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John Carlins L’impresa padronale Il confine tra successo e incompetenza Armando editore Sommario Premessa 9 Introduzione 13 La differenza tra impresa di mercato, familiare e padronale 25 26 27 31 Impresa di mercato Impresa familiare Impresa padronale Il significato sociale e sociologico della figura dell’imprenditore: la guida in un mondo incerto 36 La critica svolta agli imprenditori nasce dal confronto tra quanto osservato e studiato e un grande esempio: Enrico Mattei 39 La fabbrica ha ancora un senso nel mondo occidentale? 43 I grandi studi sull’imprenditoria 44 45 47 48 51 54 55 Karl Marx e lo sviluppo critico del suo pensiero in Vilfredo Pareto Joseph Schumpeter Max Weber Richard Sennett Robert D. Putnam Edward C. Banfield I figli dell’imprenditore in posizione di manager: la moratoria psicosociale 57 La gioventù come fase a sé stante della vita Prima si parlava di generazione ora di coorte Una parentesi: quando ci si blocca intorno a un concetto. La sociologia ferma per 150 anni sullo studio delle classi sociali e annesse conflittualità Il consumo come arma sociale Il concetto di generazione-coorte L’età della stupidità Come reagire riprendendo continuità nella trasmissione di valori tra generazioni? Il ruolo della donna nella società nel corso dei secoli 65 65 66 67 68 71 73 75 Il caso dell’impresa edile Lombarda 77 Il caso dell’impresa del mobile Veneta 78 Il caso dell’impresa di zootecnia Veneta 79 Il caso dell’imprenditore-intellettuale friulano 80 Il caso della cartiera nel Lazio 82 Il caso della commerciale inox in Sicilia 82 Il senso di questi case history in negativo: incapacità di riconoscere fiducia e ingratitudine verso i collaboratori. Peccati mortali nella società della comunicazione 83 Sveglia signori! Le aziende di pet in Italia: un esempio tra i tanti possibili nei diversi settori merceologici Una premessa antipatica ma necessaria Cose da non fare ma accadute – esempi Quanto sono tirati i liguri! (è solo una battuta ma neppure tanto astratta) Le strette visuali dell’imprenditore L’azienda che riceve solo mezzo email L’azienda padronale che ha solo familiari ai vertici Sì è vero ha problemi comportamentali ma consegue risultati sul mercato Considerazioni sull’industria in genere 85 85 87 87 89 91 91 92 94 Le pre-condizioni necessarie alla stesura di un piano di marketing 97 Quello che un’impresa familiare e padronale non capirà mai 118 Il rinnovamento necessario 125 Il vero rischio che corre la democrazia con una disoccupazione eccessiva 128 Il caso italiano: storia di un’anomalia 131 Studio di un caso: quando un direttore commerciale maltratta (senza motivo) un candidato. Arroganza, stupidità o entrambe? Ecco troppo spesso a chi sono affidate le imprese, contraddicendo sia il codice etico che il ruolo sociale che l’azienda dovrebbe ricoprire. In pratica diventano un ostacolo allo sviluppo del Paese 132 Conclusioni: non esiste un imprenditore semi analfabeta, oppure sotto delirio d’onnipotenza, come anche incapace di riconoscere la crisi della sua azienda. Esiste un italiano malato 143 Questo è il senso del libro 145 Perché essere così duri verso la classe imprenditoriale padronale? 146 Le ricette 149 a) La ricetta per formare un nuovo imprenditore di cui l’Italia ha bisogno b) La responsabilità della Confindustria verso una classe imprenditoriale che non sa ancora comunicare Bibliografia 149 152 157 Premessa Questo non è un libro denuncia, al contrario contiene un appello: non lasciamo che l’industria familiare padronale italiana, venga travolta delle nuove necessità del mercato e scompaia, comportando nuova disoccupazione e depauperamento sociale quanto economico nel tessuto vivo del Paese. “Il padrone” in azienda è un bene nazionale: un benefattore per mille piccoli paesotti della provincia italiana. Nel suo essere padronale, in quanto capo dell’azienda familiare l’imprenditore di questo tipo non è in grado di capire oltre la sua presunzione. Soffre senza sapere di preciso quali siano i suoi limiti, scontrandosi con quelle inderogabili necessità d’adeguamento al mercato globale, a partire dalla gestione del fattore umano, inteso sia