La relazione di Padre Ermes Ronchi alla FdF 2015

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La relazione di Padre Ermes Ronchi alla FdF 2015
IL MONDO SARA’ SALVATO
DALLA BELLEZZA E DALLA TENEREZZA
ROVIGO 2 giugno 2015
Turoldo: quando mi dissero il drago è certo insediato al centro del
ventre come un re sul trono, bene , mi dissi, facciamo l’elenco delle cose
che contano davvero. E l’elenco è tanto breve.
In quell’elenco ultimo che cosa c’era scritto:
la poesia ovvero la bellezza,
l’amicizia ovvero la tenerezza,
la fede combattiva di Turoldo.
Nella prova emerge il cuore. Da questa nostra crisi odierna, una
sofferenza in cui è in dubbio perfino la tenuta etica del nostro paese e delle
nostre case, delle persone, non si esce se non per le stesse vie: la bellezza e
la tenerezza, come nel bel titolo dell’incontro, e la fiducia.
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Bellezza
C’è una bellezza che salva l’uomo in una pluralità di modi. Il primo
dono della bellezza è gioia, la bellezza dà un piacere disinteressato, e ciò
che converte l’uomo è sempre un’attesa di più gioia.
Fare esperienze di bellezza induce un’emozione positiva che è forza
del cuore. È sant’Agostino: L’uomo segue quella via dove il suo cuore gli
dice che troverà la felicità.
la forza vincente nelle decisioni vitali deriva dalla convinzione che
compiendo quell’azione avrò più gioia; vincente è il piacere che deriva
non dalla soddisfazione di avere eseguito un ordine ricevuto, ma dall’aver
raggiunto un incremento di vita, un’intensificazione dell’esistenza.
Per secoli, abbiamo sospettato del piacere, pensando che Dio non fosse
amico della gioia, ma del sacrificio.
Sgombriamo l’idea che il vangelo sia contro il piacere. Il piacere è una
porta per la felicità. Un dono di Dio. Tutti i piaceri sono benedetti, tranne
una piccola fetta, che fa male e che preclude la strada per la felicità.
E per capirlo c’è un criterio molto semplice: è quella fetta di piaceri che è
senza amore o che va contro l’amore (droga, sesso a pagamento, alcolismo,
narcisismo, fare l’amore senza amore) tu lo senti nel cuore quando manca
l’amore in un piacere.
LA GUERRA AL BRUTTO
Mons Bregantini, scrive nel suo libro: Non possiamo tacere. LE
PAROLE E LA BELLEZZA PER VINCERE LA MAFIA (2011) “Arrivi in
certi paesi della Calabria e della Sicilia e la prima cosa che noti è un
disordine edilizio, una sporcizia per le strade, una trascuratezza delle
spiagge, in contrasto tra la bellezza della natura, del cielo, dei segni antichi
dell’arte, e l’incapacità degli uomini di preservare la bellezza dei luoghi.
E ti accorgi che i paesi più brutti, più sciatti, più disordinati sono quelli
dove più forte è il potere della mafia.
Come se la bruttezza rivelasse tragicamente quel desiderio di violazione
che c’è nel cuore del mafioso.
La trascuratezza diffusa diventa, dice mons Bregantini, il primo punto su
cui far leva per opporsi alla violenza.
Il primo impegno: fare la guerra al brutto. Farla al degrado, al
disinteresse, alla volgarità nel tratto e nella parola, che portano allo
spappolamento dell’armonia sociale, a un disagio reciproco.
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Non solo dispiacersi per il brutto, ma lottare contro.
La guerra al brutto e alla insensibilità è un fatto etico, non semplicemente
estetico, è un fatto politico e civile. È una battaglia culturale, di lungo
respiro, quindi.
Una battaglia etica. La mancanza di gusto è un fatto morale.
Il brutto è l’oggettivazione di un animo avido e meschino. Il brutto nasce
da élites ignoranti o malvagie.
Questa cura della bellezza vale anche per le nostre case. Nelle antiche isbe
russe, l’angolo dove erano conservate di generazione in generazione le
icone della famiglia, era chiamato l’angolo della bellezza.
Virtù metropolitana e domestica insieme è la cultura della bellezza,
prenderci cura della bellezza della città dove abitiamo e della casa dove
viviamo, a partire dalle piccole cose, dalle cartacce a terra, dallo sporco sui
muri, opporci alla trascuratezza, custodire e curare le cose. Noi costruiamo
le case, ma poi le case costruiscono noi, condizionano il sentire.
Se alziamo lo sguardo dalla nostra casa alla casa del mondo,
incontriamo situazioni e persone che vivono l’esatto opposto di bellezza e
tenerezza. È l’ISIS, il Califfato Nero, i terroristi dello stato islamico che
esibiscono la loro crudeltà con gli sgozzamenti dei prigionieri e in
parallelo distruggono, con ogni mezzo disponibile, le opere d’arte dei siti
archeologici conquistati. Il brutto e il crudele si sono abbracciati in una
minaccia unitaria alla vita.
Perché io credo? Perché Dio è stato la cosa più bella che ho incontrato.
La fede è acquisire bellezza del vivere. Acquisire che è bello
vivere, amare, abbracciare, seminare, lavorare, avere amici, godere e
soffrire per un figlio, è bello essere su questa terra barbara e magnifica,
umanità che si libera, ascende, si illumina.
Perché tutto ha senso, il senso della vita è positivo, questo senso
scorre verso l’eternità.
Ho incontrato un Dio bello! Solare attraente seducente!
Invece noi abbiamo ridotto Dio in miseria. Il dramma della nostra
religione in Occidente è l’impoverimento di Dio. Lo abbiamo ridotto,
scusate il paragone ma mi capirete, ce lo immaginiamo a rovistare nei
cassonetti della spazzatura delle vite, interessato più al peccato che alla
gioia dell’uomo, a distribuire minacce e premi.
Ridipingere l’icona di Dio è forse il compito più urgente della Chiesa
contemporanea. La via regale è quella della bellezza e della tenerezza.
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Non c’è fede viva e vera che non discenda da uno stupore, da un
innamoramento, da un: che bello! Gridato a pieno cuore.
Dio muore di noia nelle nostre chiese...
Esame di pastorale del giovane prete....
Il nomos originario, la legge primitiva della bellezza è nell’atto
d’amore. L’amore è sempre bello. Quando noi diciamo a una persona ‘tu
sei bella’ noi in realtà gli stiamo dicendo ‘io ti amo’. È ciò che Dio dice al
mondo per sette volte nei primi sei giorni della creazione: che bello! È Dio
che dice al mondo: io ti amo.
