Prefazione - Comune di Pietrapertosa

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Prefazione - Comune di Pietrapertosa
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Prefazione
A
1088 metri d’altitudine sul livello del mare, adagiasi a forma d’anfiteatro la cittadina superstite dell’antica “Petra” d’occidente, che ha riscontro
solo in quella d’Oriente in Palestina nella zona abitata dai Nabatei.
Conserva ancora il suo aspetto di roccaforte, collocata com’è a ridosso delle creste rocciose che la proteggono e la nascondono così come si protegge e si
nasconde un oggetto di valore.
Al visitatore essa appare solo al momento dell’incontro; un incontro brusco, che incute spavento e
meraviglia nello stesso tempo; suggestivo senz’altro.
La grande massa rocciosa che si trova all’ingresso del
paese e sotto cui è necessario passare per accedere
all’abitato, si erge quasi ad invitare l’uomo a meditare sulla piccolezza o fragilità della sua natura
umana.
Tutt’intorno dirupi scoscesi, quasi inaccessibili
che danno un senso di piacevole vertigine. La presenza di molti alberi dai fusti alti ed esili che elevandosi verticalmente formano col terreno che li accoglie
un angolo molto acuto, allietano il paesaggio, conferendogli un aspetto di eterna primavera.
Don Oreste Ettorre
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Sommario
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3 . . . . . 1° Percorso
4 . . . . . 2° Percorso
5 . . . . . 3° Percorso
6 . . . . . Percorso guidato
8 . . . . . Un paese unico al mondo
11 . . . . . Cenni storici
16 . . . . . Vista d’insieme
17 . . . . . Le scalelle
18 . . . . . Cappella del purgatorio
. . . . . Prefazione
L’Arabata
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21 . . . . . Il castello Normanno-Svevo
24 . . . . . Il volo dell’Angelo
26 . . . . . Chiesa di San Giacomo Maggiore
36 . . . . . I portali
37 . . . . . La cappella della Madonna del Rosario
. . . . . La cappella di San Cataldo
Cappella di San Rocco
Il Monumento ai caduti della
Prima Guerra Mondiale
58 . . . . . Passeggiata letteraria
59 . . . . . Piatti, feste e tradizioni
69 . . . . . Numeri utili - Appuntamenti
70 . . . . . Dove mangiare... dove dormire... e non solo!
72 . . . . . Bibliografia
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1° Percorso
38 . . . . . I fratelli Francesco e Michele Torraca
41 . . . . . La Chiesa del Convento di San Francesco
55 . . . . . Il piccolo Calvario
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3° Percorso
2° Percorso
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Percorso guidato
1)
2)
3)
4)
5)
6)
7)
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Presidio Turistico
Vista d’insieme
Cappella del Purgatorio
Quartiere “Arabata”
Cappella di San Cataldo
Castello Normanno-Svevo
Partenza “Volo dell’Angelo”
8) Chiesa di S. Giacomo Maggiore
9) Via dei Portali - Cappella della Madonna del Rosario
Cappella di San Rocco
10) Largo Garibaldi
11) Monumento Francesco Torraca
12) Piccolo Calvario - Monumento ai caduti
13) Chiesa e Convento Francescano
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Un paese unico al mondo
Nel cuore del Parco di “Gallipoli Cognato e delle
Piccole Dolomiti Lucane”, nella parte più alta, dove le
rocce s’innalzano in tutta la loro potenza sino a confondersi con l’azzurro cielo, sorge un paese unico al
mondo: PIETRAPERTOSA.
Non è questo un
anonimo paese
di provincia, ma
un centro ricco
di fascino, di bellezze, di arte
naturale, di originalità.
Ogni suo angolo
va scoperto con
gli occhi innocenti del bimbo e ogni sua pietra con il rispetto dello scienziato.
Il turista che per la prima volta si arrampica lungo i tornanti che dalla S.S. 407 Basentana portano a
Pietrapertosa, è preso senz’altro da un senso di sgomento e
nello stesso tempo di stupore e di ammirazione: sembra che
il Creatore abbia profuso in questo lembo di terra una infinita varietà di elementi contrastanti, che gli conferiscono
un senso di mistero e di fascino.
Qui c’è tutto: monti brulli o ammantati di boschi, valli,
castagneti, minuscoli spiazzi, dirupi paurosi e poi, azzurro, azzurro all’infinito
e nell’immenso azzurro
picchi dolomitici, guglie di arenaria, simili
ad enormi mani protese verso il cielo in atteggiamento di preghiera
e di riconoscenza.
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Ognuna di queste guglie ha un nome, un viso, un significato: “I Monaci” o comunemente chiamate “Rocce
Gemelle”, stanno immobili fra cielo e terra, “La Pietra
dell’Incudine”, sembra attendere un misterioso gigante
fabbro che venga a forgiare un nuovo destino per gli abitanti di questa terra rude; “Il Gufo Reale”, oggi abbattuto sussurrava divine benedizioni a chi dimora ed a chi
veniva e su in alto il “Castello Normanno-Svevo” rimane
a dominare con le sue rovine l’abitato, la campagna e i
paesi circostanti ed a ricordare secoli di storia, di gloria, di
sofferenze e di umiliazioni.
Ai piedi dell’antico maniero la cappella di S. Cataldo invita gli umani silenziosamente alla riflessione.
Più si ascende e più il paesaggio diventa stupendo: è un’opera d’arte impossibile da riprodurre sulla tela.
C’è in questo scenario qualcosa che incanta ed opprime! Ci
sono nell’aria e negli elementi sfumature di azzurro, di
rosa, di indaco, di verde, di.... indefinibile, che tutto avvolgono nel mistero e nel divino e mentre i picchi e le guglie
brillano lassù, ospitanti mille vite e mille amori, dalle
colombe che tubano nei nidi, ai corvi che gracchiano, ai
nibbi, ai falchi che planano lenti nel vuoto, ai mille esserini che si arrampicano lungo strade impossibili all’umana
natura per inabissarsi di luce e di altezze e di là intonare
un canto che a noi non è dato levare; nelle valli i ruscelli e
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Cenni Storici
i torrenti uniscono il loro
mormorio al respiro dei
monti, al palpito dei
campi, al sussurro degli
alberi e rendono più misterioso questo lembo selvaggio di terra!
All’ultimo tornante, all’ultimo istante di sgomento, prima di oltrepassare le rocce, che sembrano precipitare a valle e
tutto schiacciare appaiono una grande croce “Il
Calvario” e, nell’incavo dell’estremo lembo roccioso, un
affresco del 1739, quel che rimane di una cappella raffigurante San Rocco, Sant’Antonio e la Madonna del
Carmine.
Presidio Turistico
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Le origini di questo paese, l’antica Pietraperciata
(ovvero pietra forata, per una grande rupe sfondata da
parte a parte), si perdono lontane nei secoli che furono.
Pare sia sorto nell’VIII sec. a.C. ad opera dei Pelasgi.
Costoro, nel loro scorrere attraverso l’Italia meridionale e la Lucania, s’imbatterono nelle nostre terre e vi si
fermarono. I monti coperti di boschi, le rocce possenti,
in cui abbondavano grotte naturali, il torrente che scorreva a valle, l’aria salubre, dovettero far loro apparire
questo posto sicuro e ricco di promesse. Avrebbero, infatti, ricavato dai boschi combustibile, frutti e selvaggina,
dalle rocce le prime abitazioni e dal torrente l’acqua per
i mille bisogni. I Pelasgi, costruirono le loro prime abitazioni nella parte bassa, per celarsi al nemico e per
vivere tranquilli e innalzarono sulle rocce, come posti
di difesa e di vedetta, delle costruzioni fatte di blocchi
sovrapposti, che alcuni decenni fa, ancora, si potevano notare sulla roccia chiamata “Ostiello”.
Questi antichi abitanti delle nostre terre rimasero,
signori incontrastati fino all’arrivo dei Greci, che dalla
costa si spinsero verso l’interno per portarvi le loro
merci e i loro manufatti. Tracce della presenza ellenica
la ritroviamo nella forma ad anfiteatro dell’abitato e
nel nome di alcune località come “La costa di Diana”.
Al tempo delle invasioni di Annibale giunsero i
Romani, scacciarono i Greci e fecero di Pietrapertosa
la loro Curtis e il loro Oppidum. L’antica Chiesa di S.
Francesco era una fortezza romana. I padroni del
mondo, però, resero Pietrapertosa, come il resto della
Lucania, terra incolta e abbandonata al pascolo. Servi
e schiavi dappertutto, pochissimi gli uomini liberi. Il
ricordo della loro lingua lo ritroviamo nel dialetto pietrapertosano che conserva ancora parole e frasi latine,
anche se volgarizzate come pupa, scola, longa, crai,
pscrai, capa di puella e così via.
Con la caduta di Roma iniziarono le invasioni barbariche e Pietrapertosa non ne fu esente. Vennero i Goti e
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poi i Longobardi sotto il cui dominio Pietrapertosa
rientrò nel gastaldato di Acerenza.
Vennero i Bizantini, ma Lucas, capo dei soldati bizantini che erano a Pietrapertosa, si ribellò al governatore
bizantino della Lucania, perché autoritario e prepotente, chiamò in suo aiuto gli arabi e si convertì all’islamismo. Per oltre venti anni gli arabi di Lucas rimasero padroni di questo territorio. Vennero i Normanni
e fu proprio sotto il principato del valoroso Roberto che
Pietrapertosa acquistò particolare importanza.
Nel 1268 si proclamò fedele alla casa sveva, partecipando alla rivolta ghibellina contro i “papisti”.
Conobbe successivamente l’avvicendarsi delle varie
dominazioni straniere. Nel periodo angioino venne,
infatti, assegnata con il suo feudo a Guglielmo
Tournespè nel 1269, nel 1278 a Pietro de Burbura e
nel 1280 a Giovanni Borbone il quale, nel periodo
durazziano, resse le sorti del paese fino alla cessione del
feudo da parte del re Ferdinando D’Aragona nel seco12
lo XIV ai Gozzuti e ai Grappini da cui, per le nozze di
Violante, oltre la metà del secolo XV ai Diazcarlon,
conti di Alife; alla metà, del secolo seguente alla casa
Carafa e successivamente passava agli Aprano, ai
Campolongo, ai De Leonardis, ai Suardi, agli Iubero
ed infine ai Sifola di Trani con il titolo di Barone. Dei
feudi appartenenti alla Basilicata, Pietrapertosa con
543 fuochi o villani era il ventiduesimo.
