Grosstadtbauten - CLEAN edizioni

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Grosstadtbauten - CLEAN edizioni
a cura di
Michele Caja
con uno scritto di
Fritz Neumeyer
saggi di
Renato Capozzi
Federica Visconti
Silvia Malcovati
Copyright © 2010 CLEAN
via Diodato Lioy 19, 80134 Napoli
telefax 0815524419-5514309
www.cleanedizioni.it
[email protected]
Indice
con il contributo di
Università IUAV di Venezia
Dottorato di ricerca in Composizione architettonica
Tutti i diritti riservati
È vietata ogni riproduzione
ISBN 978-88-8497-108-1
6
Editing
Anna Maria Cafiero Cosenza
24
Grafica
Costanzo Marciano
Traduzione dal tedesco
Michele Caja
Forme durature nel tempo
Michele Caja
Manhattan Transfer: il mito di New York e l’architettura berlinese nel contesto
della Città verticale di Ludwig Hilberseimer (1993)
Fritz Neumeyer
45
Grosstadtbauten - Le architetture della grande città
Architettura
Grande città e urbanistica
Osservazioni
69
Berlino
87
Questioni di architettura
103
Arti figurative
137
Architetti, mostre, libri di architettura
154
Saggi
La composizione ‘essenziale’ nelle architetture di Hilberseimer
Renato Capozzi
162
La città di Hilberseimer. Tra realismo e utopia
Federica Visconti
168
La “costruzione” di un architetto.
Hilberseimer e l’architettura italiana degli anni Settanta
Silvia Malcovati
Con riserva per eventuali aventi diritto
su testi ed immagini
181
182
184
Biografia del periodo tedesco 1885/1938
Bibliografia di riferimento
Indici
Michele Caja Forme durature nel tempo
Forme durature nel tempo
Michele Caja
La raccolta di scritti di Hilberseimer qui proposti nasce all’interno di una ricerca più
ampia sul dibattito che ha accompagnato le proposte urbane sviluppate nella Berlino
degli anni Venti. Un dibattito incentrato sulla città, intesa in questi scritti sia in termini
teorici (Grosstadtbauten), ma anche concretamente riferita al caso berlinese di quegli
anni e, in particolare, ai progetti urbani di Mies e Hilberseimer (1921-1933)1. Una raccolta che nel tempo si è allargata a comprendere gli altri testi qui proposti, che affrontano determinate questioni compositive e figurative, sia in campo architettonico che
in quello artistico, con l’intento di fare luce su quella schematica e alquanto lapidaria
distinzione fatta a posteriori da Hilberseimer tra elementaristi ed espressionisti, quali
categorie entro cui analizzare le differenti correnti, tendenze e posizioni dell’epoca 2.
Considerata la quantità e varietà dei testi scritti da Hilberseimer in questo arco temporale, che solo in parte sono stati ripubblicati, il momento della scelta di quelli da
includere in questa antologia ha rappresentato senza dubbio il momento più difficile
di questo lavoro. Non solo rispetto ai limiti di una personale ostinazione per certi temi
e figure qui trattati, ma anche, soprattutto, rispetto al senso stesso della attualità o
meno di questi testi - non solo per quanto è stato scritto e pubblicato di questo autore nei decenni scorsi - ma anche rispetto agli interessi completamente differenti del
dibattito odierno.
Al di là quindi di un interesse personale, che va oltre una volontà puramente documentaria, la scelta si è orientata verso la generalità, piuttosto che verso l’occasionalità delle questioni affrontate da Hilberseimer in questi scritti - legati a Berlino, a un
determinato periodo storico, a certe figure di riferimento - assumendoli come testi da
rileggere oggi in senso paradigmatico: fuori dal tempo, appartenenti a un passato
inteso come strumento di verifica del presente. In questo senso la raccolta è tesa
soprattutto a trovare delle conferme e dei rimandi e a sollevare questioni oggi, forse,
ancora aperte; a proporre inoltre un’ipotesi di attualizzazione del ruolo critico di Hilberseimer, un architetto che parla di altri architetti, ma anche di artisti, correnti e tendenze figurative, sempre e comunque da un determinato punto di vista, che non
sembra mai essere vincolato dalla soggettività di giudizio, ma che si caratterizza per
il distacco oggettivo con cui riesce a trattare temi di natura completamente differente. Oggettività come modalità espressiva - si pensi allo stile quasi telegrafico di alcuni di questi scritti - ma anche di ragionamento: un procedimento analitico-riflessivo,
attraverso cui risolvere questioni e nodi irrisolti sui temi delle arti, dell’architettura, della grande città.
Appare dunque strano che finora, nonostante alcuni chiarificanti saggi critici sul rapporto tra arte e architettura in Hilberseimer, questi scritti non siano mai stati ripubblicati in Germania, nè tradotti in Italia, forse il paese che più di tutti ha riletto Hilberseimer e riportato alla luce la sua figura da quell’ombra, dietro alla quale egli sembra
essere stato a lungo relegato 3.
6
Grosstadtbauten
Tra i differenti testi scritti da Hilberseimer nell’arco di diversi decenni, Grosstadtbauten
è il primo libro che pubblica in Germania nel 1925. La sua attività pubblicistica si era
sino ad allora prevalentemente limitata alla redazione di articoli e saggi scritti per alcune delle riviste più autorevoli nel settore delle arti figurative e dell’architettura4. A partire
da queste prime occasioni Hilberseimer mette a punto, pur in maniera frammentaria,
un sistema teorico di riferimento, sul quale costruire il suo punto di vista sulla città5. A
partire da tale sistema teorico Hilberseimer rileggerà le vicende della Berlino contemporanea, che costituiranno il nucleo di Architettura a Berlino negli anni Venti, scritto
molti anni dopo in America, scindendo l’aggrovigliata vicissitudine di avvenimenti entro
le due suddette categorie di espressionismo ed elementarismo, attraverso le quali,
come spiega Giorgio Grassi, vengono confrontati «tutti gli avvenimenti, i personaggi, le
opere, i programmi, anche se poi Hilberseimer avanza questa distinzione soltanto al
fine di negarla, di annullarla poi nei fatti», dove ciò che resta, è una «storia fatta di opere» che siano in grado di dimostrare un’idea di architettura sufficientemente chiara e in
se stessa definita6. Dove l'elementarismo si espliciterà solo più tardi nel libro dedicato
a Mies, che come scrive Antonio Monestiroli è «una specie di diario di due costruttori»,
da cui si comprende quello stesso nucleo teorico precedentemente messo a punto7.
Grosstadtbauten/Grosstadtarchitektur
Pochi anni dopo, nel 1927, Hilberseimer pubblica Grosstadtarchitektur per le edizioni
Julius Hoffmann Verlag di Stoccarda. I due libri, apparentati dal titolo - gli edifici/l’architettura della grande città - risultano di fatto molto diversi, sia nella veste editoriale, che
nella tipologia di pubblicazione.
Il primo, di piccolo formato - tre capitoli, per un totale di sole ventotto pagine - è costruito come una sorta di trattato sui modelli e i tipi richiesti dalla grande città a partire dai
progetti dello stesso Hilberseimer. Un trattato costruito su una precisa teoria dell’architettura, di cui i progetti ne sono l’esemplificazione.
Il secondo invece, di formato maggiore, si propone come vero e proprio manuale sull’architettura della grande città, illustrato da innumerevoli esempi di opere per lo più di
altri autori, che in termini didascalici conferiscono al testo una dimensione storico-critica precisa e volutamente tendenziosa. In questo senso Grosstadtbauten è un testo più
propriamente compositivo, che tralascia il momento critico, per sviluppare una teoria
architettonica a partire dai progetti dello stesso Hilberseimer, la cui esemplarità è
assunta come parte integrante del discorso; un discorso che non serve solo a spiegare i disegni, così come questi non servono solo a illustrare il testo, ma insieme, testi e
disegni, concorrono a costruire l’unità del libro.
La parentela tra i due libri si conferma d’altra parte nei contenuti di carattere generale: da
una comparazione attenta tra i due testi si rintracciano infatti interi paragrafi ripresi tali e
quali da Grosstadtbauten e riproposti nel capitolo iniziale e nella conclusione di Grosstadtarchitektur. Il primo testo costruisce quindi la struttura teorica su cui si fonda l’impianto
degli otto capitoli intermedi del secondo, i quali, come scrive Gianugo Polesello, potrebbero essere «modificati nella quantità, eliminati in parte, sostituiti da altri, etc., mentre il
primo e il decimo capitolo restano, viceversa, temi ancora fissi nel nostro paesaggio mentale, anche se la forma con cui oggi si presentano può essere modificata»8.
7
Michele Caja Forme durature nel tempo
Ludwig Hilberseimer Grosstadtbauten ed altri scritti di arte ed architettura
La struttura del libro
Nei tre capitoli di Grosstadtbauten vengono affrontate le questioni inerenti i modi di
costruire gli edifici della grande città. Il libro infatti (in particolare nel terzo e ultimo capitolo - Anmerkungen) non tratta dell’architettura in toto, ma dei singoli edifici che appartengono alla grande città. Singoli edifici che in maniera quasi didascalica vengono illustrati dagli scarni e disadorni disegni di Hilberseimer, che nella loro semplicità rasentano quasi sempre lo schematismo, ma che qui colpiscono per la loro unitarietà e per la
stretta relazione che li unisce uno all’altro e al testo. Eccezione fatta per il progetto di
un teatro datato 1912 (fig. 1), primo esempio di edificio pubblico di Hilberseimer, che
risente fortemente della formazione classicista ricevuta a Karlsruhe, ma anche della
ricezione berlinese dell’architettura di Schinkel, gli altri disegni sono accompagnati da
didascalie scarne e prive di indicazioni sul luogo e sulla data del progetto. I progetti
risultano così privati della loro dimensione geografico-temporale e appaiono come
esempi fuori dal tempo, apparentemente slegati dalle reali vicissitudini dell’architettura
berlinese di quel periodo. Nonostante siano quasi tutti nati da condizioni specifiche concorsi, studi e incarichi - essi compaiono qui come veri e propri modelli più che come
reali, realistici o realizzabili progetti di architettura: modelli didascalici, appunto, esemplificativi di quell’enunciazione teorica sulla grande città messa a punto nei primi due
capitoli - Architektur (Architettura) e Großstadt und Städtebau (Grande città e urbanistica)9.
Come si debbano considerare questi esempi resta appunto una questione aperta nel
libro, ma più in generale nell’opera di Hilberseimer: i progetti di case, di isolati, di grattacieli, specificatamente nati da situazioni concrete della città, tendono sempre ad
assomigliare a delle rappresentazioni tipiche, ovvero ad immagini espressive dei loro
caratteri più generali. Proprio qui, in questo piccolo libro, in cui i progetti compaiono
tutti insieme, unificati dai modi uniformi della rappresentazione - disegni al tratto di piante, sezioni, prospetti e viste prospettiche, mai assonometrie, private di qualsiasi risalto
espressivo e in cui l’ombreggiatura è ridotta all’uso di contrasti cromatici netti, privi di
qualsiasi effetto chiaroscurale - e dai testi delle didascalie, che con insistenza ripetono,
in maniera autoreferenziale, i legami che uniscono un disegno all’altro, essi assumono
un ruolo fondamentale di costruzione di una teoria dell’architettura. Il carattere di
necessità di tali disegni, senza i quali il filo logico della trattazione non sarebbe in grado di reggersi in piedi, si basa fondamentalmente sulla loro tipicità, su quella che
Lukács definisce come categoria centrale di ogni forma di realismo, «quella particolare
sintesi, che, tanto nel campo dei caratteri, che in quello delle situazioni, unisce organicamente il generico e l’individuale»10.
