N.6 Marzo 2014 - Associazione Culturale Europea Francesco Orioli

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N.6 Marzo 2014 - Associazione Culturale Europea Francesco Orioli
l’ORIOLI
Periodico di Cultura, Costume e Società
Anno XI - Numero 6 - € 5,00
Edito dall’Associazione Culturale Europea Francesco Orioli
www.orioli.eu
Marzo 2014
Sul Tempo
Eppoi il tempo per me, non è quella cosa impensabile che non s’arresta mai.
Da me, solo da me, ritorna.
Il giornale è distribuito gratuitamente alle istituzioni pubbliche e alle associazioni culturali
Italo Svevo
Santi in comune
San Vittore e Santa Corona Martiri
2
LE IMMAGINI PER SEMPRE
di Michele Alassio
Tempo fa, per amicizia, ho accettato di tenere una lezione
sulla fotografia in una scuola elementare. Ho portato in classe due macchine fotografiche: la prima camera per istantanee
prodotta negli USA, una Hasselblad 500 C/M del 1960, ed
una Hasselblad 4HD MS, ultimo modello digitale.
L’aula di scienze conteneva circa una settantina di bambini,
io stavo dietro la cattedra, sulla quale avevo appoggiato le
mie scintillanti macchine a cavalletto e gli insegnanti si erano
posizionati sul fondo della classe.
Ho esordito dicendo che prima di parlare di fotografia bisogna mettersi d’accordo su che cosa sia un’immagine, quindi
ho tirato fuori dallo zaino una cartolina e l’ho sventolata
davanti a tutti, chiedendo “É un’immagine questa? La prima
risposta è arrivata in coro e conteneva molti sì e qualche no.
Individuato uno dei dissidenti, gli ho chiesto cosa fosse, se
non era un’immagine, ciò che tenevo in mano. “É una cartolina” ha affermato convinto, tra le risate di tutti.
Così ho spiegato che lui aveva ragione, ma che serviva un
piccolo esperimento affinché tutti potessero capire la sua
risposta. Ho chiesto dunque all’intera classe di pensare
intensamente al volto delle loro mamme, di vederlo mentalmente.
“Lo vedete?”, ho domandato dopo qualche istante, e appena
in coro mi hanno risposto di sì ho cominciato a strappare la
cartolina in pezzi sempre più piccoli, che ho poi lanciato in
aria come coriandoli. Subito dopo ho detto loro: “Bene, adesso cercate di fare quello che io ho fatto con la cartolina al volto
di vostra madre”, e dopo una pausa in cui ho contemplato il
loro stupore, ho continuato: “lo so, non potete, perché il volto
della mamma è un’immagine. L’immagine è un oggetto mentale che ha per dimensioni l’ampiezza della vostra memoria,
l’altezza del vostro desiderio e la profondità del vostro sentimento. Le vostre immagini sono solo vostre e di nessun altro.
Queste vi accompagneranno tutta la vita, ma non sono soggette alla vostra volontà, non potete né modificarle né cancellarle, perché sono così intimamente e personalmente vostre da
essere indistruttibili. La fotografia è solo un paio di forbici con
cui ritagliare i frammenti di realtà, per provare a condividere
e trasmettere tutto ciò che corrisponde al vostro sentire.”
Gli insegnanti, spalle al muro, mi sono sembrati un poco pallidi, o forse è stato solo un effetto di luce a farmeli apparire
così. I bambini, nell’ora seguente, mi hanno posto un milione di domande, le macchine non le hanno quasi nemmeno
guardate, e secondo me è stato un buon segno!
La foto di copertina, Main Rose Reading Room - New York, della serie Jorge Luis Borges.
Ringraziamo Michele Alassio per averci concesso la riproduzione di alcune sue fotografie.
MICHELE ALASSIO, nato a Venezia il 23 Agosto 1956, fotografo professionista dal 1981, vive fra Venezia e New York. La sua attività
spazia tra: reportage artistico, riproduzione di opere d’arte, still-life pubblicitario, fotografia e cinematografia di architettura e design, progettazione di siti web. Collabora con i principali magazine nazionali e internazionali e cura progetti editoriali e multimediali, tra i quali
“Casa De Retiro Espiritual”, che nel 2005 è approdato al M.o.M.A. (Museum of Moder Art, New York) con un’esposizione comprendente
fotografie, plastici e video.
Parallelamente all’attività professionale, ha sviluppato un’intensa attività artistica di esposizioni personali: dalla mostra all’Ikona Photo
Gallery, a Venezia, nel 1985, fino alla mostra presso Barry Friedman Gallery di New York, intitolata Dreams & Nightmares. Tra tutte ricordiamo una retrospettiva tenuta a New York nel 2008, e un’esposizione dedicata all’opera di Jorge Luis Borges, presentata in anteprima nel corso
dell’edizione 2010 di Pari Photo a Parigi, e poi esposta a Venezia, San Pietroburgo, Miami e New York. Le sue fotografie, prodotte in tiratura limitata e numerata, sono presenti in importanti collezioni private e pubbliche di tutto il mondo. È rappresentato dalla Barry Friedman
Gallery di New York.
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Michele Alassio, Palazzo Grimani - Venezia, della serie J.L.B.
l’ORIOLI
Periodico di Cultura, Costume e Società
Iscritto al Tribunale di Viterbo al N. 513 del
Registro Stampa con Decreto del 7/2/2003
Direttore Nicola Piermartini
Anno 11 - n. 6 - Marzo 2014
Sede
C.da Santo Pietro, 2 - 01030 Vallerano (VT)
Sede amministrativa
Associazione Culturale Europea Francesco Orioli
01030 Vallerano (VT)
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Web site: www.orioli.eu
Consiglio di amministrazione
Ludovico Pacelli - Presidente
Mario Mariani - Vice Presidente
Progetto grafico e stampa
Tipografia “AK” s.a.s. - 01030 Vallerano (VT)
Coordinamento e supervisione
Carla Ferraro
L
’Associazione
Culturale
Europea “Francesco Orioli”
porta già nel nome la nostra
ambizione, profondamente
sentita, ad essere cittadini
di un’Europa come promessa di
civiltà, come entità dagli orizzonti
umani e culturali sempre più vasti.
Per questo motivo essa persegue
esclusivamente finalità e solidarietà sociali nel campo della
promozione culturale. La
sua attività spazia dalla
realizzazione e gestione di
spettacoli all’istituzione di
premi e concorsi e all’organizzazione di manifestazioni, seminari, rassegne, mostre,
festival e conferenze con personalità del mondo della cultura, nell’intento di propagandare e valorizzare
ogni aspetto dell’arte. Speciale attenzione viene riservata alla tutela e al
recupero del patrimonio artistico del
territorio, come mezzo di salvaguardia
delle tradizioni in un’ottica di arricchimento individuale e di promozione
turistica. Costituitasi nell’anno 2000
come
ONLUS,
l’Associazione
Culturale Europea “Francesco Orioli”
ha cambiato questa sua denominazione, pur restando assolutamente senza
fini di lucro. Essa è dedicata a un illustre figlio della nostra terra, quel
Francesco Orioli che, nato nel 1783
“dentro la cerchia antica”, per dirla
con padre Dante, di Vallerano,
fu fisico, storico, poeta,
patriota, ministro, etruscologo e filantropo, e dunque
incarnazione dell’universalismo umanistico, interprete di una cultura globale
che nulla rifiuta di quanto
eleva l’uomo verso la scienza,
la creatività, la liberalità, la giustizia e la bellezza. Dato l’orizzonte europeo delle sue esperienze, il nome di
Francesco Orioli si raccomanda anche
nel segno dell’attualità interdisciplinare ed internazionale, come modello
per un sodalizio che nella cultura persegua ad ampio raggio i valori che
informarono la sua vita.
Le collaborazioni sono da considerarsi gratuite. Gli autori che le firmano si assumono la responsabilità.
Tutto il materiale pubblicato è tutelato dalle leggi vigenti sul diritto d’autore.
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INDICE
Controcopertina
2 Le immagini per sempre di Michele Alassio
Editoriale
5 Tempo, tempo: sei tu forse Dio? di Nicola Permartini
Il tempo dell’impegno
6 Agli Eterni! di Ludovico Pacelli
Il tempo del ricordo
8 Ora che non ci sei
9 Maria Orioli: ritratto di una signora di Alberto De Giulio
10 Cose viste
11 Matheo de Viterbio di Consuelo Lollobrigida
Il tempo dipinto
14 La vecchia: “Il ritratto di sua madre” di Gismondo
16 I ritratti come storia di Tomaso Montanari
18 Due donne: l’arte del loro tempo di Luisella Romeo
Contemporanea
20 Il tempo di carta di Alberto Orioli
22 L’arte lenta di Mauro Pulcinella di Francesco Bussetti
Il tempo in poesia
24 Vertigini d’infinito di Nicola Piermartini
25 Ricordi temporali di D. Zanarini e R. Rovere
Il tempo in musica
26 “Ta ta ta ta” di Davide Amodio
28 Incontri con il tempo di Maurizio Gregori
30 Il tempo del silenzio di Bruno Gabirro
I tempi verbali
31 Per i cinesi il futuro è alle spalle di Adriano Boaretto
Il tempo nella religione
32 L’oggi di Dio e i giorni dell’uomo di Elena Chiamenti
36 L’angoscia del tempo che passa di Ampelio Santagiuliana
Il tempo in psicanalisi
40 Figure del tempo di Assunto Alfredo Lopez
Il tempo mitologico
44 Io so che cosa è il tempo … di Massimo Fornicoli
Il tempo virtuale
47 Il tempo al tempo del web 2.0 di Riccardo Nisini
Il tempo della lettura
48 Romanzi distopici e steampunk di Claudio Anasarchi
51 Sulle orme della storia di Silvia Cruciani
Il tempo scritto
52 Tempo e spazio in Corrado Alvaro di A.C. Faitrop-Porta
54 Il carteggio Alvaro-Zweig di Arturo Larcati
Il tempo cronometrico
59 Time out! di Alfonso Orlando
Contro il tempo
60 Lunga vita! di Ernesto Riva
64 Anti-age di Luigi Rigano
Il tempo della sessualità
66 Le quattro età nel giardino dell’amore di Rita Grifoni
Il tempo in teatro
68 Cronologia di Giancarlo Santelli
71 E ora… che il teatro ci nutra! di Mattia Berto
72 Semi di futuro di Carla Ferraro
Tempo libero
74 “Dove sono i bei momenti/di dolcezza e di piacer …”
Passatempo
76 Il tempo delle rose di Daniela Zanarini
77 Fate buon uso del tempo che fugge di Francesca Cazzola
78 Tempo… di riflettere di Margherita Crogliano
79 Il tempo guarisce tutto di Camilla Pacelli
80 Ma allora, questo tempo esiste davvero? di Riccardo Rovere
Il tempo della scrittura
82 Profumi del tempo immaginato, immortali di G. Darelli
85 Profumo di donna di Vincenza Fava
Santi in Comune
88 San Vittore Martire di Don Manfredo Manfredi
94 Sulle tracce dei Santi Vittore e Corona di Gabriele Turrin
96 Il ritrovamento di Morto da Feltre di Giuditta Guiotto
99 L’antico organo di San Vittore di P. Peretti e M. Formentelli
102 Un treno del tempo nell’orologio... di T. V. Severini
Francesco Orioli, il suo tempo
104 L’albero genealogico
106 Dalla nascita alla morte
107 Del paragrandine
108 Il potere temporale del papa di Franco Manaresi
Il tempo de L’Orioli
110 Passato: La Cattiva Erba di Massimo Fornicoli
111 Presente: Il castagno e la modernità di Angelo Bini
112 Futuro: A proposito del mio lavoro di Bernd Rosenheim
Il tempo in rete
114 Vuvuart: Andy Warhol re del web di Camilla Pacelli
5 - Editoriale
TEMPO, TEMPO: SEI TU FORSE DIO?
di Nicola Piermartini
“Tempo, Tempo: sei tu forse Dio?” Recitava pressappoco così
un verso udito declamare una trentina d’anni addietro. La
circostanza fu la cerimonia di premiazione di un concorso
internazionale di poesia, nel quale ricevette un riconoscimento anche una lirica di chi scrive. Secondo tradizione, ogni
premiato leggeva il proprio componimento. Quello riportato
in apertura era il verso conclusivo della poesia di un uomo
sui settantacinque anni, alto e possente come una quercia,
incorniciato da una chioma candida, lussureggiante, carducciana. E dalla voce stentorea, che sembrava erompere da
chissà quali profondità.
Mi tornò in mente quel verso anni dopo. Poi con frequenza
sempre più ravvicinata. E mi accompagna tuttora. In quelle
parole, forse, il vate dalla possanza omerica aveva sintetizzato interrogativi, perplessità, ricerche, esperienze di una vita.
Il Tempo è dimensione non umana. L’uomo può misurarlo,
può verificare gli effetti del suo trascorrere: non può dominarlo. Osservando la Terra dallo spazio (oggi è possibile), il
Tempo si configura come un succedersi ininterrotto di luce
ed ombra, di spostamenti lenti e inesorabili del pianeta sull’orbita della rivoluzione attorno al Sole. È il fluire del tempo
fisico, così da sempre.
Ma il Tempo è dimensione squisitamente psicologica, spirituale. Le rughe che incidono i volti, il “supremo scolorar del
sembiante” (vv. 64-65 del Canto notturno di un pastore errante
dell’Asia di Giacomo Leopardi), il declinare della vigoria fisica, il prosperare dei virgulti umani (figli, nipoti), i mutamenti del territorio, non sono soltanto riflessi puramente fisici,
essi hanno una fondamentale coloritura spirituale.
I ricordi, poi: dell’infanzia, della giovinezza, di momenti
d’euforia, di altri di abbattimento; e il motivo di una canzone antica, dimenticata, i fotogrammi di vecchi film, un album
di fotografie, una pansé trovata “sfogliando un vecchio libro
di latino”. Le pietre miliari di un universo temporale, che
genera tempeste di sentimenti, di riflessioni. E le testimonianze di persone e di civiltà tramontate: è passato che rivive nel presente, che si proietta nel futuro. Forse il Tempo è un
eterno presente. Considerazione che richiederebbe almeno il
respiro di un libro per essere suffragata e spiegata in maniera abbastanza adeguata.
Naturale che sensibilità artistiche, in particolare, siano state e
siano affascinate, influenzate, turbate, ispirate da quel dio (il
Tempo) così reale e così incomprensibile, così evidente e così
misterioso, così osservato nelle sue manifestazioni e così
inafferrabile.
Questo numero de “l’Orioli”, che prosegue il formato edito-
riale ispirato dal “Sogno”, è dedicato al “Tempo”. Il Tempo
indagato da innumerevoli angolazioni, da ricerche su pittori,
scrittori, filosofi e da articoli di argomento religioso e mondano, da riflessioni profonde e da semplici pensieri…
Numero da centellinare e da riporre nello scrigno delle
“cose” preziose.
La sezione “Santi in comune”, un tributo alle “ricchezze” di
Vallerano, ha scelto di raccogliere materiali, i più diversi,
legati a San Vittore, Patrono di Vallerano e di Feltre, con una
ricca rassegna iconografica.
Non poteva mancare una parte rivolta al futuro: la prossima
mostra di Bernd Rosenheim, scultore e pittore, le cui opere
saranno esposte nella romana Galleria Angelica nella primavera dell’anno prossimo.
E, ineluttabilmente, il tempo terreno si conclude, ma il ricordo rimane vivo: Maria Orioli, la nostra infaticabile “animatrice” è scomparsa agli inizi del 2013. “Cittadina del mondo”, la
Orioli, dalla curiosità ed energia intellettuali vivacissime
anche in età avanzata; il suo è stato un ventaglio ampio di
esperienze significative in vari campi. Maria Orioli espresse
nella fotografia capacità tecniche e sensibilità raffinate: nei
suoi scatti in bianco e nero non soltanto chiaroscuri di scorci
urbani, brani paesaggistici e scene di vita, ma testimonianze
estatiche di attimi rubati in un divenire incessante e fulmineo. Sue creazioni sono custodite in “santuari” della fotografia: la Bibliothèque Nationale di Parigi, il museo statunitense
di Hudson, la Fondazione Alinari, tra quelli. A lei è dedicata
una affettuosa “antologia” dei suoi ultimi grandi successi.
Oltre alla redazione periodica de “l’Orioli”, l’associazione
culturale europea “Francesco Orioli”, grazie soprattutto alla
competenza ed alla passione del presidente, Ludovico
Pacelli, è da sempre impegnata su diversi fronti culturali e
sociali. Tra le iniziative più recenti, sia sufficiente menzionare l’appoggio al Gruppo Archeologico “F. Orioli” e il patrocinio al libro di Beppe Chierici, La cattiva erba.
Ad maiora.
Il tempo dell’impegno - 6
AGLI ETERNI!
di Ludovico Pacelli
(...) Ora l’inverno agli eterni rintocchi ritorna piano / tutto raccolto nel cesto intrecciato delle mani.
Franco Ottavianelli, Archivolti, 1991, quattro tele tratte dall’installazione ispirata alla poesia “Cesto intrecciato delle mani” di Maurizio Guercini. (Foto di Claudio Pulcinelli)
Nel pensare, progettare e poi costruire questo numero de
“l’Orioli” dedicato al Tempo, l’unica cosa che non ci è mancata è stata, davvero, il tempo.
L’uscita del nostro giornale è cadenzata dal tempo necessario
a raccogliere l’esigua cifra per la stampa. Tutto il resto è legato indissolubilmente alla disponibilità di molti e alla generosità e pazienza di pochi ma grandi amici che… liberamente
ci supportano e, ancor più, ci sopportano.
Vi è una motivazione comune che ci sostiene, ed è forte. In
un’epoca, come la presente, il peso della crisi finanziaria
internazionale e locale (si pensi, per non andare lontano, alla
crisi della castanicultura o del settore ceramico) ostacola non
solo il reperimento di fondi, ma anche la stessa disposizione
mentale per continuare la strada da noi intrapresa.
Desideriamo, ora più che mai, proseguire nel nostro impegno di incontrare e far conoscere persone disponibili ad
intrecciare un dialogo in assoluta libertà. Ognuno ha offerto
ai lettori una parte tanto intima, quanto universale, di sé: il
proprio sapere. Grazie.
Gli argomenti che il cosiddetto “tempo reale” (la velocità del
mondo digitale, per non parlare di quello dei social network)
nella migliore delle ipotesi condensa o più spesso ignora,
ritornano ad occupare nel nostro giornale lo spazio che meritano. Il rischio che sappiamo di correre è quello di essere
presi per degli incauti nostalgici, che lottano per un mondo
ormai definitivamente scomparso; noi, invece, condividiamo
la speranza che un giorno il nostro progetto si realizzi pienamente. Ispirati dai valori etici ai quali deve tornare ad ispirarsi la società, abbiamo raccolto una multiforme messe di
contributi che ci raccontano e ci insegnano ad interpretare il
tempo attraverso la bellezza, l’arte, la religione, la scienza, la
poesia, la musica, il teatro e il pensiero in ogni sua manifestazione.
Sono orgoglioso del risultato, e finalmente mi accomoderò
sul divano per smaltire le fatiche e il mio sguardo tornerà ad
ispirarsi “Agli Eterni”: quattro pannelli dipinti, appesi uno
accanto all’altro, a formare questa “dedica”.
Allora, quando decisi di farli miei, ero stato rapito da quelle
due parole, selezionate tra le molte che formavano una più
ampia installazione dal titolo Archivolti, opera del pittore
Franco Ottavianelli.
Adesso, seppur davanti ai miei occhi ormai da anni, quei
quadri hanno assunto un nuovo significato, illuminati dalla
luce degli articoli raccolti, letti, esaminati.
Fino ad un recente passato, a chi mi chiedeva il perché della
mia scelta, provocatoriamente ribattevo che essi corrispondevano in maniera precisa alla misura del mio ego: senza
confini.
Oggi, con inconsueta ma obbligata modestia, riconosco nell’opera quello che dovrebbero essere i leit motive di ogni esistenza: prima, il riconoscimento devoto a tutti coloro che ci
hanno preceduti, un sentimento di riconoscenza per la ricchezza interiore che hanno voluto trasmetterci; poi, un impegno determinato ad offrire un personale contributo, un lascito di saggezza affinché il mondo migliori. Perché, anche se
ciò non accadrà, chi viene dopo di noi sicuramente avvertirà
l’energia del nostro tentativo e magari sentirà il piacere, o
forse il dovere, di fare la sua parte.
Buona lettura
7 - Il tempo dell’impegno
Chiesa di S. Maria in Transpontina
Roma, 5 Aprile 2013
Cara Maria,
vorrei salutarti e farmi partecipe dei sentimenti di tante persone, amici ed amiche, che durante la nostra bella e lunga
amicizia abbiamo incontrato sulla nostra strada.
Quella strada lungo la quale, oltre all’affetto e alla simpatia,
ci ha sempre più avvicinati la passione con cui abbiamo dato
vita alle iniziative culturali dell’Associazione Culturale
Europea “Francesco Orioli”.
Tu sei stata una delle sue colonne portanti sia con il sincero
entusiasmo sia per la competenza scientifica e il rigore della
ricerca storica, accompagnati entrambi dalla tua arte di fotografa eccellente e appassionata.
Come dimenticare quando in Irlanda dopo aver lasciato la
comitiva di amici, da sola sotto la pioggia, con la tua fedele
macchina fotografica ti isolasti per fotografare quella natura
selvaggia e malinconica!
Maria Orioli, Shangai, 1992, Giardino del mandarino Yu
Come non ricordare il tuo amore senza riserve per Nora, la
tua adorata sorella, con la quale hai condiviso tutta la vita.
Stai tranquilla, Maria, ché io e tutti gli amici staremo vicini a
Nora in modo da attenuare, insieme a lei, la tua assenza.
Ti abbiamo voluto bene, ti vogliamo bene e continueremo a
camminare insieme a te, lungo la “nostra” strada.
Ludovico Pacelli
LUDOVICO PACELLI, nato a Vallerano e qui residente per
scelta, cura il progetto e la realizzazione di questa rivista praticamente dalla nascita, sua e della rivista. Dalla stessa epoca,
nelle varie attività svolte (“Stanze con vista o prigione”, rassegne teatrali, mostre in Italia e all'Estero), persegue, con fare
quasi maniacale, due obiettivi: convincere sempre più sè stesso
(ma anche chiunque capiti nel raggio d'azione del suo irriducibile ottimismo) che la Cultura è veramente un bene di prima
necessità, fondamento imprescindibile di ogni progresso personale e collettivo, morale e materiale. Sostiene di conseguenza,
con forza ed entusiasmo, le iniziative di chiunque voglia abbattere gli ostacoli che restringono l'orizzonte culturale di ogni
luogo di vita. Quest'ultimo è senz'altro, tra i due, l'intento che
gli è più caro, al punto da includerlo nell'epitaffio che di tanto
in tanto prova a redigere, quando, in rarissimi momenti di scoraggiamento, gli capita di pensare che, forse, anche lui, è destinato all'Aldilà.
Il tempo del ricordo - 8
ORA CHE NON CI SEI
dedica a Maria
Vallerano, Via Francesco Orioli 2013
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.
Maria Orioli, Pitigliano. I ciambellini, 1963
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr'occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.
Eugenio Montale
da Satura, Xenia II
9 - Il tempo del ricordo
MARIA ORIOLI: RITRATTO DI UNA SIGNORA
di Alberto De Giulio
Conobbi Maria Orioli nel giugno del 2011. Una sua amica,
che conosceva la mia galleria, venne a presentarmi un suo
catalogo. Rimasi sin da subito attratto dalle sue fotografie e
dal modo, del tutto personale, di ritrarre Venezia.
Volli contattarla subito, incuriosito anche dalla sua età. La
chiamai immediatamente al telefono e dopo la prima brillante conversazione ne seguirono tante altre, tutte un po’ speciali, finché decisi di andare a Roma, per conoscerla personalmente. Era il gennaio 2012.
Mi piace conoscere gli artisti che espongo... perché all’interno delle loro fotografie, c’é tutta la loro personalità. E Maria
era una donna piena di vita e curiosa di conoscere il mondo,
come se gli anni non l’avessero cambiata. Tanti sono gli scatti che mi hanno colpito, che mi hanno fatto pensare di proporre una mostra personale sul suo lavoro. Quando le comunicai la mia intenzione di organizzare una mostra delle sue
fotografie ne fu inizialmente… sorpresa, ma, solo un istante
più tardi, entusiasta. Le offrivo l’occasione di esporre nella
sua Venezia (ci visse per una trentina d’anni) e di mostrare la
città attraverso i suoi occhi, con la sua sensibilità, la sua percezione del tempo che passa.
La mostra che realizzammo nella mia galleria “La Salizada”,
riproponeva una sua personale, “Fusti tu mai a Vinegia?”,
già presentata nel 2006. Pensai che si trattava dell’evento giusto da proporre in occasione dell’Art Night Venice, una
manifestazione organizzata dall’Università Cà Foscari e dal
Comune di Venezia, durante la quale la città si riempie di
eventi culturali e molti veneziani, giovani e meno giovani, si
riversano per le calli e riconquistano la città per una sera. Le
chiesi se voleva intrattenersi con me nella galleria fino a
tardi. Beh... Maria accettò di buon grado e rimase tutta la sera
a parlare con i giovani e a spiegare loro le sue “immagini”!
Fotografava per passione. Non lo faceva per lavoro, ma vi
era in lei un profondo impegno e un’attenzione assoluta.
A prima vista può sembrare che fotografasse “elementi”
semplici. In realtà sapeva cogliere nella sua “veridicità” il
mondo veneziano. Come lo scatto di “Vipera” (un gondolino, in realtà) che si specchia nell’acqua della laguna ed appare “sospesa” come se fosse in cielo, in un gioco di chiaroscuri in cui, senza soluzione di continuità, la laguna si perde nel
cielo ed il cielo nella laguna.
A suo modo, sapeva interpretare i cambiamenti. Maria viveva la contemporaneità del suo tempo.
Tra le sue immagini, per esempio, mi ha attratto fin da subito, uno scatto. Quello in cui ritrasse una coppia che, seduta
su una panchina dei giardini reali di San Marco, si scambia-
va un tenero bacio: nella foto del 2004 (rigorosamente in
bianco e nero) vi è un ragazzo di colore che bacia una candida fanciulla.
La notizia della sua scomparsa mi ha colpito molto: la sua
ultima Personale si è tenuta proprio presso la mia galleria.
Tante erano le emozioni che serbavo nel cuore nel pensare
che a breve, proprio in occasione dei suoi novant’anni, avrebbe avuto il riconoscimento fotografico che in cuor suo desiderava: una mostra monografica di tutto il suo lavoro.
Purtroppo non ha potuto esserci in quell’occasione. Ma io
per un breve periodo l’ho avuta vicina, nella mia galleria, e
mi ritengo un uomo fortunato. Ho nella memoria i suoi sorrisi gentili e la luce di quegli occhi attenti; ho incontrato una
squisita fotografa, ma soprattutto un’autentica Signora.
La galleria fotografica La Salizada si trova a Venezia, in una delle città più
fotografate al mondo. In questo spazio, inaugurato nel 2011 per valorizzare
l’arte della fotografia, Alberto De Giulio organizza esposizioni di fotografi
noti ed emergenti, italiani e stranieri, propone e vende alla cosmopolita
clientela foto originali in albumina, edizioni storiche di foto d’epoca e diversi altri tipi di riproduzioni. In galleria si possono trovare, oltre a suggestive immagini di vita veneziana, foto inedite di personaggi, di eventi dell’ultimo sessantennio con particolare attenzione alla Mostra del Cinema e alla
Biennale d’Arte, e non solo.
Il tempo del ricordo - 10
COSE VISTE
Firenze, Museo Nazionale Alinari della Fotografia, Cose viste,
Coordinatrice del progetto Consuelo Lollobrigida, 28 giugno - 30 luglio 2013
La bella antologica ospitata nelle antiche sale del convento di
Santa Maria Novella, a Firenze, adesso sede del Museo
Nazionale Alinari della Fotografia, ha permesso a tutti i visitatori di guardare il mondo con gli occhi di Maria Orioli.
Occhi, i suoi, che si sono spenti prima di vedere realizzato il
sogno, ma che continuano a brillare attraverso il riflesso di
quelle immagini “patrimonio d’intelligenza visiva”, come le
definisce Italo Zannier nell’introduzione del catalogo.
La mostra, progettata dopo la scelta di Maria di donare l’intero archivio fotografico alla Fratelli Alinari, si è trasformata
in un sentito omaggio alla sensibile fotografa, a colei che
“riusciva a cogliere la poesia nella realtà più triste e disperata così come nella rappresentazione più nobile della creatività umana”. La citazione è tratta dall’affettuoso ricordo che
Consuelo Lollobrigida, coordinatrice del progetto della
mostra, ha pubblicato nel catalogo.
Le Cose Viste del titolo corrispondono ad una scelta “difficile” all’interno del grande corpus delle fotografie in bianco e
nero che Maria ci ha lasciato: dai primi anni ’60 fino agli ultimi giorni, Maria non ha mai smesso di esercitare il suo sguardo curioso e di raccontare, appunto, tutto ciò che andava
osservando.
La “trasgressione”, quella che Zannier mette in evidenza, va
interpretata attraverso la liricità di scatti che diventano
immagini suggestive, capaci di evocare sì una forma di trasgressione ma alla quale è necessario aggiungere l’aggettivo
“delicata”.
Quello di Maria è sempre stato uno sguardo affettuoso e
attento, lo stesso che riservava all’appassionato sostegno e
alla preziosa e vivace partecipazione all’Associazione
Francesco Orioli, da lei fortemente voluta. Come responsabile delle ricerche storiche e quale colonna portante di ogni
nostra iniziativa, ci ha offerto, senza sosta, nuovi stimoli per
ampliare i “nostri” e i “vostri” orizzonti culturali. Gliene
siamo sinceramente grati.
Maria Orioli, Homeless, Senzatetto (particolare), 1991
11 - Il tempo del ricordo
MATHEO DE VITERBIO
MATTEO GIOVANNETTI. UN VITERBESE ALLA CORTE DI AVIGNONE
di Consuelo Lollobrigida
A Maria, per tutto quello che hai rappresentato per me e per tutti coloro che
hanno avuto la fortuna di conoscere e apprezzare la tua cultura raffinata e
profonda. Con affetto.
Nel 1307, con il pontificato di Clemente V, l’arcivescovo di
Bordeaux Bertrand de Got, la sede della Chiesa viene trasferita ad Avignone, dove rimarrà per circa settanta anni.
La piccola cittadina, adagiata sulle rive del Rodano, non lontano dal mar Mediterraneo, offriva alla curia un ambiente
economicamente favorevole e politicamente ideale per operare al riparo dagli intrighi e dalle continue lotte della nobiltà
romana. Questi elementi crearono le condizioni ideali perché
la curia raggiungesse un livello organizzativo assai alto,
dotandosi di un apparato burocratico-amministrativo al
quale si ispireranno, in seguito, le stesse monarchie europee:
un apparato che consentì ai pontefici di accentrare nelle proprie mani tutta la direzione della vita della Chiesa, riducendo sempre più gli spazi di autonomia delle istituzioni ecclesiastiche locali.
Perché questo progetto politico fosse pienamente raggiungi-
Clément VI
bile e la curia potesse godere di quei fasti e quella pompa
adeguati, i pontefici diedero mano ai rifacimenti della rocca
avignonese, creando in pochi anni uno dei gioielli più significativi del gotico.
I lavori furono iniziati sotto il papato di Benedetto XII
(Giacomo Fournier, 1334-1342) che da buon cistercense
costruì una residenza che riflette tutta l’austerità dell’ordine
di appartenenza.
Il suo successore Clemente VI (Pierre Roger, 1342-1352;) avrà
altre ambizioni. Il palazzo fu raddoppiato, aggiungendo, al
corpo fatto erigere da Benedetto, due nuove ali e una splendida, anche se massiccia, facciata.
Se per i lavori di architettura il papa si rivolse a maestranze
francesi, al cui vertice vi era l’architetto Pierre Poisson, per la
decorazione parietale volle degli artisti italiani. E se durante
il papato di Benedetto giunse ad Avignone Simone Martini,
sotto quello di Clemente arrivò il viterbese Matteo
Giovannetti, presto nominato pictor pape. Come pittore di
corte, Matteo fu responsabile di continuare la sontuosa decorazione che Clemente aveva ideato per il palazzo, lavorando
anche, dopo la morte del pontefice, per il suo successore
Innocenzo VI (Etienne Aubert, 1352-1362).
Ma chi era questo pittore che in un brevissimo decennio trasformò la severa residenza dei papi in una sontuosa e raffinata corte regale?
Nato a Viterbo verso il 1300, Matteo Giovannetti divenne
priore della chiesa di san Martino nel 1336.
Qualche anno più tardi, nel 1343, giunto ad Avignone in qualità di pictor pape, diede avvio a grandiosi cantieri che decorarono ad affresco il nuovo palazzo dei papi.
In ogni modo, pochissimi sono i documenti che lo riguardano. Le fonti ci forniscono un termine ante quem, il 1322, quando è citato in una lettera dei papi di Avignone in relazione a
un canonicato presso la chiesa di san Luca a Viterbo, e un post
quem, il 1369, quando “Matheo de Viterbio, archipresbytero
eccl. Vercellen” compare in una lettera di Urbano V, inviata
da Montefiascone.
Ma il primo documento noto in cui è accompagnato dalla
qualifica di pittore risale al 22 settembre 1343, quando il maestro compare in un pagamento relativo all’acquisto di colori,
forse per la cosiddetta camera della Guardaroba nella torre
omonima del palazzo dei papi di Avignone. In uno successivo, datato 17 dicembre 1348, infine, la qualifica di pictor papae
accompagna quella di arciprete di Vercelli, a conferma dello
stato ecclesiastico del pittore e della sua condizione eminente tra gli artisti attivi presso la corte pontificia.
Il tempo del ricordo - 12
Nulla invece sappiamo della sua formazione e delle opere
eventualmente realizzate nella città di origine, Viterbo. Qui,
oltre a un lacerto di affresco con S. Giovanni Battista nel presbiterio di San Francesco, l’eco più forte dei suoi modi si
ritrova in un Angelo e in una Crocifissione e santi rispettivamente nella casa parrocchiale e nella chiesa di Santa Maria
Nuova. A parte l’Apparizione di Cristo a una santa nella chiesa
di Santa Cristina a Bolsena, le poche opere da mettere in relazione con l’attività di Giovannetti in questa regione sono
alcuni affreschi orvietani in San Giovenale e un San Guglielmo
di Aquitania in San Lorenzo in Arari.
Sebbene non ci sia pieno accordo nel mettere in relazione il
citato documento del 22 settembre 1343, “pro pingenda guardarauba pape per mag. Matheum Iohoti de Viterbio”, con la decorazione della cosiddetta camera della Guardaroba (o del
Cervo, o da letto) ad Avignone, il gusto che in questo
ambiente prevale è quello di un nuovo sentimento della
natura, aperto all’osservazione della realtà e alla sua attenta
riproduzione in pittura.
Si tratta di una sensibilità tutta italiana che, oltre a trovare
significativi precedenti in campo letterario, e petrarchesco in
particolare, matura ad Avignone sulla scia del soggiorno di
Simone Martini e, ancor prima, del Maestro del Codice di
San Giorgio.
È a partire dal 1344 che i documenti conservati indicano il
pittore, a capo di una nutrita e composita bottega, nel ruolo
di vero e proprio sovrintendente alla decorazione delle fabbriche papali, sia ad Avignone, sia nella vicina Villeneuvelès-Avignon, dove fu attivo al servizio del cardinale
Napoleone Orsini (1346).
Tra il 1344 e il 1345 il Giovannetti eseguì, nel palazzo di
Avignone, la decorazione della cappella di San Michele1,
all’ultimo piano della torre della Guardaroba, di quella di
San Marziale (o “capella Tinelli magni” o “Magne Aulae”), e
di quella di San Giovanni, saldate al pittore il 3 gennaio 1346.
Ma il lavoro di Giovannetti in Francia non fu limitato solo ad
Avignone. Clemente lo inviò presso l’abbazia di La ChaiseDieu, vicino Le Puy, in quella stessa comunità dove era stato
prima di diventare papa, e, è ormai certo, a Villeneuve-lèsAvignon, per dipingere la cappella del monastero dei certosini che Innocenzo aveva fondato sulla riva destra del
Rodano, di fronte alla città papale.
La maggior parte dei dipinti di Matteo ad Avignone sono
andati perduti ma quello che rimane, ovvero la cappella di
San Marziale e quella di San Giovanni, nonché la volta della
Sala dell’Udienza nel palazzo papale e la cappella del monastero di Villeneuve-lès-Avignon, dimostrano la sua indiscutibile originalità e il suo personale contributo alla pittura del
trecento e alla diffusione del gotico internazionale.
La cappella di San Marziale fu dipinta tra il 1344 e il 1345 con
scene della vita del santo, evangelizzatore dell’Aquitania e
presunto discepolo di Cristo: fu concepita forse dallo stesso
papa Clemente VI come esempio e campione locale di quell’apostolato che poteva dare legittimazione alla nuova sede
della Chiesa e piena potestà ai pontefici che vi risiedevano.
Gli episodi della vicenda terrena di Marziale dalla Predica di
Cristo alla presenza del santo fino al suo trapasso e ai miracoli
Episodio della vita di San Marziale
post mortem, si snodano sulla volta e lungo le pareti in una
ventina di scene contrassegnate da lettere alfabetiche che ne
scandiscono didatticamente la successione e ne facilitano la
lettura.
Lo stile di questo complesso, primo testo certo dei modi del
pittore, mostra nelle scene d’interno una sicura capacità di
definizione dello spazio che si fa concreto e abitabile, mentre
si colora e si arricchisce negli esterni di notazioni naturali e
di un vivido senso dell’osservazione del vero. Questo gusto
aperto alla rappresentazione del dato naturale informa anche
le figure, colte sia nei loro atteggiamenti e gesti quotidiani,
sia studiate nei loro tratti individuali secondo una propensione ritrattistica che rimarrà costante anche nelle successive
prove del maestro.
Tra il 1346 e il 1348 Matteo fu impegnato nel cantiere della
cappella di San Giovanni, collocata proprio al di sotto di
quella di San Marziale. Dedicata all’Evangelista e al Battista,
la decorazione riprende un tema iconografico molto diffuso
nel XIV secolo, il cui esempio più noto era quello di San
Giovanni in Laterano a Roma.
1. La decorazione della cappella, di cui rimane la sinopia, illustrava “storie di
angeli delle diverse provincie”, la cui fama era così diffusa e radicata che ancora nel 1406 il re d’Aragona Martino I ne chiedeva delle copie al vescovo di
Lerida.
13 - Il tempo del ricordo
Nella cappella di San Giovanni ritorna la stessa attenzione al
rapporto fra testo e immagine e fu dipinta con molta probabilità negli stessi anni dell’adiacente sala del Concistoro.
Nessun documento supporta in questo caso l’attribuzione
all’artista, i cui modi sono tuttavia riconoscibili accanto a
quelli di alcuni collaboratori forse di origine italiana. La sua
mano, infatti, si distingue nell’intero ciclo, svolto lungo le
pareti con un numero di scene inferiore a quello della cappella di San Marziale e da quel complesso stilisticamente distante per una più pacata articolazione degli spazi architettonici,
per una gamma del colore più variata e tenue, per una più
sentita e attenta osservazione della realtà. Il Giovannetti,
insomma, appare qui a uno stadio di maturazione stilistica
più evoluto, in grado, forse grazie alla conoscenza di opere
francesi, di approfondire l’analisi fisionomica e psicologica
dei personaggi, senza per questo cedere in plasticità nella
costruzione delle figure, costruite con una grazia e una fluidità della linea che raggiunge brani di lirica musicalità nei
panneggi e nella positura stessa dei corpi.
Il 3 aprile 1346 gli vennero pagati i lavori in alcuni deambulatori del palazzo, nella galleria superiore del chiostro, in
varie camere e scale; il 4 dello stesso mese risultava terminata la Madonna, forse dell’Umiltà, dipinta sulla porta che dalla
sala del Gran Tinello portava alla cappella di San Marziale;
per quest’opera (oggi perduta) gli erano stati forniti preziosi
materiali, quali stagnole d’oro e fogli d’argento.
Risalgono al 1353, invece, i pagamenti per la decorazione
della volta della cosiddetta Grande Udienza, voluta da
Clemente VI quale addizione al palazzo più vecchio di
Benedetto XII, per le assemblee del tribunale poi detto della
Sacra Rota. Qui la rappresentazione, oggi nota attraverso le
figure superstiti di Profeti, re e sibille, denota una decisa maturazione dello stile giovannettiano.
Le venti figure dell’Antico Testamento che spiccano nella volta
su un cielo blu carico di stelle sono l’unico resto apprezzabile di un ampio programma iconografico, comprendente in
origine anche un Giudizio universale sulla parete nord e una
Crocifissione, visibile solo in qualche parte della sinopia, tra le
due finestre del muro orientale.
La grafia delle vesti di questi personaggi è tanto sottile e calligrafica quanto saldo e vigoroso risulta l’effetto d’insieme,
amplificato anziché attutito da una gamma cromatica raffinata ed elegante, frutto anche delle suggestioni riportate dall’osservazione delle sculture e delle vetrate che negli stessi
anni si andavano realizzando nel palazzo.
Dopo questa prova, il pittore dovette essere attivo nella vicina Villeneuve-lès-Avignon, nel palazzo di Audoin Aubert,
vescovo di Maguelonne, nonché nella cappella della livrea
cardinalizia di Etienne Aubert, il quale, una volta salito al
soglio pontificio con il nome di Innocenzo VI, deciderà di
inglobare il vecchio ambiente in una nuova certosa fondata
con bolla del 2 giugno 1356.
Sebbene anche in questo caso i documenti tacciano, non è
escluso che la decorazione della cappella non preceda, seppure di poco, la stessa fondazione della certosa. Essa avrebbe così compreso nel suo perimetro un ambiente già intera-
mente decorato con Storie del Battista, esemplate su quelle
analoghe della cappella del palazzo papale. A Villeneuve-lèsAvignon, accanto alle Storie di san Giovanni e ad alcuni pannelli con diaconi, papi e santi in piedi, il pittore realizzò
anche un riquadro con Innocenzo VI che in ginocchio rende
omaggio alla Vergine col Bambino. Ovunque, prevale immediato l’interesse per la descrittività e la narrazione, calata più
che mai in un ambiente indagato con rigore nelle sue leggi
spaziali e prospettiche.
Nessuna opera successiva a questa impresa rimane a illuminare i lunghi anni che separano gli affreschi di Villeneuvelès-Avignon dalla morte del pittore. Non c’è traccia infatti dei
lavori che lo videro impegnato dal novembre 1365 al settembre 1366 nella decorazione dell’appartamento Roma nella
nuova ala del palazzo avignonese voluta da Urbano V; né
possiamo ricostruire il carattere stilistico dei cinquantasei
panni di lino con la Vita di san Benedetto, dipinti entro l’aprile 1367 per il collegio benedettino di Montpellier.
Infatti, il 30 aprile 1367 il papa rientrò a Roma e il
Giovannetti dovette seguirlo. Nell’ottobre di quell’anno, egli
è sicuramente in Vaticano dove nel gennaio del 1368 alcuni
documenti lo ricordano attivo in non meglio precisate opere
di pittura.
L’artista morì probabilmente a Roma tra il 1369 e il 1370,
anno in cui i documenti della corte, ritornata ad Avignone,
non lo citano più.
Scoperto tardi dalla critica, Matteo Giovannetti fu l’interprete in Francia delle grandi novità pittoriche toscane, conosciute probabilmente tra Orvieto e Assisi, cantieri che l’artista
dovette in qualche modo aver frequentato. Nella sua arte,
che si distingue per le grandi doti di ritrattista, per il suo
gusto per il naturalismo e la capacità di giocare con sapiente
regia gli spazi scenici, sono vive ma mai retoriche sia le suggestioni di Simone Martini, suo predecessore nella corte avignonese, sia di Ambrogio Lorenzetti, la cui capacità plastica
viene brillantemente tradotta negli audaci scorci prospettici
nonché nei raffinati trompe-l’œil.
CONSUELO LOLLOBRIGIDA, specializzata in Storia dell’Arte Moderna a Roma, è
dottore di ricerca in “Strumenti e Metodi per
la Storia dell’Arte” con una tesi sulle donne
artiste nella Roma Barocca. Professore a contratto di “Pedagogia e Didattica dei Beni
Culturali” presso la Facoltà di Lettere
dell’Università “Sapienza” di Roma. Si è
specializzata in restauro dei dipinti e in Beni
Culturali della Chiesa presso la Pontificia
Univ. Gregoriana. Ha superato lo stage di
Specializzazione presso la Macro, per la quale ha ideato e organizzato
laboratori didattici e creativi. Ha collaborato alla schedatura di numerose collezioni d'arte, ha curato la catalogazione di alcune opere del patrimonio del Polo Museale Romano. Nel 1994 ha fondato Palladio specializzandosi nel campo della Formazione e progettando interventi in
ambito artistico, culturale e psicologico. Nel 2000 ha conseguito l’abilitazione di guida turistica.
Il tempo dipinto - 14
LA VECCHIA: “IL RITRATTO DI SUA MADRE”
di Gismondo
Giorgione, La vecchia, olio su
tela, 68x59 1506?, Venezia,
Gallerie dell’Accademia
La Vecchia di Giorgione, esposta nelle Gallerie
dell’Accademia a Venezia, è un ritratto davvero unico tra
quelli del suo tempo: emana un senso di profonda umanità
utilizzando i mezzi più semplici.
L’intensa ricchezza pittorica contrasta con l’aspetto serio
della coinvolgente vecchia. Ella indica se stessa, ma sembra
rivolgersi direttamente a chi la guarda. È credibile che dica:
“Col tempo”?
Giorgione non ha dipinto una semplice allegoria, ma piuttosto un realistico ed efficace ritratto di un’anziana.
Ciò che colpisce in questo capolavoro è l’incertezza tra la vulnerabilità e la sfida che animano il volto, una presenza dipinta, provocatoriamente durevole.
Una chiave di lettura dell’origine e del significato di questo
emozionante ritratto può essere trovata nei più antichi inventari, e non tra le più recenti meditazioni erudite di studiosi
che propongono varie interpretazioni su quelle fuorvianti
parole: “Col tempo”.
Il primo inventario è datato intorno al 1569 e registra il ritratto quando si trovava ancora a Palazzo Vendramin, a Santa
Fosca a Venezia, in casa dell’ultimo Gabriele Vendramin:
“retrato della madre di Zorzon de man di Zorzon con suo fornimento depento con l’arma de Chà Vendramin”.
Un inventario più dettagliato, risalente al 1601, fornisce le
dimensioni e descrive il “coperto” su cui è dipinto il ritratto
di un uomo in pelliccia nera: “Un quadro de una Donna Vechia
con le sue soaze de noghera depente, alto quarte cinque e meza et
largo quarte cinque incirca con l’arma Vendramina depenta nelle
soaze, il coperto del detto quadro depento con un’homo con una
veste de pelle negra”.
Intorno al 1650 un ricco mercante di vini, Cristofolo Orsetti,
aveva acquistato il ritratto da Andrea Vendramin, discendente impoverito di Gabriele, e ritroviamo il quadro nella lista
dell’inventario redatto dopo la morte di Orsetti nel 1664:
“Ritratto di Vecchia madre di Zorzon di mano disse dell’istesso
Zorzon”.
Pietro della Vecchia, non semplice imitatore dello stile di
Giorgione ma uomo che si vantava della sua abilità di contraffare le opere del pittore, aveva compilato questa lista. La
sua “vicinanza” con La vecchia in quel tempo ha avuto esiti
drammatici e duraturi sul modo di guardare al quadro da
quel momento in poi.
Nel 1680, un nuovo inventario fu stilato per la collezione dei
figli di Orsetti, Giovanni Batista e Salvatore, dallo storico e
pittore Marco Boschini e dal restauratore Giovanni Batista
Rossi, dove si legge: “Quadro con Vecchia che tiene una carta in
mano”. Notiamo l’apparire di un piccolo ma fondamentale
dettaglio. È la prima volta che si parla del foglietto di carta
nelle mani dell’anziana donna. Ma il cartiglio non è affatto
tenuto in mano bensì dipinto in maniera grezza sul braccio e
si nota qualcosa di poco verosimile dietro le dita.
Dall’attenta osservazione degli inventari risulta chiaro che il
foglio con la scritta “Col Tempo” viene menzionato per la
prima volta nel 1680, poco dopo che il famigerato Pietro
Della Vecchia aveva avuto “contatti” con La Vecchia. Nel 1675
un falso autoritratto di Giorgione eseguito da Della Vecchia
era stato offerto dal pittore e mercante d’arte Francesco
Fontana al Cardinale Leopoldo de’ Medici. A Marco
Boschini, in funzione di agente del Cardinale, fu chiesto di
esaminare il ritratto ed egli non ebbe nessuna difficoltà ad
identificarlo come lavoro di Della Vecchia. In una lettera al
Cardinale, Boschini decrive Della Vecchia come la “sima di
Zorzon” (scimmia di Giorgione) e parla con ammirazione delle
15 - Il tempo dipinto
sue imitazioni. Nel raccontare di come Della Vecchia avesse
riso e ammesso di averlo fatto con le sue mani, Boschini prosegue scrivendo: “[…] per imitare quel singolare auttore come in
tal maniera veramente il detto Vecchia ha fatto moltissime cose che
dano da pensare et anco l’a inaganati molti […].1
Nel 1681, all’interno dell’ultimo inventario tra quelli presi in
considerazione, il ritratto compare in una lista di dipinti
veneziani in vendita inviata ad Apollonio Bassetti, segretario
di Cosimo III, dall’Ambasciatore toscano Matteo del Teglia
come: “il retratto di una vecchia di mano di Giorgione che tiene
una carta in mano et è sua madre”.
Il cartiglio assume una tale rilevanza che non può essere
ignorato da chiunque voglia descrivere il quadro; e così è
ancora ai giorni nostri.
Questa vivida rappresentazione dell’anziana si è ridotta ad
una semplicistica allegoria, a causa dell’l’aggiunta delle
parole “Col Tempo”; presumibilmente un artista limitato
come Pietro Della Vecchia, nel suo incerto stile, ha sentito la
necessità moralistica di attribuire un significato “alto” al passare del tempo, il quale invece viene reso così esemplarmente “umano” attraverso la rappresentazione del viso rugoso
della donna.
Nonostante l’aggiunta del cartiglio, l’inventario del 1681
continua la tradizione che descriveva questo quadro di
Giorgione quale ritratto di sua madre. In un documento
recentemente scoperto nell’Archivio di Stato di Venezia dalla
Professoressa Renata Segre, datato 14 marzo 1511, una lista
degli oggetti appartenuti a Giorgione da Castelfranco, vi è un
riferimento alla madre: “Alessandra, vedova del padre del
pittore Giovanni Gasparini (Barbarelli)”.
Se dobbiamo credere ai primi inventari, e non vi è ragione
per dubitarne, allora La Vecchia cattura il momento nel quale
una donna che invecchia, dipinta dal dotatissimo figlio,
viene immortalata. Non contenta di stare semplicemente
seduta impassibile, Alessandra decide di indicare se stessa,
sfidando lo sguardo di chi la osserva; potremmo immaginare di ascoltare la sua voce mentre ci conferma: “Guardate, sono
io la madre di questo sorprendente giovinetto!”.
A causa delle alterazioni apportate a questo eccezionale
ritratto più di trecento anni fa, tutta la critica seguente si è
concentrata sulle parole “Col Tempo”, ignorando quanto gli
inventari persistentemente dichiarano: “retrato della madre di
Zorzon de man di Zorzon”.
Sebbene il dipinto parli della “transitorietà della bellezza” o
della “temporalità della materia” e possa essere guardato
come allegoria della vanità, per prima cosa e principalmente,
questo è un ritratto di Giorgione a sua madre. Solo nel
momento in cui la compromettente iscrizione viene rimossa
il ritratto può essere finalmente guardato per ciò che è: una
evidente riflessione sulla vita e il vivere. Inoltre, un quadro è
un oggetto fisico che preserva un’immagine nel tempo…
nonostante il passare del tempo. I ricchi pigmenti della pittura ad olio trascendono del tutto la trita iscrizione “Col Tempo”
restituendoci l’intensità intima e fugace dello sguardo di
un’orgogliosa madre ammiccante al figlio che sta ritraendo
proprio la sua immagine, in quel momento e… per sempre.
Bibliografia:
Giorgione a Venezia. Gallerie dell’Accademia, Venezia (Catalogo della mostra)
1978.
Bernard Aikema, Pietro della Vecchia and the Heritage of the Renaissance in
Venice, Firenze, 1990.
Leonardo & Venice. Palazzo Grassi, Venezia (Catalogo della mostra) 1992.
Jaynie Anderson, Giorgione: the painter of “poetic brevity”, Flammarion, 1997.
Giorgione. Myth and Enigma. Kunsthistorische Museum, Vienna (Catalogo
della mostra) 2004.
Enrico Maria Dal Pozzolo, Il fantasma di Giorgione, ZeL Edizioni, 2011.
1. L. e U. Procacci (a cura di), Il Carteggio di Marco Boschini con il
Cardinale Leopoldo de’ Medici, in Saggi e memorie di storia dell’arte,
IV. p.107, Venezia, Neri Pozza, 1965.
Elaborazione grafica in cui è stato eliminato il cartiglio
GISMONDO, è il nome dietro il
quale si cela l’innovativo studioso di Giorgione. Gismondo è un
personaggio de Gli Asolani di
Pietro Bembo: suona il liuto,
dipinge ritratti e parla d’amore.
Potrebbe trattarsi di Giorgione
stesso?
Chi è incuriosito può visitare il
sito www.zorzon500.com, dove
viene proposta una nuova radicale idea sull’enigmatico pittore.
Lo studio cerca di ribaltare le
innumerevoli voci critiche sull’opera del grande artista rinascimentale che tendono a ridurre il
numero delle opere e il valore di Giorgione.
Il tempo dipinto - 16
I RITRATTI COME STORIA
di Tomaso Montanari
“… non ho voglia di sottopormi alla flemma di Velázquez, né di vedermi
mentre invecchio.”
Filippo IV di Spagna
Per trovare, nella storia dell’arte moderna, un rapporto tra
artista e mecenate altrettanto importante e insieme altrettanto misterioso di quello che legò, per quasi quarant’anni,
Diego Velázquez (1599-1660) a Filippo IV di Spagna (16051665) bisogna forse risalire a quello che congiunse Donatello
e Cosimo il Vecchio. Ma se quest’ultima, profondissima intesa produsse opere di ogni genere ad eccezione dei ritratti, il
nesso di cui qui ci occupiamo si risolse quasi del tutto in una
struggente catena di ritratti.
imperatori bizantini: un paradosso che non è fra gli ultimi
motivi del fascino di Velázquez, capace di cogliere l’essenza
dell’individuo non nel movimento, ma nell’immobilità), al
Filippo IV in vesti di caccia (un’immagine di eleganza snobistica che ci appare straordinariamente moderna).
