abruzzesi non a caso divenuti essi pure non
solo aree protette ma anche Parchi Nazionali: il Gran Sasso-Monti
della Laga e la Majella.
In questa nota la descrizione della vegetazione segue, per semplicità, il criterio fisionomico. Si ricorda, comunque, che le comunità vegetali sono distribuite in fasce altimetriche (o piani altitudinali) corrispondenti alle condizioni climatiche legate alle diverse quote. Per
ogni piano si ammette l’esistenza potenziale di poche comunità stabili in equilibrio con il macroclima. In realtà, nell’ambito di ciascun
piano vari fattori (esposizione, natura del suolo, disponibilità idrica,
ecc.) diversificano il paesaggio vegetale imprimendo al territorio una particolare fisionomia. Per il territorio del Parco il rapporto tra piani climatico-altitudinali e vegetazione stabile si può schematizzare nel seguente modo:
piano collinare: querceti e boschi misti termofili e semi-mesofili; cenosi extrazonali
di sclerofille sempreverdi;
piano montano: faggete e altri boschi mesofili;
piano subalpino: arbusteti prostrati;
piano alpino:
praterie di altitudine.
Pascoli collinari e montani
Nella fascia collinare-montana sono molto diffusi i pascoli secondari, derivati cioè dal
taglio del bosco. Sono aspetti che all’occhio del naturalista abituato al paesaggio centro appenninico possono risultare comuni, quasi banali, ma la loro importanza nel contesto europeo è stata ben evidenziata dagli esperti che hanno stilato le liste degli habitat prioritari inseriti nella Direttiva Habitat 92/43 dell’Unione Europea. Pur essendo comunità vegetali seminaturali derivate dal taglio e dal pascolo rappresentano un serbatoio di biodiversità straordinario sia in termini floristici che cenologici, soprattutto quando si arricchiscono delle variegate fioriture di orchidee.
Si tratta, nella maggior parte dei casi, di gramineti xerofili a dominanza di erbe perenni, che occupano superfici acclivi, spesso con elevata pietrosità e rocciosità. La specie
vegetale più diffusa e caratterizzante è il forasacco eretto (Bromus erectus).
In aree particolarmente aride si affermano i prati a dominanza di specie annuali. Più raramente, su suoli profondi con maggiore disponibilità idrica, i pascoli sono caratterizzati da corteggi floristici di tipo mesofilo.
A mosaico con i pascoli xerici, nelle aree con più marcati affioramenti rocciosi o con
maggiore pietrosità, sono frequenti le fitocenosi con fisionomia di gariga, nella quale
diventano dominanti le piante basso-cespugliose, spesso aromatiche.
Tra le varie tipologie di pascolo arido, diffuse su suoli poco evoluti con roccia madre
carbonatica, accenniamo alle seguenti:
- Asperulo-brometo; è ampiamente diffuso nel piano collinare dei rilievi calcarei dell’Appennino centrale, su suoli poco evoluti. Le specie più frequenti e caratteristiche sono la stellina purpurea (Asperula purpurea), l’eringio ametistino (Eryngium amethystinum), l’aglio delle bisce (Allium sphaerocephalon), il garofano cigliato (Dianthus ciliatus) e la radicchiella laziale (Crepis lacera).
- Santoreggio-brometo; fitocenosi ad elevata componente basso-cespugliosa, con santoreggia montana (Satureja montana subsp. montana), piantaggine sempreverde (Plantago sempervirens), citiso spinoso (Chamaecytisus spinescens), timo goniotrico (Thymus
pulegioides) e vedovelle appenniniche (Globularia meridionalis).
- Seslerio-brometo; pascolo discontinuo a dominanza di sesleria dei macereti (Sesleria
nitida), tipico dei suoli poco evoluti, ricchi di scheletro; altre specie ad esso legate sono
la carice appenninica (Carex macrolepis), il kümmel rupestre (Carum heldreichii), il cardo alpino (Carduus carlinaefolius) e la poligala maggiore (Polygala major).
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- Brachipodieto a Brachypodium rupestre;
è diffuso nella fascia collinare-montana,
dove in genere sostituisce le associazioni
xeriche nelle aree più fresche con esposizioni settentrionali.
- Brachipodieto a Brachypodium genuense;
si afferma a quote più elevate (generalmente tra i 1600 ed i 2100 metri), dove vicaria
il pascolo descritto precedentemente; tra le
specie caratteristiche ricordiamo lo spillone
della Majella (Armeria majellensis), la cinquefoglia di Rigo (Potentilla rigoana) e il
millefoglio di Tenore (Achillea tenorii). In
aree subpianeggianti e su suoli più profondi, talora resi compatti ed asfittici dallo stazionamento del bestiame, si insedia un brachipodieto ricco di nardo (Nardus stricta).
- Serratulo-globularieto; pascolo discontinuo a vedovelle appenniniche (Globularia
meridionalis) e cerretta maggiore (SerraLa sassifraga a foglie opposte (Saxifraga oppotula nudicaulis), si insedia sui depositi flusitifolia subsp. speciosa), endemica dell’Apvio-glaciali del Piano di Pezza, con tipica
pennino centrale, dove vive sulle ghiaie altostruttura aperta ad isole di vegetazione; almontane (foto di G. Pirone).
tre specie presenti sono il forasacco eretto
(Bromus erectus), l’eliantemo candido (Helianthemum oelandicum subsp. incanum),
l’ononide appenninica (Ononis cristata subsp. apennina), l’iberide rupestre (Iberis saxatilis) e l’euforbia di Nizza (Euphorbia nicaeensis).
Un pascolo peculiare, che si discosta da quelli sopra descritti, è il cirsio-seslerieto, a dominanza di sesleria palustre (Sesleria uliginosa), raro relitto glaciale, e cardo nano (Cirsium acaule). E’ una fitocenosi mesofila a cotico chiuso, che si insedia in aree pianeggianti su suoli bruni profondi generatisi da sedimenti lacustri fini, nota per il Parco Sirente-Velino (Piano di Pezza, Campo Felice) e per Campo Imperatore sul Gran Sasso.
I pascoli mesofili più tipici sono legati ai suoli pesanti, con buona disponibilità idrica,
ad esempio quelli derivanti dal flysch, e le fitocenosi che li rappresentano sono caratterizzate da corteggi floristici ricchi di entità dei prati pingui o periodicamente inondati; tra le specie più rappresentative citiamo i sonaglini comuni (Briza media), la covetta dei prati (Cynosurus cristatus), il caglio zolfino (Galium verum), il lino irsuto (Linum hirsutum), il trifoglio dei prati (Trifolium pratense) e il paleo odoroso (Anthoxanthum odoratum).
I prati a sviluppo stagionale limitato al periodo primaverile, infine, sono dominati da
specie annuali di piccola taglia, a distribuzione generalmente mediterranea, quali il pa-
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leo annuale (Brachypodium distachyum),
il trifoglio scabro (Trifolium scabrum), l’eliantemo annuale (Helianthemum salicifolium), il bupleuro odontite (Bupleurum baldense). Si rinvengono nelle aree più basse
e aride del Parco ed anch’essi, come i pascoli sopra descritti, formano spesso dei
mosaici con le garighe.
Garighe
La gariga è un tipo di vegetazione a dominanza di piccoli cespugli xerofili, che si afferma lungo pendii rocciosi molto acclivi,
derivanti generalmente dalla degradazione
della macchia mediterranea o dei boschi termofili di latifoglie decidue. Sono aspetti
molto peculiari del paesaggio che danno l’idea del forte potere colonizzatore del mondo vegetale su substrati difficili, un mondo
di profumi e colori che sfida l’ostilità dell’ambiente e offre e riceve un importante
contributo dalla frequentazione degli insetti impollinatori, api in primo luogo.
Mentre la fisionomia della gariga è relativamente costante, la sua composizione floristica varia invece in dipendenza delle condizioni bioclimatiche e del substrato.
Nella fascia collinare-submontana dell’Appennino centrale le specie più frequenti
che caratterizzano la gariga sono la santoreggia montana (Satureja montana subsp.
montana) e quella greca (Micromeria graeca), l’elicriso (Helichrysum italicum subsp.
italicum), le fumane (Fumana procumbens
e F. thymifolia), gli eliantemi (Helianthemum oelandicum subsp. incanum e H. apenninum), il citiso spinoso (Cytisus spinescens), il ranno spaccasassi (Rhamnus saxatilis), il camedrio polio (Teucrium polium
subsp. capitatum) e quello montano (Teucrium montanum).
Una nota caratteristica delle garighe è la
La radicchiella dei ghiaioni (Crepis pygmaea),
il cui nome volgare indica l’habitat di elezione
(foto G. Pirone).
Il camedrio alpino (Dryas octopetala), esempio notevole di relitto glaciale (foto G. Pirone).
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presenza di piante aromatiche appartenenti alla famiglia delle Labiate, alcune delle quali già citate, che nella stagione primaverile colorano queste fitocenosi con mille sfumature e diffondono il loro gradevolissimo profumo. Ed è sempre a primavera che nella
gariga fioriscono tante graziose orchidee quali Ophrys sphegodes, O. crabronifera, Orchis pauciflora, O. morio, O. italica, O. purpurea, ecc.
Nel territorio del Parco le garighe sono molto diffuse in tutte le aree collinari-montane
xeriche; le tipologie più significative sono:
- gariga a cisto di Creta (Cistus creticus subsp. creticus), ginestrella (Osyris alba) e euforbia spinosa (Euphorbia spinosa), ad impronta submediterranea; è tipica delle zone
più basse fino ad un’altitudine di 600-700 metri. Un aspetto meno xerofilo è quello a
bosso (Buxus sempervirens), presente nell’area delle Gole di S. Venanzio.
- gariga a erba stregonia (Sideritis italica) e vedovelle appenniniche (Globularia meridionalis), legata a quote generalmente superiori ai 600-700 metri, in climi di tipo
temperato;
- gariga a salvione giallo (Phlomis fruticosa), cespuglio a distribuzione mediterraneoorientale ed a carattere spiccatamente xerofilo. Esempio notevole di relitto xerotermico legato al mediterraneismo del Fucino, è presente lungo le pendici sud-occidentali
dell’allineamento Colle della Forchetta-Colle del Rascito-Costa Murata, tra gli 850 ed
i 1100 metri circa, ai margini sud-orientali del Parco.
- gariga a lino delle fate capillare (Stipa capillata), ad impronta steppica, che si afferma nei piani collinare e submontano delle valli intermontane dell’Abruzzo Nel territorio del Parco è poco frequente, limitata ad alcuni settori caldo-aridi che si affacciano
sulla Conca del Fucino.
evoca le grandi distese erbose della Pannonia ed il vistoso narciso (Narcissus poeticus).
Una tipologie peculiare è quella a dominanza di euforbia sannitica (Euphorbia gasparrini subsp. samnitica), endemica dell’Appennino centrale e molto diffusa al Piano
di Pezza ed ai Prati del Sirente.
Un altro gruppo riunisce i prati sottoposti ad inondazione nei periodi invernali e primaverili. Le condizioni litologiche ed idriche favoriscono l’insediamento di queste comunità nelle aree più depresse dei pianori e le cenosi più significative sono quelle a dominanza di orzo perenne (Hordeum secalinum), migliarino maggiore (Deschampsia caespitosa) e serratula comune (Serratula tinctoria), nelle quali sono presenti anche la coda di topo ovata (Alopecurus rendlei), la gramigna bionda (Trisetum flavescens), il forasacco palustre (Bromus racemosus) e la coda di topo comune (Alopecurus pratensis).
Nelle aree più depresse di Campo di Rovere (Altopiano delle Rocche), si insedia un
prato-pascolo la cui fisionomia è conferita dalla sesleria palustre (Sesleria uliginosa),
cui si è già fatto cenno a proposito dei pascoli. In questo caso la vegetazione si avvale
di una maggiore umidità edafica, con conseguenti maggiori valori di biomassa. Tra le
specie presenti citiamo le rarissime Klasea lycopifolia e Gentiana pneumonanthe, oltre a Molinia caerulea, Succisa pratensis, Astragalus danicus, Luzula multiflora e Filipendula vulgaris.
Percorrendo in maggio l’altopiano delle Rocche si avrà l’occasione di osservare le distese dei prati da sfalcio che, qualche settimana dopo, saranno falciate e composte nei
curiosi rotoloni di fieno lasciati ad asciugare al sole. Una tecnica relativamente recente questa che, attraverso l’innaturalità di queste forme, conferisce “valore aggiunto” alla qualità della percezione ambientale.
Prati permanenti
Le superfici dei pianori (Altopiano delle Rocche, Val d’Arano) sono occupate da prati
mesofili stabili, falciati, che si diversificano in varie fitocenosi con composizione floristica e biomassa dipendenti dalle condizioni idriche del substrato e dalle pratiche agropastorali. A primavera i prati sono caratterizzati dalle esuberanti e coloratissime fioriture di varie specie, soprattutto ranuncoli e narcisi, ma anche cicerchie selvatiche, euforbie e tarassachi.
