L`espressione non verbale: il riso e il pianto in Plessner

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L`espressione non verbale: il riso e il pianto in Plessner
RIFL (2013) vol. 7, n. 2: 123-135
DOI 10.4396/20130709
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L’espressione non verbale: il riso e il pianto in Plessner
Vallori Rasini
Università di Modena e Reggio Emilia
[email protected]
Abstract: Like verbal language, laughter and crying are expressive forms belonging
specifically to the human equipment. But their violent and uncontrollable
manifestations distance them clearly from verbal expression, which is elegant,
multiform, and restrained. Moreover, laughter and crying are opaque: they cannot be
connected with a specific mood or a specific cause; and, therefore, they are very
different from sign language or miming.
The specific features of laughter and crying have their foundations in human nature.
Man is the (unique?) living being that is at the same time so near and so distant from
his own self.
In his psychophysical neutrality, man “lives through a break”. Laughter and crying
are “to the limit” kinds of conduct and they reveal precisely man’s “eccentric”
nature, his connection with his body but also his ability to transcend it.
Keywords: Human expression, Laughter, Crying, Helmuth Plessner, Philosophical
Anthropology
1.
Che il linguaggio verbale venga considerato uno dei tratti distintivi dell’uomo è cosa
risaputa. Ma forse non è il solo o il principale, almeno secondo Helmuth Plessner.
Emerito rappresentante dell’antropologia filosofica contemporanea, Plessner ritiene
che, allo stesso modo, e anzi in forma tutta speciale, il riso e il pianto, siano in grado
di testimoniare la peculiarità essenziale dell’uomo – senza peraltro accennare a una
qualche sua “superiorità assiologica” – in maniera unica e assolutamente
inequivocabile. “Il riso e il pianto sono forme espressive di cui, in senso proprio, solo
l’uomo dispone” – dichiara in apertura al suo volume del 1941 dal titolo Lachen und
Weinen. Eine Untersuchung der Grenzen menschlichen Verhaltens1. Eppure, al
1
Si veda PLESSNER 2000. Il volume, comparso per la prima volta in Olanda, è stato riproposto alle
stampe più volte senza sostanziali revisioni (nel 1950, nel 1961, poi all’interno di PLESSNER 1970:
11-171). Si trova ora in PLESSNER 1980-1985 (VII: 201-387). E’ stato tradotto – oltre che in italiano
– in spagnolo, in olandese, in inglese e in francese. Il saggio ha destato vivo interesse nella critica e
contribuito ad arricchire un dibattito che ha impegnato e impegna a tutt’oggi il pensiero filosofico non
meno di quello scientifico. In proposito si veda la Selbstdarstellung di Plessner del 1975 (in
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tempo stesso, esse sembrano forme espressive di un genere che contrasta, in modo
singolare, proprio con la posizione monopolistica di un essere considerato
“superiore”. Perché, a ben guardare, non è così scontato annoverarle tra le
espressioni più “sublimi”. Se per il linguaggio verbale vale il richiamo alla soavità
della voce, all’armonia del discorso (specie se in versi o in musica), all’eleganza
dell’evocazione simbolica, dinanzi a espressioni come il riso e il pianto si è piuttosto
rinviati all’irruenza del moto istintuale, improvviso e inarrestabile. Chi ride o piange
sembra totalmente abbandonato al corpo; sembra perdere, in qualche modo, il
controllo di sé e delle circostanze e “chiudere” momentaneamente con la piena
presenza razionale all’interno di una situazione. E per chi insista nell’allontanare
l’uomo dall’umile sfera animale, non sarà facile reperire buoni argomenti per
insistere sulla loro nobiltà.
Ciò nondimeno, è assai antica e diffusa l’idea che riso e pianto appartengano
all’uomo come sua specifica peculiarità. Premesso che di fatto è al riso che spetta il
primato dell’attenzione del pensiero occidentale, va constatato che essi sono
generalmente concepiti come emblema di un atteggiamento spirituale (per lo più
complessivo) di cui si ritiene capace solo l’essere umano. Per questo divengono
forme caratterizzanti, cioè modalità espressive veicolo di contenuti specificamente
umani. Si pensi, ad esempio, all’oramai classica rappresentazione dei filosofi antichi
Eraclito e Democrito: il primo piangente, simbolo della triste consapevolezza del
divenire perpetuo e della caducità delle cose mondane; il secondo ridente, a
simboleggiare invece la spregiudicata posizione di chi, conosciuto l’infinitamente
piccolo e l’infinitamente grande, li onora prendendo congedo dall’egocentrismo
umano. Ma qui, il riso e pianto dei filosofi, sono solo un tramite, un semplice mezzo
per altro, per la manifestazione di un atteggiamento nei confronti del mondo; e così
considerati rimangono sullo stesso piano – simbolico appunto – di qualunque altro
gesto: una particolare espressione mimica, uno sguardo intenso, il movimento del
braccio o della mano verso qualcosa. Sono espressioni semplicemente
rappresentative e considerate specifiche dell’uomo non per ciò che sono “in se
stesse”; in questo contesto, lo sono – potremmo dire – “per accidens” e non
necessariamente. Per studiare queste manifestazioni nel loro significato più proprio,
nel loro valore intrinseco, occorrerà – secondo Plessner – imboccare una strada
precisa, quella della valutazione della loro collocazione nel complesso del
comportamento dell’uomo. Si scoprirà allora che giocano il ruolo di “manifestazioni
principe”, in quanto “reazioni limite”, vale a dire “al limite” del comportamento
umano.
