Racconti Di Fantasmi

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Racconti Di Fantasmi
Henry James
Racconti Di Fantasmi
Stories Of The Supernatural © 1970
A cura di Leon Edel Con un saggio di Virginia Woolf
I RACCONTI DI FANTASMI DI HENRY JAMES
di Virginia Woolf
È evidente che Henry James fu fortemente attratto dal racconto di
fantasmi o, più precisamente, dal racconto del soprannaturale. Ne scrisse
almeno otto, e, se ci interessa sapere che cosa lo indusse a farlo, e quale
opinione lo scrittore avesse del suo successo, non vi è nulla di più semplice
che leggere la sua stessa testimonianza nella prefazione al volume che
contiene The Aitar of the Dead. Ma forse conserveremo un'opinione più
precisa lasciando da parte la prefazione. Con l'andar degli anni certe
caratteristiche della narrazione acquistano rilievo, altre scompaiono. Non
faremmo che confondere la nostra personale capacità di valutazione se
tentassimo, doverosamente, di farla quadrare col giudizio che l'autore a
quell'epoca espresse sulla sua opera. Per esempio, che cosa disse Henry
James di The Great Good Place?
Rimane The Great Good Place (1900). Ma a questo riguardo mi colpisce
il fatto che ogni chiosa o commento al suo significato costituirebbe una
sfida inopportuna, e comporterebbe un giudizio arbitrario. Il racconto è la
realizzazione di un effetto calcolato, e ritengo che immergervisi, anche
solo per un'occhiata favorevolmente prevenuta - scelta che in realtà
consiglio - significherebbe lasciar fuori tutto il resto.
E invece per noi, nel 1921, The Great Good Place è un fallimento. E un
altro esempio del fatto che, quando uno scrittore è assolutamente, e perfino
estaticamente, consapevole del proprio successo, scrive, forse, le opere
peggiori. Ci sembra che dovremmo essere «dentro» la vicenda e invece ne
rimaniamo freddamente fuori. Qualcosa non ha funzionato, e siamo
propensi ad accusare il soprannaturale. Il giudizio può essere inopportuno,
ma giudicare dobbiamo.
Nessuno può negare che The Great Good Place inizi in modo mirabile.
Senza lo spreco di una parola, ci troviamo immediatamente nel cuore della
situazione. Il celebre e tormentato George Dane è circondato da lettere non
aperte e libri mai letti; i telegrammi arrivano, gli inviti si accumulano, e le
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cose che valgono sono sepolte senza possibilità di recupero sotto la carta
straccia. Nel frattempo Brown, il domestico, annuncia l'arrivo a colazione
di uno strano giovanotto. Dane tocca la mano del giovane e, in questo
punto di massimo tedio, scivola in uno stato di trance, o comunque si
sveglia in un altro mondo. Si trova in un paradisiaco istituto di cura-riposo;
le campane rintoccano lontane, i fiori olezzano, e dopo un po' la vita
interiore si rianima. Ma non appena il cambiamento ha avuto luogo, ci
rendiamo conto che qualcosa nel racconto non va più. Il movimento
langue, l'emozione cede alla monotonia, anche se il mago ha agitato la
bacchetta.
Tutte le espressioni più pregnanti restano lì come in attesa - i calici
d'argento, il fondersi delle ore -, ma non c'è lavoro per loro. Il racconto
svanisce in un dolce soliloquio; Dane e i Fratelli diventano angeliche
figure allegoriche che vagano in un mondo come il nostro, ma più vuoto e
monotono. Come se sentisse l'esigenza di qualcosa di duro e oggettivo,
l'autore nomina la città di Bradford; invano. The Great Good Place è un
esempio dell'uso sentimentale del soprannaturale e per questo motivo
Henry James avrà ritenuto senza alcun dubbio di essere stato più profondo
e più efficace del solito.