Tra i vari tipi di prati pingui, vi sono le fitocenosi a dominanza di avena maggiore (Arrhenatherium elatior) e di covetta dei prati (Cynosurus cristatus), di loglio (Lolium perenne) e trifoglio ladino (Trifolium repens), di gramigna bionda (Trisetum flavescens),
di avena maggiore (Arrhenatherum elatius), di Klasea lycopifolia, specie di origine sudest europea fino a qualche tempo fa non conosciuta nel territorio italiano. In essi sono
frequenti anche il trifoglio pratense (Trifolium pratense), la piantaggine pelosa (Plantago media), la codolina comune (Phleum pratense), il paleo odoroso (Anthoxanthum
odoratum), la fienarola comune (Poa trivialis), la bistorta (Polygonum bistorta), il ranuncolo comune (Ranunculus acris), il tulipano selvatico (Tulipa australis), un probabile progenitore delle tante varietà selezionate dall’uomo a fini ornamentali, un pisello
selvatico (Lathyrus pannonicus subsp. asphodeloides), pianta di origine steppica che
Cariceti e altre comunità palustri
I popolamenti a grandi carici (magnocariceti) e ad altre elofite di piccola taglia sono osservabili lungo i fossi degli altopiani (Altopiano delle Rocche e Val d’Arano). Qui sono presenti le praterie palustri a dominanza di carice palustre (Carex acuta), più diffusa, e di carice vescicosa (Carex vesicaria) e carice volpina (Carex otrubae), più rare. Si
tratta di comunità di grande importanza fitogeografica in quanto alle nostre latitudini
possono essere considerate come dei relitti di aggruppamenti favoriti in passato dal clima quaternario più freddo ed umido.
Altre comunità palustri sono quelle a giunchina comune (Eleocharis palustris), a gramignone minore (Glyceria notata), a lisca maggiore (Typha latifolia) a coltellaccio maggiore (Sparganium erectum).
Si ricordano infine, per le stesse località, i popolamenti sommersi a ranuncolo acquatico (Ranunculus trichophyllus subsp. trichophyllus) ed a brasca comune (Potamogeton
natans), delle acque stagnanti o lentamente fluenti.
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Pascoli alpini e subalpini
Il Parco Sirente-Velino, con le sue cime che superano spesso i 2000 metri, offre una bella panoramica del mondo di alta quota dove le condizioni di vita sono difficili sia per le
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piante che per gli animali. Al di sopra del limite del bosco di faggio, collocato intorno ai
1800 metri, inizia, sul Sirente, ma ancora di più sulle aspre cime del Velino, l’arido e severo mondo delle praterie sommitali, dei ghiaioni, delle pietraie, delle rupi. Quasi tutte
le specie che vivono in questi ambienti non sono mai banali, molte sono rare o endemiche, alcune testimoniano antichi collegamenti con altri settori geografici come le Alpi o
la Penisola Balcanica. Altre piante richiamano alla memoria i paesaggi montani dell’Europa centrale e dell’Asia fino alle lontane e leggendarie vette himalayane.
Oltre il limite della faggeta e degli arbusteti prostrati, spesso compenetrate con questi
ultimi, sono insediate le fitocenosi erbacee altomontane, protagoniste dei difficili ambienti di alta quota, dove a volte riescono a vivere solo esigue zolle pioniere di vegetazione, molto specializzate e di notevole interesse fitogeografico perché ricche di entità
endemiche e relitte.
Il panorama di questa vegetazione che, nelle espressioni più tipiche, è di origine primaria e quindi svincolata dalla dinamica del bosco, è articolato in un complesso mosaico che sfuma, verso le quote inferiori, nei pascoli secondari, con frequenti fenomeni di compenetrazioni.
Tra le forme di pascolo alpino presenti sulle montagne del Parco, descriviamo brevemente le seguenti:
- Seslerieto a sesleria a foglie sottili (Sesleria juncifolia). Nell’aspetto più tipico si insedia lungo le creste ed i ripidi pendii di altitudine, oltre i 2000 metri, esposti a mezzogiorno e spesso battuti da forti venti, su suoli primitivi di tipo rendzina con abbondante scheletro. Tra le specie che lo caratterizzano citiamo, oltre alla sesleria, la pedicolare appenninica (Pedicularis elegans subsp. elegans), la carice di Kitaibel (Carex kitaibeliana), l’eliantemo candido (Helianthemum oelandicum subsp. incanum) e la campanula graminifolia (Edraianthus graminifolius subsp. graminifolius).
- Carici-seslerieto a carice umile (Carex humilis) e sesleria a foglie sottili (Sesleria juncifolia). E’ un pascolo discontinuo, che si sviluppa su suoli poco evoluti nelle aree con
processi di crioturbazione. Ha il suo optimum nel piano montano e, in condizioni favorevoli dal punto di vista microclimatico, sale notevolmente in quello altomontano.
- Sassifrago-sileneto, fisionomicamente dominato dalla sassifraga a foglie opposte (Saxifraga oppositifolia subsp. speciosa), endemica dell’Appennino centrale, e dalla silene a cuscinetto (Silene acaulis subsp. bryoides), prestigioso relitto glaciale. Questa particolare associazione vegetale costituisce la vegetazione a cuscinetti della tundra alpina. E’ legata alle aree di alta quota, oltre i 2300 metri, a debole pendenza, molto ventose e con esposizioni settentrionali; il suolo è poco evoluto, del tipo protorendzina, con
intensa azione crioclastica, ghiacciato per molti mesi e con notevoli fenomeni periglaciali. Altre piante di notevole importanza presenti nel sassifrago-sileneto sono l’achillea di Barrelier (Achillea barrelieri subsp. mucronulata), il dente di leone montano
(Leontodon montanus subsp. melanotrichus), la valeriana saliunca (Valeriana saliunca) e la vitaliana abruzzese (Androsace vitaliana subsp. praetutiana).
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- Luzulo-festuceto, con erba lucciola d’Italia (Luzula italica) e festuca appenninica (Festuca violacea subsp. italica). Si tratta di una cenosi a cotico chiuso, insediata in stazioni con maggiore disponibilità idrica e con suoli profondi e ben umificati, dove gli
stress ecologici dell’ambiente alpino sono ridotti.
- Pascolo a trifoglio di Thal (Trifolium thalii) e festuca dei nardeti (Festuca microphylla). E’ localizzato in stazioni pianeggianti o in depressioni umide con copertura nevosa prolungata, suoli bruni calcarei, a volte subacidi, ben sviluppati.
- Nardeti. Al di sopra dei 1800-1900 metri, in aree generalmente poco acclivi, sono presenti delle cenosi erbacee poco estese, compatte, dominate dal nardo (Nardus stricta),
graminacea cattiva foraggera che predilige suoli acidi, compatti e asfittici e che viene
quindi favorita dallo stazionamento degli animali al pascolo.
Arbusteti altomontani
Sulle montagne del bacino del Mediterraneo, oltre il limite del bosco sono frequenti gli
arbusteti prostrati, formati soprattutto da ginepri, pini, dafni, cotognastri, rose e ranni.
Dove le attività dell’uomo sono state, nelle varie epoche, limitate, queste formazioni si
presentano molto estese e compatte, spingendosi in altitudine fino a 2300-2500 metri.
Invece sulle montagne molto frequentate le pratiche del pascolo, con tagli ed incendi,
hanno portato alla drastica riduzione, a volte alla totale scomparsa, degli arbusteti, di
cui rimangono spesso solo esigue e isolate presenze.
Nel territorio del Parco queste formazioni sono ben rappresentate e, in alcuni casi, laddove le condizioni ecologiche sono loro favorevoli, scendono anche a quote molto basse, fino a 1500 metri circa, in contesti di vegetazione zonale di pertinenza della faggeta. Gli arbusti più frequenti sono il ginepro nano (Juniperus communis subsp. nana) e l’uva orsina
(Arctostaphylos uva-ursi); altri arbusti meno diffusi sono la dafne spatolata (Daphne oleoides), il cotognastro bianco (Cotoneaster nebrodensis) e la rosa alpina (Rosa pendulina).
Mantelli di vegetazione e arbusteti collinari e montani
Nello studio dei rapporti dinamici esistenti tra i vari tipi di vegetazione appenninica assumono particolare importanza quelle formazioni a struttura arbustiva che si insediano
ai margini del bosco (note con il termine di “mantelli di vegetazione”) o che colonizzano i campi ed i pascolo abbandonati. Nel Parco Sirente-Velino sono state riconosciute
varie comunità di mantello e di arbusteto, riconducibili a due principali gruppi.
Il primo è quello che riunisce le associazioni del piano collinare dell’Appennino su substrati calcarei e marnoso-arenacei, a contatto con i boschi misti di caducifoglie a prevalenza di roverella, cerro e carpino nero. Gli arbusti più rappresentativi sono il citiso
a foglie sessili (Cytisus sessilifolius), l’emero (Coronilla emerus subsp. emeroides), la
ginestra odorosa (Spartium junceum), il caprifoglio etrusco (Lonicera etrusca) ed il ginepro rosso (Juniperus oxycedrus subsp. oxycedrus). Aspetti del tutto peculiari sono
quelli con bosso (Buxus sempervirens) o con sommacco selvatico (Cotinus coggygria).
Il secondo gruppo è formato dai mantelli e arbusteti del piano montano, a contatto con
la faggeta e, in qualche caso, degli ostrieti più freschi. Gli aspetti più diffusi nel Parco
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sono quelli a dominanza di lentaggine (Viburnum lantana), ribes (R. una-crispa e R. alpinum), crespino ( Berberis vulgaris), spinocervino (Rhamnus catharticus), cotognastro minore (Cotoneaster integerrimus), ranno alpino (Rhamnus alpina).
Vegetazione forestale
La copertura forestale del territorio del Parco copre una superficie di circa 16. 500 ettari (pari al 28% circa) ed è articolata, in rapporto alle fasce altitudinali ed ai fattori ecologici, in boschi termofili a roverella, semimesofili a carpino nero e cerro, mesofili a
faggio o carpino bianco, igrofili a salici e pioppi e, infine, misti a sclerofille sempreverdi e caducifoglie.
BOSCHI DI ROVERELLA
I querceti a dominanza di roverella (Quercus pubescens) occupano i versanti meridionali del piano collinare e sono molto frammentati e degradati a causa delle intense utilizzazioni del passato. Si tratta per la loro totalità di cedui aperti e luminosi, favorevoli allo sviluppo di un folto strato erbaceo nel quale prevalgono le specie di pascolo ed
in particolar modo il falasco (Brachypodium rupestre), oltre che gli arbusti eliofili come i biancospini, i citisi e le rose selvatiche.
Nel territorio del Parco questi boschi risalgono in qualche caso fino a 1300 metri ed oltre, a
causa delle particolari caratteristiche climatiche e geomorfologiche. Sono insediati generalmente sui calcari fortemente drenanti, sui materiali sciolti delle conoidi fluvio-glaciali e sulle falde di detrito pedemontane. La struttura, come accennato, è aperta e le altezze dello strato arboreo spesso non superano i 7-8 metri. Spesso è alto anche il grado di pietrosità che contribuisce ad aumentare le condizioni di xericità. Il limite superiore del bosco è generalmente netto (a volte vi sono individui arborei isolati nei pascoli) ed è segnato dalla presenza degli xerogramineti a Bromus erectus; in qualche caso le condizioni morfologiche favoriscono la risalita di propaggini boschive lungo le linee di deflusso ed i canaloni.
BOSCHI DI CARPINO NERO
I boschi a dominanza di carpino nero (Ostrya carpinifolia) occupano i versanti più freschi, in linea con il carattere più mesofilo del carpino: si tratta, quindi, di pendii con
esposizioni settentrionali o di suoli a maggiore capacità di ritenzione idrica. Il carpino
nero è inoltre specie a spiccato temperamento pioniero, per cui spesso colonizza substrati anche molto primitivi, come i ghiaioni in via di stabilizzazione. Il corteggio delle specie arboree annovera l’orniello (Fraxinus ornus), la roverella (Quercus pubescens),
l’acero campestre (Acer campestre) il sorbo montano (Sorbus aria), il sorbo domestico (Sorbus domestica) ed il cerro (Quercus cerris), mentre tra gli arbusti vi sono l’evonimo verrucoso (Evonymus verrucosus), il citiso a foglie sessili (Cytisus sessilifolius)
ed il sanguinello (Cornus sanguinea). Anche questi boschi sono stati molto utilizzati
nel passato e si presentano sempre governati a ceduo.
BOSCHI DI CERRO
Sull’Appennino il cerro è presente nella fascia submontana con risalite, nelle esposi-
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zioni soleggiate, fino a 1200 m circa. L’optinum termico si trova nel pieno della fascia
basale in posizione sopramediterranea; quello edafico corrisponde a suoli profondi, freschi e ricchi di basi; è tollerante nei confronti dei suoli argillosi, nei limiti di una sufficiente umidità.
Sull’Appennino edifica boschi puri o misti con altre latifoglie (roverella, carpini, aceri, ecc.) nella fascia generalmente posta al di sopra di quella della roverella.
Nel Parco le cerrete non sono molto diffuse e la loro composizione floristica ricorda
quella degli altri boschi semimesofili come gli ostrieti o, in qualche caso, delle faggete termofile.