2.
Per lo più, nel riso e nel pianto si riconoscono i dei due volti dell’umore – la gioia e
la tristezza –, e si ritiene che rappresentino le reazioni opposte dell’essere umano di
fronte a circostanze che lo toccano, sottraendolo all’indifferenza. Così è facile e
frequente ricondurre il riso e il pianto rispettivamente a uno stato di piacere e a uno
di dolore: si pensa che rida chi è in qualche modo felice, sereno, gioioso, chi sta bene
PLESSNER 1980-1985; X: 332). Sul tema del saggio si possono consultare: KRÜGER 1999 e 2001;
WIESCHKE 2003; ACCARINO, SCHLOßBERGER 2008 [ACCARINO 2009]; FISCHER 2009.
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o prova sensazioni piacevoli; mentre piange chi è infelice, chi non sta bene o prova
sensazioni spiacevoli. Ma le cose non sono così semplici: non è detto che le due
manifestazioni espressive si possano ricondurre a stati d’animo definiti e
univocamente positivi o negativi. Non si ride, forse, anche in momenti di forte
imbarazzo o di spaesamento, e quindi in presenza di uno stato d’animo tutt’altro che
positivo? E non si può piangere, ad esempio, in una situazione di forte emozione
positiva, come un momento di intensa e imprevista gioia? Ci troviamo allora di
fronte alla necessità di sospendere il giudizio sulla positività o negatività
dell’espressione, ma soprattutto sull’idea che riso e pianto si leghino chiaramente a
determinati motivi.
Ma procediamo oltre. Il loro carattere evidentemente eruttivo potrebbe far pensare
che il riso e il pianto siano espressioni emotive immediate, assimilabili a certi gesti o
a certe manifestazioni vocali inarticolate; questi scaricano un dato sentimentale, che
del gesto, qualunque esso sia, allegro, triste o seccato, rappresenta lo stimolo
immediato. La manifestazione espressiva del riso e del pianto si distingue però
chiaramente dal semplice gesto.
Mentre la collera o la gioia, l’amore e l’odio, la compassione e l’invidia ecc. –
dice Plessner – ottengono nel corpo un’impronta simbolica che lascia trasparire
l’affezione del moto espressivo, la forma di manifestazione del riso e del pianto
rimane opaca e ampiamente determinata nel decorso di ciascuna delle sue
possibili declinazioni (PLESSNER 2000: 51-52).
Proprio per via di un decorso grossomodo prevedibile, potrebbero allora essere
accostati a certi processi semplicemente vegetativi e sottratti alla volontà – come ad
esempio l’arrossire o l’impallidire, il vomitare o il tossire –, ma, anche rispetto a essi,
il riso e il pianto sembrano privi di un’impronta e sostanzialmente “equivoci”.
Nell’ambito della vita sociale, anche a causa della loro rumorosità, non passano
inosservati; e anzi, sembrano in certo senso trascinare con sé l’atteggiamento altrui,
nella direzione della condivisione nel caso del riso (non solo si ride volentieri in
compagnia, ma talora il riso pare addirittura contagioso); nella direzione della
compassione e del rispetto nel caso del pianto (che richiede raccoglimento e
solitudine). Presumibilmente, dietro questa capacità di trascinamento sta una
particolare posizione delle due espressioni umane; un loro speciale valore: paiono
significativi del modo di porsi della persona stessa; sembrano riempirsi di senso nel
consentire all’uomo una “presa di posizione” complessiva, e per certi aspetti
definitiva, dinanzi al mondo.
Plessner dedica al riso e al pianto un’accurata indagine, vagliandone motivi e
modalità, sempre considerandoli manifestazioni uniche e fondamentalmente simili. E
proprio la loro considerazione simmetrica costituisce la peculiarità principale
dell’impostazione della sua ricerca.
Molto è stato scritto sul riso – rileva –, poco invece sul pianto. Il tema riso e
pianto rappresenta poi una eccezione. Questa divisione asimmetrica
dell’interesse per una connessione di fenomeni evidentemente simmetrica ha il
suo fondamento nella tradizione (PLESSNER 2000: 27).
Se la letteratura ha ampiamente trascurato 1’analisi del pianto per occuparsi
principalmente del riso è perché venivano poste in primo piano non le manifestazioni
in quanto tali, ma le loro occasioni, vale a dire i motivi che le determinano.