Nel giugno del 1647, i contadini pietrapertosani si
unirono al maestro di bottega di Potenza, Francesco
Antonio Fiorito per partecipare alla manifestazione
contro le gabelle imposte dai “suca sang” (succhiatori
di sangue). La rivolta, però, fu repressa e i contadini
tornarono a pagare con puntualità le gabelle perché
non erano ammessi ritardi nei pagamenti e se c’erano,
venivano puniti. Per sfuggire alle punizioni i più poveri si allontanavano dal loro paese. A proteggere questa
povera gente, in cambio di favori e denaro erano baroni, ricchi signori e monaci. La banda di Scalandrone,
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un vecchio contadino di Pietrapertosa, divenuto bandito, operava nella valle del Basento e nel monastero
dei Minori Osservanti di Pietrapertosa, attrezzato di
spezieria, dove spesso venivano curati i banditi feriti
nei boschi vicini; tra questi l’abate Cesare.
Nell’ottocento, durante il regno di G. Murat,
Pietrapertosa fu centro liberale governata da un consiglio comunale, un decurionato che corrisponde all’attuale Giunta Comunale e un Sindaco, tutti nominati
dal sovrano. L’ordine pubblico era affidato alla
Guardia Urbana, i cui membri
erano tutti di nomina regia.
Purtroppo l’idea liberale costò a
molte famiglie, tra cui quella dei
Torraca, con l’incendio delle case da
parte dei Sanfedisti del Cardinale
Ruffo. Partecipò sia ai moti carbonari del 1820 contro la restaurazione borbonica, sia all’insurrezione del
1848 contro Ferdinando II di
Borbone. Partecipò alla seconda
guerra d’Indipendenza e, il 17 settembre del 1859, come Castelmezzano, Tricarico, Pomarico ed altri
paesi, Pietrapertosa issò la bandiera
tricolore con la scritta “Viva la
Costituzione, Viva l’Italia”. Nel
1857 subì i danni di un forte terremoto. Nel 1860, nella brigata
Basilicata, fra i 789 lucani arruolati volontari nelle forze garibaldine al
comando del colonnello Clemente
Forti, molti i giovani pietrapertosani, e tra questi, Michele Torraca. Durante il periodo del
Brigantaggio, Pietrapertosa fu risparmiata dagli
attacchi delle bande di Crocco grazie alla protezione di
Michele Canosa, capo brigante di Pietrapertosa.
I primi anni del 1900 subì un forte spopolamento a
causa dell’emigrazione negli USA e della malaria che
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falciò la vita di tante persone, soprattutto giovani.
A questo si aggiunse una frana che travolse molte case
che si trovavano nella zona adiacente “l’orto della
corte” e, tra queste, il palazzo dei Belsani.
La prima grande guerra sottrasse a Pietrapertosa molti
giovani che persero la vita sul fronte e nelle trincee.
E la Seconda Guerra Mondiale non fu diversa dalla
precedente: prima soldati al fronte, poi prigionieri e
deportati in Germania infine dispersi in Russia. Tante
le vedove e gli orfani.
Nel dopoguerra, la “miseria nera” dovuta alla svalutazione, alla mancanza di lavoro e di cibo ed al sequestro dei prodotti agricoli da parte della polizia, costrinse nuovamente tanti giovani ad abbandonare il proprio
paese. Oggi, Pietrapertosa conta 1301 abitanti ed è
principalmente centro a vocazione turistica.
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Vista d’insieme
Siede, Pietrapertosa, con le sue case esposte al sole dal primo
mattino al tramonto infuocato, nell’alto anfiteatro creato
per lei da un Artista ineguagliabile, o per chi non crede da
madre natura, come una nobildonna di altri tempi nella
poltrona dall’alto schienale, là nella stanza più bella dell’avito palazzo da dove i suoi occhi potevano spaziare lontano
e l’anima creare orizzonti più vasti e cieli più tersi.
In questa posizione aristocratica, protetto dalle rocce, che lo
difendono dai venti del Nord, circondato dal Monte
Caperrino che lo inonda della sua purissima aria, il paese
più caratteristico dell’Appennino Lucano si offre con semplicità all’ammirazione di tutti senza nulla chiedere se non
rispetto per le sue cose e i suoi abitanti.
Qui l’antico e il moderno si fondono con discrezione. Non
grandi palazzi feudali, eccezione fatta per il Palazzo di
Federico II in Piazza Garibaldi, ora dimora di varie famiglie,
ma vecchie case signorili accanto a casette accoglienti a uno
o due piani; strade strette e tortuose e piccole piazze.
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Le Scalelle
Le scalelle sono un elemento ambientale importante per questa comunità,
riproducono un pezzo di
struttura urbanistica fondamentale, ma, ancora di
più, esemplificano lo spirito di questo paese e dei suoi
abitanti.
Si respira, percorrendo
queste gradinate scavate
nella roccia, la particolarità di questo borgo in cui
l’elemento naturale costituisce una sorta di nicchia
all’interno della quale
l’uomo si rifugia, vive la
sua vita.
Queste viuzze scavate nella roccia, questi gradini inseriti nella pietra non rappresentano la violenza dell’uomo sulla natura, ma, al contrario, il simbolo di una
coesistenza e l’espressione di un modo di vivere il proprio territorio che non può fare a meno della presenza
così massiccia della natura.
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Cappella del Purgatorio (XVII sec.)
In via Nazionale, una piccola cappella custodisce una scultura lignea del XVII secolo raffigurante
la Madonna col Bambino in braccio. L’esterno, semplice, presenta un
portale in pietra e, sopra, una finestra quadrata con una piccola
campana appesa. Fu costruita per
voto, da un esattore appartenente
alla famiglia Zottarelli. Ingiustamente incarcerato,
promise alla Madonna, che quando sarebbe stata riconosciuta la sua innocenza, avrebbe costruito una cappella in suffragio delle Anime del Purgatorio.
Non avevano né camino né finestre, ma un foro nel tetto fungeva da camino e da lucernario il cosidetto “cirnale”.
I muri in pietra erano senza intonaco e la copertura in lastre
di pietra. Erano sempre poste su un’alta scalinata d’accesso.
Di queste case resta solo qualcuna semiabbandonata; le
altre ristrutturate, conservano, tuttavia, l’alta scalinata e
presentano un aspetto quasi civettuolo, con le finestre fiorite che si affacciano sulle stradine ripide e tortuose e sui
minuscoli giardini.
Qui ancora si respira un’aria di mistero, capace di far
sognare e rivivere altri tempi, altre vite, altri modi di essere. Chi si accinge a visitare questo luogo, lo deve fare con
grande rispetto e un pizzico di sacrificio, ma ne varrà la
pena.
L’Arabata
Addossato alla parete rocciosa, nella parte più alta del paese,
ai piedi del Castello Normanno - Svevo, si adagia il rione
“Arabata” o “Rabata”. E’ la parte più caratteristica, antica
e suggestiva dell’abitato. Il suo nome risale agli antichi
dominatori arabi, che guidati dal Re Bomar, qui si annidarono nell’838 e ne fecero il loro fortilizio. Guerrieri, nomadi e Saraceni, costruirono ai piedi del Castello, le loro rozze
abitazioni, simili a veri e proprie fortezze. Avevano queste
una forma rettangolare, con due sole aperture praticate nei
lati più corti: la porta d’ingresso bassa e stretta e l’altra apertura che immetteva nell’Ostello, da cui si poteva fuggire in
caso di pericolo.
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La Cappella di San Cataldo
Ai piedi del castello Normanno-Svevo, è situata la
Cappella di San Cataldo, un piccolo edificio sacro del
XII secolo, costruito a mattoni rossi con tetto a capanna. Sulla facciata si apre un portale rettangolare in
muratura, sovrastato da un timpano. Sopra una piccola monofora circolare e altre due nicchie vuote
affiancano il timpano. Una vela campanaria alla sommità delle falde del tetto movimenta l’insieme.
All’interno è possibile ammirare un quadro della
“Madonna della Vita” incorniciato da un candelabro
in ferro battuto, posto su di un altare su mensola di pietra realizzato dallo scalpellino Antonio Nardi e i busti
di San Giacomo (patrono) e di San Cataldo (compatrono). La chiesetta si anima di canti e di preghiere il
10 maggio, giorno della festa di San Cataldo, quando
le statue dei due Santi vengono portate in processione
partendo dalla Chiesa Madre e il giorno dell’Ascensione quando ritornano, attraverso le ripide
stradine del rione Arabata, alla chiesa di partenza.
Al lato della cappella sta, sospesa su un grande precipizio, la “Pietra dell’Incudine” e dinanzi si allarga uno
spiazzo dove il popolo, credente e non, si ritrova a
festeggiare tra suoni d’organetto, canti di gioia e sgranocchiar di biscotti e nocelline. Non mancano gli squisiti “Miglitielli” caldi (involtini di fegato e polmone di
agnello). Bisogna proprio gustarli accompagnati da
un buon bicchier di vino!
San Cataldo è il protettore delle rocce e ha fatto sempre
sentire la potenza del suo patrocinio.
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Il Castello
Normanno - Svevo
Il castello Normanno - Svevo, che domina dall’alto delle
rocce il paese e le contrade, con un giro d’orizzonte infinito, conserva il ricordo di una regina: la grande Costanza
d’Altavilla, madre di Federico II.
Questo castello fu costruito dal principe Bomar, il quale
decise di stabilirvi la propria residenza.
Fu costruito in questa posizione perché lì si poteva dominare la valle del Basento.
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Fu una struttura difensiva intorno alla quale nacque un
nucleo urbano denominato Arabata.
Nei ruderi del castello, ancor oggi a distanza di secoli, si
ammira il “Trono della Regina” scavato nel sasso a cui si
accede per mezzo di una scaletta ripida, ma ben conservata, sul quale Costanza dovette assidersi, parlare e ricevere
i suoi fidi. Era un castello inespugnabile, posto là in alto
a simbolo di dominio e di potenza, di sicurezza e di sfida,
ma anche di protezione.
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Le mura diroccate, la porta, ancor conservata, nella sua
forma ad arco, i vari piani, la torretta, le feritoie, i posti di
guardia, i nascondigli, le celle dei prigionieri e su su il
“Piano della Campana” stanno a dimostrare l’intelligenza e l’astuzia di chi lo fece costruire: nemmeno il nemico più
accorto avrebbe potuto evitare né la vigilanza delle sentinelle, che dall’alto delle torri, vegliavano sull’incolumità
dei loro Signori e della loro grandezza, né l’offesa dei soldati, che combattevano con ogni mezzo, anche il più rudimentale, senza colpo fallire.