I progetti dunque aprono questioni più generali che vanno oltre la risoluzione del singolo edificio di cui rappresentano, per così dire, l’immagine tipica. Ed è proprio in questo
senso da leggere il passaggio in cui Hilberseimer, criticando il diffuso eclettismo, sostiene che «uno dei compiti principali dell’architettura contemporanea è definire la casa,
l’edificio commerciale e la fabbrica in maniera sensata. Le tipologie pure di questo
genere di edifici non sono state ancora generate, esse devono essere ancora inventate»11. In questo, nella ricerca di tipologie pure, si deve intendere il senso dei disegni utilizzati nel testo: i progetti, legati ad un luogo e ad un momento precisi, li trascendono
per assumere una dimensione generale, in cui sintetizzare gli elementi essenziali di una
8
determinata categoria tipologica in forma a tal punto depurata, distillata, stilizzata, da
assumere una dimensione propriamente da trattato.
La vicenda editoriale
Altro aspetto particolare di questo testo, al di là del suo contenuto, è la sua vicenda
editoriale: il testo viene infatti pubblicato dalla casa editrice Aposs Verlag, fondata nel
1924 da Kurt Schwitters e Käte Steinitz con il proposito di pubblicare favole e racconti, di cui però usciranno due soli numeri. Il testo di Hilberseimer è invece l’unico numero di una serie dedicata alla Neue Architektur12, che avrebbe dovuto costituire una collana di testi e opere su quella «nuova architettura che è il problema scottante della
nostra epoca, dalla cui soluzione dipende alla fine l’intera nostra cultura» e che si riprometteva di pubblicare libri, che fossero «secchi, oggettivi, facilmente comprensibili,
istruttivi per il dilettante e stimolanti per l’esperto»13.
Grosstadtbauten esce dunque nell’autunno del 1925, impaginato dallo stesso Schwitters e con il progetto della Chicago Tribune in copertina. L’anno successivo verrà ripubblicato come il numero doppio 18/19 (gennaio-febbraio 1926) nei quaderni del Merz
Verlag (l’altra casa editrice fondata da Schwitters nel 1923) con la medesima copertina, eccetto la scritta Merz 18/19 al posto di Neue Architektur I14.
Attraverso la casa editrice e la sua rivista Schwitters svolgeva un’intensa propaganda
a favore delle nuove correnti artistiche, pubblicando opere grafiche, poetiche e letterarie di autori di orientamenti differenti. I Merzheften sono una sorta di rivista, ma al di fuori di qualsiasi schema editoriale tradizionale, cui partecipano protagonisti delle avanguardie artistiche come Archipenko, Arp, Braque, Picasso o Man Ray, ma anche architetti come Gropius, Oud e Tatlin15. Le scadenze di uscita dei numeri della rivista, irregolari, ma protrattesi per un decennio, rispecchiano le fasi dell’evoluzione culturale e
artistica di Schwitters - dal periodo dadaista a quello della nuova oggettività, dalla predilezione per la contaminazione dei generi artistici alla ricerca di una più pura rifondazione delle arti. In questo senso si spiega l’interesse di Schwitters per un testo rifondativo come quello di Hilberseimer e viceversa l’interesse dimostrato da Hilberseimer nei
confronti delle avanguardie e più in specifico del dadaismo berlinese, che analizza
approfonditamente nei suoi articoli pubblicati sui Sozialistische Monatshefte16.
Berlino
Il tema centrale delle vicende berlinesi degli anni Venti è il rapporto tra nuovi interventi urbani e città storica, tra configurazione architettonico-volumetrica e impianto
viario.
Alexanderplatz
Questo è un tema, pubblicato in forma pressoché immutata, che Hilberseimer
affronta ripetutamente, ma che formula in maniera definitiva nel commento al concorso per il riordino dell’Alexanderplatz, indetto da Martin Wagner nel 192917. Un
concorso fondamentale, che nasce dal programma di ridefinizione dei nodi viabilistici posti al margine tra la città storica e i nuovi quartieri esterni, all’interno di un più
ampio programma di trasformazione della città a scala metropolitana, di quella grande Berlino di cui Martin Wagner è un agguerrito sostenitore e promotore, come risul-
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Ludwig Hilberseimer Grosstadtbauten e altri scritti di arte e di architettura
L. Hilberseimer, Großstadtbauten, copertina, Aposs Verlag, 1925.
L. Hilberseimer, Großstadtbauten, copertina di “Merz”, n. 18/19, gennaio/aprile 1926.
Michele Caja Forme durature nel tempo
Kurt Schwitters Merzhefte, ristampa in facsimile (Berna 1975), copertina.
K. Schwitters (a cura di), Merz 1. Holland-Dada, gennaio 1923, copertina.
(da “The Getty Center for the History of Arts and Humanities”, in F. Neumeyer, Manhattan Transfer, NY 1993)
ta dalle pagine di «Das Neue Berlin», la rivista uscita solo in quell’anno (1929) e pubblicata insieme ad Adolf Behne18. Un concorso importante anche per la partecipazione, su invito, di alcuni dei principali protagonisti dell’architettura di quegli anni, tra
cui H. e W. Luckhardt con A. Anker, Peter Behrens e L. Mies van der Rohe.
Semplificando il tema del concorso - la ricerca di un rapporto armonico tra architettura e traffico - la maggior parte dei progetti, secondo Hilberseimer, si risolve in una
«architettura di facciata, che non ha nulla a vedere con quello che sta dietro ad
essa». Una facciata, che nasce dalla forma circolare richiesta dalla rotatoria di traffico, ma che di fatto aspira conseguire un «effetto di piazza conclusa, una forma
architettonica definita» sull’esempio delle piazze barocche di Berlino. Una soluzione
che si impone violentemente sulla «configurazione sciolta» caratteristica dell’Alexanderplatz, un luogo complesso della storia urbana di Berlino, ai margini delle mura
barocche della città, sede di mercato e snodo viario, punto d’incontro e confluenza
di differenti tracciati e parti di città provenienti dall’interno e dall’esterno, privo di un
ordine unitario, impossibile da ricondurre a una forma compiuta, come quella della
Hufeisensiedlung (Siedlung a forma di ferro di cavallo) progettata pochi anni prima
(1925) da Wagner insieme a Bruno Taut. Contro la proposta “barocca” di Wagner,
una piazza a forma di ferro di cavallo delimitata da una cortina edilizia continua, che
resta la matrice degli altri progetti, quello di Mies è «l’unico a rompere la rigidità di
questo sistema», risolvendo la piazza da un punto di vista strettamente architettonico, attraverso l’uso di edifici isolati, indipendenti dai tracciati viari, ottenendo, così
«grazie all’apertura degli isolati, un’ampiezza che manca agli altri progetti»19.
Il progetto di Mies, nel suo interrompere l’idea barocca di unità spaziale e compiutezza formale configurata sull’andamento viabilistico, introduce un’idea di città diffe-
10
rente, vicina a quella individuata dai progetti teorici di Hilberseimer - dalla città verticale agli studi per la Altstadt elaborati dopo il 1928. Un’idea di città ricostruita a partire dai singoli edifici, isolati, disuniti e liberati dai vincoli imposti dalla continuità della cortina edilizia. La rottura di tale continuità significa il superamento della logica dell’isolato, in quanto elemento concluso su strada e parcellizzato al suo interno dalla
struttura dei lotti, a favore di un ordine svincolato dal rapporto di adiacenza e contiguità fisica tra casa e casa. L’isolamento dell’edificio mette in crisi il sistema gerarchico delle facciate, rendendo relativa la distinzione tra fronte principale - urbano, di
rappresentanza, per lo più decorato - e posteriore - disadorno, domestico - ed eliminando la presenza dei frontespizi laterali - i muri ciechi antincendio (Brandwände),
adiacenti uno all’altro, tipici delle caserme d’affitto berlinesi. Gli edifici di Mies, isolati e staccati da quelli confinanti - anche se tenuti insieme da una serrata ripetizione
ritmica - privati di ogni differenziazione di facciata, si rivestono di una pelle in vetro a
specchio con struttura metallica, neutra, omogenea, che rispecchia su quattro lati
l’eterogeneità del contesto circostante.
In questo senso il commento di Hilberseimer assume il progetto di Mies come progetto-simbolo di una nuova idea di città per parti, inserita autonomamente all’interno del contesto esistente e sviluppata a partire dai singoli edifici, assunti come elementi autonomi interrelazionati tra loro a distanza. Dove tale distanza viene colmata
attraverso la configurazione architettonico-costruttiva unitaria e i rapporti volumetrici esistenti tra i singoli elementi (altezza costante, reiterazione ritmica, ortogonalità,
parallelismo, ecc.).
Elementi indipendenti e allo stesso tempo relazionati tra loro, all’interno di una struttura urbana preesistente, la cui eterogeneità non viene risolta, ma rappresentata e
11
Ludwig Hilberseimer Grosstadtbauten e altri scritti di arte e di architettura
Manhattan Transfer: il mito di New York e
l’architettura berlinese nel contesto della città verticale
di Ludwig Hilberseimer*
Fritz Neumeyer
Il profilarsi delle torri all’orizzonte
New York, metropoli del nuovo mondo, ha svolto un ruolo nell’immaginario architettonico del nostro secolo pari a quello svolto da Roma, metropoli del vecchio mondo, nelle menti degli architetti europei del diciottesimo secolo. Per Piranesi le rovine
di Roma sembravano destare, in chi le osservava, la sensazione che le loro umide e
antiche volte avessero un tempo ospitato fucine e camere di tortura; analogamente
New York aveva alimentato fantasie ambivalenti e inquietanti di un futuro tanto affascinante quanto spaventoso. Già a partire dall’inizio del secolo gli architetti europei
erano stati colpiti da New York, la cui crescita mitica aveva ispirato ad alcuni un ottimismo urbano senza pari, mentre altri avevano reagito a questa moderna Babilonia
con un brivido d’orrore.
Il primo boom industriale agli inizi del secolo, che culminò nella Prima guerra mondiale, preparò le basi dell’americanismo in Europa. Con la diffusione della produzione e dei metodi organizzativi americani, lo spirito del commercio e della tecnologia
applicata trionfò sulle forze ritardanti del diciannovesimo secolo. Il “taylorismo”, il
“trust-building” e il “city-development” - queste erano alcune delle parole magiche
di una formula che avrebbe portato alla modenizzazione su scala internazionale.
La nuova era trovava i suoi punti di riferimento architettonici nelle strutture ingegneristiche, nei silos, negli edifici industriali e soprattutto nei grattacieli. I primi a scoprire il potenziale drammatico della moderna architettura funzionale furono i futuristi italiani intorno al 1910. Nelle loro viste prospettiche della Città Nuova, una civiltà ipermoderna, con i suoi silos e grattacieli, celebrava il suo trionfo sull’architettura del
passato. Poco tempo dopo, Le Corbusier, nel suo Esprit Nouveau, salutava le strutture ingegneristiche americane quali “progenitori gloriosi” di una nuova era che in
America, era già diventata una realtà architettonica. “Gli ingegneri americani schiacciano coi loro calcoli l’architettura agonizzante”1.
Il grattacielo, fondato su un’applicazione sistematica dei moderni metodi meccanici
e costruttivi, risultato di un maturo pensiero economico, era il simbolo più rappresentativo dell’epoca. Nessun’altra creazione moderna rifletteva in maniera più evidente il cambiamento radicale nei parametri culturali che si erano imposti durante
l’epoca del materialismo. Che la relazione tra tradizione e innovazione fosse giunta
a uno stadio critico si evidenziava nella maniera più evidente nella trasformazione
dello skyline di New York. Nell’arco temporale di pochi decenni la topografia della
città, all’inizio caratterizzata da bassi edifici in arenaria, si era elevata nella terza
dimensione. New York si era trasformata più di qualsiasi altra città al mondo; mentre “altre si sviluppavano, New York esplose”2.