come clienti che dipendenti. Il pensiero corre a un’impresa di un paese della provincia di Treviso dove l’imprenditore, pur lasciando limitato spazio alla figlia quarantenne nella gestione dell’azienda, (quasi sotto tutela) non è disposto a riconoscere l’imminente fallimento. Quest’ostinazione non consente all’impresa sia di ricevere gratuitamente fondi comunitari per la ristrutturazione e il rilancio, che l’intervento di uno specialista, in grado di risollevare l’attività come già fatto in altre realtà della zona. A Napoli si dice “ciuccio e presuntuoso”. Purtroppo l’incapacità e incredulità nel prendere atto della propria situazione, è uno dei principali limiti dell’azienda padronale italiana. Rincarando la dose con un altro esempio, il ricordo corre a quell’impresa, nella stessa zona, attiva nella costruzione di lampadari. Da anni in costante contrazione di fatturato e personale, è diretta da una signora che ha ereditato dalla famiglia l’attività. Essendo nota a tutta la parente9 la la non felice situazione aziendale, viene invitato un aziendalista di Milano a intervenire gratuitamente per salvare quanto resta. Il professionista telefona alla Signora presentandosi e trasmette un’email dove spiega cosa normalmente svolge e i risultati ottenuti nella stessa area geografica. A questa email non ci sarà mai una risposta, tanto è l’incredulità e l’arroganza dell’imprenditrice nel non credere che stia fallendo. Complessivamente si tratta di “brava gente” ma dalle visuali così limitate, da non essere in grado di dirigere un’attività complessa, come oggi è diventata un’impresa! Per quanto riguarda il concetto di fattore umano, che qui è inteso nella sua duplice asserzione: cliente/dipendenti, si tratta della vera scoperta, nella cultura aziendale, dagli anni 2015 in poi. Il cliente è diventato crudele e selettivo nella scelta del prodotto e il dipendente, sempre più un potenziale umano dotato di personalità in grado d’offrire creatività e spirito d’iniziativa o di vendicarsi, a seconda di come viene trattato. Il combinato disposto di clienti e dipendenti, sono in grado di schiacciare qualsiasi attività imprenditoriale, grazie anche all’amplificazione dei loro umori tramite il social network. Nel rapporto umano, l’impresa padronale è clamorosamente deficitaria. Un imprenditore di una grande impresa di divani del Veneto afferma: m’interessa assumere apprendisti che formo nel primo anno affinché proseguano nella stessa mansione nei 39 successivi, prima d’andare in pensione. Questa frase è del 2014 in un’azienda che ha 55 anni di storia, ma ancora non ha capito nulla di come gestire il personale, nonostante abbia oltre 100 dipendenti senza un direttore del personale! L’arroganza dell’imprenditore familiare nel collocare figli e famigliari in posti di responsabilità, limita e tarpa ogni reale possibilità di successo, nonostante i successi siano ancora numerosi e conseguiti su tutti i mercati del mondo. Perdere l’impresa padronale sarebbe un danno al Paese, al contrario va aiutata e ristrutturata per adeguarsi alle nuove necessità del mercato. Nel dettaglio, per sopravvivere, servono ingegneri e manager che crescano con l’attività. 10 Incapace di relazionare adeguatamente con le persone, il “padrone” (affettuosamente così indicato) è spesso arrogante e presuntuoso, a volte anche analfabeta (incapace di creare pensiero nuovo). L’impresa padronale è forte del suo passato in un presente e futuro che richiede nuove regole. 11 Introduzione Il titolo “Impresa padronale” è da considerarsi onomatopeico nel senso che se ogni impresa nel mondo ha un proprietario, il significato che qui si vuole intendere è riferito a qualcosa di limitato nelle visuali, non potendo andare oltre al mero utilizzo dell’impresa come retrobottega familiare. Ecco dove viene identificato il “padrone”. Si tratta di un soggetto, che colloca i familiari di ogni rango all’interno dell’azienda, non per merito o capacità, ma per il solo fatto che deve sistemare la famiglia. Un meccanismo di lottizzazione degli incarichi di responsabilità tra familiari, non è detto che non funzioni (la stragrande maggioranza delle imprese italiane è in queste condizioni) ma