Diego Velázquez, Filippo IV a cavallo, 1631-1636, olio su tela 303x317, Madrid,
Museo del Prado
Diego Velázquez, Filippo IV in armatura (a 20-22 anni), 1626-1628, olio su
tela 57x44 Madrid, Museo del Prado
Questa meravigliosa serie congiunge il Filippo IV in armatura
(un quadro in cui rinasce la sovrumana capacità tizianesca di
conciliare in un ritratto l’estrema sensualità dei valori visivi
e una acutezza introspettiva che rasenta la crudeltà) al Filippo
IV a cavallo (dove un grado estremo di naturalismo si coniuga con un iconismo che evoca quello delle immagini degli
Il Filippo IV a Fraga fu dipinto nel momento più buio del
regno, quando la Catalogna in rivolta sembrava prossima a
cadere nelle mani della Francia, e il sovrano prese personalmente la testa delle truppe. A dispetto di tutto questo, il
dipinto non mostra un carattere trionfale o marziale. Filippo
stringe, sì, il bastone del comando supremo, ma ha il cappello in mano, quasi un saluto galante alla sua amatissima regina, ed ha un volto così pallido, stanco e triste da rappresentare assai meglio l’irreversibile crisi della Spagna che non la
gioia per l’effimera vittoria.
Fu forse per questo motivo che, dopo il ritratto di Fraga, per
molti anni il re di Spagna non posò per il suo pittore.
Nell’estate del 1652, una religiosa con cui Filippo intratteneva una fitta corrispondenza domandò al re di inviarle immagini recenti dei vari membri della famiglia reale, la risposta
fu telegrafica, ma per più versi memorabile: «Non c’è il mio
ritratto, perché da nove anni non se ne è fatti e io non ho
voglia di sottopormi alla flemma di Velázquez, né di vedermi mentre invecchio». Non sappiamo niente di altrettanto
diretto ed intimo sui rapporti tra Carlo I e Van Dyck, o circa
17 - Il tempo dipinto
Diego Velázquez, Filippo IV a Fraga, 1644, olio su tela 129,9x9,4, New York, The
Frick Collection
quelli, pur documentatissimi, che unirono Urbano VIII e
Bernini. Più in generale, su nessun altro legame coevo tra
monarca e ritrattista ci è dato scendere così in profondità, né
abbiamo altri documenti che ci svelino con simile chiarezza i
sentimenti più genuini di un grande committente dell’età
barocca verso il genere del ritratto. La seconda parte della
frase è particolarmente toccante. Filippo IV non guardava al
ritratto solo in chiave di celebrazione pubblica, ma prendeva
molto sul serio la pericolosa magia del suo pittore: confessando di temere lo specchio naturalistico che Velázquez gli
poneva di fronte, egli svela una prospettiva esistenziale e
personalissima che lo avvicina straordinariamente alla sensibilità moderna.
Inoltre apprendiamo che il re non se la sentiva più di affrontare la lentezza snervante dell’artista, noto per imporre ai
suoi modelli la più assoluta immobilità (al contrario, ad
esempio, di un Bernini), in lunghe sessioni di posa.
Ma due o tre anni dopo aver scritto la lettera, Filippo dovette cedere alla ragion di Stato, e Velázquez lo dipinse in un
memorabile ritratto a mezza figura. Dal fondo nero della tela
del Prado ci guarda un viso umanissimo e tristissimo: nessuna insegna regale, nessuna preoccupazione iconografica,
nessuna pietosa finzione nascondono lo smottare della pelle
intorno agli occhi, ormai simili a quelli di un grande pesce
pescato da troppi giorni. Uno scrittore amico dell’artista,
Lázaro Díaz del Valle, scrisse che in queste tela aveva visto
«mucha alma, en carne viva».
Penso che la storia di Las Meninas possa essere iniziata precisamente a questo punto, nel corto circuito provocato dal
ritorno nello studio dell’artista di un Filippo riluttante e
dolente. Dai dialoghi che si dovettero intrecciare mentre
Velázquez dipingeva il ritratto a mezzobusto del re poté scaturire l’idea di un quadro che rappresentasse proprio il ‘terribile’ momento della posa: ancora una volta l’artista si
cimenta dunque con la rappresentazione della genesi di un
ritratto (precisamente un doppio ritratto di re Filippo e della
regina Marianna, come è stato definitivamente accertato), ma
questa volta egli giunge ad immaginarla non con gli occhi
dell’autore, ma con quelli del soggetto. In uno scambio mirabile, Velázquez presta le sue mani a Filippo perché venga fermata sulla tela la situazione secondo il suo punto di vista di
modello renitente. Dovremmo vedere un ritratto del re, ma
invece contempliamo la sua genesi, osservando il pittore al
lavoro, e tutta la ‘macchina’ che dovrebbe alleviare la noia
dell’augusto modello: i cortigiani, i nani, il cane e perfino l’amatissima figlia con e le sue meninas. Lentamente comprendiamo che l’angoscia del re, la sua noia, la sua insofferenza
verso la flemma di Velázquez sono il vero spettacolo che
(grazie all’invenzione strepitosa di porre fuori dall’opera
stessa il suo fuoco concettuale) si squaderna sotto gli occhi di
tutti gli attori del quadro. Non esiste un documento più alto
che illustri ed eterni il legame che può congiungere un artista al suo signore: ed è un documento che ci ricorda che bisognerebbe provare a spiegare la committenza con l’arte, almeno quanto si suole ormai spiegare l’arte con la committenza.
Potremmo chiederci se Las Meninas sarebbe mai esistito se
Filippo IV non avesse avuto un temperamento malinconico,
e se non avesse elaborato un’acuta, rarissima consapevolezza dello ‘strappo’ esistenziale provocato dalla creazione di
un ritratto. Ma allora dovremmo anche chiederci se lo stesso
Filippo sarebbe mai arrivato a quella consapevolezza senza
la lunga frequentazione delle profonde riflessioni pittoriche
di Velázquez.
TOMASO MONTANARI, è professore associato di “Storia
dell’arte moderna” presso l'Università degli studi di Napoli
“Federico II”, sezione di “Storia del patrimonio culturale”.
Nato a Firenze nel 1971, si è formato alla Scuola Normale di
Pisa. Si è sempre occupato della
storia dell’arte romana del XVII
secolo. Nel 2012 ha ricevuto il
Premio Giorgio Bassani, nel 2013
l'onorificenza di Commendatore
dell'Ordine al Merito della
Repubblica «per il suo impegno a
difesa del nostro patrimonio».
Tra le sue pubblicazioni: A cosa
serve Michelangelo? (Einaudi
2011), La madre dei Caravaggio è
sempre incinta (Skira 2012), Il Barocco (Einaudi 2012), Le pietre e
il popolo, (minimum fax 2013).
È appena uscito, per i tipi di Einaudi, il suo ultimo libro che
interpreta globalmente il maggior artista del Seicento italiano,
La libertà di Bernini.
Il tempo dipinto - 18
DUE DONNE: L’ARTE DEL LORO TEMPO
di Luisella Romeo
Era l’anno 1898 quando a Venezia la duchessa Felicita
Bevilacqua La Masa decise di donare la Ca’ Pesaro al
Comune della città perché ne diventasse il luogo “a profitto
specie di giovani artisti ai quali è spesso interdetto l'ingresso
nelle grandi mostre”.
Nello stesso anno, dall’altra parte dell’oceano Atlantico, a
New York, nasceva Peggy Guggenheim: cinquant’anni dopo
avrebbe portato la sua celebre collezione in un palazzo settecentesco a Venezia, dove è ancora oggi ammirata da migliaia
di visitatori all’anno.
Questo che segue è un affettuoso “omaggio” a due donne che
credevano molto nella città di Venezia e nella sua vocazione
spazio-temporale: il luogo dove l’arte del contemporaneo
diventa storia.
Felicita era nata a Verona nel 1822, nella località di
Bevilacqua. Partecipò ai moti rivoluzionari del ’48 per la liberazione dell’Italia e fondò un ospedale per i feriti italiani. Il
marito, Giuseppe La Masa, veniva da Palermo e dopo aver
militato nelle guerre di indipendenza, si arruolò nella spedizione dei Mille, servendo poi come generale nell’esercito
regio.
Quando entriamo a Ca’ Pesaro , sullo scalone che porta al
piano nobile e alle sale d’esposizione, il busto in marmo di
Felicita ci dà il benvenuto. Un volto serio, composto, lo scialle pesante annodato sul petto e i capelli raccolti, Felicita ci
ricorda che quando fece testamento (morirà l’anno seguente)
decise che questo maestoso palazzo sul Canal Grande progettato da Baldassare Longhena nella seconda metà del XVII
secolo, frutto dell’ambizione della famiglia Pesaro e soprattutto del Doge Giovanni sepolto nella chiesa dei Frari, diventasse uno spazio per l’arte. Ad una condizione: a Venezia
aveva aperto due anni prima (1897) la Biennale d’Arte
Internazionale e già nelle prime due edizioni, le scelte erano
cadute su artisti noti, confermati, protetti dalle grandi istituzioni; ebbene, a palazzo Pesaro sarebbero stati ospitati gli
artisti negletti, esordienti, non compresi e non tutelati. Se
questa clausola non fosse stata rispettata, entro dieci anni, il
palazzo sarebbe stato tolto al Comune di Venezia e restituito
ai suoi originari proprietari.
Come si può immaginare, la volontà di Felicita venne disattesa per un decennio (fino al 1908), quando, sotto la minaccia
di perdere gli spazi, il Comune finalmente aprì ai giovani. Fu
grazie alla volontà e alla capacità del direttore, Nino
Barbantini, che ebbe inizio il movimento dei capesarini e
nelle sale affrescate e stuccate del palazzo cominciarono a
lavorare Guido Cadorin, Felice Casorati, Pio Semeghini,
Gino Rossi e Arturo Martini, per citare alcuni tra i protagonisti più noti.
Mi piace aggirarmi in questa collezione imperfetta, lacunosa,
il museo delle “occasioni perdute”, come spesso viene raccontata la galleria di arte moderna di Ca’ Pesaro.
Lacunosa perché mancano artisti capisaldi della storia dell’arte ottocentesca e del primo Novecento, ma … è anche
vero che, grazie a varie donazioni più tarde, possiamo oggi
ammirare molti esempi di arte pittorica della fine del XIX
secolo in Italia (da non perdere Ippolito Caffi e Guglielmo
Ciardi), e poi ancora una splendida serie di opere “sfuggenti” di Medardo Rosso, le sculture “svuotate” di Adolf Wildt e
le collezioni di illuminati galleristi che operarono nell’epoca
fascista di Giuseppe Bottai. Se infine cercate l’arte di pittori
operanti a Venezia nel secondo dopoguerra e negli anni ’60,
troverete il piacere di vagare tra le opere di Vedova,
Santomaso, e di ammirare la famosa Partigiana veneta di
Leoncillo. Non mancano “pezzi forti”: da Klimt a Chagall e
Bonnard, ma forse li conoscete già?
Felice Casorati, Le Signorine, 1912, olio su tela 197x190, Venezia, Ca’ Pesaro
A fare da contraltare alla Galleria di Ca’ Pesaro, quasi all’opposta estremità del Canal Grande, troviamo la collezione di
Peggy Guggenheim, a dir poco perfetta. Come in un libro di
storia dell’arte le pagine, anzi, le stanze si aprono una dopo
l’altra, senza soluzione di continuità, e l’arte moderna europea ed americana viene raccontata senza strappi o vuoti da
colmare.
19 - Il tempo dipinto
Peggy Guggenheim si trasferì in Europa all’età di 23 anni,
lasciando New York: era il 1921. Entrò da subito in contatto
con il mondo delle avanguardie dell’arte europea e ne divenne una delle mecenati più importanti. Famiglia di origini
ebraiche dalla leggendaria ricchezza, i Guggenheim di New
York pare possedessero più del 75% del rame, piombo e
argento esistente sulla Terra all’inizio della prima guerra
mondiale. Nelle sue memorie, la giovane ereditiera ci racconta però che il padre, che morirà nel naufragio del Titanic, si
era messo in proprio e questo aveva significato dire addio ad
un’enorme fortuna. Tuttavia Peggy si impegnò per tutta la
vita a finanziare gli artisti della sua epoca, “acquistando un
quadro al giorno” nei primi anni della seconda guerra mondiale. Quando decise di abbandonare la Francia, occupata
dai nazisti, i suoi quadri salparono per New York, dove lei
stessa tornerà.
Spesso immagino il viaggio attraverso l’oceano dei quadri di
Picasso, Braque, Kandisky, Chagall, Magritte, Ernst, Tanguy,
Malevic, Metzinger, Delaunay, Dalì e gli altri!
Collezionista di opere d’arte e di esseri umani, come la definì
Gore Vidal, amica, amante di molti artisti e intellettuali,
moglie di Laurence Vail e di Max Ernst, Peggy fu aiutata da
bravi consiglieri, quali Marcel Duchamp, primo fra tutti, ma
anche la moglie di Theo van Doesburg e poi Max Ernst,
Andrè Breton e Piet Mondrian.
Quando tornò negli Stati Uniti, New York era già la città di
grandi musei d’arte moderna, dal Whitney al Moma e, ovviamente della fondazione dello zio Solomon Guggenheim.
Tuttavia Peggy si inserì nel sistema dell’arte aprendo una
galleria, The Art of this Century (dal 1942 al 1947), quasi a
voler essere mercante e mecenate allo stesso tempo, ma
soprattutto farsi scopritrice di talenti e sicuramente capace di
determinare le tendenze dominanti nell’arte contemporanea
che poi nei musei avrebbero incontrato la loro consacrazione.
Non fu l’unica: nel 1945 aprì a New York la galleria di Sam
Kootz e Sidney Janis e l’anno successivo quella di Betty
Parsons.
In quegli anni, quando l’Europa faticava nella difficile ripresa dopo la devastante guerra, la galleria di Peggy mostrò
all’America l’arte europea e fece da volano, anzi si dimostrò
essenziale per la nascita dell’espressionismo americano. Nel
1943 il grande incontro con un bravo “falegname”, di nome
Jackson Pollock, spinse Peggy a finanziarne l’attività per
anni. E poi artisti come Baziotes, Rothko, Motherwell e altri
trovarono in quell’eccentrica signora americana, entusiasta
dell’arte contemporanea, un modo per farsi conoscere anche
in Europa. Già, perché nel 1947 Peggy abbandonò New York
e con la sua collezione tornò in quella città in cui è terribilmente facile perdersi e dove “nulla è più stancante (…) perché bisogna attraversare innumerevoli ponti e salire migliaia
di gradini”: Venezia.
A Venezia acquistò il palazzo, mai completato, che era stato
della famiglia Venier, con le sue diciotto teste di leone in pietra d’Istria affacciate sul Canal Grande. Lì andò a vivere e lì
espose la sua collezione che apriva al pubblico tre volte alla
settimana. Il museo Correr, in piazza San Marco, grazie a
Peggy Guggenheim divenne inoltre il primo spazio espositivo per l’arte di Jackson Pollock in tutta Europa.
Quando Peggy raccontava dell’acquisto del palazzo, sottolineava che aveva il vantaggio di non essere un monumento
nazionale e ha scritto: “A Venezia tali monumenti sono sacri e
non possono essere minimamente modificati: per questo era
perfetto per i miei quadri.” Insomma, per la sua collezione ci
voleva un’opera aperta, svincolata e che fosse considerata tale.
Jackson Pollock, Direction, 1945, olio su tela 80,6x55,7
Venezia, Collezione Peggy Guggenheim
A conclusione di questo breve racconto, vorrei lasciarvi con
un invito: la lettura della Convenzione quadro del Consiglio
d'Europa sul valore del patrimonio culturale per la società
(Convenzione di Faro, 2005). Qui, dalla domanda che a lungo
ci si è posti, “come preservare il patrimonio e secondo quale
procedura?”, si propone di passare ad un altro quesito, al
quale sia Felicita sia Peggy diedero le loro risposte, ossia:
“Perché e per chi valorizzarlo?”
Bibliografia
Peggy Guggenheim, Una vita per l’arte, Rizzoli Editore, Milano1982.
Francesco Poli, Il sistema dell’arte contemporanea, Editori Laterza, Bari 1999.
Venezia: gli anni di Ca’ Pesaro 1908-1920, catalogo mostra 1988, Ala Napoleonica
e Museo Correr, Venezia, Mazzotta Editore, Milano 1987
Convenzione di Faro, www.unfaropervenezia.eu/faro-1
LUISELLA ROMEO, ha studiato
Lingue e Letterature Straniere
all'Università di Venezia laureandosi in Lingua e Letteratura nord-americana nel 1992 e specializzandosi
alla University of California at
Berkeley.
Appassionata di arte contemporanea e di fotografia, svolge la professione di guida turistica abilitata per
la città di Venezia dal 2000.
Contemporanea - 20
IL TEMPO DI CARTA
di Alberto Orioli
“Le parole del mondo anche se incomprensibili, quando si impastano, si sovrappongono e si fondono le une con le altre diventano una grammatica di sguardi, un linguaggio per gli occhi. Un significato ritorna: a volte un grido, a volte un sussurro.”
Presentazione a Vite di Carta, libro/catalogo delle creazioni artistiche di Alberto Orioli, 2012
Old economy 2, 2011, tavola 40 x 40, tecnica mista con rondelle e vite, (giornali arabi)
Che c’è di nuovo? 1, 2011, (particolare) tavola 40 x 40,
tecnica mista con viti (giornali inglesi, americani, cinesi, russi, arabi)
21 - Contemporanea
Scoop 1, 2011, tavola 40 x 40,
tecnica mista con viti e borchia di serratura (giornali arabi e giapponesi)
Il tempo di carta
Non c’è solo la realtà virtuale, non c’è solo la visione in 3D.
Ci sono tutte le parole, di tutte le lingue del mondo che,
stampate sulla carta, aiutano a immaginare il più antico e
unico linguaggio dell'umanità, dove l'analogia e la metafora
raccontano la vita più di ogni fedeltà digitale.
È questo il senso del lavoro che mi vede impegnato in questa
fase come “giornalista con altri supporti”.
Ho scelto di utilizzare, su tavole e in forma di collage, la carta
stampata dei giornali quotidiani di tutto il mondo per celebrarne la bellezza, in un certo senso il “miracolo” che unisce
contenuti, grafica, linguaggi e velocità di esecuzione.
È una specie di ribellione a chi annuncia la morte della carta
e dimentica che con la carta, oggetto con un curriculum
almeno bimillenario, è cresciuta la civiltà dell’uomo. Nella
carta c’è il tempo lungo, lunghissimo dell’evoluzione del
genere umano ma c’è, oggi, il tempo corto, cortissimo della
notizia.
Il linguaggio scritto e razionalizzato nella scatola fisica rappresentata dal layout di una pagina assume un fascino in sé,
trasmette emozione in sé, puro significante (anche senza
bisogno del suo significato), in grado di veicolare sensazioni
a chi non conosca la lingua. La realtà digitale e virtuale
rimanda immagini e idee non modificabili, non trasformabili attraverso la proprio sensibilità. Il gioco fatto con testi e
titoli della carta stampata di tutto il mondo invece consente
quella possibilità di rielaborazione e di perenne reinvenzione soggettiva.
Ma qual è dunque il tempo reale? È quello della notizia mentre si fa, che, per assurdo, ci porterà a una comunicazione nel
segno del paradosso di Achille e la tartaruga con l’istante in
gara con sé stesso in un disperato tentativo di superarsi? Il
tempo reale induce azioni istantanee, comportamenti definiti e iperrapidi su ciò che avverrà, in un’ansia di anticipare il
futuro in un eterno presente, esso stesso difficile da cogliere
e da definire.
È l’errore che ha portato alla grande crisi globale della finanza quando l’uomo ha scoperto la dittatura dell’algoritmo,
unico decisore algebrico senza facoltà di provare emozioni, e
delle scelte sull’allocazione del denaro. Centrare quale sia il
comportamento da tenere oggi in vista dell’aspettativa dei
comportamenti attesi domani è il senso della speculazione
che ha imposto il suo concetto di tempo. Lo chiamiamo
tempo reale ma vive dell’irrealtà di un universo matematico
e probabilistico che, quando riesce nel suo scopo, diventa
specchio di un’idea mediana di umanità; ma quando non riesce si limita a riflettere un sentire di robot, nulla a che fare
con un’idea anche basilare di umanità.
Il “tempo web”, il tempo “social” è un unico incessante clic.
Solo l’infinita sequenza di punti disegna alla fine un pensiero compiuto, un’emozione consapevole.
A me piace pensare che nell’affidarsi all’emozione irrazionale e antica dei titoli di giornale sovrapposti, uniti, mescolati
si colga di più il senso profondo della parola, di quello sforzo enorme che accompagna l’uomo per definire in modo
sempre più preciso e riconoscibile gli atti, le cose, le emozioni che, alla fine, si sommano nell’idea stessa della vita.
È questo il tempo reale. Un non-tempo che diventa solo la
variabile utile a capire quale sia stata l’ora x in cui tutto è
cominciato.
ALBERTO ORIOLI, nato a
Ferrara nel 1962, è giornalista dal
1985. Vice direttore de Il Sole 24
Ore ed editorialista segue da
sempre la “macchina” delle notizie, la confezione tumultuosa del
prodotto quotidiano. Nel tempo
libero si diverte a usare giornali e
notizie “in un altro modo, in un
altro mondo”.
Alcune sue personali: Vite di
Carta (Milano), Menabò (Parole in
3D) (Firenze), Costruzioni di parole (Abano Terme).
Contemporanea - 22
L’ARTE LENTA DI MAURO PULCINELLA:
SISMOGRAFIE EMOZIONALI
di Francesco Bussetti
La sirena operaia, 2010, installazione artistica ambientale (foto Sergio Coppi), in Piazza dei Priori a Narni. Orologio realizzato con spezzoni di elettrodi di grafite (prodotti dalla
SGL Carbon, una delle fabbriche più importanti del territorio, a rischio chiusura) appoggiati su una base di granuli della Bayer. La sirena che si vede è quella che per anni ha segnato il tempo delle giornate degli abitanti di Narni, suonando ad ogni turno degli operai
La biografia di un artista è sempre a rischio di parzialità ed
arbitrarie interpretazioni. Si può provare a raccontare un percorso creativo, sempre in bilico tra passione e curiosità,
seguendo un filo cronologico. In effetti passione, curiosità e
talento si incontrano presto sul campo. Quando si dice:
opportunità. Il nonno materno gestisce una fornace per laterizi: materia prima e strumenti, argilla, forme, forni, sono a
portata di mano. E la mano non tarda a seguire la fantasia e
l’estro. In questa piccola “tuilerie” il gioco del bambino
durante le vacanze estive diventa una palestra della manualità e della creatività. Le forme, embrioni di scultura, venivano infilate nel forno insieme ai mattoni. Allo stesso tempo il
nonno paterno, netturbino a Narni, lo rifornisce di oggetti di
recupero che la società dei consumi non lesina. Da quel
deposito, in effetti un’altra cava, nascono assemblaggi,
nuove forme ed anche un pensiero sull’arte e la pratica creativa. Mauro Pulcinella nipote d’arte? Alle elementari si confronta con il disegno (ed il disegnare) degli altri. È attratto e
ispirato dalle forme e dal segno dei grandi contemporanei
(Modigliani, Giacometti...), inizia a riprodurre le loro opere e
poi, nel pieno del fervore connaturato all’adolescenza, intravede una sua strada e trova nuovi pretesti. Dalla ri-produzione passa presto alla produzione e si cimenta con una personale idea dell’arte privilegiando, come soggetti, persone e
forme umane. Gli viene naturale soffermarsi sulla vicenda
umana nel disagio e nella sventura, sul dramma degli ultimi
come condizione esistenziale, al netto di ideologismi, con
l’attrezzatura della sensibilità. Ecco la funzionalità dei materiali poveri e di recupero (altra cosa di arte povera), narrazioni che confinano con scenografie. Grande attenzione ai fenomeni: tutto è arte se l’occhio e la sensibilità, la cultura, non
sono distratti e puntati sull’esteriorità. Anche residui di plastica che il vento impiglia nei rami degli alberi generano
forme e forniscono emozioni. Quando deforma al calore
buste di plastica e le impiglia su manufatti di ferro e gesso
coprendole di colature di colore, qualcuno azzarda con con-
23 - Contemporanea
Terre Sabine, 2009, installazione artistica ambientale (foto Marco Bruni), i giornali,
le terre sabine e le corde formano una "mappatura" del territorio
vinzione assertiva: “sembra Burri”. Il silenzio copre l’imbarazzo: chi è questo Burri? Poi Alberto Burri diventerà una
idea fissa che talvolta sfiora l’incubo nella ricerca di immagini e descrizioni. Nella sua spontaneità le allusioni al maestro
tifernate saranno a lungo una permanenza. Anche questo
riferimento verrà però superato quando diventa invadente e
limitativo della creatività personale. La ricerca di una strada
propria deve riprendere il suo flusso tra incertezze, innovazioni ed approdi. Coglie l’opportunità di una fortunata esperienza formativa presso l’Olivetti di Ivrea (quando l’Olivetti
era una fabbrica di cultura oltre che di macchine da scrivere)
a contatto con le migliori intelligenze del momento. In diverse città d’Italia partecipa alla creazione di Parchi Robinson
(altri luoghi dedicati alla libera espressione di attività e creatività per i ragazzi) costruendo ancora elementi con materiali di recupero che hanno la capacità originale di aggiungere
forma a caratteri strutturali. Questa attività e la personalità
di Burri resteranno, più o meno consapevolmente, come lievito di una propria attività creativa. Stracci, vernici, terre,
reti, rottami, ne saranno allo stesso tempo motivo e risultato
fino al punto di “sentire” Burri come fonte ma anche come
limite, una specie di padre-padrone. Durante un viaggio in
Sicilia si inoltra nella cave di Cusa e Campobello di Mazara
(ove si trova un famoso quadro realizzato con le polveri liberate dalle attività estrattive). I segni lasciati sul tufo dai dischi
di taglio fanno scattare una molla minimalista che trova fermento e complicità nelle musiche di Philip Glass e del primo
Battiato. Tutto si tiene. Con la frantumazione del materiale
lapideo e la sua polverizzazione si possono ottenere sia
forme che colori, quadri e sculture insieme. È l’arte lenta, così
viene intesa e definita: il tempo produce, modifica, crea,
genera forme riferibili all’arte pura e primordiale priva di
mediazioni culturali. Ancora pretesti dalla natura “mater”: la
stratigrafia geologica, prodotto di un tempo infinito, che si
palesa andando per mare. Le rocce delle Bocche di Bonifacio
gli ricordano i blocchi dei ritagli di carta ammassati nelle
casse degli scarti delle tipografie. Nasce forse da qui, da lontano, quell’idea mai sopita di stratificazione che costituisce
oggi la struttura delle sismografie emozionali. Come in una
continua morra cinese la carta ha (ri)preso ora il posto di polveri e colori. La carta, lasciata alle prese degli agenti atmosfe-
rici rivive, si matura e modifica senza bisogno di nuovi interventi dell’uomo. Il ritmo é naturale, non indotto: arte lenta.
Inserire segni grafici sulla carta é possibile, non necessario.
La pratica con i materiali lo facilita nel rapporto con gli spazi
urbani, con la città intesa come prodotto dell’opera dell’uomo nel tempo lungo, in continua modificazione (evoluzione?). La piazza come laboratorio e luogo privilegiato della
socialità e del coinvolgimento, la piazza casa (comune) della
comunità locale. “Il mare in piazza”, “Una gita a Napoli”,
“La trebbiatura”, “Rocca di luna” (un raggio laser collega la
Rocca con la città antica e con quella moderna industriale),
“Rocca racconta” (meticoloso rilievo fotografico dei segni e
dei “messaggi” lasciati sui muri dagli ospiti dell’antico carcere pontificio: brandelli di umanità vissuta), “Lavori in corso”
(per l’inizio dei lavori di risanamento): memorabili eventi di
arte urbana a grande scala, inconsapevoli répétitions dei grandi allestimenti scenografici in uso nella stessa piazza per l’ingresso dei nuovi Governatori. Lo stesso concetto di installazioni animate dagli attori hanno le scenografie teatrali.
Sempre dentro le vicende urbane è questo il filo di un lungo
percorso che porta, senza soluzione di continuità, fino alle
odierne “sismografie (stratigrafie) emozionali”: una nuova
geniale “pensata” d’artista curioso che osserva il controllore
di un treno locale nell’atto di scrivere, in piedi e senza appoggio, mentre il treno vibra e scarta sugli scambi. Il nostro non
ci pensa due volte e via con un blocco ed una stilografica a
cavallo di un mulo, sulla benna di una motopala, su un trattore agricolo, su ogni cosa che sia in moto in terra, in acqua e
forse presto in aria, ne vedremo delle belle. Nascono segni,
segni di viaggio, intriganti e non privi di senso. Segni d’artista: è lui, Mauro Pulcinella.
Sismografia emozionale, 2013, (particolare)
L’artista durante l’esecuzione della sismografia emozionale a Venezia
Il tempo in poesia - 24
VERTIGINI D’INFINITO
di Nicola Piermartini
L’Infinito
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare.
Giacomo Leopardi
Un Giacomo Leopardi ventunenne quello che compone
L’infinito, il primo della serie degli “Idilli”, nella primavera
del 1819. Quindici endecasillabi sciolti, permeati di musicalità eccelsa. Nella parte iniziale, in particolare: il sentimento,
purissimo, si palesa in melodia dolcissima e incalzante,
profonda e lieve, sognante e suggestiva, intima e universale.
L’indeterminatezza del paesaggio e dei moti dell’anima del
Poeta comunica in maniera cristallina, però, quel senso di
smarrimento, di mistero, di anelito religioso (pur se di religiosità soggettiva), che testimonia la sua spiritualità finissima e annuncia le ansie romantiche.
Non è intento delle considerazioni presenti proporre l’analisi degli aspetti classici e romantici coesistenti nell’anima leopardiana. Certo è che, a parere di chi scrive, questa poesia è
testimonianza di un sentire nuovo, di un approccio, mai rilevato in precedenza, della coscienza con l’“infinitamente
grande”, esterno e interno all’uomo. L’infinito svela le inquietudini della sensibilità accesa di Leopardi, come quelle
dell’Uomo dell’Ottocento e dell’homo tecnologicus del terzo
millennio. Come quelle di ogni essere umano vissuto sulla
Terra. Di segno non molto diverso, seppure impossibili da
decifrare, dovevano essere le ansie, gli interrogativi, gli
“smarrimenti” dei primitivi al cospetto della luna, del sole,
delle stelle, dell’immensità del firmamento. Luna, sole, stelle, costellazioni, che i primi uomini elessero a dei, ad entità
superiori, perché infinitamente lontani, immutabili nel divenire, nell’avvicendarsi delle stagioni, incorruttibili, misteriosi.
Dai punti di vista lessicale e sintattico, Leopardi dà vita ad
un “unicum” variegato e sintetico, tessuto con vocaboli evocativi, trascinati da ondate ritmiche incalzanti nei versi centrali. Straordinarie l’originalità, la razionalità, l’efficacia dell’uso dei segni di interpunzione e di quello degli endecasillabi sciolti, così spontaneo e disinvolto, così lirico, immaginifico e assolutamente realistico nel contempo.
L’idillio si apre con una contrapposizione: l’ermo colle (il
Monte Tabor, presso Recanati) e la siepe sono “cari”, familiari, intimi, balsamici; la quinta della siepe, però, genera immagini e sensazioni non consuete, non conosciute, sconvolgenti, anzi, per certi riguardi. L’immaginazione delinea, seppure
vagamente, spazi “interminati”, silenzi “sovrumani”, quiete
“profondissima”: gli aggettivi pentasillabi (interminati,
profondissima) e quadrisillabo (sovrumani) rendono la
dimensione d’infinito, spaziale e psicologica.
La voce del vento introduce l’infinito: richiama alla mente
epoche trascorse, fa balenare la vertigine dell’eternità, fa
risuonare i rintocchi del presente: sensazioni che si accavallano, si scalzano, scompaiono, riappaiono, confondono, smarriscono. Come le evoluzioni di un caleidoscopio psichico in
trasformazione incessante, interminabile. Intuizioni straordinarie, disarmanti, altissime.
Senza commento, volutamente, i tre versi conclusivi, che
attestano l’effetto balsamico di quelle immagini e sensazioni
nell’anima travagliata del Poeta. Sottolineatura inevitabile
per l’endecasillabo di chiusura, forse il verso più bello, più
musicale, più originale di tutta la poesia italiana.
Come gustare la lettura de “L’infinito”? Come tentare di
interiorizzare appieno il sentimento, che anima la composizione, centellinando ogni dettaglio lessicale, sintattico, filosofico? Fondamentale è ricreare l’ambiente: un luogo appartato e conosciuto, alieno da contaminazioni e distrazioni della
vita quotidiana. Ripercorrendo le esperienze di insegnante,
anche per infondere agli alunni il piacere e l’emozione dell’approccio con la creazione poetica, irrinunciabile è ricreare
l’atmosfera di ogni poesia.
Senza dilungarmi in considerazioni, che potrebbero apparire
stucchevoli, non è possibile riflettere su esperienze dolorose
in un clima di gioia, indagare il trionfo del sole in una giornata grigia, riflettere sugli effetti del vento in un momento di
calma piatta. Interminabile sarebbe la serie degli esempi.
È il segreto per cogliere appieno le particolarità di ogni poesia.
25 - Il tempo in poesia
RICORDI TEMPORALI
Daniela Zanarini
Riccardo Rovere
Si è placata
Autunno
Ancora una volta
in tutta la campagna
arriva il tempo
delle foglie ingiallite,
nunzi leggeri
dell’aria d’autunno
che ritorna.
Si è placata
quest’onda
tumultuosa
che ha eroso
la costa.
Si è placata
ma è scesa la sera.
Contemplo attento
il rinnovarsi infinito
degli antichi colori,
trovando
in ogni angolo
motivi di nuova
meraviglia.
Elba di poesia
Elba di poesia
di vento e d’amore,
di vecchi giornali,
parole e ricordi.
Non è la risacca
del mare
né la luna o il vento
tra gli aghi dei pini
ma l’alito lieve
del tempo
che muove il ricordo
e tutto
rende vivo e presente.
E torna alla mente
quando eri bambino
e correvi felice
e tra l’onde del mare
sulla sabbia dorata
raccoglievi il secchiello
fiducioso del tempo
a venire.
Ora il tempo è venuto,
forse passato
e tu, ostinato
restauri queste mura,
questo scrigno
di vita e d’affetti.
Elba di poesia,
di sabbia e di vento.
E, potente
rinasce
il pensiero di te,
che sempre uguale
e sempre diversa
mi sei
dolce compagna
verso stagioni
sconosciute.
Foto di Marta Pacelli, Arcobaleno, 2013
Inganno il tempo
Inganno il tempo
e la sua folle corsa
correndo dietro
ai mille affanni quotidiani.
E tu, amore mio,
che mi accompagni
in questa sfida
agli altri e a noi stessi,
tu, che come me
tanto ti affanni,
inganni il tempo
giocando a rimpiattino.
Ma quando, muti
noi ci fermeremo,
l’ordito della trama ormai completo,
i numeri della cabala impazziti,
le foglie e le parole al vento sparse,
i nostri stessi volti
ci diranno
l’inesorabil fine dell’inganno.
Quante cose
Scivola via
Quante cose
nel tempo
ho perduto,
insieme agli ultimi
scampoli
di giovinezza!
Scivola via
il tempo annientato,
si sfalda
l’ordinato esagono
della ragnatela.
Ma credimi,
non mi resta
spazio
di rimpianto:
mi appoggio
con forza
al divenire
incerto.
Percorro
muto
la linea
della vita,
scannerizzando
in ogni momento
astratte
sensazioni
di impotenza
ferita.
Il tempo in musica - 26
“TA TA TA TA” 1
di Davide Amodio
Tempo, tempo, tempo!
Leggendo ad alta voce questa parola sentiamo già la musica:
bisillabo, ripetuto tre volte, con una bella voce e con una
dinamica in crescendo, ed ecco che… suona!
Il tempo in musica è un concetto complesso, essenziale, spesso incompreso, ancora più spesso confuso in continui equivoci. Chiariamo un po’ i contorni, mettiamo a fuoco il suo
identikit.
Ogni composizione musicale ha una sua durata, da qualche
secondo a qualche ora (si va da una bagatella di Webern a
un’opera di Wagner), ma non è questo il tempo di cui parliamo, anche se in fondo è anche questo. Ogni composizione
musicale ha insito un incedere interno che ne determina la
sua articolazione, la sua “dizione” che, come nella declamazione teatrale, è il necessario e dunque relativo ed essenziale, per una esecuzione efficace.
Intendo riferirmi a quella fatidica domanda che ogni bravo
interprete si fa prima di studiare un nuovo brano musicale:
quanto è veloce? Oppure, quanto è lento? E come si fa a
quantificare la velocità in musica?
Gli antichi usavano il polso come riferimento (vedi J. Quantz
e il suo trattato Versuch einer Anweisung die Flöte traversiere zu
spielen): avevano stabilito che 80 battiti del cuore al minuto
era l’andamento normale, così la metà, cioè 40 battiti, poteva
indicare un “Largo”, il doppio, 160 battiti, invece poteva
indicare un “Allegro molto” ecc.
Dunque il cuore come strumento di misurazione; ma sappiamo quanto l’effetto delle emozioni modifichi tali battiti nelle
due direzioni. Le pulsazioni sono appunto variabili e a volte
irregolari.
Ma poi (nel XVIII secolo) Winkel, un orologiaio olandese,
studiando una serie di fortunati tentativi a partire da quelli
del grande Galileo, realizzò il Cronometro : una macchina che
con un doppio pendolo, misurava il tempo in musica.
Il meccanismo era, a detta di Francesco Galeazzi che non cita
il suo inventore, un costoso, ingombrante e complicato meccanismo.2
Dopo qualche decennio, nel 1816, Mälzel brevetta una macchina uguale, però con la aggiunta di un battito sonoro. La
sottopone al suo amico Beethoven: è un grande successo!
Il musicista ne è entusiasta, ne diventa involontariamente il
“testimonial” pubblicitario e Mälzel diviene ufficialmente il
suo inventore. Nonostante una causa vinta da Winkel, il reale
inventore, la vicinanza e il sostegno del grande compositore
aiutarono Mälzel a rimanere nella memoria dei posteri come
l’unico inventore (le eterne leggi del marketing!).
Métronome à battements muets d’Étienne Loulié
Beethoven comincia dunque il lavoro noioso e ingrato, non
andrà oltre un dieci per cento, di catalogare tutta la sua mole
di composizioni per abbinare a ciascun movimento di ogni
brano il numero di metronomo corrispondente. Già, perché
quella macchina chiamata così opportunamente Cronometro,
da allora in poi si chiamerà Metronomo, parola dall’etimologia incerta.
Ma cosa accade in seguito? Il metronomo si sviluppa rapidamente; già nella seconda edizione dello stesso Galeazzi, nei
primi dell’800, se ne parla come di una macchina ormai
accessibile a tutti.
27 - Il tempo in musica
Poi da pendolo capovolto oscillante si trasforma verso la fine
degli anni ’70 del XX secolo in macchina elettrica dal pulsare
implacabile e persistente, si rimpicciolisce sempre più sino a
diventare uno dei gadget da telefonino per musicisti.
Mozart scrive sul frontespizio del rondò del quartetto K 298
per flauto, violino, viola e violoncello, al posto dell’ordinario
Allegro o Allegro ma non tanto, la seguente lunga indicazione: Allegretto grazioso, ma non troppo presto, però non troppo adagio, così-così con molto garbo ed espressione.
Anche se il suo umorismo dilagante poteva introdursi dappertutto, come nel suo manoscritto del concerto in La maggiore per violino e orchestra dove scrive pizzigatto invece del
termine pizzicato, Mozart conosceva sufficientemente l’italiano non solo per non sbagliarsi ma anche per fare giochi di
parole a lui così cari! questa “sofferta” indicazione ci racconta quanto i compositori fossero preoccupati di stabilire il loro
tempo in maniera precisa.
Purtroppo il metronomo non solo non ha risolto il problema,
ma ha portato all’equivoco terrificante che un brano musicale vada eseguito dall’inizio alla fine con lo stesso identico
tempo e con un andamento uniforme e… implacabile!
Leggiamo allora le testimonianze delle epoche passate, guardiamo attraverso i video “internauti” quanto fossero grandi
proprio nel possedere il “Tempo” (con la T maiuscola) e il
tempo d’insieme, personaggi come Lucine Capet, il quartetto Flonzaley oppure Oscar Peterson, Art Tatum, quanto
impressionante fosse nella precisione del tempo giusto il
concerto per due violini di Bach nell’interpretazione di
Stephane Grappelli e i suoi colleghi, per renderci conto di
quanto il metronomo sia tutt’altro che di aiuto.
A morte i robotici esecutori!
Il tempo in musica è il battito del cuore, il nostro passo, il
nostro respiro, l’inerzia del corpo intero o della piccola falange, è la tachicardia dell’ansia amorosa, l’extrasistole della
fatica; il tempo è il sangue, la vita, la passione della musica.
Tempo, tempo, tempo!
1. Canone a 4 voci “Ta ta ta ta” (WoO 162 - edito in Beethoven Werke S. 23, n.
256, 2), basato sul tema del 2º movimento (Allegretto scherzando) dell’ottava
sinfonia
2. Francesco Galeazzi: Elementi teorico-pratici di musica con un saggio sopra l’arte
di suonare il violino analizzata, ed a dimostrabili principi ridotta. 1796
Metronomo di Maelzel
DAVIDE AMODIO, violinista,
musicologo, compositore.
È stato primo violino solo
dellʼOpera di Roma e del Teatro
La Fenice di Venezia.
Ha inciso il suo primo disco per
la Deutsche Grammophon con
Claudio Abbado nel 1981.
Ha suonato nelle più importanti
sale del mondo. Da oltre
trentʼanni suona con gli strumenti originali attraverso uno studio
particolarmente approfondito
sulle tecniche storiche. Ha suonato quindi per molti anni con
Jordi Savall, Christoph Coin, Philippe Herreweghe, e altri.
Tra decine di incisioni discografiche segnaliamo la più recente:
Kreutzer time, una nuova interpretazione della sonata a Kreutzer
di L. v. Beethoven. Ha composto Dianaballo, unʼopera balletto
per voce recitante, ensemble misto e 6 danzatori, eseguito per la
prima volta nel 2009, e Jacksontime, per doppio quartetto e percussioni (prima esecuzione alla Guggenheim di Venezia 26 agosto 2012); entrambi collegati strettamente alla matematica.
Ha pubblicato articoli per la Springer Verlag, e riviste come
“Abitare la Terra”, “Per Archi”, e negli atti del convegno di
Avanca Cinema (Portogallo). Ha tenuto master class a Vienna,
Oslo, Parigi, Stoccolma. È docente di quartetto, musica dʼinsieme per archi, violino barocco, improvvisazione, al
Conservatorio B. Marcello di Venezia.
Il tempo in musica - 28
INCONTRI CON IL TEMPO
di Maurizio Gregori
(scritto a quattro mani, con chi da tempo condivide il mio tempo)
Salvador Dalì, La persistenza della memoria, 1931, olio su tela, 24x33, New York,
Museum of Modern Art
Saliamo sull’autobus e prendiamo posto. Questo è uno dei momenti in cui può verificarsi uno scontro, una collisione, un conflitto tra
due culture diverse, soprattutto se il passeggero è arrivato da poco e
non sa niente dell’Africa. Un tipo così comincia a guardarsi intorno, ad agitarsi e a chiedere: “Quando parte l’autobus?”. “Come
quando?” risponde il guidatore stupito. “Quando ci sarà abbastanza gente da riempirlo.” Queste righe sono tratte da Ebano, scritto del grande reporter Ryszard Kapuscinski. La collisione tra
la cultura africana e quella europea-occidentale avviene sul
terreno del tempo. L’uomo europeo è soggiogato e schiacciato da un tempo che esiste “obiettivamente” e indipendentemente da lui. Scadenze, date, giorni, orari dettano l’agire dell’uomo e in qualche modo determinano la sua stessa esistenza. Al contrario per l’uomo africano il tempo è “una categoria
molto più flessibile, aperta, elastica, soggettiva”, esso si manifesta
attraverso gli eventi umani e naturali; se gli eventi non si
manifestano, il tempo non esiste.
Molti africani non sanno quanti anni hanno, non sanno quando sono nati, o meglio sanno per esempio di essere nati l’anno in cui si verificò una grande siccità, ma non sanno che
anno fosse, che giorno e che ora. Sanno di essere nati, la loro
nascita è un evento, che darà il tempo ad altri eventi. Nessuno
di noi europei si sentirebbe “al sicuro” senza sapere la propria
età, senza potersi posizionare nella linea del tempo. Cosa scriverebbe un africano del tempo? Che cosa è il tempo? Di cosa
è fatto? Soprattutto, quando incontriamo il tempo, dove lo
incontriamo? Si tratta di incontri, o di scontri?
Marcel Proust incontra il tempo in una madeleine, da quell’incontro nasce una delle opere letterarie più importanti del
Novecento: À la recherche du temps perdu. Sette volumi, tremila pagine, per capire di cosa è fatto il tempo e fuggirne il suo
corso. James Joyce, nel suo Ulisse, racconta la giornata di
Leopold Bloom, ventiquattro ore di un giorno qualunque
nella città di Dublino. Più di settecento pagine, per una giornata come tante! Attraverso il flusso di coscienza dei personaggi, il tempo si dilata e si restringe seguendo il corso dei
pensieri dei protagonisti. Il tempo obiettivo non esiste più,
spazio e tempo diventano entità assolutamente soggettive e
perdono la loro consistenza materiale. Passato, presente e
futuro confondono i loro limiti e alla fine ci si chiede, quanto
dura il tempo? Ricordi, memoria e sogni possono davvero
annientarne la materialità, e soprattutto stravolgerne la rassicurante linearità. Il tempo soggettivo domina anche la confessione autobiografica di Zeno Cosini, ne La coscienza di Zeno di
Italo Svevo. La memoria del protagonista, la sua percezione,
la sua coscienza, rendono il tempo fluido, annientano i confini tra passato, presente, futuro, il tempo segue le trasformazioni della coscienza stessa, trasformandosi anch’esso.
L’incontro con il tempo pare avere la morbidezza di un
abbraccio quando avviene nel profondo dell’animo umano, la
rigidità e la precisione degli orologi sono lontane anni luce,
l’orologio può apparire uno strumento assurdo quanto inutile… si liquefà… proprio come gli “orologi molli” di Salvador
Dalí, nella sua famosissima opera La persistenza della memoria.
Il tempo si scioglie, si ammorbidisce nel ricordo, i contorni
degli avvenimenti sfumano indefiniti ad opera della memoria, del sentire intimo della coscienza che interpreta la realtà.
Quello della musica con il tempo è più di un incontro: la
musica si fa nel tempo, il tempo è DNA della musica. C’è letteratura senza tempo, c’è pittura senza tempo, non si genera
musica senza il tempo! Chiunque si appresti allo studio della
musica, a qualunque età, non potrà esimersi dall’incontro con
il concetto del tempo. E si rivelerà un incontro-scontro con
una dimensione matematica, oggettiva, fatta di frazioni e battute, imprescindibili e inequivocabili. Un tempo oggettivo e
preciso, che determinerà il carattere di ogni brano musicale,
con il quale non si può giocare, che non si può, non si deve
stravolgere; per scoprire poi, nell’esecuzione e nell’ascolto,
che quel tempo oggettivo incontrerà di volta in volta il nostro
tempo soggettivo, e sarà incontro felice se i due tempi, in
quell’istante coincidono, e sarà scontro se la velocità dei due
tempi in quel momento sarà diversa.
L’indicazione del tempo, che in musica determina l’andamen-
29 - Il tempo in musica
to, la velocità della composizione, è riportata nel pentagramma. L’Italia, culla del melodramma, fornisce ancora oggi ad
altri paesi, ad altre lingue, un’ampia varietà di termini che
definiscono un’altrettanta varietà di tempi musicali. Sedici
termini per altrettanti tempi lenti, (da larghissimo, ad adagio,
ad andantino); undici per i tempi veloci (da rapido, ad allegro, a prestissimo); diciassette termini infine per i cambiamenti di tempo (allargando, ritardando, precipitando)!
E cos’è questa varietà se non il tentativo dei compositori di
tutti i tempi di piegare il tempo oggettivo e la matematica
all’esigenza di varietà e molteplicità del tempo soggettivo,
quello che si muove e si agita dentro di noi, ogni qualvolta
eseguiamo o ascoltiamo un brano musicale. La musica, più di
ogni altra forma d’arte, agisce con le sue corde sulle corde
dell’anima, e i suoi tempi matematici si incontrano e si scontrano con i tempi emozionali della rabbia, della malinconia,
della dolcezza, della noia; li assecondano, li suscitano, li sollevano o li calmano.
L’incontro-scontro è in sostanza sempre presente e latente, tra
quel tempo oggettivo, che si vuole lineare, misurabile, progressivo, sempre uguale ovunque e per tutti, e quel tempo
soggettivo, non misurabile, flessibile, dalle direzioni mutevoli, mai uguale a se stesso, che assume le forme e le profondità
dei ricordi, della memoria, della coscienza. Lo scontro fra il
tempo pubblico e il tempo privato: il primo ha segnato di
rughe la terra, con il meridiano zero e i 24 fusi orari, il secondo segna di rughe il nostro corpo, a ricordare un’unica incontestabile verità: che il tempo scorre, e di tanto in tanto i nostri
incontri con lui sono più ravvicinati e profondi.
Nel marzo scorso, l’Ansa riportava la notizia flash di un
modernissimo incontro-scontro con il tempo: “E’ stato battuto
il record mondiale di velocità su Internet, con la trasmissione di dati
al ritmo di mille miliardi di bit (un terabit) al secondo. […] la tecnologia che lo ha reso possibile è italiana […].”
Oltre il tempo oggettivo e il tempo soggettivo, la contemporaneità ci offre una terza dimensione: quella del tempo tecnologico. Mille miliardi di bit al secondo significa che in un
secondo potranno essere trasmessi duecento milioni di chiamate, quindici milioni di videochiamate, e sempre in un
secondo potranno essere scaricati venticinque Dvd multimediali e trasmessi in simultanea trecentomila video ad alta
definizione. Nell’incontro tra la tecnologia e il tempo, è il
tempo ad avere la peggio: esso tende progressivamente a
scomparire, a velocizzarsi a tal punto per cui la successione
degli eventi è talmente rapida che il prima e il dopo si fondano nella simultaneità e nell’immediatezza. Chissà che il
“click” del mouse non diventi in futuro misura del tempo,
vincendo la sfida con le lancette e col pur breve, minuto di
orologio. La rete è il non-luogo dove regna il non-tempo: il
non-tempo necessario ad un’e-mail per giungere a destinazione, il non-tempo necessario ad accedere a qualunque
informazione, il non-tempo dei discorsi in chat.
Oggi l’incontro-scontro più frequente che ognuno di noi ha
con il tempo è proprio quello con la velocità, nella sua accezione positiva di semplificazione di alcuni processi, impensabili solo qualche anno fa; ma anche nella sua accezione negativa di “fretta” e conseguente superficialità delle relazioni,
della comunicazione, della riflessione, del tutto e subito
inconsciamente applicato ad ambiti dell’esistenza che meriterebbero invece una “lenta profondità”.
Tanti sono gli incontri quotidiani che ognuno di noi ha con il
tempo, spesso lottiamo nel tentativo di piegare il tempo alle
nostre esigenze di rapidità o lentezza, ci scontriamo con i
tempi artificiali creati dall’uomo, ci stupiamo di fronte all’indeterminatezza dei nostri tempi interiori, ci affanniamo a rincorrere il tempo delle tecnologie veloci di cui siamo circondati. Ci sono due momenti in cui la natura, saggia com’è, viene
a rassicurarci, a calmare le nostre inquietudini, a mostrarci un
tempo assoluto, misura di ogni altro tempo: il sorgere del
sole, il giorno, il calare del sole, la notte. Semplice ed eterna
suona la verità cantata da Jimmy Fontana, da poco giunto alla
fine del suo tempo terreno: il mondo non si è fermato mai un
Il fotodinamismo di Anton Giulio Bragaglia, Il Violoncellista, 1913
MAURIZIO GREGORI, trentotto
anni, diplomato in clarinetto e laureato in Management di Eventi
Musicali al Conservatorio di S.
Cecilia. Lavora da sempre nel
campo della musica: dalla gestione di diverse scuole di musica
nella provincia di Viterbo, all’organizzazione di eventi e festival.
Componente di numerosi gruppi
musicali conosciuti a livello locale
e nazionale, ha partecipato a
numerose tournée che lo hanno
portato in giro per l’Europa e per
il mondo, dal Giappone al
Sudamerica. Ideatore e direttore
dell’Orchestralunata, una band composta di bambini e ragazzi che
ha all’attivo un disco e numerose apparizioni televisive. Ideatore
della “Notte delle Candele”, evento unico nel suo genere che ha
portato a Vallerano migliaia di visitatori. Inaspettatamente, nel
maggio del 2013 diventa sindaco del comune di Vallerano, che
oggi amministra con orgoglio e tanta voglia di fare.
Il tempo in musica - 30
IL TEMPO DEL SILENZIO
di Bruno Gabirro
Pagg. 2 e 3 da but I have many friends, and some of them are with me, per
ensemble e live electronics. I silenzi sono diversi: il primo è rappresentato dal simbolo
di pausa e sospensione alla fine di ogni rigo, il secondo dalla scritta “Turn page, all at
the same time” (girare pagina, tutti allo stesso tempo)
Il silenzio per lungo tempo non è stato considerato musica perchè non era suono. La sua esistenza veniva espressa sotto forma
di pause e respiri, ma quelli sono articolazioni e non silenzi.
Nel 1952 John Cage presenta 4’33’’: considerato come quattro
minuti e trentatre secondi di silenzio, si trattava invece dell’ascolto del suono ambientale presente durante il tempo dell’esecuzione. Da allora il silenzio è apparso nella musica, ma
pensato come durata senza suono.
Luigi Nono è il primo musicista a parlare del silenzio come
suono, offrendo alla durata del silenzio un’espressività propria, che invita l’ascoltatore ad una riflessione intima, di ricerca della memoria: il silenzio in questo caso non ha una forma
esteriore.
Nelle mie composizioni penso il silenzio in quanto suono,
vibrazione fisica con una forma e una durata, esattamente
come tutti gli altri suoni.
Se vogliamo definire il silenzio in musica, nella sua forma più
generale, facciamo riferimento a due proprietà: assenza di
suono e durata. L’assenza di suono è una costante, perciò
invariabile; è quindi la durata che determina precipuamente il
silenzio, attribuendo ad esso un tempo cronologico.
Apparentemente il silenzio è in sé per sé una durata: tempo.
Il silenzio, prima dell’inizio, dopo la fine, sembra essere un
pieno di nulla, vuoto, determinato da un prima, da un poi.
Questo nulla è vuoto perché riduciamo il silenzio a tempo; ma
il tempo non è silenzio.
Se il silenzio non è tempo, però ha tempo, non può essere
assenza di suono, ma suono.
Il suono che vibra riempie lo spazio e perciò ha un tempo, non
un tempo cronologico ma un tempo proprio, suo, intimo.
Il tempo del silenzio è il tempo necessario, necessario affinché
la memoria del passato si proietti sul futuro, diventando presente, un presente continuo e in movimento, vibrante, che
ridiventa suono. Un tempo-suono.
Un suono musicale ha un envelope che lo identifica: altezza,
durata, timbro, intensità, articolazione, spazio, ecc. Anche il
tempo-suono, il silenzio, ha un envelope che lo caratterizza e
che richiede un’azione creativa e di pensiero per dargli forma,
esattamente come qualsiasi altro suono musicale.