Il turista che giunge a Pietrapertosa e non sale sul Castello
si perde uno spettacolo di bellezza e di infinito, che è difficile immaginare.
Sempre il suo sguardo può spaziare su monti, boschi, nastri
argentei di torrenti e fiumi, colline, valli, che si alternano
e sovrappongono tutto intorno, ma nelle mattine serene
può cogliere lontano lontano il luccichio del Mar Ionio e
gustare l’ebbrezza di sentirsi proiettato tra terra e cielo.
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Il volo dell’Angelo
Il Volo dell’Angelo è un cavo d'acciaio sospeso tra le
vette di due paesi, Pietrapertosa e Castelmezzano.
E’ un attrattore di nuova concezione che permette una
fruizione innovativa del patrimonio ambientale
rispondendo ad una nuova esigenza e ad un nuovo
modo di intendere il tempo libero e lo svago, teso sempre
più a vivere nuove esperienze e a cercare nuove emozioni. Un'avventura a contatto con la natura e con un
paesaggio unico, alla scoperta della vera anima del territorio. Legati con tutta sicurezza da un'apposita
imbracatura e agganciati ad un cavo d'acciaio si potrà
provare per qualche minuto l'ebrezza del volo, una fantastica avventura, unica in Italia ma anche nel mondo
per la bellezza del paesaggio e per l'altezza massima di
sorvolo. Quello che si presenterà, infatti, sarà un pano-
rama che di norma è privilegio delle sole creature alate:
uccelli ed... angeli. Giunti nella zona d'arrivo del paese
di fronte, gli "angeli" torneranno con i piedi per terra
e, liberati dall'imbracatura potranno raggiungere il
centro del paese prima e la partenza dell'altra linea poi,
grazie ad una navetta. E a quel punto il sogno ricomincerà...sospesi tra cielo e terra.
Infatti l'ebbrezza del volo si potrà provare su due linee differenti il cui dislivello è rispettivamente di 118 e 130 m.
La prima, detta di San Martino che parte da
Pietrapertosa (quota di partenza 1020 m) e arriva a
Castelmezzano (quota di arrivo 859 m) dopo aver percorso 1415 m raggiungendo una velocità massima di
110 Km/h; la linea Peschiere, invece, permetterà di
lanciarsi da Castelmezzano (quota di partenza 1019
m) e arrivare a Pietrapertosa (quota di arrivo 888 m)
toccando i 120 Km/h su una distanza di 1452 metri!
www.volodellangelo.com
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Chiesa di
San Giacomo Maggiore
Il complesso ecclesiastico, antica fortezza medievale,
con probabilità Longobarda, sorge a Nord, sulla sommità del rilievo a dominio della valle sottostante.
Questo, dedicato a San Giacomo Maggiore all’incirca
nei sec. XI-XII, attualmente consta:
- della chiesa
- di un campanile di schema Romanico
- di una cripta sotterranea
Il complesso, anche se rimaneggiato, pare aver mantenuto le caratteristiche di un monumento Romanico.
Secondo la “Relazione
Torraca” del 1764, del
fondatore di questa chiesa non se ne trova documentazione, una probabile ipotesi la suppone
realizzata dalla famiglia
gentilizia Centomani
dalla presenza sul muro
della navata principale
di una mano scolpita,
forse simbolo della citata
famiglia.
Basandosi sul Racioppi,
che, all’epoca del Longobardo Principato di
Salerno, fosse una delle
tre fortificazioni della
cittadina; in seguito, al tempo dei Normanni, nei sec.
XI-XII, la fortezza divenne chiesa dedicata a San
Giacomo.
Sembra, come prima ipotesi, che sia stata realizzata a
pianta greca localizzata nell’attuale presbiterio,
costruito su roccia con l’abside.
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Nella trasformazione della chiesa in epoca Romanica,
l’antico battistero in pietra monolitica venne posto nella
prima cappella a destra della navata laterale, seguiva
la seconda cappella, detta della Cresima, la terza detta
del Crocifisso, allora adibita per il SS. Sacramento,
nella quarta vi era conservato un grande reliquario
con le reliquie dei santi, la quinta era dell’unzione degli
infermi, la sesta era dell’ordine sacro, mentre la settima
era la cappella del matrimonio.
Vi era un architrave in pietra sull’ingresso principale,
ora danneggiato dal terremoto del 1930, che recava l’iscrizione: “IOHANNES LEO DEFINA COMMUNIBUS SUMPTIBUS REFICIENDAM CURAVIT A.D. MDXX” (Giovanni Leone Defina a spese
comuni fece restaurare nell’anno 1520).
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Fu in questa occasione che la chiesa fu
trasformata nelle attuali dimensioni dall’arch. Jacopo da
Trifoggio.
Ancora dalla “Relazione Torraca” si
apprende che nell’abside della chiesa madre di Pietrapertosa, dietro l’altare maggiore, vi sono affreschi raffiguranti la Genesi
e scene tratte dalla vita di Gesù.
A seguito dei vari terremoti e soprattutto di quello del
23 novembre 1980, la cupola centrale con superiore
lanterna fu abbattuta. Resta l’immagine della cupola
originaria nel quadro del “miracolo dell’estinzione dell’incendio” della Chiesa Madre avvenuto dal 10 al 16
agosto 1630.
In seguito all’incendio, la chiesa fu modificata; venne
infatti, eliminata la navata minore sinistra e al suo
posto, costruito il campanile.
Nel 1940 la chiesa e il campanile sono stati consolidati.
Ulteriori lavori, in epoca successiva, hanno portato
alla luce vari capitelli di epoca Romanica e un fonte
battesimale; quest’ultimo di periodo alto-medievale è
completamente in pietra e costituisce un esempio naturale di bellezza.
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MADONNA DEL CARMINE
TRA I S.S. GIACOMO E LORENZO
(ignoto pittore locale) sec. XVII
La Madonna, sospesa tra le nuvole, incoronata da due
angeli, regge il Bambino che benedice i due Santi.
In basso a sinistra, San Giacomo con il suo bastone e il
Vangelo; sulla destra, San Lorenzo che porge un ramoscello di ulivo. Sotto, in piccolo, probabilmente, il committente in atto di devozione. In lontananza, un paesaggio montagnoso con al centro la Chiesa che purifica i peccatori.
È evidente, in questo dipinto, l’interesse della committenza locale per quella scuola di stampo naturalistico
che a Napoli vede i suoi epigoni, ma per lasciare il posto
allo straordinario intervento della scuola caravaggesca e quella di Luca Giordano.
Se recupero c’è stato nel rapporto con la cultura napoletana, esso non ha potuto prescindere dalle opere attribuite a Giovanni De Gregorio detto il Pietrafesa che,
nei primi anni
del sec. XVII,
sempre più si
conferma come
la personalità
artistica più
spiccata tra i
pittori lucani.
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DECOLLAZIONE DEL BATTISTA
Sec. XVII (dat. 1606)
Pietro Antonio Ferro
(attivo primi decenni sec. XVII)
In primo piano è la figura di Salomè recante un piatto
sul quale il boia depone la testa del Battista; il corpo di
quest’ultimo è disteso sul pavimento e dal suo collo fuoriesce un largo fiotto di sangue. In secondo piano è la
scena del banchetto: intorno ad una tavola siedono un
ricco cortigiano e consorte; ad essi un servo reca della
carne, un altro un fiasco di vino.
In basso è scritto:
OPUS PETRI ANTONI FERRO
PICTORIS A. 1606
m.ma.
L’opera è firmata da P. A. FERRO, pittore nato a
Tricarico ed attivo nel secolo XVII; della sua formazione, delle sue opere poco è dato sapere essendo gli studi
sull’argomento iniziati da breve tempo.
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MADONNA CON BAMBINO
E SS. GIOVANNI BATTISTA E FRANCESCO
Sec. XVII (dat. 1626) P. A. Ferro
La Madonna, sospesa tra le nuvole, incoronata da due
angeli, abbraccia il Bambino che affettuosamente le
porta la mano sotto il mento.
In basso a sinistra è San Giovanni Battista con una
verga; sulla destra è San Francesco con le braccia spalancate. In basso è uno stemma diviso in due campiture entro le quali sono dipinti due alberi.
Intorno alla verga di San Giovanni Battista è cartiglio
su cui è scritto: ECCE AGNUS DEI.
La tela è firmata dall’autore P. A. Ferro, pittore lucano
del quale, allo stato attuale degli studi, si conoscono
pochissimi elementi.
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MADONNA CON BAMBINO,
SANT’AGATA E SANT’APOLLONIA
Sec. XIX Ignoto pittore locale.
Al centro la Madonna abbraccia il Bambino; sulla
sinistra Sant’Agata, nelle vesti di cortigiana regge una
coppa contenente i suoi seni; dietro di lei è
Sant’Apollonia. Sulla destra in alto alcuni Angeli versano acqua da un’anfora su una città che in basso è
avvolta dalle fiamme.
In basso è scritto OB DEVOT.N.
VITI IZZO A.D. 1801.
Il quadro di non rilevante fattura, rivela nell’episodio
delle acque sulla città invasa dalle fiamme, un aspetto
devozionale la cui origine attualmente non è dato solo
conoscere nemmeno attraverso la tradizione orale dei
fedeli.
BUSTO - RELIQUARIO DI SAN GIACOMO
Fine del XVII sec. Ignoto intagliatore lucano.
Il Santo, con barba e
lunghi capelli, indossa
una veste con mantellina
color oro; sul petto si apre
la teca per le reliquie.
La scultura si differenzia dalle altre presenti
nella chiesa per staticità
ed essenzialità; si ipotizza, dunque, una fattura
diversa, di carattere più artigianale e più lontana dai
coevi modelli napoletani.
BUSTO - RELIQUARIO DI SAN CATALDO
Fine del XVII sec. Ignoto intagliatore lucano.
Il Santo, barbuto, con
mitra vescovile, è avvolto
in un grande piviale
color oro; poggia su base
quadrangolare pure in
legno recante uno stemma ormai illeggibile.
Sul suo petto si apre la
teca per reliquie.
Modesto prodotto di fattura originale eseguito
ad imitazione dei contemporanei esemplari
napoletani. Definito su modelli ancora arcaici, esso si
differenzia tra l’altro per sobrietà e linearità dagli altri
presenti nella chiesa.
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GESU’ MORTO
(seconda metà del XIX secolo)
La struttura ripropone un impianto proprio della produzione cartapestara; tale tecnica del resto risulta
applicata in alcune parti della statua (ad esempio il
lenzuolo) per ottenere effetti più morbidi.
