Pulp story
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Pulp story
Pulp story Sitting on the rock La roccia è quella all’angolo della casa di Battista che ha dato degenza, almeno una volta, a tutte le natiche del paese. Ci si può sedere appoggiando la schiena al muro e guardare verso la Piazzetta. Oppure si può posare lo sguardo per terra e pensare. E’ bello starci anche quando pioviccica, seguire i rivoletti di pioggia che tentano inutilmente di entrare nei tombini della fogna perennemente intasati di terra e inutili. La strada diventa lucida e l’erba tra i selci più verde e non passa nessuno. Che non passi nessuno - con l’esclusione di agosto – accade quasi sempre nel resto dei mesi dell’anno. Da questa roccia, seduti e girando lo sguardo leggermente a destra, un po’ in alto, è possibile che l’occhio vada sulla “lapide” che riporta il nome della strada che sale ripida costeggiando la casa di Leonilde e piega poi, in alto, a sinistra andando verso la casa di “Baffone”. Con un francesismo noi la chiamiamo “la rua”. La strada si chiama in realtà:”via VIII maggio”. VIII sta per 8. Un giorno come un altro. L’8 maggio da queste parti non ha significato, almeno per quello che so io. L’8 maggio sono successe molte cose ma dubito che il comune abbia voluto ricordare intitolandogli una strada Giovanna d’Arco che libera Orleans, oppure John Stith Pemberton che inventa la CocaCola o ancora Benito Mussolini che proclama dal balcone di Piazza Venezia la nascita dell’impero. O ancora la morte di Gilles Villeneuve durante le qualifiche per il gran premio del Belgio. Quindi rimane un mistero. Oppure, più probabilmente, un errore. Lost women Padre Giovanni Minozzi, quando è nato, era abruzzese. Poi, nel ventennio (l’altro), è diventato laziale perché, essendo nato a Preta d’Amatrice allora provincia de L’Aquila, faceva parte di questa regione. Per esaudire il desiderio del Duce quel territorio venne dato in dote alla nascente provincia di Rieti. In realtà, e la cosa è singolare se non bizantina, negli atti di trascrizione delle particelle che dalla provincia de L’Aquila trasferivano la giurisdizione alla provincia di Rieti, un distratto scrivano dell’epoca ne omise una o due cosicché, dopo quarant’anni e più di dispute legali, all’interno della Regione Lazio, nel comune di Leonessa (provincia di Rieti per l’appunto) esiste un “enclave” della Regione Abruzzo (provincia de L’Aquila) che è, peraltro, un parco naturale che si chiama Santogna. Per fortuna che il territorio non ha centri abitati altrimenti i pellegrinaggi per le varie burocrazie sarebbero stati infernali per i dimenticati abitanti. Giovanni Minozzi ha fondato una quantità industriale di orfanotrofi, case per l’infanzia abbandonata, ricoveri per giovani fanciulle perdute per la morale dell’epoca, un paio di ordini religiosi ed è morto lasciando orfani, giovani perdute e, soprattutto, proprietà immobiliari a scatafascio. Al di là delle celebrazioni ufficiali non mi fa simpatia. Neanche poca. Aveva una assistente suora che lo seguiva in tutti gli affari e le relazioni, gestiva i suoi appuntamenti e, soprat- tutto, le donazioni. Troppi affari per credere che si occupasse realmente della sorte di questi bambini o delle derelitte. Così succede che quando diventano tante ed importanti, le donazioni, possono aiutare a far nascere una congregazione, un’opera pia, un ordine religioso. E se hai un ordine sacerdotale puoi pure correre per un posto da cardinale. Comunque sia la sua causa di beatificazione, avviata tredici anni fa, è ancora in corso. Credo. Morire d’autunno Guerino Ricci e Vincenzo Arlotta erano invece teramani. Morti, tutti e due, il 16 ottobre del 1943. Il primo - un bambino - tra le braccia della madre con la pancia aperta da una scheggia di bomba alleata. Il secondo, fanciullo - si sarebbe detto all’epoca - qualche metro più avanti. Conseguenza della stessa esplosione che, allora come adesso, non poteva essere intelligente ma, di sicuro, fu educativa per la città di Teramo e per le truppe tedesche che la occupavano. A distanza di una settantina di anni tutti e tre, in giorni di curiosità, sono