24
Fritz Neumeyer Manhattan Transfer
L’allarme trasmesso da questa trasformazione della scena urbana sull’altra sponda
dell’Atlantico sarebbe degno di un indagine storica autonoma. Tanto più crescevano i grattacieli di New York, lottando tra le esigenze speculative e le condizioni di
aerazione, tanto più divenne minaccioso il mito che li avvolgeva e tanto più estesa
divenne l’ombra che essi diffondevano sull’orizzonte.
Intorno al 1910 quest’ombra aveva raggiunto l’Europa e, con essa, Berlino. A quell’anno risalgono le modifiche apportate al regolamento edilizio di Berlino. Rileggendo oggi il dibattito che lo accompagnò, si coglie per la prima volta la sensazione dei
grattacieli che si stagliano sullo sfondo. La questione se il tanto ricercato tentativo di
Berlino di raggiungere lo status di metropoli potesse o meno venire incoraggiato dal
fatto di permettere la costruzione di edifici residenziali alti sei piani al posto dei cinque prescritti precedentemente era sufficiente per evocare le visioni terrificanti delle
condizioni di New York sul continente.
“Grattacieli o sei piani a Berlino?” si chiedeva preoccupato l’autore di un articolo
pubblicato sulla Berliner Architekturwelt nel 19093. Nel momento in cui “fosse stata
fatta la prima concessione” e fosse stato permesso un piano d’attico in più, egli
temeva che Berlino sarebbe stata irrevocabilmente sopraffatta dalla stessa febbre
delle grandi altezze che aveva colpito New York. Gli “attraenti mostri” di Manhattan
non potevano non piacere agli speculatori berlinesi, che sentivano la loro “pelle fremere di piacere” quando pensavano ai profitti che questi edifici avrebbero portato.
Un’oncia di prevenzione vale una libbra di conservazione, rammentava l’autore ai
suoi lettori, dato che “non appena fosse stata fatta la prima concessione, questa
avrebbe rappresentato la goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso rendendo irreversibile la moda del “grattacielo”4.
Da questo momento in poi la discussione sulla “terza dimensione di Berlino”5 (fig. 1)
nasceva all’ombra di New York, di cui si sapeva ben poco eccetto per la figura della sua silhouette impressionante. Solo una manciata di architetti, inclusi Peter Behrens, H.P. Berlage, Adolf Loos e Otto Wagner erano stati in grado di formarsi un’opinione sul posto durante gli anni precedenti alla Prima guerra mondiale, riportando
un contributo critico che aiutava a dare al dibattito una base più oggettiva6. La predisposizione generale al riguardo restava tuttavia negativa fino a tutto il decennio
successivo, in cui lo scetticismo rivolto al grattacielo continuò a influenzare la generazione più giovane di architetti. Nonostante essi ammirassero l’abilità tecnica dei
costruttori americani, essi erano molto critici nei confronti dei risultati architettonici e
urbani. Il punto di vista dell’avanguardia poteva essere riassunto nel famoso poscritto che Le Corbusier aveva aggiunto al suo famoso testo “Tre avvertenze agli architetti” del 1922: “Ascoltiamo i consigli degli ingegneri americani, ma attenti agli architetti americani”7.
Le opinioni emerse dal primo dibattito degli architetti berlinesi accesosi nel 1909
resistettero continuativamente fino agli anni Venti: “Nonostante il fiorire dell’industria”
dichiarava Felix Rütter, “desidereremo sicuramente che le nostre città siano espressione di attitudini tedesche piuttosto che americane”8. Ciononostante, il grattacielo
rappresentava un segno di speranza per un popolo “esausto, affamato e prosciugato” dalla guerra, come scriveva in maniera entusiastica un altro autore, “se le nostre
speranze potessero costruire, esse innalzerebbero case - più grandi e più belle dei
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Fritz Neumeyer Manhattan Transfer
Ludwig Hilberseimer Grosstadtbauten e altri scritti di arte e di architettura
Fig. 1 Berlins Dritte Dimension (La terza dimensione di Berlino).
Copertina della brochure allegata al Berliner Morgenpost, 1912.
Fig. 2 Ludwig Hilberseimer, “Architecture Americain”.
(da Kunsthistorisches Institut Universität, Bonn)
(da «G», n. 4, marzo 1926)
grattacieli!”9 Il termine usato comunemente di Turmhaus (edificio a torre), che evocava reminiscenze delle città medievali, si proponeva come una variante tedesca al
grattacielo. Nonostante le origini americane del grattacielo, la sua riformulazione
esprimeva la volontà di trovare un equivalente contemporaneo della cattedrale gotica quale corona della città moderna10.
Persino un tanto esposto avvocato difensore della città verticale come Ludwig Hilberseimer poteva attaccare Manhattan, denunciando la sua crescita in verticale priva di qualsiasi controllo e pianificazione, incurante del modo in cui ciascun edificio
rubasse luce e aria a quello adiacente. Citando Lewis Mumford e Henry Ford,
entrambi accaniti oppositori della moderna metropoli e architettura industriale, Hilberseimer, scrivendo nel 1926 sulla rivista d’avanguardia G, profetizzava l’imminente disfatta di questo “prodotto artificiale” nato dallo “spirito della speculazione”, definendo così New York come il prodotto più artificiale al mondo11. Hilberseimer concludeva il suo articolo con una foto aerea di Manhattan (fig. 2) accompagnata dalla
didascalia: “Dunque - Le fin de la cité?” La risposta a questa domanda non veniva
rivelata fino alla pagina successiva, dove al lettore veniva detto, «NON! Mais le fin de
la cité fondé sur le principle de la spéculation» (“NO! Ma la fine della città basata sul
principio della speculazione, la fine della città che è stata incapace di liberarsi dalla
città del passato e di trovare una propria coerente legittimità”)12.
Quale alternativa, progettata in accordo con la sua “coerente legittimità”, potesse
esserci rispetto a Manhattan, veniva mostrato da una vista prospettica disegnata
dallo stesso Hilberseimer, una “città verticale” regolata in senso matematico (vedi p.
54, fig. 5), in cui il caos veniva tenuto a freno da prospetti di edifici schematicamente uniformi e rigorosamente disposti a file parallele. Con tale ostinata ripetizione di
lastre monotonamente regolari, spoglie e disposte a intervalli regolari, Hilberseimer
toccava programmaticamente la corda finale del suo discorso critico sull’architettura americana.
Il progetto di Hilberseimer per una città verticale, di fatto più una dichiarazione teorica d’intenti che un piano effettivo, era contraddistinto da una nuova maniera di intendere il disegno urbano. Una maniera che trovava la sua espressione prima e forse più
appassionata nell’influente studio di Karl Scheffler del 1913, Die Architektur der Grosstadt [L’architettura della grande città]. Le città moderne, scriveva Scheffler, soffrivano di “un’assenza di forma sia interna che esterna” e avevano ripreso i “tratti di agglomerati arbitrari”. Era giunta l’ora di aggiornarli, di definire la loro forma in termini puramente contemporanei. Una tale “architettura consapevolmente metropolitana”, egli
sosteneva, “poteva essere raggiunta solo attraverso una rigorosa uniformità” del paesaggio e dello skyline urbano13. Nella città verticale di Hilberseimer questa “volontà di
uniformità”, che Scheffler considerava tipica dell’epoca, veniva portata alle sue “conclusioni logiche”14, fino al punto che il piano coglieva i tratti tipici e universali della civilizzazione moderna e assumeva l’uniformità a principio primo del disegno urbano.
Visto nel contesto in cui il progetto viene pubblicato, nel periodo in cui l’architettura
americana veniva criticata in modo diffuso e profondo per la sua assenza di disciplina, le sue intenzioni e i suoi obiettivi risultano chiari. Al contrario di molti progetti di
grattacieli realizzati in Germania in quel periodo, il suo pathos funzionalista non cercava di reinterpretare il grattacielo come un oggetto drammatico, atto a conferire un
accento neoromantico allo skyline della città, quanto a incoraggiare l’applicazione
logica dei moderni principi del lavoro e dell’organizzazione dell’architettura.
In questo caso, come indica la struttura polemica del saggio, il progetto rappresentava una maniera per mostrare un’alternativa razionale a New York. La città verticale di Hilberseimer, sobriamente composta da blocchi uniformi, presto divenuta cele-
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Ludwig Hilberseimer Grosstadtbauten e altri scritti di arte e di architettura
Fig. 1 Progetto di un teatro, 1912 - v. figg. 23 e 25.
Architettura
Lo storicismo ha trasmesso all’umanità conoscenze fondamentali. La loro falsa
applicazione in ambito artistico ne ha annullato quasi del tutto il significato. Soprattutto nel campo dell’architettura. La capacità di apprendere e di adattare le forme
del passato ha generato una quantità di epigoni, che hanno diffuso in tutto il mondo forme anticheggianti, gotiche, rinascimentali e barocche. L’architettura si è trasformata sempre più in occasione puramente decorativa. Con la sua evoluzione in
senso accademico essa ha perso progressivamente qualsiasi rapporto organico
con la vita da cui di fatto dovrebbe originare. Qualsiasi relazione vitale con il presente è stata ignorata. Ignorando quali fossero i suoi fattori determinanti, ha considerato l’architettura come un problema meramente formale, cercando di mascherare
sotto artifici decorativi la sua incapacità creativa1.
L’estetica ha ridotto l’architettura a un semplice problema ottico di forma. Ma la sua
essenza ha radici più profonde, non si esaurisce in impressioni puramente ottiche.
L’architettura non può essere considerata in maniera isolata. L’architettura è sempre
in rapporto all’insieme delle condizioni sociali, economiche e psicologiche che l’accompagnano, di cui ne rappresenta l’espressione artistica.
L’architettura è creazione dello spazio. Il suo fondamento è il senso dello spazio, il
quale viene evidenziato attraverso il processo di oggettivazione nella materia, come
la sostanza materiale viene configurata in base a un’idea. Configurare la sostanza
materiale secondo un’idea significa al tempo stesso configurare la sostanza ideale
secondo le leggi della materia. Dalla sintesi di entrambi i momenti in un’unica forma
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Grosstadtbauten Le architetture della grande città
nasce l’architettura. Questa, pertanto, dipende sia dall’idea dello spazio che dalla
materia che lo delimita e trova la sua attuazione solo nella loro unione indissolubile,
realizzandosi attraverso il processo creativo2.
Tale processo svolge una doppia funzione, che è strumentale all’oggetto in duplice
maniera, in quanto ha il ruolo di allontanarlo due volte dalla natura, separando la sua
essenza sia materiale che ideale da tutti i rapporti preesistenti, riunendoli insieme
secondo determinati principi, rendendoli un organismo unitario, concluso in se stesso e ottenendo così una sua delimitazione spazio-temporale.
Una tale accentuazione formale non deve ridurre il significato del contenuto e degli
altri aspetti, dato che proprio essi devono essere realizzati attraverso il processo
creativo. In questo senso una forma può essere compiuta, solo se si definisce in
senso appropriato rispetto al contenuto. Dato che tutto ciò che può essere immaginato può divenire contenuto dell’opera d’arte, anche l’aspetto funzionale non è
escluso dal momento creativo, anzi, esso diviene proprio attraverso l’architettura
materia ideale, in quanto costretto dal processo creativo a divenire forma. L’architettura è, rispetto a tutte le altre arti, molto più profondamente radicata nella materia.
Uno dei suoi compiti principali è quello di sottoporre la materia alla creazione della
forma3.
L’esterno e l’interno si condizionano reciprocamente. L’articolarsi dell’interno determina la configurazione esterna del fabbricato, come, viceversa, l’interno dipende
dalle caratteristiche della forma esterna. L’esterno e l’interno di un edificio si delimitano l’un l’altro nelle superfici esterne del corpo di fabbrica. Queste rappresentano,
quali sintesi di entrambi i rapporti spaziali, la vera e propria forma architettonica. La
totale coincidenza tra esterno e interno crea quella proporzionalità indispensabile
alla compiutezza dell’opera. Tale coincidenza è facilmente raggiungibile nelle costruzioni composte da un solo ambiente. Più complesse divengono le relazioni quando
aumenta il numero dei locali e dei piani. Dalla sovrapposizione dei piani deriva automaticamente un’articolazione orizzontale dell’edificio, mentre l’accentuazione unilaterale delle verticali non ha senso in un edificio articolato in senso orizzontale4.
