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EUNOMIA RIVISTA SEMESTRALE DI STORIA E POLITICA INTERNAZIONALI ANNO III N.S., NUMERO 1, 2014 2014 Eunomia. Rivista semestrale di Storia e Politica Internazionali Università del Salento Direttore Responsabile Massimo Ciullo (Università del Salento, Lecce, Italy) Editor in Chief Antonio Donno (Università del Salento, Lecce, Italia) Scientific Board Furio Biagini (Università del Salento), Uri Bialer (Hebrew University, Jerusalem, Israel), Ester Capuzzo (Università “La Sapienza”, Roma), Michele Carducci (Università del Salento), Daniele De Luca (Università del Salento), Ennio Di Nolfo (Università di Firenze), Antonio Donno (Università del Salento), Giuseppe Gioffredi (Università del Salento), Alessandro Isoni (Università del Salento), Giuliana Iurlano (Università del Salento), David Lesch (Trinity University, San Antonio, TX, USA), Joan Lluís Pérez Francesch (Universidad Autónoma de Barcelona), Amparo Lozano (Universidad S. Pablo Ceu-Madrid, Spagna), Luke Nichter (A&M Texas University, USA), Francesco Perfetti (LUISS “G. Carli”, Roma), Attilio Pisanò (Università del Salento), Ricardo D. Rabinovich-Berkman (Universidad de Buenos Aires), Bernard Reich (George Washington University, Washington, USA), Antonio Varsori (Università di Padova), Manuela Williams (University of Strathclyde, U.K.) Editorial Staff Fausto Carbone, Giuliana Iurlano, Massimo Ciullo, Fiorella Perrone, Bruno Pierri, Francesca Salvatore (Publication Manager), Lucio Tondo, Ughetta Vergari Editorial Office c/o Corso di Laurea di Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali Università del Salento-Lecce Via Stampacchia, 45 73100 Lecce (Italy) tel. 39-0832-294642 tel. 39-0832-294765 fax 39-0832-294754 e-mail: [email protected] ISSN 2280-8949 Journal website: http://siba-ese.unisalento.it/index.php/eunomia © 2014 Università del Salento – Coordinamento SIBA http://siba2.unisalento.it Sommario ANNO III n.s., NUMERO 1, 2014 Editoriale……………………………………………………………………. p. 5 Saggi………………………………………………………………………… p. 7 JOAN DEL ALCÀZAR Chile, cuarenta años después. Memoria para el futuro contra memorias obstinadas………………………………………............................................ p. 9 LILIANA SAIU Gli Stati Uniti e il problema della sicurezza nell’area del Mediterraneo. Il rapporto Holmes, 1967 ............................................................................... p. 31 GIANLUCA BORZONI The King is dead, long live the Queen. I rapporti italo-britannici nei giorni del passaggio da Giorgio VI a Elisabetta II ........................................................................ p. 45 LUCIO TONDO Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz e il contrasto con il Kaiserreich (aprile 1914)…................................................................................................ p. 77 IDA LIBERA VALICENTI Un episodio poco conosciuto degli anni della seconda guerra mondiale: l’eccidio dei pugliesi di Crimea (1942-1945).....……………………………. p. 143 ENTELA CUKANI Consociational Power Sharing Arrangements as a Tool for Democracy: The Experiences of Macedonia and Kosovo………………………………… p. 157 SABRINA SERGI Diplomazie triangolari a confronto: Metternich/Kissinger………………..... p. 169 Note e discussioni…………………………………………………………..... p. 193 MICHELE CARDUCCI Sull’ipotesi di istituzione di una corte costituzionale internazionale: per il “diritto alla democrazia” e la tutela contro i mutamenti incostituzionali.................................................................................................. p. 195 3 EMANUELE PIGNATELLI Le “primavere arabe”: nascita e involuzione………………………………. p. 213 RICARDO RABINOVICH-BERKMAN Game of Laws. On the Creation of Fictitious Juridical Yesterdays………… p. 241 GIULIANA IURLANO Line in the Sand. Frontiera e frontiere negli Stati Uniti dell’Ottocento…………………........ p. 255 Recensioni………………………………………………………………….. p. 263 Gli autori...…………………………………………………………………. p. 279 Colophon………………………..………………………………………….. p. 281 4 EDITORIALE Con questo numero, «Eunomia» inizia il suo terzo anno di vita. A nostro giudizio, il bilancio può considerarsi positivo, anche se molto resta ancora da fare. Abbiamo consolidato alcune collaborazioni con settori rilevanti, sia nazionali, che esteri, di studiosi nel campo della storia contemporanea e in quello delle relazioni internazionali, e altre ancora sono in via di definizione. L’esperienza finora fatta, tuttavia, ci induce a ridefinire gli ambiti disciplinari e scientifici della nostra rivista. Nata con l’intento di rappresentare i settori scientifico-disciplinari del corso di laurea in Scienze politiche e delle relazioni internazionali dell’Università del Salento, nel corso del tempo la rivista – abbiamo constatato – non poteva accogliere un così vasto e differenziato arco di interessi scientifici, anche per mancanza di collaborazioni. In realtà, la grande complessità dei campi scientifici presenti in un corso di laurea in Scienze politiche e delle relazioni internazionali avrebbe potuto portare «Eunomia» – e in parte ciò è avvenuto – a configurarsi come una rivista dai confini indistinti e, in definitiva, dai connotati troppo generali. Così, una riflessione in seno alla redazione ci ha portato a decidere che, dal presente numero, «Eunomia» si definirà come una “rivista semestrale on-line di storia e politica internazionali”. Riteniamo che questa sia una scelta giusta per alcuni motivi. Innanzitutto, per il fatto che la rivista è nata per impulso di alcuni docenti e studiosi nel campo della storia internazionale, come si è potuto constatare dalla prevalenza di contributi in tal senso, apparsi nei primi quattro numeri e anche nel presente. In secondo luogo, per la volontà di caratterizzare la rivista in modo più preciso e rigoroso, individuando campi d’indagine metodologicamente omogenei, ma non per questo circoscritti in steccati culturali. Infine, per dare un contributo allo sviluppo degli studi sulla storia e politica internazionali, che hanno da sempre avuto un posto alquanto marginale, soffocati dal provincialismo culturale del nostro paese. Oltre che il formato, anche la struttura interna della rivista è mutata. Accanto ai saggi, proponiamo un settore di note e discussioni e, infine, una parte, ancora più sostanziosa, dedicata alle recensioni. Ciò che non cambierà, invece, sarà l’attenzione verso le proposte dei giovani studiosi, attenzione che ha già caratterizzato finora la nostra rivista in modo significativo. La Redazione 5 6 SAGGI Eunomia. Rivista semestrale di Storia e Politica Internazionali Eunomia III n.s. (2014), n. 1, 9-29 e-ISSN 2280-8949 DOI 10.1285/i22808949a3n1p9 http://siba-ese.unisalento.it, © 2014 Università del Salento JOAN DEL ALCÀZAR Chile, cuarenta años después. Memoria para el futuro contra memorias obstinadas Abstract: Four decades have passed since the Chilean Army was revolted against the government of Allende. Years pass, but individual and group memoirs — understood as discourses about the past — of this period remain belligerently contradictory, as evidenced by the dispute between the figures of Allende and Pinochet. We are concerned about this reality because young people who didn’t live the leaden years are ascribed — uncritically — to the dominant memory in their closest living space. Build a memory for the future, by increasing the dose of historical knowledge of young Chileans, could favor the recognition of internal political differences until making them compatible with a democratic coexistence of quality. Keywords: Chile; history; memory; youth; democracy. Cuarenta años después del golpe militar que acabó con la vida y con el gobierno de Salvador Allende, Chile continúa padeciendo la inexistencia de consensos básicos respecto al relato de su pasado próximo. Esta tesis puede comprobarse fácilmente. Un ejemplo: los dos personajes más importantes de su historia reciente siguen siendo objeto de filias, fobias y comparaciones con frecuencia acríticas. Hablamos de Salvador Allende y de Augusto Pinochet. Se trata de dos figuras de la historia contemporánea de Chile que, como seres humanos, poco tienen que ver el uno con el otro. Ambos personajes vivieron con proximidad física un período breve, intenso y crucial de la historia del país andino. Allende llegó a La Moneda por los cauces constitucionales y creyó hasta el final en la lealtad del general golpista. Pinochet lo hizo a punta de bayoneta y simuló su respeto a una autoridad a la que aborrecía. La victoria del general golpista, que se dijo patriota, significó la muerte del presidente que se quiso revolucionario. Han pasado los años y en Chile ambos personajes siguen siendo extremadamente controvertidos. Fuera del país, no obstante, la imagen de Pinochet está asociada a lo peor del ser humano. Paralelamente, la imagen de Allende perdura como muy positiva Joan Del Alcàzar en parte gracias a una cierta mitificación que resalta sus aciertos y virtudes, y oculta sus errores y sus déficits. Estas páginas obedecen a un interés por colaborar en la construcción de un discurso histórico coherente y veraz para las jóvenes generaciones que no deben ser rehenes de un pasado sobre el que no tienen responsabilidad alguna. Es necesario procurar un mejor conocimiento histórico a la juventud chilena, por ejemplo sobre estos dos personajes que siguen polarizando los discursos contradictorios – cuando no excluyentes – sobre ese pasado reciente de su país. La confrontación Allende vs. Pinochet como síntoma Es en nuestra opinión una evidencia que los dos grandes actores individuales citados han vertebrado la historia reciente de Chile. En unas declaraciones al diario español «El País», el ex presidente Patricio Aylwin decía hace menos de un año que Salvador Allende «no fue buen político» y le responsabilizó de la triste suerte de Chile a partir de 1970.1 Al más que caldeado ambiente interno se añadió la celebración, pocos días después, de un homenaje a Augusto Pinochet a cargo de nostálgicos del general. Esto agitó todavía más las aguas políticas chilenas. El festejo terminó con importantes incidentes que ponen de relieve que ambos personajes siguen suscitando aún mucha confrontación entre sus respectivos valedores y contrarios. Atendamos a la última hiriente controversia de la que hemos tenido conocimiento. Aunque parezca mentira, la extrema derecha todavía insulta a Allende, como se pudo comprobar en septiembre de 2012 en el parlamento de Valparaíso, con motivo del trigésimo noveno aniversario del golpe militar. Sigue siendo una tristísima realidad: una parte de la derecha autóctona parece que no solo no está a favor de la reconciliación de los chilenos, sino que ni siquiera parece aceptar la idea del reencuentro como fase previa. Cuando Michelle Bachelet era ministra de defensa, allá por el 2003, reflexionaba en una entrevista en el diario «El Mercurio» − con motivo del 30 aniversario del golpe 1 Ver R. MONTES, Entrevista a Patricio Aylwin. El presidente se confiesa, en «El País», 27 de mayo de 2012. 10 Chile, cuarenta años después − a propósito de la necesidad de trabajar conjuntamente por el reencuentro de sus compatriotas: «Sin buscarlo – y, probablemente, sin imaginarlo tampoco –, Michelle Bachelet se ha convertido en un símbolo de la reconciliación. Ella, sin embargo, prefiere usar otras palabras y no esa; reencuentro, por ejemplo, le acomoda mejor, la siente más suya. La actual ministra de defensa lo aclara en la entrevista: “Por eso no uso, en general, las palabras perdón o reconciliación. Reconciliación, porque es un asunto muy personal. Para que haya reconciliación a nivel colectivo requiere que haya más verdad y justicia. No se puede borrar el pasado. Primero porque es imposible. Segundo, porque es peligroso no aprender de las lecciones de la historia. Y tercero, porque como médico sé que para 2 que una herida sane tiene que estar limpiecita”». Lo era hace diez años y hoy sigue siendo una tarea en absoluto sencilla, porque se trata de una sociedad fragmentada por un traumatismo tan fuerte como fue la dictadura militar encabezada por el general Pinochet. Todavía treinta y nueve años después del suicidio del doctor Allende en un Palacio de la Moneda sitiado por las tropas golpistas, un diputado de la ultraderecha insultó públicamente la memoria del presidente socialista. La noticia fue, claro, ampliamente recogida en los medios: «Al inicio de la sesión de este martes en la cámara de diputados, el diputado René Alinco (Ind) solicitó realizar un minuto de silencio en memoria de las víctimas y del fallecido presidente Allende, petición que fue acogida por el presidente de la cámara, Nicolás Monckeberg (RN). Sin embargo, el momento fue interrumpido por el diputado Urrutia, quien cuestionó la decisión. “¿A los cobardes que se suicidaron ese día también le vamos a rendir homenaje? ¿Al cobarde que se suicidó ese día también? No puedo creerlo, presidente”, 3 manifestó el parlamentario de la UDI». Partidarios y detractores han representado − y en buena medida siguen representando − dos polos opuestos como referentes políticos tanto en Chile como más allá de sus fronteras. Salvador Allende se suicidó en la sede de la presidencia de la república, en el 2 «El Mercurio», 5 de septiembre de 2003. Diputado UDI lanzó insulto contra Allende en el congreso, en http://www.emol.com/noticias/nacional/2012/09/11/560026/diputado-udi-que-interrumpio-minuto-desilencio-en-el-congreso-con-insulto-a-allende.html [Consulta 12 de febrero de 2014]. 3 11 Joan Del Alcàzar Palacio de La Moneda, mientras era asediado por tierra y aire por tropas al mando de Augusto Pinochet, quien no sólo prohibió a sus subordinados negociar nada con el presidente legítimo, sino que además de exigirle rendición incondicional especuló − en un tono supuestamente jocoso − con la posibilidad de ponerlo en un avión rumbo a Cuba y que el aparato se estrellara antes de llegar a su destino. Desde ese 11 de septiembre de 1973, Augusto Pinochet reinó en Chile sin cortapisas, y lo hizo hasta que el plebiscito de 1988 amputó su mandato de forma inesperada. Pese a ello, durante los años en que continuó como comandante en jefe se mantuvo amenazante hasta que, fatalmente para él, viajó a Inglaterra en 1998. Allí murió (políticamente, se entiende), tras pasar más de quinientos días retenido por la policía británica a la espera de la resolución de sus tribulaciones jurídicas para evitar ser extraditado a España. En 2006 escribimos: «Desde la muerte política, ocurrida en Londres en el otoño de 1998, el general no ha sido sino un cadáver molesto. Hoy, frente al Palacio de La Moneda, una estatua afable de Salvador Allende preside la amplia y hermosa explanada. Jamás habrá sitio en ella para Augusto Pinochet Ugarte. Ya no quedan ni sus huesos, convertidos en cenizas por sus familiares para prevenir una hipotética profanación de la tumba, y los 4 chilenos son ahora más libres para definir su presente y su futuro». Los treinta y tres años que mediaron entre la muerte de Salvador Allende y la suya estuvieron marcados para Pinochet por el dramático final de su enemigo y su conversión en mito de la ejemplaridad republicana. Mientras que Allende fue entronizado como un mártir de la democracia y un referente de los progresistas del mundo, él hubo de soportar el indeleble estigma de haber sido el máximo responsable de la muerte del prócer y de haber instaurado una dictadura cruel en Chile que causó muchos miles de muertos, detenidos − desaparecidos, torturados, exiliados y represaliados internos. Sobre Allende se propagó una especie de leyenda dorada que el líder fallecido no tuvo la posibilidad de emborronar; mientras que sobre Pinochet se construyó una leyenda 4 J. ALCÀZAR, A modo de conclusión. La segunda muerte de Augusto Pinochet, en J. ALCÀZAR, Yo pisaré las calles nuevamente. Chile, revolución, dictatura, democracia (1970-2006), Santiago, Editorial Universidad Bolivariana, 2009. 12 Chile, cuarenta años después negra que el dictador − tras sus gafas de pasta negra y su gesto siempre adusto − pareció empeñado en confirmar de manera continuada desde el más explícito de los aislamientos como máximo mandatario de la República de Chile. Es cierto que el dictador gozó de un enorme predicamento entre los suyos durante el tiempo que duró su vida política, por lo menos hasta 1998, porque después de la retención londinense se airearon trapos sucios económicos − suyos y de su familia − que perjudicaron seriamente su imagen.5 Pero no lo es menos el hecho de que Pinochet prácticamente no pudo salir de Chile durante sus años de gobierno (viajó a España, al funeral de Franco, y fue una singularidad significativa), ni que haya pasado a la historia como paladín de la traición a la legalidad republicana chilena y de la crueldad represiva de su régimen. La llamada leyenda dorada que entronizó al fallecido presidente Allende se extendió con rapidez y fortuna y, excepto en algunos detalles, pervivió en el tiempo. Tras el golpe, todas las informaciones que provienen de la junta militar son entendidas como mentiras y propaganda. Paralelamente, los derrotados intentan defender – desde el interior y desde el exterior de Chile – la gestión del gobierno de la Unidad Popular, al mismo tiempo que denuncian la represión de los militares en el poder. En este contexto, comienza a edificarse desde el mundo progresista internacional una imagen mitificada de lo acaecido en Chile.6 El eje que vertebra esa versión ficticia es muy claro: pese a algunas voces que lo califican de tibio o ingenuo, Allende es exculpado de su responsabilidad política en el colapso de su presidencia. El argumento central se sustenta en las últimas horas del gobierno de la UP – con las dramáticas imágenes de La Moneda ardiendo por los cuatro costados, tras el ataque cobarde y abusivo con cazas de combate – y no en su desarrollo desde el 4 de noviembre de 1970. El tiempo histórico se comprime: más de 1000 días de gobierno se condensan en media jornada de desigual lucha, con lo que la balanza se inclina en favor de Allende y los defensores de La Moneda. Paralelamente, coexiste una 5 El escándalo se destapó en 2005 y dio paso a una minuciosa investigación sobre las cuentas secretas de Pinochet para tratar de esclarecer si parte de ellas podían venir de comisiones por la compra de armas. En octubre de 2007, cuando todavía no se había cumplido un año de la muerte del dictador, se ordenó el arresto y procesamiento de su familia. 6 Ver G. CÁCERES - J. ALCÀZAR, Allende I la UP: cap a una decostrucció dels mites polítics xilens, en «El Contemporani. Arts, Història, Societat», 15, 1998, pp. 33-41. 13 Joan Del Alcàzar segunda clave interpretativa: Allende es entendido como el mejor representante de la democracia chilena, y su muerte, a manos los facciosos, se homologa a la desaparición de una democracia de alto valor institucional en el contexto latinoamericano. Allende nos es presentado como un republicano ejemplar que ha muerto en combate.7 Se apunta así otro dato trascendental para los sectores más a la izquierda de la resistencia chilena: la de la muerte guerrillera de Allende – se niega tajantemente el suicidio, por lo tanto –, que contará con un narrador y fabulador excepcional, Fidel Castro, en un escenario inigualable, la Plaza de la Revolución de La Habana.8 Por último, de la leyenda dorada se desprende un tercer componente reduccionista. Al igual que en otras experiencias populistas de corte progresista, Allende pasa a encarnar al conjunto de un pueblo. Él es su portavoz dilecto y su desaparición es la pérdida de su principal y casi exclusivo defensor.9 La crónica de los hechos del día del golpe refuerza esa síntesis reduccionista. Como señalábamos con Gonzalo Cáceres en el artículo citado, mientras Allende actúa en defensa y estricto apego a la legalidad, los golpistas subvierten la legalidad de manera indigna. Mientras Allende es presentado como un líder carismático, depositario de una voluntad soberana expresada en las urnas y que lo obligaba a desenvolverse en medio de estrictos márgenes éticos, los facciosos – amen de singularizar la traición y la mentira en sus versiones más degradadas – asumen el papel de enemigos del pueblo. La tremenda e irresistible personalización del régimen militar convirtió en indiscutibles una serie de antinomias entre ambos personajes. La primera de ellas es la idiosincrasia de cada uno de ellos; uno, un general del ejército con un marcado y tosco perfil militar; el otro, un personaje político de naturaleza civil e ilustrada. Sobre esta base toman cuerpo sus rasgos más definitorios: la picaresca teñida de cautela de un 7 Ver S. ALLENDE, Obras escogidas (periodo 1939-1973), compilacion de G. MARTNER, Santiago de Chile, Centro de Estudios Politicos Latinosamericanos Simon Bolivar, 1992, p. 550. 8 El acto tuvo lugar el 28 de septiembre de 1973, y contó con la presencia de la viuda y las hijas de Salvador Allende. Fidel Castro hizo una recreación casi cinematográfica de la supuesta muerte en combate del líder chileno. Esa versión, la de la muerte en combate, muerte guerrillera, fue la versión oficial de la izquierda chilena durante décadas. El discurso de F. Castro en http://www.archivochile.com/S_Allende_UP/esp_homenajes/SAhomenaj0002.pdf [Consulta 12 de febrero de 2014]. Ver J. TIMOSSI, Grandes alamedas. El combate del presidente Allende, La Habana, Editorial de Ciencias Sociales, 1974. 9 Ver F. VARAS - J. VERGARA, Operación Chile, Barcelona, Pomaire, 1973. 14 Chile, cuarenta años después hombre taimado y poco claro, frente a la valentía de un presidente aparentemente cándido, franco y sin doblez. No solo sus formas de acceder al poder son opuestas − golpe de Estado, frente a elección democrática −, además también lo son las formas de ejercerlo: Pinochet lo hizo de manera dictatorial y sin piedad para con sus enemigos; mientras que Allende intentó desarrollar su ideal revolucionario a través de la democracia según era concebida en aquellos años desde la izquierda política. No en balde sus discursos representan dos polos opuestos de la comunicación: es la brillante oratoria del demócrata frente a la austeridad castrense del dictador; el discurso del tribuno culto e ilustrado, frente a la arenga autoritaria y la limitación verbal del militar. La memoria, las memorias, el futuro Como hemos hecho en otros trabajos, también en éste pretendemos colaborar modestamente – desde la investigación histórica – en la construcción de un futuro mejor para la sociedad chilena; un tiempo en el que las diversas memorias que existen en Chile sobre los traumáticos años de la Unidad Popular y la dictadura militar dejen de resultar contrapuestas y beligerantes. Es por ello que hablamos de memoria para el futuro. Debemos aclarar que cuando en este texto hablamos de memoria histórica o de memorias históricas, en singular o en plural, el lector debe saber que nos referimos tanto a los posicionamientos personales producto del recuerdo o de las vivencias individuales – que llevamos imaginariamente cargados a la espalda, como en una virtual mochila personal e intransferible –, como a los discursos o usos públicos personales o de grupo sobre el pasado reciente de Chile que conviven, no sin dificultades, en los distintos escenarios políticos y sociales de aquel país.10 En la medida que entendemos que la memoria para el futuro es una propuesta que puede devenir positiva para aquellas sociedades que quieren desarrollarse contando con ciudadanos comprometidos con la democracia, con la solidaridad social y con los 10 Ver J. ALCÀZAR, Continuar viviendo juntos después del horror. Memoria e historia en las sociedades postdictatoriales, en W. ANSALDI (dir.), La democracia en América Latina, un barco a la deriva, Buenos Aires, Fondo de Cultura Económica, 2007, pp. 411-434. 15 Joan Del Alcàzar derechos humanos, pensamos que la propuesta es válida para el Chile que rememora las cuatro décadas transcurridas desde aquella mañana del 11 de septiembre de 1973. Nos preocupa el hecho de que la existencia de discursos discordantes sobre el pasado histórico pueda resultar incompatible con un desarrollo más armónico, y que eso perjudique la convivencia de personas que comparten unas fronteras y una bandera. Es por ello que propugnamos la que podríamos llamar memoria mínima común de convivencia, aquella que se sustenta en una serie de consensos básicos sobre el pasado, que es – además – una construcción útil y necesaria para la formación en temas valóricos de la ciudadanía. Nos preocupa y nos motiva la formación de los ciudadanos como tales, con derechos y deberes, y – particularmente – la de los estudiantes actuales que serán los ciudadanos efectivos del futuro. Entendemos que es necesario potenciar entre la juventud una buena dosis de conocimiento histórico académico que les permita conciliar su memoria particular de origen familiar con una explicación coherente y fundamentada en la pretensión de objetividad propia de los historiadores. Y es por ello que pensamos que el período educativo es esencial para la formación de esos futuros ciudadanos adultos.11 Es importante precisar que entendemos que esta formación no se sustenta exclusivamente en la relación profesor alumno, tampoco exclusivamente dentro del aula, sino que es una formación que tiene que ver con lo que es la vida de la personas y, por tanto, con la conformación de la memoria individual de cada uno de los ciudadanos que sintoniza, entra en contradicción o incluso en conflicto con otras memorias individuales o con las memorias mayoritarias. Así pues, en buena medida hablar de memorias históricas es hablar de lecturas sobre el pasado.12 Esta propuesta de construcción de una memoria para el futuro arranca de la necesidad de generar ciudadanía democrática desde la etapa escolar. Entendiendo que los estudiantes tienen por un lado la información y la formación que reciben en la escuela, la información y la formación que perciben de la familia, y la información y la formación que recogen de su entorno vital más próximo, es evidente que se mueven en un escenario complejo. Si no hay contradicciones significativas entre los diversos 11 Nos referimos fundamentalmente a los estudiantes de enseñanza secundaria. Ver J. ALCÀZAR, Historia desde el cine [y con la literatura] para la educación, en «Revista Brasilera de Estudos Pedagógicos», XCIII, 235, set/dez 2012, pp. 645-666. 12 16 Chile, cuarenta años después niveles de formación e información las cosas van bien en la medida que posibilitan una adscripción de ciudadanía que en las sociedades democráticas ha de sustentarse en los ideales de igualdad, libertad y solidaridad. Pero esto no siempre ocurre, no siempre hay sintonía con el sistema valórico ideal ya que los discursos explicativos del pasado pueden encerrar grandes contradicciones entre ellos; incluso hasta el punto de ser obstáculos a veces insalvables para una convivencia armoniosa y, por lo tanto, para una buena adscripción democrática. Sociedades que han vivido experiencias traumáticas más o menos recientes, como los países de la Europa del sur o los de la América Latina, se encuentran entre las que podemos denominar sociedades en situación postraumática. Memorias en conflicto en el Cono Sur Dejando de lado los casos europeos, entre ellos el español, que todavía evidencia la dictadura franquista (1939-1973/75) y la transición democrática (1973/75-1982), hemos trabajado el escenario de los países del Cono Sur que vivieron las dos dictaduras que todavía hoy generan mayor contradicción en cuanto a los relatos existentes.13 En la Argentina posterior a 1983, Luis Alberto Romero había tipificado cuatro memorias en conflicto.14 En 1998, Steve J. Stern detectó, para el caso chileno, otras cuatro de lo que él denomina memorias emblemáticas.15 Manuel Antonio Garretón, por su parte, conecta las distintas memorias existentes en su país a lo que llama los hitos fundantes de la memoria nacional chilena16 e identifica tres: la Unidad Popular y la crisis de un proyecto nacional, el golpe militar y la dictadura y, en tercer lugar, el plebiscito y la redemocratización política. 13 Ver J. ALCÀZAR - J. CÁCERES, Clío contra las cuerdas: memorias contra historia en el Chile actual, en J. CUESTA (dir.), Memorias históricas de España (siglo XX), Madrid, Fundación Francisco Largo Caballero, 2007, pp. 412-427. 14 Ver L.A. ROMERO, El pasado que duele y los dilemas del historiador ciudadano, en http://www.unsam.edu.ar/escuelas/politica/centro_historia_politica/romero/Criterio.pdf. 15 Ver S.J. STERN, De la memoria suelta a la memoria emblemática: hacia el recordar y el olvidar como proceso histórico (Chile, 1973-1998), en E. JELIN (comp.), Las conmemoraciones: las disputas en las fechas ‘in–felices’, Madrid, Siglo XXI, 1998, pp. 11-33. 16 Ver M.A. GARRETÓN, Memoria y proyecto de país, en «Revista de ciencia política», XXIII, 2, 2003, pp. 215-230. 17 Joan Del Alcàzar Sin que ahora debamos de profundizar más en este terreno, a los efectos de nuestro objetivo con estas páginas, nos parece clarificadora la clasificación de Luis Alberto Romero, quien estableció la existencia de cuatro memorias de la última dictadura argentina que pueden tener – con las debidas matizaciones – valor genérico para el área latinoamericana: la llamada memoria oficial – fundada, dice, por el Informe Nunca Más e institucionalizada por la Teoría de los dos demonios17 – la militante, la rencorosa y la reivindicativa de los hechos de la dictadura. Una de las características comunes – y ésta es una realidad de extrema importancia – es que para ninguna de ellas la verdad, en el sentido convencional del término, es un objetivo importante. Y es que, como dice L.A. Romero: «Cada uno se acuerda de lo que quiere y se olvida de lo que le da la gana. La memoria es valorativa y categórica, y tiende a considerar las cosas en términos de blancos y negros [...] todo lo que en la memoria es exaltado y contrastado, en el campo del saber de los historiadores 18 es opaco y matizado». Así pues, los problemas de las contradicciones entre las memorias del pasado − las de matriz más estrictamente política y partidaria − pueden verse agravadas por el abismo social que separa a esos grupos que están en la parte de arriba y en la de abajo de la pirámide social. Hay, pues, una tensa relación entre la historia reciente y el presente político y social. En los casos chileno y argentino la aparición de las memorias militantes fue, quizá, el único espacio de actuación posible. En buena medida, pensamos, se produjo una contaminación, si se puede hablar así, de la memoria de la dictadura por la desilusión de la democracia. La baja calidad de la democracia recuperada frustró demasiadas expectativas, especialmente las de aquellos que se reconocían como víctimas directas de la dictadura militar, pero también de otros que habían imaginado (no sin razón, dada la simplificación extrema de los discursos partidarios que alentaron grandes expectativas) que la democracia iba a mejorar su calidad de vida de forma casi automática. El caso argentino es muy ilustrativo: de las 17 Ver M. RANALLETTI, La construcción del relato de la historia argentina en el cine, 1983-1989, en «FilmHistoria», on-line, IX, 1, 1999, pp. 3-15. 18 ROMERO, El pasado que duele y los dilemas del historiador ciudadano, cit. 18 Chile, cuarenta años después grandes ilusiones de 1983 al «que se vayan todos» de 2001, se produce un descenso al descrédito del sistema democrático. Peldaños como las asonadas militares de Aldo Rico y otros, la hiperinflación, la amnistía para la junta militar, el fin de la convertibilidad, condujeron, en palabras de L.A. Romero, «al punto más bajo del imaginario democrático».19 En ciertos sectores surge con fuerza una memoria militante, que propicia la politización partidista del pasado reciente como herramienta o arma antisistema (democrático). Se trata, con frecuencia, de aquellos que siguen pensando, décadas después, que la democracia − peyorativamente adjetivada como burguesa − no es sino un disfraz de la clase dominante, que ahora dice repudiar la dictadura de la que se sirvió poco tiempo atrás. Hay que ser conscientes, sin embargo, que en la otra orilla política también surge una memoria reivindicada por los partidarios del olvido, si se nos permite el juego de palabras. En el caso chileno, muy extremo eso sí, los hay que consideran que no hay nada que reprochar al régimen militar, ni por supuesto al general Pinochet. Estos nostálgicos incluso consideran que al general habría que agradecerle a perpetuidad el haber evitado una guerra civil y haber modernizado Chile. Desde esa posición ofrecen, metafóricamente, una especie de propuesta de tablas en una imaginaria partida de ajedrez: los partidarios del olvido (los correligionarios o amigos de los verdugos) vendrían a decir a los partidarios de la memoria (los correligionarios o amigos de las víctimas), poco más o menos: vale más que dejéis de hablar del pasado y que miréis hacia el futuro, porque si hablamos del pasado todos podremos y deberemos hablar.20 Se trata de la llamada por Steve Stern memoria de la caja cerrada; esto es: no hablemos del pasado, que es peligroso. Nuestra propuesta va, justamente, en el sentido inverso: hablemos del pasado, pero hagámoslo pensando en el futuro. Aquellos estudiantes que estamos formando como ciudadanos, aquellos con quienes queremos colaborar en la generación de esa memoria para el futuro, no son responsables de lo ocurrido antes de que ellos intervinieran en la 19 20 Ibid., p. 3. Ver ALCÀZAR - CACERES, Clío contra las cuerdas, cit., pp. 421-422. 19 Joan Del Alcàzar realidad política y social de sus países, pero deben tomar conciencia de ella. Es en este sentido que recuperamos las declaraciones del ex canciller alemán Gerhard Schröeder pronunciadas en 2005 en Berlín, en el transcurso un acto celebrado con motivo del 60 aniversario de la liberación del campo de exterminio de Auschwitz. Tras afirmar que los actuales ciudadanos alemanes «no tienen ninguna culpa del Holocausto», añadió que «es un deber común de todos los demócratas enfrentarse al acoso repulsivo de los neonazis y al intento de quitar importancia a los 21 crímenes nazis». Aquello que defendía Schröeder es que la juventud alemana no es responsable del Holocausto, pero debe saber que existió; la española no es responsable de la guerra civil ni de la dictadura de Franco, pero debe conocerlas; igual que tampoco lo es la chilena de la dictadura de Pinochet. No obstante, deben saber que existieron y que, además de inaceptablemente injustas, pueden tener efectos perniciosos para la convivencia si ellos no son agentes activos para revertir la situación. Como decíamos al principio de estas páginas, los años van cayendo del calendario y los dos actores políticos más importantes del Chile reciente siguen representando no solo dos formas de entender cómo ha de organizarse una sociedad compleja, sino que proponen dos maneras de enfrentar la vida, dos formas de ser en relación con los otros, dos pautas de sociabilidad más que contrarias, antagónicas. El civil, seductor, vitalista, ilustrado y tribuno comprometido con la emancipación de los desheredados, contra el militar, dogmático, jerárquico, tosco pero efectivo en la salvaguarda de los valores más conservadores de una sociedad muy clasista. Observado por el extranjero, Chile presenta en ocasiones una imagen de isla solitaria, ajena a lo que pasa en otras latitudes, ya sean próximas o lejanas. La pervivencia de la confrontación entre Allende y Pinochet es un litigio que solo se entiende desde Chile, de la misma manera que solo dentro de España pudo entenderse la vigencia de un cierto franquismo sociopolítico muerto el dictador. No hay reivindicación alguna del franquismo hoy día, por más que sus herederos políticos sean 21 Ver J. COMAS, Schröder: «No tenemos culpa, sí responsabilidad», en «El País», 26 de enero de 2005. 20 Chile, cuarenta años después − unos más que otros − los actuales gobernantes. Franco es hoy un recuerdo incómodo, casi de mal gusto, y a lo más que pueden llegar quienes orbitan en la nostalgia es a negarse en redondo a cualquier condena de lo que fueron las más de tres décadas de dictadura que nos infligió. Los adolescentes españoles de hoy a duras penas pueden decir dos frases sobre aquel general bajito, de voz meliflua y de crueldad probada. Y eso pasará con Pinochet en Chile, con el andar de los años. No obstante, no debemos ni limitarnos a esperar que el tiempo resuelva nuestros problemas ni auto engañarnos: estas controversias, todavía efervescentes en el país andino, son de consumo exclusivamente interno. Fuera de los límites nacionales, Pinochet está condenado como responsable de una dictadura que violó los derechos humanos de forma cuantitativa y cualitativamente dantesca. Es cierto que los seguidores del general siempre insisten en que el número de víctimas fue muy bajo, como si se tratara del balance de un desastre natural y tres mil víctimas directas con resultado de muerte o desaparición fueran una cifra razonablemente asumible. Claro que eso lo conectan a que se evitó una guerra civil que, suponen, hubiera tenido un mayor coste en vidas humanas. Y ese es un razonamiento, insistimos, exclusivamente de consumo interno. En cuanto a Salvador Allende, sin embargo − a diferencia de lo que ocurre con Augusto Pinochet − hay mayor sintonía entre su imagen de dentro y su imagen de fuera de Chile. Entendemos que sigue encarnando todo un ramo de virtudes entre las que figura la coherencia, la abnegación y hasta la asunción del martirio en defensa de sus principios. Podrá aducirse que es una asignación sesgada, incompleta y que no recuerda los errores que se le pueden atribuir al líder socialista en la dirección de un proceso que tuvo, quizá, más de voluntarismo político que de resultado del análisis concreto de la realidad concreta del Chile − y de la América Latina − de los primeros años setenta del siglo XX. Podrá argumentarse en esta línea de manera muy razonable, pero eso no cambiará esa visión mayoritariamente positiva del hombre que fue capaz de inmolarse en el Palacio de la Moneda una mañana de septiembre del año setenta y tres. 21 Joan Del Alcàzar Creemos que la confrontación de los dos actores ha de ser superada y que ha de avanzarse en la construcción de bases más sólidas tanto de la concepción de la Historia de Chile como en lo que se denomina la política de la Historia. A nuestro juicio, esa falta de consensos fundamentales no es estrictamente un problema chileno actual, sino que viene de más atrás de la victoria de la Unidad Popular, aunque la situación se envenena definitivamente a partir de 1970. Y son esas visiones envenenadas las que fundamentan las distintas memorias que encontramos todavía en conflicto. A finales del siglo pasado, Steve J. Stern había detectado cuatro de las que él denomina memorias emblemáticas.22 La primera es la memoria como salvación. Desde esta posición el trauma chileno se ubica antes del golpe militar, un período en el que la economía era arbitraria y catastrófica y la violencia había alcanzado niveles preocupantes. Para quienes se adscriben a esta línea de memoria el odio impregnaba el aire, y el país se dirigía indiscutiblemente hacia una guerra civil que había de ser muy cruenta. Una segunda memoria emblemática es la que Stern denomina memoria como ruptura lacerante no resuelta. El eje sobre el que pivota esta concepción es que el régimen de Pinochet llevó a Chile a un infierno de muerte, tortura y dolor físico y psicológico. En tercer lugar identifica la que llama memoria como una prueba de la consecuencia ética y democrática. Es una memoria que pone a prueba la consecuencia en la defensa de los valores éticos de las personas, que se ven confrontadas a la realidad dramática de las grandes violaciones de los derechos humanos. Finalmente, la cuarta de las memorias emblemáticas es la de la caja cerrada. El eje vertebrador de ésta es que el golpe y las violaciones de los derechos humanos subsiguientes constituyen un tema importante pero peligroso y hasta explosivo si se abra la caja y se ventila su contenido. Como el problema no tiene solución y es tan peligroso y complicado, lo mejor es mantener cerrada la caja. El general Pinochet, en su discurso del 13 de septiembre de 1995, era contundente en esta línea: 22 Ver STERN, De la memoria suelta a la memoria emblemática, cit. 22 Chile, cuarenta años después «Es mejor quedarse callado y olvidar. Es lo único que debemos hacer. Tenemos que olvidar. Y esto no va a ocurrir abriendo casos, mandando a la gente a la cárcel. OL-VI-DAR, esta es la palabra, y para que esto ocurra, los dos lados tienen que olvidar y seguir 23 trabajando». Nosotros discrepamos frontalmente del general. Mantener viva, por generaciones, la memoria de la caja cerrada es no solo injusto con las víctimas de la dictadura; no solo inaceptable desde la construcción del discurso histórico, es además un grave error político. Un error que lastra la convivencia de los chilenos. Resulta, por tanto, imprescindible, avanzar en la [re]construcción del relato sobre el pasado reciente del país. Romper clichés, acabar con las mitificaciones y enseñar historia a los jóvenes La sociedad chilena ‒ en nuestra opinión ‒ todavía no ha sido capaz de ubicar en un lugar apropiado ni al presidente Allende ni al dictador Pinochet, ambos venerados por los suyos y odiados por sus detractores. Los partidarios del primero ‒ del presidente legítimo ‒ tienden a envolverlo entre algodones y a demonizar al general. Por otro lado, los fieles al dictador todavía le otorgan el galardón de gran héroe que salvó al país del comunismo y de la inminencia de una guerra civil, supuestamente buscada por el camaleónico Allende. Cuando las heridas no están cicatrizadas, pese a las casi cuatro décadas pasadas desde el golpe, es fácil que la tensión se reavive con cualquier pretexto. Esto es ‒ según entendemos desde la distancia − lo que ha ocurrido recientemente en Chile, donde prácticamente – como referíamos al principio – han coincidido en el tiempo una polémica entrevista al ex presidente Aylwin con la celebración de un homenaje a Pinochet, que iba acompañado de la presentación de un documental hagiográfico sobre el general.24 23 Ver http://www.derechoschile.com/espanol/acerca.htm [Consulta 12 de febrero de 2014]. Documental dirigido por Ignacio Zegers, en http://www.youtube.com/watch?v=8kGWGTa0y_M. [Consulta 12 de febrero de 2014] que, además, se ha visto en vuelto en otra polémica y es que el cineasta chileno Miguel Littin ha denunciado el robo intelectual de imágenes de su película Compañero, Presidente. 24 23 Joan Del Alcàzar Las reacciones a las declaraciones de Aylwin no se hicieron esperar. Isabel Allende, hija del presidente, emitió un comunicado en el que se decía: «El golpe de Estado fue responsabilidad de quienes lo ejecutaron y de quienes conspiraron para derribar al gobierno constitucional […] culparlo o a él o a la UP (la coalición que lo sustentaba) contradice toda evidencia histórica». También el que fuera presidente, Ricardo Lagos, salió en su defensa alegando que el presidente «fue un demócrata. Al momento del golpe de Estado había un parlamento que funcionaba, había tribunales que funcionaban. Y por 25 lo tanto nada justifica el golpe». Por otro lado, el homenaje a Pinochet − autorizado por el gobierno de Sebastián Piñera − hizo que los disturbios volvieran a las calles de Santiago y se saldaran con 20 heridos y 64 detenidos. La onda expansiva ha llegado también al terreno de la política partidaria; el gobierno de Piñera ‒ a través de Andrés Chadwick, su portavoz ‒ adoptó una posición de neutralidad ante el acto al que dicen no haber sido invitados.26 Pese a la asepsia gubernamental, el presidente Piñera se ha visto salpicado directamente por la cuestión. En una entrevista concedida a la BBC pocos días después del homenaje, el presidente de Chile daba por zanjada de manera brusca el encuentro después que el periodista le preguntara a propósito de la polémica sobre el homenaje a Pinochet.27 Más allá de las declaraciones, lo que parece indiscutible es que pasan los años y la confrontación Allende vs. Pinochet sigue abierta, lo que no es sino la evidencia de que continúan existiendo distintas y antagónicas memorias de la historia reciente de Chile. Desde la responsabilidad que compete al pueblo chileno respecto a su presente y su futuro, parece que sería necesario revisar críticamente los discursos existentes y comenzar a construir un discurso distinto, así como a superar la contraposición de las 25 R. NÚÑES, Chile: Allende y Pinochet, dos fantasmas que se niegan a desaparecer, 11 de junio de 2012, en http://www.infolatam.com/2012/06/12 [Consulta 12 de febrero de 2014]. 26 Ver El Gobierno de Chile no es partidario del homenaje a Pinochet, en «Europapress.es», 6 de junio de 2012, en http://www.europapress.es/latam/chile/noticia-chile-gobierno-no-partidario-homenaje-pinochetdefiende-derecho-organizacion-celebrarlo-20120606052157.html [Consulta 12 de febrero de 2014]. 27 Ver G. LISSARDY, La pregunta sobre Pinochet que BBC Mundo no le pudo hacer a Piñera, en «BBC Mundo. Una voz independiente», en http://www.bbc.co.uk/mundo/noticias/2012/06/120622_entrevista_pinera_chile_pera.shtml. 24 Chile, cuarenta años después dos figuras que es un ejercicio con escasos dividendos que no sean negativos. Es necesario aceptar la diferencia de la responsabilidad en el gobierno del país: uno, Allende, tres años; y el otro, Pinochet, diecisiete. Y es imprescindible asumir que mientras que el primero consideró un servidor leal al segundo hasta la misma mañana del golpe, Pinochet consideró siempre enemigos a Allende y a todos sus partidarios. Es necesario aceptar que el golpe militar se puede entender, pero en ningún caso justificar; de la misma manera que si se comprende que el golpe fue bien recibido por mucha gente como la única salida al caos, no por ello se acepta su desarrollo posterior, particularmente las violaciones masivas, sistemáticas y continuadas de los derechos humanos más elementales. Resulta necesario superar los mitos que existen de un lado y desde el otro y trascender a efectos de la comprensión del pasado la visión estrictamente ética. Si nos enfrentamos desde la ética a los dos periodos o a los dos personajes no hay discusión: hay un gobierno legítimo, convulso e inoperante en su última fase si se quiere, pero legítimo; y hay un gobierno ilegitimo y violador de los derechos humanos que usurpó el poder al primero por la fuerza de las armas. Esto no puede ponerse en discusión, ni se puede justificar con los viejos y manidos clichés de la guerra civil inminente, ni de los miles de hombres armados dispuestos a dar un baño de sangre a Chile, puesto que conocemos suficientemente bien los hechos históricos probados que desmienten estas afirmaciones. Aceptar los errores, las insuficiencias, los déficits y las contradicciones del periodo de la UP o del proyecto gubernamental de Allende no puede ponerse en el mismo plano de simetría respecto al desempeño de una dictadura militar ‒ dictadura, no régimen militar, dictadura28 − larga, cruel y cruenta. Por tanto, se trata de abandonar las mitificaciones y de superar las imágenes estereotipadas a propósito de los representantes de dos visiones antagónicas de la historia reciente de Chile. Es necesario romper con la idea de que el derecho de propiedad es equiparable al derecho a la vida, como es 28 El Consejo Nacional de Educación (CNED) de Chile, en su sesión del 9 de diciembre de 2011, erradicó el concepto de “dictadura militar” de los ejes temáticos de Historia para sexto básico (enseñanza secundaria). Eso dio lugar a una importante respuesta ciudadana en forma de una carta abierta a Harald Bayer, ministro de educación del gobierno de Sebastián Piñera, que recogió miles de firmas. Ver https://sites.google.com/site/dictaduraporsunombre/ [Consulta 12 de febrero de 2014]. 25 Joan Del Alcàzar necesario situar a ambos personajes en un contexto de guerra fría, de confrontación Este-Oeste, de blancos y de negros, o de rojos contra azules, en el que la defensa de los valores propios ‒ revolucionarios o conservadores − podía llegar a estar por encima de cualquier otra consideración política. Pensando fundamentalmente en las generaciones que no vivieron ni los años de la UP ni los de la dictadura militar, sería deseable construir un relato explicativo del pasado reciente desde la pretensión de objetividad que es propia del oficio de historiador, que permita superar los planteamientos esencialistas y que reconozca las diferencias políticas e ideológicas internas, incluso las diferencias de proyectos sociales, desde la convicción que pueden ser perfectamente compatibles en la construcción y el desarrollo de una convivencia colectiva razonablemente armónica.29 En este sentido, ante la confrontación de los partidarios de dos actores políticos de las dimensiones de Salvador Allende y de Augusto Pinochet, es necesario aceptar que estamos ante dos proyectos políticos diametralmente opuestos en cuanto a sus principios y a sus sistemas de valores. Uno se alinea con las corrientes favorables a la reducción de las distancias entre los distintos grupos o clases sociales, haciendo énfasis en el papel regulador y redistributivo del Estado, que ha de garantizar que los intereses privados estén subordinados a los públicos, especialmente para mejorar las condiciones de vida y trabajo de los sectores más humildes; y eso mientras promueve un sistema de organización de la sociedad que considera más justo y que identifica con el socialismo de inspiración marxista. Mientras tanto, el otro construye su programa político sobre la autoridad militarizada e indiscutible, el orden social rígidamente jerarquizado y la inviolabilidad de la propiedad privada que no puede estar subordinada al intervencionismo del Estado, todo ello desde la identificación con lo que denomina los valores occidentales y cristianos; valores que considera antagónicos con el materialismo y el ateísmo que adjudica al socialismo. A ambos hay que enmarcarlos en un mundo dividido en dos, en un escenario que llamamos guerra fría y que no admitía ni las medias tintas ni los matices políticos. 29 Ver R. VILLARES, El debate sobre la historia de España o la politica de la historia, en J. ALCÀZAR (Coord.), Història d’Espanya: què ensenyar. Debat al voltant de la historia d’Espanya, Valencia, PUV, 2002, p. 27. 26 Chile, cuarenta años después Por otro lado, las pautas de gobierno de uno y de otro se sustentan sobre presupuestos completamente diferentes. Las de Salvador Allende, de manera no exenta de importantes contradicciones, se cimentan en el mantenimiento de la legalidad republicana, aunque con un discurso equívoco que en la medida que identifica la meta final con la Cuba castrista ‒ pese a que enfatiza que la ruta será bien distinta a la de los guerrilleros de la Sierra Maestra − era una propuesta abierta a diversas interpretaciones, muy probablemente porque quería dar satisfacción a la pluralidad de sensibilidades y de grupos ideológicos que coexistían dentro de la UP y en su inmediata periferia. Adolecía el proyecto, además, de una concepción homologable a lo que hoy día entendemos por un funcionamiento democrático, en la medida que era deudor de una concepción instrumentalista de la democracia que la izquierda política mundial, muy especialmente la que se reclamaba de filiación marxista en su sentido más estricto, tenía absolutamente arraigada. La democracia aparecía ‒ para quienes creyeron en la Vía chilena, dentro y fuera del país − como un sistema mediante el cual esa misma izquierda podía acceder al poder de manera no violenta, pero en la medida que se consideraba que el pueblo ya había alcanzado su estación término, el mantenimiento de las formas de la llamada democracia burguesa era algo absolutamente prescindible. Los presupuestos constitutivos del gobierno de Pinochet, por su parte, son los que sustentan las llamadas dictaduras de seguridad nacional de los años sesenta, los setenta y los ochenta, en sintonía por tanto con las directrices de protección hemisférica frente al expansionismo soviético que tanto se temía desde Washington, especialmente, después que la pequeña Cuba se convirtiera en una especie de portaviones de la supuesta pandemia revolucionaria de filiación moscovita. En su desarrollo, el gobierno militar de Pinochet practicó con fruición la persecución hasta el exterminio del enemigo interior al que, desde el principio, despojó no solo de su nacionalidad sino, en la práctica, de su condición de ser humano; y lo convirtió en sujeto receptor de todas las violaciones de la doctrina de los derechos humanos básicos. Si el gobierno al que llamaba comunista había puesto en cuestión el sacrosanto derecho de propiedad había sido porque no se habían preservado adecuadamente los sistemas de control social, y porque se había permitido la proliferación de las organizaciones que ponían en cuestión 27 Joan Del Alcàzar el sistema sociopolítico existente, proponiendo su transformación radical y revolucionaria. Solo desde una acción resuelta y radical – quirúrgica, como gustaban decir; de amputación hablará Pinochet a Miguel de la Cuadra Salcedo en una entrevista para TVE realizada en septiembre de 197330 – podía ponerse freno a ese desbarajuste político y revertir la situación. Allende en sus discursos siempre afirmaba estar convencido de que solo la democracia era la llave para llegar al socialismo, por lo que apostó – con modestia, le dijo a Regis Debray en la conversación que ambos mantuvieron en 197131 – por lo que él creía una forma novedosa de transitar hacia el socialismo en los tiempos del mundo bipolar. Tan cargada de ilusiones como preñada de contradicciones, la llamada Vía chilena se nos antoja hoy día como un producto muy singular de su tiempo; una propuesta frágil que se sustentaba en un concepto de democracia bien distinto del de nuestros días, en la medida que ‒ como hemos dicho − se apoyaba en una instrumentalización que hoy nos resulta inaceptable. La defensa de la democracia ‒ de la democracia sin apellidos ‒ aparecería para la izquierda política mundial de la mano del partido comunista italiano;32 precisamente, tras la caída del gobierno de la UP y como resultado de las reflexiones que su fracaso y su derrota suscitó.33 La visión de Allende, mucho más abierta no obstante que la de una buena parte de quienes conformaban la propia coalición del gobierno que él presidía, se legitimaba a si misma tras una razón fundamentalmente ética que se compadecía mal con las correlaciones de fuerzas políticas realmente existentes no solo en Chile, sino en América Latina en su conjunto. En ese escenario de guerra fría, en un hemisferio en el que la potencia hegemónica eran los Estados Unidos de América, el precio a pagar por aquellos que habían osado desafiar el status quo anterior no solo a 1970, sino al de los años posteriores a la victoria 30 Ver http://www.rtve.es/alacarta/videos/reporteros-de-la-historia-de-tve/miguel-quadra-chile-1973/631040/ [Consulta 12 de febrero de 2014]. 31 La entrevista fue grabada y convertida en documental por Miguel LITTIN, con el título de Compañero Presidente. Ver http://vimeo.com/47478157 [Consulta 12 de febrero de 2014]. 32 Ver A. GRAMSCI - P. TOGLIATTI - E. BERLINGUER, El compromiso histórico, Barcelona, Crítica, 1978. 33 Ver A. RIQUELME, Los modelos revolucionarios y el naufragio de la vía chilena al socialismo, en «Nuevo Mundo/Mundos Nuevos», 27 de enero de 2007, en http://nuevomundo.revues.org/10603. 28 Chile, cuarenta años después castrista, había de ser alto. El régimen militar, por tanto, se empleó a fondo, en sintonía con otros regímenes continentales de la misma matriz y se decidió a extirpar lo que denominaban el cáncer marxista. Si el comunismo no era una ideología sino que era una enfermedad − como había dicho J. Edgar Hoover, director del FBI durante casi medio siglo − el general Pinochet como otros de sus coetáneos, civiles y militares, estaba decidido a curar a Chile de ese mal. Sería bueno, pues, ubicar a ambos personajes en su época y en su contexto, y asumir ‒ mediante el conocimiento y la enseñanza de la Historia − un pasado que podemos disfrazar pero no cambiar. Y sería bueno ofrecer un discurso coherente y veraz a las jóvenes generaciones que no debieran ser rehenes de un pasado reciente − pero cada vez más alejado − sobre el que no tienen responsabilidad alguna. 29 Eunomia. Rivista semestrale di Storia e Politica Internazionali Eunomia III n.s. (2014), n. 1, 31-44 e-ISSN 2280-8949 DOI 10.1285/i22808949a3n1p31 http://siba-ese.unisalento.it, © 2014 Università del Salento LILIANA SAIU Gli Stati Uniti e il problema della sicurezza nell’area del Mediterraneo. Il rapporto Holmes, 1967* Abstract: By early 1967, security in the Mediterranean region was a matter of serious concern to the Johnson Administration. This was partly a consequence of the increased Soviet naval presence and most of all of Moscow’s political activities in some parts of North Africa and the Middle East. Mainly based on unpublished records, this essay describes the United States’ action to overcome the problem that ultimately resulted in the activation of the NATO Naval On Call Force in the Mediterranean. Keywords: The Holmes Report; Mediterranean Security; U.S. Foreign Policy; NATO; NAVOCFORMED. All’inizio della primavera del 1967, i vertici dell’esecutivo guidato da Lyndon Baines Johnson commissionarono allo Special State-Defense Study Group uno studio delle prospettive di potenziamento degli interessi statunitensi nel lungo periodo nella regione gravitante sul Mediterraneo. Lo studio doveva consistere in un’analisi profonda degli interessi e degli obiettivi politici degli Stati Uniti e della loro interazione con gli interessi di altre potenze e con l’evoluzione di forze e orientamenti nell’area del Mediterraneo e del Vicino Oriente. Lo scopo era quello di fornire ai policy-makers americani una guida per la politica verso l’area nel quinquennio 1967-1972. La crisi mediorientale del maggio 1967 e la guerra dei sei giorni conferirono alla questione maggiore urgenza, e tuttavia lo studio era stato commissionato prima dello scoppio di quella guerra, segno che a Washington la situazione era già considerata preoccupante, soprattutto in ragione dell’incremento della presenza di unità navali sovietiche, in massima parte provenienti dalla flotta del Mar Nero. Questa presenza militare, praticamente nulla in passato, improvvisamente aveva cominciato a divenire consistente a partire dalla primavera del 1963, in concomitanza con lo schieramento di sottomarini armati con missili Polaris deciso dall’amministrazione Kennedy dopo la rimozione dei missili Jupiter dalle basi italiane e turche, rimozione avvenuta, a sua volta, all’indomani della crisi cubana dell’ottobre 1962. Alla maggiore presenza sovietica, sempre nel 1963, Liliana Saiu aveva contribuito l’annuncio diramato alla fine della riunione ministeriale della NATO a Ottawa circa l’organizzazione delle forze nucleari assegnate al Comando Supremo Alleato in Europa, SACEUR.1 In verità, all’incremento progressivo della propria presenza militare, l’Unione Sovietica aveva affiancato una proposta di denuclearizzazione del Mediterraneo (il progetto Lake of Peace, o Sea of Peace) con una nota consegnata agli Stati Uniti, al Regno Unito e ai governi di quattordici paesi rivieraschi. Ma questa iniziativa non aveva avuto alcun seguito, in quanto i principali destinatari l’avevano considerata solamente come una mal celata pretesa di ritiro unilaterale delle forze occidentali dal Mediterraneo o, al massimo, come un’iniziativa propagandistica diretta a creare dissenso fra i paesi NATO e a disorientare i non allineati.2 Naturalmente, l’attivismo sovietico verso il Mediterraneo non era soltanto una questione di causa-effetto correlato ai missili Polaris e all’incremento in genere della disponibilità di armi nucleari da parte della NATO; si trattava anche della necessità dei vertici sovietici di recuperare la credibilità e l’autorevolezza compromesse dalla débacle dell’impresa cubana sia a livello interno e in relazione ai rapporti con i paesi satelliti, sia nei confronti del movimento comunista internazionale, sia, e non è questo un aspetto secondario, nella competizione in corso con la Cina per mantenere il ruolo guida, la leadership mondiale del suddetto movimento, ovvero per assumerlo – o non perderlo ove già acquisito – nei paesi di nuova indipendenza. Competizione con la Cina comunista, che ai sovietici era già costata, nel 1961, la perdita dell’unica base per * Questo articolo riprende il tema trattato nella relazione da me presentata al convegno finale del progetto PRIN 2008, coordinato dal Prof. Leopoldo Nuti. 1 Sul dispiegamento dei missili Polaris e l’organizzazione delle forze nucleari NATO, si veda diffusamente L. NUTI, La sfida nucleare. La politica estera italiana e le armi atomiche 1945-1991, Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 241-262. 2 La nota fu consegnata il 20 maggio 1963, vigilia della conferenza ministeriale NATO di Ottawa, proprio per protesta contro l’annunciata decisione di dislocare nel Mediterraneo sottomarini armati con missili Polaris. La nota affermava che l’URSS era venuta a conoscenza della dislocazione di sottomarini armati con missili Polaris nel Mediterraneo, precisamente in basi situate in Spagna, a Cipro e a Malta, e considerava tale passo una minaccia alla pace nell’area mediterranea e nel mondo. Chiedeva, pertanto, la denuclearizzazione del Mediterraneo. Il testo è in «Relazioni Internazionali», XXVII, 22, 1963, pp. 690692. Ampia documentazione sulla nota sovietica e le reazioni dei destinatari in THE NATIONAL ARCHIVES (d’ora in poi TNA), Kew Gardens, File DO 182-61: Proposals for Nuclear Free Zone in the Mediterranean, May-September 1963. 32 Gli Stati Uniti e il problema della sicurezza nell’area del Mediterraneo sottomarini di cui il patto di Varsavia disponeva nel Mediterraneo, e cioè quella di Valona in Albania. E, a proposito di basi, va precisato che l’espansione della presenza navale sovietica era avvenuta pur in assenza di vere e proprie basi, né l’URSS avrebbe potuto procurarsele senza smentire la sua stessa propaganda contro la presenza di basi straniere all’estero. L’URSS si serviva, però, delle strutture generosamente messe a disposizione da paesi amici, segnatamente Egitto e Siria.3 Per qualche tempo, l’affacciarsi di unità sovietiche nel Mediterraneo non aveva eccessivamente impensierito gli americani. Si trattava, comunque, di una presenza limitata e non in grado di competere con la sesta flotta degli Stati Uniti. La sua consistenza nel 1967, secondo un rapporto NATO, era mediamente la seguente: un incrociatore, otto cacciatorpediniere e unità di scorta, comprese unità dotate di missili SSM e SAM, una nave appoggio per sottomarini, una o più unità da sbarco, uno o due sottomarini atomici, da sei a otto sottomarini alimentati da combustibile convenzionale, diverse unità d’appoggio.4 Tuttavia, il quadro dell’attivismo sovietico si era man mano e, in misura crescente, esteso a vendita di armi, ad assistenza economica e ad invii di stuoli di esperti in vari campi in alcuni paesi mediterranei e anche mediorientali, come ad esempio l’Iraq. Ed era quest’aspetto politico assai più di quello militare a costituire la 3 Sull’incremento delle unità navali e dell’influenza dell’Unione Sovietica nell’area mediterranea, si vedano: J.C. CAMPBELL, The Soviet Union and the United States in the Middle East, in «Annals of the American Academy of Political and Social Science», vol. 401: America and the Middle East, 1972, pp. 126-135; G.S. DRAGNICH, The Soviet Union’s Quest for Access to Naval Facilities in Egypt Prior to the June War of 1967, Center for Naval Analyses, Arlington, VA, July 1974; L.J. GOLDSTEIN - Y.M. ZHUKOV, A Tale of Two Fleets: A Russian Perspective on the 1973 Naval Standoff in the Mediterranean, in «Naval War College Review», LVII, 2, Spring 2004, pp. 32-33. Sulle operazioni della flotta sovietica nel Mediterraneo in questo primo periodo, si veda B.W. WATSON, Red Navy at Sea: Soviet Naval Operations on the High Seas, 1956-1980, Boulder, CO, Westview Press/Arms and Armour Press, 1982, pp. 73-83. In generale, sull’evoluzione della dottrina navale sovietica durante la guerra fredda e l’influenza dell’ammiraglio Sergei Gorshkov, si vedano G.E. HUDSON, Soviet Naval Doctrine and Soviet Politics, 1953-1975, in «World Politics», XXIX, 1, October 1976, pp. 90-113; G.E. MILLER, An Evaluation of the Soviet Navy, in «Proceedings of the Academy of Political Science», XXXIII, 1, The Soviet Threat: Myths and Reality, 1978, pp. 47-56; M. MCCGWIRE, Naval Power and Soviet Global Strategy, in «International Security», III, 4, Spring 1979, pp. 134-189. 4 Cfr. Rapporto NATO: The Situation in the Mediterranean, s.d., ma collocabile al maggio-giugno 1968. Documento ottenuto tramite Mandatory Review Request da NATIONAL ARCHIVES AND RECORD ADMINISTRATION (d’ora in poi NARA), Washington, DC. Sulla consistenza della presenza navale dell’URSS si veda anche la testimonianza dell’ambasciatore degli Stati Uniti presso la NATO durante l’amministrazione Johnson: H. CLEVELAND, NATO: The Transatlantic Bargain, New York, Harper & Row, 1970, pp. 95-97. 33 Liliana Saiu fonte delle preoccupazioni di Washington; queste attività potevano, infatti, porre a repentaglio quanto era rimasto nei rapporti fra i principali paesi occidentali e i paesi arabi, tanto più che, nella sua opera di penetrazione, Mosca non esitava a utilizzare l’ostilità di questi ultimi verso Israele in funzione anti-occidentale.5 L’ampiezza della composizione dello Special State-Defense Study Group incaricato dell’analisi della situazione di per sé dimostrava l’importanza ad essa attribuita dall’esecutivo degli Stati Uniti. Il gruppo era, infatti, formato da sette militari appartenenti al dipartimento della difesa, quattro funzionari del dipartimento di stato, uno del dipartimento dell’interno e due funzionari della Central Intelligence Agency. Doveva, inoltre, operare sotto la supervisione di un Senior Policy Group formato dal direttore della stessa CIA, dal presidente dei Joint Chiefs of Staff e da alti funzionari dei dipartimenti di stato e difesa. A presiederlo fu chiamato un diplomatico a riposo, Julius Holmes, che era stato, tra l’altro, assistente speciale del segretario di stato per gli affari della NATO alla fine degli anni ’50 e, dal 1961 al 1965, ambasciatore a Teheran. Per un breve periodo, Holmes aveva fatto anche parte del gruppo di negoziatori americani che, nel 1954, avevano contribuito alla risoluzione della questione di Trieste. Lo studio fu terminato a metà luglio, e i risultati vennero raccolti in un rapporto rimasto noto come rapporto Holmes, ufficialmente intitolato: Near East, North Africa and the Horn of Africa: A Recommended American Strategy.6 Sul piano generale, e a prescindere dai suoi destini, questo documento è di grande importanza, in quanto rappresenta il punto di partenza dell’accentuazione dell’attenzione statunitense per l’area del Mediterraneo nella fase finale dell’amministrazione Johnson, un’attenzione 5 Tra i numerosi studi sulla politica degli Stati Uniti verso l’area mediorientale anche nel periodo qui considerato, si vedano in particolare: H.W. BRANDS, Into the Labyrinth: The United States and the Middle East, 1945-1993, New York, McGraw Hill, 1994; D. LITTLE, American Orientalism: The United States and the Middle East since 1945, Chapel Hill and London, The University of North Carolina Press, 2002; W.B. QUANDT, Decade of Decisions: American Policy toward the Arab-Israeli Conflict since 1967, Berkeley, University of California Press, 1977; P. TYLER, A World of Trouble: The White House and the Middle East from the Cold War to the War on Terror, New York, Farrar, Straus and Giroux, 2009. 6 Cfr. Report Prepared by the Special State-Defense Study Group: “Near East, North Africa and the Horn of Africa: A Recommended American Strategy, undated (ma ricevuto dall’ufficio del segretario alla difesa il 17 luglio 1967), UNITED STATES DEPARTMENT OF STATE, Foreign Relations of the United States (d’ora in poi FRUS), 1964-68, vol. XXI, Near East Region; Arabian Peninsula, U. S. Government Printing Office, Washington D.C., 2000, doc. 22. 34 Gli Stati Uniti e il problema della sicurezza nell’area del Mediterraneo che assunse carattere d’urgenza di lì a poco, in concomitanza con l’inizio dell’amministrazione Nixon, e che, nel 1970, portò all’istituzione, in ambito NATO, della NAVOCFORMED, ovvero della forza navale su chiamata per il Mediterraneo.7 E tuttavia, il Mediterraneo, peraltro destinatario di gran parte delle raccomandazioni finali, non era esplicitamente menzionato nel titolo, che invece si riferiva all’area vasta che gravitava, e gravita, su di esso e sulla quale si ripercuotevano i mutamenti o anche i semplici sbilanciamenti degli equilibri Est-Ovest. E, tra queste aree, era indicato anche il Corno d’Africa, situato in prossimità di una delle porte del Mediterraneo (chiusa, al momento della conclusione rapporto, ma si sperava per poco), una porta critica e, in quanto tale, oggetto delle apprensioni americane, specialmente dopo l’annuncio britannico relativo all’abbandono degli impegni di difesa a est di Suez. Riguardo ai contenuti, il documento, piuttosto lungo e talora ripetitivo, esordiva con una dettagliata descrizione di una serie di US National Interests, primo dei quali era impedire all’URSS o ad altri Stati ostili di guadagnare una posizione predominante. Alcuni degli altri: mantenere le vie d’accesso nel Mediterraneo, nel caso fosse stato necessario intervenire militarmente nel Northern Tier (il livello settentrionale dell’alleanza, formato da Grecia e Turchia e completato dall’Iran); ostacolare l’accesso sovietico alla regione mediante il rafforzamento del medesimo Northern Tier. Il Northern Tier e il suo rafforzamento ricorrevano, d’altronde, in molte parti del documento, dal quale, invece, mancava qualunque accenno a possibili difficoltà d’interazione, per non dire d’assistenza, nei confronti del regime tutt’altro che democratico instaurato tre mesi prima in Grecia. Ma, d’altra parte, c’erano ben altre priorità rispetto a una revisione dei rapporti con la Grecia, che, con la sua posizione chiave, rimaneva un elemento essenziale dello schieramento atlantico.8 7 Sui vari aspetti e i molteplici versanti della politica di Nixon verso la regione mediorientale, si vedano gli studi pubblicati in Nixon, Kissinger e il Medio Oriente (1969-1973), a cura di A. DONNO e G. IURLANO, Firenze, Le Lettere, 2010. 8 «Greece, like Turkey and Iran, emerges as particularly important to the U.S. given the uncertainties in the Middle East and the Soviet thrust in that area»: così scriveva il segretario di stato, Dean Rusk, al presidente Johnson il 27 luglio 1967, in FRUS, 1964-1967, vol. XVI, Cyprus, Greece, Turkey, U. S. Government Printing Office, Washington, D.C., 2000, doc. 296. Tre anni più tardi, fu il presidente Nixon 35 Liliana Saiu Ancora, fra gli interessi nazionali degli Stati Uniti il rapporto Holmes poneva la necessità di salvaguardare l’accesso alle risorse petrolifere dell’area a condizioni accettabili. Per comprendere l’importanza del problema, occorre ricordare che, all’inizio del 1967, più del sessanta per cento del consumo di petrolio e derivati richiesto agli Stati Uniti in ragione della guerra in Vietnam e più della metà delle risorse petrolifere utilizzate dalla sesta e settima flotta provenivano dal Medio Oriente. Non solo, gli Stati Uniti ormai importavano almeno il venti per cento del petrolio per uso interno, e la percentuale saliva rapidamente. In altre parole, da net exporter gli Stati Uniti divenivano net importer; il picco della produzione teorizzato negli anni ’50 dal geologo americano M. King Hubbert era stato raggiunto, segnando un evento epocale di cui deve tenere conto ogni analisi della politica estera degli Stati Uniti, dal periodo qui in considerazione agli anni a noi più vicini.9 Il secondo punto dello studio Holmes era dedicato alle Soviet Activities e iniziava con la lapidaria affermazione che, nell’area di studio, l’URSS perseguiva il suo attacco indiretto all’Europa utilizzando a tal fine ogni mezzo per eliminare l’influenza occidentale, specialmente quella americana, per destabilizzare la NATO, la CENTO e gli accordi occidentali di sicurezza bilaterali, e per guadagnare per se stessa posizioni comparabili con quelle occidentali in ambito politico, militare ed economico. Veniva, comunque, riconosciuto un limite di fondo all’azione di Mosca, e cioè il timore che conflitti locali potessero portare a uno scontro diretto con gli Stati Uniti. Peraltro, si osservava che le tattiche sovietiche erano favorite da alcuni fattori, primo fra tutti la mancanza di antichi legami coloniali; di conseguenza, l’URSS era esente da accuse e sospetti di nuovo imperialismo, che, al contrario, gravavano sull’Occidente in genere. a ricordare che la Grecia manteneva undici divisioni nello schieramento della NATO: Off-the-Record Remarks by President Nixon, 16 settembre 1970, in FRUS, 1969-1976, vol. I, Foundations of Foreign Policy, 1969-1972, U.S. Government Printing Office, Washington, D.C., 2003, doc. 71. 9 Dati sul consumo statunitense del petrolio mediorientale in Paper Prepared in the Department of State: Near East Oil: How Important Is It?, February 8, 1967, in FRUS, 1964-1967, vol. XXI, cit., doc. 19. Sul picco di Hubbert, si veda K.S. DEFFEYES, Hubbert’s Peak: The Impending World Oil Shortage, Princeton, Princeton University Press, 2001, e ID., Beyond Oil: The View From Hubbert’s Peak, New York, Hill and Wang, 2005. Solo ultimamente la produzione statunitense di petrolio e gas ha cominciato una costante risalita; si vedano i dati relativi pubblicati dalla U.S. Energy Information Agency nel proprio sito: www.eia.gov. 36 Gli Stati Uniti e il problema della sicurezza nell’area del Mediterraneo Un certo anti-occidentalismo era del resto nutrito da una parte crescente delle classi sociali meno privilegiate di alcuni paesi dell’area.10 La parte centrale del rapporto era dedicata alla strategia che gli Stati Uniti avrebbero dovuto adottare, Strategy for the United States. Venivano suggerite ben nove linee d’azione, prima delle quali, forse non a caso, era definita come Safeguard the Southern Flank of Europe through Diversification of Western Involvement. Questo punto esordiva con l’osservare che, dalla seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti spesso avevano dovuto far fronte a problemi nell’area «virtually unaided and at considerable cost». Proseguiva notando che, nell’area medesima, c’erano ancora importanti interessi dell’Europa occidentale; ciò nonostante, gli alleati europei degli Stati Uniti non avevano voluto assumersi pienamente «their share of the burden». In modo più specifico: «Europe is a natural source of influence in the region. Consequently, the US should press for greater unilateral and multilateral involvement of Western Europe, commensurate with its interests». Concludeva con l’asserzione che un maggiore coinvolgimento di altre potenze sarebbe valso anche a mitigare la tendenza verso una «unstable polarization and a direct USUSSR confrontation». Ecco, dunque, che il rapporto Holmes arrivava al vero punto dolente: i costi o, meglio l’annosa e spinosa questione del burden sharing, della condivisione dei costi della difesa, sulla quale lo stesso segretario di stato Dean Rusk intervenne più volte e con maggiore insistenza a partire dal 1964 (l’anno della risoluzione del Golfo del Tonkino e del conseguente inizio dell’escalation in Vietnam), senza mai dimenticare di rimarcare l’egoismo degli alleati europei.11 Una questione che, con Nixon, sarebbe assurta al livello di priorità negli obiettivi americani con quella che 10 Su questo punto, si veda A. Donno, Una relazione speciale. Stati Uniti e Israele dal 1948 al 2009, Firenze, Le Lettere, 2013, p. 170. 11 Tra le varie dichiarazioni in tal senso del segretario di stato Rusk: «The Secretary [Rusk] “emphasized that our allies are not shouldering an equitable share of the overall Nato defense burden […] pointed out that we are in a ‘desperate situation’ regarding our costs in comparison to those of Europe and that the allies ‘will not move unless we are harsh’”». Memorandum for the Files, May 2, 1964, in Frus, 19641968, vol. XIII, Western Europe Region, U. S. Government Printing Office, Washington D.C., 1995, doc. 21. Sul problema della spartizione dei costi anche in seno alla Nato durante la presidenza Johnson, si veda Cleveland, Nato: The Transatlantic Bargain, cit., pp. 86-89. 37 Liliana Saiu divenne una sorta di vera e propria operazione politica denominata Redcoste, ossia Reduction of Costs in Europe. Tornando alle svariate strategie raccomandate dal rapporto Holmes, vale la pena di citarne alcune: perseguire una migliore capacità militare degli stessi Stati Uniti; fornire armamenti convenzionali con pragmatismo e flessibilità; dissuadere Israele e gli arabi dall’acquisire armi nucleari e missili strategici e sollecitare la loro accettazione di salvaguardie internazionali. Esaurita l’elencazione delle strategie, il rapporto Holmes raccomandava ben trentasette iniziative politiche specifiche volte all’implementazione delle medesime strategie. La prima di tali iniziative riguardava la Mediterranean Region, in merito alla quale proponeva di avviare discussioni per focalizzare l’attenzione dei paesi dell’Europa occidentale sui loro stessi interessi di sicurezza e sulla necessità di assumere maggiore responsabilità; per sollecitarli a rafforzare i legami con gli Stati radicali dove l’influenza degli Stati Uniti scarsa; per promuovere una pianificazione congiunta da parte della NATO, onde far fronte ad eventuali contingenze; infine, per creare una piccola forza navale permanente entro la stessa NATO. In pratica, secondo le risultanze del rapporto Holmes, l’attivismo sovietico nella regione del Mediterraneo poneva seriamente a repentaglio gli interessi statunitensi e, per far fronte al pericolo, gli Stati Uniti dovevano a loro volta porre in essere in prima persona tutta una serie di iniziative che si preannunciavano politicamente ed economicamente molto onerose se non ci fosse stato il contributo dei paesi dell’Europa occidentale, che era quindi imperativo assicurarsi. Una volta completato, il rapporto Holmes passò alla valutazione dei dipartimenti e delle agenzie interessate, dove non trovò consensi unanimi. Al contrario, specialmente nell’ambito dell’ufficio Intelligence and Research (INR) del dipartimento di stato, trovò molte critiche: principalmente quella secondo cui la minaccia sovietica era sovrastimata e, di conseguenza, la necessità d’azione assai meno urgente di quanto raccomandato nel rapporto. Alcuni funzionari dell’INR scrissero lunghi rapporti in cui, punto per punto, contestavano sia le premesse, sia le conclusioni del rapporto. Uno di questi documenti poneva in rilievo come le cattive intenzioni attribuite all’URSS derivassero da un 38 Gli Stati Uniti e il problema della sicurezza nell’area del Mediterraneo giudizio semplicistico che non teneva in considerazione la storia delle cattive relazioni sovietico-statunitensi degli ultimi vent’anni e l’andamento del confronto nucleare e che non distingueva la retorica ideologica dei dirigenti di Mosca dalla loro politica operativa. Agli Stati Uniti poteva dar fastidio l’intrusione sovietica nel Mediterraneo, proseguiva il rapporto, ma, dopo tutto, in quel mare c’erano sottomarini armati con missili Polaris con testate nucleari puntate contro l’URSS. Washington poteva risentirsi dell’attivismo sovietico e delle mosse per guadagnare un’influenza predominante almeno in alcuni Stati arabi e anche in Iran. Ma, in fin dei conti, gli Stati Uniti si erano posti alla guida di altri Stati arabi a danno dell’URSS: negli anni Cinquanta avevano tentato di creare la Middle East Defense Organization (MEDO), poi avevano sponsorizzato il patto di Baghdad (la CENTO, Central Treaty Organization) diretta ad allineare sulle posizioni americane e contro l’URSS alcuni paesi del Medio Oriente o, quanto meno, ad innalzare un cordone sanitario contro qualunque influenza dell’Unione Sovietica in un’area ad essa immediatamente adiacente. Infine, non c’era alcuna prova seria del fatto che Mosca nutrisse qualche speranza di dirottare dai mercati occidentali il petrolio mediorientale, dato che a quei mercati Mosca non poteva offrire alcuna alternativa.12 In un secondo documento, si argomentava, fra l’altro, che la questione non era regionale, ma globale: se la posizione militare sovietica in Medio Oriente avesse posto una minaccia diretta ai paesi NATO, senza dubbio si sarebbero rese necessarie 12 Cfr. David Mark to Arthur Hartman, Memorandum. Current Soviet Foreign Policy: How Should the US Interpret it and React (A Personal View), September 5, 1967, in NATIONAL ARCHIVES AND RECORDS ADMINISTRATION (d’ora in poi NARA), Record Group (d’ora in poi RG) 59, Senior Interdepartmental Group Files 1966-1972 (SIG), Lot File 74 D 344, box (b.) 7. Le opinioni di Mark non sono mutate nel tempo; da un’intervista del 1989: «Q: Did it ever occur to you that the Russians themselves might feel under threat from the West? A: Oh, I'm sure they did. I mean, the Russians have felt that all along. We were the first with nuclear weapons; we were clearly supporting their enemies, that is anti-communist forces, in all the states which they considered to be in their sphere of influence in Eastern Europe. We supported anti-communist Poles, Hungarians, Czechs, Romanians – well, there weren't many of those, but some – Bulgarians, less so, Yugoslavs, whatever, so that our anti-Moscow intentions were very clear in those areas. And the Russians felt that this was their security buffer zone, and we weren't willing to accept it». THE LIBRARY OF CONGRESS, The Foreign Affairs Oral History Collection of the Association for Diplomatic Studies and Training, in http://memory.loc.gov/cgibin/query/r?ammem/mfdip:@field(DOCID+mfdip2004mar02). 39 Liliana Saiu contromisure tecnicamente adeguate. Ma questo non richiedeva misure particolari nella regione mediterranea, perché era altamente improbabile che essa diventasse il centro di eventuali ostilità sovietico-americane. La protezione dei Polaris, sottolineava il documento per inciso, era parte di un problema globale assai più che locale. E tra i paesi NATO, solamente la Turchia era particolarmente esposta alla potenza sovietica, il che però era vero anche molto tempo prima che Mosca estendesse la propria influenza in Medio Oriente; in ogni caso, la questione era molto più politica che militare, e politica in senso Est-Ovest e non nell’ambito mediorientale.13 Un altro documento dell’INR si lanciava nell’elogio di una politica di basso profilo e dei suoi meriti.14 Un altro ancora metteva in evidenza quelli che venivano considerati errori di analisi e di valutazione del rapporto Holmes.15 Questi pareri non incontrarono alcuna rispondenza ad alto livello. Ma le critiche mosse da un esponente di un altro settore dell’amministrazione ebbero, invece, un particolare risultato. L’esponente in questione era Harold Saunders, membro dello staff dell’autorevole National Security Council. Essenzialmente, Saunders contestava l’utilità di prendere in considerazione iniziative politiche che il congresso non avrebbe mai approvato, in quanto superiori alle risorse e alle capacità degli Stati Uniti. Sollecitati da Saunders, altri settori del dipartimento di stato concordavano sul fatto che i rapporti degli Stati Uniti con la maggior parte degli europei in merito all’Africa e al Medio Oriente fossero stati in parte impostati sulla rivalità e non sulla collaborazione; che il ruolo del Regno Unito e degli Stati Uniti quali poliziotti del Medio Oriente e difensori degli interessi occidentali a fronte dell’aggressione sovietica era stato a lungo dato per scontato in Europa occidentale e, infine, che, a prescindere dai motivi, l’Europa appariva riluttante ad esercitare un ruolo militare e politico nel Mediterraneo-Medio Oriente.16 13 Cfr. All. B (untitled) to INR-George C. Denney, Jr., to Katzenbach, September 13, 1967, Subject: SIG Discussion of Holmes Study and Proposed Five Year Strategy, NARA, RG 59, SIG, Lot File 74 D 344, b. 7. 14 Cfr. J. LEONARD, A “Low Posture” in the Middle East, September 13, 1967, all. C, ibid. 15 Cfr. Check List of INR Comments on Proposed “Five Year Strategy” for the Near East, North Africa, and the Horn and the Underlying Holmes Study, s.d., all. A, ibid. 16 Cfr. Memorandum for the Record. Subject: Near East-South Asia IRG Meeting Wednesday, 16 August 1967, Discussion of the Holmes Study, in FRUS, 1964-68, vol. XXI, cit., doc. 24. 40 Gli Stati Uniti e il problema della sicurezza nell’area del Mediterraneo Si deduce da questi giudizi che nei livelli più alti dell’amministrazione non si trattava di ridimensionare i punti di vista e le raccomandazioni del rapporto Holmes; si trattava, piuttosto, di richiamare gli europei alle proprie responsabilità e, soprattutto, di ottenere la loro partecipazione alla condivisione degli oneri politici e finanziari impliciti nell’applicazione del rapporto. E, data la scarsa rispondenza ai ripetuti appelli, per non dire alle intimazioni precedenti, occorreva trovare modalità più efficaci o, almeno, tentare di trovarle. A questo punto, dunque, secondo una prassi non nuova ai policymakers americani, la questione venne rimbalzata dalla responsabilità degli Stati Uniti a quella della NATO,17 sede che a Washington sembrava molto più promettente in vista di un esito positivo, perché, in quanto alleati NATO, i paesi dell’Europa occidentale avrebbero trovato molto più difficile sottrarsi a oneri che, dopotutto, riguardavano un’area la cui sicurezza in gran parte ricadeva nella responsabilità dell’alleanza. E, sul piano interno, i rispettivi governi avrebbero probabilmente trovato minore opposizione nel far accettare nuove spese derivanti dagli impegni atlantici, piuttosto che richieste singolarmente e quasi d’imperio dagli Stati Uniti, verso i quali, tra l’altro, anche a causa del Vietnam, vasti strati dell’opinione pubblica europea manifestavano critiche e scontento.18 Pertanto, il rapporto Holmes venne “sanitized”. Il sottotitolo originario, A Recommended American Strategy, fu trasformato in un più sobrio A Background Paper. Le parole United States o American vennero sostituite con NATO, oppure Western Europe; quindi, gli interessi americani diventavano interessi della NATO, le azioni da intraprendersi dagli Stati Uniti diventavano azioni NATO o dei paesi dell’Europa occidentale, e così di seguito. Contestualmente, si stabilì che Julius Holmes si recasse in missione presso il consiglio atlantico e i principali alleati NATO per presentare il suo 17 Sull’utilizzo della NATO quale veicolo dei programmi di sicurezza degli Stati Uniti, mi permetto di rinviare al mio Basi e strutture militari degli Stati Uniti in Italia. Il negoziato, 1949-1954, Roma, Aracne, 2014, in particolare il cap. I. 18 In particolare, sulle reazioni dei partiti e dell’opinione italiani alla guerra nel Vietnam, si veda L. NUTI, Le relazioni tra Italia e Stati Uniti agli inizi della distensione, in L’Italia repubblicana nella crisi degli anni settanta, a cura di A. GIOVAGNOLI e S. PONS, vol. I: Tra guerra fredda e distensione, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002, pp. 38-42. 