certamente espone maggiormente alla crisi e al fallimento, nel confronto con le altre realtà industriali. Perseguendo un simile comportamento di lottizzazione familiare nell’impresa, l’imprenditore manca di rispetto sia alle maestranze, che alle necessità d’arricchimento della sua stessa famiglia, quindi al Paese dove si colloca geograficamente e allo Stato Nazionale. Ecco che l’impresa padronale, come qui intesa, tradisce il senso puro d’imprenditoria, pur ricalcandone le orme, per assumere le funzioni di un negozio a conduzione familiare. Chi è il vero imprenditore? Oltre quanto indicato nel Codice Civile, è da considerarsi Capitano d’industria quella persona che “partorisce” una creatura dotata o no di personalità giuridica, per collocare sul mercato un’idea in termini di prodotti e servizi, lavorando nell’interesse dell’impresa, di ciò che rappresenta e di chi ne fa parte. Che la famiglia dell’imprenditore ne abbia un beneficio è una 13 naturale conseguenza ma non lo scopo primo del suo agire. Sembra una differenza sottile ma non lo è. Come verrà spesso descritto in questo libro, collocare ad esempio, nella funzione di Direttore commerciale la figlia del proprietario benché laureata in economia (nel migliore delle ipotesi) espone l’azienda a visioni limitate con occasionali e anche continui successi. Nonostante ciò l’intera funzione dirigenziale è nel migliore dei casi viziata da chi non ha più nulla da perdere, godendo di una sicurezza immeritata. Si tratta di personaggi che non studiano più (oltre il dovuto per il “pezzo di carta”) non creano ulteriore pensiero, non si raffrontano in forme creative con idee e tendenze, perché il loro posto di lavoro non verrà mai messo in discussione e questa sicurezza annebbia la capacità di vedere, pensare, capire, proporre. Si potrebbe obiettare che il cancro che logora le PMI padronali italiane non sia dovuto ai familiari presenti in posizione di vertice, ma alla loro inamovibilità. Questo è vero. Basterebbe stabilire anche per loro lo stesso rischio sul posto di lavoro degli altri, per ottenere un equilibrio? No, non basta. È raro che le famiglie imprenditoriali, oltre a qualificare i propri figli in un circuito scolastico completo, gli inviino anche all’estero o in altre realtà per anni, dove formarsi in carattere e mentalità, rientrando in attività verso i 40 anni d’età o i 10-15 di formazione esterna, apportando idee e cultura aziendale. Questo sarebbe un degno figlio/figlia di un Capitano d’industria in grado di subentrare, nei successivi anni del passaggio generazionale, garantendo continuità lavorativa alle maestranze. L’azienda, quando nasce, in realtà non è più del proprietario o dei suoi figli. Impresa e figli appartengono a loro stessi, quindi sono della Comunità e della Società nazionale, pur ricevendo continui input dalla famiglia che li ha generati. Per analogia, l’azienda ha una sua vita, che diventa sociale nel momento in cui distribuisce reddito e ricchezza. Ecco il nuovo livello di maturità che non si riesce a raggiungere in generale e specificatamente in Italia, dove mentalmente il padrone è quel personaggio che quotidianamente vuole essere ringraziato per l’opportunità concessa al dipendente/operaio di poter lavorare, incurante del contri14 buto offerto in cambio. Questo passaggio verrà ripreso più volte nel libro, perché è centrale nella vecchia mentalità dell’imprenditoria padronale, ancora ben radicata nelle PMI italiane. Da quest’assenza di coscienza da parte dell’imprenditore, chiuso nella sua arroganza e visuali ridotte, deriva quella marea di fallimenti che ha colpito l’Italia dal 2009 a oggi e una disoccupazione record, capace di porre in discussione la stessa democrazia come forma di governo. Il pensiero ritorna a quelle due aziende della provincia di Treviso già descritte nella premessa. In realtà, per essere corretti e completi, la disoccupazione italiana è principalmente frutto dei processi di delocalizzazione produttiva. Su questo aspetto c’è stata una selvaggia corsa al profitto da parte della classe imprenditoriale per re-importare i prodotti realizzati all’estero, godendo di costi del personale irrisori. Il confronto è nell’ordine di 26 