BOSCHI DI FAGGIO
Le faggete del Parco occupano un intervallo altitudinale compreso tra 900 e 1800-1900
metri circa e sono le cenosi forestali meglio rappresentate, sia per estensione che per
condizioni strutturali. Il settore in cui è maggiormente presente il bosco di faggio (Fagus sylvatica) è quello di pertinenza della catena del Sirente, dove sono localizzati i consorzi meglio conservati, mentre le faggete sono poco diffuse sul massiccio del Velino
(Valle Cerchiata, Vallone di Teve, Vallone di Sevice). In relazione alle forme di governo, si tratta nella maggior parte dei casi di cedui, a volte molto invecchiati e in via di
conversione; in qualche caso sono presenti anche delle fustaie, come nel caso della Val
d’Arano e dell’Anatella.
Nel territorio del Parco vi sono faggete termofile, insediate nel piano basso-montano,
e faggete microterme, legate al piano alto-montano. Le prime sono caratterizzate dalla
presenza dell’agrifoglio (Ilex aquifolium), oltre che della melica comune (Melica uniflora), dell’anemone dell’Appennino (Anemone apennina) e della cicerchia veneta
(Lathyrus venetus). Le seconde sono differenziate da alcune cardamine (Cardamine enneaphyllos, C. kitaibelii) e felci (Polystichum aculeatum, Dryopteris filix-mas), oltre
che dall’epilobio montano (Epilobium montanum), dalla sassifraga a foglie rotonde (Saxifraga rotundifolia) e dal cavolaccio verde (Adenostyles glabra subsp. glabra).
Alle problematiche del bosco di faggio sono legati i popolamenti di betulla (Betula pendula), localizzati generalmente ai margini della faggeta, anche in stazioni molto acclivi e su pendici detritiche, grazie alla frugalità e capacità colonizzatrice della betulla. Essi hanno significato relittuale e per il territorio del Parco sono note nelle località di Valle di Teve, Piano di Pezza, Colle Jalone, Monte Rotondo e Neviera, M. Pidocchio.
BOSCHI DI CARPINO BIANCO
Negli ambienti di fondovalle, alla base degli impluvi, a volte a contatto con le boscaglie igrofile a salici e pioppi, si afferma un bosco mesofilo a dominanza di carpino bianco (Carpinus betulus), spesso con abbondante nocciolo (Corylus avellana). Nello strato arbustivo sono presenti anche il sanguinello (Cornus sanguinea), la fusaggine verrucosa (Evonymus verrucosus), la lentaggine (Viburnum lantana), la rosa arvense (Rosa arvensis), il sorbo montano (Sorbus aria), l’acero minore (Acer monspessulanum),
la dafne mezereo (Daphne mezereum) e l’acero campestre (Acer campestre).
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BOSCHI IGROFILI DI SALICI E PIOPPI
Lungo i corsi d’acqua e nei fossi sono insediate boscaglie igrofile a struttura arbustiva
o arborea, differenziate sulla base del gradiente altitudinale. Nei tratti a pendenza poco
accentuata e su substrati limoso-sabbiosi, generalmente in ambito planiziario-collinare, si affermano boscaglie arboreo-arbustive a dominanza di salice bianco (Salix alba)
e pioppo nero (Populus nigra). Nei tratti montani, con pendenza accentuata e su substrati sabbioso-ghiaiosi le cenosi igrofile, a struttura arbustiva, sono dominate dal salice rosso (Salix purpurea) e da quello ripaiolo (Salix elaeagnos), spesso accompagnati
dal salice dell’Appennino (Salix apennina).
BOSCHI MISTI DI SCLEROFILLE SEMPREVERDI E DI CADUCIFOGLIE
In alcune zone a clima submediterraneo o meso-mediterraneo, ad esempio nelle Gole
di S. Venanzio e zone contemini, sono rinvenibili cenosi miste a dominanza di leccio
(Quercus ilex) e altre sclerofille sempreverdi e di caducifoglie termofile, con laurotino
(Viburnum tinus), corbezzolo (Arbutus unedo), pungitopo (Ruscus aculeatus), fillirea
(Phillyrea latifolia), asparago selvatico (Asparagus acutifolius), clematide fiammola
(Clematis flammula), orniello (Fraxinus ornus), carpino nero (Ostrya carpinifolia), carpino orientale (Carpinus orientalis), emero (Coronilla emerus subsp. emeroides), roverella (Quercus pubescens), terebinto (Pistacia terebinthus), acero minore (Acer monspessulanum), rosa sempreverde (Rosa sempervirens) e dafne olivella (Daphne sericea). Nello strato erbaceo di questi boschi vi sono Cyclamen repandum, Carex hallerana, Viola alba subsp. denhardtii, Buglossoides purpurocaerulea, Stipa bromoides,
Scutellaria columnae, Melica uniflora, Asplenium adianthum-nigrum, Hedera helix ed
altre specie ancora. La struttura di queste cenosi è generalmente di macchia mediamente
alta 5-6 metri, a contatto con boschi di carpino nero o di roverella.
VEGETAZIONE DELLE RUPI E DEI BRECCIAI
Le rupi ed i brecciai ospitano comunità vegetali pioniere, legate a fattori edafico-stazionali come la forte acclività o il movimento dei clasti, che bloccano l’evoluzione dei
processi pedogenetici e quindi il dinamismo della vegetazione.
Queste fitocenosi, oltre ad interessi ecologici, possiedono anche peculiarità fitogeografiche e storiche di grande importanza, in quanto gli ambienti che le ospitano sono sede
di accantonamento di entità relitte o di processi di isolamento che favoriscono la selezione di stirpi vegetali sempre più autonome dalle quali si originano gli endemismi, di
cui le rupi ed i brecciai sono spesso ricchi. Si tratta inoltre di comunità molto aperte, a
copertura rada, in quanto il severissimo ambiente permette la vita a poche specie ed a
pochi individui.
Il panorama della vegetazione delle rupi e delle coltri clastiche del Parco è molto articolato, in funzione dell’elevata presenza di questi ambienti, che in non pochi casi costituiscono la parte preponderante della fisionomia del paesaggio. In particolare, sono
dominanti gli accumuli a lenta reptazione superficiale, oltre a quelli degli apici di alimentazione e le clastiti delle aree di vetta.
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Per la vegetazione delle rupi, citiamo l’associazione a campanula di Cavolini (Campanula fragilis subsp. cavolini) e cinquefoglia penzola (Potentilla caulescens), tipica delle
rupi montane fino a 1400-1500 metri, e quella a cinquefoglia dell’Appennino (Potentilla
apennina), delle rupi calcaree montano-alpine, dai 1200-1300 fino ai 2700 metri.
Tra le altre specie presenti negli anfratti rupestri, molte delle quali endemiche, vi sono
la sassifraga meridionale (Saxifraga callosa subsp. callosa), la sassifraga porosa (Saxifraga porophylla), la sassifraga alpina (Saxifraga paniculata), l’alisso rupestre (Ptilotrichum rupestre subsp. rupestre), la primula orecchia d’orso (Primula auricula), la
campanula di Tanfani (Campanula tanfanii), il ranno spaccasassi (Rhamnus pumilus)
e varie piccole felci (Asplenium trichomanes, A. ruta-muraria, Ceterach officinarum).
Aspetti del tutto peculiari sono quelli con aubrezia di Colonna (Aubrieta columnae),
endemica dell’Appennino centro-meridionale, osservabili alle Gole di Celano e zone
contermini.
Tra le fitocenosi di brecciaio, ricordiamo le associazioni con:
- festuca dei brecciai (Festuca dimorpha) e caglio della Majella (Galium magellense);
costituisce il tipo di vegetazione glareicola più maturo e viene considerato il termine di
passaggio verso vegetazioni più stabili come le praterie a Sesleria juncifolia. L’associazione si sviluppa su brecciai consolidati con clasti di medie dimensioni, in una fascia altitudinale compresa tra i 1600 ed i 2200 metri. Nella composizione di questo brecciaio entrano specie di grande prestigio fitogeografico quali Viola eugeniae, Arenaria
bertolonii, Pulsatilla alpina, Crepis pygmaea, Robertia taraxacoides e Thlaspi stylosum.;
- dripide comune (Drypis spinosa); si insedia su brecciai mobili a clasti minuti, di preferenza tra i 1100 ed i 2000 metri, ma si può trovare anche a quote più basse; oltre a
Drypis, tra le specie dominanti anche in questa associazione vi è Festuca dimorpha;
- glasto di Allioni (Isatis allioni) e panace di Orsini (Heracleum sphondylium subsp. orsinii); è tipica dei breccai mobili e molto acclivi, tra i 1800 ed i 2300 metri; tra le specie più frequenti citiamo Robertia taraxacoides, Galium magellense, Adenostyles glabra subsp. glabra, Arabis alpina subsp. caucasica e Rumex scutatus;
- motellina lucida (Ligusticum lucidum subsp. cuneifolium); si insedia sui brecciai di
falda alla base delle rupi, in prossimità di accumuli argillosi fluvio-glaciali con forte ritenzione idrica, tra i 1200 ed i 2100 metri di altitudine; le specie più frequenti sono Rumex scutatus, Galeopsis angustifolia, Digitalis micrantha, Sedum rupestre e Cerastium
tomentosum; alcuni aspetti sono caratterizzati dalla dominanza di Brachypodium genuense. È presente quasi esclusivamente nel settore meridionale del massiccio, in particolare nella Valle Majelama , Valle del Bicchero e Val di Teve.
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NOTA BIBLIOGRAFICA
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* Direttore del LA.CAR.TOPON.ST.
** A S. Siniscalchi vanno attribuiti il commento della fig. 5 e la compilazione delle schede tecnicoarchivistiche. Il rilevamento dei toponimi delle carte è stato effettuato da I. Cutolo. La stesura dell'intero lavoro ha carattere provvisorio.
170
171
Introduzione
Un breve antefatto…
PER OMAGGIO
al dolore dei morti e dei sopravvissuti
del terremoto abruzzese del 2009
nel dominante cinismo dei “potenti” pubblici e privati
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L’idea di allestire un siparietto cartografico in occasione del convegno nazionale dell’AIIG in Abruzzo nacque a Roma il 3 giugno di quest’anno, durante lo svolgimento della Consulta dei presidenti regionali. Discutendosi dei vari problemi organizzativi e didattico-scientifici, nell’apprendere che il versante cartografico era completamente scoperto, ebbi un moto di “ribellione” come vecchio cultore di questo
àmbito di ricerca e proposi alla principale responsabile, professoressa Agnese Petrelli, e a tutti i presenti (a partire dal presidente nazionale), di fare l’omaggio di almeno una bella carta storica, corredata da opportuno commento geografico, da esporre nella sede congressuale, quasi a “salvare l’onore” di un settore mai così trascurato nei precedenti convegni.
Un’offerta garibaldina, la mia, fatta d’istinto e dedicata de corde alle vittime del recente terremoto, ben accolta nella sua “miseria” da tutti i convenuti, la quale proprio
per questo non poteva essere disattesa né, per converso, confermata in seguito nei
termini tanto minimali con cui era stata formulata. Difatti, col passare dei giorni,
subentrando lo scrupolo personale e professionale del sottoscritto – pur sempre direttore e fondatore del La.Car.Topon.St. (Laboratorio di Cartografia e Toponomastica Storica) all’Università di Salerno – l’offerta lievitò, nonostante il poco tempo
a disposizione: pensai cioè di innalzare almeno a tre il numero delle carte, ovviamente selezionando le più significative possibili, da esporre in una “Minimostra”,
sotto l’egida appunto del suddetto laboratorio.
Dato che “l’appetito vien mangiando”, per parte sua il proponente si è innamorato
– come spesso gli accade – delle geocarte con le quali si è messo in contatto, dall’altro lato la parte “beneficiaria” lo ha esortato “ingordamente” a fare di più e, anzi, ha pensato fosse utile ai convegnisti avere in mano da subito, tra gli altri, un testo sia pur provvisorio del catalogo, in attesa della vera e propria esposizione “a parete” (e della versione definitiva negli Atti), che si spera essere un poco più copiosa
numericamente e più profondamente meditata nella parte esegetica.
Ecco dunque la preistoria di questo “mini-Catalogo”, curato e stilato in buona parte delle sue pagine dallo scrivente, con la collaborazione delle dr.sse Silvia Siniscalchi e Ida Cutolo, le quali comunque hanno firmato un individuale contributo, come viene precisato a margine del titolo, non a caso formulato con una metafora culinaria in ossequio a quanto appena raccontato…
Consegnando alle stampe questo testo e prima di illustrarne in breve le linee metodologiche e gli scopi prefissati, mi corre l’obbligo di ringraziare la prof.ssa Monica Meini, che
mi ha fornito materialmente tre delle carte esaminate e candidate all’esposizione nella sede del convegno: trattasi di cimeli geocartografici, posseduti dall’Istituto Regionale per
gli Studi Storici del Molise “V. Cuoco”, che questa valida e generosa collega ha illustrato, ma solo per la parte attinente al Molise, in una recente e brillante pubblicazione.
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Metodo, procedimenti e obiettivi perseguiti
La “filosofia interpretativa” adottata nei confronti dei prodotti iconici e toponimici
esibiti in questo mini-Catalogo parte dalla consapevolezza, ormai consolidata tra gli
specialisti, che l’immagine (e quella cartografica in particolare) non possa riduttivamente intendersi quale mera e neutrale rappresentazione dello spazio, giacché costituisce, al di là degli aspetti tecnico-formali e contenutistici “oggettivi”, l’espressione e la testimonianza di un preciso modello territoriale e, quindi culturale, ossia
comunicazionale, sociale, simbologico e simbolico-soggettivo, improntato a valori
e finalità particolari, nonché a palesi e talora nascoste “ideologie”. I più recenti studi, infatti, basandosi su punti di vista molteplici e diverse teorie interpretative, puntano a evidenziare la problematicità della carta geografica e il suo significato sociale, a partire dal contesto d’origine, dall’appartenenza a un determinato periodo storico e a un preciso progetto politico.