Il rapporto tra interno e esterno si definisce essenzialmente a partire dalla pianta.
Interno ed esterno si condizionano a vicenda. Così la pianta diviene assai importante per la configurazione generale. La pianta deve essere leggibile dalla volumetria
esterna e viceversa. La pianta introduce, oltre l’orizzontale e la verticale, la terza
coordinata dello spazio, la profondità. Essa viene involontariamente compresa al suo
interno. Essa è la proiezione orizzontale dell’edificio, che definisce e determina insieme alle proiezioni verticali, le sezioni e i prospetti5.
L’architettura contemporanea si distingue da quella del passato soprattutto per la
diversità delle sue condizioni sociali. Dalle nuove esigenze funzionali derivano contemporaneamente caratteri formali, che risultano assolutamente determinanti per
l’architettura di oggi. Essi costituiscono gli aspetti nuovi e vitali, rappresentano oggi
effettivamente il momento formale dell’arte. Oggi non abbiamo bisogno di cattedrali, templi e palazzi, ma di case, edifici commerciali e fabbriche, che sinora sono stati costruiti come cattedrali, templi e palazzi. Uno dei compiti principali dell’architettura contemporanea è definire la casa, l’edificio commerciale e la fabbrica in maniera sensata. Le tipologie pure di questo genere di edifici non sono state ancora gene-
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Ludwig Hilberseimer Grosstadtbauten e altri scritti di arte e di architettura
rate, esse devono essere ancora inventate. Per l’analogia degli aspetti funzionali
diviene necessario un processo di tipizzazione generale e una conseguente industrializzazione dell’intero settore edilizio, un lavoro necessario, che oggi non è stato
ancora iniziato. L’architettura ha cercato sinora di sottrarsi alla normalizzazione, che
sta alla base dell’intera industria. Essa si fonda ancora su basi individualistiche, artigianali, mentre il presente si basa completamente su condizioni di tipo collettivoindustriali. Ignorare le condizioni necessarie ha portato in genere sempre all’irrigidimento. E cosa c’è di più rigido rispetto all’architettura contemporanea? Là dove la
forza creativa si rivela proprio nel momento in cui si rielaborano costantemente i dati
di fatto, per trovarne la forma adeguata.
L’architettura dipende essenzialmente dalla soluzione di due fattori: la singola cellula spaziale e l’intero organismo urbano. Lo spazio, come componente dell’alloggio
compreso all’interno dell’isolato, ne definisce la fisionomia e diventa così il fattore
decisivo della configurazione dell’impianto urbano, il vero obiettivo dell’architettura.
Viceversa, la configurazione dell’impianto urbano svolge un ruolo decisivo nella definizione dello spazio domestico dell’alloggio6.
La configurazione dello spazio in base agli elementi che lo compongono offre una
vasta gamma di nuove possibilità creative. Da una nuova concezione spaziale emergono nuove relazioni tra i diversi ambienti. L’edificio, che comprende in maniera funzionale l’intero isolato, si definisce in base alla disposizione planimetrica dei singoli
ambienti. Da qui si creano relazioni ulteriori di tipo formale, che rendono possibili una
più ampia sintesi delle diverse forme. Oltre alla volumetria cubica, risultante dalla forza figurativa della pianta, dal numero dei piani e dal profilo del coronamento superiore, la suddivisione delle pareti esterne e l’impaginato delle aperture svolgono un
ruolo fondamentale7. Il problema architettonico consiste qui nell’elaborare sbalzi,
rientranze ed incavi come se fossero elementi organici ricavati dal corpo di fabbrica.
Lo sbalzo svolge un ruolo positivo all’interno della parete compatta, la rientranza e
l’incavo, con le loro ombre, uno negativo. Entrambi gli elementi incidono in maniera
decisiva sulla configurazione ritmica dei corpi edilizi in quanto fattori principali di
scansione spaziale. Persino le grandi aperture o le parti arretranti dell’edificio devono inserirsi in maniera organica nel corpo di fabbrica in quanto elementi di configurazione spaziale. Essi devono trasformarsi da elementi di rottura a elementi di creazione formale. L’incisività e la precisione dell’accentuazione ritmica dipende dal rapporto tra forma e luce, dal contrasto tra la luminosità della superficie e l’oscurità degli
incavi che ne interrompono la continuità8.
Presupposto indispensabile dell’architettura è l’identità tra costruzione e forma. Inizialmente esse sembrano contrapporsi, ma in verità l’architettura si basa proprio sulla loro connessione e unità. Costruzione e materiali sono i presupposti concreti della configurazione architettonica, stanno con questa in un rapporto di costante reciprocità. Così l’architettura greca si fonda sull’alternanza tra orizzontali e verticali che
deriva dall’uso della costruzione in pietra, essa sfrutta perfettamente le possibilità
della pietra da taglio per ottenere l’unità del materiale. Il tempio greco è una perfetta opera di ingegneria in pietra. Con l’introduzione dell’arco e della volta i romani
hanno notevolmente arricchita la semplice relazione tra piani orizzontali e verticali,
anche se hanno rotto l’unità del materiale attraverso la distinzione tra elementi por-
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Grosstadtbauten Le architetture della grande città
tanti, di riempimento e rivestimento creando quel modo composito di costruire
caratteristico fino ai giorni nostri, che ha comportato l’impiego della pietra da taglio
per le cornici delle aperture e la copertura degli aggetti dei piani. Con la sovrapposizione di più livelli impaginati dagli ordini delle colonne è nato l’uso della ripartizione
orizzontale di edifici a più piani, un principio che è stato violato a partire da Michelangelo. Per la prima volta egli riunì più livelli sotto un unico ordine. Da qui ha inizio
l’uso assolutamente decorativo delle forme architettoniche declinate dall’antico. Forme che hanno perso progressivamente il loro valore di articolazione costruttiva, per
divenire alla fine pura apparenza: l’architettura del XIX secolo9.
Solo l’architettura della grande città ha reso, con le sue moderne esigenze, una vera
e propria necessità l’applicazione di nuove strutture e nuovi materiali. Negli edifici
della grande città possono essere utilizzati solo materiali, che consentano il massimo sfruttamento dello spazio e che uniscano alla solidità una elevata resistenza all’usura e agli agenti atmosferici10. Il ferro, il cemento e il cemento armato sono i materiali in grado di darci quei nuovi sistemi costruttivi indispensabili alle esigenze di una
grande città, sistemi costruttivi che permettano di realizzare coperture piane o a volta anche per ambienti molto vasti e grandi sbalzi senza pilastri. Il cemento e il
cemento armato sono materiali da costruzione, che non pongono confini possibili
alla fantasia dell’architetto. Non si intende tanto la loro plasmabilità, la capacità di
superare con l’uso della gettata ogni resistenza della materia, quanto le sue implicazioni costruttive, quali la possibilità di realizzare un’opera completamente omogenea, sintesi tra elementi portanti e portati, e quella di delimitarne esattamente i volumi, privandoli di tutti gli elementi inutili di contorno o di copertura11. Grazie alle possibilità costruttive del ferro e del cemento armato viene superato il vecchio sistema
di sostegno e di carico, che consentiva di costruire soltanto procedendo dal basso
verso l’alto e dal fronte verso il retro. Entrambi permettono anche una costruzione in
avanti, aggettante rispetto al livello dei pilastri, permettono una perfetta distinzione
in elementi portati e portanti, una riduzione delle strutture di sostegno a pochi punti, la scomposizione dell’edificio in uno scheletro portante e in pareti non portanti,
con semplice funzione di divisione e chiusura. Da ciò derivano non solo nuove questioni tecniche e di materiali, ma specialmente un nuovo problema ottico-architettonico, un totale cambiamento nell’aspetto statico del fabbricato, apparentemente
così saldo a terra12.
L’architetto dovrà rinunciare in futuro ad abbellire esteriormente gli edifici o a imporre loro una maschera per farli apparire monumentali. Egli deve lasciare da parte tutta la zavorra di forme, di cui è stato sovraccaricato da una educazione erudita. Molto più che dallo schema decorativo di un qualsiasi stile egli può imparare dall’economia di spazi di un vagone ferroviario o di un transatlantico. Egli deve ritrovare la
soluzione dei nuovi problemi organicamente dall’uso concreto, dalla costruzione e
dai materiali13. In particolare dovrà rivolgere l’interesse ai problemi costruttivi, poiché
il nuovo può nascere solo dalla definizione degli aspetti costruttivi e funzionali. L’idea
costruttiva deve venire trasformata in senso architettonico, l’inclinazione dell’ingegnere verso forme tipiche non deve venire stravolta da concezioni formali predefinite. All’architetto è sfuggita, a causa dell’obbligo della suddivisione del lavoro e della
sua conseguente ignoranza, il dominio sugli elementi costruttivi. Solo quando li
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Ludwig Hilberseimer Grosstadtbauten e altri scritti di arte e di architettura
Grosstadtbauten Le architetture della grande città
riconquisterà e sarà in grado di dominarli sarà in grado di realizzare opere veramente creative, che andranno ben al di là del lavoro inutile dei suoi epigoni. Solo se si dà
forma a ciò che è realmente funzionale si arriverà a una vera architettura. La funzione costruttiva deve essere concepita come architettura, la tensione dei suoi rapporti e la stessa costruzione devono trasformare i loro dati materiali in pura forma architettonica14.
La volontà artistica sarà sicuramente di grande importanza, ma questa volontà è
caratterizzata per il fatto di non trascurare nessuno degli elementi che sono in grado di definire l’unità. La costruzione basata sul calcolo e l’istinto per le masse e le
forme devono essere configurati come un’unità privata dei suoi elementi contradditori. La matematica e l’estetica non si escludono a vicenda, sono entrambi legittimi
strumenti ausiliari, appunto la base di qualsiasi architettura.
Fig. 3 Strada commerciale di una città residenziale.
Grande città e urbanistica
Fig. 2 Casa d’abitazione.
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La grande città come tipologia dello sviluppo economico è un’invenzione della nuova epoca. Essa è la conseguenza naturale ed economica dell’industrializzazione del
mondo15. La grande città è dunque in primo luogo una creazione del grande potere
capitalista, un effetto della sua anonimità. Essa è un tipo urbano fondato su particolari condizioni socio-economiche e psico-collettive. Un ritmo vitale intensificato travolge in un ritmo vertiginoso tutto quello che è locale e individuale. Le grandi città si
assomigliano in alcune caratteristiche per il fatto che si può parlare di una loro fisionomia internazionale16. La grande città non è una semplice variazione su scala più
ampia del tipo urbano storico. Da questo essa si distingue per il modo, non solo per
le sue dimensioni17. Le condizioni economiche attuali determinano le grandi città,
che a loro volta sono determinate da esse. Così si spiega perché questo tipo urbano sia presente più diffusamente nei paesi che hanno conosciuto ultimamente uno
sviluppo economico-industriale più intenso18.