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Rappresentando semplicemente degli indicatori di reazione, dipendenti da motivi
diversi, il riso e il pianto sono stati dunque trattati separatamente. “Chi conosca la
storia della psicologia e dell’estetica – sostiene Plessner – comprenderà meglio la
divisione asimmetrica dell’interesse, il trattamento preferenziale riservato al riso e la
trascuratezza per il pianto” (PLESSNER 2000: 27). Entrambe le scienze, sin da
quando si sono costituite consapevolmente come tali, hanno posto domande e cercato
risposte sulla base del concetto di “rappresentazione”. Il che significa che esse hanno
lavorato avendo dinanzi una concezione della coscienza come “camera di
presentazione”, come “orizzonte di vissuti” e di un corpo come mezzo di
esternazione. A un simile modello di anima, considerata un “palcoscenico di
proiezioni” e “teatrino per marionette”, conclude, “meglio si adatta un riso
rappresentativo che un pianto sentimentale” (PLESSNER 2000: 27-28). Un’indagine
concentrata sui motivi scatenanti piuttosto che un inquadramento complessivo del
senso di queste forme di espressione o del loro rapporto con le altre modalità
comportamentali nel contesto esistenziale, ne è stata la prima conseguenza.
È questo che cerca di evitare il percorso di Plessner: le parzialità settoriali delle
scienze e i pregiudizi concettuali. Senza trascurare i risultati della ricerca
neurofisiologica contemporanea né la varia letteratura filosofica e sociologica
sull’argomento, decide per un taglio che porta con sé un’idea nuova di totalità umana
e di comportamento fenomenico essenziale.
La nostra ricerca si colloca sulla linea di una teoria dell’espressione umana –
chiarisce –. Noi vogliamo comprendere il riso e il pianto come forme di
espressione. La loro analisi non è al servizio del comico, del motto di spirito,
del tragico, né della psicologia dell’umorismo e del sentimento, ma della teoria
della natura umana (PLESSNER 2000: 29).
Dietro c’è l’idea che l’incontro stesso dell’uomo col mondo produca espressione; che
ogni impulso vitale che si possa cogliere nell’agire abbia in sé carattere espressivo.
Qualunque azione o gesto, linguaggio o mimica, ha il senso emerito dell’espressività:
“porta il ‘cosa’ di una qualche aspirazione, cioè lo porta a espressione” e questo “è
necessariamente effettuazione, oggettivazione dello spirito” (PLESSNER 2006: 359).
Nessun ricorso a termini metafisici, sia chiaro (PLESSNER 2000: 34); parlare di
“spirito” qui significa solo indicare una certa tipologia di fenomeni, caratteristici
della complessità umana. Perché l’uomo è esattamente quell’essere che fa se stesso,
rendendosi opera. L’espressività è il modus del suo fare: “attraverso la sua
espressività egli è quindi un essere che spinge se stesso, con intenzione
continuamente alimentata, verso realizzazioni sempre diverse, lasciando dietro di sé
una storia” (PLESSNER 2006: 360). Il fondamento storico dell’uomo si trova qui:
non nel semplice fare, in una creatività perpetua e inquieta, ma precisamente
nell’impronta che riesce a dare alle produzioni creative, che è insieme direzione e
senso. Nell’espressività “sta il motore della dinamica specificamente storica della
vita umana” (PLESSNER 2006: 361). E una simile visione non può accordarsi con
l’idea di una coscienza come dimensione a se stante, o come “camera chiusa di
vissuti”. La coscienza è una forma di interiorità da definire considerando la relazione
del corpo organico animale con se stesso e con l’ambiente circostante; una modalità
particolare di mediazione soggettiva; una forma di riflessione e autoriflessione che
coinvolge interamente la complessità organica. L’analisi del riso e del pianto
rimanda insomma a un vero proprio progetto antropologico, che a sua volta richiede
la contestualizzazione della posizione umana in uno studio generale della dimensione
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vivente; Plessner parte quindi da una “filosofia della natura”, per determinare
l’immagine di un vivente che si distingue soprattutto per le particolarità espressive.
3.
Helmuth Plessner è ormai noto anche in Italia per i molteplici contributi a un
dibattito sulla natura umana che intreccia ambito filosofico, sociologico e
scientifico2. Formatosi in un clima culturale ricco di stimoli e di iniziative, ha saputo
sviluppare esperienze e favorire incontri che gli hanno permesso l’applicazione
plastica e originale di strumenti e metodi derivati dai più diversi campi del sapere.