Tenerezza
Tenerezza che cos’è? Noi la collochiamo nel mondo delle emozioni e dei
sentimenti. Ma essa non è un’emozione è un atteggiamento.
La tenerezza di cui parliamo non va intesa come un sentimento, ma come
una virtù.
Una virtù infatti non è un dato di fatto, come avere gli occhi verdi o
nocciola. È un habitus, dicevano i latini, una abitudine a comportarsi in un
certo modo. Un habitus che si raggiunge progressivamente, giorno per
giorno, attraverso una diuturnitas, una perseveranza, un lavoro, un
esercizio, una ascesi.
Ad essere teneri si impara. Tenerezza non è un possesso, è una conquista.
Teneri si può diventare, allenandoci a pensieri, parole, gesti della
tenerezza, come una abitudine. Si può essere eroi per caso, una volta, ma
non si può essere teneri per caso.
La tenerezza è la lingua universale dell’uomo.
Da Gerusalemme, dalla mattina di pentecoste, rimbalza fino a noi una
sorpresa, uno stupore: Com'è che li sentiamo ciascuno parlare la nostra
lingua nativa?
Qual è la lingua nativa dell’uomo, quella che anche i bambini capiscono,
che anche gli animali capiscono? È il linguaggio della tenerezza. La
lingua più universale sotto il sole.
Ogni creatura impara per prima questa lingua, in ogni paese della
terra, in ogni epoca della storia. È la prima, e sarà l’ultima alla quale ci
aggrapperemo alla fine della vita. Una lingua che non è fatta di parole ma
di gesti.
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Saper parlare nel linguaggio dell’amore significa possedere il dono
delle lingue, poter essere compresi da tutti.
«Se tu ascoltassi un istante la lezione del cuore, faresti lezione ai
teologi» (Gialâl ad-Dîn Rûmî).
TENEREZZA COMBATTIVA
Felice formula verbale di papa Francesco: il cristiano esprime una
“tenerezza combattiva”(Ev Ga 85).
Si oppone al male, combatte tutto ciò che fa male ai figli di Dio, non è mai
passivo, ma opera con lo stile della tenerezza, della delicatezza inerme e
indomita, che non si arrende, mai succube “dello spirito cattivo della
sconfitta” (EG85). È lo stile di santa Maria nel Magnificat.
Che canta: Rimanda i ricchi, rovescia i potenti, abbassa i superbi, ma non
li bastona, non li prende a male parole, non li imprigiona. Non fa loro del
male, toglie invece proprio quello che già fa loro del male.
Tenerezza combattiva implica mettere al centro di tutto non le mie idee di
futuro, ma il volto dell’altro, la sua presenza fisica che interpella, la carne
con il suo dolore e con la sua gioia contagiosa.
La bella notizia del vangelo è la rivoluzione della tenerezza, che è poi
l’unica lingua comune dell’umanità, detta in una pluralità di dialetti quanti
sono i linguaggi umani.
Che cosa ha rivelato Gesù ai piccoli?
Non una dottrina, ma il racconto della tenerezza di Dio (Ev Ga 88).
E nel fazzoletto di terra che abitiamo, nella casa che illuminiamo, noi
siamo il racconto della tenerezza di Dio. Della sua combattiva tenerezza.
Ma come si distingue l’amore vero? La risposta di Rilke è molto bella: Ti
ama davvero chi ti obbliga a diventare il meglio di ciò che puoi diventare.
Con combattiva tenerezza. Il marito e la moglie, la madre e il figlio,
l’amico e l’amico, il laico e il prete: vero amore è quello che ti costringe
ad essere il meglio di ciò che puoi essere.
Già nella sua infuocata Lettera a un giovane cattolico, lo scrittore tedesco
Heinrich Böll lamentava la mancanza, tra i messaggeri del cristianesimo,
della tenerezza verbale, emotiva, perfino teologica.
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Invece quanti annunciatori del vangelo sono dei burocrati delle
formule, funzionari delle regole e analfabeti del cuore! Anche le liturgie
sono senza tenerezza. Formali e separanti.
Forse anche il deficit attuale di vocazioni religiose è dovuto a un deficit di
felicità nelle nostre chiese e nelle nostre relazioni. Che è in fondo un
deficit di tenerezza. Osservate: chi è tenero è contento; chi è rigido è
infelice, sta male al mondo. Gesù infatti era rigoroso, ma mai rigido:
“diffida dell’uomo rigido, è un traditore” (Shakespeare).
Tutti i fondamentalisti, di qualsiasi religione, ce n’è tanti tra noi, tra i preti
anche, gli integralisti quelli che non sono mai teneri con nessuno e neppure
con se stessi, sono duri e violenti perché sono degli infelici. Stanno male al
mondo: il mondo è tutto corrotto, tutto va male, vedono il diavolo
dappertutto. Non conoscono la fragilità e la misericordia. Dove c’è
misericordia c’è Dio. Dove c’è rigore forse ci sono i ministri di Dio, ma
Dio non c’è, Deus deest (S. Ambrogio). Burocrati delle regole e analfabeti
del cuore umano.
Il Figlio di Dio nella sua incarnazione ci ha invitato alla ‘rivoluzione della
tenerezza’ (EG88). Dalle sue mani fioriscono i gesti della tenerezza,
quando posa le sue mani sui malati,
quando tocca mani labbra occhi orecchi,
quando stende un petalo di fango sugli occhi del cieco, saliva e polvere
mescolati come una carezza di luce, come una piccola creazione che
ricomincia, fango e intimità.
Quando accoglie carezze profumate di nardo...
Quando si lascia toccare da bambini e donne e stranieri.
Toccare segna la fine della paura e della distanza.
L’amico ti tocca, disarmato e disarmante, con lui puoi essere te stesso,
lasciar cadere ogni maschera.
Solo chi ti tocca nell’intimo è in grado di cambiarti la vita.
Chissà se il poeta Ezra Pound aveva in mente proprio Gesù quando
scriveva: “accetterò la tua verità purché si sposi con la tenerezza”.
Questo è il sogno di Dio: che nessuno degli annunciatori sia senza
capacità di dare e ricevere tenerezza, di toccare e lasciarsi toccare nel
cuore, che nessuno sia solo, nessuna chiesa sia senza festa del cuore.