La forma di produzione del XIX secolo ha messo in moto dei processi che ha colto
gli stati di sorpresa, spingendoli a prendere provvedimenti del tutto inadeguati, che
non erano in grado di dominare dal punto di vista organizzativo. Numerose forze
hanno giocato con sorprendente intensità alla creazione di grandi città, senza riuscire a dominarle, a organizzarle, a sfruttare tale sovrabbondanza di energia ai fini della collettività, del popolo nel suo insieme. Invece di considerare in modo pianificato
tutte le possibili esigenze pubbliche, si è cercato di soddisfare soltanto i bisogni giornalieri, senza riguardo per gli interessi comuni e senza pensare al futuro. Responsabilità al di là del quotidiano vennero sconsideratamente trascurate19. Da qui l’assenza di organizzazione caratteristica di tutte le grandi città. La loro caratteristica principale resta così la loro disorganizzazione. Lo spirito organizzativo, che si manifesta
nella gestione dei grandi complessi industriali e commerciali, viene ignorato completamente nell’impianto e ampliamento delle grandi città. Il principio della divisione del
lavoro che regola tutto l’andamento dell’azienda, viene qui riproposto tutto alla rin-
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Ludwig Hilberseimer Grosstadtbauten e altri scritti di arte e di architettura
Concorso di un grattacielo sulla Friedrichstrasse
Architettura
Architektur, in «Das Kunstblatt», 1922, p. 132
I problemi, che ogni epoca pone all’architettura, sono di natura prevalentemente tecnico-economica. La loro definizione di carattere oggettivo, antiromantico. Dove però
l’oggettività non coincide assolutamente con l’imparzialità. Essa è la condizione necessaria alla base di qualsiasi creazione. E come qualsiasi opera d’arte anche l’architettura presuppone questa oggettività. I grattacieli americani sono organizzati secondo tali
presupposti tecnico-economici. Anche se in genere la loro definizione non è di carattere oggettivo. Incapacità mascherata da una decorazione eclettica. Gli architetti tedeschi, tranne alcune eccezioni, interpretano invece qualsiasi tema come un’occasione
per dilettarsi in maniera romantica. Essi partono dal motivo, dalla decorazione. Essi
ignorano i fondamenti. Essi sfuggono dal problema effettivo.
Il risultato del concorso per un grattacielo vicino alla stazione della Friedrichstrasse a
Berlino è un’ennesima dimostrazione di ciò. L’area è libera e si trova in una posizione
particolarmente favorevole. Permette qualsiasi tipo di soluzione. Il contesto è quello tipico berlinese: un bric-a-brac di forme grottesche. La frammentarietà di questo contesto doveva essere risolta o con un progetto che s’imponesse e fosse in grado di
accentuarla, o con uno che si adattasse ad essa. Tra le soluzioni che ricercano una sintesi vi sono soprattutto i progetti di Hans Poelzig e dei fratelli Luckhardt. Senza dubbio
i migliori di tutto il concorso. Concezioni organiche sviluppate fino in fondo in maniera
coerente. Il progetto di Hans Poelzig è un edificio trifronte senza corte interna e con una
struttura chiara. La concavità dei prospetti curvilinei definisce curve energiche, intersezioni vive, accentuandone il senso dinamico. Gli elementi verticali dei prospetti vengono messi in risalto dalla loro libera ripetizione. In pianta viene eliminata la corte interna,
inutile in un grattacielo, che viene in un certo senso spostata verso l’esterno.
Berlino
Un organismo compiuto e predominante dal punto di vista architettonico. Il progetto
dei Luckhardt assume il suo carattere particolare dalla decisa articolazione orizzontale.
Una chiara suddivisione in due parti, quella del grattacielo e quella del corpo basso dei
negozi, crea al posto del passaggio richiesto dal bando una strada all’aperto caratterizzata dai vitali contrasti ottenuti dalla contrapposizione di corpi edilizi estremamente
differenti tra di loro. Meno felice è l’intenzione di alleggerire la secchezza della volumetria edilizia attraverso il terrazzamento delle ali laterali.
Il progetto menzionato di Hans Scharoun cerca di accentuare il carattere bizzarro del
contesto attraverso la tendenza ad adattarsi ad esso. Allo stesso modo fa il progetto
dal motto “alveare”. Un corpo a tre ali, che s’innalza verso il corpo centrale con un profilo scalinato. Entrambi i progetti risultano essere più originali che risolti. Gli altri progetti
mancano per lo più di oggettività e disciplina. Viene fatta troppa ‘arte’ e troppo poca
architettura.
Hans Poelzig, Grattacielo sulla Friedichstrasse, pianta.
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Ludwig Hilberseimer Grosstadtbauten e altri scritti di arte e di architettura
Grande Berlino: le proposte per piazza della Repubblica
e i giardini dei Ministeri
Urbanistica strutturale
Struktiver Städtebau, in «Das Kunstblatt», lug. 1927, pp. 267-271
Hans Poelzig, Proposta per piazza della Repubblica
I difetti della struttura politica tedesca coincidono con quelli di Berlino.
La molteplicità degli stati della Germania corrisponde alla molteplicità dei comuni di
Berlino. Anche se essi risultano quasi del tutto limitati dal punto di vista dei loro poteri tecnico-amministrativi, non altrettanto si può dire rispetto alle conseguenze che essi
comportano. Essi ostacolano i cambiamenti sempre più impellenti con il potere delle
loro tradizioni, senza avere essi stessi l’energia di anticipare il futuro.
Per questo non si è ancora risolta la questione urbanistica della Grande Berlino in concomitanza con la sua attuale riunificazione amministrativa. Tale riunificazione amministrativa di Berlino risulta essere solamente la premessa di una configurazione reale
corrispondente alle sue necessità funzionali.
Continuiamo ancora a concepire la forma delle grandi città nel mondo come il risultato di condizioni economiche piuttosto che come configurazioni organiche, lasciando
così al libero arbitrio quello che dovrebbe essere compito di una pianificazione dalle
ampie vedute. Se infatti Berlino è stata in grado di attrarre grandi masse, essa non è
stata in grado però di gestirne lo sviluppo e l’organizzazione. Per ovviare alle mancanze di ordine strutturale quanto spirituale, ci si è nascosti, come nel caso della casa
d’affitto, dietro il carattere decorativo di facciata. Edifici e strade di rappresentanza
dovevano mascherare con il loro apparato decorativo le mancanze insite nella struttura dell’organismo generale.
Una tale struttura si basa sulla natura dei rapporti fisiologici. L’intero meccanismo in
moto non si costruisce su condizioni dinamiche, ma semplicemente su schemi tecnici. Come la città in quanto tale è opera delle opportunità, così lo sono state anche le
proposte di miglioramento finora fatte. Esse sono dettate soltanto dalle necessità
quotidiane, non vengono mai portate a termine e risultano presto superate.
Persino il più modesto tema di architettura deve essere giudicato in base al suo rap-
72
Berlino
porto con il tutto. Tanto quanto il più particolare significato di una singola soluzione
assume valore solo in relazione all’insieme della città. Ma fino a che manca la pianta
generale della città è impossibile anche la progettazione delle sue parti.
Un piano di tale entità può tuttavia essere portato avanti solo tenendo conto del ruolo svolto da Berlino all’interno della nazione tedesca. Berlino è il centro della Germania, il suo cervello. È la città della politica, della scienza e dell’arte, cosa che si confermerà sempre di più, visto che la sua centralità attira necessariamente le forze creative. Berlino è però anche il centro economico della Germania. Qui può essere visto in
maniera concentrata e nel minimo di spazio tutto quello che viene prodotto in Germania. Essa costituisce il mercato riconosciuto della sua intera produzione, ufficio ed
esposizione permanente, centro di attività produttive e di consumo.
Inoltre Berlino è una delle più grandi città industriali, che ha a disposizione il più grande mercato di lavoratori qualificati. In questo senso è da escludere l’allontanamento
definitivo dell’industria da Berlino, anche se essa deve venire allontanata dalle vicinanze dirette alla città, in particolare dal centro storico.
In base all’insieme di questi aspetti si definisce il significato di Berlino nei confronti della Germania, come dell’Europa e del resto del mondo, cioè il suo carattere di città
mondiale. Di conseguenza si deve definire la configurazione di Berlino.
In considerazione di questi rapporti Martin Mächler ha cercato di trovare una nuova
definizione funzionale di Berlino che tenesse ampiamente conto delle prospettive future e in cui la ridistribuzione dei diversi settori si fondasse su criteri precisi.
Per l’adempimento dei compiti economici, sociali e culturali, Mächler prevede per Berlino una superficie circolare di 50 km di raggio avente come centro la torre del Rathaus.
Questa superficie ha una dimensione di ca. 78.000 mq. La sua divisione in settori segue
le differenti esigenze della vita economica e sociale: una disposizione razionale dei singoli gruppi produttivi e di consumo, nonché delle zone di lavoro, ricreative e abitative.
La cellula vitale originaria di Berlino è il commercio. A questa attività è destinata un’area
circolare di 6 km di raggio con al centro la torre del Rathaus. Essa è circondata da una
fascia anulare di 10 km di raggio che funge da zona commerciale di riserva.
In questa zona commerciale e di riserva si incunea, partendo da occidente, un settore circolare di 60 gradi. Procedendo dall’interno verso l’esterno esso comprende:
amministrazione, edifici di rappresentanza, hotel, istituti d’arte, di cultura e di ricerca.
La grande area situata al di là di questo anello serve ad accogliere tutti gli spazi destinati al tempo libero della popolazione, cioè le zone di verde agricolo e attrezzato.
Gli insediamenti industriali assicurano agli operai anche lo spazio necessario per la
residenza, dato che l’industria e i lavoratori non sono separabili. L’industria deve essere sistemata là dove essa possa garantire agli operai un alloggio che risponda a tutte
le loro necessità.
Fra le due zone industriali si stendono a sud-ovest e a nord-est due vaste aree residenziali, i cui insediamenti, concentrati lungo i corsi d’acqua, sono destinati a coloro
che lavorano al centro.
Condizione preliminare per una ripartizione di questo tipo è una rete ferroviaria e metropolitana adeguatamente sviluppata, in modo da permettere un perfetto smistamento del
traffico. Mächler tenta di risolvere questo problema creando una stazione centrale, da lui
concepita come stazione d’incrocio. Egli fa confluire tutte le linee provenienti da nord e
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Ludwig Hilberseimer Grosstadtbauten e altri scritti di arte e di architettura
Architettura americana/grattacielo
Il grattacielo
Das Hochhaus, in «Das Kunstblatt», 1922, pp. 525-531
I primi grattacieli sono sorti intorno al 1890 nel distretto commerciale di Chicago, un
piccolo quartiere della città, costretto all’interno di un’area compresa tra il lago Michigan, il fiume Chicago e le stazioni di testa delle principali linee ferroviarie. La concentrazione degli affari assunse dimensioni sempre più imponenti. Nessuno voleva rinunciare ai vantaggi economici, derivanti da tale concentrazione. Per questo il sopralzo
degli edifici con l’incremento del numero dei piani era visto come unico modo per
risolvere il crescente bisogno di spazi. S’innalzarono dapprima edifici esistenti, poi si
realizzarono grattacieli, i cui vantaggi divennero presto evidenti. Essi furono realizzati
non tanto in base al bisogno di spazi, quanto ai vantaggi tecnico-economici derivanti
da tale concentrazione. Ben presto essi spuntarono in gran numero in quasi tutte le
maggiori città americane. Assolutamente senza criteri dal punto di vista urbano. La
sola necessità pratica risultava determinante.
La fisionomia di queste città si è trasformata in maniera sostanziale e rapida. Al posto
delle linee distese, leggermente ondulate, che contraddistinguono ancora oggi il profilo delle grandi città europee, in America sono sorti profili urbani molto frastagliati e con
forti emergenze: masse che si protendono verso il cielo separate da precipizi profondi come voragini1.
L’assenza di pianificazione è una delle caratteristiche più tipiche della forma capitalistica dell’economia. Questa trova la sua espressione naturale nella forma della città
prodotta dal capitalismo: nella grande città. L’assenza pianificatoria di una strada di
case d’affitto, sviluppatasi in maniera del tutto indipendente dalla pianta della città, è
grottesca. Un agglomerato fittizio, espressione di arbitrio e incapacità.
In America, il classico paese della libera economia di mercato, quest’assenza pianificatoria si è moltiplicata all’infinito.