euro/ora in Europa contro i 2 della Cina prima che iniziassero a salire anche in quell’area del mondo. Il guaio è che la società occidentale non può comprare se non lavora, per cui, privata di posti di lavoro ha dovuto ridurre i consumi interni conducendo al collasso il sistema produttivo nazionale sia de localizzato che non. Su questa critica all’attuale dottrina economica che ci ha condotto alla crisi in Occidente, merita una riflessione il pentimento del sociologo Richard Sennett. A pag. 11 del libro La cultura del nuovo capitalismo, Sennett dichiara: “avevo trascurato il ruolo del consumo in economia”. Caspita! Se questi sono stati gli strateghi della globalizzazione, ora è chiaro perché il sistema non funziona. Non ci voleva una grande fantasia per comprendere che il meccanismo non avrebbe rispettato le promesse. Di fronte al fallimento della globalizzazione si pone rimedio con i processi di reshoring (rientro in Patria delle imprese precedentemente delocalizzate). È triste constatare come il governo, in Italia, non si sia neppure posto il problema disconoscendo l’intero argomento. Al contrario sia gli Stati Uniti (dal febbraio 2012) e più recentemente i britannici dal 2014 hanno introdotto procedure di reshoring iniziando a ridurre il tasso di disoccupazione. Ecco dove manca lo Stato. Quando poi questo Stato, a visuali ridotte, incide su una classe imprenditoriale “padronale” struttural15 mente limitata, la somma delle insensibilità diventa così enorme da rendere il sistema economico nazionale assimilabile a una jungla! Dal binomio: una classe politica impreparata e una categoria diffusa d’imprese padronali, nasce buona parte dell’anomalia italiana, strutturata su una serie di colpi di Stato in bianco. Non ultimo un presidente del consiglio dei ministri privo di legittimazione popolare, in quanto non eletto da nessuno se non sindaco di una città minore d’Italia. L’Italia esprime una serie di anomalie tanto discusse negli anni ma mai risolte. Tornando al problema per cui questo studio esiste, come fare per rilanciare l’impresa padronale? Max Weber (uno dei fondatori della sociologia) insegna: non esiste un problema che non abbia almeno una soluzione (criteri di metodenstreit) pertanto l’analisi non è nel capire se ci siano ipotesi per gestire il problema, ma quali applicare. Quella che questo libro propone, per rilanciare le imprese, chiama in causa lo Stato (pur essendo in epoca globalizzata) esortandolo ad agire attraverso la leva fiscale. Si potrebbe graduare la tassazione d’impresa da zero al valore attualmente in uso, a seconda di come l’azienda sia strutturata. Ad esempio, ci sono imprese nel nord est italiano che contano fino a 134 dipendenti con 13 milioni di euro di fatturato che vogliono caparbiamente restare nella forma giuridica di “società di persone” o più specificatamente “società semplici”, per evitare che si sappia “in giro” quanto guadagna il proprietario. Il ragionamento si può estendere alle cooperative che in realtà sono società commerciali camuffate per non pagare le tasse. Anche queste, da un livello in poi di fatturato, non è corretto che beneficino ulteriormente degli importanti sconti fiscali previsti. È nota la polemica tra il proprietario del marchio “Esselunga”, il Signor Bernardo Caprotti, che dichiara di pagare le tasse e la Coop (quella orientata politicamente) che, indipendentemente dal giro d’affari e persone coinvolte, non paga il volume adeguato di fiscalità che dovrebbe al pari di altre società, semplicemente perché protetta dalla forma societaria di tipo cooperativo. In pratica società identiche, ma una paga le tasse, l’altra no. Come si nota, esiste un “buco” nella stessa normativa fiscale d’impresa italiana, più preoccupata di proteggere ideologicamente un gruppo politico d’impresa 16 ben identificato, anziché assicurare un’oggettiva logica fiscale valida per tutti. Comunque, assodato come ci siano ampie lacune di faziosità nell’applicazione del diritto fiscale in Italia, rendendo difficile l’identificazione di un interlocutore affidabile, sarebbe saggio che non pagassero le tasse (in quanto di rilevante interesse pubblico) quelle imprese “vere” che abbiano le