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Per farlo, partire sempre da me, dalla mia fragilità, per l’annuncio, allora
non sarai mai aggressivo, violento, ma sempre rispettoso di ciascuno. La
mia fragilità mi aiuta a far meglio il prete. Il modo in cui annunci è già
annuncio. Io sono così fragile da aver sempre bisogno di amore.
FRAGILITA’
Per la fragilità l’uomo cerca aiuto, cerca legami e appoggiando una
fragilità all’altra si sorregge il mondo.
Due semiarchi di Leonardo da Vinci...
La fragilità è l’origine della voglia di legame, di comprensione, di amore.
I sentimenti sono l’essenza della fragilità, ed è la fragilità che li genera.
La fragilità non spinge a vincere. La fragilità conosce gli ultimi e non
soltanto i forti. La fragilità non crede alla forza, alla potenza, sa che è solo
simulazione, un ballo in maschera per nascondere la paura.
L’amore invece è fatto di due insicurezze che si perdono dentro un insieme
che si fa roccia. È l’esperienza in cui l’altro diventa salvezza, e
contemporaneamente il salvato salva colui che lo salva. È bellissimo
l’amore e solo la fragilità lo coglie.
I genitori salvano il bambino, il bambino salva loro.
Il potente non sa amare. L’uomo di ferro è freddo, sa legare per
sottomettere. Il potere non sa amare perché si fonda sulla cultura del
nemico. Senza questa categoria il potere diventa miseria. Il vangelo
intende eliminare perfino il concetto stesso di nemico: ama il tuo nemico.
Io sono tanto poco potente, tanto fragile da pensare sempre all’amore, e “io
sono la libertà di lasciarmi amare” (Barsacchi)
La fragilità non è un difetto, un handicap, ma l’espressione della
condizione umana.
La fragilità non debolezza, non è povertà, non è incapacità di fare o di
pensare, non è una menomazione, è semplicemente una visione di un
mondo che non si divida più in vincitori e vinti, dove il vincitore è il più
forte, il più violento, il più crudele, il più micidiale.
Ma un mondo dove il vincitore è chi da e riceve amore. Su questo si pesa
la realizzazione della vita.
La fragilità è una risorsa di vita che fa apparire la ricerca di potere come
una anomalia, capace di generare odio e inimicizia tra gli uomini e tra le
nazioni. E mondanità nella chiesa.
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La società della fragilità non è fatta di vincitori e di perdenti, ma di
accoglienti.
Cerco un Dio della fragilità, che rida e gioca con i suoi figli nei caldi
giochi del mare e dell’estate. Un Dio che sa ascoltare e aspettare vicino a
me che temo il dolore e il deserto. Un Dio piccolo, non l’onnipotente, che
mi renda ricco con la sua povertà.
Il dio dei potenti, il re dei re, l’eterno, non mi interessa, voglio il dio che
mi seduce con la sua bellezza, un Dio bello. Innamorato.
Non voglio un Dio che si erga nella giustizia assoluta, nella potenza
illimitata, nella perfetta intelligenza. Sarebbe un Dio che non prova il
bisogno di accarezzare mentre si produce un lamento di dolore. Invece il
mio Dio è Gesù: che conosce la pressione della paura, il dolore del rifiuto,
la passione dell’abbraccio.
E mi concede il diritto di essere debole, canna incrinata, lucignolo
fumigante, di non essere un eroe. E non mi condanna se la mia fiamma è
debole, ma prende questo mio filo di fumo, presagio di fuoco possibile, e
lo lavora e lo protegge, fino a che ne fa sgorgare di nuovo la fiamma. Non
finisce di rompere la canna incrinata che io sono, ma la fascia come fosse
un cuore ferito
Le tracce della tenerezza nel vangelo
UNA RAGAZZA INNAMORATA
Andare da Maria è andare a scuola di cristianesimo.
Il primo episodio della vita di Maria, menzionato dal Vangelo, è il suo matrimonio con
Giuseppe. La parola greca ‘emnemeustene’ indica la prima parte del matrimonio, che aveva due
tempi in Palestina, accordo e coabitazione.
Maria è la donna del ‘sì’; ma il suo primo ‘sì’ l’ha detto a Giuseppe, solo in un secondo
momento ha pronunciato il suo ‘sì’ a Dio.
Maria entra in scena come moglie ed ha amato con cuore di carne un uomo. Se crediamo che
il suo essere sposa non sia stata una finzione ipocrita, ma un autentico matrimonio santo. In castità e
tenerezza.
Maria entra in scena come una sposa che crede nell’amore, è una ragazza che sapeva amare,
appassionata.
Non si parla mai di Maria come sposa o moglie, per timore di metetre a repentaglio la sua verginità.
Ma dal vangelo, di Maria sappiamo due cose: ha un amore e una casa.
Noi possiamo fare a meno di molte cose, ma non di una casa. Possiamo essere poveri di tutto,
ma per vivere abbiamo bisogno di amore, anzi «di molto amore per vivere bene» (J. Maritain).
Se non amiamo non viviamo, dice san Giovanni nella prima lettera.
Povera di tutto, Dio non ha voluto che Maria fosse povera d’amore.
L’amore ha sete di eternità e interpella il perché dell’esistenza. Christos Yannaras scrive:
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«Se ti sei innamorato una volta, sai distinguere la vita dalla sopravvivenza. Sai che
sopravvivenza significa: mangi il pane e non ti tieni in piedi, bevi l’acqua e non ti disseti, tocchi le
cose e non le senti, annusi il fiore e il suo profumo non arriva alla tua anima. Se però l’amato è
accanto a te, tutto risorge e la vita ti inonda con tale forza che ritieni il vaso di argilla della tua
incapace a sostenerla. Questa piena della vita è l’amore. Ed è la sola pregustazione del Regno.
Perché solo se esci dal tuo io, sia pure per gli occhi belli di una zingara, sai cosa domandi a Dio e
perché corri dietro di lui»1.
Maria si è innamorata di Giuseppe, per questo stesso fatto si è aperta al mistero di Dio.
La ragazza è entrata nelle cose dell’amore ed entra ora nelle cose di Dio. L’innamoramento è
la sola esperienza mistica che è concessa alla maggioranza degli uomini e delle donne. Vera
mistica: perché esci dal tuo io, estasi vuol dire uscire da sé, perché ami l’altro più di te stesso, ed è
cosa da Dio, perché sogni l’eternità per il tuo amore, ed è il sogno di Dio per noi.
Se c’è qualcosa sulla terra che apre la via all’assoluto, questa cosa è l’amore, luogo
privilegiato dove ancora arrivano angeli a dire che l’impossibile è diventato possibile. Il cuore è la
porta di Dio.