Nella catena montuosa dei grattacieli di New York si sono espresse nella maniera più
violenta le ambizioni materiali della nostra epoca. Come tutto ciò di vero, che è alla
ricerca di una propria espressione, il materialismo ha ritrovato qui la sua formalizzazione. Mentre in Europa questo ipertrofismo è rimasto limitato2, la spinta indiscriminata
della speculazione delle città americane ha realizzato con i grattacieli qualcosa di simile a una favola. Solo in Oriente esistono ancora immagini di città altrettanto fantastiche e disinibite.
L’incapacità di riconoscere le novità in atto ha condotto a mascheramenti grotteschi.
Attraverso il rivestimento d’elementi stilistici tratti da qualsiasi epoca si è cercato di
accentuare la desueta monumentalità dei grattacieli, portandoli al livello di uno pseudo-palazzo italiano. La sovrapposizione di una forma estranea al posto della ricerca di
una forma adeguata è stato assunto come valido principio compositivo. Gli autori di
questi edifici sono in genere più grandi nelle loro opere che nelle loro intenzioni. Dato
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Questioni di architettura
che i caratteri elementari-primigeni di questi edifici permangono indisturbati dalla raffinatezza di tali imitazioni architettoniche3.
L’aspetto di queste città di grattacieli si fonda sulla casualità. Private della definizione
di un piano consapevole, spesso proposto di fatto, ma mai ancora realizzato. Il problema formale del singolo edificio può essere risolto sempre solamente in relazione ai
problemi formali urbani. La singola casa è sempre soltanto una cellula. Parte di un
organismo più ampio, che nella sua configurazione e conformazione dipende ancora
dall’organismo della città, definito dallo stato e a sua volta dagli interessi che regolano il mondo intero4.
Ai grattacieli progettati sino ad ora in Germania spetta un ruolo urbano completamente differente rispetto a quello dei grattacieli americani. Il grattacielo americano resta in
tutta la sua essenza come costruzione allineata. Rinuncia cioè, nonostante tutti i suoi
travestimenti, all’effetto eccezionale. Per ottenerlo sarebbe necessaria una localizzazione isolata. Dovrebbe dominare su singole strade o piazze. Un’ambizione, che
potrebbe essere pienamente realizzata dal grattacielo tedesco. In questo senso conviene pensare di edificarli in quei luoghi, in cui essi siano in grado di concentrare la
dinamica di una strada o di una piazza5, come nella proposta di Richard Döcker per
Stoccarda, e di conferire un carattere al profilo di una città.
La bellezza particolare delle grandi città americane è per lo più indipendente dalla bellezza della singola casa. Ciò che contraddistingue la bellezza di una grande città si
fonda essenzialmente sulla sua simultaneità. Sulla dinamica e la statica. Sui suoi continui cambiamenti. Da qui deriva il fatto che la configurazione formale di un singolo
edificio debba adattarsi ad essa. È fondamentale definirla in base alle nuove necessità ed esigenze tecniche e di spazio. Lo stesso vale per i nuovi materiali, il cemento,
il ferro e il vetro, che si sono dimostrati particolarmente funzionali per il grattacielo.
L’architettura si fonda innanzi tutto su una costruzione che le consente di esistere. In
particolare l’architettura più recente si è quasi identificata, in base ai suoi principi razionali, nella semplice costruzione, mentre in quella del passato le esigenze rituali e
sacrali avevano un ruolo di gran lunga preponderante rispetto alla sua funzione d’uso
razionale.
I primi grattacieli sono stati originariamente realizzati seguendo gli stessi principi utilizzati per tutte le case d’abitazione dai tempi antichi. Essi erano costituiti da muri di rivestimento e pilastri portanti. Tuttavia, a causa del numero sempre crescente dei piani,
gli svantaggi di questo sistema costruttivo sono emersi sempre di più. La loro inadeguatezza si è resa sempre più evidente. Lo spessore dei muri aumentò proporzionalmente alla crescita dei piani a tal punto da divorarne lo spazio. La capacità di carico
del terreno fu ben presto superata a causa di masse edilizie enormi. Si iniziò dunque
a separare i solai dalle murature. Appoggiandoli su pilastri in ferro. Da qui il passaggio
al sistema portante autonomo in ferro fu breve, cosa che ha comportato una riduzione notevole del peso proprio, con il conseguente innalzamento del numero dei piani,
oltre che una accelerazione dei tempi di costruzione6.
È caratteristico dell’architettura americana il fatto che essa, eccetto rare eccezioni,
ignorasse completamente il sistema costruttivo portante nella definizione formale dell’edificio. Essa non era in grado di trarre le conseguenze formali dalla comprensione
di quelle costruttive. Lo scheletro strutturale veniva rivestito con un travestimento
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Questioni di architettura
Ludwig Hilberseimer Grosstadtbauten e altri scritti di arte e di architettura
architettonico qualsiasi. Ricordi di viaggi europei distorti in forme grottesche. Per lo più
godevano di massima considerazione le forme rinascimentali. Anche se spesso venivano utilizzate le forme gotiche. Così Cass Gilbert riuscì ad annullare la grandiosità elementare del suo Woolworth Building, l’edificio più alto del mondo, utilizzando forme
gotiche stampate nel metallo7.
La “migliore” architettura americana risente molto dell’influsso dell’accademismo rinascimentale francese. È comunque da riconoscere il fatto che le forme utilizzate vengono impiegate con gusto e, nei limiti del possibile, in maniera sensata. Gli architetti
di questi edifici hanno saputo dimostrare, come le forme antiche, che sinora erano
state adattate a qualsiasi cambiamento, o per meglio dire hanno dominato qualsiasi
trasformazione, rappresentano un elemento decorativo adeguato anche per il grattacielo. Nonostante il significato, che meritano questi edifici, in particolare l’Equitable
Building di Ernest R. Graham e il Pennsylvania Hotel a New York, essi restano tuttavia esercizi puramente accademici, che non hanno alcun valore per il futuro. Ciò che
vale ed è nuovo in questi due edifici di New York è l’articolazione cubica del corpo di
fabbrica dell’edificio. Essa si basa sul sistema della pianta ad ali, che sposta i cortili
sulla strada8.
Più significativi sono due altri grattacieli. Un edificio commerciale a St. Louis degli
architetti Eames e Young. Di fatto un’ulteriore soluzione accademica, anche se notevole per la sua chiarezza e per il tentativo di esprimere il verticalismo del sistema portante attraverso l’articolazione architettonica. L’altro, il Reliance Building di D.H.
Burnham a Chicago, altrettanto accademico, ma che rispetto al precedente accentua
l’andamento orizzontale. In base ai principi costruttivi l’orizzontalità svolge un ruolo
quasi analogo a quello della verticalità.
Rispetto a questi e analoghi edifici, che ancora conservano un certo gusto, si distingue però la maggior parte degli altri grattacieli. Se di fatto dimostrano in generale gli
stessi principi formali, che però vengono modificati notevolmente dal predominio indiscriminato attribuito all’idea elementare della funzionalità, portata a volte sino all’assurdo. In questi edifici non viene rivolto alcun interesse agli elementi decorativi tratti
dal patrimonio formale classicista. Le forme utilizzate sono riprese e utilizzate solo per
pura convenzione. Se dovessero essere eliminate lascerebbero apparire le spoglie
dell’edificio funzionale. Certamente un vantaggio, anche se non ancora una soluzione. Ma proprio questi edifici hanno contribuito al massimo a far capire, che l’uso di un
certo dettaglio è un assurdo rispetto alle dimensioni imponenti di un grattacielo, dato
che l’intensità e la forza del motivo di fondo non è più in grado di comprendere l’intero corpo edilizio. Dato che esso è, per natura, solamente un elemento particolare e
intimo. Nella definizione di questa tipologia edilizia tutto tende alla potente definizione
dei contorni9. Di fronte all’effetto decisivo di questi edifici scompaiono completamente i dettagli. Quello che importa è soltanto la configurazione generale delle masse. Il
principio proporzionale impostole. La necessità di configurare una enorme massa
materiale, spesso eterogenea, secondo un principio formale, che sia ugualmente valido per ciascun elemento comporta una riduzione della forma architettonica ai minimi
termini, quelli più necessari e generali. Una riduzione alle forme cubico-geometriche:
gli elementi fondamentali di tutta l’architettura.
Di tutti gli architetti americani Root è stato l’unico non solo a riconoscere e compren-
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dere queste esigenze, ma a metterle anche in pratica nel Monadnock-Building di Chicago, costruito nel 1891. È incredibile il fatto che questo, oltre ad essere di fatto uno
dei primi grattacieli, non sia stato superato da nessun altro nella sua “giustezza”.
Di fatto esso appartiene ancora a un’epoca, in cui il sistema portante non era stato
ancora inventato. Ma quello che contraddistingue quest’edificio consiste nel fatto di
riconoscere nuovamente l’architettura come un problema cubico-ritmico e di realizzarla tenendo conto in maniera nuova di tutte le condizioni richieste. Un espediente
che si è rivelato fatale per la maggior parte dei grattacieli successivi, quello di mascherare l’incapacità creativa con l’accumulo eccessivo di materiali, viene qui evitato in
maniera istintiva. Un senso infallibile per le proporzioni conferisce a questo edificio
gigantesco una consistenza interna e una logica armonia10.
[Fig. 1] Arch. Root, Monadnock Building, Chicago.
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Arti figurative
Ludwig Hilberseimer Grosstadtbauten e altri scritti di arte e di architettura
Mostra dell’Arbeitsrat für Kunst
Arbeiterkunstausstellung, in «SM», 1920, pp. 64-65
L’Arbeitsrat für Kunst a Berlino è contro l’adattamento ai principi di formazione borghese. Contro gli artisti di professione. Ma non, come si potrebbe facilmente fraintendere, contro l’attività creativa. Non si può fare dell’attività creativa una professione di tipo borghese. Piuttosto il lato creativo può sorgere dall’artigianato. Si pensi al
grandioso esempio dell’Asia e del Medioevo europeo, la cui architettura è frutto,
quale sintesi di tutte le arti, della creatività di intere popolazioni.
«Architetti, pittori, scultori, tutti quanti dobbiamo ritornare all’artigianato! Non esiste
un’arte di professione. L’artista è un artigiano di grado superiore. Per grazia del cielo la mano dell’artista riesce raramente a fare sbocciare l’arte, inconsapevolmente e
indipendentemente dalla sua stessa volontà. La base di ogni artista è necessariamente l’attività di tipo artigianale. In essa si fonda l’origine di ogni processo creativo.
Creiamo dunque una nuova corporazione di artigiani, senza quell’arroganza estranea
alle masse, che vorrebbe creare una altezzosa distinzione tra artigiani e artisti. Vogliamo pensare e costruire insieme un nuovo futuro, che si manifesterà come un’unica
espressione attraverso l’architettura, la scultura e la pittura e che un tempo si innalzerà al cielo come immagine di una nuova fede costruita da migliaia di artigiani».
Rispondendo ai quesiti posti dalla discussione per molti aspetti illuminante nel libro
Ja! Stimmen des Arbeitsrats für Kunst [Si! Voci dall’Arbeitsrat für Kunst di Berlino],
Berlino, Photographische Gesellschaft, Walter Gropius cerca di propagandare con
queste parole l’idea di trascinare le grandi masse del proletariato all’artigianato. Non
solo per superare la minaccia di una catastrofe economica, ma soprattutto perché
la sua opera possa rendersi utile alla formazione di una nuova cultura. Queste intenzioni corrispondono anche alla posizione sostenuta dall’Arbeitsrat für Kunst all’interno della mostra. Esso nega qualsiasi arte da salone, vede nell’opera d’arte qualcosa d’altro rispetto ai semplici caratteri decorativi. Esso vuole coinvolgere il popolo, le
grandi masse, che sono purtroppo già molto imbevute della corruzione borghese.
