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Approfondimenti
MACCHINE, MARCATURA CE E CONCORRENZA:
LA SITUAZIONE OGGI
di Alessandro Mazzeranghi*
Oggi, 17 giugno, leggo un articolo sull’edizione
on line de “il sole 24 ore”, dove si parla di macchine, ovvero della evoluzione del mercato per i
costruttori di macchine nazionali. L’articolo “Sfida
globale per i macchinari” di Luca Orlando, evidenzia la crescente importazione nel territorio della
Unione europea, di macchine fabbricate in paesi
non dell’unione, e spesso in paesi come la Cina che
non hanno poi questa grande tradizione nel mondo
delle macchine industriali. Ovviamente l’articolo
ha un taglio economico, ma mi ha procurato il desiderio di capire come mai possa accadere che siamo
meno competitivi di certi paesi in un settore così
altamente tecnologico che richiede una esperienza
industriale pregressa non irrilevante e fra le
domande mi è apparsa importante la questione
della marcatura CE, o se preferite dei requisiti di
sicurezza delle macchine.
Vorrei quindi esprimere qualche considerazione sia
sulle macchine che noi europei esportiamo in paesi
con uno scarso livello di tutela legislativa degli utilizzatori ultimi, e sulle macchine che importiamo
da paesi che non hanno dimestichezza con sistemi
legislativi di tutela della salute e della sicurezza
come quelli vigenti in Europa.
L’origine
Sino alle direttive di prodotto di matrice europea
sulle macchine e sulle parti che le costituiscono,
quindi diciamo sino alla metà degli anni ’90, la
situazione della conformità delle macchine medesime era (o non era per nulla) regolamentata da leggi
nazionali; la varietà di tali leggi, l’incertezza della
pena per i fabbricanti, e così via, delineavano un
mercato totalmente deregolamentato per i fabbricanti; cosa diversa per gli utilizzatori, rigorosamente soggetti alle disposizioni nazionali, ma in
questo contesto ci interessano poco.
Dopo quella data per vendere una macchina in
Europa (Unione Europea) dovevano essere rispettati precisi requisiti di salute e sicurezza da parte
del fabbricante (mentre era sottinteso che l’utilizzatore, pur responsabilizzato, avrebbe dovuto
occuparsi di aspetti di sicurezza e salute, per così
dire di contorno, cioé associati al modo d’uso della
macchina e al luogo di installazione). Per venderla
altrove, invece, si restava nel clima di incertezza
legislativa precedente.
Tutto ciò è passato attraverso una generale sottovalutazione da parte dei fabbricanti, comunitari e non, i quali
al massimo hanno messo qualche “pezza” sulle parti più
manifestamente pericolose delle proprie macchine.
Come sempre solo dopo un quinquennio qualcosa è
cambiato nella mentalità collettiva, e la marcatura CE è
diventata, per molti fabbricanti comunitari, un aspetto
importante (ma non fondamentale). Chi scrive è certo
che per buona parte ciò sia stato dovuto a due fattori
concomitanti (mi riferisco ai primi cinque anni):
- L’atteggiamento degli organi giudicanti che in caso
di infortunio su una macchina hanno continuato a
privilegiare la responsabilità del datore di lavoro.
- Le carenze (quantitative) del controllo del mercato,
concentrato principalmente sui casi emersi a seguito
di incidenti su macchine.
Aggiungiamo un altro elemento che ha concesso ai
fabbricanti di operare in una condizione di “invisibilità”: la (peraltro giustissima) scelta di prevedere, per
quasi tutte le tipologie di macchine, la auto – certificazione da parte del fabbricante.
Naturalmente, se questo era l’approccio dei fabbricanti interni alla Unione e al suo mercato, figuriamoci
quelli di chi esportava verso l’unione europea.
L’evoluzione
Col tempo le cose cambiano, le voci girano, le aziende si accorgono che la questione della marcatura CE
delle macchine non è banale, ed è facile, sempre più
facile, che anche i fabbricanti rimangano impigliati
nelle maglie della giustizia; fra l’altro sono processi
difficili, quando il danno è causato da una caratteristica della macchina, che la macchina aveva sin dalla sua
nascita (immissione sul mercato). Si controbatte
dicendo che quella caratteristica era inevitabile, ma
non è facile. E le norme tecniche, specie quelle di tipo
C (per specifiche tipologie di macchine) talvolta sono
talmente generiche che non aiutano.