Proprio in considerazione della diversità degli approcci metodologici possibili in tale vasto campo di ricerca, in questa sede che esige una forte curvatura didattica non
si è optato per la fredda applicazione alla carta, onde decodificarne il significato (meglio sarebbe dire i significati), di astratti modelli teorico-interpretativi, ma si è cercato di presentare con semplice e lineare descrizione l’analisi filologica del testo, in
sé molto problematica, che può solo essere di natura interdisciplinare, con la chiamata in causa di fonti, approcci e conoscenze (locali e generali) forniti da altre discipline, storiche, geo-pedo-morfologiche, etno-antropo-sociologiche, economiche,
giuridiche, cartografiche (tecnico-tematiche), iconologiche, diplomatistiche e via
enumerando.
È appunto quel che, nei limiti del possibile e con linguaggio sintetico, si è tentato di
fare nella decodifica dei cinque reperti relativi all’Abruzzo (regione ritratta da sola
o contornata dalle “Provincie” contermini o dal Regno di Napoli) raccolti in questa
modesta “Guida alla lettura”. Di essi, talora veri “cimeli” geocartografici per il loro enorme pregio documentale-identitario e artistico, ci si è sforzati di volta in volta di comprendere, con un approccio fondamentalmente “filologico-testuale”, forma e contenuto, sotto il profilo non tanto tecnico quanto umanistico-culturale. Non
tutta l’attenzione che meritano è stato possibile per ora riservare ai toponimi, da noi
considerati “l’altra metà del cielo” in una carta: costituendo già di per sé una preziosa testimonianza territoriale, si è comunque ritenuto utile e opportuno offrire semplicemente un loro elenco parziale a una preliminare attenzione del più o meno curioso lettore (cfr. Appendice).
Questi nomi locali saranno esaminati, nella stesura definitiva del testo, come documenti e “beni culturali immateriali”, secondo un delicato protocollo d’indagine, da
chi scrive ideato, atto a sviscerare da essi i caratteri identitari del contesto geografico di riferimento (Aversano, 2006[b]). Per ora basterà notare la notevole “volubilità” e “volatilità” crono-spaziale, vuoi dei toponimi riferiti alle città più importanti (i
174
cosiddetti «macrotoponimi», per i quali si riscontrano per lo più differenze di formulazione estrinseca), vuoi specialmente di quelli indicanti i centri minori e minimi (i cosiddetti «microtoponimi»). Ciò è dipeso sia dagli oggettivi mutamenti territoriali avvenuti nel tempo e riverberati nella copertura toponimica, sia dalla variabile sensibilità onomaturgica collettiva delle popolazioni locali (creatrici di vocaboli dal basso) e degli addetti “ufficiali” all’attribuzione di toponimi dall’alto, senza che restino escluse le deformazioni provenienti da entrambi i livelli designanti
(Aversano, 2008).
Proprio nell’intento di comprendere al meglio possibile le carte, senza barare, oltre
che per offrire un preliminare modello di analisi, le abbiamo comparate con rappresentazioni di altri autori-enti o epoche, di diversa scala e diversamente finalizzate
(vedute satellitari da Google Maps, carte topografiche I.G.M.), il che spiega, tra l’altro, perché alla fine “i pezzi” esaminati e destinati all’esposizione sono in numero
maggiore di cinque.
In definitiva, poiché le carte prese in considerazione portano date del ‘600, ‘700,
‘800 e del nostro secolo, ne è risultato un profilo diacronico, assai discontinuo per
forza di cose, vuoi dei caratteri della regione per come si è evoluta nei secoli, vuoi
della “storia” delle tecniche di rappresentazione e della progressiva acquisizione delle conoscenze territoriali, nel nostro caso rese assai difficoltose dall’aspra e tormentata morfologia abruzzese e dal disordine idrogeologico delle zone piane fino a
tempi non troppo lontani.
Avendo puntato ai suesposti obiettivi, nonostante il ridotto campione cartografico
esaminato, il commento non poteva ridursi a poche, brevi e schematiche note illustrative, attente più al “genere” che alla “specie”, e perciò molto facili da costruire ma di valore scientifico e didattico-divulgativo assai scarso. In questo mini-Catalogo abbiamo “osato” di più, in un linguaggio che nella sua stringatezza talora
può apparire non troppo piano, nonostante le intenzioni in contrario, ma che era il
solo a permetterci di leggere, sia pur in primo approccio, la complessità dell’oggetto di indagine; e, dunque, “pretendiamo” dal lettore, scusandocene, un impegno
e una sensibilità attentiva maggiore del solito, di talché Egli possa, avvalendosi anche delle ampie referenze bibliografiche offerte, andare autonomamente oltre questo preliminare percorso interpretativo, scoprendo significati diversi e aggiuntivi,
dei quali il curatore sarebbe ben lieto (e grato) di essere portato a conoscenza in
qualsiasi momento.
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LEGGIAMO LE CARTE…
SCHEDA 1
Titolo
Autore/i
Luogo
Editore
Anno
Tipologia
Misure
Scala
Orientamento
Collocazione
Aquila e dintorni
Ing. Vincenzo Di Carlo
Napoli
Officio Topografico dei Borboni
1858
Copia in acquerello della minuta di campagna “Aquila e dintorni”
dello stesso Autore
Cm 70x102
1:5.000
Nord in alto
Istituto Geografico Militare di Firenze(Armadio 93, Cartella 74, Docum. 8624)
A fronte del recente disastro sismico, che vede in gran parte rovinate le strutture edilizie della città, ma soprattutto in omaggio ai tanti morti e ai patimenti dei sopravvissuti, oltre che per auspicio di una rapida riedificazione e rinascita urbana, ci è sembrato
doveroso, più che opportuno, aprire e centrare questa piccola mostra cartografica su una
carta topografica dell’Aquila, prodotto eccellente di un apprezzato ingegnere dell’Officio Topografico dei Borboni, V. Di Carlo, autore di altre impareggiabili piante di città (come Caserta e Maddaloni), che dopo l’Unità passò nel corpo di Stato Maggiore
dell’esercito italiano (per ragguagli sulla biografia professionale, cfr. Valerio, 1993, pp.
518-519 e passim).
Fig. 2 - Veduta satellitare dell’Aquila (Google Maps, 2010).
Fig. 1 - Aquila e dintorni (1858).
Benché la genesi di questo vero gioiello di scienza e arte rientri nel novero della “cartografia
repressiva” ad uso dei militari, voluta dai governanti napoletani dopo i moti del 1848 a scapito del progetto di una carta di tutto il Regno (Valerio, 1993, pp. 300-303), esso appare quasi un
“atto d’amore” verso la città e il suo intorno, per la delicatezza dei passaggi tonali dal verde
marcio agli azzurrini fino al rosso dell’incasato, dove la plastica del terreno, con quel che sopra vi è disegnato, risalta “emozionalmente” grazie a quasi invisibili isoipse e a uno sfumo teneramente lumeggiato.
Non basta, dunque, se non a carpire gli aspetti meramente tecnici, quanto nell’attuale Catalogo I.G.M. si legge: «Bella carta, pregevole per l’artistica ed evidente rappresentazione orografica resa mediante curve di livello tracciate all’equidistanza di 35 palmi e sfumo a luce obliqua
e per la nitidezza del disegno. Abitati e costruzioni sono in rosso, acque in azzurro, vegetazioni e colture in verde, rimanente della planimetria in nero. Le quote dei vari punti di elevazione sono calcolate in palmi». Né coglie totalmente nel segno l’elogio che il capitano Francesco
Verneau, scrivendo nel 1858 al direttore dell’Officio Topografico, faceva al Nostro: «Infine la
pianta della città di Aquila e contorni alla scala dell’1/5.000 eseguita dall’ingegnere di Carlo è
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un modello di diligenza, esattezza e rara perseveranza al lavoro, e tenendo presente la configurazione eseguita con molte curve elevate e con molteplici quote e profili, presenta un insieme degno di ogni encomio, di cui Ella stessa ha dato l’esempio. Tale benemerito operatore si
è precedentemente distinto in consimili lavori graditi da tutti i superiori» (A.S.N., Ufficio Topografico I, f.s. 21/15, cit. da Valerio, 1993, p. 518).
L’impianto urbano prevalentemente angioino (in parte conservatosi fino a oggi), sorto su una
conoide formata dai detriti scivolati dal sovrastante vallone biforcantesi più in alto, si riconosce facilmente nell’impaginato, dove spicca l’asse viario sud-ovest/nord-est, che parte dall’attuale C.so Federico II (zona S. Agostino) e continua [cito sempre secondo l’attuale odonomastica] come C.so V. Emanuele, lasciandosi alla sinistra Piazza Duomo, ben oltre l’incrocio dei
Quattro Cantoni e S. Maria di Paganica ancora a sinistra. Altrettanto ben segnato appare l’asse sud-est/nord-ovest, perpendicolare al primo pure se un po’ “spezzato” ai Quattro Cantoni,
dove Via S. Bernardino lascia il posto a Via Barile e, in dritta successione, a Via Roma.
Fig. 3 - Foglio: 359, L’Aquila (scala 1:50.000). Anno di produzione: 1994. Edizione:1 - Data Ricognizione: 1987 - Edizione Serie 50L: 1 - Data Serie 50L: 1993.
Questa immagine è stata inserita sia per mostrare il contesto geografico del capoluogo abruzzese, sia soprattutto per la palese affinità con la carta del Di Carlo nelle tecniche usate per la resa
“artistica” del rilievo (sfumo e lumeggiamento): si tratta di una delle serie più pregevoli nella tradizione della cartografia topografica I.G.M., certamente ispirata alle eccellenti esperienze dell’Officio Topografico dei Borboni.
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La forma urbis di metà Ottocento, grossolanamente rotondeggiante entro un approssimativo triangolo col vertice in giù (direzione ovest/sud-ovest), riporta di massima, all’interno delle mura medievali, rimaste ancora sostanzialmente integre, i lineamenti attuali, ovviamente con alcuni spazi verdi e slarghi in più e, soprattutto,
con molte sfrangiature ai margini, fino ad allora indenni da costruzioni. Dagli anni
Settanta del secolo scorso, invece, prima ancora che si verificasse la paurosa cementificazione extra-moenia, quegli stessi spazi vuoti cominciarono a colmarsi intra-moenia, sicché oggi osserviamo un triangolo edificato compattamente al suo interno, salvo il settore di nord-ovest (cfr. fig. 2, da Google Maps, 2010), che lascia
appena immaginare l’unica digitazione esistente in età tardo-borbonica e registrata
nella coeva pianta. In quel periodo, da cui ci separa un secolo e mezzo, le uniche robuste cellule separate dal nucleo centrale appaiono, sempre in questa rappresentazione, a nord-est, il castello (decentrato ma comunque entro le mura) e, su modesti
rialzi del terreno, S. Basilio a nord, S. Maria del Soccorso, S. Maria di Collemaggio
e i Cappuccini di fuori, rispettivamente a est e a sud-est.
Un simbiotico rapporto città-campagna si intuisce dalla presenza nel più vasto intorno di tante località isolate, talora ospitanti edifici sacri e profani, che punteggiano il tappeto verde-giallo contrastante col rosso degli edifici urbani (La Torretta,
Santa Veronica, Cappuccini di Dentro, Fontecchia, Ocri, Ercole, S. Sisto, Le Petrare, ecc.); ed ecco ancora bianche strade e coltivi, soppiantati da boschi ai margini più lontani e più alti (Coppa), un largo tratturo sub-parallelo all’Aterno, che a sud
dell’asta principale “dilaga” e divaga in ampi bracci racchiudenti isole fluviali, creando una situazione alquanto repulsiva per l’insediamento: peccato che esso invece
oggi ha preso piede, lasciando tuttavia, tra sud-ovest e sud-est (specie nella falcatura tra l’Aterno e Poggio di Roio) estesi spazi alla natura e all’agricoltura intensiva,
dove il paesaggio è diviso in particelle varicolori di campi coltivati (cfr. fig. 2, da
Google Maps, 2010).
Il “delirio edificatorio” degli ultimi decenni ha avuto molto più successo al di fuori
delle mura settentrionali, dove gli antichi terreni appaiono, sempre nell’immagine
di Google Maps, quasi tutti “tremendamente” soppiantati da edifici e infrastrutture
stradali e autostradali, tra cui la più invadente risulta l’Autostrada “L’Aquila-Chieti”, che tuttavia ha funto in qualche modo da ostacolo a una più pesante espansione
edilizia in direzione nord (ma purtroppo non verso nord-ovest e nord-est): in effetti
è stata quasi totalmente distrutta l’agricoltura sia della conca nordoccidentale, limitata dalle ultime pendici del Gran Sasso, sia di quella sudorientale, spinta verso la
dorsale del Monte d’Ocre, estrema appendice del Massiccio del Velino.
Il che, ove si riguardi la poetica carta del Di Carlo, non può che suscitare una cocente nostalgia di cose perdute...
