Franco Leo / Anna Maria Marucelli SCRIVIMI MOLTO E A LUNGO
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Franco Leo / Anna Maria Marucelli SCRIVIMI MOLTO E A LUNGO
Franco Leo / Anna Maria Marucelli SCRIVIMI MOLTO E A LUNGO PREMIO PIEVE 2013 La corrispondenza tra l’impiegata della Rinascente Anna Maria e il tenente del genio Francesco, detto Franco, ci ha catturati fin dalla prima pagina. Una lettera folgorante, spiritosa e maliziosa, del 18 luglio 1940 - anno XVIII dell’era fascista - con cui Franco risponde alla sconosciuta (e anonima, giacché non ha scritto neppure il suo nome, solo le iniziali) madrina di guerra la cui lettera, indirizzata a un qualunque “tenente della III divisione Libica che non riceve mai posta”, è stata consegnata a lui. Sospettoso, ruvido, sbruffone, intriso dell’ideologia vitalista e virilista del “me ne frego”, Franco si presenta abilmente come bruttissimo e poco interessato a scrivere lettere, tantomeno a corrispondere con una sconosciuta. A meno che non sia… bella. Benché la lettera di risposta non si sia conservata, sappiamo che la sconosciuta madrina dagli occhi di gatta accettò la sfida del tenente, e rispose. Comincia così uno scambio di lettere che durerà più di sei anni, e a un certo punto diventa essenziale nella vita di entrambi – anche se tutti e due faranno sempre finta che non lo sia. Benché la situazione – la madrina di guerra che scrive a un ufficiale al fronte – fosse in qualche modo stereotipata, e ampiamente studiata dalla storiografia della Seconda guerra mondiale, la vivacità delle parole di Franco e Anna, la precisione dei caratteri e la freschezza dei loro comportamenti si sono rivelati subito insoliti, e avvincenti come un romanzo. Facendo slittare la corrispondenza dal piano della storia a quello della letteratura, appunto. La corrispondenza di Franco e Anna Maria dura dal luglio del 1940 al dicembre del 1946: si interrompe quando lui si accinge a salire sul piroscafo, al momento del sospirato rimpatrio. Ma il flusso delle lettere è discontinuo. La corrispondenza è frammentaria, lacunosa, e procede a sbalzi e strappi. Anna Maria, per esempio, entra in scena facendoci sentire la sua voce solo a p. 35: e a quel punto ci sembra già di conoscerla, perché l’abbiamo immaginata con gli occhi del tenente che, nel deserto della Libia, si chiede chi sia e che volto abbia la giovane donna che gli ha scritto da Roma. Così le voci dei due protagonisti si alternano, talvolta uno dei due tace per mesi. C’è un lungo silenzio – per esempio, Franco scompare fra il dicembre 1940 (quando viene catturato) e l’ottobre del 1941 (quando riappare prigioniero in India); un altro fra l’aprile e il novembre del 1942, quando Anna Maria a Roma si fidanza con un altro, e manda a monte il matrimonio solo poco tempo prima delle nozze. Un nuovo silenzio occupa i primi sei mesi del 1943 – che corrispondono ai mesi della depressione più dura di Franco, angosciato dalla prigionia, ossessionato dal reticolato spinoso che lo rinchiude, e caduto nell’astenia e nella stagnazione (vedi la bella metafora dell’isola del Pacifico, p. 5657). Altre volte le lettere sono andate perdute. Sono anche disuguali: per un lungo periodo Franco può scrivere una sola lettera, e preferisce scrivere alla madre, e non alla madrina. In seguito può scrivere poco, e ha a disposizione solo 24 righe. Da una parte la guerra, che travolge l’Africa del nord e annienta la divisione di Franco, i trasferimenti da un campo di prigionia indiano all’altro, le punizioni per le ribellioni e le fughe (di cui si vorrebbe sapere di più - ma il libro, immagino per scelta dell’editore, non fornisce apparati); la caduta del fascismo in Italia, il passaggio del fronte, la depressione e i cambi di lavoro dall’altra, fanno scomparire ora Franco ora Anna Maria – vivacizzando l’andamento della vicenda e creando quasi dei ‘capitoli’. Il rapporto epistolare fra i due si nutre di parole, e di linguaggio. Parole grigie, quelle di Anna Maria, adatte a descrivere la cupezza di Roma in guerra, e poi la caotica e sordida Roma del 1946. Parole acri e però brillanti quelle di Franco che – pur dimostrandosi ostile alla scuola e agli studi, pur professando di avere “studiato quanto basta per non imparare niente” - dimostra una notevole padronanza espressiva. Franco e Anna Maria, senza saperlo, sono anche due archetipi. Recitano la parte dell’uomo e della donna, e impersonano il loro ruolo nel mondo con una coerenza di enorme interesse sociologico, per noi che li leggiamo tanti anni dopo. Con le loro parole, giorno dopo giorno, ci insegnano come deve comportarsi un uomo, come una donna, cosa ci si