Gli altri racconti dimostreranno immediatamente che il soprannaturale
offre grandi soddisfazioni, ma presenta anche grossi rischi; soffermiamoci
per un momento sui rischi. Il primo è certamente che elimina le ferite e i
traumi dell'esperienza. Nella saletta della colazione, con Brown e il
telegramma, Henry James è stato costretto a darsi da fare sotto la pressione
della realtà: la porta deve aprirsi, l'orologio deve battere le ore. Appena
calato sulla terraferma, lo scrittore si è impossessato di un mondo che
poteva plasmare a suo piacimento. Nel mondo dei sogni non c'è bisogno
che la porta si apra, né che l'orologio batta le ore; la bellezza è a portata di
mano, pronta ad offrirsi a chi la chiede. Ma la bellezza è la più perversa
delle creature: sembra che debba passare attraverso la sozzura, o giacere a
fianco del disordine prima di poter sorgere nella sua vera identità. La
bellezza pre-confezionata del mondo dei sogni produce soltanto
un'immagine anemica e convenzionale del mondo che già conosciamo. E
Henry James amava troppo il mondo che conosciamo per crearne uno che
non conosciamo. Non possedeva affatto la fantasia del visionario; la sua
vocazione era drammatica, non lirica. Persino i suoi personaggi
avvizziscono nella rarefatta atmosfera che li circonda, e ci viene presentato
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un «Fratello» quando preferiremmo di gran lunga aggrapparci alla solida
persona di Brown.
In modo un po' sleale abbiamo compilato l'elenco dei rischi che il
soprannaturale presenta, a spese di un solo racconto. La verità forse è che
siamo diventati fondamentalmente scettici. Mrs Radcliffe divertiva i nostri
antenati perché erano i nostri antenati, vivevano con scarsissimi libri,
ricevevano una lettera ogni tanto, leggevano un giornale che, quando
arrivava, era ormai vecchissimo, abitavano nei punti più sperduti della
campagna o in una cittadina che assomigliava al più modesto dei nostri
villaggi, disponevano di lunghe ore da trascorrere seduti presso il camino,
bevendo vino alla luce di una mezza dozzina di candele. Oggigiorno la
nostra prima colazione è condita da un banchetto di orrori più abbondante
di quello servito a loro in un anno. Siamo stanchi di violenza, sospettosi
del mistero. Certamente, potremmo dire a uno scrittore dedito al
soprannaturale, i fatti che accadono nel mondo possono bastare;
certamente è più sicuro stare nella saletta della colazione con Brown.
Inoltre, siamo ormai invulnerabili alla paura. I tuoi fantasmi ci fanno solo
sorridere, e se cerchi di esprimere l'intima e intenerita visione di un mondo
spogliato della sua vera pelle, saremo costretti (e non c'è nulla di più
imbarazzante) a guardare dall'altra parte. Ma gli scrittori, se sono degni del
loro nome, non accettano mai consigli, corrono sempre rischi. Ammettere
che il soprannaturale fu trattato per l'ultima volta da Mrs Radcliffe e che i
nervi degli uomini moderni sono immuni dallo stupore e dal terrore che gli
spettri hanno sempre ispirato, significherebbe gettare la spugna troppo
facilmente. Se i vecchi metodi sono superati, è compito dello scrittore
scoprirne di nuovi. Il lettore può ancora provare ciò che ha provato una
volta, e di questo non c'è dubbio; solo, di tanto in tanto, si deve cambiar
fronte.
Non è necessario decidere con quanta consapevolezza Henry James si
sia disposto a cercare il punto debole nella nostra armatura d'insensibilità.
Volgiamo la nostra attenzione a un altro racconto, The Frìends of the
Frìends, e giudichiamo se qui lo scrittore ha raggiunto il suo scopo. È la
storia di un uomo e di una donna che hanno cercato per anni di incontrarsi,
ma raggiungono il loro intento soltanto la notte in cui la donna muore.
Dopo la morte gli incontri si susseguono, e quando l'altra donna, cui lui è
findanzato e che sta per sposare, intuisce il fatto, il matrimonio va a monte.
La relazione ha subito un mutamento: un'altra persona, dice lei, si è
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insinuata fra loro. «Tu la vedi, la vedi; la vedi ogni notte!» E quella che
definiremmo una tipica situazione jamesiana. E lo stesso argomento già
trattato, in modo estremamente complesso, in The Wings of the Dove.