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SCHEDA 2
Titolo
Autore/i
Luogo
Editore
Anno
Tipologia
Misure
Scala
Orientamento
Collocazione
Abruzzo et Terra di Lavoro
Mercatore [al secolo Gerhard Kremer]
Amsterdam
Jodocus Hondius (stampatore)
1619
Stampa
Cm 46x33
Miliaria Italica Communia
Ovest in alto
Istituto Regionale per gli Studi Storici del Molise “Vincenzo Cuoco” (Inv. 64)
Fig. 4 - Abruzzo et Terra di Lavoro (1619).
La carta fa parte dell’Italiae Sclavoniae et Greciae Tabulae Geographicae, raccolta
edita ad Amsterdam da Hondius nel 1619. Questa volta l’Abruzzo, monco del Molise, è a prima vista irriconoscibile in quanto – per l’orientamento della carta – il Mare Adriatico (segnalato come Golfo di Venetia) è in basso a destra mentre la sezione
in alto a sinistra coincide con la Terra di Lavoro, maldestramente indicata come un
territorio estesissimo fra il Garigliano e il Vallo di Diano, coincidente cioè quasi con
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l’intera Campania attuale, affacciata su una Maris Tirreni Pars. Una “accoppiata” regionale insolita, questa, rifiutata dal grande Magini e dalla più avvertita corografia,
ma che comunque risponde a canoni eruditi ed esigenze di mercato, piuttosto che alla esatta conoscenza della realtà geografica: si tenga tuttavia conto che questa regione, nel periodo contrassegnato dalla cartografia empirica, viene spesso rappresentata unitamente al Molise (Comitato di.., Contea di.., Contado di.., ma non è il nostro
caso), che a sua volta trovasi talora configurato insieme al confinante Principato Ultra (o Ulteriore), corrispondente alle attuali province di Benevento e Avellino.
La sagoma della regione, così tratteggiata ma senza l’indicazione dei limiti amministrativi, di strade e di ponti sui fiumi, con un piccolo sforzo immaginativo assomiglia, piuttosto che a un rettangolo (come dovrebbe), a un trapezio col lato maggiore orientato da sud-ovest a nord-est (in pratica, il corso del fiume Tronto) e il lato minore più corto del dovuto, assimilabile quasi al vertice di un triangolo. I rilievi, segnalati con uno o più mucchi talpa allineati e ombreggiati a destra, ma tutti più
o meno della stessa dimensione, mostrano direzioni assolutamente diverse dal reale, giungendo talvolta quasi fino al mare, ma non danno l’idea del grossolano allineamento nord-ovest/sud-est, tipici dell’Abruzzo montuoso tra i Monti della Laga,
il Gran Sasso e la Maiella, né delle differenti altezze e volumetrie dei monti. Ciò dimostra la difficoltà, anche per un grande cartografo come il Mercatore (inventore di
una nota proiezione, le cui carte furono riprodotte con varie edizioni dallo Hondius
nel tempo), di fotografare le fattezze di una regione “a tavolino”, solo sulla base di
notizie sparse e non controllate, provenienti dall’esterno.
È tanta la confusione circa la contrastata morfologia dell’Abruzzo che, mentre si rinuncia a disegnare la presenza di boschi, da un lato viene ignorato il nome di singoli plessi o di catene, dall’altro i pochi oronimi si ripetono: ad esempio Maiella
mons compare ben tre volte in posizioni improprie, mentre l’autore si rifugia quattro volte nella generica coronimia Apenninus mons, alludendo forse al Gran Sasso
con l’oronimo M. Real, a nord di Aguila: una trascrizione toponimica, quest’ultima,
che meglio richiama il probabile etimo, legato alle tantissime micro sorgenti sgorganti dal terreno carsico circostante e sottostante. Il futuro capoluogo è indicato con
un prospettino turrito, al pari di altri considerati tra i più importanti (Pescara, Thieti, Lazano, Trigno, Bucello, Celano, Alba, Aufidena), mentre Teramo e Sermona (Sulmona?) sono riportate solo con un semplice tondino, non si sa se più per effetto di
disinformazione che a testimonianza d’una antica gerarchia di quelle sedi, che le vedeva confinate all’epoca in una posizione di retroguardia.
I nomi di luoghi, in verità, sono tanti (circa 300), talora riferiti a centri scomparsi
(Sara destructa alla foce del Sangro; S. Fabiano ruinato, tra i fiumi Tronto e Liberata, ecc.), ma la loro trascrizione, spesso diversa da quella giunta fino a noi, ne rende ancora più problematica la decodifica geo-etimologica, congiurando ad accrescerne l’intrinseca difficoltà una scorretta posizione, sia in assoluto, sia in senso relativo, degli abitati di riferimento. Stesse imperfezioni ritrovansi a riguardo della di-
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rezione e della lunghezza dei fiumi, che però vantano rispetto ai rilievi un maggior
numero di denominazioni, così disposte sull’Adriatico da nord-ovest a sud-est: Tronto, Liberata, Tondino, Vomano, Piomba, Sino, Tano, Pescara, Lento, Tortus, Mero,
Sanguino vel Sangrus, Sento, Trigno, Trento over Tifernus. Ignorate totalmente nel
disegno le torri costiere, seppure ben presenti, ma per noti motivi militari tenute cartograficamente segrete dal governo centrale del Regno.
La presenza lacustre è numericamente scarsa ma molto spiccata: sul limite ovest si
configura un estesissimo e stretto ovale (Celano Lago), la futura Conca prosciugata del Fucino, alimentato da un solo immissario (Teverone fl.) e incoronato da parecchi centri (Camerata, Gaiano, Transacco, Paterno, S. Giona, Celano, Venere,
Aguto, Ortuchio, Bordella, Sotrone, Sambuca, Marano). Si segnala a parte l’attuale Lago Matese campano, non idronimicamente denominato (ma a nord è riportato
un Mathessus mons), dalla forma ampia e circolare, con sulla riva occidentale due
abitati, Aylono e S. Angelo di rippa canina, laddove i centri di Alifas e Piedimonte
sono al nord e non al sud del lago.
Di errori come questi se ne ritrovano tanti, ma i più marchiani sono proprio in Campania, dove, ad esempio, l’isola di Capri (minuscola nella realtà) ha le stesse dimensioni della tanto più estesa consorella Ischia, e dove inoltre la Penisola Sorrentina ha una inaccoglibile forma corta e larga, mentre il fiume Solofrana, anziché confluire nel Sarno, passa per Cava e sbocca a Salerno, al posto dell’Irno.
Alla luce delle difficoltà di acquisire nel tempo una esatta conoscenza regionale, specie per territori aspri e selvaggi come il nostro Abruzzo, si apprezza di più a questo
punto la preziosità delle future acquisizioni geografiche, di cui è testimone attualissima la carta del T.C.I. presentata nel commento della scheda n. 5.
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SCHEDA 3
Titolo
Autore/i
Luogo
Editore
Anno
Tipologia
Misure
Scale
Orientamento
Collocazione
Typus Regni Neapolitani in suas provincias diligenter divisi
Christoph Weigel [Christoph Weigelium]
Norimberga
s.e.
1740 ca.
Stampa
Cm 40x33
Milliaria Germanica communia 15 in uno Gradu; Milliaria Gallica communia
sive horae itineris 20 in uno Gradu; Milliaria Italica magna 60 in uno Gradu
Nord in alto
Istituto Regionale per gli Studi Storici del Molise “Vincenzo Cuoco” (Inv. 282)
Fig. 5 - Typus Regni Neapolitani in suas provincias diligenter divisi (1740 ca).
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Tra le numerose ricopiature, nazionali e internazionali, dell’”Italia” del Magini figura anche questa, di marca tedesca, dovuta al Weigel, noto incisore di Norimberga
(1654-1725), in collaborazione con Johann Baptist Homann (1664-1724), la quale
con molta probabilità si giova degli “ampliamenti” apportati allo stesso Magini da
Domenico de Rossi ai primi del Settecento.
Che sia destinata a “far cassa” sul mercato colto europeo ce lo dicono non solo le tre
scale, indicate sotto a sinistra, di miglia germaniche, francesi e italiane, ma anche
una serie di “intingoli” assai attrattivi per il “cliente”: i colori diversi delle province o isole; l’invasiva e accattivante vignetta in alto a destra, raffigurante il Vesuvio
fumante con ai piedi vari allineamenti insediativi piuttosto che una Napoli presupponente un abitato compatto e, in primo piano, il paesaggio di una imprecisabile
marina della costa tufacea tra Posillipo e i “Campi Flegrei”, dove alcuni pescatori
stanno catturando grosse “prede”; l’uso della lingua latina sia nell’intestazione, sovrastata da un cartiglio che allude alla marittimità (due granchi di mare) e alla civiltà musicale napoletana (uno spartito su pergamena); l’indicazione erudita dei vari mari (Adriaticum, Tyrrhenum sive Thuscum, Ionium) e delle isole (Lipareae olim
Àeoliae et vulcaniae insulae); infine, la Legenda (Notarum Explicatio), in basso a
sinistra.
Quest’ultima è di particolare rilevanza antropogeografica perché raccoglie ben dieci simboli, relativi alla gerarchia urbana, civile-culturale-militare (Urbes Praecipuae, minores sive oppida, Oppidula et Burgi, Pagi, vici et turres, Academiae, Castella) o religiosa (Archiepiscopatus, Episcopatus, semplici o abbinati: alteris uniti) e fa tutt’uno con lo scarso interesse alla geografia fisica.
Infatti, i rilievi, nella solita forma di piramidi o coni sfumati, sono poco presenti e
toponimizzati, e altrettanto vale per i soli sei fiumi segnalati con idronimo tra Abruzzo e Molise. Tra le componenti naturali spicca naturalmente il Lago di Celano, maginianamente ampio, rotondeggiante e alimentato da una raggiera di immissari.
Ben risaltata è la sagoma della regione, con le linee confinarie esterne tratteggiate
o puntinate e sempre rimarcate con larga striscia colorata, nonché la partizione interna, resa con semplici puntini (Aprutium Ulterius, A. Citerius, Comitatu Molisius:
si noti ancora l’uso del latino). Le sole città principali, indicate con un esteso abbozzo di pianta affiancato da croci doppie o singole, a seconda che si tratti di sedi
di arcivescovado o vescovado, sono Aquila, Civita di Chieti e Molise (Campobasso è ancora declassata a un semplice cerchietto), mentre i centri di rango minore,
più o meno fortificati, sono Solmona, Ortona a mare, Lanciano, Celano, Teramo,
Civita di Pena.
Il numero di toponimi (un centinaio), ovviamente ridotto rispetto alle carte di scala più grande in questa sede commentate, se per un verso impoverisce questa rappresentazione, per l’altro offre un’idea dell’effettiva importanza geografica della
costellazione dei centri riportati, essendo il frutto di una selezione “ufficiale” dall’alto.
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SCHEDA 4
Titolo
Autore/i
Luogo
Editore
Anno
Tipologia
Misure
Scale
Orientamento
Collocazione
L’Abruzzo Ulteriore e Citeriore e la Contea di Molise
Giovanni Maria Cassini
Roma
Calcografia Camerale
1790
Stampa
Cm 48,4x35
Miglia comuni d’Italia di 60. a grado; Miglia Romane di 74?. a grado
Nord in alto
Istituto Regionale per gli Studi Storici del Molise “Vincenzo Cuoco”
(Inv. 358)
Fig. 6 - L’Abruzzo Ulteriore e Citeriore e la Contea di Molise (1790).
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Fig. 7 - Veduta satellitare dell’Abruzzo in modalità “rilievo” (Google Maps, 2010).
Osservando questa immagine di Google Maps, dove il rilievo spicca assai meglio che nella comune cartografia, si può apprezzare la serietà del lavoro del Cassini nel rendere, pur con una simbologia impari (‘piramidi’ irregolari lumeggiate), i lineamenti morfologici della regione Abruzzo.
Siamo di fronte a una tavola del tomo I dell’Atlante Generale Geografico, disegnato e inciso dal Chierico regolare Somasco G. M. Cassini (1745-1824 circa), un cognome che richiama gli esponenti della omonima e prestigiosa “dinastia”, che lavorò in Francia tra Sette e Ottocento. A questo atlante in tre tomi e ben 182 fogli, commissionato e finanziato dalla Calcografia Camerale di Roma, l’autore, che era anche geografo, lavorò per circa 15 anni tra l’ultimo decennio del Settecento e i primi del successivo secolo. «La Corte pontificia fu ben lieta di sostenere il lavoro di G.M. Cassini, oltre che per lustro che gliene derivava – erano gli
anni nei quali vi era un grande fervore di opere geografiche in tutte le nazioni europee – anche per la necessità di aggiornare le ormai vecchie carte dell’atlante del Cantelli», scrive Vladimiro Valerio (1994, p. 86), che ci consegna inoltre questa assai condivisibile valutazione:
«Si tratta di un’opera prestigiosa, curata tanto negli aspetti tipografici quanto in quelli strettamente incisori e decorativi, che si colloca tra i migliori atlanti realizzati in Italia» (Ibidem).