seguenti caratteristiche: – strutturate con manager non d’estrazione familiare, oppure se anche fossero legati al proprietario e alla sua famiglia, che abbiano almeno un iter formativo compatibile a quello di un normale manager e in più possano contare su esperienze lavorative in Italia e all’estero, presso altre aziende non controllate dalla famiglia, in ruoli in crescita verso la posizione successivamente ricoperta in Italia. Insomma abbiano un curriculum; – che esista un rapporto tra manager e maestranze che non sia inferiore alle 25 unità; – che l’azienda non sia di persone ma di capitali. Ciò sarebbe possibile a patto che venga riformato il diritto d’impresa per rendere obbligatoria una formula societaria di capitali al di sopra, ad esempio, del milione di euro o del miliardo se riferito alle lire (non è scontato che la moneta “euro” possa sopravvivere alle sue contraddizioni) e che questo valga per qualsiasi tipo di società, azzerando la copertura su cui le cooperative e fondazioni hanno fino ad ora goduto nell’esenzione dal pagamento delle tasse; – che il management d’impresa rediga annualmente un piano di marketing (la cui forma sia libera) e che un estratto sia consegnato in banca unitamente al bilancio; – che al di sopra le 75 unità lavorative sia indispensabile un direttore del personale; – che al di sopra dei 2 milioni di euro/4 miliardi di lire, sia indispensabile un direttore commerciale, un direttore di marketing, un responsabile della qualità, un direttore di produzione e che questi manager abbiano i titoli effettivi per i loro compiti, quindi ingegneri in produzione e qualità e i connessi studi per le altre specializzazioni. Inoltre è importante che questi personaggi non siano dei prestanome o ancora e peggio familiari 17 del titolare, solitamente privi di un idoneo curriculum al pari di qualsiasi altro manager; – a questo punto rispettando queste e altre condizioni, il pagamento delle tasse sull’utile aziendale potrebbe essere annullato confermando pari trattamento a tutte quelle imprese private che superano i 5.000 dipendenti, riconoscendo loro un valore sociale, quindi un interesse collettivo. In questa maniera, oltre a favorire con i processi di reshoring (rientro in patria d’aziende già fuoriuscite per effetti di delocalizzazione) si spingono le grandi società a investire in Italia a beneficio della collettività (con annessi posti di lavoro). Solo la politica fiscale (rinsavita dagli sbandamenti descritti e chissà quanti altri ancora) sarebbe in grado di correggere un difetto di concezione nella PMI padronale italiana. Lasciare tutto così com’è, vuol dire permanere in una fragilità imprenditoriale strutturale, dove a fervide menti e iniziativa d’impresa dei nostri industriali, gli obblighi familiari hanno il potere di ridurre tutto in acqua o sabbia, scolando dalle mani dell’ingegnosità delle nostre persone migliori. Questo perché, correggendo il tiro adottato sino ad ora, l’Italia deve molto (se non tutto) all’impresa padronale. In assenza d’imprese padronali, oggi il nostro Paese sarebbe equivalente a quelli reduci dal blocco dell’est europeo, sottoposti ai diversi regimi comunisti o nel migliore dei casi a quanto oggi presente in genere nei Paesi balcanici. Sarebbe sano e corretto che ogni paese, soprattutto del nord italiano, dove l’impresa padronale è più fitta, sia eretta una statua a ricordo, onore e memoria all’imprenditore locale, grazie al quale tanti figli, oggi adulti, sono nati e cresciuti. Disconoscere questo merito alla classe imprenditoriale sarebbe una barbarie e un torto che non merita nessuno. Nonostante ciò, se molto si deve a chi ha sfamato l’Italia, le PMI, oggi non sono più adeguate. Spesso, in un’apatia di fondo o reale incapacità, non vogliono o sanno emergere a ruoli più completi e competitivi. Ne consegue che l’impresa padronale italiana, nella sua sostanza, sprofonda o nella crisi più nera (i suicidi si concentrano dove mancano i manager) o in una gestione arrogante utilizzando 18 incoscientemente la paura sui dipendenti, come metodo di lavoro. Tutto questo convive, in piena contraddizione, con reali successi sul mercato per il “made in Italy”. Si profila così un