Non rinuncia mai a quella fiducia nel rigore scientifico che aveva indirizzato i suoi
primi studi fisiologici, sotto l’autorevole guida di von Kries e Bütschli; al contempo
non sottovaluta le esigenze celate al fondo di certe concezioni antimeccanicistiche,
specialmente nel contrastare una impostazione della ricerca scientifica e filosofica
eccessivamente rigida. Sono i contatti con il neokantismo di Windelband e il
rapporto con la fenomenologia di Husserl a spronarlo ad approfondire lo studio di
Kant e dell’idealismo tedesco, a dedicarsi con intensità sempre maggiore al pensiero
filosofico sino a intervenire nelle principali questioni del dibattito culturale
dell’epoca, confrontandosi tra l’altro con la Lebensphilosophie e l’esistenzialismo,
l’ermeneutica e lo storicismo di matrice diltheyana. La molteplicità dei piani della
sua indagine teoretica trova nella realtà, composita e tuttavia unitaria, dell’essere
umano il proprio momento centrale. L’uomo è per Plessner un tutto, di cui fisico e
psichico sono solo aspetti. Non ha alcun senso distinguervi un corpo e un’anima (o
uno spirito), come se fosse la loro correlazione a dare origine all’uomo: l’uomo non è
un “insieme”, ma una totalità (Ganzheit).
Dell’essenza unitaria dell’essere umano, della sua specifica costituzione e del suo
rapporto con il restante mondo naturale Plessner si è occupato nell’opera Die Stufen
des Organischen und der Mensch3 dove, servendosi del concetto di “posizionalità”
(Positionalität), individua lo specificamente umano in una certa capacità di “porsi”
rispetto a se stesso e al mondo. Ogni vivente si distingue dalla materia inanimata per
una relazione di posizionamento, per un coinvolgimento del “fuori” nell’essere del
corpo. Diverse modalità di posizionamento producono diversi “gradi” d’essere del
vivente e differenti possibilità prestazionali. Al vertice dello sviluppo ascendente di
questo principio si colloca il grado umano4, in cui il vivente non semplicemente pone
se stesso di fronte all’ambiente e media il rapporto con il mondo e l’altro da sé
controllando la propria corporeità, ma è perfettamente consapevole di questa
possibilità, del suo complesso rapporto con l’ambiente, dell’azione che l’esterno
esercita su di sé, della distanza che riesce a interporre tra sé e se stesso. Questa
posizione, di mediazione molteplice, viene detta “eccentricità” (Exzentrizität): nello
stesso tempo l’uomo è un corpo (Körper) e ha un corpo, vale a dire vive se stesso
come corporeità (Leib), e insieme lo gestisce, consapevole di farlo, quasi ne fosse in
2
Mi permetto di rimandare a RASINI 2008. Il processo di rivalutazione del suo pensiero si è
intensificato negli ultimi anni anche grazie alla traduzione di diversi Suoi saggi. Ci limitiamo a
menzionarne alcuni (oltre ai già citati Il riso e il pianto e I gradi dell’organico e l’uomo): I limiti della
comunità (PLESSNER 2001); Potere e natura umana (PLESSNER 20062); Antropologia dei sensi
(PLESSNER 2008).
3
PLESSNER 2006; la seconda edizione è del 1965.
4
Lo sviluppo del principio posizionale si può definire ascendente non nel senso di una crescita della
“nobiltà” dei gradi, ma perché conduce verso un aumento della complicazione relazionale tra
individualità organica e circuito vitale. Cfr. PLESSNER 2006: 154 sgg.
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qualche modo separato, al di là della sua stessa corporeità (PLESSNER 2006: 312
sgg.). Per questa sua triplice posizione si muove in un mondo polivalente, si orienta
in una esistenza che deve organizzare attivamente; è soggetto e oggetto del proprio
agire, e può essere definito, in senso proprio, una persona (Person).
In questa tipologia organica, che vive all’insegna della ricchezza e della
complicazione dei rapporti, di una distanza reificante e dell’autoprogettazione,
consiste il “paradosso” dell’esistenza umana. Avendo la capacità di oggettivare la
realtà che lo circonda e il suo medesimo corpo, possedendo un mondo interiore nel
quale può divenire fenomeno a se stesso e una sfera di relazioni sociali che
contribuiscono a trasformare il suo ambiente in un mondo culturale e “spirituale”,
l’uomo è libero più di qualunque animale; ma al contempo è prigioniero della
necessità: non solo dei bisogni materiali, delle difficoltà di soddisfarli e, in generale,
della sua esistenza corporea (quella stessa che, d’altro canto, gli consente
l’emancipazione dall’ambiente), ma anche della sua esistenza spirituale, della
necessità di trovare un senso al mondo e alla sua stessa vita. L’uomo, insomma, è
vittima della costrizione a progettare passo dopo passo la propria condizione, il
proprio percorso, la propria esistenza. La posizione eccentrica gli sottrae la
possibilità di una vita realmente naturale, fondata, come quella animale, su un
equilibrato rapporto di adattamento e di soddisfazione istintuale, per offrirgli in
cambio un complesso sistema di sofisticate intermediazioni, di allontanamenti,
riflessioni e simbolizzazioni, che inevitabilmente trasformano la sua naturalità.