Ogni evento d’amore è sempre decretato dal cielo.
Forse per questo la parola Dio è sempre stata coniugata con la parola «amore».
Proprio perché innamorata, esperta di tenerezza, Maria può percepire il messaggio, il sussurro
dell’angelo.
L’annuncio alla coppia.
Secondo Luca l’annunciazione è fatta a Maria, secondo Matteo a Giuseppe. Chi ha ragione?
Sovrapponiamo i due Vangeli e scopriamo che l’annuncio è fatto alla coppia, allo sposo e alla sposa
insieme, al giusto e alla vergine innamorati l’uno dell’altra.
Dio è all’opera nelle nostre relazioni d’amore, parla dentro le famiglie, dentro le nostre case,
nel dialogo, nel dramma, nella crisi, nei dubbi, negli slanci, nella tenerezza, quando insieme i due
piantano giardini, piantano piccole oasi di verità e di amore, che sottraggono il cuore al rischio del
deserto.
Dio non ruba spazio alla famiglia, non ferisce, cerca questo sì plurale, che diventa creativo
perché è la somma di due cuori, di molti sogni e del molto tenace lavoro che domanda la tenerezza
reciproca.
Infatti è la coppia, non il singolo che è immagine di Dio. Maschio e femmina li creò, a sua
immagine. Immagine e somiglianza, riflesso del volto del Creatore non è la forza di Adamo, non è
la bellezza di Eva, ma è la loro relazione, il racconto della tenerezza reciproca, nella quale ognuno
diventa per l’altro ‘salvezza che gli cammina a fianco’.
Questa è la traduzione della parola: facciamogli un aiuto che gli sia simile...una salvezza al
suo fianco.
La tenerezza che ricevi è salvezza al tuo fianco.
La tenerezza che regali è salute per la vita di chi ti sta a fianco.
Dare e ricevere amore è ciò su cui si pesa la felicità di questa vita.
IL CANTO
Penso al canto e alla danza del magnificat. Mi stupisce, m’incanta che in Maria, nella prima dei
credenti, la visita di Dio abbia l’effetto di una musica, di una lieta energia, di una armonia tra cuore
e corpo, che muove alla danza.
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Ch. Yannaras, Variazioni sul Cantico dei cantici, Interlogos, Schio (VC) 1994, p. 25.
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Mentre noi istintivamente sentiamo la prossimità di Dio come un dito puntato, come un esame da
superare, Maria sente Dio venire come un tuffo al cuore, come un passo di danza a due, una
stanchezza finita per sempre, un vento che fa fremere la vela della vita: l’anima danza per il mio
amato.
Da dove viene la gioia di Maria? È incinta e ha capito; corre da Elisabetta ed ha capito. Ha capito
Dio. Dio è innamorato delle sue creature. Il Dio innamorato ha una sola vocazione: non giudicare,
ma far fiorire la vita. In tutte le sue forme.
GESU’: LE PAROLE DELLA TENEREZZA
a.1 Abbà.
Tutte le preghiere di Gesù che gli evangelisti ci hanno tramandato
(sono 60) iniziano con questa parola: Padre, che è una delle espressioni
inconfondibili di Gesù.
Perché inconfondibile, se tutte le religioni, da sempre – i Sumeri, gli
Egizi, i Greci, i Romani -, hanno usato il termine Padre riferito alla
divinità? Se questa parola raccoglie il senso di precarietà e di dipendenza
di ogni creatura sotto il sole? Se anche gli Ebrei nell'A.T., e ancor più
spesso al tempo di Gesù, si rivolgevano a Elohim chiamandolo Padre,
sentendosi figli?
Ma il rapporto di Gesù con il Padre è unico. Da parte sua diceva:
"Abbà", parola aramaica, nella lingua materna di Gesù, quella di casa,
imparata a Nazaret. Abbà è la parola con cui i bambini in casa chiamano il
papà; fuori casa, il figlio che incontra il genitore, lo chiama "Signore". In
casa, invece anche il figlio sposato si rivolge al genitore con "abbà". È la
parola più confidenziale, più affettuosa, più familiare, è il ‘papà, il babbo’
di ogni bambino.
Non ha la solennità della lingua liturgica: in sinagoga si pregava Dio
dicendo: "abinu" (padre nostro, in ebraico) o più semplicemente: "ab". Ma
Gesù nel colloquio con Dio usa il linguaggio dei bambini e non quello dei
rabbini; usa la lingua di casa e non quella dei testi solenni: usa il dialetto
del cuore. Il vocabolario della tenerezza.
A nessuno passava per la mente di adoperare questa espressione familiare
e domestica per Dio: "papà, babbo". Suonava come mancanza di rispetto
verso il Signore e invece ha colpito gli evangelisti, e san Paolo, al punto
da volerla riferire nella lingua originale, con quel suono preciso, come una
reliquia sonora della tenerezza di Cristo, da non smarrire mai. Proprio per
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conservare lo specifico, l’inaudito modo di parlare con Dio di Gesù (Rom
8,15; Gal 4,6).
a.2 rahamin eleos
Cercare nella bibbia cosa sia e come si eserciti la misericordia è uno degli
esercizi più belli e più benefici per la fede.
In ebraico misericordia si dice rahamin, il termine che indica le viscere, il
grembo della madre che dà la vita, l’utero che nutre e alimenta ogni vita.
Per estensione viene ad indicare la sede dell’amore materno.
Il grande teologo J.B. Metz fa osservare una cosa straordinaria: nel
vangelo il primo sguardo di Gesù non si posa mai sul peccato degli
uomini che incontra, il suo primo sguardo si posa sempre sulla povertà
e sulla soffernza degli uomini. Per soccorrerla. La terra non ha bisogno
di giudici, ma di samaritani. Mossi dal dolore. Il primo sguardo di Gesù
va sempre sul dolore. Anche da risorto. La prima cosa che vede sono le
lacrime di Maddalena, e le prime parole: donna perché piangi. Lacrime
tesoro di Dio. Le mie lacrime nell’otre tuo raccogli (Sl 54). Turoldo:
Dio naviga in un fiume di lacrime. Nel vangelo ricorre più spesso il
termine poveri, bisognosi e malati, che non peccatori. Non è moralista il
vangelo. Siamo noi che lo abbiamo moralizzato.
E da qui germoglia la misericordia che indica la reazione emotiva di Dio
di fronte al male che ha colpito la sua creatura, e il comportamento che ne
risulta. Reazione di tenerezza di madre.