Soltanto che in questo romanzo, quando Milly si intromette fra Kate e
Densher e modifica per sempre la loro relazione, cessa al tempo stesso di
esistere; in The Friends of the Friends, invece, l'anonima signora continua
l'opera dopo la morte. E con ciò, fa molta differenza? Basta che Henry
James muova il più piccolo passo e va oltre il confine: i suoi personaggi,
con la loro estrema finezza di percezione, sono già per metà fuori dal
corpo. Non c'è nulla di violento nel loro distacco da esso; sembrano
piuttosto avere infine raggiunto ciò che per lungo tempo hanno desiderato:
la possibilità di comunicare senza ostacoli. Ma Henry James, dopo tutto,
teneva in serbo i suoi fantasmi proprio per i racconti di fantasmi. Gli
ostacoli sono essenziali a The Wings of the Dove. Quando lo scrittore li
elimina per intervento del soprannaturale, come in The Friends of the
Friends, lo fa per produrre un effetto particolare. Il racconto è molto breve;
non c'è tempo per approfondire la relazione; ma la vicenda può essere
spinta verso la conclusione per mezzo di un imprevisto. Il soprannaturale è
introdotto appunto per provocare codesto avvenimento traumatico. Ed è il
più singolare degli imprevisti: tranquillo, bello, come il dissolversi di un
suono in armonia; e tuttav;», in qualche modo, osceno. Il vivo e la morta,
grazie alla loro superiore sensibilità, si sono trovati al di là dell'abisso: la
situazione è affascinante. L'uomo vivo e la donna morta si sono incontrati
soli durante la notte, hanno una relazione. L'incontro, spirituale e carnale
insieme, genera una strana emozione, che non è esattamente paura, non è
ancora turbamento. È una sensazione che non riconosciamo
immediatamente. C'è un punto debole in qualche parte della nostra
armatura. Forse Henry James riuscirà a penetrarvi, con metodi simili a
questi. Ma poi passiamo a Owen Wingrave, e l'allettante gioco di
immobilizzare l'autore al tavolo anatomico per scoprire ancora una volta le
tracce della sua finezza e abilità - non importa quali possano essere le
caratteristiche prevalenti della sua narrativa - è bruscamente interrotto.
Immobilizzato, legato, apparentemente privo di vita, l'autore salta su e se
ne va. In qualche modo ci si è dimenticati di dare il giusto peso alla
vocazione letteraria, alla forza trainante che è così imprevedibile e così
essenziale in uno scrittore. Con Henry James in particolare tendiamo,
stupiti di fronte alla sua prodigiosa maestria, a dimenticare che lo scrittore
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nutriva un'illimitata passione per il narrare. La prefazione a Owen
Wingrave è illuminante in proposito e, incidentalmente, indica il motivo
per cui Owen Wingrave, come racconto di fantasmi, manca il bersaglio. Un
pomeriggio estivo, molti anni fa - racconta James - sedeva su una sdraia «a
pagamento» sotto un grosso albero nel parco di Kensington. Un giovane
snello, seduto su un'altra sdraia li vicino, cominciò a leggere un libro.
Forse che il giovanotto diventò, di punto in bianco, Owen Wingrave,
determinando la situazione con la semplice suggestione della sua presenza,
creando d'un tratto tutti gli sviluppi e riempiendo tutti i vuoti nelle mie
immagini mentali?... Posso solo dire che, all'inizio dell'arco di tempo
trascorso sulla sdraia, la fiaba senza costrutto non poteva vantare alcun
diritto né appellarsi ad alcun pretesto e che, un attimo dopo, quando non
avevo ancora finito di sfruttare per intero la mia moneta da un penny, era
divenuta irta di motivazioni che giustamente ne reclamavano l'esistenza.
'Dàlie forma, dàlie forma! ' sembrava risuonarmi nelle orecchie con
improvvisa intensità.