aspetta dall’uno e dall’altra, e come è difficile liberarsi dalla prigione invisibile in cui si dibattono entrambi. Ma uno degli aspetti più affascinanti della loro corrispondenza è che quello che viene taciuto è più importante di ciò che viene detto. Non solo perché le lettere scambiate in tempo di guerra devono superare il controllo della censura. (E non si può perciò parlare dell’andamento della guerra o della politica, né di cose reali, ma solo di inezie oppure, di ciò che conta davvero, solo per allusioni). Un piccolo capolavoro di elusione è la lettera del luglio 1945, quando Anna Maria – senza dire nulla – cerca di preparare Franco al cambiamento epocale che lo aspetta al suo ritorno: il fascismo non esiste più, l’Italia è diventata un paese liberale, e Franco deve accettarlo. Ma i due scriventi dicono senza dire anche perché devono superare la censura interiore che impongono ai loro sentimenti e alle loro reali intenzioni. Così le raffinate strategie femminili di Anna Maria, che deve sedurre il prigioniero senza sembrare interessata a fidanzarsi con lui, si incrociano con quelle di Franco, che a sua volta ostenta il proprio brutto carattere, la depressione e la voglia di emigrare lontano e di non tornare in Italia, quando invece ormai l’amica di penna gli è diventata indispensabile, ed è l’unica voce che lo ancori al suo presente e a un possibile futuro. Questo è un romanzo con due soli protagonisti, e qualche comparsa che però non riesce mai a diventare personaggio. Franco e Anna Maria si interessano solo di se stessi – e l’uno dell’altra. Come in tutti i romanzi che si rispettino, è una storia d’amore. Contrastata. I due eroi – o anti-eroi – devono superare infinite difficoltà prima di scoprirsi fatti l’uno per l’altra. Separati dal Mediterraneo prima, da migliaia di chilometri poi – quando, dopo essere stato fatto prigioniero in Libia, Franco finisce in un campo di prigionia in India e diventa il POW numero 1511 - Franco e Anna Maria non si conoscono se non attraverso minuscole fotografie (chiunque di voi abbia visto le fotografie degli anni Quaranta, poco più grandi di francobolli intuisce quanto poco possano rivelare quelle foto di un volto e di una fisionomia): non hanno nulla in comune e iniziano a scriversi per ragioni diverse. Lei, 27enne nubile lavoratrice, toscana di nascita, sola e spersa nella tetra Roma del 1941, in cui vive da due anni senza aver fatto una sola amicizia, cerca forse compagnia – senza confessarlo neppure a se stessa. Lavora molto, impiegata sottoposta alla tirannia dei capi, ha una vita arida e monotona: diventare madrina di guerra le occuperà le domeniche – giorno che, come sanno tutti i solitari, è il più tremendo della settimana. Gli scriverà infatti, per anni, quasi sempre di domenica. Lui, milanese quasi 28enne, reduce dalla guerra d’Etiopia, dove ha combattuto volontario e dove ha poi vissuto dal 1935 al 1937 (ad Addis Abbeba, avrebbe dovuto sposare una mulatta greca, cui ha rinunciato a causa dell’ostilità della famiglia, per motivi razziali) è al fronte nel deserto, dove è andato volontario dopo aver tentato invano di essere spedito in Spagna, ufficiale in prima linea, e le risponde – brusco e quasi scortese – solo per curiosità. O così sembra. Il loro rapporto resterebbe superficiale e frivolo se le vicende della Storia non facessero bruscamente irruzione nella loro esistenza, travolgendole. Franco viene infatti, quasi subito, fatto prigioniero dagli inglesi. Nei lunghi anni di prigionia e di lontananza, quel rapporto iniziato quasi per caso e per scherzo, invece di interrompersi si cementa. Anna Maria saprà abilmente insinuarsi nella famiglia di lui, farsi accettare dalla madre, dalla sorella, dai bimbi della sorella, e corteggiarlo – con civetteria, acume e lungimiranza: prima ostentando il suo fidanzamento con un altro (che manderà a monte), poi la sua avversione al matrimonio (si profetizza “un destino da zitellona”, p. 60). Intanto però ha saputo stargli accanto, consolarlo con la sua voce petulante e chiacchierina, e però calda e accorata, nei momenti più bui; ha saputo raccontargli di sé e, nell’immediato dopoguerra, del paese da cui lui è lontano da troppo tempo e di cui tutto ignora, è diventata la sua buona sorella, la sua amica, e alla fine, la sua unica possibile sposa. Così non stupisce - anzi è un finale inevitabile - che quando il tenente (dopo 6 anni di prigionia) viene rimpatriato in Italia, poco dopo aver finalmente incontrata la sua corrispondente, la sposerà. L’amore, le peripezie, persino un lieto fine… Insomma, la loro storia può – e in un certo senso deve – essere letta come un