“Per natura” l’uomo deve crearsi delle occasioni e produrre i mezzi per realizzarle;
“per natura” deve rinunciare a un rapporto diretto con il proprio intorno e trasporsi in
un mondo costruito. La sua “artificialità naturale” (natürliche Kunstlichkeit)
(PLESSNER 2006: 332 sgg.) contraddistingue l’essenza eccentrica di un ente che
della propria invalidità biologica ha saputo fare un trampolino di lancio verso una
nuova dimensione esistenziale. Tutto ciò che in questa dimensione si mostra
immediato, vale a dire rappresenta quanto è direttamente presente, disponibile,
necessario ecc., passa in realtà attraverso un processo di mediazione conoscitiva. La
consapevolezza di esistere e la capacità di oggettivare la realtà circostante, il proprio
corpo e il proprio ego, sono la marca inequivocabile del vincolo organico dell’essere
umano: la sua “immediatezza mediata” (vermittelte Unmittelbarkeit) (PLESSNER
2006: 344 sgg.). E mentre il suo sapere gli offre l’accesso più diretto al mondo,
l’espressione – in tutte le sue modalità – dà forma oggettiva alle crisi, alle richieste,
alle speranze, delle sue molte dinamiche eccentriche. Al contempo, l’eccentricità si
delinea però come il più profondo degli abissi, e l’essere rischia di smarrirvisi. La
libertà della riflessione e l’autocoscienza stimolano la suggestione della ricerca sino
ai più estremi confini. L’uomo si scopre allora totalmente sradicato, privo di una
patria, di un luogo di origine, di una consistenza essenziale, e sperimenta la propria
nullità. Un essere in grado di stare ovunque, di progredire indefinitamente, di
spaziare senza limiti nell’universo (fisico e mentale), sente di non avere alcuna
collocazione, di non avere un posto che sia veramente suo, di trovarsi situato in un
luogo utopico (utopisches Standort) e di poter cercare un ordine per la propria
esistenza solo ricorrendo alla trascendenza (che, a sua volta, può essere revocata in
dubbio) (PLESSNER 2006: 363 sgg.).
Ciò nonostante, la sua vita conserva un inevitabile legame con la natura. Da questo
vincolo trae sempre nuovo alimento il contrasto interno caratteristico dell’essenza
umana. L’“apertura al mondo”, che la contraddistingue, non esclude e non attenua in
alcun modo il rapporto di appartenenza dell’essere umano al regno animale, non
consegna l’uomo a un ambito totalmente “extranaturale”. Le manifestazioni
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espressive, mentre testimoniano questo vincolo corporeo raccolgono intorno a sé, per
rappresentarle, le difficoltà teoriche gravanti sulla questione della relazione tra
psichico e fisico. Esse passano attraverso il corpo e sono realizzabili esclusivamente
grazie al corpo; ma riflettono o esternano qualcosa che sembra appartenere a un altro
“livello dell’essere”, a una interiorità “psichica” o “spirituale”. E proprio questo è il
punto: cosa sono in grado di esprimere il riso e il pianto di quella “essenza” che sta
tra natura e cultura nel modo più instabile e inquieto?
4.
Quello della manifestazione sensibile è sempre stato un tema di grande interesse per
Plessner5. Espressione mimica, gesti simbolici, linguaggio verbale sono patrimonio
vitale dell’uomo; coprono ciascuno dei livelli essenziali della sua esistenza, dalle più
elementari necessità organiche al complicato intreccio di emozione e riflessione.
Naturalmente, le manifestazioni hanno funzioni e portata differente. Il linguaggio
verbale, che tra le forme espressive dell’uomo si colloca certamente in una posizione
chiave per la definizione della dimensione specifica, consente una comunicazione
articolata e fondata sul simbolo e sull’astrazione concettuale. Non può essere confuso
con le semplici emissioni fonetiche degli animali: questi suoni hanno una funzione
biologica, immediata e trasmettono impulsi ed eccitazioni in maniera diretta. Le
parole, invece, indicano un significato che riceve la propria modulazione inserendosi
in un preciso contesto semantico, riferito a circostanze fattuali che ne rimangono
oggettivamente indipendenti. Come accade con l’uso di qualunque utensile, il senso
della strumentalità (del mondo circostante, del proprio corpo, della voce ecc.) è
condizione necessaria al comparire del linguaggio. Alla base dell’elaborazione e
dell’uso dell’espressione parlata ci sono la facoltà di oggettivare e astrarre e
l’imitazione:
il linguaggio si serve di suoni, articolati come segni per significati, che possono
esprimere dati di fatto senza un legame a delle affezioni e alla situazione del
parlante. Non direttamente il parlante, ma il linguaggio che egli parla fa capire
qualcosa e la via della comunicazione non va direttamente da individuo a
individuo, come nell’intesa, nel gioco della reciproca stimolazione e della
risonanza affettiva, ma indirettamente al dato di fatto cui ci si riferisce. Parlare è
esprimere, comunicare, collegare nella mediazione del dire sulla base di una
cosa. Di questa possibilità dispone evidentemente solo l’uomo (PLESSNER
2000: 89).