41 Liliana Saiu rapporto e chiedere che in seno all’alleanza fosse costituito un comitato ad hoc per studiare la situazione nel Mediterraneo e i mezzi per farvi fronte, seguendo le indicazioni contenute nello stesso rapporto. In definitiva, fu in questa forma “sanitized” che il rapporto ricevette l’approvazione definitiva; contestualmente, vennero approvate anche le istruzioni per la missione Holmes, le quali contemplano, tra l’altro, che il diplomatico statunitense spiegasse le ragioni obiettive del rapporto; ponesse in evidenza l’impatto della minaccia sovietica sugli interessi occidentali e l’esigenza di una comune consapevolezza del problema da parte degli alleati NATO; auspicasse la creazione di un gruppo di studio NATO per raggiungere una valutazione condivisa e concordare linee d’azione adeguate; suggerisse che il consiglio atlantico chiedesse al comando supremo delle forze alleate in Europa (SACEUR) e al comitato politico della NATO di contribuire al lavoro del gruppo di studio. Nella lettera di trasmissione delle istruzioni si precisava che su di esse vi era il pieno accordo dell’ambasciatore americano presso la NATO, Harlan Cleveland, e che, per consentire l’elaborazione della politica americana verso il Medio Oriente, era necessario sapere in quale misura gli alleati NATO condividessero il punto di vista di Washington in merito alla minaccia sovietica o potessero essere persuasi ad accettarne la validità.19 In buona sostanza, la missione Holmes si configurava come una sorta di “vendita” del concetto di una minaccia sovietica che nemmeno l’amministrazione americana condivideva unanimemente, ma che rappresentava la base indispensabile per la condivisione di oneri che gli Stati Uniti non erano più disposti ad accollarsi da soli. D’altra parte, soprattutto alla luce degli eventi mediorientali di quell’anno, era imperativo che ci fossero una rielaborazione e un rilancio della politica americana nell’area per non rischiare un passivo politico che l’amministrazione di Washington giudicava intollerabile. 19 Sulla seconda versione del rapporto e sulle istruzioni a Holmes, si vedano Sonnenfeldt a Holmes: Comments on NATO Version of Your Study, September 12, 1967, NARA, RG 59, SIG, Lot File 74 D 344, b. 7; Leddy a Katzenbach, Instructions for Ambassador Holmes’s Trip to Europe for Consideration by SIG, September 12, 1967, ibid; Hartman a Katzenbach: For Your Meeting With Amb. Holmes, September 13, 1967, ibid; Record of Meeting, September 14, 1967, in FRUS, 1964-1968, vol. XXI, cit., doc. 25; Department of State to Amembassy Paris, t. 4683, September 20, 1967; NAC Consultations on the Middle East. For Ambassador Cleveland, NARA, RG 59, SIG, Lot File 74 D 344, b. 7. 42 Gli Stati Uniti e il problema della sicurezza nell’area del Mediterraneo La missione Holmes non fu un pieno successo. Gli scandinavi erano fisicamente lontani dal problema; gli italiani più attenti ai loro rapporti bilaterali; i tedeschi erano preoccupati di trovarsi in condizione di dover realmente applicare la dottrina Hallstein e, di conseguenza, privarsi di relazioni diplomatiche con paesi con i quali intrattenevano interessanti rapporti economici e commerciali; i francesi, dopo l’abbandono delle strutture militari integrate della NATO, sembravano stare sulla soglia della stessa alleanza atlantica; gli inglesi non potevano tornare indietro sulle revisioni della difesa e, comunque, ritenevano che l’intenzione ultima degli americani di innalzare la bandiera della NATO sulla sesta flotta non fosse affatto “a British interest”. Sulla maggior parte dei governi dell’Europa occidentale gravava, infine, l’imbarazzo di intraprendere azioni in collaborazione con il nuovo regime greco.20 Altri fattori di primaria importanza agivano sulle reazioni degli alleati europei. Nessuno voleva rischiare di iniziare entro la NATO e, quindi, di dare ufficialità a discussioni che inevitabilmente avrebbero toccato il punto più dolente della situazione mediorientale, e cioè il conflitto arabo-israeliano. Nessuno voleva che la NATO diventasse un’assise o avesse la parvenza di voler mediare nel conflitto. Nessuno, insomma, intendeva essere coinvolto anche minimamente. Un altro fattore era la situazione stessa della NATO, considerate la succitata iniziativa francese e l’imminenza della scadenza dei vent’anni previsti dal trattato per eventuali recessi. E il problema della sicurezza dell’Europa occidentale, a partire da Berlino e dalla Germania Federale, era ancora una questione concreta ed irrisolta. Sotto quest’aspetto, la sopravvivenza della NATO era essenziale, ed essenziali erano anche il ruolo degli Stati Uniti nell’alleanza e il loro contributo alla sua vitalità. Quindi, gli alleati europei non erano nella posizione di porre un veto assoluto alle iniziative americane. Allo stesso tempo e per gli stessi motivi, tutti i membri, e questa volta americani compresi, erano interessati al successo degli sforzi in atto in quel periodo su iniziativa 20 Le reazioni e gli umori degli alleati sono qui desunte dalla relativa, e molto ampia, documentazione britannica; in particolare, Burrows a FCO, tel. 317, October 12, 1967, TNA, FCO 41/251; FCO to UKDEL NATO, tel. 1614, October 17, 1967, ibid.; Barnes to Hood, Memo. Nato, The Middle East and the Mediterranean, October 17, 1967, ibid. 43 Liliana Saiu del ministro degli esteri belga, Pierre Harmel, per definire i futuri compiti e, in pratica, la stessa ragion d’essere dell’alleanza atlantica. E questo militava contro l’accettazione della proposta Holmes di creare un gruppo ad hoc per discutere su misure nella regione mediterranea. Accettarla significava, infatti, sminuire il senso stesso del lavoro di Harmel, uno dei cui quattro sottogruppi già si occupava degli sviluppi esterni all’area NATO, e sminuire il lavoro di Harmel significava rischiare di compromettere il futuro dell’alleanza stessa. Di questo, come detto, erano ovviamente consapevoli anche gli americani, che, pur di mantenere il problema entro la NATO, si rassegnarono a rinunciare al gruppo di studio ad hoc e ad accettare l’inclusione del problema del Mediterraneo nello studio Harmel. Quest’ultimo fu approvato nel mese di dicembre; uno dei paragrafi finali recita testualmente: «The Allies will examine with particular attention the defence problems of the exposed areas e.g. the South-Eastern flank. In this respect the present situation in the Mediterranean presents special problems, bearing in mind that the current crisis in the Middle East falls within the 21 responsibilities of the United Nations». In qualità di uno dei cosiddetti seguiti del rapporto Harmel, il problema del Mediterraneo fu oggetto di una lunga e serrata serie di discussioni entro la NATO. L’approvazione del “concetto” di una forza navale su chiamata avvenne solo nel gennaio 1969; la flotta divenne operativa l’anno dopo. Da allora e fino al 1992, allorché fu sostituita dalla STAVANFORMED, la forza navale stabile del Mediterraneo, essa compì esercitazioni e visite in vari porti, in tal modo mostrando la bandiera, proprio come facevano i sovietici. 21 The Future Tasks of the Alliance: The Council Report-The ‘Harmel Report’, December 13-14, 1967, in http://www.nato.int/cps/en/natolive/official_texts_26700.htm?selectedLocale=en. 44 Eunomia. Rivista semestrale di Storia e Politica Internazionali Eunomia III n.s. (2014), n. 1, 45-76 e-ISSN 2280-8949 DOI 10.1285/i22808949a3n1p45 http://siba-ese.unisalento.it, © 2014 Università del Salento GIANLUCA BORZONI The King is dead, long live the Queen. I rapporti italo-britannici nei giorni del passaggio da Giorgio VI a Elisabetta II Abstract: Historical studies on Angl o-Italian diplomatic relations between the end of WWII and the early Fifties have often stressed two contradictory el ements: the alleged good will to overcome the heavy legacy left by Italian fascism and the war, and th e political and psychologica l qualms that emerged whenever the dialogue between Rome and London was re sumed. Largely based on primary sources, this essay brings new elements to the knowledge of the evolution of bilateral relations in the midst of the dynastic succession that led Elizabeth II to the throne of Saint James. Keywords: Anglo-Italian relations; King George VI’s death; Queen Elizabeth II’s ascent to the throne; Ambassador Manlio Brosio; The Trieste Question. 1. Gli scenari diplomatici, 1951-1952 «L’improvvisa morte di re Giorgio, la cui salute, dopo l’operazione subita nel settembre scorso, sembrava procedere sulla via di un lento ma graduale miglioramento, è stata motivo di diffuso e profondo senso di dolore per tutto il popolo inglese»:1 l’8 febbraio 1952, a due giorni dalla morte del sovrano che aveva guidato la Gran Bretagna nell’ultimo quindicennio – periodo non particolarmente lungo, ma straordinariamente denso di avvenimenti capitali – l’incaricato d’affari italiano a Londra, Livio Theodoli, tentava di condensare in un rapporto per il ministero degli esteri i sentimenti prevalenti tra gli inglesi, sottoponendoli ad analisi.2 In presenza di commenti unanimemente ispirati al ricordo delle virtù «di uomo, di cittadino, di padre di famiglia, di soldato e di A fine settembre 1951, Giorgio VI era stato operato di pneumectomia (J. WHEELER-BENNET, King George VI: Hi s Life and Rei gn, New York, St. Martin’s Press, 1958, p. 788); la citazione si trova in Theodoli a De Gasperi , telespresso 708/407, 8 febbraio 1952, in ARCHIVIO STORICO-DIPLOMATICO DEL MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI (d’ora in avanti, ASDMAE), Affari Politici (AP) 1950-1957, Gran Bretagna, b. 139. 2 Il 6 febbraio, il diplomatico aveva avvisato della scomparsa di Giorgio VI con telegramma in cifra agli esteri n. 1500 del 6 febbraio 1952, ibid. 1 Gianluca Borzoni sovrano», il diplomatico si domandava se dietro la formale impossibilità di superare il principio “the King can do no wrong ” si nascondesse la possibilità di un giudizio più articolato sui possibili sviluppi istituzionali del paese. Ebbene, complice anche «la saggezza degli uomini politici che si sono succeduti al potere» e il tradizionale senso di lealtà monarchica della popolazione, era suo convincimento che la posizione della corona fosse «più salda che mai», a dispetto delle prove affrontate dal momento della sua inconsueta ascesa al trono. Rafforzamento del ruolo del sovrano costituzionale la cui «suprema dignità non può essere oggetto di lotta politica», trasformazione dei legami tra i paesi del Commonwealth, salvaguardando – a un prezzo non indifferente – alla monarchia quantomeno «la funzione di ultimo anello costituzionale»: al suo popolo, Giorgio VI lasciava in eredità un regime monarchico a cui riferirsi «non come a qualche cosa che appartiene al passato, ma come a uno strumento che potrà continuare ad essere utile anche per il futuro».3 Certo, gli scenari politici non apparivano i più propizi a una tranquilla transizione regale. Il paese era stato recentemente attraversato da forti polemiche in occasione della campagna elettorale che, nell’ottobre precedente, aveva riportato al potere i conservatori dopo sei anni, e un allentamento dei toni sarebbe stato necessario. Come aveva scritto in quei giorni sobriamente il «Daily Mirror», «la battaglia è finita […]. Il paese è tornato a un governo conservatore con una maggioranza risicata. L’amministrazione del signor Churchill ha ora la responsabilità di gestire le difficoltà con le quali la Gran Bretagna si deve confrontare a causa della situazione mondiale. Dobbiamo guadagnarci da vivere eliminando il disavanzo commerciale, e allo stesso tempo ristrutturare le nostre difese. Fare ciò richiederà la buona volontà e lo sforzo della nazione. Niente di meno sarà 4 sufficiente». La quotidianità si mostrava, viceversa, ancora segnata da dissidi politici e conflittualità sociale, come puntualmente riferiva l’ambasciata italiana. Avvisaglie di 3 Theodoli a De Gasperi, telespresso 708/407, 8 febbraio 1952, cit. 46 The King is dead, long live the Queen una nuova ondata di tensione si erano palesate già sul finire di gennaio, quando il leader laburista Clement Attlee, parlando a Manchester, pur riconoscendo l’esistenza di una situazione economica difficile nel paese, preavvertiva la maggioranza conservatrice che scelte di politica economica di tipo restrittivo sarebbero state avversate con durezza. Questa presa di posizione era stata considerata a Grosvenor Square, sede della rappresentanza italiana, del tutto demagogica, sia in considerazione delle obiettive circostanze, sia con riferimento ai provvedimenti intrapresi dallo stesso ultimo governo a guida laburista. Agli inizi di febbraio, poi, il dibattito parlamentare sul tema aveva registrato “violenti scontri”,5 che accentuavano le punte critiche rivolte al primo ministro Churchill anche riguardo ad alcune scelte relative al settore militare, quali la rinascita della Home Guard e la nomina a ministro della difesa di un nuovo pari d’Inghilterra, quale lord Alexander,6 mentre ancora si attendevano con apprensione novità in tema di riarmo. Con le prerogative e i vincoli dettati dalla prassi costituzionale britannica, la responsabilità di iniziare a condurre il paese in un frangente sicuramente intricato sarebbe ricaduta sulle spalle della primogenita di Giorgio VI. Lungo il solco tracciato dal padre, ma anche con una necessaria dose di ulteriore personale fermezza. Quanto all’Italia, anche a Londra l’ultimo appuntamento elettorale aveva suscitato qualche timore. L’opinione pubblica aveva salutato i risultati delle amministrative del 1951 con accenti diversificati, ma, più che il cospicuo indietreggiamento percentuale patito dalla democrazia cristiana, si era sottolineata con favore la perdita, da parte dalla sinistra, dei grossi centri del nord precedentemente amministrati. L’avanzata comunista rivelava, peraltro, come la maggioranza di governo avesse davanti a sé ancora molte sfide sociali da affrontare. Commentava «The Times»: D.E. BUTLER, The British General Election of 1951, London, Macmillan & Co, 1952, pp. 245-246. Theodoli a Esteri, telespresso riservato 590/328, 2 febbraio 1952, in ASDMAE, AP 1950-1957, Gran Bretagna, b. 139. 6 Si vedano Theodoli a Esteri, telespresso 335/172, 19 gennaio 1951, e telespresso 473/236, 28 gennaio 1951, ibid. 4 5 47 Gianluca Borzoni «Il governo italiano dovrà fare sforzi ancora maggiori per ridurre la disoccupazione e la aumentare produzione, distribuire la terra ai contadini, eliminare stridenti ineguaglianze, ricchezza e privilegi se vuole diminuire il compatto e formidabile blocco degli elettori comunisti. È molto probabile che l’Italia, affrontando tali compiti, necessiti di 7 maggiore assistenza [da parte dei] suoi alleati». Proprio sul piano economico i mesi appena trascorsi avevano fatto registrare altri passi avanti nella cooperazione anglo-italiana, su impulso del relativo comitato misto di lavoro. Temi economici e commerciali, ma anche un’ulteriore occasione per esaminare “questioni d’indole generale”, specie in capo al processo di integrazione europea, entrando nel dettaglio delle motivazioni alla base dell’adesione italiana al piano Schuman e della posizione ostile della controparte; spiegando perché, da parte britannica, ci si dicesse contrari anche al pool agricolo di proposta francese e, viceversa, interessati in maniera “inusitata” a quello aeronautico ipotizzato a Roma; vagliando, altresì, le opportunità di dar vita a una grande conferenza economica bilaterale e, per intanto, le possibilità di piazzamento di nuove commesse inglesi finalizzate a sostenere l’avviato riarmo.8 In definitiva, sulla scia dei soddisfacenti risultati dei colloqui londinesi di De Gasperi e Sforza del marzo 1951 – «a dispetto della loro genericità […], al contrario importanti»9 – nel rinnovato contesto politico esistente, per le autorità italiane si potevano rinvenire le premesse di un fecondo sviluppo di relazioni con il governo presieduto da Winston Churchill, il quale, al momento dell’agognato ritorno a Downing Street, aveva preannunciato un “fresh approach” anche in politica estera. A dispetto di posizioni passate e di atteggiamenti caustici anche recenti,10 dal leader conservatore e Gallarati Scotti a Esteri, telespresso 6503, 30 maggio 1951, e Gallarati Scotti a Esteri, telespresso 7381, 14 giugno 1951, in ASDMAE, AP 1950-1957, Gran Bretagna, b. 57, dove si trovano anche numerosi ritagli della stampa britannica. 8 Cfr. Appunto per S.E. il Ministro, 10 luglio 1951, ibid. 9 A. VARSORI, Un primo tentativo di riconciliazione angl o-italiana nel dopoguerra: la visita di De Gasperi e Sforza a Londra nel marzo del 1951, in «Storia e Diplomazia», IV, 3, dicembre 2012, p. 33. 10 Agli inizi del marzo precedente, aveva sollevato molte polemiche un riferimento all’Italia contenuto in una replica parlamentare, poi riferita diffusamente sui giornali; si vedano i relativi ritagli dal «Times», 7 48 The King is dead, long live the Queen da Anthony Eden – tornato anch’egli a guidare i ben noti ambienti del Foreign Office – erano provenuti alcuni segnali preliminari che consentivano di intravedere orientamenti favorevoli all’Italia, sia di carattere generale (relativamente alla volontà di correggere i «molti piccoli errori commessi dai laburisti»),11 sia in merito ai principali dossier riguardanti il governo di Roma, tra i quali l’ammissione alle Nazioni Unite e l’ancora spinosissima questione di Trieste. Anche l’opinione pubblica britannica mostrava un rinnovato interesse per gli affari italiani e, anzi, proprio con riferimento alla perdurante esclusione dall’ONU, autorevoli testate esprimevano valutazioni apertamente critiche, mentre la stampa in lingua inglese a diffusione internazionale si attendeva a breve importanti novità. Scriveva, ad esempio, Mario Rossi, sullo statunitense «Christian Science Monitor», che Churchill avrebbe presto dimostrato nei confronti della DC «maggiori simpatie del partito laburista […], che ha ripetutamente appoggiato i socialdemocratici italiani».12 Dopo la freddezza dell’immediato dopoguerra, un miglioramento di atmosfera era stato realizzato, attraverso una significativa serie di provvedimenti di politica estera, militare e coloniale, spesso – si leggeva – anche in controtendenza rispetto al «rinascen[te] nazionalismo» italiano. Evidenti incomprensioni, come detto, ancora caratterizzavano il dialogo sull’integrazione europea.13 Ma, anche in quest’ambito di azione, andava maturando, da parte di diversi esponenti di primo piano del partito, la necessità che una chiara risposta, in termini di difesa continentale, agli scenari apertisi con la crisi coreana dovesse condurre la Gran Bretagna, superata l’avversione laburista, a riprendere il «Manchester Guardian», «News Chronicle», «Daily Telegraph» e «Daily Mail» del primo marzo, dal «Daily Herald» del 2 marzo 1951, in ASDMAE, AP 1950-1957, Gran Bretagna, b. 57. 11 Cfr. Sforza a De Gasperi, 19 maggio 1950, in I Documenti Diplomatici Italiani, serie undicesima, vol. IV, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2009, doc. 204. 12 Gallarati Scotti a Esteri, telespresso 12796/6046, 29 novembre 1951, in ASDMAE, AP 1950-1957, Gran Bretagna, b. 57. 13 Cfr. ibid. 49 Gianluca Borzoni cammino comune, riassumendone la guida.14 Sarebbe bastato a convincere un più che perplesso Churchill e un decisamente ostile Eden? Per il momento, il 29 ottobre 1951 De Gasperi, nel rivolgere al primo i propri auguri per la riassunzione della guida del governo, aveva contestualmente espresso «la certa fiducia che l’insigne promotore dell’ideale europeo saprà dargli tutto l’appoggio della sua preziosa energia realizzatrice».15 E al nuovo segretario di stato agli esteri, che il 31 gli aveva manifestato la soddisfazione di “essere colleghi”, lo statista trentino aveva risposto due giorni dopo, esprimendo consapevolezza per il difficile impegno da affrontare, ma anche la speranza «che la fruttuosa cooperazione tra noi possa costituire un efficace contributo alla causa di tutti».16 Ancora il 2 novembre, la prima visita protocollare di Gallarati Scotti a Eden si era svolta con incoraggiante cordialità: “viva ammirazione” per De Gasperi, compiacimento “per [il] cammino percorso” e desiderio di approfondirlo, al fine di rendere «più cordiale [la] ricerca di soluzione [dei] problemi pendenti»17 in un clima di lealtà e franchezza. E se la mente degli italiani correva subito alle terre giuliane, il capo del Foreign Office ricordava che anche i britannici avevano alcune penose preoccupazioni e citava espressamente l’Egitto, convinto com’era della necessità che i reciproci punti di vista fossero chiariti, al fine di «rendere impossibili equivoci e interferenze che potrebbero compromettere per Occidente posizioni indispensabili sua difesa». Agli esteri, la parola “interferenze” venne sottolineata con un vigoroso tratto di matita blu. L’ambasciatore d’Italia, che assicurava l’intenzione del proprio governo di sviluppare i rapporti vicendevoli, concludeva di avere trovato Eden «pieno di giovanile energia e sicuro di sé, lieto che destino gli consenta riprendere carica cui sua esperienza lo ha reso Cfr. S. GREENWOOD, Britain and European Int egration since the Second Worl d War, Manchester, Manchester University Press, 1996, pp. 44-54. 15 De Gasperi a Churchill, telespresso 9961, 29 ottobre 1951, in ASDMAE, AP 1950-1957, Gran Bretagna, b. 57. 16 Message from the Right Honourable Anthony Ed en to His Excellency Signor De Gasperi, 31 ottobre 1951, ibid. 17 De Gasperi a Eden, in Scola Camerini a Gallarati Scotti, telespresso 10089, 2 novembre 1951, ibid. 14 50 The King is dead, long live the Queen particolarmente adatto, e pronto a dare nuovo tono politica estera suo paese».18 Poche settimane più tardi, la partecipazione emotiva dimostrata dall’opinione pubblica inglese in occasione dell’alluvione del Polesine aggiunse un elemento di reciproca comprensione politicamente (ma anche simbolicamente) rilevante, accompagnata com’era dal contributo prestato dalle forze britanniche della zona A triestina. E, infatti, così aveva risposto il presidente della repubblica Einaudi al messaggio di cordoglio inviatogli da Giorgio VI: «Sono oltremodo sensibile e non meno sensibile sarà il mio paese alle espressioni di simpatia che V. M. ha voluto indirizzarmi in questa così triste ora. Nel rendere le grazie più vive desidero altresì rassicurare la V. M. della nostra riconoscenza per la cooperazione data all’opera di salvataggio da parte di reparti britannici, con uno dei quali ho avuto la felice opportunità di compiacermi personalmente sui luoghi 19 alluvionati». A dispetto, dunque, del disagio che, per diverso tempo, sarebbe stato provocato dalla mancanza di un ambasciatore in sede dopo le dimissioni e, poi, la partenza da Londra di Gallarati Scotti, l’azione intrapresa da quest’ultimo al fine di recuperare una convinta cordialità nei rapporti reciproci era proseguita costante – ciò che rispondeva «all’interesse dei due paesi e di tutta la comunità occidentale»,20 aveva detto re Giorgio nel corso di un’udienza di congedo ancora particolarmente amichevole – e poteva dunque legittimamente attendersi che il regno di Elisabetta avrebbe registrato un ulteriore miglioramento della situazione.21 Gallarati Scotti a De Gasperi, telespresso 13820, 2 novembre 1951, ibid. Einaudi a S. M. il re, Londra, telespresso 11881, 23 novembre 1951, ibid. 20 Gallarati Scotti a Esteri, telespresso cifra 15984 Pr., 12 dicembre 1951, ibid. 21 Gallarati Scotti si sarebbe trattenuto a Londra fino al 20 dicembre. Sull’analisi della realtà britannica da parte dell’ambasciata di Grosvenor Square nel corso del 1951, mi permetto di rinviare al recente G. BORZONI, Dusk of the “Sole dell' Avvenire” for Labour Party? Italian Ambassador Tommaso Gallarati 18 19 51 Gianluca Borzoni 2. Una nuova sovrana in Gran Bretagna La regina conosceva l’Italia, dove era stata anche nell’aprile del 1951, quando aveva trascorso tredici giorni tra Roma e Firenze in compagnia del consorte Philip. Proveniente da Malta, la coppia era giunta nella capitale italiana nella tarda mattinata dell’11: tra gli impegni di rilievo, immediatamente dopo l’arrivo a Ciampino, la principessa Elizabeth aveva partecipato alla colazione offerta al Quirinale dal capo dello stato Luigi Einaudi; due giorni dopo, la visita in Vaticano per l’udienza presso papa Pio XII.22 A corona degli incontri istituzionali, una lunga serie di eventi sociali, sportivi e culturali, e la gita di due giorni a Firenze, ospiti dell’ex regina di Romania, Elena, a Villa Sparta. Al momento della ripartenza da Roma, il 24, il presidente della repubblica aveva comunicato ai reali inglesi «quanto gradita [fosse] stata in Italia la visita della graziosa principessa», traendone «felice auspicio per le relazioni di amicizia» tra Italia e Gran Bretagna. Tre giorni dopo era giunto il messaggio di risposta con il quale Giorgio VI esprimeva riconoscenza per l’accoglienza tributata alla figlia e al genero – «particolarmente felici» del viaggio – e confermava come il fervore manifestato nell’occasione dagli italiani potesse essere considerato «una nuova prova dell’amicizia» tra i due paesi.23 Meno di dieci mesi più tardi, la gradita ospite si accingeva, dunque, a salire sul trono di San Giacomo, mentre la scomparsa del padre incrementava l’attività diplomatica tra Roma e Londra. All’apprendimento della notizia, il presidente del consiglio e ministro degli esteri De Gasperi si era recato presso l’ambasciatore britannico per una visita di Scotti Face to British Elections of October 1951 , in «Sociology Study», III, 10, October 2013, p. 773780. 22 L’udienza papale sollevò in Gran Bretagna molte discussioni e svariate critiche, provenienti soprattutto dalla libera chiesa di Scozia. Tra queste ultime, la costatazione che l’utilizzo del velo da parte di Elizabeth e della sorella Margareth e la riverenza accennata avevano «aggiunto proprio quella nota di resa alle condizioni di accettazione cattolico-romane che sono così care al cuore della chiesa romana e così umilianti per i fedeli protestanti».‘Wee-Free’ Professor Attacks Prin cesses for Seeing the Pope – ‘Why a Black Veil? Why a Curtsey?’ , in «The Daily Express», May 9, 1951, in ASDMAE, AP 1950-1957, Gran Bretagna, b. 57. 23 Einaudi al re e alla regina d’Inghilterra , telegramma 3268, 24 aprile 1951; Giorgio VI a Ei naudi, 27 aprile 1951, ibid. (dove è presente tutto il materiale relativo alla visita). 52 The King is dead, long live the Queen condoglianze, prima di pronunciare alla camera un indirizzo di cordoglio che sostanzialmente chiuse i lavori parlamentari in segno di lutto. Nel frattempo, si chiedeva all’incaricato d’affari di compiere i passi di rito presso la famiglia reale e fare altresì conoscere al più presto a Roma le intenzioni inglesi circa i funerali e l’eventuale necessità di delegazioni speciali da parte dei paesi stranieri.24 Nella tarda serata del 6, giunsero alla consorte del re, alla regina Mary ed alla nuova sovrana i telegrammi con i quali il capo dello stato Einaudi esprimeva la propria partecipazione al lutto,25 seguiti da quelli indirizzati da De Gasperi a Churchill e Eden.26 In particolare, così recitava il messaggio per la giovane regina: «La repentina scomparsa di S.M. il re Giorgio VI mi rattrista profondamente. Nel grande lutto che colpisce con vostra maestà e la reale famiglia tutto il popolo britannico prego la maestà vostra di voler accogliere l’assicurazione della commossa solidarietà del mio paese e 27 mia personale». Di seguito, data istruzione alle rappresentanze a Ottawa, Sidney, Karachi, Capetown e Colombo di presentare le condoglianze ai governi locali e di associarsi alle manifestazioni del resto del corpo diplomatico,28 nel primo pomeriggio dell’8, Einaudi inviò un nuovo messaggio alla sovrana, che ora salutava nella sua nuova dignità, Cfr. Scammacca a Theodol i, fonogramma s.n., 6 febbraio 1952, in ASDMAE, AP 1950-1957, Gran Bretagna, b. 139. Al contempo, a Parigi, Quaroni tentava di appurare se fosse prevista una partecipazione del presidente della repubblica. Pur non esponendosi in proposito, già nel pomeriggio del 7 febbraio il cerimoniale del Quai d’Orsay faceva rilevare che una partecipazione del presidente Auriol non sarebbe stata inconsueta, rievocando il precedente del viaggio a Londra del presidente Lebrun in occasione della scomparsa di Giorgio V. Cfr. Quaroni a Da Gasperi, telegramma 1554, 7 febbraio 1952, ibid. 25 Cfr. Einaudi alla regina madre El isabetta, telegramma 1228, 6 febbraio 1952; Einaudi alla regina Mary, telegramma 1229, 6 febbraio 1952; Einaudi alla regina Elisabetta, telegramma 1230, 6 febbraio 1952, ibid. 26 Cfr. De Gasperi a C hurchill, telegramma 1231, 6 febbraio 1952; De Gasperi a Eden , telegramma 1232, 6 febbraio 1952, ibid. 27 Einaudi alla regina Elisabetta, telegramma 1230, 6 febbraio 1952, cit. 28 Cfr. Scammacca a Ottawa, Sidney, Karachi, Capetown, Colombo, telegramma 1234/C, 6 febbraio 1952, ibid. Su suggerimento del cerimoniale, al primo ministro canadese Louis Saint-Laurent venne, inoltre, inviato un messaggio diretto di De Gasperi. Cfr. De Gasperi a Saint-Laurent, telegramma 1286, 7 febbraio 1952, in ASDMAE, AP 1950-1957, Gran Bretagna, b. 139. 24 53 Gianluca Borzoni nell’attesa dell’incoronazione ufficiale da tenersi a debita distanza di tempo dalla scomparsa del padre: «Voglia vostra maestà consentire che, nel momento della sua ascesa al trono degli avi, io le offra l’omaggio dei miei migliori sentimenti. Prego anche vostra maestà di accogliere i più fervidi voti del mio paese e miei personali per la prosperità della maestà vostra e per le 29 fortune del suo regno». Il rinnovato augurio di un regno “lungo e felice”, che potesse rappresentare il viatico per una “cordiale e feconda amicizia” con l’Italia, ispirava, invece, il contenuto del telegramma inviato in contemporanea da De Gasperi a Churchill.30 Nei giorni successivi, si predispose celermente la missione incaricata di portare l’estremo saluto al sovrano deceduto. Da Londra si era apertamente manifestato compiacimento per l’ipotesi di inviare una delegazione speciale dall’Italia e, anzi, il Foreign Office aveva fatto sapere che, impossibilitato il capo dello stato a presenziare, una designazione come suo rappresentante personale del presidente del senato o, in mancanza, del presidente della camera sarebbe giunta gradita. Da parte sua, Theodoli – messo ancora sull’avviso dai colleghi inglesi – consigliò di aggregare alla delegazione un alto ufficiale delle forze armate, di preferenza un ammiraglio.31 Conseguentemente, al cerimoniale diplomatico si predispose un progetto di delegazione che, accanto all’«alta personalità politica», che l’avrebbe guidata, comprendeva il segretario generale della presidenza della repubblica, il capo dello stesso cerimoniale, Michele Scammacca, il capo di stato maggiore della difesa-marina e, “eventualmente”, l’incaricato d’affari e gli addetti militari in servizio a Grosvenor Square.32 Il pomeriggio del 9 la questione poteva dirsi perfezionata: della delegazione avrebbero fatto parte tutte le personalità suggerite da Scammacca, integrate dal Einaudi alla regina Elisabetta II, telegramma 1297, 8 febbraio 1952, ibid. De Gasperi a Churchill, telegramma 1296, 8 febbraio 1952, ibid. 31 Cfr. Scammacca a De Gasperi, appunto s.n., 9 febbraio 1952, ibid. 32 Cfr. Progetto di delegazione ufficiale italiana ai funerali della defunta d’Inghilterra, allegato al doc. precedente. 29 30 54 maestà Giorgio VI The King is dead, long live the Queen presidente del consiglio di stato e da alcuni altri accompagnatori. A Londra, tuttavia, non tutte le scelte compiute sarebbero state oltremodo apprezzate, come si dirà. Il gruppo sarebbe giunto nella capitale inglese via treno la mattina del 14, dopo una sosta a Parigi.33 Poco dopo l’arrivo, iniziarono le prime visite: a Buckingham Palace, a Clarence House e a Marlborough House, per l’apposizione delle firme dei registri delle tre regine Mary, Elizabeth – ora, a sua volta, regina madre – e Elizabeth II.34 Nel pomeriggio ebbe poi luogo il primo incontro ufficiale di tutte le delegazioni diplomatiche con la nuova sovrana, ancora a Buckingham Palace. Nei momenti in cui si intrattenne con Gronchi, Elisabetta espresse riconoscenza per i messaggi di Einaudi, delle cui condizioni di salute chiese notizie, e ancora ricordò le giornate romane dell’anno precedente; un colloquio breve e cordiale, che la recente visita e la conoscenza diretta di alcuni membri della rappresentanza avevano facilitato, ma anche un’occasione di rincrescimento per la missione diplomatica italiana a Londra che, come detto, priva di un ambasciatore accreditato, aveva visto il capo della propria delegazione speciale relegato verso la fine del gruppo, peraltro seguito dal cancelliere Adenauer35 e dal delegato pontificio, monsignor Giobbe. La giornata si era conclusa con una visita alla Westminster Hall per l’omaggio alla salma di Giorgio VI. Cfr. Zoppi a Londra e Parigi, telegramma cifra 1341, 9 febbraio 1952, ibid. Come per le altre missioni straniere ad hoc, anche la delegazione italiana venne affiancata da un alto funzionario diplomatico britannico: la scelta del Foreign Office era ricaduta su Pierson Dixon, vice segretario permanente e – come rimarcato da Theodoli – personaggio “ben noto” in Italia, per i suoi trascorsi presso la rappresentanza di Gran Bretagna in una fase particolarmente densa di avvenimenti, quale il periodo 1938-1940, e poi in qualità di primo collaboratore dei ministri Eden e Bevin; su di lui si veda P. DIXON, Double Diploma: The Life of Sir Pierson Dixon, Don and Di plomat, London, Hutchinson, 1968. Per un agile profilo, cfr. anche http://www.oxforddnb.com/templates/article.jsp?articleid=32839&back=. 35 La personale partecipazione di Adenauer nasceva con motivazioni differenti, essendo stata suggerita al cancelliere direttamente dall’alto commissario britannico nella Repubblica Federale di Germania, su istruzione del governo di Londra. Aveva riferito il 10 febbraio il rappresentante diplomatico Francesco Babuscio Rizzo, che tale suggerimento andava «posto in relazione [a] difficoltà persistenti circa invito formale Adenauer [a] conversazioni Londra» sullo statuto di occupazione della Germania. In previsione di nuove complicazioni negoziali dopo le dichiarazioni governative in favore di una partecipazione tedesco-occidentale ai progetti di difesa comune europea, gli ambienti anglo-americani nella RFG vedevano dunque «molto favorevolmente occasione che presentasi ora Adenauer recarsi a Londra ove sarebbero già previsti colloqui con Acheson». Babuscio Rizzo a Est eri, telegramma cifra 1695 Pr., 10 febbraio 1952, in ASDMAE, AP 1950-1957, Gran Bretagna, b. 139. 33 34 55 Gianluca Borzoni Il 15, i funerali del re si svolsero «con quel fasto che discende dalla plurisecolare tradizione del cerimoniale britannico»;36 oltre alla delegazione italiana, tra i partecipanti vi erano i reali delle corti scandinave, belga e olandese, i re di Grecia e dell’Iraq, i presidenti francese, jugoslavo e turco, i principi ereditari di Giordania, Etiopia, Persia, la granduchessa del Lussemburgo, mentre un assai nutrito gruppo di sovrani in esilio, da Pietro di Jugoslavia a Michele di Romania, assistettero alla cerimonia a Windsor. Diciotto i ministri degli esteri presenti alla funzione, tra i quali Dean Acheson, in rappresentanza del presidente Truman, e Alberto Martin Artajo, in vece del generalissimo Franco. Laddove non fossero state previste delegazioni speciali, soccorsero le presenze dei capi delle missioni diplomatiche accreditate, come nel caso sovietico. Dopo essere stato scortato da un imponente corteo funebre di sette gruppi ben individuati (rappresentanti delle forze armate, a precedere il feretro; capi di stato e principi reali; capi delle delegazioni estere, tra cui quella italiana; seguiti dei capi di stato; membri delle delegazioni straniere; seguiti di queste ultime; addetti militari), nei cinque e più chilometri che separano Westminster dalla stazione di Paddington, il feretro reale era stato poi tradotto, insieme con le delegazioni presenti, con un treno speciale a Windsor; qui, un ricomposto corteo lo aveva accompagnato alla cappella del castello reale per la funzione religiosa, alla presenza anche degli esponenti politici britannici, non presenti alle altre fasi della complessa cerimonia.37 Tredici mesi più tardi, un nuovo lutto avrebbe colpito la famiglia reale britannica, con la scomparsa della regina Mary. Sia il presidente della repubblica, sia il presidente del consiglio avrebbero espresso a Londra la “dolorosa simpatia” del popolo italiano.38 Theodoli a Esteri, telespresso 884/494, 16 febbraio 1952, ibid. Cfr. Theodoli a Esteri, telespresso 884/494, 16 febbraio 1952, cit. 38 Cfr. i telegrammi: Einaudi alla regina Elisabetta; Elisabetta II a Ei naudi; De Gasperi a C hurchill; Churchill a De Ga speri, in Antinori a ambasci ata a Londra , telespresso 3977, 20 aprile 1952; le note Brosio a Eden , 25 marzo 1953; Eden a Brosio , nota 91/117, 1 aprile 1953, in ASDMAE, Ambasciata Londra 1951-54, b. 81, fascicolo “Funerali Queen Mary 1953”. 36 37 56 The King is dead, long live the Queen Sul piano politico, a dispetto delle attese nel corso delle prime fasi del regno di Elisabetta II, le occasioni di vicinanza e reciproca comprensione anglo-italiana furono sopravanzate dal nuovo irrompere sulla scena di problemi mai risolti. Da questo punto di vista, gli incidenti occorsi a Trieste tra il 20 e il 22 marzo 1952 – che pregiudicarono i rapporti tra le autorità italiane ed il comandante britannico della zona A, Winterton – simboleggiarono il brusco ritorno alla realtà fattuale.39 La successiva fase negoziale con gli alleati anglo-americani fu l’occasione per il nuovo ambasciatore accreditato a Londra, Manlio Brosio, finalmente giunto in sede, di valutare «realisticamente i limiti della “nostra cosiddetta amicizia”», nel convincimento che, per rendere quest’ultima salda e duratura, impegno personale e buona fede non bastassero, richiedendosi il tempo dovuto e «soprattutto forti, concreti punti di comune interesse». E se la materia economica presentava spazi di manovra e prospettive, gli scenari diplomatici si confermavano piuttosto avari.40 In misura più sfumata, anche i consuntivi di fine anno di parte britannica avrebbero manifestato una duplicità di percezione. In linea generale, a giudizio della rappresentanza a Roma, i problemi riemersi non svilivano la portata dei progressi compiuti e il persistente ottimismo rispetto al futuro. Pareva, all’ambasciatore Victor Mallet, che l’Italia avesse raggiunto un apprezzabile livello di stabilità politica e di allentamento delle tensioni sociali, anche a paragone con altre realtà nazionali. Innegabilmente, gli equilibri del paese si reggevano ancora sul ruolo prominente giocato da De Gasperi – «uomo di vera integrità morale e astuzia politica», la cui autorità, «sebbene talvolta messa in discussione», non aveva subito nei fatti una diminuzione significativa – mentre i riferimenti politici del passato andavano tramontando e una nuova generazione di classe dirigente tardava, invece, a maturare. In questo scenario, era essenziale restare vigili rispetto alla minaccia comunista, che, tuttavia, sembrava ora meno incombente, come avevano riservatamente testimoniato Cfr. M. DE LEONARDIS, La “diplomazia atlantica” e la soluzione del problema di Trieste (1952-1954), Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1992, pp. 68-69. 39 57 Gianluca Borzoni alcuni «grandi datori di lavoro del Nord Italia» e come si poteva desumere dalla situazione delle aree agricole del Sud. Non risultava alieno da questo progresso il percorso di riforme che le autorità avevano intrapreso, che spingeva il diplomatico a scrivere che «ovunque io viaggi, sono colpito dai tanti segnali d’industriosità e sviluppo, non solo per quanto riguarda la riforma terriera ma anche l’edilizia abitativa, le comunicazioni, i progetti idroelettrici e, forse altrettanto importante, nella produzione di gas metano» che stava già facendo risparmiare all’Italia il costo dell’importazione di 2 milioni di tonnellate di carbone all’anno.41 E andava anche crescendo l’attenzione verso la cooperazione internazionale, nonostante gli ancor magri risultati ottenuti in termini di indirizzamento di manodopera sui mercati del lavoro esteri, obiettivo prioritario per un paese «ancora infestato dallo spettro di 2 milioni di disoccupati e altri 2 milioni con soli 150 giorni lavorativi all’anno».42 Quanto alla politica estera, al di fuori dello specifico “nodo” triestino, la situazione italiana non aveva recentemente offerto all’osservazione preoccupanti rivolgimenti. Il confine orientale si confermava, però, chiave di volta capace di orientare le scelte governative anche in altri ambiti. Lo stesso De Gasperi non era estraneo a questa tendenza, pur con dei distinguo: «Ogni qualvolta […] uno discute di Trieste con lui trova immediatamente una quasi esagerata sensibilità, come fosse un dentista che tocca il nervo di un morale particolarmente irritabile. Mio convincimento è che lui abbia ora mutato opinione sul fatto che possa mai riuscire ad ottenere più della Zona A oltre forse a Capodistria e la linea di costa sopra Pirano. Nel suo cuore vorrebbe probabilmente Su Brosio e la questione triestina si veda ora F. LEFEBVRE D’OVIDIO, Manlio Brosio ambasciatore a Londra, in «Storia e diplomazia», IV, 3, dicembre 2012, p. 45. 41 Annual Review of 1952, allegato a Mallet a Eden, tel. 6, January 10, 1953, in NATIONAL ARCHIVES, Kew Garden – London (d’ora in avanti, NA), FO 371/107742. 42 Ibid. 40 58 The King is dead, long live the Queen giungere a un compromesso su una soluzione simile, ma non osa neppure proporla al suo gabinetto finché non abbia pienamente vinto 43 le prossime elezioni generali». Tanto più che, come alleata, l’Italia si era dimostrata “faithful and conscientious”, ben portandosi nel corso dell’anno, come confermato anche dalle alte personalità militari britanniche giunte a Roma in visita, dal maresciallo Montgomery a lord Ismay. E mentre le specifiche relazioni tra il comandante in capo nel Mediterraneo e i vertici della marina italiana “could hardly be better ”, il sostegno statunitense cominciava a produrre confortanti segnali di aumentata prestanza relativa delle forze terrestri ed aeronautiche del paese.44 A ben vedere, non tutti condividevano questa idilliaca raffigurazione, e, alcuni mesi dopo, da altre vie sarebbero giunti al Foreign Office rinnovati esempi della persistenza di pregiudizi sul carattere non certo indomito degli italiani e valutazioni più di dettaglio sulle forze armate che – come scrive Antonio Varsori – «sembravano essere fortemente influenzate da ben radicati condizionamenti psicologici».45 Non mancavano neppure diversità di vedute sul piano generale. Differente sotto svariati aspetti l’ottica rispetto alla questione coloniale (compresa l’emigrazione bianca) e alla politica britannica in Medio Oriente, persistevano soprattutto le discordanze nel modo di guardare ai progressi nel processo d’integrazione continentale. Né, nell’interpretazione inglese, il “vigoroso sostegno” offerto da De Gasperi e dal gruppo dei suoi seguaci al progetto di Comunità Europea di Difesa che il 27 maggio 1952 era stato sottoscritto a Parigi46 senza la partecipazione di Londra – il “grande trionfo” di Ibid. Cfr. ibid. 45 A. VARSORI, Gran Bretagna e It alia 1945-56: i l rapporto tra una grande potenza e una piccola potenza?, in ID., a cura di, La politica estera italiana nel secondo dopoguerra (1943-1957), Milano, LED, 1993, p. 236. 46 Sulla meditata adesione alla proposta francese e sulle più numerose voci dissenzienti all’interno della maggioranza in questa fase, si veda P. PASTORELLI, La politica europeistica dell’Italia negli anni Cinquanta, in ID., La politica estera italiana del dopoguerra, Bologna, Il Mulino, 1987, pp. 241-243. 43 44 59 Gianluca Borzoni Eden, nelle parole di Harold Macmillan47 – rappresentava un punto di arrivo, bensì un’importante tappa verso la realizzazione di una “federal six-power Little Europe” alla quale associare strettamente la Gran Bretagna. Era, peraltro, impossibile predire con certezza a quali esiti avrebbe condotto questo percorso, non potendo la rappresentanza britannica «fare a meno di dubitare se l’opinione pubblica italiana […] abbia almeno iniziato ad afferrare le piene implicazioni della scomparsa di 48 un esercito nazionale italiano e il suo assorbimento in uno europeo». In definitiva, uno scenario in chiaroscuro. Per Mallet, non era semplice comprendere il motivo per cui in Italia gli inglesi non risultassero “popolari” come erano stati in tempi passati: dal suo punto di osservazione privilegiato, la ‘lettura’ che se ne dava era che «la nostra recente tendenza a amoreggiare con il maresciallo Tito e la nostra asserita mancanza di simpatia per le ragioni italiane su Trieste hanno certamente abbassato di molto le nostre azioni in questo paese», ravvivando latenti antagonismi nei confronti dei «soli europei a non essere stati sconfitti nella guerra» e facilitando l’emergere di un’ondata di simpatia verso i francesi «le cui forze armate sono state un fallimento quasi analogo» a quello italiano. D’altro canto, proseguiva, anche il governo di Londra aveva di che riflettere su questo stato di cose: «Noi ancora subiamo il tentativo del governo laburista di propagandare i vantaggi del Welfare State, che gli italiani considerano Note, May 30, 1952, in H. MACMILLAN, The Macmillan Diaries: The Cabinet Years, 1950-1957, edited and with an introduction by P. CATTERALL, London, Pan Macmillan, 2003, p. 164. 48 Annual Review of 1952, cit. Sulle perplessità parlamentari, cfr. ancora PASTORELLI, La politica europeistica, cit., pp. 243-246. Una compiuta trattazione del punto di vista dei militari italiani rispetto alla CED si trova in D. CAVIGLIA - A. GIONFRIDA, Un’occasione da perdere. Le forze armate italiane e la Comunità Europea di Difesa (1950-1954), Roma, APES, 2009. 47 60 The King is dead, long live the Queen avere indebolito le nostre finanze e distrutto la convertibilità della sterlina. L’insuccesso dei minatori italiani in Inghilterra ci ha causato grave danno. La nostra prolungata austerità è qualcosa che gli italiani, con il loro anarchico disprezzo per il razionamento alimentare, pagamento di tasse e altre necessarie ma irritanti restrizioni della 49 libertà individuale non riescono a comprendere appieno». Se non ci si asteneva, dunque, dal consueto accenno all’incapacità italiana di apprezzare completamente gli sforzi britannici, interpretati come incomprensibili forme di puritanesimo con più prosaiche ricadute a proprio discapito – come nel caso delle restrizioni imposte al turismo in uscita, che trovava nell’Italia una destinazione tradizionale – le considerazioni finali si velavano, altresì, di accenni autocritici e una di certa dose di umano rimpianto: «È vero che masse di turisti americani, pieni di dollari, girano il paese in lungo e in largo, ma in qualche modo non sono graditi e rispettati come soleva essere il turista inglese di un tempo. Di più, in altri tempi in città come Firenze, Venezia, Genova e Roma vi erano sempre famiglie britanniche benestanti e rispettate, che sovente si trattenevano per generazioni nella stessa villa e rappresentavano parte della vita civica del luogo. Le nostre restrizioni valutarie hanno completato ciò che morte e altre cause naturali avevano già avviato, e il “Signor Inglese” non è più una figura familiare il cui solido valore era ben apprezzato e la cui influenza deve essere stata a volte di grande aiuto 50 per il mio predecessore». Nei mesi successivi, nuovi accadimenti avrebbero portato conferme a queste parole, ma anche sensibili mutamenti, specie in relazione alla questione triestina. Dalla sua sede, Brosio avrebbe iniziato a perorare la bontà della linea volta a rinvenire una “soluzione provvisoria” in proposito, osservando, al contempo, con un certo disincanto la consequenziale evoluzione dei rapporti bilaterali. Così, mentre tra gli alleati angloamericani e la Jugoslavia si raggiungeva il momento di “massima cordialità” – e Tito varcava i cancelli di Buckingham Palace per incontrarvi la regina, primo leader 49 50 Annual Review of 1952, cit. Ibid. 61 Gianluca Borzoni comunista a farlo51 – a fine marzo 1953, vigilia di un passaggio di Eden a Roma dopo le visite ad Ankara e Atene, l’ambasciatore faceva il punto della situazione: «Io sono freddamente obiettivo né mi faccio illusioni eccessive sulle possibilità di un rapido miglioramento» dei rapporti. Nessun dubbio che, alla base di molte divergenze, vi fosse quella che chiamava la «persistente apprensione sui veri motivi dei rispettivi atteggiamenti»: la mancanza, in definitiva, di una leale fiducia «che può sussistere anche quando le posizioni politiche non collimano».52 E, in effetti, neppure da parte inglese si nascondeva ormai che si stesse attraversando “un periodo difficile”, non solo a causa di Trieste: petrolio persiano, situazione egiziana – con i timori che gli italiani assumessero al Cairo una posizione sgradita riguardo ai progetti di comando mediorientale53 – atteggiamento italiano «eccessivamente federalista ed europeista». Circa, poi, la necessità di una più stabile intesa d’ordine generale, da Grosvenor Square si era riservatamente verificato come presso molti ambienti conservatori si tendesse ora «a svalutare l’apporto dell’Italia, in quanto si ritiene che l’azione degli Stati Uniti varrà in ogni caso a mantener[la] nell’alleanza atlantica, e non si vede chiaramente quali vantaggi l’Inghilterra possa trarre per la sua particolare politica» da un accordo con Roma.54 Si veda DE LEONARDIS, La “diplomazia atlantica”, cit., pp. 230-232. Brosio a De Gasperi, lettera 1641/791 del 31 marzo 1953, in ASDMAE, Ambasciata Londra 1951-54, b. 135, fascicolo “Rapporti italo-inglesi”. 53 Già in occasione dell’avvicendamento diplomatico relativo alla sede egiziana, l’anno precedente, Brosio aveva assunto un atteggiamento critico circa le posizioni ministeriali. Così aveva scritto al segretario generale Zoppi il 25 luglio 1952: «Quanto poi al punto specifico dell’Egitto, comprendo naturalmente le esigenze di tutela dei nostri considerevoli interessi economici e di comunità […]. Ma nel quadro politico generale mi sembra che sia opportuno che il ruolo dell’Egitto vada visto nelle giuste proporzioni. In generale le possibilità concrete della nostra politica sono state egregiamente delineate e delimitate […]: sono modeste, e per esse non credo valga la pena di arrischiare i nostri già delicati rapporti con la Gran Bretagna». Brosio a Zoppi, lettera riservata 3668 del 25 luglio 1952, ibid. 54 Appunto s.n. del 21 aprile 1953, ibid. 51 52 62 The King is dead, long live the Queen 3. L’incoronazione di Elisabetta II e il declino di De Gasperi In questo stato di cose, ci si apprestava ad assistere all’ultimo atto dell’insediamento di Elisabetta II: l’incoronazione, programmata per gli inizi del successivo mese di giugno. Come già per i funerali di Giorgio VI, tra rigide forme cerimoniali, episodi di attiva collaborazione e latenti malumori, anche l’organizzazione di questo evento avrebbe rappresentato una più aggiornata cartina di tornasole per delineare lo stato dei rapporti bilaterali. L’agenda dei festeggiamenti predisposta dal cerimoniale inglese risultava assai fitta e politicamente significativa, comprendendo una lunga serie di manifestazioni a carattere ufficiale e numerosissimi eventi collaterali. Tra le prime, il ricevimento offerto dal governo, il banchetto di stato della regina, il pranzo del ministro degli esteri con la partecipazione della stessa sovrana e di Churchill, un altro ricevimento a Buckingham Palace e le visite di commiato. Tra le seconde, si ricordavano, soprattutto, la festa presso lord Salisbury, ministro per le relazioni con il Commonwealth, il ricevimento alla camera dei comuni e quello offerto dall’arcivescovo di Canterbury, oltre al programma aggiuntivo predisposto dall’ambasciata italiana, che consentì alla delegazione giunta da Roma di incontrare in rapida successione numerosi ministri britannici (tra i quali, il cancelliere dello Scacchiere e i ministri dei lavori pubblici, difesa, lavoro, approvvigionamenti e edilizia), politici di ogni provenienza, personalità militari e della cultura.55 A Roma, la definizione della missione speciale suscitò, anche in questa occasione, ampie discussioni e qualche contrarietà. Già a metà ottobre 1952, da Grosvenor Square si metteva sull’avviso il ministero circa la delicatezza della questione: «Per i funerali di Giorgio VI la delegazione [...] fu considerata dagli inglesi piuttosto scadente di tono»; non vi era dunque ragione alcuna per “fare il bis”.56 Il primo requisito, per non incorrere in ulteriori errori, avrebbe dovuto riguardare la rappresentatività dei componenti: in questo senso, appariva fondamentale la Brosio a Esteri, telespresso 3004/1384 del 12 giugno 1953, in ASDMAE, Ambasciata Londra 1951-54, b. 81, fascicolo “Gran Bretagna – Delegazione italiana all’incoronazione della Regina Elisabetta II”. 56 Theodoli a Casardi, lettera personale del 18 novembre 1952, ibid. 55 63 Gianluca Borzoni partecipazione del capo del governo o, in mancanza, del suo vice o di un importante ministro e di un vice-ministro o sottosegretario agli esteri; insomma, nell’ottica britannica, diceva esplicitamente Theodoli a Aubrey Casardi, «Piccioni e Taviani […] andrebbero molto meglio di Gronchi e Scammacca».57 D’altra parte, i francesi – che prevedevano l’inserimento in delegazione all’estero del capo del cerimoniale nei casi di partecipazione del presidente della repubblica – si diceva avrebbero inviato a Londra le massime autorità dello Stato.58 Agli inizi dell’anno seguente, Brosio comunicò al Foreign Office che la missione italiana sarebbe stata composta dal presidente De Gasperi, dal senatore Alessandro Casati e dall’ammiraglio Ferreri in rappresentanza delle forze armate, certo che la partecipazione del primo «[sarebbe stata] qui molto apprezzata».59 Da Roma si aggiunse il segretario particolare del presidente del consiglio, Canali, e il capo di gabinetto agli esteri, Scola Camerini, oltre ad alcuni accompagnatori.60 Si trattava, però, ancora di ipotesi provvisorie e, dopo due mesi di sostanziale inerzia, Brosio decise di scrivere direttamente a De Gasperi, sollecitando una “decisione definitiva” anche in merito ad un suo possibile sostituto: «Se non erro, in tua forzata assenza, è Pella [ministro del Tesoro] che sarebbe destinato a sostituirti: e personalmente ritengo che, se la sostituzione è inevitabile, si tratterebbe di un’ottima, benché 61 subordinata, scelta». Con la data delle elezioni fissata per domenica 7 giugno e la certezza che, stante il programma delle celebrazioni, prima del 6 sarebbe stato impossibile ripartire da Londra, la guida della delegazione fu effettivamente assunta da Pella, accreditato con lettera del presidente della repubblica, datata 18 maggio 1953, quale suo rappresentante presso Ibid. Cfr. ibid. 59 Brosio a Scammacca , lettera 263 del 15 gennaio 1953, ibid.; la comunicazione al Foreign Office si trova in Brosio a Eden, nota 230 del 12 gennaio 1953, ibid. 60 Cfr. Scammacca a Brosio, lettera 699 del 20 gennaio 1953, ibid. 61 Brosio a De Gasperi, lettera del 26 marzo 1953, ibid. 57 58 64 The King is dead, long live the Queen Elisabetta II.62 Nella missiva, si leggeva l’assicurazione di Einaudi «della cordiale partecipazione del mio paese e mia a tanto e così vasto giubilo» e la decisione di nominare una speciale delegazione, i cui membri avrebbero avuto «certamente motivo di compiacersi di poter avere parte nella 63 cerimonia, [nella] quale a buon diritto si esalta la nazione amica». Seguivano i voti augurali per un felice regno. Anche l’ambasciatore Brosio, dalle colonne del «Diplomatist», che ne aveva richiesto un contributo in occasione dell’incoronazione, volle esprimere auspici di “felicità e prosperità”, certo di interpretare anche i sentimenti del suo popolo, che comprendeva l’affetto degli inglesi per la loro regina e «sinceramente prendeva parte a questa magnifica dimostrazione di solidarietà che unisce l’intero Commonwealth».64 Agli inizi di maggio iniziarono le difficoltà relative al cerimoniale. Il 4, una nota circolare firmata dal premier Churchill comunicava le disposizioni relative all’ordine di precedenza in base al quale sarebbero state ripartite le rappresentanze straniere. Tali disposizioni riproponevano lo schema già seguito in occasione di precedenti incoronazioni. Analogamente al 1911 e al 1937, le monarchie avrebbero preceduto le repubbliche, ma – ancora come in passato – erano previste delle eccezioni in favore di Stati Uniti, Francia e, evidentemente per il solo caso del 1937, Unione Sovietica.65 La questione era sottile e Brosio ne scrisse subito al presidente della repubblica. In breve, «molti Stati minori (latino-americani, Spagna, Portogallo, ecc.) se ne sono risentiti» e, a dispetto dei precedenti sfavorevoli, avevano intrapreso delle consultazioni tra loro e con il decano del corpo diplomatico, l’ambasciatore di Francia. In tutto ciò, risultava Cfr. Theodoli a Scammacca, lettera 1701 del 3 aprile 1953; e Scammacca a Brosio, telegramma 90 del 4 aprile 1953, ibid. 63 La lettera di accreditamento si trova allegata a Scammacca a Brosi o, lettera 5/5091E del 24 maggio 1953, ibid. 64 Hefter [“The Diplomatist”] a Brosio, lettera del 10 aprile 1953, ibid.; segue la minuta del messaggio. 65 Cfr. Churchill a Brosio, nota TR 72/148 del 4 maggio 1953, trasmessa a Roma con appunto di Brosio a esteri, 8 maggio 1953, ibid. 62 65 Gianluca Borzoni peculiare la posizione dell’Italia, repubblica che, nelle precedenti occasioni, aveva, però, «il rango spettante alle monarchie». Si trattava di una circostanza inedita; come comportarsi?66 Dopo opportune discussioni, a Roma e Londra, si decise che un passo di protesta sarebbe stato necessario, onde attestare un aperto dissenso rispetto ai «criteri politici ispiranti le eccezioni […], che appaiono fuori posto in solennissima cerimonia dove la procedura dovrebbe essere dettata da strette regole di protocollo, senza discriminazioni a favore di taluni 67 Stati». Più serie misure sarebbero state da sconsigliarsi – si sosteneva a Grosvenor Square – perché, a fronte di un “particolare disagio” che ne sarebbe conseguito in capo ai rapporti bilaterali, non avrebbero neppure prodotto effetto di sorta.68 Con le debite forme, il 20 maggio a Roma, venne predisposta la relativa nota verbale, poi inoltrata a Mallet. Nella parte terminale, ricordato che, in eventi quali l’incoronazione di un sovrano, «il concetto di uguaglianza di dignità e di rango dei capi di stato sembra essere il più conforme alla tradizione e agli usi diplomatici», il governo italiano diceva di volersi limitare a manifestare la propria insoddisfazione «per l’alto riguardo verso l’augusta celebrazione e in considerazione degli amichevoli rapporti esistenti fra i due paesi».69 Superata la vicenda, il 2 giugno la “grandiosa cerimonia” presso l’abbazia di Westminster ebbe momentaneamente la meglio sulle incomprensioni e, nell’accomiatare, tre giorni dopo, la delegazione italiana, la regina Elisabetta manifestò grande cordialità, ancora rievocando la sua ultima visita. Ed anche dal Foreign Office si tenne discretamente a precisare che le attenzioni rivolte nei giorni precedenti agli Brosio a Ei naudi, lettera del 12 maggio 1953, ibid. Dopo le consultazioni tra i capi delle missioni diplomatiche coinvolte – e la verifica che l’ordine delle precedenze era stato approvato dalla regina e “non suscettibile di modificazione”, un gruppo di paesi latino-americani guidati dagli ambasciatori di Argentina e Colombia avevano manifestato l’intenzione, poi rientrata, di indirizzare una “protesta energica”. Si optò per un’espressione di disappunto comunicata per le normali vie diplomatiche. Cfr. Brosio a Esteri, telegramma 142 del 14 maggio 1953, ibid. 67 Brosio a Esteri, telespresso urgente 19 maggio 1953, ibid.; e Brosio a Esteri, telegramma 142 del 14 maggio 1953, cit. 68 Cfr. ibid. 66 66 The King is dead, long live the Queen italiani erano motivate dal «desiderio di usare un particolare riguardo verso la missione speciale del nostro paese».70 La settimana seguente, in Italia si tennero le attese elezioni politiche. A dispetto degli auspici del «Times», che considerava “ragionevole sperare” che la coalizione governativa riuscisse ad ottenere una maggioranza stabile,71 il risultato del voto del 7 giugno, con il mancato conseguimento del premio di maggioranza da parte della coalizione centrista, aprì scenari differenti. Suo primo effetto, il governo che ne sortiva, l’ottavo presieduto da De Gasperi, nasceva politicamente debole; a Londra si definiva la situazione “doppiamente disgraziata” e si concludeva che in Italia «manca oggi qualsiasi base [per un] governo efficace».72 In questo complicato scenario, a fine mese, il capo del governo ebbe una nuova, e stavolta piacevole, occasione per tornare nella capitale britannica, dopo il forfait all’incoronazione. Dal 23 al 26 giugno era stata, infatti, organizzata da tempo una visita, in occasione del conferimento della laurea honoris causa da parte dell’università di Oxford. Nel clima del momento, la visita del capo del governo italiano assunse un carattere anche politico, e come tale fu considerata dalla stampa inglese.73 E, in effetti, De Gasperi, che giunse accompagnato da donna Francesca, ma anche dai diplomatici Del Balzo e Canali – fatto che confermava il significato della venuta – appena sbarcato dall’aereo, ebbe subito una prima conversazione in ambasciata con il ministro di stato Selwyn Lloyd e il responsabile del dipartimento occidentale del Foreign Office, Cheetham, seguita dal trasferimento al n. 10 di Downing Street, dove incontrò Churchill; e, questo, su iniziativa britannica, precisava Brosio. Uno scambio d’idee era ritenuto, infatti, opportuno, alla vigilia della Ministero degli Affari Esteri a Ambasciata di Gran Bretagna, Nota verbale del 20 maggio 1953, ibid. Brosio a Esteri, telespresso 3004/1384 del 12 giugno 1953, cit. 71 Cfr. Brosio a Esteri, telegramma 150 del 20 maggio 1953, in ASDMAE, Ambasciata Londra 1951-54, b. 88, fascicolo “Italia. Politica e situazione interna – Elezioni politiche giugno 1953”. 72 Brosio a Esteri, telegramma 210 del 17 luglio 1953, ibid. 73 Cfr. Ufficio Stampa a ambasciata a Londra , telespresso 8/4044 del 17 giugno 1953, in ASDMAE, Ambasciata Londra 1951-54, b. 135, fascicolo “Rapporti italo-inglesi”. 69 70 67 Gianluca Borzoni partenza del premier per le Bermuda, dove avrebbe incontrato statunitensi e francesi.74 Comunità Europea di Difesa e Trieste furono i temi principali dei colloqui, che videro gli italiani confermare i dubbi circa le possibilità d’intesa con Tito, e i britannici ribadire cauta disponibilità e spiegare come molti recenti malintesi fossero «originati da recente allusione nuovo “Locarno” europeo» per i Balcani: quello che si intendeva – spiegava Churchill – era un trattato «basato [sullo] stesso spirito ma non formulato [con le] stesse parole».75 La sera si tenne un pranzo offerto dal primo ministro e lady Churchill, pranzo al quale intervennero eminenti personalità britanniche. Al brindisi, Churchill pronunciò «parole di calda accoglienza»: il suo ospite guidava da lungo tempo il governo italiano, «[...] ma non è la durata della carica che conta, ma ciò che nella carica è stato compiuto. E De Gasperi ha riportato l’Italia sulla via della democrazia e alla normalità e, superando molte difficoltà, l’ha avviata 76 alla piena ripresa e alle opere di pace e di libertà». Per queste ragioni, auspicava che il proprio paese potesse realizzare, con l’Italia oramai reinserita “nel concerto delle nazioni”, un proficuo lavoro per il consolidamento e la difesa dei valori di civiltà e democrazia. De Gasperi replicò con garbo – e con un po’ di circospezione – di essere giunto a Londra non in veste ufficiale, bensì per quello «che gli antichi romani chiamavano “otia”; non “ozio” che non v’è stato né per lui né per il primo ministro […] ma nel senso antico di cultura politica e di studi umanistici», facendo, quindi, riferimento al riconoscimento che avrebbe ricevuto a Oxford, «pietra miliare della civiltà europea» e «simbolo di quello che noi possiamo realizzare The Churchill-Eisenhower Correspondence, 1953-1955, edited by P.G. BOYLE, Chapel Hill, University of North Carolina Press, 1990, p. 56 e segg. 75 Brosio a Esteri, telegramma 145 del 24 giugno 1953, in ASDMAE, Ambasciata Londra 1951-54, b. 88, fascicolo “Visita di De Gasperi in Inghilterra”. 76 Brosio a Esteri, telespresso 3387/1566 del 2 luglio 1953, ibid. 74 68 The King is dead, long live the Queen insieme».77 Il seguito del ricevimento ebbe, però, uno sviluppo infausto, dacché Churchill fu colpito da un serio malore che gli precluse per alcuni mesi di partecipare alla vita pubblica; lo stesso incontro alle Bermuda venne annullato.78 Il giorno successivo si svolse allo Sheldonian Theatre dell’università di Oxford la prevista cerimonia, che vide De Gasperi, «in toga rossa e berretto dei velluto», ricevere per primo la laurea ad honorem,79 seguito dal Home Office Secretary, David Maxwell Fyfe, e dall’ex segretario di stato Herbert Morrison, ma anche dallo scultore Epstein, dal direttore del British Museum, Downing Kendrick, e dall’attore John Gielgud. Nell’indirizzo di presentazione, letto in latino dal Public Orator, venne tratteggiata la vita dello statista italiano, definito nella motivazione dell’onorificenza «uomo fortissimo il quale con esimia fortezza restituisce alla dilettissima Italia la pace e la antica stima».80 Dopo la tregua in terra britannica, ripresero, per De Gasperi, le tribolazioni italiane, tanto che le problematiche settimane che seguirono condussero alla fine del governo da lui guidato e, insieme, al suo declino politico. Questa svolta provocò una notevole impressione presso l’opinione pubblica e i circoli politici britannici, con previsioni fosche d’instabilità non dissimili da quelle relative alla Francia – mentre in Germania «sia che vinca il partito di Adenauer, sia che vincano i social-democratici non vi sono pericoli che si scivoli verso il comunismo» – e aperte critiche anche da parte laburista nei confronti «del mutato atteggiamento dei socialisti democratici e degli altri partiti italiani», davanti alle quali, riferiva l’ambasciatore Brosio, «non era certo facile offrire spiegazioni adeguate».81 Ibid. Cfr. DE LEONARDIS, La “diplomazia atlantica”, cit., p. 264. 79 La rievocazione è di M.R CATTI DE GASPERI, De Gasperi uomo sol o, Milano, Mondadori, 1964, p. 360. 80 Brosio a Esteri, telespresso 3387/1566 del 2 luglio 1953, cit. 81 Brosio a Esteri, telespresso 3989/1844 del 31 luglio 1953, in ASDMAE, Ambasciata Londra 1951-54, busta 88, fascicolo “Italia. Politica e situazione interna – Elezioni politiche giugno 1953”. 77 78 69 Gianluca Borzoni 4. La soluzione alla questione di Trieste. Verso un nuovo inizio? Sul piano diplomatico, parallelamente alla «disillusione atlantica e [alla] più intransigente tutela dei nostri interessi», che il tramonto di De Gasperi e l’avvio della breve esperienza di governo a guida Giuseppe Pella comportarono,82 anche per i rapporti con Londra si inaugurava un periodo vieppiù difficile. La trattativa su Trieste condiziona in modo imprescindibile i rapporti e, esacerbando ulteriormente l’atmosfera, facilita il riemergere di espressioni di risentimento. Seccamente, così Pella si indirizzava alla camera il 6 ottobre: «Con la Gran Bretagna i nostri rapporti sono caratterizzati dai comuni impegni che i due paesi hanno assunto quali membri dell’alleanza atlantica. Collaboriamo, inoltre, nel settore economico europeo, quali partecipanti all’OECE e in quell’organo formativo di unità politica che è il Consiglio d’Europa. Se, nella progressiva ricostruzione dell’antica cordialità, si sono dovute e si debbono superare delle difficoltà, è tuttavia proposito del governo italiano di contribuire per la sua parte a realizzare quell’atmosfera in cui i due paesi siano in grado di procedere nel comune interesse in una politica costruttiva di reciproca 83 cooperazione e solidarietà». Due giorni dopo, inglesi e statunitensi manifestavano di volere anch’essi «contribuire per la loro parte» e, con la dichiarazione bipartita presentata al capo del governo italiano, «procede[vano] risolutamente sulla via della spartizione», annunciando il trasferimento della zona A all’Italia.84 Si apriva, così, l’ultima fase del negoziato che condusse al memorandum del 5 ottobre 1954. Di questo negoziato, l’ambasciata di Grosvenor Square fu uno dei luoghi principali,85 mentre anche il nuovo ambasciatore britannico in Italia iniziava a svolgere «attiva ed efficace azione» – queste le parole usate da Brosio con Eden – per Cfr. DE LEONARDIS, La “diplomazia atlantica”, cit., p. 283. Del Balzo a Brosio, telegramma 327 del 6 ottobre 1953, in ASDMAE, Ambasciata Londra 1951-54, b. 135, fascicolo “Rapporti italo-inglesi”. 84 P. PASTORELLI, Origine e significato del Memorandum di Londra , in «Clio», XXXI, 4, ottobredicembre 1995, p. 607. 85 Cfr. LEFEBVRE D’OVIDIO, Manlio Brosio Ambasciatore a Londra, cit., p. 52. 82 83 70 The King is dead, long live the Queen consolidare la fiducia reciproca.86 Dal momento del suo arrivo a Roma, nel novembre 1953, sir Ashley Clarke aveva viaggiato molto: Milano, Torino, Genova, Firenze, Mezzogiorno; ovunque, aveva rinvenuto cordialità, ma anche residui «di una certa anglofobia e di risentimenti», al pari di quanto ancora accadeva nel suo paese nei confronti degli italiani, le cui realizzazioni democratiche e industriali s’ignoravano. Ma si trattava, proseguiva, d’incomprensioni che traevano origine dal passato, da una “mentalità sorpassata”, che derivava dall’esperienza fascista e dalla guerra.87 Era, dunque, il momento di voltare pagina.88 Nella primavera del 1954, forse, i tempi non erano ancora maturi, aveva ribattuto il ministro degli esteri Piccioni, che fino al momento delle note dimissioni, nel settembre successivo, si mantenne su posizioni più intransigenti di Brosio circa la “soluzione provvisoria” per Trieste:89 ancora una volta, il problema giuliano veniva sottovalutato dagli inglesi, per quanto si trattasse di una questione «profondamente radicata nella coscienza nazionale del popolo italiano» e «troppo importante e troppo sentita perché si possa rinviarla sine die». In questo senso, un più convinto aiuto di Londra e Washington sarebbe stato, invece, decisivo per ricondurre Tito a una soluzione ragionevole.90 In effetti, gli sviluppi successivi confermarono il contenuto della conversazione e sei mesi dopo, con l’annuncio del raggiungimento dell’accordo che riportava Trieste all’Italia, le parole benaugurali di Clarke poterono trovare finalmente eco anche presso Brosio a Esteri, telegramma 61 del 5 marzo 1954, in ASDMAE, Ambasciata Londra 1951-54, b. 135, fascicolo “Rapporti italo-inglesi 1952-‘53-‘54”. 87 Cfr. Colloquio fra il Ministro degli Affari Esteri e l ’Ambasciatore britannico Sir Ashley Clarke, 6 aprile 1954, trasmesso con appunto 3075 di Zoppi a Brosio del 10 aprile 1954, ibid. Sulle posizioni dell’ambasciatore Clarke, si veda VARSORI, Gran Bretagna e Italia 1945-56, cit., pp. 238-239. 88 In tema di sensibilità politica connessa con la pesante eredità del passato, si può segnalare che, agli inizi dell’anno, destò sensazione il fatto che, tra i paesi che la regina Elisabetta si accingeva a visitare nel suo viaggio privato nel Commonwealth, fosse stata inclusa la Libia, con sosta presso i cimiteri di guerra britannici a Tobruk. La circostanza, segnalata dalla legazione d’Italia a Tripoli, formò oggetto di una richiesta di chiarimenti di Brosio al Foreign Office. Cfr. Brosio a Est eri, appunto 9/9 del 1° gennaio 1954, in ASDMAE, Ambasciata Londra 1951-54, b. 81, fascicolo “Viaggio Regina Elisabetta II nell’impero”. 89 Cfr. D. DE CASTRO, Memorie di un novant enne. Trieste e l ’Istria, Trieste, MGS Press, 1999, p. 217; LEFEBVRE D’OVIDIO, Manlio Brosio Ambasciatore a Londra, cit., p. 51. 90 Colloquio fra il Ministro degli Affari Esteri e Sir Ashley Clarke, 6 aprile 1954, cit. 86 71 Gianluca Borzoni la rappresentanza a Londra. La conclusione data alla “onnivora” questione giungeva stavolta a marcare un momento di svolta positivo, come «simboleggiato dalla cena che Brosio offrì all’ambasciata alla Regina Elisabetta II» e dagli inviti al capo del governo Mario Scelba e al ministro Martino a recarsi in Gran Bretagna e negli Stati Uniti.91 Per il rappresentante italiano, giunto alla fine della propria missione, molteplici fattori rendevano ora possibile uno sviluppo di rapporti amichevoli su basi meno rapsodiche del passato: la Gran Bretagna si avvicinava a nuove elezioni, in condizioni di ripresa economica tali da generare un senso di diffusa euforia e legittime aspettative di nuova vittoria conservatrice, che, nell’ottica italiana, sarebbe stata da preferirsi ad un successo laburista.92 Sul piano internazionale, il tramonto di Churchill avrebbe consentito di superare una conduzione della politica estera talora bicefala, con il Foreign Office «che non ha mai approvato e non approva le impreviste iniziative del vecchio statista».93 Sarebbe spettato ad Anthony Eden, nel raccoglierne l’eredità, dare un contributo di maggiore chiarezza, specie in capo ai rapporti con Mosca: «I britannici sono ben freddamente decisi a discorrere coi sovietici, ma soltanto da posizioni di forza. Essi non credono alla utilità di blandirli con mosse concilianti fatte in pura perdita […]. Essi sono infine convinti – e su questo punto noi potremmo utilmente riflettere – che un fermissimo atteggiamento contro il comunismo all’interno dei DE LEONARDIS, La “diplomazia atlantica”, cit., p. 492. L’efficace espressione su Trieste è di Ennio Di Nolfo, riportata da De Leonardis, ibid., p. 510. 92 Cfr. Brosio a Martino, appunto riservato 5391/2745 del 17 dicembre 1954, in ASDMAE, Ambasciata Londra 1951-54, busta 135, fascicolo “Rapporti italo-inglesi 1952-‘53-‘54”. Le considerazioni di indole generale sui caratteri delle posizioni laburiste nei confronti dell’Italia (e della Jugoslavia) avevano recentemente trovato nuove conferme nelle parole pronunciate tempo prima dal deputato laburista Healey in una conversazione privata. A parere di Healey, l’Italia entrava a stento nei ragionamenti del Foreign Office, era invisa a Eden e sconosciuta ai laburisti, che si sentivano sentimentalmente e politicamente legati a Belgrado. Al rilievo di parte italiana che la politica di un grande paese difficilmente risulta mossa dal sentimento, bensì dall’interesse politico, il deputato laburista replicava «che l’Inghilterra non ha nessuna stima per l’Italia e non se ne fida». Oltre al fatto di contare relativamente poco sul piano militare. «Come indice della brutalità con la quale […] ha espresso il suo pensiero», si citava in chiusura una battuta «che, per cattivo gusto, supera tutte le altre. A una osservazione […] che forse i sentimenti antiitaliani in Gran Bretagna erano alimentati dal sentimento anti-papista del popolo inglese, Healey ha detto che “il papa non era amato più perché era un italiano, che non perché era un cattolico”». Conversazione con Healey (26 novembre), ibid. La sottolineatura è nel testo. 93 Brosio a Martino, appunto 5391/2745 del 17 dicembre 1954, cit. 91 72 The King is dead, long live the Queen paesi liberi non solo non nuoce, ma giova a migliorare i rapporti con l’Unione Sovietica: fino a che questa può contare su grosse quinte colonne all’interno di taluni paesi, ha scarso interesse a fare loro 94 concessioni sul piano internazionale». A livello bilaterale, ora che l’accordo con la Jugoslavia aveva «chiuso la triste eredità del trattato di pace e ci ha dato libertà di azione», un più sano realismo avrebbe dovuto indirizzare i ragionamenti di parte italiana. Sui temi europei, la buona volontà dei conservatori era testimoniata dalle scelte operate circa l’UEO, ma scambiare quest’atteggiamento per un’adesione a «sconfina[menti] sul terreno di una vera integrazione politica ed economica» sarebbe stato un marchiano errore. Si era, comunque, certamente attenuato «il contrasto di impostazioni pratiche e ideali fra italiani e i britannici»: «I risentimenti e le animosità del dopoguerra avevano oscurato la visione delle comunanze di interesse esistenti […]. Si era dimenticato che il principale interesse britannico in Europa e nel Mediterraneo, ossia l’interesse all’equilibrio, coincide con l’interesse nostro. […] Lo potranno negare gli idealisti, che vedono nella piena integrazione politica dell’Europa la sola ed immediata possibilità di salvezza, e nella Gran Bretagna la nemica di tale politica. Ma essi non tengono conto che questa non è la realtà. Essi trascurano il fatto che spingendo a fondo una politica federalista nell’UEO rimarrebbe indietro non solo la Gran Bretagna, ma anche la Francia e forse la Germania. Quindi, senza rinunciare ai nostri ideali, noi dovremmo fare nell’UEO una politica possibilista, a lunga scadenza. E ciò facendo potremo avere molti punti in comune colla Gran Bretagna: soprattutto l’interesse comune di evitare il predominio di uno o di più paesi 95 nell’organizzazione». Quanto agli interessi balcanici, le prospettive erano buone: se, infatti, il patto balcanico non riusciva ad «assicurare una salda coesione politica» fra i membri, l’Italia godeva di buoni rapporti con la Turchia, al pari di Londra, mentre la volontà di quest’ultima di 94 95 Ibid. La sottolineatura è nel testo. Ibid. 73 Gianluca Borzoni mantenere lo status quo avrebbe dovuto spingere a scelte consonanti relativamente all’Albania. Il tutto in una fase in cui al Foreign Office risultava allo studio «una duplice possibilità di movimento: dell’Italia verso il patto balcanico e della Jugoslavia verso l’unione occidentale», ciò che anche i turchi parevano suggerire.96 Con la scomparsa di una prospettiva coloniale da parte italiana, spazi di manovra erano da ravvisarsi anche nel più ampio ambito mediterraneo – vera «pietra di paragone della possibilità e solidità di buoni rapporti» con gli inglesi – dove una maggiore cooperazione sarebbe stata ben praticabile, una svolta scartata «l’utopistica idea di un patto mediterraneo orizzontale, il quale sarebbe un’unione di deboli».97 Luogo principale di questa cooperazione avrebbe dovuto essere la Tripolitania, specie nell’eventualità di un futuro distacco dalla Cirenaica, in seguito alla scomparsa di re Idris, ma si citavano anche le possibili ricadute positive in Eritrea, Somalia, Medio Oriente ed Egitto, «ove noi potremmo offrire un contributo alla stabilità e alla pacificazione del settore, purché non ci abbandoniamo a un’irreale 98 politica filo-araba in funzione anti-britannica». Questi i rinnovati scenari da approfondire, in previsione della visita di Scelba e Martino a Londra, nel febbraio 1955. Una visita che, a differenza di altre precedenti, puntualizzava ancora Brosio, avveniva per richiesta britannica, ciò che avrebbe consentito di «sedere al tavolo senza l’imperiosa necessità di chiedere appoggio sui problemi italiani aperti e urgenti. […] Viceversa per la prima volta in Ibid. Sul tema si veda G. CAROLI, L’Italia e il patto balcanico, 1951-1955. Una sfida diplomatica tra Nato a Mediterraneo, Milano, Franco Angeli, 2011. 97 Brosio a Martino, appunto 5391/2745 del 17 dicembre 1954, cit. La sottolineatura è nel testo. 98 Ibid. 96 74 The King is dead, long live the Queen questo dopoguerra noi abbiamo qualche cosa da offrire in termini di generale cooperazione politica e non abbiamo nulla di specifico da 99 chiedere». Dopo tre anni a Londra, l’ambasciatore si accomiatava con una summa dello stato dei “rapporti psicologici” tra i due paesi: «Mi sono convinto che, se l’atmosfera è notevolmente migliorata in questi ultimi tempi, vi è ancora molto cammino da percorrere. Non illudiamoci di aver creato un equilibrio stabile di sentimenti fra le nostre opinioni pubbliche. […] Si possono scrivere varie cose interessanti ed anche acute al riguardo, ma sostanzialmente i punti negativi sono da parte inglese la scarsa fiducia che si ha nella nostra solidità e serietà e da parte italiana il sospetto che tuttora si nutre sulle 100 intenzioni dell’Inghilterra». Sarebbe, dunque, servita un’azione “paziente e intelligente” per evitare che sentimenti antagonisti si riaccendessero. Nella certezza che alcune reazioni dipendessero dal diverso temperamento dei due popoli e fossero, quindi, ineliminabili, ma che altresì «molto potrebbe ancora esser fatto affinché britannici e italiani si conoscano meglio e si stimino di più».101 Parevano risuonare le parole di un articolo comparso sul «Corriere della Sera» poche settimane prima: la questione dei rapporti tra Italia e Gran Bretagna – si leggeva – era «uno dei maggiori paradossi di questo dopoguerra»: le due nazioni avevano ogni motivo «per essere amiche, e tuttavia non riescono a esserlo che a mezzo cuore», permanendo remore psicologiche a percorrere convintamente la strada della collaborazione.102 Dal ministero degli esteri, il segretario generale, conte Zoppi, concordava su molte delle posizioni di Brosio e aggiungeva la necessità di Ibid. Ibid. 101 Ibid. 102 A. GUERRIERO, Italia e In ghilterra, in «Corriere della Sera», 25 novembre 1954, in ASDMAE, Ambasciata Londra 1951-54, b. 135, fascicolo “Rapporti italo-inglesi 1952-’53-’54”. 99 100 75 Gianluca Borzoni «evitare di dare agli inglesi l’impressione che intendiamo, con logica e impazienza latine, trarre subito le pratiche conseguenze di una 103 rinnovata amicizia per forzarli ad assumere impegni». Al contrario, i noti scenari sui quali si sarebbero verificate le possibilità concrete di una nuova e più duratura amicizia presentavano realtà in divenire e tempi dilatati, che avrebbero dato all’Italia l’opportunità di operare senza frenesie e condizionamenti: quanto agli sviluppi continentali, bisognava ricordare come gli ambienti politici, culturali ed economici si sentissero legati ai percorsi d’integrazione, precisando, tuttavia, che non s’intendeva “forzare i tempi”; e allo stesso modo, sui temi balcanici appariva utile non dare «l’impressione di un nostro particolare desiderio di entrare nel patto balcanico» e attestare con chiarezza l’ottica circa l’Albania – recisa contrapposizione a ogni ipotesi di smembramento, contrario “ai nostri vitali interessi” – e la volontà di procedere anche in questo ambito in maniera concorde. Soprattutto, era necessario puntualizzare i contorni della “politica araba” di Roma: mancanza di aspirazioni territoriali, esistenza d’interessi economico-culturali da tutelare e incrementare; interessi, dunque, legittimi e non contrastanti con le altrui posizioni, nel convincimento che «consolidando le nostre posizioni […] operiamo nell’interesse di tutto l’Occidente». In questo e negli altri settori – tra cui la citata complessa realtà dell’emigrazione italiana, da svilupparsi con opportuna politica di “infiltrazione” – se, da parte britannica, si fosse abbandonata ogni pregressa diffidenza, le due diplomazie avrebbero potuto «lavorare insieme e sostenersi reciprocamente».104 In procinto di sostituire Brosio a Grosvenor Square, sarebbe toccato proprio a lui, Zoppi, il compito di verificare le concrete possibilità di un simile corso d’azione. Dopo il tempo dell’incomprensione e il lento superamento di problemi reali e diffidenze vicendevoli, poteva essere giunto anche il momento della collaborazione fattiva. 103 104 76 Appunto Zoppi, s.d [ma tra dicembre 1954 e inizi 1955], ibid. Ibid. Eunomia. Rivista semestrale di Storia e Politica Internazionali Eunomia III n.s. (2014), n. 1, 77-142 e-ISSN 2280-8949 DOI 10.1285/i22808949a3n1p77 http://siba-ese.unisalento.it, © 2014 Università del Salento LUCIO TONDO Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz e il contrasto con il Kaiserreich (aprile 1914)* Abstract: In April 1914, the United States entered in conflict with Germany because of Mexico. The Kaiserreich, which had extended its political and economic influence in Mexico, opposed Madero’s liberal power and recognized the dictatorship of Huerta in order to protect its commercial interests and to use Mexico as an instrument of Weltpolitik, bringing under discussion the “Monroe Doctrine” and the American supremacy in the Southern Hemisphere. Wilson openly backed up the anti-Huerta democratic forces, and expressed a strong sense of realism trying to reduce the influence of the Reich and defeat Huerta. When at Tampico’s port some Marines were arrested by the Huerta’s forces, Wilson took the opportunity to settle the score with the dictator and authorized the taking of Veracruz, also for blocking the delivery of German weapons cargo on board of the ship Ypiranga. The ship was prevented from docking, and this triggered the diplomatic reaction in Berlin. The Veracruz Crisis clearly demonstrated the American will to counter the German Weltpolitik, three years before the United States fought against Germany in the WWI. Keywords: Veracruz Crisis; Woodrow Wilson; US Foreign Policy; Victoriano Huerta; Kaiserreich; Germany; Mexico. Introduzione Quando, il 2 aprile 1917, Woodrow Wilson si presentò di fronte al congresso riunito in sessione congiunta perché dichiarasse lo stato di guerra contro il Reich tedesco, accentuò enfaticamente lo spirito di missione – una vera e propria “crociata democratica” – con cui gli Stati Uniti si apprestavano a entrare nel conflitto europeo. Egli sostenne che gli Stati Uniti avrebbero difeso «i princìpi della pace e della giustizia nella vita del mondo contro una potenza egoista e autocratica e di costruire, tra i popoli del mondo realmente liberi e autogovernati, un accordo di scopi e d’azione in grado di 1 garantire l’osservanza di tali princìpi». Wilson manifestò l’adesione ai princìpi idealistici frutto di una lunga maturazione uma* Il presente lavoro è dedicato alla memoria di mio padre. Address to the Congress, April 2, 1917, in A.S. LINK, ed., The Papers of Woodrow Wilson (d’ora in poi PWW), 69 vols., Princeton, N.J., Princeton University Press, 1966-1994, vol. 41, p. 522. 1 Lucio Tondo na,2 religiosa3 e accademica,4 anche se il suo «puritanesimo militante [vissuto] in una tipica posa da crociato»,5 non gli precluse la possibilità d’immettere nel proprio modus operandi una forte connotazione realista e personalistica.6 Egli dichiarò che gli Stati Uniti avrebbero messo a disposizione tutto il proprio know how economico, commerciale, tecnico e militare, per lottare per «la democrazia […], per il diritto e la libertà delle piccole nazioni, per il dominio universale del diritto attraverso un accordo tra popoli liberi 7 […] che, alla fine, renderà il mondo libero». Dichiarando l’avversione per la politica di potenza che aveva informato di sé la vita internazionale – compresa quella delle democrazie europee accanto alle quali gli americani si schieravano come “associati” e non alleati –, Wilson asserì che gli Stati Uniti entravano in guerra senza alcuna aspirazione territoriale o espansionistica: «Il mondo deve essere reso sicuro per la democrazia. […] Non cerchiamo nessuna conquista, nessun dominio. […] Noi siamo solo i difensori 8 dell’umanità». La gran parte degli storici che ha analizzato le commistioni tra idealismo e realismo 2 Tra gli ultimi lavori sulla biografia wilsoniana, si vedano W.B. HALE, Woodrow Wilson: The Story of His Life, Charleston, SC, Nabu Press, 2012; S.B. MCKINLEY, Woodrow Wilson: A Biography, Whitefish, MT, Literary Licensing, LLC, 2011; L. AUCHINCLOSS, Woodrow Wilson: A Life, London, Penguin Books, 2009; W.B. MAYNARD, Woodrow Wilson: Princeton to Presidency, New Haven, CT, Yale University Press, 2008. 