SAN VITO
La statua sembra modellata su esemplari della scultura lignea napoletana del XVII secolo; pur presentando, infatti, caratteri alquanto critici nella definizione
del volto, la scultura è pervasa da una particolare
dinamicità, evidenziabile soprattutto nell’avanzamento delle gambe che non permette una datazione anteriore.
Al centro, in basso:
“HOC GENS CONSTRUERE FECIT U.I.D.
RAPHAEL TORRACA PRO SE TOTAQ SUIS
FAMILIA A.D. 1787”.
In quest’opera, più che in altre, Francesco Romano da
Laurenzana, sembra inserirsi nell’ambito del
Pietrafesa.
Pochissimi, se non esistenti, sono le notizie biografiche
raccolte su questo artista lucano del 600; possiamo solo
immaginare la presenza locale rispetto ad un percorso
mediato da influenze del barocco e neo-parmensi, ma
rinunciando ad un sentimento di intensa devozione,
che trova, già nei tratti icastici dei personaggi, una
compiuta espressione. L’opera fu restaurata per la
prima volta nel 1787 per opera della famiglia Torraca.
LA DEPOSIZIONE
[prima metà sec. XVII (1630?)
Francesco Romano da Laurenzana]
(attr. per iscriz.)
Il Cristo, deposto dalla Croce, è avvolto in un lenzuolo; con il capo reclinato sulla destra e le braccia ormai
inerti, viene sostenuto da San Pietro.
Ai suoi piedi, una donna gli cinge le gambe, e alla sua
destra, l’Addolorata, contrita e disperata, tiene le mani
giunte.
Tutt’intorno, una serie di personaggi variamente atteggiati in smorfie di dolore. Sullo sfondo, un paesaggio
montuoso con, in lontananza, una città con torri e campanili.
In basso, a destra:
“FRANCISCUS ANTONIUS ROMANO TERRÆ
LAURENTIANÆ PINXIT”
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I Portali
Percorrendo via Garibaldi non si può non fermarsi ad
osservare i portali di antiche case signorili: stanno a
ricordare scomparse nobiltà,
gusto per il bello e modo di vivere
dei secoli passati.
Sempre su via Garibaldi s’impongono all’attenzione del passante
l’Arco di Bastiano e l’Arco degli
Ettorre, un tempo porte di separazione tra un rione e l’altro.
La Cappella della
Madonna
del Rosario
Situata in via Garibaldi, in prossimità di piazza Plebiscito, apparteneva all’antica famiglia Verri
che aveva il palazzo di fronte; il
prospetto principale presenta un
portale cinquecentesco e una strana finestra a forma di fiore, unico
elemento decorativo dell’edificio.
All’interno è conservata una statua della Madonna del Rosario. Le corone della Madonna e del Bambino,
in argento, sono di fattura napoletana (XIX sec.). Una crocetta reliquiario del sec. XVIII fa parte del
corredo votivo della Madonna.
Cappella di San Rocco
E’ situata in via Garibaldi, sulla sommità di una gradinata. Facciata semplice con bel portale in pietra trabeato da una cornice lineare sulla quale, in asse, è posta
una finestra. L’interno, a impianto quadrato, si raccorda alla cupola decorata sui toni del celeste e del giallo. Conserva la statua di S.
Rocco. Sull’architrave del
portale appare l’iscrizione
A.D. MDCCCXLVII e il
nome della famiglia di appartenenza: Mona
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I fratelli Francesco
e Michele Torraca
Il monumento fu eretto nel 1968.
Il busto bronzeo é
opera del Piscitelli;
il basamento è stato progettato
e realizzato da uno
scalpellino artista
locale: Vito Nardi
Francesco Torraca
Francesco Torraca nacque il 18 febbraio 1853 a
Pietrapertosa e si trasferì a sedici anni, nel 1869, a
Napoli, dove risiedeva da tempo il fratello Michele,
pubblicista già affermato e animatore degli ambienti
culturali napoletani post-risorgimentali. Nato nel
1840, deputato dal 1886 in poi, Michele, allora direttore a Napoli della «Libertà», poi capo redattore del
«Pungolo», sarebbe stato chiamato il 31 marzo 1880 a
Roma a dirigere «Il Diritto» per il biennio 1880-1882.
In seguito allo scandalo Oblieght, passò alla direzione
della «Rassegna», divenuta quotidiano, e la conservò
fino al 1886; dal 15 dicembre 1888 al 12 marzo 1896
fu direttore dell’«Opinione», ribattezzata dal 1893
«L’Opinione liberale», infine redattore del «Corriere
della Sera».
Raggiunto a Napoli il fratello, Francesco abbandonò
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presto gli studi ingegneristici per seguire il magistero di
Luigi Settembrini prima e di Francesco De Sanctis poi:
da qui, dopo aver raccolto le lezioni del Maestro per i
giornali del tempo, si mise in contatto con la società
intellettuale del suo tempo, avvicinandosi, attraverso
D’Ancona e Carducci, a quella Scuola storica cui si
devono molti dei contributi successivi.
Non abbandonò la critica militante e da Roma, dove si
era trasferito insieme al fratello Michele, direttore di
importanti testate nazionali, «Il Diritto» e «La
Rassegna», continuò a recensire romanzi e saggi dei
suoi contemporanei, anche stranieri. Fu professore di
lettere all’Istituto Tecnico di Roma e, dopo il fallimento di un concorso universitario finito sulle pagine dei
giornali, Provveditore agli studi a Forlì, Ispettore e poi
Direttore generale del Ministero della Pubblica
Istruzione, Capo di Gabinetto del Ministro Emanuele
Gianturco, quando quello fu a capo della Minerva,
infine professore di Letteratura Comparata prima e di
Letteratura Italiana poi presso l’Università di Napoli.
Senatore del Regno, morì nella città partenopea nel
1938.
Anche se una parte del materiale è costituita da segnalazioni, auguri, telegrammi e messaggi di conferma o
rinvio d’un appuntamento, molte delle lettere inviate ai
fratelli Torraca – ma con un’attenta ricerca è possibile
ricostruire intere corrispondenze – ci restituiscono critici, letterati, scrittori e anche uomini di governo, oltre
che editori, funzionari ministeriali, pedagoghi, maestrine e allievi, intenti alle loro discussioni, ai loro lavori, ai confronti reciproci. Dei numerosissimi mittenti si
possono ipotizzare anche raggruppamenti distinti per
ambiti d’interesse o per orientamenti critici: dantisti;
studiosi di letteratura italiana dei primi secoli, filologi
romanzi e dialettologi ; storici; letterati, poeti, scrittori;
meridionalisti e politici meridionali; critici letterari e
accademici; editori; filosofi, e così via.
Ciò ci conduce dunque al nodo della questione: i fra39
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telli Torraca furono protagonisti e animatori del dibattito culturale e politico del ventennio che chiudeva
l’Ottocento, promuovendo, l’uno con un giornale
nazionale, «La Rassegna», l’altro con i suoi studi letterari, importanti innovazioni per la società intellettuale del loro tempo.
E Francesco, destinato a continuare la sua attività fino
agli Anni Trenta del Novecento, fu un critico e storico
della letteratura sempre attento ai dati, un letterato
consapevole della missione fondamentale per la scuola
del nuovo stato unitario, un liberale non di ultima
generazione: la piccola Elena Croce conservava intatto nella memoria il ritratto di Torraca, altero sostenitore dell’Unità d’Italia, ospite fisso della domenica nella
casa del filosofo assieme a Giustino Fortunato
Proprio nei primi anni del Novecento, Francesco
Torraca si dedica al commento della Commedia dantesca, che, scritto tra il 1902 e il 1907 ha conosciuto un
ininterrotto successo editoriale.
Tuttora in commercio, il commento è legato a una lettura storica delle singole parole e ha recato contributi
di notevole chiarificazione, alla critica dantesca: si
pensi, solo a titolo esemplificativo, alla questione del
sanguigno del V canto dell’Inferno, che dà modo a
Gianfranco Contini di apprezzare il rigore esegetico del
Maestro lucano.
La Chiesa del Convento di
San Francesco
La Chiesa di San Francesco sorge a ridosso del lato
occidentale dell’omonimo convento, fondato nel 1474
per volontà di Papa Sisto IV.
Alla facciata principale si addossa una sorta di pronao,
costruito nel XVII secolo che accoglie al piano superiore la cantoria con un coro ligneo del XIV e al piano
inferiore, due ambienti dalle volte a crociera affrescate
con motivi floreali, putti e immagini di Santi, dai quali
si accede alla chiesa. Questa consta di un’unica navata coperta da capriate lignee, terminante in un presbiterio a pianta quadrata, contrassegnato da un ampio
arco trionfale a sesto acuto e da un soffitto a crociera.
Bellissimo il campanile con gli spigoli rifiniti impugnati.
Maria Teresa Imbriani
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IL CHIOSTRO
Il complesso conventuale è organizzato intorno ad un
chiostro quadrato con al centro un pozzo fiancheggiato da colonnine lisce rastremate, con basi modanate e
capitelli. Dal deambulatorio, dove sono visibili parte
delle volte a crociera originariamente affrescate, una
gradinata assicurava l’accesso alle celle dei frati al
piano superiore.
MORTE DELLA MADONNA
E LA SUA ASSUNZIONE
(Dormito Virginia) Seconda metà sec. XV
Ambito locale con influssi napoletani
La Madonna, al centro e con le mani in atto di preghiera, mentre assurge in
cielo; ai lati, angeli intonano
gli inni con strumenti musicali; in basso, la Vergine nel
suo letto di morte tra San
Pietro e San Giovanni.
Al centro, lungo il cartiglio:
“ASSUNTA EST - IN - CÆLUM M-( )- AT-( )-A-( )-I-( )-OLIM- ( )DEN- ( )- ALLELUIA - BENEDICUNT DOMINUM”.
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VISIONE DI GESÙ A SANT’ANTONIO
(Giovanni De Gregorio detto il Pietrafesa)
datato 1631
La scena rappresenta l’apparizione del Bambino Gesù
a Sant’Antonio: il Santo, in ginocchio, vestito con la
tunica francescana, allarga le braccia all’apparizione
del Bambino; quest’ultimo è su di un libro poggiato sul
tavolo e accarezza il volto di Sant’Antonio.
Dalla porta socchiusa, una mano si staglia nel buio.
In basso, a sinistra:
PETRAFISIANUS PINGEBAT MDCXXXI.
Il Pietrafesa, elaborando un linguaggio abbastanza
articolato, qui denuncia accostamenti tra il
Parmigianino e il giovane Annibale Carracci. Una
grande abilità tecnica, con luci taglienti e piani sfaccettati, riportano il dipinto in consonanza sia con la
“Deposizione” nella Chiesa del Convento a Moliterno,
sia con la “Madonna e S.S. Giovanni e Carlo” nella
Chiesa di Santa Lucia ad Anzi.
