2.2. L`Autocoscienza La trattazione dell`autocoscienza è

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2.2. L`Autocoscienza La trattazione dell`autocoscienza è
2.2. L’Autocoscienza
La trattazione dell’autocoscienza è indubbiamente la sezione della Fenomenologia che ha
avuto maggiore risonanza. Nella sezione precedente, riguardante la coscienza, venivano
infatti trattati temi gnoseologici, trascendentali, epistemologici e metafisici, spesso
sviluppati con argomenti molto sottili ed eleganti, ma di sapore piuttosto specialistico.
Nella trattazione dell’autocoscienza sono invece coinvolti i problemi dell’uomo e della
sua storia nel senso più vasto e più vivo del termine.
Con l’autocoscienza si tematizza l’ingresso dell’umanità nella storia, per questo motivo
affiorano qui in modo molto marcato fenomeni storici.
Con la sezione dell’autocoscienza, ossia della coscienza consapevole di sé, che contiene
le figure più celebri della Fenomenologia, il centro dell’attenzione si sposta
dall’oggetto al soggetto, ovvero all’attività concreta dell’io, considerato nei suoi rapporti
con gli altri.
Di conseguenza, tale sezione, non si muove più nel solo ambito conoscitivo (come nel
capitolo della coscienza), ma concerne rapporti più ampi, quali la società, la cultura, la
storia della filosofia, la religione.
La prima, più semplice e immediata, forma in cui si manifesta l’autocoscienza si
presenta come individuo e si esprime attraverso l’appetito (Begierde), ovvero il
desiderio di dominare e possedere gli oggetti della natura, che sta alla base dell’impulso
vitale.
Mentre infatti la coscienza guardava l’altro (l’oggetto); l’autocoscienza si guarda
attraverso l’altro, ha cioè bisogno di dominare l’altro per riconoscersi. Questa ricerca,
tuttavia, non può limitarsi al mondo degli oggetti sensibili: per giungere alla piena
consapevolezza di sé l’autocoscienza deve affermarsi sopra un’altra autocoscienza.
L’appetito, il desiderio, quindi, generano una lotta, una guerra dell’autocoscienza
con le altre autocoscienze, ovvero dell’individuo con gli altri individui al pari di lui
tesi a soddisfare i propri desideri nel mondo e ad affermare la propria volontà come
volontà autonoma. Hegel spiega che l'uomo (l'autocoscienza) ha bisogno di un altro
uomo (un'altra autocoscienza) per svilupparsi attraverso rapporti conflittuali.
Infatti, secondo Hegel, la consapevolezza dell’indipendenza dell’autocoscienza passa
necessariamente attraverso un riconoscimento strappato ad altri: solo controllando l’altra
autocoscienza, facendola dipendere da noi, possiamo riceverne un’immagine di noi stessi
che sia a sua volta sotto il nostro proprio controllo e dominio, e che dunque ci confermi
nella nostra autonomia e identità.
Siamo, in questo momento, davanti alla rappresentazione della vita sociale primitiva. I
primi rapporti umani non furono, dice in sostanza Hegel, rapporti di “naturale”
socievolezza.
All’inizio della storia umana vi è innanzitutto la lotta per il riconoscimento, una guerra di
tutti contro tutti, dove ogni essere afferma la propria autonomia nell’opposizione a un altro
essere.
In tale lotta ognuno mette a repentaglio se stesso (e quindi la propria vita): la sfida e il
conflitto appaiono dunque le condizioni necessarie all’autoaffermarsi della coscienza
individuale, la quale deve essere pronta a qualsiasi prova, anche ad affrontare il pericolo
estremo, a mettere in gioco la vita, per affermarsi come indipendente.
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2.3. La dialettica servo/padrone
Questo conflitto è da Hegel illustrato attraverso una delle più celebri e suggestive figure
della Fenomenologia, quella che analizza la lacerazione fondamentale avvenuta nella
storia, ossia quella tra signore e servo, divenuta famosa grazie al marxismo.
E’, questa del rapporto servo-padrone, la prima importante valorizzazione del lavoro
umano compiuta da un filosofo. Non per niente Marx esalta quale gloria della
fenomenologia hegeliana l’aver tematizzato il processo lavorativo per la prima volta in
modo filosofico.
Entrando nel dettaglio della dialettica servo-padrone, è necessario che la lotta fra le
autocoscienze non porti mai all'annullamento dell'autocoscienza antagonista, non metta
mai capo alla morte degli individui contendenti, poichè un'autocoscienza non può davvero
essere tale se non in rapporto con altre autocoscienze, come se, venendo meno uno dei
due opposti, anche l'altro si sgretolasse.
Perciò il rapporto-conflitto tra le autocoscienze non porta mai alla distruzione totale di uno
dei rivali, bensì porta all'asservimento, a un rapporto di sottomissione di uno all’altro,
ovvero al prendere possesso in forma di schiavitù dell'autocoscienza antagonista:
un'autocoscienza diventa padrona, l'altra schiava; è il rapporto tra il “padrone” e il
“servo”.