Quando un silenzio comincia, i suoni precedenti che lo anticipavano nel tempo del discorso musicale si accumulano ed
entrano in vibrazione (memoria del passato). Tale vibrazione
si modificherà a seconda di come verrà sviluppato il silenzio
(proiettandolo nel futuro). Questo sviluppo, trasmesso dagli
esecutori in forma di intenzionalità espressiva, scritto in partitura o improvvisato, dipende dal segno musicale (cioè il presente, ovvero la proiezione continua del passato nel futuro).
Il tempo necessario affinché il silenzio, ogni silenzio, si realizzi è fondamentale. Un tempo troppo breve non permette al
silenzio di entrare in vibrazione, un tempo troppo lungo dissipa la vibrazione.
Come vi sono infiniti suoni musicali (strumentali, vocali, elettronici) così vi sono infinite possibilità di silenzio, con espressività, direzione, modalità diverse.
Vibra il tempo-suono, dal passato al futuro, nel presente.
Vibrante, continuo, presente. Silenzio.
BRUNO GABIRRO, compositore, nato in Portogallo nel 1973.
Ha studiato violino, viola e composizione a Lisbona e presso la
Royal Academy of Music di
Londra.
Sta per concludere la sua tesi di
Dottorato all’Universidade Nova
di Lisbona per la quale ha
approfondito la ricerca sui quartetti per arco di Emmanuel
Nunes e Luigi Nono.
La sua ultima composizione, per
ensemble e but I have many
friends, and some of them are with me, 2011 è stata commissionata
da Sond’Ar-te Electric Ensemble.
31 - I tempi verbali
PER I CINESI IL FUTURO È ALLE SPALLE
di Adriano Boaretto
全世界都在學中國話
quán shìjiè dōu zài xué zhōngguóhuà
è il ritornello di una canzone in voga qualche anno fa in Cina:
“tutto il mondo sta studiando il cinese”. Diversamente da
quanto si poteva dire fino a dieci o venti anni fa, il cinese è
ormai una delle lingue più studiate al mondo. Ciononostante
continua ad essere considerato una lingua misteriosa e, lo
dicono anche accademici, completamente diversa dalle altre
lingue. In realtà bisognerebbe vedere innanzitutto cosa si
intende per “le altre lingue”. Di fatto il cinese è una lingua
naturale, la quale sembra condividere gran parte delle sue
caratteristiche con le altre lingue naturali, che vengono stimate in un numero che va dalle 4.900 circa alle 6.900 circa,
variando a seconda dei criteri di individuazione adottati.
Ora, tra le caratteristiche esotiche del cinese viene indicata la
mancanza di indicazioni temporali indicate dalla coniugazione verbale. Le domande che ci si pongono sono: i cinesi
non hanno un concetto di tempo? Concettualizzano forse il
tempo in modo diverso da come lo concettualizzano i parlanti di lingue europee?
Iniziamo con un po’ di esotismo etimologico. “Prima, in precedenza” e “dopo, in seguito” vengono espressi in cinese con
due termini, due nomi di tempo tratti dall’insieme dei nomi
di luogo. “Prima” significa anche “davanti” e “dopo” significa anche “dietro”. Dal punto di vista etimologico quindi l’espressione dei concetti di “prima” e “dopo” nasce dalla concettualizzazione dell’uomo che cammina all’indietro, verso il
futuro che non vede, verso l’ignoto che gli sta dietro, lasciandosi davanti il passato, che vede, è noto e gli sta di fronte.
Detto ciò, va anche aggiunto che le etimologie possono spiegare come è nato il significato di una parola, ma sarà poi
l’uso che le attribuisce la capacità di occupare una definita
casella semantica; non necessariamente chi utilizza quella
data parola è a conoscenza o si rende conto del significato
originario. Sarebbe come aspettarsi che due persone che si
coniugano andassero con la mente al giogo, dato che coniugare deriva etimologicamente da “mettere allo stesso giogo”.
Ora, come si esprime il tempo in cinese?
Pensiamo al futuro in italiano. Se è vero che il verbo italiano
può essere coniugato al futuro, tuttavia quanto spesso quest’ultimo viene effettivamente impiegato nella lingua parlata?
Siamo più soliti dire:
Cara, dove andiamo in vacanza l’anno prossimo? invece che:
Cara, dove andremo in vacanza l’anno prossimo?
Pensiamo al presente storico: …nasce nel 1452,…
Oppure pensiamo al mancato utilizzo del passato remoto
nella variante di italiano parlato al nord. Normalmente diciamo: Dieci anni fa siamo andati in Cina invece che: Dieci anni fa
andammo in Cina.
Qual è in tutti e tre questi casi l’elemento che effettivamente
situa il fatto descritto sull’asse temporale?
È “l’anno prossimo”, “nel 1452” e “dieci anni fa”.
Ecco spiegato come viene indicato il tempo in cinese: la
forma verbale non reca alcuna variazione, ma viene in soccorso l’indicazione esplicita delle coordinate temporali attraverso i complementi di tempo. Senza questi una stessa frase
può essere interpretata al presente, passato o futuro.
Vediamo un esempio:
張三去學校。
Zhang San va a scuola
Zhang San andrà a scuola
Zhang San andò a scuola
Ma si ricordi che se non è espresso un complemento di
tempo, anche in italiano “andiamo in vacanza” può indicare
sia un fatto presente sia un fatto futuro, e ancora, se dico
“siamo andati in Cina”, posso riferirmi sia ad un fatto avvenuto nell’immediato passato sia ad un fatto avvenuto nel passato remoto.
La differenza tra italiano e cinese sta semplicemente nel fatto
che il secondo presenta un grado ancora maggiore di ambiguità e una più forte necessità di ricercare le coordinate temporali nel contesto in cui la frase è inserita.
ADRIANO BOARETTO, nato a
Montegrotto Terme (Pd) nel 1964, ha studiato lingua cinese presso l’Università
Ca’ Foscari di Venezia e ha ottenuto il
Dottorato presso l’Università Orientale
di Napoli. Si occupa di linguistica cinese. Trascorre ogni anno alcuni mesi a
Taiwan e nella Repubblica Popolare
Cinese. Ha insegnato presso la Scuola
per Interpreti e Traduttori di Trieste.
Attualmente è docente all’Università di
Ca’ Foscari e presso il CIELS di Padova.
Svolge attività di interprete e di mediatore culturale e linguistico.
Il tempo nella religione - 32
L’OGGI DI DIO E I GIORNI DELL’UOMO
di Suor Elena Chiamenti
Il presente articolo è tratto dalla Tesi di Licenza in Teologia Biblica che la
sua autrice, molto generosamente, ci ha concesso di sforbiciare e semplificare affinché tutti noi possiamo addentrarci in un tema così specifico: l’analisi della temporalità nell’Antico e nel Nuovo Testamento.
Il tempo è una categoria umana che ogni filosofia, corrente di
pensiero o religione tenta di spiegare, giustificare, ordinare e
argomentare. Si tratta di un tema molto complesso e ampio
ma, allo stesso tempo, di un’esperienza molto quotidiana e
universale. Ogni uomo e donna che vive nella storia fa i conti
con questa categoria, con ciò che di essa è stato detto, con la
memoria del tempo che lo precede e con la proiezione su
quello che gli sta davanti.
Oggi inoltre il nostro modo di vivere il tempo è caratterizzato dall’accelerazione e frammentazione e questo ha delle
conseguenze gravi sulla vita sociale, relazionale e affettiva
dell’uomo.1 Dal modo in cui il singolo vive il tempo e si rapporta ad esso dipende la qualità della sua vita e delle sue
relazioni. Una riflessione teologica sul tempo, nel nostro contesto attuale, è urgente e necessaria per aiutare il credente a
vivere, nel mondo globalizzato e virtuale la chiamata ad
essere testimone del già e non ancora della salvezza.
C’è infatti un modo di vivere il tempo presente, di stare dentro ad esso che il credente è chiamato ad assumere, perché
Cristo è entrato in questo tempo e lo ha rinnovato definitivamente con la sua Pasqua.
Il nostro approfondimento sul motivo dell’oggi nella prospettiva teologica di Luca si colloca all’interno della riflessione sulla categoria di tempo nella Bibbia e in particolare nel
Nuovo Testamento. «Non si è lontani dal vero se si afferma
che ogni libro della Bibbia (...) propone una particolare sottolineatura circa la concezione del tempo».2
Ogni evangelista mostra quanto sia determinante nella storia
dell’uomo la venuta del tempo salvifico di Dio nel suo Figlio
Gesù Cristo. Il concetto di tempo non può dunque prescindere dall’evento Gesù Cristo, che per compiere il progetto di
Dio è entrato nella storia e l’ha abitata.
Per riflettere su tale concetto abbiamo analizzato due brani
del Vangelo di Luca nelle quali compare l’avverbio temporale greco semeron: Lc 2,1-14 e Lc 23,33-43. L’attenzione si è concentrata, dunque, sul motivo dell’oggi.
«L’oggi in Luca si presenta come un forte momento teologico
e storico: è alla base di una “teologia del tempo e della storia” insita nella sua concezione. L’evangelista è noto per essere l’autore che ha maggiore sensibilità per la storia e la storicizzazione degli eventi salvifici».2 Luca è considerato a ragione l’evangelista della storia poiché si cura della cronologia
degli eventi come egli stesso dichiara nel Prologo della sua
opera,4 con lo scopo di ordinare i materiali della tradizione e
fornire al lettore lo strumento per crescere nella fede cristiana che ha già ricevuto.
L’opera è scritta per una comunità attraversata da prove
esterne, persecuzioni, ma anche da tensioni interne. Il rapporto tra il tempo storico e quello escatologico è oggetto di
studio della teologia in genere e fa parte dei dibattiti anche
tra gli esegeti lucani. L’originalità e la maestria di Luca stanno forse nell’equilibrio che narrativamente riesce a mantenere tra la figura di un Dio che conduce la storia secondo il suo
disegno salvifico e l’importanza della libertà dell’uomo che
incide sulla stessa storia.5
La chiave con cui l’autore riesce in questo suo intento è
appunto quella storico-salvifica: il tempo cronologico cui
l’uomo è abituato, nel quale nasce, vive e muore, è quello che
Cristo ha fatto suo.
L’oggi è lo spazio dell’incontro tra l’iniziativa salvifica di Dio
e la libera responsabilità dell’uomo. Il Regno di Dio è presente nella Pasqua del Figlio e l’uomo di ogni tempo è invitato a
riconoscerlo nella propria personale esperienza, nel tempo
storico e sociale in cui vive. Il Salvatore è nato, vissuto, morto
e risorto e l’uomo di ogni tempo non può rimanere indifferente a tale evento.
Dal giorno di Pentecoste, lo Spirito Santo abita nella storia
dell’uomo e opera la salvezza che Cristo ha compiuto.
“L’oggi salvifico di Gesù è storicamente datato, ma nello
stesso tempo si prolunga nella sua realizzazione perenne
nella vita di ogni uomo (10,25-37).
1. Cfr. E. Bianchi, «Editoriale», Parola Spirito e Vita 36 (1997) p.5
2. A. Marangon, «Tempo», in P. Rossano, G. Ravasi, A. Girlanda, Nuovo
Dizionario di Teologia Biblica, Cinisello Balsamo 1988, p.1528
3. M. Grilli, Quale rapporto tra i due testamenti?, Bologna 2007, p.62
4. Cfr. Lc 1,1-5
5. Anche nell’Antico Testamento il ruolo del narratore ha questo delicato compito: descrivere la storia di Dio e dell’uomo senza che essa risulti né troppo in
balia della volontà umana, né dominata da Dio in senso negativo.
33 - Il tempo nella religione
Per questo Luca insiste molto sull’importanza di ogni singolo giorno (5,26; 9,23 ; 13,33; 19, 5.9).”6
Luca ribadisce più volte l’importanza vitale per l’uomo di
riconoscere e accogliere tale novità salvifica; costruisce una
strategia pragmatica volta a richiamare il lettore al suo impegno responsabile, che nasce dalla consapevolezza della bontà
di Dio e della brevità della propria vita.
Dalla nascita alla morte: l’oggi di Gesù come paradigma
Esaminando il primo e l’ultimo testo nel quale si trova la connotazione temporale oggi, se ne evidenzia la forza pragmatica: in chiave comunicativa sappiamo che ciò che viene affermato all’inizio di un discorso o di un racconto e ribadito nella
conclusione, ha una particolare forza illocutoria7. Porre attenzione ai segnali testuali è compito del lettore empirico con lo
scopo di avvicinarsi sempre più al lettore modello che Luca
costruisce.
La ricorrenza di semeron in Lc 2,11 (annuncio dell’angelo ai
pastori): Oggi è nato per voi un Salvatore e in Lc 23,43 (Gesù
crocifisso risponde al malfattore buono): Oggi sarai con me in
Paradiso crea un’inclusione significativa nel racconto lucano.
Questi due testi mettono in luce come il motivo dell’oggi sia
strettamente legato al tema della salvezza. Il campo semantico della salvezza è presente e determinante sia nel racconto
della nascita di Gesù che in quello della sua morte. Le nove
pericopi intermedie che contengono il semeron segnano uno
sviluppo del percorso nella comprensione dell’oggi di Gesù
come salvifico per chi lo incontra.
La scelta di esaminare da vicino solo la prima e l’ultima pericope nasce anche dal fatto che Luca stesso mostra particolare attenzione e pregnanza teologica nel costruire i racconti
delle prime e ultime pagine del suo Vangelo.
Il proemio narrativo infatti (Lc 1,5-2,52) è di importanza decisiva per la comprensione di tutta l’opera. In esso il lettore
riceve la chiave di lettura per la storia successiva, per comprendere pienamente l’evento Cristo nella prospettiva storico salvifica: è nato per voi il salvatore e ciò è accaduto oggi. Le
parole dell’angelo sottolineano la venuta del Salvatore ma
non specificano in che cosa consista la salvezza. Il lettore sa
che quel bambino è il Salvatore e dunque sarà Lui a rivelare
il genere di salvezza che porta e non sarà necessario attendere ancora perché Egli è nato oggi. Il Figlio di Dio che esiste da
sempre si è fatto uomo e ha portato alla storia e alla categoria stessa di tempo una radicale novità. La salvezza è entrata
nel mondo in un momento preciso della storia degli uomini
e ciò che è avvenuto, in quella data, ha trasformato ogni
calendario. Il giorno della nascita di Gesù ha dato inizio
all’oggi della salvezza, poiché il Salvatore è nato per noi
(2,11) e anche ad un tempo storico privilegiato, segnato dalla
missione e dal viaggio di Gesù verso Gerusalemme.
Le prime pagine dello scritto lucano sono, a ragione, ritenute una ouverture dell’intera opera: in esse è presentata in
germe la sua teologia e fornita la chiave interpretativa della
storia.8 Gesù Cristo è Colui che compie il progetto storico salvifico di Dio e lo attua definitivamente. Colui che nasce da
Maria è il Figlio dell’Altissimo9, al quale Dio darà il trono di
Davide. La sua missione è quella di salvare il popolo dai
nemici10 e la sua venuta segna una svolta incancellabile nella
storia della salvezza. Se Gesù è nato oggi e la salvezza è Lui
stesso, allora ogni oggi della sua vita è salvezza.
Ecco perché il lettore deve porre particolare attenzione a questo segnale temporale disseminato nel testo.
L’ultima ricorrenza dell’oggi del Vangelo di Luca è quello del
giorno della morte e risurrezione di Gesù.
L’analisi di Lc 23,33-43 mostra che la differenza tra i due malfattori sta nell’apertura o chiusura davanti alla rivelazione di
Dio, che esce dalle categorie umane. Colui che riconosce
Gesù come il Giusto, abbandonando la pretesa di fare di Lui
un Salvatore potente e violento, è l’uomo che fa dell’oggi
della propria morte quello della salvezza. Il ladrone buono è
il primo peccatore cui Gesù dice “oggi sarai con me” e in
questa figura trova spazio ogni persona. In quel oggi della
morte e resurrezione di Cristo si compie definitivamente quanto è iniziato in 2,11: il Salvatore è venuto nel mondo ed ha
posto fine al tempo della colpa, ha liberato i prigionieri dall’oppressione del peccato e li ha messi nella condizione di
essere in comunione con Lui. “Il tempo attuale è quindi già
tempo escatologico che ora, per Luca, è diventato storia tra il
già e il non ancora”.11
Giovanni Francesco Barbieri, detto il Guercino, San Luca Evangelista, 1653, olio su
tela 220x180, Kansas City, USA, Nelson-Atkins Museum of Art
6. M. Grilli, “Il tema dell’“oggi” nell’opera lucana”, Parola Spirito e Vita 36
(1997), p.150
7. Cfr. C. Segre, Avviamento all’analisi del testo letterario, Torino 1999, p.206
8. Cfr. M.Grilli, Quale rapporto, p.156
9. Cfr. Lc 1, 32.35
10. Come profetizza Zaccaria in Lc 1, 68-75
11. G. Rossé, “La crono-teologia lucana”, Parola Spirito e Vita 47 (2003), p.128
Il tempo nella religione - 34
Fin dall’inizio della narrazione perciò il motivo dell’oggi è
un filo rosso cui il lettore può porre attenzione per giungere
a scorgere il compimento cristologico del fare salvifico di
Dio. Attraverso questa categoria temporale l’Autore tiene
insieme l’evento narrato storicamente e la sua attualità sempre possibile, in forza della Pasqua. «Nella sua opera la storia della salvezza costituisce fin dall’inizio un tema dominante, il cui centro è rappresentato dal motivo del semeron.12
Gli “oggi” che ricorrono tra il cap. 12 e il cap. 19 del Terzo
Vangelo orientano l’attenzione del lettore sull’implicazione
che il tempo di Dio ha nella vita dell’uomo. «L’oggi è l’incontro di Cristo con la nostra storia umana per una scelta divina
di incarnarsi nel nostro limite spazio-temporale, ma è anche
la decisione dell’uomo che, con un atto storico, si pone in
comunione con Lui all’interno degli eventi».13
L’oggi, il domani e il terzo giorno sono il tempo della responsabilità del Figlio dell’uomo, in obbedienza al piano di Dio.
Gesù infatti assume su di sé la storia nella sua interezza,
compresa la periodizzazione del tempo cui è soggetta. Il
Figlio di Dio fatto uomo vive con fedeltà il tempo che gli è
dato e in esso porta a compimento l’opera salvifica che gli è
affidata dal Padre.
Luca utilizza un vocabolario che il lettore impara a conoscere e ad associare agli interventi divini nella storia dell’uomo.
Si tratta infatti della “fretta”14, dell’ “oggi salvifico” e del
verbo “bisogna”15, che caratterizza sempre l’attuazione da
parte di Gesù del piano salvifico di Dio
L’accettazione della mortalità, la consapevolezza del limite
creaturale e dell’impossibilità umana di dominare il tempo,
di fermarlo o accelerarlo, di ripeterlo o eliminarlo, in chiave
sapienziale, non lascia spazio alla rassegnazione ma diviene
possibilità di accedere al senso della vita.
Dal punto di vista dell’uomo perciò si tratta di stare dentro il
tempo della propria vita e della storia che lo precede e lo
segue con l’umile consapevolezza del suo limite. Questa è ciò
che gli permette di coglierlo come dono e di riconoscere in
esso l’irruzione di Dio. Quando l’azione di Dio si manifesta a
favore dell’uomo lo fa attraverso un linguaggio che egli può
comprendere. Il Dio biblico infatti è Colui che agisce con
potenza a favore di un popolo che vive nella storia. La fede
di Israele nel Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe è la fede nel
Signore del tempo, che nella sua infinita pazienza e misericordia ha scelto di appartenere ad un popolo, alla sua storia,
fatta di slanci e cadute, promesse e tradimenti e con esso si è
impegnato in modo definitivo. Il popolo e il singolo credente sono chiamati a vivere, nel tempo cronologico cui sono
soggetti, quella novità salvifica che Dio ha inaugurato, rendendo la loro una storia di salvezza.
Il procedere dell’uomo nel tempo
La vita dell’uomo dal giorno della nascita a quello della
morte è soggetta allo scorrere del tempo, fatto di minuti, ore,
giorni, mesi, anni, ma il significato che questi hanno per il
singolo è da riscoprire nella personale riflessione ed elaborazione dello stesso.
Il tempo è una categoria prettamente umana, necessaria per
orientare, ordinare e significare l’esistenza dell’uomo. Il Dio
Creatore infatti non si definisce con i criteri dalla temporalità
umana. Egli esiste da sempre e per sempre
L’uomo, invece, vive come essere-nel-tempo e si conosce
come tale e dunque come una creatura che ha iniziato la sua
esistenza in un preciso momento e che va verso quello conclusivo. Ciò che distingue il tempo dell’uomo dall’eternità di
Dio è il limite della morte. Prendere consapevolezza che il
tempo della vita umana non è infinito fa parte dei compiti di
un bambino che cresce verso la maturità. “L’uomo si conosce
come essere-nel-tempo e come essere che ha del tempo, ma
un tempo a termine, un tempo limitato. Senza la morte l’uomo non potrebbe comprendersi!”16. La morte è il limite posto
allo scorrere del tempo dell’uomo ed è l’esperienza più radicale della propria creaturalità.
La paura della morte è qualcosa che segna l’essere umano e
spesso in ragione di essa egli compie le sue scelte. Lo sviluppo della vicenda umana procede tra l’attesa e la fretta, il peccato e la grazia, la ricerca e l’incontro, la percezione della propria unicità e lo smarrimento della solitudine, la paura del
futuro e il desiderio di costruirlo e viverlo in pienezza.
Tutto ciò che appartiene al mondo dell’uomo è segnato dallo
scorrere del tempo e dal significato che ad esso vi attribuisce.
Decorazione musiva di Marko Ivan Rupnik, artista e mosaicista, direttore del Centro
Aletti e dell’Atelier dell'arte spirituale
12. M. Grilli, «Il tema dell’ “oggi” nell’opera lucana», PSV 36 (1997) p.140
13. M. Grilli, «Il tema dell’ “oggi”», p.149
14. Come Maria andò in fretta dalla cugina Elisabetta (1,39) così Zaccheo scende in fretta dal sicomoro (19,6)
15. Il δεί lucano è caratteristico: Lc 2,49; 4,43; 9,22 ecc.
16. L. Manicardi, «Insegnaci a contare i nostri giorni», PSV 36 (1997), p.69
35 - Il tempo nella religione
L’irruzione di Dio nel tempo dell’uomo
Ricorrono nella Bibbia svariate formule che esprimono il tentativo religioso di dire il tempo di Dio a partire dall’esperienza umana17 ed “è in questo orizzonte teologicamente pregnante che risalta il confronto tra il tempo breve dell’uomo e
il tempo di Dio. Rispetto alla celerità da tutti percepita - e talvolta in modo drammatico- (cf. Sal 88) - risaltano i “tempi
lunghi” di Dio.”18
Il tempo di Dio riceve il suo senso pieno e salvifico con la venuta di Gesù di Nazareth. Il Nuovo Testamento dunque dice una
parola definitiva al tempo dell’uomo e all’agire di Dio in esso,
poiché il Dio eterno in Gesù Cristo è entrato nel tempo, facendo proprio il limite della morte. Colui che esiste da sempre ha
scelto di farsi vulnerabile al tempo, stabilendo un giorno della
storia umana nel quale entrare in esso. Con la nascita di Cristo
anche Dio conosce il tempo dall’interno, come l’uomo lo sperimenta, ma anche lo trasforma radicalmente.
La venuta di Cristo, perciò, porta una novità radicale al tempo
dell’uomo e l’oggi lucano è una delle categorie neotestamentarie che veicola questo contenuto fondamentale della fede.
L’esistenza storica di Gesù, la sua Parola, gli incontri, le guarigioni, gli esorcismi, i viaggi che l’hanno caratterizzata sono
divenuti paradigmatici e validi per ogni tempo, perché nella
sua morte e resurrezione Dio Padre ha reso eterno il tempo
della salvezza.
Il tempo eterno di Dio scardina la categoria e l’aspettativa
umana sul tempo, poiché nella vita e soprattutto nella morte e
resurrezione di Cristo, egli supera quel limite ineluttabile che è
la morte. L’evento pasquale infatti dice una parola nuova e
definitiva sulla morte: essa non ha vinto. Il cristiano perciò può
vivere libero dalla paura della morte perché sa che Cristo l’ha
sconfitta per sempre. Dal momento della resurrezione di Cristo
il tempo dell’inesorabile procedere verso la morte è stato sconfitto. Cristo è il Risorto e ciò significa che egli è uscito dalla
scena del mondo, ha vissuto la fine dei giorni della vita terrena, ma la morte non lo ha annientato.
La Pasqua di Cristo annuncia all’uomo che Dio è eterno e che
la morte non è l’ultima parola sulla sua vita. Ecco allora che la
prospettiva umana di tempo si allarga oltre la morte: «Gesù
sposta l’equilibrio della storia: il kairos definitivo è già pervenuto alla sua pienezza (cf. Mc 1,15) con l’annuncio del regno di
Dio e con la morte-risurrezione di Cristo (cf. Es 3,5; Rm 16,25s).
Perciò già durante il “tempo presente” (che va verso la sua
consumazione) è iniziato il tempo futuro».19
17. Cfr. Es 15,18; Mi 4,5; Sal 9,6; 1 Cr 16,34.41; 2Cr 7,1-6; Sal 100,5; Sal 136
18. A. Marangon, «Tempo», p. 1523
19. A. Marangon, «Tempo», p.1530
Jacopo Pontormo, San Luca Evangelista, c. 1525, olio su tavola, diametro 70 cm,
Firenze, Santa Felicita, Cappella Capponi
SUOR ELENA, è nata a Verona il
24 agosto 1982; dal 2005 fa parte
della Congregazione delle Suore
Orsoline Figlie di Maria
Immacolata.
Nel 2010, ha conseguito il
Baccellierato in Sacra Teologia
presso lo Studio Teologico San
Zeno a Verona, e la Licenza in
Teologia Biblica presso la
Pontificia Università Gregoriana,
nel 2012. Attualmente vive a
Roma dove sta conseguendo il
Dottorato in Teologia Biblica.
Il tempo nella religione - 36
L’ANGOSCIA DEL TEMPO CHE PASSA.
C’È UNA SPERANZA DA OFFRIRE?
di Ampelio Santagiuliana
Quando l’illustrissimo Ludovico Pacelli mi ha proposto di
incamminarmi su questo tema, ho provato un certo interesse
e stimolo a riflettere su un’esperienza che in qualche modo
coinvolge tutti, anche se con intensità diversa. Man mano che
procedevo in questa ricerca mi sono reso conto di essere finito nel sentiero incerto del dubbio, e poi in un terreno fangoso nel quale il piede di appoggio sprofonda sempre più,
quasi impedendo il passo successivo, mentre intorno non ci
sono appigli per le mani che si agitano invano.
Questa metafora spiega il senso di questo contributo, che
non aspira a dare risposte esaustive, ma si pone accanto a
tutti coloro che portano nel cuore una domanda che temo si
faccia più impellente col passare degli anni, quando si intuisce benissimo che il tempo della vita si fa sempre più breve e
gli spazi dell’esistenza sempre più ristretti.
Proprio le coordinate del tempo e dello spazio delimitano il
grafico del nostro percorso esistenziale. Esso, inizialmente,
sembra toccare vertici altissimi, può permettersi variazioni
repentine, ma col procedere degli anni scorre più regolare
camminando appena sopra la coordinata del tempo, ogni ora
più corta.
L’angoscia del tempo che passa è la sensazione dolorosa ed
esistenziale nel percepire che il tempo e lo spazio della vita si
sono fatti sempre più angusti, ci si trova nella condizione di
totale impotenza perché non ci si può sottrarre a ciò che sarà
ineluttabile, ossia la fine del nostro tempo e del nostro spazio
che coincide con la morte.
Se nell’età giovanile prevalevano i sogni e i progetti da realizzare, se ogni scoperta era occasione di eccitazione ed entusiasmo, se le occasioni della vita erano altrettante possibilità
di esprimere la propria libertà e prendere le proprie decisioni, nell’età più matura si cerca il senso più profondo della
vita, ci si domanda se la propria storia sia quella che doveva
essere o se poteva svilupparsi diversamente con altri percorsi. Si cerca ancora quello che dobbiamo diventare e l’indagine si concentra sul desiderio di sapere la cosa essenziale: chi
sono io veramente.
Su questa connotazione dell’esistenza umana, caratterizzata
dall’angoscia, ha indagato anche il pensiero filosofico,
soprattutto l’esistenzialismo.
Il problema dell’esistenza viene proiettato nel suo approdo:
dove finirà la nostra esistenza?
Secondo l’esistenzialismo ateo, finiremo nel nulla.
L’esistenza di ciascuno di noi è una meteora che emerge dal
nulla e si inabissa nel nulla. Alla radice dell’angoscia c’è la
percezione consapevole o inconsapevole del fatto che non
sappiamo da dove siamo venuti e non sappiamo dove finiremo. Oppure, più lucidamente, sappiamo che tutto finisce nel
nulla, nel vuoto assoluto.
Se la nostra esistenza sarà totalmente cancellata, c’è da chiedersi che senso hanno le nostre scelte se poi non determinano nulla; che senso ha la libertà come attuazione dell’esistenza e del proprio essere se questo è destinato a naufragare in
un’esistenza protesa ineluttabilmente verso il nulla e la
morte assoluta.
Dall’altra parte, l’esistenzialismo che si professa teistico ritiene che l’esistenza sia proiettata verso Dio. L’esistenza sta
dentro al contingente, vive delle determinazioni dell’immanenza, ma essa è protesa verso la trascendenza assoluta. In
questo caso l’angoscia non è originata dal nulla che incombe,
ma dal tempo che attende e anela all’eternità; è il finito che
vive ancora del suo limite, ma nell’attesa, a volte dolorosa,
dell’infinito. Però il destino dell’esistenza sta nel partecipare
all’Essere Divino. L’angoscia accompagna anche l’esercizio
della libertà, che in questa prospettiva è ricerca ostinata di
realizzarsi, di tendere verso la perfezione, su cui peraltro
incombe il rischio dell’autodistruzione e del fallimento delle
proprie decisioni.
37 - Il tempo nella religione
L’angoscia nella tradizione e nella spiritualità cristiana1
L’angoscia, di fronte all’enigma della vita e della morte è ben
presente nella tradizione, nell’esperienza e nella spiritualità
cristiana.
Gesù stesso, in prossimità della morte ha provato tristezza,
angoscia e paura, senza tuttavia venir meno alla fiducia nel
Padre. Ma proprio questa sua totale adesione alla volontà al
Padre comporta l’entrare drammaticamente nella dolorosa
esperienza umana dell’angoscia. Basta rileggere anche solo
due passaggi del vangelo nei quali si racconta come Gesù si
avvicina alla sua passione:
“Ora l’anima mia è turbata; e che devo dire? Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il
tuo nome.” (Gv 12,27-28).
Mentre nel Vangelo di Luca si legge:
“Uscito se ne andò, come al solito, al monte degli Ulivi; anche i
discepoli lo seguirono. Giunto sul luogo, disse loro: “Pregate, per
non entrare in tentazione”. Poi si allontanò da loro quasi un tiro di
sasso e, inginocchiatosi, pregava: “Padre, se vuoi, allontana da me
questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà”. Gli
apparve allora un angelo dal cielo a confortarlo. In preda all’angoscia, pregava più intensamente; e il suo sudore diventò come gocce
di sangue che cadevano a terra. Poi, rialzatosi dalla preghiera, andò
dai discepoli e li trovò che dormivano per la tristezza. E disse loro:
“Perché dormite? Alzatevi e pregate, per non entrare in tentazione”. (Lc 22,39-46)
San Paolo descrive l’esperienza cristiana come un cammino
verso la pienezza della vita riservata ai figli di Dio, per merito di Gesù Cristo. Ma proprio questo dono, questa grazia che
ci viene offerta non è esente dal dolore e dalla sofferenza,
anzi, tutta la creazione è coinvolta in qualche modo nel processo della redenzione che si realizza nella forma dolorosissima paragonabile a quella del parto.
“Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. E
se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se
veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche
alla sua gloria. Io ritengo, infatti, che le sofferenze del momento
presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere
rivelata in noi. La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità
- non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa - e
nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della
corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio.
Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad
oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo”. (Rm 8,19-23)
Proseguendo nella lettura dell’esperienza cristiana toccata
dall’angoscia, non possiamo non citare Sant’Agostino, maestro di spiritualità, profondo conoscitore dell’anima umana.
Il suo pensiero tocca le corde più profonde dei sentimenti,
delle paure, e delle sensazioni che l’uomo deve affrontare
quando deve misurarsi col dolore. Nel suo libro autobiografico, Le confessioni, il noto padre della Chiesa racconta il suo
stato d’animo nell’occasione dell’improvvisa perdita di un
suo amico carissimo:
“L’angoscia avviluppò di tenebre il mio cuore. Ogni oggetto su cui
posavo lo sguardo era morte. Era per me un tormento la mia patria,
la casa paterna un’infelicità straordinaria. Tutte le cose che avevo
avuto in comune con lui, la sua assenza aveva trasformate in uno
strazio immane. I miei occhi se lo aspettavano dovunque senza
incontrarlo, odiavo il mondo intero perché non lo possedeva e non
poteva più dirmi: “Ecco, verrà”, come durante le sue assenze da
vivo. Io stesso ero divenuto per me un grande enigma. Chiedevo
alla mia anima perché fosse triste e perché mi conturbasse tanto, ma
non sapeva darmi alcuna risposta; e se le dicevo: “Spera in Dio”, a
ragione non mi ubbidiva, poiché l’uomo carissimo che aveva perduto era più reale e buono del fantasma in cui era sollecitata a sperare. Soltanto le lacrime mi erano dolci e presero il posto del mio
amico tra i conforti del mio spirito” (Le confessioni, libro IV, cap.
IV, paragrafo IX).
La stessa autobiografia parte da quella esperienza spirituale
che viene identificata con l’inquietudine del cuore umano, il
quale non può trovare pace in questo mondo finché non avrà
raggiunto la meta della sua ricerca.
E’ molto istruttiva la testimonianza di una donna mistica,
vissuta nel XVI secolo. Mi riferisco a Teresa D’Avila (15151582), nota per i suoi insegnamenti spirituali, riformatrice
delle monache e dei monaci Carmelitani, fondatrice di diversi monasteri. La sua vicenda umana e spirituale non è esente
da passaggi molto tormentati, che lei stessa descrive, quasi
minuziosamente nella sua autobiografia.
“Mi accadeva alcune volte di essere in grandissime pene spirituali
insieme a tormenti e dolori fisici così intensi da non sapere come
darmi aiuto. Dimenticavo allora tutte le grazie che il Signore mi
aveva fatto; me ne restava solo un ricordo come di cosa sognata, che
serviva a darmi pena; l’intelligenza mi si offuscava tanto da farmi
sorgere mille dubbi e sospetti: mi sembrava di non aver saputo comprendere quanto mi era accaduto, che forse era frutto della mia fantasia. E pensavo che bastava che mi fossi ingannata io, senza dover
ingannare anche i buoni. Mi pareva d’esser così perversa che ritenevo dovuti ai miei peccati tutti i mali e le eresie da cui era invaso
il mondo. Questa era una falsa umiltà creata dal demonio per turbarmi e provare se gli riusciva di trascinare la mia anima alla disperazione. Che sia un’umiltà diabolica si vede chiaramente dall’inquietudine e dal turbamento con cui comincia, dal tumulto che produce nell’anima per tutto il tempo che dura, dall’oscurità e dall’afflizione in cui la immerge, dall’aridità e dall’incapacità di attendere alla preghiera e ad ogni opera buona”. (Libro della Vita 30, 8-9)
1. Per una ricognizione più completa sul senso dell’angoscia sia nella prospettiva esistenziale -psicologica, sia nella tradizione e nella spiritualità cristiana,
segnalo il contributo di G.G. Pesenti – S. Gatto, Angoscia, in Dizionario
Enciclopedico di Spiritualità, a cura di Ermanno Ancilli e del Pontificio Istituto
di Spiritualità del Teresianum, Citta Nuova Editrice, Roma 1990, pp. 138-142.
Il tempo nella religione - 38
Altro mistico importante fu Giovanni della Croce (15421591), fondatore dell’Ordine dei Carmelitani Scalzi, con
Santa Teresa d’Avila. Nel suo trattato, La salita del monte
Carmelo, descrive il cammino dell’anima verso Dio come un
percorso che avviene nella notte.
“Possiamo chiamare notte questo passaggio dell’anima verso l’unione con Dio per tre motivi. Il primo è desunto dal punto di partenza dell’anima, perché essa deve privarsi del godimento di tutte
le cose temporali che possedeva, rinunciando ad esse. Tale rinuncia
o privazione costituisce una vera e propria notte per tutte le passioni e i sensi dell’uomo. Il secondo è dato dal mezzo che s’impiega o
dal cammino attraverso cui l’anima deve passare per giungere
all’unione divina, cioè la fede, che è oscura all’intelligenza come la
notte. Il terzo deriva dalla meta verso cui si tende, cioè Dio, che è
certamente notte oscura per l’anima in questa vita. Queste tre notti
devono passare attraverso l’anima o, per meglio dire, l’anima deve
attraversare queste notti per attingere l’unione con Dio”. ( La salita del monte Carmelo, Libro I, cap. II,1)
Altra esperienza di santa mistica, più vicina a noi è Teresa di
Lisieux (1873-1897)2, meglio nota come santa Teresa del
Bambino Gesù, fu monaca carmelitana presso il monastero di
Lisieux. È patrona dei missionari dal 1927, e, dal 1944, assieme a Giovanna d’Arco, anche patrona di Francia.
La sorella della Santa, Madre Agnese di Gesù (Paolina), , ha
annotato le parole testuali proferite da Santa Teresa di Gesù
durante gli ultimi mesi della sua malattia e della sua vita.
11 settembre 1879 - “Temo di avere avuto paura della morte! Ma
non ho paura del dopo-morte... Solamente mi domando: che cos’è
questa separazione misteriosa dell’anima e del corpo? E’ la prima
volta che ho provato questo, ma mi sono subito abbandonata al
Signore misericordioso”.
Il nostro lettore non si deve stupire se persino Santi di alto
profilo e spessore spirituale, ritenuti pietre miliari nel cammino e nello sviluppo della vita cristiana, abbiano sperimentato e illustrato la paura e l’angoscia della morte, la notte dell’anima, come la chiama Giovanni della Croce.
Tuttavia questo turbamento e sconvolgimento è sorretto da
una fede incrollabile che li accompagna fino alla fine. Questo
possiamo dire: non è venuta meno la loro fede, si sono affidati a Gesù Cristo, si sono abbandonati alla sua parola, alla
sua grazia, alla sua vita.
Gregorio Maltzeff, (Talashmanovo (Russia) 1881 - La Bruna di Castel Ritaldi
(Spoleto) 1953, Santa Teresa di Gesù Bambino (particolare) dalla chiesa di
S. Antonio Abate in Roma
2. Per una lettura più completa dell’esperienza e della testimonianza della
figura di Teresa di Lisieux, segnalo il seguente sito:
www.parrocchie.it/verona/santateresatombetta/teresa1
Due nuove coordinate
La domanda iniziale, c’è una speranza da offrire?, ancora
non è stata affrontata, ma la serietà della richiesta non lascia
spazio alle facili scorciatoie e nemmeno può essere indirizzata al mercatino delle facili illusioni.
Mi metto anch’io nel sentiero arduo e rischioso della ricerca.
Ma prima di procedere vorrei suggerire due nuove coordinate entro le quali muovere i nostri passi, il nostro sguardo e
forse anche una nuova comprensione della vita.
Le coordinate del tempo e dello spazio non sono sufficienti
per spiegare da sole tutta la vita, personalmente propongo di
collocare la nostra esistenza dentro le coordinate della grazia
e dell’amore. Esse non sono alternative al tempo e allo spazio entro i quali peraltro si svolge la vita di ciascuno, ma
aggiungono un’ulteriore dimensione, capace di dare una
comprensione e un senso più compiuto al proprio vivere.
Noi non dovremmo tenere a portata di mano soltanto il
calendario che scandisce i giorni, i mesi, gli anni che passano
e abbreviano la vita.
Dovremmo tenere a portata di mano un’agenda delle grazie
ricevute: in primo luogo la vita, poi la famiglia, la salute, il
posto che abitiamo, le bellezze del creato, il cibo che mangiamo, l’intelligenza, i sentimenti, la fantasia e quanto di buono
la nostra persona porta in sé. Ma oltre a ciò, nella vita capitano altre grazie che sorprendono: l’incontro con una persona
speciale, una scelta giusta, un’esperienza che arricchisce,
un’intuizione che illumina e persino un’esperienza negativa
che insegna e fa maturare.
Ma è soprattutto l’amore, l’altra coordinata che orienta, dà
senso e pienezza alla vita: la cosa più grande o la via migliore di tutte, come la chiama San Paolo. L’amore non si esaurisce in un sentimento passeggero, o in una passione travolgente ma circoscritta. L’amore di cui parliamo matura in una
capacità di donare la propria vita, se stessi, per una persona
o per gli altri.
39 - Il tempo nella religione
Scrive Benedetto XVI nella lettera Enciclica, Spe salvi , 26-27:
“Non è la scienza che redime l’uomo. L’uomo viene redento
mediante l’amore. Ciò vale già nell’ambito puramente intramondano. Quando uno nella sua vita fa l’esperienza di un grande amore,
quello è un momento di «redenzione» che dà un senso nuovo alla
sua vita. Ma ben presto egli si renderà anche conto che l’amore a lui
donato non risolve, da solo, il problema della sua vita. È un amore
che resta fragile. Può essere distrutto dalla morte. L’essere umano
ha bisogno dell’amore incondizionato. Ha bisogno di quella certezza che gli fa dire: «Né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezze né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo
Gesù, nostro Signore» (Rm 8,38-39).
(…) è vero che chi non conosce Dio, pur potendo avere molteplici
speranze, in fondo è senza speranza, senza la grande speranza che
sorregge tutta la vita (cfr Ef 2,12). La vera, grande speranza dell’uomo, che resiste nonostante tutte le delusioni, può essere solo
Dio – il Dio che ci ha amati e ci ama tuttora «sino alla fine», «fino
al pieno compimento » (cfr Gv 13,1 e 19,30).
(…) E la vita nella sua totalità è relazione con Colui che è la sorgente della vita. Se siamo in relazione con Colui che non muore, che
è la Vita stessa e lo stesso Amore, allora siamo nella vita. Allora
«viviamo»”.
Dove troviamo questa speranza di cui ci parla Benedetto
XVI. Trovo utile una rivisitazione della sintesi del piano divino della salvezza come ci viene esposto da San Paolo nella
sua lettera agli Efesini:
“3 Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo,
(…)
9 poiché egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà,
secondo quanto nella sua benevolenza aveva in lui prestabilito
10 per realizzarlo nella pienezza dei tempi:il disegno cioè di
ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle
della terra. (…)
13 In lui anche voi, dopo aver ascoltato la parola della verità, il
vangelo della vostra salvezza e avere in esso creduto, avete ricevuto il suggello dello Spirito Santo che era stato promesso,
14 il quale è caparra della nostra eredità, in attesa della completa redenzione di coloro che Dio si è acquistato, a lode della
sua gloria”.
Nel pensiero di San Paolo, per opera di Gesù Cristo, noi
siamo predestinati a essere figli di Dio.
Questa è la speranza cristiana, che ci proietta oltre il tempo
che passa e annuncia una vita che dura per sempre presso
Dio.
Anzi, con la venuta di Gesù Cristo noi siamo già entrati in
questa dimensione, già a partire dalla terra siamo figli di Dio
e abbiamo in noi la vita eterna, mediante lo Spirito Santo che
abbiamo ricevuto nei segni sacramentali, specialmente nel
Battesimo.
Abbiamo non la pienezza, ma una caparra della vita eterna
per mezzo dello Spirito Santo che ci è dato. Come negli
acquisti terreni la caparra dà titolo per acquisire tutta la proprietà, così la caparra della vita eterna, donata a noi mediante lo Spirito Santo, è la garanzia che un giorno saremo eredi
a pieno titolo della vita eterna.
Masaccio, San Paolo, un pannello del polittico di Pisa, 1426, tempera su
tavola a fondo oro, 51x30, Pisa, Museo Nazionale di San Matteo
AMPELIO SANTAGIULIANA,
(1952), dopo aver compiuto gli
studi nel Seminario Vescovile di
Vicenza, è stato ordinato presbitero nel 1978. Vice Parroco a
Bassano del Grappa e Valli del
Pasubio e poi Fidei donum nella
diocesi di Civita Castellana dal
1990. È stato Parroco a Torrita
Tiberina, a Vallerano e attualmente presso la Parrocchia di
San Lorenzo in Civita Castellana.
Laureato in Teologia Pastorale
presso la Pontificia Università
Lateranense, ha pubblicato un
estratto della tesi, Parrocchia, territorio e unità pastorali, EDB,
Bologna 2003. Insegna Catechetica e Teologia pastorale presso
l'Istituto Superiore di Scienze Religiose “A.Trocchi”.
Il tempo in psicanalisi - 40
FIGURE DEL TEMPO
di Assunto Alfredo Lopez
Se l’iconologia del Padre Tempo ha subito vicissitudini tali
da non aver preservato che pochi elementi simbolici che ne
caratterizzavano l’originaria figurazione, non si può dire che
lo stesso destino si sia abbattuto sulle immagini volte ad
interpretarne gli effetti, o ad assumerne il portato dal punto
di vista religioso, politico e sociale.
L’arte ha rinunciato da tempo a tramandare l’originaria figura dell’Istante Propizio e dell’Eternità, ma è comunque ricolma della presenza del tempo in tutte le sue declinazioni: lo
ritroviamo nelle composizioni mitiche ed in quelle religiose,
che rimandano all’eterno del regno di Dio; in quelle che idealizzano gli eventi storici, piuttosto che in quelle che manifestano la bellezza dei cicli naturali; ma lo ritroviamo anche
nelle immagini che ci parlano degli “attimi” che alimentano
la nostra esperienza di profondo mistero: nei transiti della
vita, tra il sonno e la veglia, nell’estasi e nel sublime.
Nei “transiti” della vita
Gli archetipi chiedono un mutamento dell’atteggiamento
cosciente, nel senso di una diversa comprensione di se stessi,
del rapporto che si ha con gli altri, della propria identità.
Nelle singole fasi della vita si attualizza, in via teorica,1 un
archetipo diverso. Guardando a ciascuna fase, pur nella sua
enorme ricchezza di contenuti e storie, sembra trovar spazio
un unico “messaggio”, orientato allo sviluppo progressivo
della persona.
Un po’ come nel mito, sembra non esserci che un’ unica
“situazione”. In prossimità di ciascuna fase di sviluppo (così
come all’interno della situazione narrativa del mito), nonostante ciascuna fase sia ricca di molteplici storie, c’è un unico
tempo decisamente pregnante: quello kairotico, quello che
segna il punto d’inizio, “creativo”, nell’attualizzazione di un
nuovo archetipo;2 come si potesse vedere da lì, e solo da lì in
poi, ogni cosa (ogni parte delle storie che colmano ciascuna
fase della nostra vita) connotata della stessa qualità temporale, di uno stesso senso, di un’unica verità: “L’archetipo è sempre una specie di dramma condensato […] il finale è già anticipato nell’inizio. Infatti l’archetipo in sé non ha tempo: è una
situazione atemporale dove inizio, fase centrale e fase finale
coincidono, sono dati assieme“.3 L’esperienza dell’archetipo
nell’arco delle diverse fasi dello sviluppo individuale ci colloca, in un attimo, lungo un nuovo percorso di vita; è la via
attraverso la quale il singolo si libera dal tempo in senso
stretto; il transito non solo tra due diverse fasi dell’esistenza
ma anche tra due diverse modalità di esperire il Tempo e
“orientare” il nostro comportamento.4
A quest’ultimo proposito risultano interessanti alcune notazioni di Hillman sulla scissione tra Puer e Senex, cui corrisponderebbe una “scissione archetipica” tra eternità e temporalità: Senex e Puer […] temporalità e eternità […]
1. Mentre a tutti è data, “biologicamente”, la possibilità di arrivare alla vecchiaia, non tutti percorrono l’esistenza attraverso ognuna delle tre fasi di sviluppo teorizzate da Jung.
2. Jung non ha mancato di riscontrare nessi tra Fasi della vita e creatività:
“Quando si studia la produttività di grandi artisti, per esempio di Nietzsche,
si scopre che spesso all’inizio della seconda metà della vita la loro produttività
cambia i modi di espressione” C.G. Jung, in W. Mc Guire e R.F.C. Hull, (a cura
di) (1977), Jung parla. Interviste e incontri, Adelphi, Milano 1999, p. 366.
3. C.G. Jung, W. Mc Guire e R.F.C. Hull (a cura di), ibidem, p. 151.
4. In una società, com’è la nostra, nella quale i cosiddetti “riti di passaggio”
conservano meno lo statuto simbolico di un tempo, questo “passaggio”, che ha
l’effetto di liberare le potenzialità evolutive del soggetto, può intervenire nel
contesto del “rituale” terapeutico; l’archetipo è portatore di un nuovo tempo,
talora di una nuova fase dell’esistenza; ma dall’archetipo e dal tempo di cui si
fa portatore si può essere “dominati”. L’adozione, nel setting analitico, di un
orientamento temporale che tenga conto di quello dominante nel paziente può
contribuire a nostro avviso a relativizzare quanto, nell’esser dominati dall’archetipo, si è portati ad “eternare”.
41 - Il tempo in psicanalisi
Nicolas Poussin, Ballo della vita umana al suono del tempo, 1640, olio su tela,
82,5 x104, Londra, Wallace Collection
L’identificarsi con l’una o con l’altra [figura] è un esser dominati da un preciso atteggiamento verso la storia: dal Puer che
la trascende e sguscia fuori dal tempo […]; o dal Senex, che è
un’immagine della storia stessa e della verità permanente
che attraverso la storia si disvela.5
Questa distinzione adottata da Hillman non è nuova al pensiero filosofico, ricordando assai da vicino quella Platonica
tra Aion e Chronos, quest’ultimo essendo inteso come immagine terrena del primo; crediamo però che all’interno della
dinamica di attuazione dei due archetipi si giochi (anche)
qualcosa di diverso da una scissione archetipica tra eternità e
tempo, argomentazione questa che trova forse più riscontri
sul piano filosofico che non in quello della concreta esperienza soggettiva.
La fenomenologia temporale caratteristica delle due fasi
della vita,6 dominate dagli archetipi del Puer e del Senex,
sembra infatti essere correlata in qualche modo anche
all’Atteggiamento (alla direzione assunta dalla Libido rispetto all’Oggetto) e, quindi, ad una sorta di “centratura temporale” archetipica, di carattere collettivo.
Ci viene in aiuto in tali considerazioni il pensiero di
Minkowski: egli rimarca il fatto che, per la ragione, allontanarsi dal principio equivale in egual misura ad avvicinarsi
Tiziano Vecellio, Allegoria del tempo, 1570, olio su tela, 76,2x68,6, Londra,
National Gallery
alla fine, ma che certamente, sul piano fenomenologico, le
cose son ben diverse; infatti, come può essere da tutti noi
esperito, il futuro ci può apparire come un qualcosa che
“viene” verso di noi; o, viceversa, il futuro può apparirci
come qualcosa verso cui ci dirigiamo. Nel primo caso, tipico
dei momenti in cui si fa più “sentire” il Puer, i comportamenti che sono posti in essere sono quelli che vestono i connotati dell’attività (che vive nella durata immediata) e del desiderio (che va oltre la durata immediata), mentre l’IO ha la sensazione di “espandersi” nel tempo (la libido assume una
direzionalità centrifuga);7 nel secondo caso, tipico dei
momenti in cui si fa più “sentire” il Senex, i comportamenti
che sono posti prevalentemente in essere vestono i connotati
dell’attesa (che vive nella durata immediata) e della speranza (che va oltre la durata immediata), mentre l’Io ha la sensazione di ripiegarsi su se stesso (la libido assume una direzionalità centripeta).
Crediamo che l’Atteggiamento (introverso/estroverso) e la
“Centratura temporale” tipica della funzione maggiormente
differenziata possano avere un ruolo non indifferente nel
determinare i diversi vissuti che costellano i passaggi da
un’età all’altra della vita; forse la nostra stessa percezione di
invecchiare o sentirci giovani deve qualcosa alla funzione
che maggiormente partecipa del nostro rapporto col mondo.
Un’ultima considerazione va fatta con riferimento alla fase
centrale della nostra esistenza e all’archetipo che sembra
essere ad essa maggiormente correlato: quello dell’Eroe.
L’Archetipo dell’Eroe segna un momento particolare nell’evolversi delle tre fasi temporali dell’uomo; egli si attualizza
portando con se, idealmente, un destino di morte. Consente
all’Io di far fronte alle spinte regressive e lo conduce nell’arena della vita; pone le basi per il costituirsi di qualcosa di stabile (il Padre) nell’ambito del contesto sociale, dove ha potuto adattarsi mostrando il volto della Persona; ma, appunto, il
suo destino è di morte, nella misura in cui l’Io è capace di
“sacrificarlo”. Con il sacrificio dell’Eroe l’Io si avvicina, parte
cosciente e attiva, al “compito” individuativo che caratterizza l’ultima fase dell’esistenza:8 acquisire il senso della complessità, integrare gli opposti; diventare un individuo centrato e intero in rapporto sia con la realtà immediata che con
quella trascendente; vivendo, per quanto possibile, il tempo
del “Saggio”.9
5. J. Hillman (1964), tr. it. in Puer aeternus, Adelphi, Milano 2004, p. 65. Per
Hillman I due archetipi del Senex e del Puer caratterizzano anche due diverse nozioni del creativo: l’una, relativa al Senex, testimonia di un creativo metodico e strutturato, un “processo ordinatore di integrazione verso l’unità”; l’altra, relativa al Puer, testimonia di qualcosa di assolutamente originale e che “si
muove in un aura di futurità […]l’autopercezione dell’istinto”.
6. Continuiamo a parlare di “fasi”, senza con ciò voler sostenere un loro deterministico susseguirsi nel tempo, soprattutto con riferimento alle dinamiche
archetipiche Puer/Senex e al processo di identificazione con queste cui siamo
soggetti lungo tutto l’arco dell’esistenza: «Il Puer ispira lo sbocciare delle cose,
Il Senex presiede al raccolto. Ma fioritura e raccolto si susseguono a intermittenza lungo tutta la vita. E alla morte chi presenzia, il vecchio con la falce o il
giovane angelo? Non lo sappiamo». Ibidem, J. Hillman, p. 70.
7. «Il Puer proprio non sopporta […] il tempo e la pazienza. Non conosce le
stagioni e l’attesa […] sembra fissato in uno stadio atemporale, ignaro del passare degli anni, non in sintonia con il tempo». Ibidem, J. Hillman pp. 98-99.
8. Il sacrificio dell’Eroe, la sua uccisione da parte dell’Io, è preludio all’evoluzione individuale: “Il primo passo verso l’individuazione è tragica colpa” C.G.
Jung, Opere, vol. VII, Bollati Boringhieri, Torino 1983, p. 311.
9. In quest’ultimo stadio, forse più che in altri, può rivestire un ruolo importante la sincronicità, in quanto coincidenza significativa; visto che tale fase si
caratterizza più di altre per una propensione alle questioni che hanno a che
fare con una ricerca di senso.
Il tempo in psicanalisi - 42
Tra sonno e veglia
Quando si guarda dalle diverse prospettive teoriche della
psicologia del profondo all’alternarsi sonno-veglia, si volge
l’interesse soprattutto a quanto è contenuto tra le due sponde: il sogno; mentre si tende a dar senz’altro minor rilievo ai
momenti che precedono e seguono immediatamente l’“eclissi” della coscienza.