3 Sulle ripercussioni politiche delle convinzioni religiose di Wilson, si vedano, tra gli altri, A.S. LINK, Woodrow Wilson: Revolution, War, and Peace, Wheeling, IL, Harlan Davidson, Inc., 1979; ID., The Philosophy and the Policies of Woodrow Wilson, Chicago, IL, University of Chicago Press, 1958; ID., Woodrow Wilson: Presbyterian in Government, in G.L. HUNT, ed., Calvinism and the Political Order, Philadelphia, PA, Westminster Press, 1965; J.M. MULDER, “A Gospel of Order”: Woodrow Wilson’s Religion and Politics, in J.M. COOPER-CH.H. NEU, eds., The Wilson Era: Essays in Honor of Arthur S. Link, Arlington Heights, IL, Harlan Davidson, 1991; M. MAGEE, What the World Should Be: Woodrow Wilson and the Crafting of a Faith-Based Foreign Policy, Waco, TX, Baylor University Press, 2008. 4 Sull’esperienza accademica di Woodrow Wilson si vedano, tra gli altri, H.W. BRAGDON, Woodrow Wilson: The Academic Years, Cambridge, MA, Harvard University Press, 1967; H. CRAIG, Woodrow Wilson at Princeton, Norman, OK, University of Oklahoma Press, 1960; J.M. MULDER, Woodrow Wilson: The Years of Preparation, Princeton, N.J., Princeton University Press, 1978. 5 J.C. STOESSINGER, Crusaders and Pragmatists: Movers of Modern American Foreign Policy, New York- London, W.W. Norton & Company, 1985, p. 14. 6 Cfr. TH.J. KNOCK, To End All Wars: Woodrow Wilson and the Quest for a New World Order, Princeton, N.J., Princeton University Press, 1995, p. 20. 7 Address to the Congress, April 2, 1917, in PWW, vol. 41, cit., p. 527. 8 Ibid., p. 525. 78 Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz della politica estera wilsoniana – e le loro ricadute internazionali – ha situato la prima guerra mondiale come terminus a quo di quegli «assunti che in seguito diverranno assiomatici per gli statisti americani».9 Frank Ninkovich, forse il più rappresentativo tra di essi, ha collocato il wilsonismo sia a sostrato culturale della politica estera statunitense del Novecento, sia a base ideologica caratterizzante il XX secolo come l’American Century. Ma se, da un lato, la storiografia ha posto l’accento sull’entrata nel conflitto mondiale – comprendendovi anche l’opposizione diplomatica, politica e militare al bolscevismo10 – come turning point per la trasposizione pratica dei princìpi del wilsonismo, dall’altro, sembra aver sottostimato che tali fondamenti teorici si fossero già esplicati in politica attiva già nei primi tempi della presidenza, specie nei riguardi dell’atteggiamento verso i paesi dell’America Latina. Solo gli studiosi che hanno approfondito i rapporti tra l’amministrazione Wilson e il Messico hanno evidenziato come tali topoi costituissero l’asse portante della politica estera statunitense già a partire dal 1914. L’impianto interpretativo di tali storici ha inquadrato la crisi politico-diplomatica di Veracruz quale momento prodromico all’opposizione wilsoniana alle pulsioni rivoluzionarie di Pancho Villa e il conseguente fallimento del generale Pershing nel catturarlo nel 1916, dopo le numerose incursioni in territorio statunitense, specie quella contro i circa 600 soldati e i civili di Columbus, New Mexico.11 Studi come quelli di Donald Baldridge, Haldeen Braddy, Peter Calvert e 9 F.A. NINKOVICH, The Wilsonian Century: U.S. Foreign Policy Since 1900, Chicago, IL, University of Chicago Press, 1999, p. 13. 10 Sulla politica wilsoniana nei riguardi della Russia bolscevica e dell’intervento militare in Siberia, si vedano, tra gli altri, R.L. WILLET, JR., Russian Sideshow: America’s Unclared War, 1918-1920, Washington, D.C., Brasseys, Inc., 2003; D.E. DAVIS-E.P. TRANI, The First Cold War: The Legacy of Woodrow Wilson in U.S.-Soviet Relations, Columbia, MO-London, University of Missouri Press, 2002; C. WILLCOX MELTON, Between War and Peace: Woodrow Wilson and the American Expeditionary Force in Siberia, 1918-1921, Macon, GA, Mercer University Press, 2001; D.S. FOGLESONG, America’s Secret War Against Bolshevism: U.S. Intervention in Russian Civil War, Chapel Hill, N.C, University of North Carolina Press, 1996. 11 Sulla figura di Pancho Villa e il suo contrasto con gli Stati Uniti, oltre all’ormai classico dell’opposizione comunista americana contro la politica di Wilson (J. REED, Insurgent Mexico: with Pancho Villa in the Mexican Revolution, St. Petersburg, FL, Red and Black Publishers, 2009), si vedano, tra gli altri, B.F. WILLIAMS, JR., Pancho Villa: A Lifetime of Vengeance, Tucson, AZ, Smokin Z Press, 2011; L.A. HARRIS, Pancho Villa and the Columbus Raid, Whitefish, MT, Kessinger Pub Co, 2010; J.W. HURST, Pancho Villa and Black Jack Pershing: The Punitive Expedition in Mexico, Westport, CT, Greenwood Pub Group, Inc, 2007; H.M. MASON, The Great Pursuit: Pershing's Expedition to Destroy Pancho Villa, New York, Smithmark Pub., 1995. 79 Lucio Tondo Mark Gilderhus,12 riconducibili all’impianto della scuola revisionista, hanno evidenziato come tanto l’episodio di Veracruz, quanto la spedizione contro Villa rispondessero ad una comune logica politico-economica. Essa tendeva a utilizzare l’intervento militare sia per favorire lo sfruttamento delle risorse naturali messicane da parte della Petroleum Lobby, sia per proseguire, ammantandola con un velo d’idealismo, la linea della Dollar Diplomacy e arrivare all’“esportazione” del liberal-capitalismo. Tesi riprese e confermate dagli studi di Edward Haley, Friedrich Katz, Robert Smith e ampliate dal recente lavoro di John Mason Hart, che hanno interpretato l’intervento militare statunitense sia come risultato di un patto tra l’establishment diplomatico e l’ambiente economicofinanziario finalizzato alla stabilizzazione degli affari dei privati, sia come l’azione – promossa dai businessmen – per controllare lo sviluppo (e il sottosviluppo) economico messicano.13 Un approccio incentrato sulla presunta aggressività della politica estera statunitense, ma che non ha preso in analisi le motivazioni politico-ideali alla base dell’azione militare, al contrario di alcuni esponenti della scuola ortodossa. Studiosi come Clarence Clendenen, Kenneth Grieb, Louis Teitelbaum e James Sandos hanno posto a fondamento delle operazioni militari in Messico l’impianto teorico del wilsonismo.14 Essi hanno concentrato le proprie analisi sul tentativo d’espansione dei princìpi istituzionali della democrazia americana, sul diniego del riconoscimento de jure al re12 Cfr. D.C. BALDRIDGE, Mexican Petroleum and United States-Mexican Relation, 1919-1923, New York, Garland, 1987; H. BRADDY, Pershing’s Mission in Mexico, El Paso, TX, Texas Western Press, 1966; P. CALVERT, The Mexican Revolution, 1910-1914: The Diplomacy of Anglo-American Conflict, Cambridge, Cambridge University Press, 1968; M.T. GILDERHUS, Diplomacy and Revolution: U.S.Mexican Relations under Wilson and Carranza, Tucson, AZ, University of Arizona Press, 1977; ID., Wilson, Carranza, and the Monroe Doctrine: A Question in Regional Organization, in «Diplomatic History», VII, 2, Spring 1983, pp. 103-115. 13 Cfr. E.P. HALEY, Revolution and Intervention: The Diplomacy of Taft and Wilson in Mexico, 19101917, Cambridge, MA, MIT Press, 1970; F. KATZ, Pancho Villa and the Attack on Columbus, New Mexico, in «American Historical Review», LXXXIII, 1, February, 1978, pp. 101-130; R.F. SMITH, The United States and Revolutionary Nationalism in Mexico, 1916-1932, Chicago, IL, University of Chicago Press, 1972; J.M. HART, Revolutionary Mexico: The Coming and Process of the Mexican Revolution, Berkeley, CA, University of California Press, 2002. 14 Cfr. C.C. CLENDENEN, Blood on the Border: The United States Army and the Mexican Irregulars, London, Macmillan, 1969; ID., The United States and Pancho Villa: A Study in Unconventional Diplomacy, Ithaca, NY, Cornell University Press, 1961; K.J. GRIEB, The United States and Huerta, Lincoln, NE, University of Nebraska Press, 1969; L.M. TEITELBAUM, Woodrow Wilson and the Mexican Revolution (1913-1916): A History of the United States-Mexican Relations from the Murder of Madero until Villa’s Provocation across the Border, New York, Exposition Press, 1967; J.A. SANDOS, A German Involvement in Northern Mexico, 1915-1916. A New Look at the Columbus Raid, in «Hispanic-American Historical Review», L, 1, February 1970, pp. 70-88. 80 Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz gime di Huerta per non avallare – creando un pericoloso precedente – una sorta di appeasement con quei personaggi che utilizzavano l’aggressione come strumento della dialettica politica e sul contrasto dello sforzo tedesco di alimentare il confronto tra gli Stati Uniti e il Messico per trarne dei benefici economico-militari. Tali impianti storiografici hanno costituito il sostrato su cui sono stati prodotti alcuni lavori monografici sulla crisi di Veracruz. Tra di essi, le opere che si sono distinte per originalità interpretativa e l’ampio dibattito stimolato sono state quelle di Robert Quirk, John Eisenhower e Mark Benbow. Quirk, che concluse il proprio libro nel periodo in cui Kennedy stava autorizzando l’invio dei primi “consiglieri militari” nel Sud-Est asiatico, lasciò intendere, tra le righe, ai lettori coevi l’esistenza d’un fil rouge che legava la politica wilsoniana di difesa dell’onore e del prestigio statunitensi con quella kennediana mirante all’affermazione della potenza americana.15 Un parallelismo che si esplicitava chiaramente, se applicato all’episodio della Baia dei Porci, di pochi mesi antecedente alla data di pubblicazione dell’opera. L’autore sosteneva che la spedizione dei marines a Veracruz aveva evidenziato il fallimento dell’approccio wilsoniano nella politica latinoamericana, poiché il presidente «aveva rivestito l’aggressione americana con un manto d’idealismo bigotto. Nell’insistere sulla moralità delle proprie azioni, egli suscitò sia 16 l’odio sia il disprezzo dei messicani». Un approccio fallimentare che, per Quirk, sembrava avesse insegnato poco all’establishment politico-diplomatico, specie nell’ottica del confronto sovieticoamericano: «In questo tempo di crisi, gli americani farebbero bene a ricordarsi la natura della sconfitta di Woodrow Wilson nel trattare con i latinoamericani. […] Noi dovremmo avvantaggiarci dal prendere coscienza che i nostri attuali fallimenti traggono origine dagli stessi atteggiamenti 17 evidenziati nel 1914». Un insuccesso che l’autore ascriveva all’incapacità wilsoniana di recedere da un im15 Cfr. R.E. QUIRK, An Affair of Honor: Woodrow Wilson and the Occupation of Veracruz, Lexington, KY, University of Kentucky Press, 1962, p. vi. 16 Ibid. 17 Ibid. 81 Lucio Tondo pianto idealistico che avrebbe causato un’inadeguatezza a comprendere le reali esigenze dei messicani, determinando una perdita di credibilità per quell’American Way of Life che s’intendeva “esportare”.18 Anche per John Eisenhower, l’idealismo ha rappresentato la chiave di lettura per il discernimento della politica messicana di Wilson. Ma, se per Quirk esso costituiva la base da cui il presidente aveva lanciato delle “crociate democratiche”, per Eisenhower i princìpi teorico-politici wilsoniani erano intrisi di una contraddizione in termini che ne annullava la portata. L’antinomia della politica estera wilsoniana era da ricercare, secondo lo studioso, nel fatto che «l’occupazione di Veracruz e la spedizione punitiva [di Pershing contro Villa] furono ordinate da un uomo sinceramente dedito alla pace».19 Contrasto che si acutizzava, poiché, anche se Wilson, negli anni degli impegni accademici, si era scagliato contro gli ideali espansionistici verso l’Ovest e il Messico, propugnati da James Polk,20 la sua politica aveva fornito una versione del Manifest Destiny intrisa di una certa aggressività idealistica. Utilizzando un linguaggio fluido tendente a penetrare i bizantinismi della politica messicana, Eisenhower asseriva che le radici degli interventi militari in Messico erano da ricercarsi in una combinazione di considerazioni ideali e realistiche di Wilson. Accanto alla difesa della democrazia, ferita dal golpe di Huerta, Wilson avrebbe inviato i marines prima a Veracruz e, in seguito, sui confini meridionali degli Stati Uniti per renderli più sicuri, mediante la neutralizzazione del “pericolo rivoluzionario” rappresentato dal “bandito” Pancho Villa e per consentire ai businessmen americani la protezione dei propri interessi.21 E, nonostante egli non intendesse arrivare a un conflitto aperto con il Messico, l’invio delle truppe aveva prodotto nei centramericani un sentimento d’inevitabilità dello stesso, ottenendo l’effetto di aumentare la percezione degli Stati Uniti come meri invasori territoriali, e non come “esportatori” della democrazia.22 18 Cfr. ibid., p. 115. J.S.D. EISENHOWER, Intervention! The United States and the Mexican Revolution, 1913-1917, New York, W.W. Norton & Company, 1995, p. iii. 20 Cfr. ibid., p. iv. 21 Cfr. ibid., p. 217. 22 Un’“esportazione” ammantata d’idealismo che, come ha sostenuto Martin Haas, in una recensione del 2003 al testo di Eisenhower, ha trovato una corrispondenza diretta nella politica irachena di George W. Bush. Sarebbe esistito un trait d’union diretto tra la politica wilsoniana nei riguardi di Huerta e l’invio dei 19 82 Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz Al contrario di quanto prospettato da Quirk e Eisenhower, per Mark Benbow l’idealismo che informò la politica wilsoniana spingendola all’intervento in Messico traeva origine da una covenant theology. L’idea, cioè, che fosse «l’intelligenza divina a guidare e sorvegliare ogni patto tra popoli, tra gruppi di popoli e tra governanti e governati».23 In tal senso, le convinzioni religiose di Wilson avrebbero costituito le motivazioni delle sue scelte, portandolo alla conclusione che i leaders politici avessero degli obblighi morali verso la propria cittadinanza e che, nel momento in cui non avessero rispettato i loro doveri, avrebbero perso la legittimità a governare, fornendo al popolo il diritto alla ribellione.24 Se applicata alla politica centramericana, tale chiave di lettura conduce alla conclusione che «la profonda fede religiosa di Wilson, radicata nella covenant theology, nella sua chiesa presbiteriana del Sud, divenne il fondamento per la sua 25 politica verso il Messico». Una politica che, per Benbow, non si poteva far rientrare nella categoria dell’imperialismo, poiché il presidente non solo abbandonò la Dollar Diplomacy di Taft, ma cercò anche d’imporre uno schema covenanter nella politica mondiale: «I covenants erano un mezzo per portare l’ordine nel caos, di elevare più vicino a Dio e al paradiso ciò che emergeva dal deserto».26 Ma, accanto all’idea del covenant, dell’ordine divino e degli Stati Uniti come esecutori della volontà di Dio, Benbow aggiunge quella presbiteriana di Federal Headship, che Wilson avrebbe immesso direttamente nell’azione politica. Secondo tale aspetto teologico, Adamo, dopo la cacciata dall’Eden, sarebbe diventato il rappresentante stesso degli uomini e, come tale, il leader federale marines a Veracruz per favorire l’insediamento di «un governo giusto e ordinato per il Messico» (M. HAAS, Regime Change, in http://www.h-net.org/reviews/showrev.php?id=7247) e la politica bushiana finalizzata alla democratizzazione dell’Iraq di Saddam Hussein. Analogia evidente, se si tiene conto del giudizio di Eisenhower, secondo cui «la fissazione del presidente Wilson di rimuovere Huerta dal potere sembra essere stato il risultato di un’odiosa vendetta [sic] personale, motivata dal rifiuto di Huerta di obbedire ai suoi ordini». EISENHOWER, Intervention!, cit., p. xvii. 23 M. BENBOW, Leading Them to the Promised Land: Woodrow Wilson, Covenant Theology, and the Mexican Revolution, 1913-1915, Kent, OH, Kent State University Press, 2010, p. 2. 24 Cfr. ibid., p. 3. 25 Ibid., p. 125. 26 Ibid., p. 10. 83 Lucio Tondo dell’intera umanità.27 L’idea di un unico rappresentante di un vasto gruppo umano avrebbe avuto ripercussioni sul pensiero politico wilsoniano. Il presidente, in qualità di Federal Head della nazione, era in grado di parlare per conto del proprio popolo di fronte al resto del mondo, assumendo una sorta di responsabilità rappresentativa. Ne discendeva una giustificazione teologico-razionale per una personalizzazione della politica che, se inquadrata nell’ottica della Federal Head, faceva assumere alla politica messicana wilsoniana i contorni di una missione divina. Una redenzione, quasi, che, dopo l’omicidio di Madero, fu finalizzata al ristabilimento dell’ordine costituzionale quale perseguimento «della volontà divina di estendere il vangelo della democrazia».28 1. Wilson e il rifiuto del riconoscimento di Huerta Il 4 marzo 1913, Wilson s’insediò alla Casa Bianca ed ereditò dal predecessore, William Howard Taft, la gestione della sempre più spinosa evoluzione della dinamica politica messicana. Il paese centramericano, governato sin dal 1876 da Porfirio Díaz, eroe nazionale distintosi nella guerra combattuta contro i francesi dopo l’invasione di Napoleone III (1862-1867), stava vivendo un periodo di rapido sviluppo in campo commerciale, infrastrutturale e industriale.29 Nonostante la dittatura di Díaz avesse favorito la penetrazione delle imprese straniere – soprattutto le statunitensi, impegnate a limitare la portata degli interessi di quelle europee – nel tessuto economico-produttivo messicano, rendendo de facto il paese dipendente dall’estero, essa avviò, nel contempo, un processo d’ammodernamento delle strutture sociali.30 La sua azione riformatrice mirava a garantire un periodo di pace funzionale allo sviluppo di una moderna borghesia imprenditoriale, agricola e industriale, ma il risultato che ottenne fu quello di aumentare il già ampio potere dei latifondisti a scapito dei contadini e degli operai, le cui proteste furono 27 Cfr. ibid., p. 19. Ibid., p. 12. 29 Sulla vita e l’azione politica di Díaz, si vedano, tra gli altri, P. GARNER, Porfirio Díaz, White Plains, NY, Longman Publishing Group, 2001; L.B. PERRY, Juárez and Díaz: Machine Politics in Mexico, DeKalb, IL, Northern Illinois University Press, 1978. 30 L’apertura di Díaz agli investimenti esteri produsse una gara tra imprenditori americani e europei per ottenere dal governo il maggior numero di concessioni governative delle risorse naturali e agricole messicane. Cfr. CH.C. CUMBERLAND, Precursors of the Mexican Revolution of 1910, in «The Hispanic American Historical Review», XXII, 2, May 1942, pp. 244-252. 28 84 Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz represse nel sangue.31 A tali rimostranze si accompagnarono quelle dei ceti medi e intellettuali, che avviarono un’azione d’opposizione sfociata, nel 1910, in un’insurrezione armata contro il governo di Díaz, capeggiata da Francisco Madero, Pancho Villa e Emiliano Zapata.32 Convinto di poter gestire agevolmente la sfida, nello stesso anno Díaz indisse delle elezioni, in cui, molto probabilmente a causa di brogli elettorali, sconfisse il liberale Madero, che raccolse solo poche centinaia di voti. Egli, costretto alla fuga negli Stati Uniti, insieme agli altri dirigenti del proprio partito in esilio, stilò il Piano di San Luis Potosí,33 documento che dichiarava nulle le elezioni e che invitava la popolazione all’insurrezione. A Madero, Villa e Zapata si affiancarono Venustiano Carranza e Álvaro Obregón,34 e la loro azione congiunta, condotta su tutto il territorio nazionale, portò alla detronizzazione di Díaz.35 L’elezione alla presidenza di Madero, nel 1911, nonostante mirasse alla pacificazione nazionale, mediante un tentativo di conciliazione anche con i componenti il governo Díaz, non riuscì però a unificare le diverse aree sociopolitiche che lo avevano portato al potere. Ciò fu causato sia dalle ambizioni personali dei diversi capi rivoluzionari, sia dal non aver immediatamente avviato le riforme dell’architettura istituzionale, agraria e sociale, promesse all’ala più radicale che lo aveva appoggiato nella lotta contro Díaz.36 Quando apparve chiara la volontà di Madero di 31 Cfr. HART, Revolutionary Mexico, cit., pp. 219-222. Sulla vita e la politica di Madero si veda il recente S.R. ROSS, Francisco I. Madero: Apostle of Mexican Democracy, Whitefish, MT, Literary Licensing, LLC, 2011. Sull’azione rivoluzionaria di Zapata, invece, cfr., tra gli altri, J. WOMACK, Zapata and the Mexican Revolution, New York, Vintage, 1970; F. MCLYNN, Villa and Zapata: A History of the Mexican Revolution, New York, Basic Books, 2002; S. BRUNK, Emiliano Zapata!: Revolution and Betrayal in Mexico, Albuquerque, NM, University of New Mexico Press, 1995; P.E. NEWELL, Zapata of Mexico, Montreal, Black Rose Books, 1997. 33 Cfr. The Plan of San Luis Potosí (November 20, 1910), in http://www.latinamericanstudies.org/mexican-revolution/potosi-plan.htm. 34 Sulla vita e l’azione politica di Carranza, si vedano, tra gli altri, D.W. RICHMOND, Venustiano Carranza’s Nationalist Struggle, 1893-1920, Lincoln, NE, University of Nebraska Press, 1984. Su Obregón, cfr. L.B. HALL, Álvaro Obregón: Power and Revolution in Mexico, 1911-1920, College Station, TX, Texas & M. University Press, 2000; J. BUCHENAU, The Last Caudillo: Alvaro Obregn and the Mexican Revolution, Chichester, Willey Blackwel Publishing, Inc., 2010. 35 Sull’avvio e la conduzione della rivoluzione contro Díaz, cfr., tra gli altri, J.M. HART, Revolutionary Mexico, cit.; CH.C. CUMBERLAND, Mexican Revolution: Genesis Under Madero, Austin, TX, University of Texas Press, 1952; A. KNIGHT, The Mexican Revolution, Vol. I, Cambridge, MA, Harvard University Press, 1986; M.J GONZALES, The Mexican Revolution, 1910–1940, Albuquerque, NM, University of New Mexico Press, 2002. 36 Cfr. H. PHIPPS, The Agrarian Phase of the Mexican Revolution of 1910-1920, in «Political Science Quarterly», XXXIX, 1, March 1924, p. 3. 32 85 Lucio Tondo non procedere alla spartizione e all’assegnazione ai peones della terra confiscata ai latifondisti durante la fase rivoluzionaria, Zapata ne divenne il maggior oppositore. Dopo aver rifiutato di smobilitare la sua armata del Sud, Zapata riunì in una junta i sostenitori più vicini e proclamò il “Piano de Ayala”, in cui «i capi riuniti si dichiararono ufficialmente in rivolta contro il governo federale. Proclamarono che Madero era un inetto, un traditore e un tiranno. Solo con la violenza avrebbero potuto ottenere giustizia per i 37 pueblos». Giustizia sociale che s’identificava principalmente con una radicale riforma agraria e l’avvio di una nuova insurrezione popolare.38 Di fronte alla minaccia zapatista, Madero incaricò il comandante delle forze armate, il generale Victoriano Huerta, di combattere e sconfiggere i rivoluzionari.39 Nei primi anni del 1913, Huerta, con l’appoggio di Félix Díaz (nipote di Porfirio), di Bernardo Reyes e dell’ambasciatore americano Henry Lane Wilson, costrinse Madero ad accettare la sua “protezione”, mettendolo agli arresti e attuando un vero e proprio putsch. Pochi giorni dopo la Decena Trágica, in cui non furono risparmiate violenze nemmeno ai propri congiunti, Madero fu forzato a presentare le proprie dimissioni e, al suo posto, fu nominato provvisoriamente Reyes. Nonostante il suo vice, José Maria Pino Suárez, cercasse di organizzare un tentativo per liberarlo, che gli costò la vita, il 22 febbraio Madero fu giustiziato.40 William Howard Taft, che a quella data era ancora in carica e in attesa dell’insediamento di Wilson alla Casa Bianca, durante il coup d’état di Huerta si limitò a inviare alcuni plotoni dell’esercito sul confine per la protezione delle vite e delle proprietà americane. Rifiutandosi d’intervenire, Taft cercava di legittimare de facto la nuova presidenza Huerta, mostrandosi certo che l’appena eletto Wilson, trovandosi di fronte al fatto compiuto, non avrebbe messo a repentaglio gli investimenti statunitensi nella regione e che avrebbe riconosciuto de jure il nuovo governo messicano. Tale convincimento nasceva dalla consapevolezza che nessun presidente, per quanto idealista, avreb37 WOMACK, Zapata, cit., p. 138. Cfr. ibid., pp. 138-140. 39 Sulla vita e la politica di Huerta, si veda l’ormai classico M.C. MEYER, Huerta: A Political Portrait, Lincoln, NE, University of Nebraska Press, 1972. 40 Cfr. WOMACK, Zapata, cit., p. 173. 38 86 Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz be potuto operare delle politiche sfavorevoli agli interessi americani, cresciuti esponenzialmente durante la sua amministrazione.41 Taft, infatti, già nei primissimi tempi della sua presidenza, aveva incoraggiato i businessmen americani a investire nell’economia messicana, assicurando che, anche grazie alla disponibilità politica di Díaz ad appoggiare la Dollar Diplomacy, gli Stati Uniti avrebbero garantito loro qualunque forma di protezione politica, diplomatica e militare.42 Ma, al di là dei vantaggi economico-finanziari, la politica di Taft, come ha evidenziato John Mason Hart, pose le basi delle spinte rivoluzionarie, disilludendo i messicani circa la bontà delle politiche di Díaz, che «avevano prodotto un’economia instabile a beneficio di pochi. Egli fallì nel sostenere l’espansione economica che aveva caratterizzato i suoi 22 anni [di governo]. La combinazione di difficoltà economiche e frustra43 zione determinò il dissenso politico». Taft non valutò la possibilità di tali eventuali ricadute negative perché la difesa degli interessi statunitensi nell’area costituiva il nucleo della propria politica latinoamericana. Proprio per questa ragione, immediatamente dopo che Madero, nel 1910, ebbe annunciato la sua candidatura alle elezioni presidenziali, fornì pieno appoggio al conservatore Díaz, favorevole agli investimenti americani, contro il suo competitor, nazionalista e riformista. In seguito, nei disordini che erano seguiti alla sconfitta di Madero e alla sua chiamata alla rivoluzione, Taft, nonostante avesse preventivato anche di proclamare un embargo sulle armi per non rafforzare l’azione destabilizzante di Madero e dei suoi alleati più radicali, quando apparve chiaro che la vittoria sarebbe andata agli oppositori di Díaz, abbandonò tale possibilità. Il 12 marzo 1912, realisticamente, di fronte alla minaccia rivoluzionaria di Zapata, nel tentativo di rafforzare Madero, promulgò l’embargo totale sulle armi da inviare in Messico.44 Ciò, al contrario delle aspettative, produsse un rafforzamento dei ribelli, poiché incentivò il contrabbando attraverso 41 Nel 1900, il valore totale degli investimenti americani all’estero si stimava intorno ai 500 milioni di dollari. Nel 1913, essi avevano raggiunto la cifra di 2,5 miliardi di dollari, la metà dei quali era in America Latina. Cfr. J.M. HART, Empire and Revolution in Mexico: The Americans in Mexico since the Civil War, Berkeley, CA, University of California Press, 2002, p. 82. 42 Cfr. ibid, pp. 90-100. 43 Ibid., p. 265. 44 Cfr. Proclamation by the President, March 14, 1912, in Papers Relating to the Foreign Relations of the United States (d’ora in poi FRUS), 1912, Washington, DC, U.S. Government Printing Office, 1919, pp. 745-746. 87 Lucio Tondo il confine Sud degli Stati Uniti, troppo vasto per essere totalmente monitorato dalle forze di polizia e abitato, nella sua gran parte, da contadini messicani simpatizzanti con la causa rivoluzionaria. Le ripercussioni interne e internazionali di tali posizioni non sfuggirono all’analisi di Woodrow Wilson. Egli, appena assunta la presidenza, per dare un segnale di discontinuità con le politiche sin lì seguite nei riguardi dell’America Latina in generale e del Messico in particolare, prese immediatamente le distanze dall’impianto della Dollar Diplomacy. In un colloquio con il segretario di stato, William Jennings Bryan, asserì che «è estremamente pericoloso cercare di determinare la politica estera di una nazione in termini di interessi materiali».45 L’amministrazione Wilson non si dimostrava disposta ad avallare una difesa a oltranza del big business a scapito dell’edificazione di una politica latino-americana improntata sul rispetto delle prerogative democratiche. E nonostante alcune lobbies – specie quelle petrolifere texane – cercassero d’operare delle pressioni sulla presidenza, tanto mediante Bryan,46 quanto mediante il consigliere personale di Wilson, colonello House,47 per ottenere o un riconoscimento del governo Huerta, o un intervento militare statunitense che ristabilisse l’ordine, permettendo loro una serena ripresa degli affari, il presidente si rifiutò di prendere in considerazione entrambe le ipotesi. Nel primo Cabinet Meeting, tenuto l’11 marzo 1913, a House – che metteva in risalto come il di45 Cit. in H. NOTTER, The Origins of the Foreign Policy of Woodrow Wilson, New York, Russel & Russel, 1965, p. 267. 46 Nel maggio 1913, William Jennings Bryan fu contattato da Julius Kruttschnitt, presidente della Southern Pacific Company, perché premesse su Wilson affinché il governo stilasse una nota con cui chiedere a Huerta di fornire garanzie sulla sicurezza della compagnia, sull’avanzamento dei lavori e sulla protezione della vita degli operai americani. Il 26 gli scrisse che, «per alcuni mesi, la Southern Pacific Company è stata privata del possesso delle sue linee ferroviarie di Sonora e Sinaloa, provocato dalle autorità statali mediante i loro ufficiali». Note from Secretary of State for the President, May 26, 1913, in PWW, Vol. 27, cit., p. 479. La richiesta del magnate era di accelerare i tempi per un’azione decisa sul regime di Huerta, perché si arrivasse a una stabilizzazione politica, che non lasciasse dubbi sulla volontà della presidenza di difendere gli interessi americani: «Pare che l’attuale amministrazione abbia una grande opportunità, agendo celermente, di presentare un piano al governo messicano chiedendo urgentemente di fissare il prima possibile una data per le elezioni». Ibid., p. 480. 47 John Mason Hart si è detto certo che il colonnello House fosse uno sponsor dell’intervento armato in Messico per la protezione degli interessi economico-finanziari. House era stato contattato da alcuni rappresentanti di compagnie petrolifere, come il consigliere legale della Texas Company, William Buckley, Sr., che peroravano un’azione militare. Buckley, senza troppe perifrasi, scrisse a House, sostenendo che «tutti noi crediamo che non ci sia altra soluzione a questa situazione difficile e che essa sia l’intervento americano. […] Alla maggior parte del popolo messicano, a questo punto del suo sviluppo, non importa molto della libertà politica». Cit. in HART, Empire and Revolution in Mexico, cit., p. 306. 88 Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz niego del riconoscimento del nuovo regime messicano avrebbe potuto causare una progressiva perdita dell’influenza americana a solo vantaggio della Gran Bretagna e della Germania – Wilson oppose il proprio rifiuto.48 Il giorno successivo, in una conferenza stampa, ribadì la posizione, sostenendo che gli Stati Uniti non avevano «niente da cercare nell’America Centrale e del Sud, ad eccezione dei reali interessi dei popoli dei due continenti, la sicurezza dei governi per il bene del popolo e non per un piccolo gruppo d’interesse e lo sviluppo dello scambio di relazioni personali e commerciali tra i continenti che possano contribuire al profitto e al vantaggio d’entrambi e non interferi49 re con le libertà e i diritti di nessuno». In sostanza, Wilson dichiarò di non aver alcuna intenzione che gli interessi economico-finanziari dettassero i punti cardine della propria politica latino-americana. Il 27 ottobre 1913, in un discorso tenuto a Mobile, Alabama, dopo aver deprecato le sofferenze cui le concessioni governative, fornite a un ristretto numero di grandi investitori, avevano condannato alcuni paesi come il Messico, nuocendo al loro sviluppo, dichiarò che la sua politica si sarebbe differenziata: «Quegli Stati che sono obbligati […] a rilasciare concessioni sono nelle condizioni di far dominare i propri affari interni dagli interessi stranieri: un sistema di cose sempre pericoloso e destinato a diventare intollerabile. Ciò che questi Stati desiderano, dunque, è l’emancipazione dalla subordinazione, che sinora è stata inevitabile, dalle imprese straniere e l’affermazione di un forte carattere […] che sono ancora in 50 grado di dimostrare». Per il presidente, gli statunitensi avrebbero dovuto presentarsi ai latino-americani come «gli amici e i difensori, in termini di uguaglianza e onore, di diritti umani, d’integrità e di opportunità, contro ogni interesse materiale […] e [gli Stati Uniti dovevano] considerare come uno dei doveri dell’amicizia il fatto che nessun interesse materiale sia superiore alla li51 bertà umana e all’opportunità nazionale». 48 Cfr. J.B. DUROSELLE, From Wilson to Roosevelt: Foreign Policy of the United States, Cambridge, MA, Harvard University Press, 1963, p. 36. 49 Press Conference of the President, March 12, 1913, in PWW, vol. 27, cit., p. 172. 50 Address Before the Southern Commercial Congress in Mobile, Alabama, October 27, 1913, in PWW, vol. 28, cit., p. 450. 51 Ibid., p. 451. 89 Lucio Tondo Anticipando di qualche anno i contenuti ideali – anche a livello semantico – della dichiarazione di guerra, Wilson rimarcò il fatto che non avrebbe sostenuto un intervento militare in Messico finalizzato alla mera difesa degli interessi economico-finanziari. Tale presa di posizione si sintetizzò nella formula del “Watchful Waiting”, mediante la quale Wilson si riservava di intraprendere qualunque tipo d’iniziativa politicodiplomatica in attesa delle decisioni che Huerta avrebbe assunto nei riguardi delle prerogative parlamentari messicane. Quest’atteggiamento, lungi dal rappresentare una pratica attendista o dilatoria, permetteva all’amministrazione d’operare una disamina analitica della situazione politica messicana e, conseguentemente, di disporre di un ampio margine di manovra nei riguardi delle azioni di Huerta. Nonostante anche all’interno del proprio gabinetto si fossero manifestate delle resistenze a tale presa di posizione e delle spinte verso l’assunzione di una politica più attiva, il presidente non recedette dalla propria impostazione.52 Ciò non si verificò nemmeno di fronte alle pressioni in tal senso provenienti dall’estero. Il 16 novembre 1913, Londra chiese a Washington delle garanzie per la protezione dei sudditi e delle imprese britanniche operanti in Messico. Il ministro degli esteri, sir Edward Grey, inviò allo State Department un telegramma con cui evidenziava le difficoltà che il governo Asquith stava incontrando nel comprendere il modus operandi statunitense nei riguardi del paese centramericano. Grey, nel timore che il dichiarato idealismo di Wilson potesse mettere in discussione il realismo della difesa degli interessi britannici in America Latina, facendo espresso riferimento alle responsabilità derivanti dalla “dottrina Monroe”, rivolse «degli appelli urgentissimi da parte degli interessi britannici e canadesi in rappresentanza di circa 40 milioni di sterline d’investimenti in tramvie, ferrovie, illuminazione e petrolio in Messico sotto forma di conces53 sioni e contratti in vigore ormai da molti anni». Proprio in ragione di ciò, il ministro degli esteri britannico chiese delle precise garanzie a Wilson: «Il governo degli Stati Uniti dovrebbe chiarire che non intende semplicemente forzare Huerta a lasciare il potere, ma che vuole assicurare che 52 53 Cfr. HART, Empire and Revolution in Mexico, cit., p. 306. Telegram from Sir William Tyrell to the President, November 16, 1913, in PWW, vol. 28, cit., p. 573. 90 Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz il Messico possa avere il miglior governo possibile e […] che le pro54 prietà saranno protette». In sostanza, Grey chiedeva, senza troppe perifrasi, che Wilson abbandonasse ogni tipo di riserva e si adoperasse o a riconoscere de jure la legittimità di Huerta a governare, o a favorire il rovesciamento della junta per consentire il mantenimento degli interessi britannici e occidentali in genere. Nel porre la richiesta, Grey l’argomentò non solo riferendosi alla necessità di tutelare anche il big business americano, ma anche assegnandole una valenza politica. Se gli Stati Uniti avessero protratto il diniego di riconoscere Huerta, avrebbero dovuto favorire l’insediamento di un governo democratico a Città del Messico. Ciascuna delle ipotesi avrebbe avuto il pregio sia di assegnare un ruolo internazionale alla politica idealistica wilsoniana, sia di proteggere gli interessi occidentali nell’area. La replica americana cercò di rassicurare le ansie di Grey, mettendo in risalto come qualunque azione politico-diplomatica che Wilson avesse intrapreso in Messico sarebbe stata finalizzata a non recare alcun danno agli investimenti stranieri. Al contempo, egli ribadì la volontà di non riconoscere Huerta e riportò le assicurazioni fornite al dipartimento di stato dagli oppositori del dittatore: «Abbiamo appena ricevuto dal comandante costituzionalista a Tuxpam il seguente messaggio: “Poiché governo su base costituzionale, sarà mia cura garantire gli interessi di tutte le compagnie petrolifere straniere e 55 interne operanti nella regione che occupo”». L’implicita vicinanza che Wilson manifestò nei confronti dei nemici di Huerta evidenziava come l’attendismo del “Watchful Waiting” fosse solo di facciata. Infatti, al contrario di quanto paventato da una parte del suo governo e da alcune cancellerie occidentali, Wilson, sin dal proprio insediamento alla Casa Bianca, aveva evidenziato un deciso atteggiamento di contrasto verso Huerta. Non fu casuale che una delle prime iniziative assunte in materia di politica latino-americana fu di non tenere in alcun conto le informazioni provenienti dall’ambasciatore a Città del Messico, Henry Lane Wilson. Il diplomatico, di orientamento dichiaratamente repubblicano, era stato accreditato nella capitale messicana da Taft, nel 1909. Nell’ambito dello State Department, era noto per 54 55 Ibid., p. 574. Letter from President to Sir William Tyrell, November 22, 1913, in PWW, vol. 29, cit., p. 160. 91 Lucio Tondo le sue posizioni fortemente anti-maderiste e, nei giorni del golpe, aveva espresso senza riserve il proprio appoggio a Huerta, sino al punto da far circolare delle voci insistenti sulla stampa americana circa un suo presunto ruolo nella destituzione, arresto e omicidio di Francisco Madero.56 Il suo presunto coinvolgimento nel putsch, la sua perorazione della difesa degli interessi del big business e le responsabilità che parte della politica messicana gli ascriveva per tali ragioni,57 indussero Wilson, nonostante lo avesse riconfermato nel ruolo, a non prestare ascolto alle sue richieste di fornire un riconoscimento de jure al dittatore messicano. Tale scarsa fiducia nell’obiettività di giudizio del diplomatico, spinse il presidente a inviare a Città del Messico il giornalista del progressista «New York World»,58 William Bayard Hale, affidandogli l’incarico di «girare per gli Stati dell’America Latina [e di] riportare in modo chiaro, come suo solito fare, ciò che lì procede bene e ciò che non va».59 Anticipando l’utilizzo di special reporters, quasi dei consiglieri personali e speciali (come coloro che alcuni anni dopo furono inviati in Russia e in Giappone), Wilson, di fatto, bypassò il parere del dipartimento di stato, rivendicando il primato presidenziale nella formulazione della politica estera in generale e latino-americana in particolare. Pungolato da alcuni giornalisti sul ruolo di Hale in Messico, Wilson si limitò a sostenere che lo aveva inviato solo «per [farsi dire] cosa sta succedendo laggiù»,60 mentre, in realtà, il primo compito che gli affidò fu quello di scoprire quale parte avesse svolto l’ambasciatore Wilson durante il coup d’état di Huerta. Hale si dimostrò all’altezza del compito affidatogli: il 18 giugno 1913, inviò il primo rapporto a Wilson, incentrandolo 56 Sul ruolo svolto da Henry Lane Wison nel golpe di Huerta, si veda CALVERT, The Mexican Revolution, 1910-1914, cit., pp. 98-99. 57 Cfr. ibid., p. 135. 58 Il «New York World», sin dalla sua fondazione, nel 1860, aveva assunto posizioni favorevoli al partito democratico. Nel 1873, fu rilevato da John Pulitzer per risollevarlo dalle difficoltà finanziare in cui versava. Sino alla data della sua morte, nel 1911, Pulitzer fece del giornale un pioniere della stampa scandalistica nota come “Yellow Journalism”. Oltre a continuare la tradizione inaugurata dal padre, Ralph Pulitzer, nel 1913 ne rinnovò la veste grafica e avviò la pubblicazione di un annuario, il «The World Almanac», che da quel momento divenne una consuetudine della stampa americana. Il quotidiano stampò la sua ultima copia il 27 febbraio 1931. Sulle attività di John Pulitzer e del «New York World» si vedano, tra gli altri, J. MCGRATH MORRIS, Pulitzer: A Life in Politics, Print, and Power, New York-London, Harper Perennial, 2011; G. JUERGENS, John Pulitzer and the “New York World”, Princeton, N.J., Princeton University Press, 1967. 59 President Wilson to William Bayard Hale, April 19, 1913, in PWW, vol. 27, cit., p. 335. 60 Press Conference of the President Wilson, May 5, 1913, ibid., p. 483. 92 Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz sia sul modus operandi, che il generale messicano aveva utilizzato per prendere il potere, sia sul supporto che il diplomatico gli aveva fornito nel garantire l’appoggio dell’ambasciata all’azione di forza.61 La conseguenza diretta di ciò, secondo l’analisi di Hale, era stata che «migliaia di messicani [erano] convinti che l’ambasciatore [avesse] agito dietro ordine di Washington e [avevano] letto la sua conferma [nell’ufficio diplomatico] da parte del nuovo presidente americano come il crisma dell’approvazione, accusando gli Stati Uniti del caos in cui 62 il Messico [era] caduto». Le rimostranze che Henry Lane Wilson mosse alle accuse di Hale63 causarono la perdita della sempre più esigua fiducia che Wilson riponeva in lui. A metà giugno 1913, l’ambasciatore fu richiamato a Washington e, dopo essere stato un’ora a colloquio con il segretario di stato e il presidente – che lo definì «un personaggio inqualificabile»64 –, rassegnò le proprie dimissioni. Per non lasciare vacante la sede diplomatica, il dipartimento di stato autorizzò Nelson O’Shaughnessy a recarsi a Città del Messico come Chargé d’Affaires in rappresentanza degli Stati Uniti.65 Prima di procedere all’accreditamento di un altro diplomatico che sostituisse il rimosso Wilson, il presidente inviò John Lind, esponente della camera dei rappresentati ed ex governatore democratico del Minnesota,66 come emissario in Messico perché esponesse a Huerta i termini entro i quali la sua amministrazione era disposta a dare il riconoscimento. Questi prevedevano l’immediata cessazione degli scontri tra le varie fazioni, l’indizione di libere elezioni, a cui Huerta non avrebbe dovuto candidarsi e il cui risultato le parti si sarebbero dovute impegnare a rispettare con un patto sottoscritto. Le consultazioni di Lind non riscontrarono alcun successo e ciò, unitamente ai rumors 61 Cfr. A Report from President by William Bayard Hale, June 18, 1913, ibid., p. 536. Ibid. 63 Cfr. William Bayard Hale: “Memoranda on Affairs in Mexico”, July 9, 1913, in PWW, vol. 28, cit., p. 31. 64 President Wilson to Cleveland Hoadley Dodge, July 21, 1913, ibid., p. 53. 65 Cfr. President Wilson to the Secretary of State, July 3, 1913, ibid., p. 22. Sulla vita e l’azione diplomatica di O’Shaughnessy si vedano A.M. LARKE, Nelson O’Shaughnessy as Instrument of Woodrow Wilson’s Mexican Foreign Policy, Houston, TX, University of Houston, 1967; E. O’SHAUGHNESSY, A Diplomat’s Wife in Mexico, New York, Cornell Univeristy Press, 20092. 66 Sulla vita di John Lind si vedano, tra gli altri, F.J. EGAN, The John Lind Mission to Mexico, San Diego, CA, Unversity of San Diego Press, 1967; G.M. STEPHENSON, John Lind of Minnesota, Gaithersburg, MD, Associated Faculty Press, Inc., 1971. 62 93 Lucio Tondo circa il probabile scioglimento del parlamento messicano da parte di Huerta, indussero Wilson a non escludere aprioristicamente l’avvio di una politica più attiva.67 A metà agosto, il presidente prese in esame, con Bryan, le eventuali azioni che l’amministrazione avrebbe potuto intraprendere nei riguardi del dittatore messicano. Il segretario di stato non scartava l’ipotesi di «fornire assistenza ai costituzionalisti, consentendo loro d’importare armi», anche se ciò avrebbe «potuto aumentare la confusione e incrementare la perdita di vite e proprietà».68 Il presidente si dichiarò d’accordo con Bryan e, nonostante fosse conscio della necessità di fornire assistenza agli oppositori di Huerta, i costituzionalisti, reiterò la decisione di non revocare l’embargo di armi poiché un’eccessiva disponibilità di mezzi avrebbe certamente condotto a un aumento delle perdite civili.69 La decisione di Wilson era dettata anche dal fatto che il contrabbando d’armi, effettuato dal confine texano, stava rifornendo i costituzionalisti – allocati a Nord del paese centramericano – dei mezzi necessari per opporsi a Huerta. Un primo mutamento d’indirizzo si verificò a ottobre, dopo che a Washington giunse la notizia che le elezioni tenute in Messico erano state dichiarate nulle e che la junta militare aveva proceduto all’arresto di alcuni membri dell’opposizione parlamentare. In un simile frangente, analizzando la situazione con il colonnello House, Wilson non rigettò l’ipotesi di fornire un sostegno politico-diplomatico agli oppositori di Huerta, sostegno finalizzato al ritorno al potere del governo precedente al putsch. Tra le ipotesi, Wilson e il proprio consigliere non esclusero né la possibilità di riconoscere ai costituzionalisti lo status di belligeranti (con la conseguenza diretta di ritirare l’embargo delle armi), né l’eventualità di dichiarare guerra e inviare la flotta perché chiudesse gli accessi ai porti 67 Lind si mantenne in contatto con Wilson sia mediante i canali diplomatici tradizionali, che quelli informali. Dopo aver cercato di far da tramite tra il presidente e Huerta, lasciò Città del Messico per Veracruz e, nei giorni della crisi, non si limitò a riportare alla Casa Bianca le informazioni di prima mano di cui poteva disporre, ma propose, a volte insistentemente, d’avviare un’azione militare, garantendo che i messicani avrebbero accolto i marines come liberatori. Quando, nell’aprile 1914, i militari statunitensi incontrarono una strenua resistenza, Wilson si disse esterrefatto dalle analisi di Lind e non le tenne più in alcun conto. Cfr. M. BENBOW, Intelligence in Another Era. All the Brains I can Borrow: Woodrow Wilson and Intelligence Gathering in Mexico, 1913-15, in https://www.cia.gov/library/center-for-the-thestudy-of-intelligence/csi-actions/csi-studies/studies/vol5no4/intelligence-in-another-era.html. 68 Memorandum of a Conversation between the President and the Secretary of State, August 16, 1913, in PWW, vol. 28, cit., p. 136. 69 Cfr. ibid. 94 Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz messicani e bloccasse ogni via di rifornimento a Huerta.70 Tralasciando per il momento queste ultime probabilità, che potevano apparire come prese di posizione irreversibili, Wilson decise di focalizzare la propria politica sulla richiesta del ripristino, nella pienezza dei poteri costituzionali, del vecchio governo e l’indizione immediata di libere elezioni. Per tale ragione, quasi fosse la presentazione di un’ultima chance, ai primi di novembre, egli chiese a John Lind di rinnovare gli sforzi per indurre Huerta a dimettersi. Al rifiuto del generale, il presidente autorizzò William Bayard Hale a recarsi da Venustiano Carranza, capo dei costituzionalisti, e negoziare con lui le condizioni poste dall’amministrazione Wilson perché gli Stati Uniti fornissero il proprio supporto all’opposizione anti-huertista. Gli Stati Uniti avrebbero revocato l’embargo in cambio dell’accettazione di un piano, stilato dalla presidenza e dallo State Department, per la mediazione tra le parti e la garanzia della salvaguardia della vita e degli interessi dei cittadini americani. Nonostante rifiutasse immediatamente l’offerta statunitense, accusando implicitamente Wilson di volersi arrogare il diritto d’intervenire nella gestione degli affari interni messicani, Carranza, a dicembre, mutò opinione. Ciò fu dovuto soprattutto all’avanzata delle forze di Huerta, che, con una controffensiva, avevano ripreso ai costituzionalisti la città di Torreón, punto strategico allocato al centro dello Stato di Coahuila, precedentemente conquistata dalle forze di Pancho Villa.71 In un tale contesto, Wilson – che, partendo dal rifiuto di Carranza di novembre – nel messaggio annuale al congresso, aveva sostenuto che gli Stati Uniti «non [avrebbero] alterato la propria politica del Watchful Waiting»,72 accettò la mediazione con il capo dei costituzionalisti per il tramite di Luís Cabrera, suo consulente legale e delegato ai rapporti con l’estero. Questi scrisse un pamphlet snello, di sole 16 pagine, pubblicato a Washington il 1° dicembre 1913,73 in cui illustrava i motivi per i quali i costituzionalisti stavano combattendo contro Huerta e anticipava i programmi di governo che essi avrebbero voluto attuare, una volta che fossero riusciti a detronizzare il generale golpista. 70 Cfr. Memorandum of a Conversation between the President and Colonel House, October, 1913, in PWW, vol. 28, cit., p. 481. 71 Cfr. M. PLANA, Pancho Villa e la rivoluzione messicana, Firenze, Giunti, 1994, p. 43. 72 The Secretary of State to Certain Diplomatic Officers of the United States, December 2, 1913, in FRUS, 1913, p. 864. 73 Cfr. L. CABRERA, The Mexican Revolution from a Mexican Point of View, in http://www.archive.org/stream/mexicansituation00cabrrich/mexicansituation00cabrrich_ djvu.txt. 95 Lucio Tondo Cabrera metteva in evidenza come la dittatura di Huerta fosse da ascrivere anche all’incapacità della borghesia messicana di sapersi porre come medium dei contrasti socio-economici che opponevano latifondisti e contadini ed al fatto di non aver saputo avviare né gestire una riforma agraria ormai urgente. Egli avviava la sua analisi, sostenendo che «la rivoluzione messicana possiede solo in apparenza un carattere politico, ma, in fondo, le sue caratteristiche sono economiche e sociali».74 Il Messico non aveva saputo sviluppare, a partire dalla rivoluzione del 1910, una legislazione che tutelasse gli interessi delle classi più deboli, notevolmente colpite dalla mancata espansione dell’apparato economico-produttivo. Tale tutela, continuava Cabrera, in virtù del carattere moderato e liberale delle forze al governo detronizzate da Huerta, sarebbe stata garantita solo dai costituzionalisti, che, in tal senso, si ponevano come i legittimi prosecutori della rivoluzione che aveva abbattuto il regime di Díaz: «Il partito costituzionalista intende risolvere il problema sociale messicano promuovendo l’educazione e eliminando, per quanto possibile, le barriere tra le classi superiori e quelle inferiori».75 La portata rivoluzionaria della compagine si manifestava nel progetto di dare sostanza politica a quella riforma agraria, ormai ineludibile, sempre promessa a peones e campesinos e mai compiutamente avviata: «I costituzionalisti intendono avviare immediatamente alcune riforme economiche, specialmente quelle riforme agrarie, così necessarie per offrire alle classi inferiori la possibilità di migliorare la propria condizione».76 La conclusione a cui il pamphlet giungeva era quella dell’ineluttabilità del compimento del processo rivoluzionario messicano. Un’inevitabilità di un movimento popolare dal basso che il consesso internazionale avrebbe dovuto accettare, in primis gli Stati Uniti: «Una rivoluzione sociale possiede le stesse caratteristiche che alcune malattie cicliche hanno tra gli esseri umani. È necessario attendere il loro pieno sviluppo e qualunque tentativo d’interromperlo prematuramente o di arginarlo porterebbe a delle complicazioni molto più pericolose».77 Proprio in virtù di ciò, secondo il portavoce di Carranza, gli Stati Uniti avrebbero dovuto fornire un appoggio politico-diplomatico all’azione dei costituzionalisti, evitando d’intraprendere delle azioni di forza che ne avrebbero potuto indebolire 74 Ibid. Ibid. 76 Ibid. 77 Ibid. 75 96 Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz la portata e gli effetti presso la popolazione locale, cementandola intorno a qualunque personaggio politico – Huerta compreso – percepito come oppositore a una supposta invasione straniera: «L’impazienza e il desiderio del presidente Wilson di arrivare a una conclusione e il suo fine dichiarato di eliminare Huerta hanno fatto maturare l’idea, presso l’opinione pubblica, che una soluzione immediata della crisi messicana sia ancora lontana».78 Il pamphlet di Cabrera sortì un certo effetto sulla determinazione della politica statunitense. Wilson parve certo del fatto che solo Carranza avrebbe potuto garantire al Messico un periodo di stabilità sociale e avviare un’incisiva ripresa economica. Tale convincimento si basava sul fatto che il programma politico dei costituzionalisti, oltre a rivolgersi al ceto borghese medio-alto (invitandolo ad assumere un ruolo economico propulsivo), andava incontro alle istanze dei contadini più poveri, garantendo loro la determinazione a realizzare la riforma agraria. Allo stesso tempo, il presidente, anche in virtù delle informazioni di prima mano che riceveva da John Lind e William Bayard Hale, era conscio che l’unica strada attraverso la quale i costituzionalisti avrebbero potuto realizzare il proprio programma era quella rivoluzionaria. In ragione di ciò, gli Stati Uniti non avrebbero potuto più mantenere una posizione ufficiale d’equidistanza tra le parti, ma schierarsi apertamente dal lato dei costituzionalisti. Come ha sintetizzato efficacemente John Mason Hart, «il nazionalista Carranza non era perfetto da un punto di vista amministrativo, ma rispettava la proprietà privata e offriva un patto per la sicurezza di decine di centinaia di americani che vivevano nel paese».79 Il possesso di tali caratteristiche incentivò Wilson a sostanziare realisticamente il suo iniziale approccio idealistico alla questione messicana. Il 2 gennaio 1914, egli scrisse, in una dichiarazione per la stampa, che «una soluzione ottenuta mediante una guerra civile porta sempre a una conclusione amara, ma, che noi lo vogliamo o no, essa si deve raggiungere a ogni costo il prima possibile».80 In sostanza, non solo si ammetteva l’inevitabilità dello scontro in Messico, ma si lasciava intendere che non si sarebbe tollerato che il golpista Huerta potesse avere la meglio su una forza che garantiva l’avvio 78 Ibid. HART, Empire and Revolution in Mexico, cit., p. 306. 80 Statement for the Press, January 2, 1914, in PWW, vol. 29, cit., p. 207. 79 97 Lucio Tondo di una politica interna liberale e di una estera collaborativa con gli Stati Uniti.81 Per tale motivo, a febbraio, Wilson decise di riconoscere a Carranza e ai costituzionalisti lo status di belligeranti e, al fine di fornire loro tutta l’assistenza di cui necessitavano, di rimuovere l’embargo delle armi. Il 31 gennaio 1914, il dipartimento di stato comunicò a tutte le proprie sedi diplomatiche la decisione di Wilson di revocare l’embargo, argomentandola con il fatto che «a Città del Messico non esiste alcuna forza che non sia in grado di fare altro se non perpetuare e rafforzare l’egoismo oligarchico e gli interessi militari [del governo Huerta], per cui è chiaro che il resto della nazione può essere indotto a resistere solo mediante una costante guerriglia e uno spietato tormento al nord».82 Bryan, continuava sostenendo che, per fornire agli anti-huertisti i mezzi per condurre a termine la liberazione del paese, «il presidente si è pienamente convinto […] che non sia più possibile mantenere a lungo un atteggiamento neutrale nei confronti delle contendenti».83 Per tale motivo, il 3 febbraio, l’embargo sulle armi fu ufficialmente revocato.84 2. Il contrato tra gli Stati Uniti e il Kaiserreich nel Messico Parallelamente all’approccio idealistico, nella gestione della questione messicana Wilson manifestò un atteggiamento tipico del più disincantato Realpolitiker. Ciò si verificò nel momento in cui gli ideali – e gli interessi nazionali – statunitensi entrarono in rotta di collisione con quelli che il Kaiserreich deteneva nel paese centramericano. In realtà, il Messico aveva rappresentato uno dei punti d’attrito nei rapporti tra Stati Uniti e Germania già durante il periodo della dittatura di Porfirio Díaz.85 Il Reich, a causa della propria tardiva fondazione, nel 1871,86 aveva cercato di penetrare in America Latina 81 Cfr. B.J. HENDRICK, The Life and Letters of Walter H. Page, Garden City, NY, Doubleday, Page & Co.mpany, 1926, p. 267. 82 The Secretary of State to All Diplomatic Missions of the United States, January 31, 1914, in FRUS, 1914, Washington, DC, U.S. Government Printing Office, 1922, p. 447. 83 Ibid. 84 Cfr. Proclamation Revoking the Proclamation of March 14, 1912, Prohibiting the Exportation of Arms or Munitions of War in Mexico, Febraury 3, 1914, ibid., pp. 447-448. 85 Cfr. F. KATZ, Deutschland, Diaz und die mexikanische Revolution. Die deutsche Politik in Mexiko, 1870-1920, Berlin, Deutscher Verlag der Wissenschaften, 1964, Sn. 339-343; A. VAGTS, Deutschland und die Vereinigten Staaten in der Weltpolitik, Zweite Band, New York, Macmillan Co., 1955, pp. 17661781. 86 Per una disamina storiografica sul Kaiserreich, si vedano, tra gli altri, H.U. WEHLER, Das Deutsche 98 Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz con un certo ritardo rispetto a Francia e Gran Bretagna. A tal fine, aveva utilizzato il Messico come un ariete per scardinare la “dottrina Monroe” e mettere in discussione la supremazia di Washington nell’emisfero meridionale.87 Successivamente alla prima contrapposizione con gli Stati Uniti, verificatasi in occasione della crisi venezuelana, scoppiata tra il 1902 e il 1903,88 il Reich, tra il 1904 e il 1905, aveva intessuto dei rapporti strettissimi con Díaz, arrivando a progettare l’invio di consiglieri militari tedeschi per avviare l’addestramento della flotta e dell’esercito messicano. La proposta, fallita per l’opposizione dell’Auswärtiges Amtes, il ministero degli esteri di Berlino (che l’aveva rigettata per evitare un confronto diretto con Washington), fu ripresa nel 1907. Guglielmo II ripresentò l’offerta, ma fu dissuaso dal proseguire la pressione su Díaz Kaiserreich, 1871-1918, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1973; E. FRIE, Das Deutsche Kaiserreich. Kontroversen und die Geschischte, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 2004. 87 Cfr. KATZ, Deutschland, Diaz und die mexikanische Revolution, cit., pp. 344-349. 88 La crisi venezuelana si verificò tra il 1902 e il 1903, quando Gran Bretagna, Germania e Italia imposero un blocco navale al Venezuela per rispondere al rifiuto del presidente Cipriano Castro di onorare i debiti contratti durante la guerra civile del 1892. Castro era convinto che la “dottrina Monroe” avrebbe fornito un ombrello protettivo alle possibili ritorsioni europee. Quando Teddy Roosevelt, all’epoca vicepresidente nell’amministrazione McKinley, dichiarò che, «se uno Stato sudamericano si comporta male nei confronti di un paese europeo, lasceremo che questo lo prenda a schiaffi» (cit. in L. SCHOULTZ, Beneath the United States: A History of U.S. Policy toward Latin America, Cambridge, MA, Harvard University Press, 1998, p. 180), gli europei applicarono il blocco navale, neutralizzando agevolmente la marina venezuelana. Castro non cedette alle pressioni, rivolgendosi a un arbitrato internazionale, ma si scontrò con la fermezza degli Stati europei che procedettero con il blocco. Il successivo affondamento di alcune navi venezuelane, il bombardamento del Forte di San Carlos da parte delle navi tedesche Panther e Vineta nella laguna di Maracaibo, la morte di oltre venti persone e lo sbarco di alcuni contingenti di terra scatenarono una forte campagna anti-europea da parte della stampa statunitense, cui seguì la messa in stato d’allerta della flotta americana. Le proteste di Berlino contro tale mossa, definite dallo State Department «quanto di più vicino a una minaccia diretta, nei limiti del linguaggio diplomatico» (cit. in. S.W. LIVERMORE, Theodore Roosevelt, the American Navy, and the Venezuelan Crisis of 1902-1903, in «The American Historical Review». LI, 3, April 1946, pp. 459-460), provocarono la reazione di Roosevelt, che accusò il Reich di voler occupare un porto venezuelano per stabilirvi una base navale permanente. La vertenza si risolse il 13 febbraio 1903, quando Germania, Gran Bretagna e Italia raggiunsero un accordo con il Venezuela, i cui termini prevedevano la fine del blocco navale e obbligavano lo Stato sudamericano a versare il 30% dei propri dazi doganali per risarcire gli europei. È da notare che, nello stesso momento in cui la corte permanente d’arbitrato stabilì che le nazioni europee avrebbe potuto godere di un trattamento privilegiato, Teddy Roosevelt pronunciò il celebre “corollario alla dottrina Monroe”. Sull’atteggiamento dei paesi europei e degli Stati Uniti nei riguardi della crisi venezuelana si vedano, tra gli altri, H.C. HILL, Roosevelt and the Caribbean, Los Angeles, CA, Hunt Press, 2007; M. MAAS, Catalyst for the Roosevelt Corollary: Arbitrating the 1902-1903 Venezuela Crisis and Its Impact on the Development of the Roosevelt Corollary to the Monroe Doctrine, in «Diplomacy & Statecraft», XX, 3, September 2009, pp. 383-402; E.B. PARSONS, The German-American Crisis of 1902-1903, in «Historian», 3, May 2007, pp. 438-452; W. DEIST, Flottenpolitik und Flottenpropaganda. Das Nachrichtenbureau des Reichsmarineamtes 1897-1914, Mainz, Verlag Philipp von Zabern, 2006; Klaus HILDEBRAND, Das vergangene Reich. Deutschen Außenpolitik von Bismark bis Hitler, 1871-1945, München, Oldenbourg Verlag, 2008. 99 Lucio Tondo dall’atteggiamento piuttosto cauto del cancelliere, Bernhard von Bülow.89 Ciononostante, il Kaiserreich riuscì a ottenere una posizione economico-commerciale di preminenza all’interno del paese centramericano, riuscendo a sfruttare una politica del divide et impera che Porfirio Díaz stava operando nei riguardi degli Stati europei. Il fine del dittatore messicano era quello di controbilanciare la presenza in Messico di Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti mediante il rafforzamento della posizione tedesca, traducendola, di fatto, in una crescente primazia commerciale, economica e finanziaria. Il pericolo della penetrazione tedesca, che da economica avrebbe potuto trasformarsi in politica, non sfuggì all’analisi del dipartimento di stato, al punto che, tra il 1900 e il 1905, si diffuse quella che fu chiamata la “german threat”. Un certo allentamento della tensione si verificò con l’amministrazione Taft, quando – in adesione alla linea della Dollar Diplomacy – il presidente bollò come “assurda” l’ipotesi di un’aggressione tedesca nell’America del Sud.90 In un Cabinet Meeting del 1909, Taft rigettò le analisi allarmistiche dello State Department circa la volontà del Kaiserreich di occupare militarmente dei territori dell’emisfero meridionale, sostenendo che «tutti i tedeschi con cui egli aveva avuto a che fare nelle diverse zone del mondo preferivano di gran lunga fare affari fuori dalle proprie colonie, piuttosto che all’interno di esse, perché in tal modo avrebbero potuto guadagnare di più. Infatti, essi vendevano ovunque a prezzi molto più bassi rispetto a quelli dei mercanti inglesi».91 L’approccio presidenziale fu ribadito da un alto funzionario diplomatico, John B. Jackson, ministro all’Havana, che, nel 1902, aveva servito presso l’ambasciata statunitense a Berlino. Alla richiesta del segretario di stato, Philander Knox, di fornire un commento sul terzo congresso della Società coloniale tedesca, tenutosi nell’ottobre 1910, Jackson, dopo aver sottolineato che gli emi89 Cfr. M. STÜRMER, Das ruhelose Reich. Deutschland, 1866-1918, Berlin, Severin und Siedler, 1983, pp. 440-443. Sulla figura e sul ruolo di von Bülow si vedano, tra gli altri, J. HILDEBRANDT, Wilhelm II und Bernhard von Bülow - "Kaiser versus Kanzler" oder "persönliches Regiment im guten Sinne"?, München, Grin Verlag, 2011; G. FESSER, Reichskanzler von Bülow – Architekt der deutschen Weltpolitik, Leipzig, Militzke Verlag, 2003; W.J. MOMMSEN, War der Kaiser an allem schuld?, Berlin, Ullstein Verlag, 2005; P. WINZEN, Bülows Weltmachtkonzept, Untersuchungen zur Frühphase seiner Außenpolitik 1897-1901, Boppard, Harald Boldt Verlag, 1977; B. VON BÜLOW, Memorie, 4 vol., Milano, Mondadori, 1931; ID., La Germania imperiale, Pordenone, Edizioni Studio Tesi, 1994. 90 Cfr. W. CLEMENT, Die Monroe Doktrine und die deutsch-amerikanischen Beziehungen im Zeitalter des Imperialismus, in «Jahrbuch für Amerika Studien», I, 1, 1956, p. 167. 91 Cit. in M.A. DEWOLFE HOWE, George von Lengerke Meyer: His Life and Public Services, New York, Dodd, Mead & Co., 1920, p. 433. 100 Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz granti tedeschi si muovevano verso l’America Latina solo alla ricerca di fortuna, giunse alla conclusione tranchant che «non c’è alcun carattere aggressivo e niente che lasci presagire l’esistenza di una possibile politica tedesca con ambizioni pan-germaniche».92 Nonostante gli approcci tendenti a ridimensionare la portata dell’espansione politica tedesca in America Latina, era innegabile che la politica del Kaiserreich fosse stata indirizzata all’ottenimento di un primato delle esportazioni nell’emisfero meridionale da sfruttare in una chiara funzione espansiva. A tal fine, è sufficiente sottolineare, in questa sede, come tra il 1903 e il 1912, il volume globale delle esportazioni tedesche in America Latina fosse aumentato a pieno discapito del maggior competitor europeo, la Gran Bretagna, e come si fosse avvicinato, e in taluni casi avesse superato, quello statunitense. Tra il 1903 e il 1904, la percentuale del mercato detenuto dalla Gran Bretagna in Argentina, Brasile e Cile, i cosiddetti “paesi A.B.C.”., era rispettivamente del 34, del 28 e del 38%, più del doppio di quella degli Stati Uniti (12, 11 e 9%) e di gran lunga superiore a quella tedesca (13, 13 e 27%).93 Nella Repubblica Dominicana, in Paraguay, Venezuela e Uruguay, le percentuali britanniche corrispondevano al 12, 32, 25 e 26%, quelle tedesche al 14, 15, 25 e 13% e quelle americane al 63, 4, 29 e 10%.94 La sola eccezione era rappresentata dal Messico, dove gli Stati Uniti possedevano il 55% del mercato contro il 13% della Gran Bretagna e il 12% della Germania.95 Tra il 1912 e il 1913, tali proporzioni si modificarono a tutto vantaggio del Kaiserreich. Nei “paesi A.B.C.”, infatti, la Gran Bretagna vide diminuire sostanzialmente il volume delle proprie esportazioni, che scesero al 31, 25 e 32%.96 A tale calo, corrispose un aumento di quelle americane, che incrementarono, in relazione al mercato argentino, brasiliano e cileno, del 3, 4 e 5%, mentre quelle tedesche, salirono del 4% per Argentina e Brasile e rimasero invariate per il Cile. Nella Repubblica Dominicana, in Paraguay e Venezuela la Gran Bretagna decrementò la propria quota di mercato, che scese al 9, 28 e 21%, mentre in Uru- 92 Minister John B. Jackson to the Secretary of State, March 20, 1911, cit. in M. SMALL, The United States and the German “Threat” to the Hemisphere, 1905-1914, in «The Americas», XXVIII, 3, January 1972, p. 255. 93 Cit. in O. MORGENSTERN, On the Accuracy of Economic Observations, Princeton, N.J., Princeton University Press, 1963, p. 172. 94 Cfr. ibid. 95 Cfr. ibid., p. 174. 96 Cfr. ibid., p. 175. 101 Lucio Tondo guay salì dell’1%. Nella Repubblica Dominicana, gli Stati Uniti segnarono un -1%, mentre aumentarono le esportazioni del 2% in Paraguay e Uruguay e del 4% in Venezuela. Il Reich, al contrario, fece segnare un sostanziale ampliamento delle importazioni che, nella Repubblica Dominicana aumentarono del 6%, in Paraguay dell’1%, in Uruguay del 5% e in Venezuela del 9%.97 Il dato più rappresentativo, tuttavia, si ebbe relativamente al Messico: qui, a una sostanziale tenuta dell’import britannico, si ebbe un aumento dell’1% di quello tedesco e una diminuzione del 6% di quello statunitense.98 In sostanza, una lettura analitica dei dati, seppur non totalmente comprendenti la totalità degli Stati del Sud America, lasciava intendere chiaramente come l’unica nazione a essersi avvantaggiata dall’instabilità politico-economica dell’emisfero meridionale in generale e di quella messicana in particolare fosse stata la Germania.99 Di fronte all’inequivocabilità di tali dati, il già diffuso sentimento anti-tedesco negli Stati Uniti si alimentò ulteriormente, penetrando a fondo nell’ambiente politicodiplomatico ed elevando il livello della “german threat” presso ampi strati dell’opinione pubblica e della stampa americana. Emblematicamente, alcuni osservatori coevi notarono come «ormai delusa in Marocco, la Germania sia l’unica potenza europea probabilmente in grado di sfidare la “dottrina Monroe” nel prossimo futuro»,100 come «il sentimento diffuso dal lato atlantico del Sud America sia che la Germania intenda possedere della terra nell’emisfero occidentale e che, se non ci riuscisse mediante il negoziato, combatterebbe per essa»;101 e come «i tedeschi possiedano una visione imperialistica del mondo, simile a quella di Atene, capace di fornire loro tutte le energie [di cui abbisognano] e le case per i propri cittadini in esubero, i quali, in tal modo, potrebbero preservare la propria nazionalità invece di diventare dei semplici “fertilizzatori” d’altri popoli».102 Un approccio di questa natura non era diffuso solo tra gli strati popolari, ma si 97 Cfr. ibid., p. 176. Cfr. ibid., p. 177. 99 Per un quadro più completo delle relazioni politico-economiche del Kaiserreich nel periodo precedente la prima guerra mondiale, si vedano, tra gli altri, M. BRECHTKEN, Scharniezeit 1895-1907. Persönalischkeiten und internazionale Politik in den deutsch-britischen-amerikanischen Beziehungen vor dem Ersten Weltkrieg, Mainz, Verlag Philipp von Zabern, 2006; A. ETGES, Wirtschaftnationalismus. USA und Deutschland im Vergleich (1815-1914), Frankfurt am Main, Campus Verlag, 1999. 100 J. CHAMBER, The Monroe Doctrine in the Balance, in «Forum», XLVI, November 1991, p. 535. 101 A. HALE, The Germans in South America, in «Reader», IX, 6, May 1907, p. 631. 102 A.C. COOLIDGE, The Unted States as a World Power, New York, Macmillan, 1910, p. 211. 98 102 Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz stava radicando anche tra gli ambienti dell’upper class, della diplomazia e della difesa. Furono soprattutto i militari a richiamare l’attenzione sulla crescente influenza tedesca nei paesi latino-americani. Nel 1911, in un report, il generale Witherspoon evidenziò il ruolo dell’apparato bellico del Kaiserreich nei “paesi A.B.C.”. L’estensore del documento rilevava che le missioni militari tedesche, notevolmente incrementate, «dovrebbero essere viste da noi con un alto grado d’interesse, se non con sospetto. […] Non è affatto credibile che la Germania fornisca consiglieri militari a questi Stati senza sperarne in qualche modo alcun guadagno o ritorno».103 Una relazione dal tono ancora più allarmato fu inviata nel 1912 al dipartimento di stato dal capitano Constant Cordier, attaché militare presso l’ambasciata in Perù. Nel suo rapporto, l’ufficiale sottolineava come i tedeschi stessero inviando in America Latina centinaia di lavoratori e prevedeva che «un giorno, essi avranno la supremazia commerciale nell’America del Sud, perché sono una razza frugale, costruttiva e laboriosa e si aiutano vicendevolmente l’un con l’altro nella lotta commerciale con i cittadini d’altra nazionalità».104 La solidarietà e il senso d’appartenenza si evidenziavano, secondo l’analisi di Cordier, anche nella gestione della vita privata poiché gli emigranti tedeschi, anche se sposavano degli autoctoni, non tendevano a integrarsi con gli usi e i costumi dello Stato ospite, ma rimanevano legati alla madrepatria. La ragione di tale modus operandi, pubblico e privato, dei lavoratori e dei commercianti tedeschi era la risultante finale della strategia politica di Berlino finalizzata alla dominazione dell’emisfero meridionale: «Dietro tutto ciò c’è il costante supporto del governo tedesco, che invia [in America Latina] agenti diplomatici, consolari e commerciali, ben addestrati nel proprio lavoro, per spianare la strada ai coloni e ai mercanti, per assisterli, qualora vi si siano già stabiliti, e per proteggerli, se necessario, dagli abusi cui gli stranieri sono frequentemente sottoposti nei paesi latinoamericani».105 Le ansie degli ambienti militari e diplomatici statunitensi circa la volontà di dominio tedesca, per quanto enfatizzate, trovavano una corrispondenza nell’attivismo militare 103 Memorandum from General Whiterspoon, January 16, 1911, cit. SMALL, The United States and the German “Threat” to the Hemisphere, 1905-1914, cit., p. 253. 104 Report from Captain Cordier to War College: “The German Military Mission to Bolivia”, October 15, 1912, cit. ibid. 105 Ibid. 103 Lucio Tondo che il Kaiserreich teneva in Messico. Guglielmo II, nonostante le ritrosie di von Bülow, non aveva abbandonato la propria strategia, finalizzata al controllo delle forze armate messicane, continuando a favorire l’invio dei consiglieri militari tedeschi che avrebbero dovuto formare il quadro ufficiali del paese centramericano. Nel 1910, in effetti, la Germania aveva raggiunto l’apice del numero delle unità d’addestramento inviate in Messico, sino ad assumere il quasi totale controllo del processo di modernizzazione dell’esercito.106 Ciò era stato reso possibile dalla persistenza al potere da parte di Porfiro Díaz e dalla convinzione dell’apparato politico-diplomatico tedesco che il presidente messicano avrebbe continuato a governare ancora a lungo, soprattutto a causa dell’incapacità dei suoi oppositori di poterlo sfidare apertamente, perché inadatti a coordinare un popolo considerato apatico e poco incline all’azione che, emblematicamente, Elizabeth von Heyking, moglie del ministro tedesco a Città del Messico dal 1898 al 1902, aveva definito «una brulicante e bestiale massa umana […] di un livello solo parzialmente più elevato rispetto a quello delle bestie».107 In tal senso, la rivoluzione del 1910, che mise fine alla dittatura di Díaz, costituì un vero e proprio shock per l’apparato diplomatico tedesco, anche se Berlino «diede per scontato che chi lo aveva sostituto, Francisco Madero, si sarebbe presto trasformato in un altro Díaz che ancora una volta avrebbe governato il Messico con il ferro»,108 non mettendo fine alla Special Relationship politica, economica e commerciale con il Reich. Tale convinzione era dovuta sia all’appartenenza di Madero a una delle famiglie più ricche del paese, sia ai rapporti di essa con la Deutsch-Sudamerikanische Bank, uno dei maggiori istituti di credito tedeschi operanti in Messico.109 Tuttavia, tranne alcune collaborazioni di tipo economicofinanziario, tra il 1911 e il 1913 gli interessi tedeschi in Messico subirono un 106 Cfr. W. SCHIFF, German Military Penetration into Mexico During the Later Díaz Period, in «Hispanic American Historical Review», XXIV, 4, November 1959, pp. 575-576. 107 Cit. in F. KATZ, The Secret War in Mexico: Europe, the United States, and the Mexican Revolution, Chicago, IL, University of Chicago Press, 1981, pp. 71-72. Sulla figura di Paul von Hintze, si vedano, tra gli altri, J. HÜRTER, Hrsg, Paul von Hintze: Marineoffizier, Diplomat, Staatssekretär. Dokumente einer Karriere zwischen Militär und Politik, 1903-1918, München, Bolt im Oldenbourg Verlag, 1998; G.G. VON LAMBSDORFF, Die Militärbevollmächtigten Kaiser Wilhems II am Zarenhofe, Berlin, Schlieffen Verlag, 1937. 108 KATZ, The Secret War in Mexico, cit., p. 72. 109 Cfr. ibid., p. 74. 104 Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz rapido declino.110 Il regresso delle relazioni tedesco-messicane durante la presidenza di Madero non si verificò solo nel campo economico-commerciale, ma soprattutto in quello politicodiplomatico. Berlino rifiutava di accettare il modus operandi del nuovo presidente, accusandolo di aver improntato la propria politica sulla promozione delle libertà democratiche, civili e personali, invece di proseguire sulla strada tracciata da Díaz, stroncando ogni progetto dei propri oppositori. L’esperimento politico che Madero cercava di attuare, secondo la diplomazia tedesca, possedeva un vulnus iniziale, fondato sull’eccessiva fiducia nelle presunte qualità civili del popolo messicano. Paul von Hintze, a tal riguardo, non usò troppe perifrasi quando sostenne, nel novembre 1912, che l’errore primordiale di Madero era «rinvenibile nella sua convinzione di poter governare il popolo messicano come se ne dirigesse uno dei più avanzati, come quello tedesco. Questo popolo rozzo, mezzo barbaro, senza religione, con la sua ridotta capacità di giudizio propria dei meticci solo superficialmente civilizzati, non può vivere se non sotto un regime di dispotismo illuminato».111 In sostanza, ciò che von Hintze e l’Auswärtiges Amtes peroravano per il Messico era che fosse attuato un golpe in grado di rovesciare Madero e instaurare una dittatura “tradizionale” che garantisse al Reich la ripresa di quel ruolo di preminenza di cui aveva goduto in precedenza. Quando, nel febbraio 1913, il putsch di Victoriano Huerta spodestò Francisco Madero, le aspettative tedesche parvero inverarsi. In quel frangente, Paul von Hintze instaurò una stretta collaborazione con l’ambasciatore statunitense a Città del Messico, Henry Lane Wilson. I due diplomatici salutarono la deposizione di Madero e si attivarono a perorare la causa dei golpisti. Le simpatie dello statunitense si rivolsero immediatamente verso Felix Díaz, nipote di Porfirio, considerato più filo-americano rispetto all’alto ufficiale e in grado di offrire maggiori garanzie di continuità con le politiche dell’ex dit- 110 La Deutsch-Sudamerikanische Bank fornì a Madero un sostegno finanziario nel suo tentativo di spodestare Díaz anche attraverso un’intermediazione finanziaria finalizzata all’acquisto di armi per i rivoluzionari. Una volta eletto presidente, Madero permise alla banca di supportare il governo nelle sue relazioni finanziarie e di consigliarlo nella stesura di accordi internazionali. Cfr. ibid., pp. 85-86. Per una disamina più completa del ruolo della finanza tedesca nel campo della politica estera si veda, tra gli altri, B. BARTH, Die Deutsch Hochfinanz und die Imperialismen. Banken und Außenpolitik vor 1914, Stuttgart, Franz Steiner Verlag, 1995. 111 Cit. in KATZ, The Secret War in Mexico, cit., p. 89. 105 Lucio Tondo tatore.112 Nei giorni della Decena Trágica, le differenze tra von Hintze e Lane Wilson nell’approccio politico-diplomatico della gestione della crisi si acuirono. Lo statunitense, che non aveva mai fatto mistero del proprio appoggio a un eventuale intervento armato di Washington, si attivò perché fosse raggiunto un cessate-il-fuoco nella capitale, al fine di favorire l’evacuazione dei propri concittadini.113 Nel farlo, omise d’avvisare il corpo diplomatico presente a Città del Messico perché non sopraggiungesse un calo della tensione, cosa che avrebbe impedito un’eventuale azione militare dei marines da lui caldeggiata. Von Hintze intese l’atto alla stregua di una scorrettezza diplomatica e, determinando un’incrinatura nei rapporti con Wilson, assunse in prima persona l’iniziativa per promuovere la presa del potere da parte di Huerta.114 Tenendo all’oscuro Wilson, l’ambasciatore tedesco organizzò un meeting con il ministro degli esteri di Madero, Pedro Lascurain, proponendogli, allo scopo di far cessare le violenze che si stavano perpetrando a Città del Messico, «l’instaurazione del generale Huerta come governatore generale, dotato di pieni poteri in modo da mettere fine alla rivoluzione in base alle proprie valutazioni».115 Di fatto, celandosi dietro la necessità di pacificare il paese, von Hintze chiese apertamente a Madero di abdicare alla presidenza e di avallare il passaggio da una forma democratica a una dittatura. Successivamente al rifiuto di Madero di aderire alla proposta, a cui seguì il suo arresto, von Hintze si adoperò affinché fosse raggiunta un’intesa tra Huerta e Díaz, assicurando a quest’ultimo che il generale sarebbe stato nominato governatore pro tempore e che lui ne avrebbe rilevato l’incarico quanto prima. Il compromesso favorì il riavvicinamento tra von Hitze e Wilson nel tentativo di persuadere Huerta a consentire a Madero di partire in esilio in Europa, permettendogli in tal modo di salvare la vita.116 L’esecuzione di Madero117 e il conseguente consolidamento del potere dittatoriale di 112 Cfr. H.L. WILSON, Diplomatic Episodes in Mexico, Belgium, and Chile, Garden City, NY, Doubleday Page, 1927, p. 281. 113 Cfr. ibid., p. 282. 114 Cfr. ibid., p. 283. 115 Ibid., p. 284. 116 Riferendosi al periodo trascorso in Messico e, in particolar modo, al tentativo di salvare la vita a Madero, von Hintze si limitò a descriverne gli aspetti puramente personali, sostenendo che lui e Wilson avevano «trascorso un periodo davvero eccitante». Ibid., p. 28. 117 Una cronaca dettagliata delle ultime ore di vita di Madero è rinvenibile in M. MÁRQUEZ STERLING, Los últimos días del Presidente Madero (mi gestíon diplomática en Mexico), La Habana, Imprenta «El 106 Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz Huerta non crearono alcun imbarazzo alle cancellerie occidentali. Al contrario, le potenze europee aprirono immediatamente al governo di Huerta, essendo «soprattutto interessate alla stabilità, piuttosto che alle riforme e alla democrazia».118 Tra i maggiori beneficiari del nuovo corso huertista vi fu il Kaiserreich, che, mediante il golpe, poté riconquistare un ruolo di primo piano nella vita politica, economica e commerciale messicana. Tra i più entusiasti supporters di Huerta vi furono i businessmen tedeschi, convinti che il dittatore messicano fosse pronto ad abbandonare i progetti riformatori e modernizzatori in chiave nazionalista avviati da Madero, per ritornare nell’alveo delle politiche di apertura alle imprese estere di Porfirio Díaz. In particolare, i proprietari di piantagioni di caffè del Chiapas manifestarono la loro approvazione, certi che Huerta avrebbe reintrodotto il vecchio sistema della servitù obbligata che, nel periodo di Díaz, aveva contribuito all’aumento di produttività delle loro aziende.119 Il consenso espresso dal mondo imprenditoriale tedesco alla dittatura di Huerta spinse Berlino al riconoscimento, se non de jure, quantomeno de facto del nuovo governo messicano. Una presa di posizione politico-diplomatica netta che, di fatto, si rafforzò nel momento in cui Huerta concluse con le case produttrici di materiale bellico tedesche degli accordi per rifornire i propri sostenitori dell’armamento necessario a contrastare l’azione degli oppositori.120 In tale frangente, e più precisamente il 15 maggio 1913, nel momento in cui le sue scelte politico-diplomatiche stavano determinando una cesura netta con la politica estera wilsoniana, la vicinanza di Huerta con il Kaiserreich si rinsaldò mediante il riconoscimento ufficiale tedesco della sua presidenza.121 La scelta di Berlino condusse implicitamente a un contrasto con Washington, poiché il neo-insediato Wilson, pur adottando un cauto atteggiamento di disamina dell’evoluzione politica messicana – che si formalizzò nel “Watchful Waiting” –, si era ufficialmente dichiarato contrario al riconoscimento di Huerta. Le differenti prese di posizione, quasi cristallizzate, giunsero a un punto critico quando Paul von Hintze, fisicamente indisposto, era stato costretto a cedere gli uffici diplomatici allo Chargé d’Affaires, Rudolf von Kardorff. Siglo XX», 1917. 118 SMALL, The United States and the German “Threat” to the Hemisphere, 1905-1914, cit., p. 264. 119 Cfr. KATZ, Deutschland, Diaz und die mexikanische Revolution, cit., p. 339. 120 Cfr. ID., The Secret War in Mexico, cit., pp. 203-204. 121 Cfr. ibid., pp. 205-206. 107 Lucio Tondo Egli, «a differenza dell’abilissimo e accomodante [von] Hintze, magistralmente capace di operare dietro le quinte una politica anti-americana e, allo stesso tempo, di manifestare in pubblico un atteggiamento amichevole verso gli Stati Uniti, era un diplomatico rozzo […], che divenne presto un portavoce dei sostenitori più estremisti di Huerta».122 La sua condotta trovò nel Kaiser un profondo estimatore. Guglielmo II «sottolineava reiteratamente sui dispacci inviati da von Kardorff i passaggi anti-americani e quelli che si riferivano alle tendenze dittatoriali di Huerta e lasciava annotazioni a margine come “bene”, “buona osservazione”, “telegrafare la mia approvazione”».123 Von Kardorff, che al contrario di von Hintze, considerava inevitabile uno scontro con gli Stati Uniti a causa della loro presunta volontà di mantenere inalterata l’influenza nell’emisfero meridionale,124 nel giugno del 1913, per rendere più tangibile la vicinanza della Germania al regime di Huerta, chiese e ottenne che Berlino inviasse a Veracruz la corazzata Bremen poiché «era fondamentale spiegare la bandiera tedesca sulla situazione attuale».125 Non appena la nave raggiunse Veracruz, le proteste ufficiali dell’ammiraglio Frank Friday Fletcher, nominato nel febbraio 1913 comandante delle forze navali degli Stati Uniti sulla costa orientale del Messico,126 furono immediate. Lo stesso comandante della corazzata tedesca telegrafò direttamente a Guglielmo II, asserendo di aver avuto «l’impressione che l’apparizione della Bremen non sia stata del tutto gradita all’ammiraglio americano [di stanza] a Veracruz. Egli ha inviato un saluto alla Bremen molto cordiale dal punto di vista personale. Tuttavia, entro una settimana, il suo atteggiamento si è fatto più freddo, specie nel momento in cui non ho potuto più fornire nessuna data precisa del ritiro della Bremen […]. La mia spiegazione di essere giunto [a Veracruz] solo per tranquillizzare i residenti tedeschi è divenuta sempre meno credibile perché quotidianamente sui giornali erano pubblicate notizie sulle feste organizzate dalla nostra colonia della capitale».127 Durante la breve permanenza della Bremen, von Kardorff non limitò la propria azio122 Ibid., p. 207. Ibid. 124 Cfr. ibid., p. 207. 125 Ibid., p. 208. 126 Cfr. J. SWEETMAN, American Naval History: An Illustrated Chronology of the U.S. Navy and Marine Corps, 1775-Present, Annapolis, MD, Naval Institute Press, 2002, p. 116. 127 Cit. in KATZ, The Secret War in Mexico, cit., p. 213. 123 108 Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz ne a una mera esibizione della forza militare tedesca, ma si attivò presso le sedi diplomatiche europee in Messico perché i rispettivi governi premessero sull’amministrazione Wilson al fine di favorire il riconoscimento di Huerta.128 Di fronte alla fermezza della linea politico-diplomatica di Washington – che, dopo le notizie circa la scarsa propensione democratica di Huerta, provenienti dai consiglieri speciali inviati da Wilson, si stava progressivamente avviando a fornire pieno appoggio alle forze d’opposizione dei costituzionalisti – la diplomazia tedesca ritornò a un atteggiamento più cauto. Paul von Hintze, rientrato in Messico nel settembre 1913, abbandonò immediatamente l’atteggiamento di sfida nei riguardi degli Stati Uniti esplicitato da von Kardorff, anche se continuò a garantire a Huerta l’appoggio diplomatico tedesco, fornendogli, in tal modo, quella sponda politica necessaria per resistere alle sempre più pressanti richieste statunitensi di dimissioni.129 La moderazione diplomatica di von Hintze nei riguardi dell’amministrazione Wilson rispondeva sia a una precisa direttiva dell’Auswärtiges Amtes, intenzionata a evitare un confronto diretto con gli Stati Uniti,130 sia all’esigenza di non precludere totalmente a Huerta la possibilità di ottenere un riconoscimento de facto della propria leadership sul paese centramericano. Ciononostante, l’allentamento delle tensioni germano-americane fu solo temporaneo131 e si ruppe definitivamente l’11 ottobre 1913, nel momento in cui Huerta annullò le elezioni democratiche appena celebratesi. In quel frangente, di fronte al fermo atteggiamento statunitense, che stava rapidamente conducendo al definitivo abbandono della politica del “Watchful Waiting” e all’appoggio alle forze d’opposizione, il Kaiserreich rifiutò di seguire la strada che Wil- 128 Cfr. ibid., pp. 214-215. Cfr. ibid., p. 215. 