Allora meglio fare qualcosa! Proteggiamo le macchine per quanto possibile, che tradotto significa: senza
cambiare la morfologia funzionale della macchina
(quella parte di “come è fatta” che garantisce il funzionamento e le performance), proviamo a mettere tante
pezze (protezioni e sistemi di sicurezza) in modo da
coprire tutti i rischi. Danno fastidio a chi la deve
usare? Beh, ci penserà l’utilizzatore a “cavarle via”,
così almeno la responsabilità è solo sua.
Quanto sopra gli europei, gli altri neanche quello.
* MECQ S.r.l. www.mecq.it
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In quell’ambito l’ignoranza (intesa proprio come non
conoscenza) è la prassi.
E così siamo arrivati a macchine progettate e fabbricate nella Unione europea, che sono (giustamente) gravate di protezioni e di costi. Mentre le barriere doganali che quei costi dovrebbero garantire rispetto a
macchine provenienti da fuori Europa non funzionano
per mancanza di controlli (non previsti dalla legge,
quindi sarebbero anche illegittimi).
Fatte debite eccezioni questo è il quadro attuale, che
unito alla crisi che attanaglia l’industria europea dal
2008, e che ha inculcato un atteggiamento addirittura
eccessivo di riduzione e controllo dei costi, comporta
che si comprino sempre più macchine fuori dall’Europa,
con eccezione di quelle che hanno ancora contenuti tecnologici che i nostri concorrenti del far east non sono
riusciti a copiare; ma ci arriveranno.
Cosa doveva succedere (e non è accaduto quasi mai)
Pensare che il mondo dell’industria neo liberale sia
capace di auto regolarsi su temi sociali (salute e sicurezza sul lavoro) che hanno poca relazione col risultato economico è una utopia. Solo l’intervento regolatorio da parte di soggetti non economici e autorevoli
come gli Stati può stabilire regole adeguate con la percezione etica del tempo presente, e ancora lo Stato è
l’unico che può e deve vigilare sulla applicazione
delle regole. In caso contrario (qui parliamo di mancata vigilanza, come sopra precisato), si crea un sentimento diffuso di anarchia: ognuno fa quello che vuole.
Diverso da quello che vuole la Direttiva Macchine
(per restare a lei), che sarebbe: ognuno fa quello che
deve nel modo che vuole (cioè che ritiene più opportuno sotto tutti i profili).
E questo modo di procedere ha fatto tanto male alle
nostre industrie che fabbricano macchine!
Nell’anarchia molte industrie europee non hanno
voluto essere completamente fuori legge (e qui meritano davvero dei complimenti), ma hanno visto i
requisiti della direttiva come un qualcosa da “mettere
sulla macchina” e non “facente parte del progetto concettuale della macchina”. Quindi, sotto il profilo della
ottimizzazione costi / benefici, il tema della sicurezza
è stato gestito come aspetto secondario.
“Integrazione della sicurezza in progettazione”, di
questo parlava già la prima edizione della Direttiva
macchine. La volontà, per quanto ritardata, di “mettere a norma” ha fatto saltare a tutti questo concetto, e
devo dire che condivido. Avendo già accumulato
parecchio ritardo, è logico che quando si cambia rotta
si voglia fare in fretta.
Ma poi si deve restare così? Vediamola dal punto di
vista di un ufficio tecnico: quando l’ufficio tecnico dice
che gli aspetti di conformità alla direttiva sono stati
risolti, subito la direzione dà altre direttive, quelle di
sempre: migliorare le prestazioni, ridurre i costi ecc.
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Invece non si doveva restare così, e questo è stato un
grave errore che ora le aziende dell’Unione europea
stanno scontando. E non è un discorso etico (lo è in
piccola parte), ma un ragionamento economico.
Riprogettare le macchine
Proteggere le macchine operatrici con quelle che prima
ho definito “pezze” comporta diversi problemi / difetti:
- Maggior costo, visto che si tratta comunque di vere
aggiunte (cose che prima non c’erano e ora ci sono).
- Difficoltà di “usabilità”, perché comunque delle protezioni aggiunte su una macchina rendono sicuramente più complesso l’uso (possono anche provocare problemi ergonomici).
- Possibile incompletezza delle protezioni, nel senso
che potrebbero permanere dei rischi residui impossibili da eliminare con la configurazione di macchina esistente, ma che si sarebbero potuti eliminare
tramite una vera riprogettazione.