Eppure nella fenomenologia del risveglio, nell’istante in cui
“torniamo” nel mondo che non si occulta ai sensi, sembra
rendersi evidente la più originaria forma del tempo umano,
quella che “invoca la nostra presenza”: “svegliandosi […]
consegue un movimento di cogliere qualcosa che sfugge […]
la vita che è già in marcia e non aspetta [è un’irruzione che
rapisce] è un fluire […] un continuum [in cui sentiamo il
bisogno di] incorporarci“.10
È in virtù di questo bisogno che la coscienza tende a stabilire una continuità tra il momento antecedente la caduta nel
sonno (passato) e il momento del risveglio (presente); essa
cerca di porre riparo al suo occultamento, alla discontinuità,
all’assenza cagionata dal lungo momento inconscio, che sempre si vuole atemporale.11
Perché nella veglia accada qualcosa di analogo a quanto
accade nel momento del risveglio, che l’istante precedente si
trasformi in separato, è necessario che un accadimento
straordinario si produca (in questo caso la coscienza soggiace ad una discontinuità) e non è il vissuto in questa parte del
giorno a trasformarsi in passato, ma a volte un intero periodo e persino tutta la vita.12
È sempre nel solco della “discontinuità” dell’essere nel
tempo, nella netta scissione tra un prima e un dopo, che
avvertiamo il cambiamento. Ed è sempre nella nostra capacità di riconnetterci in un continuum che si da il nostro senso
di identità. Ma questa “continuità” temporale è fatta, per
alcuni (Henry Bergson in primis), di istanti senza durata,
come la retta è composta di punti senza dimensione; mentre
invece, per altri (G. Bachelard, in questo debitore al pensiero
di G. Roupnel), gli istanti non si toccano a costituire una
retta, poiché ogni istante conserva la sua individualità.
In quest’ultimo caso il meccanismo che genera il nostro senso
identitario è lasciato all’imitazione di noi stessi, istante dopo
istante: «Ci riconosciamo […] perché imitiamo noi stessi” in
un “eterna ripresa».13
E affinché tali istanti costruiscano una durata, e la durata
costituisca un progresso sarà necessaria « una coordinazione
di tutte le possibilità dell’essere […] un ideale di armonia
temporale, dove il presente è senza posa occupato a preparare l’avvenire».14
Questa “coordinazione di tutte le possibilità dell’essere” è
per Bachelard l'”amore profondo”; ma a noi non può non far
pensare alla fondamentale funzione di “coordinamento”
attribuita da Jung al Sé; così come nell’ideale di “armonia
temporale”, non sostanziato da Bachelard, noi altro non ravvisiamo che l’equilibrio armonico delle funzioni dell’Io e
delle sue diverse prospettive temporali.
Ed infine: quel “presente senza posa occupato a preparare
l’avvenire”; come non evocare il palesarsi dell’Archetipo alla
coscienza?: nel sogno, nel simbolo, nel processo individuativo, nell’atto immaginale o creativo, negli accadimenti
“straordinari”, “sincronici” o estatici in cui qualcosa di
“numinoso” si fa presente all’esistenza.
Nell’estasi e nel sublime
All’attimo estatico improvviso non si addice né il “per sempre” dell’eternità, né il “per ora” della chronicità ; come nel
darsi del simbolo, dove nessuno dei due poli opposti che ne
sono causa regna sovrano nell’istante della sua formazione:
“attraverso l’introversione e la regressione della libido vengono costellati […] gli archetipi che forniscono […] all’Io una
nuova declinazione di questa tensione degli opposti: il simbolo. [Ciò] avviene in una dimensione temporale che è dell’improvviso: l’istante, la sua immediatezza […] come un’intensa illuminazione”.15
Jean Mirò, Risveglio all’alba, 1941, tempera su carta , 46x38 (coll. privata)
10. M. Zambrano, op.cit., p. 43.
11. Questa necessità di ristabilire una connessione lungo il continuum temporale fa pensare che, foss’anche per un istante, sia sempre e solo la funzione
pensiero, ad “accendere la luce” al momento del risveglio.
12. M. Zambrano, op. cit., p. 95.
13. G. Bachelard (1966-1967), L’intuizione dell’istante. La psicoanalisi del
fuoco, Edizioni Dedalo, Bari 2010, p. 85.
14. G. Bachelard, ibidem, p. 93.
15. C.G. Jung, cit. in M.M. Pessina, Simbolo, Affetto e oltre…, Vivarium Milano
2009, p. 33.
43 - Il tempo in psicanalisi
L’attimo estatico, nutrendosi forse di qualcosa che sta in
prossimità o nel solco dell’aldilà, sembra trascendere il
tempo chronico; anche se non manca chi intravveda nell’estasi l’attimo fondante l’equilibrio stesso dell’uomo, nel “qui
ed ora”: «Solo guardando all’aldilà come al vero fine dell’estasi l’uomo può raggiungere l’equilibrio nel tempo presente. L’equilibrio è fondato sull’estasi».16
L’attimo estatico sembra aver a che fare con il concetto di
exaiphnes: un’irruzione repentina che rapisce, istituendo
legami analogici tra modello (inscritto nell’eternità di Aion)
e immagine (inscritta nella temporalità di chronos); come
nell’esperie proprio del momento numinoso archetipico o
dell’improvviso moto ideo-creativo:
la presenza di Dio si manifesta, nell’esperienza profonda
della psiche, come una coincidenza oppositorum […]
L’esperienza religiosa è numinosa […] essa differisce da tutte
le altre in quanto trascende le normali categorie di spazio,
tempo e causalità.17
La divinità come il mito, e con essi il tempo, hanno sempre
rappresentato un’alterità di significato, difficilmente esprimibile con la stessa efficacia con la quale l’arte arriva a darcene testimonianza: “Siamo elevati, per quanto possibile, alla
contemplazione del divino tramite immagini visibili”.18
L’importanza di un tal fatto non sfuggiva neanche a chi, in
tempi ormai lontani, intravvedeva nel potenziale comunicativo dell’arte il veicolo migliore per contrastare l’imperante
iconoclastia e favorire la propagazione del “verbo” tra i fedeli: «Non si fa male, nel voler mostrare l’invisibile per mezzo
del visibile».19
Guido Cagnacci, Allegoria della vita umana, 1650, olio su tela, 110x86,5,
(collezione privata)
Il nostro non è più il secolo che votava l’arte ad eternare il
“momento”, ad immortalare in figura la dimensione atemporale delle estasi mistiche, o la “vanitas”, o il tempo sospeso
tra vita e morte;20 né sembra profilarsi, tra gli anfratti della
secolarizzazione, una risposta che ci aiuti a metabolizzare il
reale “nudo e crudo” del contemporaneo, che ci dia qualche
“segno” del divino, che ci mostri nell’immagine l’“invisibile”.21 La cosa vale ancor più, com’è ovvio, per la categoria del
sublime “figurato”; categoria ormai desueta ed appartenente
alla “preistoria” romantica delle arti.22
Restano solo antiche immagini e vecchi interrogativi; attorno
a questo “vizio”, tutto umano, di voler trascendere il tempo
nell’attimo presente; di voler transitare nel regno di Aion
senza perdere la stretta forte della mano di Chronos: un’assenza? Un rimpianto cui non riusciamo a dar forma? La
manifestazione archetipica di una tensione insita nell’ambivalente natura dell’uomo? In ogni caso votati ad esser continuamente dibattuti tra Tempo ed Eternità.
16. E. Wind, op. cit., p. 60.
17. C.G. Jung, Mc Guire, William e Hull R.F.C. (a cura di), (1977), tr. it. in Jung
Parla. Interviste e incontri, Adelphi Milano, 1999.
18. Dionigi Aeropagita, in D. Freedberg (1989), Il potere delle immagini,
Einaudi, Torino, p. 60.
19. Gregorio Magno, ibidem, p. 250.
20. Ci riferiamo al XVII secolo.
21. Vedremo nell’ultimo capitolo come, in forme e linguaggi diversi, il panorama contemporaneo, grazie anche alle moderne tecnologie di ripresa video, ci
regali alcuni esempi in cui l’artista vuole ricondurci a “trascendere” il mondo
e il suo Tempo.
22. Il “sublime” ha trovato il suo epicentro nelle arti e nella pittura in particolare di fine ’800 (uno per tutti, Friedrich Caspar David).
ASSUNTO ALFREDO LOPEZ,
vive e lavora tra Venezia e
Milano; i suoi interessi sono prevalentemente rivolti allo studio
e alla diffusione della Psicologia
Analitica, anche con contributi
interdisciplinari: arte, filosofia,
storia delle religioni, scienze
della natura.
È psicologo, psicoterapeuta e
analista junghiano, co-fondatore
e presidente dell’Associazione
Culturale di psicologia Analitica
“Andiomene” (VE), co-fondatore
del Centro Culturale Junghiano
“Temenos” (BO), Socio Onorario dell’Associazione per lo sviluppo e il potenziamento delle abilità mentali “Assomensana” (MI).
La lettura della dimensione temporale e creativa in chiave psicodinamica è al centro dei suoi lavori di approfondimento sulle
potenzialità “applicative” offerte dalla Tipologia Junghiana.
Il tempo mitologico - 44
IO SO CHE COSA È IL TEMPO…
di Massimo Fornicoli
“Io so che cosa è il tempo, ma quando
me lo chiedono, non so spiegarlo“
Agostino d’Ippona, Confessioni XI
La mitologia parla di Saturno, antichissimo dio italico, identificato erroneamente con Chronos/Tempo.
In tempi molto lontani, egli era giunto dalla Grecia in Italia,
dopo che Zeus/Giove l’aveva detronizzato e fatto precipitare dall’Olimpo. Saturno allora si stabilì sul Campidoglio,
dove fondò un villaggio fortificato che portava il nome di
Saturnia tellus, espressione che fu poi usata per indicare tutta
l’Italia. Si diceva che fosse stato accolto da un dio ancora più
antico, Giano. Il suo regno si chiamava Latium perché il dio
vi stava nascosto: in latino lateo significa rifugiarsi, celarsi,
non essere celebrato.
Presso i Latini era una divinità agraria, il cui nome era legato a “sata”, i campi arati e seminati. Saturno proseguì l’opera
civilizzatrice iniziata da Giano e dette le prime leggi agli
uomini. Veniva rappresentato armato di falce e roncola e
pare abbia contribuito a diffondere la coltivazione e la potatura della vite. Da qui deriva la simbologia per rappresentare la vecchia signora, la Morte, che recide la vita.
Ma chi è veramente questo Saturno?
“Saturno, dice Jorge de Santillana1, dà le misure, essendo
residente in Canopo”. E ancora: “Canopo, il peso, rappresenta il piombo all’estremità del filo con cui venivano misurate
le profondità del mare.
Va sottolineato che la riluttanza dei filologi a riconoscere il collegamento essenziale fra Chronos/Tempo e Kronos/Saturno ci
costringe a riflettere: questo mio breve articolo cerca di dare
qualche chiarimento in merito.
“Il piombo di Saturno - dice Hillman, nel suo testo “Trame
perdute” - è l’attrazione gravitazionale verso il basso e l’interiore, che porta entro la soggettività. Lento, pesante, cronico,
plumbeo, qualità, queste, che producono pesantezza. La
coscienza dei vecchi pondera, soppesa le cose, come facevano le bilance nei templi romani dedicati a Saturno, e come
testimonia la lunga storia dell’immagine della bilancia associata a Saturno e alla malinconia. La voce di questa coscienza ha il suo peso ed è talvolta sentita “pesante come il piombo”, troppo pessimista e arida, e assolutamente intempestiva, come se provenisse da una prospettiva antiquata e insieme profetica.”2
Nelle raffigurazioni medievali e rinascimentali, all’immagine
di Saturno venivano spesso associati gli strumenti della geometria e dell’astronomia.
Struttura e astrazione additano qualcosa di ancora più
profondo: il principio stesso dell’ordine.
Saturno, quale sovrano originario dell’universo, è il nous,
concetto che può essere fatto risalire a Platone (vedi Le Leggi).
Il Kronos di Esiodo regnava al principio di tutte le cose. Il
Senex, come lo identifica Hillman, fornisce l’ordine originale,
la forma ideale, i fondamenti, i principi, e gli assiomi su cui
uno stato si edifica. È lui che ne promulga le leggi e l’ordinamento. Lo stato e il suo governo sono anche lo stato del complesso e la fantasia dominante che lo governa. “Saturno corrisponde all’etrusco Satre, come divinità della luce che
annuncia il giorno. Il “lucem facere” nel rito celebrativo di
Saturno, rappresentazione del sole notturno; per arrivare a
Saturno antichissimo re del Lazio e divinità, occorre partire
dalla base corrispondente all’accadico sa-etru, sa-atru, “quello che è preminente”.3
Franz Ignaz Gunther, Kronos, sec. XVIII, scultura lignea, Monaco di Baviera,
Bayerisches Nationalmuseum
1. De Santillana Giorgio, von Dechend Hertha, Il mulino di Amleto - Saggio sul
mito e sulla struttura del tempo, Adelphi 1983
2. Hillman James, Trame perdute, Raffaello Cortina 1996
3. Hillman J., idem
45 - Il tempo mitologico
È chiaro che una errata radice, già riferita nei Saturnalia di
Macrobio4, lo abbia associato a Kronos. Ornella Faracovi, ne
l’articolo “A proposito di Saturno”5, giustamente ipotizza che
con l’inizio del tempo, dopo la castrazione di Urano, sia nata
questa falsa identificazione con Chronos/Tempo.
Le feste Cronie, come riporta il mio indimenticato amico
Alfredo Cattabiani nel suo “Calendario”6, erano celebrate in
Atene d’estate, per solennizzare la raccolta delle messi. I
Saturnali, invece, cominciavano poco prima del solstizio
invernale e duravano fino al 23 dicembre, proprio quando il
giorno riprende ad allungarsi.
Queste feste erano caratterizzate dal capovolgimento delle
classi sociali – gli schiavi comandavano i loro padroni – e
rappresentavano un invito a iniziare un cammino spirituale
di purificazione, di ritorno alle origini.
Renato Del Ponte, in “La religione dei Romani” dice:
“Soltanto coloro che riusciranno a recuperare dentro di sé il
senso delle condizioni ‘anteriori all’inizio’ potranno ‘tornare
alle origini’, cioè riottenere lo stato di perfezione naturale che
era proprio dell’umanità primordiale”7.
Il piombo, al quale il pianeta viene associato, era particolarmente importante nell’opera alchemica di “redenzione”. In
omeopatia il rimedio Plumbum metallicum, che si rifà più
direttamente a Saturno, viene usato per l’atrofia progressiva
dei muscoli, paralisi a livello somatico o psichico, per la
depressione melanconica in cui il malato teme di essere avve-
Giorgio Vasari, Aria, il dio del Tempo Crono mutila il dio del Cielo Urano, i cui semi
daranno origine ai quattro Elementi, 1555/57, olio su tavola, Firenze, Palazzo Vecchio,
Sala degli elementi
4. I Saturnalia sono un’opera letteraria di Ambrogio Teodosio Macrobio, composta intorno al 430. La forma è quella del dialogo conviviale. S’immagina che
durante le feste di Saturno dodici personaggi dell’aristocrazia romana ed
esponenti della classe senatoria della fine del IV secolo conversino su questioni dotte. Nel libro I si discute proprio del nome e l’origine dei Saturnali e degli
antichissimi culti italici.
5. Faracovi Ornella, “A proposito di Saturno”, Linguaggio Astrale 115
6. Cattabiani Alfredo, Calendario, Rusconi 1988
7. Del Ponte Renato, La religione dei Romani, Rusconi 1992
8. Hillman James, Puer aeternus, Adelphi 1999
lenato dalle persone che lo circondano.
Dopo essermi riferito mitologicamente a Kronos/tempo, non
posso trascurare quello che è il tempo dell’anima, “il tempo
di mezzo”, Kairos come lo chiamano i Greci, quello in cui
accade qualcosa di speciale.
Potrei esemplificare ancora il discorso sottolineando che si
passa dalla quantità, ossia la misura del tempo del primo, a
quella seconda accezione, relativa invece alla qualità del
tempo, che i teologi designano come “il tempo in cui Dio agisce”.
È quel tempo in cui, se afferri l’evento, dai alla tua vita una
svolta, un sostanziale cambiamento, e ancora, quello in cui
riesci a farti comprendere empaticamente dall’altro, immersi
entrambi in un tempo dilatato dal sottofondo emozionale
emergente, impregnato di senso e significato fino a quel
momento troppo logico.
Forse è quell’attimo di tempo molto denso, qualitativamente
pregnante, in cui, si ipotizza, i morenti ripassano tutta la propria vita “chiaramente” per entrare nell’“ex ternum”, fuori
dalla ternità, composta da passato, presente, futuro, e tuffarsi in un eterno presente, fuori dalla dimensione temporale.
Le fasi della vita, ci suggerisce Hillman8, sono un alternarsi
di una alchemica pulsazione di solve et coagula di Puer, che
presiede allo sbocciare degli eventi, e Senex, intento al raccolto. E alla morte chi presenzia, il vecchio con la falce (SenexSaturno) o il giovane angelo.
MASSIMO FORNICOLI, vive a
Vallerano. Dopo studi filosofici,
è approdato alla psicologia del
profondo e all'antropologia,
approfondendo diversi campi di
studio: dalla mitologia e la storia
delle religioni, alla parapsicologia ed esoterismo. Si dedica al
recupero di aspetti storici,
archeologici e artistici del suo
paese. Attualmente svolge la
professione di psicoterapeuta.
46
La Majakovskij comunicazione è un
posto per i disillusi; un angolo pieno
di calore per coloro che desiderano
trovarsi a casa; un museo per chi
cerca di illuminare l’anima; uno studio
e un luogo in cui fermarsi per chi
ama l’ombra delle parole e il profumo
dell’arte; è un luogo in cui curare
i malanni del secolo, un luogo di
amicizia e armonia per chi entra…
Via Vincenzo Cardarelli, 6
01100 - Viterbo
T. +39.0761.25.21.20
WEB
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47 - Il tempo virtuale
IL TEMPO AL TEMPO DEL WEB 2.0
di Riccardo Nisini
E se il tempo non esistesse e fosse solo un’umana abile astuzia per
giustificare o meglio eludere l’inquietudine del proprio invecchiamento? In fondo il tempo dov’è, quali le prove della sua esistenza?
Gli orologi? un’altra invenzione dell’uomo, grazie alla quale i
countdown della notte di San Silvestro sono la massima espressione di allegorica devozione a questa inarrestabile invisibile
entità.
A parte questa ironica introduzione, il tempo, purtroppo o per
fortuna a seconda dei casi, esiste eccome e man mano che passa
non solo accentua la propria importanza, ma vale sempre di più.
“Il tempo è denaro” è soltanto una delle numerosissime analogie
utilizzate per concettualizzare qualcosa di inafferrabile.
Di certo del tempo ne farebbero a meno una sempre crescente
categoria di persone.
I ritardatari cronici, per esempio. Quelli che arrivano agli appuntamenti mezz’ora dopo adducendo le solite scuse: il traffico, il
treno in ritardo o lo sciopero dei mezzi pubblici. Insomma, quelli
che provano ad ingannare il “loro” tempo mentre gli altri, ingenuamente puntali, aspettano, costretti così a sottrarre tempo alla
propria vita.
Ciò che invece non può sfuggire alle regole del tempo è la comunicazione dei nostri giorni.
Tutto corre velocemente senza tregua e non sono ammessi ritardi
né perdite di tempo.
Informazioni, eventi e notizie viaggiano in trasmissioni radio,
televisione e via internet sempre più in “tempo reale”.
Nuove parole come streaming, online, live ormai vengono regolarmente usate per sottolineare l’invio continuo di dati, fotografie,
immagini e voci in un presente che sembra non abbia mai fine,
catturando il tempo in ogni millesimo di secondo.
Un attimo dopo, chiusa la connessione, sembra sia tutto passato
remoto.
Via tutto ciò che è reale e analogico, ingombrante e lento, per dar
“spazio” al virtuale, più agile e rapido.
Sempre meno libri o quotidiani di carta, ma dita che toccando
uno schermo sfogliano pagine virtuali.
Due click e un romanzo intero parte e arriva, dopo pochi secondi,
a uno, cinque, dieci destinatari.
Il tutto per risparmiare tempo!
Ed ecco che oggi l’evoluzione di connessioni e collegamenti in
internet ci consente una elevatissima interazione tra siti web e
utenti e soprattutto tra utenti e utenti e, consapevoli o no, ci fa
vivere
nel
meraviglioso
mondo
del
Web
2.0.
Twitter, Facebook, Google+, Skype, Whatsapp, eccetera sono le
applicazioni che consentono una straordinaria comunicazione tra
persone, veloce e in tempo reale, e i nostri post, le nostre ultime
visite, tutti i nostri commenti hanno giorno, mese, anno e minuto
ben registrati col marchio del tempo.
Politici, illustri manager, stelle del cinema, cantanti fino ad arrivare a capi di Stato e addirittura al Papa, ad esempio, si servono dei
Social Network per condividere all’istante un loro comunicato
ovunque e a chiunque, mentre fino a poco tempo fa si doveva
aspettare il quotidiano del giorno dopo o il telegiornale della sera.
Transazioni bancarie e finanziarie, acquisto dei biglietti e fast
check-in per aerei e treni, prenotazioni di vacanze, di alberghi,
forum interattivi su ogni argomento con pareri e feedback degli
utenti, blog tematici: una catena impressionante di contatti che
ogni secondo unisce miliardi di persone sia per l’ordinaria comunicazione sia per “chattare” emozioni e coltivare sentimenti attraverso le conversazioni telematiche. Tutto meravigliosamente possibile e … in pochissimo tempo.
Eppure, nonostante questo magnifico progresso tecnologico,
viviamo in un tempo dove il tempo sembra non ci basti mai.
La frase “mi dispiace, ma non ho tempo” è vero che è spesso
usata da chi non vuole dichiaratamente esprimere il proprio
diniego, ma molto spesso rappresenta davvero una realtà oggettiva ossia che spesso il tempo ci manca.
Forse tutti dovremmo chiederci se è davvero colpa del tempo che
a volte ci sembra insufficiente per fare tutto o se invece siamo noi
che ormai vogliamo fare troppe cose nello stesso tempo.
La tecnologia che oggi ci consente di essere così rapidi e facilmente connessi con altri è importante e indubbiamente va usata se si
vuole stare “al passo coi tempi”.
Chiediamoci, però, se ogni tanto non sarebbe il caso di spegnere
tutti i computer, tablet e telefoni cellulari, televisori e radio, e provare a prenderci un po’ di “tempo” per noi.
Fare una salutare passeggiata in campagna o ammirare un bel tramonto sul mare ci deve rasserenare e rendere consapevoli che
non stiamo perdendo tempo se lasciamo che quel meraviglioso
felice flusso, senza ansia e senza fretta, ci culli portandoci con sé.
RICCARDO NISINI, regista, produttore
esecutivo e autore Rai dal 1990. Ha collaborato a molti programmi (I fatti vostri, Mattina
In famiglia e Mezzogiorno In famiglia, Telethon
Trenta ore per la vita e L’isola dei famosi).
Autore e regista per Voyager e dei World music
awards, produttore esecutivo di Capotavola,
Cerca sapori e Qualitalia dop di RaiDue.
Attualmente cura la regia per Campioni di
cuore in Uno mattina In Famiglia di RaiUno
ed è regista per diverse produzioni di
RaiMovie e Rai Premium.
Il tempo della lettura - 48
LA LETTURA DEL TEMPO
ROMANZI DISTOPICI E STEAMPUNK
di Claudio Anasarchi
“Dove trovare il tempo per leggere?
Grave problema.
Che non esiste…
Il tempo per leggere, come il tempo per amare, dilata il tempo per vivere.”
Daniel Pennac
Daniel Pennac, nel suo fortunato saggio sulla lettura Come un
romanzo, si serve di queste parole per rimarcare quanto possa
essere intenso il momento comunicativo nell’atto della lettura, tanto da riuscire spesso a creare un’enclave temporale, un
mondo parallelo dove la cognizione del tempo, è totalmente
diversa da quella della quotidianità, del “dovere di vivere”,
somigliando di più al sogno, altro lemma verbale che Pennac
accomuna a quel verbo “che non sopporta l’imperativo” che è il
leggere.
Partiamo da questa riflessione - che ci fa ricordare quanto
spesso la scuola (principale agenzia educativa istituzionale)
adotti mezzi coercitivi per promuovere la lettura - per indirizzare l’indagine nell’ambito della narrativa per l’infanzia.
Se vogliamo elencare le incursioni del tema nella letteratura
per ragazzi non possiamo fare a meno di registrare una moltitudine di approcci: tra viaggi nel tempo, mondi paralleli,
sospensioni del tempo, tempo della memoria, tempi futuri,
momenti di attesa o di fretta, monotonia e noia, in cui il
tempo sembra fermarsi. Un approccio diretto lo troviamo in
un’opera completamente centrata sul tema della percezione
del tempo e della sua valenza nell’inconscio collettivo. Qui si
racconta di Giulia e Arianna, due undicenni amiche per la
pelle. Il libro è L’isola del tempo perso di Silvana Gandolfi
(Salani, 1997), la storia è quella di Arianna che durante una
gita scolastica alla miniera entra in un cunicolo per salvare
un cucciolo di pipistrello, Giulia la segue, le due si perdono,
ma si ritrovano misteriosamente catapultate su un’isola sormontata da un vulcano; dalla sabbia nera sulla spiaggia affiorano quantità di oggetti abbandonati; il tempo scorre lentissimo, lunghissimi tramonti e interminabili notti di luna.
Scoprono di essere arrivate nell’Isola del Tempo Perso dove
finiscono tutte le cose e le persone che sulla terra si sono
smarrite. Anche il tempo, che si trasforma in piacevoli zampilli di lava energizzante quando viene perso per divertimento e piacevole ozio, o in terribili fiumi neri – il tempo
sprecato – che stordiscono gli abitanti dell’isola fino a ridurli a stupidi cannibali. Nell’isola incontrano una banda di
ragazzini che si occupa di controllare il posto e di rispedire
nel mondo tutti quelli che da soli nell’isola non saprebbero
sopravvivere (cuccioli di animali, vecchietti sperduti…). Con
loro Giulia e Arianna scoprono il nuovo posto in cui si trovano, vivendo avventure e pericoli. Fin all’arrivo di un allarme:
l’isola è in pericolo, gli umani producono troppo tempo sprecato inutilmente e le fumarole nere rischiano di avvolgere
tutto. E’ necessario intervenire, tornando nel mondo reale
per cercare di insegnare alle persone l’importanza del tempo.
Ormai annoverata tra i preziosi classici contemporanei per
ragazzi l’opera, arricchita dalle espressive illustrazioni di
Giulia Orecchia, segna a pieno diritto un proprio spazio tra i
luoghi dell’infanzia dei classici per bambini, tra l’Isola che
non c’è e il Paese delle Meraviglie, tra il regno di Fantasia e il
giardino segreto. La proposta suggerita è radicalmente alternativa rispetto all’epoca in cui viviamo: per cercare un senso
alla vita e alla morte, sembra dirci, bisogna sapersi perdere, e
arrivare così dove altrimenti non si avrebbe accesso. Il tempo
lento del creare e del far sviluppare legami, del soffermarsi a
guardarsi dentro o ad osservare gli altri e la natura, il tempo
dell’arte e della spensieratezza non è un deprecabile lusso,
ma un bisogno profondo, vitale, per assaporare la vita stessa.
La minaccia viene da un altro tempo perso, ben diverso dal
nobile ozio per cui vive l’isola, è il tempo sprecato, il tempo
sociale subito e non scelto, il tempo serrato della massima
efficienza produttiva, il tempo che porta ai grandi disagi di
molte società odierne: depressioni, esaurimenti, suicidi,
aggressività.
Gli albi illustrati non destinati alla prima infanzia costituiscono un fenomeno editoriale di qualità e di grande vitalità
di questi ultimi anni. “Le immagini rivelano molto di più di
quanto apparentemente sembrino dire. Per leggerle correttamente bisogna esercitare l’occhio, insegnargli a fermarsi e
concedergli di bighellonare all’interno di figure piene di dettagli.” Può essere una felice dichiarazione d’intenti che sottintende l’impegno e la passione di chi crede nella potenza
intellettiva e emotiva dell’immagine visiva e, nello specifico,
alle valenze educative e pedagogiche dell’illustrazione per
l’infanzia, tributate troppo spesso al solo dominio della parola. Una suggestione forte e originale a queste intenzioni e al
nostro tema è data da Casa del tempo di Roberto Innocenti,
pubblicato in Italia da la Margherita nel 2010, testo poetico,
intervenuto a illustrazioni fatte, di Roberto Piumini. Nel
volume, la vicenda di una modesta casa di campagna
dell’Appennino toscano - che compare sedici volte nella stessa posizione, con la stessa inquadratura – diventa rappresentazione di un secolo dall’esordio del Novecento ai giorni
nostri. Il tempo scorre su quel microcosmo e ne lascia i segni,
49 - Il tempo della lettura
Ringraziamo l’illustratrice Laura Berni per averci concesso la pubblicazione di una sua opera.
dove la lunga durata della civiltà contadina si intreccia con
gli avvenimenti storico-politici e con l’irruzione tragica delle
guerre, fino a giungere al progressivo spopolamento delle
campagne degli anni ’50, all’abbandono e al degrado, con l’amara tavola finale che dell’abitazione segnala una stridente e
tragicomica discontinuità sia funzionale che estetica.
Splendide tavole, ricche di particolari, tutte da leggere; una
riflessione accorata e civile sul valore della memoria come
condizione necessaria per costruire il futuro.
E di tempo futuro si parla in un nuovo genere narrativo
destinato agli adolescenti, dominato dalla paura dell’incognito. Nel romanzo distopico (distopian novel) il lato oscuro
della fantascienza sottolinea un’improvvisa frattura temporale, un’imminente fine del mondo o della civiltà a causa di
guerre nucleari, pandemie o qualche genere di disastro naturale o artificiale, ma anche la frattura del rapporto tra giovani e adulti. Il termine distopia, che sta ad indicare la presenza nella storia di una società che è la peggiore possibile,
nasce nel 1868 ad opera del filosofo John Stuart Mill e si contrappone, naturalmente, al termine utopia, il quale identifica
un non-luogo socialmente perfetto, reale o metafisico. Nobili
antenati e maestri del genere risalgono all’inizio del
Novecento, percorrendolo per oltre mezzo secolo: Shiel,
London, Zamjatin, Huxley, Orwell, Bradbury, Matheson, poi
Il tempo della lettura - 50
Dick, Vonnegut e Ballard, ma il vero precursore è forse H.G.
Wells, che nel 1895, nel suo romanzo La macchina del tempo
aveva immaginato un futuro in cui i discendenti della classe
dirigente vittoriana, gli Eloi, venissero allevati come carne da
macello dai Morlocchi, discendenti della classe operaia. Che
non si tratti di semplice moda o marketing editoriale è comprovato dal fatto che anche a livello internazionale la letteratura per adulti sta percorrendo questi temi con testi di elevata qualità, da La strada di McCarthy a La seconda mezzanotte di
Scurati. Stesso discorso nel cinema, come testimoniano
recenti film in grado di offrire visioni più coinvolgenti:
Contagion, L’alba del pianeta delle scimmie, Non lasciarmi.
Se il noir ci dice che il Male si è impadronito della città, anche
se alcuni continuano a opporsi e combatterlo; se il fantasy è
una fiaba lunga che ci consola e illude che il Bene possa vincere il Male e se la science fiction si è sempre caratterizzata per
la capacità di intercettare le tendenze latenti nella società, nel
momento che la società non riesce più a progettare il proprio
futuro, all’immaginario letterario non rimane che emigrare e
rifugiarsi nel sogno a occhi aperti del fantasy o sporgersi a
guardare nel baratro dell’apocalisse e dell’utopia negativa
che disegnano scenari futuri allarmanti o ingigantiscono
derive sociali e politiche in corso. Un libro per tutti: Bambini
nel bosco di Beatrice Masini (Fanucci, 2010), opera inclusa tra
i dodici romanzi selezionati per il premio Strega (a conferma
che non esiste una letteratura per ragazzi come genere minore), che racconta una storia del “dopo bomba”. Nella nuova
terribile realtà un gran numero di bambini vive segregato in
una Base, dove sono concentrati “Avanzi” (sopravvissuti alla
catastrofe) e “Dischiusi” (nati da embrioni), tutti privati di
memorie e relazioni familiari. Un gruppo abbandona la base
e fugge nel misterioso bosco che la circonda, con il conforto
di un vecchio libro di fiabe letto da Tom. Tom è uno di loro,
ma appare diverso: conserva alcuni ricordi e sa leggere.
È anche per questo che, suscitando emozioni e curiosità,
assume pian piano il ruolo di guida del gruppo.
Ma c’è un altro genere letterario per ragazzi, seppur di nicchia, che incarna in maniera ancora più stringente il tema di
un’alternatività temporale. Si vuole alludere ai “romanzi a
vapore”, alla tecnologia fuori tempo dello steampunk: un
genere che si muove nella sfera dell’immaginifico tra le pieghe di tempo e spazio, dov’è possibile ipotizzare non solo
universi fantastici ma anche passati alternativi della storia e
in particolar modo dello sviluppo scientifico-tecnologico, e
che cerca di rispondere alla domanda: come sarebbe stato il
passato se il futuro fosse accaduto prima? Questo filone della
fantascienza s’inserisce infatti in un ambito della fantastoria
– o ucronia – che implica una tecnologia non futuribile bensì
quella della rivoluzione industriale, ma con speciali peculiarità: una meccanica pesante (tecnologia povera, punk) mossa
a vapore (steam) che si è evoluta in forme diverse da quelle
note e con le sue accelerazioni ha consentito in periodi precedenti a quello effettivo conquiste quali i viaggi spaziali.
Suggestioni steampunk sono presenti in Art Mumby e i pirati
dell’eternave dell’inglese Philipp Reeve, Mondatori 2010, in
cui l’adolescente Art, che vive con il padre e la sorella in una
casa spaziale nella Londra della fine degli anni ’50
dell’Ottocento, costruita all’inizio del XVIII secolo, pochi
anni dopo che le scoperte di Isaac Newton resero possibile la
Conquista dello Spazio, ovvia alla mancanza di gravità con
un “aggeggio” di vecchia progettazione, tutto ingranaggi e
leve e scanalature e coni ed enormi sfere rotanti. In Leviathan
dello statunitense Scott Westerfeld (Einaudi 2009), l’avventura è collocata in una versione alternativa dell’Europa
Centrale allo scoppio della Grande Guerra. Protagonisti due
quindicenni di fazioni nemiche: Aleksander, figlio dei reali
austroungarici assassinati nel giugno 1914, e Deryn, che si
traveste da maschio per addestrarsi come aviatrice nel
British Air Service. Lui appartiene ai Cingolanti, che usano
macchine a vapore in grado di spostarsi come bestie, lei ai
Darwiniani, la cui biotecnologia è basata su nuove specie
animali. In Alice nel paese delle vaporità, rivisitazione del classico di Carrol, di Francesco Dimitri (Salani 2010), infine, la
vicenda, narrata in un dattiloscritto odierno, si svolge nel
1882 a Londra, che da 2000 anni si protegge dalla vaporità,
tecnoimmondizie, le scorie prodotte dai resti di Antiche
Tecnologie, che avvolge la restante Inghilterra o Terra del
vapore. Alice, antropologa impegnata a esplorare questa
Steamland, ha zavorre per difendersi dai suoi allucinogeni
effetti, ma poi li accetta, fino a considerarli un mezzo per
liberare le percezioni; una nuova prospettiva che le consentirà la trasformazione di sé.
CLAUDIO ANASARCHI, è nato a Campi Bisenzio dove vive
tuttora. Dopo studi letterari ha iniziato a occuparsi di biblioteche.
Appassionato di letteratura giovanile fa parte della redazione di
LiBer, trimestrale di letteratura per ragazzi. Adesso lavora nella
biblioteca pubblica del suo paese, dove ha sede un importante
centro di documentazione della letteratura per l’infanzia, ed è
felice di consigliare, ogni giorno, buoni libri a giovani lettori.
51 - Il tempo della lettura
SULLE ORME DELLA STORIA
recensione di Silvia Cruciani
Sulle orme della storia racconta le vicende del Castello di
Vignanello attraverso la storia di due protagonisti inaspettati: Marè e Scottino, cagnolini la cui vita è legata indissolubilmente a quella dei loro padroni e del castello.
Il libro è nato da un’idea di Nathalie Pignatelli di Montecalvo
per avvicinare i bambini alla Storia (con la s maiuscola), con
simpatia e leggerezza nella speranza che imparino ad amarla. Si tratta, altresì, di un omaggio alla bellezza del Castello
di Vignanello e un invito a visitarlo e a conoscere la sua storia, con la s minuscola, ma non per questo meno appassionante.
Il racconto semplice e scorrevole è accompagnato da illustrazioni di grande impatto cromatico: tra fantasia e realtà, le
immagini accostano alle figure dei due cagnolini molti dettagli tratti da simboli dipinti e particolari scultorei del castello.
Le illustrazioni di Ferdinando Sciarrini riescono a trasportarci nella magia del castello con spirito leggero e con uno speciale rispetto delle epoche remote.
Questa pubblicazione si avvale, infatti, del contributo di un
discendente diretto dei Marescotti-Ruspoli, proprietari da
sempre del castello. Paulo Ruspoli Misasi ha voluto ridare
vita ai suoi antenati e ricreare lo spirito romantico e poetico
che ancora si respira tra quelle mura. Inoltre, il consulente
storico, Vincenzo Pacelli, ha messo a disposizione le sue
tante ricerche e gli articoli scritti sulla storia rinascimentale
ed in particolare su Vignanello.
La narrazione si snoda attraverso i secoli, soffermandosi sui
personaggi che hanno trasformato l’originaria fortezza in un
gioiello architettonico: un castello storico, unico nel suo
genere.
Si è scelto di fare una pubblicazione bilingue italiano e inglese, con la traduzione di Fritzi Pignatelli a fronte, per permettere anche ai “curiosi” stranieri di scoprire i segreti del
Castello di Vignanello.
Nathalie Pignatelli è l’autrice che Frasi Editrice ha scelto per
la pubblicazione del suo primo libro. La piccola casa editrice
è nata, infatti, all’inizio del 2014 con il desiderio di dare spazio e voce alla letteratura e all’illustrazione sull’infanzia e per
l’infanzia. Il progetto è di pubblicare libri belli da leggere e
da vedere, in cui le immagini parlino quanto le parole e possano raccontare storie, fiabe, esperienze e vite con la poesia e
lo stupore che contraddistingue il linguaggio proprio dei
bambini e del quale gli adulti farebbero bene a reimpossessarsi.
Il tempo scritto - 52
TEMPO E SPAZIO IN CORRADO ALVARO
di Anne-Christine Faitrop-Porta
Il tempo che cammina
Ci vogliono molti anni per cancellare un sentiero su cui sono passati uomini e uomini per trecento anni. Ma per noi che lo percorremmo a piedi o a cavallo ogni cosa ha cambiato senso. Fu qui che
io ebbi l’impressione del tempo e dello spazio , la prima volta.
Erano venti chilometri di sentieri e facevano tutto un mondo (…)
Potrei percorrere, sul filo di questo ricordo, quasi il cammino della
civiltà, ieri formata di cose distanti, discontinua, animata di favole, e oggi simultanea, in cui lo spazio e il tempo hanno altro senso
cui non ci siamo ancora adattati del tutto. Ecco come finisce il
mondo classico, il mondo antico, il mondo della natura.(…) è il
trionfo dell’uomo; l’uomo sulla sua macchina elementare ha conquistato se stesso e il suo potere sulla creazione. Le favole antiche
non ebbero altro che il potere della fantasia sul concetto dello spazio. Il mezzo di cui gli uomini si servivano, di cui mi sono servito
anch’io per metà della mia vita, ingigantiva il paesaggio, dava una
conoscenza più stretta e insieme più misteriosa con le cose; (…).
Allora la strada s’animava di remote presenze, di orrori, di timori,
di liete liberazioni.Tutto diventava faticoso, prezioso, perfino le pietre portate sulla groppa degli asini, e a ogni passo si misurava la
misera condizione umana, assediata dal tempo e dallo spazio. Per
questo gli uomini erano amici fra di loro. Ieri erano la fatica di
vivere e di camminare, un tempo lungo e pieno di meandri, e ogni
cosa segnava la sua ora al sole.
Itinerario italiano, 1941 (pp.244-248)
Il tempo che corre
Gli uomini sono un prolungamento e una proiezione della macchina, e anche nel sonno sono visitati dal suo tremito, anche nei
discorsi sono ispirati dalla sua fretta irritata. La fretta non è che la
conseguenza del ritmo della macchina. Perché correre? La velocità
finisce con l’essere fine a se stessa, e la vita non è altro che movimento, mostrare a sé e agli altri che ci si muove. L’uomo sente battere le sue vene, circolare il suo sangue, aggirarsi i suoi pensieri,
con lo stesso ritmo dei motori; è preda del demone della velocità che
lo scaglia da un punto all’altro del suo mondo senza altro scopo che
quello di correre, di fare in fretta, di muoversi. Tutto il suo pensiero è più nella corsa veloce che nell’ufficio che deve adempiere, e
quando mette piede in terra da una macchina, gli sembra di aver
già fatto tutto il suo ufficio. Trema tutto, quando abbandona la
corsa, diviso in due parti, qualche cosa di lui sembra che gli corra
avanti, e il corpo sopravanza lo spirito.
Colore di Berlino, 2001 (p.133)
Baku, è la capitale, la più grande città e il più grande porto dell'Azerbaigian e di tutto
il Caucaso. La città svolse un ruolo vitale per il rifornimento di petrolio. Nel dicembre
del 2000 la Città Vecchia è stata dichiarata dall'UNESCO Patrimonio dell'umanità.
53 - Il tempo scritto
Dai ritmi lenti e saggi della natia Calabria in “Le strade,il
tempo” dell’ Itinerario italiano alla frenesia della Berlino degli
anni Trenta, si palesa già il contrasto. La strada che sostituisce i sentieri apre un abisso tra la civiltà patriarcale e il progresso novecentesco.
Per Corrado Alvaro dallo spazio non è mai disgiunto il
tempo. Al primo viaggio in Europa del 1921-22, giunge in
Francia con l’intimo tormento della grandezza della sua
Magna Grecia troncata da “fiumi d’oblio” e della truce e nera
attualità italiana, e ammira in Parigi una città “costruita tutta
nello stesso giorno” su un “terreno storico”. Come la letteratura francese unisce Villon a Proust, la tradizione unita all’apertura alle novità fonde senza soluzione di continuità il
Louvre con l’Arco di trionfo napoleonico e la Grande Ruota,
l’obelisco della Concorde e il Trocadero e trafora con le bocche del Métro la piazza dell’Opéra, “crocevia del mondo”,
con un pragmatismo che Alvaro riconosce come retaggio latino. Al Parc Monceau si affaccia un piccolo giapponese, quasi
un trapiantato idolo, in “una distanza di secoli”.
Il pittore Cassandre evoca in un suo manifesto “quell’impressione di spazio e tempo in cui pare sospesa interminabilmente la nostra vita”, e il viaggiare in treno altro non è che
“un tempo in movimento su uno spazio fuggente”.
Plasmato dai secoli, il Mediterraneo in cui “non un palmo di
costa è senza una storia” offre un “panorama di regioni più
che di nazioni” con una lunga e stretta parentela di genti, si
legge in Viaggio in Turchia del 1932. Da Brindisi a Rodi la
navigazione fa scoprire terre “da una distanza d’anni” e il
mare è “specchio mobile della più vecchia Europa”.
All’occhio perspicace del viaggiatore si rivelano le antiche
parentele perfino nella Russia sovietica. A Baku, in I maestri
del diluvio del 1935, in un desolato paesaggio spoglio e
oppresso da una luce gialla, tra le impalcature dei pozzi di
petrolio, scaturisce il ricordo del Fuoco eterno, di Zoroastro e
di Mitra, divinità venerata in India, in Persia e fino a Roma,
in “un tempo che fu sacro”. Con l’evocazione di Sodoma,
Gomorra e Pompei cozza lo spettacolo della ricchezza effimera e minacciosa del petrolio, che una cruda immagine rapprende nei molteplici tubi quale “gigantesco intestino”. In
Ucraina, nella “rasa immensità fulva”, muoiono di fame
davanti alle messi donne e bambini e la pianura è uno spazio
“che i giorni misurano con un metro troppo corto” e cancella passato e avvenire in un presente senza speranze.
Anche la Germania annienta il passato con “il ritmo più accelerato”. La selva e la pianura, conosciute nel 1928-29, suscitano in Alvaro la memoria del mondo mitologico di Sigfrid,
che si traduce nella vita moderna in un “assalto” incessante
eseguito con disciplina e con esaltazione. Berlino all’opposto
della tradizione e della misura di Parigi, è all’unisono con
l’America, una “perpetua creazione dell’oggi”, che delle arti
meccaniche, musica da ballo, fotografia, cinema, fa i nuovi
idoli, in un consumismo sfrenato. Proprio a Berlino, dove
nascono le opere determinanti di Alvaro, si esprime la divergenza fondamentale tra la brama materialistica del nord tesa
verso un fallace avvenire e il “sapore antico” del sud nato dal
passato e volto all’aldilà. Ne è simbolo una statua di Giove,
giunta da Napoli, in una vetrina berlinese, “forma definitiva
e compiuta in questo mondo mutevole e volante”. Nel sud il
tempo è pietrificato e “tutto è accaduto”, secondo il titolo di
un romanzo alvariano.
Per non perire si apre la prospettiva di un “eterno” viaggio,
ma “nell’immensa distanza degli anni”, confessa Alvaro
nella lirica Compianto:
eternamente immenso
non è più che il patire.
Di governare il tempo si illude l’uomo e nella narrativa alvariana gli orologi scandiscono l’autorità e la tirannia, come nel
romanzo sulle dittature L’uomo è forte e in un racconto di La
signora dell’isola. Tuttavia è l’orologio di un teatro, forma artistica prediletta da Alvaro, in una prosa poetica del 1925,
Quadrante, oggi in Lettere parigine, a farsi portatore della rivelazione, battendo come un minatore “qualche cosa che somiglia al colpo che avvertono gli uomini quando sentono di toccare la verità nel profondo del cuore”. L’orologio le cui ore
scorrono “come gocce del tempo già bevuto” nella lirica Il
viaggio, in Nella notte della stanza
Sbocconcella, sbocconcella lo spazio
Non sai più se sia spazio o tempo
e diventa lo strumento privilegiato della ricerca delle “cose
immortali”. Il tempo dal “sentiero” dei ricordi alle strade
“che vanno polverose all’ignoto”, porta l’uomo dal Paradiso
terrestre dell’infanzia alla vita vera, perché “ogni uomo è
responsabile del suo tempo”, si legge nell’Ultimo diario.
Corrado Alvaro, percorso il mondo per intenderne nella
realtà presente, il passato e il futuro, tramandata al lettore le
verità scoperte, con il battito non dell’orologio ma del cuore,
riposa a Vallerano, scelto quale Eden dell’età matura, sotto
un cielo che ormai, come in una sua prosa poetica su Parigi,
“non ha ora”.
ANNE-CHRISTINE FAITROP-PORTA,
ha dedicato i suoi studi alla letteratura
italiana e a quella francese, spesso analizzando i rapporti culturali tra Roma e
Parigi alla fine dell’800. Ricordiamo in
particolare il suo amore per Trilussa,
espresso nel volume Trilussa, doppio volto
di un uomo e di un’opera, che le ha valso il
titolo di Académicienne dell’Accademia
Trilussiana nel 1974. Ha ricevuto la
Medaglia d’argento del Ministero della
Pubblica Istruzione e il titolo di Cavaliere della Stella della Solidarietà
italiana, che premia gli stranieri per il loro contributo alla ricostruzione dell’Italia nel dopoguerra. Anche la Francia, suo paese di origine,
le ha riconosciuto il titolo di Commandeur des Palmes Académiques
e le ha tributato la Médaille vermeil de l’Académie française. Oltre ai
15 libri, 115 articoli pubblicati dalla studiosa, insieme alle accurate
traduzioni, alle 86 conferenze e relazioni, va sottolineata la sua attività di curatrice. La sua profonda ammirazione per Corrado Alvaro,
uomo ed artista, osservatore attento della storia e dei costumi dei
popoli, può essere letta nelle prefazioni ai libri di “viaggio” del grande scrittore: Colore di Berlino, Viaggio in Germania, Viaggio in Turchia, I
Maestri del diluvio. Viaggio nella Russia sovietica, Colore di Parigi. È in
corso di stampa un volume dedicato alla cultura francese di Alvaro.
Il tempo scritto - 54
IL CARTEGGIO ALVARO-ZWEIG1
di Arturo Larcati
Nella storia, in buona parte ancora da raccontare, dei contatti culturali italo-tedeschi tra le due guerre, un episodio ancora del tutto sconosciuto riguarda il rapporto tra Corrado
Alvaro (1895-1956) e Stefan Zweig (1881-1942).2 A documentare il loro rapporto c’è un conciso ma significativo carteggio,
che riguarda gli anni tra il 1929 e il 1931. Le missive testimoniano un reciproco interesse e apprezzamento dell’uno per il
lavoro dell’altro; per certi aspetti suggeriscono una certa sintonia o perlomeno una comunanza di intenti e, a livello personale, lasciano trapelare i primi passi verso un’amicizia che
però poi non è mai sbocciata definitivamente. Nello scambio
epistolare Alvaro, di quattordici anni più giovane del suo
interlocutore e ancora alla ricerca di una affermazione definitiva come scrittore, recita la parte dell’allievo devoto di fronte al maestro; in sostanza si rivolge a Zweig perché spera che,
grazie alla mediazione dell’affermato scrittore e traduttore,
la sua opera sia conosciuta meglio anche nei paesi di lingua
tedesca.
Zweig, dal canto suo, accetta di buon grado le richieste di
suggerimenti e di giudizi che gli vengono rivolte da Alvaro e
gli comunica la sua disponibilità ad aprirgli la strada nel
mercato librario tedesco. Non solo: si può dire con certezza
che Zweig abbia stimato lo scrittore calabrese anche quando
i loro contatti personali si interrompono. Lo dimostra una lettera del 18 febbraio 1935 scritta alla sua traduttrice italiana, la
germanista Lavinia Mazzucchetti, in cui Zweig raccomanda
alla sua interlocutrice che “un esemplare particolarmente
bello” della traduzione italiana del suo Erasmus sia fatta arrivare, tramite l’editore Sperling & Kupfer, a quattro destinatari che gli stanno particolarmente a cuore: Ugo Ojetti, Luigi
Pirandello, Secondo Tranquilli (Ignazio Silone) e appunto
Corrado Alvaro.3 Al di là dell’apprezzamento per lo scrittore calabrese, da questa testimonianza si evince che Zweig e
Alvaro avevano delle importanti amicizie in comune come
quelle con Ojetti e Pirandello, che dunque si muovevano in
parte nello stesso entourage: Antonio G. Borgese, che fa assumere Alvaro al “Corriere della Sera”, è uno degli amici di
vecchia data di Zweig; Romain Rolland, che per un certo
periodo ospita gli articoli di Alvaro nella rivista “Europe”, è
addirittura il grande modello del pacifismo e della vocazione europea dello scrittore austriaco.
I presupposti per l’incontro tra Zweig e Alvaro sono da ricercare nell’interesse di entrambi per la cultura del paese dell’altro. A causa delle difficoltà col regime fascista lo scrittore italiano si reca in esilio volontario a Berlino. Come inviato di
diversi giornali italiani Alvaro soggiorna per lunghi periodi,
tra il 1928 e il 1931, nella capitale tedesca, riflettendo intensamente sulla città e sulla differenza tra Germania e Italia. Nel
corso di questi soggiorni, oltre che collaborare ad alcune riviste berlinesi, approfondisce la conoscenza dei classici di lingua tedesca, tra cui Kafka, Thomas Mann e appunto Stefan
Zweig.4 A sua volta, per tutta una serie di motivi personali,
letterari e artistici, non da ultimo perché amava passarvi le
vacanze, lo scrittore austriaco è profondamente legato
all’Italia e alla sua cultura.5 Per una strana coincidenza, il
1929, l’anno in cui inizia il carteggio, coincide con il momento in cui Alvaro viene tradotto per la prima volta in tedesco
e Zweig per la prima volta in italiano.6 Dunque, per uno strano gioco delle parti, ognuno dei due si affaccia nello stesso
tempo sul mercato librario del paese dell’altro. Ben diversa
sarà invece la fortuna che i due scrittori avranno al di qua e
al di là delle Alpi: mentre il successo di Alvaro resterà modesto nonostante l’interessamento di Zweig, il cammino di quest’ultimo in Italia assomiglierà sin dal primo momento ad
una marcia trionfale. Già nel 1930 usciranno contemporaneamente ben tre suoi volumi: Amok (Amok, 1922). Traduz. di
Enrico Rocca, Milano, Sperling & Kupfer (Traduttori
Nordici,7); Tre poeti della propria vita (Drei Dichter ihres Lebens.
Casanova, Stendahl, Tolstoi, 1928) Traduz. di Enrico Rocca,
Milano, Sperling & Kupfer; Fouché. Il genio tenebroso (Joseph
Fouché, 1929). Trad. di Lavina Mazzucchetti, Milano
Mondadori.
1. Le lettere di Corrado Alvaro sono conservate presso la Stefan Zweig
Collection della Reed Library dell’Università di Fredonia (NY, Usa). Si ringraziano Gerda Morrissey e Randolph Gadikian, direttore della biblioteca, per la
gentile concessione alla pubblicazione delle lettere. Un ringraziamento va
anche a Sebastiano Romeo della Fondazione Corrado Alvaro di Reggio
Calabria.
2. Su questo periodo storico cfr. L. Mario Rubino, I mille demoni della modernità.
L’immagine della Germania e la ricezione della narrativa tedesca contemporanea in
Italia tra le due guerre, Palermo Flaccovio editore 2002.
3. Le lettere di Stefan Zweig a Lavinia Mazzucchetti sono conservate alla
Biblioteca Nazionale Israeliana di Gerusalemme.
4. Sugli “esiliati italiani” a Berlino cfr. Olga Cerrato, La Berlino degli italiani.
Percorsi letterari nella metropoli del primo Novecento, Firenze Le Lettere 1997 e
Corrado Alvaro, Colore di Berlino, a cura di Faitrop-Porta, Reggio Calabria,
Falsea 2001.
5. Cfr. Gabriella Rovagnati, “Umwege auf dem Wege zu mir selbst”. Studien zu
Leben und Werk Stefan Zweigs, Bonn Bouvier 1998.
6. Cfr. Stefan Zweig, La santa schiera [traduz. di Guido Gentili ], in: Nuova
Antologia (Firenze) Nr. 343 (1° maggio 1929), pag. 68; Enrico Rocca, L’opera di
Stefan Zweig, in: Nuova Antologia (Firenze) Nr. 348 (1° maggio 1929), pag. 53.
7. Si tratta dell’edizione: Corrado Alvaro, Verborgene Antlitze. Übers. von Mimi
Zoff, Breslau Ostdeutsche Verlagsanstalt 1930. Questo resterà l’unico testo di
Alvaro tradotto prima della Seconda guerra mondiale.