Tenerezza che non è il semplice perdono dei peccati, ( ti perdono, perché
sono buono; dimentico; Dio non perdona come uno smemorato ma come
un innamorato di te e del tuo futuro e della tua primavera e del cuore bello
che hai). Non il semplice perdono, ma molto di più, esprime il compito di
madre che ha Dio nei nostri confronti, creazione che continua, vita
alimentata, qualcosa di creativo che avvolge l’uomo e lo protegge e lo fa
crescere, come un seno materno, che nutre, intesse, culla, fa felice il suo
bambino.
In greco: eleos. Kyrie, eleison. È al più antica, la prima, la più evangelica
delle preghiere riportate dal nuovo testamento. Signore, abbi pietà. Ma
‘pietà’ non tanto del peccatore che sono perdonando, ma molto di più pietà
della vita che pinage, del dolore che provo, delle lacrime che bruciano.
Kyrie eleison: Sentiti madre, invocano i poveri. Dammi vita. Fammi
rinascere, fammi vivere!
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a.3 Doppio linguaggio
Mi ha sempre colpito il fatto che nel Vangelo Gesù ha due linguaggi che
sembrano contradditori. Quando si rivolge al gruppo dei discepoli o alle
folle mette davanti l’ideale esigente, alto rigoroso: amate i vostri nemici;
siate perfetti come il padre; meglio per lui se si legasse una macina al
collo.
Quando invece si rivolge alla singola persona egli è solo accoglienza e
misericordia. Dice il vostro parlare sia sì sì no no, il resto è del diavolo, ma
quando va da lui Nicodemo, di nascosto, per paura, ombra nella notte non
punta il dito contro la sua mancanza di coraggio, ma gli dice che può
nascere di nuovo e rispettando la sua paura lo farà coraggioso al punto di
presentarsi a Pilato a chiedere il corpo del crocifisso. Chi dice stupido al
fratello sarà condannato alla Geenna, ma alla adultera dice le sette parole
che bastano possono a cambiare una vita: va e d’ora in avanti non peccare
più.
Contraddizione? No, l’ideale resta ma la tenerezza di Gesù si esprime
nell’indicare il primo passo possibile. Martini... Gesù mette la persona
prima della verità astratta: è l’uomo per il sabato o il sabato per l’uomo?
S. Weil ha colto così bene questa rivelazione da scrivere una frase
luminosa: mettere la verità prima della persona è l’essenza della
bestemmia.
Non nascondere la tua debolezza, ma costruiscici sopra.
Quando i giapponesi riparano un oggetto rotto, valorizzano la crepa
riempiendo la spaccatura con dell’oro.
Essi credono che quando qualcosa ha subito una ferita ed ha una storia,
diventa più bello. Questa tecnica è chiamata "Kintsugi."
Oro al posto della colla. Metallo pregiato invece di una sostanza
trasparente. quel corpo rotto si riempie di vene di luce. E la differenza è
tutta qui: occultare l'integrità perduta o esaltare la storia della
ricomposizione? Riconciliazione?
Chi vive in Occidente fa fatica a fare pace con le sue crepe.
"Spaccatura, frattura, ferita" sono percepiti come l'effetto di una colpa.
Ma ogni ferita può diventare feritoia.
La Vita è integrità e rottura insieme, perché è ri-composizione costante ed
eterna.
Possiamo Rendere belle e preziose le "persone" che hanno sofferto...
questa tecnica si chiama "amore" e tenerezza. Ricomporre le famiglie...
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I giapponesi che hanno inventato il Kintsugi l'hanno capito più di sei secoli
fa - e ce lo ricordano sottolineando in oro la ferita..
Così il vaso è molto più bello, con le sue ferite luminose.
Questa tecnica non tenta di mimetizzare la crepa, ma la valorizza
riempiendola d’oro. Oro invece di una colla invisibile, a far finta che non
sia successo niente. E qualcosa che ha subito una ferita, che si è rotto,
può diventare più bello che non da nuovo. Le ferite, feritoie di bellezza e
d’oro.
Non nascondere le tue debolezze, ma costruiscici sopra!!!
Tutti noi possiamo contribuire e ricomporre le "persone" che hanno
subito lacerazioni, versando oro che è "amore, ascolto, condivisione".
Come quelle di Cristo risorto, dalle quali non esce più sangue ma luce.
Ho visto persone dal molto dolore diventare più preziosi, dopo, se
qualcuno lo accompagna con tenerezza unita a rispetto. Un volto buono
che ha pianto. Questa è la bellezza che salverà il mondo (Dostoewski).
Lo Spirito sta facendo nascere un cristianesimo altro, rappresentato da te e
da me quando sappiamo coniugare amore per Dio e amore per la vita. Lo
Spirito fa nascere gente che sappia apprezzare la bellezza e la sacralità di
tutte le cose, a partire dal corpo, senza sospetti, senza timori inutili, senza
condanne e pessimismo.
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Ricordo un dialogo tra don Zeno, il fondatore di Nomadelfia, e il
nostro padre Vannucci, uno dei mistici più alti del Novecento. Erano
insieme a una finestra del nostro collegio romano sul Gianicolo e parlando
guardavano il grande viale alberato che sale da Trastevere. Videro a un
certo punto due fidanzati che salivano e salendo si baciavano. Poi
riprendevano il cammino, si fermavano di nuovo e si abbracciavano sotto i
grandi platani del viale. Noi come avremmo reagito? Ma un po’ di pudore,
che diamine! Ci sono bambini che passano! Fatelo in un angolo nascosto!
Daremmo voce al fariseo, al moralista che è in noi. Invece padre Vannucci
disse: “Il giorno in cui tu vedendo due creature che si baciano dirai: sia
benedetto Iddio perché nel mondo ci sono due creature in più che si
amano, quel giorno tu sarai molto avanti nella vita spirituale!”
Possiamo applicarlo a molte situazioni affettive irregolari, secondo la
legge.
E se il cristianesimo è questo, che ama l’alfabeto della vita, se tu
sarai un cristiano così, allora una gioia lucente uscirà da te e andrà sul
mondo come una benedizione.
4. La vita in pienezza non esiste senza gli affetti. Superiore all’affetto
non c’è nulla. Val più una goccia di affetto che un mare di spiritualità.
Tutti abbiamo debiti d’amore e quelli dovranno passare sempre innanzi ai
così detti interessi spirituali. Di un segno di affetto ha estremo bisogno
l’animo umano. Si pensa a dare il pane. Sì. Ma chi domanda pane può non
averne bisogno estremo; di questo pane ha invece bisogno ogni cuore
stanco…E ogni cuore è stanco (Sorella Maria).