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IMMACOLATA CONCEZIONE
Sec. XVII (dat. 1628)
Filiberto Guma de Vinegia
L’Immacolata, con capelli
fluenti che le scendono
lungo le spalle, veste una
tunica color bruno-marrone
e un mantello azzurro. Sul
capo, una corona e i piedi
calzati da sandali, poggiano
su una mezzaluna. Con le
braccia incrociate sul petto e
il capo reclinato sulla
destra, l’Immacolata è nell’atteggiamento di profondo
rapimento mistico. Ai lati
oggetti e scene, raffiguranti
simbologie liturgiche, devozionali e attributi specifici
dell’Immacolata Concezione.
In alto:
TOTA PULCHRA ES AMICA MEA ET MACULA NON
EST IN TE;
a sinistra:
ELECTA UT SOL - SCALA CÆLI - FLOS CAMPI SPECULUM SINE MACULA - QUASI PLANTATIO
ROS (aurum) QUASI OLIVAS PRETIOSAS - QUASI
CYPRESSUS - CIVITAS DEI - STELLA MARIS PUTEUS AQUARUM - ORTUS CONCLUSUS;
a destra:
PULCHRA UT LUNA - PORTA CÆLI- TEMPLUM
DEI - SICUT LILIA - QUASI CEDRUS - QUASI
PALMA - TURIS FORTIS - FONS SIGNATUS;
in basso a sinistra:
FILIBERTUS GUIMA DE VINEGIA (1628).
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Filiberto Guma, gravitante nell’orbita del Pietrafesa,
firma questo suo dipinto nel 1628. L’opera va inquadrata nei percorsi, nei temi, nelle problematiche e nelle
forme del tardo manierismo. L’impianto coloristico,
mediato da stampe è direttamente ereditato dalla scuola di Tiziano; le tonalità timbriche traslitterano decisamente dalla tavolozza veneta.
Certo l’artista è anche condizionato dall’utenza locale
che, con intendo esclusivamente devozionale, lo riporta a quelle riduzioni di bottega così tipica dell’arte lucana di questo periodo.
CROCIFISSO
Legno dipinto, metà del XVI - XVII secolo
L’opera è caratterizzata da una forte impronta realistica che lascia emergere le costole ed affiorare le vene; lo
stesso volto allungato in maniera così particolare,
allontana la figura da qualsiasi oggettivazione idealizzante.
ADDOLORATA E
SAN ROCCO
metà del XVII secolo,
pittore lucano
L’Addolorata, avvolta in un
rigonfio mantello celeste, lo
sguardo profondamente accorato rivolto verso l’alto, il
petto trafitto da un grosso
spadino, stringe le mani in atto di preghiera.
Il Santo, S. Rocco, veste abiti modesti di viandante,
volge lo sguardo verso l’alto e con la mano destra indica probabilmente la sua ferita.
In sommità testine di cherubini.
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GLI AFFRESCHI E IL POLITTICO
DI GIOVANNI LUCE DA EBOLI
Nel presbiterio, situato ad un
livello leggermente più alto
rispetto al resto della chiesa,
si affrontano due tabelloni
con storie tratte dal Nuovo
Testamento e dalla vita di
San Francesco, eseguiti nel
primo Cinquecento, da un
pittore che si firma Ioannis
Luce de Ebulo.
Questi, in un clima di calda
adesione ai modi del gotico internazionale, irrompe con
un linguaggio figurativo basato sulla semplicità lineare e sulla costruzione plastica e volumetrica della forma,
plasmata essenzialmente dal colore, dipingendo anche
il polittico (sul polittico sono raffigurati: l’Eterno
Padre, il Cristo di Pietà, l’Annunziata, i S.S. Giovanni
Battista e Francesco, i S.S. Giovanni Evangelista e
Antonio e i S.S. Bernardino e Pietro martire tra i quattro Santi martiri del Marocco) della stessa chiesa, in asse
con l’altare maggiore e i ritratti di Santi e Sante (S. Vito,
S. Silvestro, S. Elisabetta, S. Agata, S. Margherita, S.
Lucia, S. Maria Maddalena, S. Barbara, S. Apollonia,
S. Sofia, S. Eligio, S. Sebastiano) nell’intradosso dell’arco trionfale.
Gli affreschi, disposti sulle due pareti laterali del presbiterio, consistono in due
ordini - cimasa - di sequenze narrative e da una fascia
in basso con episodi e relative iscrizioni di commento,
della vita del Santo
d’Assisi, separati da lesene
con capitelli e cornici decorate a grottesche, consoni al
gusto dell’epoca.
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Sulla parete sinistra, in basso, è effigiato un autoritratto in miniatura del Pittore, raffigurato con lunga
barba e in atteggiamento di preghiera.
Sulla stessa parete si dispongono, a partire dall’alto, la
Natività, nell’ordine
inferiore l’Adorazione
dei Magi e la Presentazione al Tempio,
nel terzo ordine la
Resurrezione, la Discesa dello Spirito
Santo e l’Incoronazione della Vergine.
Sulla parete di destra trovano posto: in alto la preghiera di Gesù nell’orto, nell’ordine intermedio: la Cattura;
la Flagellazione e la Coronazione di Spine; nel registro
sottostante: la Salita di
Cristo al Calvario, la Crocifissione e la Deposizione.
La lettura delle scene neotestamentarie è, dunque, circolare: si parte dalla cimasa e
del primo registro della parete di sinistra, si leggono tutti
e tre gli ordini di quella di
destra e si giunge alle ultime tre scene dipinte sulla
parete di sinistra. La Natività, di cui è visibile soltanto un frammento, mostra il Bambino a terra, curiosamente semisdraiato su un fianco, due pastori dalle teste
abrase, inginocchiati presso di Lui e le teste del bue e
dell’asino, su uno sfondo verdeggiante.
Nell’ordine inferiore, il primo riquadro presenta
l’Adorazione dei Magi, sullo sfondo di una capanna
diroccata e di un paesaggio color verde chiaro a rocce
digradanti, Maria e Giuseppe accolgono i Magi che,
avvolti in eleganti abiti di foggia cinquecentesca, recano doni a Gesù.
Questi, con una manina regge una pisside mentre con
l’altra si protende ad accogliere un nuovo dono.
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La scena successiva, quella della Presentazione al
Tempio, si svolge all’interno di un edificio dalle forme
architettoniche rinascimentali.
Salomone, seduto su uno scranno all’interno di una
nicchia decorata con una superba conchiglia marmorea, tiene in piedi sulle ginocchia il Bambino, dal
corpo ben modellato, mentre Maria e Giuseppe, alla
sinistra del riquadro, pregano con le braccia incrociate sul petto e la profetessa Anna, avvolta in un bellissimo abito botticelliano di colore arancio, regge un
cestino contenente il cartiglio con la profezia.
In basso, nel riquadro con la Resurrezione, Cristo,
sullo sfondo di un paesaggio verde costituito da rocce
alternate ad alberi, si erge statuario nella sua seminudità sul sepolcro aperto, costituito da uno squadrato parallelepipedo marmoreo.
Ai suoi piedi gli armigeri, fasciati in pittoresche e
variopinte calzabrache a fasce verticali, siedono
scomposti attorno al sepolcro, ormai vinti dal sonno.
La rappresentazione è chiaramente improntata a criteri simmetrici e proporzionali: dietro il Cristo si eleva
un alto masso roccioso che accentua il verticalismo
della figura, a cui fanno da contraltare due alberelli
alle estremità del riquadro e gli armigeri ai piedi del
sepolcro. Nella scena successiva, dedicata alla
Discesa dello Spirito Santo, il gruppo degli undici
apostoli, avvolti in panneggi sontuosi ed eleganti,
dalle tinte calde e sgargianti, si dispone attorno alla
Madonna e volge lo sguardo stupefatto al cielo, in
direzione della nuvola in cui aleggia lo Spirito Santo.
Il terzo riquadro, in parte abraso, rappresenta
l’Incoronazione della Vergine, incorniciata da angeli festanti.
Al centro della composizione Cristo, avvolto in una
veste bianca coperta sulle ginocchia da un drappo
scarlatto, pone la corona sul capo di Maria, assistito
da musicisti variopinti, intenti a suonare diversi strumenti musicali.
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La prima scena che si dispiega sulla parete di destra è
quella in cui Gesù, genuflesso e avvolto in una candida veste dalle ampie pieghe, prega nell’Orto degli
Ulivi, mentre i discepoli, all’estremità sinistra, giacciono in terra addormentati, sullo sfondo del consueto paesaggio verdeggiante.
In basso, si susseguono le scene della Cattura di
Cristo, della Flagellazione e della Coronazione di
spine.
Nella prima Gesù, al centro della composizione con i
polsi legati, appare circondato da diverse persone, tra
le quali un centurione che lo trascina per la veste e
diversi altri personaggi che lo accompagnano; nel
secondo riquadro Cristo alla colonna, ripiegatosi su
se stesso, viene fustigato da tre sgherri dai corpi atletici, che si agitano in uno spazio rigorosamente
descritto e circoscritto da due archi a tutto sesto, dietro
cui stacca l’azzurro del cielo; nella terza scena, racchiusa in un enorme arco a tutto sesto, Gesù seduto su
uno scranno, con indosso un manto scarlatto, viene
incoronato con spine, mediante due lunghi bastoni,
tenuti da due personaggi in piedi, mentre altri due lo
insultano inginocchiandosi ai suoi piedi.
Nell’ordine sottostante domina il tema della Croce:
Gesù, con indosso tunica e gambali rossi, porta in
spalla la croce nella sua salita al calvario, mentre un
astante lo sbeffeggia, portando le mani alla bocca in
atteggiamento di scherno; di seguito, Gesù Crocifisso
si staglia sullo sfondo di un paesaggio la cui profondità è suggerita dalle diverse tonalità di colore e su cui
campeggiano in primo piano, al di sotto della Croce,
il soldato che porge a Gesù l’amaro intruglio a base di
fiele e un altro armigero a cavallo; la scena finale
vede Cristo deposto dalla Croce ad opera di figure che,
più che essere ritratte singolarmente, sono funzionali, nel loro vario disporsi, al drammatico svolgimento
della narrazione.