Riso e pianto sono un’altra cosa; non sono linguaggio, neppure “gestuale” o
“istintivo”. Ci sono almeno tre argomenti a sostenerlo: riso e pianto sono egualmente
diffusi presso qualunque popolazione e in ogni tempo; la coazione della loro
comparsa e del loro decorso; il loro carattere di pura espressione reattiva e l’assenza
di una funzione simbolica. E “laddove si presentino queste circostanze – conclude
Plessner – non si può parlare in senso stretto di linguaggio” (PLESSNER 2000: 9192).
Che siano allora da equiparare alle molte espressioni gestuali, immediate e per lo più
involontarie, di cui è capace soprattutto il volto? L’espressione gestuale (che secondo
Plessner va distinta dalla semplice mimica, una modalità parzialmente condivisa con
5
Si vedano ad e sempio PLESSNER 1923 e il saggio scritto in collaborazione con F.J.J. Buytendijk:
PLESSNER, BUYTENDIJK 1925,
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il mondo animale) è, in senso lato, non simbolica e non necessariamente legata a
situazioni comunitarie. Attraverso l’atteggiamento corporeo e la raffinatezza della
mimica facciale, la gestualità esterna direttamente le emozioni. Queste
manifestazioni non sono forme sostitutive di altri atti o di parole e non sono a loro
volta sostituibili; non sono segni, strumenti di mediazione per la trasmissione di
significati (si pensi ad esempio alla stretta di mano), ma specchio di emozioni,
movimenti con un significato intrinseco che rimanda senza intermediari allo stato o
all’impulso che li ha suscitati. Benché appartengano all’ampia categoria degli atti
comportamentali, queste spontanee manifestazioni gestuali non si possono
considerare azioni finalizzate o residui di azione, come sostenuto da Darwin, né
surrogati di azione dovuti a fenomeni di associazione tra sensazioni, come suggeriva
Piderit6.
Insostituibilità, immediatezza, spontaneità sembrano conferire al riso e al pianto il
carattere dell’espressione gestuale; ma ciò non basta a definire la loro specificità.
Rappresentano forme espressive sui generis, e per questo meritano una trattazione a
se stante. Come si diceva, non si possono accostare al linguaggio, anche se
esattamente come l’espressione linguistica sono appannaggio specifico dell’essere
umano: espressioni significative, funzionali ed emblematiche. Non sono però
neppure semplici manifestazioni mimiche, non presentano affinità alcuna con
l’azione e, nonostante il legame con un motivo scatenante, manca loro quella
trasparenza capace di correlare in modo chiaro e immediato la reazione con un
preciso sentimento. Gli atti gestuali, per quanto impetuosi, improvvisi o sconsiderati
sono comunque dotati di una trasparenza espressiva che palesa lo statuto interiore
dell’uomo mediante la vivace animazione del corpo. Al contrario, l’opacità delle
manifestazioni di riso e di pianto è la conseguenza di una totale perdita del dominio
che l’uomo solitamente esercita sul proprio corpo.
5.
Non si ha un rispecchiamento nel fenomeno espressivo; riso e pianto rappresentano
piuttosto delle “capitolazioni”, dei momenti di caduta: ci si abbandona al riso; ci si
lascia andare al pianto.
Questo finire nel riso e nel pianto, questo essere sopraffatti indica – in primo
luogo in relazione al peculiare processo autonomo che si determina e che spesso
si sottrae totalmente a una attenuazione e al controllo – una perdita della
padronanza, una rottura nell’equilibrio tra l’uomo e l’esistenza fisica
(PLESSNER 2000: 110).
Un forte e improvviso sentimento può condurre a gesti sconsiderati, e anche in
questo caso ci si sente privi di controllo. L’animazione puramente corporea
raggiunge qui il punto di massima elevazione e mette in pericolo l’unità della
persona; ma ciò che non viene meno è proprio la trasparenza espressiva. Nel riso e
nel pianto accade esattamente il contrario: la trasparenza corporeo-spirituale
raggiunge il livello minimo, i processi corporei hanno la meglio e scuotono l’uomo
nella sua unità. Egli smarrisce il rapporto con l’esistenza fisica, ma proprio questa
perdita assume tuttavia il senso di una risposta: vero è che la rottura dell’equilibrio
6
PLESSNER 2000: 100. Secondo Plessner sono invece più accettabili le indicazioni di L. Klages. Si
vedano DARWIN 1982; PIDERIT 18862; KLAGES 1989.
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non è intenzionalmente prodotta, ma la disorganizzazione che ne deriva non è
semplicemente e passivamente subita.
Il riso e il pianto sono sintomi di una frattura interna, di una scissione dell’unità
personale che, giorno dopo giorno, progetta e conduce un’esistenza di mediazione,
complessa ma per lo più equilibrata, con il mondo circostante. Di fronte a situazioni
sempre diverse, l’essere umano conserva il significato della propria vita e controlla i
rapporti che lo legano agli altri seguendo una coerenza comportamentale. In ogni
istante, affronta le circostanze esistenziali dominando anzitutto gli strumenti della
comunicazione con il “fuori”: le proprie parole e azioni, i propri gesti, le proprie
espressioni. A prescindere dalle faccende in gioco e dall’atteggiamento che sceglie di
adottare, l’uomo si muove generalmente in un contesto di continuità di senso,
sapendo dove possono eventualmente condurre i suoi atti e come affrontare le
conseguenze. Il suo rapporto col mondo è insomma gestito da un comportamento
previdente e accurato che possa dare di volta in volta la risposta più consona alle
circostanze.