entrati a far parte dei pensieri sulla roccia. E, insieme a loro, il destino del nome dei luoghi. Morire di maggio Iole non si chiama Nina. Né, tantomeno, Ninetta. Nina è il nome della cavalla. Iole ha 23 anni e muore di maggio. Muore senza un amore conosciuto. Accompagnando un vecchio e una cavalla. Anzi accompagnando un vecchio che accompagnava una cavalla. Chiuderà gli occhi, il vecchio, guardando Nina, la cavalla, rantolante anche lei. Con in testa il pensiero che morire di maggio è così triste che qualcuno, un giorno, lo scriverà in una canzone. E altri moriranno di maggio, sempre troppo presto e sempre con grande tristezza. A maggio si dovrebbe solo nascere. Lavora in casa Iole, ma “casa” di questi tempi è un’accezione estensiva. Casa comprende stalla, campi, mercato, prati. Ma i padroni sono buoni. Sono buoni con lei e lei è di famiglia. Protetta, rispettata, amata. Stairway to heaven I tempi sono di guerra, duri, di miseria vera. Ma, per fortuna, le privazioni sono poche visto che le cose a cui dobbiamo rinunciare mancano già da diversi anni e facile non è stato mai. Gli uomini validi sono in guerra e quelli rimasti sono vecchi e stanchi. Come me. Oppure malati. Ma Iole sogna di andare in sposa, presto, con un bravo giovane. Quando la guerra sarà finita. La sua casa, che è la mia, le darà un po’ di corredo e quanto servirà per un matrimonio. Un vestito, gli invitati, un pranzo. E aspetta. Presto sarà una donna felice e, se dio vorrà, anche madre. Inchallah!. Andiamo, quindi, io, Iole e Nina, nonostante tutto, leggeri. Con passo spedito e, a tratti, rallentiamo per guardarci intorno e respirare a fondo E’ una mattina di inizio maggio. Inesprimibile per chi non l’ha mai vissuta. Senza aggettivi avvicinabili. Cielo azzurro intenso, verde a perdita d’occhio. I primi timidi narcisi che, elegantemente, strapazzano le margherite e i ranuncoli. Profumo intenso noto solo a chi lo ha attraversato. E il bianco della neve che guarnisce il Sirente e le gole di Monte Rotondo. Verde verde verde, bianco bianco bianco, azzurro azzurro azzurro. Si va verso la morte. Ma questo noi, ovviamente, non lo sappiamo. Se no col cazzo che andremmo. L’erba è ancora rorida ma il sole scalda già. E’ tutto così pulito e luminoso. La strada bianca di sabbia e ciottoli, all’inizio leggermente in salita, diventa poi piana e propizia. Si vede la meta all’orizzonte. Purtroppo non il destino. Mettere un piede avanti all’altro avendo negli occhi la fine del cammino accorcia la strada, abbuona la fatica. Le curve sono traguardi intermedi, aiutano a sentire il tempo e segnano il percorso. Punti di riferimento essenziali, conosciuti, familiari, percorsi centinaia di volte da avere, a memoria, la posizione di ogni singola pietra. Gli stessi luoghi di sempre. Serenità che dà la padronanza della terra. La tua. Lasciata e ritrovata. Calpestata all’infinito. So dove nascono i funghi e dove, tra un mese, troverò le quaglie, dove si scivola perché l’acqua ristagna, e dove i fili d’erba sono foglie larghe e il fieno è meno buono perché, seccandosi, si polverizza. Riconosco la strada dal rumore che le scarpe fanno mentre cammino. La mia falce conosce tutte le insidie del prato. L’erba più dura, gli avvallamenti del terreno, le pietre appena nascoste dall’erba che diventano i limiti con i confinanti. In questo mare d’erba io sono, da sempre, il capitano della mia nave. Uninvited E’ casa mia. Ma è piena di gente sconosciuta. Non invitata. Alla Rocca c’è il Kommandant der rückwärtigen Dienste. Per gli amici: “Il Korück 594 della 10° armata” e il suo comandante è il generale Zanthier (o Xanthier). Ovvero il comando dei servizi delle retrovie dell’Esercito Tedesco che occupa l’Italia Centro Meridionale. Mica bruscolini! Il comando delle retrovie dei tedeschi alla Rocca! La guerra ha preso una piega precisa. Gli alleati sono sbarcati in Sicilia, a Salerno e più su ad Anzio. Giorno dopo giorno, si fanno avanti. Con tanti soldati, mezzi, energia, viveri, cioccolata, sigarette, aerei, bombe. Portano la Libertà e la speranza della pace. Ma le battaglie sono ancora dure. Zanthier prende ordini