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La fascia, in basso, con gli episodi tratti dall’iconografia francescana mostra, a partire dalla parete di sinistra:
il crollo della chiesa, S. Francesco e il lupo, i Fraticelli e
la borsa dei denari, S. Francesco che parla agli uccelli,
il miracolo di Pomarico, la Cacciata dei demoni e continuando sulla parete di destra, l’annunzio e Nascita di S.
Francesco, S. Francesco che restaura la chiesa, S.
Francesco che rinuncia alle ricchezze, S. Francesco che
sposa la povertà. Nel primo riquadro è appena visibile,
a destra soltanto la chiesa che sta per crollare. Nel secondo, sullo sfondo di un paesaggio costituito da rupi e
massi, in presenza del popolo stupito e di un fraticello che
presenzia all’avvenimento, San Francesco si rivolge al
lupo che, mansueto, gli porge la zampa. Il terzo scomparto descrive l’episodio in cui i denari contenuti nella
borsa trovata da San Francesco si trasformano in serpenti non appena questa passa nelle mani del compagno.
Nel riquadro successivo, Francesco dall’alto di uno
squadrato baldacchino di legno, parla alle rondini
appollaiate su un albero, mentre il popolo assiste, seduto in platea, all’avvenimento. La scena seguente,
aggiuntiva rispetto a quelle dell’iconografia tradiziona-
50
le del Santo, narra il miracolo di Pomarico: una madre
seguita dalle popolane, reca, implorante, il corpo privo
di vita della sua bambina, affinché San Francesco,
radunato il popolo, scaccia i demoni. Questi raffigurati
sotto forma di piccole sagome nere dall’aspetto animalesco, si danno alla fuga, sopra la platea sgomenta degli
astanti.
La settima scena rappresenta la nascita di Francesco in
una stalla. Mentre il bimbo viene lavato in un catino
dalle ancelle, la
madre del piccolo
giace, avvolta nelle
coperte, in un letto
baldacchino. I due
riquadri successivi,
completamente illeggibili a causa di
un’abrasione sulla
parete, sono seguiti dall’episodio in cui Francesco,
avvolto ancora nelle ricche vesti da giovinotto, trasportano la calce e dispongono le pietre. Nella nona scena,
Francesco rinunzia ai beni terreni e appare nudo e genuflesso dinanzi al vescovo che, seduto su uno scranno con
indosso la mitria vescovile e una tunica bianca coperta da
un mantello rosso bordato da ricami preziosi, lo riveste
con il saio da frate. Assistono alla scena due spettatori,
forse il padre e la madre del Santo. L’ultimo riquadro
mostra san Francesco che prende per mano una donna
scalza e vestita di stracci,
ma bellissima, simboleggiante la povertà.
Sempre nel presbiterio due
lastre sepolcrali di ignoto
scultore locale (XV sec.)
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MADONNA DI MONFERRATO
TRA I S. S. IGNAZIO DI LOJOLA
E FRANCESCO SAVERIO
(ignoto pittore locale) sec. XVII
(firmata da Antonello Palombo di Chiaromonte)
La Madonna, sospesa tra le nuvole, abbraccia il
Bambino con la mano sinistra e con la destra sorregge la
Bibbia; ai suoi lati, una schiera di angeli e putti. In
basso, a sinistra, Sant’Ignazio di Lojola che sorregge il
libro della regola del suo ordine (Gesuiti); sulla destra
San Francesco Saverio con le mani chiuse portate al
petto. In lontananza, Pietrapertosa o “Turres” come era
chiamata anticamente, rappresenta in basso dalla grande torre, da un lago e dalle alpestri rupi.
L’opera, databile intorno alla prima metà del sec. XVII,
è un chiaro esempio di pittura
lucana colta, non rimandabile direttamente al sentimento
religioso o al semplice filone
della tradizione popolare.
È qui ben definito un rapporto tra la pittura pittorica
regionale e quella della scuola
napoletana sia nei tempi della
figurazione (Sant’Ignazio e
San Francesco Saverio con la
Madonna del Monferrato)
che presuppongono una cultura “altra” dal mero ambito localistico, sia proprio nella lezione luministica caravaggesca della scuola napoletana.
MADONNA DEL ROSARIO CON I 15 MISTERI
(Ignoto pittore locale) sec. XVII
La Madonna del Santo Rosario, attorniata da angeli e
putti, regge il Bambino sulle ginocchia; veste una tunica bruna con mantello azzurro. Ai lati, una serie di
medaglioni dipinti svolgono la rappresentazione dei 15
52
misteri (dolorosi, gaudiosi,
gloriosi) del Santo Rosario.
Motivi floreali intercalano e
scandiscono tutta la composizione.
L’opera, pur recuperando
schematismi popolari quali il
racconto per giustapposizione, non è priva di un’evidente
interesse della committenza
locale verso quegli aspetti
naturalistici e di “maniera
internazionale” rintracciabili
a Napoli soprattutto nelle opere di Pietro da Cortona. Il
dipinto restaurato ha subito un taglio nella parte inferiore e oggi poggia su una tavola di abete che integra il
vuoto e la cornice. Altresì, il quadro copre l’affresco della
Madonna del Mistero del XVI secolo.
MADONNA CON BAMBINO E SAN GIOVANNI
BATTISTA E SAN GIOVANNI EVANGELISTA
Prima metà del sec. XVI
Maestro del 400 di scuola umbro-marchigiana
Attribuita di recente a Nicola di Novasiri
Tutta la composizione, a forma centinata, racchiusa in
una cornice anch’essa affrescata,
rappresenta la Madonna con
Bambino tra San Giovanni
Battista e San Giovanni
Evangelista.
La Madonna, seduta su
un trono, regge sulle
ginocchia il Bambino e
con lo sguardo rivolto
verso sinistra, posa la
mano destra sul capo di
San Giovanni Ev.; veste
una tunica marrone con
sopra un mantello azzurro
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bordato di bruno. San Giovanni B. regge nella mano
destra un cartiglio.
Elegante nella linea sottile, a metà strada tra il disegno
e il contrapporto luministico, questo maestro non è privo
di una certa forza espressionistica. Certo, questa miniaturizzazione della forma, congiunta a stilemi di stampo
popolare, fa sì che il dipinto possa ascriversi nella prima
metà del ‘500, quando, attraverso la mediazione ubromarchigiana, l’arte pittorica in Lucania è ancora legata al gotico internazionale ovvero al tardo gotico.
MADONNA DEL ROSARIO CON I 15 MISTERI
TRA SANTA CATERINA E SAN DOMENICO
Seconda metà sec. XV
(Ignoto pittore locale)
La Madonna, con le braccia spalancate, regge in entrambe le mani il
rosario; veste una tunica rossa
con il mantello azzurro e sul
capo una corona. Sulle ginocchia il Bambino benedice con la
mano destra. In basso, a sinistra, San Domenico da Guzman,
con le mani giunte, veste l’abito
del suo ordine. A destra, Santa
Caterina da Siena, anch’essa in atto di
devozione con le mani giunte. Intorno, le scene dei 15
misteri: dolorosi, gaudiosi, gloriosi inscritti in piccoli
medaglioni e intercalati da motivi floreali.
Persistono stilemi di scuola bizantina nel disegno sottile
e lineare, ma è già avvenuto il grande “paesaggio” plastico accompagnato da tutta la ridondanza del movimento.
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Il piccolo Calvario
Il piccolo Calvario Francescano
(1474), una colonna di pietra
sormontata da una croce annerita dai secoli, si eleva su una scalinata scavata nel masso roccioso.
Il monumento ai caduti
della Prima Guerra Mondiale
Il Monumento ai Caduti della Guerra 1915 - 1918 fu
fatto innalzare dai Pietrapertosani residenti in America, su progetto di un illustre
compaesano, l’ingegnere Camillo Sacco, in
memoria dei soldati caduti sui campi del
Carso, dell’Isonzo, del Tagliamento, di
Caporetto. Alla sommità della stele, sulle
cui facce sono incisi i nomi dei Caduti,
un’aquila reale ad ali spiegate, simbolo
della vittoria, sta a dire a tutti che la libertà è scaturita dalla morte e perciò va
difesa sempre: essa deve librarsi alta
nei cieli degli spiriti nobili.
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“Cappella di Santa Maria di Valle
d’Orso” o “Dell’Abbazia”
Una Chiesetta che sa di miracolo
Dove oggi sorge “la Cappella della Madonna
dell’Abbazia” come la definiscono i pietrapertosani, un
tempo c’era un monastero dove i monaci Benedettini
attuavano in pieno il loro “ora et labora” e rendevano
feconde quelle terre. Questi monaci, colti e laboriosi,
rimasero ad Abbazia fino al 1506 quando Papa Giulio
II soppresse il monastero, poi sparirono. I secoli trasformarono il monastero in ruderi: dell’antica grandiosità
rimasero solo una cappella e una statua della Madonna
Assunta.
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LA PRIMA RICOSTRUZIONE
Nel 1934 la cappella era un rudere e la statua era ospitata nella Chiesa Madre: qualcuno nel luogo sacro rinchiudeva buoi e maiali. Una signora, tale Maria
Vernucci, detta “la ciriglianese”, perché nativa di
Cirigliano, sognò per tre notti di seguito la Madonna:
“va’ dal Cantore Fortunato e digli che voglio essere ricostruita la Cappella dalla famiglia Iula, specialmente da
Antonio Iula, che per tanto tempo vi ha rinchiuso buoi e
maiali. La trave maestra dovrà darla Raffaella
Pantone. Carmeluzza “a Santarella” mi offrirà i suoi
gioielli da sposa e tu mi farai la tovaglia più bella”.
La signora si tormentò
per qualche giorno, poi
si recò dagli interessati e
riferì il messaggio.
I cugini Iula, confortati
dal consenso dell’Arciprete Fortunato, si posero all’opera.
La moglie di Antonio Iula chiese ai muratori e manovali del paese una giornata di lavoro gratis e ai parenti il
necessario per la colazione e il pranzo dei lavoratori.
Tutti, anche gli amici, offrirono quel che potevano.
La Pantone negò il castagno per la trave maestra (e, cosa
strana, il giorno seguente le cadde l’asino vicino alla
pianta e morì). Il Commendatore Giacomo Racana,
uomo devoto alla Madonna, donò la trave con gioia.
Il 15 agosto del 1934, la statua, restaurata e ingioiellata, della Madonna Assunta ritornò solennemente alla
sua casa.
Da quel giorno l’ultima Domenica
di maggio l’effigie viene portata in
processione su al paese e il 15 agosto riportata ad Abbazia. Quel
giorno la valle si riempie di vita e
di gioia: si prega, si canta, si consuma il pranzo a sacco, si chiacchiera tra amici, ci si scambia un
bicchier di vino o una tazzina di
caffè conservata nel termos: ci si sente fratelli e amici e
la Grande Signora gode tra i suoi figli e li benedice.