immane spreco di risorse umane ridotte a comparse e di potenzialità di mercato non espresse. Nel momento in cui il fattore umano dovesse avere un valore in bilancio, quasi tutte le PMI padronali italiane, andrebbero automaticamente in rosso, risparmiando, in questo modo sulle tasse, ma aprendosi a un’emorragia di cervelli e persone, per cui resta solo chi non ha altre scelte o non ha più ragioni per mettersi in gioco: in pratica non le persone migliori. Così si chiude il cerchio: cattiva gestione, basso profilo nel fattore umano comunque “maltrattato”, proiezioni mediocri sulla lunga durata delle aziende che colgono indubbiamente successi sul mercato, ma senza porli a sistema. Infatti le case e i grandi nomi vengono acquistati da altre società che iniziano subito quella ristrutturazione mai svolta nel passato, che sarebbe stata necessaria. In effetti un argomento di sicuro interesse è esplorare dove si colloca il confine tra la modestia e spesso ignoranza dell’attuale classe imprenditoriale padronale italiana e il successo, comunque conseguito. Questo è un ragionamento appassionante. Ho visto degli imprenditori, oggi alla soglia della pensione, entrati in azienda a 14 anni seguendo le orme paterne, che sono praticamente degli analfabeti, in grado però di condurre un’impresa complessa al successo, garantendo stipendi e paga a tutti e anche extra busta. Ovviamente il loro tratto con il personale è pietoso, ma la capacità di comprendere il come e il quando entrare sul mercato resta eccelsa. Sulla base di questo esempio, particolarmente diffuso nell’impresa padronale italiana, si deve dedurre che il successo non richiede formazione e cultura? Dall’altro lato conosco un imprenditore-intellettuale, letteralmente raggirato e defenestrato dalla sua stessa azienda che aveva creato, dove il suo commercialista di fiducia, amico da sempre, l’ha tradito, contribuendo al suo isolamento. Due casi diversi che lasciano pensare che negli affari serva solo “fiuto” e non cultura. Come interpretarli? 19 Ancora un terzo. Un ex contadino, quindi anche operaio che negli anni fonda un’azienda oggi leader nel settore, ha distribuito tutti gli incarichi di dirigenza ai suoi giovanissimi figli e nipoti. Si configura così una realtà con due volti: un disastro nella gestione del personale e un successo sul mercato, garantendo decenni di reddito. A questo punto la confusione appare totale e trarne una logica è difficile. Un quarto caso è di quell’imprenditore con 15 dipendenti, attivo nel settore della componentistica in rubinetteria nell’omonimo distretto a nord di Novara. Francamente quale sia la differenza tra lui e i suoi operai non è mai stato molto chiaro a parte l’alzare la voce verso il personale dipendente, appunto come un padrone. Questo capo d’azienda ha adottato un sistema di lavoro “alla cinese” del genere “lavora, lavora e lavora, con margini ridottissimi” trovandosi quindi sempre al pelo tra l’essere sommerso dai costi di produzione da pagare e impegni d’assicurare per restare a galla. Nel cassetto ha, da oltre un decennio, un sogno: un rubinetto che grazie ad aria compressa e a un labirinto di sua ideazione, erogherebbe più acqua rispetto gli altri, utilizzandone di meno. Non ne ha fatto nulla. L’idea è rimasta nel mondo di quelle possibili, senza neppure richiedere l’assistenza di un consulente per realizzare quanto non è stato capace di portare avanti. Questo imprenditore è rimasto povero. In Lombardia, un impero edile, gestito anche questo in forma padronale da un padrone vero e proprio (nel senso peggiore) si è sciolto lasciando tutti i suoi oltre 60 dipendenti a casa, semplicemente perché ha svuotato l’azienda italiana di ben 25 milioni d’euro, costruendo un villaggio nel Golfo di Guinea, a sua volta venduto a una società britannica, il cui introito è stato trattenuto, estero su estero, dalla famiglia di proprietà. In sede di fallimento nessuno ha osato dire nulla sia per paura, ma soprattutto perché tutti i posti di responsabilità erano in mano alla famiglia, basandosi su persone assolutamente non qualificate al ruolo, se non per giocare a calcio. Gli esempi possono continuare all’infinito, compresa quella figlia di