In effetti, quanto a nitidezza del segno e complessiva leggibilità, non si poteva trovare di meglio all’epoca e, mutatis mutandis, può sostenersi che, anche rispetto a carte attuali, la presente compete molto bene. Essa afferma sicuramente una propria spiccata modernità: per un
verso, con un cartiglio (racchiudente titolo, editore ed anno del prodotto) non più baroccheggiante ma fortemente identitario, consistente in una specie arbustiva quasi unita in alto – si direbbe “a galleria” – con la chioma di un albero, dalla cui cima un cacciatore spara a due orsi
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marsicani, mentre sta accorrendo un lupo famelico e qualche serpente striscia nell’erba; per
l’altro, adottando una scala di esclusive miglia italiane e romane, quasi a confermare un orgoglio regionale e nazionalistico dell’autore, che trova riscontro nell’esclusivo uso dell’italiano per le scritte esterne e per la toponomastica (il latino è definitivamente bandito!) e del
quale c’è sentore nella stessa introduzione all’atlante. Nella quale infatti egli dichiara con un
plurale maiestatis di essere «animati ancor noi da un vero desiderio di giovare ai nostri nazionali» (cit. da Meini, 2009, p. 71): espressione che porta l’appena citata Autrice a ritrovare
un «intento sociale del Cassini, geografo che indirizza la sua opera al pubblico più che alla
corte pontificia”(Ibidem) e che, aggiungerei, forse è anche inattesamente anticlericale...
La sagoma è abbastanza simile a quella disegnata dal Weigel e da considerarsi, quindi,
come ultima “propaggine” semica del Magini, con netti miglioramenti nella esattezza
della scala latitudinale se non del tutto nelle longitudini: qui si vede meglio che altrove
come l’Abruzzo avesse un rigonfiamento nella parte nord-occidentale, grazie ai territori che nel 1927, in seguito alla nota riforma amministrativa del Fascismo (tendente tra
l’altro a costruire il “grande Lazio” a spese delle regioni vicine: Aversano, 1995, pp. 252260), passarono alla provincia di Rieti (cfr. anche scheda 5). Dentro tale sagoma, perfettamente rimarcata da una doppia striscia, colorata in verde-giallo sui puntinati confini con la Capitanata, la Terra di Lavoro e il Principato (fuori cornice s’immagina la scritta: Ultra), e in rosa-verdechiaro sul tratteggiato scelto per confine con lo Stato Pontificio e la Marca, si distinguono bene anche le partizioni interne tra l’Abruzzo Ulteriore,
Abruzzo Citeriore e la Contesa di Molise, grazie a due strisce gialle su puntinato.
Entrando più francamente nel campo di rappresentazione, si vede come la morfologia regionale trovi già una sua cifra precisa, che prelude alla conoscenza più profonda acquisita
dai geografi nei decenni successivi, distinguendo chiaramente un Abruzzo montano e uno
costiero, secondo linee di disegno che prospettano un quasi-allineamento nord-ovest/sudest delle tre catene principali (Monti della Laga, Gran Sasso, la Maiella), nonché i retrostanti rilievi e conche interne e il grande Lago di Celano. Ovviamente la resa tecnica delle
alture si affida ancora a piramidi lumeggiate, che però variano opportunamente di grandezza e talvolta di forma a seconda delle dimensioni spaziali e dell’energia del rilievo, oltre che rispettare di massima la sua continuità (o discontinuità, nel caso di cime isolate).
Inoltre, il Cassini spalma un colore giallino scuro ai margini sia dei laghi che di alcune alture e, più compattamente e diffusamente, in quelle zone dove ritiene esserci paesaggio collinare (a latere, corre l’obbligo di avvertire – e ciò vale per tutte le carte antiche esaminate – che i colori originari potrebbero essere mutati nel tempo per degradazione).
Anche la rete idrografica si lascia apprezzare nel suo complesso, a partire dai fiumi, che
notoriamente erano già stati disegnati dal Magini con buona approssimazione geografica. Ad una rapida osservazione, qui non appaiono grossi perfezionamenti rispetto al “modello” originario, se non per la direzione complessiva delle aste che, a nord del Pescara si
orientano di massima da ovest ad est e, a sud di quel fiume, tutte vanno da sud-ovest a
nord-est: il Pescara-Aterno, in particolare, mi sembra meglio rappresentato nel suo corso, che non si spinge troppo all’interno prima di svoltare decisamente verso nord-ovest,
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al contrario di quanto ci riporta il disegno maginiano e quello di molti suoi ricopiatori ed
epigoni. Gli specchi lacustri vedono primeggiare, giustamente, quello di Celano, che conserva solo in parte la folta raggiera di immissari accreditati dal Magini e che sulle immediate sponde registra solo la presenza di S. Benedetto e Trasacco.
Quanto agli altri laghi di minori dimensioni, appare abbastanza ampio quello di Barisciano
sotto l’attuale Gran Sasso, inesistente tuttavia come oronimo (ai piedi di Monte Corno e Pietra Fiorita: toponimi segnalati in carta); c’è poi uno specchio d’acqua nell’alto corso del Velino tra Civita Ducale e Paterno e una serie di laghi di montagna sulla Meta (toponimi d’epoca: M. Cacaccio, M. Marso, M. di Schienaforte), disposti radialmente rispetto al declivio,
di cui tre si susseguono come grani di un rosario.
Abbastanza fedele la linea di costa, abbellita a ridosso della battigia da un tratteggiato marrone, affiancato da una più larga fascia di colore giallo-sporco verso l’avanmare. Su di essa
sversano i soliti fiumi, tutti denominati alla foce e, in caso contrario, quasi sempre identificati con l’idronimo lungo l’asta, specificazione riservata sempre ai grandi fiumi. Restando sui
simboli lineari, cominciano a comparire anche le arterie stradali, segnata con due linee parallele, quella interna più marcata dell’altra: trattasi di un solo collegamento con Aquila, proveniente da Venafro e passante per Sulmona, da dove si diparte una diramazione per Popoli (Popolo in carta), comunque diretta autonomamente al capoluogo, salvo una confluenza, a sudest dello stesso, nell’ultimo tratto della strada principale.
Data la ricchezza del simbolismo e dei toponimi richiamanti i centri, non è possibile svolgere un’analisi profonda delle “rete urbana” e delle sue funzioni. Ci si limiterà perciò a
poche osservazioni, rinviando un esame più completo alla definitiva stampa degli “atti
del Convegno AIIG”. Basta osservare i simboli, tuttavia, per avere una visione d’insieme del rapporto tra le città principali (piantine murate e schiacciate a terra, con una o due
croci a dire le funzioni vescovili o arcivescovili), quelle “intermedie” (prospettini di edifici con torre e cerchietto incorporato) e gli altri centri di rango minore o minimo, tipizzati con un cerchietto vuoto, più grande o più minuscolo a seconda dei casi. Aiuta poi
molto nel riconoscimento dei singoli “nodi” delle fragile rete urbana la scelta autorale di
variare il tipo e la misura del carattere tipografico della scritta toponimica a seconda della rilevanza del centro disegnato.A caratteri cubitali si stagliano infine sul campito i coronimi dei due Abruzzi e del Molise, con una direzione da sud-ovest a nord-est ma leggermente ed elegantemente curvata al centro, quasi a reiterare l’andamento dei confini
meridionali delle due province e della stessa Contea di Molise.
La pianta di Aquila (non c’è ancora l’articolo), nome a carattere maiuscolo come Chieti e Sulmona, è leggermente sovradimensionata rispetto agli altri maggiori “poli urbani”,
che costituiscono il secondo livello della gerarchia di rete: Civitella del Tronto, Civita
Ducale (che faceva ancora parte dell’Abruzzo), Campoli, Teramo, Atri, Civita di Penna, Pescara, Chieti, Pianella, Capistrano, Lanciano, Celano, Sulmona, Pescina, Ortona. A latere, può interessare che nel Molise, oltre Isernia, hanno un tal rango alto Trivento, Guardia Alfieri, Larino e Bojano, laddove Termoli e Ururi ricadono ancora nella
Capitanata e Campobasso mal compete, confinato col suo semplice cerchietto grande al
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penultimo gradino della classazione…Al terzo livello (indicato, come detto, dai prospettini) sono inquadrati più di una cinquantina di centri, mentre centinaia sono i rimanenti, collocati più o meno alla base della piramide gerarchica.
Da notare che sono completamenti assenti le torri costiere lungo il litorale, il che si spiega con
l’ormai totale cessazione delle incursioni turchesche, e che viene citato un solo scalo marittimo (Porto Salino). In totale i toponimi, come si vede nell’annessa tabella, superano i 450 (lo
stesso numero dell’attuale carta del T.C.I: cfr. fig. 5), ma risultano spesso assai differenti dagli attuali, talora con varianti trascrittive nel caso di conservazione del nome originario, per
cui sarà interessante una comparazione futura. Asolo esempio si ricordano: Aquila senza l’articolo, Civita Ducale per Cittaducale, M. Majello per La Maiella, e tante sorprese, soprattutto sul versante dell’oronimia; basti pensare che, nell’area dei Monti della Laga, si leggono testimonianze connotative del tipo M. Fultone, M. Fiore, Colle delle Api, oppure che, dove ora
si legge Terminillo, allora si diceva Monti Gurguri o M. Sassuolo, tutte denominazioni molto lontane dalle fredde e denotative attribuzioni nominali dei tempi nostri.
Non c’è tempo e spazio per illustrare quanto sia approssimata la posizione assoluta delle sedi umane e quella relativa tra le stesse o rispetto ai fiumi, ai monti e alla costa, ma certamente non mancano errori, talora anche madornali, che il successivo rilevamento su base geodetica ha già contribuito a rettificare definitivamente.
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SCHEDA 5
Titolo
Autore/i
Luogo
Editore
Anno
Tipologia
Misure
Scala
Orientamento
Collocazione
Abruzzo. Chieti, L’Aquila, Pescara, Teramo. Carta fisico-politica.
Touring Club Italiano
Milano
2002
Stampa
Cm 38x 32
1: 450.000
Nord in alto
Nuovissimo Atlante Geografico Mondiale
Fig. 8 - Abruzzo. Chieti, L’Aquila, Pescara, Teramo. Carta fisico-politica (2002).
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Alle quattro geocarte storiche risalenti ad altrettanti e diversi secoli, il curatore ha voluto aggiungere anche una quinta, attualissima, e tratta dall’Atlante di uno degli enti italiani di maggiore prestigio in campo cartografico e, più ampiamente, geografico. Poiché
tutti sono più o meno in grado di comprendere una carta geografica odierna, questo commento potrebbe sembrare inutile e quasi una sorta di “offesa” al consesso dei geografi
che si riunisce in Abruzzo. Al contrario, intento del curatore è stato di onorare un principio sacro della Geografia storica, quello di rapportare sempre al presente le ricostruzioni geografiche del passato.
Più precisamente, sarà utile procedere all’analisi di questa raffigurazione, giacché essa,
per i contenuti aggiornati e le modernissime tecniche di rappresentazione adottate, rappresenta l’anello finale vuoi dei principali processi di trasformazione territoriale verificatisi in Abruzzo negli ultimi secoli, vuoi dell’evoluzione delle tecniche di rappresentazione cartografica.
Già la legenda della carta (fig. 8 bis), naturalmente molto più ricca e articolata delle
precedenti, offre un primo indizio sulla molteplicità e complessità dei nuovi oggetti e
fenomeni territoriali dei tempi attuali. Basti pensare ai numerosi simboli denotanti infrastrutture di comunicazione (autostrade, gallerie, ferrovie, aeroporti, ecc.), taglia demografica dei centri abitati (articolata in dodici classi), «emergenze isolate» (grotte,
rifugi, fari, ecc.), elementi orografici, misure batimetriche, fenomeni idrografici (canali, impianti portuali, ecc.): simboli che, anche per la loro diversificazione cromatica, sono più facilmente identificabili rispetto a quelli delle carte antiche.
L’esattezza delle superfici è poi garantita dall’uso della proiezione conica di De L’Isle
(cfr. l’introduzione dell’Atlante), mentre la scala 1:450.000 offre un “contenitore” abbastanza ampio per ospitare un bel numero di simboli ritraenti i dettagli del terreno.
Inoltre, rispetto alle precedenti carte, il ricorso alle tinte ipsometriche per raffigurare il
rilievo rende qui molto più agevole intuire il rapporto percentuale tra le tre classiche fasce altimetriche della regione (montagna, collina, pianura), quasi con la stessa approssimazione, ove si usasse un semplice planimetro, delle statistiche ufficiali (secondo cui
il territorio abruzzese è situato, per oltre il 65%, al di sopra dei 700 m).
Per quanto riguarda la sagoma attuale dell’Abruzzo, i confini amministrativi (da me
appositamente rimarcati in fig. 9), risultano modificati rispetto al passato, soprattutto
lungo il limite nord-occidentale, attualmente decurtato nella superficie; lo rivela, “a
colpo d’occhio”, lo ‘spostamento’ dei centri di Civita Ducale e Petrella, corrispondenti
all’alto bacino idrografico del fiume Velino e fisicamente appartenenti alla Sabina: inclusi da sempre nell’Abruzzo Ulteriore (lo si vede meglio nella carta del Cassini, che
ha una scala più grande delle precedenti) e assorbiti dalla provincia dell’Aquila fino
alla riforma amministrativa del 1927 (T.C.I., p. 12), ricadono attualmente nel Lazio,
con i nomi di Cittaducale e Petrella Salto (fig. 9).