da Kesserling. E’ un potente generale. Un buon obiettivo per gli alleati. Noi siamo timorosi ed impazienti, nascondiamo soldati inglesi feriti, ebrei una volta borghesi e ricchi strappati al loro destino di morte, con lo sguardo smarrito. Tutti erano “signori”, adesso sono solo perduti ed affamati. Cerchiamo di capire chi vince su chi. Ospitiamo famiglie numerose scappate alla persecuzione nei pochi metri delle nostre case. Difendiamo la radio dalla delazione dei fascisti repubblichini ancora pieni di livore e illusioni. La radio ci incoraggia a resistere, ci dice che manca, forse, poco. A cosa ancora non lo sappiamo Ma stamattina c’è solo la luce che ci accompagna. I colori e la speranza. E la conosciuta strada. Into the hills Il Korück 594 era di stanza a Teramo, nel centro della città, ma i partigiani, il controspionaggio alleato e un minimo di organizzazione hanno guidato i bombardieri alleati che hanno ucciso Guerino Ricci e Vincenzo Arlotta. Per un cattolico come Zanthier è difficile rimanere indifferenti a questi danni collaterali. Forse, molto più pragmaticamente, una volta stabilito che un alto numero di vittime civili non costituisce l’efficace deterrente auspicato per evitare i bombardamenti a tappeto e, soprattutto, a causa della Resistenza che si va organizzando e comincia a fare vittime tra le truppe, il generale sposta il Korück. E lo porta alla Rocca! Meno morti innocenti di sicuro e nessuna brigata partigiana per il momento. E poi è austriaco. Non proprio purissimo per il Reich. Per come si stanno mettendo le cose meglio non avere tanti rimorsi. Dopo. Ma i buoni stanno arrivando. E quando arriveranno faranno le loro mappe. Inizialmente con i numeri sulle colline ma, una volta consolidate le posizioni cambieranno il nome dei luoghi. Allora questo viaggio cambierà. Partiremo da Blackland e scenderemo in Meadow valley, saliremo verso the Stable con le sue due case a passeremo Into the Hills. Bad greenish sarà attraversata lentamente, con sullo sfondo il profilo di Round Mountain. Scenderemo verso Dark Road lasciandoci a destra The Sleep with Water. E poi, piano piano nel territorio della Rocca. Middle Rock. MAH! Verboten E’ cominciata così: “Hunden und Juden Eintritt verboten”. (E’ proibito l’ingresso ai cani e agli ebrei). Il che ci riguarda poco, mica siamo ebrei e i cani, in fondo, dentro casa puzzano. Ma poi si è fatto di meglio: il 5 settembre 1938 “Il re d’Italia e Imperatore d’Etiopia Vittorio Emanuele III” firma il decreto per l’interdizione dalle scuole del regno ad alunni e insegnanti ebrei. Resterà in vigore fino al 10 giugno 1940. Poi si comincia a giocare con la guerra. Ma non è che ci si è accontentati. Infatti a novembre del 1938 vengono emanati i “Provvedimenti per la difesa della razza italiana”. Capiamo bene, il Re d’Italia emana un provvedimento per la difesa della razza italiana. (Repetita juvant). Lo stesso Re che, 20 anni prima, aveva scelto di allearsi con la Francia e l’Inghilterra, che aveva introdotto il suffragio universale, che aveva elevato il parlamento ad organo sovrano di legislatore, che aveva adottato le prime politiche sociali di protezione per le classi più povere firma un documento di discriminazione razziale abdicando a qualsiasi etica o buon senso in ragione dell’osservanza fascista. Quasi come Napolitano che firma la Bossi-Fini o i decreti dei respingimenti che gli sottopone il governo Berlusconi. Da allora inizia il sospetto che, forse, gli italiani non sono mai stati migliori dei loro governi. Vengono quindi precisamente elencati i divieti e le restrizioni a cui gli ebrei, gli zingari, gli omosessuali saranno sottoposti: divieto di servizio militare, di possedere aziende, terreni, case, di avere alle proprie dipendenze persone non appartenenti alla razza ebraica, di prestare servizio in uffici e amministrazioni pubbliche. L’articolo 24 intima a tutti quelli entrati in Italia dopo il 1° gennaio 1919 di lasciare il paese entro il marzo 1939. 