Perciò la teoria dell'artista consapevole, che estrae il suo granello di
materia e lo trasforma in un tessuto compiuto, è un'altra «invenzione» della
nostra critica letteraria. La verità sembra essere che James era seduto su
una sdraia, ha visto un giovane, e si è addormentato. Ad ogni modo, una
volta che il gruppo, l'uomo, o forse soltanto il cielo e gli alberi acquistano
un significato, tutto il resto c'è, inevitabilmente. Dato Owen Wingrave,
anche Spencer Coyle, Mrs Coyle, Kate Julian, la vecchia casa, la stagione,
l'atmosfera devono necessariamente esistere. Owen Wingrave implica tutto
il resto. L'artista deve semplicemente fare in modo che il rapporto fra
questi luoghi e queste persone sia quello giusto. Quando diciamo che
Henry James nutriva una passione per il narrare, intendiamo dire che,
quando arrivava il momento «magico», gli accessori erano pronti a piovere
in massa.
In questo caso, piovvero anche troppo rapidamente. Eccoli subito li, con
tutta la carica e l'imponenza della gente vera. Miss Wingrave seduta
nell'alloggio di Baker Street con un «grosso catalogo dell'Unione militare
per l'Esercito e la Marina, che stava su un grande e desolato tappeto d'un
azzurro molto incerto»; Mrs Coyle, «una bella donna, fresca e posata», che
ammetteva, e anzi si vantava, del fatto di essere innamorata degli allievi
del marito, «il che dimostra che l'argomento veniva trattato fra loro con
larghezza di vedute»; lo stesso Spencer Coyle, il giovane Lechmere, sono
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tutti naturalmente in stretto rapporto col problema del temperamento di
Owen e con la situazione da lui vissuta, ma si riferiscono a tante altre cose
ancora. Ci sembra di intraprendere la lettura di un lungo e avvincente
racconto; ma a un certo punto, bruscamente, paradossalmente, si ode un
grido; il povero Owen viene trovato steso al suolo sulla soglia della stanza
«infestata»: il soprannaturale ha tagliato il libro in due. È un'intromissione
violenta, sensazionale; ma se Henry James in persona ci chiedesse:
«Allora, vi ho spaventato?» saremmo costretti a rispondere: «Nemmeno un
po'». La catastrofe non è in rapporto proporzionale a ciò che è accaduto
prima; la visione nel parco di Kensington forse non abbracciava l'insieme.
Per pura generosità l'autore ci ha presentato una vicenda ricca di possibili
sviluppi: un giovanotto il cui problema (detesta la guerra ed è condannato
a fare il soldato) è di profondo interesse psicologico; una ragazza il cui
acume e la cui eccentricità sono volutamente caratterizzati, come in attesa
di futura evoluzione. E invece, che uso viene fatto di loro? Kate Julian si
limita a sfidare un giovane a dormire in una stanza abitata dagli spiriti; una
grassa perpetua avrebbe saputo fare altrettanto. A quale scopo viene
impiegato il soprannaturale? Il povero Owen Wingrave si prende un colpo
in testa dal fantasma di un avo; un solido secchio in un corridoio buio
avrebbe fatto di meglio.
I racconti in cui Henry James usa il soprannaturale con effetto sono,
allora, quelli in cui qualche attributo di un personaggio o di una situazione
può ricevere il massimo significato solo se completamente scisso dai fatti.
Il suo evolversi nel mondo della fantasia deve essere strettamente connesso
a ciò che accade in questo mondo. Dobbiamo essere indotti a sentire che
l'apparizione si accorda con la crisi di passione o di coscienza che l'ha
generata, in modo così preciso che il racconto di fantasmi, oltre ai suoi
pregi come racconto di fantasmi, possieda il fascino ulteriore di essere
anche simbolico. Perciò il fantasma di Sir Edmund Orme appare alla
donna, che lo ha abbandonato molto tempo prima, ogni qual volta la figlia
sul punto di fidanzarsi. L'apparizione è la proiezione della sua coscienza
colpevole, ma è qualcosa di più: è il nume tutelare dei diritti degli amanti.
Si accorda con quanto è accaduto prima, lo completa. Dall'uso del
soprannaturale scaturisce un'armonia che altrimenti non si sarebbe potuta
udire. Sentiamo la prima nota sulla punta delle dita, e poi, un attimo più
tardi, la seconda si accorda in lontananza.