Ma a volte la situazione disarma e sopraffà; l’uomo si lascia prendere la mano, perde
il dominio di sé e precipita in una reazione incontrollata, in un puro meccanismo
fisiologico dal decorso forzato. Quando l’uomo non è in grado di affrontare la
situazione, di adottare un contegno adeguato alla propria natura mediatrice, la sua
unità superiore di controllo abdica in favore della pura corporeità. In questo senso il
riso e il pianto sono fenomeni che si presentano “ai limiti del comportamento”. Essi
di fatto suppliscono al comportamento “regolare”, avendo quest’ultimo toccato il
proprio estremo e non potendo più proporre una risposta assennata e controllata. Non
si deve però pensare che si tratti di manifestazioni indegne dell’uomo, in qualche
modo “indecorose”. Benché espressione di una rottura e di una capitolazione, il riso e
il pianto vengono ancora intese come “reazioni significative”, come un’autentica
risposta: la sola possibile alla persona in una situazione divenuta in qualche modo
“impossibile”7. Scivolando in un processo corporeo forzato e opaco, con il
frantumarsi dell’equilibrio interiore, il rapporto dell’uomo con il proprio corpo viene
insieme sacrificato e ricostruito, così che “la reale impossibilità di trovare una
espressione conforme e una risposta adatta è al contempo l’unica espressione
conforme e l’unica risposta adatta” (PLESSNER 2000: 111). In questo modo, anche
nel momento in cui tutto sembra perduto, l’uomo – dice Plessner – “rimane persona”,
mostrandosi capace di far fronte alla situazione e di venirne a capo.
6.
Naturalmente però, il riso e il pianto non si possono confondere tra di loro. Il fatto
che siano fenomeni dello stesso genere, manifestazioni di emancipazione del corpo
dall’unità psicofisica dell’uomo, giustifica la necessità di trattare congiuntamente le
due forme espressive, non autorizza però a trascurarne le differenze sostanziali. La
loro profonda diversità non dipende dai motivi in se stessi (dato che ci sono diversi
motivi dinanzi ai quali possono darsi entrambe le manifestazioni). Il presentarsi
dell’una o dell’altra dipende dal modo in cui il motivo colpisce la persona, dalle
condizioni oggettive che vengono a determinarsi nel rapporto tra l’uomo e la
specifica situazione.
7
Affinché la reazione sfoci nel riso o nel pianto – precisa Plessner – occorre però che la situazione
non venga avvertita come seriamente minacciosa per la vita; in questo caso, l’uomo “perde la testa” e
capitola interamente, come persona.
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Con il riso si quietanza una situazione che contemporaneamente vincola e lascia
liberi, una situazione ambivalente ed equivoca in cui domina la non serietà. Quando,
pur senza trovarsi realmente in pericolo, l’uomo non riesce a conservare il
comportamento consueto perché lo stato delle cose non è chiaro e univoco, si crea
una tensione che solo lo sfogo del riso può dissolvere. Si tratta di situazioni – non
importa se dovute a occasioni comiche, imbarazzanti o di altro genere – nelle quali si
incrociano e si sovrappongono (senza annullarsi reciprocamente) momenti di
attrazione e di repulsione, varie direzioni del ragionamento, più significati, e l’uomo
non riesce a trovare un punto stabile a cui agganciarsi.
In qualunque situazione, l’uomo immagina di potersi aspettare qualcosa, di muoversi
in un contesto in parte noto e in parte prevedibile, e in ogni caso di avere a che fare
con qualcosa con cui può trattare, perché ha un senso e “se ne può fare qualcosa”.
Ma una situazione “a doppio senso” o che per un qualunque motivo si presenta “non
seria”, appare all’uomo anche “insopportabile” (o semplicemente “intrattabile”), e il
bisogno urgente è di staccarsene. L’ambiguità, la pluralità dei significati che propone
un motto di spirito, il comportamento bizzarro di una persona o lo svolgersi di una
scena inaspettata possono impedire una risposta equilibrata e ragionevole; la
situazione diventa improvvisamente “impossibile” e il normale comportamento
insufficiente. Ma anche nell’impossibilità, in una situazione limite, l’uomo riesce a
trovare una via d’uscita, individua una “possibilità”, e con il riso risponde –
nonostante tutto – alla situazione, conferendo un senso a ciò che sembra non averne
affatto. L’irruento meccanismo corporeo che si assume tale compito rappresenta al
contempo una conferma e un abbandono della situazione; una affermazione di sé e
un sacrificio. In questo modo – dice Plessner – l’uomo “quietanza il ‘controsenso’
vitale, spirituale ed esistenziale” non con un gesto dissolutore, ma con una reazione
che manifesta il proprio “senso nel non senso” (PLESSNER 2000: 218). Ma,
soprattutto, con il riso sancisce un deciso distacco, una presa di distanza dalla
situazione stessa che ne decreta la sovranità; rompe con condizioni divenute
insostenibili e apre l’uomo al mondo, proiettandolo al di fuori di sé. Non è un caso –
osserva Plessner – che il riso sia tanto più autentico, sentito e divertente quanto più è
collettivo. Se il motivo scatenante si presenta come oggettivo e il riso incontra il
consenso altrui, il riso soddisfa appieno il proprio carattere di esternazione.