E in ogni nostra battaglia per essere persone che amano e sono
vive, Dio è con noi. Nel cuore della vita. E possiamo stare sicuri che
ogni nostro tentativo d’amare porterà frutto.
Bibbia e metafora nuziale
Dall’in principio alla fine, il cuore segreto della Bibbia, ciò che sorregge
tutta la Scrittura, è una trama nuziale, una utopia sponsale. I profeti che
interpretano la storia sacra e l’alleanza in chiave nuziale - Osea, Ezechiele,
Geremia, Isaia, il Cantico dei Cantici, il Battista amico dello Sposo, e Gesù
stesso offrono la chiave riassuntiva dell'intero arco della storia della
salvezza: la storia di due mendicanti uno d’amore ed è Dio, l’altro d’amore
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ed è l’uomo. fino all’ultima immagine: l’agnello è pronto alle nozze e
pronta è la sua sposa. Già Antonio Rosmini, scrivendo Storia d’amore,
aveva capito che la storia della salvezza si può leggere solo nella categoria
nuziale. Perché in fondo da quando Dio ti mette in vita, ti invita alle nozze
con lui. Ognuno a suo modo sposo.
Nei mistici – donne o uomini non fa differenza - il momento più alto
coincide con le nozze con Dio. Dentro e fuori il cristianesimo. Come il
mistico musulmano Al- hallaj che fa coincidere l’approdo della sua mistica
con le nozze con Dio. Non è un caso che sia stato bruciato come eretico.
Dobbiamo allora cambiare il paradigma della fede, dal paradigma di colpa
vergogna paura/perdono, sostituirlo con il passare dal disamore/amore.
l’asse portante della storia non è il peccato e il giudizio, ma il paradigma
dell’unione amorosa, fino a che Dio sia tutto in tutti. E nulla, nessuno, mai
ci separerà dall’amore.
La tenerezza è la veste nuziale di questo amore. L’amore umano nel
matrimonio è buono se nel corso degli anni non diventa duro o aspro, ma
matura in due cose: tenerezza e fedeltà.
Mazzanti: Le coppie non andrebbero più in crisi se veramente
interiorizzassero che il loro volersi bene prelude ad un ben altro sposalizio;
le tenerezze, le coccole, l’unione fisica acquisterebbero un altro spessore,
se le coppie comprendessero che il corpo dell’altro è destinato alla
resurrezione, se capissero che le loro carezze non sono poi così diverse dal
gesto con cui Dio ha plasmato il corpo dell’Uomo e della Donna. Pensate:
una carezza che crea, capace di plasmare l’altro!
La metafora nuziale dice anche che la Fede è piacere di amare e di
essere amato. Una teologia del piacere si inaugura come ultimo approdo.
Una benedizione sul corpo dell’uomo e della donna. Il piacere di credere,
credere è acquisire bellezza della vita!
I profeti: Osea, Isaia, Geremia intercettano spesso gli amori coniugali in
uno stadio avanzato, cioè quando la coppia è in crisi, quando ormai è
logorato il suo patto, quando patisce i mutamenti del cuore che, come dice
Geremia, è fallace, difficilmente guaribile, incomprensibile. Quando
l’amore finisce o si stempera, allora arrivano i profeti. Proprio questo
momento è l’inizio, è quell’attimo in cui la bellissima arroganza dei profeti
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scommette che inizierà una storia di salvezza. È una pretesa, è un’audacia,
è un’impudenza: Dio viene lì.
Per questo possiamo dire che la salvezza è una discesa di Dio, una
penetrazione di Dio nelle fratture umane, un mettersi in gioco del cielo con
le spaccature della terra, le fenditure della roccia, là dove la terra appare
nelle sue crepe (Rosanna Virgili).
Dove l’umanità si apre attraverso degli abissi che hanno bisogno di
qualcuno che non si scandalizzi, di un Dio che non si ritiri dalle crepe
dell’umano a causa dell’errore o dell’amarezza. Dalla bocca dei profeti ci
viene descritto questo Dio mentre viaggia verso l’umanità alla ricerca di
quelle crisi, fratture, ferite che intende fasciare con le sue bende di luce.
Credo in Dio caduto sul mondo come un bacio (Benedetto Calati) E
incontrarlo non sarà come inginocchiarsi davanti al trono di un
imperatore ma come il bacio vergine dell’universo. Come baciare
tremando la sorgente vergine dell’universo (Mallarmè).
Fine
«Gesù percorreva la Galilea annunciando la buona novella – cioè
l’amore – e curando ogni malattia» (Mt 4,23). L’amore non dà una
spiegazione dell’universo, non è la giustificazione della storia, non fa
nascere scienziati o filosofi. Fa ben di più. Non giustifica, ma fa vivere.
Non spiega, ma guarisce. Non impone nulla, ma crea uomini veri. Chi
gusta l’amore, anche se si sentiva morire, può rinascere. Per questo lo
seguivano.
Gesù passa ancora e riaccende la vita e lascia orme lievi sulla polvere
del cuore (e sono le orme della tenerezza) come allora sulle strade di
Galilea. E io lo seguirò perché mi interessa solo un Dio che faccia fiorire
l’umano.
CHIARIMENTO di Jan Twardowski
Non siamo chiamati a convertire il mondo, ma ad abbracciarlo,
non a convertirlo ma ad amarlo. Con tenerezza. Come bambini.
Non sono venuto a convertirla, Signore,
del resto tutte le prediche ben fatte mi sono uscite di mente.
Da tempo ormai sono spoglio di splendore
come un eroe al rallentatore.
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Non le farò venire il latte alle ginocchia
chiedendo cosa ne pensa di Tommaso d’Aquino
e discutendo non la rimbeccherò come un tacchino
con la goccia rossa al naso.
Non mi farò bello come un germano ad ottobre,
non le verserò all'orecchio la teologia col cucchiaino.
Mi siederò soltanto accanto a lei
e le confiderò il mio segreto:
che io, un sacerdote
credo a Dio come un bambino!
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Carezza, teoria delle carezze, bacio
La tenerezza è disarmante. La carezza ne è il simbolo, quel gesto che
non è possesso, non è predazione, che sfiora e lascia libero, che offre
calore e non domanda nulla. La verità della vita non sta in un pugno ma in
una carezza. Anche il corpo vi ritrova la sua eccellenza, senza venir ridotto
a strumento di piacere dei sensi e senza d’altra parte essere semplicemente
negato.