130 Appena rientrato in Messico, a von Hintze era stato telegrafato da Berlino di «evitare ogni ulteriore contrasto con gli Stati Uniti e di opporsi a ogni interpretazione della nostra politica in senso aggressivo. L’unico interesse della Germania è il rapido ristabilimento dell’ordine e dei rapporti normali tra gli Stati Uniti e il Messico». Cit. in ibid., p. 217. 131 A ottobre, i rivoluzionari di Pancho Villa, dopo una lunga serie d’incursioni presso la comunità occidentale presente a Torreón, presero in ostaggio alcuni cittadini di varia nazionalità. Nelson O’Shaughnessy, inviato da Wilson a ricoprire temporaneamente le funzioni diplomatiche a Città del Messico, si attivò perché fossero rilasciati gli statunitensi. La pressione del diplomatico americano condusse a un immediato successo, anche perché Villa non intendeva alienarsi le simpatie di un’amministrazione che si rifiutava di riconoscere Huerta. Il loro rilascio portò a una reazione veemente di von Hintze, che, oltre a lamentarsi del fatto che lo stesso trattamento non fosse stato riservato ai cittadini tedeschi, arrivò a minacciare uno sbarco delle truppe in Messico. Cfr. SMALL, The United States and the German “Threat” to the Hemisphere, 1905-1914, cit., p. 264. 129 109 Lucio Tondo son stava cercando d’imporre alle cancellerie occidentali,132 cosa che produsse una maggiore vicinanza al dittatore messicano. Ciò nasceva da una precisa scelta realistica. Come sostenne lo stesso von Hintze in un documento inviato direttamente a Guglielmo II: «Rimango convinto della bontà della mia opinione che una dittatura militare sia la forma di governo più appropriata alla situazione [messicana], l’unica che possa renderci il massimo risultato e che Huerta, nonostante il suo alcolismo e le sue razzie del tesoro nazionale, sia il miglior 133 dittatore possibile». Una presa di posizione netta che, di fatto, allontanava quasi definitivamente ogni possibilità di evitare un confronto tra il Kaiserreich e gli Stati Uniti e che condusse direttamente alla crisi diplomatica dell’aprile 1914. 3. Wilson e l’incidente di Tampico Il cristallizzarsi delle opposte posizioni tra tedeschi e statunitensi si rese evidente quando, il 3 febbraio 1914, Wilson ritirò l’embargo sul commercio delle armi verso il paese centramericano. Come già accennato, l’indirizzo che il presidente intendeva fornire alla politica statunitense si era manifestato sin dall’estate 1913. E, nel novembre dello stesso anno, tale linea politico-diplomatica era stata affermata con forza dallo State Department. Per conto di Wilson, William Jennings Bryan dichiarò che «usurpazioni come quella del generale Huerta minacciano la pace e lo sviluppo del continente americano».134 Una presa di posizione netta, che conduceva l’amministrazione Wilson a dichiarare che «l’attuale politica del governo degli Stati Uniti è quella d’isolare totalmente il generale Huerta e di alienargli qualunque simpatia e aiuto, sotto forma [di supporto] sia morale che materiale proveniente dall’estero, forzandolo al ritiro».135 La dichiarazione, oltre a costituire un punto fermo dell’atteggiamento statunitense, era un’aperta dissuasione a quei paesi europei, come Francia e Gran Bretagna, che, sino a quel momento, avevano continuato a rifornire Huerta militarmente e finanziariamente.136 Negli ultimi 132 Cfr. ibid., p. 265. Ibid. 134 The Secretary of State to Chargé O’Shaughnessy, November 24, 1913, in FRUS, 1914, cit., p. 443. 135 Ibid. 136 Cfr. KATZ, The Secret War in Mexico, cit., p. 233. 133 110 Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz giorni di gennaio 1914, quando il proclama di ritiro dell’embargo d’armi verso il Messico stava per essere reso pubblico, tale condotta nei confronti d’inglesi e francesi si tradusse in una richiesta pressante d’adesione ai princìpi wilsoniani137 e, allo stesso tempo, nella manifestazione di una ferma volontà decisionale. Il 31 gennaio, Bryan inviò ai rappresentanti diplomatici americani la già citata nota, con cui Wilson dichiarava la propria volontà di schierarsi a fianco dei costituzionalisti e anticipava di pochi giorni la proclamazione della rimozione dell’embargo sulle armi e munizioni.138 La revoca wilsoniana del 3 febbraio 1914 del divieto d’introdurre armi in Messico139 traeva origine dalla consapevolezza che, sino a quel momento, l’unico beneficiario del mancato commercio di materiale bellico con le opposte fazioni messicane fosse stato il solo Huerta. Il dittatore, infatti, tra l’estate del 1913 e i primi del 1914, pur agendo sui canali diplomatici statunitensi per perorare la revoca del divieto commerciale, aveva cercato di aggirare l’embargo e di rifornirsi sfruttando tutti i canali, legali e non, a sua disposizione. Il primo passo era stato quello di ingaggiare un’équipe di contrabbandieri per cercare di procurarsi le armi nel Nord, negli Stati Uniti, e importarle in Messico.140 Successivamente, l’invio dei rifornimenti bellici era stato effettuato partendo da Cuba e da qui, lungo il Golfo del Messico, si era cercato di farli attraccare nei porti di Tampico e di Veracruz, per poi spostarli a Città del Messico per via ferroviaria.141 Il rischio d’incappare nelle maglie della flotta americana che vigilava sul mantenimento dell’embargo – e che avrebbe sequestrato l’intero carico – spinsero Huerta, a non rischiare di far navigare i piroscafi in acque controllate dagli statunitensi. Per ovviare, nell’autunno 1913, il dittatore messicano utilizzò alcuni rappresentanti di propria fiducia per rinvenire, contrattarne il costo e gestire la spedizione delle armi. Tale ufficio fu affidato al vice console russo a Città del Messico, Leon Raast, che viveva nel paese centramericano da alcuni anni e aveva incontrato Huerta già all’indomani del golpe, strin137 Cfr. The Secretary of State to the Ambassador W. H. Page, January 29, 1914, in FRUS, 1914, cit., pp. 443-444. 138 Cfr. The Secretary of State to All Diplomatic Missions of the United States, January 31, 1914, ibid., p. 447. 139 Cfr. Proclamation Revoking the Proclamation of March 14, 1912, Prohibiting the Exportation of Arms or Munitions of War in Mexico, Febraury 3, 1914, ibid., pp. 447-448. 140 Cfr. M.C. MEYER, The Arms of the Ypiranga, in «The Hispanic American Historical Review», L, 3, August 1970, pp. 545-546. 141 Cfr. ibid., p. 546. 111 Lucio Tondo gendovi un forte legame d’amicizia. A novembre, il diplomatico si era imbarcato per New York, portando con sé una somma di un milione e mezzo di pesos. Dopo aver effettuato il carico sulla Brikburn, di proprietà della Gans Steamship Line, Raast era stato convinto dal presidente della compagnia navale a destinare il carico dapprima in Russia a Odessa, via Costantinopoli, per smistarlo in seguito su una nave di proprietà tedesca e da lì farlo arrivare in Messico, eludendo i controlli della flotta americana.142 Poiché Raast non aveva seguito la Brikburn a Odessa, ma da New York era rientrato a Città del Messico, non aveva effettuato il pagamento pattuito e Charles Gans, proprietario dell’omonima compagnia di navigazione, aveva bloccato il carico d’armi nel porto russo. Dopo aver subito un sequestro da parte delle autorità zariste, convinte che il materiale fosse destinato ai rivoluzionari armeni,143 Gans era riuscito a ottenerne il rilascio e l’aveva fatto imbarcare sul Pernau alla volta di Amburgo. Nel marzo 1914, quando il Pernau attraccò nella città tedesca, dopo che alla Gans Steamship Line era stato corrisposto il prezzo stabilito, il carico di armi fu imbarcato sull’Ypiranga, di proprietà della compagnia Hamburg-Amerika, per essere consegnato ai messicani.144 Di fronte all’eventualità che Huerta potesse ricevere rifornimenti bellici, la presenza statunitense nelle città portuali di Tampico e Veracruz assumeva una valenza strategica, dal punto di vista militare, e simbolica, da quello politico-diplomatico, in quanto esprimeva concretamente la vicinanza wilsoniana ai costituzionalisti di Carranza. Tampico, che, alla fine del XIX, secolo «non era niente di più se non un villaggio»,145 con la scoperta di alcuni giacimenti petroliferi nel proprio sottosuolo, avvenuta nei primi del 1900, si era trasformata rapidamente in una boomtown, arrivando a contare più di 30.000 abitanti. Le politiche di apertura agli investimenti stranieri operate da Porfirio Díaz, prima, e da Francisco Madero, poi, avevano permesso alle compagnie petrolifere statunitensi e britanniche di ottenere delle vantaggiose concessioni governative per l’estrazione e la raffinazione del greggio. La presenza delle aziende occidentali contribuì allo sviluppo infrastrutturale della città, che, con la costruzione di una linea ferroviaria, fu collegata col Nord (Victoria e Monterey), con l’Ovest (Valles) e col Sud (San 142 Cfr. ibid., p. 548. Cfr. ibid. 144 Cfr. ibid., p. 549. 145 QUIRK, An Affair of Honor, cit., p. 6. 143 112 Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz Luis Potosí). Inoltre, la necessità di smistamento del petrolio condusse all’ammodernamento della città, in cui sorsero oleodotti che portavano verso l’interno del paese il prodotto finale della raffineria che la Standard Oil vi aveva edificato in prossimità della rinnovata zona portuale.146 L’alto numero degli occupati di origine occidentale e delle rispettive famiglie fece crescere quantitativamente le colonie angloamericane nella città, seconde solo a quelle presenti a Città del Messico. La sicurezza di un agglomerato che tendeva a uno sviluppo così rapido era stata assegnata a una guarnigione composta da circa 2000 unità e comandata da un governatore militare, il generale Ignacio Morelos Zaragoza, fedele a Huerta. Egli, nonostante l’ottimismo dimostrato pubblicamente, era conscio della difficoltà di difendere un sito come Tampico, anche perché la città, a nord e a est, era circondata da colline, alle cui spalle si sarebbero potute facilmente concentrare le forze costituzionaliste di Carranza. L’unica mossa in grado di garantire un minimo di sicurezza ai federalisti era di utilizzare la potenza di fuoco della cannoniera Veracruz, alla fonda nella baia di Tampico, con il rischio concreto di colpire i cittadini americani e le loro proprietà.147 In un simile scenario, l’indirizzo politico-diplomatico wilsoniano d’opposizione a Huerta si tradusse in un rafforzamento della presenza navale americana. Nella baia di Tampico erano ancorate le navi Connecticut e Minnesota, sotto il comando dell’ammiraglio Henry Mayo,148 che fungevano da supporto alla flotta di Fletcher, alla fonda a Veracruz. Ai primi di marzo, nel momento in cui la situazione politica messicana si fece più incerta, Mayo chiese a Fletcher di dislocare a Tampico la Dolphin, che divenne il proprio Headquarter, al posto della meno robusta Connecticut, per rinvigorire la forza statunitense in acque in cui erano ancorate anche la tedesca Dresden e la britannica Hermione. In effetti, le ansie statunitensi trovavano un fondamento nel crescendo delle operazioni militari che i costituzionalisti stavano lanciando per la conquista 146 Cfr. ibid., pp. 6-7. Cfr. ibid., p. 7. 148 Mayo era stato promosso ammiraglio direttamente da Josephus Daniels, segretario alla marina di Wilson, che lo aveva destinato al suo ufficio a Washington, come proprio consigliere personale. Quando l’involuzione politica messicana toccò il suo apice, alla fine del 1913, Daniels gli affidò il comando della IV divisione navale con il compito di vigilare sulla città di Tampico, «sulle vite e le proprietà statunitensi e, se necessario, […] di essere pronto a sbarcare truppe armate per prevenire ogni disordine». Cit. ibid., p. 10. 147 113 Lucio Tondo della città. Il 25 marzo, il generale Luis Caballeros riuscì a prendere il controllo di un lungo tratto di ferrovia nella zona nord di Tampico, tagliando in tal modo le vie di comunicazione agli uomini di Huerta e il giorno seguente insediò il suo quartier generale a Laguna Puerta, a poco più di 10 miglia da Tampico.149 Dal 27 al 31 marzo, dalla Veracruz e dalla Zaragoza, i federalisti cominciarono a cannoneggiare le forze di Caballeros sino a quando, il 6 aprile, questi non lanciò un attacco dal fronte nord. La scarsa resistenza opposta dalle truppe di Huerta permise ai costituzionalisti di occupare militarmente La Barra, Doña Cecilia e Arbol Grande, zone della città vicine alle raffinerie petrolifere della Standard Oil. Mayo, per evitare che i combattimenti potessero danneggiare irreparabilmente il sito, avviò dei primi colloqui con Zaragoza e Caballeros, chiedendo loro di fornire precise garanzie circa la salvaguardia della raffineria e dei cittadini americani che vi operavano.150 Dal 6 all’8 aprile, le azioni dei costituzionalisti si fecero più pressanti e le risposte degli huertisti non si fecero attendere: per tutto il giorno, la Veracruz e la Zaragoza aprirono il fuoco per coprire lo sbarco di ulteriori 300 uomini dalla nave mercantile Libertad, destinati a rinforzare le linee federaliste.151 L’incertezza degli sviluppi delle azioni militari e i rischi cui erano sottoposti i civili statunitensi spinsero Mayo a offrire loro protezione a bordo degli incrociatori ancorati a Tampico. L’alto ufficiale, inoltre, richiese con una certa urgenza al dipartimento di stato l’invio di un carico d’armi da destinare alle forze costituzionaliste, ottenendo un immediato rifiuto da parte di Bryan, che si era preventivamente consultato con Wilson.152 L’atteggiamento wilsoniano, legato ancora a una sorta di cautela diplomatica, divenne apertamente filo-costituzionalista il 9 aprile 1914. A causa delle continue scaramucce, la gran parte dei negozi e dei magazzini di Tampico erano rimasti chiusi, compresi i distributori di benzina, materia che stava cominciando a scarseggiare anche a bordo del- 149 Cfr. ibid., p. 11. Cfr. ibid., pp. 12-13. 151 Cfr. ibid., pp. 16-17. 152 Cfr. ibid., p. 18. Wilson commentò la richiesta di Mayo con il suo medico personale, Cary Traves Grayson, sostenendo: «Ogni tanto mi devo fermare per ricordare a me stesso di essere il presidente di tutti gli Stati Uniti e non solo di uno sparuto gruppo di industriali che si trovano nella repubblica messicana». Cit. in C.T. GRAYSON, Woodrow Wilson: An Intimate Memoir, New York, Rinehart and Winston, 1960, p. 30. 150 114 Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz la Dolphin.153 Per tale ragione, in quella data, Mayo incaricò il capitano Ralph Earle, che era riuscito a rinvenire dal grossista tedesco Max Tyron alcuni bidoni di carburante, di far sbarcare degli uomini perché li portassero a bordo, insieme alle derrate alimentari di cui l’equipaggio abbisognava. Earle inviò da Tyron una lancia, con a bordo il portabandiera Copp, il timoniere Siefert e il marinaio Harrington, ma non tenne presente che, a causa degli scontri con i costituzionalisti, i federalisti avevano interdetto il passaggio dal ponte Iturbide, il cui attraversamento era necessario per raggiungere il deposito da cui gli statunitensi avrebbero dovuto approvvigionarsi.154 Nel canale che la lancia della Doplhin aveva dovuto attraversare (e al quale aveva attraccato, per permettere a Copp di sbarcare e recarsi al magazzino di Tyron), stazionava uno scafo con un ufficiale e alcuni soldati federalisti. Costoro si avvicinarono a Siefert e a Harrington, rimasti a bordo per sistemare i bidoni di carburante, e intimarono loro, sotto la minaccia delle armi, di sbarcare. Appena abbandonarono la lancia, i due marinai, insieme a Copp, furono circondati dai federalisti, che, dopo averli fatti sfilare per le vie della città, li condussero in stato d’arresto nel proprio quartier generale.155 Dopo essere stati interrogati dal colonnello Ramón Hinojosa, comandante del settore di Tampico in cui si erano svolti i fatti, i militari statunitensi furono rilasciati nell’arco di pochi minuti e venne permesso loro di ritornare alla lancia per completare il carico dell’approvvigionamento interrotto.156 Non appena Mayo fu informato dell’accaduto, inviò una nota al governatore di Tampico, Zaragoza, in cui, senza eccessive perifrasi mise in evidenza che «prelevare degli uomini da una lancia battente bandiera americana è un atto d’ostilità inaccettabile».157 Per considerare chiuso l’incidente, Mayo chiese a Zaragoza che gli fossero rivolte «dai membri più alti in grado del suo staff una disapprovazione e delle scuse formali per l’accaduto, insieme all’assicurazione che l’ufficiale responsabile di quanto successo [avrebbe] ricev[uto] una severa punizione».158 A tali richieste, che le autorità huertiste erano pronte – seppur formalmente – a accettare, Mayo aggiunse una clausola (da in- 153 Cfr. QUIRK, An Affair of Honor, cit., p. 20. Cfr. ibid., p. 22. 155 Cfr. ibid. 156 Cfr. ibid., p. 23. 157 Admiral Mayo to General Zaragoza, April 9, 1914, in FRUS, 1914, cit., p. 448. 158 Ibid. 154 115 Lucio Tondo tendersi come un’equa riparazione all’affronto subito), pretendendo che i federalisti «iss[assero] pubblicamente la bandiera americana in una posizione prominente sulla costa e che la salut[assero] con ventuno salve di cannone, saluto che debitamente sar[ebbe stato] ricambiato da questa nave [Dolphin]».159 A Zaragoza, che aveva espresso «le sue scuse in maniera verbale»,160 Mayo impose un vero e proprio ultimatum per accettare le sue condizioni, concedendogli 24 ore di tempo per soddisfarlo.161 Mayo era conscio che, nel momento in cui formulava la richiesta di riparazione, concedendo un limite di tempo ristretto per il suo soddisfacimento, la questione cessava di essere una mera materia militare e assumeva i contorni di un vero e proprio affare internazionale. La veemenza delle richieste dell’alto ufficiale era giustificata dal fatto che egli era a conoscenza dell’appoggio che Wilson aveva fornito immediatamente alle sue azioni. Il presidente, in effetti, aveva interpretato l’incidente come una possibilità di mettere in difficoltà Huerta, preparando il terreno per il definitivo showdown. Il 10 aprile, mentre stava trascorrendo il weekend in compagnia della famiglia e di alcuni invitati – tra il cui il segretario al tesoro, William McAdoo – a White Sulphur Springs, West Virginia,162 Wilson, inviò un messaggio a O’Shaughnessy perché lo reindirizzasse alla diplomazia huertista «con la massima fermezza, gravità e franchezza, rappresentando[le] l’estrema serietà della situazione e la possibilità che da essa possano scaturire le più gravi conseguenze, a meno che i colpevoli non siano prontamente puniti».163 La nota del presidente nacque da un’iniziativa personale, assunta senza che egli si consultasse nemmeno con quegli esponenti del governo fisicamente presenti nella sua stessa località di villeggiatura. Con ciò, egli evidenziava inequivocabilmente le propensioni ad avocare alla Casa Bianca un ruolo preminente nella gestione della politica estera e ad affidarsi alle impressioni provenienti dai propri consiglieri, indipendentemente se essi fossero inquadrati o meno all’interno dei canali diplomatici. Nella fase iniziale 159 Ibid. The Secretary of State to President Wilson, April 10, 1914, ibid., p. 449. 161 Cfr. ibid. 162 Wilson si era recato nella località turistica per poter offrire sollievo alla moglie, Ellen Louise Axson Wilson, che era nella fase terminale della sua malattia – il morbo di Bright –, con la speranza che un allontanamento dalla vita frenetica di Washington le potesse giovare. Cfr. QUIRK, An Affair of Honor, cit., p. 29. 163 The Secretary of State to Chargé O’Shaughnessy, April 10, 1914, in FRUS, 1914, cit., p. 450. 160 116 Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz della crisi con il Messico, Wilson fondò la propria azione facendo affidamento sulle notizie riportategli dallo Chargé d’Affaires a Città Messico, Nelson O’Shaughnessy. Questi era arrivato nel paese centramericano nell’estate del 1913, in sostituzione di Henry Lane Wilson, allontanato per il suo imbarazzante coinvolgimento nel golpe di Huerta. O’Shaughnessy, che proveniva da una famiglia agiata, aveva iniziato la propria carriera diplomatica sotto la presidenza Roosevelt, dapprima a Copenaghen e, in seguito, a Berlino per giungere, infine, a Vienna, come secondo segretario d’ambasciata e, insieme alla moglie, aveva sviluppato un modus vivendi più assimilabile a un aristocratico, che non a un diplomatico.164 Tale stile di vita dispendioso165 si arrestò bruscamente quando O’Shaughnessy non fu più in grado d’onorare i propri debiti e la coppia si ridusse a vivere ai limiti dell’indigenza. In una tale situazione, quando Wilson lo destinò a Città del Messico, egli si trovò al centro di un’intricata vicenda politico-diplomatica, che lo fece assurgere immediatamente al rango «di più importante diplomatico in Messico».166 In virtù del ruolo di medium che poteva esercitare tra Wilson e Huerta, in cerca del riconoscimento de jure statunitense della propria legittimità a governare, il diplomatico divenne progressivamente il centro dell’adulazione e dell’irretimento da parte del dittatore messicano, che lo inserì nei circoli più esclusivi della capitale. Huerta cominciò a chiamarlo apertamente «“figliolo”, dispensandogli pubblicamente degli abrazos, gli abbracci e le pacche sulle spalle con cui i messicani attestano la propria stima per un uomo».167 Nel momento in cui ebbe luogo l’incidente a Tampico e il presidente confermò l’ultimatum lanciato da Mayo a Zaragoza, O’Shaughnessy fu fatto oggetto delle pressioni huertiste. Per venire incontro alle richieste del dittatore, nonostante non avesse mai contestato apertamente la linea di Wilson, pur ritenendone alcune scelte del tutto sba- 164 Nelle sedi nelle quali fu accreditato, O’Shaughnessy amplificò la sua tendenza alla mondanità: «La sua vita diplomatica ideale era un vortice folle di ricevimenti, feste vivaci, bridge con i membri più importanti della nobiltà locale, caccia al capriolo con i principi russi nei Carpazi o nel Caucaso o ritemprare le forze in Boemia, nelle esclusive terme di Karlsbad e Marienbad». QUIRK, An Affair of Honor, cit., p. 34. 165 Cfr. ibid., p. 35. Nella capitale dell’impero asburgico, O’Shaughnessy «trascorreva quattro o cinque ore alla sua scrivania e il resto del giorno giocando a golf o al The Club. […] Sperperava denaro in abbigliamento, ordinando cappotti, panciotti, pantaloni, bellissimi smoking e giacche da caccia dai più cari e esclusivi sarti di Londra». Ibid. 166 Ibid., p. 37. 167 Ibid. 117 Lucio Tondo gliate,168 il diplomatico cercò di ridimensionare la gravità dell’intera vicenda, operando dei sottili distinguo, tesi a ridurre le responsabilità dei militari messicani.169 Ciò che O’Shaughnessy paventava era che, come in effetti stava accadendo, Huerta utilizzasse la minaccia dell’ultimatum statunitense per ricompattare in senso patriottico la popolazione e le fazioni messicane che si stavano combattendo, mettendo i propri oppositori nella condizione piuttosto imbarazzante, qualora avessero appoggiato la posizione wilsoniana, di poter essere accusati di collaborazionismo con un eventuale invasore. Proprio per evitare la realizzazione di un tale paradosso, O’Shaughnessy si spese per perorare la causa di Huerta, sottolineando in modo realistico che il generale, pur non essendo disposto a accettare l’ultimatum di Mayo, era pronto a ribadire le proprie scuse ufficiali oltre a ordinare l’arresto del colonnello Hinojosa.170 Il diplomatico, quando si rese conto che gli Stati Uniti non avrebbero indietreggiato, per scongiurare la possibilità di un’ulteriore recrudescenza della tensione politico-diplomatica tra i due Stati, cercò di convincere dapprima il sottosegretario agli esteri di Huerta, Roberto Esteva Ruiz, e, in seguito, lo stesso dittatore dal recedere dalla propria posizione.171 O’Shaughnessy era convinto di poter aver successo nel suo tentativo, perché era certo di esercitare un certo ascendente sul dittatore. In base a tale presupposto, il diplomatico chiese e ottenne un incontro con Esteva Ruiz, il 12 aprile. Questi ribadì la volontà di Huerta di non accettare le condizioni poste da Mayo, ritenendo ingiustificate le proteste statunitensi, dal momento che i «marinai erano stati sbarcati in un determinato luogo senza alcun permesso delle autorità militari messicane»,172 e, di fatto, contestando apertamente la sovranità territoriale di uno Stato. O’Shaughnessy replicò, evidenziando come «l’atteggiamento assunto dal generale Huerta [fosse] latore delle peggiori possibilità […] anche perché il popolo [americano] potrebbe forzare l’amministrazione a difendere la nostra dignità nazionale se necessario anche con l’utilizzo della forza».173 Esteva Ruiz non recedette dal sostenere un punto di vista esattamente contrario: 168 Cfr. O’SHAUGHNESSY, A Diplomat’s Wife in Mexico, cit., p. 258. Cfr. Chargé O’Shaughnessy to the Secretary of State, April 10, 1914, in FRUS, 1914, cit., pp. 449-450. 170 Cfr. Chargé O’Shaughnessy to the Secretary of State, April 11, 1914, ibid., p. 450. 171 Cfr. Chargé O’Shaughnessy to the Secretary of State, April 12, 1914, ibid., p. 453. 172 Chargé O’Shaughnessy to the Secretary of State, April 12, 1914, ibid., p. 454. 173 Ibid. 169 118 Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz «Il governo messicano, in conformità con le leggi internazionali, non si sente in obbligo di accettare le richieste rivoltegli e ritiene che aderire a tali punti equivalga ad accettare la sovranità di uno Stato estero, a scapi174 to della dignità e della sovranità nazionale». La minaccia di un intervento armato non rappresentava un mero mezzo diplomatico per operare delle pressioni finalizzate a una risoluzione incruenta della crisi, ma era un atto politico ben definito. In effetti, di fronte all’evidenza del rifiuto di Huerta, il segretario alla marina s’informò, tramite Fletcher, se Mayo disponesse di mezzi e uomini sufficienti per prendere e tenere Tampico, controllandone gli accessi portuali e terrestri.175 Daniels autorizzò immediatamente lo spostamento di alcune unità della flotta statunitense per supportare l’eventuale azione militare,176 anche se, Mayo, dopo un’analisi dei rischi a cui le imbarcazioni sarebbero state sottoposte nel corso del raid, parve optare per un bombardamento navale di Tampico.177 Ma anche quest’ultima possibilità fu abbandonata, poiché, anche se un cannoneggiamento avrebbe fornito agli Stati Uniti la soddisfazione per il mancato saluto messicano alla bandiera, non avrebbe apportato alcuna conseguenza diretta sulla permanenza di Huerta al potere e avrebbe potuto mettere a repentaglio la sicurezza delle proprietà e delle vite dei cittadini americani operanti in città. Appena Wilson rientrò alla Casa Bianca da White Sulphur Springs, il 13 aprile, impresse una forte spinta decisionista alla sua azione politica anti-huertista. Egli, non solo appoggiò incondizionatamente la posizione di Mayo, ma scrisse personalmente il di174 Ibid., p. 455. Cfr. Admiral Fletcher to the Secretary of the Navy, April 14, 1914, ibid., pp. 458-459. 176 Cfr. The Secretary of State to Chargé O’Shaughnessy, April 14, 1914, ibid., p. 459. Il segretario alla marina ordinò l’immediato dislocamento nelle acque messicane della Michigan, della Louisiana, della New Hampshire, della South Carolina, dell’Arkansas, della Vermont, della New Jersey, della Tacoma, della Nashville e della Hancock. 177 Mayo e Fletcher avevano inizialmente approntato un piano d’attacco che prevedeva il blocco della baia di Tampico, utilizzando le unità navali più piccole, mentre l’equipaggio della Dolphin avrebbe dovuto occupare la dogana e la Chester e la Des Moines avrebbero dovuto prendere o affondare le navi messicane. Le due navi statunitensi, insieme alla San Francisco, avrebbero dovuto formare un blocco, ancorandosi alla fonda all’ingresso della baia, per favorire lo sbarco delle truppe ed evitare qualunque reazione esterna. Il progetto fu abbandonato a causa del basso pescaggio delle acque della baia: nessuna delle navi avrebbe potuto attraversarla senza rimanervi incagliata. I marines avrebbero potuto sbarcare solo con delle scialuppe e, quando queste fossero entrate nel canale che conduceva al molo e alla città, sarebbero state un bersaglio esposto alla risposta militare messicana. Cfr. QUIRK, An Affair of Honor, cit., p. 47. 175 119 Lucio Tondo spaccio che Bryan inviò a O’Shaughnessy, dispaccio in cui, oltre a ribadire la validità della richiesta dell’ammiraglio, dichiarava che «il presidente si aspetta[va] una pronta e totale accettazione dei termini [dell’ultimatum di Mayo]».178 Inoltre, per fornire maggiore incisività politica all’impostazione, Wilson convocò il gabinetto, chiedendo – e ottenendo – un’adesione unanime alla propria linea. Mediando tra le posizioni di McAdoo, che perorava un intervento armato immediato, e di Bryan, che consigliava maggiore cautela, in quanto paventava le possibili conseguenze della reazione americana, Wilson chiese a Robert Lansing, all’epoca sottosegretario, di rinvenire negli archivi dello State Department un precedente simile alla crisi attuale.179 Ciò, per avallare legalmente di fronte all’opinione pubblica un’eventuale escalation militare del contrasto con Huerta. Non appena Lansing rinvenne nella spedizione in Nicaragua l’appiglio legale180 necessario per giustificare il sempre più probabile intervento militare di fronte al congresso e all’opinione pubblica, Wilson ordinò alla flotta atlantica di raggiungere le acque messicane e di porsi sotto il comando di Mayo. Nonostante la notizia avesse immediatamente raggiunto Huerta, questi, il 14 aprile, in un incontro con O’Shaughnessy, tenutosi all’interno della sua vettura privata, oltre a mostrarsi, «come al solito, molto cordiale e molto comunicativo»,181 rimase fermo nel proprio rifiuto dell’ultimatum di Mayo. Il fatto che Huerta proponesse al diplomatico di rimettere la questione nelle mani del tribunale internazionale dell’Aja,182 nel chiaro tentativo di ottenere un implicito riconoscimento internazionale de jure della propria legittimità, non lasciava presagire l’intenzione di dirimere pacificamente la questione. Al contrario, secondo O’Shaughnessy, Huerta stava operando per porre gli Stati Uniti nella condizione di passare alle vie di fatto, al fine di superare le divisioni e cementare il consenso interno in funzione patriottica: «Il vecchio indio è stato più eloquente di quanto non l’abbia mai visto e sono rimasto impressionato dal fatto che egli abbia immesso un’enorme quantità 178 The Secretary of State to Chargé O’Shaughnessy, April 14, 1914, in FRUS, 1914, cit., p. 460. Cfr. QUIRK, An Affair of Honor, cit., pp. 49-50. 180 Negli archivi dello State Department, Lansing trovò dei documenti relativi al bombardamento, autorizzato dal presidente Franklin Pierce nel 1854, della città nicaraguense di San Juan del Norte come rappresaglia a un insulto rivolto al console statunitense di quella città. Cfr. ibid., p. 50. 181 The Chargé O’Shaughnessy to the Secretary of State April 14, 1914, in FRUS, 1914, cit., p. 460. 182 Cfr. ibid. 179 120 Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz di patriottismo nelle sue dichiarazioni».183 La fermezza del dittatore messicano cominciò a vacillare il giorno seguente, quando Wilson convocò i membri delle commissioni esteri della camera dei rappresentanti e del senato per illustrare le posizioni dell’amministrazione. Egli elencò i vari episodi che avevano generato il contrasto con Huerta e, pur ammettendo che essi «fossero di scarso peso in se stessi», sostenne che assumevano la massima importanza se considerati alla luce della «condotta generale del governo messicano nei riguardi degli Stati Uniti e dei loro cittadini».184 Ottenendo un consenso bipartisan, il presidente illustrò ai Congressmen la possibilità di procedere all’occupazione dei porti di Tampico e Veracruz, che sarebbe stata interrotta solo nel momento in cui Huerta avesse accettato le richieste di Mayo, «soddisfacendo l’onore americano».185 Contando anche sulla propensione dell’opinione pubblica a sostenere un eventuale intervento militare, Wilson, di fatto, preparava il terreno per ottenere una risoluzione congiunta da parte del congresso, al fine di arrivare allo showdown con Huerta.186 Alla luce di una possibilità che diveniva progressivamente più concreta, il generale, il 15 aprile, fece sapere a O’Shaughnessy di essere pronto a recedere dalla propria posizione di fermezza sino a quel momento tenuta. L’ultimatum di Mayo era sostanzialmente accettato, con la sola richiesta che le scariche di artiglieria a salve fossero fatte esplodere in contemporanea, per evitare che gli statunitensi non rendessero l’onore ai messicani e li umiliassero.187 Il segnale d’apertura di Huerta non fece arretrare Wilson dalle sue posizioni, che liquidò la proposta del generale come irricevibile: «Un saluto contemporaneo toglierebbe qualunque significato all’azione».188 L’intransigenza wilsoniana trovava la propria ragion d’essere non solo nell’alta carica simbolica del gesto del saluto alla bandiera, ma, soprattutto, nella volontà di chiudere definitivamente i conti col dittatore messicano. Non fu casuale che, il 17 aprile, in una conferenza stampa, egli dichiarasse senza troppe 183 Cfr. ibid., p. 461. Riguardo a tali impressioni, la moglie di O’Shaughnessy riportò nelle sue memorie che, non appena Huerta fu informato della dislocazione della flotta atlantica nelle acque messicane, esclamò: «È una calamità? No. È la cosa migliore che potesse mai capitarci». O’SHAUGHNESSY, A Diplomat’s Wife in Mexico, cit., p. 266. 184 Cit. in QUIRK, An Affair of Honor, cit., p. 57. 185 Ibid., p. 58. 186 Cfr. The Secretary of State to Chargé O’Shaughnessy, April 18, 1914, in FRUS, 1914, cit., p. 468. 187 Cfr. The Secretary of State to Chargé O’Shaughnessy, April 16, 1914, ibid., p. 465. 188 Cfr. The Secretary of State to Chargé O’Shaughnessy, April 17, 1914, ibid., p. 466. 121 Lucio Tondo perifrasi che, a prescindere dall’accettazione dell’ultimatum, la flotta sarebbe rimasta nelle acque messicane per non consentire alcuna ripetizione «delle innumerevoli manifestazioni di cattiva volontà e di disprezzo verso gli Stati Uniti che Huerta ha evidenziato nel passato».189 Per tale motivo, il giorno seguente, Wilson rilasciò una nota diplomatica, in cui, oltre ad asserire che «il generale Huerta sta[va] ancora insistendo nel fare qualcosa di meno di quanto richiesto e qualcosa di meno di quanto costituirebbe un riconoscimento che i propri rappresentanti sono nel torto»,190 impresse una svolta decisionista alla vertenza, dichiarando che, «se il generale Huerta non [avesse accettato] [le condizioni dell’ultimatum] entro le sei di sabato pomeriggio, lunedì egli [avrebbe posto] la questione nelle mani del congresso».191 E, con un consenso parlamentare pressoché unanime, ciò avrebbe significato l’avvio delle ostilità. Tale volontà fu ribadita più decisamente il giorno seguente in risposta a O’Shaughnessy, che aveva inviato a Washington una bozza di protocollo d’intesa stilata da Huerta e contenente le sue richieste per accettare l’ultimatum di Mayo.192 In tale frangente, Wilson rispose sprezzantemente, sostenendo non solo che «non sarebbe stata fatta alcuna concessione di alcun genere e per nessuna ragione», ma anche ribadendo «piuttosto enfaticamente il proprio rifiuto di firmare qualunque accordo o protocollo».193 E ciò soprattutto per evitare di concedere implicitamente quel riconoscimento de jure che Huerta cercava di ottenere da tempo dagli Stati Uniti: «In particolare, il protocollo […] è totalmente irricevibile, poiché è formulato in modo tale che il generale Huerta potrebbe interpretarlo come un riconoscimento del proprio governo, mentre il presidente ha 194 reso noto […] che non intende riconoscerlo». L’unico modo per uscire dall’impasse determinatasi era quello di far mettere a punto dal gabinetto le richieste che Wilson avrebbe rivolto al congresso e per chiedere sostan189 Cit. in QUIRK, An Affair of Honor, cit., p. 62. The Secretary of State to certain American Diplomatic Missions, April 18, 1914, in FRUS, 1914, cit., p. 469. 191 Ibid. 192 Cfr. Draft Protocol, enclosure to Chargé O’Shaughnessy to the Secretary of State, April 18, 1914, in FRUS, 1914, cit., p. 470. 193 The Secretary of State to Chargé O’Shaughnessy, April 19, 1914, ibid., p. 471. 194 Ibid. 190 122 Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz zialmente carta bianca nell’azione contro Huerta. Il presidente, dopo essersi consultato con i propri consiglieri militari, era arrivato alla conclusione che, per dirimere la questione, fosse necessario mettere Huerta sotto pressione dal punto di vista militare. Per tale motivo, intendeva chiedere al congresso di autorizzare l’occupazione militare di Tampico e Veracruz e di stabilire un blocco militare nelle acque del Messico.195 Poiché a Tampico erano state dislocate la gran parte delle unità navali presenti nelle acque messicane, Mayo aveva provveduto a stilare un particolareggiato piano di sbarco e di occupazione dei centri nevralgici di Tampico. L’alto ufficiale era fiducioso nella buona riuscita dell’azione, poiché i punti scelti per lo sbarco dei marines non possedevano un’adeguata copertura militare e l’esigua guarnigione huertista di stanza era insufficiente a contenere la forza d’interdizione statunitense.196 Proprio perché le possibilità di un esito positivo erano alte, l’establishment politico-militare di Washington parve orientato a preferire uno sbarco a Tampico, invece che a Veracruz. Quest’ultima, infatti, possedeva un’efficace difesa militare del porto e la guarnigione messicana aveva ricevuto rinforzi, in uomini e mezzi, per contrastare la probabile offensiva dei costituzionalisti, appostati alle spalle delle alture della città. Se lo sbarco fosse stato autorizzato a Veracruz, i marines avrebbero rischiato non solo di essere respinti, ma anche di trovarsi sotto il tiro incrociato di huertisti e costituzionalisti.197 In base a tali considerazioni, Josephus Daniels, il 20 aprile, ordinò alla flotta atlantica di sgomberare tutte le imbarcazioni civili e commerciali statunitensi dalle vie fluviali di Tampico, considerando ormai imminente l’avvio delle operazioni.198 4. L’occupazione di Veracruz e la crisi diplomatica con il Kaiserreich Pur non avendone ancora la certezza, la possibilità sempre più concreta di uno scontro contro Huerta spinse Wilson a cercare preventivamente la più ampia adesione alla dichiarazione che, di lì a qualche ora, avrebbe reso di fronte al congresso riunito in seduta congiunta. Nel primo pomeriggio del 20 aprile, egli ricevette alla Casa Bianca il leader repubblicano Henry Cabot Lodge, Chairman del Senate Committee on Foreign Rela195 Cfr. QUIRK, An Affair of Honor, cit., pp. 68-69. Cfr. ibid., p. 68. 197 Cfr. ibid., p. 69. 198 Cfr. ibid. 196 123 Lucio Tondo tions, per chiedere l’appoggio del Grand Old Party. Lodge trovò le argomentazioni di Wilson «deboli, nonostante fossero ben espresse».199 Anticipando di qualche tempo l’opposizione all’impianto idealistico del wilsonismo – che l’avrebbe portato a essere il principale fautore della mancata ratifica del covenant della Società delle Nazioni –, Lodge, pur dichiarando il proprio sostegno all’intervento militare in Messico, prese le distanze dalle giustificazioni morali del presidente.200 Dopo l’incontro con il leader repubblicano, Wilson tenne una conferenza stampa in cui chiese esplicitamente ai reporters di non allarmare l’opinione pubblica, sostenendo che gli Stati Uniti stessero per dichiarare guerra al Messico. Al contrario, utilizzando dei toni prettamente idealistici, evidenziò che egli si stava limitando a presentare al congresso l’evolversi della questione messicana per ottenere dalle camere il placet per una soluzione ottimale. Ammantando di valori ideali uno showdown con Huerta che riteneva ormai improrogabile, Wilson sostenne: «Io non sono per niente esaltato dall’idea della guerra. Ho entusiasmo per la giustizia e per la [difesa della] dignità degli Stati Uniti, non certo per la guerra. E tale desiderio di non combattere sarà realizzato solo se noi agiremo con prontezza e con fermezza».201 Immediatamente dopo, Wilson si presentò di fronte al congresso per pronunciare il proprio discorso. Pur non aggiungendo alcun elemento di novità, egli, utilizzando uno stile enfatico e anticipando un’impostazione utilizzata in seguito tanto a Versailles quanto nei riguardi del bolscevismo, sottolineò come l’azione militare degli Stati Uniti fosse rivolta contro Huerta e non contro il popolo messicano. Dopo aver riepilogato i fatti che avevano condotto all’incidente di Tampico, il presidente sostenne che «sfortunatamente, esso non era stato un caso isolato. Precedentemente, si erano verificati degli incidenti che non potevano non creare l’impressione che i rappresentanti del generale Huerta avessero la volontà di non tenere conto della dignità e dei diritti di questo governo e di sentirsi pienamente in dovere di compiere ciò che più gli piacesse, ma202 nifestando [verso di esso] tutto il proprio disprezzo e irritazione». 199 H. CABOT LODGE, The Senate and the League of Nations, New York, Charles Scribners & Sons, 1925, p. 13. 200 Cfr. ibid., pp. 13-14. 201 Remarks of President Wilson at a Press Conference, April 20, 1914, in PWW, vol. 29, cit., p. 471. 202 Address of the President delivered at a Joint Session of the Two Houses of Congress, April 20, 1914, on “The Situation in our Dealings with General Victoriano Huerta at Mexico City”, April 20, 1914, in 124 Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz Proprio per tale ragione, dopo l’arresto dei marinai a Tampico, Wilson si era sentito «in dovere di sostenere tutte le richieste dell’ammiraglio Mayo e d’insistere affinché la bandiera degli Stati Uniti ricevesse i dovuti ono203 ri». Il rifiuto reiterato del dittatore messicano di accettare l’ultimatum stava «conducendo direttamente e inevitabilmente alla guerra».204 Un conflitto che gli Stati Uniti «in nessuna circostanza avrebbero combattuto contro il popolo messicano, ma che […] erano pronti a combattere contro il solo generale Huerta 205 e coloro che lo seguono e lo appoggiano». Per ottenere dal «generale Huerta e dai suoi accoliti il pieno riconoscimento dei diritti e della dignità degli Stati Uniti»,206 Wilson chiese un pieno sostegno: «Non agirei mai in una materia gravida delle più gravi conseguenze se non in piena collaborazione e cooperazione con il senato e la camera 207 [dei rappresentati]». E, quando, successivamente alla propria dichiarazione, si aprì il dibattito, a quei congressmen che gli chiesero chiaramente «se lo scopo delle sue dichiarazioni [fosse] l’eliminazione fisica di Huerta», Wilson reiterò le rassicurazioni. Pur non eliminando aprioristicamente la possibilità di uno scontro, pose in evidenza le ragioni morali che stavano spingendo l’amministrazione ad autorizzare un intervento armato in Messico: «Tutto ciò che vogliamo è il pieno riconoscimento della dignità nazionale e l’assicurazione che ciò costituirà la garanzia che tali fatti non si verifichino 208 mai più». Il congresso approvò la mozione di Wilson con 337 voti a favore e soli 37 contrari: FRUS, 1914, cit., p. 475. 203 Ibid. 204 Ibid. 205 Ibid., p. 476. 206 Ibid. 207 Ibid. 208 Cit. in L. FISHER, Presidential War Power, Lawrence, KS, University Press of Kansas, 1995, p. 51. 125 Lucio Tondo un appoggio pressoché unanime alla sua posizione, con alcune voci dissonanti solo al senato.209 Di fatto, il congresso gli dava mano libera per ordinare le operazioni militari a Veracruz. L’occasione per impartire l’ordine gli fu fornita alle prime ore del 21 aprile, quando lo State Department ricevette il telegramma cifrato dal console a Veracruz, William Canada. Questi avvertiva, in tono piuttosto allarmato, che «la nave Ypiranga, appartenente alla compagnia Hamburg-Amerika, [sarebbe arrivata] l’indomani dalla Germania con 200 mitragliatrici e 15.000.000 di munizioni e [avrebbe attraccato] al molo n. 4, avviando le operazioni di sbarco alle 10:30. Ci [sarebbero stati] 30 autocarri sul molo per caricare le munizioni scaricate dalla nave. Dei treni, composti da 10 vagoni ognuno, [sarebbero partiti] il prima possibile dalla Mexican 210 Railway». Il documento costituiva un vero e proprio incentivo all’azione che i funzionari posero immediatamente all’attenzione di Bryan. Questi, dopo essersi consultato con Daniels, telefonò alla Casa Bianca, intimando al personale – poco incline a disturbarne il sonno – di svegliare Wilson.211 Quando questi chiese a Daniels, aggiuntosi alla conversazione, di esprimere la propria opinione, il segretario alla marina rispose laconicamente che «non dovremmo permettere che le armi arrivino a Huerta».212 Chiese poi l’autorizzazione a ordinare a Fletcher di prendere possesso della dogana del porto di Veracruz per impedire l’attracco dell’Ypiranga, ottenendo dal presidente un perentorio: «Prendete immediatamente Veracruz».213 La decisione di Wilson non era stata troppo difficile da assumere, data l’ostilità poco velata nei riguardi di Huerta e la certezza di supportare i costituzionalisti nella loro lotta contro il dittatore. Alla stessa stregua, anche l’entourage politico-diplomatico era certo 209 Cfr. P. JESSUP, Elihu Root, New York, Dood, Mead & Co, 1938, vol. II, p. 253. Un esiguo gruppo di repubblicani, guidati dall’ex segretario di stato, Elihu Root e Henry Cabot Lodge, presentò una mozione che, pur prevedendo l’uso della forza militare in Messico, esulava dall’idealismo wilsoniano e puntava alla difesa della vita e delle proprietà americane. 210 Consul Canada to the Secretary of State, April 20, 1914, in FRUS, 1914, cit., p. 477. 211 Cfr. R.S. Baker, Woodrow Wilson: Life and Letters, Garden City, NY, Doubleday, Doran & Co., 1931, vol. IV, pp. 328-329. 212 Ibid., p. 329. 213 Ibid. L’ordine, tassativo, come lo stesso Wilson confidò al proprio segretario personale, Joseph Tumulty, nasceva dall’urgenza di evitare un rafforzamento delle posizioni di Huerta: «È abbastanza duro, ma non potremmo permettere a quel cargo di attraccare. I messicani intendono usare quelle armi contro i nostri ragazzi […]. Non c’è alternativa». Cit. in J.T. TUMULTY, Woodrow Wilson as I Know Him, Doubleday, New York, Page & Company, 1921, p. 152. 126 Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz che i messicani avrebbero accolto i marines come dei liberatori.214 Anche per tale ragione, le operazioni di sbarco degli statunitensi furono accelerate. Josephus Daniels, che già il 20 aprile aveva ordinato a Mayo di lasciare nel porto di Tampico la sola Dolphin e di muovere con le restanti navi a Veracruz, alle prime ore del 21, intimò a Fletcher di «prendere la dogana. Non consentire che il materiale bellico sia consegnato a Huerta o a qualunque altra fazione».215 Per eseguire l’ordine, l’ammiraglio poteva contare sul contingente di marines presenti sul Praire, sulla Florida e sullo Utah per un totale di 787 uomini, tra ufficiali e marinai, le cui azioni erano direttamente coordinate da lui, rimasto a bordo dello Utah, dove aveva fissato il proprio quartier generale, e poste al comando del tenente William Rush. Parallelamente alle azioni preliminari di sbarco dei militari, il console Canada si era recato dal generale Maas, comandante della guarnigione delle truppe huertiste di stanza a Veracruz per chiedergli di «cooperare con le forze navali [statunitensi] per il mantenimento dell’ordine».216 L’alto ufficiale centramericano, al contrario di quanto gli statunitensi si aspettassero, cominciò a preparare i piani per la resistenza delle proprie forze allo sbarco degli americani, già definiti “invasori”. Per integrare il numero delle proprie forze d’interdizione – poco meno di 100 unità –, Maas arrivò al punto di aprire le porte della prigione di San Juan de Ulua e reclutarvi forzatamente i prigionieri, la gran parte dei quali era costituita da coloro che si erano rifiutati di servire nell’esercito di Huerta. Inoltre, egli provvide a distribuire alla popolazione civile armi di precisione, come i fucili Mauser e Winchester.217 Ignari della resistenza civile e militare organizzata da Maas, i marines sbarcarono dalla lancia del Praire sul molo di Veracruz e avviarono le operazioni «come se si stessero recando a una festa di gala».218 Essi non furono in grado di riconoscere alcuni segnali piuttosto chiari dell’opposizione che i messicani stavano riservando loro, come il fatto che la piccola folla di curiosi che si era accalcata al loro arrivo divenisse dapprima 214 Il colonnello House, consigliere personale di Wilson, non appena fu informato dell’ordine impartito a Fletcher, commentò la notizia con una metafora alquanto ottimistica: «Se la casa di un uomo stesse bruciando, egli dovrebbe essere felice di avere dei vicini che arrivassero a soccorrerlo e che provvedessero a non intaccare le sue proprietà. Dovrebbe essere così anche tra le nazioni». Cit. in QUIRK, An Affair of Honor, cit., p. 77. 215 Cit. in ibid., p. 85. 216 Cit. in ibid., p. 87. 217 Cfr. ibid., p. 90. 218 Ibid., p. 93. 127 Lucio Tondo silenziosa e in seguito si disperdesse nelle impervie viuzze interne adiacenti al porto. Appena sbarcati, i marinai occuparono l’ufficio postale e la dogana e si diressero immediatamente a nord per prendere possesso del terminale della ferrovia di Veracruz.219 Mentre i vari reparti convergevano verso il centro cittadino, i soldati americani furono colpiti dal fuoco dei militari messicani, arroccati nel loro fortino. Al contempo, anche i civili e gli ex prigionieri messicani cominciarono a sparare dalle finestre e dai pianerottoli delle abitazioni e dai campanili delle chiese, costringendo i marines a rifugiarsi in alcuni magazzini. Da qui, i militari prelevarono alcuni sacchi contenenti derrate alimentari – come caffè, zucchero e riso – e li ammassarono nell’intersezione delle strade prospicienti il consolato americano, formandovi delle barricate armate con mitragliatrici.220 Nonostante il pronto ripiego delle truppe statunitensi, la resistenza messicana, per quanto male organizzata, provocò 4 morti e 20 feriti tra i marines. Nel tentativo di mettere fine alla battaglia, Fletcher autorizzò l’immediato sbarco di un battaglione di stanza sullo Utah, al fine di rinforzare le posizioni statunitensi. E da Washington, dove seguiva in tempo reale l’evolversi della situazione, Wilson – in riunione permanente con Bryan, Daniels e Lindley Garrison, il segretario alla guerra –, per imprimere una svolta ai combattimenti, impartì l’ordine di utilizzare contro i messicani tutta la potenza di fuoco delle navi.221 A quel punto, Fletcher fece puntare i cannoni da 76 millimetri del cacciatorpediniere Praire, ancorato al largo della città, contro le finestre delle abitazioni messicane da cui provenivano la gran parte degli spari contro gli statunitensi. Appena il cannoneggiamento navale ebbe fine, si contarono 12 morti tra i marines e oltre 100 tra i messicani. Fletcher stilò un proclama in cui dichiarava che, per gli statunitensi, si era reso necessario «sbarcare e assumere il controllo militare della dogana di Veracruz».222 Inoltre, nel tentativo di tranquillizzare i locali, aggiungeva che «non è intenzione della marina militare degli Stati Uniti intromettersi nell’amministrazione degli affari civili di Vera Cruz [sic] più di quanto non si renderà necessario per garantire una condizione di legalità».223 Fletcher incaricò un proprio ufficiale di notificare il proclama 219 Cfr. Consul Canada to the Secretary of State, April 21, 1914, in FRUS, 1914, cit., p. 479. Cfr. The Secretary of State to all American Consuls in Mexico, April 22, 1914, ibid., p. 671. 221 Cfr. Consul Canada to the Secretary of State, April 22, 1914, ibid., p. 480. 222 Admiral’s Fletcher Proclamation, April 22, 1914, ibid., p. 481. 223 Ibid. 220 128 Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz sia a Maas, sia alle autorità cittadine di Veracruz per cercare d’avviare dei negoziati per un cessate-il-fuoco. Per questa ragione, l’ufficiale incaricato e il console Canada si mossero immediatamente alla ricerca di Maas, ma, non essendo riusciti a trovarlo, perché fuori città, cercarono d’incontrare il sindaco di Veracruz o qualunque altra personalità politica cittadina che avesse l’autorità necessaria per ratificare, rendendolo esecutivo, il proclama. Dopo una lunga ricerca, i due statunitensi riuscirono a trovare l’Alcalde, Roberto Díaz, «barricato a casa sua, all’interno della propria stanza da bagno».224 Ma il sindaco si rifiutò di ratificare il proclama di Fletcher, accampando il pretesto di non possederne l’autorità e, nel tentativo di guadagnar tempo, chiese agli statunitensi di discuterne con il generale Maas. Quasi in contemporanea con il tentativo di Canada di far ratificare agli huertisti il proclama di Fletcher, il piroscafo mercantile tedesco Ypiranga raggiunse le acque del porto di Veracruz. All’ingresso della baia, il passo gli fu sbarrato dall’incrociatore Utah e un ufficiale statunitense, il tenente Lamar Leahy, salì a bordo, riportando al comandante tedesco Bonath che le truppe americane erano sbarcate a Veracruz.225 Leahy continuò asserendo che l’ammiraglio Fletcher, a conoscenza del carico di armi e munizioni trasportato dal cargo, aveva ordinato all’Ypiranga di non entrare nel porto a causa del protrarsi dei combattimenti.226 Qualche minuto più tardi, un secondo ufficiale statunitense salito a bordo dell’Ypiranga, aggiunse che Fletcher si era reso disponibile a concedere l’attracco nel porto, ma che non avrebbe consentito lo scarico delle armi.227 Il comandante tedesco, dopo aver fatto prendere visione agli ufficiali dei documenti che attestavano la provenienza americana – e non tedesca – del carico, dichiarò la propria preferenza a rimanere ancorato nella baia di Veracruz.228 Immediatamente dopo, Bonath inviò un telegramma al comandante dell’incrociatore tedesco Dresden (ancorato anch’esso nella baia), Erich von Köhler, in cui, oltre a informare che «l’Ypiranga è [stato] costretto a fermarsi al largo dietro ordine dell’ammiraglio Fletcher»229 e che «qua224 Consul Canada to the Secretary of State, April 22, 1914, ibid., p. 481. Cfr. Consul Canada to the Secretary of State, April 21, 1914, ibid., p. 479. 226 Cfr. QUIRK, An Affair of Honor, cit., p. 98. 227 Cfr. TH. BAECKER, The Arms of Ypiranga: The German Side, in «The Americas», XXX, 1, July 1973, p. 7. 228 Cfr. Consul Canada to the Secretary of State, April 21, 1914, in FRUS, 1914, cit., p. 480. 229 Cit. in BAECKER, The Arms of Ypiranga, cit., p. 7. 225 129 Lucio Tondo lunque continuazione del viaggio è interdetta»,230 chiese al Reichsoffizier: «Ora cosa devo fare?».231 La risposta non tardò a giungere: von Köhler ordinò all’Ypiranga di mettersi a disposizione per caricare a bordo i cittadini tedeschi presenti a Veracruz e, in tal modo, pose il piroscafo sotto la diretta protezione della marina del Reich, di cui, da quel momento, entrò legalmente a far parte. Inoltre, proprio per sottolineare il nuovo status del piroscafo, von Köhler informò Borath che aveva telegrafato a Fletcher, mettendolo al corrente della sua requisizione «sotto il servizio del Reich al fine di accogliere i rifugiati. Ho richiesto 232 all’ammiraglio americano di facilitare tale compito». Lo stazionamento dell’Ypiranga al largo permise alle truppe statunitensi di non disperdere le proprie energie e di concentrare le forze nella continuazione delle operazioni di occupazione di Veracruz. Nonostante l’alto numero di perdite subite negli scontri a terra e dal cannoneggiamento statunitense, i messicani, durante la notte, non avevano cessato di colpire.233 Oltre al fuoco di risposta dei marines, alle prime ore del mattino, si aggiunse quello dei cannoni del Praire, che fu concentrato soprattutto nelle zone da cui proveniva la maggiore opposizione messicana. All’interdizione del Praire, si aggiunse quella dell’incrociatore San Francisco,234 che, dopo essersi ancorato nella baia, cominciò a sbarcare un nutrito numero di uomini destinati a incrementare le unità combattenti. Il fatto che i militari e i civili messicani agissero in modo quasi del tutto autonomo e disorganizzato – per la mancanza di un coordinamento generale – non costituì un vantaggio strategico per i marines. Al contrario, essi continuarono a subire il fuoco dei cecchini e delle mitragliatrici provenienti dai piani superiori delle abitazioni e dai campanili e furono costretti ad «avanzare attraverso gli isolati, casa per casa, aprendosi la strada attraverso i muri diroccati e bonificando ogni edificio prima di accedere a 235 quello successivo». 230 Ibid. Ibid. 232 Cit. in KATZ, The Secret War in Mexico, cit., p. 235. 233 Cfr. Consul Canada to the Secretary of State, April 22, 1914, in FRUS, 1914, cit., p. 480. 234 Cfr. ibid., p. 481. 235 QUIRK, An Affair of Honor, cit., p. 100. 231 130 Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz Per consentire un più veloce avanzamento all’interno della città, dal New Hampshire, South Carolina e Vermont fu fatto sbarcare il II reggimento di seamen che, avanzando dal lungomare, avrebbe dovuto proteggere il fianco sinistro dello schieramento dei marines.236 La scarsa copertura cui erano soggetti, li fece diventare dei «bersagli invitanti. Immediatamente, dalle finestre dell’edificio scolastico, arrivò il crepitio di una mitragliatrice, a cui seguirono molti altri e 237 un certo numero di bluejackets cadde morto o ferito». La carneficina fu evitata solo per l’intervento del capitano Edwin Anderson, che, dal New Hampshire, segnalò l’accaduto e consentì al Praire, al San Francisco e al Chester di scaricare sulla scuola tutta la potenza dei propri cannoni, riducendola in macerie in pochi minuti.238 Ciò permise alle truppe statunitensi di completare l’occupazione della città e ai marines di eliminare definitivamente le ultime sacche di resistenza, stanando e disarmando i cecchini da ogni edificio e aprendo la strada allo sbarco di un alto numero di bluejackets. Sino a tarda serata, oltre 600 uomini, su ordine di Fletcher, entrarono a Veracruz e procedettero alla totale bonifica della città.239 I militari provvidero anche a una prima, sommaria messa in stato di sicurezza igienico-sanitaria della città: nelle piazze furono ammonticchiati oltre 200 cadaveri di civili e di militari messicani, tra cui donne e bambini.240 I corpi dei 19 caduti statunitensi, invece, furono trasportati sulle navi ancorate nella baia della città, insieme ai 47 feriti.241 Di tali operazioni si fece carico anche il console Canada, che, dopo la fine delle ostilità, fece ratificare dall’Alcalde Díaz il proclama con il quale Fletcher ordinava l’occupazione militare di Veracruz e la sua temporanea amministrazione da parte statunitense.242 Nelle prime ore del 22 aprile, mentre i marines erano impegnati a combattere per l’occupazione di Veracruz, il dipartimento di stato dovette fronteggiare una schermaglia di natura diplomatica. L’ambasciatore tedesco a Washington, conte Johann Heinrich 236 Cfr. Consul Canada to the Secretary of State, April 22, 1914, in FRUS, 1914, cit., p. 481. QUIRK, An Affair of Honor, cit., p. 101. 238 Cfr. Consul Canada to the Secretary of State, April 22, 1914, in FRUS, 1914, cit., p. 481. 239 Cfr. Telegram from American Consulate in Veracruz, April 22, 1914, ibid., p. 481. 240 Cfr. ibid. 241 Cfr. ibid. 242 Cfr. Admiral’s Fletcher Proclamation, April 22, 1914, in FRUS, 1914, cit., p. 481. 237 131 Lucio Tondo von Bernstorff, «un diplomatico della vecchia scuola e un raffinato cosmopolita con un considerevole range d’esperienza diplomatica […] che apparteneva decisamente all’ala filo-occidentale dei diplomatici nel ministero degli e243 steri tedesco», dopo averne ricevuto mandato direttamente dal kaiser il giorno precedente, si recò nell’ufficio di Bryan e elevò una protesta ufficiale del Reich contro la temporanea detenzione dell’Ypiranga da parte della marina statunitense. Von Bernstorff, legato al segretario di stato anche da amicizia personale,244 dichiarò che l’azione statunitense era da considerarsi una «violazione del diritto internazionale, dal momento che gli Stati Uniti e il Messico non erano in stato di guerra e non era stato imposto alcun embargo».245 Dopo aver congedato il diplomatico tedesco, Bryan si recò alla Casa Bianca ed espose a un Wilson quasi incredulo246 le ragioni addotte da von Bernstorff. Il presidente incaricò Robert Lansing, vice segretario di stato e consigliere giuridico dello State Department, di verificare se l’Auswärtigen Amtes avesse dalla propria parte le norme del diritto internazionale.247 Quando, dopo poche ore, Lansing confermò l’esattezza delle posizioni tedesche a un Wilson ormai furioso,248 Bryan fu costretto a riconvocare von Bernstroff nel proprio ufficio. Alla presenza del Reichsdiplomat, Bryan scrisse di suo pugno un memorandum con il quale, di fatto, gli Stati Uniti inoltravano al Kaiserreich le proprie scuse ufficiali. Per evitare l’apertura di una crisi diplomatica formale, il segretario di stato addossò a un misunderstanding l’aver impedito all’Ypiranga di attraccare a Vera243 R. DOERRIS, Imperial Berlin and Washington: New Lights on Genrmany’s Foreign Policy and America’s Entry into World War I, in «Central European History», XI, 1, March 1978, p. 27. 244 Cfr. ibid. Von Bernstorff, pur essendo legato per ragioni familiari e culturali alla dinastia degli Hohenzollern e alla tradizione militare prussiana, essendo nato a Londra e avendo sposato una cittadina americana, non aveva mai fatto mistero di nutrire delle simpatie liberali. Cfr. ibid. Sulla vita e l’azione diplomatica di von Bernstorff negli Stati Uniti, si veda R. DOERRIS, Washington-Berlin, 1908-1917, Die Tätigkeit des Botschafters Johann Heinrich von Bernstorff in Washington, Düsseldorf, Pädagogischer Verlag Schwann, 1975. 245 Cfr. Der Staatssekretär des Auswärtigen Amtes von Jagow an Kaiser Wilhelm II., z.Z. in Korfu, 25. April 1914, in Die Diplomatischen Akten des Auswärtigen Amtes, 1871-1914 – Herausgegeben im Auftrage des Auswärtigen Amtes – (d’ora in poi, DAAA), 39. Band, Das Nahen des Weltkrieges, 19121914 (d’ora in poi, DNW), Berlin, Deutsche Verlagsgesellschaft für Politik und Geschichte, 1926, p. 99. 246 Cfr. J. DANIELS, The Wilson Era: Years of Peace 1910-1917, Chapel Hill, N.C., University of North Carolina Press, 1944, p. 199. 247 Cfr. ibid., p. 200. 248 Cfr. ibid., p. 201. 132 Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz cruz e aggiunse che «l’ammiraglio Fletcher è stato autorizzato a convocare il capitano della nave e a presentare le proprie scuse e spiegazioni».249 Ma, al di là delle mere formalità, Bryan cercò di ottenere un risultato positivo dalla situazione che si era determinata. Chiese al Reich, tramite von Bernstorff, l’assicurazione che le armi dell’Ypiranga non fossero consegnate a Huerta, dichiarando la disponibilità degli Stati Uniti a non estendere su di esse un controllo diretto: «Da un lato, gli Stati Uniti sperano che le munizioni destinate al generale Huerta siano sbarcate alla dogana di Veracruz, dopo che questa è passata sotto il controllo del governo statunitense; dall’altro, questo governo assicura che non si arrogherà il diritto – poiché non esiste uno stato di guerra – d’interferire con la partenza della nave o di esercitare un controllo sulle suddette munizioni sino a quando esse saranno custodite 250 presso la dogana controllata dagli Stati Uniti». La posizione espressa da Bryan, di fatto, riusciva quasi a ribaltare una capitolazione e un’umiliazione degli Stati Uniti, che sembravano inevitabili. Evitando una forzatura diplomatica che poteva condurre a uno scontro militare, lo State Department conseguiva il risultato di contenere la propensione del Reich a rifornire militarmente Huerta, non permettendogli di rafforzarsi contro i costituzionalisti. Alcuni giorni dopo la nota di scuse formali dell’amministrazione Wilson, i funzionari dell’Auswärtigen Amtes si resero conto della manovra diplomatica statunitense e furono costretti ad ammettere che, «dal punto di vista del diritto internazionale, la posizione americana è inattaccabile e ogni ulteriore protesta tedesca sarebbe del tutto ingiusti251 ficata». Il 23 aprile, Bryan si recò personalmente presso l’ambasciata tedesca per richiedere a von Bernstorff l’assicurazione formale che l’Ypiranga non avrebbe consegnato il carico d’armi nelle mani di Huerta.252 Non appena von Bernstorff inoltrò a Berlino la richiesta ufficiale dello State Department, il primo ministro prussiano – ex cancelliere –, 249 Botschafter Johann Heinrich von Bernstorff dem Auswärtigen Amtes, 22. April 1914, in DAAA, DNW, p. 102. 250 Ibid. 251 Cit. in KATZ, The Secret War in Mexico, cit., p. 236. 252 Cfr. Botschafter Johann Heinrich von Bernstorff dem Auswärtigen Amtes, 23. April 1914, in DAAA, DNW, p. 109. 133 Lucio Tondo Bernhard von Bülow, incontrò Albert Ballin, il direttore generale della compagnia navale Hamburg-Amerika.253 Lo statista, autorizzato dal Reichskanzler, Theobald von Bethmann-Hollweg, espose a Ballin le preoccupazioni circa il rischio concreto di uno scontro militare con gli Stati Uniti qualora la compagnia avesse voluto onorare in toto gli impegni assunti con Huerta. Di fronte alla pressione politica proveniente dai vertici istituzionali, Ballin sostenne che, per evitare una recrudescenza dei rapporti con gli Stati Uniti, «la sua compagnia era disposta a far in modo che il carico [dell’Ypiranga] costituito da armi e munizioni, da Veracruz ritorn[asse] in Germania».254 Con la tacita assicurazione della compagnia navale, von Bethmann-Hollweg autorizzò l’Auswärtigen Amtes a trasmettere al dipartimento di stato la volontà tedesca di non consegnare a Huerta il materiale bellico.255 Von Bernstorff fece giungere la decisione della cancelleria a Bonath tramite von Hintze e il comandante si mosse immediatamente dalla baia verso il porto di Veracruz per sbarcare tutta la merce stivata di natura non militare e per caricare a bordo tutti i sudditi tedeschi che intendevano abbandonare la città.256 Da Veracruz l’Ypiranga fece rotta verso Tampico, ma qui fu letteralmente costretta dai cittadini americani a lasciare il molo, perché preoccupati che un assalto delle fazioni messicane per entrare in possesso delle armi conservate nella sua stiva potesse riportare il caos nella città. L’Ypiranga fece ritorno a Veracruz e lì stazionò, sotto il controllo diretto della Dresden, sino a fine maggio, quando, su pressione di Martin Schröder, inviato in Messico dalla sede centrale della compagnia marittima, salpò alla volta di Puerto México, a circa 200 miglia a sud, dove scaricò le armi e le consegnò a Huerta. Il fatto, nonostante determinasse una protesta formale di un Josephus Daniels adirato,257 253 Cfr. Preußischer Kanzker Bernhard von Bülow dem Reichskanzler Theobald von Bethmann-Hollweg 23. April, 1914, in DAAA, DNW, pp. 112-113. 254 Ibid., p. 113. 255 Cfr. Botschafter Johann Heinrich von Bernstorff dem Auswärtigen Amtes, 25. April 1914, in DAAA, DNW, p. 118. 256 Cfr. MEYER, The Arms of the Ypiranga, cit., p. 553. 257 Nelle sue memorie, Daniels descrisse la consegna delle armi a Huerta, mettendo in evidenza la sua discordanza con l’atteggiamento piuttosto cauto mantenuto dal dipartimento di stato. Egli sostenne che era stato «assalito da un senso di frustrazione e d’indignazione quando avevo saputo che […] le armi e le munizioni, negli ultimi giorni di maggio, erano state scaricate a Puerto México e, presumibilmente, erano state consegnate alle forze di Huerta. Per la marina fu come ricevere una botta in testa. Quando avevamo conquistato la dogana [di Veracruz], il nostro scopo principale era stato quello di prevenire che le armi fossero rese disponibili all’impresentabile Huerta. […] Naturalmente, in tutte le questioni concernenti la diplomazia e il diritto internazionale, lo State Department era supremo. Io ero del tutto impotente». DA- 134 Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz destò preoccupazione anche a Berlino. Paul von Hintze, che non poteva essere accusato di filo-americanismo, inoltrò all’Auswärtigen Amtes un memorandum che esternava tutta la propria preoccupazione circa il possibile inasprimento dei rapporti con gli Stati Uniti: «I nostri rivali in Messico non esiteranno a descrivere la consegna delle armi e delle munizioni come la violazione di un accordo assunto precedentemente e Washington ne approfitterà per descriverci come 258 “ambigui” e “ipocriti”». Le stesse parole di von Hintze, di fatto, dimostravano che, nonostante Huerta avesse ricevuto il carico d’armi, l’amministrazione Wilson era riuscita a ridimensionare notevolmente la capacità politico-militare del Kaiserreich d’influenzare le dinamiche interne della politica messicana e di mettere in discussione il primato americano nell’emisfero meridionale. L’interdizione statunitense all’attracco dell’Ypiranga a Veracruz e la crisi politicodiplomatica sfiorata con il Reich guglielmino erano state affrontate da Wilson con la certezza che ciò avrebbe fornito un supporto concreto alle forze costituzionaliste di Carranza. Al contrario, già il 21 aprile, mentre i marines erano impegnati a combattere a Veracruz, dalle forze componenti lo schieramento anti-huertista si levarono delle proteste veementi contro l’azione degli Stati Uniti, e alcune città – che, nelle intenzioni dell’amministrazione Wilson, avrebbero dovuto ribellarsi a Huerta – si sollevarono apertamente contro le istituzioni americane. Fomentati dalla propaganda dei giornali filohuertisti,259 il 21 aprile, alcuni gruppi cominciarono a marciare per le strade di Città del Messico, preceduti da alcuni scolari che inneggiavano alla morte dei “Gringos” e, in una piazza del centro cittadino, abbatterono la statua dedicata di George Washington sostituendola con un piccolo busto raffigurante frate Miguel Hidalgo, un eroe nazionaNIELS, The Wilson Era, cit., pp. 200-201. Konsul Paul von Hintze dem Reichskanzler Theobald von Bethmann-Hollweg, 3. Juni 1914, in DAAA, DNW, pp. 143-144. 259 Il 21 aprile, il quotidiano di Città del Messico «El Imparcial», scrisse che «il suolo della patria è contaminato dall’invasione straniera! Potremmo morire, ma dobbiamo ucciderli tutti». Cit. in QUIRK, An Affair of Honor, cit., p. 107. Il titolo in prima pagina di un altro giornale, l’«El Indipendiente», recitava: «Mentre i messicani erano massacrati dai porci gringos, le campane suonavano per la loro gloria» (ibid.) e «La Patria» scriveva un laconico «Vendetta! Vendetta! Vendetta». Ibid. 258 135 Lucio Tondo le.260 La folla si spostò, poi, presso una sede consolare statunitense, dove, dopo esser penetrata all’interno, riuscì a impadronirsi di alcuni fucili. Un altro gruppo di facinorosi prese d’assalto l’American Club, l’American Photo Supply Company e il Porter Hotel, la cui Tea Room era un tradizionale luogo di ritrovo dei cittadini statunitensi.261 Preoccupato per la loro l’incolumità, O’Shaughnessy distribuì ai connazionali delle armi per permettere loro di difendersi dagli attacchi personali, anche se il governatore del distretto federale, Eduardo Inturbide, ne scongiurò l’eventualità, ponendoli sotto la protezione delle sue truppe.262 Manifestazioni anti-americane si verificarono anche in altre aree del paese poste sotto il diretto controllo di Huerta. A Progreso e a Mazatlán, le residenze di alcuni cittadini statunitensi furono attaccate e, in seguito, la folla si spostò presso la sede del consolato americano, dove fu dispersa dalla polizia locale.263 A Tampico, la situazione fu più complicata a causa della precedente crisi e della presenza tangibile della forza militare degli Stati Uniti. All’imbocco del fiume Pánuco stazionavano ancora alcune delle navi da guerra impiegate durante l’incidente precedente e i locali paventavano che da esse potessero sbarcare i marines per procedere all’occupazione della città dopo la presa di Veracruz. Il pomeriggio del 21 aprile, il governatore della città, Morelos Zaragoza, pubblicò un proclama, in cui invitava i suoi cittadini a opporsi con la forza a ogni tentativo d’occupazione.264 Nell’arco di pochi minuti, una folla inferocita si assemblò sulla piazza principale dove fu arringata da oratori che incitavano alla violenza e da lì raggiunse lo Stamborn’s Restaurant, concentrandosi presso il consolato americano dove, tra urla e tentativi d’assalto, stazionò tutta la notte.265 Il mattino successivo, il governo di Huerta convocò O’Shaughnessy e, dopo averlo dichiarato persona non grata, gli intimò di lasciare il paese entro il 24 aprile, rompendo ogni tipo di relazione diplomatica con gli Stati Uniti.266 A causa della partenza di O’Shaughnessy, che, ad eccezione d’una missione in Au260 Cfr. ibid., p. 108. Cfr. ibid., p. 109. 262 Cfr. Chargé O’Shaughmessy to the Secretary of State, April 22, 1914, in FRUS, 1914, cit., p. 484. 263 Cfr. QUIRK, An Affair of Honor, cit., p. 109. 264 Cfr. ibid., p. 110. 265 Cfr. Chargé O’Shaughmessy to the Secretary of State, April 22, 1914, in FRUS, 1914, cit., p. 484. 266 Cfr. ibid. 261 136 Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz stria, non ricevette nessun altro incarico di rilievo, Wilson, dopo aver affidato le cure degli affari diplomatici al ministro brasiliano Cardoso de Oliveira,267 per comunicare con Carranza e i costituzionalisti si affidò agli uffici dello Special Agent del dipartimento di stato in Messico, George Carothers. Wilson, già il 21 aprile, aveva chiesto d’incontrare Carranza «per fargli conoscere le reali intenzioni del presidente» e per evidenziare come lo sbarco delle truppe a Veracruz fosse stato effettuato solo «per costringere [Huerta] a una particolare riparazione».268 Wilson, continuava Carothers, «era sempre stato attento a distinguere tra il generale Huerta e i suoi supporters da un lato, e il resto del popolo messicano, dall’altro»269 e sperava «che il popolo messicano e i costituzionalisti non interpretassero male le sue azioni».270 Per tutta risposta, Carranza replicò con una lettera in cui, dopo aver elencato minuziosamente tutti i misfatti «dell’usurpatore Huerta»,271 asseriva che essi non sarebbero «mai stati sufficienti per trascinare la nazione messicana in una guerra contro gli Stati Uniti».272 Ma, piuttosto che accettare una tacita alleanza con gli Stati Uniti, che, agli occhi dei messicani, avrebbe reso lui e la sua fazione politica connivente con “degli occupanti”,273 denunciò che «l’invasione del nostro territorio e la permanenza delle vostre forze nel porto di Vera Cruz [sic], sono una violazione dei diritti che rendono possibile la nostra esistenza come un’entità libera e con una sovranità 274 indipendente». Proprio per tale ragione, Carranza, dichiarandosi «interprete del sentimento della maggioranza del popolo messicano, così geloso dei propri diritti e rispettoso dei diritti dei popoli stranieri, invit[ava gli statunitensi] a sospendere ogni azione ostile già intrapresa e abbandonare e ordinare alle vostre forze di evacuare tutti i luoghi occu275 pati nel porto di Vera Cruz [sic]». 267 Cfr. ibid., p. 485. The Secretary of State to Special Agent Carothers, April 21, 1914, in FRUS, 1914, cit., p. 484. 269 Ibid. 270 Ibid. 271 Special Agent Carothers to the Secretary of State, April 22, 1914, ibid., p. 484. 272 Ibid., p. 485. 273 Ibid. 274 Ibid. 275 Ibid. 268 137 Lucio Tondo Al contrario di quello manifestato da Carranza, l’atteggiamento di Francisco (Pancho) Villa nei confronti dell’amministrazione Wilson fu più conciliante. Ciò era dovuto essenzialmente al fatto che Villa contendeva apertamente la leadership politica del fronte anti-huertista a Carranza, al fine di imprimere una svolta più radicale alla lotta di liberazione dal dittatore. A ciò si doveva aggiungere un aspetto prettamente strategicomilitare: la presenza delle truppe statunitensi a Veracruz e a Tampico avrebbe costretto Huerta a stornare gran parte delle proprie truppe contro gli americani, favorendo l’avanzata di Villa e Zapata. Il 23 aprile, Villa incontrò Carothers e, utilizzando un linguaggio alquanto colorito, dichiarò d’essere «uno dei nostri migliori amici e che ci considera tra i suoi migliori amici perché ci stiamo impegnando in una guerra che non desiderava276 mo». Aggiunse in seguito che, «per quanto la cosa lo potesse preoccupare, egli desidera[va] che prend[essimo] Veracruz e la ten[essimo] in modo così ferreo da non 277 permettere mai a Huerta di poterla raggiungere». Carothers si disse fiducioso del fatto che gli Stati Uniti avrebbero potuto utilizzare Villa come elemento utile a scardinare l’atteggiamento di chiusura di Carranza: «La mia impressione è che egli sia sincero e che forzerà Carranza a accettare la nostra amicizia».278 Una speranza fatta propria anche da Bryan, che autorizzò Carothers a continuare a mantenere i contatti con Villa, al fine di evitare che l’opinione pubblica statunitense – di cui il partito repubblicano si fece portavoce – accusasse Wilson di aver sacrificato invano le vite dei soldati: «L’opinione pubblica statunitense è stata profondamente disturbata dall’atteggiamento dimostrato dal generale Carranza e ha manifestato 279 un profondo risentimento nei suoi riguardi». 276 Special Agent Carothers to the Secretary of State, April 23, 1914, ibid., p. 485. Ibid. 278 Ibid. 279 The Secretary of State to Special Agent Carothers, April 24, 1914, ibid., p. 487. 277 138 Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz Conclusioni Il rifiuto di Carranza del concreto aiuto politico-militare offerto dagli Stati Uniti rischiò di vanificare le ragioni stesse che avevano mosso Wilson a sostenere la causa della compagine anti-huertista, a ritirare l’embargo delle armi, a occupare Veracruz e a sfiorare la crisi con il Reich. Per ottenere un minimo risultato politico-diplomatico dall’impegno profuso, Wilson acconsentì all’offerta di mediazione tra le parti, proveniente da Argentina, Brasile e Cile.280 Carranza accettò l’invito con una certa riluttanza e solo in via di principio, rifiutandosi d’inviare dei propri delegati alla conferenza, per ergersi a difensore dell’indipendenza e dell’autonomia decisionale messicana. Ciò soprattutto per evitare che, di fronte ai propri connazionali, Huerta potesse interpretare il ruolo di unico resistente all’invasione dei gringos e per riaffermare la sovranità messicana contro qualunque ingerenza straniera negli affari interni.281 Huerta, al contrario, decise di prendere parte alla conferenza, convinto che ciò, oltre a condurre a un accordo con i suoi oppositori – che si sarebbe potuto tradurre in una tregua e in un congelamento delle rispettive posizioni raggiunte sul campo –, avrebbe consentito di normalizzare i rapporti con gli Stati Uniti.282 Proprio per evitare il verificarsi di una tale eventualità, Wilson, dopo aver fornito il placet statunitense all’iniziativa dei paesi latino-americani, rimase fermo nel proposito di evitare che gli Stati Uniti vi svolgessero un ruolo attivo. La conferenza, come dichiarò a una press conference, avrebbe dovuto limitarsi «alla discussione della situazione interna messicana, per tentare di rinvenire un regime in grado di soddisfare tutte le fazioni messicane».283 La conferenza avviò i suoi lavori il 21 maggio presso la Niagara Falls’ Clifton House, sul lato canadese delle cascate, e gli Stati Uniti inviarono dei delegati che vi presero parte in qualità di meri osservatori, e non come parti in causa.284 I mediatori argentini, brasiliani e cileni cercarono per oltre un mese di riuscire a ottenere una formula capace di soddisfare Huerta, i costituzionalisti di Carranza e gli Stati Uniti. Il dittatore si rifiutò di riconoscere come presidente della riunione un “rivoluzionario” e i costituzio280 Cfr. Minister Fletcher to the Secretary of State, April 24, 1914, ibid., p. 487. Cfr. Special Agent Carothers to the Secretary of State, April 25, 1914, ibid., p. 488. 282 Cfr. Chargé Lorillard to the the Secretary of State, April 27, 1914, ibid., p. 491. 283 Cit. in QUIRK, An Affair of Honor, cit., p. 118. 284 Cfr. The Special Commissioners to the Secretary of State, May 21, 1914, in FRUS, 1914, cit., p. 503. 281 139 Lucio Tondo nalisti esclusero aprioristicamente anche solo di ascoltare le richieste provenienti dai delegati di Huerta.285 Con tali premesse, la conferenza nasceva già con un handicap originario e i lavori proseguirono a rilento sino a fine giugno, quando si arenarono definitivamente di fronte all’impasse rappresentata dal perdurare delle posizioni raggiunte sul campo da ognuna delle parti. I marines occupavano ancora Veracruz e Wilson non avrebbe ordinato l’evacuazione della città almeno sino a quando Huerta avesse detenuto il potere. Da parte sua, il dittatore intendeva resistere a oltranza all’avanzare delle armate di Carranza verso Città del Messico. La soluzione arrivò quando le truppe di Pancho Villa, Alvaro Obregón e Pablo Gonzáles, dopo aver sconfitto in più riprese le truppe di Huerta, obbligarono il dittatore, posto sotto la diretta protezione del Kaiser, a scappare in Giamaica a bordo dell’incrociatore Dresden.286 Al di là dell’atteggiamento tenuto successivamente dall’amministrazione Wilson nei riguardi dei vincitori di Huerta e dell’involuzione della dinamica politica messicana, il primo approccio diplomatico nei confronti di un paese su cui gli Stati Uniti avevano esteso le prerogative garantite dalla “dottrina Monroe” mise in evidenza alcuni aspetti peculiari della politica estera statunitense non solo nei confronti del Messico, ma soprattutto delle potenze europee. Inoltre, ciò testimoniava direttamente che, come ha osservato Thomas J. Knock, «con la possibile eccezione di Franklin D. Roosevelt, nessun altro presidente ha esercitato un maggior controllo personale sulla politica estera».287 Una tendenza questa che, nonostante appena insediatosi, avesse dichiarato a un amico di Princeton che «sarebbe ironico se fossi costretto a confrontarmi con questioni di politica estera»,288 egli evidenziò immediatamente già all’avvio della crisi politico-diplomatica che si stava conclamando tra gli Stati Uniti e il Messico. Una conferma diretta a tale modus operandi, in effetti, era già scritta in nuce nella stessa scelta del segretario di stato della sua prima amministrazione. William Jennings Bryan «era stato impegnato in politica lungo tutta la sua vita adulta […], ma le sue qualità amministrative erano minime e la sua conoscenza degli affari pubblici era ristretta e parrocchiale, esattamente come il suo orizzonte 289 scientifico». Proprio per tale ragione e, anche per bypassare un’impostazione ideologica di piena a285 Cfr. The Special Commissioners to the Secretary of State, May 22, 1914, ibid., pp. 504-505. Cfr. KATZ, The Secret War in Mexico, cit., pp. 247-249. 287 KNOCK, To End All Wars, cit., p. 20. 288 BAKER, Woodrow Wilson, cit., vol. IV, p. 55. 289 QUIRK, An Affair of Honor, cit., p. 31. Sulla vita e l’azione politica di William Jennings Bryan, si vedano, tra gli altri, G.N. MAGLIOCCA, The Tragedy of William Jennings Bryan: Constitutional Law and the Politics of Backlash, New Haven, CT, Yale University Press, 2011; M. KAZIN, A Godly Hero: The Life of William Jennings Bryan, Norwell, MA, Anchor Press, 2007; R.W. CHERNY, A Righteous Cause: The Life of William Jennings Bryan, Norman, OK, University of Oklahoma Press, 1994. 286 140 Woodrow Wilson, la crisi di Veracruz desione al pacifismo più radicale (che si evidenzierà a partire dallo scoppio delle ostilità in Europa), Bryan, nel 1915, fu allontanato dal suo incarico.290 Tale approccio, che con gli anni divenne sempre più personalistico, lasciava presupporre la volontà di non tenere in considerazione alcun elemento tecnico-burocratico che potesse frapporsi al delineamento e alla gestione della politica estera. Nel caso politico-diplomatico che si aprì con l’affaire Tampico, il cui culmine si raggiunse con la crisi di Veracruz, ciò si tradusse in una scarsa disponibilità a prestare ascolto alle notizie e alle impressioni provenienti dai canali diplomatici ufficiali, ritenuti o collusi con gli antagonisti messicani e tedeschi, o tendenti all’assunzione d’iniziative diplomatiche aderenti alle linee guida della Old Diplomacy. Wilson preferì affidarsi, al contrario, al parere e alle percezioni dei propri consiglieri personali, che, secondo la sua analisi, potevano garantire un’adesione quasi acritica all’impianto ideologico della New Diplomacy che si era già chiaramente delineato all’indomani del proprio insediamento alla Casa Bianca. In riferimento ai paesi vicini, già nel 1913, Wilson aveva palesato chiaramente come la politica statunitense avrebbe dovuto assumere i contorni di una missione di civiltà democratica. Il 4 marzo 1913, nell’assise del senato, egli sostenne poco velatamente che i paesi latino-americani avrebbero dovuto organizzarsi sugli stessi princìpi democratici degli Stati Uniti: «Uno dei principali obiettivi della mia amministrazione sarà di coltivare l’amicizia e di meritare la fiducia delle repubbliche nostre sorelle del Centro e Sud America. […] Riteniamo […] che il giusto governo si basi sempre sul consenso dei governati, che non esista la libertà senza l’ordine fondato sulla legge e sulla pubblica approvazione. Renderemo questi princìpi la base di un mutuo rapporto, rispetto e disponibilità tra 291 di noi e le nostre repubbliche sorelle». Di fatto, Wilson aveva enunciato una presa di posizione netta, un assunto ideale e politico, il cui corollario che ne discendeva fu reso noto senza mezzi termini nel novembre dello stesso anno, quando il presidente dichiarò a William Tyrell, ambasciatore britan- 290 Sulla politica estera di Bryan e sui successivi dissidi con Wilson si vedano, tra gli altri, P.E. COLETTA, William Jennings Bryan: Political Evangelist, 1860-1908, Lincoln, NE, University of Nebraska Press, 1964; ID., William Jennings Bryan: Progressive Politician and Moral Statesman, 1909-1915¸ Lincoln, NE, University of Nebraska Press, 1969; W.H. SMITH, The Social and Religious Thought of William Jennings Bryan, Lawrence, KS, Coronado Press, 1975. 291 Statement on Relations with Latin America, March 4, 1913, in PWW, vol. 27, cit., p. 172. 141 Lucio Tondo nico a Washington: «Sto andando a insegnare alle repubbliche sudamericane a eleggere degli uomini degni».292 Letta in una tale ottica, la crisi politico-diplomatica e la seguente occupazione militare di Veracruz, nella primavera del 1914, è rappresentativa tanto della gestione dei rapporti politico-diplomatici statunitensi a carattere regionale, quanto di quelli a livello internazionale. Per Wilson, l’invio dei marines a Veracruz, infatti, non rappresentò solo l’evoluzione della propria Weltanschauung, maturata nell’esperienza accademica, e l’affermazione del posto che nel mondo doveva spettare agli Stati Uniti come latori della democrazia e della libertà. Essa costituì il momento in cui l’approccio idealistico della New Diplomacy – innestata sul realismo della difesa della “dottrina Monroe” – si contrappose, in anticipo di pochi anni, seppur ancora solo a livello diplomatico, alla Weltpolitik tedesca. Pochi mesi prima di scatenare la guerra in Europa, il Kaiserreich aveva manifestato tutta la propria lontananza dai princìpi liberal-democratici, fornendo un riconoscimento de jure al governo dittatoriale e sanguinario di Victoriano Huerta, giunto al potere con un golpe dopo l’omicidio di Francisco Madero, presidente eletto con libere elezioni. Tale commistione di eventi politico-diplomatici condusse Wilson ad assumere un atteggiamento fermo, che, come ha sottolineato Alvin Josephy, permise all’«idealismo di Wilson di acquisire il carattere di un auto-giustizialismo rigido, da crociata, evidente, per paradosso, nelle prepotenti interferenze imperialistiche negli affari degli altri paesi».293 “Interferenze imperialistiche” che, pur traducendosi in aperti interventi militari, traevano origine da un profondo senso idealistico, che poneva l’impianto democratico statunitense come termine di paragone istituzionale con cui misurare l’avanzamento sociale, culturale e politico dell’emisfero meridionale. 