I fantasmi di Henry James non hanno nulla in comune con i vecchi
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spettri violenti: i feroci pirati grondanti sangue, i cavalli bianchi, le signore
senza testa che vagano per oscuri sentieri e lande battute dal vento. Hanno
le loro origini dentro di noi. Sono presenti ogni qual volta l'emozione
supera le nostre capacità espressive; ogni qual volta nell'ordinario emerge
l'alone dello straordinario. Le perplessità lasciate in sospeso, i terrori
persistenti: queste sono le emozioni che James coglie, traduce in immagini,
rende accettabili e vivibili. Ma come possiamo aver paura? Come dice quel
signore che per la prima volta ha visto il fantasma di Sir Edmund Orme:
«Ero pronto a giurare a chiunque che i fantasmi sono molto meno
spaventosi e molto più divertenti di quanto comunemente si crede». Gli
spiriti avvenenti e gentili, semplicemente non sono di questo mondo
perché troppo raffinati per viverci. Si sono portati con sé, oltre il confine,
gli abiti, le maniere, l'educazione, l'eleganza, e i valletti e le cameriere;
conservano sempre tratti un po' mondani. Potremmo sentirci impacciati di
fronte a loro, ma non possiamo sentirci intimoriti. Che importa, allora, se
prendiamo The Tum of the Screw circa un'ora prima di andare a letto?
Dopo una lettura raffinata e gradevole, se ci possiamo fidare degli altri
racconti di Henry James, termineremo con questa musica squisita
nell'orecchio e finiremo col dormire ancor più profondamente.
Forse è il silenzio che dapprima ci impressiona. Tutto è così
profondamente tranquillo a Bly. Il cinguettio degli uccelli all'alba, le grida
dei bambini di lontano, il debole suono di passi in distanza, increspano il
paesaggio ma lo lasciano intatto. Il silenzio si accumula, grava su di noi; ci
rende stranamente timorosi del rumore. Infine la casa e il giardino
scompaiono sotto il suo peso.
Mi pare di udire ancora, mentre scrivo, l'intensa quiete in cui languivano
i suoni della sera. Nel cielo colore dell'oro i corvi smettevano di
gracchiare, e l'ora ciarliera perdeva tutta la sua voce nell'ineffabile minuto.
È davvero ineffabile. Sappiamo che l'uomo che, in piedi sulla torre, tiene
gli occhi fissi sull'istitutrice al piano di sotto, è una presenza maligna.
Qualcosa di torbido e inesprimibile è emerso alla superficie, cerca di
penetrare, di afferrare qualcosa. Le fragili, piccole creature innocenti
immerse nel sonno devono essere protette a tutti i costi. Ma il terrore
cresce. E possibile che la ragazzina, scostandosi dalla finestra, abbia visto
la donna all'esterno? È stata forse con Miss Jessel? E Quint, ha per caso
fatto visita al ragazzo? E Quint che aleggia attorno a noi nel buio; che è in
quell'angolo e poi ancora in quell'altro. È Quint che dobbiamo allontanare
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con la forza della ragione e che, con tutto il nostro ragionare, ritorna. Può
essere che abbiamo paura? Ma non è un uomo dai capelli rossi e dal viso
bianco che temiamo. Abbiamo paura di qualcosa, forse, in noi stessi. Per
farla breve, accendiamo la luce. Se analizziamo il racconto al chiarore
della lampada e in tutta tranquillità, possiamo osservare quanta abilità
riveli la narrazione, come ogni frase sia tesa, ogni immagine piena, come il
mondo interno acquisti intensità dalla solidità di quello esterno, come il
bello e l'indegno, intrecciati insieme, si insinuino strisciando fin nel
profondo. Tuttavia dobbiamo riconoscere che qualcosa rimane inspiegato;
dobbiamo ammettere che Henry James ha vinto. Il raffinato, mondano,
sentimentale vecchio signore, riesce ancora a farci aver paura del buio.
Traduzione di Maria Luisa Castellani Agosti.