55 - Il tempo scritto
Non dovrà passare molto tempo perché egli diventi lo scrittore di lingua tedesca più tradotto in Italia. La sua costante
ascesa sarà arrestata soltanto dalle persecuzioni razziali
seguite al “Patto d’acciaio” tra Mussolini e Hitler. E comunque, in Italia i libri di Zweig continueranno a essere pubblicati e venduti molti anni dopo che in Germania erano stati
bruciati sui roghi.
La prima lettera del carteggio, nella quale Alvaro informa
Zweig della pubblicazione in tedesco delle sue novelle, è
tipica per tutto il carteggio, in quanto lo scrittore calabrese si
rivolge al suo interlocutore in tono piuttosto deferente e lo
definisce uno degli spiriti più illuminati d’Europa:
Roma, via Sistina 55
9 – XII – 1929
Monsieur, Eminent Confrère,
en l’occasion de la parution d’un recueil de mes nouvelles en allemand, j’ai prié l’editeur Ostdeutsche Verlag de Breslau de vous en
remettre une copie.7 J’éspère que Vous l’ayez reçue.
Veuillez bien l’agréer comme signe d’hommage d’un des Vos admirateurs inconnus, à l’un des esprits les mieux éclairés d’Europe.
Avec mes meilleurs sentiments
Corrado Alvaro
La risposta di Zweig preannuncia una sua imminente visita
a Roma, città che lo scrittore austriaco amava visitare di frequente e che conosceva sin dai tempi in cui, nel lontano 1907,
aveva conosciuto
Sibilla Aleramo e Giovanni Cena. Nella capitale, inoltre non
solo c’era l’editore Optima, che per primo si era interessato a
lui e che aveva un’opzione per la pubblicazione delle sue
opere, ma lavorava anche Enrico Rocca, direttore del giornale “Il Lavoro Fascista”, che oltre a pubblicare il primo articolo sull’opera dello scrittore austriaco, sarà anche il suo primo
traduttore e come giornalista lo intervisterà a Firenze nel
1932.
Salzburg Kapuzinerberg 5
le 12 Décembre 1929
Cher Monsieur A l v a r o !
Il était très aimable der votre part de me faire parvenir le recueil de
vos nouvelles. J’en avais lu déjà plusieurs dans les gands journeax
dans la traduction de Mme Zoff. Cette lecture m’avait procuré un
très grand plaisir, en les voyant réunis en volume. Ils sont très
frappant par leur sobriété, leur conception, et je ne doute pas qu’ils
trouverons un public très attentif chez nous, néanmoins que la
mode en ce moment se porte uniquement sur le grands romans,
mais vous avez pris pied an Allemagne et j’espère vous ferez de
grands pas en avant. Soyez sûrs que je ferai tout mon possible,
pour attirer l’attention sur ce recueil si remarquable.
J’espère d’être en quelques semaines à Rome et que ces jours me
donneront occasion de vous serrer la main.
Exusez que je ne vous adresse pas ces lignes en italien, je le
lis couramment et je ne le parle pas mal, mais j’aime trop votre langue pour l’écrire mal et con troppi sbagli.
Votre tout dévoué
Stefan Zweig
Alvaro è ben contento di ricevere la visita di Zweig a Roma
e informa lo scrittore austriaco sui suoi progetti di lavoro, che
riguardano anche la stesura di un romanzo:
Roma, le 15 Dèc. 1929
via Sistina 55
Mon Cher Maître,
je suis bien contant de votre voyage à Rome et suis d’ores et déjà à
Votre complète disposition. Veuillez bien m’écrire un mot avant
Votre dèpart pour ce que j’avvertisse notre presse littéraire dans
laquelle vous contez bon nombre d’admirateurs. Vous avez aussi
un éditeur ici dans Optima, je crois.
Je vous sais bien gré de Votre attention à l’ègard de mon livre. Je
connais les exigences du public allemand. En fait, c’est aussi mon
ambition d’écrivain de donner des images suivantes du monde
moderne, et je travaille en ce sense. Mais la nouvelle en Italie c’est
mon travail dans les grands journaux (j’en écris soixante-dix par
an) et mon assiduité aux oeuvres complexes va fatalment au ralenti. Quand même, j’éspere d’y arriver au bout.
Agréez, Cher Maitre, l’expression de ma dèvotion
Corrado Alvaro
Da questa lettera emerge il fatto che Zweig, alla fine degli
anni venti, in Italia si è già conquistato una notevole fama tra
gli addetti ai lavori e che ha più di un “ammiratore sconosciuto”, come si definisce Alvaro.
A livello di poetica, lo scrittore calabrese dichiara di voler
fornire nelle sue novelle “delle immagini coerenti del mondo
moderno“. In questa definizione non c’è nulla di quelle
ambiguità che spingono Alvaro a coniare la fortunata formula dei “mille demoni della modernità”, che è una sorta di
condensato della sua diagnosi della Germania, per come si
manifesta in quel concentrato di vita tedesca che è Berlino.
Che Alvaro classifichi, tra questi demoni, fenomeni come
l’europeismo e il cosmopolitismo, sarebbe difficilmente
accettabile per Zweig.
Dopo l’incontro a Roma tra i due scrittori, avvenuto a Roma
tra il 25 gennaio e il 7 febbraio del 1930, Alvaro contatta
Zweig per ottenere l’opzione per la traduzione di uno dei
suoi ultimi libri:
Roma, via Sistina 55
27 novembre 1930
Caro Maestro,
Sono qui a pregarLa di un favore per una Sua connazionale moglie
al Podestà del Comune di Messina, Sua ammiratrice, donna colta.
Ella vorrebbe ottenere da Lei l’opzione per la traduzione d’un Suo
libro in italiano, “Leben und Lehre der Mary Baker Eddy”, che ha
letto a puntate nella “Neue Rundschau”. La Signora conta nell’ambiente letterario italiano alcuni buoni amici, e questo, oltre al
nome di Lei, la fa sicura di poter trovare un editore per questa Sua
opera. Se Ella volesse scrivermi qualche cosa al riguardo, lo comunicherò alla Signora, della quale, del resto, ecco l’indirizzo: Signora
Else Salvatore. Via Garibaldi. Messina.
Mi creda, coi migliori ossequi.
dev.mo Corrado Alvaro
Il tempo scritto - 56
Evidentemente Alvaro non era al corrente del fatto che
Zweig con Enrico Rocca e Lavinia Mazzucchetti aveva già
trovato due traduttori congeniali per la sua opera.
Quest’ultima sarà destinata a tradurre il testo che interessava ad Alvaro.8 Da quel momento in poi, i libri di Zweig
sarebbero apparsi, soprattutto per il favore concesso da
Zweig alla Mazzucchetti, quasi esclusivamente per i tipi dell’editore Sperling & Kupfer e per quelli di Mondadori. Così
Zweig risponde:
Kapuzinerberg 5
SALZBURG, am 12. XII 1930
Caro Corrado Alvaro, ringrazio de tutto il mio cuore a Lei per la
grande bontá di trasmettermi l’amabile proposta della Signora
Salvadore. Ma Lei mi comprendra! Siamo tutti legati al sentimento umano della gratitudine et io non posso dare un libro da me a
una altra persona prima dell’aver offerto a questi, che mi hanno
mostrata amicizia e fervore; dunque io mi sento obbligato di riservare il libro prima al caro Enrico Rocca ed alla signora Lav.
Mazzuchhetti, chi hanno tradotto i libri miei. Si questi due non
hanno tempo or volontà, io mio adressero con molta gioia alla
Signora Salvadore: basta, che sia racomandata da Lei.
Ho un buon ricordo della nostra ora commune a Roma e spero che
Lei puo viene un giorno in Austria. Voglio fare per Lei tutto, che
Lei si sente bene et abbia una impressione di sincera cordialità! Et
il Suo romanzo? Da noi come in Italia e sopro tutta la terra si sente
una certa paura dei editori, provocata della situazione politica. Ma
speriamo che questo passera et che noi possiamo in poco tempo
vedere i Suoi libri completamente in edizione tedesca.
Mi perdona, caro Alvaro, il mio Italiano piuttosto barbaro. Ma mi
fa tanto piacere di pensare in Italiano et di pensare ai amici Italiani.
Mi creda con molto respetto il Suo devotissimo
Stefan Zweig
Nella sua seconda lettera Alvaro si era lamentato del fatto
che la sua continua attività di novellista rallenta la creazione
di opere più consistenti, cosa che invece gli riesce nel 1930,
quando pubblica quella che è considerata la sua opera più
importante: Gente di Aspromonte. Tuttavia, il secondo libro
che invia a Zweig non è il capolavoro sulla sua terra d’origine, che lo avrebbe reso famoso, bensì il romanzo Vent’anni
(1930). Mentre Gente in Aspromonte racconta una storia di
contadini calabresi ed è strettamente legato ai miti arcaici
della Calabria, e quindi rientrerebbe nella letteratura regionale non particolarmente apprezzata da Zweig, Vent’anni
potrebbe soddisfare meglio, nelle intenzioni di Alvaro, i criteri della letteratura europea sognata dallo scrittore austriaco
e da lui tratteggiata in uno scritto del 1908 intitolato Vom
neuen Italien (Sull’Italia moderna).
Roma, 6 gennaio 1931
via Sistina 55
Caro Maestro,
amabilissima fu la Sua lettera in italiano, che se le è costata fatica
mi dispiace. Quando si ricorderà di me, potrà scrivermi anche in
tedesco, perché lo leggo facilmente, per quanto non mi azzardi a
scriverlo.
Grazie del suo gentile invito a Salzburg. Chissà che davvero non
venga a farle una visita.
Ha saputo che è uscito in italiano il Suo volume coi tre famosi
saggi?
È uscito in questi giorni il mio romanzo, e Glielo farò mandare.
Mi creda, coi migliori augurii
dev.mo
Corrado Alvaro
Una settimana dopo Alvaro mette in luce le caratteristiche
essenziali del romanzo ed esorta Zweig ad esprimere un
parere sull’opera:
Roma, via Sistina 55
14 gennaio 1931
Caro Maestro,
l’editore Treves m’informa d’averle spedito il mio romanzo nuovo.
Non so se Lei avrà il tempo per leggerlo, ma certo un Suo giudizio
mi interesserebbe moltissimo. Credo che questo libro, malgrado le
intemperanze di cui mi rendo conto io stesso, contenga delle vedute molto serie sul carattere e gl’impulsi degli italiani. Non è soltanto un libro di guerra, altrimenti non lo avrei scritto. Mi lusingo
che sia un ritratto degli italiani in un punto importante e vitale
della loro storia moderna e della loro formazione nazionale e unitaria. La interesserà tutto questo? Ad ogni modo gradisca l’omaggio
e il pensiero di un Suo sincero ammiratore italiano.
dev.mo
Corrado Alvaro
Alvaro spera, con la nuova opera che a suo giudizio illustra
un momento decisivo della formazione dell’Italia moderna,
di poter suscitare l’interesse del suo interlocutore austriaco.
Una supposizione plausibile, se si considera l’interesse
mostrato da Zweig in due recensioni per un rappresentante
della famiglia Poerio, una famiglia di patrioti e di liberali, e
per la figura di Garibaldi, che viene presentato come un vero
eroe romantico.
Il tanto atteso giudizio arriva solo nell’aprile 1931 e in forma
molto sintetica, come dimostra una cartolina di ringraziamento dell’aprile dello stesso anno:
Roma, 6 IV 1931
Grazie, caro Maestro, del Suo telegramma e del Suo giudizio sul
mio libro. Spero presto di vederLa.
Creda ai sentimenti più cordiali del Suo
dev.mo
Corrado Alvaro
8. Stefan Zweig, L’anima che guarisce. Saggio su Franz Anton Mesmer, Mary Baker
Eddy e Sigmund Freud. Traduz. di Lavinia Mazzucchetti, Milano Sperling &
Kupfer 1931.
57 - Il tempo scritto
Due mesi più tardi, Alvaro riceve il pieno riconoscimento che
si aspettava e risponde con una lettera molto carica di
pathos, in cui si sente molto lusingato dall’offerta di Zweig
di cercare un editore tedesco per il suo romanzo e manifesta
una forte ammirazione per la sua ultima opera, riconoscendo
in essa un’affinità nel modo in cui anche lui concepisce il
compito dello scrittore:
Roma, 13 giugno 1931
via Sistina 55
e in parte è tirato per i capelli. Che Zweig speculasse sulla
quantità di pagine delle sue opere in base a una ipotetica
maggiore “voracità” del lettore moderno appare molto strano. Se si prescinde dalle biografie dedicate a Maria
Antonietta e Maria Stuarda, nonché dal romanzo Ungeduld
des Herzens (L’impazienza del cuore), i libri di Zweig non spiccano certo per la loro voluminosità. Più plausibile invece è
l’affermazione relativa alla capacità di Zweig di “amministrare la sua fama”.
Caro Maestro,
il Suo giudizio sul mio romanzo mi lusinga molto; e non contavo,
mi creda, che Ella spontaneamente manifestasse anche il Suo interesse pratico perché il libro possa introdursi in Germania. So che il
mercato librario tedesco è in crisi. Il mio era un omaggio alla simpatia e all’ammirazione che ho di Lei.
M’interessa molto quanto mi dice intorno alla Sua nuova opera;
Ella esprime con bella chiarezza quello che tutti gli scrittori di
qualche responsabilità sentono, e cioè che ritrarre le passioni
umane e le cose belle della vita non è pura contemplazione, ma una
maniera di andare a fondo nell’essenza dell’uomo con un compito
moralistico e universale che è la conquista più solida della letteratura europea moderna.
Faccio augurii vivissimi al Suo lavoro.
Voglia credermi cordialmente
dev.mo
Corrado Alvaro
L’affinità con Zweig che Alvaro pretende di riconoscere nell’ultima opera dello scrittore austriaco, la biografia dedicata
a Maria Antonietta, consiste nel plädoyer di entrambi per l’impegno morale in letteratura e nella comune distanza dall’estetismo. Finché è espressa in termini così generici, la sintonia di intenti tra due scrittori che a prima vista sembrerebbero non avere molti punti in comune potrebbe anche sembrare plausibile e Alvaro sembrerebbe non mirare a una captatio
benevolentiae. Fino a che punto, invece, la “poetica dei vinti”
che sta alla base delle grandi biografie di Zweig possa essere
effettivamente assimilata a quella di Alvaro, è una questione
complessa che andrebbe discussa a parte.
Rispetto alle lettere, è ben diverso il tono con cui Alvaro,
nelle sue memorie di Quasi una vita (1951), rievoca a distanza di vent’anni il suo incontro a Roma con Zweig nel 1930.
All’ammirazione e alla gratitudine si sostituisce ora una chiara distanza che arriva sino al sarcasmo. Il che è piuttosto sorprendente se si pensa che questa presa di posizione è una
sorta di bilancio su un autore la cui morte tragica nel 1942 ha
portato molti altri a ripensare la sua vicenda di uomo e di
scrittore: “Stefan Zweig, davanti a un manifesto fitto a due
colonne, mi dice: “Bisogna scrivere libri voluminosi”. Gli
chiedo perché. “Perché l’uomo d’oggi legge molto piú rapidamente di prima”. Molti uomini di fama internazionale
come lui hanno modi di provincia letteraria. Dice che il Pen
Club è molto utile per i rapporti che si hanno con i differenti
paesi. Egli manda ai suoi corrispondenti della stessa associazione i suoi scritti e trova altrettanti divulgatori. Sa amministrare la sua fama.”9
Il rimprovero di provincialismo che Alvaro rivolge a Zweig
va differenziato perché in parte contiene un nucleo di verità
Foto di Stefan Zweig all’interno del “Stefan Zweig Center”
Nell’Archivio della letteratura di Salisburgo è conservato
infatti il cosiddetto Hauptbuch di Zweig, una sorta di libro
contabile dal quale risulta che lo scrittore registrava molto
precisamente i contratti relativi alla pubblicazione delle sue
opere e alla loro traduzione nelle diverse lingue straniere.
Evidentemente, Zweig ci teneva a gestire in prima persona
quella sorta di impero che come autore aveva costruito sia
nei paesi di lingua tedesca che a livello internazionale, invece che lasciarne la gestione – in toto o in parte – ai suoi editori. Per lui, era di fondamentale importanza curare personalmente i contatti coi propri editori e traduttori nonché coi
direttori dei teatri che mettevano in scena le sue pièces. È risaputo che, nel gestire l’“azienda letteraria Zweig”, lo scrittore
dimostrava le stesse capacità imprenditoriali che il fratello
Alfred possedeva nell’amministrare l’azienda tessile di famiglia. Sintomatico, a questo proposito, il motto che sta sopra
l’Hauptbuch: “Mit Gott” (Con Dio) – che avrebbe benissimo
potuto essere l’auspicio con il quale un qualsiasi imprenditore di allora iniziava il nuovo anno di attività.
9. Corrado Alvaro, Quasi una vita. Prefazione di Giuseppe Leonelli, Torino
UTET 2006, pag. 61
Il tempo scritto - 58
Per quanto riguarda la fama nel senso letterale del termine,
Zweig aveva scritto già nel 1912 un breve pamphlet dal titolo
Zehn Wege zum deutschen Ruhm (Dieci vie per conquistarsi la
fama in Germania); nonostante l’impostazione squisitamente
satirica del saggio, una parte dei consigli che Zweig impartisce per scherzo all’aspirante scrittore possono far pensare
proprio alla sua propria carriera.
In definitiva, si può concedere ad Alvaro che Zweig abbia
“amministrato” il suo successo e che lo abbia fatto con slancio, caparbietà e determinazione. Tuttavia, dalla parte finale
della citazione si deduce un protagonismo di Zweig all’interno del Pen Club degli scrittori che non corrisponde affatto al
vero. Zweig infatti era piuttosto restio a farsi coinvolgere
nelle attività dell’associazione. Partecipò soltanto al congresso di Buenos Aires nel 1936, quando fu trattata la problematica dell’emigrazione e dell’esilio degli scrittori. Due anni
dopo voleva recarsi al congresso di Stoccolma, ma finì per
non andarci. Per il resto, rifiutò regolarmente gli inviti a partecipare agli altri congressi. Quando accusa Zweig di usare i
suoi contatti all’interno dell’associazione per trovare dei
divulgatori della sua opera, Alvaro dimostra piuttosto di
avere la memoria corta perché era stato proprio lui a chiedere a Zweig di far conoscere di più i suoi libri in Germania. In
generale, dunque, lo scrittore austriaco ha fatto infinitamente di più per colleghi, amici e aspiranti scrittori di quanto
costoro abbiano fatto per lui. In una lettera scritta all’amico
di lunga data Viktor Fleischer, scritta in occasione dei suoi
cinquant’anni, Zweig parla ironicamente di un’ ”agenzia di
traduzione e di mediazione culturale” che lui ha tenuto
costantemente aperta parallelamente alla sua attività di scrittore, sacrificando ad essa molte delle energie che avrebbe
potuto dedicare al lavoro creativo.
Copertina di una edizione de Il mondo di ieri, autobiografia e ritratto di un’epoca,
capolavoro di Zweig
Lo “Stefan Zweig Center” dell’Università di Salisburgo, situato nella
cosiddetta Edmundsburg (vedi foto) vicino alla fortezza della città,
ha lo scopo di promuovere e coordinare la conoscenza e lo studio
della vita e dell’opera di Stefan Zweig. Una mostra ricca di documenti e fotografie racconta la vita e le opere dello scrittore austriaco.
Tra le attività del centro ci sono conferenze, letture delle opere di
Stefan Zweig e congressi sulla storia della letteratura e della cultura
europea del ventesimo secolo. Il direttore del centro è Klemens
Renoldner. www.stefan-zweig-centre-salzburg.at
ARTURO LARCATI, nato a Este
(Pd) nel 1958, ha studiato presso
le
università
di
Padova,
Würzburg e Salisburgo, è stato
lettore di italiano presso alcune
Università austriache. Dal 2005 è
professore di letteratura tedesca
all‘Università di Verona. Nel
2002 ha ottenuto di Premio
Theodor Körner della città di
Vienna per la sezione scienza e
letteratura.
È autore di monografie sull’espressionismo tedesco, sulla teoria della metafora, sulla poetica
degli autori nella letteratura del dopoguerra; ha curato, con
Klaus Müller-Richter, l’antologia Der Streit um die Metapher.
Poetologische Texte von Nietzsche bis Handke (1998). Le sue pubblicazioni più recenti: Ingeborg Bachmanns Poetik (2006) e Ingeborg
Bachmanns Gedichte aus dem Nachlass. Eine kritische Bilanz (2010)
ambedue edite da Darmstadt Wiss. Buchgesellschaft; Il paesaggio romantico, a cura di Arturo Larcati e Walter Busch, Verona
Fiorini 2011 (Quaderni del CRIER); I volti delle acque. Mitologie
del Diluvio nelle letterature europee, a cura di Raffaella Bertazzoli,
Cecilia Gibellini, Arturo Larcati, Firenze Franco Cesati ed. 2013.
59 - Il tempo cronometrico
TIME OUT!
di Alfonso Orlando
Cos’è il tempo? Qualcuno dice che è una convenzione, altri
dicono che è relativo, comunque si guardi, il tempo “ordina”
la nostra vita.
Nello sport, senza il tempo non ci sarebbero i record.
La pallacanestro, lo sport che conosco meglio, ha un rapporto con il tempo davvero “speciale”.
Il gioco è gestito dal cronometro, cioè dallo strumento che
spacca il tempo in tanti secondi: secondi veloci o lunghi, a
seconda se si sta vincendo o perdendo. Nella vita non è possibile fermare il tempo, ma nel basketball sì! E come si fa?
Basta schiacciare un pulsante e quando la palla non è in gioco
il tempo si ferma. Curioso, no?
I 40 minuti ufficiali possono trasformarsi in due ore e più di
durata: il cronometrista ha “letteralmente” il tempo in mano.
Egli è in grado di amplificare il tempo (solo quello del gioco
s’intende!), attivando e fermando il cronometro, misurando
le sospensioni e gli intervalli. Inoltre, nella sua azione di controllo è coadiuvato da una figura molto particolare, e cioè
dall’addetto ai 24 secondi, seduto di fronte ad un apparecchio che segnala unicamente questa particolare durata.
Il gioco è tenuto in scacco dall’inesorabile tempo che scorre,
benché possa essere sospeso. Vi sono i 3 secondi offensivi in
zona d’attacco, i 5 secondi per la rimessa laterale o quelli
entro i quali è obbligatorio il passaggio della palla a un altro
giocatore, gli 8 secondi previsti per superare la metà campo,
ecc. Ogni volta che tali azioni non si svolgono nel tempo previsto i 24 secondi ripartono, e via così, fino agli ultimi due
minuti. Allora le regole si trasformano e l’adrenalina sale, la
squadra in vantaggio cerca di amministrare il tempo al
meglio, mentre quella in svantaggio prova a recuperare con
azioni sempre più veloci e pressing a tutto campo. I supporter e i tifosi si animano insieme ai giocatori e nel caso la partita sia ancora aperta gli occhi di tutti corrono istintivamente
al tabellone. È allora che ci rendiamo conto quanto può essere diversa la percezione del tempo che passa!
Quando manca un secondo alla fine della partita, il cronometro fermo riparte, un giocatore fuori campo rimette la palla,
il miglior tiratore riceve, senza indugio tira a canestro, conquista tre punti, ed ecco che l’esito della partita può essere
ribaltato: la vittoria o il tempo supplementare.
Come allenatore, uso spesso un’espressione per incitare i
miei ragazzi a pressare da subito, e adesso la voglio estendere anche a voi: “mangiamo tempo”!
Contro il tempo - 60
LUNGA VITA!
IL SEGRETO NEI “FRUTTI” DEL MEDITERRANEO
di Ernesto Riva
«Sposa mia, a cui devo la mia salvezza - disse Giasone - cosa
non possono i tuoi incantesimi? Togli anni alla mia vita e
aggiungili a quella di mio padre Esone!»1. Esone era sopravvissuto al sangue di toro, ma questo gli aveva procurato una
vecchiaia infinita e una tremenda spossatezza. «Con le mie
arti e non con i tuoi anni tenterò di prolungare la vita di mio
suocero», rispose Medea, e richiamò alla sua mente tutti i riti
più misteriosi che aveva ereditato dalla dea Ecate della quale
era devota sacerdotessa.
Nel cuore di una notte di luna piena Medea uscì di casa a
piedi nudi e con i capelli sciolti sulle spalle, si mise in ginocchio sulla nuda terra e volse le braccia al cielo invocando
tutte le forze della natura: «O notte, fedele custode dei misteri; astri d’oro, che a fianco della luna vi alternate ai bagliori
del giorno; e tu Ecate triplice, che della mia impresa sei conscia e porgi aiuto agli incantesimi e all’arte dei maghi; o terra,
che ai maghi procuri erbe prodigiose; e voi, brezze, venti e
monti, voi fiumi e laghi, dèi tutti dei boschi, dèi tutti della
notte, voi tutti assistetemi!»2.
1. Ovidio, Metamorfosi, VII, 169.
2. Ovidio, Metamorfosi, VII, 200. Nell’invocazione di Medea c’è tutta la potenza della magia greca legata al culto della Madre Terra e alla conoscenza delle
radici, delle erbe, dei funghi con tutti i loro sinistri e inquietanti significati e
all’aspetto segreto dei riti magici che si svolgono di notte e in luoghi riservati
solo agli adepti. La magia è inganno e coercizione, ma anche straordinario sortilegio con il quale Medea tenta di restituire la giovinezza al suocero traendo
dalla Madre Terra tutta quella forza vitale necessaria a confezionare l’elisir
della vita sognato da tutti i mortali.
61 - Contro il tempo
Aveva chiesto l’impossibile, ciò che i mortali avevano sempre
desiderato e ai quali era sempre stato negato: aveva chiesto il
magico e portentoso elisir dell’eterna giovinezza.
Un cocchio trainato da draghi alati scese sulla terra, Medea
vi salì, e con le redini in mano guidò i draghi verso quei luoghi che aveva in mente di visitare. Si fece portare sui monti
della Tessaglia ricchi di erbe medicamentose, calò
sull’Olimpo e raccolse quelle che le servivano; molte ne raccolse anche sulle verdeggianti sponde dei laghi ricche di
giunchi, colse persino quell’erba vivificante che cresceva
sulle coste del mar Euboico, in Boezia, che servì a trasformare il corpo di Glauco da umile pescatore a splendido dio del
mare mezzo uomo e mezzo pesce.3 Dopo aver vagato per
nove giorni e nove notti sopra le terre di Grecia si diresse
verso casa con il suo carico prezioso che emanava un forte
profumo, il solo profumo delle erbe aveva rinvigorito e fatto
ringiovanire persino i draghi che in un baleno giunsero a
destinazione. Qui Medea fece erigere due altari, uno dedicato a Ecate, la sua dea protettrice, e uno e Ebe, figlia di Zeus e
dea della giovinezza; inghirlandò gli altari di fronde campestri e di verbena, l’erba dei buoni auspici con la quale si spazzava la mensa degli dei4, l’erba che i mortali appendevano ai
muri delle loro case per purificarle, che gli ambasciatori portavano in mano come messaggio di pace, farmaco utilizzato
nei migliori filtri d’amore perché considerato capace di conciliare l’amore, farmaco provvidenziale per la puerpera perché
portatore di latte in abbondanza5.Sacrificò poi un’agnella di
pelo nero spargendovi sopra una coppa di vino limpido e una
di latte tiepido appena munto, invocò il dio delle tenebre Ade
con la sua sposa Persefone e, formulando le più oscure e
magiche cantilene, si fece portare il vecchio Esone, oramai
stremato dalla stanchezza. Ordinò quindi che tutti si allontanassero, anche il suo amato Giasone, e adagiò il vecchio su di
un letto d’erba: a nessuno era permesso profanare con lo
sguardo mortale il rito che stava per compiere.
Medea, con i capelli al vento come una Menade di Dioniso,
girava intorno agli altari fiammeggianti immergendovi le
torce intrise di sangue sacrificato e recitando le sue formule
magiche. Per tre volte purificò il vecchio Esone con le fiamme,
per tre volte con l’acqua fresca di un ruscello, e per tre volte
infine con lo zolfo, elemento primordiale della combustione,
farmaco volatile purificatore.
Dentro una pentola posta nel fuoco bollivano e ribollivano le
erbe, i fiori, le radici e i semi raccolti da Medea nelle terre di
Grecia e una schiuma biancastra tracimava dai bordi. Vi
aggiunse sassi provenienti dall’estremo oriente, sabbia portata dall’Oceano, brina raccolta in una notte di luna piena, le
ali di un vampiro, le viscere di un lupo, la pelle squamosa di
una testuggine, il fegato di un giovane cervo e la testa di una
cornacchia vissuta nove secoli.
Rimestò il tutto con un ramo secco di olivo che subito rinverdì coprendosi di foglie verdi e olive mature; la schiuma
tracimava dal pentolone e, cadendo a terra, faceva germogliare morbidi letti d’erba e fiori primaverili: a questo punto
il magico filtro della giovinezza, tanto anelato dai mortali,
era pronto. Medea impugnò la spada, recise la gola del vecchio, lo dissanguò e sostituì il suo sangue viziato con il filtro
divino: Esone assistette sbalordito al dileguarsi della sua
canizie, al rassodarsi del suo corpo, al colmarsi dei solchi
profondi delle sue rughe, alla scomparsa del pallore e dello
sfinimento; ricordò di essere stato così almeno quarant’anni
prima. Il prodigio era dunque compiuto; dall’alto Dioniso
assisteva alla scena e, pensando di poter restituire splendore
e giovinezza alle sue ninfe nutrici, oramai avanti negli anni,
calò a terra e carpì a Medea il magico segreto6.
Mosaico dell'atrio della basilica di San Marco a Venezia
3. Glauco era un pescatore della Beozia che, dopo aver mangiato un’erba particolare che era stata seminata da Crono, diventò una divinità marina.4. Plinio,
Naturalis Historia, XXV, 105. L’antica concezione sulle virtù della verbena
ampiamente descritta da Plinio si consolidò nei secoli attraverso la cultura
popolare cosicché la pianta godette, soprattutto nel medioevo, grande popolarità come rimedio simbolico capace di tener lontano ogni male. Era un’erba
capace di “conciliare l’amore” perché faceva scomparire le forze avverse che si
opponevano agli amanti, ma era anche un medicamento utile a rimarginare le
ferite perché congiungeva ciò che le forze avverse avevano disgiunto.
5. L’olio essenziale di Verbena officinalis, contiene una sostanza (alfa-verbenone)
che stimola le ghiandole mammarie agendo forse in sintonia con le prostaglandine e ciò conferma l’impiego tradizionale della pianta come galattogogo nelle
puerpere.
6. Ovidio, Metamorfosi, VII, 295.
Contro il tempo - 62
Gli dei non avevano certo il timore di invecchiare poiché
conoscevano il segreto dell’immortalità, mentre il sogno dei
mortali era dunque quello di scoprire tale segreto o quantomeno di poterlo interpretare attraverso i “segni” lasciati
dagli dei stessi. Quale che fosse il segreto carpito da Dioniso
alla maga Medea sarebbe ingenuo tentare di scoprirlo, in
ogni caso è certo che egli viene chiamato in causa dal mito
come simbolo dell’eterna giovinezza. Dioniso è colui che
colse il frutto maturo della vite appena apparso sulla terra e
che lo strinse nella mano spremendolo con le dita facendo
scaturire per la prima volta il succo purpureo dell’uva, la
bevanda soave, il nettare dei mortali, la linfa dell’estasi e dell’ebbrezza, il farmaco che allunga la vita. Un altro segno
lasciato dagli dei ai mortali fu quel poderoso ulivo scaturito
improvvisamente dalle rocce dell’Acropoli di Atene. La dea
Atena si era presentata in tutto lo splendore della sua sfavillante armatura e con la punta acuminata della sua lancia
aveva percosso la roccia dell’Acropoli facendo spuntare dalle
fenditure un vigoroso olivo argenteo con tutti i suoi frutti.
Persino gli dei rimasero stupefatti. Davanti a questo prodigio, l’oracolo di Delfi sentenziò che l’olivo era il simbolo
della divinità e allora venne eretto sull’Acropoli un tempio
che racchiudesse una sorgente di acqua salmastra con il sacro
olivo: questo era il volere degli dei.
Il sacro albero di Atena, l’olivo argenteo forte e vigoroso riuscì a resistere persino all’incendio dell’Acropoli dato alle
fiamme dai Persiani (Apollodoro, Biblioteca, III, 14, 6.) e da
quel momento l’albero fu consacrato alla città quale simbolo
della pace e della prosperità dei popoli: guai a chi ne bruciasse il legno o ne danneggiasse i tronchi! Sacro e poderoso
olivo lasciato dagli dei ai mortali sugli aridi monti della
Grecia perché ne utilizzassero il prodigioso succo, farmaco
della vita e dell’eterna giovinezza.
Caravaggio, Bacco, 1593, olio su tela, 67x53, Roma, Galleria Borghese
Scena di vendemmia nel Tacuinum Sanitatis cx sn 2644 (XIV sec.)
Il vino e l’olio d’oliva allungano dunque la vita, lo sostenevano anche gli antichi, ma è oramai certo che l’incidenza relativamente bassa di malattie cardiovascolari nelle popolazioni
mediterranee sia dovuta all’impiego nella dieta di olio extravergine e di modiche quantità di vino.
Che il vino allunghi la vita è convinzione anche della moderna scienza farmacologica che da almeno mezzo secolo studia
gli effetti benefici delle cosiddette enocine, contenute nei pigmenti dell’uva, molto utili nella cura dell’insufficienza venosa e della senescenza vascolare; sono infatti dei trasportatori
di idrogeno che intervengono nell’organismo inibendo i processi ossidativi compresi quelli dei “radicali liberi” responsabili dell’invecchiamento.
È invece recentissima la scoperta di un’équipe di ricercatori
del North Carolina, pubblicata nell’autorevole rivista
“Cancer Research”, che parla di una sostanza antitumorale
presente nel vino rosso. La sostanza è stata identificata come
trans-Resveratrol e da uno studio di laboratorio risulta che
essa agisce come una sorta di interruttore che spegne i geni
delle cellule cosiddette “iniziate” e le costringe ad una sorta
di suicidio biologico prima che queste inneschino il processo
di espansione clonale che causa l’invasione del cancro.
63 - Contro il tempo
Per ora gli esperimenti sono stati effettuati su cavie da laboratorio, ma ciò è comunque sufficiente per concludere che
l’introduzione di una moderata quantità di vino nella dieta
potrebbe diminuire il rischio di tumore, l’importante è non
esagerare perché - come si sa - un uso smodato di questa
bevanda produce esattamente l’effetto opposto.
Non c’è dubbio che l’olio di oliva sia un alimento base della
dieta dei popoli mediterranei e che sia stato a lungo oggetto
di studio per la valutazione dei rapporti tra i grassi animali e
l’incidenza di alcune malattie metaboliche, quali ad esempio
l’aterosclerosi e le cardiopatie ischemiche.
La cosa che più ha incuriosito il mondo della scienza nell’ultimo mezzo secolo è stata la maggiore incidenza di queste
malattie nelle popolazioni nord-americane e nord-europee
rispetto a quelle mediterranee, e ciò non poteva essere attribuito soltanto ad una differenza di carattere genetico. Negli
anni 60 fu dunque intrapreso uno studio statistico sistematico che nel corso di dieci anni registrò il tipo di dieta e raccolse i valori di pressione sanguigna e di colesterolo di tredicimila individui di sesso maschile di età compresa tra i 40 e 45
anni abitanti in Italia, Grecia, ex Yugoslavia, Olanda,
Finlandia, USA e Giappone.
Nel 1970 l’istituto per la ricerca sull’aterosclerosi
dell’Università di Münster in Germania pubblicò i risultati
della ricerca, divenuta famosa con il nome di Seven Countries
Study, dove si asseriva che la minore incidenza di malattie
cardiovascolari registrate nelle popolazioni mediterranee era
dovuta al preponderante impiego dell’olio di oliva nella
dieta (più del 15% del contributo energetico). Da qui si innescò anche uno studio sistematico sui componenti dell’olio di
oliva che attribuì all’acido oleico, principale acido monoinsaturo presente nella misura dell’80% nell’olio di oliva, la capacità di mantenere il colesterolo totale ed il colesterolo-LDL a
livelli sufficientemente bassi e tali da intervenire preventivamente sui fattori di rischio cardiovascolari e delle cardiopatie coronariche.
Per questa sua composizione ad alto tenore di “poco insaturi”
l’olio di oliva, a differenza di altri grassi, resiste all’ossidazione spontanea che lo porterebbe all’irrancidimento.
Tutto questo non solo grazie all’acido oleico, ma anche alla
cosiddetta “frazione insaponificabile”, ricca di vitamina A,
Vitamina E e flavonoidi, sostanze che contribuiscono, con la
loro azione marcatamente antiossidante ad allungare la vita
dell’olio e ad agire nell’organismo come veri e propri agenti in
grado di contrastare la formazione e la degradazione dei radicali liberi contribuendo così a rallentare in qualche modo l’invecchiamento cellulare e prevenire i disturbi cardiovascolari.
ERNESTO RIVA, è nato a S.
Pietro di Cadore, in provincia di
Belluno, il 14 marzo del 1947.
Laureato in farmacia e poi specializzato nell’utilizzo delle piante
officinali, coltiva la sua passione
per la botanica farmaceutica preparando rimedi medicamentosi e
prodotti cosmetici con le erbe che
in parte egli stesso raccoglie. Si
occupa di storia della medicina
con particolare riferimento ai
medicamenti e ai personaggi
della farmacia pubblicando periodicamente saggi per varie riviste.
È giornalista pubblicista e membro
Internazionale di Storia della Farmacia.
Vive e lavora a Belluno dove fa il farmacista.
dell’Accademia
Ha pubblicato: Magia e scienza nella medicina bellunese, Belluno, Istituto
Ricerche Sociali e Culturali, 1986
Cento erbe per cento grappe, (con E.Saronide), Bassano, Tassotti ed.,1988
Non far di ogni erba un fascio; botanica, storia, principi attivi e proprietà
terapeutiche di 200 piante officinali, Bassano, Tassotti ed. 1990
Le Piante medicinali dei nomadi dell’Africa Orientale, Milano, Istituto
Culturale Rotariano, 1994
L’Universo delle piante medicinali, trattato storico, botanico e farmacologico
di 400 piante di tutto il mondo, Bassano, Tassotti ed., 1995. Ristampa 2012
Breve Storia della Farmacia Bellunese, Belluno, Accademia Italiana di
Storia della Farmacia, 1996
La farmacia monastica e conventuale (con A. Corvi), Pisa, Pacini Ed.,1996
I segreti di Venere, Bassano, Tassotti editori, 1997
I segreti di Esculapio, Pisa, Primula Edizioni, 1998
Le vie delle spezie, Milano, GV Edizioni, 2002
Pharmacon, Milano, GV Edizioni, 2002
Il Taccuino della Sanità, Milano, GV Edizioni, 2012
La distribuzione dell'olio di oliva nel "Tacuinum di Parigi" (XIV sec.)
Contro il tempo - 64
ANTI-AGE
di Luigi Rigano
Una bellissima sacerdotessa di Apollo, la Sibilla Cumana,
aveva chiesto, e ottenuto, dal dio il dono di vivere tanti anni
quanti sono i granelli di sabbia stretti in una mano. Ma si era
dimenticata di domandare l’eterna giovinezza. Il suo corpo si
consumò lentamente nel tempo fino a sparire cosicché, dopo
la morte, di lei rimase solo la voce (di una cicala). La leggenda suona come un avvertimento universalmente valido: nessun essere vivente può sottrarsi al continuo ed irreversibile
logorio del tempo. Infatti, con il trascorrere degli anni, l’organismo va naturalmente incontro a innumerevoli modificazioni, dovute a svariati fattori. Segni chiaramente percepibili,
che caratterizzano la vecchiaia, emergono a livello cutaneo.
In particolare, si accumulano danni non riparati di natura
biologica e dovuti a stress psicologico ed ambientale, mentre
il ritmo di rigenerazione delle cellule rallenta. Questi eventi
diventano visibili con la comparsa delle rughe, prima sottili
e poi sempre più grossolane, e con la riduzione di compattezza ed elasticità dell’epidermide, che tende ad assottigliarsi,
alterando irreversibilmente l’aspetto della superficie. Se l’invecchiamento umano non è una favola a lieto fine e il suo
processo è inevitabile, è anche vero che sono oggi disponibili svariate strategie per prevenire e contrastare gli assalti del
tempo e rallentare le conseguenti manifestazioni cutanee. Per
conservare e proteggere la propria gradevolezza esteriore,
mantenendo un aspetto giovane, il più a lungo possibile, si fa
sempre più ricorso alla medicina estetica e ai trattamenti
cosmetici.
Giovanni Domenico Cerrini, Apollo e la Sibilla Cumana, 1639, olio su tela,
102x133, Berlino, Gemäldegalerie
La chirurgia estetica, una volta appannaggio di pochi, riscuote oggi crescente successo e offre soluzioni valide avvalendosi di tecnologie all’avanguardia. Basti pensare alla bio-revitalizzazione, attuata tramite iniezione sottocutanea di sostanze
(acido jaluronico, vitamine e aminoacidi) che stimolano la
sintesi di collagene ed elastina, o di collagene e polimeri sintetici che agiscono come “filler”, riempiendo i vuoti dovuti ai
segni d’espressione, cancellando le rughe, correggendo i
volumi facciali e ripristinando l’armonia del viso. Un altro
approccio, molto interessante e altrettanto discusso, consiste
nell’iniettare una versione attenuata (e quindi priva di effetti
tossici) della tossina del botulino, che riduce la stimolazione
e contrazione dei muscoli facciali, a cui segue distensione
immediata delle rughe. Il suo uso a scopi estetici è stato
approvato dal Ministero della Salute in Italia nel 2004, esclusivamente in ambito chirurgico (e non cosmetico). Altri interventi di medicina estetica, praticati per la loro efficacia nell’uniformare il colore della pelle ed eliminare le macchie
cutanee dovute al foto-invecchiamento, sono il peeling chimico profondo ed il trattamento laser. Questi interventi
hanno l’indubbio vantaggio di risultati immediatamente
visibili, ma richiedono più sedute nell’arco di pochi mesi o
anni, sono invasivi e costosi, per quanto più largamente
accessibili che in passato.
Di fatto, le strategie anti-età più apprezzate rimangono ancora quelle cosmetiche. È stato stimato che nel 2012 gli italiani
abbiano speso 600 milioni di euro in trattamenti anti-età, un
consumo superiore a quello di tutte le altre tipologie di prodotti per il viso. I motivi si possono individuare in numerosi
fattori di ordine sociale, alla cui base sta sostanzialmente la
paura di invecchiare in una popolazione di età media crescente. È crescente anche, di conseguenza, l’esigenza di sperimentare soluzioni efficaci e di giungere a risultati velocemente ottenibili. Per questo, i nuovi trend della cosmesi antietà coniugano la tradizionale attenzione alla formulazione di
prodotti completi ed efficaci a più livelli, con la possibilità di
disporre di dermo-cosmetici specifici utilizzabili senza l’ausilio del medico. Principi attivi diversi sono formulati in
miscele bilanciate per un’azione sinergica, volta a limitare la
degenerazione delle cellule ed i danni irreversibili che alterano le proprietà della pelle. Vediamoli in sequenza.
Tra i più utilizzati, gli idratanti di superficie, sostanze che
legano acqua o lipidi in grado di creare strutture in cui l’acqua può essere stabilmente incorporata, ristabilendo la plasticità, l’elasticità e la funzione di barriera protettiva della
cute.
65 - Contro il tempo
Sempre presenti, poi, gli agenti anti-radicali ed anti-ossidanti, che proteggono i tessuti cutanei dall’azione dei radicali
liberi, “molecole impazzite” cariche di energia ed altamente
distruttive per le cellule, che si formano in presenza di ossigeno, a causa di inquinamento ambientale, radiazioni solari,
fumo di sigaretta, alcool e stress. Per prevenire la comparsa
di macchie, l’accumulo di lentiggini, l’ispessimento della
pelle e tutte le manifestazioni del foto-invecchiamento, è
inoltre importante la presenza di filtri solari, che proteggono
la pelle dall’azione delle radiazioni ultraviolette. Agenti esfolianti e riepitelizzanti sono pure impiegati per stimolare la
rigenerazione cellulare, gli schiarenti per uniformare l’incarnato e donare luminosità alla pelle, i disarrossanti e calmanti per lenire le zone irritabili.
Una recente novità è rappresentata da polimeri dermocompatibili, di varie dimensioni, che esercitano un effetto di
“riempimento” delle rughe: i più piccoli sono assorbiti rapidamente dalla pelle, si strutturano e formano grossi complessi tridimensionali che aumentano il volume della cute. Le
molecole più grosse arrivano invece al derma meno velocemente, col risultato di mantenere e prolungare l’effetto iniziale. Da qualche anno sono anche utilizzati i fitoestrogeni,
molecole di origine vegetale che si comportano analogamente (ma in modo più blando) agli ormoni femminili. Questi
diminuiscono durante la menopausa causando riduzione
della sintesi di collagene ed elastina. Reintegrando questa
attività, i fitoestrogeni contrastano il rilassamento cutaneo.
Altri nuovi attivi sono molecole “messaggero” che riattivano
in profondità la sintesi e la proliferazione dei cuscinetti creati dalle ghiandole sebacee. Tutti questi composti possono
esplicare al massimo la loro attività solo se sono veicolati
sulla pelle in maniera adeguata: per questo assumono un’importanza primaria le basi cosmetiche in cui sono inseriti. Le
più moderne rilasciano lentamente le sostanze funzionali
alla superficie cutanea. Da qui favoriscono poi la loro penetrazione negli strati più profondi, sia per la loro composizione, sia mediante sistemi costituiti da minuscole capsule,
come i liposomi e le nanosfere, che grazie alla loro struttura
e dimensione controllano la velocità di assorbimento degli
attivi. Non esiste infatti attività senza diffusione adeguata,
programmata e a diverse profondità, dei principi funzionali.
Un approccio innovativo, che agisce in superficie, è rappresentato da polimeri “tensori”. Applicati sul viso in forma di
soluzione acquosa o idroalcolica, dopo evaporazione del solvente formano uno strato sottile che rimane sulla pelle e
immobilizza le linee del volto, creando un effetto “lifting”
della durata di poche ore, è vero, ma immediato e chiaramente visibile. Inoltre tale pellicola funziona da riserva continua delle sostanze attive.
Tutte le strategie e attenzioni destinate alla pelle matura
hanno lo scopo di contrastare i segni del tempo e renderli
meno evidenti. La prevenzione è però altrettanto importante.
Nonostante i meccanismi ormonali e genetici alla base del
complesso meccanismo di invecchiamento cutaneo siano
sostanzialmente inevitabili, sulle concause ambientali è invece possibile agire fin da giovani.
Il sole è uno dei fattori ai quali è possibile e necessario pre-
stare attenzione. La sovraesposizione solare favorisce la comparsa di rughe e di antiestetiche macchie scure sulla cute. Ai
danni superficiali, si accompagnano modificazioni delle
strutture profonde della pelle, dove la riproduzione delle cellule risulta alterata. Si generano radicali liberi che scaricando
la loro altissima energia, compromettono strutture vitali del
nostro organismo. A peggiorare la situazione, si aggiunge il
contributo dello stress psicologico legato allo scorrere del
tempo, che riduce le difese dell’organismo e lo rende più
suscettibile all’attacco dei radicali liberi. Anche il fumo, altro
fattore evitabile, provoca la formazione di un eccesso di radicali liberi, che il corpo è sempre meno in grado di compensare con il passare degli anni. Tenendo sotto controllo tutti questi fattori, è possibile ritardare e ridurre la comparsa e solidificazione sulla superficie cutanea dei segni del tempo.
Un altro aspetto spesso trascurato, ma che predispone all’assottigliamento e alle modificazioni della cute tipiche dell’invecchiamento, è rappresentato da un’esagerata o scorretta
detersione della pelle, che può causare fessurazioni, desquamazioni, prurito, secchezza. L’eccesso di lavaggi per “mania
d’igiene” deve essere perciò evitato; è invece buona norma
procedere ad una quotidiana pulizia del viso con un detergente delicato, con proprietà protettive ed antiossidanti.
Semplici ma importanti operazioni di manutenzione della
pelle che favoriranno l’azione potente dei nuovi sistemi di
difesa, frutto delle moderne formulazioni cosmetiche, dai
segni del tempo.
LUIGI RIGANO, laureato in
Chimica Industriale nel 1970
presso l’Università Statale di
Milano, per 15 anni è stato
responsabile dello sviluppo formulativo, tecnologico e di produzione di cosmetici presso varie
aziende nazionali e multinazionali, nel campo dei prodotti di
igiene e cura della pelle, profumi,
make-up e materie prime. Dal
1986 è Direttore dello Studio di
Consulenza Rigano Industrial
Consulting & Research, di
Milano, con attività di Ricerca e Sviluppo nel campo dei prodotti cosmetici e principi attivi, assistenza tecnologica e normativa
su formulazioni e loro produzione. È stato Presidente della
SICC (Società Italiana di Chimica e Scienze Cosmetologiche),
adesso è Direttore della ISPE, Laboratorio di Prova che esegue
verifiche di innocuità, efficacia e sensoriali applicate a cosmetici. Insegna in vari Corsi Universitari di Scienze Cosmetiche, ed
è Docente qualificato presso Federazione Internazionale delle
Associazioni di Scienze Cosmetiche (IFSCC) per corsi di specializzazione internazionali. Pubblica lavori scientifici su riviste
del settore cosmetico e dermatologiche.
Il tempo della sessualità - 66
LE QUATTRO ETÀ NEL GIARDINO DELL’AMORE
di Rita Grifoni
Ci sono piante, fiori, colori e suoni diversi in un giardino, a
seconda della stagione. Se esso sarà coltivato con cura, per
quanto diverso, sarà comunque bello.
Ché forse il verde della primavera, punteggiato dai mille
colori dei fiori, è meno affascinante del rossi, arancioni e gialli che si stagliano sul tappeto marrone delle foglie d’autunno;
o forse la luce d’estate sul mare è più brillante di quella d’inverno sulla neve?
Con la stessa cura e sempre alla ricerca di ciò che è bello,
l’Essere Umano dovrebbe vivere la propria sessualità, nelle
diverse stagioni della vita.
Non dimentichiamo infatti che la Natura ha fatto un dono
peculiare alla nostra specie, permettendo di distinguerci da
tutti gli altri animali. Per questi ultimi la sessualità è rimasta
esclusivamente finalizzata alla procreazione, alla conservazione ed all’evoluzione della specie. Ciò fa sì che sia il
maschio a dover esibire la propria forza e bellezza per attirare le femmine e la monogamia sia un’eccezione.
Nell’Uomo la sessualità si è evoluta, fino a diventare una
funzione complessa: non ha più esclusivamente una funzione riproduttiva, ma una valenza sociale che si è modificata
nel tempo. Si tratta di un rimodellamento fluido del ruolo del
singolo individuo, sia dell’identità di genere, sia del suo
ruolo sociale, familiare e di coppia.
Tutto ciò si iscrive in una continua evoluzione socioculturale
e tecnologica,che ha profondamente modificato in ognuno di
noi il modo di “essere” e “di essere nel mondo”.
Volendo semplificare potremmo dire che la sessualità è come
un palazzo a più piani, dove ogni piano corrisponde alle
varie età, dall’infanzia alla senescenza, e che il giardino che
lo circonda è il frutto delle emozioni e dei sentimenti che noi
stessi abbiamo coltivato.
Continuando nella metafora, il pianterreno dell’edificio inizia già nella vita prenatale. Abbiamo ormai prove scientifiche
che sin da questa fase il corpo fetale avverte emozioni e che
sicuramente ne conserva memoria.
Al primo piano collochiamo il bambino nell’età in cui essere
maschio o femmina non sembra comportare oggettivamente
grandi differenze: l’obiettivo più importante è la fiducia in sé
(primo pilastro) che origina dalla relazione privilegiata tra il
piccolo e chi se ne prende cura .
A tre/quattro anni già comincia a delinearsi la “seduttività”
infantile, che non ha finalità sessuali, bensì quelle di ottenere
affetto e protezione dagli adulti e di iniziare a costruire il
secondo pilastro: la fiducia nell’altro.
In età scolare il bambino da un lato deve consolidare l’auto-
stima, dall’altro comincia a prendere atto e a confrontarsi con
i primi importanti mutamenti fisici ed emozionali.
È il giardino in primavera: dove tutto è una promessa, dove
tutto può realizzarsi, dove ogni colore, profumo e suono
potrà cambiare in mille sfumature.
Al secondo piano collochiamo l’adolescenza, in cui la tempesta ormonale verrà a travolgere la quiete serena e rassicurante dell’infanzia. La seduttività infantile cambierà aspetto,
assumendo le caratteristiche di quella sessuale, il sex-appeal
rivolto nei confronti del partner.
È in questa fase che viene massimamente espresso il concetto di “identità sessuale”, intesa come sintesi sia dell’identità
di genere e del ruolo sociale derivante, sia dell’orientamento
sessuale e della sessualità agita.
In questa fase i condizionamenti sociali e culturali avranno
un’influenza determinante.
Per quanto riguarda la donna, per esempio, questo pilastro
deriva dall’evoluzione culturale: gli anni ‘60 e ‘70 del
Novecento hanno portato ad una trasformazione profonda,
seppur rapidissima. Si è passati dalla cultura maschilista dei
secoli precedenti, in cui le regole e le istituzioni sociali sostenevano la dominanza del ruolo maschile considerando quanto meno “disdicevole” il desiderio sessuale femminile, ad
una vera e propria rivoluzione culturale che rivendicava la
libertà di vivere la propria sessualità da parte delle donne.
Locandina dello spettacolo Col tempo, Compagnia Clinica Mammut, 2012
67 - Il tempo della sessualità
Abraham Mignon, The Nature as a Symbol of Vanitas, 1665-1679, olio su tela
78,7x99, Darmstadt (D), Hessisches Landesmuseum
Ciò è stato reso possibile grazie all’inserimento femminile
nel mondo del lavoro, ai progressi della medicina e alla scoperta della pillola contraccettiva, che hanno liberato la donna
dal ruolo esclusivo di moglie/madre, aprendo la strada
all’eroticità e alla condivisione del piacere sessuale.
Un’opportunità incredibile per l’universo femminile ed
anche per quello maschile: il genere umano ha potuto liberarsi dagli stereotipi culturali della sessualità che, intesa unicamente come atto sessuale, era privata delle emozioni e dei
sentimenti; inoltre ha permesso agli uomini la riscoperta ed
appropriazione della paternità.
Un’esplosione di energia che fa pensare al giardino d’estate,
per il quale è necessaria la massima cura ed attenzione affinché il troppo sole non “bruci” la bellezza della stagione.
Al terzo piano collochiamo l’età adulta/matura , in cui i pilastri principali, per entrambi i sessi, sono la genitorialità
responsabile e scelta, nonché la realizzazione nel lavoro, intesa non solo come sicurezza economica ma anche come conferma ed accettazione di sé al di fuori dell’ambiente familiare e quindi del proprio ruolo di moglie\marito-genitore.
La contropartita di questa evoluzione sociale è stata, ed è
ancora, la difficoltà di ritrovare un equilibrio nei diversi
ruoli.
Per le donne è complicato superare il conflitto tra famiglia e
lavoro, tra maternità e carriera, che il sistema lavorativo di
stampo maschile ancora impone.