292 Cit. in A.S. LINK, Woodrow Wilson and the Progressive Era, 1910-1917, New York, Harper & Brothers,1954, pp. 190-191. 293 A.M. JOSEPHY, JR., The American Heritage: History of the Congress of the United States, New York, American Heritage Publishing Co., Inc., 1975, p. 323. 142 Eunomia. Rivista semestrale di Storia e Politica Internazionali Eunomia III n.s. (2014), n. 1, 143-156 e-ISSN 2280-8949 DOI 10.1285/i22808949a3n1p143 http://siba-ese.unisalento.it, © 2014 Università del Salento IDA LIBERA VALICENTI Un episodio poco conosciuto degli anni della seconda guerra mondiale: l’eccidio dei pugliesi di Crimea (1942-1945) Abstract: In the mid-nineteenth century, a community of sailors and farmers of Puglia emigrated to the shores of the Black Sea. They settled on the Strait of Kerch, a crucial trading node between the Russian Empire and the Mediterranean. The history of this small community is intertwined with Soviet Communism. Many of the Apulian immigrants were accused of collaboration with Fascism and they were arrested, tortured and deported to the gulag in Siberia. Most of them died because of hunger and hardship cold. The survivors, after twenty-five years since the collapse of Soviet Communism, have not recognized by the competent authorities for what they have suffered. They have experienced a terrible deportation but no one knows. Keywords: Deportation; Minorities; Crimea. 1. La minoranza italiana in Crimea: il contesto storico Al termine di lunghe guerre con l’impero ottomano e i suoi vassalli, i Khan di Crimea, nel 1787 la Russia conquistò il canato di Crimea e il litorale settentrionale del Mar Nero.1 Essa consolidava così il suo avvicinamento al mare e la sua apertura verso occidente. La Nuova Russia, proiettata verso il Mediterraneo,2 fu rapidamente popolata da flussi migratori provenienti da paesi diversi – Serbia, Germania, Polonia, Bulgaria, Grecia, Armenia, Romania, Italia3 – attratti dagli ingenti benefici promessi dalla zarina Caterina II. Questi collaborarono allo sviluppo della Nuova Russia, lasciando importanti testimonianze archeologiche e artistiche e contribuendo a costruire quella struttura multietnica e multiculturale che caratterizzò significativamente l’impero russo.4 Si veda, sull’argomento, A.W. FISHER, The Russian Annexion of the Crimea, Cambridge, Cambridge University Press, 1970. 2 Cfr. L. MASCILLI MIGLIORINI - M. MAFRICI, a cura di, Mediterraneo e/è Mar Nero: due mari tra età moderna e contemporanea, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2012, pp. 139-162. 3 Cfr. A. MAKOLKIN, One Hundred Years of Italian Culture on the Shores of the Black Sea (1794-1894), Lewiston-Queenstown-Lampeter, The Edwin Mellen Press, 2000, pp. 27, 29, 42-44, 174-197, 204-216, 220-225. 4 Cfr. A. KAPPELER, La Russia. Storia di un impero multietnico, Roma, Edizioni del Lavoro, 2006, pp. IX-XXI. 1 Ida Libera Valicenti Posta sulle sponde del Mar Nero, la Crimea acquisì un significato particolare all’interno dell’impero,5 una sorta di Costa Azzurra propaggine del Mediterraneo e legame culturale con l’antichità classica. I decenni successivi alla conquista russa furono di progressivo insediamento di comunità tatare,6 di musulmani di religione sunnita e di comunità cristiane, tra cui una piccola comunità italiana, di origine pugliese,7 insediamento che determinò un rapido mutamento del quadro etnico-culturale della regione.8 Giacinto Fossati-Reyneri, regio applicato presso il consolato generale di Odessa, redasse, nel dicembre 1876, un importante documento storico sui flussi di migrazione italiana nella Nuova Russia.9 Dal suo memoriale emerge che gli italiani lì residenti erano numericamente inferiori alle altre comunità – quelle più consistenti, infatti, erano la greca e la tedesca – ma «gruppo da ogni altro separato e distinto, da meritare di venire segnalato agli studi ed alle considerazioni di quanti prendono a cuore gli in10 teressi degli Italiani fuori patria». Questa piccola comunità italiana arrivò a Kerch11 tra il 1830 e il 1870, attratta «dalle promesse di buoni guadagni e dal miraggio di fertili terre quasi vergini»,12 offerte dallo zar a buon prezzo, per ripopolare e rivitalizzare i nuovi territori conquistati. Nel 1884, il console di Odessa, Salvatore Castiglia, scriveva così al ministro italiano: «L’importanza numerica di quella nostra colonia e varie circostanze che mi accingo ad esporre a V.E. rendono necessario non solamente di porre un termine all’attuale sistema provvisorio, occasionato dalla vacanza Si veda, al riguardo, N. ASCHERSON, Mar Nero. Storie e miti del Mediterraneo d’Oriente, Torino, Einaudi, 1999. 6 Sull’argomento, si veda A.W. FISHER, Between Russian, Ottomans and Turks: Crimea and Crimean Tatars, Istanbul, Isis Press, 1998. 7 Cfr. G. GIACCHETTI BOICO - G. VIGNOLI, L’olocausto sconosciuto. Lo sterminio degli italiani di Crimea, Roma, Edizioni il Settimo Sigillo, 2008, p. 7. 8 Cfr. M. KOZELSKY, Christianizing Crimea: Shaping Sacred Space in the Russian Empire and Beyond, Dekalb, Northern Illinois University Press, 2009, pp. 41-46. 9 Cfr. Immigrazioni, Emigrazioni e Colonie nella Russia Meridionale – Memoria dell’Avv. Giacinto Fossati-Reyneri, R. Applicato al Consolato Generale d’Italia in Odessa, dicembre 1876, in «Bollettino Consolare», XIII, parte I, 1877, Biblioteca Ministero Affari Esteri di Roma. 10 Ibid. 11 La città di Kerch si trova nello stretto di Jeni-Kalé, l’antica Panticapea. Stretto davvero, poco più di quattro chilometri, dove il Mar Nero si confonde con le acque del Mare di Azov. All’inizio del XIX secolo, la popolazione era al di sotto dei ventimila abitanti, ma si raddoppierà coi flussi migratori di metà Ottocento. 12 G. VIGNOLI, Gli italiani dimenticati, Milano, Giuffré, 2000, p. 318. 5 144 L’eccidio dei pugliesi di Crimea (1942-1945) del posto di agente, ma mi spingono a sottomettere a V.E. un progetto atto, a mio avviso, a portare un completo assetto negli affari di quell’ufficio consolare. La colonia nazionale di Kertch [sic] conta per la maggior parte di italiani della costa adriatica del regno, dediti al cabotaggio e come padroni e come marinai, supera il migliaio. Composta da elementi attivi, intraprendenti che, bene consigliati ed indirizzati, potrebbero dare i migliori risultati, lasciati oggigiorno sotto molti rispetti 13 non poco a desiderare». Essi provenivano soprattutto dalla Puglia: molti agricoltori, frutticoltori, orticoltori, viticoltori e marinai di Bisceglie, Molfetta, Trani e Bari, «che l’unica ragione del lucro spinse a espatriare, appartenenti alle ultime classi della gente di mare, senza coltura e con un concetto ben indefinito dei loro doveri di cittadini, non ebbero e non hanno che un solo scopo: far denari e partirsene. Mezzo la navigazione di piccolo cabotaggio che esercitano nel Mare di Azoff [sic] e nei fiumi affluenti, nonché alcuni altri mestieri attinenti al caricamento dei bastimenti ed allo alleggerimento che si fa dei medesimi nelle acque basse presso 14 Kertch, allorché si accingono a far rotta per Mar Nero». La comunità pugliese, ben presto, si distinse per le sue abilità, contribuendo al fiorire dell’agricoltura e del commercio di Kerch con gli altri porti del Mar d’Azov e del Mar Nero, soprattutto nell’ambito delle esportazioni di carbone e grano del Donec con l’Italia, creando ditte commerciali che s’imposero, per la loro importanza, in tutta la penisola.15 Tuttavia, mentre i contadini dediti all’agricoltura, alla frutticoltura, orticoltura e viticoltura poterono mantenere la cittadinanza italiana, gli addetti alla navigazione – marinai dipendenti delle navi russe e proprietari delle imbarcazioni di trasporto delle merci nei porti del Mar d’Azov e del Mar Nero, da Taganrog a Odessa – dovettero acquisire la cittadinanza russa: «Il cabotaggio delle coste dell’impero essendo riservato esclusivamente alla bandiera russa, russi debbono essere i padroni ed i regolamenti marittimi prescrivono in quale proporzione gli stranieri possono entraCastiglia al Ministro, n. 1065 del 5 luglio 1884, in ARCHIVIO STORICO DEL MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI (d’ora in poi ASMAE), Archivio Personale (d’ora in poi AP), serie III, Agenzie Consolari Odessa, Kertch b. 28. Kerch, nei documenti ufficiali, come nella relazione del console Castiglia, risulta “Kertch”. Qui usiamo la denominazione comune attuale, Kerch, lasciando invariata quella dei documenti citati. 14 Ibid. “Mare di Azoff”, Mare d’Azov, nella denominazione attuale. 15 Cfr. S. GALLON - G. GIACCHETTI BOICO - E. CANETTA - T.M. ALTOMARE - S. MENSURATI, Gli italiani di Crimea. Nuovi documenti e testimonianze sulla deportazione e lo sterminio, a cura di G. VIGNOLI, Roma, Edizioni Settimo Sigillo, 2012, pp. 20-21. 13 145 Ida Libera Valicenti re a far parte dell’equipaggio di un legno della marina mercantile del paese. Di fronte a queste prescrizioni, la maggior parte dei padroni di Trani, Bisceglie, venuti a Kertch colle loro paranze, non solo assunsero la nazionalità russa con atto passato nanti le locali autorità nello scopo di essere abilitati al comando dei legni di cabotaggio, ma previo un atto di finta vendita del legno di loro proprietà ad un suddito locale, compiute le formalità di cui all’art. 48 del codice per la marina mercantile, per la dismissione di bandiera, issarono ed issano la russa sui 16 loro legni». Nel 1930, il parroco di Kerch, padre Emmanuele Maschur, iniziò a rilasciare certificati di battesimo e matrimonio, in modo che le autorità italiane registrassero la cittadinanza degli emigranti pugliesi, allegando ad essi un elenco di cittadini italiani che erano passati alla cittadinanza russa, per i motivi di cui parla il console, ritendendo necessaria, per il riconoscimento della cittadinanza italiana di questi ultimi, l’istituzione di un viceconsolato proprio nella città di Kerch.17 Lo stesso Castiglia scriveva nelle sue relazioni al ministro italiano: «Il governo russo non avrà di certo lo stesso interesse che noi a sistemare tali irregolarità conciossiaché la Russia, più che di soldati, ha bisogno anzi tutto di acquistare sempre nuovi sudditi per popolare l’immenso impero e russificare per quanto più è possibile la popola18 zione delle sue città marittime», e continuava: «Da quanto ho avuto l’onore di esporle, l’E.V. può essersi formata un concetto di ciò che è sotto il rapporto nazionale e morale la nostra colonia di Kertch; ne furono causa la natia ignoranza e degli elementi marinareschi che la compongono e la mancanza dell’azione viva, vigilante, conservatrice di un ufficiale consolare di carriera. […] Si sop19 prima il R. vice-consolato di Berdiansk e lo si eregga in Kertch». La necessità di cambiare cittadinanza per lavorare sul mare e l’assenza di una sede fisica del consolato italiano nella città crearono seri problemi diplomatici con lo Stato ucraino, nel momento del riconoscimento dello sterminio che i connazionali pugliesi di Kerch subirono durante le purghe staliniane. Unica istituzione italiana veramente attiva Castiglia al Ministro, n. 1065 del 5 luglio 1884, cit. Cfr. S. GALLON, et al., Gli italiani di Crimea, cit., pp. 64-65. 18 Castiglia al Ministro, n. 1084 del 24 settembre 1884, ASMAE, AP, serie III, Agenzie Consolari Odessa, Kertch b. 28. 19 Castiglia al Ministro, n. 1065 del 5 luglio 1884, cit. 16 17 146 L’eccidio dei pugliesi di Crimea (1942-1945) nella difesa del diritto di cittadinanza italiana per la comunità pugliese fu la chiesa cattolico-romana, costruita dagli stessi operai italiani nel marzo del 1840: essa costituisce oggi una fonte storica per il censimento della nostra comunità.20 Inoltre, contribuì fortemente anche alla conservazione delle tradizioni originarie, sia nel campo culinario, che della lingua,21 attraverso la liturgia della messa e la trasmissione orale di racconti evangelici, di fiabe e racconti popolari.22 Nel 1920, come conseguenza della rivoluzione bolscevica, i connazionali di Kerch furono costretti a subire la collettivizzazione forzata delle campagne. Molti emigrati politici antifascisti si rifugiarono nell’URSS, alcuni di loro giunsero a Kerch e qui vennero in contatto con la comunità pugliese. Nel 1923, le comunità comuniste italiane costituirono un kolchoz23 italiano, chiamato “Sacco e Vanzetti”,24 che fu situato nelle strette vicinanze di Kerch. La piccola comunità pugliese fu requisita ed epurata: alcuni dei suoi membri fecero rientro in Italia; altri furono privati dei documenti di riconoscimento e identificati con i libretti di lavoro come trudodni,25 servi della gleba statali, a cui era vietato di uscire dal kolchoz.26 Nel censimento del 1933, si registrò un calo dello 0,7% della popolazione italiana a Kerch. Il partito comunista prese il controllo della città e la 20 Secondo documenti forniti dal Comitato statale ucraino per le nazionalità, gli italiani costituivano l’1,8% della popolazione della provincia di Kerch nel censimento del 1897, il 2% in quello del 1921. Cfr. GIACCHETTI BOICO - VIGNOLI, L’olocausto sconosciuto, cit., p. 6. 21 La comunità pugliese conservò fortemente le radici dialettali della lingua parlata. Si veda, a tal proposito, il libro del linguista sovietico V.F. SISMAREV, La lingua dei pugliesi di Crimea, Galatina, Congedo, 1978. 22 Cfr. VIGNOLI, Gli italiani dimenticati, cit., cap. 11. 23 In russo, il колхоз era una cooperativa agricola che aveva lo scopo di collettivizzare le terre dei contadini sovietici, nel contesto della statalizzazione dell’economia e dell’annientamento della classe sociale dei contadini proprietari (kulaki) e dei piccoli imprenditori terrieri che da sempre costituivano ostacolo alla sovietizzazione della società. 24 La cooperativa agricola fu costituita dal comunista Anselmo Marabini. Il nome commemora i due anarchici italiani giustiziati negli Stati Uniti. 25 Si trattava di categorie sospette, cioè kulaki o minoranze nazionali, obbligati alla schiavitù dalla Tudarmia, denominazione dell’Armata Rossa del Lavoro. 26 In Crimea, le autorità comuniste crearono sedici kolchoz, uno per ogni gruppo di minoranza. Il kolchoz più grande era quello armeno, immediatamente seguito da quello italiano, il cui patrimonio zootecnico era costituito da ottanta mucche, duecento pecore e maiali e una decina di cavalli, in ottocentosettanta ettari di terra. Il kolchoz era specializzato nella lavorazione del grano e nella produzione del vino; era costituito da più di cento famiglie di origine quasi tutta pugliese ed era gestito dal partito bolscevico di rappresentanza italiana. Cfr. E. DUNDOVICH - F. GORI - E. GUERCETTI, L’emigrazione italiana in URSS: storia di una repressione, in www.guariwo.net. 147 Ida Libera Valicenti propaganda marxista portò all’ateizzazione della società, con conseguente chiusura della chiesa e allontanamento del parroco.27 2. La deportazione in Siberia La prima guerra mondiale e la rivoluzione bolscevica spezzarono l’incantesimo della nostra piccola comunità pugliese.28 La Crimea entrò a far parte della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa (RSFSR), conoscendo un momento particolarmente duro della sua storia durante la seconda guerra mondiale, fatto di violente operazioni belliche e di deportazioni, che colpirono le popolazioni locali sospettate di collaborare con gli invasori, tra le quali quella bulgara, greca e anche quella pugliese di Kerch.29 La città fu occupata dall’esercito tedesco il 16 novembre 1941, ma, dopo sei settimane di occupazione tedesca, i sovietici riuscirono a riconquistarla il 30 dicembre. Tra il 29 e il 30 gennaio, la minoranza italiana, accusata di tradimento, spionaggio e complotto fascista, fu arrestata, molti furono torturati, alcuni fucilati e altri deportati in Siberia. Di loro non si saprà più nulla, si dissolveranno nel freddo gelido della Russia asiatica.30 Deportati nei carri di bestiame, il loro viaggio «traversò il territorio di sette Stati, ora indipendenti: Ucraina, Russia, Georgia, Azerbaigian, Turkmenistan, Uzbechistan e Cazachistan. La deportazione avvenne parte per via mare e parte per via terra: via mare da Kerc e Novorossijk, sulla sponda orientale del Mar Nero, poi nei vagoni piombati fino a Bachu, quindi fu attraversato il mar Caspio fino a Krasnovodsk e infine, nuovamente con la ferrovia, sono ad Atbasar in Cazachistan, dove vennero sistemati parte a Caragandà e parte a Akmolinsk ed altri centri attorno in baracche e locali di fortuna. Là nelle ba27 Come racconta nelle sue memorie lo stesso Paolo Robotti, attivista del PCI e cognato di Palmiro Togliatti, che, negli anni Trenta, entrò in contatto con la comunità pugliese di Kerch. Cfr. P. ROBOTTI, La prova, Bari, Leonardo Da Vinci, 1965, pp. 47-54. 28 Sulle responsabilità del PCI per i crimini di Stalin contro la minoranza italiana in URSS, si veda D. CORNELI, Il dramma dell’emigrazione italiana in Unione Sovietica, Tivoli, Tip. Ferrante, 1980, pp. 8992; ID., Elenco delle vittime italiane dello stalinismo (dalla lettera A alla L), Tivoli, Tip. Ferrante, 1981. Dante Corneli fu uno delle vittime italiane dello stalinismo. Egli rimase 24 anni in Siberia, torturato e costretto ai lavori forzati; rientrato in patria, denunciò gli orrori delle deportazioni e accusò di complicità i dirigenti del PCI, che collaborarono all’epurazione della minoranza italiana in URSS, compresa quella pugliese di Kerch. 29 Cfr. L.D. ANDERSON, Federal Solution to Ethnic Problems: Accomodating Diversity, New York, Routledge, 2013, p. 234. 30 Cfr. S. COURTOIS et al., a cura di, Il libro nero del comunismo. Crimini, terrore, repressione, Milano, Mondadori, 1998, p. 93. 148 L’eccidio dei pugliesi di Crimea (1942-1945) racche furono abbandonati e cercarono erbe e radici commestibili per nutrirsi, usando i tramezzi e le assi delle baracche come legna da ardere per non lasciarsi morire dal freddo. Si sa di alcuni che, cercando da mangiare, si sono smarriti nella steppa e sono morti dal freddo o anche 31 per gli attacchi dei lupi». Deportati d’inverno, perirono per malattia, fame e freddo, «i cadaveri vennero abbandonati nelle stazioni dove il convoglio sostava. Il viaggio durò così a lungo perché questi carri non furono che un terribile carcere con le ruote che lasciava passare tutti gli altri treni, dunque per la maggior parte del viaggio il treno sostò in mezzo alla steppa. Solo una volta al giorno era permesso scendere dai vagoni per i bisogni corporali e il candore delle nevi abbagliava la vista dei deportati 32 abituati a rimanere sempre al buio». Più di cinquecento italiani di Kerch vennero trasportati in Kazachistan e Uzbechistan: «Giunti nei luoghi di deportazione, furono sempre sotto la sorveglianza speciale del NKVD (Commissariato del popolo per gli affari interni) e fu quasi impossibile eluderla. Fu proibito traslocare senza permesso, anche cambiare casa nella località, tutto questo sarebbe stato considerato come un tentativo di evasione punito col gulag. Se qualcuno scompariva nella steppa e il cadavere non veniva ritrovato, era ricercato come fuggitivo. Vi furono molti tentativi di fuga falliti, tranne, sembra, uno solo riusci33 to». Si tratta di una donna italiana, che riuscì a rubare il passaporto di una donna russa morta e a scampare con i suoi bambini alla tragedia della deportazione. Probabilmente, si tratta di Paolina Evangelista, di cui riportiamo una testimonianza delle purghe staliniane, nel paragrafo che segue. 3. Le purghe staliniane: alcune testimonianze dei pugliesi superstiti di Kerch Riportiamo in questo paragrafo quattro significative testimonianze della deportazione subita dagli italiani di Crimea negli anni trenta del secolo scorso. Probabilmente fuggita dal treno che la conduceva in Siberia insieme agli altri connazionali, la testimonianza di Paolina Evangelista: GIACCHETTI BOICO - VIGNOLI, L’olocausto sconosciuto, cit., p. 13. Ibid., pp. 11-12. 33 Ibid., p. 12. 31 32 149 Ida Libera Valicenti «Era il 29 gennaio 1942, ricordo molto bene quel giorno. Venne una macchina della polizia speciale, dissero che ci davano un’ora e mezza di tempo e poi ci avrebbero deportati. Potevamo portare con noi solo 8 kg. di roba a testa […]. Il maggiore Khvatov aveva un elenco di italiani, anche di famiglie miste […]. Ci radunarono in vari punti: scuole, mense. Ci portarono a Novorossijsk, ci fecero il bagno. Poi ci misero in dieci vagoni bestiame. Su questo treno facemmo un lungo viaggio che durò due mesi. Morivano i bambini. I miei figli di 2 e 5 anni morirono, come tutti, di tifo petecchiale e di polmonite. Quando arrivammo nel Kazakistan ci dissero: vi hanno mandato qui perché moriate tutti! Sul nostro documento d’identità c’era scritto “deportato specia34 le”». Testimonianza di Angelina Cassinelli, originaria di Bisceglie: «Siamo rimasti nel Cazachistan fino al 1947. Con me c’erano il nonno, Benedetto Salvatore, mia madre e mio fratello. Siamo partiti con soli 32 chilogrammi di roba. Otto a testa. Ci hanno tolto le nostre case e non ce le hanno mai restituite. Siamo arrivati in marzo e laggiù nessuno ci attendeva. Tutti ci temevano e ci evitavano come fossimo appestati. Non avevamo vestiti per cambiarci. Il presidente del kolkoz diceva: “Volete pane, andate da Mussolini”. Tutti si ammalarono di tifo petecchiale e molti morirono. Chi non morì di malattia, morì di fame e per le offese continue. Una volta finita la guerra, raggiungemmo la città di Akmolinsk. Ma anche lì ci negavano il lavoro. Noi, però, siamo sempre stati ostinati nel dire che “eravamo e siamo italiani”. A tutti 35 hanno dato medaglie; a noi non hanno dato nulla!». Testimonianza di Talocka De Lerno, originaria di Trani: «Talocka, Talusia, Natusia – così mi chiamavano i miei carissimi mamma Paolina e il babbo Vasily, che amavano infinitamente la loro figlia. E provvedevano per me soltanto gioia e felicità. E non potevano immaginare neanche nei sogni terribili quel destino che aspettava la loro simpatica bambina con un sorriso fiducioso. Il 22 giugno 1941 finì l’infanzia di questa bambina di due anni e di tutti i bambini dell’Unione Sovietica: cominciò una guerra, la più cruenta tra tutti quelli che conosce il genere umano. In agosto gli abitanti di Kerch hanno sentito l’orrore del primo bombardamento forte. Qualche bomba colpì la nostra casa ad appartamenti, ma nessuno di noi fu ferito, mentre tutta la famiglia dei nostri vicini perì. Mio nonno assieme al mio babbo hanno cominciato a costruire un rifugio o, come lo chiamavano in quei tempi, “trincea” (per fortuna nel cortile trovatosi presso una montagna era possibile farla). La trincea serviva soltanto 34 Testimonianza raccolta da Giulia Boico Giacchetti, nipote di deportati, che da anni lavora per la ricostruzione storica di ciò che accadde ai nostri connazionali di Kerch. Ibid., p. 26. 35 Ibid., p. 25. 150 L’eccidio dei pugliesi di Crimea (1942-1945) per soprassedere durante il bombardamento e non poteva proteggere dagli occupanti. Il 16 novembre 1941 le truppe tedesche entrarono nella città. Dai primi giorni dell’occupazione di Kerch cominciarono le fucilazioni della popolazione. Con la maggior tenacia cacciarono gli ebrei, li uccisero e li buttarono nel fosso di Bagherovo. Le pattuglie tedesche fecero retate, entrarono nelle case, fucilarono in loco gli uni, arrestarono gli altri. Vennero anche a casa nostra. Vista la trincea, ordinarono tutti ad uscire. C’erano alcuni soldati sovietici, tra quali anche due gravemente feriti, gli spararono subito. Poi rivolgerono l’attenzione a mia madre che mi stringeva al petto. E con il grido “Jude, Jude!”, ci ebbero trascinate al muro per fucilare. Però, una nostra vicina di nome Olga, che conosceva un po’ il tedesco, ebbe il coraggio di gridare: “No, no, è italiana!”. E i tedeschi ci ebbero lasciati. Mio nonno si gettò in ginocchia, mi abbracciò, mi strinse a sé e con i baci asciugò le lacrime del piccolo volto spaventato della nipotina. I vicini piangevano sbalorditi e ammutoliti. Il 30 dicembre le truppe sovietiche con lo sbarco liberarono Kerch. Gli abitanti vivi uscirono dai scantinati e trincee e cercarono di togliersi dalla mente gli orrori dell’occupazione. La mamma con il miracolo sfuggita dalla fucilazione finalmente tirò un respiro di sollievo. Ma all’improvviso la gioia finì terribilmente. Il 29 gennaio 1942 gli agenti del NKVD bussarono nella porta ed ordinarono la mamma di prepararsi: “Italiana, sei soggetta di deportazione”. Tutto quello che successe dopo trasformò in un terribile caleidoscopio. Il porto di Kamish-Burun, un vento penetrante, le onde fredde e nere del mare invernale, e la folla degli italiani non comprendenti perché li fecero salire su questa nave, scendere nella stiva…il pianto di bambini e le preghiere di vecchi, tutto fu mescolato in un orrore comune con l’incursione degli aerei tedeschi che bombardarono le navi con la gente. E non era da chi aspettare l’aiuto, bisognava solamente sperare un miracolo. E il miracolo successe, la nostra nave arrivò intatta a Novorossijk da dove cominciò un lungo tragitto nelle steppe Kasake coperte di neve tra i quali i deportati dovettero superare le prove non meno dure: gelo, fame e malattie. La mamma mi proteggeva come poteva. Quando nel primo periodo dell’esilio abitammo in un villaggio barattava i vestiti con gli alimentari. Fu proprio felice quando riusciva a prendere un po’ di latte o due patate. A volte portava della granaglia che fu così amara come assenzio. La mamma non notava l’amarezza, ma io non potevo mangiarla. Le forze mi lasciavano gradualmente, quasi tutto il tempo, quasi tutto il tempo stavo sdraiata e mi sembrava che su di me cadano sacchi, fagotti, valige. Non piangevo più e non pregavo niente. […] In Kazakistan è venuta la primavera. Tutti i campi erano coperti dai tulipani lanuginosi di colore viola-blu. Era molto bello. Ma per noi, per i bambini di guerra era una gioia anche perché è stato possibile scavare i bulbi di tulipani e mangiarli. Erano molto nutrienti, dal gusto dolciastro. Non abbiamo sentito dire di vitamine, e non abbiamo mangiato mai niente di così buono. I bambini della baracca andavano uniti per raccoglierli. Avevo tanta voglia anch’io, ma ero molto debole e 151 Ida Libera Valicenti non potevo andare lontano, così i bambini maggiori mi portavano addosso a un posticino asciutto per farmi stare insieme a tutti e gustare la “frutta” perfetta. La giornata del 9 maggio 1945 abbiamo visto una salva della vittoria, la gente era lieta che la guerra era finita. Tutti sono usciti dalla baracca per partecipare alla gioia, sono rimasta da sola e piangevo in quella stanzetta piccola e cercavo di vedere i fuochi della salva dal finestrino. Certamente queste lacrime non erano simili a quelle che erano prima. Non c’era ancora gioia ma non c’era neanche quel dolore che pro36 vò Talocka durante quei quasi 4 anni d’infanzia non riuscita». Testimonianza di Vladimir Dmitriev Dell’Olio, originario di Bisceglie: «Io, Vladimir Dmitriev dell’Olio, sono nato nel 1951 a Krasnodarskijkraj (Staniza Saporogskaja). Non ricordo mio padre. Mia madre Teresa Dell’Olio era italiana. I suoi nonni son venuti in Crimea dalla città di Bisceglie di Puglia. I genitori di mia madre si chiamavano Vincenzo Dell’Olio e Marta Maria Maffione. Prima della guerra mia madre con i genitori, sorella Maria, fratello Francesco e nonna Teresa abitava a Kerch in via Agimuskajskaja, vicino al porto mercantile. In questo quartiere abitavano molti italiani. Tra i nostri vicini c’erano le famiglie Barone, Botto, Gianuzzi, De Benedetto, De Fonzo, Scolarino, De Martino, Di Pinto, De Melo, Mezzino. Mio nonno Vincenzo tutta la vita faceva marinaio. In febbraio 1942 la nostra famiglia tra gli altri italiani è confinata nei regioni settentrionali del Kasakstan. Durante il viaggio è morta dal freddo mia bisnonna Teresa. Aveva 80 anni. La mamma diceva tante volte, che moltissime persone soprattutto vecchi e bambini, sono morti a causa delle condizioni disumani. La mamma raccontava sull’esilio a malavoglia. E tutti loro, superstiti di quella tragedia, preferivano di non menzionarne. Ma son sicuro che non la dimenticavano mai. Al momento della deportazione mia madre aveva diciannove anni, e rifletto spesso su tutto quello che ha sofferto. Abbandonando la loro casa, non sapevano chi sarebbe tornato e per chi sarebbe un viaggio solo andata. In esilio mia madre ha vissuto fino all’anno 1946, e poi riuscì a fuggire dal Kasakstan. Ma alle famiglie italiane era ancora proibito vivere a Kerch, per questo si sono stabiliti in Kuban’, alla riva apposta dello stretto di Kerch. E solo dopo la morte di Stalin sono potuti tornare a Kerch. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica la mamma insieme ad alcuni deportati italiani ha cercato di ottenere la giustizia e per questo si sono rivolti al tribunale. Hanno fatto richieste alle autorità giudiziarie, hanno descritto brevemente quello che hanno vissuto. […] Purtroppo il tribunale non ha risolto il problema. Poi la mamma si rivolgeva agli altri organi del potere, ma senza risultato. 36 Gli italiani di Crimea, cit., pp. 118-122. 152 L’eccidio dei pugliesi di Crimea (1942-1945) In dicembre 2006 la mamma è deceduta. La deportazione degli italiani non è ufficialmente riconosciuta tutto37 ra». 4. La comunità italiana in Crimea oggi Dopo la morte di Stalin, il 5 marzo 1953, alcuni italiani deportati fecero ritorno nelle loro città, ma qui trovarono tutti i loro beni confiscati, non venne loro restituito nulla di ciò che era stato tolto, ma continuarono a subire accuse e discriminazioni.38 Nel 1954, in occasione del terzo centenario del trattato di Perejaslav, con il quale molti territori ucraini passarono all’URSS, la Crimea venne trasferita dalla Russia di Nikita Kruscev all’Ucraina, come segno dell’amicizia che legava le due nazioni e come pegno per quello che il popolo ucraino, comprese le minoranze, aveva subito per le efferatezze commesse da Stalin. La Crimea è unita all’Ucraina unicamente dal sottile istmo di Perekop e non ha nessun collegamento geografico col territorio russo.39 Al momento della dissoluzione dell’URSS, quindi, la Crimea si ritrovò all’interno dello Stato ucraino. Essa cercò la strada dell’indipendenza, prima ancora dell’implosione dell’Unione Sovietica. Nel gennaio del 1991, un referendum popolare sancì l’autonomia della Repubblica di Crimea, che si proclamò Repubblica Autonoma Socialista Sovietica (RASS). Le istanze indipendentistiche ripresero vigore nel 1993, quando venne deciso di istituire il ruolo inedito di presidente della Crimea. Le elezioni si tennero nel gennaio del 1994; vinse il leader della coalizione separatista filo-russa Jurij Meškov.40 Con il crollo del blocco sovietico, i neo-Stati indipendenti dovettero affrontare il risveglio etnico-culturale. La popolazione della Crimea è suddivisa etnicamente fra russi, ucraini, tatari e altre minoranze, tra cui quella italiana. Attualmente, gli italiani in Cri- Ibid., pp. 122-124. Cfr. S. STEWART, Explaining the Low Intensity of Ethnopolitical Conflict in Ukraine, Münster, Lit Verlag, 2005, p. 64. 39 Con il referendum del 16 marzo scorso, la Crimea ha scelto di essere parte della Russia. Si sta valutando la costruzione di un ponte di collegamento, che porterebbe proprio dalla cittadina abitata dai pugliesi, Kerch, alla Russia. Si consulti a questo proposito il sito ria.ru/economy/20140305/998246428.html. 40 Cfr. Law of Ukraine on Approval of the Constitution of the Autonomous Republic of Crimea, in www.rada.crimea.ua/en/bases-of-activity/konstituciya-ARK. 37 38 153 Ida Libera Valicenti mea, accentrati a Kerch, sono poco più di trecento.41 Molti di loro sono figli e nipoti dei deportati degli anni Trenta, ma non sono riconosciuti dallo Stato italiano quale minoranza etnica vittima delle purghe staliniane; a molti di loro non è stata riconosciuta la cittadinanza italiana: «Dal 1992 al 1997 l’ambasciata d’Italia in Ucraina ha ricevuto 47 domande per riottenere la cittadinanza italiana: solo due hanno avuto riscontro positivo (in base all’ultima legge sulla cittadinanza del 1992). Sussiste, infatti, la difficoltà di reperire i documenti richiesti dalle autorità diplomatiche italiane, documenti personali che sono andati dispersi o distrutti nella maggior parte dei casi durante la deportazione o anche sequestrati, costituendo, secondo le autorità sovietiche, la “pro42 va” del loro essere spie». I documenti personali dei connazionali pugliesi vennero distrutti durante la tratta in Siberia, e molti di loro, una volta giunti sullo stretto di Kerch, dovettero cambiare cittadinanza, russificarsi, per poter lavorare come marinai o con le loro navi da trasporto, come abbiamo avuto modo di sapere dai documenti del consolato di Odessa.43 In assenza di tali documenti, lo Stato ucraino non riconosce lo sterminio dei pugliesi di Kerch: «È riconosciuta la deportazione dei tatari, dei tedeschi, dei bulgari, degli armeni e dei greci, non quella degli italiani. C’è il giorno della memoria dei deportati (18 maggio) al quale gli italiani non possono partecipare. È come se si fossero persi nel conto immane dei crimini del comuni44 smo». Natale De Martino è uno dei superstiti della deportazione degli italiani di Crimea; egli racconta «di quanto sarebbe utile per la casa, la pensione, i farmaci avere lo sta45 tus di deportato che anche i tedeschi e armeni hanno ottenuto». Come emerge anche dalle testimonianze riportate nel paragrafo precedente, il ricordo delle deportazioni ordinate da Stalin è evocato continuamente, velato da una reticente indignazione per l’accusa di collaborazionismo con i fascisti. L’evoluzione politica che Cfr. All-Ukrainian Population Census, in STATE STATISTICS COMMITTEE OF UKRAINE, 2001, gov.ua/eng/results/general/nationality/Crimea. 42 GIACCHETTI BOICO - VIGNOLI, L’olocausto sconosciuto, cit., p. 16. 43 Si veda Castiglia al Ministro, n. 1065 del 5 luglio 1884, cit.; Castiglia al Ministro, n. 1084 del 24 settembre 1884, cit.; Memoria dell’Avv. Giacinto Fossati-Reyneri, R. Applicato al Consolato Generale d’Italia in Odessa, cit. 44 Cfr. GIACCHETTI BOICO - VIGNOLI, L’olocausto sconosciuto, cit., p. 16. 45 A. CASSIERI, Diario di Crimea, in «Limes», 4 aprile 2014, p. 161. 41 154 L’eccidio dei pugliesi di Crimea (1942-1945) ha portato la Crimea alla secessione dall’Ucraina e all’annessione della stessa alla Russia, con il referendum del 16 marzo (passato con il 96% dei votanti a favore e con un’affluenza pari all’84%), rappresenta una nuova fase anche per le minoranze etniche che vi vivono, compresa la minoranza italiana di Kerch. Appendici a) Elenco deportati46 b) Albrizio (Albriccio, Albrize, Albruze, Albruzo);47 Aleviro; Alpino; Angeli (Angelo); Arpino; Autuori; Bardo; Barone (Baroni); Bartololi; Bassi (Basso); Beltrande (Belotrande); Benetto (Beneto, Beneta, Binetto, Bineto, Binetti); Biancani; Bianco; Biocino (Biocini, Biozino); Bisceglie; Bodano; Borisano; Botto; Brize; Bruno (Bruni, Brune); Bucolini (Buccolini); Budani; Bulato; Calangi; Cambani; Canari; Capuleti; Carbone (Carboni); Cardone (Cardoni); Carlilo; Caspani; Cassanelli (Cassanello, Casanelli, Casaneli, Cassinelli); Chichizolo; Cinbata; Cocolo; Colangelo; Copo; Coronelli; Coruto; Croce; Cuppa; Cutto; De Celis; De Doglio; De Martino (DeMartino, Demartino); De Melo (Demelo); De Pasquale; De Pinda; De Stefano; Dell’Oglio; De Steano (De-Steano, Desteano, De-Ste Ano); Di Balzo; Di Benedetto (Di-Benedetto, De Benedetto, De-Benedetto, Debenedetto); Di Fonso (Di-Fonso, DiFonzo, Di-Fonzo, Di Fonzio, Di-Fonzio, De Fonzo, De Fonso, Defonso); Di Giovanni (Di-Giovanni); Di Mario (Di-Mario, Dimario); Di Marzo (Di-Marzo, Dimarzo); DiPiero (Di-Piero, De Piero, De-Piero); Di Pilato(Di-Pilato); Di Pinto (DiPinto, De Pinto, De-Pinto); Digbi; Docelis (De Celis?); Ducia; Evangelista; Fabiano (Fabiani); Ferante (Firante); Ferretti; Ferro (Ferri); Fioli; Flisani; Foschi; Francesco; Fursa; Galante; Gamma; Garibaldi; Giacchetti; Gianuzi (Gianuzzi); Giorgi; Icino; Lago; Lagoluso (Logaluso, Logoliso); Lagorio; Larocco; Laurore; Leconte (Le Conte, LeConto, Li Conto, Le-Conte); Lernio; Lerio; Mafioni (Maffione, Mafione); Magni; Merce; Minetto; Miona; Misiano (Misiani); Mizino (Mezzin); Mueti; Nenno (Nenni); Palmento; Parenti; Pergalo (Pergolo); Perio; Petrincio (Petrinco, Petringo); Piazolo (Piazollo); Piero; Pleotino; Porcelli (Parcelli, Parceli, Porceli, Parcele, Porcele); Protero; Puglia; Puppo; Ranio; Romano (Romani); Rossetti (Rosseti); Ruba; Cfr. G. GIACCHETTI BOICO - G. VIGNOLI, La tragedia sconosciuta degli italiani di Crimea, in «ItalianiNelMondo.com», p. 60. 47 In parentesi si riportano eventuali variazioni subite del cognome. 46 155 Ida Libera Valicenti Sardeli; Savv; Scamarino; Scaringi ; Scoccemarro (Scacemaro, Scucemaro, Scozimaro); Scolarino (Scolarini); Serenti; Servuli; Sesoro; Simone; Spadavecchia; Spadoni; Spartaco; Talasini; Tarabochio; Terlizo; Trieste; Vinanti; Vlastari; Zingarelli; Zitarelo.48 b) Mappa del viaggio della deportazione49 48 È possibile consultare l’elenco delle famiglie italiane che hanno abitato o abitano in Crimea in ASMEA, Ambasciata Italiana in Russia, 1861/1950, b. 44, in cui è riportato un elenco scritto a mano ed uno scritto a macchina, in cui vengono elencati le famiglie “molto bisognose”. Si veda anche GALLON, Gli italiani di Crimea, cit., pp. 43-59. 49 Immagine tratta da GIACCHETTI BOICO - VIGNOLI, La tragedia sconosciuta degli italiani di Crimea, cit., p. 61. 156 Eunomia. Rivista semestrale di Storia e Politica Internazionali Eunomia III n.s. (2014), n. 1, 157-168 e-ISSN 2280-8949 DOI 10.1285/i22808949a3n1p157 http://siba-ese.unisalento.it, © 2014 Università del Salento ENTELA CUKANI Consociational Power Sharing Arrangements as a Tool for Democracy: The Experiences of Macedonia and Kosovo Abstract: The protection of the different communities involved in the ethnic conflicts and power sharing arrangements among them have become necessary corollaries to democracy in the western Balkan region. In the case of Macedonia and Kosovo, power sharing arrangements have been imposed by the international actors through the peace agreements, in order to initially reach the goal of establishing peace in the countries. However the establishment of real democratic participation through power sharing settlements still remains a prerogative. Based on the analysis of the different power sharing mechanisms adopted by Macedonia and Kosovo, the article provides evidences that incrementing the political participation of the different communities in the central and local state institutions helps countries to decrease the tensions between host state and main non dominant group. The paper also demonstrates that by sharing the power between the several groups present on the territory, leads to a consociational democratic participation form. Keywords: Minorities; Power sharing; Consociationalism; Macedonia; Kosovo; Kin State; Host State. Introduction After the fall of the Berlin wall and the dissolution of the former Soviet Union and of the RFY, the lack of contrast between the liberal and communist ideologies, accompanied with an increasing confidence in the ethno-linguistic affiliation state, culminated with several ethnic conflicts and civil wars, especially in the western Balkan area. Hence, the protection of the different communities involved in the conflicts and power sharing among them have become a compulsory corollaries to democracy. For a long time, international community mediators and facilitators, through the peace agreements reached or “imposed” in the area, have been involved in the first stage of power sharing with the aim to establish peace in the region. The different States that came up after the fall of the communist block have formally applied for EU membership. Before joining the EU prospective applicants have to meet the so-called Copenaghen criteria. They are also required under the EU conditionality, to Entela Cukani change their policies in order to be eligible for EU admission.1 Minority rights protection have become a central issue, a parameter through which to measure the “democratization” and the political stability of the applicant State. The guiding principle of equal power-sharing among conflicting groups, in a second phase, needs to be legitimated through democratic participation into democratic and independent institutions. While it is still not clear what a minority is,2 since the beginning of the Balkan wars (1990-1998) it comes up with clarity that ethnic power sharing and territorial autonomy often have to go along. This is the case of the different entities that form the BiH union, but also the case of territorial decentralization as in Macedonia and in Kosovo. Thus, minority rights, political power sharing and forms of territorial autonomy in Macedonia and Kosovo will be taken in consideration in the present research paper in order to analyze how the “second phase” of power sharing, dealing with the implementation of the reached peace agreements, is being translated into democratic institutions. Although we acknowledge that it is not possible here to deal comprehensibly with all the elements and forms of power sharing, the present paper examines the constitutional plan for power sharing in each of the two countries. On the other side, the bargaining power of the minority groups depends on the host state and kin state role; thus, this further aspect will be also taken in consideration. 1 On the EU conditionality, see L. APPICCIAFUOCO, Integrazione dei Balcani occidentali nell’Unione europea e principio di condizionalità, in «Diritto Pubblico Comparato ed Europeo», 2, 2007, pp. 547582. 2 For the Sub-Commission on Prevention of Discrimination and Protection of Minorities, a minority is: «A group numerically inferior to the rest of the population of a State, in a non-dominant position, whose members-being nationals of the State- possess ethnic, religious or linguistic characteristics differing from those of the rest of the population and show, if only implicitly, a sense of solidarity, directed towards preserving their culture, traditions, religion or language». United Nations Human Rights, Minorities Under International Law, in http://www.ohchr.org/EN/Issues/Minorities/Pages/internationallaw.aspxn. For a controversial vision of the term minority, see: G. POGGESCHI, Language Rights: A Comparative Analysis (I diritti linguistici. Un'analisi comparata), Roma, Carocci, 2010, pp. 25-27; F. PALERMO - J. WOLEK, Comparative Constitutional Law of Groups and Minorities (Diritto costituzionale comparato dei gruppi e delle minoranze), Padova, CEDAM, 2011, pp. 11-34. 158 The Experiences of Macedonia and Kosovo 1. Power Sharing as a Tool for Democracy Both the Ohrid Peace Agreement and the Ahtisaari Proposal for Kosovo (CSP)3 foresee elements of consociational power sharing aiming to accommodate, first of all, the principal non dominant group claims in both countries: Albanians in Macedonia and Serbs in Kosovo. Before stopping on the specific mechanisms of sharing the power in both countries, some general considerations are needed. Scholars4 have appointed that consociational power sharing consist in a range of measures that aim to accommodate ethnic diversity in divided societies. While a complete and comprehensive definition of minority is still lacking,5 since the beginning of the Balkan wars (1990-1998) it comes up with clarity that power sharing and territorial autonomy often have to go along. This is the case of the different entities that form the BiH union, but also the case of territorial decentralization in Macedonia and in Kosovo. It must be stressed that more than ethnic power sharing, the western Balkan experience shows that the play is between (national) minorities that have a significant number population, mostly concentrated in a territory (when they form the majority of the population) near the boundaries’ of their kin state. Thus, if at the beginning the power sharing arrangements have been foreseen as a mechanism of consociational arrangements, their implementation suffers from the “leverage power” of the main non dominant ethnic group. Such situation, in a first phase, can change the features from a consociational to a pure dualistic system. 3 Power sharing arrangements existed also in the 2001 Constitutional Framework of Kosovo but the present article will focus only on the power sharing arrangements of the CSP and the 2008 Constitution. 4 See F. BIEBER, Power Sharing after Yugoslavia: Bosnia, Macedonia and Kosovo, in S. NOEL, eds., From Power Sharing to Democracy: Post-Conflict Institutions in Ethnically Divided Societies, Montreal, McGill-Queen’s University Press, 2005, pp. 85-104. 5 An “open” and well-formulated definition is that of R. TONIATTI, Minoranze e minoranze protette, in T. BONAZZI - M. DUNNE, eds., Cittadinanza e diritti nelle società multiculturali (Bologna, Il Mulino, 1994, p. 283), which holds that «minorities as such do not exist. Instead there are social groups – each endowed with its own identity – small and large, with many members and few members». For more on the problem of definitions, see, among others, G. PENTASSUGLIA, Minorities in International Law Strasbourg/Flensburg, Council of Europe and ECMI, 2002, p. 15 sgg.; T.W. SIMON, Ethnic Identity and Minority Protection: Designation, Discrimination, and Brutalization, Plymouth, UK, Lexington Books, 2012, pp. 69-81. 159 Entela Cukani The consociational model theorized by Lijphart6 is defined by four basic characteristics: 1) grand coalition – the political leaders of all significant communities are included in the executive; 2) all relevant groups are proportionally represented in the parliament and public administration; 3) veto rights in matters of vital interests; 4) segmental autonomy. The main idea is that only by sharing the power between the main ethnic groups and accommodating the ethnic diversity by democratic participation into state institutions, multiethnic states will reach stability. The western Balkans experience has shown that if at the beginning the consociational power sharing guidelines have been drown in the Peace Agreements by the international actors, subsequently consociational settlements have to be negotiated. Practice shows that what mostly influences the power sharing arrangements is the political participation of the minorities, which at the beginning suffers from the numeric and nationalist situation of the “main” non-dominant ethnic group, whose members will vote (at least in the first phase) exclusively for their ethnic parties. In this step, the lobbing role of the kin state becomes a crucial factor for the negotiation power of the minority community. If the kin state assumes an intervention role, the political leaders of the minority community tend to radicalize their claims in the host state. The example in this case may be offered by the Serb community in Kosovo, whose leaders intensity claims over that Kosovo’s government depend on the Belgrade’s politic: more intensive is the intervention role of Belgrade in the Serbian enclaves (by enforcing the parallel structures) more incentivized are Serbian minority political elites to play the “Serbian nationalist card” aiming to gain more electoral votes. As stated above, ordinarily the power sharing arrangements are designed for the accommodation of the principal non dominant group claims7 in order to own equally and proportionally seats in the parliament, and to have the possibility to use veto power 6 See A. LIJPHART, Democracy in Plural Societies: A Comparative Exploration, New Haven, CT and London, Yale University Press, 1977, pp. 25-44. 7 For a long time the minority policy and the minority question in Serbia has been identified with the Kosovo issue, since 1999 the minority issue in Kosovo has been identified with the Serbian community demands and since 2001 the minority issue in Macedonia goes along with the Albanian community claims. The destiny of the other communities suffers the solution of the most numerous (problematic) minority claims. 160 The Experiences of Macedonia and Kosovo more convincingly. This could be translated in political and legislative stalemate for the host State. While what is observed in practice in the Macedonian case, the Ohrid Agreement did not establish reserved seats for each minority, instead, it offers collective rights for all minority groups, but de facto the required 20% is possible only for the Albanians. Such situation instead of the desirable consociationalism between the different communities led to a dualism between Albanian and Macedonian parties which are increasingly becoming national parties. The requested “double majority” becomes an exclusive veto power of the Albanian community. In order to overcome this situation, the only possibility for the host state remains the necessity to increase the political participation of the other minority communities. In the Kosovo case the political participation of the different minority groups is safeguarded by the established minimum strict quotas; in the Macedonian case a similar situation was advanced by the central government in the 2007 law proposal. Incrementing the political participation of the different communities in the central and local state institutions, helps in decreasing the tensions between host state and main non dominant group. Moreover by sharing the power between the several groups on the territory, will lead toward a consociational democratic participation form. The impossibility for minor ethnic political parties to pass the required percentage foreseen by the electoral laws, incite political elites to form alliances between them. In the long lasting period, the necessary consociational political parties that will be formed by these alliances, will be traduced in a decreasing confidence of the population in the ethnic parties and in an increasing entrust in parties with a more comprehensive national breathing. 2. Ethnic Composition and Power Sharing in Kosovo At the end of negotiations to settle its status, Kosovo declared independence on 17 February 2008, ending nine years’ of endeavor since the beginning of the war in 1999, to resolve its status. Power sharing between the two main communities, Albanians and Serbs, has been a leitmotiv enshrined in all international plans and acts that concerns 161 Entela Cukani with the Kosovo issue,8 and it is still one of the main issues in the ongoing talks between Pristina and Belgrade.9 Power sharing and territorial decentralization, as foreseen in the Ahtisaari plan,10 are enshrined in the Constitution11 and in other relevant local laws.12 Moreover, Article 143 of the Constitution states that the Constitution itself and other legal acts of Kosovo shall be interpreted in compliance with the CSP and in case of inconsistency the latter (CSP) shall prevail. The Constitution addresses the multi-ethnic nature of the new state.13 The term community is used to refer to the different minorities living in the territory. The main ethnic groups living in Kosovo are: Albanians (over 90% of the population), Serbs (5%), Roma/Ashkali/Egyptians - REA, Bosnians, Gorani, Turks, Croats and Montenegrins (5%). Community rights in the legislative process are protected by the Constitution. In order to implement national-level integration, the Constitution, in accordance with the CSP provisions, established that at least 20 of the 120 seats of the Assembly of Kosovo should be reserved for the representatives of non-majority communities: 10 seats are reserved to the Serb community, 1 for the Roma, 1 for the 8 With the Kumanovo Agreement signed between NATO and the RFY, the war in Kosovo ended on 9 June 1999. The United Nations Security Council Resolution 1244, adopted on 10 June 1999, placed Kosovo under the UNMIK administration. On 15 May 2001 a “Constitutional Framework for Provisional SelfGovernment in Kosovo” was approved. 9 On this, see E. CUKANI, Ongoing Pristina-Belgrade Talks: From Decentralization to Regional Cooperation and Future Perspectives, European Diversity and Autonomy Papers-EDAP, 4, 2012, in www.eurac.edu/edap. 10 Ahtisaari developed the CSP (Comprehensive Proposal for the Kosovo Status Settlement) during the Vienna negotiations and the proposal was presented to Belgrade and Pristina on 2 February 2007. Even if the proposal did not explicitly include independence, it opened the way for the future independence of Kosovo. High level talks took place in March 2007, and in the same year Ahtisaari presented his final proposals to the UN Security Council, including a recommendation for Kosovo’s independence for a specified period of international supervision. This final proposal, accepted by Pristina and refused by Belgrade, met the strong opposition of Russia. Under the threat of a Russian veto, the UN Security General launched another time limited round of negotiations led by a troika of US, EU and Russian negotiators. When the Troika’s negotiations closed without any result on 10 December 2007, under the threat of Russia’s UN veto power, Kosovo’s leaders declared unilateral independence on 17 February 2008. Full text of the proposal is in http://www.unosek.org/unosek/en/statusproposal.html. 11 The Constitution of the Republic of Kosovo, adopted by the Assembly of Kosovo on 9 April 2008, came into force on 15 June of the same year, after the end of the transitional period. 12 The Law on Local Self-Government, n. 3/L-040, specifically determines the “decentralization of the powers” from central to local governments or from the matrix to the new municipalities. The full text of the law is in http://www.assembly-kosova.org/common/docs/ligjet/2008_03-L040_en.pdf. 13 See Articles 3, 5, 6, Chapter 1 of the Constitution. 162 The Experiences of Macedonia and Kosovo Ashkaly, 1 for the Egjyptian community, 3 for the Bosnian community, 2 for the Turkish one, and 1 for the Gorani community.14 Power sharing is reflected also in the Government composition: the Serb community will be represented at least by one minister, and another one from the non-majority community, and if the Kosovo government has more than 12 ministers, three must be appointed from communities. In addition, it is foreseen the presence of 2 Deputy ministers from the Serb community and 2 other Deputy Ministers from the non-majority communities.15 Furthermore, in the judicial system as a tool for increasing integration: 15% of the judges at the Supreme Court of Kosovo should be from the minority communities16 the same percentage is foreseen also for the composition of any other court established with appeal jurisdiction.17 In accordance with the importance of community rights in Kosovo, Article 78 of the Constitution requires the creation of the Assembly Committee on the Rights and Interests of Communities. Additionally, in case of legislation of vital interest it is required a double majority in order to adopt, amend or repeal certain issues of particular interest, that is, both the Assembly majority and the majority of the deputies holding seats guaranteed for communities.18 At the local level, if at least 10% of the residents belong to communities not in majority in those municipalities, a post should be reserved to the vice president of the Municipal Assembly for Communities for a representative of these communities.19 Undoubtedly, the size of the minority community is an important benchmark in influencing the determination of power-sharing, but sometimes, more than numbers, what mostly influences the determination of the power to be share (ex. seats reserved in the several institutions) are the historical and political matters. Even the Serb community in Kosovo is only 5% of the total number, as it has been 14 See Article 64, Chapter IV, Constitution of Kosovo. See Article 96, Chapter VI, ibid. 16 Article 103.3 states: «At least fifteen per cent (15%) of the judges of the Supreme Court, but not fewer than three (3) judges, shall be from Communities that are not in the majority in Kosovo». Ibid. 17 See Article 103. 6, ibid. 18 See Article 81, ibid. 19 See Article 62, ibid. 15 163 Entela Cukani underlined in all legal acts, they have more power compared to the other communities. Indeed it must be stressed that the minority agenda in the case of Kosovo has been identified with the issues between Kosovo Albanians and Kosovo Serbs which continue to derecognize each other like the predominant population.20 Such confusion is fed by the role hired by the host state and the kin state. In the Kosovo’s case, even the Serbian state does not recognize Kosovo like an independent republic,21 the “arm wrestling” is for more territorial autonomy in areas where the Serb community constitutes the majority. In conclusion, it must be highlighted that the several criteria as foreseen in the implementation of the decentralization, makes such process more similar to the federal than to the consociational model.22 3. Ethnic Composition and Power Sharing in Macedonia After the dissolution of RFY, the 1991 Constitution defined Macedonia as the “nationstate of Macedonians”23 thus marginalizing the other communities like Turks, Roma, Serbs and Muslims, but above all by rising discontentment among the large Albanian minority community. Concomitantly with the war in Kosovo, on 2001 veins outside the Albanian National Liberation Army (NLA), the advanced demand for self-determination and the ethnic conflicts brought the Macedonian ethnic issue under the attention of the international community. Under the international mediation and the coordination of Robert Badinter on August 13, 2001, in Vodno, Skopje, near Ohrid–Macedonia, the Ohrid Framework Agreement24 20 On this, see CUKANI, Ongoing Pristina–Belgrade Talks, cit. The preamble of the Constitution of Serbia, approved after the referendum held on 28 October, 2006, states that «Kosovo is an autonomous province of Serbia with significant autonomy». The full text of the preamble of the 2006 Serbian Constitution is in http://www.wipo.int/wipolex/en/details.jsp?id=7378. 22 See J. MCGARRY - B. O’LEARY, Federation as a Method of Ethnic Conflict Regulation, in S. NOEL, ed., From Power Sharing to Democracy: Post-Conflict Institutions in Ethnically Divided Societies, Montreal, McGill-Queen’s University Press, 2005, pp. 263-297. For the similitaries between the decentralization in Kosovo and the federal model, see SELF-DETERMINATION MOVEMENT, One Step Forward – Three Steps Back, 15 June 2010, at http://www.vetevendosje.org/repository/docs/One_step_forward_three_steps_back.pdf. 23 See Preamble of the 1991 Macedonian Constitution. Full text at http://www.servat.unibe.ch/icl/mk00000.html. 24 For more on the negotiations that brought to the Ohrid Framework Agreement, see M. LEBAMOFF - Z. 21 164 The Experiences of Macedonia and Kosovo (OFA) was signed which sets out a substantial agenda for constitutional and legislative reforms of the state by drawing the power sharing arrangements between the different communities and establishing the cessation of the hostilities.25 According to the 2002 census, the ethnic composition of Macedonia is as follows: approximately 64.8% is composed by Macedonian Slavs that belong to the Christian religion and speak the Macedonian language; Albanians represent over 25.17% of the population: they belong mostly to the Muslim religion, speak the Albanian language and are concentrated around the boundaries with Kosovo and Albania; the remaining 10% of the population is composed by smaller ethnic groups like Turkish 3.58%, Roma 2.66%, Serb 1.78%, Vlach 0.48%, Bosniac 0.84% and other 1.04%.26 According to the 2002 census, 16 municipalities of the 84 ones have Albanian majority population. The minority issue in Macedonia and also the power sharing reforms as foreseen by the OFA, are intended, for a better accommodation of the demands and concerns of the several communities present in the Macedonian territory, but above all for the Albanian community. This seems to be obvious by the required limit of «at least 20% of the total population of the state» that is foreseen by the OFA and by the Constitution in order to gain «official recognition of its language with specific modalities regarding its use, guaranteed equitable representation at all central and local public bodies and all levels of employment, enhanced local selfgovernment through decentralization processes, veto powers on matters involving culture, use of language, education, personal documentation, use of symbols, laws on local finances, local elections, and boundaries of municipalities, as well as state-funded university education in their 27 mother tongue», offering collective rights for all minority groups, but de facto the required percentage is ILIEVSKI, The Ohrid Framework Agreement in Macedonia: Neither Settlement nor Resolution of Ethnic Conflict?, International Studies Association Conference San Francisco, California, March 26-29, 2008, in http://humansecuritygateway.com/documents/ISA_Ohridframework.pdf. 25 See Ohrid Framework Agreement, Basic provisions, Article n. 2, ibid. 26 The 2011 census failed as consequence of irregularities. For the final data of the 2002 census, visit the official website in http://www.stat.gov.mk/Publikacii/knigaXIII.pdf. 27 Z. ILIEVSKI, Conflict Resolution in Ethnically Divided Societies: The Case of Macedonia, Master Thesis, University of Graz, 2006; also see D. TALESKI, Minorities and Political Parties in Macedonia, in Political Parties and Minority Participation, Skopje, Friedrich Ebert Stiftung - Office Macedonia, 2008, pp. 127-153. 165 Entela Cukani possible only for the Albanians. Some of the more important matters regulated by the OFA and receipted by the Constitution28 are: Development of Decentralized Government; Non-Discrimination and Equitable Representation; Special Parliamentary Procedures to be used for adopting a number of constitutional amendments and other laws affecting matters of vital interest29 for the non-majority communities; Education and Use of Languages;30 Expression of Identity, providing the possibility for local authorities to use (next to the emblem of the Republic of Macedonia) emblems marking the identity of the community in the majority in the municipality.31 According to Macedonia's Constitution, laws affecting matters of vital interest may only be passed by double majority vote in the Macedonian Assembly, namely, a majority within the Assembly as a whole that includes a majority of the votes of the Assembly members attending who «claim to belong to the communities not in the majority in the population of Macedonia».32 The OFA and the Constitution do not provide for “strict quotas” for representatives of the non-majority communities, as for example is established in the case of Kosovo or in the case of BiH. While the representation in the Parliament and in the Government, central and local one, is not a problem for the Albanian community,33 the problem has been raised for the other minority groups and a legislative proposal was advanced in 2007 proposing: four 28 The Constitution of the former Yugoslav Republic of Macedonia was adopted on November 17, 1991, and has been amended 31 times, most recently on April 12, 2011. 29 Matters of vital interest include: the Law on Local Self-Government, the city of Skopje and boundaries of municipalities, as well as laws that directly affect culture, use of language, education, personal documentation, use of symbols, laws on local finances and local elections. 30 It is foreseen that any language spoken by at least 20% of the population is also an official language in Macedonia. Minority language is regulated in derogation of the official Macedonian language by Article 7 as amended by the V amendment. 31 See Article 8 of the Constitution of Macedonia. The free expression of national identity is insert into the fundamental principles of the ordainment. For a comprehensive analysis of the most important provisions of the Constitutions of the western Balkan countries, see R. TONIATTI, Minoranze e minoranze protette, cit., pp. 311-337. 32 Articles 69 (2) and 114 (5) of the Macedonian Constitution (as amended in 2001). 33 It has been estimated that since 1991 to present, the political parties representing minorities have had 21 to 33 seats from the 120 total seats of the Macedonian Parliament. For more information on the Albanian political parties and on the election results consult Bertelsmann Stiftung, BTI 2012 - Macedonia Country Report, Gütersloh, Bertelsmann Stiftung, 2012, in http://www.btiproject.de/fileadmin/Inhalte/reports/2012/pdf/BTI%202012%20Macedoni.pdf. 166 The Experiences of Macedonia and Kosovo reserved seats for the Turk community, two for the Serb community, two for the Roma community, one for the Bosniaks and one for the Vlachs.34 The last local elections held on March 2013 have marked a turnaround in the internal electoral and territorial subdivisions: the Albanian party, Democratic Union for Integration (BDI), has won 12 districts on the total number of 54. For the first time after over 70 years the BDI has won the Kercove district but what stands out more is the fact that the BDI has lost the electoral competition in the Struge district, where the Albanian community represents the majority of the population. In other main urban centers,35 where the majority of the population is presented by the Albanian community, the BDI was balloting. Another crucial point of the 2013 elections is the fact that differently from the other elections, there was not a single “Albanian party” but some forms of “consociational political parties”36 that helped in changing the route of the crated nationalist dualism. This demonstrates that only by increasing the political presence of other minorities in the Parliament, there will be possible to decrease the created dualism between Albanian and Macedonian parties which are increasingly becoming national parties. Furthermore, if the other minorities are presented into the Parliament by the reserved seats, the requested “double majority” needed in order to change some laws of vital interests for the communities, will not be an “exclusive” veto power exercised by the Albanian electoral parties. Scholars37 have appointed that such changes of the electoral law will decrease tensions between Macedonian and Albanian parties, but will increase tensions between Albanians and other non-majority communities. As a further element of integration by power sharing arrangements, the Constitution establishes a Parliamentary Committee for Inter-Community Relations,38 comprised of 34 See MINISTRY OF JUSTICE OF MACEDONIA, Proposal for Changes and Amendments to the Election Law, June 2007. 35 Tetova, Tearca, Gostivari, Struga, Haracina, Dollnen Vracishti, Studenican. For more information on the electiones in Macedonia consult the OSCE official page at http://www.osce.org/odihr/elections/99772. 36 The examples may be given by the PDSH (the Serbian minority party with an Albanian candidate in the above mentioned districts) and LSDM parties. Also the Roma and the Turkish minority parties have won the elections in some districts. 37 See TALESKI, Minorities and Political Parties in Macedonia, cit., p. 127-153. 38 See Article 78 of the Macedonian Constitution. 167 Entela Cukani seven representatives of ethnic Macedonians, seven representatives of ethnic Albanians, and five representatives of the smaller ethnic minorities. The experience of Macedonia shows that increasing the politic participation of the other minority groups remains the only possibility for the consociational democratic form to work, otherwise, the risk is that the power sharing arrangements will degenerate in a dualistic model. 4. Conclusions Consociational power sharing arrangements were imposed in a first phase by the international actors like a necessary tool for reaching peace in both countries taken in consideration: Kosovo and Macedonia. Although this first intent was “strictly” imposed by the international community, achieving democracy through power sharing settlements still remains a prerogative. The above overview of the different mechanisms foreseen by the relative International Agreements, and subsequently by the constitutional arrangements, put in evidence the variety of the adopted mechanisms that aim to make the political system workable and democratic. What has been put in evidence is the fact that if in the first phase the power sharing arrangements suffers from the “main non dominant minority” kin state role, by assuming a dualistic role form, the only possibility for the host state stands on its capability to increase the representation of the other non-dominant groups. Thus, representation becomes a principal tool for participation into the state institutions. In deeply divided societies, like the ones taken in consideration, political representation of all several groups as a principal characteristic of consociational power sharing, have more possibilities to be achieved if foreseen by the Constitution. This seems to be crucial in the first phase, where the game played between central state and political elites of the main non majority community, can degenerate from a consociational to a dualistic system, like in the Macedonian case. At last, the European Union integration perspective of both host and kin state, remains a principal tool for a democratic accommodation of the minority claims and for reaching stability in the region. 168 Eunomia. Rivista semestrale di Storia e Politica Internazionali Eunomia III n.s. (2014), n. 1, 169-191 e-ISSN 2280-8949 DOI 10.1285/i22808949a3n1p169 http://siba-ese.unisalento.it, © 2014 Università del Salento SABRINA SERGI Diplomazie triangolari a confronto: Metternich/Kissinger Abstract: This article is a comparison between Austrian Chancellor Metternich and American National Security Adviser Henry Kissinger. The analysis is based on the study of A World Restored, Kissinger’s Ph.D. dissertation, in which he wrote about the Concert of Europe in the early nineteenth century. Both the statesmen are considered from the historians as “realpolitiker”, mostly because of their geopolitical approach to the foreign policy. The center of the comparison, in this work, is the so-called strategy of triangular diplomacy: the two cases examined are the Saxon Question, involving Austria, Prussia and France and the opening to China in the contest of Soviet-American détente. Keywords: Triangular Diplomacy; Metternich; Kissinger. Introduzione Nel 1954, Henry A. Kissinger conseguì il dottorato presso il dipartimento di studi sul governo all’Università di Harvard, con una tesi di laurea intitolata Diplomazia della Restaurazione. Al centro della sua discussione vi era l’operato politico di Klemens W. Lothar, principe di Metternich, dalle guerre napoleoniche al congresso di Vienna. Dopo vari anni trascorsi nell’ambito accademico, costellati da sporadiche e infruttuose consulenze per il governo, nel 1969, nell’ambito della prima amministrazione Nixon, Kissinger fu nominato consigliere alla sicurezza nazionale. Egli si apprestava, dunque, a effettuare un balzo dalla teoria alla pratica: se fino ad allora aveva dedicato la propria attività di ricerca allo studio del potere, le circostanze lo misero nelle condizioni di doverlo esercitare. Con il presente saggio si è inteso mettere a confronto i metodi dei due statisti, Metternich e Kissinger, cercando di comprendere in che misura gli studi di quest’ultimo abbiano potuto influenzare il suo stesso operato politico. Per tale ragione, il punto di partenza è stato l’esame dell’azione di Metternich attraverso l’analisi del libro di Kissinger, Diplomazia della Restaurazione, messo a confronto con Gli anni della Casa Bianca, in cui lo stesso Kissinger descrive lo svolgimento e gli esiti del suo lavoro diplomatico so- Sabrina Sergi prattutto accanto al presidente Nixon. Da tale accostamento è emerso l’approccio realista in politica estera da parte di entrambi gli statisti; il culmine del confronto è stato identificato, in particolare, con la strategia della “diplomazia triangolare”. L’applicazione di tale strategia si verificò, nel caso di Metternich, a proposito della soluzione della questione sassone, occorsa durante il congresso di Vienna, dove il cosiddetto “triangolo” era costituito dall’Austria, dalla Prussia e dalla Francia. Per quanto riguarda la diplomazia triangolare di Kissinger, sono state prese in considerazione le relazioni tra Stati Uniti, Unione Sovietica e Cina, il cui sviluppo si dimostrò determinante per il raggiungimento della détente russo-americana. 1. La strada verso il congresso di Vienna Dal 1803 al 1815 l’assetto geopolitico europeo fu sconvolto dalle guerre napoleoniche, che portarono la Francia ad assumere il controllo della maggior parte dei territori continentali. Fino al 1812, al territorio francese erano stati annessi l’Olanda, la Germania settentrionale fino a Lubecca, un terzo dell’Italia, la Catalogna. Oltre a ciò, l’impero napoleonico esercitava il proprio dominio sulla Confederazione elvetica, sulla Confederazione renana e sul ducato di Varsavia. Nel giugno 1812, Napoleone intraprese la campagna di Russia, durata meno di cinque mesi e il cui esito si rivelò catastrofico.1 La ritirata che seguì l’invasione dell’impero zarista rappresentò l’inizio del declino della Francia napoleonica, che il 18 ottobre del 1813 subì una nuova e definitiva sconfitta a Lipsia, da parte della coalizione costituita da Russia, Prussia, Gran Bretagna e Austria: tale evento spianò la strada alla marcia dello zar su Parigi. Tra il marzo e l’aprile del 1814 fu restaurata la monarchia borbonica e con il trattato di Fontainebleau fu decretata la fine politica di Napoleone, che fu esiliato sull’isola d’Elba.2 Successivamente, fu firmato il trattato di Parigi, con il quale i vincitori si occuparono del ridimensionamento della Francia. Secondo la clausola degli anciennes limites, l’impero veniva dissolto; per1 Cfr. J. GODECHOT, La Francia durante le guerre (1793-1814), in C.W. CRAWLEY, a cura di, Le guerre napoleoniche e la Restaurazione, vol. IX della Storia del mondo moderno, Milano, Garzanti, 1969, pp. 361-364. 2 Cfr. R. DE METTERNICH - M.A. KLINKOWSTROEM, par, K.W.L., DE METTERNICH, Mémoires, documents et écrits divers laissès par le Prince de Metternich, Chancelier de Cour et d’État, Tome Premier, Paris, E. Plon et Cie, 1880, pp. 160-195. 170 Diplomazie triangolari a confronto: Metternich/Kissinger tanto, i Borbone dovevano rinunciare ai territori comprendenti Olanda, Belgio, Germania, Italia e Svizzera. Il trattato, comunque, escludeva qualsiasi genere di clausola vessatoria, come ad esempio le pretese riparazioni, in quanto l’obiettivo della pace di Parigi non era tanto di punire la Francia, quanto quello di raggiungere una stabilità a lungo termine. Le guerre napoleoniche erano state considerate un’estensione della rivoluzione francese3 e avevano, così, generato la convinzione, da parte di alcuni statisti europei, che il vero nemico fosse il giacobinismo, come sostenne, ad esempio, il ministro degli esteri britannico Robert Stewart, visconte di Castlereagh: «Quanto alla massa della nazione francese, il grande desiderio degli alleati era di agire verso di essa, non in ragione dei suoi errori […] ma ispirandosi ai principi liberali la cui applicazione testimoniasse che si 4 era fatta la guerra […] alla Francia rivoluzionaria […]». Lo strascico del disordine napoleonico si manifestava soprattutto a livello geopolitico. I territori che la Francia si apprestava ad abbandonare dovevano essere redistribuiti in modo tale da garantire la stabilità interna (contro i fermenti rivoluzionari) e secondo il “principio delle restituzioni”.5 La pace di Parigi, all’articolo XXXII, prevedeva la riunione di un congresso, a Vienna, per la definizione del nuovo equilibrio europeo. Il cancelliere Metternich si allineava al pensiero del ministro britannico solo parzialmente. Egli non credeva, infatti, che la sicurezza europea potesse dipendere esclusivamente dall’eliminazione di Napoleone in Francia. Kissinger stesso, nella propria opera, ha sottolineato il ragionamento di tipo geopolitico che ha portato Metternich ad effettuare determinate scelte in seno al congresso.6 Come Castlereagh, anche Metternich caldeggiava una pace non vessatoria nei confronti della Francia, ma le ragioni di tale atteggiamento risiedevano nella necessità di impedire la creazione di un nuovo squilibrio europeo. In particolare, il vuoto lasciato dal ridimensionamento della Francia creava un 3 Tanto da valere a Napoleone l’aggettivo di “roi des peuples”. Cfr. F. MARKHAM, L’avventura napoleonica, in CRAWLEY, Le guerre napoleoniche e la Restaurazione, cit., p. 399. 4 G. GIGLI, Il Congresso di Vienna, Firenze, Sansoni, 1938, p. 264. 5 Cfr. Mémoires, documents et écrits divers laissès par le Prince de Metternich, Chancelier de Cour et d’État, Tome Premier, cit., p. 201. 6 Cfr. H.A. KISSINGER, Diplomazia della Restaurazione, Milano, Garzanti, 1973, pp. 159-191. 171 Sabrina Sergi nuovo problema ad oriente, dove il pericolo era rappresentato dalla Russia e dalla Prussia. La minaccia costituita dall’impero zarista era legata al fatto che, durante il corso dell’ultima guerra napoleonica, questo aveva spinto le proprie armate fin nel cuore dell’Europa, occupando le province polacche. Metternich, comunque, era intimorito ancor di più dalla Prussia. Il rapporto tra l’impero di Francesco I e la corte di Federico Guglielmo IV era ambiguo: da un lato, l’Austria aveva bisogno di un alleato per rafforzare l’Europa centrale in funzione anti-russa; dall’altro, però, Metternich era consapevole che la comune aspirazione egemonica nei confronti dei piccoli regni tedeschi rappresentava un motivo di profonda discordia. L’obiettivo prussiano era quello di aggregare il proprio territorio frammentario a spese del regno di Sassonia, in nome delle comuni radici etnico-linguistiche germaniche. La realizzazione di tale scenario avrebbe comportato delle conseguenze doppiamente dannose per l’Austria: innanzitutto, l’accrescimento sproporzionato dell’estensione prussiana, ma anche la creazione di un precedente che avrebbe incoraggiato le spinte nazionalistiche tedesche negli altri regni della Germania.7 L’apertura del congresso fu fissata per il primo ottobre, anche se l’inizio dei lavori dovette attendere la soluzione delle questioni di procedura. Fu stabilito un iter costituito da tre fasi: le decisioni sarebbero state prese dai quattro vincitori, Gran Bretagna, Russia, Austria e Prussia, e in seguito approvate da Francia e Spagna; infine, la ratifica sarebbe avvenuta in seno al congresso riunito in seduta plenaria.8 2. La questione polacca e la questione sassone Il riordino territoriale del continente si basava, dunque, sul principio della restaurazione della legittimità nelle regioni e nelle province cadute in mano alla Francia napoleonica. Per tale ragione, le tematiche più importanti riguardavano il territorio polacco, ribattezzato ducato di Varsavia in epoca napoleonica, ma precedentemente legato alla Russia; il 7 Cfr. L.M. MIGLIORINI, Metternich. L’artefice dell’Europa nata dal Congresso di Vienna, Roma, Salerno Editrice, 2014, pp. 137-138. 8 Cfr. G. FERRERO, Ricostruzione. Talleyrand a Vienna (1814-1815), Roma, Corbaccio, 1999, pp. 168169. 172 Diplomazie triangolari a confronto: Metternich/Kissinger ripristino dell’estensione della Prussia, che era stata ridimensionata dopo la sconfitta di Jena nel 1806. Contestualmente all’ingresso di ciascuno Stato nella coalizione anti-napoleonica, erano state stipulate delle intese che avevano previsto alcune spartizioni territoriali. In particolare, attraverso la convenzione di Reichenbach e l’accordo di Teplitz, stipulati tra Russia, Austria e Prussia, era stato pattuito che il ducato di Varsavia sarebbe stato suddiviso tra le tre corti,9 rispettivamente secondo “accomodamenti” reciproci, ovvero in base ad ordinamenti “amichevoli”.10 Il trattato di Kalisz, invece, legava la Russia e la Prussia e stabiliva la restaurazione territoriale della corte degli Hohenzollern, senza specificare, tuttavia, quali sarebbero state le zone che ne avrebbero realizzato l’estensione. Quest’ultimo patto, ad ogni modo, implicava la cessione di alcune province polacche da parte dello zar a beneficio della Prussia.11 La portata legittimante dei trattati, però, contrastava con la realtà dei fatti: la Russia aveva assunto una posizione di vantaggio grazie all’occupazione della Polonia durante il corso della guerra.12 Ai primi di novembre, nella prima conferenza di Vienna, il ministro degli esteri russo Nesselrode chiedeva «[…] come giusta indennità dei sacrifici russi, tutto il ducato di Varsavia».13 La posizione dello zar era irremovibile e la sua intransigenza si spinse fino al punto di precisare, in una lettera destinata a Castlereagh, che la propria posizione era quella del vantaggio assoluto, legato proprio all’occupazione militare.14 I piani di Metternich, volti a contenere la Russia e la Prussia, vennero sconvolti: infatti, un’eventuale asse tra le due corti orientali avrebbe provocato l’isolamento e l’indebolimento del già precario impero multinazionale austriaco. La posizione dello zar portò la Prussia a cercare altrove i territori per la propria restaurazione e questo metteva a repentaglio l’equilibrio tedesco. 9 Cfr. ibid., p. 204. Cfr. la nota del 2 novembre 1814 di Metternich, destinata al principe di Hardenberg, cit. in GIGLI, Il Congresso di Vienna (1814-1814), cit., p. 68. 11 Cfr. KISSINGER, Diplomazia della Restaurazione, cit., p. 64. 12 Cfr. ibid., p. 169. 13 Cit. in GIGLI, Il Congresso di Vienna (1814-1814), cit., p. 65. Il corsivo è mio. 14 Cfr. KISSINGER, Diplomazia della Restaurazione, cit., p. 170. Tale asserzione, nel linguaggio diplomatico, assume il significato di minaccia di guerra. Quest’allusione è confermata anche dalle istruzioni segrete del ministro russo Nesselrode inviate all’ambasciatore in Francia Pozzo di Borgo. Cfr. GIGLI, Il Congresso di Vienna (1814-1815), cit., p. 66. 10 173 Sabrina Sergi Il 9 ottobre, il ministro prussiano Hardenberg inviò un memorandum a Metternich: egli si diceva disponibile a contribuire al contenimento delle ambizioni russe, ma condizionava la propria posizione al consenso dell’Austria relativamente all’annessione della Sassonia. Come garanzia dell’osservanza di tale accordo, egli proponeva l’occupazione provvisoria di tale regno. Secondo Kissinger, lo scopo della proposta di Hardenberg era ottenere un beneficio materiale legittimato, così da salvaguardare l’amicizia con l’Austria e fondare l’equilibrio tedesco sul presupposto di una Sassonia prussiana.15 Metternich rispose affermativamente alla proposta di annessione, legando, però, tale questione a condizioni ben precise: la questione polacca non doveva essere gestita in maniera separata e, soprattutto, l’assenso austriaco si sarebbe materializzato soltanto nel caso in cui la resistenza anti-russa avesse avuto successo.16 Il 23 ottobre, Metternich e Hardenberg incontrarono Castlereagh per definire la piattaforma d’azione comune da presentare allo zar. Insieme redassero un documento sotto forma di ultimatum: se la soluzione della questione polacca non fosse stata raggiunta tramite le trattative dirette, il tema avrebbe costituito un ordine del giorno in occasione dell’assemblea plenaria del congresso. Gli alleati avevano proposto tre scenari: l’indipendenza assoluta della Polonia; la definizione dello Stato polacco antecedente al 1791; la restaurazione tripartita dei possessi appartenenti alle tre corti prima delle guerre napoleoniche. Quando Metternich presentò tale proposta allo zar, costui lo sfidò a duello; nei giorni successivi il sovrano russo, in un incontro tra i tre imperatori in Ungheria, diffidò i rispettivi ministri, accusandoli di tramare attività segrete. Solo Federico Guglielmo accolse la sua disapprovazione, ordinando a Hardenberg di rinunciare a qualsiasi incontro separato con gli altri due.17 Secondo Kissinger, le intenzioni reali di Metternich nella gestione della questione polacca sarebbero state quelle di isolare la Prussia a proposito del problema sassone. La prova della sua malafede consisterebbe, secondo lo studioso americano, nel fatto che, 15 Cfr. KISSINGER, Diplomazia della Restaurazione, cit., pp.171-175. Cfr. ibid. 17 Cfr. ibid. 16 174 Diplomazie triangolari a confronto: Metternich/Kissinger fino ad allora, Metternich non aveva mai subito un grave smacco e non aveva mai abbandonato i negoziati senza ulteriori tentativi di resistenza.18 L’intransigenza dello zar ebbe comunque la meglio e la questione polacca si concluse con la disfatta dei tre alleati. Metternich, però, poteva sollevarsi dal vincolo con la Prussia in maniera legittima, dal momento che erano venute a cadere entrambe le clausole che legavano il consenso austriaco all’annessione della Sassonia. Il 7 novembre Hardenberg annunciò agli austriaci che il proprio kaiser aveva ordinato di bloccare il piano polacco. Il giorno successivo ottenne dai russi l’amministrazione militare provvisoria della Sassonia.19 Questo evento provocò le proteste di Metternich, che il 10 dicembre rispose ai prussiani che le loro ambizioni cozzavano con i principi dell’equilibrio europeo, già inficiato dall’egemonia dello zar in Polonia. Tuttavia, in nome della loro amicizia, il principe si diceva disposto a raggiungere un compromesso al riguardo: la Prussia avrebbe potuto acquisire una parte della Sassonia, sommata ad altri possessi in Renania.20 Il dissenso dell’Austria provocò violente reazioni negli ambienti governativi e militari della Prussia. I toni del cancelliere suggerivano che si sarebbero prese in considerazione le misure necessarie per risolvere la situazione, confermando le intenzioni bellicose dei militari, che già parlavano di guerra. Metternich riferì che «il gabinetto prussiano riguardava la nota del 10 dicembre come un insulto».21 Il ministro di Francesco I colse tale occasione per accrescere la forza morale del proprio paese. Considerate l’irragionevolezza e la prepotenza del regno di Federico Guglielmo, Metternich coinvolse gli Stati minori nella creazione di una lega tedesca anti-prussiana, nell’eventualità di uno scontro armato. Il passo più azzardato fu l’inclusione della Francia, considerata, fino ad allora, la principale nemica dell’equilibrio europeo.22 3. L’apertura alla Francia quale chiave risolutiva della questione sassone 18 Cfr. ibid. Cfr. ibid., p. 178. 20 Cfr. GIGLI, Il Congresso di Vienna (1814-1814), cit., p. 30. 21 Cit. ibid., p. 33. In corsivo nel testo. 22 Cfr. KISSINGER, Diplomazia della Restaurazione, cit., p. 182. 