romanzo. Senza saperlo, sono gli stessi Franco e Anna Maria a suggerirmi questa chiave di lettura. Nelle prime lettere che si scambiano, quando devono presentarsi l’una all’altra, si fanno l’autoritratto (vedi quello di Franco, p. 26). Entrambi esplicitano, come elemento fondante della personalità e del carattere, anche le loro letture. Anna Maria e Franco hanno i gusti della piccola borghesia italiana degli anni Quaranta, e ne rispecchiano perfettamente la formazione, i gusti, le tendenze. Lei legge Grazia Deledda – che lui (probabilmente per antifemminismo orecchiato) bolla, ingenerosamente ed erroneamente, come sentimentale. Lui dice di preferire “gli autori stranieri”, la cruda verità dei romanzi di Körmendy, Kronin, Zilahy (p. 17, leggi). Penso che nel secondo caso si riferisca ad Archibald Cronin, l’autore inglese di E le stelle stanno a guardare (1935) e de La Cittadella (1937). Ma il primo (Ferenc Körmendi) e il terzo (Lajos Zilahy) sono due romanzieri ungheresi – assai amati da critica e pubblico in Italia negli anni Trenta e Quaranta. Il romanzo Incontrarsi e dirsi addio di Körmendi (1938, trad. 1939) era talmente conosciuto da diventare un modo di dire nel linguaggio comune. Val la pena ricordare che negli anni del regime fascista, quando la letteratura americana era vietata o malvista, e si guardava con sospetto a quella francese e inglese, venivano soprattutto dall’Ungheria i romanzi contemporanei. In essi i lettori italiani potevano leggere scene che un romanziere italiano non avrebbe potuto permettersi di scrivere – per esempio la descrizione di un aborto. (Da ciò l’espressione di Franco: “la cruda realtà”). Oltre ai due su nominati, si possono ricordare Mihaly Babits, Mihaly Foldy, Ferenc Herczeg. Budapest e il lago Balaton erano lo scenario di storie psicologiche di sentimenti e crisi coniugali ambientati nel mondo dell’alta borghesia. Anche il cinema dei telefoni bianchi situava in Ungheria le commedie sentimentali più raffinate. Le attrici e i registi italiani s’inventavano pseudonimi ungheresi per attrarre spettatori. Budapest era la “Parigi” degli italiani nel Ventennio. Oggi quei romanzieri sono dimenticati, e solo Sandor Marai è stato rivalutato dopo la ripubblicazione, alcuni anni fa da parte dell’editore Adelphi, di Braci. E’ curiosa questa ostentata esterofilia del fascista Franco, che dovrebbe preferire l’autarchia. Ma si sa, la letteratura non è mai stata considerata un bene nazionale… Anche nelle lettere successive, sebbene più sporadicamente, Franco e Anna Maria parlano di libri. Dal campo di prigionia di Yol, nel 1943, quando ricomincia a scrivere, Franco le chiede libri – “moderni, modernissimi” (p. 70) perché, dopo aver rinunciato a studiare le lingue, leggere è la sua unica occupazione. Lei glieli invia, anche se non sappiamo i loro titoli. In un’altra lettera, è lei che gli cita una frase tratta da un romanzo ungherese (leggi, p. 208). Le sembra che riassuma il senso della loro esistenza. E’ interessante notare che Lajos Zilahy (1891-1974), uno degli autori amati da Franco, era autore del romanzo best-seller di quegli anni, Due prigionieri. Pubblicato in Ungheria nel 1927, era stato tradotto in italiano da Corbaccio nel 1930, e da allora ristampato continuamente (nel 1939 aveva superato le quarantamila copie). L’ho trovato menzionato da numerosi soldati e ufficiali italiani al fronte (in Grecia, in Russia, in Africa): era la loro lettura preferita. Il romanzo inizia nel 1913. Ambientato durante la prima guerra mondiale, e poi nel dopoguerra, racconta la storia di Pietro Takacs e Mietta, una coppia di giovani innamorati che sono sposati da appena tre mesi il giorno dell’attentato di Sarajevo. Pietro viene spedito in Galizia. Ma la sua guerra dura poco. L’ufficiale, circondato dai nemici, sconfitto e fatto prigioniero, viene trasferito in Russia – e poi in Siberia. Gli sposi vengono divisi dalla guerra e dal crollo del loro mondo (l’Impero austro-ungarico). Le vicende dei due protagonisti vengono narrate a capitoli alternati – dai rispettivi punti di vista, così che la loro lontananza geografica diventa anche lontananza morale, e infine sentimentale. Il matrimonio non regge ai lunghi anni di separazione: entrambi maturando cambiano, e finiscono per rifarsi una vita con un altro. Ed è qui che i protagonisti del romanzo ungherese divaricano il loro destino da quello di Franco e Anna Maria. Quella che Franco apprezzava perché riteneva “cruda realtà” si rivelava invece finzione romanzesca, letteratura. La vita sa essere più paziente, l’amore reale più tenace di quello letterario. Una lezione di cui noi scrittori dovremmo tener conto.