È difficile anche trovare la “giusta misura” nella liberalizzazione sessuale, senza rischiare la deriva dello sfruttamento
del corpo femminile falsamente libero.
Per i maschi, a loro volta, è problematico abbandonare privilegi di ruolo e di potere, anche economico, così come è difficile confrontarsi con la crescente preoccupazione di una sessualità misurata in termini di prestazioni.
È la sfida di ogni rivoluzione culturale che, nel suo procedere, deve adattarsi al nuovo percorso facendo attenzione a
non sbagliare strada.
Ci sono radici solide, ma anche foglie secche da rimuovere: è
il giardino d’autunno in cui i diversi gradi di rosso, giallo e
arancione sono la conferma di una trasformazione, le sfumature necessarie per essere migliori.
Al quarto piano collochiamo la senescenza: l’età in cui è
necessario “riadattare l’arredamento e la funzionalità” della
struttura alle nuove modificate esigenze.
Il cambiamento maschile non è segnato da eventi biologici
netti. L’andropausa non è cosi perfettamente definibile come
nel femminile, perché il calo ormonale avviene sì costantemente ma più gradualmente e non impedisce la procreazione.
Spesso sono più incisivi i fattori sociologici concomitanti, per
esempio il pensionamento e la perdita del ruolo sociale fino
ad allora svolto.
Per la donna invece il segnale più importante è dato dall’orologio biologico della menopausa, in cui il tempo non ha più
un andamento ciclico, ma lineare. Il senso evoluzionistico sta
nella perdita della funzione riproduttiva della donna, che gli
stereotipi culturali hanno fatto coincidere con la perdita del
potere sessuale.
In alcuni casi ed in alcune culture ciò è stato spesso sostituito da un ruolo di potere legato all’esperienza, ma in altri e
più numerosi casi, la postmenopausa è stata vissuta dalla
donna come una perdita totale di ruoli importanti e significativi. Ancora una volta, però, l’evoluzione culturale e scientifica ci sta aiutando.
La migliore conoscenza della menopausa, la possibilità di
terapie ormonali sostitutive anche se molto osteggiate (qui ci
sarebbe da riflettere!), il migliorato stile di vita, l’alimentazione, lo sport, nonché la medicina estetica, stanno apportando
un’altra rivoluzione. L’attuale cinquantenne/sessantenne è
una donna brillante, attiva, spesso al top della carriera lavorativa e quindi economicamente privilegiata. Una donna che
non rinuncia certo alla propria sessualità , anzi spesso la vive
più serenamente proprio perché liberata dal “problema”
riproduttivo; spesso contenta di far la nonna, ma non si limita certo a questo.
L’importante è che abbia vicino un partner con il quale il
giardino dell’amore sia stato sempre coltivato, ed allora in
questo splendido parco invernale si potrà apprezzare la
magia dei sempreverdi, delle bacche e dei fiori che spuntano
tra la neve ed i merletti della brina. Nell’apparente silenzio si
cela una profonda serenità, una gioia per la consapevolezza
che grazie all’alternarsi delle stagioni vi è il mantenimento
della Vita.
RITA GRIFONI, è nata a Spoleto il
12 giugno 1957. Laureata in medicina-chirurgia e specializzata in ginecologia e ostetricia all’università di
Perugia nel 1987, si è poi diplomata
in Sessuologia Clinica presso
l’Università di Pisa. Svolge l’attività
libero professionale come ginecologa-ostetrica dal 1989, a Spoleto. È
responsabile AGEO per l’Umbria
dal 2004.
Il tempo in teatro - 68
CRONOLOGIA: DI COMMEDIA IN COMMEDIA
Le maschere di Giancarlo Santelli
Quando abbiamo pensato che il numero della rivista dedicato al tempo dovesse ospitare almeno una cronologia, abbiamo chiesto all’amico Giancarlo Santelli di fornirci un elenco dei numerosi spettacoli per i quali ha disegnato e realizzato le maschere.
La lunga e variegata carriera di mascheraio e burattinaio ci permette di ”scorrere” il tempo del suo lavoro e della creazione di
“personaggi” che hanno e continuano ad animare la scena teatrale, rispettando la migliore tradizione italiana.
In questi giorni (24 Febbraio - 8 Marzo 2014) il Teatro della Pergola di Firenze ospita un mostra delle maschere realizzate da
Giancarlo Santelli per i più grandi registi di teatro e di cinema. Il mascheraio ha curato, insieme a Maria Bellini, la mostra nella
quale saranno esposti, oltre alle maschere di cuoio, documenti e materiale fotografico ad illustrare l’arte di forgiare i volti di figure immortali.
69 - Il tempo in teatro
Spettacoli per i quali Giancarlo Santelli ha disegnato le maschere
1979 - Gaetanaccio di Luigi Magni, regia di Luigi Proietti,
Teatro Brancaccio, Roma
1980 - La pulzella d’Orleans di Voltaire, regia di Attilio Corsini,
Teatro Valle, Roma
1981 - La donna è mobile di Eduardo Scarpetta, regia di
Eduardo De Filippo, Teatro La Pergola, Firenze
1982 - La vedova scaltra di Carlo Goldoni, regia di Augusto
Zucchi, Teatro Quirico, Roma
1982 - Don Giovanni di W. A. Mozart, regia di Roberto De
Simone, Teatro Comunale, Bologna
1982 - Flaminio di G. Battista Pergolesi, Teatro Goldoni,
Venezia
1983 - I due gemelli veneziani di Carlo Goldoni, regia di
Augusto Zucchi, Teatro Valle, Roma
1983 - La perla reale di Elvio Porta, regia di Elvio Porta, Teatro
Olimpico, Roma
1983 - La Lucilla costante di Silvio Fiorillo, regia di Roberto De
Simone, Teatro Olimpico, Roma
1983 - Crispino e la comare di Federico e Luigi Ricci, regia di
Roberto De Simone, Teatro la Fenice, venezia e Théâtre des
Champs-Elysées, Parigi
1984 - Il Signor di Pourceagnac di Molière, regia di Augusto
Zucchi, Poggio Verezzi, Genova
1984 - Pulcinella in città di Tonino Conte e Lele Luzzati, regia
di Fernando Pannullo, Teatro Aurora, Roma
1984 - Rigoletto di G. Verdi, regia di Lamberto Paggelli, Teatro
di San Carlo, Napoli
1984 - L’imbroglio dei due ritratti di Carlo Goldoni, regia di
Angelo Corti, Teatro Aurora, Roma
1984 - Re Lear di W. Shakespeare, regia di Glauco Mauri,
Teatro Comunale, Ferrara
1985 - Cirano di Bergerac di Rostand Edmond, regia di Luigi
Proietti, Teatro Sistina, Roma
1985 - Falstaff di G. Verdi, regia di Roberto De Simone, Teatro
di San Carlo, Napoli
1986 - Faust di J. W. Goethe, regia di Glauco Mauri, Teatro
Comunale, Treviso
1986 - Capitan Fracassa da Theophile Gautier, regia di
Augusto Zucchi , Teatro Sala Umberto, Roma
1986 - Peer Gynt (balletto) da H. Ibsen, musiche di E. Grieg,
coreografia di Jamey Hampton, Grand Théâtre, Ginevra
1987 - Pulcinella di Manlio Santanelli, regia di Maurizio
Scaparro, Teatro Argentina, Roma
1988 - Vita di Galileo di B. Brecht, regia di Maurizio Scaparro,
Teatro La Pergola, Firenze
1988 - Pulcinella di Igor Stravinsky, regia di Roberto De
Simone, Teatro Mercadante, Napoli
1988 - Il giuocatore di C. Goldoni, regia di Augusto Zucchi,
Teatro Valle, Roma
1989 - Memorie di Adriano di M. Yourcenar, regia di Maurizio
Scaparro, Villa Adriana, Tivoli e Teatro Argentina, Roma
1989 - Don Giovanni di Molière, regia di Glauco Mauri, Teatro
Quirino, Roma
1989 - Sona sona…, regia di Bruno Garofalo, Festival delle
Ville Vesuviane, Napoli
1989 - Orfeo ed Euridice di C. W. Gluck, regia di Roberto De
Simone, Teatro alla Scala, Milano
1989 - Il malato per apprensione di Molière, regia di Roberto De
Simone, Festival delle Ville Vesuviane, Napoli e Teatro
dell’Opera, Roma
1990 - Idomeneo di W. A. Mozart, regia di Roberto De Simone,
Teatro alla Scala, Milano
1991 - Curculio di Plauto, regia di Giancarlo Sammartano,
Palazzolo Acreide, Siracusa
1991 - La muta di Portici di Esprit Aubert, regia di Micha Van
Hoecke, Ravenna Festival
1991 - Sei personaggi in cerca d’autore di L. Pirandello, regia di
Franco Zeffirelli, Taormina
1992 - Pinocchio di C. Collodi, regia di Roberto Guicciardini,
Teatro Argentina, Roma
1993 - Truculento di Plauto, regia di Giancarlo Sammartano,
Siracusa e Teatro di Ostia Antica, Roma
1993 - Il teatro comico di C. Goldoni, regia di Maurizio
Scaparro, Teatro Olimpico, Vicenza
1994 - Un ballo in maschera di G. Verdi, regia di Alberto
Fassini, Teatro di San Carlo, Napoli
1995 - Il convitato di pietra di Giacomo Tritto, regia di Roberto
de Simone, Teatro di San Carlo, Napoli
1997 - Don Giovanni e il suo servo di R. Familiari, regia di
Augusto Zucchi , Teatro Valle, Roma
1998 - Le 99 disgrazie di Pulcinella, regia di Roberto De Simone,
Festival delle Ville Vesuviane, Napoli
1999 - Il diavolo con le zinne di Dario Fo, regia di Dario Fo,
Taormina Estate
2000 - Giulietta e Romeo di W. Shakespeare, regia di Maurizio
Scaparro, Teatro Romano, Verona
2000 - Il mercante di Venezia di W. Shakespeare, regia di
Giorgio Albertazzi, Teatro Romano, Verona
2001 - Rudens di Plauto, regia di Giancarlo Sammartano,
Teatro di Ostia Antica, Roma
2001 - Osteria Marechiaro di Giovanni Paisiello, regia di
Roberto De Simone, Teatro Bellini, Napoli
Il tempo in teatro - 70
GIANCARLO SANTELLI, si dedica da
sempre alla costruzione di maschere in
cuoio per il teatro e per il cinema. A
Mentana (Roma), all’interno del suo
suggestivo spazio, il Trovatore, ospita
oltre al laboratorio, dove insegna l’arte
del mascheraio, un teatro dei burattini.
Qui bambini ed adulti possono godere
di magici spettacoli nei quali Santelli
dimostra la sua abilità di attore, formato alla Accademia dei Filodrammatici di
Milano, e la sua capacità di trasportare il pubblico nel mondo
immaginario, offrendo un’anima alle sue creature.
71 - Il tempo in teatro
E ORA...CHE IL TEATRO CI NUTRA!
di Mattia Berto
Un metronomo che scandisce il tempo presente, le ore, i giorni della scena della vita.
Attesa. E poi una squadra di genti: attori, registi, tecnici,
macchinisti, operatori culturali che segnano il loro tempo
donandosi a un mestiere che è passione e deve essere anche
vita.
I tempi duri, di grande crisi economica, politica ed umana
hanno un futuro?
Il ruolo del teatro qual è? Una macchina che deve sempre cercare un tempo nuovo dove collocarsi o, forse, un’entità senza
tempo?
Il teatro fatto di passioni e sogni è ferito, ma non molla.
La voglia di tanti è ancora quella di lottare, di far ripartire la
fantasia, di sostenere le buone idee, di non arrendersi, di cercare nuove vie, nuove forme, nuovi linguaggi.
Il tempo è quello delle “nebulose” giornate della mia città,
Venezia, in inverno ed anche quello che trascorre prima di un
bacio; il tempo necessario affinché la pasta si cuocia e una
famiglia si sieda attorno ad un tavolo: un tempo nostalgico e
di ricordi, ma che ci cambia e ci rinnova.
Il tempo non è solo attesa è anche viaggio; un viaggio durante il quale le idee si realizzano.
Ho deciso di partire due anni fa e spendere il mio tempo per
una comunità in uno spazio.
Lo spazio è quello di un teatro da novantanove posti, con un
piccolo palco, un pianoforte e un’anima che vibra. Questo
luogo è immerso in un parco verde che accoglie una ludoteca a disposizione di mamme e figli, una scuola di italiano per
stranieri, una manifattura che reintegra i senza fissa dimora.
Il palcoscenico adesso è diventato una scena di rinnovamento, le sue tavole sono imbandite: artisti, bambini, anziani,
stranieri, politici, cittadini, tutti insieme abbiamo dato nuova
vita ad un luogo silenzioso.
Il teatro ha inventato un nuovo tempo, quello di una comunità che vive.
La stagione in corso, Nutrimenti: menu alternativi, invita al
lusso di prendersi del tempo per venire a teatro, dove si è
accolti per condividere emozioni, per comunicare con linguaggi nuovi e per sentirsi semplicemente a casa.
Aspettare che la pasta sia cotta per sedersi poi a gustarla tutti
assieme: questo è il tempo di cui vogliamo nutrirci.
“Io ho la pancia, Carlo ha la pancia, usciamo dalla pancia; mangiare è necessario, mangiare è un piacere, mangiare è un diritto; la gola è un peccato, chi
avanza nel piatto è viziato, quello che scade viene buttato…“
Special Price, 2009, performance presentata da Piccionaia e Babilonia Teatri che
nasce nell’ambito di Parole per la Terra, un progetto sul rapporto tra l’uomo e la Terra
MATTIA BERTO, attore, regista,
illustratore, ancora giovanissimo
muove i primi passi come attore
in teatro. Si laurea in Tecniche
Artistiche e dello Spettacolo a
Venezia con una tesi sui
“Percorsi della creatività nel teatro ragazzi, in un territorio particolare: il Nordest”. E’ qui che
continua la sua attività di artista
e operatore culturale. Lavora dal
2006 come formatore, in particolare di ragazzi delle scuole
materne ed elementari, ma anche
in percorsi per adulti, e con tutti “gioca al teatro”. Ha partecipato come interprete, animatore e regista a spettacoli e progetti
per l’infanzia con numerose compagnie venete e nazionali.
Ha calcato le scene di numerosi teatri in tutto il nord Italia, ha
curato regie di spettacoli per bambini e ha progettato eventi culturali tra cui “Ad Alta Voce”. È stato diretto da numerosi registi, ma tra tutti considera Maurizio Scaparro il suo Maestro.
Attualmente è Direttore Artistico della programmazione teatrale del Teatro di Villa Groggia a Venezia e della stagione di teatro ragazzi del “Teatro Dario Fo” di Camponogara.
www.mpg.cultura.it
Il tempo in teatro - 72
SEMI DI FUTURO
recensione di Carla Ferraro
Volentieri recensisco uno spettacolo straordinario:
Semi di futuro. Terza lezione di giardinaggio planetario.
Ringrazio l’autrice-attrice Lorenza Zambon per avermi concesso di leggere il testo per intero.
Chi volesse iniziare a seminare può farlo digitando su you tube: Terza lezione di giardinaggio planetario. Semi di futuro
La performance è il naturale evolversi delle due lezioni che
la hanno preceduta: quella per giardinieri anonimi rivoluzionari e quella per giardinieri planetari. Assistiamo alla terza
illuminante lezione: Semi di futuro. Se avessimo frequentato
con profitto, adesso saremmo preparatissimi, invece dobbiamo ricominciare dall’inizio: dal seme, appunto.
Un seme è una piccola astronave, una capsula completamente autosufficiente, perfetta per viaggiare nello spazio e nel tempo.
La citazione iniziale, come un involucro magico, racchiude in
sé tutta la suggestione dello spettacolo: un susseguirsi di
ricordi personali e di racconti di esperienze altrui; storie idilliache si intrecciano con quelle più fosche, le immagini della
terra ferita lasciano il posto ad un’esplosione di colori, i profumi arrivano misteriosamente a mescolarsi dentro di noi;
alle scoperte seguono le sensazioni; e comincia così, tra riso e
lacrime, a germogliare l’amore per la terra.
Il gesto, adesso solo coreografico, della semina, diventa
“mitico” e ci riporta all’inizio della nostra civiltà: ma per risalire indietro nella storia, è necessario seminare le tanto detestate “erbacce”. Questa è l’esperienza che l’attrice-giardiniera ci restituisce attraverso un’affabulazione veloce e densa: la
meraviglia, la sorpresa anno dopo anno sempre diversa, di
vedere con lei i colori e le forme che nascono in un prato
“libero” di evolversi.
Il giardinaggio “pigro” è quello che porta alla scoperta del
prodigio: i semi dormono nella terra e aspettano, stagioni,
anni, persino secoli. Loro sì che viaggiano nel tempo!
Lorenza Zambon ci convince.
Tra i tanti coinvolgenti racconti disseminati nello spettacolo,
scelgo liberamente alcuni “semi”, affinché i lettori possano
intraprendere un sensazionale “ritorno al futuro”.
Nel terreno intorno alle cappelle antiche disseminate nelle
nostre campagne, oltre al culto del santo, vi si conservano
semi rari. “Rallentano, restano vivi senza consumare nessuna energia. Stanno lì. E poi avviene qualcosa nel mondo
intorno a loro, di solito qualcosa di traumatico, di sconvolgente, e di nuovo si risvegliano.” Per riportarli in vita può
bastare un occhio attento, una zappa. O qualcosa di molto
meno carezzevole: dopo i bombardamenti “fertilizzanti”, i
grandi incendi che creano cenere ben “annaffiata” e altre
“proficue” catastrofi, tra i detriti, si schiudono semi provenienti da luoghi e tempi lontani per curare le ferite provocate dall’uomo. Loro, quelle piccole capsule, aggiustano la
terra sconvolta, cominciando a ricoprire di vita le frane delle
montagne, i crepacci, la lava dei vulcani.
Il centro dell’Aquila, svuotato dagli uomini, è adesso invaso
dalle “invise” erbacce. È la vita che esplode silenziosamente!
Foto di Maria Luisa Giuliari, L’Aquila, maggio 2013
73 - Il tempo in teatro
Giovanni Battista Piranesi, Rovine del Sisto, o sia della gran sala delle terme Antoniniane, 1765
Non si tratta di fantascienza, anche se la descrizione dell’americana Detroit dei nostri giorni si avvicina molto a quei
racconti in cui “la natura aggressiva ed inarrestabile stringe
d’assedio le città ultra tecnologiche abbandonate”.
Vi è un allarme, molto grave, che lo spettacolo non tralascia
di lanciare: le multinazionali creano in laboratorio semi
immobili, che non possono evolversi e di cui vogliono i
“diritti”. I guerriglieri del giardinaggio (Guerilla Gardening)
insieme a molti altri, si stanno battendo per la libertà dei
semi, affinché possano continuare a vivere, reagendo ai cambiamenti, continuando a rinnovarsi, incamminandosi lentamente verso il futuro. “… in fondo, i semi sono il modo in cui
il pianeta si adatta ai mutamenti, il modo in cui rimane
vivo.”
La maestra di giardinaggio metropolitano estremo e di orticultura urbana ci incita a diventare raccoglitori urbani del
terzo millennio. In una parola, ci battezza con il nome di:
“ortisti”.
E’ attraverso il risanamento vegetale, la ricolonizzazione
verde, che possiamo sperimentare nuovi paesaggi, sostenibili e …futuri, ci dice, mentre la scenografia, fino ad un
momento prima statica benché efficace, si anima. Le cassette
posizionate intorno all’attrice vengono sapientemente sollevate e svelano, in un crescendo di incastri, i doni sorprendenti della natura.
“Ve ne siete accorti? Gli orti stanno invadendo le città”!
Consiglio di guardare alcuni frammenti su youtube: orto
metropolitano da passeggio, per esempio, è molto divertente e
insegna un metodo di facile apprendimento.
Alla fine della performance, al pubblico vengono donati dei
semi che cominceranno presto a schiudersi:sono certa che
tutti gli spettatori li hanno piantati, impossibile resistere alla
tentazione di diventare subito “ortisti”. Non perdiamo
tempo!
LORENZA ZAMBON è una
delle figure di riferimento del
teatro di ricerca italiano, cofondatrice della Casa degli Alfieri.
Dal 2000 è attrice-giardiniera
grazie all’originale linea di ricerca sul rapporto fra teatro e natura e alla variegata pratica di teatro-fuori-dai-teatri in cui si
intrecciano i molti spettacoli, il
festival Naturalmente arte, laboratori, azioni militanti.
www.teatroenatura.net
Tempo libero - 74
“Dove sono i bei momenti
Di dolcezza e di piacer...”
Le nozze di Figaro
Ed ecco la realizzazione odierna di una ricetta campana,
diventata uno dei piatti simbolo della storia della cucina italiana: Pasta e Patate.
La cucina campana si rifà alle origini greche e a quelle romane, nonché alle ricette del famoso gastronomo Apicio Gavio
del II secolo a. C.. Con gli Angioini i menù si sono andati profumando grazie all’aggiunta del basilico e prezzemolo
importati dalla Francia. Con gli aragonesi, poi, i pranzi
diventano luculliani, a base di carne grassa, pesce, frittura e
ricche libagioni. Tra i ricchi era frequente l’infarto alla fine
dei banchetti!
Scorcio notturno del Palace Hotel Relais Falisco, Civita Castellana (VT)
A tavola non si invecchia. Il proverbio fa riferimento agli
esseri umani o alle ricette della tradizione?
Se ascoltiamo i consigli sulle diete da seguire per conquistarci una buona vecchiaia, forse certo cibo non fa per noi, ma
sicuramente ciò che è stato servito sulla tavola dei nostri
antenati e che continua ad essere apprezzato dal nostro palato, quello non solo non invecchia, ma anzi si rinnova.
Abbiamo chiesto ai giovani chef del ristorante Le Scuderie,
di regalarci la ricetta di un piatto “senza tempo”. Sappiamo
che Daniele e Francesco Ferrari sono capaci di ricreare il passato nascosti nelle moderne cucine che si trovano all’interno
del Palace Hotel Relais Falisco, tra le mura dell’antico palazzo fatto costruire dal conte Feroldi Antonisi de Rosa nel
1650; luogo che, dopo l’acquisto da parte della famiglia
Mancini, ha saputo attualizzarsi pur mantenendo il suo fascino grazie ad un suggestivo e rispettoso restauro.
In questo luogo si respira qualcosa di nuovo … anzi d’antico: il rispetto dell’antico per proporre il nuovo.
75 - Tempo libero
A seguito delle varie dominazioni ed essendo stata Napoli
capitale del Regno delle due Sicilie, la cucina ha subito nei
secoli varie contaminazioni: accanto a quella ricca che si è
venuta a creare a corte per il piacere dei nobili, ha continuato a sopravvivere una cucina popolare molto povera.
Se la prima ha trovato la sua celebrazione con Vincenzo
Corrado, il quale scrisse un trattato sull’arte culinaria, un
vero manuale della cucina teorico-pratica, la seconda, a
causa delle indigenti condizioni del popolo si basava esclusivamente su farinacei, patate, fagioli, accompagnati a volte da
verdure e pesce.
A partire quindi dall’osservazione di un’alimentazione che
doveva sostentare le classi meno abbienti, lo chef Daniele
Ferrari insieme al fratello Francesco, ci permettono adesso di
gustare (per amore di verità, soltanto di leggere) il tempo trascorso, attraverso la rivisitazione di una tradizione culinaria
millenaria, alla costruzione della quale hanno contribuito
culture diverse che si sono comunque ispirate ai prodotti del
territorio (conquistato).
I cuochi hanno rispettosamente cercato di portare in tavola
una ricetta antica, rinfrescata grazie ad un tocco di originalità, che non solo” arricchisce” il piatto nel suo aspetto esteriore, ma che dà nuovo valore alla “povertà” di ogni singolo ingrediente.
Calamarata è il nome della pasta utilizzata: la sua forma
ricorda gli anelli di calamaro, ed era stata “disegnata” forse
per illudere chi non poteva permettersi di aggiungere il
sapore di mare al proprio piatto. La ricetta tradizionale ha
innumerevoli versioni; in ogni famiglia vi sono preferenze
diverse e ogni ristorante la propone in una veste personalizzata. In ogni caso pasta e patate è una specie di zuppa più o
meno liquida, in cui le patate ridotte in crema fanno da condimento alla pasta.
Nella loro ri-elaborata ricetta, gli chef hanno pensato di
scomporre la classica zuppa, offrendo un sapore diverso ad
ogni cilindro di pasta che diventa così un piatto a sé.
Il risultato visivo è stravagantemente chic e offre un’infinità
di possibili combinazioni gustative, ognuna delle quali esalta la grande varietà di esecuzione di ogni ricetta popolare:
questa “rivisitata” pasta e patate concede ai commensali il
piacere di osservare i semplici ingredienti, sempre gli stessi
nel passato, nel presente e nel futuro ma qui orgogliosi della
loro altissima qualità; propone un’insolita libertà di scelta
(gastronomica), degna della più moderna democrazia; soddisfa il palato e il gusto di nutrirsi di storia (culinaria).
La buona cucina ci permette di scoprire un piacevole modo
di digerire il tempo, un tempo che grazie al rispetto della tradizione non passa invano: “pasta e patate” a tavola non
invecchia!
PASTA E PATATE:
Calamarata, patate viola, patate gialle, pancetta, rosmarino,
basilico, fiori eduli, olio.
Cuocere le patate in due pentole separate in abbondante acqua salata, portare a cottura quindi frullare la patata gialla poi quella viola
creando due creme di colore diverso.
Tagliare dei piccoli cubi di patata gialla e rosolarli in padella con
dell’olio e rosmarino.
Cuocere la pancetta in una padella antiaderente e formare delle striscioline.
Disporre sul piatto le due creme, i cubi di patate, la pancetta croccante e la pasta cotta in acqua salata.
Decorare con fiori eduli, rosmarino e cerfoglio.
Buon appetito!
DANIELE E FRANCESCO
FERRARI, chef del Ristorante Le
Scuderie all’interno del Palace
Hotel Relais Falisco, vi aspettano
per farvi trascorrere piacevolmente
il vostro soggiorno gustando le
prelibatezze della loro cucina.
Civita Castellana (VT)
Tel. 0761·515786
[email protected]
www.lescuderierestaurant.it
Passatempo - 76
IL TEMPO DELLE ROSE
di Daniela Zanarini
Che strano! Nel mio giardino ci sono rose quasi tutto l’anno:
rose a maggio, quando è il loro tempo; in autunno, e anche in
inverno qualcuna, tardiva, ancora fiorisce e rosseggia.
Questo, in fondo, mi turba. Sembra non esserci più oggi un
tempo della primavera, della fioritura, della giovinezza.
Sembra la primavera durare tutto l’anno…
Questo tempo oggi impazzito mi confonde e credo che, in
fondo, confonda tutti noi perché toglie quei confini precisi di
cui abbiamo bisogno: quelli del tempo, appunto, che servono
a definirci e collocarci, che servono a scandire i momenti
della vita, sia nostra che della natura e a rammentarci la
nostra realtà e fragile essenza.
Crediamo così di essere o vogliamo essere rose anche in
autunno…
Forse servirebbe solo un po’ più di semplicità e chiarezza.
Ecco, credo che il tempo scandisca proprio questo, quando
si riesce ad averne la giusta percezione: mette ordine e chiarezza nella nostra vita. C’è così l’alba, il mezzogiorno, la sera
e la notte; la primavera, l’estate, l’autunno, e poi il lungo,
freddo inverno. C’è l’oggi, c’era l’ieri, ci sarà forse il domani.
Il tempo è la misura, il segmento della nostra vita, il suo ordine e anche la sua metafora. La sabbia che scende nella clessidra o il ticchettio dell’orologio misurano questo scorrere continuo e inarrestabile del nostro tempo, anche se noi oggi cerchiamo di confonderlo e dilatarlo il più possibile, per non
arrivare mai al freddo e buio inverno. Ma è solo un’illusione
questa rosa che in inverno ancora rosseggia: la breve, tardiva
gioia di un’ora.
DANIELA ZANARINI, nasce a
Roma, dove si laurea in Lettere
Classiche all’età di ventidue
anni. Insegna a lungo nei Licei
della capitale, unendo all’attività
didattica e culturale un profondo
interesse per la poesia, che coltiva a livello di studio e di creazione artistica. Nascono così, nel
2001 e nel 2011, Appunti di viaggio
e Altri Viaggi, raccolte di poesie
scritte a quattro mani con il marito Riccardo Rovere. Dal 2003
risiede a Vallerano, nella casa di
campagna che fu di Corrado
Alvaro e Libero Bigiaretti, dividendosi tra gli impegni romani e
la tranquillità agreste della Tuscia.
Con la poesia “Inganno il tempo”, pubblicata a pag. 25, ha vinto
nel 2006 il Premio nazionale “Eugenio Montale”.
77 - Passatempo
FATE BUON USO DEL TEMPO CHE FUGGE
di Francesca Cazzola
intanto fugge questo reo tempo,
e van con lui le torme delle cure…
Ugo Foscolo
Secondo la visione meccanicistica del Foscolo il tempo, con la
violenza di un rapinatore, travolge tutto: le cose, gli uomini
e le loro preoccupazioni. Il tempo, questo crudele nemico.
Sopraffatti dagli impegni quotidiani, dal lavoro, dalla cura
della casa, dai figli piccoli oppure, quando sono cresciuti, dai
genitori ormai anziani, siamo assaliti da mille ansie e, nel
frattempo, la vita scorre veloce.
A cena da un’amica che festeggiava il suo quarantesimo
compleanno, data importante e momento dei primi bilanci,
una signora, ormai vicina ai cinquanta, fornì a tutte le invitate una sua curiosa visione della vita, sostenendo l’importanza di dedicarsi a se stessa.
Raccontò con straordinaria piacevolezza che al rientro a casa
vedeva, come capita a tutte, polvere sui mobili, cucina in
disordine, oggetti fuori posto, ma aveva imparato a osservare più lontano, sorvolando sulle incombenze quotidiane, perciò, invece che uno straccio, prendeva il libro preferito e
dedicava il tempo a sé, anziché all’arredamento, aggiungendo che, se per caso arrivava qualche ospite inaspettato, di
sicuro veniva a far visita a lei e non al tavolo o alle poltrone.
Mi è sempre parsa una straordinaria filosofia di vita che però
non riesco a mettere in pratica.
Il tempo, tiranno e nemico, ci mostra la nostra fragilità,
rubandoci bellezza, salute e forza fisica e c’è chi non si rassegna ad essere derubato dei doni che la giovinezza, più o
meno generosamente, gli ha fornito . Per gli antichi i senes, i
vecchi, erano degni di massimo rispetto, in quanto depositari di saggezza, ma probabilmente quei vecchi citati da
Cicerone nel De senectute erano paragonabili agli arzilli sessantenni dei giorni nostri, mentre oggi gli anziani, ormai più
che ottuagenari, sono persone essenzialmente bisognose di
cure e di attenzioni.
L’importante è servirsi ottimamente del tempo, perché “Vita,
si scias uti, longa est” (Seneca), perciò usiamo bene la nostra
vita e non riduciamoci come Mazzarò che, giunto ormai alla
fine del suo passaggio terreno, quasi folle, urla “Roba mia,
vientene con me” (Verga).
Caspar David Friedrich, Viandante sul mare di nebbia, 1818, olio su tela,
98,4x74,8, Amburgo (D), Hamburger Kunsthalle
FRANCESCA CAZZOLA, nata
a Lonigo (VI) nel 1959, ha conseguito la maturità classica e si è
poi laureata il Lettere presso
l’Università di Padova con tesi il
letteratura greca. Attualmente
insegna alla scuola secondaria e
continua ad occuparsi di traduzioni di testi classici.
È inoltre responsabile dell’integrazione degli alunni stranieri e
dell’orientamento scolastico.
Passatempo - 78
TEMPO... DI RIFLETTERE
di Margherita Crogliano
Cos’è il tempo, se non un concetto relativo, un pensiero che
inesorabile passa e trapassa, e alle volte neppure ce ne accorgiamo! Quanta gente felicemente lo aspetta, quanti lo rincorrono, tanti lo perdono!
Il tempo è una stazione di pendolari: chi è in attesa, chi scappa per inseguirlo, chi arriva troppo tardi, e lui sicuro non ti
aspetta. Lui va, corre, per chi lento e per chi veloce. Sì! È una
stazione il tempo, e la gente, con i propri sogni, incubi, felicità e dolore, tutta là davanti alla fermata, ognuno con il proprio vissuto, le proprie vicissitudini.
Com’è strano questo tempo… tanto diverso e straordinariamente uguale! Tic tac, la lancetta corre immutabile per tutti,
tuttavia tremendamente differente.
Cos’è il tempo in guerra? Quanto dura un’ora in trincea?
Ci sono attimi lunghi un’eternità: i secondi diventano minuti, i minuti giorni, i giorni ore, le ore mesi, i mesi anni e gli
anni secoli; lui intanto non muta, è identico per tutti.
Cos’è il tempo per gli amanti? Quanto dura un abbraccio?
Un attimo, un soffio o poco più e pure il minuto trascorso, al
riparo, tra le tenere braccia dell’amato o dell’amata è il medesimo di quello trascorso al riparo in una trincea. Sessanta
secondi un minuto, per tutti gli orologi, ma non per tutti i
vissuti.
Tempo, che magnifico concetto! Così terribilmente concreto,
pur tuttavia così astratto.
Alle volte pare proprio di toccarle le ore, le respiri, le senti,
invadono l’anima e te la consumano, ti cambiano. Sì, il
tempo, lo vivi e per questo ti cambia piano piano, quasi non
te ne accorgi, ma ti cambia! Dio solo sa quanto un minuto vissuto può cambiarti!
Ti ritrovi adulto, nello stesso posto ad ascoltare le parole che
in passato hai già sentito e dai loro un significato nuovo, perché quando le udivi eri piccolo e gli esempi, i modi di dire,
non avevano vissuto; ma con le primavere alle spalle, con il
tempo che visibilmente ti disegna il volto, il sorriso, le
espressioni, adesso sì che le comprendi quelle parole, perché
il tempo così astratto, inafferrabile, inesorabile, lui con il suo
passare insegna.
Passano le stagioni e gli anni!
È primavera, lo è tutti gli anni e pure ti fermi ad ammirarla,
ti guardi intorno, con gli occhi dell’infante, contornati da un
tempo ormai passato; nonostante ciò, tutto appare nuovo,
ma l’hai già vista la primavera, chissà quante volte!
L’estate, lei trascorre veloce sulla spiaggia. Tre mesi, nulla
più, solo tre mesi. Ma tre mesi in Africa tra le guerriglie,
quanto dura l’estate in Africa? Quanto durano tre mesi in
luoghi di guerra, di soprusi, di fame; non sono i tre mesi
delle crociere, dei viaggi, degli occhi sognanti. Tre mesi sono
tre mesi, trascorrono lenti e con ticchettio uguale.
Con un urto arriva l’autunno. E’ il tempo delle foglie cullate
dal vento, cadono a terra come vite vissute o ancora da vivere.
Ed ecco l’inverno: è tempo di casa, di festa, di buio e di intimità.
Trascorre l’anno e non te ne accorgi o il peso dei giorni è più
forte di un pugno sul naso.
Il tempo trascorre uguale per tutti ed è singolare per ciascuno, non è una scoperta bensì una riflessione su un’andatura
ora lenta ora veloce davanti alla stazione.
Che meraviglia, il tempo! Non chiede il permesso, respira
con te, respira per te, e fra l’oggi e il domani, in luoghi vicini
e lontani, ti scopri cambiato, ma lui rimane immutato!
Terribilmente... tempo!
Lento trascorre come soffio,
sulla tremante fiammella di una candela
accesa da tempo!
Alzi gli occhi al cielo
l’alba trapassa,
respiro affannoso di superficiali uomini
ti computa e non ti respira.
Ed è sera!
La luce si abbassa.
Racconti eroici
passati gloriosi di un tempo ormai andato.
Vite vissute
in tempo passato… futuro,
ma poco presente.
Parole nel tempo che soffia veloce.
MARGHERITA CROGLIANO,
nata a Cariati nel 1981. Laureata
in lettere moderne con indirizzo
archeologico, con una tesi sul
sistema difensivo costiero della
Calabria Medioevale, è attualmente insegnante in Veneto.
Ha pubblicato il suo primo
romanzo, Il Cammello in Orbita
Albatros Il filo, Roma 2013 e
un’antologia di poeti contemporanei, Viaggi in versi, ed. Pagine,
Roma 2013.
79 - Passatempo
IL TEMPO GUARISCE TUTTO
di Camilla Pacelli
Quante volte, quante maledettissime volte, ci hanno detto
“il tempo guarisce tutto”.
Ce lo sentiamo ripetere come un mantra fin dalla tenera età:
a partire dalla delusione della prima cotta alle elementari,
passando dalla disperazione dei grandi amori che riempiono
i diari alle medie, per arrivare all’amarezza delle rotture con
i fidanzati del liceo, e poi alla delusione delle separazioni in
età matura.
Nessuno mai, nel momento in cui un amico o un familiare
pronuncia questa frase, vi presta attenzione o si sofferma a
pensare se sia effettivamente così. Quelle quattro parole
suscitano solo un fastidio, quasi un disprezzo per chi è fuori
dal nostro dolore e non comprende, anzi, suonano come
frasi di circostanza simili a quelle di chi partecipa al funerale di una persona che conosce di vista solo per spiare da lontano cosa sia il dolore. Invece tu sei lì che cerchi una soluzione, un barlume di speranza, un dettaglio che ti faccia credere che esiste ancora una possibilità di salvare il grande
amore, o presunto tale.
Edward Hopper, Automat, 1927, olio su tela, 71,4x91,4, Des Moines (USA), Des
Moines Art Center
I copioni da lieto fine assicurato li lasciamo al cinema perché
spesso e volentieri la vita vera continua a scorrere nella sua
semplicità oltre le fini e le rotture. E mentre si è presi dagli
impegni, dai doveri spesso improrogabili, e dunque terapeutici, della quotidianità, dalle cose che popolano la nostra esistenza, il tempo passa.
Eccolo lì, proprio lui, con il suo incedere sempre uguale e
banale ma inesorabile.
Così una mattina ci svegliamo, ci alziamo, ci facciamo una
doccia e scendiamo al bar e mentre sorseggiamo il caffè guardiamo la nostra immagine riflessa dietro il bancone del bar e
la vediamo sorridere mentre una piacevolissima sensazione
di libertà e rinascita ci invade.
Il tempo ha fatto il suo effetto.
Siamo guariti e pronti forse ad ammalarci di nuovo, certi che
il tempo sarà sempre al nostro fianco per consolarci e disegnare con noi un’esistenza eternamente unica.
CAMILLA PACELLI,
classe 1983, nata a Roma cresciuta a Vallerano, ha studiato a
Milano dove vive ormai da 10
anni.
Lavora nel Web ma la sua passione più grande è l’arte, soprattutto quella contemporanea.
Le piace scrivere e nel tempo
libero cura un blog, il suo sogno
è aprire una galleria d’arte a
New York.
Passatempo - 80
MA ALLORA, QUESTO TEMPO: ESISTE DAVVERO?
di Riccardo Rovere
Davvero difficile confrontarsi con un tema, quello del tempo,
che nel corso della Storia ha chiamato a riflettere su di sé
innumerevoli generazioni di scienziati, teologi, filosofi, luminari di ogni genere: tema estremamente affascinante, ma che
certo non consente, né consentirà in futuro, di arrivare a un’idea comune, capace di scardinare almeno alcuni dei suoi
innumerevoli misteri.
Una riflessione su questo argomento può partire da quanto
dice al proposito Sant’Agostino che, da grande Dottore della
Chiesa qual è, ci ha lasciato un corpus straordinario di opere
e di pensieri incapaci di invecchiare. Che sia, anche questo,
un miracolo?
Sinceramente non lo so. Mi limito quindi a riportare questa
frase: “Il tempo non esiste, è solo una dimensione dell’anima. Il
passato non esiste in quanto non è più, il futuro non esiste in quanto deve ancora essere, e il presente è solo un istante inesistente di
separazione tra passato e futuro.”
E m’interessa portare queste sue parole al centro dell’attenzione, e cercare di vedere se, partendo dal suo pensiero, sia
possibile approfittarne per rafforzare affermazioni sul
tempo, o per negarle, avviando in questo modo un dibattito
cui, e scusate il gioco di parole, certamente neanche il tempo
darà soluzioni… ma, per lo meno tutto questo sarà servito
per farci ragionare.
Prima di tutto, fermiamoci un attimo. Facciamo passare qualche secondo.
Sentiamo scorrere il tempo, quel tempo che è tutt’uno con la
nostra vita, in ogni momento, ma che spesso siamo troppo
indaffarati per percepire. Stiamo fermi e il tempo scorre. Ci
muoviamo e il tempo continua a scorrere.
Parliamo, corriamo, facciamo l’amore, dormiamo, lavoriamo, ci arrabbiamo: e il tempo continua a scorrere inesorabile; un fiume che costantemente scende verso il mare.
Ma davvero il tempo è immutabile? O invece, è diverso
secondo i momenti della nostra vita, rispetto a noi e rispetto
a quanto ci circonda?
Io sono certo che sia altamente mutevole: il tempo scorre, è
vero; ma non è sempre uguale: tempi di durata uguale possono invece avere diverso valore, diversa percezione, diversa aspettativa.
E quindi, esiste davvero l’univocità del tempo?
Certamente no. Secondo me, si tratta di un concetto flessibile,
che parte da una sua precisa strutturazione in unità, dal
nanosecondo (ammesso che questo rappresenti il tempo
minore ) fino al secolo, al millennio, alle ere, passando per
ore, giorni, mesi, anni e così via, e scontrandosi in ogni
momento con la realtà, le epoche, le culture, le società, le singole persone, evolvendosi costantemente e trasformandosi in
un concetto assolutamente personale e relativo, diverso per
ognuno di noi.
Quanto vale un minuto per ciascuno di noi, o un’ora, o un
anno? Mai la stessa cosa, perché tutto dipende da quello che
stiamo facendo, da quello che ci accade, dalle scelte che facciamo in ogni attimo.
Il tempo secondo me può essere raffigurato come un piano
inclinato in equilibrio instabile, e rappresenta quindi un elemento flessibile: a parità di durata, ha maggiore o minor
valore in relazione all’interesse che ciascuno di noi ha nel
farlo scorrere più o meno velocemente; tutti sappiamo che
spesso un minuto può durare molto più di un’ora.
E ritornando alle parole di Sant’Agostino, possiamo forse
essere d’accordo con lui, quando afferma che il tempo non
esiste, è soltanto una “dimensione dell’anima”.
Basta infatti guardare al mondo, alla nostra esistenza e a
quella di tutte le cose che nascono e si sviluppano intorno a
noi: dagli esseri umani, alle piante, agli animali, alla natura
che abitiamo, fino allo spazio che ci sovrasta e prosegue
verso uno spazio, che non conosciamo, né mai potremo
conoscere: ben al di là della nostra (microscopica) tecnologia,
del nostro (minuscolo) pianeta.
E il tempo, in tutto ciò? Il passato, il presente, il futuro?
Forse, come dice sempre Sant’Agostino, anch’essi non esistono… quello che si può affermare con certezza è che si tratta
di categorie, che hanno senso solo in quanto pensate e create
dall’uomo per gli uomini, ma certo non da chi, chiunque sia,
sta (o non sta?) sopra di noi, al di là dei tempi, che per quanto possiamo immaginare sono infiniti, e quindi non comprensibili da parte dell’essere umano.
Credo sia importante condividere con tutti i lettori a questo
punto, un pensiero sul tempo che spesso mi attraversa la
mente.
Gli scienziati hanno calcolato l’origine dell’uomo sulla Terra
a circa duecentocinquantamila anni fa. Per quanto riguarda il
nostro pianeta, si presume che la sua età sia intorno ai quattro miliardi e mezzo di anni, che è poi appena un terzo dell’età presunta dell’Universo: oltre dodici miliardi di anni.
Quindi se calcolassimo l’età della Terra come 24 ore, l’Uomo,
noi in poche parole, sarebbe comparso in questo mondo solo
da pochi secondi!
Di fronte a questo infinito, come non sentirsi sgomenti e
annichiliti? Come dare al tempo, al nostro piccolo tempo, un
senso di durevolezza, arriverei a dire, di eternità?
81 - Passatempo
Sembrerebbe impossibile, ma tutto è relativo, quindi vale la
pena di essere fiduciosi verso la nostra vita, verso ciò che
viviamo, verso ciò che ci aspetta.
Come diceva bene il grande Alfred Einstein: “Quando un
uomo siede un’ora in compagnia di una bella ragazza, sembra sia
passato un minuto. Ma fatelo sedere su una stufa per un minuto e
gli sembrerà più lungo di qualsiasi ora. Questa è la relatività.“
Perciò, gentili lettori, quale che sia il nostro tempo, non
sapremo mai se davvero esiste...
Possiamo quindi chiamarlo come preferiamo, ma comunque
vale sempre la pena viverlo nel modo migliore: e nel farlo
consentitemi di soffermarmi su un ultimo pensiero di
Charles Baudelaire: “Son sabbia i minuti, spensierato mortale, da
non lasciar scorrere senza cavarne oro!“
Come dargli torto?
Foto di Riccardo Rovere, 2013
RICCARDO ROVERE, di origine piemontese, vive da molto
tempo a Roma. Coltiva la propria
passione per la scrittura in tutte
le sue declinazioni, a partire
dalla poesia. Si considera un cittadino del mondo, e ama immensamente viaggiare, nella realtà e
con la fantasia, accompagnato
sempre dalla curiosità di conoscere cosa c’è dietro ogni angolo
della vita. Obbligato a guadagnarsi il pane tra una passione e
un’altra, è da molti anni dirigente di un grande gruppo industriale. È convinto che la propria casa di Vallerano, felicemente
condivisa con la moglie Daniela, prima o poi gli consentirà di
scrivere un capolavoro, grazie al respiro letterario che la pervade, eredità dei suoi illustri proprietari precedenti.
Il tempo della scrittura - 82
PROFUMI DEL TEMPO IMMAGINATO, IMMORTALI
di Giangiacomo Darelli
Abbiamo deciso di offrire alcune pagine a chi, nel tempo libero, dà spazio alla propria creatività. Si tratta di una nuova rubrica, dove verrà ospitato chi vuole farsi leggere. Se la scrittura può curare le pene della propria anima, useremo uno pseudonimo per permettere ad ognuno di sentirsi libero. Speriamo di ricevere racconti brevi o abbozzi di romanzi, augurandoci di stimolare lo scrittore che si nasconde in ognuno di noi!
Quando di un antico passato non sussiste niente, dopo la morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose, soli, più fragili ma più intensi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore restano ancora a lungo,
come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sulla rovina di tutto il
resto, a reggere, senza piegarsi, sulla loro gocciolina quasi impalpabile, l’immenso edificio del ricordo.
Marcel Proust
Una calda giornata d’estate in una Roma che sempre riesce
ad essere solo tua se ti avvicini a lei nella giusta maniera, rendendo semplice coreografia la moltitudine di persone accorse da tutto il mondo per ammirarla.
Avevamo camminato molto per piacere e per lavoro, ti avevo
parlato di un luogo che per caso avevo scoperto e dove mi
ero promesso di ritornare con te.
Eri curiosa, ma forse un po’ assuefatta alle mie insolite scoperte.
L’abitudine crea ostacoli all’entusiasmo, ma non ci
badavo; ero piacevolmente preso dall’euforia della meta.
Il negozio, intimo e grazioso, conteneva innumerevoli flaconi di profumo perfettamente allineati sugli scaffali. Il legno,
che ricopriva interamente le pareti, con il passare del tempo
si era impregnato di essenze di ogni tipo rendendo l’ambiente denso di una profumazione unica ed irripetibile .
Il luogo era assolutamente avvolgente. Teatro di seduzione.
Marina, titolare e regina di quello spazio speciale, ci viene
incontro sorridendo. Le nostre narici cominciano a vibrare
sotto l’effetto di effluvi esaltanti. Gli chiedo se ricorda la mia
precedente visita.
- Certo che mi ricordo? Anche se è passato un po’ di tempo!
Mi ricordo persino i profumi che le ho fatto provare. Come
va? - Bene, grazie! La signora è una mia amica, Isabelle, un’appassionata di profumi e di essenze. - Ben arrivata, da dove vogliamo cominciare…? - Non saprei... sono in un periodo di confusione, olfattiva…
e non solo! Di solito vado ad istinto. - Vede o… vedi, ci possiamo dare del tu? - Certamente! - Qui non vi è nulla di chimico, i profumi che ti farò provare
sono tutte essenze naturali: dal momento che li indossi prendono vita; la loro persistenza può durare un giorno, due giorni e, a volte, avvolgere l’intera esistenza. -
Un’impercettibile nuvola si posa delicatamente sul dorso
della tua mano sinistra.
- Ora lo senti molto pungente, ma bisogna attendere per capire come cambierà sulla tua pelle. - suggerisce la venditrice
accorta.
Avvicini le narici sensibili alla pelle leggermente inumidita e,
dopo qualche secondo, esclami: - Buono! Fino a quel momento mi ero divertito a giocherellare con i
tester delle essenze posti alla base delle vetrinette, la tua voce
mi fa trasalire; mi avvicino curioso. Noto un sorriso che rivela il tuo piacere di navigare in mezzo alle onde di profumo.
Gian Lorenzo Bernini, Il Ratto di Proserpina, 1621-1622 (particolare), Roma,
Galleria Borghese
83 - Il tempo della scrittura
Mi porgi la mano. Annuso, perplesso.
- Che ne pensi? - mi chiedi.
- Sì, non male, ma credo che ci sia qualcosa di più indicato
per te. Provo a dare un’accentuata sensualità alle mie parole, sensualità che si stava diffondendo nell’aria pregna di quelle
essenze che regalavano un senso di beatitudine.
Bastava chiudere gli occhi per fantasticare di incontri galanti, di piacevoli sogni di pelli sfiorate e rese arrendevoli, come
se i profumi si ergessero ad alibi per trasgressioni inebrianti.
Nell’avvicinarmi ti colgo alle spalle, sfioro con il naso e le
labbra il tuo collo per gustare la nuova profumazione, lascio
che il mio braccio ti avvolga e la mia mano si posi in una delicata ma decisa carezza.
Non ti muovi, non potresti, la mia gamba destra volutamente blocca ogni tuo spostamento.
Non reagisci, anzi agevoli questa vicinanza, un abbraccio
morbido fra i nostri due polpacci.
Marina, con occhio attento, coglie la nostra intesa e, con professionale leggerezza continua a raccontarci la straordinaria
storia dei profumi. Ascolto, poco concentrato, in verità.
- Bene. Sapete che i creatori di profumi si chiamano “nasi”.
Ecco, i profumi che ti farò provare adesso sono molto particolari e colui che li ha creati si chiama “Nasomatto”; - poi
rivolgendosi direttamente ad Isabelle - potresti provare questo! È un’essenza molto femminile il suo nome è Venus. C’è
anche il suo corrispondente maschile, che faremo provare a
Giacomo, se è pronto ad osare: si chiama Duro. La provocazione non viene accolta e, dopo un attimo di
imbarazzo, ecco arrivare lo stimolo sensoriale:
- Mamma mia, che buono... è fantastico! - esclami con prontezza soave.
A questo punto, la profumiera esperta non tralascia di sottolineare: - Secondo il suo creatore è un portentoso esaltatore
della sensualità femminile e, nella versione for men, della
virilità. Ti giri verso di me e con uno sguardo di sfida ma, dal mio
punto di vista, molto seducente, mi domandi: - Lo vuoi sentire? A cosa si riferisce, mi chiedo: alla nuova fragranza sulla sua
pelle, o alla profumazione del mio orgoglio maschile?
Non perdo troppo tempo a riflettere. Reagisco animalescamente allo stimolo: porto la parte più vellutata del tuo braccio vicino al mio naso, per un attimo chiudo gli occhi, un
pensiero mi attraversa la mente: è vero, Marina ha ragione!,
Un rossore al viso, improvviso, mi assale. Maschero lo stupore con un banalisssimo: - Buono, veramente buono! -,vorrei
che la mia voce non suonasse troppo sdolcinata, benché
comincio a sentirmi sensibilmente coinvolto.
Dentro di me, intanto, sto analizzando il mio stato d’animo.
La conferma di quanto descriveva Marina sulle qualità di
questa essenza ha scatenato in pochi secondi una sorta di
gelosia, come se volessi privarti della possibilità di indossare
questo profumo per paura che esso metta ancora più in risalto la tua sensualità.
Mi avvicino e ti sussurro i miei timori.
Ridi compiaciuta; i miei timori aumentano.
Tamara De Lempicka, La belle Rafaela, 1927, olio su tela, 64x91 (collezione privata)
Mi apparto un po’ e continuo a giocherellare con i tester.
Succede spesso. Questo astrarmi dalla realtà avviene ogni
qualvolta prendo coscienza di quanto la mia passione, la
nostra passione, sia fatua come una piccola nuvola di profumo: intensa ed esaltante appena ci vediamo, persistente
quando siamo insieme, qualche volta svapora quando cerchiamo di dare un senso alla nostra strana storia, ma poi, una
volta lontani, ricorriamo al ricordo olfattivo per dissolvere la
tristezza dell’assenza.
- Dunque? Quale profumo ti piace di più? Sono molto incerta nella scelta, aiutami! - Ti sei accorta che sono tra le nuvole,
vuoi riportarmi lì, con te e l’essenza in gioco.
Marina si avvicina ad uno scaffale dal quale sceglie un piccolo flacone: - Era mia intenzione fin dall’inizio parlarvi di questo profumo, ma volevo arrivarci per gradi. Chi lo vuole provare? E’ un profumo unisex. - Provalo tu, Isabelle! Io sono già abbastanza disorientato,
(felice nel disorientamento, penso tra me) ho proprio bisogno
di un caffè: - vado al bar, torno fra cinque minuti, intanto
indossalo. - Vedi, Isabelle – la preannunciata assenza permette una presentazione più confidenziale, da donna a donna - questa è
una fragranza molto particolare; il “naso” che l’ha creata si è
ispirato alla migliore produzione di hashish afgano, il suo
espandersi nel passare del tempo ha delle proprietà quasi
magiche, che regalano una tranquillità inaspettata. Il persistente aroma influisce anche sul benessere interiore, tenendo
lontani i cattivi pensieri. Certo si deve usare con cautela e in
determinate giornate, ma ci sono persone che lo indossano
sempre, non ne possono fare a meno! E senza che tu lo chieda, uno spruzzo si posa sul tuo collo, un
altro sulla mano ancora “vergine”.
Uscire dal negozio mi fa ritornare alla realtà: il vociare dei
turisti, il loro abbigliamento improbabile, le auto, le sirene,
l’attenzione necessaria per attraversare incolume la strada,
mi riportano subito al quotidiano.
Quando entro nel bar mi rendo conto che il mio pot-pourri di
profumi ha uno strano effetto sugli avventori .
Il tempo della scrittura - 84
La gentile signora alla cassa, con uno sguardo comprensivo,
mi toglie dall’imbarazzo:
- Viene dal negozio di Marina? - Credo si senta, vero? - Sì, ma non si preoccupi, non dà fastidio anzi è piacevole; noi
ci siamo abituati. - Grazie! Vorrei un caffè macchiato. - Bevo il nettare nero,
saluto, esco. Non mi dirigo subito verso il negozio; voglio
gustare e tenere per me questi attimi di benessere.