19 175 Sabrina Sergi La posizione della Francia nel contesto del congresso di Vienna, nonostante la caduta di Napoleone, rimaneva di sostanziale isolamento. I regolamenti di procedura, come già specificato, prevedevano l’esclusione dei francesi dalle decisioni principali. La prima iniziativa in favore dell’ex nemico, da parte di Metternich, fu quella di inviare il memorandum del 10 dicembre al ministro borbonico Talleyrand, per portarlo a conoscenza delle discordie interne all’alleanza. Costui rispose comunicando la propria indignazione relativamente allo squilibrio che la questione sassone rischiava di generare nel continente. Egli sosteneva con forza la causa della Sassonia in nome della pace, ma soprattutto della legittimità.23 L’opportunità di concretizzare il sodalizio austro-francese in funzione anti-prussiana si presentò quando Castlereagh propose una soluzione tecnica per la questione sassone. Questa consisteva nell’istituzione di una commissione statistica ad hoc per l’elaborazione di un’indagine sulle popolazioni germaniche residenti nei territori da assegnare alla Prussia.24 Talleyrand riuscì ad accedere alle riunioni della commissione con il tacito accordo dei ministri britannico e austriaco; proprio questi ultimi, il 29 dicembre, chiesero che il principe di Benevento fosse ammesso alle riunioni del consiglio di vertice dei ministri. In questo modo, l’esito delle votazioni avrebbe certamente messo in minoranza la Prussia, insieme all’alleata russa.25 Il 30 dicembre la Russia, presa dall’ansia di non inimicarsi le altre potenze, scese a patti con l’Austria nella ritrattazione della frontiera occidentale della Polonia.26 La Prussia era definitivamente isolata cosicché, nel corso della riunione del 31 dicembre, Hardenberg dichiarò di essere disposto a entrare in guerra pur di ottenere la Sassonia. Una minaccia così esagerata non poteva che sortire un effetto contrario al suo obiettivo reale: anziché impaurire gli avversari e portarli a cedere, la provocazione contribuì a indispettirli. Il 3 gennaio, Castlereagh promosse una coalizione anti-prussiana insieme a Metter- 23 Cfr. GIGLI, Il Congresso di Vienna (1814-1814), cit., p. 38. La commissione si sarebbe avvalsa della collaborazione di uno dei più importanti studiosi di statistica dell’epoca, il prussiano Johann Gottfried Hoffmann. Cfr. E.V. GULICK, L’ultima coalizione e il Congresso di Vienna (1813-1815), in CRAWLEY, Le guerre napoleoniche e la Restaurazione, cit., p. 784. 25 Cfr. ibid., pp. 784-786. 26 In particolare, secondo Guglielmo Ferrero, la Russia temeva un riavvicinamento tra l’Austria e la Francia. Cfr. FERRERO, Ricostruzione. Talleyrand a Vienna, cit., p. 308. 24 176 Diplomazie triangolari a confronto: Metternich/Kissinger nich e Talleyrand.27 Quest’ultimo scrisse al proprio re: «Ora, sire, la coalizione è sciolta […]. Non solo la Francia non è più isolata in Europa, ma è unita a due delle maggiori potenze […]».28 Consapevole dell’accerchiamento e del fatto che senza Talleyrand gli alleati non avrebbero trattato, Hardenberg accettò la partecipazione del plenipotenziario francese ai negoziati. Il pericolo di guerra era stato superato e per tutto il mese successivo le potenze lavorarono a un piano per cercare una soluzione definitiva dell’intricato caso. L’accordo definitivo fu raggiunto l’11 febbraio. Gli alleati stabilirono la divisione in due della Sassonia: due quinti del regno tedesco furono assegnati alla Prussia, con l’esclusione dell’importante piazzaforte di Lipsia; il restante nucleo fu mantenuto indipendente. La soluzione della questione sassone, in questo senso, servì anche a ridurre la portata dei possedimenti russi; il ministro britannico chiese allo zar, come compensazione per i limitati acquisti prussiani in Sassonia, di cedere la città di Toruń. Altri territori aggiuntivi per la Prussia furono il ducato di Vestfalia e la maggior parte dei territori sulla riva sinistra del Reno. Lo zar, invece, ottenne di porre sotto la propria corona il neonato regno di Polonia, comprendente il nucleo dell’ex ducato di Varsavia. La trama ordita da Metternich, dunque, raggiunse il risultato da lui sperato, nonostante le mutate circostanze sopravvenute durante il congresso. Secondo Kissinger, il ministro austriaco avrebbe coinvolto Talleyrand principalmente per deresponsabilizzare il proprio paese rispetto a qualsiasi azione o affermazione che potesse apparire ostile alla Prussia. La sua strategia aveva reso possibile contrastare il regno di Federico Guglielmo, senza scalfire il rapporto di amicizia austro-prussiana, necessario per la sopravvivenza dell’impero.29 Lo studioso americano ha sostenuto che l’alleanza del 3 gennaio fu il culmine della capacità del ministro austriaco «[…] di isolare gli avversari non in nome della ragion di stato, ma di una ragione universale. […] Metternich aveva la grandezza politica di chi comprende il valore delle sfumature, e capire che il modo in cui si 27 Cfr. MIGLIORINI, Metternich. L’artefice dell’Europa nata dal Congresso di Vienna, cit., pp. 140-141. Cit. in GULICK, L’ultima coalizione e il Congresso di Vienna (1813-1815), cit., p. 787. 29 Cfr. KISSINGER, Diplomazia della Restaurazione, cit., pp. 182-183. 28 177 Sabrina Sergi ottiene qualcosa è importante quanto il fatto di ottenerla, e talvolta an30 che di più». Il 9 giugno tutti i paesi europei ratificarono l’atto finale di Vienna;31 esso era il risultato di negoziati che si erano svolti nell’arco di un intero anno, ma la riunione che ne vide l’approvazione fu l’unica ufficiale di tutto il congresso. 4. Nixon, Kissinger e la necessità della distensione Il 20 gennaio 1969 ebbe luogo la cerimonia d’insediamento del presidente americano neo-eletto, Richard Milhous Nixon. Costui pronunciò il proprio discorso, sottolineando il ruolo degli Stati Uniti a livello internazionale e affermò: «Dopo un periodo storico caratterizzato dal confronto, l’America è pronta ad affrontare una nuova era di negoziati».32 Con tali parole, egli segnava uno spartiacque tra il periodo della “coesistenza competitiva”, che fino a quel momento aveva portato i due blocchi a scontrarsi nell’ambito di conflitti locali,33 e quello della “distensione”. In particolare, attraverso questo nuovo approccio, egli intendeva creare un clima di collaborazione russoamericana, tale da definire un nuovo equilibrio mondiale che guardasse oltre la retorica della guerra fredda.34 In un saggio redatto nell’estate 1968 per la rivista «Foreign Affairs», anche Kissinger sottolineò l’importanza di pervenire a un rapporto distensivo tra le due superpotenze. Nella sua analisi, egli prospettava un processo diplomatico lungo, e pertanto sosteneva che gli Stati Uniti avrebbero dovuto superare lo sterile dibattito interno in corso tra i cosiddetti “falchi” e “colombe”.35 La strada da percorrere, invece, secondo il professo30 Ibid., p. 185. In corsivo nel testo. «Esso è anche l’atto di nascita dell’Europa di Metternich». M. MAGNO, Il Restauratore, in «Il Foglio», XIX, 133, 7 giugno 2014, p. 4. 32 Richard Nixon Inaugural Address, January 20, 1969, in The American Presidency Project, Collection: Public Papers of the Presidents, in http://www.presidency.ucsb.edu/ws/?pid=1941. 33 Come avveniva, ad esempio, in Vietnam. Cfr. E. DI NOLFO, Storia delle relazioni internazionali, Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. 998-999. 34 Cfr. M. TRACHTENBERG, The Cold War and After: History, Theory and Logic of International Politics, Princeton, NJ, Princeton University Press, 2012, p. 179. 35 I “falchi”, perlopiù repubblicani conservatori, erano gli strenui oppositori dell’approccio distensivo, mentre le “colombe”, tra le quali molti sovietologi, erano coloro che si mostravano ansiosi di creare un clima di armonia nei rapporti tra le superpotenze. Cfr. Essay by Henry A. Kissinger, Document 4, in U.S. DEPARTMENT OF STATE, Foreign Relations of the United States (d’ora in poi FRUS), 1969-1976, Founda31 178 Diplomazie triangolari a confronto: Metternich/Kissinger re americano, era quella dell’interesse nazionale: valutando i benefici che l’America avrebbe potuto trarre dai negoziati, occorreva bilanciare una politica di rigore con un approccio conciliatorio: «In assenza di misure che penalizzino l’intransigenza dell’avversario non vi è incentivo per la conciliazione».36 Tale asserzione rispecchiava la mappa delle problematiche russo-americane che impediva, in effetti, la realizzazione di un assetto internazionale più equilibrato. Gli scenari internazionali nei quali Stati Uniti e Unione Sovietica rivaleggiavano erano molteplici: Berlino, il Vietnam, il Medio Oriente. Tra i temi che potevano far convergere gli interessi americani e quelli sovietici v’era la questione della limitazione degli armamenti nucleari (Strategic Armaments Limitation Talks) e la possibilità di un incontro al vertice tra Nixon e Brezhnev. Secondo Kissinger, dal punto di vista degli Stati Uniti, l’accordo SALT rappresentava la possibilità di porre un freno all’arsenale sovietico, in crescita dal 1962; i sovietici, dal canto loro, intendevano i colloqui come un espediente per riacquistare la rispettabilità dell’Occidente.37 Alla luce di ciò, Nixon si proponeva di utilizzare i negoziati SALT come moneta di scambio per la risoluzione degli altri problemi politici internazionali.38 Come ha affermato Kissinger nelle sue memorie, l’obiettivo principale degli americani doveva essere quello di «impedire ai sovietici di poter usare la cooperazione in un solo ambito come una valvola di sicurezza, pur cercando contemporaneamente di ottenere altrove vantaggi unilaterali».39 Il dipartimento di stato, però, non si allineava a tale approccio: il segretario di stato, William Rogers, desiderava avviare al più presto i colloqui. Tale discordanza di vedute portò Nixon a promuovere l’istituzione di un canale per la diplomazia segreta, così da assicurarsi il controllo diretto dei negoziati. Il primo dei numerosi incontri collaterali ebbe luogo un mese dopo l’insediamento del neo-presidente. La gestione del canale segreto fu affidata a Kissinger, il quale aveva tion of Foreign Policy 1969-1972, vol. I, Washington, D.C., U.S. Government Printing Office, 2003, pp. 21-48. 36 Cfr. ibid., p. 43. 37 Cfr. H.A. Kissinger, Gli anni della Casa Bianca, Milano, SugarCo, 1980, pp. 115 e 171. 38 Cfr. R.M. NIXON, The President’s News Conference, January 27, 1969, in http://www.presidency.ucsb.edu/ws/index.php?pid=1942. 39 KISSINGER, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 116. 179 Sabrina Sergi il compito di interloquire direttamente con l’ambasciatore sovietico a Washington, Anatoly Dobrynin, in maniera «altamente confidenziale».40 La questione SALT intersecava un tema caldo per la politica interna degli Stati Uniti: quella dei tagli al bilancio della difesa, sostenuti strenuamente dalla maggioranza del congresso. I sovietici, consapevoli di tale problematica, non avevano fretta di fissare una precisa data d’inizio dei colloqui, contando su eventuali limitazioni che gli Stati Uniti si sarebbero autoinflitti nel frattempo. Nel corso della prima metà del 1969, gli incontri tra Dobrynin e Kissinger non portarono ad alcuna ragguardevole svolta, a causa dell’evasività dell’ambasciatore sovietico. Come ha fatto notare Kissinger, uno dei maggiori ostacoli al riguardo era la diffidenza reciproca: «Tutti e due i giocatori volevano soprattutto evitare di commettere errori irreparabili: le mosse erano più che caute: ognuno voleva tener celate il più possibile le proprie intenzioni, e induceva, di conseguenza, 41 il suo avversario a una prudenza ancora maggiore». Il cuore del problema risiedeva nel vantaggio comparato che ciascun paese possedeva nell’ambito degli armamenti. Fino al 1968, il Cremlino aveva accelerato la corsa nell’ambito degli armamenti offensivi, mentre era in netto svantaggio rispetto a quelli difensivi. L’obiettivo degli Stati Uniti, dunque, era quello di raggiungere un accordo tale da congelare la produzione dei vettori offensivi, dal momento che i tagli alla difesa, comunque, impedivano un incremento dei propri. Dal punto di vista delle armi difensive, invece, qualsiasi limitazione avrebbe danneggiato unilateralmente i sovietici, data la superiorità americana.42 5. Il conflitto sino-sovietico e l’atteggiamento americano Il 2 marzo del 1969, soldati cinesi e guardie di frontiera russe si scontrarono presso l’isola di Zhenbao/Damansky, al centro del fiume Ussuri, che scorre tra il territorio cinese in Manciuria e quello russo nella regione di Sihote-Alin’. Questo episodio diede 40 Document 8: Their First “One-on-One”: Dobrynin’s Record of Meeting with Kissinger, February 21, 1969, pp. 20-25, in W. BURR, ed., National Security Archive Electronic Briefing Book No. 233, postedNovember 2, 2007, in http://www2.gwu.edu/~nsarchiv/NSAEBB/NSAEBB233/index.htm. 41 KISSINGER, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 419. 42 Cfr. H.A. KISSINGER, L’arte della diplomazia, Milano, Sperling Paperback, 2004, p. 582. 180 Diplomazie triangolari a confronto: Metternich/Kissinger seguito a un’escalation militare per tutto il corso del 1969. Tale rivalità costituiva la manifestazione di una frattura latente nel blocco comunista, considerato monolitico dagli occidentali. La breccia nelle relazioni sino-sovietiche aveva radici negli anni Cinquanta quando, dopo la morte di Stalin, Mao Zedong giudicò negativamente la politica di destalinizzazione inaugurata da Kruscev. Da allora in poi, la Cina accrebbe la diffidenza nei confronti dell’alleato, sia dal punto di vista ideologico, sia da quello politico. Nel 1962, per esempio, Mosca negò il proprio supporto a Pechino nella questione degli scontri sul confine sino-indiano, invocando la neutralità in nome della coesistenza competitiva. Il rifiuto fu interpretato dai cinesi come un tradimento dell’ideologia comunista.43 Secondo Kissinger, questo progressivo deterioramento dei rapporti sino-sovietici si configurava come «una lotta per l’esistenza».44 Le preoccupazioni sovietiche per gli incidenti sul fiume Ussuri erano profonde, tanto che l’11 marzo Dobrynin riferì l’episodio a Kissinger. Egli mise in risalto gli aspetti più cruenti degli scontri, addossandone la responsabilità ai cinesi; era interessato soprattutto a conoscere le opinioni e le eventuali reazioni americane in merito. Kissinger si mostrò distaccato rispetto alla questione e affermò che gli Stati Uniti erano e rimanevano estranei agli affari bilaterali legati al confine sino-sovietico. In realtà, il consigliere americano era tutt’altro che indifferente, non perché gli stesse a cuore una zona così remota dell’Estremo Oriente, ma in ragione della concitazione dell’ambasciatore sovietico nel parlarne. Discorrendo al telefono con il presidente, egli sottolineò che anche il fatto stesso che Dobrynin avesse riferito la vicenda nel contesto di un incontro a così alto livello faceva nascere il sospetto dell’importanza strategica della questione.45 Tale ipotesi fu confermata dalle successive operazioni di propaganda sovietica finalizzata a isolare la Cina nell’ambito dei paesi comunisti: l’appello agli alleati del patto di Varsavia per condannare l’atteggiamento cinese, l’inclusione della Cina nell’elenco dei paesi avversari dell’Unione Sovietica, la proposta di costituire un sistema di sicurezza collettiva in 43 Cfr. ID., Cina, Milano, Mondadori, 2011, pp. 149-200. Ibid., p. 158. 45 Cfr. Nixon Presidential Material Project, National Security Council Files, Box 489. Dobrynin/Kissinger 1969 (Part I), Nixon and Kissinger, 11 March 1969, c. 10:00 p.m., p. 4, in W. BURR T. BLANTON, eds., National Security Archive Electronic Briefing Book No. 123, posted May 26, 2004, p. 4. 44 181 Sabrina Sergi Asia. In maniera parallela, Mosca continuava le offensive militari, tanto che nel mese di giugno il conflitto si estese anche al confine sino-sovietico occidentale, tra la regione dello Xinjiang e l’attuale Kazakistan. Quando Allen Whiting della Rand Corporation presentò a Kissinger uno studio strategico sugli scontri di giugno, il consigliere notò che essi si erano svolti in zone vicine alle basi di rifornimento russe e non cinesi. Kissinger valutò tale situazione come un “problema e un’opportunità” per gli Stati Uniti. L’eventuale invasione sovietica della Cina avrebbe sconvolto l’equilibrio globale e allo stesso tempo l’intervento americano si prospettava difficile, sia per l’ideologia comunista del paese, sia perché non intercorreva alcun rapporto diplomatico con esso. D’altro canto, la necessità cinese di rompere l’isolamento diplomatico si presentava come un’occasione per gli Stati Uniti di instaurare un dialogo con Pechino, frenando, di conseguenza, l’aggressività sovietica.46 Nel tentativo di risolvere il dilemma, ai primi di luglio Kissinger diramò un memorandum ai segretari di stato e alla difesa e al direttore della CIA, nel quale chiedeva di considerare le implicazioni della rivalità tra i due paesi comunisti «sul triangolo costituito dagli Stati Uniti, dai sovietici e dai cinesi».47 Tali valutazioni si sarebbero dovute basare, oltre che sul rapporto Whiting, anche su quello di William Hyland, membro dell’NSC Staff. In esso venivano esposte le due possibili politiche che gli Stati Uniti avrebbero potuto scegliere: l’imparzialità, che avrebbe potuto essere interpretata dai cinesi come collusione con i sovietici; la parzialità verso la Cina, che al contrario avrebbe permesso di esercitare pressioni sull’Unione Sovietica e di prevenire uno sbilanciamento dell’equilibrio asiatico. Le conclusioni di Hyland, però, indicavano che un’eventuale guerra circoscritta russo-cinese sarebbe stata «tutt’altro che un disastro per gli Stati Uniti, rappresentando anzi una soluzione al problema nucleare cinese».48 46 Cfr. KISSINGER, Cina, cit., pp.197-199; ID., Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 155. H.A. KISSINGER, National Security Study Memorandum 63, July 3, 1969, U.S. Policy on Current SinoSoviet Differences, in National Security Council Institutional Files, Box H-207, in http://www.nixonlibrary.gov/virtuallibrary/documents/nssm/nssm_063. 48 Memorandum from William Hyland of the National Security Council Staff to the President’s Assistant for National Security Affairs (Kissinger), Document 27, August 26, 1969, in FRUS, 1969-1976, vol. XVII, China 1969-1972, Washington, D.C., U.S. Government Printing Office, 2006, p. 71. 47 182 Diplomazie triangolari a confronto: Metternich/Kissinger Alla fine, la strada scelta da Nixon fu quella della neutralità, con una propensione verso la Cina. Le considerazioni che portarono a tale scelta furono sostanzialmente geopolitiche: infatti, Kissinger, in qualità di consigliere alla sicurezza nazionale, affermò che in quella situazione «la scelta più logica risultava quella di appoggiare il più debole contro il più forte».49 Inoltre, il presidente era del parere che l’eventuale fine della Cina in un conflitto sino-sovietico non rientrava comunque negli interessi strategici americani. Secondo Kissinger, asserire che l’interesse nazionale americano si fondava sulla sopravvivenza di uno dei più importanti paesi comunisti, con il quale non si avevano rapporti diplomatici da quasi vent’anni, segnava una svolta “rivoluzionaria” nella politica estera degli Stati Uniti.50 Il 20 ottobre, pochi mesi dopo l’inasprimento delle tensioni russo-cinesi, il canale Kissinger-Dobrynin diede i primi risultati. L’ambasciatore sovietico annunciò che il proprio governo suggeriva di aprire i negoziati SALT il 17 novembre successivo, a Helsinki. Egli aggiungeva alla propria dichiarazione la lettura dell’aide mémoire stilato dal suo governo, nel quale ammoniva gli americani a non sostenere alcun genere di riavvicinamento sino-americano: «Se negli Stati Uniti vi fosse la tentazione di trarre profitto dalle relazioni sino-sovietiche a spese dell’Unione Sovietica, […] allora noi vogliamo avvisare subito e in maniera molto franca che questa linea di condotta […] non è in alcun modo coerente con l’obiettivo del miglio51 ramento delle relazioni con l’Unione Sovietica». Secondo Kissinger, queste parole erano il chiaro segnale che la proposta sovietica fosse un espediente per aumentare l’isolamento della Cina, sfruttando l’apparente collusione russo-americana.52 49 Minutes of the Senior Review Group Meeting, Document 36, Washington, September 25, 1969, ibid., p. 94. 50 Cfr. KISSINGER, Cina, cit., p. 199. 51 Memorandum of Conversation, Document 93, Washington, October 20, 1969, in FRUS, VOL. XII, Soviet Union, January 1969-October 1970, Washington, D.C., U.S. Government Printing Office, 2006, p. 285. 52 Cfr. KISSINGER, Gli anni della Casa Bianca, cit., p. 143. 183 Sabrina Sergi 6. L’apertura alla Cina come incentivo alla distensione La decisione di promuovere un nuovo approccio diplomatico tra gli Stati Uniti e la Cina venne messa in pratica in due modi: il primo, più duraturo e proficuo, fu quello esterno ai canali ufficiali, tramite la mediazione di altri paesi; il secondo coinvolgeva la diplomazia ufficiale, a Varsavia, già sede di centotrentaquattro inconcludenti incontri dal 1958.53 Nel corso dell’estate 1969, Nixon aveva intrapreso un viaggio intorno al mondo. Il presidente aveva colto tale occasione per cercare di stabilire dei contatti con i leaders cinesi, avvalendosi della mediazione del presidente rumeno Nicolae Ceausescu e di quello pakistano Yahya Khan. Per guadagnarsi la fiducia di Pechino, egli smentì qualsiasi ipotesi circa un tacito condominio russo-americano. La manifestazione di buona fede fu seguita da un atto concreto, ossia il ritiro di un pattugliamento permanente presso l’isola di Taiwan. La gestione dei canali segreti, dei quali quello pakistano risultò essere il più produttivo, fu affidata a Kissinger, il quale svolgeva periodici incontri con l’ambasciatore Agha Hilaly. Il consigliere, inoltre, aveva esortato l’ambasciatore americano a Varsavia, Walter Stoessel, a ristabilire dei contatti con l’incaricato d’affari cinese in Polonia, Lei Yang.54 La sinergia dei due canali produsse un primo incontro ufficiale tra Stoessel e Lei, il 20 gennaio 1970: il primo ribadì le rassicurazioni circa i rapporti russo-americani, esplicitando la volontà del governo di stabilire rapporti diplomatici ad alto livello, attraverso l’invio o la ricezione di un rappresentante del governo nelle rispettive capitali; la posizione cinese formulava la medesima proposta.55 La mattina di quello stesso 20 gennaio, Dobrynin chiese la fissazione di un nuovo appuntamento con Kissinger, per riferirgli alcune questioni impellenti; gli premeva conoscere ciò che stava avvenendo a Varsavia. Quando il consigliere americano gli rispose che non era ancora pervenuto alcun rapporto scritto, l’ambasciatore sovietico insistette chiedendo che qualche informazione gli fosse riferita, almeno oralmente, da lui stesso. Kissinger, a questo punto, affermò che tale argomento esulava da quelli legati al ca- 53 Cfr. ID., Cina, cit., p. 148. Cfr. ID., Gli anni della Casa Bianca, cit., pp. 157-164. 55 Cfr. ibid., pp. 553-554; ID., Cina, cit., p. 204. 54 184 Diplomazie triangolari a confronto: Metternich/Kissinger nale segreto. Dobrynin, allora, riprese il discorso sulla problematicità della questione cinese per i sovietici, definendola un “punto nevralgico”. Oltre a ciò, egli riprese la questione dei colloqui SALT, giunti a una fase di stallo il mese precedente, proponendo di riaprire i negoziati la successiva primavera.56 L’atteggiamento del legato russo svelava i timori sovietici per l’avvicinamento sino-americano, benché proprio questo li rendesse più vulnerabili agli occhi degli Stati Uniti. Entrambe le questioni rimasero in sospeso per alcuni mesi, a causa delle azioni americane in Vietnam, che videro l’estensione del conflitto nel territorio cambogiano; quest’intervento segnò la chiusura definitiva del canale di Varsavia. L’esito positivo di alcune crisi, occorse nel mese di settembre in Giordania e a Cienfuegos, contribuì comunque a migliorare la posizione internazionale degli Stati Uniti. La fine dei colloqui d’ambasciata non coincise con la conclusione dei contatti sinoamericani: la loro prosecuzione fu garantita dal canale pakistano. Il 25 ottobre 1970, infatti, Nixon incontrò il presidente Yahya nello Studio Ovale, avanzando l’ipotesi di inviare un rappresentante americano a Pechino per instaurare dei contatti segreti.57 Due mesi dopo, l’ambasciatore Hilaly riferì il messaggio affermativo del primo ministro cinese Zhou Enlai; ancora una volta, alle buone intenzioni seguirono atti concreti, come le liberalizzazioni nei confronti del commercio cinese. Anche Pechino teneva a dimostrare la propria buona fede e lo fece nell’aprile del 1971, invitando la squadra americana di ping-pong nel proprio paese.58 Gli indugi vennero definitivamente rotti quando Zhou rivolse un invito diretto al presidente degli Stati Uniti o, in alternativa, ad un suo delegato, specificando il nome di Kissinger.59 Nixon decise, così, di organizzare un incontro preliminare segreto con i cinesi, inviando il proprio consigliere alla sicurezza nazionale, che avrebbe preparato il terreno per il vertice pubblico. 56 Cfr. Memorandum of Conversation, Document 118, January 20, 1970, Washington, in FRUS, vol. XII, cit., p. 355. 57 Cfr. Memorandum of Conversation, Document 90, Washington, October 25, 1970, in FRUS, 1969-1976, vol. E-7, Documents on South Asia, 1969-1972, Washington, U.S. Government Printing Office, 2005, pp. 1-3. 58 Cfr. KISSINGER, Cina, cit., pp. 210-212. 59 Cfr. Message from the Premier of the People’s Republic of China Chu En-Lai to President Nixon, Document 118, Beijing, April 21, 1971, in FRUS, China, 1969-1972, vol. XVII, cit., pp. 300-301. 185 Sabrina Sergi Nel frattempo, le trattative SALT contestuali al filo diretto avevano portato l’Unione Sovietica ad accogliere la proposta di negoziare simultaneamente tanto gli armamenti offensivi, che quelli difensivi. Nel corso delle sedute ufficiali, però, il negoziatore russo, Vladimir Semenov, aveva insistito nel proporre una bozza che anteponeva l’accordo sulle seconde rispetto a quello sulle prime. Dopo un iniziale inasprimento dei toni, Dobrynin rassicurò Kissinger riguardo all’accordo raggiunto in sede collaterale, fissando insieme a lui la data dell’annuncio ufficiale al 20 maggio. La conferma di tale accordo attraverso la firma sarebbe dovuta avvenire nell’ambito di un incontro al vertice, per il quale i sovietici continuarono a temporeggiare per tutto il corso del mese successivo. Il 5 luglio fu inviata una nota tramite il sostituto di Dobrynin, nella quale si dichiarava sfumata l’eventualità di un incontro al vertice per l’autunno successivo e si annunciava una serie di condizioni alle quali essa poteva rimanere ancora legata.60 Al momento della ricezione della nota sovietica, Kissinger si trovava a Bangkok, una delle tappe asiatiche del suo giro del mondo. Pochi giorni dopo, si diresse in Pakistan, dove, con la complicità del presidente Yahya, si sottrasse ai pubblici incontri per due giorni, giustificando la sua assenza con motivi di salute. In realtà, insieme a un ristretto gruppo di collaboratori, egli si era messo in volo per Pechino: il 9 luglio 1970, il consigliere alla sicurezza nazionale fu il primo funzionario americano ad avere un colloquio con uno dei più importanti leaders cinesi, dopo più di vent’anni di ostilità tra i due paesi.61 L’incontro tra Zhou e Kissinger ebbe successo: infatti, fu coronato dalla redazione di un comunicato congiunto riguardante l’annuncio ufficiale dell’invito cinese al presidente americano. Il 15 luglio, Nixon svelò al mondo l’incontro segreto avvenuto tra il proprio consigliere e il primo ministro cinese e annunciò la «normalizzazione dei rapporti tra i due paesi».62 Due giorni dopo la sconvolgente dichiarazione americana, Dobrynin inviò al proprio ministro degli esteri un cablogramma definito “urgente”. Egli dichiarava che la concordia sino-americana influenzava significativamente contesti geopolitici quali il Sudest asiatico, l’Estremo Oriente, ma, soprattutto, 60 Cfr. KISSINGER, Gli anni della Casa Bianca, cit., pp. 642-663. Cfr. ibid., pp. 587-591. 62 Ibid., p. 607. 61 186 Diplomazie triangolari a confronto: Metternich/Kissinger «la relazione triangolare tra l’Unione Sovietica, la Cina e gli Stati Uniti. […] Dobbiamo continuare […] ad utilizzare tutti i fattori oggettivi e soggettivi che determinano l’interesse americano a sviluppare relazioni con l’Unione Sovietica, tenendo sotto controllo la possibilità che la costruzione della relazione con Pechino, da parte degli Stati Uniti, non 63 scivoli verso il comune sentimento dell’anti-sovietismo». Gli Stati Uniti avevano realizzato l’essenza della strategia triangolare, ponendosi al centro di un sistema nel quale gli altri due membri si contendevano la partnership americana. Il primo risultato positivo che seguì l’apertura alla Cina fu l’ammorbidimento delle posizioni sovietiche nella questione di Berlino. Mosca accettò il principio del legame tra la città e la Repubblica Federale Tedesca, fino ad allora negato ed ampiamente osteggiato. Il 10 agosto, i russi invitarono formalmente Nixon a visitare Mosca in una data compresa tra maggio e giugno del 1972; gli americani accettarono l’invito una settimana dopo. Ad ogni modo, i cinesi li avevano preceduti e la storica visita del presidente americano in Cina ebbe luogo nel mese di febbraio. In occasione del vertice di Mosca, finalmente furono firmati gli accordi SALT. Essi prevedevano il congelamento bipartisan delle armi offensive e la limitazione della costruzione di sistemi ABM alle sole rispettive capitali. Inoltre, fu redatta la dichiarazione intitolata “Princìpi fondamentali delle relazioni fra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica”, che sanciva il valore internazionale della coesistenza pacifica, in nome della quale seguì poi una serie di aperture economiche e scambi commerciali tra Unione Sovietica e Stati Uniti.64 7. Kissinger, moderno Metternich? All’indomani dell’annuncio ufficiale del viaggio segreto di Kissinger in Cina, le attenzioni della stampa americana si concentrarono sulla personalità del consigliere del presidente. Numerosi settimanali gli dedicarono articoli, definendolo «il Metternich dei 63 Documents 177-180: The American and the Chinese Will Intensify their Game: Dobrynin Cable on U.S.-China Rapprochement and Kissinger and Dobrynin Records of Meeting, 19 July, 1971, pp. 401-414, in W. BURR, ed., National Security Archive Electronic Briefing Book No. 233, posted-November 2, 2007, in http://www2.gwu.edu/~nasarchiv/NSAEBB/NSAEBB233/7-71%20China.pdf. 64 Cfr. DI NOLFO, Storia delle relazioni internazionali, cit., pp. 1167-1170. 187 Sabrina Sergi giorni nostri».65 In un’intervista rilasciata alla giornalista italiana Oriana Fallaci, che lo aveva paragonato al consigliere fiorentino Niccolò Machiavelli, egli precisò: «La gente mi associa piuttosto al nome di Metternich. Il che è addirittura infantile. Su Metternich io ho scritto soltanto un libro […]. Non può esserci nulla in comune tra me e Metternich. […] Come si può pa66 ragonare ciò al mondo d’oggi?». Walter Isaacson, che ha dedicato a Kissinger una biografia, ha aggiunto che costui aveva dichiarato più volte che il ministro austriaco non era di certo il suo “eroe”.67 Secondo il biografo, però, l’opera Diplomazia della Restaurazione conterrebbe le premesse del realismo politico di Kissinger, oltre che le sue convinzioni sull’arte del governo. Egli ha sostenuto che molte descrizioni relative ai metodi diplomatici di Metternich potrebbero essere correlate ad alcune condotte assunte durante la sua carriera di politico.68 Lo storico Jussi Hanhimäki è giunto alle stesse conclusioni al riguardo, affermando che l’opera di Metternich racchiuderebbe i fondamenti del realismo kissingeriano. In particolare, egli li ha identificati nel primato della geopolitica, nel concetto dell’equilibrio delle potenze, ma anche nella manipolazione delle relazioni internazionali da parte di un ristretto numero di diplomatici.69 Lo storico italiano Mario Del Pero è dell’opinione che la tesi di Kissinger sia stata il primo passo verso un’“auto-rappresentazione”, attraverso la quale costui avrebbe delineato la propria immagine di realista, utile prima nell’ambiente accademico e, poi, in quello politico. L’analisi dell’Europa del diciannovesimo secolo, quindi, era stata un mezzo per lanciare un messaggio all’America contemporanea, indicando «quali possibilità si aprono allo statista, laddove egli conosca codici e regole […] del sistema internazionale e della politica di potenza».70 In effetti, lo stesso Kissinger, in un passo di Di- 65 Tra le riviste più celebri, «Time», «Newsweek», «U.S. News and World Report». Cfr. J. HANHIMÄKI, The Flawed Architect: Henry Kissinger and American Foreign Policy, New York, Oxford University Press, 2004, p. 144. 66 O. FALLACI, Intervista con la storia, Milano, Rizzoli, 2011, p. 39. 67 Cfr. W. ISAACSON, Kissinger: A Biography, London, Faber and Faber, 1992, p. 77. 68 Cfr. ibid., pp. 75-76. 69 Cfr. HANHIMÄKI, The Flawed Architect, cit., p. 7. 70 M. DEL PERO, Henry Kissinger e l’ascesa dei neoconservatori. Alle origini della politica estera americana, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 42. 188 Diplomazie triangolari a confronto: Metternich/Kissinger plomazia della Restaurazione, aveva precisato che «i filosofi possono discutere e polemizzare sulla statura morale della politica di Metternich, ma gli statisti non possono che studiarla con profitto».71 Nel periodo in cui scrisse tali parole, non poteva sapere che un giorno egli stesso si sarebbe aggiunto alla schiera di quegli statisti. John Lewis Gaddis ha stabilito un collegamento tra le opinioni di Kissinger in Diplomazia della Restaurazione e il suo operato politico di consigliere alla sicurezza nazionale dell’amministrazione Nixon, nel raggiungimento dell’obiettivo della distensione. In particolare, egli ha paragonato l’equilibrio del potere raggiunto dopo il 1815, che previde l’inclusione di tutti i membri del panorama internazionale, con quello del 1975, che legittimò tanto l’Unione Sovietica, quanto la Cina. Alla base di tale parallelismo, vi sarebbe il principio del consenso di tutti i membri interessati alla sopravvivenza di un determinato sistema internazionale concordato, escludendo il ricorso a conflitti allargati.72 Nel presente saggio, comunque, si è tentato di approfondire un particolare aspetto strategico che ha accomunato le politiche di Metternich a quelle di Kissinger, ovvero la diplomazia triangolare. Entrambi gli statisti si trovarono nelle condizioni di includere degli alleati “inaspettati”: la Francia e la Cina. Nel primo caso, il ministro austriaco era riuscito a scongiurare il rischio di un accomodamento geopolitico foriero di nuovi conflitti grazie all’apertura nei confronti dello stesso Stato che aveva provocato il sovvertimento dell’ordine europeo. La sua strategia fu quella di “usare” la Francia come schermo, per instaurare una politica che inficiasse gli interessi del suo alleato più ingombrante, il regno di Prussia. Essendo, al contempo, indispensabile e pericoloso per gli interessi austriaci, il paese di Federico Guglielmo IV doveva essere isolato e portato a credere che un’alleanza con l’Austria fosse la migliore politica perseguibile. La mossa di Metternich, che segnò il ritorno della Francia sulla bilancia dell’equilibrio europeo, permise all’impero di Francesco I di porsi al centro di un sistema attrattivo tanto per la Francia, quanto per la Prussia, entrambe in cerca di legittimazione. 71 KISSINGER, Diplomazia della Restaurazione, cit., p. 95. Cfr. J.L. GADDIS, Rescuing Choice from Circumstance: The Statecraft of Henry Kissinger, in G.A. CRAIG - F.L. LOEWENHEIM, ed., The Diplomats 1939-1979, Princeton, NJ, Princeton University Press, 1994, p. 575. 72 189 Sabrina Sergi Nel secondo caso, Kissinger sfruttò l’inaspettata frattura sino-sovietica per dare una svolta al rigido sistema bipolare. Anche per il consigliere americano si trattava di includere nella propria orbita un paese che fino ad allora era stato considerato nemico e ostile. Indipendentemente dalla differenza ideologica, Kissinger valutò che l’avvicinamento alla Cina rappresentasse un incentivo per ammansire i sovietici riguardo alla necessità di raggiungere un accordo distensivo. In questo caso, anche gli Stati Uniti si posero come il fulcro di un sistema attorno al quale ruotavano l’Unione Sovietica e la Cina, creando una situazione nella quale i due ex-alleati comunisti gareggiavano per ottenere il consenso del paese considerato come il maggior rappresentante del capitalismo. È possibile cogliere alcuni ulteriori elementi che hanno accomunato i due statisti, lungi dall’azzardare improbabili e forzati paragoni. Entrambi si ritrovarono al governo in un momento in cui la coesione interna del proprio paese era corrosa da una congiuntura storica critica. L’Austria del 1815 era un impero multietnico, sopravvissuto alle guerre napoleoniche che avevano contribuito a diffondere il pensiero rivoluzionario. Gli Stati Uniti del 1970 erano una democrazia in crisi di coscienza, i cui vertici decisionali non trovavano più il largo consenso di cui avevano goduto nei decenni precedenti, a causa del dibattito scatenato dalla guerra del Vietnam. Entrambi gli Stati, quindi, dovevano affrontare un mondo in trasformazione, partendo da una posizione di debolezza interna, ed erano alla ricerca di una politica che potesse restituire il senso di sicurezza perduto. Sia a Metternich, che a Kissinger era stato affidato il compito di affiancare e consigliare i rispettivi capi di stato nella gestione di tale situazione, considerando la posizione internazionale del proprio paese. La capacità di collegare diversi eventi tra loro, l’abilità di tessere una rete diplomatica complessa, la solidità dell’obiettivo da perseguire, ossia l’interesse nazionale, nonché la flessibilità della strategia rispetto al mutamento delle circostanze, sono altre caratteristiche che hanno accomunato i due statisti. In generale, esse rientrano nell’approccio realista attraverso il quale i due consiglieri hanno portato avanti le loro strategie, insieme all’attenzione per la geopolitica e all’analisi dei rapporti di forza tra gli Stati. Un’altra peculiarità condivisa è sicuramente la prudenza rispetto all’uso della forza e il ricorso massiccio al negoziato, anche attraverso metodi non convenzionali. In partico- 190 Diplomazie triangolari a confronto: Metternich/Kissinger lare, lo strumento della diplomazia segreta è uno degli elementi che più risalta tra gli svariati modi operandi dei due statisti.73 Se, nel contesto storico nel quale viveva Metternich, tale atteggiamento poteva suscitare l’ira di qualche sovrano insoddisfatto, negli Stati Uniti del XX secolo tale strumento risultava anacronistico nonché immorale.74 Eppure esso è stato il mezzo, tanto per Metternich quanto per Kissinger, che ha costituito la chiave di volta di tutta un’intera strategia politica. L’approccio diretto con l’avversario ha implicato, infatti, l’addizione del fattore umano-emotivo al novero delle possibilità da considerare in merito alla migliore scelta da effettuare. Esso ha contribuito a una conoscenza più approfondita delle intenzioni nemiche. Metternich ha potuto giocare la carta dell’irrequietezza di Hardenberg nella questione sassone e, allo stesso tempo, ha potuto cogliere la propensione francese verso l’Austria, mentre Kissinger ha intuito le preoccupazioni sovietiche nei confronti di un eventuale appeasement sinoamericano nel corso dei colloqui con Dobrynin. Sia Metternich, che Kissinger hanno saputo rispondere alla trasformazione delle circostanze adattandovi la propria strategia in maniera vincente e hanno messo da parte le crociate ideologiche, pur di raggiungere il proprio obiettivo, coincidente con l’interesse nazionale. Entrambi gli statisti, inoltre, non hanno mai perso di vista il contesto mondiale di riferimento, ponendo quale presupposto della stabilità interna l’ordine e l’equilibrio internazionali. 73 «La “via confidenziale” [nel contesto del congresso di Vienna] sembra sia stata un’idea di Metternich». FERRERO, Ricostruzione. Talleyrand a Vienna (1814-1815), cit., p. 200. 74 Prima di Kissinger, il ricorso alla diplomazia segreta negli Stati Uniti è stata registrata durante due sole presidenze, quella di George Washington e quella di John F. Kennedy, quale misura di emergenza. Cfr. HANHIMÄKI, The Flawed Architect, cit., p. 34. Inoltre, l’art. 102, par. 1 della Carta dell’ONU, ispirato a uno dei quattordici punti propugnati dal presidente americano Woodrow Wilson, rende ufficiale la condanna di tale immorale consuetudine internazionale in favore di una diplomazia aperta. Cfr. S. MARCHISIO, L’Onu. Il diritto delle Nazioni Unite, Bologna, Il Mulino, 2000, p. 305. 191 NOTE E DISCUSSIONI Eunomia. Rivista semestrale di Storia e Politica Internazionali Eunomia III n.s. (2014), n. 1, 195-211 e-ISSN 2280-8949 DOI 10.1285/i22808949a3n1p195 http://siba-ese.unisalento.it, © 2014 Università del Salento MICHELE CARDUCCI Sull’ipotesi di istituzione di una corte costituzionale internazionale: per il “diritto alla democrazia” e la tutela contro i mutamenti incostituzionali Abstract: The article analyzes the proposal to institutionalize an International Constitutional Court, developed by the African Union Heads of State Summit and introduced to the General Assembly of the United Nations. The initiative is based on two very important elements for the future of constitutionalism: the recognition of a human right to democracy as a right for participation and social inclusion; the judicial review on the basis of international standards and constitutional changes within the States. In this perspective, the existence of an International Constitutional Court should also avoid the interference of any State in the domestic affairs of another State, justified by abstract democratic values. Keywords: International Constitutional Court; right to democracy; unconstitutional changes; universal protection. 1. Premessa Il 28 gennaio 2013, la ventesima conferenza dei capi di stato e di governo dell’Unione africana, su impulso della Tunisia, ha formalizzato la richiesta d’istituzione di una corte costituzionale internazionale sotto l’egida dell’ONU. 1 Più precisamente, la conferenza ha incaricato la commissione sul diritto internazionale della stessa Unione (l’AUCIL) a impostare i contenuti di una risoluzione da far votare in una successiva riunione, per poi trasmetterla al segretario generale dell’ONU e permetterne l’inserimento all’ordine del giorno della sessantanovesima sessione dell’assemblea generale, programmata per settembre 2014, con la qualificazione della corte costituzionale come nuovo organo dell’ONU ai sensi dell’art. 22 dello statuto. Già nel corso della sessione del settembre 2012, il presidente della Repubblica di Tunisia, Mohamed Moncef Marzouki, ne aveva preannunciato l’avvio, con un suo intervento in assemblea generale, al quale egli stesso ha fatto seguire, nel maggio 2013, un congresso internazionale di diritto costituzionale tenutosi sempre in Tunisia, a Cartagine, per verificare limiti e potenzialità di questo possibile strumento di giustizia costituzionale universale, nel confronto, tra l’altro, con 1 Cfr. doc. Assembly/AU/12 (XX) Add.1. Michele Carducci gli obiettivi dell’Agenda post 2015 che l’ONU vorrebbe attivare anche sul fronte del rafforzamento globale dello Stato di diritto. La proposta di risoluzione, che dovrebbe preludere al percorso istitutivo del nuovo organo, fonda l’istanza su una serie di riferimenti normativi, così di seguito sintetizzabili: esistenza di un impegno formale universale di tutti gli Stati aderenti alle Nazioni Unite a rispettare i valori universali della democrazia, dello stato di diritto e dei diritti umani, sanciti negli strumenti internazionali, sulla base del principio di buona fede; accettazione del principio dell’autodeterminazione dei popoli; richiamo al patto internazionale sui diritti civili e politici, alla convenzione sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne e alla convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, come fonti di legittimazione di una partecipazione democratica inclusiva e paritaria, da garantire attraverso meccanismi di contenzioso universale e uguale per tutti i cittadini e le associazioni politiche e sociali degli Stati. L’iniziativa, pertanto, presenta la significativa caratteristica di collegare l’idea di una corte costituzionale internazionale non tanto (o non solo) al rafforzamento unitario della tutela dei diritti umani come situazioni soggettive individuali e collettive, né certamente all’attribuzione di una specifica potestà di “interferenza” interstatale, bensì alla garanzia della democrazia come forma di governo universalmente riconosciuta nei suoi caratteri distintivi a base della pace tra i popoli e tra gli individui e come tale tutelabile in modo unitario da un unico organo internazionale ad accesso plurale e non solo statale. Non a caso, il documento evoca precedenti risoluzioni ONU in tema di consolidamento delle nuove o ripristinate democrazie, come le nn. 64/155 del 18 dicembre 2009 e 66/163 del 19 dicembre 2011. In questa sede, si vogliono richiamare alcuni spunti di tale inedita prospettiva, nella presa d’atto della disattenzione generale che la dottrina costituzionalistica italiana ha mostrato verso questo coraggioso esperimento: esperimento tutto di origine e ispirazione africane e proprio per questo ancor più degno di nota, perché sposta l’asse del dibattito sul costituzionalismo globale dalla dimensione, non poche volte retorica e ridondante, del cosiddetto “dialogo” tra i giudici, incentrato esclusivamente sulla tutela dei diritti umani di contenuto individuale e marginalmente influente sulle forme politiche di con- 196 Sull’ipotesi di istituzione di una corte costituzionale internazionale vivenza dei singoli contesti statali, alla dimensione della giustiziabilità, unica e universale, delle prassi democratiche di partecipazione deliberativa e di inclusione sociale, al fine di costruire un vero e proprio “diritto alla democrazia” come accesso unico e uniforme alla giustizia per l’effettività di tutti i diritti umani, a partire da quelli politici. 2 Nel 1999, proprio Mohamed Moncef Marzouki aveva pubblicato, sul quotidiano francese «Liberation», un articolo in cui suggeriva l’attivazione di meccanismi giudiziari internazionali di tutela costituzionale delle giovani democrazie. Nel 2006, il professore tunisino Yadh Ben Achour ha ripreso lo spunto, proponendolo all’attenzione dell’Accademia Internazionale di diritto costituzionale e consentendo così di arrivare, nel 2011, all’avvio di un gruppo di lavoro composto, oltre che dallo stesso Yadh Ben Achour, dai professori Monique Chemillier Gendreau (Francia), Ghazi Gherairi e Ferhat Horchani (Tunisia), Maurice Kamto (Camerun), Laghmani Slim (Tunisia), Ahmed Mahiou (Algeria), Christian Tomuschat (Germania), incaricati di impostare le basi per la progettazione di un modello di corte costituzionale internazionale. A seguito di questa prima istruttoria, si è deciso di istituire un vero e proprio “comitato ad hoc”, coordinato da Ahmed Ouerfelli, consigliere giuridico del presidente tunisino, con il compito di diffondere, nei dibattiti scientifici nazionali e internazionali, l’idea della corte costituzionale internazionale e definire le linee portanti di un suo possibile statuto. 2 Sul tema del “diritto alla democrazia”, bisogna ricordare il dibattito esistente a livello internazionale, incentrato su quattro linee di analisi e confronto. La prima è più spiccatamente di natura filosofico-morale e si può far risalire all’impostazione di J. RAWLS (The Law of Peoples, Cambridge, MA, Harvard University Press, 1999, specialmente le pp. 77 ss.) e al dibattito suscitato intorno alle sue tesi (A. BERNSTEIN, A Human Right to Democracy? Legitimacy and Intervention, in D. REIDY and R. MARTIN, eds., Rawls’s Law of Peoples: A Realistic Utopia?, Oxford, Blackwell, 2006, e A. BUCHANAN, Justice, Legitimacy and Self-Determination: Moral Foundations for International Law, Oxford, Oxford University Press, 2004, specialmente le pp. 145 ss.). La seconda discute della qualificazione del “diritto alla democrazia” come diritto umano individuale e collettivo eventualmente giustiziabile (J. COHEN, Is There A Human Right to Democracy?, in CH. SYPNOVICH, ed., The Egalitarian Conscience, Oxford, Oxford University Press, 2006, pp. 226-248; J. NICKEL, ed., Making Sense of Human Rights, Oxford, Blackwell, 2006; J. MANDLE, Global Justice, London, Polity Press, 2006). La terza approfondisce il nesso tra composizione delle istituzioni internazionali e rivendicabilità del “diritto alla democrazia” (D. MILLER, National Responsibility and Global Justice. Oxford, Oxford University Press, 2007, e TH. FRANCK, Fairness in International Law and Institutions, Oxford, Oxford University Press, 1996). La quarta, infine, distinguendo tra diritto all’autodeterminazione e “diritto alla democrazia”, qualifica quest’ultima come elemento costitutivo del principio di non discriminazione (T. MIKETIAK, Nondiscrimination and the Human Right to Democracy, in «Gnosis», XII, 1, 2011, pp. 30-40). Si veda anche J.A. GEEVER-OSTROWSKY, Considering a Human Right to Democracy, Thesis, Georgia State University, 2011, http://scholarworks.gsu.edu/philosophy_theses/87. 197 Michele Carducci 2. Una corte garante del “diritto alla democrazia” Come accennato, la corte servirebbe ad attivare un sistema unico ed unitario di accesso ad una giustizia costituzionale di tutela del “diritto alla democrazia”, inteso sia come diritto formalmente stabilito e sancito in molti strumenti internazionali, tanto universali quanto regionali, sia come prassi di partecipazione, inclusione sociale e soprattutto non elusione di tutti i meccanismi di contorno alle deliberazioni democratiche (dal diritto all’informazione alla tutela delle minoranze e delle opposizioni, alla trasparenza dei finanziamenti, al lobbing, ecc.). Non sembra, infatti, plausibile predicare una “costituzionalità internazionale”, spesso riconosciuta anche a livello formale delle “clausole di apertura” di molte costituzioni verso gli strumenti internazionali di tutela dei diritti umani, che operi asimmetricamente sul fronte dell’omogeneità degli standard di tutela di quei diritti partecipativi e politici interni alle procedure di decisione pubblica. Da tale angolo di visuale, il cosiddetto “dialogo” tra i giudici risulta ancora oggi molto poco “cosmopolita”, dato che non solo le corti costituzionali domestiche, ma anche i giudici internazionali, a partire dalle tre corti convenzionali sui diritti umani (europea, interamericana e africana), preferiscono “arginare” gli effetti delle loro sentenze sugli assetti domestici delle forme di governo, attraverso tecniche di “contestualizzazione” degli argomenti e delle regole prodotte. Valgano alcuni esempi: dal richiamo al “margine di apprezzamento” nella giurisprudenza della corte europea dei diritti dell’uomo, 3 alla giustificazione, esplicitamente formalizzata nel caso Gelman vs. Uruguay del 2011, del “controllo di convenzionalità” sulle procedure deliberative democratiche da parte della corte interamericana dei diritti umani; 4 dal caso Tanganika Law Society et al. vs. Tanzania, 5 risolto dalla corte africana 3 Anche se il ricorso al “margine di apprezzamento” ha risposto ad esigenze e argomenti diversi nella giurisprudenza CEDU: ora giustificandosi per l’assenza di “concezioni uniformi” o di un “terreno comune” di confronto fra gli Stati; ora fondandosi sulla presenza, all’interno dello Stato coinvolto, di una “maggioranza politica e ideologica” che racchiude e interpreta l’identità costituzionale di un paese o le sue “tradizioni nazionali”; ora riferendosi alla riscontrabile “razionalità” delle scelte legislative nazionali. Cfr., per tutti, S. GREER, The Interpretation of the European Convention on Human Rights: Universal Principle or Margin of Appreciation?, in «UCL Human Rights Review», III, 2010, pp. 1-14. 4 J.M. MOCOROA, Justicia transicional, amnistia y Corte Interamericana de derechos humanos: el caso “Gelman” y algunas inquietudes, in M. CARDUCCI – P. RIBERI, a cura di, La dinamica delle integrazioni regionali latinoamericane. Casi e materiali, Torino, Giappichelli, 2014, pp. 88-102. Pertanto, a differenza 198 Sull’ipotesi di istituzione di una corte costituzionale internazionale dei diritti dell’uomo e dei popoli nel 2013 in base allo specifico contesto del singolo paese, alla decisione della corte suprema messicana n. 82/2001 (decisione di rigetto) sulla partecipazione delle comunità indigene ai procedimenti di riforma della costituzione. 6 L’apertura universalistica, che la famosa decisione della corte internazionale di giustizia del 1986 (Nicaragua vs. Stati Uniti d’America) sembrava aver tracciato sulla via dell’affermazione di un principio di “libera scelta del sistema politico, economico e sociale” come vera e propria “autonomia costituzionale” garantita per via giudiziale, 7 non ha ancora prodotto un’uniformazione di regole e principi a fondamento di un’effettiva universalizzazione dei contenuti e delle procedure della democrazia a garanzia dei diritti. Eppure gli strumenti internazionali, cui comunque le costituzioni di molti Stati si richiamano e le stesse giurisprudenze “dialoganti” invocano a giustificazione del “dialogo” stesso, sembrerebbero suggerire una declinazione diversa. Basti pensare all’art. 21 della dichiarazione universale dell’ONU e all’art. 25 del patto sui diritti civili e politici. Proprio per la consapevolezza di questa asimmetria, l’ipotesi di corte costituzionale internazionale è stata configurata, dagli artefici dell’iniziativa africana, nell’attribuzione di una duplice funzione, sia preventiva consultiva che successiva giurisdizionale, attivabile da parte non solo degli Stati ma anche di altri componenti della società politica, come organizzazioni internazionali, ONG, partiti politici, associazioni nazionali e organizzazioni professionali. Se l’obiettivo è quello di universalizzare l’apprendimento delle prassi, e non solo delle forme, della democrazia in termini di effettiva partecipazione e del contesto europeo, dove comunque l’“identità costituzionale” di uno Stato è rispettata sia formalmente (art. 4.2 del Trattato dell’Unione europea) sia sul piano sostanziale degli argomenti da utilizzare nella soluzione del caso concreto (attraverso il ricorso alla tecnica argomentativa del cosiddetto “margine di apprezzamento” da parte della Corte europea dei diritti umani), nel contesto americano, secondo la decisione “Gelman”, «la legittimazione democratica di determinati fatti o atti è limitata dalle norme e dai vincoli internazionali di protezione dei diritti umani», sicché spetterà comunque al giudice internazionale sancire la sussistenza di un «vero regime democratico nelle sue caratteristiche formali e sostanziali», dovendo qualsiasi istanza democratica nazionale, sia rappresentativa che partecipativa e diretta, sottostare comunque alla condizione del «controllo di convenzionalità […], funzione e compito di qualsiasi autorità pubblica, non solo giudiziale». 5 Cfr. V. PIERGIGLI, La corte africana dei diritti dell’uomo e dei popoli giudica sulla violazione dei diritti di partecipazione politica e delle regole democratiche in Tanzania, in «Federalismi.it», Focus Africa, 6, 2014 pp. 1-17. 6 Cfr. J.A. GONZÁLEZ GALVÁN, La Corte y los indígenas, in «Boletín Mexicano de Derecho Comparado», XXXVI, 107, 2003, pp. 725-733. 7 Cfr. M. KAMTO, Constitution et principe de l’autonomie constitutionnelle, in Recueil des cours de l’Académie internationale de droit constitutionnel, VIII, Tunis, Cedex, 2000, pp. 141-146. 199 Michele Carducci inclusione, non è ammissibile che l’accesso sia riservato alla sola finzione formale che contiene quella prassi (lo Stato) e non invece ai suoi attori reali che la vivono e l’alimentato (cittadini organizzati, partiti, associazioni, ecc.). La sfida, pertanto, è radicalmente innovativa: dall’ingerenza interstatale sulle questioni costituzionali interne, dichiarata illegittima dalla decisione della corte internazionale di giustizia nel 1986, si passerebbe alla socializzazione del principio di autodeterminazione, attraverso l’accesso diffuso ad un giudice universale della democrazia. Del resto, in sede giurisdizionale, la corte dovrebbe essere chiamata a verificare le violazioni dei principi e delle regole democratiche all’interno degli Stati, proprio a tutela dei loro attori sociali. Ecco allora che il “diritto alla democrazia”, da semplice autonomia volitiva (ovvero da “autoctonia costituzionale” non condizionata dall’esterno 8), verrebbe ad essere riconosciuto come vera e propria situazione soggettiva che potremmo definire “procedimentale”, ossia funzionale alla regolarità e correttezza delle procedure democratiche quali basi universali di qualsiasi altro diritto umano. Nella ipotesi fatta propria dall’Unione africana, la corte dovrebbe essere composta di 21 giudici eletti dall’assemblea generale delle Nazioni Unite, sulla base di una lista di persone designate da un collegio composto dai giudici della corte internazionale di giustizia, della corte penale internazionale e dei componenti della commissione di diritto internazionale. Le norme parametro del suo giudizio si estenderebbero a tutti gli strumenti internazionali, universali e regionali, che riguardano i diritti dell’uomo, in quanto la prospettiva di tutela e giustiziabilità investirebbe appunto l’effettività di quei diritti grazie all’effettività delle regole e delle prassi democratiche interne a ciascuno Stato. Le costituzioni domestiche, dal canto loro, opererebbero da una sorta di norma interposta 9. Riemergerebbe, in questo modo, quella visione del “diritto costituzionale internazionale” comprensiva delle due anime originarie dei due campi di disciplina: la “tecnica 8 M. HERRERO DE MIÑON, Autoctonía constitucional y poder constituyente, in «Revista de Estudios Políticos», 169-170, 1970, pp. 79-122. 9 Tra l’altro, è interessante osservare che tale ipotesi sembra essere proprio quella che ispira le disposizioni degli articoli da 20 a 26, in combinato disposto con gli artt. 60 e 61, della Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, nella misura in cui l’“autonomia costituzionale” – come attributo dell’“autodeterminazione dei popoli” ivi riconosciuta – è coniugata con standard internazionali di tutela della stessa attraverso i diritti umani. 200 Sull’ipotesi di istituzione di una corte costituzionale internazionale della libertà” (per il diritto costituzionale) e la “tecnica della pace” (per il diritto internazionale), dove la pace non si traduce nella sola dimensione interstatale “indifferente” alle dimensioni domestiche di convivenza pacifica, ma includa, come avevano intuito le prime teorizzazioni sul “diritto costituzionale internazionale”, 10 un insieme di regole e principi comuni sul funzionamento delle istituzioni e sulla limitazione dei poteri dentro e fuori degli Stati: ossia come difesa internazionale della costituzione e non solo dello Stato; Verfassungsschutz e non solo Staatsschutz. 3. Un controllo universale sui mutamenti costituzionali incostituzionali, prendendo spunto dai casi di Honduras e Niger La funzione garante della corte costituzionale internazionale, così congegnata, non metterebbe in discussione l’infungibilità dei ruoli, sia tra organi che tra atti, all’interno degli Stati, a partire dal principio della separazione dei poteri. Enfatizzerebbe, al contrario, la sovranità democraticamente esercitata in una legalità conforme a principi e standard universali, sottesi ai documenti internazionali accolti dalla stragrande maggioranza degli Stati e così sottratti all’alibi domestico dell’insindacabilità per “questione politica”. Del resto, che questo compito di “standardizzazione” possa essere affidato a un giudice “materialmente” costituzionale – come l’ipotizzata corte internazionale – è possibilità già accettata da molti Stati all’interno delle loro dinamiche tra legislazione e giurisdizione, in quanto è da tempo in atto un processo di progressivo avvicinamento, in struttura e funzione, delle due attività, chiamate entrambe a farsi carico dell’“impatto” nell’esperienza dei rispettivi procedimenti in termini di legittimazione e di tutela dei diritti. Quindi, la promozione di una giurisprudenza costituzionale internazionale mirerebbe prioritariamente non alla “inclusione giurisprudenziale” (come accertamento di diritti fondamentali negati in qualche contesto nazionale), bensì alla vera e propria “integrazione politica” dei soggetti sociali ormai operanti in tutti i livelli nazionali, regionali o internazionali della mobilitazione politica e sociale (dalle ONG alle associazioni, ai partiti politici, ecc.). 10 Mi riferisco agli importanti scritti di Y. GOUET, La consuetudine nel diritto costituzionale interno e internazionale (1932), Lecce-Cavallino, Pensa, 2007, e B. MIRKINE-GUETZÉVITCH, Droit Constitutionnel International, Paris, Librairie du Recueil Sirey, 1933. 201 Michele Carducci Si spiega da quest’angolo prospettico la circostanza che la proposta provenga proprio dal contesto africano, dove l’intimo legame tra tutela dei diritti e consolidamento della democrazia, da presupposto dei processi di integrazione sovranazionale e di dialogo internazionale come avviene in Europa, è assunto invece a obiettivo “diffuso” – ossia rivendicabile da più attori, sia istituzionali che sociali – di accesso al giudice sovranazionale. Ne offrono conferma l’Atto costitutivo dell’Unione africana (in vigore dal 2001, con gli artt. 3 e 4) e la Carta africana sulla democrazia (in vigore dal 2012, specialmente con gli artt. 2 e 3). 11 Tuttavia, le implicazioni aperte da questo nuovo scenario non si limitano alla sola dimensione della tutela del diritto universale alla “integrazione politica”; finiscono con l’investire anche la validità delle costituzioni domestiche dei singoli Stati, con riguardo specifico agli effetti di “rafforzamento” proprio della loro rigidità costituzionale e dei limiti al mutamento costituzionale incostituzionale. È necessaria una spiegazione. La giustiziabilità del “diritto alla democrazia” significa anche la possibilità di rendere giustiziabili, e quindi affidabili ad argomenti giuridici di conformità a regole e principi, i temi dei limiti al mutamento riferibili non solo al rispetto dei diritti inviolabili ma anche alla permanenza delle procedure e delle forme di legittimazione del potere, sancite da una costituzione. In genere, questo secondo compito è sempre rimasto interno alle previsioni di ciascun ordinamento statale, attraverso la codificazione di clausole allo scopo dedicate, ora come “pietrificazione” di una determinata forma di potere (si pensi alla clausola della “forma repubblicana” sancita dall’art. 139 della costituzione italiana), 12 ora come rivendicazione di specifici diritti soggettivi contro i mutamenti incostituzionali (come nel caso del cosiddetto “diritto all’insurrezione” 13), ora come limiti “logici” (il puzzle di Alf Ross) o “assiologici” (appunto i diritti “inviolabili”). Tuttavia, questa tecnica di tutela, anche quando astrattamente giustiziabile, non ha mai potuto scongiurare la forza del fatto incostituzionale all’interno dell’ordinamento 11 A. MANGU – B. MBATA, African Civil Society and the Promotion of the African Charter on Democracy, Elections and Governance, in «African Human Rights Law Journal», XII, 2, 2012, pp. 348-372. 12 Sulle clausole di “pietrificazione”, cfr. I. COLOMBO MORÚA, Limites de las reformas constitucionales. Teoría de las cláusulas pétreas, Buenos Aires, Astrea Depalma, 2011. 13 Cfr. E.A. SÁNCHEZ, El derecho constitucional a la insurrección, in Memoria del X Congreso iberoamericano de Derecho constitucional, Tomo 2, Lima, Idemsa, 2009, pp. 130-136. 202 Sull’ipotesi di istituzione di una corte costituzionale internazionale stesso. Lo dimostrano due vicende singolarmente tra loro parallele, ancorché con presupposti costituzionali domestici e sovranazionali internazionali molto diversi: il colpo di stato in Honduras del 2009, in presenza di una costituzione che, più dettagliatamente di qualsiasi altra al mondo, “pietrifica” limiti procedimentali e di forma del potere così come codifica diritti fondamentali di “contrasto” al mutamento incostituzionale, ma in assenza di una referenza sovranazionale o internazionale di “difesa” di quella costituzione; il colpo di stato in Niger nel 2010, in assenza di una costituzione altrettanto “pietrificata”, ma in presenza di determinati indirizzi sovranazionali e internazionali sulla “difesa” della costituzione. 14 Con riguardo all’Honduras, ci si riferisce alla destituzione del presidente della repubblica, Manuel Zelaya, consumatasi nel 2009 in (apparente?) applicazione proprio di specifiche disposizioni costituzionali. La costituzione dell’Honduras, con gli artt. 373, 374 e 375, costruisce un sistema super-rigido e super-“pietrificato” della costituzione, per le seguenti caratteristiche: a. impone la revisione formale solo per singoli articoli già inseriti nella stessa costituzione, con deliberazione a maggioranza di due terzi da ripetere per due legislature consecutive differenti (art. 373); b. impone il divieto, “in qualsiasi caso”, di revisione del procedimento disciplinato, evitando così il meccanismo della doppia revisione o della deroga/specialità (art. 374); c. “pietrifica” autoreferenzialmente la previsione sub b, che non potrà “in nessun caso” essere “riformata” (senza specificare se “modificata” o “abrogata”) (art. 374); d. “pietrifica” gli articoli costituzionali (senza menzionarli esplicitamente), i cui contenuti si riferiscono a forma di governo, territorio nazionale, durata del mandato presidenziale, divieto di rielezione presidenziale (art. 374); e. “pietrifica”, quindi, la vigenza della costituzione intera non solo in caso di “abrogazioni” ma anche di “modificazioni” che procedano in violazione degli arti14 In ogni caso, per una rappresentazione delle diverse concettualizzazioni della “difesa” della Costituzione, cfr. P. COSTA, Gli istituti di difesa della Costituzione, Milano, Giuffrè, 2012. 203 Michele Carducci coli prima indicati, aggiungendovi anche i casi di qualsiasi altra “modalità” non contemplata dalle disposizioni precedenti, sia di tipo “formale” che “informale”, come “atti di forza” e “qualsiasi altro mezzo o procedimento distinto da quelli disposti dalla stessa costituzione” (art. 375); f. non “pietrifica” contenuti sostantivi sui diritti o le loro garanzie, ma solo contenuti e procedimenti relativi alla competenza, sia essa “formale” che “informale”, sia essa riferita alla “abrogazione” che alla “riforma”. Si tratta, come si può vedere, di un sistema di disposizioni che racchiude tutte le tipologie di “irrigidimento” e “pietrificazione”, riscontrabili in altre esperienze di scrittura costituzionale. Del resto, esso impone: - la non riformabilità per modalità e casi non esplicitamente previsti; - la non modificabilità di una serie di articoli su assetti di funzioni e competenze; - l’inviolabilità di una serie di contenuti relativi a quegli assetti di funzioni e competenze; - l’irrevocabilità di alcune disposizioni; - la tassatività delle competenze, formali e informali, di riforma o abrogazione. Inoltre, l’art. 375 prevede pure che, in caso di violazione di queste “pietrificazioni”, qualsiasi cittadino, anche se “non investito di autorità”, sia chiamato a “collaborare al mantenimento o ristabilimento della vigenza” della costituzione violata, mentre i “responsabili dei fatti” produttivi di tale violazione, potranno essere deferiti davanti alle autorità giudiziarie ricostituire per rispondere dell’illecito costituzionale di “usurpazione dei poteri pubblici”. Sembrerebbe la quadratura del cerchio sul tema dei limiti formali e materiali al mutamento, estesi – tali limiti – dalle rigidità procedimentali alla “pietrificazione” con divieto di forme procedimentali “elusive” e persino dei mutamenti informali, quando realizzati con “atti di forza”, in nome, si potrebbe concludere, di un “diritto alla democrazia” nella gestione dei mutamenti costituzionali, giustiziabile per via penale attraverso la previsione dell’illecito di “usurpazione di potere”. Ma è effettivamente così? È questo il modo più efficace e stabile per garantire il “diritto alla democrazia”? Invero, la vicenda del presidente Zelaya ha fatto insorgere inediti interrogativi, rispetto alla “perfezione” previsionale di questi articoli: che cosa succede 204 Sull’ipotesi di istituzione di una corte costituzionale internazionale nel caso di manifestazione di “intenzioni” o di mere “proposte” di modifica di questo assetto “pietrificato”? Esiste un giudice che possa giudicare ragionevolezza e proporzionalità di simili “comportamenti”, non ancora sfociati in veri e propri atti costituzionali di mutamento effettivo delle forme di potere? È sempre legittima, indipendentemente dalle forme (e dunque sempre “democratica”) la “insurrezione” contro tali comportamenti? In che cosa può consistere l’illecito costituzionale di “usurpazione di potere” quando la stessa costituzione lo formalizza anche attraverso l’enunciato onnicomprensivo di “qualsiasi altro mezzo o procedimento distinto da quelli disposti dalla stessa costituzione” (art. 375)? Zelaya, infatti, non aveva consumato uno specifico “atto di forza”, né proposto formalmente modifiche specifiche dei tre citati articoli. Quindi, egli formalmente non aveva violato l’art. 375. Com’è noto, aveva semplicemente manifestato la “intenzione” di indire un referendum (competenza a lui spettante) avente ad oggetto una riforma costituzionale che modificasse quei limiti. Pertanto, ci si è trovati di fronte alla “intenzione” di promuovere la partecipazione popolare per il superamento dei limiti di cui all’art. 375 della costituzione. Tuttavia, per tale “intenzione” di partecipazione popolare, in nome della “legalità” dell’art. 375, Zelaya è stato destituito. Come si pongono allora le “pietrificazioni” di fronte alle “intenzioni” di coinvolgimento popolare sul loro superamento? Si tratta davvero di “atti di forza”, per il semplice fatto di non essere contemplate dalla stessa costituzione? E può il coinvolgimento popolare essere ricondotto all’“atto di forza”? 15 Siamo di fronte al classico dilemma dell’autoreferenzialità costituzionale, che l’Organizzazione degli Stati Americani (OAS) non ha saputo risolvere, perché priva di strumenti di “sdrammatizzazione” del dilemma attraverso istanze e standard condivisi di valutazione e giudizio esterni allo Stato. Anche il colpo di stato in Niger, nel febbraio 2010, ha riproposto lo stesso dilemma. La destituzione del presidente nigerino Mamadou Tandja è una conseguenza del suo tentativo, consumatosi l’anno precedente, di estendere il suo mandato oltre i limiti previsti dalla costituzione, attraverso lo scioglimento del parlamento, la nomina di una nuova corte costituzionale e l’indizione di un referendum di prolungamento del suo 15 Sul cortocircuito determinatosi in Honduras, cfr. A. FRIEDMAN, Dead hand Constitutionalism: The Danger of Eternity Clauses in New Democracies, in «Mexican Law Review», IV, 1, 2011, pp. 78-96. 205 Michele Carducci mandato per altri tre anni. Tuttavia, a differenza di Zelaya, in Niger non si sono manifestate “intenzioni” nel formale rispetto della costituzione: la costituzione è stata apertamente violata, in assenza, tra l’altro, degli articolati meccanismi di “reazione” contemplati dal testo dell’Honduras. 16 Nel contempo, l’Unione africana, per condannare l’evento, ha deliberato di ampliare la definizione di “cambiamento di governo incostituzionale”, contemplata nei suoi atti costitutivi, includendo anche i processi di trasformazione della costituzione imposti dai leaders in carica per restare al potere e, in questo modo, inquadrare ex post la fattispecie domestica del Niger. I casi di Honduras e Nigeria certificano, quindi, la limitatezza delle risposte interne ad un unico ordinamento che pretende l’esclusività del proprio auto-fondamento di fronte al problema del mutamento in un quadro universale di riconoscimento dei diritti umani; 17 dimostrano altresì la possibilità di superamento solo nel momento in cui, dalla qualificazione dei limiti in termini logici interni al sistema normativo stesso, si passa alla loro accettazione come elementi di un parametro universale di controllo delle procedure e delle forme di esercizio del potere, giudizialmente sanzionabili secondo standard universali. In questa seconda ottica, un intervento esterno in via consultiva o giudiziale di una corte costituzionale internazionale non avrebbe sortito effetti di “interferenza” sulla sovranità, ma di verifica della correttezza, accettabile in quanto universalmente riconoscibile, delle soluzioni adottate nell’esercizio della propria sovranità costituzionalmente riconosciuta. Tra l’altro, proprio gli atti costitutivi dell’Unione africana, ossia del soggetto promotore dell’iniziativa in commento, si collocano su questa linea. L’Unione africana opera secondo i principi tanto della non ingerenza di uno Stato membro negli affari interni di un altro Stato membro, quanto della condanna e del rifiuto di qualsiasi mutamento incostituzionale all’interno degli Stati membri per violazione delle costituzioni domestiche e 16 Sulla vicenda del colpo di Stato in Niger, cfr. V. BAUDAIS – G. CHAUZAL, The 2010 Coup d’État in Niger: A Praetorian Regulation of Politics?, in «African Affairs», CX, 439, 2011, pp. 295-304. 17 Sulla matrice storica e sui limiti della figurazione della “esclusività” (auto-fondata) come attributo “fisiologico” dell’ordinamento giuridico, cfr. l’importante contributo di A. SCHILLACI, Diritti fondamentali e parametro di giudizio. Per una storia concettuale delle relazioni tra ordinamenti, Napoli, Jovene, 2012, in particolare la parte prima. 206 Sull’ipotesi di istituzione di una corte costituzionale internazionale per mancato rispetto degli standard di “diritto alla democrazia” desumibili dagli strumenti internazionali in materia di diritti umani. Essa, quindi, presuppone il mutamento costituzionale incostituzionale come fattispecie illecita sanzionabile e giustiziabile a livello sovranazionale. La sanzione, in altri termini, non deriverebbe dal giudizio o dalla volontà interna allo Stato e ai suoi organi. Si allargherebbe alla sfera di tutela della società, attraverso il ricorso a un giudice “terzo” perché non statale e dunque non espressivo delle tensioni e dei rapporti di forza coinvolti dalla crisi costituzionale domestica, così rafforzando la dimensione conformativa della normatività costituzionale con standard “depoliticizzati” perché universalmente applicabili. È stato questo, molto significativamente, l’ordito seguito dalla corte africana dei diritti umani e dei popoli, nel citato caso Tanganika Law Society et al. vs. Tanzania. Lo conferma la carta africana sulla democrazia del 2004, tematizzando ulteriormente l’assunto e aggiungendo, con i suoi articoli 2, 3, 10, 15 e 16, che l’Unione promuove l’adesione di ciascuno Stato membro ai valori universali della democrazia e del rispetto dei diritti umani, attraverso il rafforzamento dei principi dello Stato di diritto, la separazione dei poteri, il rispetto della supremazia della costituzione e dell’ordine costituzionale dai parte dei poteri statali, il cambiamento legittimo e democratico del governo, il rifiuto e la condanna dei mutamenti incostituzionali dei poteri, la promozione della pratica e della cultura democratica, del pluralismo e della tolleranza politica, ma soprattutto indirizzando gli Stati membri su cinque fronti di “pietrificazione”: - “rafforzare” il principio di supremazia della costituzione nella organizzazione del loro potere politico; - “vigilare” affinché i processi di mutamento o revisione delle loro costituzioni si basino sul pluralismo del consenso e su consultazioni popolari dirette, anche tramite referendum; - “adottare” misure legislative e regolamentari che sanzionino i responsabili dei tentativi di mutamento incostituzionale; - “garantire” che le loro costituzioni disciplinino l’indipendenza e l’autonomia di tutti gli organi costituzionali, senza eccezioni o sospensioni; 207 Michele Carducci - “collaborare a livello regionale e continentale” per il consolidamento della democrazia attraverso lo scambio di esperienze che mettano in pratica tali impegni. L’art. 23 della medesima carta, tra l’altro, definisce esplicitamente anche un sistema di sanzioni in caso di violazione o mancata attuazione dei cinque obiettivi di “pietrificazione”, prefigurando poi, all’art. 44, un obbligo di cooperazione reciproca fra gli Stati, per attivare meccanismi di effettività del controllo sul conseguimento degli obiettivi. 4. Per una prima conclusione Pertanto, l’ipotesi di una corte costituzionale internazionale sembra collocarsi in un’ideale linea di continuità con questa specifica visione “internazionalizzata” della “pietrificazione” costituzionale, rappresentandone il completamento. Rispetto alla semplice proclamazione della democrazia come assiologia universale, riscontrabile già in diversi altri documenti internazionali, dalla dichiarazione della conferenza mondiale di Vienna sui diritti umani del giugno 1993 alla risoluzione dell’assemblea generale dell’ONU del 2005, gli atti africani richiamati vanno oltre, con la definizione di una serie di obblighi procedimentalizzati e di divieti assunti come veri e propri “illeciti costituzionali” a rilevanza non più solo interna (“sovrana”), ma internazionale (perché connessi alla effettività dei diritti umani), verso i quali l’obbligazione statale non consiste nella semplice astensione da tali condotte istituzionali “illecite”, ma piuttosto nella elaborazione congiunta di misure che assicurino effettività, permanenza e controllo, attraverso lo scambio di prassi attuative. Una corte costituzionale internazionale completerebbe questo quadro, giacché offrirebbe strumenti esterni di apprendimento (con la prevista funzione consultiva preventiva) e giudizio (con il contenzioso costituzionale vero e proprio) a efficacia universale. Rispetto ad altri percorsi sovranazionali di affermazione del “diritto alla democrazia”, ora come mero criterio di idoneità politica e istituzionale per l’integrazione fra Stati (i Political Criteria degli artt. 2, 8 e 49 del trattato dell’Unione Europea 18) e il dialogo interstatale (le “identità” e le “tradizioni costituzionali comuni”, di cui parlano gli artt. 18 Ma, in generale, cfr. S. NINATTI, Giudicare la democrazia? Processo politico e ideale democratico nella giurisprudenza della Corte di giustizia europea, Milano, Giuffrè, 2004. 208 Sull’ipotesi di istituzione di una corte costituzionale internazionale 4.2 e 6 sempre del trattato europeo), ora come mera evocazione di principio, 19 ora come garanzia di stabilità di un nascente processo regionale di convergenza, 20 la prospettiva africana, proprio quella che più tardivamente e faticosamente di altre ha potuto manifestare autonomia di elaborazione e sperimentazione costituzionale, consegna al costituzionalismo globale l’opportunità di riflettere e agire per una edificazione universale di tutte le garanzie costituzionali a tutela degli stati democratici di diritto in quanto stati costituzionali. Di fronte alle contraddizioni di un globalismo giuridico quasi esclusivamente declinato sul primato del conflitto (tra diritti o tra interessi), 21 la traccia dell’Unione africana merita di essere presa sul serio, per tornare a discutere di un diritto costituzionale universale fatto di condivisioni altrettanto universali, perché azionabili davanti a un giudice universale, sulle forme di potere e sul loro esercizio inclusivo e partecipato. Se è vero che viviamo nell’epoca di mutamenti costituzionali incostituzionali, 22 spesso consumati per vie tacite di abuso, elusione o frode, invocare principi e regole di salvaguardia della democrazia come acquisizione di un diritto umano giustiziabile significa salvaguardare la dimensione politica del costituzionalismo non più come mero rispetto della legittimazione consensuale dei poteri (quella dimensione al cui interno rivoluzioni e colpi di Stato sono stati sempre classificati come rottura delle competenze costituzionalmente prestabilite 23), ma finalmente come irreversibilità degli standard più 19 H. DOMÍNGUEZ HARO, Derecho a la Democracia. Repensando un modelo constitucional societario, Lima, Grijley, 2008. 20 Ci si riferisce al Compromiso democrático dell’UNASUR, del 26 novembre 2010, che si pone in contiguità con disposizioni regionali più antiche, come l’art. 2 della Carta democratica dell’Organizzazione degli Stati americani, l’art. 4 del Protocolo sobre Compromiso de la CAN con la Democracia, l’art. 5 del Protocolo de Ushuaia del MERCOSUR, anche se le formule assai vaghe della UNASUR (l’art. 1 del Compromiso parla di «qualsiasi situazione che metta a rischio il legittimo esercizio del potere e la vigenza dei valori e principi democratici) non si incontrano negli altri testi. Sui limiti del Compromiso, cfr. S. ABREU BONILLA – A. PASTORI FILLOL, El Protocolo adicional al Tratado constitutivo de UNASUR sobre Compromiso con la Democracia: otro ejemplo de desprolijidad jurídica en la integración latinoamericana, in J. ROY, comp., Después de Santiago: integración regional y relaciones Unión Europea-América Latina, Miami, Jean Monnet Chair, 2013, pp. 169-178. 21 Cfr. ora l’utile ricostruzione riflessiva, riferita all’Europa dell’integrazione “multilivello”, di M. DANI, Il diritto pubblico europeo nella prospettiva dei conflitti, Padova, Cedam, 2013. 22 Cfr. T. STANTON COLLET, Judicial Independence and Accountability in an Age of Unconstitutional Constitutional Amendments, in «Loyola University Chicago Law Journal», XLI, 96, 2010, pp. 327-349. 23 Si possono ricordare, in tale prospettiva, due esempi “classici” nella letteratura: sul piano della scienza politica, il testo di E. LUTTWAK, Coup d’État: A Practical Handbook (1968), Cambridge, MA, Harvard 209 Michele Carducci evoluti di partecipazione, inclusione, trasparenza, tutela della libertà di dissenso e opposizione. È forse questa la via di ricongiunzione del diritto costituzionale “generale” del Novecento (e del suo costituzionalismo “politico” e “popolare”) con le acquisizioni attuali del diritto costituzionale “comune” (e della sua fiducia nella forza “culturale” del Judicial Dialogue”). 24 University Press, 1979; sul piano della teoria generale del diritto e della Costituzione, il fondamentale studio comparato di S. TOSI, Il colpo di Stato, Roma, Gismondi, 1951, con l’illuminante prefazione di W. Cesarini Sforza. 24 Va, infatti, ricordato che diritto costituzionale “generale” (come diritto promanato da tutti gli organi di un ente e dunque identificato nel sistema delle fonti) e diritto costituzionale “comune” (come diritto spiccatamente giurisprudenziale e dunque interpretativo) sono formule figurative europee, che non insorgono come sinonimi nel costituzionalismo novecentesco. La prima, sostanzialmente, appartiene alla stagione del cosiddetto “diritto politico”, mentre la seconda emerge dal quadro dell’avvento, soprattutto nella seconda metà del Novecento, del cosiddetto “diritto culturale”, consolidatosi a seguito del passaggio dallo Stato di diritto allo Stato costituzionale, conseguentemente alla creazione dei sistemi di controllo di costituzionalità delle leggi. L’ideatore della formula “diritto costituzionale generale” è stato B. MIRKINEGUETZÉVITCH, Les nouvelles tendances du droit constitutionnel, Paris, Giard, 1931. Per la formula del “diritto costituzionale comune”, bisogna pensare, tra gli altri, a Peter Häberle (per il quale sinteticamente si rinvia a G. LUTHER, La scienza häberliana delle Costituzioni, in P. COMANDUCCI – R. GUASTINI, a cura di, Analisi e diritto 2001, Torino, Giappichelli, 2002, pp. 105-143) e P. KAHN, Lo studio culturale del diritto (1999), Reggio Emilia, Diabasis, 2008. Invece, per una rappresentazione chiara ed efficace della contrapposizione tra “diritto politico” e “diritto culturale”, cfr. A. PIZZORUSSO, Fonti “politiche” e fonti “culturali” del diritto, in Studi in onore di Enrico Tullio Liebman, vol. I, Milano, Giuffrè, 1979, pp. 327336. La distinzione tra le due prospettive di diritto costituzionale riflette, in larga misura, la divergenza che, nella letteratura angloamericana, si riscontra fra costituzionalismo “giuridico” (ossia fondato sull’argomentazione dei giudici) e costituzionalismo “politico” e “Popular” (fondato sulle decisioni della rappresentanza e la partecipazione politica). Si vedano, al proposito, M. GOLDONI, Il ritorno del costituzionalismo alla politica: il “Political” e il “Popular” Constitutionalism, in «Quaderni Costituzionali», XXX, 4, 2010, pp. 733-756, e P. RIBERI, Derecho y política: tinta y sangre, in R. GARGARELLA, coord., La Constitución en 2020, Buenos Aires, Siglo XXI, 2011, pp. 240-246, ed annessa bibliografia. 210 Eunomia. Rivista semestrale di Storia e Politica Internazionali Eunomia III n.s. (2014), n. 1, 213-239 e-ISSN 2280-8949 DOI 10.1285/i22808949a3n1p213 http://siba-ese.unisalento.it, © 2014 Università del Salento EMANUELE PIGNATELLI Le “primavere arabe”: nascita e involuzione* Abstract: Started with similar social backgrounds, the Arab Springs have soon showed their peculiarities and differences. After the original requests for better living conditions, jobs opportunities and the restraint of rapacious and corrupted bureaucracies, the post-revolutionary process has seen the rise in power of the Islamic Brotherhood and other Islamic parties, but also their incapacity to control internal economies, tribal powers and democratic dynamics. Their failure has produced dramatic consequences: military restoration in Egypt, civil war in Syria, anarchy in Libya, while the dissolution of national security systems has helped infiltration of jihadist and terrorist groups in the Sub-Saharian Africa. The political and financial attention paid by Gulf Petro-monarchies and by Iran to Arab Springs for enlarging their soft power in the Region has reactivated the ancient Sunni-Shia and Muslim Brotherhood-Salafist confrontation. In spite of these competitions, new regimes in Maghreb have not, for the moment, dramatically changed their regional and international relations. Keywords: “Arab Springs”; Arab populations; Maghreb; Islam. 1. Una sola “primavera” o tante “primavere”? Generalmente si sostiene che gli avvenimenti del 2011 nei paesi arabi del Mediterraneo avrebbero messo in evidenza due gravi “debolezze” dell’Occidente: ieri, non essere stati capaci di prevedere l’arrivo delle ribellioni e, oggi, a distanza di quasi tre anni dal loro inizio, non riuscire a prevederne le possibili conclusioni. Quanto alla prima “debolezza”, vale ricordare come con l’espressione “primavera araba” si sia inizialmente tentato di riunire sotto un unico cappello i violenti movimenti di piazza scoppiati quasi in contemporanea in alcuni paesi del Maghreb tra la fine del 2010 ed i primi del 2011, che hanno sconvolto in poche settimane consolidati immobilismi politici, mettendo fine a trentennali governi semi-dittatoriali e riportando alla ribalta nuovi protagonisti sociali ed antichi mali delle società arabe. Solo con il passare del tempo si è compreso che non era il caso di parlare genericamente di un’unica “primavera araba”, ma di distinti fenomeni solo a fatica riassumibili come “primavere Emanuele Pignatelli arabe”, visto che ognuna di esse era il frutto di storie differenti e si evolveva secondo dinamiche tra di loro indipendenti. Pur tenuto conto delle evoluzioni di ognuna, le ribellioni del 2011 non sono mai state delle vere rivoluzioni e non hanno mai avuto obiettivi di cambiamenti radicali della società. Hanno piuttosto rappresentato richieste confuse di riforme e di trasparenza, di lotta alla burocrazia e alla corruzione, ma non hanno avuto alcuna ambizione di dar vita a progetti organici di cambiamento o a programmi politici realmente alternativi, condivisi e coordinati. Le ultime rivoluzioni nel “Middle East and North Africa” (i cosiddetti paesi MENA) appartengono, in effetti, agli anni ’40 e ’50, quando nuove ideologie, sostenute dalla lotta contro il colonialismo, da un nascente nazionalismo arabo e dalla ricerca di un più generoso e aperto sviluppo sociale, hanno dato vita in Siria ed Iraq al movimento Baath ed in Egitto al nasserismo. La rivolta era, all’epoca, contro l’invadenza politica ed economica delle potenze coloniali e tendeva a ricercare, nei valori dell’Islam, temi comuni da contrapporre ai valori ritenuti eccessivamente materialisti dell’Occidente e del suo capitalismo mercantile e finanziario. Anche nel 2011, i protagonisti delle “primavere” non hanno mai pensato di ispirarsi ai modelli occidentali di democrazia e le ribellioni sono state in ogni momento “islamiche”, dominate cioè dai valori morali di un Islam pragmatico e politico, ma fermamente ancorati alla convinzione che la sharia dovesse in ogni caso guidare tutte le attività di governo. Questa immanenza della religione contribuisce a spiegare come mai, pur animati da obiettivi sociali ed economici apparentemente tipici di uno Stato moderno, i protagonisti delle prime fasi delle proteste si siano ritrovati sconfitti e sostituiti, nel giro di un anno, dai rappresentanti di un Islam molto più radicale. In Tunisia e in Egitto, i fratelli musulmani sono diventati una forza politica senza mai scendere in piazza, riuscendo a vincere le elezioni per la formazione dei nuovi parlamenti. In Libia, le forze profonde della tradizione etno-tribale, dopo aver contribuito alla caduta di Gheddafi, hanno tentato in tutti i modi di mettere in sordina la protesta sociale e di gestire la difficile transizione verso istituzioni più moderne, ricorrendo all’Islam quale unico collante politico. Nello stesso arco di tempo, mentre in Siria non si è riusciti a superare l’attuale fase dei violenti scontri tra ribelli e regime, che 214 Le “primavere arabe”: nascita e involuzione non conosce né vincitori né vinti, gli altri paesi del Maghreb vivono ancora i violenti sussulti della transizione verso la democrazia senza un’apparente linearità, giustificando, così, la seconda accusa di “debolezza” rivolta agli occidentali, e cioè di non riuscire a fare previsioni razionali sul futuro assetto politico della regione e, ancor peggio, di non sapere come muoversi in quel magma incandescente. 