LA SECONDA RICOSTRUZIONE
Una nuova sciagura si abbattè sulla Cappella: il terremoto
del 1980 la rese inagibile.
Dopo varie peripezie e molte incomprensioni, dei giovani
volenterosi, discendenti delle famiglie Iula o ad esse congiunti, Egidio Morano e Antonio Mazza si sono posti all’opera: la Cappella è completa, ora ha un nuovo splendore e
la Madonna regna Padrona sulle loro terre.
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“Passeggiata letteraria”
Piatti, feste e tradizioni
Per gli amanti della natura, della campagna, della montagna, degli sport all’aria aperta, specialmente del trekking, vi è la “passeggiata letteraria”.
Il percorso, di circa 2 Km, è il frutto del recupero e del
ripristino del vecchio tratturo di collegamento fra i centri abitati di Pietrapertosa e Castelmezzano, lungo il
quale, viene raccontata una storia fantastica che ripercorre e traspone in “lirica” alcune credenze popolari.
La passeggiata può essere effettuata partendo, indifferentemente da Pietrapertosa o Castelmezzano. Partendo
da una quota di m 920 (Pietrapertosa) la pista scende
fino a quota m 660, punto in cui attraversa il torrente
Caperrino, per risalire poi verso Castelmezzano a quota
770 metri.
I tempi di percorrenza medi possono variare dai 45 ai 60
minuti.
Questo percorso che ha per lungo tempo rappresentato
l’unica via di collegamento tra i due centri abitati, oggi
racconta il legame storico tra i due paesi e costituisce un
forte richiamo alla cultura e alle tradizioni dei due abitati.
Rimangono ancora vive nella nostra comunità antiche
tradizioni che ci riportano ai tempi lontani, quando i
nostri antenati attendevano le festività religiose e profane per poter evadere dal quotidiano, spesso grigio, infatti un proverbio recitava: “Vù sciat acchian feste, maltiemp e fristier a la casa” per dire che in queste occasioni
era possibile riposarsi e mangiare un po’ meglio.
L’ultimo giorno di Carnevale sono d’obbligo le orecchiette e i fusilli, conditi con il sugo della salsiccia, e la rafanata: una torta salata dal sapore forte che una volta
gustata si fa desiderare.
Ingredienti
Uova n° 5, Formaggio q. b., Rafano
(una radice), Olio o strutto e sale q. b..
Sbattere le uova come per la frittata,
aggiungere il rafano grattugiato, il formaggio e il sale, amalgamare bene il tutto. L’impasto
deve avere una consistenza più densa di quella della
frittata. Versare la rafanata in una teglia in cui si è
messo un po’ di olio o di strutto e cuocere in forno a
calore moderato.
La Domenica delle Palme su tutte le tavole troneggiano
i cavatelli con la mollica: un piatto della civiltà contadina, composto di pasta fatta in casa e condita con mollica di pane fritta e noci tritate.
Ingredienti
Per la pasta: farina g 500, acqua calda
q. b., per il condimento: mollica di pane
raffermo g 250, noci tritate g 200, olio 1
bicchiere circa, sale q.b.
Mettere sulla spianatoia la farina a fontana e impastarla con l’acqua calda. Lavorare l’impasto fino a rag58
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giungere una consistenza morbida e liscia. Stendere
dei cordoncini del diametro di 1 cm circa, tagliarli a
tocchetti lunghi 3-4 cm infarinarli per bene e cavarli
con quattro dita. In una teglia porre l’olio, farlo riscaldare e mettere a dorare la mollica. Togliere la mollica
dal fuoco, aggiungere il tritato di noci e salare. Cuocere
i cavatelli in abbondante acqua salata per 5 minuti.
Scolarli e condirli in una zuppiera con il preparato di
mollica di pane.
A Pasqua “il pasticcio”, sembra il trionfo della vita e
della gioia dopo la tristezza della Settimana Santa. È
questo una pizza rustica fatta con uova, ricotta, formaggio fresco e salame. Le signore del posto lo preparano con molta attenzione: deve essere perfetto e di buon
auspicio.
Ingredienti
Per la pasta: Farina g 500,Uova n° 5,
strutto 1 bicchiere, sale q. b., per il ripieno: uova fresche n° 4, formaggio grattugiato g 100, ricotta g 500, prezzemolo, pepe, sale q. b., toma tagliata a fettine g 500, uova sode tagliate a fettine n° 4, soppressata e
salame g 200.
Disporre la farina a fontana sulla spianatoia, versarvi le
uova, lo strutto e il sale. Impastare a lungo fino a quando la pasta diventa lucida e morbida. Preparare il ripieno mescolando la ricotta, il formaggio, le quattro uova
fresche, il prezzemolo, il pepe e il sale fino ad ottenere
un impasto consistente e morbido. Riprendere la pasta
e con il mattarello ricavare due dischi dello spessore di
1/2 cm circa. Stendere su un disco il preparato di ricotta, formaggio ed uova; su questo fare uno strato di uova
sode tagliate, uno di salame e infine uno di toma; spargere un pochino di sale e di pepe. Ricoprire con l’altro
disco di pasta; chiudere bene i bordi; lucidare con un
tuorlo d’uovo sbattuto, punzecchiare con una forchetta e cuocere in forno a 250 gradi. Ritirare il pasticcio
quando ha assunto il colore dorato di un biscotto.
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Santa Lucia (13 dicembre) porta la Cuccia un misto di grano,
ceci, fave, granoni lessati e consumati conditi con sale. È un
piatto risalente alla notte dei tempi e molto rispettato anche
nella nostra era.
Ingredienti
Grano Kg 1, ceci g 300, cicerchie g 100,
granoni g 100, acqua q.b., sale q.b. e
fave g 300.
Porre a bagno i legumi, per almeno 36 ore, in acqua tiepida, cambiando quest’ultima ogni 12 ore. Nell’ultimo
bagno aggiungere un pugnetto di sale. Quando i legumi saranno gonfi, sciacquarli bene e metterli a cuocere
a fuoco moderato. Dopo un po’cambiare l’acqua, sostituendola con altra in ebollizione per non fermare la
cottura. Salare la cuccia e consumarla ben cotta e calda
senza l’aggiunta di condimento. Una gentile usanza,
sorta negli ultimi anni, vuole che, la sera di Santa Lucia,
dei ragazzi di buona volontà preparino una grande caldaia di cuccia, la portino in piazza e dopo averla cotta
su un bel fuoco a legna, la offrono a tutti i presenti.
Il Natale non può passare senza gustare le “Scrippelle” le
“Fazzemole” e i “Cauznciell”, squisiti dolci che da sempre
fanno la gioia di piccoli e grandi. C’è gioia nelle case quando
le signore preparano queste squisitezze: l’olio borbotta allegro
nelle teglie, la pasta si gonfia e i piccoli si rimpinzano.
Ingredienti
Farina Kg 1, lievito naturale, g 25,
acqua calda q. b., sale q. b., abbondante olio di oliva.
Disporre a fontana sulla spianatoia la farina (quella
usata per il pane), aggiungere il lievito sciolto in acqua
tiepida e sale. Impastare energicamente aggiungendo
pian piano l’acqua calda. Quando la pasta è liscia e più
morbida di quella adoperata per il pane, porla in una
terrina e farla lievitare coperta in un luogo caldo.
Raggiunta la giusta lievitazione, staccare con le dita,
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bagnate di olio, tocchetti di pasta, farne delle ciambelline e porle a friggere in abbondante olio bollente.
Appena gonfie e dorate ritirarle. Le scrippelle si possono consumare calde o fredde zuccherate e non. Sono
fritture prettamente natalizie.
LA FESTA DI
SANT’ANTONIO
“IL MASCIO”
La pastorale si cucina nelle feste campestri e si consuma
accompagnata da un buon vinello paesano.
E’ un gustoso piatto a base di carne di caprettone o di agnellone condito con cipolla, sedano, prezzemolo, patate, carote,
pomodoro e …peperoncino. Il tutto cotto in caldaia di rame sul
fuoco a legna. Vien fuori un ottimo consoumè adatto al palato degli intenditori.
La festa di Sant’Antonio coincide con la festa del “Mascio”,
non è quella del Santo Patrono,
ma è la festa più caratteristica e
ricca di fascino.
Ingredienti
Carne di caprettone o di agnellone Kg
1, patate n° 1-2, pomodoro n° 1-2, un
bel gambo di sedano, un ciuffetto di
prezzemolo, carota gialla n° 1, peperoncino piccante n° 1 e sale q.b..
Mettere in una pentola la carne, coprirla di acqua e
porla sul fuoco. Appena inizia l’ebollizione schiumarla
e aggiungere tutti gli altri ingredienti. Far cuocere a
fuoco lento fino a quando la carne diventa morbida e il
brodo un ottimo consoumè. Nelle feste campestri, la
pastorale viene cotta (come facevano i nostri avi) in caldaia di rame e su fuoco a legna. È ottima servita con un
buon vino paesano. Per i buon gustai è un piatto da leccarsi le dita!
La salsiccia e la soppressata, insaccati di carne suina, riportano sulle nostre tavole il gusto genuino di un tempo che fu e il profumo di cose sane.
Un piatto da assaggiare assolutamente è manate e fagioli: una
minestra della civiltà contadina molto usata nel passato recente, durante i lavori di mietitura e trebbiatura ed ora divenuta
una ricercata prelibatezza, anche perché “le manate” richiedono particolare capacità di lavorazione. Ottimi anche “lagane e
ceci” e “lagane e lenticchie”.
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La domenica successiva al 13
giugno come devozione a S. Antonio di Padova si celebra la festa del Mascio, un rito che si ripete da decenni.
Infatti, ancora oggi, la gente similmente a quella di ieri
riproduce questo culto arboreo se pur mutato nel significato e nella funzione. La festa del “Mascio” è articolata
in tre fasi che segnano i momenti principali della complessa azione scenicocerimoniale.
Nella prima fase viene
abbattuto un cerro,
albero ad alto fusto,
precedentemente individuato e riconosciuto
re del bosco.
Nella seconda fase è
abbattuto un altro albero: un agrifoglio, scelto tra quelli più ricchi di rami e di foglie, detto Cima: la regina del
bosco.
Il giorno dell’abbattimento e del trasporto della Cima ha
luogo, contemporaneamente, anche il
trasporto dell’albero
che, nel frattempo, è
gia stato privato dei
rami e scortecciato. Il
cerro o il “Maggio”,
è trascinato da diver-
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se pariglie di buoi;
mentre la Cima è
portata in paese
con la chioma poggiata sul giogo di
due giovani vacche.