Ho in bocca il sapore intenso del buon caffè mentre nel naso
persiste la profumazione lasciatami da quella piccola striscia
di cartone che da solo avevo curiosamente intriso di nero
afgano. La strada, le vetrine, i palazzi, la gente, assumono
adesso una colorazione diversa, una sonorità diversa: quello
che prima era un rumore confuso ora sembra la colonna di
un film del quale mi sentivo protagonista.
Sono l’eroe di una storia alla quale, ostinatamente, cerco di
dare un lieto fine, noncurante di tutto ciò che si oppone alla
mia aspettativa; come al solito, in fondo mi va bene così.
Desidero vivere una fiaba fantastica, dove sentirmi padrone
del mio futuro e artefice delle mie passioni.
Mi spingo fino a Trinità di Monti, mi affaccio sulla scalinata
di piazza di Spagna e, mentre osservo la piazza laggiù, la
mente viene avvolta da un lontano ricordo.
Era primavera, tanto tempo fa, a causa di un profumo inaspettato e piacevolissimo, mi ero sentito confuso, la testa mi
girava senza tregua. Mi sovviene adesso un verso di
Shakespeare: “Se per baciarti dovessi poi andare all’inferno, lo
farei. Cosi potrò vantarmi con i diavoli di aver visto il paradiso
senza mai entrarci”.
Sì, lei mi aveva baciato all’improvviso, interrompendo uno
dei tanti lunghi attimi fatti di sorrisi mentre in silenzio i nostri
occhi si carezzavano. Era durato un istante: lei aveva osato
quello che a me non era mai riuscito, benché l’avessi agognato per tanto tempo. Avevo assaporato, finalmente, la delizia
delle sue labbra. Il suo profumo si era sprigionato in me.
La sua persistenza però è svaporata.
Lei, convinta di aver commesso un delitto, cercava di fare i
conti con la sua coscienza, ma il rimorso le impediva di capire quale reale colpa avesse continuato ad assumersi negli
anni che seguirono.
Ora tutto è un ricordo. Provo una sensazione spiacevole, la
stessa, che mi riporta alla realtà. Guardo l’orologio e… è
tardi!
- Ma che fine hai fatto? Hai preso un caffè o hai pranzato? - No. Scusami, mi ha telefonato un mio amico per un problema… - mento spudoratamente, sperando che le essenze
buone e benefiche stemperino i miei turbamenti.
- O un’amica? Fingo di non aver sentito. (A che serve difendere le proprie
inutili bugie.) Incurante, o forse soddisfatto, della frecciatina,
chiedo:
- Nel frattempo, hai scelto? - Sì. Black Afgano è sicuramente intrigante, ma… prenderò
Venus. - Per fare piacere ai tuoi amici? - Quanto sei sciocco!-
Mi avvicino al tuo orecchio e con la scusa di annusare il
nuovo profumo al quale dovrò d’improvviso abituarmi, ti
bacio leggermente e ti sussurro:
- Lo sai che sei la mia sola amica… e che sono geloso? - e poi
a voce alta: - Allora Black Afgano lo prenderò io, ho deciso! - Bene, vi preparo subito il tutto. - E mentre Marina si dedica
con cura alla carta-regalo, scelgo una frase che, rivolta contemporaneamente alle due donne, possa essere interpretata
sia come una lusinga sia come un avvertimento:
- Ok. Spero che questa essenza mi aiuti ad avvicinare qualche
amica simpatica! - dico con un tono leggero da sbruffoncello.
- Certamente, ma tu non hai bisogno di tanti profumi…! Marina mi fa intuire che sta al gioco. Tra me e me penso che
questo atteggiamento lo abbia sperimentato centinaia di
volte con tutti gli uomini un po’ vanitosi che entrano nel suo
negozio.
Tu giri la testa verso di me lanciandomi il tuo solito amorevole sguardo di rimprovero che, solo in questi rari momenti,
diventa una dichiarazione di possesso.
- Dovrai usarlo solo quando sei in mia compagnia! - fai eco a
sottolineare la piaggeria di Marina.
- Non mi dire che sei gelosa? Ti accorgi di esserti spinta troppo in là, venendo meno al tuo
proverbiale auto-controllo.
Questa volta sei tu a non rispondere.
Usciamo, il tempo è volato, ma non invano. Siamo piacevolmente inebriati, pronti alla scoperta dell’efficacia delle magiche profumazioni. Torniamo in fretta verso casa, il senso dell’olfatto ormai è al massimo.
Ti cedo il passo nell’ascensore, spingo il pulsante, le porte si
chiudono. I nostri profumi ci avvolgono: tu cedi senza incertezza al mio abbraccio, io ti bacio. Intorno a noi una nuvola
fragrante e densa.
Non so quanto tempo sia passato, all’improvviso una voce
distinta:
- Scendono o salgono? Ci interroghiamo sul soggetto: i vapori, i profumi, le essenze,
le fragranze o forse i ricordi, gli umori o gli amori? Ci allontaniamo, sorpresi. Il profumo è ancora lì, che scende e che
sale, immortale.
85 - I profumi nel tempo
PROFUMO DI DONNA
recensione di Vincenza Fava
Scena dal film Scent of a woman, con Al Pacino e Gabrielle Anwar (1992)
“Non c’è possibilità di errore nel tango, Dana, non è come la vita:
è più semplice! Per questo il tango è così bello: commetti uno sbaglio, ma non è mai irreparabile” afferma l’ex colonnello Frank
Slade interpretato magistralmente da Al Pacino nel film
Scent of woman di Martin Brest (Usa, 1992), remake della
pellicola Profumo di donna di Dino Risi (1974) con Vittorio
Gassman, Alessandro Momo e Agostina Belli. Accanto ad Al
Pacino, un giovanissimo Chris O’Donnell nei panni di
Charles Simms studente ingenuo ma talentuoso della Baird
School di Boston, un istituto che prepara i ragazzi alla leadership nel mondo economico e politico. L’incontro con l’ex
colonnello non vedente sarà un’esperienza decisiva e iniziatica per il giovane; come nei migliori Bildungsroman, la sua
personalità subirà una fruttuosa crescita emotiva e comportamentale. Cosa c’è da imparare da un anziano ex militare
non vedente in pensione, costretto a vivere una vita apparentemente ormai lontana dalle donne e dalla gioia della vista?
Tutta la saggezza della felicità che si sprigiona nell’attimo
vissuto pienamente, un po’ come il noto carpe diem
dell’Attimo fuggente senza la convivenza col dolore di una
tragedia provocata dalla morale comune. C’è un tentativo di
suicidio da parte di Frank Slade, ma tale resta e tutto il film
si dipana sui toni coloristici dell’ironia e delle battute forti,
pungenti e provocatorie del protagonista che di donne è
rimasto un appassionato e folle cultore: “Le donne... Sai cosa ti
dico? Chi le ha create... Dio deve essere proprio un genio. I capelli,
i capelli sono tutto, lo sai: hai mai affondato il naso in una montagna di capelli sognanti? Di addormentartici sopra? O le labbra,
quando toccano le tue come il primo sorso di vino dopo che hai
attraversato il deserto... Le tette, belle tettone, tettine, capezzoli,
capezzoli che ti puntano addosso come baionette innestate... E le
gambe, non importa che siano colonne greche o gambe di pianoforte, e quello che c’è in mezzo, il passaporto per il Paradiso...”. Frank
provoca continuamente il ragazzo, vuole che Charles spinga
il piede sull’acceleratore proprio come fa lui mentre guida in
modo spericolato una Ferrari per le strade di Boston: “Tieniti
forte, Charlie: ci dev’essere un’altra marcia qui!”. In effetti c’è
sempre qualcos’altro al di là di ciò che vediamo, sembra suggerire Frank, perché quello che conta è il coraggio di essere
veramente ciò che siamo eliminando la paura del giudizio e
del ricatto morale. La scena più bella ed emozionante del
film è quella del tango e si percepisce come il tango sia diventata la filosofia di vita del colonnello: passione, nostalgia di
un passato che non può più tornare, ma anche onore e coraggio. Come i migliori duellanti compadritos dei bassifondi di
Buenos Aires, trascinato dai propri sensi interiori ed istintivi,
I profumi nel tempo - 86
Frank va oltre il senso comune che vedrebbe un cieco seduto
in disparte in una sala da ballo: tutto è possibile anche che un
non vedente possa danzare sulle note del celebre tango di
Carlos Gardel “Por una cabeza” (1935). “Anche se sbagli un
passo, niente è irreparabile”: dolore, distanza, separazione
da una donna, una morte improvvisa (come quella del collega morto a causa dell’esplosione di una bomba in un
momento di massima distrazione voluta), tutto può trovare
la propria assoluzione. Con questa frase Frank si libera dai
sensi di colpa e ritrova finalmente il profumo di una donna
ovvero la dimensione magica e romantica della vita, proprio
quella che vorrebbe far conoscere a Charles. Al Pacino grazie
a questa eccellente interpretazione ha ottenuto nel 1993 il
Premio Oscar come miglior attore protagonista. Il personaggio di Charles interpretato da Chris O’Donnell invece resta
un po’ sempre troppo in secondo piano quasi come divorato
dalla presenza scenica del grande attore. Non si riesce a capire bene se alla fine poi il ragazzo sia riuscito del tutto a realizzare interiormente tutti gli insegnamenti shock di Pacino
che esplode in tutta la sua forza interpretativa nella scena
finale in cui assume le vesti di un accanito avvocato difensore della dignità, del rispetto e del coraggio, elementi basilari
per una sana e giusta convivenza sociale: il maestro di vita ha
molto più da insegnare di un professore universitario corrotto. Al di là della morale conclusiva leggermente didattica ed
educativa tipicamente americana, il film merita di essere
visto e rivisto per l’affascinante ricerca introspettiva della
bellezza dell’esistenza: in fondo vale la pena vivere, anche
solo per le note di un tango danzato tra le braccia di una
donna.
Ci sono ricordi che bussano all’improvviso,
specialmente nelle giornate uggiose e tristi.
Apri la porta e ti ritrovi bambina
davanti ad un castello di sabbia.
Ebbene, quel castello è ancora lì,
a indicarmi la strada di un sogno
incubato nelle sabbie del cuore.
(dalla raccolta Deserti di mare)
Tango spontaneo, tanghost.wordpress.com, pubblicata da Alberto
VINCENZA FAVA, dopo la laurea in Lingue e Letterature straniere, si dedica al giornalismo (Il
Messaggero, Italia Sera).
Giornalista pubblicista scrive per
quotidiani, riviste e siti web.
Segue corsi di recitazione, lavora
in alcune compagnie teatrali e
partecipa come figurante e con
piccoli ruoli ad alcuni film e a
varie fiction televisive. Ottiene
una prima segnalazione al concorso di poesie Moica di Viterbo
nel 2005. Pubblica il suo primo
libro di poesie nel 2006 Segni dell’istinto (Ed. del Giano). Nel 2007 ha scritto ed interpretato una
video poesia Ex-sistere, nel 2008 ha portato sulla scena le sue
poesie nello spettacolo teatrale Giochi di luna, nel 2009 Non
dorme nessuno nel cielo uno spettacolo basato sulle poesie di
Federico Garcia Lorca e nel 2010 Culle, ombre su proprie partiture poetiche. Le sue poesie sono state pubblicate in alcune antologie. L’ultima silloge è Deserti di mare (Edizioni Galassia Arte,
Roma, 2013).
Sito web: tracceimperfette.blogspot.it
87 - Santi in comune
SANTI IN COMUNE
Se è vero che tutto ciò che accade ha un senso preciso, allora
dobbiamo credere che la concatenazione di alcuni avvenimenti, apparentemente slegati tra loro, abbia dato vita alla “nostra
piccola storia”: ecco il concepimento di questo numero della
rivista L’Orioli!
L’esplorazione del tempo che avevamo deciso di intraprendere si è modificata nel suo farsi, cogliendo coincidenze fortunate, fatalità molto stimolanti e segni del destino intriganti e piacevoli.
Adesso, a giochi fatti, siamo consapevoli di aver tralasciato
gran parte del dibattito sull’argomento “tempo”, non abbiamo
affrontato il tema da un punto di vista scientifico, vi sono lacune imperdonabili, lo sappiamo, ma tutto ciò trova una plausibile giustificazione nella consapevole scelta di avventurarci
con curiosità e grande entusiasmo nell’immenso
spazio/tempo, senza fretta e senza una meta prestabilita.
Gli enormi stimoli, alcuni nati quasi per caso altri ricercati con
determinazione, hanno contribuito alla realizzazione del giornale. Il gioco del destino, ancora una volta, è stato nostro alleato, ed ha permesso di disegnare la mappa del nostro percorso,
un percorso in comune, inteso propriamente come condivisione di un risultato finale al quale ognuno ha contribuito, e ciò
che più ci piace, spesso inconsapevolmente.
Sì, perché oltre ad essere infinitamente grati a tutti coloro che
hanno offerto con generosità il materiale
autentico per la pubblicazione, vogliamo raccontare a chiunque ci legga la “nostra piccola
storia”.
…E vissero felici e contenti. Questa in genere
è la conclusione di una bella favola, per noi,
invece, è stato l’inizio della narrazione. Per
festeggiare un anniversario importante, i 30
anni di nozze (un lungo tempo in comune) di
Ernesto Riva e Caterina Gambaro, coppia
molto cara alla nostra Associazione, siamo
stati invitati nel comune di Feltre, ridente cittadina veneta dove gli sposi si erano uniti in
matrimonio nella Basilica Santuario dei Santi
Vittore e Corona. Lì abbiamo scoperto un’affinità davvero peculiare: il paese natale della
rivista, Vallerano, e Feltre hanno il santo
patrono in comune. San Vittore, martire insieme a Santa Corona, ci ha ispirato la sezione
“speciale”, dedicata appunto ai Santi in comune. Abbiamo così cominciato a raccogliere
materiale legato al culto del martire cristiano, chiedendo ad
un feltrino originario di scrivere qualcosa per noi. La sua
disponibilità ci ha permesso di incontrare la sua gentilissima
moglie, la quale ci ha coinvolti nel suo entusiasmo permettendoci di ammirare gli affreschi recentemente scoperti nella loro
casa. Quando si è deciso di tornare a Feltre per improntare gli
articoli e fare alcune foto, siamo stati accompagnati da un
casuale ospite straniero, studioso della grande pittura veneta,
il quale ha inaspettatamente trovato nuovo materiale per le
sue ricerche. Morto da Feltre, autore degli affreschi di Casa de’
Mezzan, è stato un lodevole aiutante di Giorgione oltreché lo
scopritore delle grottesche romane.
Compiendo un salto nel tempo, ci siamo ricordati che Maria
Orioli, quando ancora poteva valentemente aiutarci nella
composizione della rivista in preparazione, aveva suggerito di
utilizzare per la copertina il ritratto de La Vecchia di Giorgione.
Allo studioso abbiamo dunque chiesto di scrivere per noi un
articolo. Le sue circostanziate parole ci hanno rivelato che il
cartiglio dipinto sulla tela non è originale, costringendoci a
ripensare le nostre scelte. Da lì è cominciato il nostro impegnativo ma sorprendente lavoro: l’abbiamo percepito come un
invito a “giocare” con le parole, col destino e ‘col tempo’!
Carla Ferraro
Santi in comune - 88
SAN VITTORE MARTIRE
di Don Manfredo Manfredi
Inno a San Vittore
Salve, milite di Cristo,
o Vittor nostro patrono,
[…]
Serba incolume la fede.
A noi tutti sia gradito
Di stampar baci al tuo dito
Con devoto poi fervor.
[…]
A te sia perenne lode,
a te gloria, eterno amor.
(Musica di O. Benedetti)
(Parole di B.Verghetti)
San Vittore Martire,
olio su tela,
Vallerano (VT),
Santuario Madonna del Ruscello,
Cappella Marcucci
Notizie storico-critiche
La vita e gli atti di martirio dei San Vitttore e della sua compagna Santa Corona (o, in termine greco, Stefania) rispettivamente patroni di Vallerano e di Canepina, sono incerti e
avvolti nella leggenda.
Sulla loro passio, sul loro culto e sulla traslazione di loro reliquie, esiste un discreto repertorio di fonti latine, greche e persino copte. Quasi tutte queste fonti concordano nella sostanza del racconto: Vittore è un soldato cristiano proveniente
dalla Cilicia, il quale durante la persecuzione di Antonio (o
Diocleziano, secondo i testi etiopici) è sottoposto a duri tormenti da un Dux o Comes di nome Sebastiano. Mentre egli
sta soffrendo i più feroci supplizi, cerca di incoraggiarlo e di
confortarlo la giovane sposa di un suo compagno d’armi,
Corona, una cristiana non ancora sedicenne. Viene pur essa
arrestata e, dopo un breve interrogatorio, è condannata ad
essere appesa a due alberi di palma e squartata. Vittore invece morirà decapitato.
Luogo di origine di San Vittore
Sono passati circa diciannove secoli dalla nascita del Santo
martire Vittore, e notizie sicure è impossibile averne.
Abbiamo una passio siriaca sul martirio di San Vittore e Santa
Corona, compilata da un diacono della sede di Antiochia di
Siria, stesa originariamente in greco, intorno al IV sec. d.C..
Questa passio, qualche secolo dopo, fu riassunta dal
Venerando Beda (673-735) in ventitre brevi paragrafi, nel
primo dei quali leggiamo: “Erat autem Victor miles a Cilicia”.
Vittore, cioè, era un soldato proveniente dalla Cilicia, regione dell’antica Asia Minore, provincia romana immediatamente confinante con la zona di Alessandretta e di Antiochia.
Tutta l’azione della vita e del martirio sembra svolgersi in
area siriana; ma altri paesi si arrogano il vanto di aver dato i
natali ai nostri martiri. Non lontano da Vallerano, Otricoli.
Altri li vogliono romani. Altri di Feltre. Si tratta di ipotesi
fondate più su pii desideri che suffragate da prove storicamente accettabili.
Lo scrittore feltrino A. Dal Zotto, nel suo studio su La traslazione (Padova 1951), conclude così: “Dei santi Vittore e
Corona nulla sappiamo della vita: non ci è noto neanche il
loro nome proprio né quello delle loro famiglie. Essi dalla
oscurità di una vita comune vennero improvvisamente sotto
il sole della santità negli ultimi momenti della loro esistenza.”
Qui ci preme mettere in evidenza un’osservazione. Il nome
Vittore, al quale fa riscontro quello di Corona (o Stefania), era
attribuito ai cristiani che avevano “vinto” la battaglia della
loro fede con i persecutori, e, dopo il martirio, erano stati
cinti della “corona” di gloria. Ed ecco i nomi: Victor cioè
Vincitore; Corona, o Sthephania, o Victoria, o Vittora, cioè
Vincitrice, cinta di corona. Da qui il Vittorismo nella storia
delle persecuzioni, e quindi l’attributo Victor o Corona, dato
a ciascun martire, faceva cadere in disuso il prenome e il
nome dei santificati.
Già dal 1600 si trovavano più di sessanta coppie di martiri
venerati con il nome di Vittore e di Corona. E Dal Zotto, nello
studio già citato, elenca trentasette Vittori “che si possono
tutti egualmente attribuire al secolo intercorso tra Settimio
Severo e Diocleziano”.
Luogo del martirio
Le fonti del racconto di San Vittore e Santa Corona divergono circa il luogo e il tempo del martirio.
1) Secondo la passio siriaca: “In Syria natalis Victoris et Coronae,
sub Antonino imperatore, duce Alexandriae Sebastiano. Erat
autem Victor miles a Cilicia”.
89 - Santi in comune
- Natalis (dies): trattandosi di santi martiri, il giorno natalizio
indica il giorno della morte, cioè della nascita alla vera vita in
Cristo, secondo l’espressione di Paolino da Nola che così
definisce il giorno del martirio: “Dies in quo, lege functi carnea,
martyres in superana regna nascuntur Dei”.
- Sub Antonino Imperatore: questa espressione è anche epigraficamente attestata per Marco Aurelio Antonino (161-180).
- Sebastiano duce: non ne abbiamo altre notizie. Era probabilmente un governatore romano della Siria o, più probabilmente, uno dei funzionari dipendenti dal governatore.
- Alexandriae: è evidente che Alessandria, dove i due martiri
subirono il martirio, non è Alessandria d’Egitto, ma
Alessandria di Siria, fondata da Alessandro Magno nel 333
a.C., sul golfo di Isso e sulla strada verso Antiochia. Che
spesso si sia confusa Alessandria di Siria con Alessandria
d’Egitto è facilmente spiegabile data la rinomanza di quest’ultima nel mondo antico.
- Miles a Cilicia: è perfettamente comprensibile il fatto che
Vittore –soldato della Cilicia- si trovasse a combattere nella
confinante Siria.
2) Secondo la passio greca i due santi sarebbero stati martirizzati a Damasco.
3) Secondo la fonte copta ad Antiochia.
4) Secondo la passio latina in Alessandria o in Egitto. In
Thebaide Aegypti secondo gli Acta Sanctorum.
5) Secondo altre fonti persino in Sicilia o a Marsiglia.
Raccogliendo le varie indicazioni sul luogo del martirio di
San Vittore e di Santa Corona, non è difficile concludere che,
eccettuata la stranezza della “Sicilia” e di “Marsiglia”, le
fonti ci riportano soprattutto all’area siriana.
Per quel che riguarda la Sicilia, troviamo in un codice feltrino queste parole: “Victor miles christianus in Sicilia agebat …”.
Forse l’amanuense di Feltre ebbe davanti a sé un testo già
modificato, nel quale il nome Cilicia era stato cambiato in
Cicilia, con facile metatesi. Ora la Sicilia nei codici antichi, e
poi anche nei testi trecenteschi, era correntemente indicata
col nome di Cicilia. Così la troviamo in Dante e nel
Decamerone di Boccaccio. Da Cicilia derivò facilmente
Sicilia.
Per altri nomi di città, si può dire che i luoghi dove erano
venerati i santi martiri e dove esisteva qualche loro reliquia,
con una conclusione affrettata e un po’ … interessata, furono
considerati anche come luoghi del loro martirio.
Data del martirio
Ancora più complesso è il problema della data del martirio
dei due Santi. Le date variano, e il cosiddetto Martirilogio
Geronimiano, che risale alla fine del VI secolo, recensisce otto
volte la coppia dei martiri, e non con le stesse indicazioni.
11 gennaio : In Alexandria … Victoris Stefaniae
20 febbraio : Et al (altrove o Alexandriae?)
Victoris et Coro nae et aliorum decem.
1 aprile
: In Aegypto … Victoris et Stefaniae
23 aprile
: In Alexandria … Coronae et Victoris
24 aprile
: In Alexandria … Coronae et Victoris
8 maggio : In Aegypto … Victoris et Stefanae
14 maggio : In Syria … Victoris et Coronae qui
simul passi sunt
21 luglio
: In Massilia … Victoris et Coronae
Altre date:
22 aprile - da testi etiopici
24 aprile – da testi latini
14 o 10 o 11 novembre: secondo i testi greci
14 maggio – secondo il Martilogio Romano
Anche per il giorno del martirio si pone la stessa domanda.
Come spiegare questa varietà di date?
Crediamo non sia possibile, allo stato delle nostre conoscenze, dare una risposta esauriente a questa domanda. Possiamo
soltanto fare alcune osservazioni orientative.
Gli antichi manoscritti recano errori di interpretazione, di lettura, hanno mutilazioni dovute al tempo, deformazione, correzioni, ed aggiunte dovute anche alla buona volontà dell’amanuense, non sempre fornito della dovuta preparazione.
Da qui, maneggiamenti successivi dei testi che si sono man
mano allontanati dalla fonte primigenia.
Ricordiamo anche che fino al VII secolo – con esempi anche
posteriori – le date continuano ad essere scritte in base alla
datazione romana, cioè secondo le calende (il primo di ogni
mese), le none (il 7 o il 9 del mese) e gli idi (il 13 o il 15 del
mese). Non era difficile errare nella valutazione dei giorni
con la datazione romana. Talora il giorno venne stabilito
secondo la traslazione delle reliquie dei Santi Martiri.
Santi in comune - 90
Martirio dei Santi Vittore e Corona Martiri, (particolare) olio su tela, Otricoli (TR), Chiesa di S. Maria Assunta
I martìri di San Vittore
“Variis et horrendis affectus est cruciatibus”.
La tradizione parla di ben undici martìri. Ad alcuni sono
sembrati in parte favolosi, ma leggendo le torture che Roma,
la decantata madre del diritto, ha usato contro i cristiani c’è
da inorridire. Sembrerebbero davvero inaccettabili se non ci
fossero trasmessi da testimoni coevi e spesso oculari.
Marco Aurelio, l’imperatore filosofo, non comprese nulla in
fatto di cristiani e le loro condizioni non migliorarono sotto il
suo governo. Anche a Marco Aurelio, come già Plinio a
Traiano, il legato imperiale domandò come comportarsi con
i cristiani. La risposta fu la stessa: liberare gli apostati, condannare gli altri. E così la filosofia, il diritto, la giustizia potevano pure andare a farsi benedire. In occasione delle festività
annuali all’altare di Roma e di Augusto, sotto diversi supplizi, cadde il fior fiore dei fedeli di quella Chiesa.
Dobbiamo anche aggiungere che, data l’immens.a vastità
dell’Impero Romano, poteva accadere che alcuni “Duce set
Gubernatores Provinciarum pro suo libitu aliquam tyrannidem
exercebant”. Tra questi governatori che esercitavano una spietata tirannide, vi era certamente Sebastiano, che in tutti i
martirologi viene chiamato con l’appellativo di impissimus,
cioè un mostro di empietà.
Questi sono i supplizi che la tradizione ci ha tramandato:
Gli furono spezzate tutte le giunture del corpo.
Fu gettato e lasciato per tre giorni in una fornace ardente.
Un mago gli mise per due volte nel cibo un potentissimo veleno. Vittore non
ne ebbe alcun male, e il mago si convertì.
Gli fu versato olio bollente in bocca e su tutta la persona.
Fu disteso sull’aculeo e gli furono bruciate le carni nude con fiaccole.
Gli fu messa in bocca calce viva mista ad aceto.
Fu accecato con acute punte, poi gli furono strappati gli occhi.
Fu sospeso dall’alto con il capo in giù, per tre giorni.
Fu scorticato vivo.
Fu decapitato.
Edificata da tanto eroismo, Corona, giovinetta di appena
sedici anni, moglie di un soldato commilitone di Vittore,
prese a lodare e a incoraggiare Vittore, dicendogli di vedere
due corone che scendevano dal cielo, una per Vittore e un’altra per sé.
Lo stesso giudice Sebastiano escogitò un nuovo supplizio
diabolico per piegare e punire l’invitta giovinetta. Piegate
due palme, Corona vi fu legata. Una volta liberati gli alberi,
la giovane venne squarciata in due parti.
Il vecchio codice che riporta il martirio dei due giovani riferisce che Vittore, davanti al martirio di Corona, pregava così
il Signore: “Ora, Signore, ricevi anche l’anima mia”.
91 - Santi in comune
Affresco all’interno del Santuario dei Santi Vittore e Corona Martiri a Feltre (BL)
E mentre diceva queste parole, il carnefice gli spiccò la testa
dal collo.
Aggiunge la tradizione che dalla ferita sgorgò, insieme con il
sangue, del latte. La gente presente in gran numero si convertì, e i pannolini usati per assorbire il liquido furono conservarti come reliquie.
Reliquie dei santi martiri
Molti sono i luoghi dove i nostri martiri sono onorati, dove le
loro reliquie furono trasportate, e alcune conservate ancor
oggi.
Non bisogna poi dimenticare che talvolta la presenza di reliquie insigni di Vittore e Corona è stata trasformata addirittura nella presenza di tutto il corpo, da scrittori non bene informati. Perciò anche le vicende delle reliquie presentano un
problema assai complesso. Non tutte sono storicamente definibili. Per questo ci limiteremo ad alcune notizie essenziali e
ad un elenco di luoghi ove Vittore e Corona sono venerati.
FELTRE - I santi Vittore e Corona sono i protettori della città
di Feltre, in provincia di Belluno, e di tutta la diocesi omonima. Feltre possiede anche un Santuario dei Santi Martiri
Protettori.
Si veda l’articolo che segue.
OTRICOLI - Notizie su San Vittore, sulle varie traslazioni
dei corpi di Vittore e Corona e sull’ antica tradizione di culto
verso i due Santi martiri in Otricoli, si trovano in un opuscolo ristampato a Spoleto del 1926, per le Arti Grafiche Panetto
e Petrelli.
Il volumetto di pagine XI.61 contiene in breve la vita e il martirio di San Vittore, protettore di Otricoli, di Santa Corona, di
San Fulgenzio, antichissimo vescovo di Otricoli, e di altri
“Concittadini Martiri e Avvocati, i corpi tutti delli quali si
conservano e si venerano nella insigne Chiesa Collegiata
della medesima terra”.
Nella prima pagina si afferma decisamente: “Nell’esercito vi
era un nobile e generoso cavaliere italiano, per nome Vittore,
nato nella città di Otricoli, giovane di circa venti anni”.
Poi si elencano tutti i martìri cui Vittore su sottoposto, la sua
morte e quella di Corona.
A pagina 60 si legge: “Il corpo di San Vittore si trova collocato sotto l’altare maggiore della Chiesa Collegiata, meno la
testa la quale si conserva in un’urna con decorosa e decente
fodera, guarnita all’intorno con cristalli per renderla da tutti
i lati interiormente visibile”. La tradizione del culto di San
Vittore a Otricoli è certamente antichissima. Anche oggi San
Vittore è patrono di Otricoli.
Nel luogo dove era l’antica città, poco più di un chilometro
distante da Otricoli moderno, si vede ancora un’antichissima
chiesa dedicata a San Vittore martire. Era allora Collegiata e
Cattedrale della città.
Circa l’anno 540 – narra ancora il volumetto – San Fulgenzio,
cittadino e vescovo di Otricoli, trovò il corpo di San Vittore,
e vi edificò sopra un altare.
Nell’anno 1351, il 5 novembre, Agostino, vescovo di Narni,
traslatò il corpo di San Vittore dalla chiesa sotterranea dedicata al santo presso il Tevere, alla chiesa di Santa Maria in
Otricoli e lo ripose sotto l’altare maggiore con altri santi. La
testa, come abbiamo detto, si conserva in un reliquiario a
parte.
In un gran quadro esistente in detta chiesa si vedono dipinte
le immagini di San Vittore e Corona e i loro martìri.
PRAGA - Nel 1355, Carlo IV re di Boemia, re di Germania ed
imperatore del Sacro Romano Impero, scese in Italia per ricevere l’incoronazione imperiale. Era un sovrano molto religioso.
A Milano, il 6 gennaio, prese la corona di Re d’Italia. Il 5 aprile, a Roma, ricevette l’incoronazione imperiale dal Cardinale
Vescovo di Ostia, delegato dal Papa Innocenzo VI, allora residente in Avignone.
Nel ritorno, passò per Feltre e salì a San Vittore, in occasione
della traslazione delle salme dei Santi Martiri, che un’iscrizione dice essere state viste dallo stesso Imperatore.
L’imperatore chiese ed ottenne la testa di San Vittore, che gli
venne concessa dal Capitolo, essendo vacante la sede episcopale. Ricevuta la reliquia, la portò a Praga in una teca molto
preziosa. Questo reliquiario subì varie vicende, dovute ad
agitazioni religiose e militari che sconvolsero la Boemia. Da
dopo il 1673 nulla si sa più di preciso né sul prezioso reliquiario di Carlo IV, né sulle reliquie.
COLONIA - C’è il culto dei nostri santi martiri anche nella
città tedesca dal 1485.
MILANO - Dal 1483 (o 1494) a Milano, dove vi sono cinque
chiese in loro onore, tra cui la più nota è San Vittore in
Carcere.
RIMINI - Anche Rimini per molti anni mantenne il culto
“S.Victoris et Sanctae Coronae Virginis et Martyris”.
Santi in comune - 92
Nell’iconografia feltrina San Vittore è rappresentato come un
uomo di mezza età, in abito da guerriero, con barba, baffi e
lunga capigliatura, reggente lo stendardo di Feltre, con la
spada o la palma del martirio.
Nel pannello di Filippo Lippi, al museo di Copenaghen, e
nell’affresco di Simone Martini (sec.XIV) del Palazzo pubblico di Siena, vediamo un Vittore giovane, con una breve
barba, con gli attributi del ramo di palma o di olivo e della
spada.
Nel trittico di Carlo da Viterbo (1474) conservato nella chiesa
di Sant’Andrea in Vallerano, troviamo un Vittore dal volto
quasi femmineo, incorniciato da una folta e ben composta
capigliatura, un gran mantello e una lunga tunica. Nella
destra tiene uno stendardo e nella sinistra un modellino del
paese di Vallerano.
Nella cattedrale di Osimo c’è una figura di Vittore imberbe,
meno fiera, dimessa, in vesti quasi monacali. L’autore è
Pietro da Montepulciano (sec.XV).
E’inginocchiato, tiene una lunga spada poggiata sulla spalla
e tra le dita una piccola palma.
Ricco di colori, di forme, di personaggi è il pannello attribuito a Pietro di Giovanni Ambrogi, nella Pinacoteca Vaticana.
Vittore sta dinanzi al giudice in sontuose vesti orientaleggianti, tra una folla di guerrieri, di magistrati, di popolo.
Statua lignea di San Vittore conservata nella Chiesa omonima a Vallerano
STRASBURGO - Dal 1496 esiste in questa città il culto di San
Vittore e di Santa Corona. Così anche ad AQUISGRANA.
SIENA - In un antichissimo codice manoscritto si legge:
“Passio S.Victoris et Coronae Patronorum Ecclesiae Senensis”.
ROMA – Non poteva mancare a Roma il culto di San Vittore
e Santa Corona. Dice uno storico che nell’antichissima chiesa
di San Pancrazio: “olim posita fuisse corpora Sanctorum Victoris
et Coronae Martyrum, antiqua ibidem traditio est”.
VALLERANO - Non ultimo Vallerano, che da tempo immemorabile venera San Vittore come suo patrono principale.
Era già patrono di Vallerano quando, dopo il miracolo del
sangue sgorgato dal labbro della Vergine del Ruscello,
Otricoli, nel suo pellegrinaggio a Vallerano per visitare l’immagine prodigiosa della Vergine (1606), donò al nostro paese
l’insigne reliquia di un dito di San Vittore, fino ad allora
costantemente negato.
Vogliamo concludere questa incompleta rassegna dei luoghi
dove si venerano i santi Vittore e Corona, con le parole di uno
storico. “Neque hic eorum qui de horum Martyrum passione gloriantur, sibi quique ius potius arrogantes”, cioè non si finisce
mai di enumerare tutti coloro che accampano diritto di possedere le loro reliquie e si gloriano di onorare detti Martiri.
Cenni iconografici
Di solito le rappresentazioni del martire Vittore lo riproducono nella sua giovinezza, spesso con sontuose vesti di foggia
medioevale, eccetto qualche caso in cui il volto del Santo
rivela un’età più matura. Così nel mosaico della Cappella
Palatina di Palermo.
Statua lignea a Canepina (VT)
93 - Santi in comune
gata in un reliquiario d’argento ove si conserva la reliquia dei
San Vittore”.
Inoltre, nelle congregazioni delle varie Compagnie, abbiamo
trovato spesso l’espressione: La tragedia di San Vittore.
Ne citiamo solo due:
Nella congregazione del 27 maggio 1660 fu proposto “un
memoriale dove si domandano scudi quindici o altra somma
di più, per sovvenire alle spese che si devono fare per : La tragedia di San Vittore.” La proposta fu accettata.
In un’altra congregazione leggiamo: “Pagati per la rappresentazione di San Vittore, scudi cinquanta”.
Questo accenno alla Tragedia di San Vittore lo troviamo frequentemente nelle adunanze delle varie compagnie.
Evidentemente già da allora la storia di San Vittore, dei suoi
martìri aveva ispirato qualche letterato del tempo a comporre un dramma che veniva rappresentato da attori locali e con
solenne organizzazione.
E questa simpatica tradizione si è tramandata fino a non
molti anni fa: ricordiamo le rappresentazioni allestite da Don
Secondo Nisini. Un testo, non certamente l’originale, è giunto fino a noi.
Anche le scene del martirio sono vive di personaggi e di particolari.
Al termine delle notizie sulla vita e sul martirio dei santi
Vittore e Corona, vogliamo aggiungere un’ipotesi proposta
con simpatica vivacità in un opuscolo del canepinese Padre
Fedele Santini: “Santa Corona era moglie di San Vittore”. Le
ragioni addotte non sembrano convincenti.
Tra le testimonianze del culto, attingiamo da fonti locali che
in alcune congregazioni delle Compagnie del Sacramento di
San Vittore e del Rosario si parla della presenza a Vallerano
del Corpo glorioso di San Vittore.
Dalla Compagnia del Rosario: 19 marzo 1658
“Si fa intendere come Mons. Ill.mo e Rev.mo Vescovo dovendosi fare la trasposizione del Corpo di San Vittore nel mese
di maggio prossimo e fare detta funzione con quel honore
che conviene et peso, esorta la Compagnia a fare qualche
spesa conveniente di cera e denari per detta funzione …”
Dalla Compagnia del Sacramento: 18 maggio 1659
“…la nostra Compagnia dia qualche aiuto per fare l’altare
maggiore di San Vittore et altri ornamenti per collocarvi e
metter il corpo del glorioso San Vittore, che ora sta in deposizione nella Chiesa della Madonna del Ruscello …”
Dalla Compagnia di San Vittore: dal resoconto dell’anno
1727
“La compagnia di San Vittore deve dare l’olio per li lampadini per li otto giorni che sta esposto il corpo di San Vittore”.
Spesso, leggendo le varie vicende delle reliquie dei nostri
martiri Vittore e Corona, troviamo l’espressione “corpo”
anche quando si tratta di una reliquia insigne, come una
mano, un braccio, ecc.
Così in una congregazione del 1731, solo quattro anni dopo
la notizia del 1727, leggiamo: “La somma di scudi 43 fu ero-
Mons. MANFREDO MANFREDI
(1916-2003), prima Rettore del
Santuario della Madonna del
Ruscello poi Parroco in S. Andrea
Apostolo, ha svolto la sua missione sacerdotale con grande pietà
ed altrettanto riserbo. Ad essa ha
sempre affiancato una eruditissima attività culturale, specialmente nel campo delle discipline
umanistiche. Per tantissimi anni
insegnante di latino e greco nei
licei classici di Viterbo, ha lasciato
un ricordo indelebile nei suoi
allievi per il suo rigore scientifico,
ma anche per l’affetto che verso di loro ha sempre nutrito e
mantenuto. A motivo della sua innata ritrosia ad ogni forma di
notorietà, della sua pur vasta produzione letteraria, si riuscì a
portare alle stampe soltanto le opere di interesse storico dedicate a Vallerano e alle sue tradizioni, come Vallerano e la musica (ed
S .Chiricozzi, Roma 1990); Vallerano e le confraternite (ed. S.
Chiricozzi, Roma 1996); S. Vittore Martire (ed. deputazione 198990) e Storia della Società Madonna del Ruscello. Santi in comune - 94
SULLE TRACCE DEI SANTI VITTORE E CORONA
di Gabriele Turrin
In posizione elevata, alta sulle pendici del monte Miesna,
vicina alla città di Feltre, dominante la via per la quale giunsero i corpi dei martiri Vittore e Corona si erge la Basilica
minore a loro dedicata. La devozione ai due Santi era grande
in tutta l’antica diocesi di Feltre, la quale si spingeva fin nel
Primiero dove esiste una chiesa dedicata a S. Vittore. In statue e dipinti innumerevoli egli compare accompagnato da
Corona, la sua dolce compagna di martirio.
Vittore era un soldato romano che prestava il suo servizio
militare in Siria.1 Diventato cristiano, fu denunciato al prefetto romano Sebastiano, sottoposto a efferate torture e infine
decapitato. Durante tali estreme prove, Vittore mantenne
serenità e fede, sostenuto con tale evidenza dallo Spirito
Santo da indurre alla conversione Corona, sposa di un suo
commilitone. Anche lei quindi si dichiarò cristiana. Per questo venne arrestata e, con un crudele supplizio, legata ai fusti
di due palme che, piegati a forza e poi liberati dalle corde, la
squarciarono. Tutto questo avvenne nel 171 d.C.
Le tracce del viaggio che le reliquie dei due corpi percorsero
dalla Siria a Feltre sono in parte chiarite da una tavoletta di
piombo, racchiusa nell’arca del Santuario, stilata dal vescovo
Solino dove si testimonia che il Teodoro (anch’esso martire)
nell’anno 205 li trasportò a Cipro. Effettivamente sulle reli-
quie furono trovati pollini tipici della vegetazione orientale2.
A Cipro esistono chiesette dedicate ai due Santi e Corona è
chiamata Stefanida, “Coroncina” alla greca, come è giusto
che sia.
Da là probabilmente, quando nel secolo IX molte reliquie cristiane arrivarono a Venezia, i corpi pervennero a Feltre.
Alcuni sostengono che Vittore fosse originario di Anzù, il
piccolo paese che si trova alle pendici del Miesna. Secondo
una tradizione popolare, quando il carro che trasportava i
corpi dei martiri arrivò ai piedi del monte, i cavalli non andarono oltre e si rifiutarono di procedere. Non si mossero neanche sotto la sferza. Furono sostituiti da buoi, ma anch’essi
non si spostarono. Nella notte Vittore apparve in sogno ad
una vecchina del paese e la pregò di legare al carro le sue due
vaccherelle lasciandole poi libere di andare dove volessero.
Nell’empasse della situazione la vecchina fu esaudita dai
capi del convoglio. Immediatamente e con sorprendente
vigore le sue bestie salirono l’erta pendice e si bloccarono
dove ora sorge il Santuario. Era il 18 settembre di un anno e
di un secolo avvolto nella leggenda.
1. Da L’”Illustra Certamen” relazione greca del IV secolo d. C. redatta da un
diacono della Chiesa di Antiochia
2. Studi effettuati presso l’Università di Padova nel 1981
95 - Santi in comune
Ancor oggi però, in un capitello lungo il sentiero, si vedono
impressi nell’argilla pietrificata le impronte delle bestie e il
bastone della vecchia; e il sentiero si chiama “sentiero delle
vacchette”.
Alcuni storici contemporanei sorridono di questo racconto e
sono giunti a dire che il martire qui sepolto è senza nome e
che Vittore è l’aggettivo datogli per aver vinto col martirio la
corona di gloria… e naturalmente anonima è la sua compagna che per lo stesso motivo fu detta Corona o Stefania alla
greca. Il lettore potrà scegliere.
Nel 1096, anno della prima crociata, sorse il Santuario nel
luogo di antica devozione, che custodiva i corpi dei martiri
custoditi in un arca di marmo nel martirium della chiesa.
L’edificio fu consacrato dal Vescovo di Feltre, Arpone, il 13
maggio 1101. Dietro l’abside, all’esterno in origine, c’è la lapide3 che raccomanda alla protezione dei due Santi il vecchio
padre di Arpone, Giovanni, che partì con un gruppo di feltrini per la crociata. Non stupisce troppo che un anziano partecipasse a tale evento perché Papa Urbano II legò all’indulgenza plenaria la prima Crociata, la quale fu per molti vecchi, malati, donne e bambini, un pellegrinaggio di fede.
Questa, pur magnifica, non è la sola testimonianza di credo
religioso. Nell’ultima ricognizione dell’urna dei Santi accanto a pezzetti di vetro con preghiere di antichi fedeli si trovarono le foto dei figli, dei mariti e dei giovani, che le mamme
e le fidanzate riuscirono a infilare nelle fessure della malta,
affinché rimanessero vicine ai corpi dei Martiri, durante l’ultima guerra. Dunque, la devozione continua ad essere ben
viva tra queste mura.
Salendo una scalinata ottocentesca progettata dall’architetto
Giuseppe Segusini, si arriva all’ingresso del Santuario, che si
apre su una rampa di dieci gradini. L’aula è affiancata da due
navate laterali e si sublima nel martirium, dove è custodita
l’urna di Vittore e Corona sotto una volta affrescata. Un percorso, detto deambulatorium, si eleva sopra gli stalli che circondano il luogo sacro ed è abbellito da archi sostenuti da
otto colonne con capitelli a paniere. Essi sono tutti decorati a
niello nero, eccetto i due che stanno dietro all’urna dei
Martiri che sono rossi, forse ad indicare il sangue versato dai
martiri. I caratteri arabi incisi recitano al Mulko Lilah, cioè
“l’universo è di Dio”.
Tutte le pareti sono decorate da affreschi medioevali.
Nella cupola del martirium un cielo stellato contiene i simboli dei 4 Evangelisti: l’angelo di Luca, l’aquila di Giovanni, il
leone di Marco, il bue di Matteo; e il ritratto dei Padri della
Chiesa: Agostino, Gerolamo, Gregorio, Ambrogio. Tutti
dipinti dal pittore Tommaso Da Modena.
Molti Santi, tra i quali Pietro, Paolo, Martino, Vittore, Corona,
Agnese, Cristoforo, Giuliana, Sebastiano e altri popolano le
navate. Spicca un’Ultima Cena dal profumo locale, con i
gamberi di fiume sulla tavola e le brocche colme di vino (sec.
XV).
La cappella laterale a nord, con il martirio dei Santi, è opera
di Vitale degli Equi e risale al secolo XIV.
Infine un magnifico Giudizio Universale, molto simile a
quello giottesco della Cappella degli Scrovegni a Padova,
abbellisce la parte finale dell’aula maggiore, assieme alla
Madonna della Misericordia che gli sta di fronte.
Il complesso del Santuario continua con il convento, che
ospita una sala convegni nelle ex cantine e camere con bagno
adatte a proficui periodi di eremitaggio e meditazione;
senz’altro momenti di pace. Già il chiostro accoglie con spirituale letizia il visitatore e sciorina nelle lunette i miracoli dei
due Santi.
C’ è da dire, infine, che le ossa conservate nella Basilica minore di San Vittore e Santa Corona a Feltre non riescono a
ricomporre due scheletri interi. Se la testa di San Vittore è a
Praga, forse pochi sanno che a Silea, a soli 15 metri dal lento
scorrere del fiume Sile, c’è una chiesa dedicata ai due Santi
che conserva schegge del loro scheletro.
I Martiri sono stati generosi e in molte parti d’Italia, lungo il
percorso fatto dalle reliquie, hanno lasciato tracce, non solo
spirituali, di sé.
3. L’iscrizione latina recita: Ab ineunte Redemptione publica anno m(illesimo)
nonag(esimo) VI, quo stellar(um) casus quove XP ( christ)iano(rum) motus in paganos, Iohannes Vidoriensis tam pectore et armis quam diviciis et gl(or)ia pollens, honor
patriae, confectus senio, fundator aulae, XVI die sep.(tembris) a filio suo Arbone
pont(i)f(ice) Beatis Mart(yribus)Victori et Corone commendatur. Nell’anno 1096
dall’inizio della Redenzione, nel quale vi fu una pioggia di stelle (ndr. circostanza confermata da Jacques Le Goff nei suoi libri sulle Crociate, anche se
probabilmente egli non lesse mai la lapide del Santuario di S. Vittore), ed
anche il movimento dei Cristiani contro i pagani (ndr. non si chiamava ancora
Crociata), Giovanni Da Vidor, tanto potente per valore e milizia, quanto per
ricchezze e gloria, onore della patria, affetto dalla vecchiaia, nel giorno 16 settembre viene dal figlio Arpone vescovo, affidato ai Beati Martiri Vittore e
Corona (allora evidentemente non ancora anonimi!)
GABRIELE TURRIN, nato a
Feltre nel 1946, dopo studi classici e la laurea in Filosofia presso l’Università di Padova, ha
insegnato nelle scuole superiori.
Si interessa di storia non solo
locale e scrive come giornalista
su “L’Amico del Popolo”.
Santi in comune - 96
IL RITROVAMENTO DI MORTO DA FELTRE:
I SUOI AFFRESCHI IN CASA DE’ MEZZAN
di Giuditta Guiotto
“… a nessuno era al suo tempo secondo.“ 1
La gentilissima signora Giuditta ci ha condotto in una visita molto
suggestiva nella sua casa; ci ha trasmesso la sua passione per un pittore a noi sconosciuto, ma soprattutto ci ha fatto rivivere quello che
il Morto deve aver provato quando discese per la prima volta nelle
grotte dell’Antica Roma: la stupefacente scoperta di affreschi e “grottesche”. Le abbiamo chiesto, dunque, di accompagnarci in una visita “virtuale” delle stanze dipinte.
Stanza del Talamo con natività e grottesche
La Casa de’ Mezzan si trova a Feltre, in via Paradiso, proprio
davanti al Vescovado vecchio, ora Museo Diocesano.
Nel 1990, in occasione di lavori di ristrutturazione voluti e
finanziati dagli odierni proprietari, affiorarono dagli intonaci scrostati lacerti di affreschi. Sotto i colpi di bisturi dei
restauratori, l’équipe Velluti, vennero in luce parecchi metri
quadrati di dipinti, tutti risalenti a due periodi del 1500.
Tenendo conto del loro valore artistico, del buono stato di
conservazione e della loro estensione, fu una scoperta
importante per il patrimonio feltrino e non solo.
Essi appartengono al progetto decorativo che Nicolò de’
Mezzan, nel pieno della sua maturità umana, civile ed economica, volle per la proprio casa 2. Quando si trattò, dopo l’incendio del 1510, di riedificare l’abitazione medioevale, nata
soprattutto in funzione di difesa a nord del castello del
Vescovo Conte, Nicolò decise di ampliarne le dimensioni e di
decorarla internamente ed esternamente. Dopo averla fatta
bella, amò la sua abitazione e la citò espressamente nel pro-
prio testamento chiedendo che “detti miei figlioli et eredi
mai non possa in alcun tempo, ne vender ne alienar la mia
casa posta nella città di Feltre appresso il Vescovado”.
Come si usava non si dilungò a descriverne le pitture e così
oggi tocca agli storici e ai critici d’arte mettere insieme immagini e storia per capirne il significato.
I dipinti dell’atrio d’ingresso sono stati ideati come un giardino chiuso, il “paradiso” degli antichi greci, con quattro
colonne binate che sostengono un architrave in finto marmo
e con una balaustrata con puttini nudi che cavalcano tritoni
marini sopra le due finestre a nord. Tali decorazione a monocromo erano piuttosto comuni già nel ‘400 e derivavano dallo
studio dei bassorilievi romani antichi. Costituivano temi cari
al Pinturicchio ed alla sua bottega, presso la quale il pittore
Morto da Feltre si era recato ancor giovanissimo, secondo lo
storico dell’arte Giorgio Vasari; ma questi eroti-amorini feltrini hanno una volumetria che fa intravvedere un’ispirazione michelangiolesca. E proprio per studiare Michelangelo e il
suo modo di dipingere Morto aveva soggiornato a Firenze.
Se queste decorazioni risalgono al 1520-21, in seguito, nel
1571 gli eredi di Nicolò vollero continuare l’opera paterna e
affidarono a Pietro Marescalchi la decorazione della fascia
inferiore della sala. Lo stile è quello paganeggiante della pala
che Pietro dipinse per la chiesa di Santo Stefano a Feltre e
che, dopo l’acquisto da parte di Paul Getty per la sua villa
pompeina a Malibu, è attualmente disponibile nel mercato
antiquario.
1. Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da
Cimabue insino a’ tempi nostri, Einaudi 1986 - Morto da Feltre, pagg. 783/785
2. Probabilmente tanta ampiezza di pitture e sicurezza nella scelta dei pittori,
venivano anche dal fatto che la famiglia de’ Mezzan aveva, già nel ‘400, un’apoteca speciaria in Piazza Maggiore. Si sa che queste botteghe vendevano spezie, farmaci e pigmenti. Se possiamo immaginare che Nicolò si recasse con una
certa periodicità a Venezia per acquistare le spezie e fornisse i farmaci ai medici tra i quali Matteo Bellati, il fatto che la sua bottega rifornisse di pigmenti i
pittori locali non è secondario. Un’apoteca in Piazza Maggiore era un punto
d’incontro per questi artisti e nello stesso tempo permetteva a Nicolò di conoscerli personalmente, di valutarne le doti, mentre poteva disporre della materia prima, i colori, senza sovrapprezzo. Sembra si destreggiasse piuttosto bene
in quello che chiameremmo oggi “mercato dell’arte”: per pagare in parte un
affitto di boschi della durata di 27 anni e del costo di 240 ducati d’oro alla
comunità di Rasai si fece scalare 50 ducati donando alla chiesa locale un dipinto su lino con l’immagine di San Martino.
97 - Santi in comune
Telamoni ed erme color ocra scandiscono una serie di arcate
aperte su finti paesaggi, mentre personaggi nei toni del bianco sono sdraiati sull’estradosso degli archi. Una fila di
“oculi” rappresenta scene di vita quali Marescalchi poteva
vedere ai suoi tempi: zattieri che scendono il Piave con la
zattera colma di merci, cacciatori che imbracciano i loro
archibugi, musici che suonano nella natura, selvaggina al
passo…
Al piano superiore gli affreschi, a seguito di una valutazione
sui costumi fatta dal Professor Flavio Vizzuti, risalgono ai
primi due decenni del ‘500. Due le stanze decorate: la prima
presenta sulla parete ad est miti di fondazione. Il popolo
degli Heneti (Veneti) adombrato dal sacrificio di Ifigenia in
Aulide, che ebbe come conseguenza l’incendio di Ilio e la
migrazione di questo popolo al seguito di Antenore.
I Galati (Celti) sono richiamati invece dal combattimento di
Ercole con Acheloo al quale assiste la famiglia de’ Mezzan.
Ercole infatti ebbe da Galatea, Galate, il capostipite di tale
etnia.
I dipinti sono opera di due pittori, il primo è ancora vicino a
stili quattrocenteschi e, specialmente nelle navi della flotta
greca, ricorda Vittore Carpaccio. Se questo è utile per datare
i dipinti entro i primi due decenni del ‘500, aiuta anche a
capire l’arte dell’altro, il Morto, che dipinse, nel riquadro del
più antico, la figura principale di Ercole.
Quanto sia stato importante, per vincere lo sconforto della
guerra cambraica3, avere subito le immagini dell’origine
quasi divina di Feltre possiamo immaginarlo soltanto. Dopo
sarebbe venuta la faticosa riedificazione, ma era importante
che questo angolo della città, che evidentemente aveva subito danni meno devastanti, desse coraggio ai feltrini, allora
addirittura nel dubbio se valesse la pena ricostruire la loro
piccola patria sulle sue ceneri. A questa terapia antidepressiva si aggiunge, sulla parete a sud, una grande figura femminile nuda che racchiude in sé i simboli di tre divinità, le stesse che si veneravano nel tempio di Preneste. Venere, dea dell’amore e della bellezza che nasce dalla spuma del mare,
Primavera, che sboccia sotto il carro di Apollo nei segni del
Toro e dei Gemelli, Fortuna, che offre la propria chioma
fulvo-dorata al padrone di casa e a Feltre. L’autore dell’affresco è il Morto da Feltre che, secondo Vasari, lavorando gomito a gomito con Giorgione a Venezia al Fondaco dei Tedeschi
ebbe occasione di osservarne la famosa Nuda. Se la florida
bellezza di questa Venere richiama le morbide donne amate
da Zorzi (Giorgione), lo stile pittorico è invece talmente originale da postulare lo stile fluido fatto di colore e di luce di
Fabullo nella Domus Aurea di Roma4. Morto, infatti, si
appassionò allo studio della pittura romana antica già negli
ultimi anni del quattrocento quando lavorava nella bottega
di Pinturicchio e sentì parlare di certe “grotte” che si aprivano nei campi attorno al Colosseo, dove si vedevano pitture
chiamate dal popolino “grottesche”. Se la scultura e l’architettura romane erano già da tempo “rinate”, perché la pietra
ed il marmo erano giunti ancora ben conservati agli innamorati artisti del Rinascimento italiano, la sottile ed evanescente pittura romana era sparita da secoli sotto l’azione del sole,
del vento e della pioggia. Nulla di essa restava se non sotto-
terra, dove l’umidità costante ed il buio perenne l’avevano
protetta e mantenuta. Bisognava avere l’intuizione di seguire le voci dei ragazzini romani, che cadendo in un buco,
casualmente in essa si erano imbattuti, e il coraggio di andarla a cercare. Questo fece il Morto, al quale il Vasari attribuisce il merito di averla riscoperta, studiata e rifatta. Mentre i
suoi amici dipingevano loggiati, facciate monumentali e sale
nobilissime, il Morto partiva ogni giorno con una fiasca di
vino, pane e salsiccia e una torcia fumosa e fumigante (così
scrivono gli storici di questi speleologhi-artisti); si faceva
calare in un cesto entro buchi tenebrosi, si infilava in cunicoli colmi di detriti e passava tutto il suo tempo là sotto, cercando di rubare con gli occhi ciò che vedeva: la pittura romana
classica.