2. I paesi coinvolti Dei ventidue paesi che, dal Golfo Persico al Mediterraneo orientale e dal Sinai al Marocco e alla Mauritania, appartengono alla Lega Araba, solo cinque o sei hanno vissuto (o tuttora vivono) forme violente di ribellione: la Siria, l’Egitto, la Libia, la Tunisia, lo Yemen e il Bahrein. Altri ne sono stati scossi di riflesso, come il Libano o la Giordania, presi d’assalto da migliaia di profughi, e altri ancora hanno cercato di correre ai ripari, approvando o promettendo in tutta urgenza qualche riforma di facciata per scongiurare l’esplosione delle piazze, come ha fatto la monarchia marocchina. Se relativamente pochi sono stati i paesi squassati dalle rivolte, nessuno si è tenuto estraneo alla stagione dei cambiamenti, alcuni cercando di trarre vantaggio dall’indebolimento dei vecchi regimi, altri di regolare antichi conti con qualche “paese fratello”, e altri ancora di rafforzare gli strumenti repressivi a disposizione. Regimi e ribelli hanno, in effetti, in più occasioni, goduto dell’appoggio più o meno interessato di altri paesi: questi ultimi sono intervenuti in loro “soccorso” non solo per allontanare i rischi di contagio nelle loro terre, ma anche per assicurarsi la supremazia dei rispettivi valori religiosi (come nel caso di sunniti e sciiti, abbondantemente sostenuti dai paesi di riferimento), o per estendere la lotta distruttiva a tutto campo dei jihadisti e della frammentata ma ancora tragicamente efficace galassia di al Qaeda, saldamente ispirata dalla sua utopia di ricreare ovunque possibile una nuova “umma di tutti i fedeli”, ovvero un nuovo Stato islamico integralista al di sopra di frontiere e di sedimentazioni della storia. Gli interventi esterni hanno, così, finito per alimentare successive “guerre per procura”, ma sono anche serviti ai paesi intervenuti per scrutare i possibili vincitori di domani e per assicurarsi la loro amicizia in vista di una nuova carta geo-politica 215 Emanuele Pignatelli regionale. Il caso più emblematico è forse quello dell’Egitto, dove, nei tre anni seguiti alla caduta di Mubarak, il paese ha vissuto una prima fase di anarchia, terminata con le elezioni politiche della primavera 2012; una seconda fase di potere legittimo dei fratelli musulmani, guidati dal presidente Morsi; ed una terza strettamente controllata dalla casta militare, in attesa della nuova costituzione (la terza in tre anni) e di nuove elezioni politiche che le permetta di prevalere sul potere islamico dei fratelli musulmani. In questo lungo e travagliato periodo, i differenti protagonisti della politica egiziana sono stati sostenuti dall’Arabia Saudita, che, dopo aver inizialmente appoggiato i fratelli musulmani del presidente Morsi, se n’è distaccata, preoccupata per i giri di valzer di quest’ultimo con l’arci-nemico Iran sciita. Il vecchio re saudita Abdallah ha immediatamente compreso i pericoli della situazione ed ha abbandonato la fratellanza per appoggiare il più affidabile, ai suoi occhi, partito dei salafiti, molto vicino alle posizioni wahabite, dominanti in Arabia e molto sostenute dalla casa regnante. Il piccolo Qatar ha, invece, continuato a puntare sui fratelli musulmani, proprio in antagonismo all’Arabia Saudita, investendo nel paese del Nilo quasi 5 miliardi di dollari. La Libia è intervenuta a favore del Cairo con generose donazioni di greggio e gli Stati Uniti hanno conservato l’usuale finanziamento annuale di 1,5 miliardi di dollari ai militari, tranquillizzati dalle loro assicurazioni sul fatto che l’esautorazione del presidente Morsi non configurasse un colpo di Stato. Il Fondo Monetario, da parte sua, convinto assertore di un’economia di mercato senza interventi statali, conduce da mesi un defatigante, quanto finora infruttuoso, negoziato per un prestito di circa 50 miliardi di dollari da erogarsi in quattro anni, chiedendo una riduzione dei numerosi sussidi ai carburanti, all’energia elettrica ed agli alimenti di base, che incidono per il 27% sul bilancio statale. Pur se non con le caratteristiche estreme dell’Egitto, anche la breve “primavera” del piccolo Bahrein ha sofferto nel 2011 il peso dei poderosi vicini sauditi e della loro determinazione a stroncare sul nascere i moti di rivolta della minoranza sciita per una maggiore libertà religiosa. L’Arabia Saudita, decisa a non correre rischi di contagio nelle proprie provincie sciite confinanti, non ha esitato a richiedere l’intervento del contingente militare del consiglio di cooperazione del Golfo (Peninsula Shield Force) per sedare la rivolta, considerando quest’organismo una specie di “Santa 216 Le “primavere arabe”: nascita e involuzione Alleanza” fra le monarchie del Golfo per la loro sicurezza, e addirittura ad offrire ai re di Giordania e Marocco di entrare a far parte del club, anche se i rispettivi paesi non sono produttori di petrolio, con lo scopo di poterli meglio controllare attraverso generose e non disinteressate elargizioni di petrodollari per metterli al riparo dai soffi delle ribellioni sociali. 3. Le spinte alle ribellioni In queste condizioni, in cui le rivolte maghrebine hanno visto intrecciarsi rivendicazioni sociali e principi confessionali, inimicizie regionali e sotterranee lotte di potere tra le capitali, vi è da chiedersi quali possano essere le possibili chiavi di lettura di rivolte così vaste e diffuse. Viste dal lato arabo – e se ci affidiamo alle riflessioni di Massimo Campanini, 1 profondo conoscitore della storia e dell’attualità del pensiero islamico – superate le fasi più violente delle rivolte, le “primavere” sembrano essersi affidate ad una sorta di “utopia retrospettiva”, che, secondo il pensiero tradizionale islamico, dovrebbe guidare le società non tanto verso una nuova tappa di evoluzione storica, quanto verso quell’“età dell’oro” che il pensiero confessionale identifica con i primi decenni dell’Islam, dominati dalle figure del profeta e dei quattro “califfi ben guidati” suoi successori, che, per definizione, sarebbe stata un’epoca di pace, di benessere e di felice coesistenza di tutte le genti (l’umma dei fedeli). 2 Lasciarsi guidare da questa “utopia retrospettiva” fa parte del patrimonio culturale e dell’insegnamento dei fratelli musulmani che, nati al Cairo come organizzazione caritativa attorno al 1920, 3 si sono rapidamente estesi nei paesi sunniti della penisola arabica e del Medio Oriente con attività di assistenza materiale e religiosa alle * Il presente testo sviluppa una relazione tenuta il 7 maggio 2013 presso l’Università del Salento. 1 Massimo Campanini, una delle autorità riconosciute a livello mondiale nello studio del pensiero filosofico e politico dell’Islam, è stato docente di scienze islamiche presso le Università di Urbino, Milano e l’Orientale di Napoli. È attualmente professore associato di Storia dei Paesi islamici presso l’Università di Trento. Le riflessioni alle quali in quest’articolo ci ispiriamo sono per la maggior parte contenute nel suo volume Il pensiero islamico contemporaneo (Bologna, Il Mulino, 2005). 2 Che l’epoca in questione non sia stata, però, delle più serene è dimostrato dal fatto che ben tre dei quattro “califfi ben guidati” sono stati assassinati da quanti volevano prenderne il posto. 3 Tollerati dai precedenti regimi, i fratelli musulmani sono stati duramente repressi dalla nascente ideologia nasseriana di sviluppo economico sul modello occidentale e costretti a rifugiarsi in Arabia Saudita, dove lo stesso Nasser sperava avrebbero potuto indebolire le locali strutture assolutistiche della dinastia regnante dei Saud. 217 Emanuele Pignatelli popolazioni più emarginate delle campagne. L’attesa messianica di un’epoca di unione e di fratellanza annunciata dall’Islam storico è stata diluita, a partire dagli anni ’70, dall’irrompere, nelle società arabe, di almeno tre eventi nuovi che hanno costretto anche i fratelli musulmani ad affiancare alle loro attività assistenziali una militanza politica più attiva. In primo luogo, il clero iraniano ha dimostrato, con la sua ribellione degli anni ’70 contro lo scià di Persia, che si può cambiare un regime giudicato troppo laico, reintrodurre i valori islamici nello Stato e, soprattutto, riappropriarsi della gestione politica del paese. In secondo luogo, la crescita in forza di al-Qaeda dopo il 9 settembre 2001 ha dimostrato alle fasce più estremiste arabe che è possibile fare dello jihadismo lo strumento per colpire l’Occidente e per tentare di ricreare nuove entità statali totalmente dominate dalla sharia islamica. Il terzo avvenimento ha visto gli islamisti turchi accettare, agli inizi del 2000, le regole di uno Stato democratico e sedere in parlamento accanto ai partiti tradizionali per guidare dall’interno il gioco politico del governo e per interrompere, grazie all’abile guida di Erdogan, la lunga serie di colpi di stato militari. Formati da queste esperienze, i fratelli musulmani hanno colto l’occasione delle “primavere” per uscire dalle campagne e utilizzare, forti della loro organizzazione interna, le prime consultazioni elettorali libere per imporsi su avversari divisi e disorganizzati alla guida delle nuove istituzioni. Nelle fasi iniziali delle ribellioni, la componente confessionale dell’Islam è stata in effetti spettatrice pressoché passiva degli eventi, senza avvertire la necessità di scendere nelle piazze. Il potere è stato offerto in modo quasi naturale nelle urne alla fratellanza musulmana dalle fasce sociali più deboli, ma molto numerose, come riconoscimento del suo ultradecennale impegno sociale e religioso, anche se, alla prova dei fatti, i neo-eletti si sono rivelati incapaci di gestire in modo appropriato le leve politiche ed economiche di un potere che avrebbe dovuto servire a far superare ai singoli paesi le drammatiche crisi economiche in corso. Vista dal lato occidentale, le fiammate delle “primavere” e l’emergere dei partiti islamici hanno indotto gli esponenti della vecchia borghesia e quelli legati a una visione più laica della società a coalizzarsi contro i rappresentanti dell’Islam politico, senza 218 Le “primavere arabe”: nascita e involuzione peraltro mai superare i forti sospetti reciproci. La vecchia borghesia, detentrice per anni delle chiavi del potere sotto i precedenti regimi, ha cercato in tutti i modi di riciclarsi nei nuovi governi, offrendo patenti più o meno sincere di democrazia. Questi governi non hanno, tuttavia, funzionato perché anche i sostenitori più illuminati di uno Stato secolare hanno preteso cambiamenti politici ed economici troppo rapidi e radicali, senza calcolare le resistenze e l’impatto che avrebbero avuto su economie estremamente fragili e troppo a lungo iper-protette. Gli islamici hanno approfittato, da parte loro, del largo appoggio popolare per applicare in modo indiscriminato, nella gestione del potere, i precetti della sharia, convinti di poter comunque mettere elettoralmente a tacere ogni voce contraria al mantenimento di uno Stato confessionale. 4 Come risultato di questa difficile convivenza fra componenti politiche antitetiche e scarsamente abituate al dialogo, alcuni paesi, come la Tunisia, sono rimasti immobilizzati in uno stallo parlamentare del tutto sterile ed incapace di far progredire il paese. Altri, come l’Egitto, hanno registrato il rinascere della vecchia alleanza tra esponenti del vecchio regime di Mubarak e vertici militari per estromettere con la forza gli islamici dal potere, con l’approvazione silenziosa degli Stati Uniti, decisi a ridurre il proprio impegno nella regione, e di quello molto più attivo dei sauditi, decisi a evitare vuoti di potere nei quali potrebbero introdursi le ambizioni iraniane. 4. Le forze in campo nei vari paesi 4.1. La gente Quando si cercano i protagonisti delle rivolte del 2011, generalmente si pensa ai giovani, al popolo di Internet e al ceto medio urbano, divenuti insofferenti dell’immobilismo economico e della mancanza di prospettive di sviluppo e d’impiego imposti dai “presidenti a vita” locali. Si è pensato, in definitiva, alle sole aspettative economiche e pragmatiche della media borghesia urbana e delle componenti mercantili delle popolazioni della costa. Non sono state approfondite a sufficienza le aspirazioni ed i rapporti tra fede islamica e Stato delle popolazioni contadine o seminomadi 4 Cfr. L. CARACCIOLO, Il rebus arabo, in «La Repubblica», 5 luglio 2013. 219 Emanuele Pignatelli dell’interno e degli emarginati delle grandi città, che non sono stati protagonisti significativi delle proteste, ma il cui attaccamento ai valori dell’Islam più tradizionale ed integralista è emerso con forza al momento delle consultazioni elettorali per rinnovare le istituzioni. Queste popolazioni, “dimenticate” anche all’epoca delle grandi rivoluzioni nazionaliste degli anni ’50 e deluse dai falliti progetti di riforme agrarie, sono state regolarmente tenute in disparte allo scopo di dare la precedenza alle priorità rappresentate dalla formazione di una nuova classe media cittadina, che avrebbe dovuto gestire le trasformazioni politiche ed economiche necessarie per far uscire i paesi dal giogo coloniale. 4.2. I fratelli musulmani Di queste fasce sociali si sono occupate organizzazioni assistenziali come la fratellanza musulmana ed oggi il loro movimento trova in quegli stessi ambienti il più importante e sicuro bacino di sostegno elettorale. La fratellanza ha approfittato della sua rendita di posizione per ottenere risultati eclatanti nelle elezioni politiche e presidenziali in Tunisia ed Egitto. Le battute d’arresto subite con la defenestrazione di Morsi e con l’impasse politico del partito islamico Ennhada in Tunisia non hanno messo fine alla volontà di mobilitazione popolare che anima il movimento, anche perché i suoi membri sono consapevoli che l’alternativa alla propria presenza sulla scena politica sarebbe un Islam ancora più radicale ed integralista, dominato dagli estremismi dei salafiti 5 e della galassia di gruppi che ruotano attorno ad al-Qaeda, oppure – come sta accadendo in Egitto – una vittoria della reazione e della repressione da parte dei militari. In effetti, è in Egitto che si è consumato il rovesciamento della posizione politica dei fratelli musulmani. Vincitori in cinque scrutini dal rovesciamento di Mubarak (due referendum, due elezioni legislative e un’elezione presidenziale), il movimento è ormai oggetto di una dura repressione da parte dei militari, che, nella sola estate 2013, è costata la vita a un migliaio di sostenitori del destituito presidente Morsi. La nuova 5 La corrente salafita è un’antichissima scuola di pensiero sunnita che ritiene che l’età dell’oro islamica non sia solo quella di Maometto e dei suoi immediati successori (i quattro “califfi ben guidati”), ma debba anche comprendere le generazioni successive (“coloro che vengono dopo”, ovvero gli “antenati”), che sono tutti considerati modelli esemplari di virtù religiose e di capacità di gestire l’Islam. 220 Le “primavere arabe”: nascita e involuzione costituzione approvata per referendum nel gennaio 2014 non innova molto rispetto al passato, anche se proibisce l’esistenza di partiti che s’ispirano a una religione e se apre qualche spiraglio sui diritti delle donne. Le forze armate conservano le loro prerogative economiche e militari, tanto che nessuna autorità civile è autorizzata a conoscere e valutare il bilancio militare e i soldati conservano il diritto di deferire a tribunali speciali, da loro stessi composti, qualsiasi persona accusata di attentato alla sovranità e alla sicurezza dello Stato. 4.3. Il conflitto tra sunniti e sciiti In aggiunta alle differenti caratterizzazioni dell’Islam, le rivolte iniziate nel 2010-2011 hanno riportato alla ribalta le divisioni tra sunniti e sciiti, nascondendo malamente l’aggressivo gioco per ritagliarsi nuove egemonie dei regni sunniti della penisola arabica riuniti nel Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC) e dell’Iran dominato dalla corrente sciita. Guardando con maggiore attenzione a questo confronto, si può notare come esso sia diventato, con il passare del tempo, ancora più complesso e inestricabile, perché ha finito per riguardare anche la contrapposizione tra l’Islam elettorale, timidamente sostenuto dai fratelli musulmani (sunniti), e altre due concezioni dell’Islam politico: quella dinastica, sostenuta dalle petro-monarchie del Golfo, restie a qualsiasi evoluzione che possa mettere in discussione il potere assoluto delle case regnanti, e l’Islam estremista dei salafiti e di al-Qaeda. Pur con le loro caute aperture alla democrazia, i fratelli musulmani si sono trovati isolati e per di più imbottigliati fra l’appoggio del GCC ai salafiti, decisi a combattere l’idea che Islam e democrazia (o almeno Islam ed elezioni) possano coesistere, ed estremismi integralisti fomentati da alQaeda. Anche il piccolo ma ricchissimo Qatar ha seguito con attenzione le “primavere arabe”, deciso a ritagliarsi un ruolo diplomatico nella regione grazie all’appoggio mediatico di «al-Jazeera» ed a rintuzzare in ogni modo possibile le pretese egemoniche saudite ed iraniane. Il precedente emiro Khalifa al-Thani aveva puntato, per la sua penetrazione diplomatica nei paesi arabi, sui fratelli musulmani e sulle loro aperture verso forme di dialogo con altri raggruppamenti politici. L’emiro ha comunque avuto 221 Emanuele Pignatelli l’accortezza di accompagnare il suo appoggio finanziario a un’abile ricerca di possibili investimenti per acquisire nuove partecipazioni industriali in grado di sostenere la propria politica di potenza nella regione. 6 L’inizio del riflusso per i fratelli musulmani ha coinciso con l’abdicazione dell’emiro e con le preferenze dimostrate da suo figlio e successore, Tamim al-Kalifa, per una maggiore prudenza politica nei paesi arabi e per un’accresciuta attenzione verso gli investimenti finanziari delle proprie banche. Il ritorno di Teheran sulla scena diplomatica, dopo l’intesa interinale del novembre 2013 con l’Occidente sul nucleare, ha riportato di attualità lo scontro per la soft power regionale tra Arabia Saudita e altri paesi del Golfo, a motivo anche delle minoranze sciite stanziate entro i propri territori e di quelle esistenti nel mai pacificato Iraq. Spaventa anche il rischio che il pragmatico e abile presidente Rohani possa utilizzare la soft power iraniana per arbitrare tra le tante tensioni regionali e spaventa anche il controllo che Teheran ha sugli hetzbollah sciiti del Libano, con l’intervento dei quali potrebbe facilmente interferire negli equilibri regionali, a cominciare dal futuro assetto della Siria, dove gli hayatollah hanno un punto di forza negli alawiti di Assad. 4.4. Il ruolo delle altre forze islamiche, delle minoranze religiose e dei clan Malgrado i successi elettorali, il sentiero dei fratelli musulmani è diventato, con il passare dei mesi, sempre più stretto, soprattutto in Egitto (dove il movimento è nato) e nei paesi del Golfo, dove negli anni è andato consolidandosi. A renderlo più angusto ci hanno pensato, oltre ai militari, gli esponenti riciclati dei vecchi regimi e le aggressive politiche fondamentaliste dei salafiti sponsorizzati dall’Arabia Saudita, la cui casa regnante, di tradizioni waahbite, 7 vede in esse un antidoto alle istanze dell’Islam politico della fratellanza e, quindi, una garanzia del potere assoluto del re. 6 Tra gli altri investimenti, il Qatar si è impegnato in Egitto in lavori di manutenzione e di ampliamento del Canale di Suez, con l’obiettivo di poter svolgere un importante ruolo politico nella gestione di questa primaria via di comunicazione intercontinentale. 7 Il waahbismo è il frutto di un “patto di fedeltà” giurato nel 1744 tra un pensatore arabo, M. al-Wahhab, e il secondo esponente della dinastia degli al-Saud, il cui padre si era appena auto-proclamato emiro dell’intera penisola arabica. Il patto sarebbe dovuto servire a realizzare un’azione comune orientata al rinnovamento dei costumi morali e religiosi delle tribù soggette. Da esso trae origine quell’unione tra il trono e l’Islam che sorregge la dinastia saudita. 222 Le “primavere arabe”: nascita e involuzione In concorrenza con i salafiti si muove la galassia dei gruppi di al-Qaeda, decisi a condurre una lotta senza quartiere a confessioni non in linea con il loro integralismo e a modelli statali laici, ricorrendo al terrorismo, e ad espandere le proprie attività dall’Afghanistan e Pakistan all’Iraq e alle nuove realtà dell’Africa centrale, come il Mali, la Repubblica Centrafricana, il Sud Sudan, il Chad, ed altre ancora. Al-Qaeda ha anche approfittato delle “primavere arabe” e dell’eliminazione, da parte degli americani, di Osama bin-Laden per accelerare la sua trasformazione da organizzazione centralizzata e monolitica in una specie di “franchising del terrorismo”, conservando per sé compiti di strategia generale e di gestione delle basi di addestramento e logistiche ed offrendo “santuari” agli attivisti. Alle organizzazioni locali è lasciata la scelta degli obiettivi, delle tattiche e delle alleanze per la gestione delle proprie iniziative. Oggi si possono contare almeno cinque grandi organizzazioni collegate tra di loro e sono queste a portare a termine le più cruente attività terroristiche in Siria, Egitto, Iraq e nell’Africa sub-sahariana. 8 Le numerose religioni minoritarie presenti in tutto il Medio Oriente hanno svolto ruoli minori nei movimenti di ribellione e nell’organizzazione delle nuove istituzioni. Benché i cristiani d’Oriente non superino oggi dodici milioni nell’intera regione fra copti, greco-ortodossi, maroniti, melchiti armeni, siriaci latini e protestanti, la maggior parte di loro si trova in Egitto, dove sono circa 8 milioni (pari ad un 10% dell’intera popolazione). Circa 1,5 milioni vive in Siria ed altrettanti in Libano, dove peraltro da prima della seconda guerra mondiale non si compie alcun censimento al fine di evitare nuove tensioni tra le comunità. Del milione di cristiani che vivevano in Iraq fino alla guerra del 2003, oggi si contano meno di 400 mila. La ridotta forza numerica e la lunga sudditanza dei cristiani ai poteri “forti”, che per lunghi anni hanno assicurato forme di stabilità sociale e di rispetto reciproco, hanno abituato queste minoranze ad affidarsi ai regimi in carica, anche a costo di suscitare periodiche ondate di sospetti e di sfiducia sia nel mondo islamico sia in quello laico. La sopravvivenza di queste minoranze appare 8 I cinque gruppi sono, con un largo margine di approssimazione: Aquim, cioè al-Qaeda per il Maghreb Islamico; al-Aqap, cioè al-Qaeda per i paesi della penisola arabica; al-Shabaab, organizzazione nata e operativa in Somalia; Boko Aram, gruppo attivo nel nord islamico della Nigeria; al-Nursia, gruppo estremista attivo soprattutto in Siria. 223 Emanuele Pignatelli oggi necessaria per impedire che la loro presenza nei paesi di nuova destinazione alteri in modo irreversibile i già precari equilibri confessionali. Questo è il caso del Libano e della Giordania, i cui governi considerano con profonda preoccupazione l’alterarsi del fragile tessuto multi-etnico e multi-religioso nazionale per la presenza di oltre 7-800 mila profughi sciiti dalla Siria. Allo stesso modo, i grandi paesi sunniti del Medio Oriente non vedono certo con favore l’eventuale ritorno dell’Iran sulla scena mediorientale e il suo porsi come riferimento politico per le numerose minoranza sciite. A tutto ciò si aggiunge la presenza di minoranze curde, azere e armene, polverizzate all’interno di numerosi paesi arabi e caucasici, ma desiderose di tornare a riunirsi in propri Stati nazionali. La forza polarizzante dei clan, forte in tutti i paesi arabi, è diventata, con le “primavere”, particolarmente decisiva in Libia. Se in altri paesi arabi la gente si sente innanzitutto islamica e, solo in un secondo momento, avverte la propria appartenenza allo Stato, in Libia la vita individuale è condizionata dalle principali Qabilie e dalle decisioni dei locali consigli degli anziani. 9 Strettamente controllati e messi a tacere durante il regime di Gheddafi, i consigli hanno rioccupato lo spazio a lungo perduto e costituiscono oggi una forza con la quale lo Stato centrale deve quotidianamente confrontarsi. Nel Fezzan, ad esempio, grazie alle locali milizie, i clan controllano i ricchi giacimenti petroliferi del Sahara e sono in grado di sfidare apertamente il General National Congress (GNC) e il fragile potere del governo centrale sulla ripartizione dei proventi. Milizie e clan sono stati in grado di paralizzare e polarizzare la vita politica del governo entrato in carica nell’ottobre 2012 ed hanno reso impossibile la redazione di una costituzione attenta alle nuove necessità del paese. Anche la soluzione di una Libia divisa su base federale, proposta dalle Qabilie, non è facilmente applicabile, data la contrarietà degli integralisti dell’Islam, legati a quella “utopia retrospettiva” che conosce solo un’unica “umma di tutti i fedeli”. 9 La Libia è composta da tre regioni geografiche e storiche: Cirenaica, con capitale Benghasi; Tripolitania, con capitale Tripoli; e Fezzan, con capitale Besha. Quest’ultima regione, che occupa la parte sahariana del paese, è quella più ricca di petrolio ed è la terra di origine del clan cui apparteneva Gheddafi. 224 Le “primavere arabe”: nascita e involuzione 4.5. Il petrolio Anche se il petrolio e gli idrocarburi (a parte il caso libico) non sono stati tra le cause scatenanti delle “primavere”, la gestione rentier attuata in politica e in economia da una larga maggioranza di paesi arabi è stata comunque responsabile dell’immobilismo e del pessimo apparato statale, contro il quale i giovani ed il ridotto settore imprenditoriale privato hanno cercato di battersi. L’impostazione degli Stati rentier, applicata con raffinata tecnica amministrativa fin dai tempi dell’impero ottomano e successivamente ripresa dalle petro-monarchie del Golfo e dalle rivoluzioni nazionaliste del secondo dopoguerra in Iran, Iraq ed Egitto, ha indotto anche i regimi più illuminati a puntare sui ceti medi urbani, offrendo loro istruzione, impieghi pubblici, simulacri di democrazia e servizi basilari ampiamente sussidiati, riservando alle fasce più emarginate delle campagne forme meno intense di aiuti e di formazione professionale e ridotti accessi al credito agricolo. Quando la crisi economica ha indebolito i governi, mettendo in crisi il meccanismo dei sussidi e degli aiuti a pioggia, 10 la perduta capacità di dialogo politico tra la gente ed il potere ha trovato solo la strada della ribellione e della lotta di tutti contro tutti. Oggi il petrolio divide i paesi che lo possiedono da quelli che ne sono privi, ma mette anche contro sunniti e sciiti, la Turchia contro l’Iran, la Siria contro i paesi del Golfo e sembra paradossalmente avvicinare Israele ai paesi arabi più moderati. Anche la commercializzazione di gas e petrolio divide i paesi arabi, in quanto tutti vogliono vendere i loro prodotti, ma tutti vorrebbero farlo con pipelines che attraversino solo paesi amici o, comunque, strettamente controllati o controllabili. La probabile fine delle sanzioni contro il petrolio iraniano e la recentemente acquisita superiorità produttiva americana rispetto ai paesi del Golfo sono destinate a influire pesantemente sull’eredità delle “primavere” e a dare vita ad un duro confronto planetario che va ben al di là dei soli paesi arabi, dall’esito totalmente imprevedibile. 10 Solo in Egitto, paese dalle non imponenti capacità di produzione petrolifera, i sussidi agli alimenti di base, all’energia elettrica, ai trasporti e ai carburanti pesa per oltre il 27% del PIL. 225 Emanuele Pignatelli 4.6. Il ruolo dei militari La posizione dei militari nei rapporti di forza con il potere civile si è delineata già ai tempi delle rivoluzioni del partito Baath e di Nasser, quando dalle loro file sono usciti i capi dei rispettivi governi e l’intera casta è riuscita ad assicurarsi rendite economiche sicure, in grado di metterla al riparo da eventuali voltafaccia governativi. Il modello a lungo seguito è stato quello turco e gli alti gradi arabi, formati nelle scuole militari dell’Occidente, si sono fatti a loro volta garanti di un laicismo di Stato in grado di contrastare le spinte integraliste islamiche e di assicurare lunghi periodi di stabilità ai vari paesi. Unica eccezione è stata la Libia, dove Gheddafi, consapevole della fedeltà clanica di civili e militari, non ha mai voluto creare un esercito regolare, preferendo dar vita ad una milizia fortemente armata, ai suoi diretti ordini e abbondantemente assortita da elementi non libici. Il ruolo dei militari nei momenti cruciali delle ribellioni del 2011 è stato variegato e legato ai rapporti localmente intrattenuti dagli alti gradi con i regimi al potere. Inizialmente ambigua e successivamente decisiva in Egitto, la posizione dei militari è stata nulla in Tunisia e di fedele appoggio ad Assad ed a Gheddafi, rispettivamente in Siria e Libia. Scoppiate le rivolte, si è subito posto – in Tunisia, Egitto e Siria – il dilemma per i regimi al potere se servirsi dello strumento militare per sedarle o meno. In Tunisia, il dubbio è stato di breve durata, dato che il presidente Ben Alì è stato rapidamente defenestrato e costretto alla fuga, senza poter tentare alcuna reazione organizzata. In Egitto, Mubarak si è trovato disorientato dalle iniziali ambiguità dei vertici militari, che, durante le prime rivolte di piazza Tahir, si son guardati bene dal far uscire le truppe dalle caserme, preferendo verificare prima la piega degli eventi. Quando la piazza ha finito per prevalere e i fratelli musulmani hanno vinto le elezioni, l’esercito si è rapidamente inserito per rivendicare il proprio posto tra le autorità provvisorie e tra gli incaricati di procedere alla redazione di una nuova costituzione. Decisi a conservare la loro autonomia economica e una gestione senza controlli delle proprie attività commerciali e produttive, i militari non hanno esitato a proporre, come loro rappresentanti nel nuovo organigramma governativo, personalità e ufficiali già potenti sotto il regime di Mubarak, tanto che l’opponente più accreditato nella corsa alla 226 Le “primavere arabe”: nascita e involuzione presidenza di Morsi è stato, nel 2012, il generale Tantawi, capo di stato maggiore e ministro della difesa con Mubarak. Gli stessi militari, d’intesa con l’alta borghesia egiziana, hanno anche appoggiato, nel luglio 2013, la defenestrazione del presidente eletto Morsi, reprimendo duramente le violente reazioni dei fratelli musulmani e giungendo a mettere fuori legge il partito della fratellanza e a rinviarne a giudizio l’intera dirigenza. Malgrado la durezza delle repressioni, i militari non sottovalutano le capacità di mobilitazione dei fratelli musulmani e hanno preferito concedere una serie di rinvii al processo contro l’ex presidente Morsi per aver autorizzato la polizia, nel novembre del 2012, a sparare sulla folla, che chiedeva le sue dimissioni. 11 Nel corso dell’autunno 2013, il capo di stato maggiore dell’esercito, generale al-Sissi, prima sostenitore di Morsi e poi responsabile della sua caduta, si è infine formalmente candidato alla presidenza nelle elezioni previste nel 2014, inserendosi nella tradizione egiziana che, da Nasser a Sadat e a Mubarak, ha visto solo generali al vertice dello Stato. Le forze armate sono state, invece, decisive nel mantenimento al potere della famiglia Assad in Siria. L’esercito è stato utilizzato dal regime per militarizzare la repressione, sopravvalutando a torto le forze dei ribelli. La Turchia di Erdogan e perfino le case regnanti delle petro-monarchie del Golfo avevano, in effetti, suggerito ad Assad di evitare l’uso dell’esercito e di procedere a qualche concessione nei confronti dei dimostranti nel campo del rispetto dei diritti umani, della liberalizzazione dell’economia e della riduzione delle più inaccettabili pratiche di corruzione. Ignorando questi suggerimenti e facendo scendere in campo l’esercito, Damasco ha provocato una radicalizzazione delle ribellioni, richiamando sul proprio operato la condanna del mondo occidentale. Oggi Assad ha nell’esercito l’unico baluardo per la sua sopravvivenza politica, benché possa realisticamente contare solo sul nucleo di alti ufficiali alawiti posti ai vertici di comando e concentrati nell’arma aerea, sull’appoggio esterno dei pasdaran iraniani e degli hetzbollah dal Libano, oltre che sulle forniture di armi dall’Iran, dalla Russia e dagli altri paesi schierati al proprio fianco. Questo non ha 11 Secondo quanto indicato dall’Agenzia egiziana d’informazione, assieme all’ex presidente saranno anche giudicati un’ottantina di attivisti di Hamas palestinese e di Hetzbollah, a conferma del carattere internazionale del tentativo di Morsi di monopolizzare il potere. 227 Emanuele Pignatelli impedito il proseguire dei feroci scontri che da oltre 30 mesi insanguinano la Siria e che pongono una seria ipoteca sulle possibili iniziative di pace, che, come la sempre annunciata e regolarmente rinviata conferenza “Ginevra 2”, dovrebbero innanzitutto riuscire ad assicurarsi la partecipazione di tutti i gruppi pro e contro il regime (e quindi anche dei militari) e convincerli a mettere da parte rancori, diffidenze e divergenti visioni politiche sul “dopo Assad”. Al fondo delle posizioni politiche dei militari vi è sempre il concetto islamico tradizionale di gestione del potere al di fuori dei condizionamenti democratici tipici dell’Occidente, quali la divisione dei poteri e le libere elezioni. In questo, i militari sono alleati naturali delle case regnanti arabe e in esse trovano sostegni politici e generosi aiuti finanziari, che permettono loro di essere meno sensibili ai condizionamenti politici degli occidentali. Decisamente diverso è stato il comportamento delle milizie personali di Gheddafi in Libia. Formate da elementi in buona parte non libici dell’Africa centrale, del Sahel, della Penisola Arabica, dell’Afghanistan, dell’Iraq e dei paesi musulmani degli altipiani asiatici, gli uomini delle milizie sono stati, fino all’ultimo, ferocemente fedeli al capo e ciechi esecutori dei suoi ordini di annientare i gruppi ribelli. Ucciso Gheddafi nell’ottobre 2011, le unità si sono sbandate e, consapevoli dell’odio popolare da cui erano circondate, sono andate alla ricerca di nuovi padroni e di nuove occasioni di arricchimento personale. Fortemente armati e ben addestrati, numerosi miliziani sono rimasti in Libia, dando vita a brigate mercenarie al soldo di potenti personalità locali, o si sono semplicemente riuniti in bande per condurre operazioni di criminalità comune. Pochi hanno risposto agli appelli del consiglio nazionale di transizione per passare nelle file dell’esercito regolare e molti si sono dispersi nei paesi a sud della Libia (per anni infeudati al regime di Gheddafi), come il Chad, il Mali, il Centrafrica, il Niger, la Mauritania e il Sud Sudan, dove la loro disponibilità, la solida preparazione alla guerriglia e la totale mancanza di scrupoli ne hanno fatto esponenti apprezzati da alQaeda e combattenti di prima linea nelle ribellioni contro i poteri locali seguiti al crollo della “pax libica”. Oggi, il fenomeno delle kataeb (brigate armate), costituite su base localistica, è ormai una realtà che pesa gravemente sul futuro della Libia e se, il 10 ottobre 2013, 228 Le “primavere arabe”: nascita e involuzione alcune bande hanno realizzato un’azione dimostrativa di grande effetto con il rapimento del primo ministro el-Zeidane per alcune ore (verosimilmente per patteggiare con lui alcuni salvacondotti individuali), il successivo 15 novembre più di una quarantina di persone sono morte ed oltre 500 ferite a Tripoli nel corso di violenti scontri tra bande armate e popolazione civile, stanca delle angherie subite, che chiedeva il loro scioglimento. La determinazione dei miliziani, consapevoli di non avere alternative al di fuori della via delle armi, e la debolezza delle istituzioni sono oggi tra i più gravi ostacoli sul percorso democratico della Libia. 5. Europa e Italia di fronte alle “primavere” 5.1. Il ruolo dell’Europa L’atteggiamento dell’Europa verso le “primavere arabe” è stato incostante e fortemente influenzato dalle differenti sensibilità dei vari Stati membri verso la regione mediterranea. Mentre per i paesi nordici e di nuova ammissione il Mediterraneo non costituisce una priorità, per quelli del sud costituisce, invece, parte della storia comune; i paesi arabi sono, allo stesso tempo, importanti partner commerciali, fornitori di gas e idrocarburi e punti di origine d’interminabili e incontrollati flussi migratori. La crisi dei paesi arabi è purtroppo scoppiata in un momento di crisi dell’identità politica dell’Unione Europea e di gravi difficoltà finanziarie per tutta l’Eurozona, che hanno impedito di ricorrere a quelle forme di solidarietà economica che, agli inizi degli anni ’90, era stato possibile offrire ai paesi dell’ex Unione Sovietica e dell’ex Jugoslavia. Oltre al fatto di non aver potuto organizzare un “piano Marshall” per i paesi del Mediterraneo, l’Europa si è anche trovata, nel 2011, priva di riferimenti politici affidabili e impreparata ad affrontare i rapporti con le nuove istituzioni dominate dalle forze islamiche. A queste difficoltà, si è aggiunta la non troppo velata ansia di protagonismo di taluni Stati membri, intenzionati a modificare a proprio favore i rapporti economici con i nuovi regimi. L’annunciata volontà degli Stati Uniti di spostare l’asse della propria politica estera in Asia e la mancanza di qualsiasi ambizione di imbarcarsi in nuovi interventi armati nel Mediterraneo hanno finito anch’esse per favorire l’attivismo di Francia e Gran 229 Emanuele Pignatelli Bretagna, portando Parigi a sollecitare con insistenza il consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a deliberare un intervento umanitario armato in Libia nel marzo del 2011. Dietro le formali preoccupazioni per la tutela dei valori democratici e il rispetto dei diritti umani contro la feroce repressione ordinata da Gheddafi, per la Francia del presidente Sarkozy vi è stato anche il non troppo nascosto desiderio di acquisire nuovi contratti petroliferi con la Libia, a lungo giudicati sbilanciati a favore del nostro paese. 12 L’intervento multilaterale, condotto principalmente con raids aerei, ai quali con qualche riluttanza si sono associati gli Stati Uniti e con molte maggiori reticenze anche l’Italia, ha contribuito alla “vittoria” della galassia dei rivoltosi, che sono riusciti a sbarazzarsi di Gheddafi, ma non è per nulla servito a far maturare nel paese un clima di collaborazione politica, indispensabile a traghettarlo verso una reale democrazia. La constatazione del fallimento delle finalità politiche di pacificazione della Libia, se non ha fermato la Francia dall’insistere, nel 2013, per un intervento armato anche in Siria, dopo le rivelazioni dei media mondiali sull’uso, da parte delle truppe governative, di armi chimiche, ha indotto alla prudenza numerosi partner comunitari e gli stessi Stati Uniti, divenuti assai critici sulle capacità dei gruppi ribelli di trovare, dopo l’eventuale caduta del regime Assad, una qualsiasi intesa per riportare il paese alla normalità. Il ruolo dell’Europa dovrebbe essere oggi differente da quello di spettatore inerte, come in Egitto e Tunisia, o di protagonista d’interventi umanitari. La diplomazia europea e quella bilaterale dei suoi membri dovrebbero approfittare delle crepe che sembrano crearsi nelle posizioni massimaliste degli islamici e dei militari e tentare di convincere i differenti protagonisti a impegnarsi in forme di dialogo politico che chiudano l’epoca della criminalizzazione dei nemici e che s’impegnino in un compito comune di ricostruzione del tessuto sociale. Considerazioni di soft power hanno ancora una volta indotto nel 2013 la Francia ad attivarsi a New York per far approvare missioni umanitarie di pacificazione a sud del Sahara, territori in precedenza controllati dall’influenza libica attraverso cospicui aiuti finanziari e forniture petrolifere agevolate. All’inizio del 2013, Parigi si è trovata a intervenire in Mali e nella Repubblica 12 Nel giustificare le ragioni di un intervento umanitario armato in Libia, il presidente Sarkozy ha esplicitamente dichiarato all’assemblea nazionale che «il paese ha il diritto e il dovere di difendere i propri interessi geo-strategici nel Mediterraneo». 230 Le “primavere arabe”: nascita e involuzione centrafricana, solo formalmente accompagnata da contingenti internazionali degli Stati membri dell’Unione dell’Africa occidentale, con l’obiettivo dichiarato di trovare una soluzione ai conflitti tribali nei due paesi, di arginarvi l’espandersi dell’integralismo islamico, di prevenire nuovi atti di terrorismo e di restaurare uno stato di diritto. Nessun altro membro dell’UE partecipa per il momento a queste missioni, lasciando così l’intera iniziativa militare, ma anche il peso finanziario delle due operazioni, alla sola Francia. La mancanza di una direzione strategica nella politica estera, di sicurezza e di difesa dell’UE e la debolezza di alcune strutture operative come il Servizio Europeo per l’Azione Esterna (SEAE) vede l’Europa ancora fragile e poco attrezzata per far fronte alle instabilità seguite alle “primavere arabe”. La prosecuzione di situazioni di grave incertezza politica continua, così, a giustificare le reticenze anche degli investitori europei a operare in quei territori, mentre prosegue la pressione migratoria verso l’Italia e altri paesi dell’Unione, alimentata non solo dalle porose frontiere tra i paesi arabi e l’Africa sub-sahariana, ma anche dal disinteresse e dall’incapacità dei poteri locali di controllare le operazioni su vasta scala della grande criminalità organizzata. 5.2. La posizione dell’Italia Il nostro paese si è trovato in prima linea a dover reagire all’esplosione delle “primavere”, preso tra due fuochi. Da un lato, l’Italia è tradizionalmente tra i primi esportatori verso i paesi del Nord Africa e tra i primi importatori di prodotti agricoli, energetici e semilavorati. Dall’altro, il presidente Berlusconi aveva pazientemente costruito negli ultimi anni del suo governo una rete di nuovi accordi per rafforzare le relazioni commerciali con quei regimi e, nel caso della Libia, per garantirsi una partecipazione privilegiata nella produzione d’idrocarburi e la chiusura del lungo contenzioso post-coloniale e di quello altrettanto sostanzioso dei mancati pagamenti libici alle imprese italiane per i lavori pubblici realizzati nel paese. 13 Le reazioni iniziali alle rivolte di piazza nelle grandi città arabe, nei mesi di febbraio e marzo 2011, sono state di cautela e di ricerca di una mediazione tra regimi e forze ribelli. Fallita questa 13 Il 30 agosto 2008 era stato firmato a Bengasi il trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra Italia e Libia, al termine di un lungo negoziato per trovare una soluzione soddisfacente ai contenziosi storici e per definire un nuovo e bilanciato partenariato tra i due paesi. 231 Emanuele Pignatelli strategia a motivo della forza centrifuga ormai acquisita dalle rivolte e delle pressioni per un intervento diretto di altri paesi dell’Unione, tra i quali la Francia, la nostra diplomazia ha avviato contatti con le nuove autorità transitorie in Egitto, Tunisia e Libia e si è dovuta adeguare alle decisioni del consiglio di sicurezza per un intervento armato umanitario internazionale a sostegno dei ribelli libici. L’azione italiana è stata, di volta in volta, ispirata dalla necessità di salvaguardare le attività dell’ENI in Egitto e in Libia, da quella di sollecitare l’appoggio delle nuove autorità transitorie nell’arginare la pressione migratoria e, soprattutto in Egitto, da quella di assicurare la continuità della tolleranza religiosa tra islamici e minoranze religiose cristiane. Il governo Monti, entrato in esercizio a fine 2011, ha proseguito lungo le stesse linee, estendendo le sue offerte di mediazione anche al caso della Siria e ospitando a Roma alcune conferenze internazionali di primo aiuto ai paesi maggiormente oppressi dalle crisi economiche seguite alle rivolte. Desiderosa, d’altra parte, di meglio definire la propria posizione diplomatica internazionale, nell’ottobre 2012 l’Italia ha votato a favore della richiesta palestinese di ammettere la Palestina come Stato osservatore alle Nazioni Unite. La decisione ha permesso di superare un’ambiguità da alcune parti rimproverata al nostro paese nel conflitto israelo-palestinese e di inviare un segnale alle autorità palestinesi e a quelle israeliane sulla necessità di avviare un dialogo senza pre-condizioni per la ricerca di possibili soluzioni alla drammatica lotta tra i due popoli. Oggi l’Italia guarda con apprensione agli ostacoli di ogni genere che sembrano far scolorire le iniziali “primavere” in un lungo “autunno arabo”, auspicando che la timida apertura dell’Iran al dialogo con l’Occidente riesca a contribuire, a partire dal caso siriano, agli sforzi di quanti sono interessati a un superamento delle fasi più acute delle crisi in corso. Il ministro Bonino è stato chiaro in questa direzione e nel corso della sua visita ufficiale a Teheran a metà dicembre (la prima di una personalità di governo occidentale dopo gli accordi interinali di Ginevra sul nucleare) ha invitato l’Iran a «una assunzione di responsabilità» anche sulla crisi siriana, oltre che sul nucleare. 14 Limitato nella sua azione diplomatica dalla riduzione delle risorse da destinare alla politica 14 Dichiarazione alla stampa del ministro degli esteri, Emma Bonino, 21 dicembre 2013, al momento di iniziare una visita ufficiale di due giorni a Teheran, la prima di un membro del governo italiano in quel paese negli ultimi 10 anni. 232 Le “primavere arabe”: nascita e involuzione internazionale, il nostro paese preferisce intervenire non più con le forme ormai superate dell’assistenzialismo, quanto attraverso la condivisione di responsabilità con gli stessi paesi arabi nell’affrontare i principali problemi d’interesse comune. Le intese sugli investimenti diretti e sulla protezione degli investimenti, gli accordi per lottare congiuntamente contro i traffici illeciti di droga e di esseri umani, contro il terrorismo e per garantire forme essenziali di tolleranza religiosa alle minoranze cristiane sono gli strumenti ritenuti più utili per rimanere vicini alle nuove istituzioni che dovrebbero provvedere a normalizzare le situazioni sconvolte dalle “primavere”. 6. Le eredità delle “primavere arabe” in alcuni paesi Dopo le violenze del 2011 e le convulsioni elettorali e costituzionali del 2012, quali sono le eredità lasciate dalle “primavere”? Se percorriamo una rapida lista dei paesi maggiormente interessati, possiamo trarne un quadro a tinte cangianti, ma generalmente dominato dall’incertezza. a) Tunisia Primo paese ad aver acceso la miccia della ribellione e ad essersi liberato, il 14 gennaio del 2011, dal regime del presidente Ben Ali, la Tunisia ha sperimentato in questi tre anni ben quattro governi transitori, di cui tre dominati dagli islamisti di Ennahda. Impossibilitato a governare da solo, con 89 deputati su 217 nell’assemblea nazionale, il partito islamico è stato costretto a scegliere l’alleanza con due partiti laici, senza tuttavia riuscire a raggiungere forme di governo capaci di affrontare i gravi problemi sociali ed economici del paese. Destabilizzato dall’assassinio, nel giugno 2013, di due deputati laici dell’opposizione e dal risveglio della potente centrale sindacale Unione Generale Tunisina del Lavoro (UGTT), il movimento di Ennahda ha dovuto accettare, nell’ottobre 2013, una tabella di marcia che prevede la cessione del governo a un gruppo di tecnici, incaricato di approvare un nuovo testo costituzionale e l’indizione di nuove elezioni. Istruiti dall’esempio dei fratelli musulmani egiziani, brutalmente scartati dal governo e criminalizzati dai militari, gli islamisti tunisini hanno accettato di fare un passo indietro, pur rimanendo la prima forza politica in parlamento e convinti che anche il nuovo appuntamento elettorale dovrebbe comunque vederli vittoriosi su un’opposizione divisa 233 Emanuele Pignatelli e inconcludente. Il 14 dicembre 2013 è stato nominato un nuovo primo ministro, Meda Jomaa, che ha accettato una tabella di marcia su cui hanno influito alcune divisioni all’interno della stessa Ennahda, i cui membri non sono tutti integralisti abituati alla clandestinità, ma comprendono anche esponenti di una borghesia religiosa pragmatica e disponibile al dialogo con le altre forze politiche. Questi politici hanno dimostrato di comprendere lo scoramento della popolazione di fronte all’eterno dibattito sul ruolo dell’Islam in politica, che continua a impedire l’approvazione di riforme economiche concrete; perciò, essi si sono dichiarati disponibili ad alcuni importanti compromessi sulla bozza della nuova carta costituzionale. I due più importanti riguardano, all’art. 2, l’adozione del principio, sorprendente per uno Stato islamico, secondo cui «lo Stato è garante della religione. Esso garantisce la libertà di coscienza e di credo e il libero esercizio del culto». Dalla bozza è anche sparito il concetto di complementarità della donna rispetto all’uomo e si è introdotto il fondamentale concetto che «i cittadini e le cittadine sono uguali davanti alla legge». Anche se la formula si riferisce per il momento solo ai diritti di cittadinanza – e occorrerà vedere quale di questi diritti sarà garantito nel diritto privato, in quello di famiglia ed in quello ereditario – il fatto che la cittadinanza sia stata accettata da 159 votanti su 169 denota che anche Ennahda non è così monolitica come inizialmente si temeva. b) Libia La situazione nel paese si mantiene grave sul piano politico e su quello economico e finanziario, benché continui a essere un grande produttore di petrolio. Dopo le ondate di violenza ad opera dei numerosi ed incontrollati gruppi di miliziani creati dal vecchio regime, le autorità transitorie libiche si trovano in grave difficoltà nell’esercitare la loro azione politica, incapaci di sciogliere o assimilare gli appartenenti alle bande armate nelle nuove forze armate nazionali. Eletti nel luglio 2012 con il compito di approvare una nuova costituzione, i 200 membri del Congresso Generale Nazionale (CGN), il nuovo parlamento erede del consiglio nazionale transitorio, si sono visti sottrarre questo incarico a favore di una nuova assemblea elettiva, che non è stata ancora creata a motivo delle insanabili rivalità 234 Le “primavere arabe”: nascita e involuzione inter-etniche. Nel frattempo, il primo ministro el-Zeidane ha perso buona parte della propria credibilità politica, a causa sia del suo rapimento di alcune ore subito il 10 ottobre 2013 ad opera di alcuni gruppi dell’ex milizia, sia delle successive accuse di sudditanza nei confronti degli Stati Uniti, dopo che si è saputo che il governo aveva autorizzato l’operazione dell’intelligence americana conclusasi con l’uccisione in Libia di un importante capo libico di al-Qaeda. In questa evoluzione degli eventi dominati dalla confusione, la produzione e i proventi del petrolio sono drasticamente caduti, colpiti dalle proteste e dagli scioperi dei lavoratori, dalle resistenze alla produzione da parte dei capi tribali nelle zone di produzione (decisi a strappare al governo centrale quote maggiori dei profitti) e dalla mancanza di nuovi investimenti, indispensabili per aggiornare impianti e macchinari. Il governo è cosciente della gravità della situazione e lo stesso primo ministro ha avvertito che la Libia potrebbe presto trovarsi in crisi finanziaria e non essere in grado di far fronte a stipendi e sussidi alla popolazione. c) Egitto Il fallimento economico della fratellanza musulmana si è tradotto anche in Egitto nel fallimento politico del partito islamico, inducendo i militari ad assumere il controllo del potere. Il cambio ha fatto emergere con forza l’anima confessionale del paese, ancora largamente maggioritaria, e ha radicalizzato la ricerca di stabilità politica dei partiti islamici attraverso il ritorno a un passato utopico e irripetibile. Il risultato non è stato del tutto inatteso e ha visto la casta militare sfidare il sentimento religioso delle masse criminalizzando i fratelli musulmani, sostenitori del decaduto presidente Morsi, e ricercare l’appoggio della vecchia borghesia cresciuta all’ombra di Mubarak per esercitare assieme a essa il controllo del paese. I lunghi tempi necessari per elaborare la nuova costituzione e il contenuto della nuova carta, che in più di un passaggio si limita a riprendere principi e meccanismi politici del precedente assetto politico, tradiscono le resistenze vive nel paese ad affidarsi a modelli di sviluppo troppo innovativi e liberistici. 15 In aggiunta a queste resistenze, la scarsa affluenza alle urne in occasione del referendum approvativo (il 36% contro il 41% per l’approvazione della costituzione 15 La nuova costituzione, approvata per referendum il 14 gennaio 2014, vieta i partiti religiosi, ma lascia intatti i poteri dei tribunali speciali militari e introduce riforme economiche in senso liberale solo cosmetiche. 235 Emanuele Pignatelli 2011) e il risultato “bulgaro” del voto (oltre il 95% ha votato sì), uniti alla fuga all’estero o all’arresto dei massimi dirigenti della fratellanza musulmana, denunciano l’esistenza di un duro scontro in atto tra le “forze profonde” confessionali e quelle laiche della società egiziana che rischia, se non sarà abilmente controllato dai militari, di portare il paese a nuove divisioni civili. d) Siria L’abisso in cui è precipitata la Siria a causa delle sanguinose lotte tra ribelli e regime e tra le numerose bande non rende facile una previsione di rapida pacificazione del paese. I continui rinvii della conferenza “Ginevra 2” confermano lo scarso interesse dei protagonisti siriani per un esercizio in cui non vedono valori ideali da difendere, né modelli politici condivisi ai quali ispirarsi. In queste condizioni, la conferenza è forse più importante per i fiancheggiatori esterni dei combattenti siriani che per le stesse parti in causa. La Russia di Putin vede nella Siria l’occasione a lungo ricercata per bloccare nuovi interventi armati ONU o NATO nella regione e per affermare le proprie capacità di mediazione in Medio Oriente. Gli Stati Uniti sono impegnati sul fronte opposto a tenere sotto controllo il dinamismo diplomatico dell’Iran, decisi a impedire che la focalizzazione dei loro interessi politici verso l’Asia lasci troppo spazio politico a Teheran a scapito dei tradizionali alleati del Golfo. L’Unione Europea vede con preoccupazione nella continuazione degli scontri il pericolo che si creino spazi sempre più ampi per l’affermarsi degli estremismi religiosi e del terrorismo internazionale, tradizionali terreni di coltura per al-Qaeda. Analoghe paure sono condivise da Israele, il quale vede con preoccupazione la salita sempre più evidente sulla scena regionale degli hetzbollah e la rapida perdita del delicato equilibrio confessionale e politico del confinante Libano. 16 Ugualmente preoccupate sono le petro-monarchie del Golfo, strette tra la prosecuzione degli scontri in Siria, con i temuti rischi di ricadute entro i propri confini, e l’emergere di una nuova potenza regionale come l’Iran, di cui si teme il 16 Un attentato suicida a Beirut, il 27 dicembre 2013, ha ucciso 8 persone, tra cui un ex ministro sunnita particolarmente contrario alle attività di Hetzbollah in Libano e oltre 50 cittadini. L’attentato è stato considerato dagli investigatori locali un avvertimento sciita in vista del processo che a breve dovrà giudicare alcuni capi di Hetzbollah accusati di aver ucciso, nel 2005, l’ex primo ministro sunnita Rafic Hariri. 236 Le “primavere arabe”: nascita e involuzione potenziale economico legato al petrolio e la sua volontà di porsi quale punto di riferimento delle minoranze sciite nella regione. Il rifiuto dell’Arabia Saudita di accettare la proposta di invitare all’Iran a partecipare a “Ginevra 2” (chiesto formalmente dalla Russia) tradisce questo nervosismo. Le parti in causa non si aspettano molto dalla conferenza. Per Assad, la guerra in corso continua a rimanere un problema di polizia per combattere i rivoltosi appoggiati dall’esterno. Per questa ragione, i delegati del regime alla conferenza sono quasi tutti diplomatici, incaricati di trattare alla pari con i paesi terzi e di chiedere loro di arrestare l’appoggio ai ribelli e di sostenere il regime. La CNS, la principale associazione dei gruppi ribelli, ha accettato con mille esitazioni la proposta di dare vita a un governo di transizione di cui facciano parte esponenti dell’attuale regime. Il gruppo dei ribelli islamici, del quale fanno parte i salafiti e i più accesi jihadisti, si è dichiarato fin dal primo momento contrario ad una conferenza, convinto della sua inutilità e deciso a proseguire fino in fondo il suo confronto mortale con il regime. Sul tavolo di “Ginevra 2” si sta giocando una partita che va ben al di là della sola Siria e riguarda fondamentalmente il ruolo dell’Iran nella regione ed i suoi rapporti con l’Occidente. L’esclusione di Teheran dalla conferenza, chiesta dalle opposizioni e avallata dagli americani sotto pressione dei sauditi e di Israele, è in controtendenza rispetto agli sforzi fatti dallo stesso Occidente sul tavolo negoziale del nucleare. Non c’è una logica tra le due decisioni, ma conferma le difficoltà della comunità internazionale di accettare nel club dei potenti un altro membro, prima che abbia chiaramente dimostrato le proprie patenti di affidabilità e di coerenza diplomatica, soprattutto in uno scacchiere di vitale attualità come il Medio Oriente. e) La crisi degli Stati rentier Nell’aggravarsi delle crisi economiche arabe è la filosofia stessa degli Stati rentier a essere messa in discussione. Nelle situazioni di emergenza, la formula di “comprare” il consenso popolare, ampliando artificialmente una borghesia statale e parassitaria, e di distribuire a pioggia rendite e sussidi, che solo marginalmente sostengono le classi più povere, non funziona più, mettendo in evidenza lo smarrimento del senso del bene 237 Emanuele Pignatelli comune da parte della popolazione e la perdita di impegno civile dei cittadini per una politica di sviluppo sostenibile. 7. Conclusioni Ormai è abbastanza chiaro che le “primavere” sono state delle ribellioni spontanee e non delle rivoluzioni: è mancata una visione condivisa per un nuovo tipo di società e di politica e sono mancati leader carismatici e riconosciuti in grado di incarnare trasformazioni profonde nel rapporto tra sistema confessionale e sistema laico di gestione dello Stato. Dopo i movimenti di piazza del 2011, i paesi coinvolti sembrano tornati al “business as usual” e la caduta delle precedenti istituzioni non è stata seguita da nuovi modelli politici ed economici realmente innovativi. Se ancora non si vedono gli aspetti positivi delle rivolte, se ne vedono purtroppo quelli negativi che oggi coinvolgono anche paesi come il Mali, la Repubblica centrafricana, il Sud Sudan e lo stesso Libano, alle prese con l’aprirsi o il riacutizzarsi di antiche e profonde tensioni interne. Sul piano interno, a parte il caso della Siria (dove la sanguinosa lotta tra ribelli e regime appare ancora lontana da una conclusione), nessuno degli altri paesi arabi ha approvato testi costituzionali realmente innovativi rispetto al passato. Il rinvio di processi elettorali per nuove istituzioni politiche ha visto la prosecuzione di regimi transitori che non hanno l’energia necessaria per superare le irrisolte tensioni confessionali, sociali o inter-etniche che ancora scuotono molti dei paesi arabi. Sul piano regionale, i nuovi regimi non hanno portato a mutamenti di sostanza nei rapporti regionali o a un riallineamento delle loro più tradizionali posizioni strategiche internazionali. I fratelli musulmani non hanno mutato la politica estera dell’Egitto, tradizionalmente equidistante tra Hamas e al-Fatah, anche se all’inizio si temeva che il nuovo regime insediatosi al Cairo avrebbe potuto chiedere la rinegoziazione degli accordi di Camp David con Israele. Nel Maghreb, le aperture politiche sostenute dai nuovi regimi non hanno favorito l’auspicato rilancio della congelata Unione del Maghreb arabo, né sono state superate le tensioni fra Marocco e Algeria sul Sahara occidentale. Il Libano continua a essere terreno di scontro tra sunniti e sciiti ed è usato 238 Le “primavere arabe”: nascita e involuzione da Arabia Saudita, Qatar e Iran per misurare le rispettive forze. La mancanza di governo in Libia e la caduta della soft power di Gheddafi, legata alle forniture agevolate di petrolio, ha aperto nuovi fronti di tensione tra i paesi della fascia sub-sahariana, alimentata dalla diaspora dei miliziani libici. Sul piano economico, le “primavere” hanno confermato che le nuove autorità hanno potuto solo ripiegare su obiettivi di breve periodo, cioè creare impieghi pubblici e concedere sussidi a pioggia. È mancata la ricerca di strumenti interni di crescita e di valorizzazione di una maggiore partecipazione del settore privato e degli investimenti stranieri alla crescita economica. Sicuramente, non c’è stato il tempo per tutto questo e le tensioni confessionali ed etniche esplose alla caduta dei vecchi regimi non hanno permesso di ipotizzare possibili operazioni di lungo termine. La “transizione araba” seguita alle “primavere” ha messo a nudo le debolezze delle concezioni degli Stati rentier. In paesi abituati ai benefici dei proventi del petrolio o ad altre rendite (vedi il Canale di Suez per l’Egitto, il turismo, o la continua assistenza finanziaria da parte dei paesi più ricchi mossi da motivazioni di soft power religiosa), le nuove istituzioni non si sono allontanate dagli abusati meccanismi di distribuzione di fondi a pioggia, senza promuovere una reale mentalità imprenditoriale locale e finendo ancora una volta per rinviare l’occasione, per i partiti religiosi, di aprirsi al dibattito democratico e al maturare di quella coscienza politica meno confessionale che le “primavere” del 2011 avevano lasciato sperare. 239 Eunomia. Rivista semestrale di Storia e Politica Internazionali Eunomia III n.s. (2014), n. 1, 241-254 e-ISSN 2280-8949 DOI 10.1285/i22808949a3n1p241 http://siba-ese.unisalento.it, © 2014 Università del Salento RICARDO RABINOVICH-BERKMAN Game of Laws. On the Creation of Fictitious Juridical Yesterdays Abstract: All the fictitious pasts display or imply a juridical background, because a human society without law is simply unthinkable. In the past times transplanted from real history to an invented ground, juridical aspects are involved. The paternity of this rich gender could be recognized to four English tongue writers: Howard Ph. Lovecraft, Robert E. Howard, John R.R. Tolkien and Clive S. Lewis. Keywards: Fiction; juridical aspects; Howard Ph. Lovecraft; Robert E. Howard; John R.R. Tolkien; Clive S. Lewis. “The man who passes the sentence should swing the sword. If you would take a man's life, you owe it to him to look into his eyes and hear his final words. And if you cannot bear to do that, then perhaps the man does not deserve to die.” George R.R. Martin, A Game of Thrones 1. “Ex nihilo nihil fit” It is not a recent thing the creation of completely fantastic past times. We may let aside the Iliad, assuming their creators, as in the case of Greek classic tragedy, considered its scenarios real. But we could trace that invention at least down to Moslem mediaeval literature. In the Twentieth Century, though, and especially through cinema (and afterwards television), this gender arrived to peaks unexpected before. “Ex nihilo nihil fit”. No creation of a past, as fictitious as it may be, could be made without any consideration of the real yesterdays of mankind. And, of course, in that past times transplanted from real history to an invented ground, juridical aspects are involved. In its last and imposing growth, the paternity of this rich gender could be recognized to four English tongue writers. Two Americans, Howard Phillips Lovecraft (1890- Ricardo Rabinovich-Berkman 1937) and Robert Ervin Howard (1906-1936). A British born in South Africa, John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973). And an Irishman, Clive Staples Lewis (18981963). All of them had works taken to cinema. 2. Lovecraftian past Howard Lovecraft was one of the most important terror writers of all time. Admired, among others, by Jorge Luis Borges, he continued the stile of his compatriot Edgar Allan Poe (1809 - 1849). He predominantly produced short stories. In them, laterally, he created a dark and epic world, situated in a remote era, previous to any memory of present humanity. There, magicians and sorcerers shared with supernatural beings a monstrous and oppressive scenario. In the Lovecraftian invented past, with an obvious smell of Nietzsche, wright is given by force. Power, physical or obtained through witchcraft, turns licit the will of its owner. Everything is allowed in the search of supremacy. Murders, robbery, torture, are justified if their author succeeds. Once the power is obtained, there are no forbidden things for its owner. His will is the law, whatever he desires. There are no moral restrictions. Even the gods are evil and they recognize no ethics. They are bloodthirsty deities, ready to acknowledge any atrocity as long as they are well served. Overwhelming Lovecraftian fantasies are often narrated as dreams the characters have. They appeared in «Weird Tales» magazine, and inspired the “sword and sorcery” literary movement, also called “heroic fiction”, which gave subject for all kind of films. Some of them met great success, but a lot were low quality movies, often made using settings, makeups and ideas of the successful ones. The movement’s fictitious juridical background is substantially Lovecraftian, with variations. A Hobbesian viewpoint of human being and society is adopted. As in those imaginary eras there are no states (only kingdoms or lordships with rulers concerned with power and war) a situation of crude violence, where “naturally” the weak is submitted to the strong, prevails. 242 Game of Laws In this picture, the only hope of the frail is to wait for a hero to come and defeat the powerful lord who oppresses him. But this victor must be generous in order not to humiliate the poor as his predecessor, or even more. There are no religions of the Biblical stock or anything like them, nor the moral principles associated to them. Only inebriating universes where the will runs free and blood, sadism and violent fantasies are canalized and encouraged. 3. Howardian past: Hyboria Robert Howard was not a direct disciple of Lovecraft, but he was obviously influenced by his inventions and ideas. He created his own heroic pre-historic world, very similar to his teacher’s one. Juridical criteria were practically the same. He called it “Hyborian age”. In that scenario, Howard put to action epic warrior characters, merciless, often based in European or Mesopotamian myths. Some of these characters would become thoroughly famous, and would find their way to the big screen, such as Kull of Atlantis (Kull the Conqueror) and Conan the Barbarian. Socio-juridical Howardian contexts do often reserve some despise towards commerce and those who practice it. Merchants are usually shown as some kind of helots. They are weak, treacherous and mean beings, lurking in a society of heroic warriors. Sometimes, they present characteristics, which in the Middle Ages were associated to the Jewish archetype, relation occasionally reinforced by the clothing, and countenance, which remembers those of ancient Hebrews. Cities governed by merchants are displayed normally as fake democracies, where an unscrupulous class of rich, lusty and effeminate men monopolizes power. Among them word has no value (curiously) and treachery is common. Wives are bought and sold, kept as sad merchandises subject to the dirty hands of their dubious husbands (while, of course, they dream of being taken by a warrior). On the other hand, heroes normally prefer monarchic systems, ruled by skilled fighters. Scarcely dressed, showing their cultivated muscles, they feast, eating and drinking noisily all together. Slaves, often blacks, and comely servant girls whom they humiliate and molest (but the maids seem to like it) as part of their fun and joy attend their com- 243 Ricardo Rabinovich-Berkman mon large tables. They are manly, machos, rustic stallions, contrasting with the sexually ambiguous sophistication of the merchants. In what concerns what our societies normally consider crimes, homicide is permanently committed, and it fits in common day life of heroes as something natural. Raping women is a normal conduct among the glorious warriors, and even an object of celebration, because these fierce fighters, who risk their lives permanently, need to unleash their erotic fire. And ladies should be, anyway, honoured for the reception of such a precious seed, which will enable them afterwards to bear giants. Of course, it’s a Nietzschean world. Thieves, declared enemies of private property, are severely persecuted in the merchant’s cities, and hardly punished if captured (what seldom happens, because they are cunning in their hideaways and escapes). On the contrary, robbers are sympathetic, though in a kind of contemptuous way, to the heroes, because, at last, they both share despise for the merchants and their silly love for material goods. Not rarely, thieves that are in the run from urban justice, or even already caught by it’s executors, are sheltered or rescued, more or less as pets, by the warriors, who paternally mock at them, but end by benefiting through some low service (as, for instance, the opening of a locked door) rendered by the grateful saved robber in exchange. Fictitious Lovecraftian and Howardian pasts are often racist. Heroes use to have the characteristics of “Aryan” or “Nordic” archetype. They normally display beards and blond or clear hairs. They are usually tall, strong and white skinned. Their names and their culture bear predominantly ancient Germanic echoes, sometimes even Sanskrit smell. Things related with Orient or Africa are normally related with whatever is low, anti-heroic or degraded. Of course, in the last quarter of the Twentieth Century, laws, judicial decisions or practices, in a changing socio-political scenario, compelled the movie and television makers to diminish or dissimulate the racism involved in these fictitious universes. So, curiously, in another demonstration of the relation between law and cinema, juridical and social modifications occurred in the real present world affected those remote imaginary landscapes. Surprisingly, black heroes appeared, even Japanese or Chinese warri- 244 Game of Laws ors, armed with katanas, and fighting ferocious women multiplied (often preferring bows and arrows as their weapons, which seemed to appear more feminine to movie makers and writers). So, the evidently racist and discriminating context of the classic novels and short tales of this gender, and of it’s first films, became more concealed, more implicit sometimes, but dust is often shown under the carpet corners. 4. Tolkien’s Arda Tolkien was an erudite English linguist scholar. He carefully created the fictitious universe of Arda. The name remembers ancient Germanic words referring to the Earth. Even though, Arda could be our own planet in an archaic past, in Lovecraftian stile, or it could represent another imaginary world. Tolkien’s Arda goes through a heroic era. We do find human beings, but they coexist with strange creatures, taken from different mythological traditions. So we will discover in Arda the Elves, the Wizards or Istari, the Trolls, the Hobbits and the Orcs. The Dwarves, curiously, are not human, and they have little in common with persons with the condition known as “dwarfism” (they are of small height, of course). Most of this species have a realm of their own, with a different juridical and political system. We can trace a certain hierarchy between the races, where Elves occupy an undisputed summit (there are, notwithstanding, some differences between the culture and characteristics of the diverse groups of Elves, and a graduation could also be drawn inside the species). We may find a proportional relation between the superiority of a species and the respect that species pays to a juridical order conducting to social peace. Elves, for instance, are beings that hold a perfect and idyllic coexistence. They are ruled by customary immemorial principles that extremely seldom someone discuss or trespass.1 Orcs, in the antipodes, live in a permanent state of discordance and violence. Their chiefs are imposed by nude force. So, they constitute the lower step of all. 1 Tolkien himself writes about this Elvish customs in Morgoth’s Ring, 10th volume of The History of Middle Earth (J.R.R. TOLKIEN, Morgoth’s Ring: The Legends of Aman, Boston, Houghton Mifflin, 1993, pp. 209 ss). There’s only one real case of serious law trespass remembered by the Elves, that of Maeglin, a character in the novel The Silmarillion. 245 Ricardo Rabinovich-Berkman Underneath Elves and Wizards, human beings or “second people” (“Atani”, in the carefully invented Elvish tongue) are superior to Hobbits (even though closely related to them) and to Dwarves. These three races, anyway, together with Elves and Wizards, share epic experiences, in an eminently mediaeval environment. Tolkien works require, in order to be well taken to cinema, sophisticated resources. Complicated makeup, imposing special effects, great scenography, difficult monumental exteriors, and a lot of extras, are unavoidably needed. This implies a very huge budget. Maybe that was decisive in making cartoons one of the first ways for Tolkien’s arrival to great screen. Cartoons allow resolving all those problems with a low cost. An American director, Ralph Bakshi, concreted that in 1978, with J.R.R. Tolkien’s The Lord of the Rings. More than two decades were to be waited until in 2001, employing informatics technology, a non-cartoon movie could achieve the level required by the literary source. A New Zealander, Peter Robert Jackson, directed the film. He developed a trilogy, with a movie per year, each one of them named after the corresponding book of Tolkien. The result gained a colossal economic success and harvested a lot of prizes (including 17 Oscars). Besides that, it probably constitutes the best example of monumental cinema of all times. 5. Lewis and his Narnia C.S. Lewis was a learned philologist and mediaevalist. He left a very vast production, including The Chronicles of Narnia, written between 1950 and 1956. This work was originally conceived for the young, but soon it proved of interest for all publics. Maybe due to that initial destination, Narnia’s mythical past (shown as a parallel present) hasn’t got the overwhelming charge of Lovecraft’s or Howard’s creations, not even that of Tolkien’s Middle-Earth. But in Lewis’ novels what appears very neatly is a mediaeval atmosphere, filled with feudal elements taken from the real British juridical past. In the Narnian universe, human beings coexist with personalized animals, which often fall into traditional Euro- 246 Game of Laws pean stereotypes, such as the lion-king, and completely fantastic entities (among whom we can recognize classic figures like the fairies and the witches). In Lewis’ fiction the cult of violence is extremely less than in the previously seen expressions. On the contrary, moral messages are clear, and substantially coherent with a current Christian and neo-gothic knightly Weltanschauung. The Chronicles of Narnia had been taken several times to radio and television, before they finally reached monumental cinematographic production, when the three first books of the series were taken to the movies. Another New Zealander, Andrew Adamson, directed The Chronicles of Narnia: the Lion, the Witch and the Wardrobe in 2005. This same artist directed three years later The Chronicles of Narnia: Prince Caspian). And Michael Apted, from England, directed The Chronicles of Narnia: the Voyage of the Dawn Treader in 2010. Films of this gender flourished, as it can be seen, in the last decades, because of the imposing special effects allowed by informatics. As a matter of fact, in their monumentality, these productions became wonderfully functional to the recovery of public for cinema theatres in face of the hard competence given by new home-based exhibit devises, such as videocassettes, DVD and giant TV sets. So directors full their movies with colossal scenes that can only be really enjoyed in the big screen and with a very good sound. The fact that these films aimed fundamentally on young public augmented their pedagogic operation and their capacity to install behaviours. Both aspects were potentiated and continued outside the cinema halls by means of videogames and roleplaying, feed-backed by the merchandising of products related to this movies (t-shirts, toys, posters, weapons’ reproductions, etc.) Obviously, today we would rather find a hundred 20-year-old chaps who can lecture about political law in Gondor or Rohan (kingdoms of Tolkien’s Middle-Earth) than one who can barely say what kind of government had Anglo-Saxon Mercia. Fictitious pasts featured in this gender could be divided, in general terms, in two groups: “mediaeval” and “ancient”. The first ones fit normally in Tolkien or Lewis lines. For instance, works inspired in the writings of American Ursula K. Le Guin, author of the Earthsea saga, initiated in 1964 with the short story The Word of Unbinding. 247 Ricardo Rabinovich-Berkman “Mediaeval” fictitious pasts show castles, fortified towers, imposing walls. Countries are ruled by kings, princes or warlords. Titles are often taken from European Middle Ages (earl, duke, steward, regent). Warriors subject to the feudal lords ride on horses, wear armour, helmets and shields. They fight with swords, spears, maces and other weapons borrowed from mediaeval warfare. Characters typical of mediaeval folklore, some of them also acquainted with repressive law of the time, are displayed, such as wizards, sorcerers, witches and fairies. Guilds of magicians are formed, and also knight orders. And the normal background juridical landscape for all this is a romantic negothic vision of feudalism. “Ancient” fictitious pasts are more related to the creations of Lovecraft and Howard. They often depict an entourage of empires and conquerors, where Mesopotamian elements are sometimes engaged with Egyptian, old Germanic and Greco-Roman influences. One must not be surprised if even Chinese or Japanese traces are found… and maybe Native American factors! 6. A law of ice and fire A very particular case is A Song of Ice and Fire, of American writer George R. R. Martin, which first volume, A Game of Thrones, appeared in 1996. For this extraordinary saga includes elements of the “ancient” type over a predominantly “mediaeval” background. As it is clearly destined to adult public, though, it lacks the moral basements which characterise fictitious medieval pasts. This work of George Martin generated the television miniseries Game of Thrones, whose first season was aired in 2011, and is now (2014) featuring it’s fourth. The success and popularity of this TV product is unparalleled, and experienced a remarkable growth year after year. A lot of people read the books only after having watched the series, which is probably the best release the gender gave for the small screen up to this day. It is quite interesting to see how in this masterpiece of the style the Nietzschean environment, proportional with the lack of a law system and the absence of ethical criteria seem to grow as we go from the frozen North kingdoms to the warm South realms, in 248 Game of Laws the imaginary map where action takes place. This gradation may be or not deliberated, but if it were it could hide an amazing meta-message. The question concerning the form of government (we could say, the constitution) of a realm appears as a highlight of the First Season, mostly surrounding the functions of the “King`s Hand”, a sort of prime minister, and it`s difficult relation with the monarch (and also the bonds between sovereign and warlords). In the Second Season, the matter of the succession to the throne, both in the principal kingdom and in the other minor political unities, takes the juridical primacy. In the Third Season, through the story of the unique character of the “Khaleesi”, the subject of slavery and the liberation of the servants acquire paramount relevance, concluding in the unforgettable ending of the last episode, maybe the best season closing ever made. Even though Martin had been an active pacifist and conscientious objector during Vietnam War, violence is proverbial in these books and in the miniseries, where it reaches unprecedented levels. All kinds of atrocities are featured in an explicit manner, with no regard for the sensibility of spectators. Rapes, torture, amputations, bloody fight scenes, horrible assassinations; you have everything, an entire menu of sadism. Embryos of criminal law are sometimes shown, as is the general rejection directed against the figure of the “Kingslayer”, a member of the royal guard who killed the monarch he was supposed to protect. Certainly, the idea of a legal system and procedure concerning crimes is more present in the books than in the TV series. Questions related to marriage, the rights of husband and wife, the situation of out-ofwedlock children (particularly treated in this saga, and in a very curious way), inheritance of estates law, and other juridical issues appear throughout Game of Thrones, in a collateral but attractive way. Exquisitely rich in dealing with matters concerned with the exercise of power, this production would merit a profound study for itself, both from the juridical-political and philosophic viewpoints. Hope some brilliant young fan, as my own son Ezequiel (whom I thank, by the way, for critically reading this paragraphs), will pick up the glove of this challenge. 249 Ricardo Rabinovich-Berkman 7. A long time ago in a galaxy far, far away The “mediaeval” universes created in science-fiction movies situated in outer space show a very interesting variation of this gender. The origins of this form can be traced up to the Flash Gordon comic, which arrived to cinema in 1936 and, in lesser measure, it’s competitor Buck Rogers, in the big screen since 1933. Probably the best-known example of the kind, and with all reason, is the saga Star Wars (George Lucas, 1977 - 2005), composed by six extraordinary films perfectly capable of being interpreted as a political allegation (and maybe the best ever made) on the transformation of democratic republics into totalitarian empires, without formally loosing juridical republican appearance in the process (as in Augustus’ Rome or Hitler’s Germany). This imposing films may be included in the gender of the fictitious pasts from the very beginning, because Lucas expressly allows it when initiating the saga with the phrase that became a classic quote: «A long time ago, in a galaxy far, far away». So, even though in this case the past is declaredly extra-terrestrial, with no room for doubts as in some of the previous examples, it remains as a “universe past”. The greatest challenge this kind of productions pose to our classification is the overwhelming presence of high technology elements, characteristic of the futurist fiction. But, notwithstanding those spaceships, sophisticated weapons and complex computers, “mediaeval” environment is obvious. Titles taken from European history are there from the first minute to the last: we find an Emperor, various Kings and Queens, Counts and even a Princess in distress that needs rescue. Is there any doubt left? Two rival knight orders fight the entire saga along. One of them embodies the Good, and the other is inherently evil. Moral codes are very strong in this production (we should remember this is a characteristic of the “mediaeval” sort). The good ones are the Jedi knights. Their order requires vows of obedience, poverty and chastity, as the Templars (and as the Night’s Watch of Game of Thrones). Those vows are severely enforced, as we know by the story of knight Anakin Skywalker, who disobeys them. In the middle of incredible technology devices, while crossing the universe in lightspeed vessels, this knights, who hold their gatherings in a round meeting, as the Holy Grail ones did, insist in fighting with swords (with laser blades, but swords neverthe- 250 Game of Laws less). Of course, they wear capes and have a rough apprentice period. And when they win they receive medals and decorations. The analysis Lucas achieves in this extraordinary saga about the political, social, psychological and, of course, juridical tools and procedures by which a more or less democratic republic may be transformed into a monolithic tyrannical state, while denominations and external forms are preserved, is really astonishing. These productions should be exhibited seriously in all university courses concerning these matters, followed by a huge and open discussion in the classroom. No law-history treaty could reach the same effect. 