La fede è la carezza di Dio. Pensate: la parola grazia in greco Xaris è
imparentata nella sua radice proprio con due parole della nostra lingua:
carezza e caro.
La grazia è la carezza di Dio. Secondo una tradizione rabbinica il soffio
di vita è stato dato ad Adamo con un bacio ed è ancora con un bacio che il
Signore coglierà dalle nostre labbra il nostro ultimo respiro. Dio è un
bacio, diceva il grande monaco don Benedetto Calati.
Teoria delle carezze nella pedagogia: parole e gesti positivi che sono
segno di riconoscimento (sei bravo, hai fatto bene,... ecc.)
Conservare nel cuore i momenti delle carezze positive, le armonie vissute,
e metterle in un vasetto come le dieci ragazze nell’attesa dello sposo. Sono
la nostra riserva d’olio lungo la notte.
Poi ci sono le carezze negative. Tipiche della vecchia educazione, il cui
peso è duro: hai sbagliato, non sei capace.
Dalle positive, la Spinta per partire.
Invece essere impermeabili a quelle negative. Da questo dipende il
benessere della persona. Farne tesoro.
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4. Bernardo di Chiaravalle (1090-1153)
Il polemista spietato contro Abelardo, che con Eloisa fu uno degli
inventori dell’amore in Occidente, il predicatore di crociate, è anche il
«seduttore della Borgogna», come dice Guglielmo di St Thierry. Scrive la
Regola per i monaci guerrieri, i temibili Templari, i più efficienti soldati
dell’epoca, e poi scrive struggenti lettere d’affetto a Ermengarda. Colui
che fa muovere duchi e regine fino al suo monastero, allunga i suoi viaggi
per poter incontrare la sua amica Ermengarda.
Due lettere a Ermengarda (Epistole 116 e 117, redatte verso il 1135) sono
rivelative. Ecco uno stralcio della prima lettera:
Alla sua amata Ermengarda.
Dio ti conceda di leggere nel mio cuore come su questa
pergamena. Allora vedresti quale profondo amore il dito di Dio ha
inciso per te nel mio cuore, nel più intimo del mio essere.
Il mio cuore è vicino a te, anche se il mio corpo è lontano. Se non
puoi vederlo, non devi far altro che scendere nel tuo cuore e lì vi
troverai il mio.
Non puoi dubitare che io senta per te lo stesso affetto che tu provi
per me, a meno che tu non pensi di amarmi più di quanto io ti ami, e
che tu non reputi il tuo cuore più grande del mio.
Concedimi l’amore che Dio ha impresso in te per me.
Bernardo è un monaco nella sua piena maturità, attorno ai
quarant’anni. Ermengarda è una contessa vedova; che ha perso il figlio
Conan III, duca di Bretagna, alla crociata.
La lettera non contiene notizie, richieste, consigli, riflessioni spirituali,
informazioni pratiche, ma effusioni affettuose, e persino amorose, che
possono stupire. Se il mio superiore in noviziato avesse trovato una lettera
così....io non sarei qui con voi.
La lettera è, nello stile letterario dell’epoca dei trovadori, «una
tenzone amorosa», una competizione, in cui vince chi ama di più. Non ha
altro scopo che far sapere tutta la forza dell’affetto e coltivarla. L’amore
non può mai rimanere quello che è, ha bisogno di crescere. L’amore deve
essere sempre in cammino, in volo, in combattimento.
Bernardo qui è finalmente libero dalla tirannia di una vita fatta di
scopi da raggiungere. Che si misura sempre con domande e con doveri:
che cosa devo fare? a che scopo devo farlo? perché devo? Tutta una lunga
serie di “perché” senza fine. Ad essi Bernardo oppone una protesta di
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bellezza, l’insurrezione della tenerezza: “Amo perché amo, amo per
amare!”
Dichiara il suo bisogno di amare e di essere amato, chi vuole amare e
da chi essere amato, chiarendo il proprio modo di amare, come il fine della
vita.
Una maturità che non è frutto di diminuzioni, ma di addizioni. Un
divino cui non corrisponda un rigoglio dell’umano non merita che ad esso
ci dedichiamo (Bonhoffer). Non è diminuendo l’umano che in noi cresce
lo spazio del divino.
Fiore selvatico sulle nostre strade, miele selvatico dei nostri deserti,
per la polifonia dell’esistenza, per la pienezza del vivere.
L’amicizia è un paradosso spirituale che avvicina a Dio avvicinandoti
a un cuore. Che ti rivela a te stesso: solo con l’amico puoi permetterti la
totale libertà. E se conservi libertà tu diventi casa di Dio. Lettera agli
Ebrei: casa di Dio siamo noi se conserviamo libertà e speranza. Tutto ciò
che dona libertà edifica templi, così l’amicizia.
Un’espressione felice di Bernardo nella seconda lettera dice: «lo
scoppio della tua allegria dona salute all’anima».
Il riso di Ermengarda porta salute, benessere, guarisce l’anima di
Bernardo. La sua riserva di gioia e di salute spirituale!
L’abate ascolta il riso di una donna, lo ascolta e dentro quel riso trova
una medicina del vivere, la salute per la sua anima, un benessere
dell’intera sua persona, toccata d’allegria, contagiata di sorriso.
5. Francesco d’Assisi (1182-1226).
A spiazzare i luoghi comuni: la vera amica di Francesco d’Assisi non
è Chiara.
Quella che lui desidera accanto, che manda a chiamare quando sente
vicina sorella morte, l’amica che spesso l’ha accolto in casa sua, quella dei
piatti speciali, per la quale viene anche sospesa la clausura, è Iacopa dei
Settesoli, nobile romana, vedova di Graziano Frangipani.
L’ultimo scritto del santo, l’ultimo cantico di Francesco è un cantico
di amicizia:
«A madonna Iacopa serva di Dio frate Francesco poverello di
Cristo.
Sappi, carissima, che Cristo m’ha rivelato il fine della vita mia, il
quale sarà in brieve. E però se tu mi vuoi trovare vivo, veduta questa
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lettera, ti muovi e vieni a Santa Maria degli Agnoli; che, se non arrivi
entro sabato, non mi potrai trovare vivo. E arreca teco panno di cilicia
nel quale si avvolga il corpo mio, e la cera che bisogna per la sepoltura.
Priégoti ancora che tu mi arrechi di quelle cose da mangiare, delle
quali tu mi solevi dare quand’io era infermo a Roma».