Al contrario, il pianto comporta una chiusura dell’uomo in se stesso, una esclusione
del mondo dal proprio orizzonte e conseguentemente un isolamento dell’individuo. Il
motivo scatenante è tanto più efficace quanto più soggettivamente vissuto, e anzi la
condivisione del motivo può essere causa di inibizione del pianto. Le situazioni che
impediscono un comportamento coordinato in questo caso sono tali da dissolvere la
normale polivalenza esistenziale in cui l’uomo si sente generalmente calato.
L’individuo, abbandonandosi al puro meccanismo corporeo, ne rimane totalmente
coinvolto, incapace di prenderne distanza. Muovono al pianto quelle situazioni in cui
(senza che si presentino circostanze realmente minacciose che costringerebbero a una
fuga), la relatività dell’esistenza soggettiva viene meno di fronte alla potenza di un
termine avvertito come “assoluto”. “Con l’interruzione della normale relatività della
nostra esistenza nel mondo e con il mondo che solitamente ci nasconde la purezza
dell’essere – chiarisce Plessner – raggiungiamo il limite di ogni comportamento”
(PLESSNER 2000: 220). Dinanzi alla persona si para un “termine incondizionato” e
immediatamente prossimo. La mancanza di complicazione e l’immediatezza della
compenetrazione sentimentale – l’esatto contrario di ciò che accade per il riso – sono
ciò che entra ora in gioco, impedendo qualunque consueto comportamento. In questo
caso – non importa se l’occasione è un dolore o un sentimento di gioia sublime –
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l’uomo è catturato interamente dalla situazione. Il senso di impotenza suscitato dalla
cattura sentimentale da parte di qualcosa di immane non gli lascia spazio per un
distacco; allora l’uomo si abbandona, dando libero sfogo alle lacrime. Anche in
questo caso si tratta di un puro meccanismo corporeo che, di nuovo, si presenta come
l’unica via d’uscita dinanzi a una situazione impossibile.
Il contrasto che caratterizza il riso e il pianto non si spiega dunque mediante la
divergenza tra piacere e dolore, ma attraverso l’esistenza di due modalità di
“limitazione” del comportamento (o di comportamento “al limite”). L’inibizione del
normale rapporto dell’uomo con il mondo si determina o in caso di mancata
chiarezza della situazione (divenuta equivoca e ambigua), o in caso di perdita della
relatività della propria esistenza (dietro il potente richiamo di un sentimento
completamente coinvolgente), e le sole reazioni possibili di fronte a tale inibizione
sono generalmente il riso e il pianto, una improvvisa caduta concessa soltanto a una
natura eccentrica, a un ente che può giocare il rapporto con se stesso tra gli estremi
dell’essere un corpo e dell’avere un corpo. Perciò, queste forme di caduta non sono
meno degne dell’uomo di quanto lo siano la posizione eretta o l’uso del linguaggio
verbale: espressioni perfettamente adeguate a situazioni di fronte alle quali soltanto
l’uomo può trovarsi e riuscire a venirne a capo.
Possiamo persino considerare il riso e il pianto come la risorsa più specifica e
“coerente” con la natura vivente, e in particolare con l’eccentricità umana, non solo
perché essi manifestano la duplicità ineliminabile della totalità umana, ma soprattutto
perché del “rapporto con il limite” sono forse la massima espressione8. Soltanto un
essere che può prendere distanza dal mondo, oltrepassando ogni limite (senza
perderlo) e che non si lascia assorbire dalla situazione in cui si trova è realmente in
grado di giocare l’ultima chance del riso e del pianto; solo una natura eccentrica può
dimostrare il proprio potere anche in una condizione di impotenza, può esercitare una
libertà quando ogni possibile libertà sembra perduta:
perdendo il dominio su di sé, rinunciando a un rapporto con se stesso, l’uomo
testimonia ancora la sua la sua sovrana comprensione dell’incomprensibile,
ancora mostra il suo potere nell’impotenza, la sua libertà e la grandezza nella
coercizione (PLESSNER 2000: 112).
Solo lui può rispondere anche dove non ci sia più niente da rispondere; solo lui può
giocare quell’ultima carta, dalla cui perdita sa comunque trarre profitto.
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espressioni del riso e del pianto, si veda RASINI 2009.
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