In questa lotta per il riconoscimento chi non ha paura di perdere la propria vita si afferma
come padrone su colui che, invece, teme la morte e diventa servo del primo. Colui che
nella contesa per il riconoscimento non teme di perdere la propria vita, si impone su colui
che, invece, ha paura della morte: di conseguenza il primo diviene “padrone” e il secondo
“servo”. Il servo è diventato servo perché non ha osato lottare, così fu sottomesso.
Questo rapporto, secondo Hegel, è esemplarmente rappresentato dal regime di schiavitù
caratteristico della servitù della gleba nell’alto medioevo, quando i contadini ancora liberi si
recavano nelle vicinanze di un castello e fondavano lì un paese per avere la protezione di
un cavaliere, al quale cedevano per questa ragione la decima parte del raccolto.
Nel linguaggio hegeliano, al servo è “essenziale la cosalità”. Ciò significa che il servo è
colui che rielabora le cose, affinché servano al godimento del signore. In altri termini, il
servo è colui che è direttamente vicino alle cose, mentre il signore si rapporta alle cose
solo tramite il servo.
E’ un rapporto, tuttavia, destinato al superamento e al rovesciamento dei ruoli tra i due
protagonisti. Il padrone, infatti non lavora e costringe il servo, che deve tenere a freno la
spinta immediata dei suoi desideri, a lavorare per lui.
Ma proprio in questo si trova la radice del mutamento dialettico e dell’inversione: lavorare
significa infatti dominare le cose mettendo l'impronta dello spirito nella materia. Attraverso
il lavoro, quindi, il servo si accorge di essere necessario al padrone che, per la
propria sopravvivenza, dipende interamente da lui, dal suo lavoro.
Nello stesso tempo, trasformando con la sua attività le realtà naturali, imprimendo in esse
ciò che egli è, la propria essenza, la propria capacità umana di trasformazione e
rielaborazione della natura, il mondo smette di apparire al servo come un semplice
ostacolo.
Trasformando la realtà naturale con il proprio lavoro, il servo la umanizza, cioè vi immette
la propria essenza di essere attivo e “creativo”.
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Il padrone, dal canto suo, vive la natura passivamente e non impone su di essa il proprio
suggello. Nel prodotto del suo lavoro il servo riconosce se stesso (il proprio
impegno e capacità progettuale), si riappropria del sé perduto, acquisisce insomma
coscienza di sé. Egli, così, si rende conto della sudditanza del padrone nei suoi
confronti, il che gli dà la sensazione di essere sostanzialmente libero (perché il
padrone “dipende” da lui).
La storia universale non prosegue nella storia del signore, ma in quella del servo, poiché
senza il servo non vi è nessun signore, e senza le rielaborazioni del servo non vi è nessun
godimento. Il servo invece può sussistere senza il signore.
Hegel dimostra come, proprio grazie al lavoro, un rapporto in origine orientato in un senso
(dominio del padrone sul servo) finisca poi per rovesciarsi nel senso opposto (libertà del
servo dal padrone): l’autocoscienza servile, che si identifica con la capacità
produttiva dell’uomo, si afferma come più autentica e duratura di quella signorile:
siamo di fronte al capovolgimento dialettico per cui ad essere veramente importante è il
servo e non il padrone.
I contemporanei amarono Hegel per la sua capacità sistematica, oggi, invece, ciò che di
lui si ammira sono alcune singole riflessioni, e senz'altro quella sulla dialettica servopadrone rientra a pieno titolo nella categoria.
Già Marx la apprezzò in modo particolare per la grande abilità con cui Hegel tratteggia la
nascita della schiavitù, ma ancora di più per il fatto che Hegel dimostra, con la tecnica del
capovolgimento dialettico, che il rapporto di schiavitù tende a stravolgersi nel suo contrario
con la conseguenza che il vero padrone è il servo.
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2.4. Stoicismo e scetticismo
Dopo la parentesi della dialettica servo-padrone, si sviluppano i successivi momenti
dell’autocoscienza, caratterizzati per essere momenti di cultura, dall’età antica a quella
moderna.
Abbiamo già notato che alcune triadi dialettiche sono atemporali (ed è il caso della
coscienza e dei suoi tre momenti), altre temporali e storiche, poiché i successivi momenti
sono collocabili storicamente lungo una sequenza cronologica.
Dopo la dialettica servo-padrone, troviamo dunque tappe storiche, ma si tratta di tappe
che non riguardano la storia delle relazioni sociali (come la dialettica servo-padrone),
bensì la storia della cultura. La prima tappa è costituita dallo stoicismo e dallo
scetticismo.
Tornando brevemente alla dialettica servo-padrone: la libertà conquistata dal servo
mediante il lavoro è, per Hegel, una libertà puramente interiore, è cioè semplicemente la
consapevolezza del proprio valore, della propria indispensabilità: nell'ottica hegeliana il
servo è superiore al padrone, poichè il lavorare conferisce superiorità, e tuttavia il
padrone rimane padrone materialmente, mentre il servo è padrone solo spiritualmente.