Riprogettazione, è questa la parola chiave. Quel concetto che ben pochi hanno applicato realmente. La
(vera) riprogettazione può comportare tante cose positive (non solo sulla sicurezza):
- Razionalizzazione del funzionamento della macchina,
sotto il profilo strettamente tecnico / funzionale.
- Ottimizzazione dell’interfaccia uomo / macchina
anche in relazione alle esigenze di sicurezza stabilite
dalla direttiva, e alle nuove tecnologie disponibili.
- Introduzione degli elementi di sicurezza (meccanici e
funzionali) all’interno degli elementi propri della
macchina e non come semplici appendici.
-…
E da tutto ciò si possono ottenere sia una migliore funzionalità, sia una maggiore sicurezza, ma anche una
riduzione dei costi. Ed è l’unico modo in cui possiamo
pensare che una macchina sia sicura senza aggravi di
costi, ovvero è l’unico modo per mantenere competitiva (sul mercato) una macchina sicura.
Vorrei precisare una cosa: anche a chi scrive quanto
appena detto apparirebbe molto teorico e nebuloso, se
non lo avesse visto accadere. Tempo fa ho avuto modo
di osservare una azienda che produce impianti industriali piuttosto complessi per uno specifico settore
merceologico, e che li vende in tutto il mondo, avviare un processo di riprogettazione di tutti i gruppi costituenti tali impianti con l’intento di ridurre i costi,
mantenendo sia le performance che il livello di sicurezza della precedente generazione di impianti.
Ottimizzando le scelte, integrando tutti gli aspetti in
una unica progettazione, quindi di fatto “rifacendo da
zero” i progetti, il risultato non è stato solo una riduzione dei costi prossima al 30%, ma anche la risoluzione di alcuni problemi di sicurezza che sino ad allora erano considerati rischi residui. Tutto questo ovviamente ha avuto un costo (impegno di risorse per la
progettazione e la realizzazione dei primi prototipi),
ma i benefici sulla competitività aziendale sono stati
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indiscutibili; certo si tratta di una scelta manageriale
assolutamente strategica, quindi deve essere portata
avanti con estrema determinazione, pena il fallimento.
La concorrenza con i paesi extra europei
Sono partito dalla concorrenza e dai risultati di vendita dei concorrenti extra europei all’interno della
Unione. Naturalmente ci interessa anche il contrario,
ovvero la capacità di penetrazione dei nostri fabbricanti fuori dai confini comunitari.
Noi sosteniamo, noi europei intendo, che chi esporta
verso l’Unione europea propone costi inferiori
“risparmiando” sulla sicurezza (che poi non è risparmio ma una vera truffa all’acquirente); ma siamo stati
i primi, in passato, a fare le “macchine CE” e quelle
per gli altri mercati, prive di tutta una serie di dispositivi di sicurezza e ripari.
Senza volere sbandierare principi etici che mi renderebbero poco “credibile”, anche se credo profondamente che chi lavora abbia sempre diritto alla massima tutela possibile, indipendentemente dal paese dove
opera, vorrei fare osservare alcune cose:
- Come ho detto sopra la sicurezza realmente integrata nella progettazione comporta un delta di costo
decisamente contenuto.
- Prendere in considerazione alcuni aspetti messi in
evidenza dalla normativa in materia di sicurezza
(per esempio l’ergonomia) può migliorare l’efficacia produttiva di una macchina riducendo errori
degli operatori e micro fermate.
- Una progettazione robusta di tutti gli aspetti, inclusi
quelli di sicurezza, rende le macchine più affidabili
e non necessariamente più costose.
Insomma, quella situazione che a metà degli anni ’90
ha creato una vera opportunità di business, seppure
truffaldina o eticamente discutibile, oggi con la diffusione delle tecnologia in paesi che prima si definivano “arretrati”, è ampiamente superata e solo chi davvero vuole speculare sulla pelle degli altri, vendendo
prodotti scadenti a basso prezzo sfruttando l’omissione delle predisposizioni di sicurezza, continua ad
approfittarne seguendo però una linea di sviluppo
industriale destinata alla sconfitta.
Ma per accelerare questo processo, come sarebbe giusto, sarebbe davvero importante e utile un maggiore
controllo. Chi scrive è favorevole alle auto – certificazioni, ma non senza un controllo a campione. I controlli ex post (dopo il verificarsi di un evento negativo) sono largamente insufficienti. Sempre a mio avviso sono gli stessi industriali che dovrebbero spingere
ancora più fortemente per questo.
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