Il confine settentrionale, invece, appare sostanzialmente invariato: corrisponde per una
ventina di km al solco del Tronto, quindi, allontanandosi da Ascoli Piceno, segue per
un lungo tratto il corso del torrente Castellano, per poi risalire fino alle parti culmi-
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nanti dei Monti della Laga (Monte Gorzano), che costituiscono lo spartiacque secondario fra l’alto Tronto e il fiume Castellano e sui quali convergono tre confini regionali (Marche, Lazio e Abruzzo). Si tratta, infatti, di uno dei limiti amministrativi storicamente persistenti, dove vennero a contatto, per secoli, i domini di Napoli con quelli della Chiesa. Non a caso in questa zona, sia nell’Atlante attuale sia nella carta del
Cassini, si nota la presenza dell’antica fortezza di Civitella del Tronto, ultimo baluardo di resistenza dell’esercito borbonico nel 1861. Abbastanza invariati appaiono anche i confini amministrativi meridionali riportati dalla carta del T.C.I. rispetto a quelli del passato (anche in questo caso ben rimarcati dal Cassini), fatta eccezione per la
foce del fiume Trigno (oggi ricadente nel Molise).
La posizione assoluta dei centri, naturalmente, è perfetta e ci consente di riscontrare gli
errori, talora madornali, delle carte precedenti, perfino di quella più accreditata del Cassini (come, per es., Campo di Giove, che l’autore posiziona a sud est di Rocca di Raso
[Roccaraso] laddove nella carta del T.C.I. appare a nord-est, a meno che non si tratti di
un altro centro omonimo). Grazie ai simboli diversificati su molte classi di grandezza
demografica, è ovviamente ora possibile avere un’idea della loro importanza relativa.
Sotto questo profilo emergono innanzitutto i centri costieri o prossimi al litorale adriatico (tra cui Giulianova, Montesilvano, Francavilla al Mare, Ortona, Lanciano e Vasto),
particolarmente nel tratto compreso tra il confine con le Marche (Martinsicuro) e la città di Pescara (capoluogo di provincia). Si tratta di centri in buona parte già presenti nella carta cassiniana di fine Settecento, dove però erano indicati con semplici cerchietti
(fatta eccezione per Ortona e Lanciano), non avendo ancora assunto la recente importanza economica e sociale. È noto, infatti, che lo sviluppo più accentuato dell’Abruzzo
è iniziato solo negli anni Settanta del secolo scorso, portando la regione a differenziarsi dal Mezzogiorno, senza però riuscire a raggiungere i livelli del Nord Italia.
Uno degli indici di tale progresso consiste nell’istituzione di numerose aree di rispetto naturalistico, ben visibili sulla carta del T.C.I.: dal Parco Nazionale d’Abruzzo (inaugurato nel 1922, primo del genere in Italia) a quelli del Gran Sasso e Monti della Laga, della Maiella, al Parco Regionale del Sirente-Velino, oltre a diverse riserve naturali che testimoniano il tentativo di qualificazione ambientale e turistica di zone un
tempo selvagge. È emblematico, sia nei territori eretti a parco che in altri, valorizzati
anche dalla presenza delle comunità montane, lo sviluppo di centri quali Campo di
Giove, Pescocostanzo, Rivisondoli e Roccaraso, divenuti rinomate stazioni turistiche
e sciistiche, laddove erano assenti, o raffigurati come anonimi paesini di montagna,
dediti all’agricoltura, alla pastorizia e all’artigianato, nelle precedenti carte. Tra le quali fa eccezione la rappresentazione del Cassini, i cui segni grafico-simbolici (illustrati nella scheda precedente) lasciano già intravedere i centri incamminati sulla via dello sviluppo. Ne sono un esempio Roccaraso, Sulmona, Lanciano, Ortona e Vasto, nonché, ovviamente, il capoluogo di regione L’Aquila.
Alla persistenza delle antiche gerarchie territoriali si oppone d’altra parte la visibile
trasformazione di alcune zone dell’Abruzzo: l’esempio più significativo, in tal senso,
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è dato dalla presenza nelle carte storiche dell’antico lago di Celano, a sud-est del piano di Tagliacozzo (sede della storica battaglia tra Corradino di Svevia e Carlo d’Angiò nel 1268), che, ancora alla fine del Settecento, il Cassini rappresentava con un semplice cerchietto e al posto del quale, dopo la nota bonifica, l’Atlante T.C.I. non può che
mostrare la florida conca del Fucino e l’area urbanizzata di Avezzano. È interessante,
infine, rimarcare la sostanziale continuità dei rapporti gerarchici tra i centri abruzzesi
dal punto di vista delle funzioni religiose: L’Aquila, Pescara, Teramo e Chieti, ad esempio, hanno conservato i propri rispettivi ruoli di arcidiocesi e diocesi, già ben rappresentati dalle carte dei secoli passati.
La recente geografia dell’Abruzzo, peraltro oggetto di un convegno nazionale nel cui ambito si colloca la presente mostra, è troppo nota per giustificare una trattazione analitica
in una semplice scheda di commento cartografico qual è la presente. Si lascia pertanto al
lettore l’opportunità di confrontare autonomamente, sulla base penta-cartografica qui offerta, i mutamenti spaziali verificatisi nella regione tra il “prima” e il “dopo”…
Fig. 8/bis - Legenda della carta fisico-politica dell’Abruzzo con scala 1:450. 000 (Nuovissimo Atlante Geografico Mondiale, T. C. I., 2002).
La complessità di questa legenda lascia intuire l’articolata molteplicità degli attuali oggetti di ricerca geocartografica.
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Fig. 9 - L’Abruzzo Ulteriore Citeriore e la Contea di Molise del 1790 (Atlante Generale Geografico di Giovanni Maria Cassini) e la carta fisico-politica dell’Abruzzo con scala 1:450. 000 (Nuovissimo Atlante Geografico Mondiale, T. C. I., 2002).
L’accostamento tra la carta del Cassini e la carta dell’Abruzzo del T. C. I. evidenzia i principali mutamenti territoriali riguardanti la regione negli ultimi due secoli. A tale scopo, sulla carta del T. C. I. ho rimarcato i confini amministrativi attuali (in nero); su entrambe le carte, inoltre, ho evidenziato il capoluogo di regione e gli altri tre capoluoghi di provincia (in rosso), alcuni centri abitati (in verde) ed elementi idrografici (in azzurro) selezionati per il confronto.
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APPENDICE
Elenco dei Toponimi Abruzzesi
(a cura di Ida Cutolo)
1. desunti da C. Weigel, Typus
Regni Neapolitani in suas provincias diligenter divisi, Norimberga, 1740.
Afferigo
Asinello fl.
Aiello
Albi
Amatrice
Amiterno
Anatogna
Apresso
Aprutium Citerius
Aprutium Ulterius
Aquila
Arietta
Atri
Auzzano
Bellarite
Borgnetto
Briano
Castiliento
Calascio
Campo
Casoli
Celano
Celero
Cellebagno
Cequeto
Città Ducale
Civita di Pena
Civitas del Corte
Civitella
Cotte Duo
Farinosa
Fiano
Fugliena
Gabiano
Giulia nuova
Goria
Guasto di Amone
La Morone
La Piomba flu
La Posta
Lago di Celano
Latusci
Leonessa
Lenciano
Lenzano
Lenzano
Li Cotti
Lo Casale
Luca
M. Bello
M. Itrino
Morrea
Nerci
Nuova
Orfogna
Ortona a Mare
Paganica
Pallano
Pazo
Pescara
Pescara flu
Pesco
Pesco Canale
Petacci
Petrafero
Porto di Salino
R. de Botte
R. di Cerro
Rega
Ripalva
S. Angelo
S. Buono
S. Salvo
S. Stefano
S.Celio
S.Valentin
Salinello flu
Sangro o Sanguino fl.
Scazano
Scontrone
Secco
Silva
Silvano M
Solmona
Sparricciola
T. Sicuro
Tardino flu
Tefeino
Tenga
Teramo
Tevara
Tiano
Tofico
Torre
Torre
Trendicola
Trigno fl.
Tritafacco
199
Trivento
Valba
Vecchia
Vecchio
Veletta
2. desunti da G. Maria Cassini,
L’Abruzzo Ulteriore e Citeriore e la contea di Molise, Roma,
presso la Calcografia Camerale, 1790.
Acciano
Aiello
Ajello
Alba
Albanella
Albareto
Altino
Angelo
Antrosciano
Anversa
Aquila
Archi
Ariello
Arpignano
Aschi
Asinella F.
Atri
Avezzano
Bacuccio Sott.
Bacucco
Bagno
Beffe
Bellante
Bisegna
Bomba
Bonagnielo
Borbona
Borghetto
Borgo S. Pietro
Borgonovo
Bozza
Brisento
Bucchianico
200
Bugnara
C. d’Acqua bella
C. del Fiume
C. delli Giudici
C. di Monte
C. di Senata
C. di Venere
C. Nuovo
C. S. Ang.
C. S. Sovesco
C. Vecchio
C. Vecchio
C. Vecchio
Cagnano
Calascio
Camarda
Campana
Campo di Giove
Campoli
Canale
Canistro
Cantalupo
Canzano
Canzano
Capadocia
Capelle
Capistrano
Capistrello
Capitignano
Caporciano
Capradosso
Caramanico
Carapelle
Carbure del Conte
Carpineto
Carpineto
Carsoli
Casa Candidella
Casal Bordino
Casalanguida
Casale
Casale
Casanova
Casentino
Casoli
Castelnovo
Castelvecchio
Castiglione
Castiglione
Castiglione
Castiglione
Castiglione
Castrolento
Celano
Celenza
Celerà
Cellino
Cerqueto
Cerqueto
Cervara
Cese
Cesura
Chiarino
Chieti
Chirazzo F.
Cicoli
Civita
Civita Aquara
Civita Borella
Civita d’Antino
Civita di Penna
Civita Ducale
Civita Luparella
Civita S. Angelo
Civita Tomassa
Civitella
Civitella
Civitella del Conte
Civitella del Tronto
Civitella dell’Abazia
Cogno
Collalto
Colle
Colle Angelo
Colle Armeno
Colle Brincioni
Colle Candido
Colle Corvino
Colle di Castiglione
Colle di Corno
Colle di Macine
Colle di mezzo
Colle di Pietragentile
Colle di Vigliano
Colle Lungo
Colle Truglio
Colledonico
Colli di Lavarete
Cologna
Corcumello
Crudoli
Cugnolo
Cusano
Dogliola
F. Calimera
F. Feltrino
F. Merola
F. Salto
F. Trigno
Fallo
Fano
Fano d’Adriano
Farinola
Farnero
Fettrino F.
Fontecchio
Forca Bovalina
Forca di Coccia
Forca di Palena
Forca di Penna
Forca Leonarda
Forca Panara
Forcella
Forcella
Fornarolo
Fossa
Fraino
Francavilla
Frattara
Frisa
Frisa Grandinaria
Galiano
Gamagna
Gambarale
Gammerolo F.
Gastignano
Genga F.
Geßo
Gesso di Palena
Giulianova
Griggio
Guardia
Guardiabruna
Guardiagrido
In tempesta
Introdacqua
Introduco
Intromesole
Isola
La Castella
La Palata
La Posta
Lago di Celano
Lanciano
Lavarete
Le Copelle
Le Grotte
Legnano
Lenta F.
Lentella
Leonessa
Letto
Letto di Palena
li Pizzi
Liofrini
Lione
Liscia
Lisciano
Loranto
Loreto
Luco
Lucoli
M. Accerella
M. Agatone
M. Bello
M. Bello
M. Calvo
M. Caraccio
M. Carbonaro
M. Corno
M. di Ferrante
M. di Schienaforte
M. Elvino
M. Falco
M. Fiore
M. Fultone
M. Grottolo
M. Gualtiero
M. Gurguri
M. la Teglia
M. Lampallo
M. longo
M. Luco
M. Majello
M. Marso
M. Mattella
M. Morone
M. Negro
M. Pagano
M. Palliana
M. Policorno
M. Prata
M. S. Nicola
M. Secco
M. Silvano
M. Sorbo
M. Sorbo
M. Turchio
M. Turchio Scanno
M. Velino
Macchiatimone
Magliano
Magliano
Maone F.
Marano
Mareri
Maripelle
Massa inf.
Massacorona
Massiano
Mazzagrugnano
Miglianico
Modina Vittorito
M-Odorisio
Montecchio
Montereale
Montorio
Moricone
Morra
Morrea
Mortone
Mosciano
Motta di Roveto
Mujano
Navelli
201
Nereto
Nocciano
Onda
Opena
Ortona
Ortona
Ortucchio
P. di Asinella
P. di Avignone
P. Filippo
P. Ombrecchio
P. Picenza
P. Sanfenisco
Paderno
Paganica
Pagliara
Paglieta
Palena
Paterno
Paterno
Pedinino
Penna d’Ammone
Penna S. Andrea
Pentina
Pereto
Pescara
Pescara F.
Peschio
Peschio Asierolo
Pescina
Pesco Costanzo
Petranico
Petranzieri
Petrella
Petrella
Petto
Pettorano
Pianella
Piano di 5 Miglia
Pianola
Pietra Abbondante
Pietra Camela
Pietra Fiorita
Pietrasecca
PietraSolida
Pino F.