8. The problem of mixed pasts When a past is clearly fictitious, the spectator or reader knows it. Notwithstanding, he may connect, of course, the imaginary elements with real ones (as, for instance, in the case of Star Wars). He will probably make conclusions; even arrive to some learning, good or bad. But he is only deceived if he is completely uninformed of human history. Even in that hypothesis, the presence of dragons, orcs, wizards and that sort of things will ring a powerful bell awaking him or her from the sweet dream of ignorance. But what happens if there is a deliberate intention of the creators of the fictitious past to trick the public into confusion? That could be done, for example, by a subtle introduction of factors easily associated with well known cultures, such as pyramids or Doric temples, or the employment of the names of historic peoples (i.e., Goths, Huns), or real geographical data (for instance, Mesopotamia or the Atlantic Ocean). The problem here lies in the fact that these pasts are and remain completely fictitious. Consequently, there is no concern for any kind of fidelity to historical records or real sources. And, as cinema and TV have massive reach, arriving to millions of persons throughout the entire world, and both have an undisputable pedagogical effect, the results may lead to a serious and preoccupying tergiversation of the knowledge of the past, with complicated, and probably deleterious, impact in popular historical culture. Let’s pick up a perfect specimen: the movie 10,000 BC (Roland Emmerich, 2008). This film mixtures the monumental-history gender with the fictitious-pasts one, in its 251 Ricardo Rabinovich-Berkman “ancient” line. Sub-estimation of the public arrives here to the level of naked rudeness. Egyptian pyramids and the Sphinx are built under atrocious slavery regimes, ten millennia before Christ, with the aid of mammoths. In face of such a mess, the presence of horsemen dozens of centuries before horse riding and of animals extinct more than a million years ago, is a mere piece of cake. Of course, we remember immediately the lamentable film One Million Years BC (Don Chaffey, 1966), where human beings and dinosaurs coexist, as happened with it’s predecessor One million B.C. (Hal Roach and Hal Roach Jr., 1940). Nevertheless, 10,000 BC met a remarkable economic success, which means that a huge quantity of persons saw it. A lot of them, probably, lacked a solid historical basic formation. And they received, without warning, this creation of a completely invented past, presented as real. For those who might think that dealing with pre-historic scenarios necessarily imposes a pathetic production, we could oppose French film Quest for Fire (La guerre du feu, Jean-Jacques Annaud, 1981). This is, as a matter of fact, one of the most serious movies ever made, from the anthropological viewpoint, in this fragile field. It housed at least two luxury names. One was British linguist and writer Anthony Burgess, mostly known for his profound and disturbing novel A clockwork orange. Burgess was in charge of the confection of pre-historic languages, a task he developed in an extraordinary way. The other was the famous zoologist and ethologist Desmond Morris, author of the famous essay The Naked Ape: a Zoologist’s study of the Human Animal. Morris, also from England, supervised the character’s gestures and body movements. Reconstruction of a hypothetic remote Palaeolithic law, even involving Neanderthals, is quite a challenge. Of course, that recreation is needed in a film like Quest for Fire. The one this production delivered was very interesting. Perhaps it would be thoroughly revisited today, because the then prevailing idea of the Neanderthal as violent and somewhat stupid beings is now loosing terrain. Presently, they tend to be considered as pacific and intelligent, probably even more than homo sapiens sapiens. But the subject still remains in the house of hypothesis. 252 Game of Laws Cinema is, firstly, an artistic expression. Therefore, no limits should be placed to the freedom of creation, as were imposed by a lot of societies throughout the centuries, alleging religious, moral or political reasons. So, the invention of false pasts fits in that frame of liberty that nowadays law tend, fortunately, to grant. The problem is the enormous power cinema possesses in the formation and diffusion of Weltanschauungen. That pedagogical potency is incremented in films dealing with the past, because they are received (wanting or not) as history lessons. This effect is stronger in the present context of general poor treatment of history both in elementary and high schools. We still live in a world where millions don’t even get a basic education. And it must be considered that movies reach those who cant read or, even knowing how to read, prefer, for cultural reasons, unwritten transmission. Mixture of highly fictitious pasts with real and easily identifiable data generates a serious disturbing effect in that propaedeutic function of TV and cinema. Special effects maker Ray Harryhausen, speaking of the success gained by One million B.C. (probably by large due to famous Rachel Welch’s fur bikini), whose anachronic dinosaurs he had created, answered to critics generated by the scandalous lacking of historical base of the film, that he had not made it for professors who «probably don’t go to see this kinds of movies anyway».2 Seldom are these ideas exposed with such sincerity. Prejudice sustaining that certain “kind of movies” are only for ignorant people (“non professors”) is mixed with the conviction that such public may digest everything, without any sort of complaint. This is the perilous point where artistic freedom encounters lack of respect, and there we can expect everything. Being cinema the most lucrative of arts, whatever makes money to flow inwards is welcome. Surely, fights between dinosaurs and human beings are very attractive, and so they sell. As do imposing scenes of Egyptian pyramids being built by mammoths in a remote pre-historical frame. Money makes the rules and, maybe, sometimes, also some ideological message is lurking down there too. 2 This caustic comment appears in the official DVD of the original film King Kong (Merian C. Cooper Ernest B. Schoedsack, 1933). 253 Ricardo Rabinovich-Berkman This problem diminishes as the fiction of the past becomes evident. But then again, “ab nihilo nihil fit”. So, Tolkien, for instance, played with words, as he did when he called a monarch “Theoden”, an Anglo-Saxon word meaning “king”. Anyway, in his mythical Middle-Earth English is spoken, and English happens to be a real language, resulting from a linguistic authentic history, which took place in Britain, not in Gondor nor in Rohan. But this kind of fictitious pasts bring minimal trouble compared with the other ones, where both universes are intermingled. 9. The End All those fictitious pasts display or imply a juridical background, because a human society without law is simply unthinkable. Seldom will that matters be the highlight in these films. But we will be able to grasp at them whenever a criminal trial is displayed, or a wedding ceremony, or the celebration of a contract, or when the legitimacy of a ruler is discussed, or his or her justice is debated. These juridical imaginary constructions will be based over real ancient (or present) institutions. That ontological community, besides, accomplishes a function. It enables the receiver to identify what he finds in the book or the screen, and thus decode the messages. He must understand that the shown person is a judge, that those people there form a jury, that this place is a jail, that the paper hanging in that wall bears a legal disposition, that the execution displayed is a criminal punishment. The reader or spectator can only do that by referring to his or her own cultural parameters. From the moment we jurists decided finally to understand that our field is extremely wider than the mere study of laws and tribunal decisions, from the second we realized that we had an entire and magnificent social world before us, waiting desperately to be analysed with our tools and from our points of view, this enchanting panoramas appealed to our attention. Courage will be needed for young scholars to work their doctoral thesis harvesting fertile these lands, and for the older teachers to accept them willingly. But we are not allowed any more to continue stolidly ignoring all these amazing trails we must trek. 254 Eunomia. Rivista semestrale di Storia e Politica Internazionali Eunomia III n.s. (2014), n. 1, 255-262 e-ISSN 2280-8949 DOI 10.1285/i22808949a3n1p255 http://siba-ese.unisalento.it, © 2014 Università del Salento GIULIANA IURLANO Line in the Sand. Frontiera e frontiere negli Stati Uniti dell’Ottocento FRIDA KHALO, Autoritratto al confine tra Messico e Stati Uniti, 1932 «Puntò a nord il muso del cavallo, verso le montagne di pietra che si stendevano sottili lungo il margine del cielo, e cavalcò con le stelle davanti agli occhi e il sole alto sul capo. Era un paese che non aveva mai visto, e non c’era una pista da seguire per addentrarsi fra quelle montagne né per uscirne. Eppure, proprio nel fitto di quelle rocce, incontrò uomini che sembravano incapaci di tollerare il silenzio del mondo. CORMAC MCCARTHY, Meridiano di sangue «Our life should be so active and progressive as to be a journey». H.D. THOREAU, Journal, III, 240 Abstract: This article is a brief comment about the importance of the frontier in American history. Indeed, the American frontier in the 19th century is a whole of frontiers, in which the wilderness is a human line, because in it are present all the aspects of the human will. Keyword: American frontier; wilderness; human will. Giuliana Iurlano Con la scoperta del Nuovo Mondo, la frontiera atlantica fu completamente attraversata e, con essa, finì accantonato anche il paradigma di una Terra più piccola e ridotta, come si era pensato che fosse fino ad allora. In qualche modo, la colonizzazione inglese del Nord America si svolse all’insegna di un limite da superare, di un oltrepassamento dei valori europei, di un loro hegeliano “inveramento” nel continente americano, sull’onda di quell’irruenza creativa whitmaniana che avrebbe dato al mondo un originale way of life. L’American Way, infatti, è un tutt’uno con la frontiera e con il Manifest Destiny: è l’identità stessa americana, l’atto fondativo di una nazione, che – con la dichiarazione d’indipendenza del 1776 – ha soltanto ribadito ciò che essa era già diventata da tempo. Non è un caso, infatti, che la storia americana sia intrisa dell’ideologia della frontiera, di questo confine mobile che arretra davanti all’avanzare dei pionieri, che sfida la loro resistenza e ne mette a dura prova il carattere: «Nel temperamento americano – scrive Paul Claudel – c’è una qualità, chiamata resiliency, che abbraccia i concetti di elasticità, di rimbalzo, di risorsa e di buon umore […]. Ho visitato l’America alla fine della presidenza Hoover, in una delle ore più tragiche della sua storia [la grande depressione], quando tutte le banche avevano chiuso i battenti e la vita economica era ferma. L’angoscia stringeva i cuori, ma l’allegria e la fiducia splendevano nei volti di tutti. Ad ascoltare le frasi che si scambiavano, si sarebbe detto che era tutto un enorme scherzo. E se qualche finanziere si gettava dalla finestra, non posso impedirmi di credere che lo facesse nell’ingannevole speranza 1 di rimbalzare». Ma la frontiera è anche un’apertura mentale, una capacità di guardare avanti e di superare paure e pregiudizi, di creare nuove istituzioni e nuove società, di resistere alla potenza della wilderness e di sconfiggerla ogni volta. La Frontier Thesis di Frederick J. Turner – nonostante le critiche che ha ricevuto nel corso del tempo2 – resta un punto nodale della storia americana, 3 perché rilegge l’espansione americana alla luce dell’evoluzionismo spenceriano, attribuendogli significati e valori molto distanti dalla 1 P. CLAUDEL, Oeuvres en prose, Paris, Gallimard, 1965, p. 1205. Sul dibattito aperto dalla tesi di Turner, cfr. T. BONAZZI, Frontiera, in Il mondo contemporaneo. Storia del Nord America, a cura di P. BAIRATI, Firenze, La Nuova Italia, 1978, pp. 79-96. 3 Cfr. F.J. TURNER, The Frontier in American History [The Significance of the Frontier in American History, 1893], New York, Henry Holt & Co., 1953. 2 256 Line in the Sand percezione europea. La frontiera, insomma, non come linea di demarcazione, di chiusura, ma come “area che invita a entrare”, per usare le parole di uno dei più noti discepoli di Turner, Walter P. Webb.4 La frontiera, insomma, è indissolubilmente legata alla wilderness, a quella natura selvaggia da cui dipende la “sopravvivenza del mondo”,5 come asseriva Henry David Thoreau, uno dei primi ambientalisti che la storia ricordi: «Il mio stato d’animo infallibilmente s’innalza in misura proporzionale all’essenzialità del paesaggio. Datemi l’oceano, il deserto, la natura incontaminata! [...] Per quanto mi riguarda, credo di vivere, rispetto alla Natura, una vita di frontiera, ai confini di un mondo entro cui compio occasionali, fuggevoli incursioni, e il patriottismo e il sentimento di fedeltà verso lo stato nei cui territori apparentemente batto in ritirata, sono quelli di un imboscato. [...] La natura ha un carattere così vasto e universale da non consentirci di identificarne un 6 solo tratto». La “natura” ha contraddistinto sin dall’inizio il Nuovo Mondo ed ha creato, essa stessa, un confine, talvolta impenetrabile, dietro il quale s’intuivano l’ignoto e il mistero, che, come calamita, affascinavano e attraevano l’uomo europeo, lo invitavano alla conquista e all’addomesticamento di boschi, lande, paludi, deserti, per poi ricacciarlo indietro con furia primordiale e distruttiva. La domanda di Emerson – «Perché non dovremmo sperimentare anche noi un rapporto originale con l’universo?»7 – risuona ancora vivida e forte, ma la risposta è già implicita: l’età “retrospettiva” delle nuove generazioni, costruttrice di “sepolcri dei padri”, autrice di biografie, storia e critica, ha anch’essa il diritto di «contemplare Dio e la natura faccia a faccia».8 E la frontiera segna il livello di quella contemplazione, marca il terreno sottratto all’ignoto, fruga in tutte le direzioni, meno che in quella che si è lasciata alle spalle. Quel “rapporto originale con l’universo” si è effettivamente realizzato con la nascita degli Stati Uniti d’America, con la dichiarazione d’indipendenza del 1776 e con la costituzione federale, che hanno aperto improvvisamente uno squarcio di novità nelle realiz4 Cfr. W.P. WEBB, The Great Plains, Boston, Ginn, 1931. H.D. THOREAU, Camminare, a cura di F. MELI, Milano, SE, 1989, p. 34. 6 Ibid., pp. 38 e 55. 7 R.W. EMERSON, Teologia e natura, a cura di P.C. BORI, Genova, Marietti, 1991, p. 7. 8 Ibid. 5 257 Giuliana Iurlano zazioni dell’uomo. L’esperimento americano è stato sostanzialmente una “frontiera” superata, un mettersi alle spalle il Vecchio Mondo così com’era, per ricrearlo in una terra diversa e difficile, per rielaborarne i valori alla luce di un confronto continuo con sé e con gli altri, in un puzzle semantico9 e in una complessa costruzione sintetica, alcune volte melting pot, altre volte salad bowl, altre volte ancora hyphenated American. «Da qui veleggiare è facile»: queste le ultime parole dell’autore della Civil Disobedience, pronunciate alla sorella Sophie prima di morire.10 “Da qui”, dai boschi di Concord, dalla terra americana tutta, “veleggiare” era effettivamente facile: raggiungere e oltrepassare le frontiere era parte integrante dell’identità americana, costruire villaggi e città nella wilderness, accanto o al posto degli insediamenti indiani, era implicito nell’espansionismo genetico americano.11 Su quella linea mobile, il rapporto tra uomo e natura si disintegra e si reintegra continuamente; ma, avverte Marco Sioli, «vedere il rapporto tra natura e metropoli come una relazione antitetica e conflittuale [....], come una dicotomia è però inesatto. Soprattutto nel contesto americano, natura e metropoli hanno interagito e conti12 nuano a interagire sia nel mondo reale, sia in quello culturale». Sin dall’inizio della fondazione urbana, lo spazio naturale selvaggio e incontaminato veniva “riempito” dalle città, che ricreavano un ordine delle cose tipico della natura: «In ogni città ogni cosa aveva un posto ben definito e si collocava secondo un ordine prestabilito in una dimensione pubblica: le strade, le piazze, le banchine lungo i fiumi che le attraversavano o che le lambivano, e i parchi urbani che riportavano all’interno della città la 13 wilderness originariamente allontanata». 9 Cfr. T.M. PEARCE, The “Other” Frontiers of the American West, in «Arizona and the West», IV, 2, Summer 1962, p. 105. 10 Cit. in P. SANAVÌO, Gli alfabeti di Henry D. Thoreau, in H.D. THOREAU, Walden ovvero vita nei boschi, a cura di P. SANAVÌO, Milano, Rizzoli, p. 45. Si veda anche ID., Civil Disobedience (1849), in The Portable Thoreau, ed. by C. BODE, Middlesex - New York, Penguin Books, 1975, pp. 109-137. 11 Su tale argomento, si veda l’interessante numero monografico di «Storia Urbana», XXIII, 87, aprilegiugno 1999. 12 M. SIOLI, Introduzione, in Metropoli e natura sulle frontiere americane: dalle non-città indiane alla città di Thoreau, dalle metropoli industriali alla città ecologica, a cura di M. SIOLI, Milano, Franco Angeli, 2003, p. 7. 13 Ibid. 258 Line in the Sand L’edificazione urbana seguiva la frontiera: questa – dopo l’indipendenza – si spostò verso la Louisiana francese, acquistata da Jefferson nel 180314 e, successivamente, esplorata con quattro grandi spedizioni: la prima e più nota fu quella di Meriwether Lewis e William Clark (1803-1806), a nordovest verso le sorgenti del Missouri;15 le tre successive a sudovest, con William Dumbar e George Hunter nel 1804-1805,16 con Thomas Freeman e Peter Custis nel 1806,17 e, infine, con Zebulon Montgomery Pike nel 18051807.18 Non si trattava soltanto di “missioni esplorative”, ma di vere e proprie strategie diplomatiche per intessere relazioni significative tra gli Stati Uniti e le nazioni indiane dell’Ovest.19 Insomma, la frontiera conteneva in sé anche il bisogno di stabilire dei contatti diplomatici con le tribù occidentali – contatti che avrebbero reso l’avanzata dei coloni meno pericolosa20 –, oltre che di collegare l’Oceano Pacifico al “sistema” del fiume 14 Cfr. Treaty Between the United States of America and the French Republic, April 30, 1803, in The Public Statutes at Large of the United States of America, from the Organization of the Government in 1789, to March 3, 1845, with References to the Matter of Each Act and to the Subsequent Acts on the Same Subjects, and Copious Notes of the Decisions of the Courts of the United States [...], ed. by R. PETERS, Esq., vol. II, Boston, Charles C. Little and James Brown, 1845, pp. 200-206. 15 Cfr. The Journals of the Lewis and Clark Expedition, in lewisandclarkjournals.unl.edu/index.html. Si veda anche S.E. AMBROSE, Meriwether Lewis, Thomas Jefferson, and the Opening of the American West, New York, Simon & Schuster, 2002. 16 Cfr. T. BERRY - P. BEASLEY - J. CLEMENTS, The Forgotten Expedition, 1804-1805: The Louisiana Purchase Journals of Dunbar and Hunter, Baton Rouge, Louisiana State University Press, 2006. Si veda, inoltre, Expedition Journals, 1804-1806, in AMERICAN PHILOSOPHICAL SOCIETY (APS), Digital Library. 0.1 Linear feet, 1 vol., MSS. 917.7.D91. 17 La spedizione doveva risalire il Red River per scoprirne le sorgenti, oltre a raccogliere informazioni sulla flora e la fauna dei luoghi visitati, ma fu intercettata dalle truppe spagnole e dovette essere sospesa con grave imbarazzo dell’amministrazione Jefferson. Cfr. Southern Counterpart to Lewis & Clark: The Freeman & Custis Expedition of 1806, ed. by D.L. FLORES, Norman, University of Oklahoma Press, 1984. 18 Cfr. The Expeditions of Zebulon Montgomery Pike to Headwaters of the Mississippi River through Louisiana Territory, and in New Spain, During the Years 1805-1806-1807, ed. by E. COUES, vol. I, Minneapolis, Ross & Haines, 1965. 19 Cfr. Y. KAWASHIMA, Forest Diplomats: The Role of Interpreters in Indian-White Relations on the Early American Frontier, in «American Indian Quarterly», XIII, 1, Winter 1989, pp. 1-14. 20 Cfr. TH. JEFFERSON, “Confidential” Message to Congress, January 18, 1803, pp. 1-4. Manuscript. Manuscript Division, Library of Congress, in http://www.loc.gov/exhibits/lewisandclark/images/jpg. 21 È il caso di Dodge City, in Kansas. Cfr. R.R. DYKSTRA, Dodge City, Kansas: omicidi, discorso morale e identità culturale, in Metropoli e natura sulle frontiere americane, cit., pp. 209-220. 22 Cfr. R. ST. JOHN, Line in the Sand: A History of the Western U.S.-Mexico Border, Princeton and Oxford, Princeton University Press, 2013. 259 Giuliana Iurlano Mississippi. In questa “rete”, le stesse città si trasformavano in un importante momento d’integrazione con la natura, al punto da diventare un tutt’uno col mito della frontiera.21 Recentemente, Rachel St. John ha pubblicato un interessante volume sul confine tra Messico e Stati Uniti,22 con particolare riguardo alla sua linea occidentale, artificialmente costruita sulla mappa dalla commissione congiunta messico-statunitense, riunitasi per la prima volta a Tucson il 6 settembre 1851.23 Proprio quella striscia di terra, che costituisce il confine con il Messico, si estende da un oceano all’altro, toccando ben quattro Stati americani; ma non si tratta di un confine come gli altri, perché è una linea che cambia, si trasforma nel tempo, è attrattiva o selettiva, militarizzata o, in alcune fasi e in alcune zone, edificata con palificazioni metalliche, che luccicano sotto il sole del deserto e vicino alle quali le Border Patrol jeeps lasciano profondi solchi sulla sabbia bollente. È l’emblema stesso della frontiera americana: un confine naturale a est, lungo il corso del Rio Grande, prolungato artificialmente verso ovest due anni dopo la guerra del 1846, con la firma del trattato di Guadalupe-Hidalgo.24 Una fascia di territorio, per così dire, “ibrida”, un nuovo spazio nel West, popolato da coloro che i borderlands histrians hanno definito come “peoples in between”,25 un miscuglio di case, saloon, negozi affollatissimi, in particolare lungo la linea che divide in due la città di Nogales (una parte in Arizona e un’altra nello Stato messicano di Sonora), la land of plenty e la land of want. Questo “space between” – per molto tempo “a sovranità limitata”, nel senso che i due Stati-nazione non sempre sono riusciti ad affermarvi e a far rispettare le loro regole – è 23 I membri della commissione erano gli americani John Russell Bartlett ed Andrew B. Gray, e i messicani Pedro García Conde e José Salazar Ylarregui. Quest’ultimo dichiarò immediatamente la difficoltà del compito da svolgere: «Sulla carta è facile tracciare una linea con la riga e la matita; ma sul terreno non è la stessa cosa». SALAZAR YLARREGUI, Datos de los trabajos astronómicos y topográficos, in Entry in the Official Journal of the U.S. and Mexican Boundary Commission, September 6, 1851, signed by Thomas H. Webb and Francisco Jiménez, secretaries, BARTLETT PAPERS, Mexican Boundary Commission Reds, reel IX, JOHN CARTER BROWN LIBRARY (JCBL), Providence, Rhode Island. 24 Cfr. Treaty of Peace, Friendship, Limits, and Settlement with the Republic of Mexico, February 2, 1848, in The Laws of the United States. Public Acts of the Twenty-Ninth Congress of the United States, in Statutes at Large, 29th Congress, 1st Session, pp. 922-943. 25 Cfr. R. WHITE, The Middle Ground: Indians, Empires, and Republics in the Great Lakes Region, 16501815, New York, Cambridge University Press, 1991; S. TRUETT, Fugitive Landscapes: The Forgotten History of the U.S.-Mexico Borderlands, New Haven, CT, Yale University Press, 2006; J. ADELMAN – S. ARON, From Borderlands to Borders: Empires, Nation-States, and the Peoples in between in North America History, in «American Historical Review», CIV, 3, June 1999, pp. 814-841. 260 Line in the Sand un evolving space, uno spazio continuamente cangiante, un luogo non soltanto di uscita verso il sogno americano, ma anche di entrata dei capitalisti transnazionali, che nel tempo lo hanno trasformato in frontiera vivente, costruendovi ranches, case, mercati, strade e ferrovie. Ma esso è anche l’incontro con gli indigeni, un confine centrale che ha dato vita anche a una cultura di mezzo, a una legislazione necessariamente condivisa, e non soltanto imposta con la forza, oltre che a un controllo attento del traffico di droga.26 La frontiera occidentale era anche il Great West, l’Occidente “globale” di cui parla David M. Wrobel, 27 ma anche il superamento del Pacifico per raggiungere l’Asia, 28 l’open door del libero mercato, molto più importante della vecchia Europa, o il luogo privilegiato delle opportunità economiche.29 Ma la frontiera è pure quella del confine canadese, una frontiera pacifica a partire dal 1817, da quando il Rush-Bagot Agreement stabilì il reciproco disarmo nell’entroterra del bacino del San Lorenzo.30 Come ha sostenuto Susan Rhoades Neel, «cercare di comprendere l’Ovest dalla prospettiva della frontiera è come vedere il paesaggio da un’auto in movimento, in cui il posto che si attraversa è offuscato e distorto».31 Insomma, le varie anime della frontiera e le molteplici frontiere degli Stati Uniti: una polifonia di voci e d’idee, di esperienze e di fatti reali, una “valvola di sicurezza”32 o un 26 La zona di frontiera col Messico è rimasta relativamente permeabile per la maggior parte del XIX e del XX secolo, anche se il controllo è diventato più rigoroso a partire dal 1924, anno di fondazione della U.S. Border Patrol (una sorta di polizia di frontiera), ma soprattutto dagli anni Ottanta, quando Reagan dichiarò guerra al traffico di droga e il confine si trasformò in una zona militarizzata per contrastare i potenti cartelli dei trafficanti. Durante l’amministrazione Clinton, i controlli furono intensificati, furono eretti muri e palizzate in cemento e fu incrementato l’uso dei droni e dei sensori di movimento. 27 Cfr. D.M. WROBEL, Global West, American Frontier, in «Pacific Historical Review», LXXVIII, 1, February 2009, pp. 1-26. 28 Cfr. A. DONNO, Gli Stati Uniti e il “Grande Ovest” del mondo. La Cina nella cultura politica americana dell’Ottocento, in «Nuova Storia Contemporanea», X, 5, settembre-ottobre 2006, pp. 117-140; ID., Cina, l’Occidente d’America, in «Ideazione», XIII, 3, maggio-giugno 2006, pp. 130-138. 29 Cfr. J.I. STEWART, Essays on the Economic History of the American Frontier, in «The Journal of Economic History», LXV, 2, June 2005, pp. 524-527. 30 «Da allora in poi, i nostri statisti, in tutte le occasioni più rilevanti, parlarono delle “nostre tremila miglia di frontiera indifesa”, per esprimere non un’idea militare, ma la soddisfazione di non avere interferenze reciproche di qualsiasi genere». A.G.L. MCNAUGHTON, Protecting the North American Frontier, in «Proceedings of the Academy of Political Science», XXII, 2, Developing a Working International Order: Political, Economic and Social, January 1947, p. 138. 31 S. RHOADES NEEL, A Place of Extremes: Nature, History, and the American West, in «The Western Historical Quarterly», XXV, 4, Winter 1994, p. 493. 32 E. VON NARDROFF, The American Frontiera s a Safety Valve: The Life, Death, Reincarnation, and Justification of a Theory, in «Agricultural History», XXXVI, 3, July 1962, pp. 123-142. 261 Giuliana Iurlano luogo mitico, prediletto dalla letteratura e dalla cinematografia, in un percorso originale che va da Melville, agli hoboes, a Thelma & Louise;33 ma anche la frontiera “elettronica”, quel “wild, wild web”,34 che rilegge i valori dell’individualismo e delle eguali opportunità alla luce dello spazio virtuale, in un confronto allargato e sempre più appagante del tradizionale “looked West”,35 che, però, non abbassa il livello di rischio e di incertezza, prima soltanto elementi tipici di una frontiera fisica.36 33 Cfr. R. MUSSAPI, L’interminabile epopea della “frontiera mobile”, in «Il Giornale», 18 novembre 2007; Hollywood’s West: The American Frontier in Film, Television, and History, edited by P.C. ROLLINS – J.E. O’CONNOR, Lexington, University Press of Kentucky, 2005. 34 Cfr. H. MCLURE, The Wild, Wild Web: The Mythic American West and the Electronic Frontier, in «The Western Historical Quarterly», XXXI, 4, Winter 2000, pp. 457-476. 35 Cfr. D.A. JOHNSON, American Culture and the American Frontier: Introduction, in «American Quarterly», XXXIII, 5, Special Issue: American Culture and the American Frontier, Winter 1981, p. 479. 36 Si veda l’importante contributo di M. SANFILIPPO, Storiografia e immaginario delle frontiere nordamericane, presentato al convegno internazionale Frontiere. Rappresentazioni, integrazioni e conflitti tra Europa e America, secoli XVI-XX, Università di Roma 3, 20-22 giugno 2013. 262 RECENSIONI STEPHEN H. NORWOOD, Antisemitism and the American Far Left, New York, Cambridge University Press, 2013, pp. 318. Stephen H. Norwood, professore di storia e studi giudaici nell’Università dell’Oklahoma, analizza le posizioni antisemite che, dal 1920 sino ad oggi, hanno caratterizzato la politica dei vari movimenti che possono essere ricondotti all’interno della galassia dell’estrema sinistra americana: comunisti, trotzkisti, parti del movimento nero, i residui di quella che fu la nuova sinistra americana. Dall’antisemitismo propriamente detto all’anti-sionismo, fino alla condanna senza appello di Israele come Stato razzista e imperialista, l’estrema sinistra americana ha rispecchiato tutti gli stereotipi tipici del pregiudizio anti-ebraico, sia dal punto di vista strettamente politico, che da quello razziale. Nel periodo tra le due guerre, i comunisti, e quindi anche quelli americani, abbracciarono posizioni fieramente anti-sioniste, che spesso si confondevano con l’antisemitismo: se, da una parte, essi erano contro l’emigrazione ebraica in Palestina, dall’altra condividevano le teorie basate sulla cospirazione ebraica che giustificavano i processi di Mosca negli anni ’30. Scelte politiche e puro antisemitismo s’intrecciarono, così, nell’ideologia comunista, inducendo i comunisti americani a sostenere gli attacchi terroristici arabi negli anni ’20 e ’30; l’eredità antisemita di quegli anni passò poi a connotare le posizioni di parti della nuova sinistra americana degli anni ’60 e delle Pantere Nere, che definivano il terrorismo palestinese come un fatto rivoluzionario, anti-imperialista e anticapitalista. Gli eventi che precedettero e accompagnarono gli anni della seconda guerra mondiale ben illustrarono la doppiezza dei comunisti americani anche nelle loro posizioni verso l’ebraismo. Quando fu firmato il patto nazi-sovietico, i comunisti condivisero l’ideologia nazista, che considerava l’ebraismo come la punta di diamante del complotto imperialista e capitalista; ma, allorché i nazisti invasero la Russia, violando il patto nazi-sovietico, i comunisti americani prontamente si allinearono alle direttive di Mosca, favorevole all’alleanza con gli imperialisti americani in funzione antinazista e, conseguentemente, mutarono il loro atteggiamento verso l’ebraismo, ora considerato la vittima della barbarie nazista. Negli anni immediatamente successivi alla fine del secondo conflitto, i comunisti americani, sempre al traino del comunismo sovietico, sostennero a spada tratta il movimento sionista e la sua rivendicazione di uno Stato ebraico in Palestina. La nascita di Israele, nel maggio del 1948, fu salutata dai comunisti americani come il trionfo della politica sovietica favorevole alla realizzazione del sogno ebraico del ritorno in Eretz Israel e, in genere, la cultura ebraica fu entusiasticamente rivalutata. In quegli anni, il motto dei comunisti americani fu “Two, Four, Six, Eight, We Demand a Jewish State”. La “luna di miele” tra comunisti ed ebrei durò poco. Quando fu chiaro che il nuovo Stato non aveva intenzione di porsi nel blocco sovietico, iniziò in Unione Sovietica una violenta campagna antisemita che coinvolse, nel loro piccolo, anche i comunisti americani. Ora i paesi arabi non erano più i residui di un mondo feudale, ma i gloriosi combattenti contro un paese, Israele, denunciato come imperialista e razzista, al soldo degli americani. Tale posizione si è protratta nel tempo, segnando tutti i passaggi più significativi del contenzioso araboisraeliano-palestinese. Gli anni che vanno dalla guerra dello Yom Kippur (1973) sino ad oggi si sono caratterizzati come la prosecuzione degli stereotipi antisemiti, nella forma di un acceso anti-sionismo. Scomparso il partito comunista americano, Norwood dimostra come l’eredità di quelle posizioni sia passata a connotare buona parte delle idee della New Left americana degli anni ’60, dei movimenti terzomondisti presenti negli Stati Uniti e degli intellettuali liberal, sempre 265 pronti a sposare le cause degli “oppressi”, anche quelle più smaccatamente antisemite. Il libro di Norwood è un prezioso strumento per conoscere la storia della sinistra americana nelle sue posizioni antisemite, mascherate o meno da anti-sionismo, sia al traino dell’ondivaga politica sovietica verso l’ebraismo, sia in forma autonoma come movimento d’idee genericamente anticapitalista e anti-imperialista, e perciò, per definizione, anti-israeliano. ANTONIO DONNO YOHANAN PETROVSKY-SHTERN, The Golden Age Shtetl: A New History of Jewish Life in East Europe, Princeton and Oxford, Princeton University Press, 2014, pp. 431. Si tratta di un lavoro fondamentale che si pone all’avanguardia tra tutti gli studi sulla storia della società ebraica nell’Europa orientale e nella Russia zarista tra Settecento e Ottocento. La formidabile messe di fonti d’archivio consente all’A. di analizzare in profondità quella che è definita l’età dell’oro dello shtetl ebraico tra il 1790 e il 1840, per specifiche ragioni che costituiscono l’impianto scientifico e, nello stesso tempo, narrativo dell’opera. Perché questo cinquantennio ha rappresentato il periodo più fulgido nella storia della presenza ebraica in quelle regioni? Innanzitutto, è opportuno definire con precisione il territorio occupato dallo shtetl ebraico di cui parla il libro di PetrovskyShtern. Egli ha studiato un gran numero di shtetl in Podolia, Volinia e Kiev, tre province dell’Ucraina che facevano parte della Zona (Pale) di residenza ebraica in Russia, cioè a dire un territorio che oggi si estende tra Lituania, Bielorussia e Ucraina. Questi luoghi e le loro economie erano controllati da magnati cattolici polacchi, abitati in grande prevalenza da ebrei e soggetti alla burocrazia della Russia zarista. Ma, tutto questo, lungi dal creare sovrapposizioni paralizzanti, afferma Petrovsky-Shtern, rendeva l’ambiente economico aperto e attivo, 266 conferendo allo shtetl mezzo secolo di prosperità e di stabilità, di opportunità economiche e culturali. Si trattava di un’ampia zona di mercato libero, in cui lo scambio produceva, di fatto, una parità tra i soggetti scambianti. Nella sostanza, tra il 1790 e il 1840, lo shtetl non fu appartenente politicamente alla Polonia, né amministrativamente del tutto alla Russia: fu una zona di libero scambio dominata dal commercio. In questo milieu, gli ebrei dell’Europa orientale vissero la loro età dell’oro e la Russia zarista ebbe l’opportunità di integrare i suoi ebrei, i quali, a loro volta, ben volentieri avrebbero accettato l’offerta d’integrazione. Solo dopo il 1840, la Russia esercitò una continua pressione politica e burocratica sulle zone prese in considerazione dallo studio di Petrovsky-Shtern. In sostanza, a causa di una nuova ondata di nazionalismo e sciovinismo, i governi russi persero una grande occasione di ammodernare l’economia russa per mezzo del lavoro ebraico. L’A. sintetizza il processo in questi termini: «Lo shtetl dell’età dell’oro fu la manifestazione dell’incontro altamente produttivo e promettente tra l’impero russo e gli ebrei, ma alla fine fu un incontro distrutto dall’amministrazione russa a causa della sua visione ideologica e geopolitica» (p. 2). L’evento che provocò la progressiva fine della floridezza dello shtetl fu determinato dall’inizio del processo di militarizzazione della Russia e dalle sue mire espansionistiche, accompagnate da un crescendo di xenofobia e nazionalismo. L’intolleranza portò all’esclusione dei proprietari polacchi dello shtetl e alla promulgazione di leggi anti-ebraiche; lo stesso benessere dello shtetl insospettiva il regime russo. In sostanza, afferma Petrovsky-Shtern, «[…] lo shtetl prosperò finché il regime russo mantenne in vita l’eredità polacca [dello shtetl] e iniziò a declinare quando lo stesso regime russo la sradicò» (p. 3). Dopo il 1940, la politica nazionalistica russa e la scelta protezionistica in economia decretarono la fine del libero mercato nello shtetl e il suo inarrestabile impoverimento. La persecuzione anti-ebraica fece il resto. Questa la conclusione di Petrovsky-Shtern: «Lo shtetl e i suoi ebrei non sparirono, ma entrarono in una nuova era, una nuova era di ferro, caratterizzata dalla violenza anti-ebraica, dall’antisemitismo politico e pratico, da rivoluzioni, guerre e dalla totale estinzione della presenza ebraica nello shtetl. […] Esso svanì, alla stregua di un’Atlantide dell’Est europeo, con i suoi abitanti, le loro conquiste, la loro cultura materiale e i loro sogni» (p. 355). In conclusione, il libro di PetrovskyShtern si presenta come un’opera veramente innovativa; elaborato con un attento studio sul campo, basato su una grande varietà di fonti primarie, metodologicamente inappuntabile, esso è un contributo indispensabile per comprendere la storia dell’ebraismo orientale e della vicenda stessa dello shtetl ebraico. FURIO BIAGINI ARI SHAVIT, My Promised Land: The Triumph and Tragedy of Israel, New York, Spiegel & Grau, 2013, pp. 450. Shavit, giornalista del noto quotidiano israeliano «Haaretz», ripercorre la storia del sionismo e dello Stato di Israele alla luce delle speranze e delle delusioni, dei successi e dei fallimenti di un’esperienza storica ineguagliabile com’è quella di Israele. Lo fa in prima persona, affidandosi non solo alla storia, ma anche alla propria biografia, cioè quella di un israeliano nato un anno dopo la crisi di Suez, uno degli eventi decisivi nella vicenda dello Stato ebraico. La riflessione che è alla base di tutto di libro di Shavit può essere riassunta nelle parole dello stesso autore: «Da una parte, Israele è l’unica nazione dell’Occidente che occupa un altro popolo. Dall’altra, Israele è l’unica nazione dell’Occidente che è minacciata nella sua esistenza. Sia l’occupazione sia la minaccia rendono unica la condizione di Israele. L’intimidazione e l’occupazione sono diventati i due pilastri della nostra condizio- ne» (p. xii). Se Shavit avesse capovolto l’ordine con cui ha posto i due problemi fondamentali, probabilmente la questione gli sarebbe apparsa in tutt’altra luce: Israele è minacciato nella sua esistenza, Israele occupa un altro popolo. Quest’ultimo – insieme ad altri popoli arabi del Medio Oriente – ha minacciato l’esistenza di Israele, scatenando guerre e terrorismo che hanno prodotto grandi lutti al popolo israeliano; Israele ha dovuto difendersi e contrattaccare: l’occupazione è purtroppo parte della difesa e del contrattacco messi in atto dallo Stato ebraico. Non è così? Non è vero che dalla nascita di Israele il mondo arabo, in quasi tutte le sue componenti, ha dichiarato che il suo compito sarebbe stato quello di distruggerlo e di buttare a mare gli ebrei? Non è vero che il mondo arabo ha rifiutato pervicacemente qualsiasi soluzione che prevedesse l’esistenza dello Stato ebraico? Non è vero che nel fatidico 2000 Arafat rifiutò la proposta israeliana di dare vita ad uno Stato palestinese accanto a quello ebraico, scatenando la seconda intifada? Shavit sembra porre questi dati di fatto in una sorta di penombra, ponendo in luce, al contrario, la questione dell’occupazione israeliana, senza mai porsi la domanda cruciale: l’occupazione è frutto o no della decennale minaccia portata allo Stato ebraico dai suoi nemici? In sostanza, Shavit capovolge l’ordine dei fattori, così che l’occupazione israeliana appare come l’azione di uno Stato imperialista nei confronti di un popolo inerme. Conclusione falsa. Shavit non nega – né potrebbe essere diversamente – la grande vitalità della società israeliana, i grandi progressi economici dello Stato: «Sì, la nostra vita continua ad essere intensa e ricca e felice da molti punti di vista. Israele proietta un senso di sicurezza che scaturisce dai suoi successi materiali, economici e militari» (p. x). Ma tutto questo non gli è sufficiente. L’occupazione è un rovello così forte da spingerlo a considerare il futuro di Israele in una luce funesta. «[…] Israele sarà morale, progressista, coe- 267 so, creativo e forte» (p. 417), ma solo dopo aver messo fine all’occupazione. Eppure, per tutto il libro, Shavit mette in chiaro che Israele ha corso e corre pericoli molto grandi per la sua sopravvivenza, ora soprattutto da parte del progetto dell’Iran di estendere la propria influenza in tutta la regione mediorientale. Ciò gli appare grave, ma non tanto quanto le conseguenze a lungo termine dell’occupazione delle terre palestinesi. In sostanza, i pericoli che provengono dall’esterno, dall’odio islamico verso Israele gli paiono meno importanti rispetto alle spinte interne a prorogare l’occupazione per ragioni di auto-difesa. Benché Shavit non lo dica esplicitamente, la questione è che le sue convinzioni politiche – che sono quelle di un giornale come «Haaretz», fortemente critico nei confronti dei governi di destra, che dal 1977 sono al potere in Israele, fino ad abbracciare talvolta le posizioni più estremistiche del movimento palestinese – gli impediscono una chiara, obiettiva, imparziale visione della situazione attuale di Israele. VALENTINA VANTAGGIO LESLIE STEIN, Israel since the Six-Day War, Cambridge (U.K.) and Malden, MA, Polity Press, 2014, pp. 441. Il libro di Stein ripercorre la storia di Israele, a partire dalla fine della guerra del 1967, analizzando prevalentemente le relazioni internazionali e le vicende regionali dello Stato ebraico, senza trascurare i fatti di politica interna, con particolare riferimento alle questioni economiche. Alla fine della guerra, stravinta da Israele, riferisce Stein, il primo ministro israeliano, Levi Eshkol, così comunicò a Johnson: «“Signor presidente, non nutro alcun sentimento di trionfo e di vanagloria né mi accingo a trattare la pace nel ruolo del vincitore. […] Il mio sentimento è di sollievo perché ci siamo salvati dal disastro in giugno e per questo ringrazio Dio”» (p. 29). In effetti, dal momento della sua nascita, Israele è stato oggetto di continui tentativi di distruggerlo: questo è un da- 268 to di fatto che non può essere eluso. Così, il libro di Stein si distingue nettamente dalla prevalente produzione sull’argomento, perché parte da tale constatazione, ovvia per chi non nutre pregiudizi, e legge la storia di Israele dal 1967 ad oggi come la lotta dello Stato ebraico per la sua sopravvivenza in un ambiente ferocemente ostile. Gli anni immediatamente successivi alla fine della guerra videro lo sviluppo dell’azione dell’ OLP di Arafat e della guerra di attrito alle frontiere israeliane da parte di Egitto e Siria. In sostanza, come Stein rileva con una prosa chiara e ben argomentata, nonostante la bruciante sconfitta, i paesi arabi rifiutarono la pace, intendendo continuare l’assedio di Israele fino all’agognata svolta finale. Questo, dunque, è il leit-motiv del libro di Stein, un leitmotiv in sé difficilmente contestabile, perché l’A. giustamente allude al fatto che le responsabilità di Israele nel mancato raggiungimento della pace con i paesi arabi e con il movimento palestinese non possono che rappresentare un aspetto secondario rispetto a quelle preminenti del mondo arabo, che vedeva nello Stato ebraico l’odiato nemico da distruggere. Da questo punto di vista, secondo Stein, il processo di colonizzazione della West Bank, a parte gli importanti aspetti religiosi ebraici che pure contribuirono a determinarla, non può che essere una conseguenza della pressione araba nei confronti di Israele, una pressione – è importante ribadirlo – mai finalizzata ad ottenere concessioni da Gerusalemme, ma a sottoporre lo Stato ebraico ad una usura continua fino alla sua scomparsa. In sostanza, la colonizzazione della West Bank deve essere considerata anche come un momento importante dell’auto-difesa di Israele. A partire dalla fine della guerra dello Yom Kippur (1973), cui Stein dedica un intero, importante capitolo, Israele fu sottoposto ad un continuo, incessante assalto terroristico, mentre il suo legame con gli Stati Uniti si rinsaldava e la sua economia, dopo la presa del potere da parte della destra, nel 1977, cominciava a prosperare, a parte qualche periodo di recessione, a motivo del grande sviluppo del paese nel campo dell’informatica, che più tardi vedrà lo Stato ebraico primeggiare a livello internazionale. La guerra del Libano, la prima intifada, e poi, negli anni ’90, gli accordi di Oslo, segnarono tappe significative nella storia del paese, stretto tra la pressione dell’OLP, da una parte, e la crescente minaccia costituita da un nuovo nemico, l’integralismo islamico di marca iraniana. Gli inizi del nuovo secolo videro una recrudescenza dell’attacco terroristico. La cosiddetta intifada di al-Aqsa costrinse Israele a una difesa ad oltranza. Come opportunamente afferma Stein, in quelle drammatiche circostanze, i media internazionali «[…] non dimostrarono di aver compreso veramente ciò che Israele stava vivendo. Poiché nessun posto era immune dagli attacchi palestinesi in ogni momento – nel centro del paese o nelle aree periferiche, nelle strade, nei bus, nei negozi, nei mercati, nei ristoranti, negli alberghi, nei circoli, nelle università, ecc. – nessuno si sentiva sicuro nello svolgimento della propria vita quotidiana» (p. 277). Gli attacchi suicidi contribuivano ad aumentare il senso d’insicurezza. Dopo la morte di Arafat, lo scoppio della guerra civile in seno al movimento palestinese allentò considerevolmente la morsa del terrorismo; infine, la profonda crisi del mondo arabo ha di recente contribuito a diminuire la pressione su Israele. Ma non è detto che questa situazione di relativa calma possa durare a lungo. Come lo stesso Stein ha scritto nel suo precedente libro, The Making of Modern Israel, 1948-1967 [Polity Press], Israele probabilmente sarà sempre oggetto di inimicizia all’interno del proprio contesto regionale, a meno che non cessi l’odio anti-ebraico da parte del mondo islamico: cosa altamente improbabile, se non impossibile, a causa del background religioso che alimenta quest’odio. PATRIZIA CARRATTA GIUSEPPE BRIENZA - ROBERTO CAVALLO - OMAR EBRAHIME, Mandela, l’apartheid e il nuovo Sudafrica. Ombre e luci su una storia tutta da scrivere, pref. di RINO CAMMILLERI, Crotone, D’Ettoris Editori, 2014, pp. 138. Il libro di Brienza, Cavallo e Ebrahime è un viaggio politically incorrected a più voci nella storia recente e tormentata del Sudafrica, una riflessione sulla complessità del paese, spesso semplicemente “ridotto” alla storia di Nelson Mandela. Indubbiamente, non si può, e non si deve, prescindere dalle vicende del leader dell’African National Congress, ma occorre entrare contemporaneamente sia nel contesto molto più ampio della guerra fredda, sia in quello più ristretto e locale del sistema demo-tribale e dei suoi sanguinosi conflitti. La decolonizzazione, infatti, segnò soltanto l’inizio dei problemi dell’Africa, anziché costituire la fine del tanto odiato colonialismo. I movimenti di “liberazione” marxisti si appropriarono velocemente della paternità del processo e, insieme ai castristi cubani, diedero il via a un percorso democratico tormentato, tra colpi di stato, esodi, massacri e dittature comuniste. L’unica via per la democrazia africana sembrò essere, paradossalmente, quella etnico-tribale. Il Sudafrica, invece, non si accodò a quel difficile percorso africano, rimanendo come una sorta di unicum nel continente, proprio perché gli afrikaner governavano già da due secoli. Quando l’Unione Sovietica – bisognosa di sostituire l’oro al rublo, che non aveva nemmeno corso internazionale, per parare i colpi dell’enorme apparato statale improduttivo – mise mano alla solita vecchia tattica del “far esplodere le contraddizioni in atto”, il Sudafrica offrì la prima grande frattura tra i blacks e gli afrikaner. Una contraddizione, questa, emotivamente sentita da tutti i paesi europei e immediatamente sposata dai liberals americani, che però continuavano a chiudere gli occhi sui con- 269 flitti tra le due principali etnie, Zulu e Xhosa, che martoriavano il paese. Agli inizi degli anni ’90, insieme al crollo del comunismo, crollava pure il sistema dell’apartheid. E non a caso. Frederik de Klerk, il leader bianco che traghettò il paese verso il superamento della segregazione razziale, legalizzò l’ANC e liberò dal carcere Mandela, che fu insignito del premio Nobel. Cominciò da quel momento il mito mandeliano, vale a dire quel processo di messa tra parentesi del suo dichiarato comunismo, in favore dell’esaltazione dei diritti civili, processo giunto all’apice con la nomina, nel 1994, di Mandela a presidente della nuova Repubblica del Sudafrica. La “rainbow nation” e la sua utopia della convivenza perfetta – di cui aveva parlato Desmond Tutu – non resisteranno, però, alla prova dei fatti; lo dimostreranno i casi di corruzione tra i vecchi compagni di lotta, le contestazioni al successore di Mandela, Thabo Mbeki (accusato di eccessiva apertura nel suo progetto di “Rinascita africana” e di voler accreditare il Sudafrica come potenza regionale) e la lacerazione, durissima, tra le due anime del Sudafrica postapartheid: quella dell’ampia borghesia nera, favorevole al liberismo economico, e quella, invece, delle frange africaniste più radicali e oltranziste, appoggiate dal partito comunista sudafricano e dal sindacato. Il dopo-Mandela presenta una serie di problemi ancora irrisolti: la povertà non è stata sconfitta, ma si è estesa anche a molti afrikaner; l’economia è in recessione; le necessarie strutture di base sono ancora insufficienti; la corruzione si è diffusa ulteriormente; l’islamismo sta tentando di sostituire, anche con metodi violenti, il cristianesimo e l’animismo tradizionali, mentre la Cina, con la sua strategia dei “fili di perle”, sta cercando spasmodicamente di acquisire importanti risorse. Alla fine, si chiedono gli Autori, «chi è stato davvero Nelson Mandela?» (p. 131). Certamente non un santo, come talvolta lo si è voluto rappresentare, ma un attivista non sempre coerente sostenitore del pacifismo e spesso collegato alla 270 variegata rete di alleanze con il comunismo internazionale, e un leader che ha avvantaggiato soprattutto l’élite dell’ANC nel processo di black empowerment. Insomma, esaurita la forza simbolica di un mito, il Sudafrica lasciato in eredità da Mandela ha assunto contorni molto problematici e difficili da gestire per chiunque. GIULIANA IURLANO VITTORIO STRADA, Europe. La Russia come frontiera, Venezia, Marsilio, 2014, pp. 110. In questo agile volume, Vittorio Strada raccoglie alcuni suoi saggi sul confine orientale di quella “penisola asiatica” («quel piccolo capo d’Asia», come lo aveva già definito Fernand Braudel) che è l’Europa, fiancheggiata da due mari e proiettata verso l’Atlantico. Ma qual è la vera identità dell’Europa? Intanto, si deve parlare di Europa, o di Europe, cioè «di aree diverse orientate verso un’unificazione ideale, anziché fuse in una compatta unità» (p. 14)? Le stesse partizioni interne all’Europa non sono di ordine geografico, ma di natura storica e socio-economica. Una di queste linee di partizione è quella orientale, che da nord a sud (attraverso i segmenti russo, balcanico e turco) si attacca all’Asia e vi sconfina. Ed è proprio sul segmento più settentrionale che si collocano la Polonia e l’Ucraina, fortemente europee, ma anche efficaci ponti verso la Russia eurasiatica. Questa realtà così complessa, composta da un «organico insieme di Europe» (p. 25), che si evolve verso un’unità dinamica, costituisce la civiltà comune europea, e, collegandosi con l’America settentrionale, dà vita all’Occidente. L’Europa, dunque, come «il continente più intercontinentale» (p. 28), più aperto agli altri e più proiettato verso la modernizzazione, verso quel lungo e complesso processo storico che avrebbe spinto la Russia settecentesca a reagire alla sfida europea, a europeizzarsi, pur di mantenere intatto il suo impero autocratico. L’impresa petrina non fu affatto semplice, soprattutto perché portò alla nascita della intellighenzia, quella «specifica forma di ceto intellettuale insieme affine e diverso rispetto a quello occidentale» (p. 38), ma, soprattutto, staccato dal resto della popolazione russa, rimasta fedele ai valori e alle tradizioni antiche. Ciò che fece Kemal Atatürk nel segmento turco-ottomano richiama indubbiamente l’opera di modernizzazione fatta due secoli prima da Pietro il Grande, con la differenza che questi aveva modernizzato la Russia rafforzandone la struttura imperiale, mentre Atatürk modernizzò autoritariamente il nuovo Stato nazionale turco sulle rovine del vecchio impero ottomano. Significativo è il fatto – nota Strada – che il crollo di uno dei tre imperi durante la prima guerra mondiale, quello zarista, abbia prodotto non uno Stato nazionale, bensì un altro “impero”, quello sovietico, appunto, diverso per natura, ma quasi coincidente territorialmente col precedente e destinato anch’esso alla “catastrofe”. Da qui, le difficoltà della Federazione russa, emersa dopo il crollo del comunismo, a configurarsi come Stato nazionale con una sua nuova identità, sorto sui vecchi confini amministrativi sovietici, confini arbitrari, del resto, com’è testimoniato sia dal caso della Crimea – “donata” nel 1954 da Krushev all’Ucraina sovietica e ora appartenente, con le conseguenze ormai note, allo Stato sovrano ucraino –, sia dalla realtà micro-imperiale dell’attuale Federazione, per l’80% formata da russi e per il restante 20% da altre etnie, riluttanti (com’è accaduto clamorosamente per la Cecenia) a far parte della nuova entità politica. A ciò s’aggiunge il terrorismo islamico radicale, di cui è vittima anche la Russia, a causa del separatismo delle sue regioni caucasiche. In tale situazione, scrive Strada, «la Russia è con l’Occidente, e quindi con l’Europa, senza identificarsi però con essi, nutrendo anzi sentimenti e risentimenti antioccidentali, soprattutto nei riguardi dell’America» (p. 91). Una posizione con- troversa anche rispetto alla ricerca della propria identità, in quanto la Russia, restando un territorio di frontiera, solleva il problema della difficile unità di Europa e nonEuropa. GIULIANA IURLANO BARBARA ZANCHETTA, The Transformation of American International Power in the 1970s, New York, Cambridge University Press, 2014, pp. 329. Il libro di Barbara Zanchetta è particolarmente importante perché analizza, con la necessaria distanza temporale dagli avvenimenti, un decennio, gli anni ’70, fondamentale nella storia delle relazioni internazionali degli Stati Uniti nel secondo dopoguerra. Il decennio fu caratterizzato principalmente dalla politica di Richard Nixon e del suo consigliere per la sicurezza nazionale, Henry Kissinger, poi divenuto segretario di stato nel secondo mandato presidenziale dello stesso Nixon. Le successive presidenze di Gerald Ford e di Jimmy Carter, per quanto importanti, non cambieranno il segno dato da Nixon e Kissinger, ridefinendo l’intera politica estera degli Stati Uniti, quale si era avuta dalla fine del secondo conflitto in poi. Opportunamente, Zanchetta puntualizza come, agli inizi del decennio in questione, le dinamiche delle relazioni internazionali avessero subito un mutamento così significativo, da imporre a Washington una ridefinizione dei propri obiettivi: la forza nucleare dell’Unione Sovietica, ma anche l’allentamento della struttura bipolare – con l’emergere della forza politica ed economica dell’Europa occidentale e la crisi del blocco comunista, a causa del contrasto sino-sovietico – e le tensioni all’interno del Terzo Mondo resero gli anni ’70 un decennio ricco di prospettive critiche per la stabilità del sistema globale. «In breve – scrive Zanchetta – gli Stati Uniti dovettero adeguarsi a un contesto, in cui il loro predominio non era più dato per garantito» (p. 5). 271 Zanchetta contesta la corrente interpretazione degli anni di Nixon e Kissinger come periodo caratterizzato dalla détente sovietico-americana. O meglio, nonostante il fitto intreccio di colloqui e d’incontri (soprattutto quelli tra Kissinger e l’ambasciatore sovietico a Washington, Anatoly Dobrynin) e la firma, nel 1979, del SALT II, il tentativo di raggiungere una distensione tra le due grandi potenze, secondo l’A., si arenò dopo il 1973, a causa di numerosi fattori che emersero in occasione della guerra dello Yom Kippur e che indussero Mosca, il cui prestigio politico era crollato proprio a causa degli esiti di quella guerra, ad accentuare la pressione politica su aree vitali del Terzo Mondo, entrando in una più forte competizione con gli Stati Uniti. A ciò, occorre aggiungere che lo sviluppo delle relazioni sino-americane non produsse altro che un irrigidimento dell’atteggiamento sovietico nei colloqui con gli americani. Nelle sue memorie, lo stesso Dobrynin, nota Zanchetta, scrisse che «[…] l’Unione Sovietica era […] consapevole dell’inconsistenza esistente tra i proclami sulla cooperazione e la realtà della rivalità tra le due superpotenze» (p. 138). Il secondo punto di novità nel libro consiste nel ritenere, da parte di Zanchetta, che le tre presidenze degli anni ’70 furono, a differenza di quanto molti sostengono, in continuità l’una con l’altra, perché tutte e tre volte a ridefinire il ruolo internazionale degli Stati Uniti. Quale sia stato l’esito di questo progetto politico è uno dei punti di discussione presenti nel libro. Il fatto che Reagan, agli inizi degli anni ’80, abbia sostenuto energicamente che la sua politica avrebbe puntato «[…] non a gestire il declino della potenza degli Stati Uniti, ma a rovesciarlo, riaffermando la forza e la determinazione americane nel mondo» (p. 294), induce Zanchetta a ritenere che le politiche dei tre presidenti americani durante gli anni ’70 abbiano fallito nel loro scopo principale: fare della détente sovietico-americana il punto di conclusione della guerra fredda e il punto di partenza, invece, di una co- 272 gestione pacifica del sistema politico internazionale. FRANCESCA SALVATORE LUIGI MASCILLI MIGLIORINI, Metternich. L’artefice dell’Europa nata dal Congresso di Vienna, Roma, Salerno Editrice, 2014, pp. 429. Metternich fu uno dei principali artefici dell’equilibrio europeo costruito faticosamente a Vienna, dopo la ventata rivoluzionaria che aveva demolito quell’“edificio collettivo” – per usare una delle metafore architettoniche del principe renano – durato per circa un secolo e mezzo dalla pace di Westfalia. Una “lunga età di mezzo” definirà, nelle sue Memorie, quell’epoca, che «segna una divisione nella storia del mondo [...], un periodo di transizione [in cui] l’edificio del passato è in rovina [e] il nuovo edificio non è ancora in piedi» (p. 12). Proprio la capacità di cogliere la portata ineluttabile della rivoluzione, la lucidità d’analisi nel valutarne le conseguenze irreversibili in tutti gli ambiti della società, la critica serrata a quella «catena ininterrotta di errori e di calcoli sbagliati» (p. 33) attribuiti ai ministri austriaci, tutto ciò avrebbe portato Metternich a riflettere profondamente sulla natura dell’ordine europeo da ripristinare e sulla scelta tra equilibrio ed egemonia. Ma ancora più importante, nell’ottima analisi di Mascilli Migliorini, è il fatto che Metternich sia stato in grado di percepire in anticipo la crisi dell’impero austriaco, frammentato e lacerato al suo interno: a suo parere, è stata la scomparsa, non ancora formalizzata, del Sacro romano impero, più che la rivoluzione francese, a creare un punto di non ritorno e a demolire, col congresso di Rastadt, quella importante “camera di compensazione” delle rivalità e dei tentativi egemonici che era il variegato e multiforme impero d’Austria. Dopo la pace di Lunéville del 1801, che sostanzialmente confermava i termini del trattato di Campoformio, Metternich ebbe la chiara consapevolezza che essa aveva sovvertito il principio basilare delle relazioni internazionali, sostituendo all’equilibrio l’idea di egemonia; di conseguenza, si trattava di una “pace cartaginese”, destinata a breve vita, se non fosse stata sostituita da un ordine internazionale che tenesse in debito conto anche le “corti del Nord” e il loro ruolo specifico. Inoltre, Metternich – che ha conosciuto, nel frattempo, lo scrittore prussiano Friedrich Gentz, con il quale ha modo di riflettere sulla Germania, sulla sua natura e sul suo futuro – sviluppa l’idea di una Confederazione germanica nello spazio tedesco, una sorta di Bund, di unione (non di unità) in cui la presenza dell’Austria asburgica potesse diventare un elemento indispensabile. L’idea forte è il riavvicinamento con la Francia, afferma perspicacemente Mascilli Migliorini. Dapprima tentato con la politica matrimoniale (1810), poi, con un’alleanza alla vigilia della campagna di Russia (1812) e, infine, dopo la sconfitta napoleonica, con un’intesa con Talleyrand, tale riavvicinamento avrebbe potuto consentire di proseguire il programma di Kaunitz, contenendo l’ascesa della Prussia nel mondo tedesco, della Russia nell’Europa orientale e nel Mediterraneo e, soprattutto, instaurando con la Gran Bretagna un rapporto dinamico e aperto. Con Talleyrand, del resto, Metternich condivideva anche il principio di legittimità, assolutamente non coincidente col diritto di conquista, ma con un riconoscimento da parte della comunità internazionale, una comunità costituita da soggetti egualmente sovrani e, tuttavia, diversi rispetto alla loro potenza. Francia e Austria, allora, avrebbero avuto il compito di difendere gli Stati minori, tenendo a bada le ambizioni egemoniche dei più forti e garantendo, così, l’equilibrio europeo. Nel suo Diario, Gentz sostenne che «solo l’Atto finale aveva dato vita al congresso e che, dunque, era dai suoi risultati oggettivi, piuttosto che dai faticosi sentieri che avevano condotto a essi, che occorreva giudicarlo» (p. 136). Il problema più importan- te, per Metternich, era quello relativo alla questione tedesca: il congresso di Vienna, non a caso, verterà soprattutto sulla configurazione da dare allo spazio tedesco, per evitare sia le spinte democratiche, sia le «aspirazioni alla teutomania» (p. 138). Il principe renano era consapevole che il vero terreno di gioco dell’equilibrio europeo sarebbe stato costituito proprio dal destino della Germania, centro vitale di tutto. Nell’area tedesca, Austria e Prussia – le due potenze maggiori – dovevano garantire l’equilibrio, facendo in modo che non potessero scattare le alleanze degli Stati minori contr una delle due. Quell’equilibrio che si giocava nel cuore dell’Europa sarebbe stato esteso alle altre potenze periferiche, in una specie di sistema a cerchi concentrici, in grado di garantire la stabilità del tutto. Metternich aveva intuito giustamente che la resistenza della balance of power dipendeva tutta dal mantenerne in equilibrio il fulcro. Una situazione che, nella successiva storia europea, si sarebbe più volte ripetuta, afferma Mascilli Migliorini, a conclusione del suo eccellente lavoro. GIULIANA IURLANO ROBERT B. HORWITZ, America’s Right: Anti-Establishment Conservatism from Goldwater to the Tea Party, Cambridge (U.K.) and Malden, MA, Polity Press, 2013, pp. 279. Che cosa significa “Anti-Establishment American Right”? Horwitz introduce opportunamente nel suo libro questa espressione per distinguere la Old Right americana degli anni ’30 e ’40 – su cui Murray N. Rothbard ha scritto un’illuminante opera, The Betrayal of the American Right [Auburn, AL, Ludwig von Mises Institute, 2007, edited with an introduction by Thomas E. Woods, Jr.] – dalla destra americana anti-establishment nata negli anni ’60 sotto impulso di Barry Goldwater. Horwith esamina i caratteri dei due movimenti brevemente, ma con grande precisione. 273 La Old Right americana, cioè il primo conservatorismo, nacque sui fondamenti della tradizione americana, basata sul sospetto nei confronti dello Stato. In sostanza, «[…] il conservatorismo americano, nato sulla base dell’individualismo proprio del liberalismo classico, si è imperniato sulle teorie della libertà e della proprietà. Da questo punto di vista, libertà e proprietà sono inestricabilmente legate» (p. 4). La proprietà, perciò, è un valore morale sacro che si oppone strenuamente alla nozione di eguaglianza tipica del moderno liberalism. La Old Right americana, emersa tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento ed erede del liberalismo classico, era ritenuta la più efficace difesa del capitalismo del laissez-faire e dei diritti di proprietà, con qualche caduta nel darwinismo sociale. Fu la Grande Depressione e poi l’avvento del New Deal, scrive Horwitz, ad alterare il mainstream del liberalismo classico negli Stati Uniti. In realtà, occorre aggiungere che l’intervento dello Stato fu giustificato dall’introduzione di un nuovo tipo d’individualismo, di cui s’incaricò John Dewey nel suo Individualism Old and New [New York, Minton, Balch & Co., 1930], opponendo al vecchio individualismo, ovviamente ritenuto egoistico e fonte di ineguaglianze, un nuovo individualismo “sociale”, di cui il New Deal sarebbe stato espressione. Horwitz tralascia di sottolineare che, conseguentemente, i newdealers si appropriarono indebitamente del termine liberalism, connotandolo ora di significati legati all’interventismo statale e slegandolo dalla sua matrice originaria. Sul piano della politica estera americana, la Old Right assunse posizioni isolazionistiche. Tra le due guerre mondiali i conservatori americani sostennero il disimpegno degli Stati Uniti soprattutto dalle questioni europee, ritenute «intrattabili» (p. 6). Le spese militari comportavano alta tassazione e inflazione, oltre che il rafforzamento del nemico numero uno dei conservatori: la concentrazione del potere dello Stato. Ma, agli inizi degli anni ’50, afferma giustamente 274 Horwitz, la Old Right, il cui rappresentante più illustre era a quel tempo il senatore Robert A. Taft, venne a patti con il settore internazionalista del partito repubblicano e condivise la politica del containment antisovietico e, quindi, il rafforzamento dell’apparato militare. Fu quello il momento che Rothbard denuncia come il tradimento della Old Right americana. Gli anni ’50 videro il declino del conservatorismo old style. Ma l’emergere di una figura come quella di Barry Goldwater lo ridisegnò in una forma nuova. Nonostante la secca sconfitta a opera di Lyndon B. Johnson nelle elezioni del 1964, l’influenza di Goldwater fu decisiva per la rinascita del conservatorismo in veste anti-establishment, per usare il termine di Horwitz. Il nuovo conservatorismo non si connotò soltanto nella consueta impostazione contro il liberal consensus, ma soprattutto contro il conservatorismo dell’establishment repubblicano, che si era associato alle politiche liberal. Anche il blocco sociale che sosteneva il Grand Old Party (il partito repubblicano) si ridefinì: ora era costituito prevalentemente da piccoli imprenditori e radicato nel Midwest e nel West, culle della tradizione americana, deciso avversario delle politiche newdealiste, fortemente anticomunista e pronto ad affrontare l’Unione Sovietica anche sul piano dello scontro nucleare. Nella sostanza, il conservatorismo anti-establishment messo in moto da Goldwater, pur riprendendo le posizioni antiNew Deal della Old Right pre-bellica, si distingueva sul piano dell’impegno internazionale degli Stati Uniti per il superamento dell’isolazionismo e per un confronto deciso con il comunismo sovietico. Il nuovo conservatorismo, nota Horwitz, era libertario sul piano economico e tradizionalista cristiano su quello sociale. Era, cioè, libertario perché, ponendosi sulle orme di John Locke, si fondava sui principi delle libertà individuali, sulla limitazione dei poteri dello Stato, sull’economia capitalista e sulla difesa strenua della proprietà privata; ma era anche tradizionalista, sull’esempio di Edmund Burke, in quanto radicato nella cultura cristiana e nell’ordine morale ad essa legato. In sostanza, il nuovo conservatorismo operava una sorta di fusionism – per usare un termine in voga allora – tra liberalismo classico e tradizione religiosa americana. L’anti-comunismo ne era il collante. Fu su questa nuova base che emerse, negli anni’70, il neo-conservatorismo americano, che troverà in George W. Bush il suo massimo rappresentante istituzionale. Ma il tutto fu preceduto dallo straordinario successo di Ronald Reagan e dal suo carisma; grazie a Reagan, il conservatorismo antiestablishment di marca goldwateriana superò lo scoglio elettorale e si impose come nuova veste del partito repubblicano. «[…] La coalizione elettorale di Reagan – scrive Horwitz – replicò la vecchia fusione antiestablishment tra tradizionalismo e libertarismo, ma ora in presenza di una nuova situazione storica» (p. 112). Il neo-conservatorismo degli anni di George W. Bush si pose come erede del nuovo mainstream inaugurato da Reagan. Horwitz dedica pagine molto precise al fenomeno del neo-conservatorismo, che, pur riprendendo in pieno l’impostazione antiestablishment inaugurato da Goldwater, se ne distingueva nel modo in cui poneva l’eccezionalismo americano al centro del sistema politico internazionale, come motore della lotta contro i rogue States e per la loro democratizzazione. Afferma Horwitz: «Implacabilmente anti-comunista e realista in politica estera, la prima generazione di neo-conservatori si batté contro la détente e gli accordi sul controllo delle armi per tutti gli anni ’70 e mise in piedi organizzazioni che reclamavano un massiccio riarmo americano» (p. 130). L’affermazione di Horwitz, per la verità, è fin troppo netta, ma comunque indica la svolta che il neoconservatorismo impresse alle relazioni internazionali degli Stati Uniti. Il crollo dell’Unione Sovietica privò Washington del suo tradizionale nemico, ma il terrorismo di matrice islamista, con i fatti dell’11 settem- bre 2001, segnò un drammatico spartiacque nella politica estera americana. Così, un nuovo fusionism tra la tradizione conservatrice libertaria e la destra cristiana o evangelica formò il nucleo centrale del neoconservatorismo, che oggi si esprime soprattutto nel Tea Party. ANTONIO DONNO PAOLO ACANFORA, Miti e ideologia nella politica estera DC. Nazione, Europa e Comunità atlantica (1943-1954), Bologna, Il Mulino, 2013, pp. 253. Nella parte iniziale del libro, l’A. evidenzia la tensione morale-religiosa che anima gli esponenti della democrazia cristiana negli ultimi anni della seconda guerra mondiale. C’è un forte richiamo alla civiltà mediterranea (greco-latino-cristiana), idea–forza capace di dar vita ad un umanesimo universalista rigeneratore dell’Europa e del mondo dopo il disastro bellico. All’interno di questo contesto sono evidenziate tre aree principali d’azione, in parte fra loro convergenti e in parte divergenti: blocco slavoortodosso, blocco anglo-statunitense protestante e quello latino-mediterraneo cattolico. Il passaggio di De Gasperi e di altri esponenti democristiani, attraverso una valutazione più cauta del “mito della civiltà latina”, a quello occidentale sarà graduale e condizionato dall’evoluzione politica. C’è in un primo momento la necessità di apparire agli occhi dei vincitori come i difensori del popolo italiano ingannato dal fascismo; purtroppo, quest’azione non ha successo in quanto l’Italia deve sottoscrivere un trattato di pace considerato iniquo e, alla conferenza di Parigi, si trova dalla parte degli altri paesi europei sconfitti (Bulgaria, Romania, Ungheria, Finlandia). V’è poi la difesa difficile, e per taluni versi anacronistica, delle colonie conquistate in parte dai governi liberali postunitari ed in parte da quello fascista. Non si riscontra, secondo l’A., un’analisi del contrasto internazionale del periodo (accordi Yalta-Potsdam, quadro a- 275 siatico, dottrina Truman, ecc.) ma prevale la considerazione continentale; l’idea della patria-nazione evolve in una visione più ampia continentale che pare una naturale conseguenza dell’unità storica europea (“la vecchia Europa cristiana”). Ben presto la DC deve affrontare sfide politiche contingenti e la progressiva frantumazione del “fronte dei vincitori” con la formazione di raggruppamenti contrapposti (piano Marshall, non applicazione della dichiarazione dell’Europa liberata, patto di Bruxelles, ecc.). Prende corpo l’idea di promuovere un’alleanza fra i paesi liberal-democratici “atlantici”. De Gasperi, come osserva giustamente l’A., non ha dubbi sulla necessità dell’adesione italiana sia per ragioni di sicurezza, che per l’affinità dei sistemi politici dei contraenti; fra polemiche e contrapposizioni con le opposizioni parlamentari, l’Italia, pur non essendo fra i promotori, accetta l’invito e aderisce al patto atlantico (1949). I pilastri della politica estera del paese diventano, in tal modo, l’atlantismo e l’europeismo: il primo è di fatto compiuto, almeno sul piano militare, mentre il secondo costituisce “una speranza, un mito”, un traguardo da perseguire per il futuro. Sotto questo profilo, l’impegno di De Gasperi sarà volto negli anni successivi a favorire il federalismo e a superare la nazionalità in favore di istituzioni sovranazionali (CECA). Acanfora analizza il travaglio della CED e CPE e il loro fallimento a causa, in prevalenza, del dissidio franco-tedesco e delle posizioni intransigenti del “nazionalismo francese”. Il libro esamina anche il lavoro compiuto dai partiti e dai movimenti democristiani nelle Nouvelles Equipes Internazionales (NEI): anti-comunismo attivo, superamento della sovranità statale, “pilastro orientale della civilizzazione cristiana”, confronto con i partiti socialisti, manifesto europeista. L’A. evidenzia, inoltre, con efficacia e precisione, le opposizioni interne al partito nei confronti della maggioranza degasperiana; si tratta, in prevalenza, di forze di sinistra che contestano il metodo “verticistico” del governo e le sue scelte 276 prevalentemente di carattere difensivodiplomatico-militare che lasciano in ombra quelle socio-economiche e morali. Sono ben tratteggiate le proposte di Gronchi, di Dossetti, di Ardigò e di altri esponenti politici e sindacali (CISL). Emerge un quadro ben definito dell’alternativa alle scelte del governo; non si tratta, come osserva l’A., di una contrapposizione, ma di una lettura diversa delle priorità strategiche nel confronto con il mondo comunista interno e internazionale (questione sociale, “neutralismo attivo”, applicazione dell’art. 2 del patto atlantico, comunità atlantica non solo strategica e ideologica, ecc.). In realtà, il confronto De Gasperi-Dossetti non avrà né vinti, né vincitori, in quanto, prescindendo dall’uscita dalla scena politica del politico reggiano, gli obiettivi perseguiti da ambedue saranno raggiunti solo in parte: il patto atlantico rimane una struttura a prevalente carattere militare-difensivo e la costruzione dell’unità europea un “mito e una speranza”. La battaglia europeista di De Gasperi continua anche nei mesi successivi con i governi Pella e Scelba; al congresso della DC di Napoli (1954) non esita ad affermare che la NATO è un’importante necessità ma l’Unione Europea è una “priorità”. Poco dopo prende corpo, con obiettivi integrativi politici e militari, l’Unione dell’Europa occidentale (1954, UEO), che apre le porte a Berlino e ne agevola l’ingresso nell’alleanza atlantica (1955). In seguito di questa decisione, Mosca passa dalla rete delle alleanze con i paesi orientali alla costituzione del patto di Varsavia (1955). In sostanza, l’esame del periodo evidenzia, secondo Acanfora, un’evoluzione dell’identità italiana: sotto la guida di De Gasperi e della democrazia cristiana, tramonta l’idea del vecchio nazionalismo e dell’impero, e prende corpo quella di nazione legata alla solidarietà europea, occidentale e internazionale. È bene non dimenticare che, in questi anni, l’Italia entra nell’UNESCO e nell’ONU (1955) e poco dopo a Roma sono sottoscritti i trattati costitutivi della Comunità Economica Europea (CEE) e dell’EURATOM, a conferma dei nuovi indirizzi della politica estera del paese a guida democristiana. In sostanza, le scelte più importanti della politica estera italiana in questi anni possono essere riassunte in una trilogia significativa destinata ad affermarsi e a durare fino ai nostri giorni: europeismo (CEE, UEO, UE), atlantismo (Patto Atlantico), internazionalismo (ONU). ALESSANDRO DUCE LUCIANO GARIBALDI, Gli eroi di Montecassino. Storia dei polacchi che liberarono l’Italia, Milano, Mondadori, 2013, pp. 175. Il lettore è introdotto nei temi specifici del libro da un ampio esame del quadro centroeuropeo dopo la prima guerra mondiale (Versailles, Danzica, linea Curzon, pace di Riga, ecc.) con la nascita della “grande Polonia”. La situazione è modificata dai trattati Ribbentrop-Molotov (1939) con la spartizione del paese e la fine della sua esistenza statuale. In questo contesto, entra in scena il generale Wladyslaw Anders, che, dopo aver combattuto contro i tedeschi, è imprigionato dai sovietici per due anni prima in Ucraina e poi a Mosca. Per non diventare “collaborazionista”, rifiuta di assumere la guida di un governo filo-sovietico e delle forze armate. Guarda, pur in condizioni di prigionia “terribili”, al governo polacco in esilio a Londra guidato da Sikorski. L’operazione Barbarossa modifica questa realtà; l’accordo fra Londra e Mosca permette ad Anders di dar vita ad un contingente polacco che, tuttavia, non può essere impegnato sul fronte tedesco-sovietico. Di particolare interesse l’esame dell’evoluzione moscovita e il resoconto dei colloqui fra Anders, Stalin e Molotov. I polacchi si trasferiscono in Persia, Iraq, Siria, Palestina, Egitto e arriveranno in Italia per essere impegnati con l’VIII armata britannica. L’A. mette in luce un episodio interessante: durante il passaggio in Palestina, molti ebrei polacchi abbandonano An- ders per unirsi ai contingenti ebraici che si formano in quel territorio. In Italia, dopo la concentrazione a Taranto, le forze armate polacche (II corpo d’armata) sono impegnate contro la linea Gustav, nel gennaio del 1944 combattono ad Anzio e più tardi a Montecassino, ove saranno le prime a salire sulle rovine dell’abbazia. L’A. illustra con chiarezza ed efficacia la feroce battaglia condotta dagli alleati contro i tedeschi (bombardamento, assalti, ritirata tedesca, bilancio delle vittime civili e militari, ecc.). Anders conduce in seguito l’armata polacca a Roma, sul fronte orientale italiano, sulla linea gotica, ad Ancona, Forlì, Predappio, Bologna, fino alla resa germanica in Italia. Luciano Garibaldi illustra anche i colloqui di Anders con Churchill (1943-1944), nei quali avanza richieste per i futuri confini della Polonia, lamenta i mancati aiuti sovietici ai rivoltosi di Varsavia, rifiuta ogni ipotesi di cessioni territoriali. Gli accordi di Yalta deludono Anders e i vertici politici polacchi non allineati con Mosca (linea Curzon, confine Oder-Neisse, trasferimenti di popolazioni polacche, ecc.); la Polonia, prima con il governo di Lublino e anche in seguito, resta di fatto nell’orbita di Mosca, inserita nel “blocco comunista”. Londra promette ad Anders di accogliere nel Regno Unito i combattenti polacchi che non vogliono rientrare nella “patria comunista”; l’impegno non sarà mantenuto. Anders assume un ruolo nuovo di carattere “politico”; organizza scuole d’apprendistato, opera per l’inserimento nel lavoro, nelle università, degli ex combattenti restati in gran parte in Italia. In seguito molti, delusi dalle promesse inglesi, si recano negli USA, in Australia, in Argentina e in altri paesi. Il corpo d’armata polacco è sciolto nel settembre del 1946. Varsavia ritira la cittadinanza ad Anders e ai polacchi che rifiutano di rientrare in Polonia; in Italia, il generale e i suoi combattenti sono oggetto di violenze da parte di esponenti del PCI. Per la liberazione dell’Italia, il II corpo d’armata polacco, forte di circa 100.000 uomini, ha avuto oltre 277 4.000 caduti, 2.000 dispersi e migliaia di mutilati e feriti. I cimiteri di Montecassino, Loreto e Bologna San Lazzaro raccolgono i resti mortali di questi combattenti. Lo stesso Anders vuole essere sepolto “accanto ai suoi soldati” (dopo il suo decesso nel 1970 a Londra) a Cassino: sulla tomba compare l’iscrizione “Dio, Italia, Polonia”. Emerge con forza dal testo la figura centrale del libro, cioè il generale Anders: patriota, stratega, statista e credente cattolico. La sua opera otterrà importanti riconoscimenti anche da diversi pontefici (Pio XII, Benedetto XVI, Wojtyla). In realtà, il titolo del libro è riduttivo rispetto al contenuto, che spazia, con autorevolezza e ricca documentazione, su un orizzonte più ampio e dà una misura adeguata del principale protagonista. L’introduzione di Massimo de Leonardis arricchisce l’opera con opportune valutazioni ed inviti a riflettere sul ruolo giocato dalle forze democratiche polacche e occidentali contro “quelle del male” di matrice nazionalsocialista e marx-leninista in Polonia nel contesto drammatico del conflitto. Non mancano riferimenti all’eliminazione di migliaia di ufficiali polacchi a Katyn ad opera dei sovietici; questo crimine vergognoso sarà riconosciuto soltanto più tardi dal nuovo governo russo (Gorbaciov e Eltsin). Il libro è ben scritto, appassionante, spiega aspetti poco conosciuti dei combattenti polacchi, evidenzia la stretta collaborazione con gli alleati, è fondato su solide basi documentarie, scritte e orali, e fa luce sui collegamenti fra i “risorgimenti” dell’Italia dell’Ottocento e della Polonia del Novecento. ALESSANDRO DUCE 278 GLI AUTORI GIANLUCA BORZONI è ricercatore presso l’Università di Cagliari, dove insegna Storia delle Relazioni Internazionali. Ha di recen te conseguito l’abilitazion e a profess ore associato. I suoi tem i di rice rca riguardano la storia della politica estera ita liana, le relazioni transatlantiche e la sicu rezza nel Mediterraneo. I suoi libri: Renato Prunas diplomatico, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004; “Is it all going to be just words”? Le difficoltà del neutralismo: gli Stati Uniti e le forniture di aerei alla Grecia nel 19401941, Milano, Franco Angeli, 2008; Dalle origini alla “primavera araba”. La Nato e le crisi mediterranee tra passato e presente, Roma, Aracne, 2012. MICHELE CARDUCCI è professore ordinario di Diri tto Costituzionale Comparato nell’Università del Salento. In precedenza ha insegnato presso le Università di Parma e Urbino. Ha svolto ricerche e ricoperto im portanti incarichi presso num erose Università dell’America Latina. Tra le su e pubblicazioni più recenti: Atlante normativo di diritto costituzionale comparato, Milano, Giuffrè, 2004; La cultura di Weimar e lo studio del diritto costituzionale comparato, Lecce, Pensa Editore, 200 8; (con Beatrice Bernard ini D’Arnesano), Turchia, Bologna, Il Mulino, 2008. ENTELA CUKANI è dottoranda in D iritto Pubblico Com parato presso l’ Università del Salento. I suoi interessi sono volti allo st udio delle transizioni costituzionali, con particolare riferimento ai diritti dei gruppi e delle m inoranze. Nel 2012 ha pubblicato Ongoing Pristina-Belgrade Talks: From Decentralization to Regional Cooperation and Future Perspectives, Eur.ac Research – Europ ean Diversity and Autonom y Papers (EDAP), on-line. JOAN DEL ALCÀZAR è full professor di Storia Contemporanea presso l’Università di Valencia. Ha pubblicato libri e articoli in Sp agna, Messico, Argentin a, Cile e Brasile. Nel 1998 è stato perito dell’accusa nel proces so contro Augusto Pinoch et davanti alla Audiencia Nacional de España. È coautore di una Història Contemporània d’America, València, Servei de Publicacions de la Universitat de València, 2003. Il suo ultimo libro è Chile en la pantalla. Cine para escribir y para enseñar la historia (1970-1998), València/Santiago de Chile, PUV, 2013. GIULIANA IURLANO è ricercatrice di Storia delle Re lazioni Internazionali presso l’Università del Salento. Ha di recente conse guito l’abilitazione a professore associato. S’interessa della prima politica estera americana e della gu erra fredda, cui ha dedic ato vari articoli e saggi. È autrice di Sion in America. Idee, progetti, movimenti per uno Stato ebraico (1654-1917), Firenze, Le Lettere, 2004. Ha curato, insieme ad Antonio Donno, l’opera collettanea Nixon, Kissinger e il Medio Oriente (1969-1973), Firenze, Le Lettere, 2010. EMANUELE PIGNATELLI è stato diplomatico di carriera dal 1969 al 2011. Al m inistero degli esteri si è occupato di cooperazione allo sviluppo , tutela dei diritti um ani, diplomazia multilaterale e rapporti con i paes i africani. Ha prestato servizio nelle 279 ambasciate italiane a L agos, Città del Mess ico e Parigi, è stato cons ole aggiunto a Zurigo e consigliere alla rappres entanza italiana presso la Com unità Europea. È stato ambasciatore ad Asmara, in Eritrea, e a Quito, in Ecuador. RICARDO D. RABINOVICH-BERKMAN è full professor di Storia del Diritto presso l’Università di Buenos Aires e direttore del dipartim ento di Scienze Sociali. Tra le sue numerose opere: Matrimonio incaico, Quito, Jurídica Cevallos, 2003; Derecho romano para Latinoamérica, Quito, Cevallos, 2006; Derechos humanos. Una introducción a su naturaleza y a su historia, Buenos Aires, Quorum, 2007. LILIANA SAIU è professore ordinario di Storia delle Relazioni Interna zionali all’Università di Cagliari. Si è occup ata di origini ed evoluzione de lla guerra fredda, di rapporti tra Stati Uniti e Italia e di politica es tera italiana. Attualmente i suoi interessi di ricerca si incentrano sul tem a della sicure zza nel Mediterraneo. Tra le sue princ ipali pubblicazioni: La politica estera italiana dall’Unità ad oggi, Roma-Bari, Laterza, 2005; Stati Uniti e Italia nella Grande Guerra, 1914-1918, Fondazione Luigi Einaudi, Firenze, Olschki, 2003. SABRINA SERGI ha conseguito la laurea m agistrale in Sc ienze della Politica pr esso l’Università del Salento, con una tesi in Linguaggio Diplom atico, dalla quale è stato tratto questo saggio. Attualmente è iscritta a l master in Diplomacy presso l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale di Milano (ISPI). LUCIO TONDO è dottore di ricerca nell ’Università di Pisa e pr ofessore a contratto di Linguaggio Diplomatico presso l’U niversità del Salento. H a recentemente conseguito l’abilitazione a professore a ssociato. Ha pubblicato articoli e saggi sulle relazioni degli Stati Uniti con la Russia bolscev ica, il Giappo ne, l’Italia e l’ar ea mediorientale, e il volume L’aquila e il Sol Levante. La politica degli Stati Uniti verso il Giappone (19201932), Galatina, Congedo, 2008. Attualm ente lavora ad un libro sui rapporti tra l’amministrazione Nixon e il Libano. IDA LIBERA VALICENTI è dottoranda di ricerca in Studi Politici (indirizzo di Storia delle Relazioni Internazionali) pres so l’Università “Sapienza” di Ro ma. È borsista presso la Facoltà di Storia dell’Università di Bucarest. Ha conseguito un master in Studi Diplomatici presso la Società Italiana per l’Organizzazion e Internazionale (SIOI) di Roma. Ha di recen te pubblicato: Dalla polis greca alla e-democracy, Roma, Edizioni Nuova Cultura, 2014; Stanley Hoffman e il dilemma della guerra fredda, Roma, Edizioni Nuova Cultura, 2014. 280 Eunomia Rivista semestrale di Storia e Politica Internazionali http://siba-ese.unisalento.it/index.php/eunomia © 2014 Università del Salento – Coordinamento SIBA http://siba2.unisalento.it