proprietario, nel ruolo di responsabile di marketing in una grande azienda, che all’ingresso del consulente, discutendo sullo stato dell’impresa, s’inalbera pretendendo rispetto, anziché entrare nel merito dell’assenza di un piano di marketing, del mansionario e 20 dell’organigramma, oltre a una più completa politica della sicurezza. Appositamente, in questo caso, è stato usato “il rispetto alla storia dell’impresa” per non affrontare la responsabilità nel non aver fatto quanto necessario, aldilà degli ultimi 56 anni di vita imprenditoriale. Questo è un atteggiamento tipico degli imprenditori padronali. Si tratta della stessa società già citata che nasconde la redditività attraverso una forma societaria non adeguata al fatturato e numero di dipendenti, nonostante la legge consenta quest’abuso. In realtà ci sono anche altri aspetti. Parenti o figli dei fondatori, tra loro non si fidano, imponendo per questo l’unanimità delle decisioni come sistema di controllo. Anche quest’aspetto è drammaticamente presente nelle imprese familiari e padronali costituendo un danno all’attività, perché, tra l’altro, allunga enormemente i tempi di reazione alle istantanee necessità imposte dal mercato. È chiaro che un’impresa così destrutturata, benché importante nel panorama nazionale, deve necessariamente essere dotata di un organigramma, di un piano di marketing, della contabilità industriale, di una politica del personale etc. Nella confusione voluta o feudi di potere strenuamente e arrogantemente detenuti, si conserva il potere nella divisione diffidente tra ruoli. Mai, in realtà di questo tipo ci sarà un direttore generale o un amministratore delegato, perché imporrebbe delle linee di condotta che nessuno vuole seguire perché deprivato della sua fetta di controllo e influenza sugli altri. È stallo dinamico, in quanto comunque gli atti aziendali vengono compiuti. Strutture di questo tipo sono destinate a non avere altri 56 anni di vita, perché lente nella decisione, troppo legate alle persone (quelle della famiglia di proprietà) irriguardose delle maestranze da sfruttare (è presente un 35% di personale non nazionale di cui diversi assolutamente analfabeti, assunti da oltre vent’anni, in un’impresa che ha svolto corsi di sicurezza senza accertarsi che il personale abbia capito) con prodotti esteticamente validi, ma senza un futuro, perché realizzati con materie prime altamente tossiche. Ovviamente la ricerca & sviluppo, in quest’azienda non è presente come realtà. Mancano “le menti”, manager e ingegneri. Al contrario il resto sono solo “gente pratica”, incapace d’andare oltre il fare perché non 21 preparati a pensare. Si conferma ancora, da questo caso di studio e altri descritti, come “i padroni” pretendano sempre rispetto, peccato che troppo spesso sia solo una richiesta senza i contenuti adeguati. E questa gente, così limitata e arrogante, dovrebbe gestire il benessere degli italiani? Come conciliare un esercito di presuntuosi con le regole di guida necessarie a un’impresa moderna, che vuole restare sul mercato e che include sia la trasparenza che un buon rapporto con le maestranze tra i suoi “must”, creando in questo modo “pensiero nuovo e idee”? Possibile che a simili personaggi sia andata sempre bene pur essendo sostanzialmente analfabeti? Qui serve capirsi. In questo contesto, per analfabeta, non si intende chi non sa leggere e scrivere (come gli operai extracomunitari prima indicati) ma chi ha smesso di pensare nell’arroganza della sicurezza e agiatezza (e qui il riferimento è soprattutto ai familiari del capo aziendale). In riferimento all’imprenditore, si intende colui/lei che pur avendo (è raro) un pezzo di carta del tipo laurea, spesso solo triennale, non ha più letto nulla dai tempi dell’università. Forse ascolta la TV, ma non legge o appena sfoglia il quotidiano (nel migliore dei casi e raramente quello economico) non legge libri e forse al massimo qualche romanzo, ha smesso di produrre idee pur avendo in mano il benessere di decine e decine di dipendenti, ignari d’essere guidati da gente che non ha la patente pur essendo dei bravi “praticoni”. Ecco un’altra parola magica dell’impresa padronale: praticamente! Oltre