Francesco muore in mezzo ai suoi fratelli, ma testimone di totale
libertà di fronte al loro giudizio, convoca un’amica, tra i molti volti
presenti cerca un volto assente. Cerca un volto la cui tenerezza ha smosso
in lui melodie che ancora risuonano, e che con la sua sola presenza gli
restituirà dice il cronista «grande allegrezza e consolazione». Amicizia
come riserva di gioia, gioia come sintomo che la strada è giusta.
Nel momento supremo della vita, abbiamo bisogno di avere accanto le
persone supreme. Per Francesco è Jacopa; intona per lei il suo ultimo
cantico, quello dell’amicizia.
Iacopa ha portato il panno funebre, i ceri e i “mostaccioli”, dolcetti di
miele e mandorle, dei quali Francesco ha confessato con semplicità e tanta
leggerezza il desiderio.
Francesco non è disamorato della vita, anzi mostra di averla amata
anche nelle sue manifestazioni sensibili; i sensi non sono negati, ma sono
«divine tastiere», suonati a Dio per la pienezza della felicità (D.M.
Turoldo).
Più ameremo la vita senza riserve, più saremo anche capaci di provare
felicità (J. Moltmann).
Con l’amica egli può permettersi un tenerissimo momento di
debolezza e di verità umana insieme: «portami quei biscotti con i quali ti
prendevi cura di me, con cui mi hai curato tante volte a Roma». Una
preghiera che l’amica ha già esaudito, perché nessuno ti conosce così a
fondo come l’amico: l’amore è conoscenza, sosteneva Guglielmo di SaintThierry, «amor ipse intellectus», l’intelletto d’amore di Dante.
Non dei biscotti ha desiderio Francesco, ma della mano che li porge.
Neppure della mano ha bisogno, ma del cuore che guida la mano.
Il panno, i ceri e i biscotti sono un candido pretesto. Come l’amato del
Cantico dei cantici, che bussa alla porta dell’amata: «Aprimi, sorella mia,
amica mia, colomba mia, perfetta mia. La mia testa è coperta di rugiada»
(Ct 5,2). Ma avere la testa bagnata non è la ragione per cui l’amato vuole
entrare, è ben altro il motivo: è il desiderio di abbracci.
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Così Francesco ha bisogno di avere accanto Iacopa, perché l’amicizia
è una sorgente di vita, perché l’amica è come un sacramento che trasmette
grazia, che aggiunge pienezza a pienezza, per una pienezza del vivere e
insieme del morire.
Perchè rinforza il cuore nel momento in cui il cuore può venir meno.
L’amicizia è il sacramento più possente, sacramento di ogni momento, e
che possiamo ricevere fino all’estremo (Sorella Maria).
Il sacramento dell’amicizia. Secondo la definizione dei teologi sacramento
è segno visibile ed efficace, evidente ed eloquente dell’azione di Dio.
Amicizia allora è teologia, teologia di ogni momento, la più possente, che
dura fino all’estremo.
“Se vuoi. Se vuoi vedermi ancora vivo...”. L’amica è libera, può
ancora sottrarsi. Se vuoi: Francesco è mendicante d’amore, di un amore
rispettoso e fidente.
«Mentre che questa lettera si scriveva, fu rivelato a santo Francesco
che madonna Iacopa era presso al luogo». Occhi di Francesco quasi ciechi,
ma che vedono oltre, sanno da sempre l’arrivo di Iacopa.
Il desiderante sa di essere desiderato. L’amico scrive, e la pergamena
si intride di un ricominciante Cantico dei cantici: «Vieni, amica mia». Egli
sa, come nel Cantico, che l’amica viene.
Francesco che ama con intensità il cielo e la terra, mi illumina su di una
realtà costitutiva e determinante:
II. TEOLOGIA DELLA TENEREZZA.
Una teologia della tenerezza è possibile se è possibile una cristologia
della tenerezza.
A differenza dei grandi del Medioevo, oggi noi, gente delle cose di Dio, non
sappiamo più comprendere e trattare le passioni, abbiamo dimenticato la «gaia
scienza, il gioioso saper dell’amore». I monaci e i poeti possedevano una vera
teologia della passione amorosa, mentre noi ci accontentiamo di un’etica degli affetti,
di una serie di prescrizioni. È urgente che la Chiesa riprenda a trattare i temi vitali
dell’uomo, come il grande dono della sessualità, facendone una teologia,
riconoscendoli come luogo teologico, e non riducendoli solo a una morale.
Rumi: se tu ascoltassi la lezione del cuore faresti scuola agli eruditi.
Amore luogo di evangelizzazione e non di regolamentazione.
Perché?
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Per guarire dal disamore. Per la pienezza della vita. Per non smarrire la
polifonia dell’esistenza.
Ogni vivente ha una vita affettiva, parte alta e forte della sua identità,
necessaria per essere felice. Possiamo negarla ma non eliminarla. La
dimensione degli affetti, fondamentale per l’equilibrio della persona,
necessaria per la gioia del vivere, è un autentico luogo teologico: la
tenerezza rivela qualcosa di Dio. Dio non è presente dove è assente il
cuore.
Nasciamo tutti come persone appassionate, e quel malinteso spirito
religioso che ci spinge a negare le nostre passioni inaridisce le sorgenti
della vita.
Forse rende molti cristiani dei predicatori di morte.
Bisogna non soffocare, ma convertire le passioni; non raggelare, ma
liberare i desideri per desiderare Dio. Soltanto chi ama la vita è sensibile al
richiamo del Vangelo: «… io sono venuto perché abbiano la vita e
l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). La santità non consiste in una
passione spenta, ma in una passione convertita.
Dio non è presente dove è assente il cuore.
Più Dio equivale a più io. Dio è intensificazione del cuore. Scriveva
Bonhoeffer: non ci interessa un divino che non faccia fiorire l’umano.
Moltmann: più ameremo la vita senza riserve più saremo anche capaci di
provare felicità.
Solo la tenerezza possiede il dono di armonizzarsi con il rispetto.
La tenerezza non ha bisogno di effetti speciali o di grandi mezzi. Parla di
Fede scalza, essenziale. Io sogno una chiesa scalza, senza apparenza e
senza apparati, non si può trasmettere il vangelo con arroganza, si
trasmette come una melodia da cuore a cuore, come il magnificat.
Benedetto sia questo nostro corpo, tanto spesso disprezzato, tanto da farlo
intristire e ammalare. Benedetto sia questo corpo, il suo vigore, la sua
bellezza, la sua capacità di amare e di dare la vita.
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