3 mesi per togliersi definitivamente dalle palle (se ce la fai). I respingimenti, appunto. Quelli che vengono scoperti saranno trasferiti in campi curiosamente recintati con il filo spinato. Una specie di Centri di Accoglienza attuali. E poi l’apoteosi. Il 10 giugno 1940 la Dichiarazione di guerra a fianco della Germania Nazista contro Francia e Gran Bretagna, gli alleati di un tempo. Quella che molti anni dopo tutti i ragazzi scimmiotteranno senza neanche avvicinarsi al senso:” Italiaaaaniiiii, l’ora delle decisioooooni è giunta…” Eccetera eccetera. Nei diciannove mesi trascorsi dall’emanazione delle leggi razziali sono riusciti a lasciare il paese circa 10.000 ebrei. Su quelli rimasti e non più ritrovati è inutile farsi domande. The blacksmith (U’ ferrar) Ma adesso siamo nel 1944 e abbiamo capito. Per la verità molti di noi avevano capito tutto già dall’inizio di questa pazzia e sono finiti in esilio o non ci sono più. Chi poteva immaginare che l’inganno della propaganda potesse provocare così tante disgrazie. La stessa perplessità nascerà, ad alcuni, nei primi anni del terzo millennio. La statale che collega Rocca di Cambio alla Rocca è lunga e dritta e pianeggiante. A quasi metà del centro abitato sul lato sinistro della strada, c’è il maniscalco. “U’ ferrar”, appunto. Entro, sono atteso. Nina ha bisogno dei ferri nuovi, tra un po’ sarà ora di carrare il fieno.. Iole va a cercare Tilde, la figlia di Gustavo, il macellaio dei “Zuzzarini” (?). Amiche da sempre. “U ferrar” dà sicurezza. Dimostra di conoscere bene il suo lavoro. Lega bene Nina, che è una cavalla gigantesca e forte. Toglie i chiodi e il ferro ormai vecchio e consumato. Io tengo la coda da un lato per evitare frustate involontarie. Sono vecchio per tenere alta la zampa appoggiandola alla mia coscia, ma ancora ce la faccio. Senza nessuna paura pulisce lo zoccolo e lo rifila. Taglia tanta unghia e la pareggia con la lima. Forgia il nuovo ferro sull’incudine per dargli la forma giusta. Lo piazza ancora caldo sullo zoccolo, poi pianta i chiodi per fissarlo e li ribatte. Con gigantesche tenaglie taglia le punte che sporgono troppo. E’ un’operazione affascinante a cui assistere. Mi domando ogni volta se la bestia sente dolore o sollievo quando lo zoccolo si accorcia così tanto. Sta per passare al secondo ferro. Parliamo del più e del meno. Stiamo attenti a non farci sentire da chi, fuori, sembra impegnato a fare altro. E’ mattina e la strada è piena di gente. E alcuni sono spie conosciute. I tedeschi hanno paura e non ragionano più. Sparano per niente. Dopo l’armistizio i fascisti rimasti sono ancor più crudeli ed idioti di prima. Si uccidono tra di loro. Prudenza. Ci vuole prudenza. Siamo quasi alla fine. Ne abbiamo passate tante. Calma,ci vuole solo ancora un po’ di calma. Una moglie, una nuora devota, due splendidi nipoti e un figlio in Africa orientale da anni in cerca di fortuna e ormai prigioniero degli alleati. Penso alla radio nascosta nel fienile e poi nella cantina e poi ancora nel pollaio. Penso alla porta della cantina che ho murato per nascondere le poche provviste che adesso stanno sfamando gli sfollati che sono a casa. E’ un rischio, ma chi non lo farebbe? Uninvited 2 E’ in quel momento che sentiamo i motori urlare. Solo per pochi secondi li sentiamo. La bomba cade proprio su di noi. L’officina si disintegra in pochi secondi. Rumore polvere paura. La bomba ha colpito in pieno la casa e ci ha scaraventati contro il muro che è crollato. U’ ferrar si è rifugiato sotto l’arco più lontano dalla strada, un po’ al riparo. Nina è dilaniata dall’esplosione. Rimane sepolta e io con lei. Ho la bocca piena di terra. Ancora non capisco se sono ferito. Non sento il dolore. Faccio fatica a respirare. Sento qualcuno che mi toglie da sopra il peso dei sassi e delle travi.. Ma non so neanche se sono ancora vivo. Semplicemente non respiro. Rivedo la luce un attimo, mi liberano da un po’ di macerie. Ma ne arrivano altri. E nuove bombe e nuove esplosioni. E ancora travi, terra, mattoni e sassi sopra di me. Penso alla cavalla con il suo unico ferro nuovo che ho visto sollevata letteralmente da terra e scaraventata sul muro dallo spostamento d’aria. Per un momento mi viene in mente come farò ad arare, a riportare il fieno a casa. A chi potrò chiederla