3. La guerra fra la Serenissima e i collegati di Cambrai (1509-1517)
4. A tal proposito è interessante quanto scritto da Anna Coliva, direttrice della
Galleria Borghese in Roma, nel catalogo della recente mostra “Raffaello da
Firenze a Roma”. La studiosa afferma che la stanza dipinta da Morto (così lo
chiama la Coliva) per Agnolo Doni a quadri di grottesche era diventata a
Firenze una vera e propria “moda”, cosa che Giorgio Vasari descrive nelle sue
Vite in questi termini: “…per Agnolo Doni in una camera molti quadri di
variate e bizzarre grottesche”. La Coliva suggerisce che l’occasione delle nozze
Strozzi-Doni, con la conseguente fioritura di collaborazioni artistiche
(Michelangelo dipinse il famoso “Tondo Doni” e Raffaello, il ritratto degli
sposi), sia stata una forte motivazione che spinse Raffaello a trasferirsi a Roma.
Sappiamo poi, sempre da Vasari, quanto Raffaello apprezzasse la pittura
romana classica delle “grotte”.
Affresco Nuda o Venere
Santi in comune - 98
Casa de’ Mezzan, Feltre. Sui muri dell’ala sinistra si intravedono i resti degli affreschi che adornavano la facciata
Ritrovò il Morto, scrive Vasari, le grottesche più simili alla
maniera antica, ch’alcuno altro pittore e per questo merita
infinite lodi, da che per il principio di lui sono oggi ridotte
dalle mani… di altri artefici a tanta bellezza e bontà quanto
si vede. Non è però che la prima lode non sia del Morto, che
fu il primo a ritrovarle e mettere tutto il suo studio in questa
sorte di pitture, chiamate grottesche per essere elleno state
trovate … nelle grotte delle rovine di Roma”. Se anche Vasari
non lo dice, come poteva essere soprannominato uno che
passava sottoterra ore ed ore della sua breve vita?
Il suo vero nome, secondo lo storico feltrino Antonio
Cambruzzi e anche secondo André Chastel, era Pietro Luzzo
e nella sua città, Feltre, non era conosciuto dai contemporanei come “Morto”, ma piuttosto come “Zarotto”.
Il suo stile, che in qualche punto pare addirittura simile
all’acquerello e presagire secoli prima l’impressionismo francese, è ancora più evidente nella seconda stanza di casa de’
Mezzan, il talamo, dove in tre scene scontornare da figure
alla romana che Vasari chiamava “quadri di grottesche”5 si
osserva la storia della salvezza. Dal primo annuncio
nell’Eden “una donna schiaccerà la testa al serpente”, alla
visitazione“ a che debbo che la madre del mio Signore venga
a me?”, fino all’Epifania, dove la manifestazione del Figlio di
Dio è offerta ai re della terra.
Da un anno (2012) infine, durante lavori di ripristino di una
stanza voltata al pian terreno, casa de’ Mezzan ha svelato un
altro segreto. Un San Gerolamo nello studio che, per l’impostazione e il taglio coraggioso del personaggio ricorda quello
dipinto da Filippino Lippi. Particolare è il fatto che nel dipinto di Filippino ci sia il piano di un tavolo a dividere in due la
figura del Santo mentre, a Casa de’ Mezzan, Morto abbia
usato il limite della lunetta (sotto la quale si apre tuttora una
finestra) come piano d’appoggio per i libri del santo studioso, lasciando al vecchio uomo barbuto l’imponenza che gli
compete.
5. Nel gennaio del 2005, abbattuto un muro del convento della Santissima
Annunziata a Firenze, si è trovato l’accesso ad alcuni locali che nel
Rinascimento i frati Serviti usavano come foresteria. Molti quotidiani di domenica 9 gennaio 2005, dandone notizia parlavano anche di affreschi scoperti in
queste stanza. Tali affreschi sono stati restaurati dall’Opificio delle Pietre Dure
di Firenze e nell’elenco delle opere concluse essi figurano come “affreschi di
Leonardo e di Morto da Feltre.” Già Giorgio Vasari scriveva che Morto “ …
fece a Maestro Valerio frate de’ Servi, un vano d’una spalliera, che fu cosa bellissima”. Un’altra coincidenza?
99 - Santi in comune
L’ANTICO ORGANO DI S. VITTORE IN VALLERANO
di Paolo Peretti e Michel Formentelli
Prospetto seicentesco dell’organo di San Vittore
Se ancor tanti sono gli organi superstiti nella capitale Romana
e nella provincia del Lazio, sono stati perlomeno il doppio gli
strumenti costruiti e poi andati perduti. Di alcuni di essi
abbiamo notizia documentata, come - per limitarci esemplificativamente alla sola regione Lazio; ma sono certo molto più
numerosi quelli di cui si è persa anche la memoria storica.
Tuttavia, anche così, i numeri sono più che eloquenti: l’attività
organaria nel sei-settecento romano ha veramente dello
straordinario, e lo comprende anche il “non addetto ai lavori”.
Ma non è solo questione di quantità; infatti, gli strumenti
annoverati sono tutti prodotti artigianali di altissima qualità (e
qui ci si riferisce alla sola parte fonico-meccanica dello strumento musicale, a prescindere dalla cassa, che pure – in più
d’un caso– è opera pregevole di abili artigiani locali della lavorazione e decorazione del legno). Dalle più rinomate botteghe
uscirono in media due o tre strumenti nuovi all’anno, si impiegavano ottimi materiali per la costruzione delle parti lignee e
metalliche dell’organo; per le prime venivano usati legnami
stagionati e pregiati (dal noce di montagna dei somieri, al
castagno, all’abete o al pino delle canne di legno, al pioppo e
tiglio del crivello, al bosso e all’ebano delle ricoperture dei
tasti, ecc.), mentre le canne di metallo venivano costruite con
stagno fine proveniente dall’Inghilterra (quelle di facciata) e
lega di piombo e stagno (quelle interne); inoltre, si impiegavano anche ottone, ferro, pelli (per i mantici), osso, ed altri materiali. Tutte le parti dell’organo venivano separatamente
costruite con cura e lavorate con maestria, a regola d’arte, con
procedimenti che richiedevano lunga applicazione. Il risultato
era però un manufatto eccellente, unico ed irripetibile, l’orga-
no appunto, che - una volta assemblato ed installato in loco –
andava a soddisfare i committenti, rispondendo pienamente
ai gusti estetici e alle esigenze musicali e liturgiche dell’epoca.
Già, perché finora non si è detto della precipua valenza di questo manufatto, cioè quella sonora, dal momento che l’organo è
innanzitutto uno strumento musicale.
Difficile descrivere a parole il suono e la timbrica di un organo del Seicento o del Settecento: se ne può avere un’impressione precisa solo con l’ascolto diretto, magari sotto le dita di un
abile esecutore, di uno degli strumenti finora restaurati.
L’antico organo meccanico di San Vittore, in origine collocato
in un Convento dimonache in Viterbo, è un prezioso manufatto di paternità accertata, altresì riconducibile ad uno o più
artefici che rappresentano una delle più prestigiose dinastie
organarie d’Italia, depositarie di una plurisecolare tradizione.
Il recupero, attraverso un appropriato e filologico restauro,
non può che essere altamente auspicabile, sia per la comunità
civile che ha la fortuna di annoverarlo nel suo patrimonio storico-artistico, sia per tutti coloro che, pur non appartenendo
ad essa, ne gioirebbero comunque come cultori della musica e
dell’arte. Nonostante le condizioni di abbandono e parziale
saccheggio di parte del materiale fonico, questi strumenti
ostentano a tutti la loro muta bellezza e lasciano intuire all’esperto le indubitabili potenzialità espressive e sonore.
Ringraziamo Paolo Peretti, musicologo, organologo e insegnante di Storia
della musica presso il Conservatorio di Fermo per il contributo concesso.
Canne di facciata. Quelle centrali decorate a tortiglioni
Santi in comune - 100
Canne interne
Tastiera del primo Settecento
Relazione sullo stato di conservazione dell’Organo di S.
Vittore, di Michel Formentelli, organaro.
L’organo di San Vittore è un pregevole strumento interamente
a trasmissione meccanica. Conservato nella cantoria della bellissima chiesa di Vallerano, è da considerarsi per antichità e
qualità della sua fattura, opera assai rara nel panorama degli
organi a canne della regione Lazio e del territorio nazionale
seppur oggi si trovi in serie condizioni di completo degrado e
abbandono.
Ci troviamo di fronte a uno dei pochi o rarissimi strumenti
(non raggiungiamo il centinaio di esempi in Italia fra i quindicimila circa annoverati nell’ampio repertorio Nazionale) esistenti che rappresentano un periodo straordinario del primo
Barocco italiano a cavallo dei due secoli.
La realizzazione è da collocarsi fra il 1630 e il 1650 per ordine
di un monastero femminile, probabilmente donato o finanziato da qualche esponente di nobile famiglia principesca.
Lo stile della cassa armonica ricorda altri splendidi esempi fra
il 1590 e il 1640 conservati oltre che a Roma in altre città
importanti quali Parma, Firenze, Bologna e in particolare
Ferrara. A differenza proprio della capitale, che oggi non conserva più materiale fonico autentico di questo periodo, se non
rari esempi di nuclei parziali, qui a San Vittore possiamo
ammirare la totalità delle canne originali di metallo sia di facciata (in stagno fine) lavorate con grande maestria e alcune
delle quali impreziosite dalla geometria e tecnica decorativa
così denominata a tortiglioni, sia interne in lega ricca di piombo lavorate e perfezionate secondo le migliori metodologie
riconosciute nell’Arte organaria Rinascimentale Italiana,
ovvero la lavorazione delle lastre mediante martellatura e
piallatura manuale degli spessori.
È bene sottolineare inoltre come questa rarissima tipologia di
opera estetica e sonora corrisponda perfettamente ai canoni e
ai dettami del celebre trattato di Barcotto.
Sulla paternità tutt’oggi ancora sconosciuta, non ci si può
troppo sbilanciare. Possiamo eventualmente azzardare delle
ipotesi che potranno facilmente essere confermate soltanto in
sede di un accurato smontaggio e ripulitura ai fini di un eventuale restauro filologico.
Spesse volte è capitato di effettuare clamorose scoperte rivenendo, sotto abbondanti strati di polvere, firme autografe o
incisioni che hanno permesso di ricondurre a tale autore, a tale
scuola, a tale committenza accompagnate dall’anno di costruzione.
Lo strumento ad uso liturgico nasce come un organo di medie
dimensioni o grande positivo da muro per essere sin dall’origine collocato in cantoria.
Lo strumento della chiesa di San Vittore è sorretto da un’ampia cantoria lignea e si presenta con una ricca cassa armonica
intagliata, dorata e decorata a tempera. Le dimensioni originarie sono state ampliate sui fianchi laterali e nella profondità a
seguito di aggiunte di registri sonori settecenteschi e ottocenteschi.
Alla famiglia romana Alari del primo XVIII secolo si possono
ricondurre il tavolato di castagno dei fianchi dell’organo, l’inserimento di 9 canne anch’esse di castagno relative ad un registro di Rinforzo al Pedale posizionato contro la parete sul
fondo dell’organo avente somiere proprio e relativa trasmissione meccanica, i 3 mantici a cuneo con pesi originali azionati da 3 rispettive ruote di legno per mezzo di corde di canapa,
la tastiera in bosso finemente lavorata, la trasmissione dei
registri.
Al valleranese Felice Ercoli invece si possono attribuire altre
aggiunte quali un secondo Rinforzo di 9 canne di legno al
pedale suonanti 8 piedi armonici, un doppio registro ad ancia
su somiere ausiliare, un registro spezzato ad ancia di Trombe
orizzontali nei Bassi ritornellanti al la1 collocati su appositi
zoccoli davanti alle canne di facciata alla maniera spagnoleggiante (pratica del tutto eccezionale in Italia, annoverata soltanto a Roma e in Abruzzo per solo 4 strumenti rinvenuti),
Trombe Soprane su stecca sul fondo del somiere maestro ed
infine la pedaliera a leggio in legno di castagno.
La splendida cassa realizzata in legno di pioppo dipinta a tempera e decorata a foglia d’oro sulle parti intagliate di rilievo si
rifà ancora agli schemi di fine Cinquecento secondo lo schema
tripartito della facciata. Altri elementi di richiamo rinascimentale sono le formelle contenenti fiori scolpiti, l’applicazione di
minuscoli mascheroni integrati al centro dei fregi copricanne e
la lavorazione a ovuli intagliate delle parastine centrali.
Decisamente barocchi sono invece i capitelli scolpiti sotto gli
archetti, l’inserimento di volute scolpite leggermente pronunciate e dorate a foglia che danno più movimento allo schema
tripartito del prospetto.
Altra integrazione settecentesca è l’applicazione di 3 tele quaresimali applicate su rulli di legno avvolgibili per mezzo di
corde di canapa. Venivano utilizzate nel periodo quaresimale
prima della Pasqua oltre che a protezione del materiale fonico.
In modo straordinario si conservano le 21 canne di facciata
originali del primo seicento. La canna centrale di ogni campata è decorata a tortiglioni ad indicare una committenza di origini principesche e particolarmente raffinata.
A completare l’allestimento della cassa sono 4 sportelli di cui
2 posti sui fianchi laterali e altri 2 sulla parte anteriore del
basamento inferiore che regolano l’accesso all’interno dello
strumento sia per l’accordatura che per la manutenzione.
101 - Santi in comune
Una leggera tempera verde, applicata con collante animale, fa
da sfondo agli elementi architettonici. La parte strumentale è
impostata secondo lo schema tradizionale di un organo positivo ad unico corpo collocato in cantoria avente unica tastiera
e pedaliera disposti a finestra, dotato in origine di 9 registri
reali di cui 7 appartenenti alla famiglia del Principale e 2 registri concertanti. Unico accessorio il Tiratutti a pomello per il
“forte” dell’organo.
trie delle bocche, i parametri costruttivi delle lastre, i materiali scelti, i metodi e la tipologia delle lavorazioni e conseguenti
rifiniture, sono da considerarsi fra le migliori conosciute e praticate nel campo dell’organaria classica italiana.
La manticeria infine, costituita da 3 mantici settecenteschi di
tipo cuneiforme lavorati con doppia guarnizione in pelle di
agnello si conserva al completo nella disposizione originale
secondo la tipologia di una coppia di mantici affiancati e fissati a pavimento e un terzo mantice di “compensazione” contrapposto ai primi due.
L’insieme della macchina pneumatica regolava un flusso d’aria continuo per una pressione costante fornita da pesi originali, costituiti da blocchi di pietra e fissati sui tavoloni di ciascun mantice.
L’azionamento manuale originale, che era fatto funzionare da
una persona adibita a questo impegno, è ancora oggi assicurato da 3 ruote in legno e da corde di canapa poste sul fianco
destro della cassa. Il cosiddetto “levamantici” doveva così
avere la pratica e la capacità di far muovere alternativamente
i mantici senza provocare “scosse” al vento.
Frontalini dei tasti decorati a chiocciola
La tastiera (45 tasti) conservata è di piccole dimensione ma
finemente lavorata. Presenta il telaio e i modiglioni laterali elegantemente sagomati con profili barocchi in legno di noce
massello, i tasti diatonici ricoperti di bellissimo bosso di generoso spessore con frontalini decorati a chiocciola mentre i cromatici in noce sono impreziositi da placchette di ebano.
La trasmissione della tastiera è di tipo sospesa diretta.
La pedaliera è di tipo a leggio realizzata in legno di castagno
dal valleranese Felice Ercoli (organaro locale conosciuto per
aver realizzato nella prima metà dell’800 il monumentale
organo del Santuario del Ruscello) di 9 pedali con estensione
do1-do2 sempre fissa alla tastiera. La trasmissione dei registri
collegata ai pomelli è in parte di legno, in parte in ferro battuto. Le lacune evidenziate sono rappresentate dai fori vuoti corrispondenti all’asportazione dei registri ad ancia ottocenteschi.
Il somiere maestro, vero cuore di tutta la macchina sonora,
ospita 520 canne di metallo disposte su un crivello originale in
legno tenero di pioppo. Sulla parte visibile anteriore del
somiere le 3 antine fermate da naselli regolano l’accesso al
vano della secreta in cui si conservano 45 ventilabri di castagno, le molle di ritorno in ottone, le borsette in pelle di agnello originali entro cui scorrono fili tiranti in ottone per il collegamento con la trasmissione dei tasti. Straordinaria è la fattura di questi elementi per la qualità delle lavorazioni, la cura
del dettaglio e un’attenta scelta delle essenze lignee.
Salvo ulteriori smentite in sede di restauro, il corpo del somiere maestro potrebbe essere opera originaria seicentesca.
Tutte le trasmissioni meccaniche dei tasti, dei registri e dei
pedali sono al completo e originali se pur particolarmente
ossidate.
Il materiale fonico, indubbiamente la parte più preziosa e
determinante per identificare gli ideali estetici e sonori dell’autore, è ampiamente conservato. I canoni estetici, le geome-
Organo monumentale del Santuario della Madonna del Ruscello
Il professor Quintilio Palozzi, ispettore onorario del Ministero, organologo,
ci ha gentilmente inviato un dotto trattato sulla storia degli organi, corredato da notizie e fotografie di estremo interesse, ma per motivi di spazio siamo
costretti a rimandarne la pubblicazione al prossimo numero della rivista.
Numero nel quale ci auspichiamo di poter annunciare finalmente il completamento del restauro dell’organo del Santuario della Madonna del Ruscello
e dare notizia dei relativi festeggiamenti. Anticipiamo qui le prime righe:
Il termine organo deriva dalla parola greca όργανον (órganon)
che letteralmente significa attrezzo o strumento, quindi latino
organum, da cui organologia come scienza che classifica e studia
gli strumenti musicali.
Si può dire che gli strumenti musicali nell’antichità occidentale
erano tutti degli órgana, ma mentre poi ognuno assunse un nome
specifico, la generica definizione di organum finì per identificare
un unico strumento, il più complesso ed articolato di tutti.
Santi in comune - 102
UN TRENO DEL TEMPO
NELL’OROLOGIO DI VALLERANO
di Tiziano Valerio Severini
“L’orologio è lo strumento chiave della moderna età industriale. Esso è sempre stato in testa alla classifica perché raggiunge una perfezione alla quale tendono tutte le altre macchine”, ha scritto Lewis Mumford.
È il 30 agosto 1723, e nella comunità di Vallerano si riunisce
il Consiglio Comunale per varie questioni, la prima delle
quali è l’esigenza di far riparare l’orologio del paese, guasto,
“necessarissimo per tutto il Popolo”. La proposta passa con
tutti voti favorevoli.
A quel tempo l’economia di Vallerano era completamente
agricola. I contadini partivano diverse ore prima dell’alba
per raggiungere le coltivazioni, era quindi di primaria
importanza avere un’indicazione temporale sia durante la
notte, che il giorno.
Passano dieci anni, è il giorno 11 ottobre 1733, e al primo
punto del Consiglio Comunale c’è ancora una volta l’orologio.
Questa volta non ci sono problemi all’orologio, che funziona
correttamente, ma è l’orologiaio stesso che si presenta a
Vallerano chiedendo di costruire una nuova macchina, in
sostituzione della vecchia, al prezzo di 120 scudi, una cifra
non indifferente per una piccola comunità che lavora faticosamente per vivere. Infatti, nella deliberazione vengono inserite diverse clausole: gli scudi pattuiti sono comprensivi di
tutte le spese extra e ci devono essere delle garanzie particolari.
Al momento della votazione l’unanimità di dieci anni prima
viene a mancare: quattro consiglieri su trenta inseriscono nel
bussolo la palla nera.
L’orologiaio ottiene l’incarico; il lavoro dura quattro anni.
Si tratta di una professione molto impegnativa quella dell’orologiaio. Egli deve essere un abile ingegnere e un valente
fabbro (la macchina è tutta in ferro battuto), deve calcolare
con precisione e deve forgiare con meticolosità tutti i componenti: martelli, rulli, montanti, ruote dentate, pignoni, pendolo e anche gli ornamenti della struttura.
“IOAN DE SANCTIS NEAPOLITANUS FECIT ROMAE
ANNO 1737” si legge sul fronte dell’orologio.
Ma chi era costui? Le notizie che ci sono pervenute sono scarse e frammentarie.
Napoletano trasferitosi a Roma, vive in Piazza San Lorenzo
in Lucina, con la moglie Elisabetta Gargiulo, sorella (o figlia)
di Dionisio, notevole orologiaio di origini sorrentine.
Verosimilmente De Sanctis impara l’arte dell’orologeria proprio da Gargiulo, che costruisce l’orologio della Chiesa di S.
Croce a Torre del Greco, l’orologio del Convento di S.
Gregorio Armeno a Napoli e l’orologio del Collegio
Germanico a Roma. I due costruiranno insieme quello della
Chiesa Collegiata di Vignanello, mentre De Sanctis lavorerà
da solo a Sutri, a Vallerano e infine a Castel Gandolfo.
L’orologio della Chiesa di San Vittore è un orologio da torre
verticale a sei ore, composto da tre treni (dicesi treno la successione di ingranaggi che trasmette la forza motrice): uno
del tempo e due della suoneria, composta da ore e quarti.
Il treno del tempo è il primo a sinistra. Lo scappamento è a
verga, e il quadrante presenta una sola lancetta, come in uso
all’epoca.
Il motore di tutto il meccanismo è un peso, di circa 25 kg, che
fa ruotare il rullo cilindrico, e quindi la ruota del tempo. Da
qui il moto viene trasmesso da un lato alla lancetta, dall’altro
alla ruota di rinvio che fa girare la ruota “caterina”, che presenta dei denti a sega. È proprio sulla ruota caterina che è
posta la verga del pendolo, che con le due alette che ingranano sui denti della ruota caterina, regola il moto del meccanismo e quindi la discesa del peso.
Quattro perni sulla ruota del tempo, posti a distanza uguale
l’una dall’altra, lasciano alzare ogni quarto d’ora il blocco del
treno dei quarti: il secondo peso, lasciato libero di andare,
carica attraverso una serie di rinvii il martello della campana, che batte tanti quarti quanti ne occorrono, grazie ad un
sistema di bloccaggio attraverso dei perni posti a distanza
crescente: un quarto, due quarti, tre quarti e infine quattro
quarti per l’ora intera. Questi stessi perni collegano il treno
dei quarti al treno delle ore, che con la stessa modalità carica
103 - Santi in comune
il martello sulla campana più grande, che batte da una a sei
ore, secondo la ruota “partitora”.
L’orologio a sei ore, o alla romana, indicava le antiche ore italiche, in uso fino al 1800, quando la misurazione del tempo
iniziava dall’Ave Maria della sera, circa mezz’ora dopo il tramonto del sole. L’unica lancetta compiva quattro giri completi nell’arco delle 24 ore.
L’orologio di Vallerano ha funzionato fino agli anni ‘50 del
secolo scorso, ma quando le corde dei pesi e delle campane
si consumarono, la macchina del tempo fu lasciata - è il caso
di dirlo - in balia del tempo.
All’inizio di quest’anno ebbi la curiosità di andare sul campanile a vedere il meccanismo, che avevo potuto osservare
solo in foto, e lo trovai in condizioni tutt’altro che buone: la
ruggine aveva preso il sopravvento, e le incrostazioni di
grasso, polvere e piume di piccione rendevano impossibile
qualsiasi movimento.
Contattai diversi specialisti che chiesero cifre troppo onerose,
perciò mi rassegnai chiudendo nel cassetto la “questione orologio”. Fino a quando conobbi l’ing. Maurizio Grattarola, che
si stava attivando per recuperare l’orologio di Vignanello,
suo paese d’origine. Volle venire a vedere il nostro per trovare delle analogie che potessero essergli d’aiuto, rimanendo
stupito di fronte all’integrità del meccanismo, e mi diede
subito alcuni consigli tecnici da mettere in pratica.
Bastò poco per far rinascere in me la speranza di far funzionare il vecchio orologio e feci immediatamente la richiesta al
Comune.
Era il 4 luglio 2013, avevo finito gli esami di maturità appena otto giorni prima ed ero pronto a cimentarmi in questa
“missione”.
Cominciai il lavoro sotto gli sguardi torvi delle “comari” che
custodiscono gelosamente la chiesa, diffidenti delle mie
intenzioni.
Ogni giorno, per due mesi, ho lavorato chiuso nella stanza
dell’orologio, al caldo infernale di luglio e agosto, aiutato dal
mio amico Angelo Zuccherini da Capena, appassionato
anche lui di orologi, attuale caricatore dell’orologio del suo
paese. A volte passavo intere giornate per rispettare un termine che mi ero prefissato: la Messa della domenica di San
Vittore, il 25 agosto.
Seduto per ore ed ore in solitudine a ridar vita all’orologio,
mentre dalla piccola finestrella entravano le voci delle comari e dei bambini, il tempo sembrava fermarsi, catapultato
indietro nel passato.
Il 24 luglio la lancetta cominciò a girare. Fu un momento di
grande soddisfazione per me, e di grande entusiasmo per le
signore, che cominciarono ad incoraggiarmi di giorno in
giorno, desiderose di sentire gli antichi rintocchi del tempo.
Finalmente arrivò la Messa di San Vittore Martire, per la
prima volta in piazza, all’aperto, alla presenza del Vescovo.
Ascoltai la Messa seduto sul tetto della chiesa, vicino al campanile, in modo da poter controllare da vicino l’orologio e le
campane in caso di imprevisti, che fortunatamente non ci
furono.
L’emozione fu fortissima quando il parroco don Claudio ci
ringraziò pubblicamente e ricevemmo un indimenticabile
applauso, che ripagò tutte le fatiche sostenute. Ogni giorno
vado a “dare tempo al tempo”, facendo rivivere quel meccanismo perfetto, accolto calorosamente dalle comari.
Non è affatto un sacrificio, ma un servizio.
È il servizio dei custodi del tempo.
TIZIANO VALERIO SEVERINI,
nasce a Civitavecchia il 18 marzo 1994,
cresce a Vallerano dove frequenta le
scuole inferiori. Studia e si diploma al
liceo scientifico Paolo Ruffini di
Viterbo; adesso e iscritto alla facoltà di
Giurisprudenza presso La Sapienza di
Roma. Oltre ad aver frequentato corsi
di formazione teatrale, continua a coltivare i suoi spiccati interessi per le
discipline umanistiche, soprattutto
nell’ambito della storia e della cultura
locale. Fa parte di diverse Associazioni
culturali e di volontariato, nel 2012 è
tra i fondatori del Gruppo Archeologico “Francesco Orioli” di
Vallerano, di cui è direttore, per recuperare e valorizzare il
patrimonio archeologico, paesaggistico e artistico-culturale del
paese.
Campanile della Chiesa di San Vittore M. a Vallerano
Francesco Orioli, il suo tempo - 104
105 - Francesco Orioli, il suo tempo
Francesco Orioli, il suo tempo - 106
DALLA NASCITA ALLA MORTE
La vita di Francesco Orioli
Il tempo della vita corre tra la nascita e la morte. Per testimoniare tale percorso è necessario rintracciare gli atti ufficiali
che sanciscono le date in cui hanno avuto luogo i due passaggi. Quasi che senza di essi non potessimo affermare di essere
esistiti!
Francesco Orioli ha fatto molto per lasciare una traccia del
suo cammino sulla Terra. Ed è per rendere omaggio all’eminente studioso che abbiamo voluto riprodurre il suo atto di
battesimo ritrovato da Tiziano Valerio Severini, la fotografia
della lapide che il Comune di Vallerano scelse di dedicargli e
che ora è restaurata e corretta, e l’immagine del bassorilievo
che si trova nella chiesa di San Rocco all’Augusteo, monumento funebre alla sua memoria.
Ma vi è un motivo ulteriore, una fatalità che non potevamo
tralasciare: egli è infatti l’inconsapevole ispiratore del tema
trattato in questo numero della rivista.
Antonio Cipolla, Monumento funebre di Francesco Orioli,
1857, Roma, San Rocco in Augusteo
L’etimologia del nome Orioli - dal latino horariolum, diminutivo di horarium, derivato di hora - ci rimanda ad oriòlo, o più
letterariamente, oriuolo: sinonimo antico di orologio. E cosa
abbiamo di meglio dei nostri orioli, o orologi, per misurare il
tempo? O risalendo ulteriormente, giungiamo al verbo latino
orior, sorgere.
Era il sole, infatti, che permetteva di misurare, attraverso
l’uso delle meridiane, quelle che poi verranno definite “ore”.
Le “scoperte” si concludono qui mostrandovi l’albero genealogico degli Orioli. Grazie all’opera paziente di Vincenzo
Pacelli, le ramificazioni della famiglia ci ricordano che il
tempo non trascorre invano, e noi non vogliamo interrompere il flusso vitale: cerchiamo allora di essere degni eredi della
“famiglia”, proseguendo il cammino di conoscenza attraverso le pagine della “nostra” rivista.
Il Gruppo Archeologico Francesco Orioli, dopo il ritrovamento del certificato che evidenziava ciò che era da tempo conosciuto in merito all'errore contenuto nell'anno di nascita, ha dato incarico alla bravissima restauratrice
Francesca Piccioni di provvedere dapprima alla ripulitura del marmo e poi
alla verniciatura dei caratteri dell'epigrafe per rendere ben visibile la scritta
sbiadita dalle intemperie. Lo scalpellino, infine, ha inciso la data corretta. Il
lavoro è stato possibile grazie al contributo finanziario dell’Associazione
Culturale Francesco Orioli. Un riconoscimento di gratitudine va a tutti
coloro che hanno partecipato con la loro opera al recupero storico di questa
testimonianza marmorea.
107 - Francesco Orioli, il suo tempo
DEL PARAGRANDINE
La meteorologia secondo Francesco Orioli
Tra le varie discipline a cui si è applicato l’eclettico studioso, nostro ispiratore, Francesco Orioli, vi è anche la meteorologia. Le
pagine che abbiamo stralciato da una delle sue dissertazioni, sono state scelte per la loro poeticità: uno studio sulle nuvole!
Un esempio preclaro della fiducia riposta nella conoscenza scientifica, in cui si auspica di riuscire a “impedire lo scoppio de’ tuoni
e de’ lampi” per evitare i danni procurati dalla grandine.
Ci piace leggere il leggero “giuoco” delle nuvole, soprattutto quelle cariche di positività!
Francesco Orioli, professore di fisica nell’Università di Bologna, dissertazione letta il 15 gennaio 1824, pubblicata dalla Società Agraria
Francesco Orioli, il suo tempo - 108
IL POTERE TEMPORALE DEL PAPA
di Franco Manaresi
Pagine dal Bollettino di tutte le notificazioni, leggi, e decreti pubblicati dal governo provvisorio di Bologna (tratto da books.google.it), (le sottolineature sono nostre).
Il manifesto, firmato anche da Francesco Orioli, con la data
dell’8 febbraio 1831, ha un’eccezionale importanza, purtroppo
non abbastanza valutata dagli storici.
È infatti la prima volta, nella ultramillenaria storia della Chiesa,
che viene pubblicamente dichiarato cessato di fatto e per sempre di diritto il dominio temporale del Papa.
Neppure Napoleone Bonaparte, che aveva estromesso il Papa
da ogni potere, aveva avuto il coraggio di dichiararlo pubblicamente.
Sono noti i fatti che diedero luogo alla sua pubblicazione.
Con l’instaurazione in Francia, nel 1830, del regime liberale di
Luigi Filippo d’Orleans, che proclamò il principio di “non intervento” in contrasto con la Santa Alleanza, si accendono gli animi
degli esuli italiani e dei carbonari.
Il 3 febbraio scoppia la rivoluzione a Modena, capeggiata da
Ciro Menotti, e il giorno dopo anche a Bologna studenti armati
si riversano in piazza. Il Cardinale Legato, rappresentante del
potere papale, è a Roma per il conclave che eleggerà Papa
109 - Francesco Orioli, il suo tempo
Gregorio XVI. Il Prolegato chiede l’aiuto di personalità cittadine
stimate dal Legato ma che hanno anche la fama di “liberali”.
Costoro convincono il Prolegato a lasciare la città e a delegare i
poteri alla Commissione dallo stesso convocata. Dopo la partenza del Prolegato la Commissione si autonomina Governo
Provvisorio della citta’ e provincia di Bologna, pubblicando per
prima cosa il manifesto qui riportato.
Ha inizio così l’episodio storico noto come “Moti del 1831” che
portò alla costituzione di un nuovo Stato, Province Unite
Italiane, comprendente Romagna, Marche e Umbria. Il nuovo
Stato durò solo 49 giorni ma riuscì a emettere una legislazione
completa che purtroppo fu conosciuta solo nel 1956, quando fu
venne ritrovata nell’Archivio Segreto Vaticano.
Nel 1846, con la salita al soglio pontificio di Pio IX , Orioli si stabilì a Roma dove gli venne affidata la cattedra di Storia e
Archeologia all’Università della Sapienza e riprese l’attività
politica accettando la nomina a Consultore di Stato propostagli
da Pio IX.
Le posizioni ideologiche e politiche di Orioli erano state fino
allora alquanto varie: aveva studiato al seminario di
Montefiascone pensando alla carriera ecclesiastica, abbandonata prima di essere ordinato sacerdote; iniziata la carriera universitaria, aderì alla Massoneria ma per brevissimo tempo, perché
“contrario al giogo di giuramenti e di patti”. Successivamente ebbe
sempre una grande ostilità verso le Società Segrete, anche se
ispirate da sentimenti patriottici come nel caso della Carboneria,
che considerava oltretutto piena di spie e traditori.
Già con la partecipazione al Governo delle Province Unite,
Orioli mantenne una netta distinzione tra l’obbedienza papale e
il rispetto ai sentimenti religiosi.
Così scrive nel 1835: “I preti e i monaci autentici … ci aiutano, ci
consigliano, partecipano alle nostre gioie e ai nostri dolori; la maggior
parte di loro non ha rinunciato alla loro qualità di cittadini, e sarebbe
un grave errore credere che essi approvino senza restrizioni i principi
dell’assolutismo oltranzista propri della corte romana. Al contrario è
proprio da loro che noi abbiamo imparato a distinguere fra il sovrano e
il capo della Chiesa, fra il successore di Cesare e quello di S. Pietro.”
Come Consultore di Stato riprese l’attività politica fondando
anche, nel 1847, il giornale “La Bilancia”. Iniziò una revisione
culturale da posizioni moderate, che sempre aveva praticato, a
posizioni quasi reazionarie. Dopo l’uccisione di Pellegrino Rossi
si estromise dalla politica attiva, entrò a far parte del patriziato
viterbese, criticò aspramente la Repubblica Romana con i relativi eccessi anticlericali.
Morì nel 1856, alla vigilia dell’Unità d’Italia a cui, senza dubbio,
aveva anch’egli contribuito.
* In questa sede non riportiamo riferimenti bibliografici ma ricordiamo solamente
che tutte le notizie sono desunte dal volume “Francesco Orioli e la rivoluzione del
1831” pubblicato da chi scrive nel 1990 per l’Istituto per la storia del Risorgimento
Italiano - Comitato di Bologna. Le fonti principali sono l’autobiografia fino al 1831,
pubblicata nel 1892 da Giacomo Lumbroso, la “Histoire - Révolution d’ Italie en
1831”, pubblicata a Parigi nel 1835, e altri studi storici successivamente pubblicati.
Stemma del Governo delle Province
FRANCO MANARESI, nato a
Bologna nel 1934, si è laureato in
ingegneria civile ed ha sempre esercitato la libera professione nel
campo idraulico, edilizio e dell’estimo. Non ha mai trascurato l’impegno civico: è stato per molti anni
Consigliere Comunale, Consigliere
di Amministrazione dell’Istituto
Giovanni XXIII, Ospedale Malpighi
e di altre istituzioni di assistenza e
beneficenza. Nel tempo libero si
dedica agli studi storici locali: ha
pubblicato saggi che gli hanno
valso la nomina a socio emerito
della Deputazione di Storia Patria per le Province di Romagna e a
socio corrispondente della Accademia Nazionale di Agricoltura. I
suoi studi riguardano le vicende idraulico-fluviali della pianura bolognese, il periodo risorgimentale (la rivoluzione del 1831) e l’ultima
guerra mondiale (i bombardamenti, Bologna città aperta, il card.
Nasalli Rocca).
Il tempo de l’Orioli / passato - 110
LA CATTIVA ERBA
di Massimo Fornicoli
Sono stato mosso dall’Associazione Francesco Orioli, orgogliosa di aver concesso il proprio patrocinio a questa opera
insieme alla Mission laïque française, a scrivere una recensione al prezioso lavoro “d’intarsio” di Beppe Chierici La cattiva erba.
Dal mio angolo visuale di non addetto ai lavori, il libro mi ha
colpito già dal suo formato che nostalgicamente ricorda le
raccolte di spartiti di un tempo, senza contenere note stampate però, soltanto parole: le innumerevoli parole di Brassens
in francese e la traduzione e gli adattamenti che di esse ha
“ricomposto” Beppe Chierici.
La musica non manca: è incisa nei due cd musicali allegati
alla pubblicazione contenenti 40 canzoni magistralmente
eseguite dall’interprete italiano.
Le pagine con i testi delle canzoni e delle poesie sono impreziosite dalle illustrazioni di Dario Faggella che contribuiscono a creare la tonalità affettiva per un ascolto coinvolgente. Il
volume è ricco anche di fotografie dei due artisti, Georges
Brassens e Beppe Chierici.
Chierici è un traduttore che non tradisce, anzi amplifica rendendo estremamente godibile, a chi non conosca il francese,
la ricchezza, l’ironia e i doppi sensi dei testi di Brassens,
mantenendo inalterato il loro originario ritmo rispettando
magistralmente le rime. Un encomiabile esercizio di “trascrizione”, come possiamo leggere nell’eloquente prefazione di
Margherita Zorzi.
E qui chiedo perdono per questo volo pindarico, affascinato
dal senso etimologico delle “rime”. Il termine mi suggerisce
una metafora che diventa una stupefacente chiave di lettura.
La rima, oltre ad essere ciò di cui si nutrono i poeti e Chierici
ne è maestro, è anche, ed in questa accezione la propongo,
una fessura, un pertugio, la porta stretta degli iniziati o mistici da dove si può accedere a dimensioni altre, come accade
coi “mantra”. Ebbene, in questo suo lavoro l’interprete ci
conduce, proprio grazie alle consonanze volute, cercate,
escogitate in uno sforzo ben riuscito, a oltrepassarla. Grazie
a quella fessura possiamo dunque mantenere la giusta
distanza, semplicemente spiando l’umano troppo umano che
ci avvolge, farci toccare dal racconto delle più disparate
situazioni quotidiane e trame psicologiche che emergono
dalle canzoni, oppure, inavvertitamente, lasciarci travolgere:
“ Il dì che la gloria arrivò / e tutti gli altri sacrificò / io sol
conobbi il disonor / di non morir medaglia d’or” da La
Cattiva Erba.
Un poeta è prima di tutto un grande traduttore multiverso e
Beppe ne possiede tutte le caratteristiche in grado sommo.
La cattiva erba, illustrazione di Dario Faggella
BEPPE CHIERICI, attore, cantante,
cabarettista, compositore, attore,
regista. È il primo a tradurre, interpretare e incidere su vinile a 33 giri
gran parte delle canzoni dei grandi
cantautori francesi tra cui quelle del
suo grande amico Georges Brassens.
Dopo aver peregrinato per il
mondo, all'inizio degli anni Settanta
fa parte di un folto gruppo di intellettuali che in Italia tentano il
recupero culturale del nostro folklore.
Capostipite del "Teatro Povero", interprete di numerosi ruoli in
sceneggiati televisivi, attore cinematografico per i più importanti registi: la sua carriera si svolge prevalentemente in Italia e
in Francia.
111 - Il tempo de l’Orioli / presente
IL CASTAGNO E LA MODERNITÀ
di Angelo Bini
Negli anni ‘60 del secolo scorso, proprio nel periodo in cui
Fulco Pratesi stava ispirando l’istituzione del Parco Naturale
dei Monti Cimini, ci fu la presa di coscienza che l’utilizzo
umano delle risorse naturali stava raggiungendo il limite e
che questa tendenza, piuttosto che diminuire, stava raggiungendo un livello di allarme: nasce il concetto di sostenibilità
come caratteristica di un processo o di uno stato che può
essere mantenuto ad un certo livello indefinitamente.
Nel 2006 con il Rapporto Stern matura l’idea della Green
Economy per poi evolversi nel modello della Blue Economy
(Azzeramento delle emissioni di CO2).
La permacultura fu definita da Qui Hiram come un sistema
agricolo che si può sostenere per un tempo illimitato.
Essa è anche un metodo per progettare e gestire paesaggi
antropizzati in modo che siano in grado di soddisfare i bisogni delle popolazioni quali cibo, fibre ed energia e al contempo presentino la resilienza, ricchezza e stabilità di ecosistemi
naturali.
In un convegno (Tarquinia, 8 novembre 2013) sulla
Permacultura si è parlato in particolare della progettazione
di un bosco commestibile (Food Forest).
Quale bosco commestibile migliore di quello di alberi di
castagno opportunamente integrati con altre specie fruttifere, siepi e altre forme di vegetazione commestibile?
Il Castagneto era così fino a quando è stato curato secondo le
tecniche tradizionali.
Quando il trattore sostituì il somaro iniziò una prima trasformazione con l’allargamento dei sentieri e la loro trasformazione. Le strade interpoderali hanno tolto spazio alle siepi e
alla biodiversità.
Le siepi erano uno spazio importante per insetti, animali e
uccelli, tutti anelli di una catena biologica che avevano contribuito a portare sino a noi integri e produttivi quei boschi
secolari.
I pneumatici di auto e trattori hanno moltiplicato la diffusione della Phytophthora Cambivora ovvero della spora fungi-
na che provoca il Mal dell’Inchiostro. Entrano nei castagneti
anche i mezzi meccanici studiati per i terreni arativi ovvero
morgano, fresa, rip, ai quali succede il trincia erba.
Il loro uso non appropriato distrugge il sottobosco in modo
che la temperatura al suolo può raggiungere anche e più dei
23° centigradi di calore provocando la morte dello strato rete
dei Nematodi.
I Nematodi sono vermi minuscoli che producono la morte
delle larve degli insetti infestanti che svernano nel sottosuolo. Tra essi le larve del Balanino e di parte delle larve della
Cydia Fagiglandana. Da ciò nasce l’invasione del Balanino.
Si risponde, per la prima volta nella Storia del Castagno, con
i fitofarmaci, che aiutano i cacciatori a sterminare gli uccelli.
Gli uccelli erano il principale agente naturale di controllo
delle larve degli insetti infestanti che svernano sui tronchi
degli alberi. Basti pensare che solo una Cinciallegra si ciba o
si cibava (non si sa se usare il presente o l’imperfetto) di circa
quindicimila larve al giorno. Si facciano i dovuti calcoli.
Tra le larve svernanti sugli alberi vi sono quelle della
Pammene Fasciana, l’attuale flagello, e parte della Cydia
Fagiglandana. Balanino e Cydie sono ormai senza alcun controllo naturale efficace.
L’uso dei fitofarmaci contro di essi moltiplica la sterilità della
natura nei castagneti con l’effetto di azzerare la presenza
degli insetti utili e stimolando l’aggressività degli altri bio
organismi dannosi che sono circa cinquanta, con altrettanti
trattamenti annui con fitofarmaci.
Sintomo di ciò è l’apparizione del Ragno Rosso, della
Cocciniglia del Castagno e di varie specie di Afidi e Acari.
La soluzione razionale è la rinaturalizzazione: un complesso
di provvedimenti che partendo dalla ricostruzione delle
siepi, dei boschetti, della promiscuità delle specie fruttifere e
così via, si accompagni alla ricostruzione del sottobosco e al
ripopolamento dell’avifauna.
Non esiste altra razionale soluzione.
Il tempo de l’Orioli / futuro - 112
A PROPOSITO DEL MIO LAVORO
di Bernd Rosenheim
Siamo orgogliosi di annunciare che il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e la direzione della Biblioteca Angelica, ci hanno concesso di realizzare la
mostra dei lavori dell'artista tedesco Bernd Rosenheim. Le sue opere - disegni, dipinti e sculture - saranno esposte dal 13 settembre al 4 ottobre 2014, presso la
Galleria Angelica, Piazza Sant'Agostino 8, Roma. Bernd Rosenheim e l'Associazione Culturale Europea Francesco Orioli sono lieti di invitare tutti voi all'inaugurazione che si terrà il 13 settembre, dalle ore 17.00 alle 20.00, per passare un po' di tempo insieme!
Medusa Cosmica
Le culture antiche hanno cercato di
dare una spiegazione all’esistenza e al
mondo attraverso il mito. I racconti di
divinità e altre creature soprannaturali, oltre a rispecchiare le esperienze
reali dell’esistenza umana, hanno cercato di far luce sull’inspiegabile, come
la nascita del mondo. Tali racconti
comprendono sia l’ambito cosmico sia
l’ambito umano. Raccolti in sistemi
hanno sviluppato religioni. La realtà
vissuta, gli eventi fra popoli e uomini,
che stanno alla base di queste idee, li
chiamiamo storia.
Mentre l’osservazione della natura e
dell’ambiente creato dall’uomo emergono relativamente tardi nell’arte
figurativa, il mito, la religione, la storia e il destino dei singoli ivi racchiuso, sono il materiale dal quale tutte le
arti attingono da millenni. Sono principalmente figure tratte da questo
ambito tematico quelle di cui mi occupo.
Parto dal cromatismo di una superficie che ricopro con un velo di piccoli tratti verticali, principalmente neri, fino a creare una struttura, secondo un metodo
sviluppato decenni fa nei miei quadri meditativi. Gli sfondi
colorati possono essere preparati da me – e in questo caso si
tratta di macchie di colore date in libertà, lontanamente imparentate con i miei lavori astratti degli anni Sessanta. Nella
maggior parte dei casi però si tratta di cartoline illustrate
oppure dépliants pubblicitari, biglietti d’invito, etichette di
bottiglie o simili. Queste immagini vengono ricoperte con
strati più o meno densi di tratteggio, finché le scritte e le
immagini originarie diventano irriconoscibili e ne emergono
figurazioni astratte.
Alcune di esse potrebbero anche essere considerate opere
d’arte a sé. Il mio interesse oggi, però, si appunta su un’arte
che non abbia come proprio unico criterio di validità la libertà
espressiva concessa dall’astrazione,
bensì su un’arte che abbia maggior
presa sul mondo, un legame più
stretto con l’uomo. Gli sfondi, dunque, diventano un materiale con cui
lavorare, da cui partire per una
nuova trasformazione.
Incomincia qui un processo complesso che, con interruzioni, si può protrarre anche per giorni. Osservando
con la massima concentrazione gli
sfondi, in uno stato non dissimile da
una meditazione, cerco di riconoscere
che cosa “hanno dentro”. È lo stesso
processo che la tradizione ascrive a
Michelangelo: la figura sarebbe già
stata nel blocco di pietra e a lui toccava soltanto di farla uscire.
Poco a poco all’interno delle strutture
astratte mi appare l’accenno di un
occhio, di una mano, di una spalla o
di un contorno. Rinforzato da pochi
tratti, l’oggetto diventa più chiaro.
Un passo alla volta i frammenti si
uniscono fino a che diventa riconoscibile un viso, un gruppo
di figure, una testa, un corpo.
Una quantità di figure mi viene incontro liberandosi dallo
sfondo colorato. A volte sono animali o apparizioni demoniache, figure di fantasia, divinità antiche o inventate, figure
della letteratura o di film, ma anche ricordi di incontri reali o
esperienze di culture lontane.
Fra tutti questi motivi è il volto umano quello in cui si condensa più fortemente l’essenza dell’uomo nelle sue variazioni semplicemente inesauribili. E così la testa diventa uno dei
temi principali che io traggo dagli sfondi colorati. Da qui si
sviluppano altri motivi, come l’elmo, la visiera, la maschera.
All’elmo viene associato subito il pensiero dell’aggressività,
della guerra, dell’armatura e del soldato. Eppure l’elmo è
anche e soprattutto una protezione.
113 - Il tempo de l’Orioli / futuro
Die Vogelmaske
Esso avvolge, come la visiera e la maschera. La sua ambivalenza corrisponde pienamente alla natura umana. L’elmo
apre un ampio campo di associazioni, dalla mitologia antica
e la storia fino ai ciclisti e agli astronauti dei nostri giorni.
Tutto ciò riguarda i contenuti di questi lavori e il metodo di
invenzione dell’immagine, che io perseguo da anni e che ha
portato con sé un’ondata di motivi. Tuttavia la tematica delle
immagini, per quanto ricca di relazioni, affascinante o addirittura commovente, è secondaria. Il grande errore della critica d’arte odierna è quello di assegnare il rango di opera d’arte a qualsiasi immagine, oggetto, o azione che abbia contenuti che possano apparire a qualche titolo interessanti, attuali,
innovativi, sensazionali, impegnati socialmente o politicamente, o critici verso la società.
E’ solo la forma, la sua realizzazione formale e non il suo contenuto, che fanno di un’immagine o di un oggetto un’opera
d’arte. Esiste forse un contenuto meno interessante o più triviale di un paio di scarpe vecchie, prese a sé? Eppure Van
Gogh le ha trasformate, ha dato al loro aspetto e alla loro
disposizione nello spazio una sistemazione formale che le
rende un’opera d’arte.
I miei disegni colorati, nati nel modo descritto sopra, hanno il
più delle volte un piccolo formato, all’incirca come una cartolina, simili ai “quadri non dipinti” di Emil Nolde. Sono opere
piccole, ma finite, che hanno superato lo stadio del progetto.
E in effetti sono proprio “quadri non dipinti”, perché essendo
così numerosi non potranno mai essere tutti eseguiti su una
scala più grande. Per dare però una maggiore efficacia a queste miniature poco appariscenti, le passo allo scanner, le riela-
boro al computer e le stampo in formati più grandi. Di queste
grafiche digitali produco solo pochi esemplari, firmati e
segnati con l’ iniziale E (Epreuve d´Artiste).
Alcuni dei miei lavori potrebbero non essere facili da decifrare. Il titolo dà un indizio di ciò che io collego con queste
immagini. Chi le osserva può trovare un proprio significato o
integrare autonomamente la storia che vi appare narrata.
Un altro gruppo di opere degli ultimi anni sono le mie
acqueforti a colori ritoccate con la china, dove trasformo il
motivo originale in qualcosa di nuovo. Il repertorio tematico
e la tecnica corrispondono perfettamente ai “quadri non
dipinti”.
Alcune acqueforti si prestano anche come progetti per sculture. Di solito, però, a questo scopo io eseguo una serie di schizzi che mostrano diversi lati dell’opera. Poi costruisco modelli
di legno o bronzo, se si tratta di opere di grande formato. I
lavori preliminari, anch’essi come i “quadri non dipinti”,
sono opere in sé, compiute, indipendenti. Per le sculture
grandi preparo disegni e sezioni in scala 1:1, formato finale
previsto per le opere in progetto.
Acciaio inossidabile, bronzo e legno sono i materiali con cui
lavoro. Nessun altro materiale offre un effetto luminoso così
intenso quanto l’acciaio quando la sua superficie è levigata.
Per questo lo preferisco. Acciaio inossidabile, bronzo e legno
determinano i due metodi della figurazione tridimensionale:
bronzo e acciaio richiedono il metodo aggiuntivo, costruttivo,
mentre il legno e la pietra richiedono il metodo sottrattivo,
che corrisponde in senso stretto al significato etimologico
della parola “scultura” in tedesco: Bildhauerei.
Poiché la forma di un’opera, indipendentemente dal suo contenuto, dalla tecnica e dal materiale con cui è stata realizzata,
rimane secondo me l’unico criterio secondo il quale può aspirare ad essere considerata un’opera d’arte, mi sento in diritto
di giudicare un lavoro finito soltanto quando, sottoposto a
ripetute prove, secondo il mio giudizio ha trovato una forma
valida. Se questo modo di procedere sia valido, ognuno lo
potrà decidere da sé.
Kleine Heldenstele (particolare)
Piccola stele di eroe
Il tempo in rete - 114
VUVUART: WHAT’S UP WITH ART ON THE WEB?
di Camilla Pacelli
ANDY WARHOL RE DEL WEB ED ICONA SENZA TEMPO
La Rete è piena di artisti interessanti da scoprire. Vuvuart prova a dare un’occhiata e ad
offrire il suo punto di vista sulle mostre da non
perdere a Milano e dintorni perché, anche se il
Web è un luogo pieno di stimoli , l’arte la devi
vedere e vivere dal vivo, sempre.
È ormai riconosciuto da
tutti il potere comunicativo del Web, la forza
del “verbo” digitale e la
mancanza di limite del
suo scorrere ovunque
in ogni istante.
Le immagini nell’universo di Internet amplificano il loro valore
evocativo e si fanno
moltitudine sotto il
vaglio di mille sguardi virtuali. Inoltre esse sono organi vitali
della Rete, le danno anima e respiro perdendosi tra mille altre o
diventano protagoniste assolute in pagine di blog personali, siti
d’informazioni e portali vari.
Se guardiamo al mondo dell’arte c’è un artista che più di tutti
regna nell’iconografia contemporanea di Internet ed è Andy
Warhol.
Il re della Pop Art tra gli ipertesi della Rete ha acquisito un’aura di eternità divenendo elemento fondamentale nei canoni
comunicativi contemporanei. Non c’è spazio nella Rete in cui
non sia stato presente o in cui non venga riprodotto. Lui, che
diceva che nel futuro ognuno di noi sarebbe stato famoso almeno per 15 minuti con la tecnologia, si è guadagnato non solo
una fama eterna, ma la possibilità di raggiungere un pubblico
globale immenso, quasi come il marchio Coca Cola, riprodotto
nelle sue opere d’arte.
Warhol può essere amato o odiato, ma non può non essere
capito, perché è stato ed è ancora l’artista che meglio ha
saputo e sa interpretare l’uomo contemporaneo ed i suoi linguaggi, le sue ossessioni, le sue passioni e desideri, il suo
bisogno di condividere e comunicare per poter esistere.
Andy Warhol è qualcuno che conosci ma che non ti stanchi
mai di scoprire: è questo il segreto di un così grande successo anche nella Rete, il segreto di un grande amore destinato
a rimanere eterno, un grande amore per l’arte.
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