Dato che solo una buona base può fare sorgere qualcosa di valido. Bisogna combattere e fare cadere quel senso di dignità falsamente festoso e ipocrita, attraverso
cui la cosiddetta arte alta si mette in mostra accentuando il suo carattere mercantile. L’uomo creativo si esprime senza pretenziosità. L’osservatore deve essere coinvolto non come semplice spettatore ma in maniera attiva, in grado di decidere personalmente attraverso la “dialettica delle forme e dei colori”. Per questo i colori forti e le forme decise sono necessari in quanto originari. Inoltre questo modo di operare presuppone l’anonimato: un modo per dominare la vanità individuale. Perché
l’arte, come ogni cosa creativa, è indipendente dalla soggettività. […]
Pechstein
mondo. Cosa per cui essa non perderà la sua purezza neanche nei momenti più difficili. Il suo modo di esprimersi verrà riconosciuto e apprezzato per la sua umanità.
Anche se la nostra epoca, intenta a divulgare i beni culturali, permette ai più abili
esperti di appropriarsi in maniera puramente superficiale di quelli che li hanno preceduti, dando l’impressione che essi siano di loro proprietà.
Max Pechstein crede di essere un rivoluzionario. In realtà egli rappresenta, come
sempre più sembra dimostrarsi, la linea di mezzo corrispondente al gusto del pubblico. Le somme incredibili, che vengono offerte a certi artisti da un pubblico in difficoltà economiche, permettono a questi di abbandonarsi a una produzione della
peggior specie. Assecondandone il tratto apparentemente umile fanno del loro
talento un’industria. Così l’arte diviene strumento per soddisfare e intrattenere il tempo libero della vita feudale, diviene arte da salone con i necessari effetti decorativi.
Pechstein è un abile tuttologo, un decoratore pieno di gusto. La sua capacità di fare
uso del preesistente è ammirevole. Egli riesce a farsi ovunque degli accoliti. Tuttavia
non bastano i viaggi nei mari del Sud a sostituire la forza creativa. Pechstein è un
artista assolutamente trasformista. E il pubblico ama le trasformazioni; dato che
queste aiutano a sviare dalla sostanza che esse nascondono. Da qui si spiega il successo.
Koch
Koch, in «SM», 1920, p. 65
La grande città è fonte di inaudite fantasie. Nelle ore serali, quando i lampioni e le
lanterne a gas assurgono lentamente a padroni della notte, tutte le cose vengono
avvolte da un fascino magico. Illuminati da lampi di luce emergono volti, che trasformano le figure in una sorta di fantasmi. L’effetto fantastico dell’illuminazione crea
nuove relazioni impreviste. Uno sguardo è in grado di decifrare le cose più improbabili. In tale visione la realtà viene completamente esaltata. Nelle poesie di E.T.A. Hoffmann, Balzac, Poe, Dostojewskij e Mynona emerge in primo piano questo carattere visionario proprio della città. Gli stati d’animo divengono oggetto di analisi, nuovi
tipi esotici, sinora mai visti, appaiono in modo visionario.
In scultura non è mai stata data sinora espressione al carattere innovativo e fantastico degli uomini della grande città. L’arte di Georg Koch rappresenta con le sue
maschere il primo tentativo in questo senso. Le sue maschere non sono ritratti analitici quanto composizioni, la cui creazione è debitrice degli stimoli provenienti dall’esterno. Esse presentano caratteri prettamente espressionisti. L’espressionismo non
esclude certo gli impulsi esterni, richiede tuttavia un assoluto coinvolgimento interiore. Alcune di queste maschere esprimono pienamente l’esperienza spirituale derivante da questo assoluto coinvolgimento interiore. In questo si deve fare attenzione
al loro significato.
Pechstein, in «SM», 1920, p. 65
Non bisogna ingannare o corrompere la genuinità. Essa sottintende una visione del
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Arti figurative
Ludwig Hilberseimer Grosstadtbauten e altri scritti di arte e di architettura
Espressionismo/Klee
Klee, in «SM», 1920, p. 205
L’ansia e i tormenti della vita moderna rendono l’uomo irrequieto. Lo fanno andare
fuori di sé, in una condizione marginale, dove egli cerca senza speranza di trovare
un punto fisso di riferimento. La violenza elementare dell’espressionismo crea un
nuovo centro. All’esaltazione esteriore, alla morte interiore esso contrappone l’intensità. Un riposo nel regno divino; una vita nell’inconscio, che vuole ridare contenuto
e senso a quella vita sconfinata nell’esteriorità. Il razionalismo deve essere superato. Tuttavia bisogna esserci passati attraverso. Poiché l’ignoranza porta fuori strada,
lontano dalla vita. Alla pienezza e all’esuberanza vitale c’è chi contrappone lo spirito. «Perché pensare è qualcosa di estraneo alla vita, senza il quale cosa succede:
vivere! Vivere significa confondere tutti i beni vitali, sperpero, dare e avere, sentire
pulsare la vita con tutti i sensi, con tutto il cuore, comprendere con tutte le sue capacità: da qui nasce l’opera!» (Iwan Goll, Die 3 guten Geister Frankreichs - I 3 spiriti
buoni della Francia, Berlin, Reiß). Da questo spirito ha origine l’opera di Paul Klee,
esposta ora a Berlino da Gurlitt e di cui si è già parlato un anno fa su questa rubrica (1919 I, p. 294). Klee attraversa il razionalismo con una leggerezza d’animo celeste. Egli costruisce la favola del suo mondo. Esseri maturi convivono nei suoi piccoli
quadri e disegni. Nonostante il loro piccolo formato essi sono enormi nel loro contenuto. Di contro al loro piccolo formato si staglia la loro grandezza formale. Essi
ricordano il mondo fantastico di Paul Scheerbart, con cui Klee è imparentato. La frenesia fantastica dei suoi quadri e disegni fa lo stesso gioco, di quello che dona alle
poesie di Scheerbart un fiato cosmico. Essi si orientano in senso cosmico, guardano in maniera visionaria ciò che è sconosciuto, sono definitivi, complicati e allo stesso tempo ingenui; geometria divenuta forma, armonia di colore e forma.
Barocco
Barock, in «SM», 1920, pp. 206-207
Cosa è stato, in epoca razionalista, più frainteso del barocco? Il culto rinascimentale l’ha negato per motivi formalisti: il barocco, che non può essere valutato solo in
senso formale ma come espressione di una visione del mondo, non può essere considerato solo in termini estetici. [...]
Wilhelm Hausenstein descrive nel suo libro Vom Geist des Barocks [Lo spirito del
barocco], Monaco, Piper, questo stile stupefatto e stupefacente. [...]
Il segreto e l’obiettivo del barocco risiede nel movimento a ogni costo. Esso abbandona la costrizione vincolata, fatta di quiete e simmetria, dello spazio rinascimentale. Rispetto all’esperienza spaziale creata da Michelangelo sulla piazza del Campidoglio il barocco è dialettica cattolica. Esso ricerca l’estasi a tutti i costi, con ogni
mezzo. Le chiese vengono allestite come dei boudoirs; non mancano neppure gli
specchi per accentuare tale effetto. La Madonna diviene una dama di mondo. E la
dama di mondo preferisce il proletariato. Qui si trovano le cose più impensabili una
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a fianco dell’altra. «Nessuna illusione, che manchi». Naturalismo e idealismo si
sovrappongono, si toccano, si confondono tra loro. «Poiché tale naturalismo, che
tendiamo ora a isolare come aspetto individuale, rappresenta sempre solo un polo
di uno stile, che comprende allo stesso tempo il suo polo opposto». Dove tale esecuzione naturalistica viene portata fino alle sue estreme conseguenze, diviene quasi un gabinetto di figure di cera. «Il barocco spagnolo crea dei manichini, vestiti di
seta e broccato: Cristo come una bambola in costume [...] Il barocco gioca ad
annullare al massimo le differenze, fino al punto in cui questo è possibile. Un pollice
in meno e la realtà stessa inizia. «Ma solo così è possibile l’assenza di confini.» Perché tra il vuoto e l’infinito sembra non esserci differenza».
Tale frammistione di elementi stilistici e naturalistici trova soprattutto in pittura uno
strumento atto a dominare questi elementi. Così il paesaggio non è più, come nel
quadro rinascimentale, uno sfondo di riempimento, qualcosa di aggiunto, quanto
qualcosa che si è sviluppato in maniera organica. Poiché nella composizione del
quadro tutto viene compreso in termini strumentali, diviene elemento figurativo. Ciò
è quello che conferisce un particolare significato alle opere di Tintoretto, El Greco,
Rubens e Rembrandt. La pittura barocca mostra apparentemente a chiunque la
grandiosa simultaneità di quest’epoca. Da qui si apre la via, attraverso Delacroix e
Daumier, fino all’impressionismo dell’Ottocento, a cui però manca il carattere stilistico di collettività del barocco, che ha condotto alla degenerazione dell’Art pour l’art.
Al contrario il barocco è più che un’arte. «Non si tratta in questo stile di pura realizzazione nel quadro». I confini si confondono. «È difficile da capire, dove nel barocco
terminino il quadro, la scultura, l’opera architettonica e dove abbia inizio l’esistenza.
Ciò che esiste ancora è solamente l’unità della condizione barocca». L’uomo diviene, come tutto il resto, un dettaglio, un accessorio.
A questa unità grandiosa si contrappone la disunione della nostra epoca, che ha rotto tutti i rapporti, tuttavia per «cercarne passionalmente dei nuovi». La religione, di
cui ci si è privati, diviene oggetto di ricerca. Tale «sforzo verso la metafisica sconvolge». Da ciò deriva, che il barocco non ci può essere d’aiuto. I nostri obiettivi sono
altri. Dobbiamo porci in maniera adeguata «e indipendente di fronte alle cose. Di
fronte alla cose, non alle forme».
Pittura Merz
Merzmalerei, in «SM», 1920, p. 625
Al Berliner Völkerkundenmuseum sono esposti un ciclo di quadri provenienti dal
Giappone, composti dagli oggetti più diversi, come pannelli, burattini, maschere,
ecc.; materiali esistenti, già configurati formalmente, il cui carattere autonomo viene
sublimato e composto in maniera nuova.
Il futurista Gino Severini è stato, tra gli artisti più giovani, il primo ad utilizzare nei suoi
quadri, oltre al colore, altri tipi di materiali: paillettes, nel quadro Ballerina a Pigal, baffi, nel ritratto di Marinetti. Braque e Picasso esordiscono a Parigi con opere analoghe.
La massima espressione di questa pittura che opera con nuovi strumenti espressivi è
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Architetti, mostre, libri di architettura
Ludwig Hilberseimer Grosstadtbauten e altri scritti di arte e di architettura
Novembergruppe
[Classicismo danese/Le Corbusier]
Novembergruppe, in «SM», 1926, p. 666
Architekturausstellungen, in «SM», 1927, p. 82
L’architettura è oggi la più attiva tra le arti. In essa si ripercuote il nuovo spirito creativo. Questo si dimostra di nuovo nella mostra di architettura della Novembergruppe alla Große Berliner Kunstausstellung. Nonostante le diversità tra i singoli è presente una forte volontà unificatrice. Un’accentuazione degli elementi comuni, da cui
è possibile individuare e fare maturare le differenze.
Nell’accentuazione di certi elementi costruttivi alcuni di essi vedono una via verso la
configurazione formale. Così in particolare Erich Mendelsohn, che nell’invenzione di
nuove forme mira a cogliere il problema architettonico in sé. Egli dispone però anche
delle facoltà utili per realizzare questo intento, come mostra il suo progetto per una
fabbrica tessile realizzata a San Pietroburgo. Analogamente, anche se con minore
temperamento, ci provano Co Brandes, Erwin Gutkind, H. Kosina, Hans e Wassilij
Luckhardt, Adolf Meyer, L. Peri e Adolf Rading.