Pizzo ferrato
202
Poggio Pomponero
Policorno
Pollutro
Popolo
Popplico
Porto Salino
Pratola
Preturo
Preturo
Prezza
Quaino
Quindole
R. del Raso
R. di 5 Miglia
R. di Calascio
R. di Cero
R. di Fondi
R. di Mezzo
R. di Valle
R. Morice
R. Odorisi
R. Petruro
R. Venuti
Rapino
Rendenara
Rimogna
Ripa
Ripa
Ripa di Fagnano
Ripatone
Risciolo
Rocca di Vivo
Rocchetta
Roio
Rosciano
Rosiello
Rovere
Roveto
Roveto Marino
S. Anatolia
S. Ang.di Terdone
S. Apollinaro
S. Benedetto
S. Benedetto in Goriano
S. Donato
S. Giacomo
S. Jona
S. Liberatore
S. Lucia
S. M. a Mare
S. M. d’Arabona
S. Maria
S. Maria del Ponte
S. Martino
S. Martino
S. Ogna
S. Pellino
S. Petito
S. Pietro
S. Pietro
S. Pio
S. Sebastiano
S. Spirito
S. Stefano
S. Valentino
Salino F.
Sangro F.
Santobuono
Scaffoli
Scanzano
Scierni
Scurcola
Secca
Secena
Senarica
Sento F.
Sette Frutti
Sora
Spoltore
Stiffe
Stornazzaro
Sulmona
Tagliacozzo
Tagliera
Taranta
Taverna F.
Tavo F.
Teatina
Teramo
Termoli
Tescino
Tocco
Tondicoda
Torino
Tornareccio
Tornareccio
Tornimparte
Torre di Taglia
Torrebruna
Torrizetta
Tossiccia
Tra sacco
Treglio
Trevi
Trontinello F.
Trontino F.
Trontino F.
Tuffo
Turano
Turri
Tuscio
Tutillo
V. Coreta
V. del Conte Mo Scuto
V. di Forca
V. Giovanella
V. Nova
V. Romana
V. S. Silvestro
V. Simboli
V. Torricella
Valle d’Ugno
Valle Regia
Valle Siciliana
VallePutrida
Vasco Canale
Vasteo
Vene
Vicolli
Villa Alfonsina
Villa Caprara
Villa Maina
Villa marina
Viso
Vocri
Vomano F.
Zugnano
3. desunti da T.C.I., Nuovissimo
Atlante Geografico MondialeAbruzzo. Chieti, L’Aquila, Pescara, Teramo. Carta fisico-politica, Milano, 2002.
Abbateggio
Acciano
Acquaratola
Aielli
Aiello
Alanno
Alba Adriatica
Alfedena
Altino
Ancorano
Anversa degli Abruzzi
Archi
Ari
Arielli
Arischia
Arsita
Ateleta
Atessa
Atri
Avezzano
Badia di S. Bartolomeo
Bagno Grande
Balsorano
Barete
Barisciano
Barrea
Basciano
Bazzano
Bellante
Bisegna
Bisenti
Bocca di Valle
Bogara
Bolognano
Bomba
Bominaco
Borrello
Brecciarola
Brittoli
Bucchianico
Bugnara
Bussi sul Tirino
Cagnano Amiterno
Calascio
Camarda
Campli
Campo di Giove
Campo valano
Campotosto
Canistro
Canosa Sannita
Cansano
Canzano
Capestrano
Capistrello
Capitignano
Caporcian
Cappadocia
Cappelle sul Tavo
Caramanico terme
Carapelle Calvisio
Carpineto della Nora
Carpineto Sinello
Carsoli
Carunchio
Casacanditella
Casalanguida
Casalbordino
Casalincontrada
Casamaina
Casentino
Casoli
Castel Castagna
Castel del Monte
Castel di Ieri
Castel di Sangro
Castel Fraiano
Castel Frentano
Castelferrato
Castelguidone
Castellafiume
Castellalto
Castellalto
Castelli
Castelnuovo
Castelvecchio Calvisio
Castelvecchio Subequo
Castiglione
Castiglione a Casauria
203
Castiglione Messer Marino
Castiglione Messer Raimondo
Castilenti
Catignano
Celano
Celenza sul Trigno
Cellino Attanasio
Cepagatti
Cerchio
Cermignano
Cermone
Cerqueto
Cerratina
Cerreto
Cesano
Chieti
Chieti Scalo
Città Sant’Angelo
Civita d’Antino
Civitaluparella
Civitaquana
Civitatomassa
Civitella Alfedena
Civitella Casanova
Civitella del Tronto
Civitella Messer Raimondo
Civitella Roveto
Cocullo
Collarmele
Colle Spaccato
Collebrincioni
Collecorvino
Colledara
Colledimacine
Colledimezzo
Collelongo
Colleminuccio
Collepietro
Collepietro
Colleranesco
Collevecchio
Collimento
Cologna
Colonnella
Controguerra
Coppito
Corfinio
204
Corropoli
Cortino
Corvara
Cotti
Crecchio
Crognaleto
Crognaleto
Cugnoli
Cupello
Cusciano
Dogliola
Elice
Eremo di S. Antonio
Fagnano Alto
Faiano
Fallascoso
Fallo
Fano a Corno
Fano Adriano
Fara Filiorum Petri
Fara San Martino
Farindola
Filetto
Fontecchio
Forca di Penne
Fossa
Fossacesia
Fossacesia Marina
Fraine
Francavilla al Mare
Frattura
Fresagrandinaria
Frisa
Furci
Gagliano Aterno
Gamberale
Gessopalena
Gessopalena
Gioia dei Marsi
Gissi
Giuliano Teatino
Giulianova
Giuliopoli
Goriano Sicoli
Guardia Vomano
Guardiabruna
Guardiagrele
Guarenna
Guastameroli
Guilmi
Imposte
Incoronata
Introdacqua
Isola del Gran Sasso d’Italia
Lama dei Peligni
Lanciano
L’Aquila
Lecce nei Marsi
Legnano
Lempa
Lentella
Lettomanoppello
Lettopalena
Lido di Casalbordino
Lido Riccio
Liscia
Loreto Aprutino
Luco dei Marsi
Lucoli
Lucoli Alto
M . Ruzza
M. Amaro
M. Bilanciere
M. Cagno
M. Calvario
M. Calvo
M. Cappucciata
M. Cava
M. d. Scindarella
M. d’Aragno
M. Genzana
M. la Penna
M. Lenca
M. Lungo
M. morrone
M. Ocre
M. Orsello
M. Pizi
M. Pizzalto
M. Porrarra
M. Prena
M. Prezza
M. Rotella
M. S. Domenico
M. Tricella
M.Caraceno
Macchia da sole
Magliano de’ Marsi
Manoppello
Marane
Marina di S. Vito
Martinsicuro
Massa d’Albe
Miglianico
Molina Aterno
Montagne del Morrone
Montazzoli
Montebello di Bertona
Montebello sul Sangro
Monteferrante
Montefino
Montelapiano
Montenerodomo
Monteodorisio
Montereale
Montesilvano
Monticchio
Montorio al Vomano
Morino
Morrice
Morro d’Oro
Mosciano Sant’Angelo
Moscufo
Mozzagrogna
Navelli
Neretto
Nerito
Nocciano
Nocella
Notaresco
Ocre
Ofena
Olmi
Opi
Oricola,
Orsogna
Ortona
Ortona dei Marsi
Ortucchio
Ovindoli
Pacentro
Pacentro
Paganica
Paglieta
Palena
Palmoli
Palombaro
Parco Nazionale della Maiella
Penna Sant’Andrea
Pennadomo
Pennapiedimonte
Penne
Perano
Pereto
Pescara
Pescasseroli
Pescina
Pescocostanzo
Pescosansonesco
Pettorano sul Gizio
Pianella
Piano d. Fonti
Piazzano
Picciano
Piè la Costa
Pietracamela
Pietraferrazzana
Pietralta
Pietranico
Pineto
Pizzoferrato
Pizzoli
Poggio di Roio
Poggio Licenze
Poggio Morello
Poggiofiorito
Pollutri
Ponzano
Popoli
Prata d’Ansidonia
Pratola Peligna
Pretara
Pretoro
Preturo
Prezza
Punta Cavalluccio
Punta d. Penna
Punta di Acquabella
Punta di Ferruccio
Putignano
Quadri
Raiano
Rapino
Ripa Teatina
Rivisondoli
Rizzacorno
Rocca di Botte
Rocca di Cambio
Rocca di Mezzo
Rocca Pia
Rocca San Giovanni
Rocca Santa Maria
Roccacaramanico
Roccacasale
Roccamontepiano
Roccamorice
Roccaraso
Roccascalegna
Roccaspinalveti
Roiano
Roio del Sangro
Rosciano
Rosello
Roseto degli Abruzzi
S. Angelo del Pesco
S. Benedetto dei Marsi
S. Eusanio del Sangro
S. Giorgio
S. Gregorio
S. Marco
S. Maria Arabona
S. Maria d. Penna
S. Maria dei Cintorelli
S. Nicola
S. Panfilo d’Ocre
S. Paolo
S. Pietro
S. Pietro ad Oratorium
S. Tommaso
Salcito
Salle
San Benedetto dei Marsi
San Benedetto in Perillis
San Buono
San Demetrio ne’ Vestini
205
San Giovanni in Venere
San Giovanni Lipioni
San Giovanni Teatino
San Martino s. Marrucina
San Pio delle Camere
San Salvo
San Valentino in Abruzzo Citeriore
San Vincenzo Valle Roveto
San Vito Chetino
Sant. d. Madonna d. Miracoli
Santa Maria Imbaro
Sante Marie
Sant’Egidio alla Vibrata
Sant’Eufemia a Maiella
Sant’Eusanio del Sangro
Sant’Eusanio Forconese
Santo Stefano di Sessanio
Sant’Omero
Sassa
Scafa
Scanno
Scerni
Schiavi di Abruzzo
Scontrone
Scoppito
Scurcola Marsicana
Secinaro
Serramonacesca
Silvi
Spoltore
St. di Tollo-CanosaSannita
Sulmona
Tagliacozzo
Taranta Peligna
Taverna
Teora
Teramo
Terranera
Tione degli Abruzzi
Tocco da Casauria
Tollo
Torano Nuovo
Tordina
Torino di Sangro
Torino di Sangro Marina
Tornareccio
206
Tornimparte
Torre de’ Passeri
Torrebruna
Torremontanara
Torrevecchia Teatina
Torricella Peligna
Torricella Sicura
Tortoreto
Tossicia,
Tra sacco
Treglio
Tufillo
Turrivalignani
Tussio
Vacri
Valle Canzano
Valle Castellana
Valle S. Giovanni
Vallecupa
Varano
Vasto
Vestea
Vicoli
Villa Badessa
Villa Canale
Villa Celiera
Villa Grande
Villa Passo
Villa Passo
Villa Romagnoli
Villa S. Tommaso
Villa Santa Lucia degli Abruzzi
Villa Santa Maria
Villa Sant’Angelo
Villa Vallucci
Villalago
Villalfonsina
Villamagna
Villanova
Villareia
Villavallelonga
Villetta Barrea
Vittorito
Indice
Presentazione della Presidente AIIG Abruzzo
pag.
5
Discorso di apertura del Presidente Nazionale
”
7
La Geografia in mostra, Mario Fondi
”
9
della regione teramana tra XVIII e XIX sec., Vladimiro Furlani
”
11
Geografia, Franco Farinelli
”
25
Gli amboni in Abruzzo, Gabriella Albertini
”
27
Il Gran Sasso d’Italia, una montagna mediterranea, Gabriele Fraternali ”
49
Tra geografia e fotografia. Mario Fondi e l’Abruzzo, Marco Maggioli,
Nadia Fusco
”
63
Il Gran Sasso d’Italia: dal caldo mare tropicale alla nascita
della catena montuosa, Leo Adamoli
”
71
Scienza, coscienza e conoscenza. Il rischio sismico si può prevenire?
Si può e si deve fare, Enrico Miccadei
”
103
Un primo bilancio sul terremoto, Antonio Perrotti
”
107
Lo zafferano dell’Aquila, Fernando Tammaro
”
111
Diversità floristica e vegetazionale sul Gran Sasso
e sui Monti della Laga, Fernando Tammaro
”
115
Geografia del gusto.
La filiera del latte e dei formaggi ovini, Armando Montanari
”
121
Per una geografia del gioiello. Il caso “Presentosa”, Adriana Gandolfi
”
127
Pescocostanzo, Francesco Sabatini
”
133
Il Parco Nazionale della Maiella: aspetti della flora
e della vegetazione, Gianfranco Pirone e Giampiero Ciaschetti
”
137
”
155
L’Abruzzo “Alla Carta”. Saggi e assaggi cartografico-toponimici
da cinque figurazioni territoriali (secoli XVII-XX), mini-Catalogo a cura
di Vincenzo Aversano con interventi di Silvia Siniscalchi e Ida Cutolo
”
171
Tra bottega e piccola industria: prodromi per una geografia economica
Lineamenti vegetazionali del Parco Naturale Regionale
Sirente-Velino, Gianfranco Pirone e Anna Rita Frattaroli
207
Stampato nel mese di ottobre 2010
presso Editpress, Castellalto, Te,
per conto di Verdone Editore, Castelli, Te.