a pretendere rispetto, l’impresa padronale è “pratica” perché è incapace di seguire un discorso completo e complesso. Che cosa ce ne facciamo di questa gente, in epoca globalizzata, pur subendo i loro fallimenti, perdendo il nostro posto di lavoro, oppure assistendo ai loro successi senza capire come facciano? Per rispondere serve guardare alle grandi evoluzioni del mondo produttivo come metodo d’arricchimento; da un sistema prevalente agricolo, si è passati alle grandi scoperte geografiche che hanno provocato i primi ingenti traffici commerciali. Per un importante salto di qualità finalizzato a raggiungere la vera ricchezza, si dovette passare oltre il Rinascimento, giungendo all’industria nella metà del XVIII° secolo. Senza enumerare le diverse rivoluzioni sociali e industriali 22 intercorse nei secoli, il punto focale è sempre stato concentrato su un bene: la terra, i traffici, il prodotto. Oggi è diverso. Pur conservando ovviamente tutta l’importanza che hanno i fattori del capitale (terra, lavoro e masse finanziarie) siamo entrati probabilmente in un’era dove la personalità umana è la novità in grado di fare la differenza con il passato. L’essere umano, in epoca contemporanea è più importante che mai, nella duplice veste sia di cliente che dipendente. I suoi capricci negli acquisti sono in grado di “mettere a tappeto” qualsiasi azienda o di farne la fortuna in tempi rapidissimi, grazie al tam-tam che il social network offre. Che un prodotto sia effettivamente valido o no, non importa. Nel caso il social network lo bocci o critichi, il suo successo sul mercato è già compromesso. In una società così volubile e capricciosa, l’assenza di una politica del personale, caratteristica prima dell’azienda padronale, è da considerarsi un evento mortale che se unito agli altri passaggi critici del settore, crea una miscela esplosiva veramente pericolosa. È possibile che questo tipo d’impresa si estingua da sé per cause diverse, tra cui la sfortuna sul mercato, l’abbandono dei migliori lavoratori, l’incapacità di gestione delle crisi da parte d’una proprietà non allenata, l’esaurimento della fortuna che oggi copre come un mantello quella formidabile incapacità di gestione padronale, ma su tutti questi eventi, brilla sempre quello più critico: la mancanza di persone adeguate. Infatti mancano ingegneri in produzione e progettazione, mancano manager, mancano persone preparate, mancano le mentalità. Un errore classico dell’azienda padronale, ad esempio, è quello di non rispondere alle email o limitarsi a parlare al telefono perché scrivere è difficile! Concludendo, effettivamente l’azienda padronale italiana ha goduto e ancora raccoglie successi, ma si tratta d’eventi di una storia passata spinta a forza in un’era che ha nuove regole, spesso non conosciute e tanto meno applicate dove la personalità umana gioca un ruolo cruciale. Non a caso stiamo assistendo a una severa pulizia sul mercato di qualcosa che ha fatto il suo tempo: l’impresa padronale. Il guaio è che chiudendo le fabbriche, il danno diventa nazionale provocando 23 dolore, disoccupazione e povertà. Urge a questo punto il salvataggio di un sistema d’impresa che funziona, ma non è adeguato a proseguire in questo modo. Per spiegare alle famiglie imprenditoriali alcune delle loro pecche principali, evitando che miseramente falliscano, è stato scritto questo libro esortandole a “prendere la patente”, per guidare le loro fortunate (per ora) attività d’impresa. Non si tratta solo di un omaggio a persone che hanno sofferto e di cui l’Italia è debitrice, senza di loro saremmo tutti più poveri. Nonostante il rispetto dovuto e riconosciuto agli imprenditori familiari e padronali, non c’è fiducia nella loro spontanea capacità d’evoluzione, comprensione e recupero delle indispensabili qualità per dirigere e governare un’azienda moderna. Ecco che per spiegare alle famiglie imprenditoriali il bisogno d’adeguarsi (prendere la patente per guidare) lo strumento fiscale, nella sua antipatica invasività e autorevolezza, resta l’unico vero strumento per salvare la Nazione sia da un Governo incompetente in materia, che una classe imprenditoriale padronale, altrettanto ignorante. 24