Con la dialettica servo-padrone l’uomo risulta quindi schiavo del mondo materiale
incarnato dal lavoro. Ci troviamo ancora una volta di fronte a un rapporto dialettico:
scavando fino in fondo, scatta un meccanismo che capovolge l’intera situazione in cui si è
giunti.
Spetta infatti allo stoicismo il merito di aver tentato di uscire da questa nuova situazione,
insegnando che a contare non è la condizione materiale in cui ci si trova (tant’è che furono
allo stesso modo stoici un re, Marco Aurelio, e uno schiavo, Epitteto).
Una volta nata l’esigenza di liberarsi dalla schiavitù del mondo materiale, lo stoicismo
propone una soluzione, invitando a comportarsi come se il mondo materiale non
esistesse.
Nello stoicismo infatti si celebra la libertà del saggio nei confronti di tutto ciò che lo
circonda.
Ma se lo stoicismo nega l’importanza del mondo materiale, lo scetticismo porta alle
estreme conseguenze queste considerazioni e arriva a mettere in dubbio l’esistenza di un
mondo esterno al soggetto.
Lo scetticismo, però, spinge fino in fondo il ragionamento e conclude che, se si deve
dubitare dell’esistenza del mondo materiale, allora si deve dubitare di tutto, coscienza
compresa.
La libertà dello scettico è quella di sospendendere l’assenso su tutto ciò che
comunemente è ritenuto vero e reale, negando quindi il mondo stesso, con il quale
entra in conflitto.
Il risultato è che la coscienza stessa, insieme a tutto il resto, perde valore e fiducia in se
stessa: è quello che Hegel designa col nome di momento della coscienza infelice .
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2.5. La coscienza infelice
La scissione presente, in modo implicito, nello scetticismo diventa esplicita nell’ultima
figura dell’autocoscienza: la coscienza infelice.
La coscienza infelice è, per Hegel, la figura più drammaticamente divisa e, come tale, è
riassunta nell’atteggiamento dell’uomo religioso.
Questa è la tappa del Medioevo cristiano: Hegel negli Scritti teologici giovanili aveva
valutato positivamente il cristianesimo, però ora si rifiuta di guardare con simpatia al
Medioevo (a differenza della maggior parte dei Romantici), poiché in esso vede
l’ascetismo, l’automortificazione di un uomo dalla coscienza infelice, che pensa a Dio
come a un oggetto a sé opposto, come se Dio fosse tutto e l’uomo nulla.
Il presupposto del discorso hegeliano consiste nella convinzione che la distinzione tra
soggetto e oggetto sia solo apparente, non reale: la coscienza in età medioevale non
riesce a capire (e per questo soffre) che quel Dio potente che vede a lei opposto in realtà
è lei stessa.
L’uomo religioso è allora l’uomo della lacerazione e della divisione più netta e radicale.
Nella religione infatti l’Assoluto è avvertito come una realtà lontana ed estranea e
assume le sembianze del Dio trascendente padrone della vita e della morte, Signore
inaccessibile davanti al quale l’uomo si trova in uno stato di totale dipendenza.
Sia l’ebraismo, sia il cristianesimo sono, per Hegel, realizzazioni storiche di questa
infelicità; anche nel cristianesimo, infatti, l’idea del Dio che si fa uomo, l’incarnazione, non
mitiga la divisione della coscienza, la separazione fra finito e infinito, la distanza fra divino
e umano.
Davanti a questo Dio inaccessibile, la coscienza infelice non può che umiliarsi e
riconoscere che chi agisce è soltanto Lui.
Ma proprio questa mortificazione di sé, questa negazione dell’io in favore di Dio che pure è
il punto più basso toccato dall’autocoscienza nella sua ricerca, è destinato al
superamento.
Nel vano sforzo di unificarsi con Dio, umiliando se stessa, la coscienza giunge infatti a
verità e si rende conto di essere lei stessa Dio, cioe l’Universale, il Soggetto
Assoluto vanamente e lungamente cercato in qualcosa di altro da sé.
Si tratta qui dell’esperienza mistica: con essa, infatti, l’uomo si è assimilato a Dio e ha
acquisito la certezza di essere ogni realtà, ovvero ha superato il dualismo
soggetto/oggetto.
La coscienza infelice, quindi, rappresenta, insieme, l’ultima figura dell’autocoscienza e il
trapasso definitivo nel vero sapere che è appunto costituito dalla scoperta che essa
compie quando sa di essere il Tutto cercato.
Questo trapasso, questa nuova consapevolezza, costituisce il sapere assoluto (la
coscienza sa di essere tutta la realtà) ed è realizzato, storicamente, nell’uscita dal
mondo religioso del Medioevo e nell’avvento dell'epoca moderna.
La coscienza che sa di essere tutta la realtà è dunque la coscienza moderna
finalmente libera da ogni asservimento e, in tal senso, pienamente felice.
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Questa coscienza è la ragione. Si chiude con la coscienza infelice la seconda tappa
della Fenomenologia, quella dell’autocoscienza, e si apre la terza, la tappa della ragione.
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