Il trasporto processionale dei due
alberi è , senza dubbio, la fase più spettacolare e coinvolgente e consente a chiunque di aderire, con una
buona dose di partecipazione, alle varie azioni e alle tensioni che il trasporto stesso genera.
La terza fase si realizza in paese, dove i due alberi sono
trionfalmente introdotti ed accolti con grande gioia,
espressa da concerti bandistici ed offerta di vino e biscotti a tutti i presenti.
Il giorno successivo al trasporto, il Maggio e la Cima
vengono innestati uno all’altra, quasi a simboleggiare
una sorta di matrimonio tra le due piante.
In mattinata si svolge la parte più propriamente religioso-cristiana della processione della statua di S. Antonio
per le vie principali del paese. L’ultima tappa della statua è dinanzi il Convento di S. Francesco.
Nel frattempo il Maggio inizia ad essere eretto con tecniche che impiegano lavoro fisico, nella fattispecie con le
funi. Il pomeriggio, infine, ha luogo la fase conclusiva
con lo sparo e la scalata.
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FESTIVAL DELLE DOLOMITI LUCANE
Tra lo spettacolare
scenario delle Piccole Dolomiti Lucane nasce nel ’98,
l’associazione musicale “I Suoni delle
Dolomiti”.
L’associazione, raccogliendo giovani
del posto, unendo passione per la musica e promozione
territoriale, ha dato vita all’attuale Complesso
Bandistico “Città di Pietrapertosa”. Ma, l’associazione
è andata oltre le sonorità stesse della banda, facendosi
promotrice di una crescita artistica di qualità. “La
banda può e deve adeguare il proprio repertorio alle
nuove esigenze di pubblico, senza tralasciare le proprie
origini, deve rivedere il proprio modo di fare spettacolo,
nonché innescare un’apertura ed una continua ricerca
verso nuove esperienze.” Questo veniva scritto dal direttore artistico della banda, il M° Pino Melfi, nel 2004,
sulla locandina della seconda edizione del Festival delle
Dolomiti. Questa, una perfetta sintesi di un progetto
musicale la cui ideazione ha significato master di formazione e incisioni di tre dischi, in cui giovani “ bandisti” hanno avuto la possibilità di scoprire un mondo
totalmente nuovo: l’eccellenza di musicisti di grande
fama: Javier Girotto, Emanuele Cisi, Nico Gori,
Stefano Novelli, Ronald van Spaendonck, Massimo
Bartoletti, Mike Applebaum e tanti altri.
La costanza di questo progetto musicale ha significato e
significa promozione territoriale. Sì certo, il beneficio
più grande è dei ragazzi dell’Ass. musicale “I Suoni
delle Dolomiti”, perché crescere con la musica è il viaggio più profittevole che si possa avere, sotto ogni aspetto,
perché non c’è valorizzazione più forte di una rivalutazione portata avanti da giovani che fanno musica.
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SULLE TRACCE DEGLI ARABI
È una manifestazione entrata a
pieno titolo nell’annovero delle
tradizioni pietrapertosane.
Il 10 agosto, Pietrapertosa
ricorda i suoi dominatori, che
giunti su quest’altura si difendevano ed attaccavano. Il Rione
Arabata, così, si dipinge di suoni,
musiche e colori, di stand gastronomici, mercatini ed harem. Un
modo originale per rivivere altri
tempi e per riscoprire un senso positivo di appartenenza; un modo originale per vivere una magica atmosfera.
“Se vuoi far tua un’esperienza la devi vivere a pieno...
...Apri la porta dell’Arabata, segui le luci d’Oriente,
assapora pietanze arabe respirando essenze, osservando tipicità e danzando ritmi travolgenti.
Solo così potrai dire di aver vissuto Sulle tracce degli Arabi.”
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COMMEMORAZIONE DEI DEFUNTI
Una gentile usanza che non accenna a morire è quella
del 2 novembre, giorno in cui i vivi e i morti sono in mesta
comunione. I credenti, sin dal mattino si recano in chiesa per portare un po’ di grano “per i morti”, perché tutti
- dicevano i nostri vecchi - devono mettersi a tavola. In
realtà, è l’offerta per il sacerdote che celebra la messa in
suffragio delle anime.
I FUOCHI NATALIZI
Passano, di casa in casa, i ragazzi durante la novena di
Natale:” N’ dacit na leun p GS’ Crist? (Ci date una
legna per Gesù Cristo?) e nessuno nega loro una legna
che servirà per i grandi falò costruiti nelle piazze e negli
slarghi la notte di Natale, perché il Piccino possa riscaldarsi e dimenticare, forse, il freddo della notte. Intorno
a questi falò, si canta e si ride: quelli che si divertono di
più sono i ragazzi. Nelle case si lasciano le luci e il fuoco
accesi, perché la Madonna deve fermarsi ad asciugare i
pannucci del Bambino.
IL MATRIMONIO
Di tradizionale in un matrimonio sono rimasti:
1) Il corteo nuziale che si svolge a piedi, quale che sia la
distanza, dalla casa della sposa fino in chiesa è preceduto dal fotografo e da una folta schiera di bambini,
pronti a raccogliere le manciate di confetti beneauguranti che vengono lanciati agli sposi. La sposa, al
braccio del padre avanza lentamente fra due legioni
di curiosi che vogliono vedere e criticare la “zita” e gli
abiti degli invitati. Seguono lo sposo al
braccio della suocera e
dietro di loro, tutti
gli invitati a
due a due.
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2) “La serenata” che lo sposo e gli amici portano alla
sposa la sera prima del matrimonio. Nella prima
fase la sposa, in compagnia dei parenti più stretti, in
casa, a porta chiusa, ascolta commossa le melodie
eseguite a suon di organetto. Nella seconda fase, il
papà della sposa apre la porta ed invita tutti ad
entrare per brindare e ballare.
3) “Il letto della sposa”, la cui preparazione da parte
della “comara d’anello” e di alcune amiche della
sposa, qualche giorno prima del matrimonio, diventa un rito. Ognuna si dà da fare per sistemare lenzuola e coperte nel modo più preciso possibile, ma,
spesso, non mancano gli scherzi: le lenzuola fatte a
sacco, dove è semplice entrare, ma difficile uscire
oppure il letto cosparso di zucchero che costringe gli
sposi ad alzarsi per rifarlo, altrimenti prude.
Numeri utili
Associazione Pro Loco . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3208337801
tel./fax 0971983529
Carabinieri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 0971983001
Corpo Forestale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 0971983055
Guardia Medica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 0971983283
Farmacia. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 0971983087
Biglietteria “Volo dell’Angelo” . . . . . . . . . . . . . . . . 0971983110
Autolinee “F.lli Renna” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 0971983094
Guide turistiche . . . . . . Canosa Mariapia . . . . . . . . 3395869343
Carbonella Giacomo . . . . 3495619535
Mona Adalgisa . . . . . . . . . . 3489359953
Istituto Comprensivo di Pietrapertosa . . . . . . . 0971983030
Comune di Pietrapertosa
Cap. 85010 - Tel. / Fax 0971 983052
www.comune.pietrapertosa.pz.it
Abitanti 1301 (Cens. 2001)
Altezza 1.088 s.l.m.
Estensione 67,24 kmq
L’UCCISIONE DEL MAIALE
L’uccisione del maiale è l’occasione per vedere unita l’intera famiglia.
Un esperto, con sistema primordiale, “scanna” il maiale e la padrona di casa raccoglie in un recipiente il sangue, che servirà per fare il sanguinaccio. Per evitare che
coauguli , viene aggiunto un po’ di zucchero e mescolato con le mani o con un mestolo di legno. Segue la pulitura con acqua bollente e coltelli affilati. Per una notte
il maiale rimane appeso al “Cap’ péd’” (sostegno triangolare in legno) e l’indomani viene sezionato e lavorato.
Particolare e suggestiva l’esposizione alla finestra della
testa pulita del maiale con una grossa arancia in bocca.
Appuntamenti
Ultimo giorno di Carnevale
10 Maggio
13 Giugno
Domenica succesiva
al 13 Giugno
Luglio
25 Luglio
10 Agosto
15 Agosto
Domenica dopo il 16 Agosto
Ottobre
1ª settimana di Ottobre
13 Dicembre
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Dicembre
Sfilata di Carnevale e
“Sagra della rafanata”
Festa di San Cataldo
Taglio del “Mascio”
Festa di Sant’Antonio “Il Mascio”
Festival delle Dolomiti Lucane
Festa del Santo Patrono: “San Giacomo”
Manifestazione:
“Sulle tracce degli Arabi”
Madonna dell’Abbazia
Festa di San Rocco
Sagra dei sapori d’autunno
Festa di San Francesco
Festa di Santa Lucia con
“Sagra della cuccìa”
Manifestazioni natalizie
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Dove mangiare... dove
dormire... e non solo!
Zamby’s Bar
di Zambelli Sopalù Rocco V.
Largo Garibaldi, 116
PIETRAPERTOSA
Le Costellazioni
borgoalbergo
in pietrapertosa
Via della Stazione, 1 - Pietrapertosa (Pz)
tel./fax (+39) 0971.983035 - cell. 3477950276
e-mail: [email protected] • www.borghidibasilicata.eu
Rosticceria - Pasticceria
Pizzeria da Asporto - Biscottificio
Da Anna
& Antò
Via Nazionale, 8 - Tel. 0971 983528
Cell. 339 878 62 59 - 85010 Pietrapertosa (Pz)
AUTOLINEE VIAGGI TURISMO
S EDE L EGALE: Via Stazione, 5 - Pietrapertosa
Tel./Fax 0971.983094
SEDE OPERATIVA: C.da Bucaletto, 98 - Potenza
Tel. 0971.471636 Fax 0971.479461
E-mail: [email protected] • www.fratellirenna.it
La Bottega del Borgo
di Laraia Raffaella
vendita prodotti tipici e souvenir
70
Via Michele Torraca, 2 - Cell: 3471068261
PIETRAPERTOSA (PZ)
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Bibliografia
• Guida al Medio Basento - Comunità Montana
Medio - Basento, Ardesia, 1989
• “Le Dolomiti Lucane – Pietrapertosa” realizzato da
Pro Loco Pietrapertosana, Grafiche Miglionico,
2003
• Enciclopedia dei Comuni della Basilicata con
guida storico - turistica
• Scritti vari di Don Oreste Ettorre
• Archivio Comunale
Sitografia
www.comune.pietrapertosa.pz.it
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