In contrapposizione a questi lavori, che sottopongono il tema architettonico a determinate concezioni formali, per altri la forma non costituisce la premessa ma il risultato. Nella fabbrica realizzata da Hugo Häring a Neustadt in Holstein la netta articolazione del volume edilizio si sviluppa a partire dalle condizioni del processo lavorativo. Oppure Mart Stam, che nel suo progetto per la stazione di Ginevra dà forma
alle condizioni puramente oggettive di una struttura ferroviaria. Dalla configurazione
dei dati puramente oggettivo-funzionali scaturiscono possibilità di sviluppo prive di
ostacoli di tipo formale, come dimostrano le opere di Marcel Breuer, C. van Eesteren, Alfred Gellhorn, Ludwig Hilberseimer, Georg Muche, J.J.P. Oud e Max Taut.
Il pregiudizio, che un’architettura basata sulle funzioni escluda lo sviluppo di elementi plastici e cromatici, viene contraddetto dal modello di Rudolf Helling per uno stemma per il sindacato degli stampatori di libri a Berlino e lo studio di Hugo Häring per
un pavimento e il corpo scala del suo progetto per la Secessione berlinese. Entrambi mostrano come gli elementi strutturali e edilizi possano divenire oggetto della definizione formale e cromatica.
La casa editrice di architettura Ernst Wasmuth di Berlino ha organizzato nei suoi spazi due
mostre di architettura, che sono state di particolare interesse, perché mostravano due
estremi opposti della ricerca architettonica attuale. La prima era dedicata alla nuova architettura danese, l’altra all’architetto parigino Le Corbusier.
Il classicismo danese ha conservato fino ad oggi con vitalità la sua tradizione. Naturalmente con grandi modifiche. Dato che il classicismo danese, rappresentato da Kay Agerloft,
Ivar Bentsen, Kay Fisker, G.B. Hagen, Eduard Thomsen, Kaare Klint e altri, non necessita,
per raggiungere i suoi obiettivi, di un grande apparato architettonico: colonne, pilastri, capitelli, cornicioni, ecc. Esso si realizza pienamente con i mezzi più semplici, che di fatto costituiscono anche i suoi elementi essenziali: l’armonia, le proporzioni e l’equilibrio dei volumi
sono i suoi mezzi espressivi fondamentali. Il classicismo danese rappresenta in questo, più
che un repertorio formale, un atteggiamento mentale. Al contrario del classicismo tedesco,
contraddistinto da una certa brutalità e da un esuberante impiego di mezzi, quello danese
si spiega per la sua libertà, per così dire, fluida delle proporzioni e dei rapporti armonici delle sue volumetrie. Un purismo sensibile, che ha per fine la compiutezza stilistica. In questo
si definisce anche il limite di questo classicismo. La rigidità dei vincoli imposti dalla simmetria, che ne costituiscono il fondamento, lo rende inadatto per molti compiti richiesti all’architetto dall’epoca contemporanea. I suoi mezzi si dimostrano insufficienti a questi. Così
sia Kay Agerhoft che Ivar Bentsen sono costretti a usare, in alcuni dei loro progetti, formati di finestre inusuali rispetto a quelli classici per rispondere alle condizioni di illuminazione
necessaria. Perché allora bisogna sovraccaricare le piante di simmetrie, che violentano l’organismo architettonico e ostacolano l’espressione formale delle sue funzioni? In contrapposizione a tali opere rivolte al passato Le Corbusier ha esposto dei progetti, che scaturiscono dallo spirito dell’epoca. Le Corbusier non parte mai da pregiudizi di tipo architettonico, quanto dalla risposta a determinate questioni. Quando egli dice che una casa deve
essere progettata e arredata come un’automobile, un omnibus o una cabina di nave, egli
non intende dire che bisogna imitarli in senso architettonico, quanto applicarne l’economia
dei mezzi. Egli critica la casa tradizionale per i difetti presenti nell’organizzazione dei suoi
spazi, promuovendo una definizione più precisa delle effettive necessità dell’abitare. Fino
ad ora la casa è stata concepita come un raggruppamento più o meno correlato di grandi locali, in cui vi era sempre troppo o troppo poco spazio. Le condizioni economiche attuali
costringono di fatto a economizzare negli spazi, in modo da evitare che l’abitazione divenga inadatta alle esigenze contemporanee. Per fare questo è innanzitutto necessario trasformare la mentalità degli abitanti. I vagoni di treno e le limousine hanno dimostrato che
l’uomo può passare anche attraverso porte strette, che si può calcolare lo spazio anche in
centimetri quadri e che è un delitto progettare bagni di 4 metri quadri. In molti degli edifici
realizzati Le Corbusier ha mostrato come egli cerchi non solo di porre in termini nuovi, ma
anche di dare una risposta alle questioni inerenti l’abitazione. Egli ha liberato la casa da
concezioni superate e svolge una ricerca priva di pregiudizi sui nuovi modi di abitare.
[Behne]
Literatur, in «SM», 1926, p. 669
L’architettura come fenomeno estetico viene affrontata nel libro ricco di illustrazioni
di Adolf Behne Der moderne Zweckbau [L’architettura funzionale], Monaco, Dreimaskenverlag. Egli analizza i nuovi sviluppi dell’architettura, i suoi precursori e rappresentanti principali, l’incrocio delle diverse tendenze, in particolare quelle del funzionalismo e dell’utilitarismo, che rientrano tuttavia nell’ambito complessivo dell’architettura per quello che riguarda forma, tecnica, costruzione e materiali. Per la diffusa
specializzazione e differenziazione delle tendenze e dei singoli rappresentanti viene
trascurata la totalità del problema, la sua idea di base viene lasciata troppo in sottofondo.
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Architetti, mostre, libri di architettura
Ludwig Hilberseimer Grosstadtbauten e altri scritti di arte e di architettura
Fischer von Erlach
Fischer von Erlach, in «SM», 1927, pp. 335-336
Il costruttore della Karlskirche di Vienna, Johann Bernhard Fischer von Erlach, a cui
Hans Sedlmayr dedica una monografia ricca di illustrazioni, Ediz. R. Piper & Co.,
Monaco, è uno dei protagonisti dell’architettura barocca tedesca. La sua opera non
solo fonda le sue radici nel XVII secolo, ma in un certo senso può essere vista come
la sua sintesi. Le prime opere di Fischer costituiscono una svolta epocale. La svolta
che dall’Italia si diffonde verso il nord passa in primo luogo attraverso l’Austria. La
fama di Fischer si conferma nel 1690 con la porta trionfale per l’ingresso di Giuseppe I. Con esso egli si impose sui suoi concorrenti italiani. Francesco Borromini
influenza in maniera determinante gli orientamenti del XVII secolo. Egli supera l’esuberanza volumetrica e la rigida compattezza dell’architettura predominante all’inizio
del XVII secolo. Egli introduce una maniera del tutto nuova e individuale di affrontare le questioni architettoniche grazie a una incredibile ricchezza d’immaginazione.
L’erede più importante di Borromini è Guarini. Con lui ha inizio lo sviluppo dello stile
borrominiano, che si diffonde in tutto il mondo. Dopo il 1700 sorgono in Austria edifici riconducibili senza dubbio all’influsso di Borromini. A quest’epoca risalgono le
prime opere di Fischer, che esulano completamente dai confini dell’architettura
usuale. Da uno sguardo complessivo sulla sua opera ciò che colpisce maggiormente è la grande ricchezza e fantasia che si esprime nei contrasti di tipo sia formale che
di contenuto. Un’evoluzione eccezionale dalle prime opere, che aprono la porta allo
stile di Borromini in Austria, fino alle ultime, che si spiegano come un rinascimento
dei lavori francesi preclassici. Contraddizioni di questo tipo emergono non solo in
opere così distanti nel tempo ma anche in quelle più vicine, addirittura all’interno della stessa opera. Questo non comporta tanto la trasformazione della visione artistica, quanto una più ampia ricchezza d’immaginazione. Ad esempio nella fusione di
motivi dell’epoca imperiale romana con le forme completamente differenti del Borromini. L’impronta preminentemente storica della creazione fischeriana trova la sua
massima espressione nell’architettura storica; ma anche negli edifici, che riuniscono
consapevolmente in effetti fantastici la realtà e l’invenzione, gli elementi propri e
quelli estranei. Per Fischer von Erlach il motivo dell’ovale riveste un significato particolare. Spesso viene sottolineato come elemento baricentrico della composizione.
Non tanto con intenti di tipo formale. Esso si definisce in rapporto alla profondità dello spazio circostante. Nelle opere di Fischer il ruolo assunto dall’ovale non viene
desunto dall’evoluzione spaziale della sua forma storica originaria, quanto in base
agli elementi specifici e individuali. L’elemento matematico resta chiaramente in
secondo piano rispetto a Borromini e Guarini. Il suo interesse si concentra su problemi di altro tipo. «Non appena lo sguardo si concentra sui rapporti che legano tra
loro le singole opere e in particolare su quelli instaurati dallo spazio ovale sviluppato
in profondità, allora si comprende, come tutto il resto passi in secondo piano. Poiché, per la storia mondiale dell’architettura, le relazioni tra le opere rappresentano il
superamento dell’isolamento del singolo oggetto architettonico, in un senso simile,
ma molto più profondo delle relazioni instaurate tra la singola opera e lo spazio aperto circostante, che si esprime in forme concluse liberamente, alti tetti, ecc.».
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Si potrà comprendere meglio il senso di questa affermazione, se ci si rifà alla concezione antica, secondo la quale «il mondo si scompone in semplici organismi singoli» (Riegl), che sono in sé completamente isolati e conclusi «come cristalli».
L’influenza di Fischer von Erlach sull’architettura barocca austriaca è stata determinante. Egli è stato ripetuto e imitato; in certi casi fino alla fine del XVIII secolo.
[Berlage/Oud]
Literatur, in «SM», 1927, p. 602
Con H.P. Berlage ha inizio l’architettura olandese moderna. Egli si forma organicamente dall’eclettismo della scuola di Cuijper. I suoi progetti e la realizzazione della
Borsa di Amsterdam mostrano chiaramente la sua liberazione, il suo coraggio e la
sua fiducia nei confronti della propria forza creativa. Sulle opere e concezioni teoriche di Berlage si fonda la nuova tendenza architettonica olandese. I nuovi architetti
olandesi hanno messo in pratica i propositi di Berlage, riconoscendo chiaramente,
che l’architettura è un’arte di tipo oggettivo-costruttivo. Come figura trainante dell’architettura olandese odierna ci si può riferire a J.J.P. Oud. Un suo scritto sull’architettura olandese è uscito come X volume dei Bauhausbücher, Monaco, Albert
Langen, che dimostra con immagini charificatrici lo sviluppo della nuova architettura olandese.
[Tessenow]
Literatur, in «SM», 1927, p. 782
In una terza edizione rielaborata è uscito Wohnhausbau [La costruzione della casa]
di Heinrich Tessenow, Monaco, Georg D.W. Callwey. Questo libro riporta in maniera
pregnante tutte le questioni particolari e generali sulla costruzione di una piccola
casa e rivela, non solo nei molteplici progetti illustrati ma anche nei ragionamenti teorici espressi, il suo carattere esemplare. Tessenow appartiene sicuramente ai pochi,
che senza essere deviati da qualsiasi fenomeno alla moda, è in grado di portare
avanti con chiarezza i suoi principi.
Muthesius
Muthesius †, in «SM», 1928, p. 179
Il 26. Ottobre 1927 Hermann Muthesius è morto in un incidente automobilistico a
Berlino. Aveva 66 anni. Durante la svolta del secolo aveva lavorato presso l’Ambasciata tedesca a Londra. Durante il periodo passato in Inghilterra egli studiò le città
giardino e le case di campagna e approfondì la conoscenza della cultura inglese. Die
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