in prestito. Urla altissime e strazianti intorno a me e pianti. Mi stanno tirando fuori dall’inferno. Poi realizzo e penso a Daniele col suo moschetto giocattolo da Balilla e a Margherita, più piccola di lui ma che lo difende da tutti i prepotenti. All’unico mio figlio lontano, partito per cercare l’avventura e ormai senza più sogni. Filippo che forse non rivedrà mai la moglie, i figli, la madre. Se tornando troverà ancora una casa. Mi accorgo in un lampo che Iole e Tilde, neanche 50 anni in due, sono morte sul colpo e l’angoscia mi invade. Sputo sangue. Forse una costola ha bucato i polmoni. Ma mentre il cervello si arrende al dolore e tutto comincia diventare nero il cuore mi si apre in due dalla pena. Brigida avrà visto tutto da casa e sarà spaventata. Questa volta non riuscirò a consolarla. L’amore di una vita, i sogni fatti insieme, le passioni e le paure giovanili, il lavoro di ogni giorno, i lunghi silenzi e le tenerezze senili. Gli acciacchi degli anni dettano ormai le pause sui tempi di lavoro, ma fino a quando ce la faremo a spalare la neve, a tagliare la legna e a falciare il fieno ci sarà un domani. La gioia dei nipoti e ancora lavoro, lavoro, lavoro. E miseria. E questa stupida inutile guerra. Sorrido amaramente al pensiero delle privazioni, della schiena spaccata tutti i giorni per morire così. Come un topo schiacciato. Adesso affogo nell’angoscia pensando a chi scalderà le notti dell’amore mio. E’ martedì, nove di maggio del 1944, ed ho freddo per l’ultima volta. Good night and good luck Mi risveglio il giorno dopo, solo per un poco, nel letto di casa mia a Terranera. Lavato, pulito, fasciato. Apro gli occhi e per qualche minuto mi guardo intorno. Potevo evitarlo e risparmiarmi un’altra pena. Me ne sto andando. Consapevolmente. Allora è così che si muore. Niente vita che ti passa davanti in un minuto, angeli custodi che ti accompagnano con i canti, luci accecanti che illuminano le tenebre o inutili peccati dei quali vergognarsi. Solo fatica e dolore nel respirare. Non ho neanche paura. Niente cerimonie. Chiudo gli occhi sulla disperazione che ha riempito le donne di casa che pregano e piangono in silenzio. Niente più falce, narcisi, lepri, fatica, schiena spaccata. Niente più cavalla e cane. Lascio angoscia, disperazione e miseria. La casa adesso ne è piena. Me ne vado con un senso di colpa. Potessi almeno aiutarli a piangere lo farei. Guardo Tonina e cerco, con gli occhi, di farle coraggio. Due figli piccoli e la suocera distrutta dal dolore e dalla malattia. Lei risponde al mio sguardo per dirmi di stare tranquillo. E’ sempre stata forte. Racconterà questo giorno a suo marito, mio figlio, se tornerà, e gli asciugherà le lacrime. Sorrido pensando che muoio per l’impero, per la superiorità della razza italica. Muoio perché i treni arrivino in orario. Perché ebrei, cani e zingari non entrino nei locali pubblici. Raggiungo milioni di altri morti, come me, inutili. Ignari e stupiti dall’imbecillità umana. Non soldati, non padroni né schiavi. Sapendo che, tra non molti anni, di tutto questo nessuno si ricorderà più. Penso, cercando sollievo alla pena, che quando dio cancella è perché vuole scrivere qualcosa. Dentro casa mia avrà bisogno di molto inchiostro. Debito d’onore Le rovine di quella stalla sono ancora visibili entrando a Rocca di Mezzo e andando verso Rovere, a sinistra, davanti al Market di Magnante su quello che fino a qualche tempo fa si chiamava “viale vittime del 9 maggio”. Adesso la strada è intitolata a padre Giovanni Minozzi e alle vittime del 9 di maggio del 1944 rimane una intitolazione ormai provvisoria destinata a sparire non appena Giovani Minozzi diverrà beato. A Rocca di Mezzo non se ne parla più da molto tempo dell’occupazione e dei bombardamenti. I giovani neanche sospettano lo sfracello del tempo. A Terranera una sciatteria toponomastica - come quella di Santogna - ha, forse, sbagliato data nell’intitolare questa cazzo di strada davanti alla quale sono seduto e che non va da nessuna parte. Ma, forse, è per celebrare la Coca Cola. E quindi questa cosa era dovuta a mio nonno, a Iole e a Tilde. E anche a Nina.