NOTA DEL CURATORE
Sono qui raccolti, nel loro ordine cronologico di pubblicazione originale,
diciotto racconti di Henry James. Appartengono al genere che l'autore
stesso ha definito «ghostly», aggettivo di non facile traduzione e che evoca
comunque l'idea del fantasma, anche se, come il lettore stesso potrà
constatare nella maggior parte dei casi, di fantasmi - nell'accezione
comune del termine -non si tratta.
Il più famoso di questi racconti è senza dubbio Il giro di vite (The Turn
of the Screw) che appare qui nella traduzione di Fausta Cialente, già
pubblicata da Einaudi nella collana «Scrittori tradotti da scrittori» nel
1985. Un'altra famosa novella tipicamente jamesiana, per quell'atmosfera
ambigua di tormentato intimo mistero che la caratterizza, è La belva nella
giungla {The Beast in the Jungle); in questa raccolta essa appare, insieme
ad altre quattro, nella traduzione di Carlo Izzo.
La traduzione dei restanti dodici racconti è opera mia, così come la
versione dei testi di Leon Edel (lo studioso americano che a James ha
dedicato tutta una vita), e cioè il saggio su James, la cronologia e le note
illustrative che accompagnano ogni racconto. E mia anche la traduzione
dell'articolo di Virginia Woolf, apparso nel 1921, posto all'inizio di questo
volume.
Sono molto grata a Paolo Collo, della Casa editrice Einaudi, per avermi
offerto valida e intelligente assistenza durante questi mesi di lavoro, e nella
revisione generale, che abbiamo curato insieme.
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Lo stile di James muta e si evolve nel corso degli anni, e crea al
traduttore problemi di soluzione spesso difficile: dalla fluida e scorrevole
narrazione della storia di De Grey, che l'autore scrisse venticinquenne nel
1868, allo stile denso, intricato, quasi enigmatico de L'angolo prediletto
{The Jolly Corner) del 1908; dalla complessa e angosciosa vicenda di
Stransom de L'altare dei morti {The Aitar of the Dead) del 1895, alla
vivace, brillante, ironica storia delle cugine Frush de La terza persona
{The Thìrd Versori) del 1900. Proprio per questo spero di essere riuscita
ugualmente... a rendere a James quel che è di James.
MARIA LUISA CASTELLANI AGOSTI
Ottobre 1988.
LA ROMANZESCA STORIA DI
CERTI VECCHI VESTITI
Verso la metà del XVIII secolo viveva nella colonia del Massachusetts
una gentildonna vedova, madre di tre figlioli, che rispondeva al nome di
Veronica Wingrave. Era rimasta vedova ancor giovane e si era dedicata
interamente ai figli. Questi crescevano in modo da compensarla delle sue
tenere cure e da esaudire le sue più rosee speranze. Il primogenito era un
maschio al quale era stato imposto il nome del padre, Bernard. Le altre due
erano femmine, nate a tre anni di distanza l'una dall'altra. La bellezza era
una tradizione di famiglia, né pareva che questi giovani volessero
consentirle d'estinguersi. Il ragazzo aveva quella costituzione bionda e
rosea e quella struttura atletica che, allora come oggi, è segno di puro
sangue inglese: era un giovinetto spontaneo, affettuoso, un figlio e un
fratello ideale, un amico fedele. Intelligente, però non lo era: le doti di
spirito della famiglia erano toccate in sorte soprattutto alle sorelle. Mr
Wingrave era stato un appassionato lettore di Shakespeare in un'epoca in
cui tale occupazione era, più che non sia oggi, indizio di una mente
perspicace, e in un ambiente nel quale esprimersi in favore del dramma
richiedeva una buona dose di coraggio persino in privato; e aveva
desiderato testimoniare la sua ammirazione per il grande poeta chiamando
le figlie con nomi tolti dai suoi lavori preferiti. Alla maggiore aveva
imposto quello affascinante di Rosalind ', mentre la minore l'aveva
chiamata col nome più serio di Perdita, in memoria della bambina nata fra
l'una e l'altra e vissuta solo poche settimane.
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Quando Bernard Wingrave ebbe compiuto i sedici anni, sua madre fece
appello al proprio coraggio e si preparò ad esaudire l'ultima richiesta del
marito: l'ordine perentorio, cioè, che, all'età giusta, il figliolo fosse
mandato in Inghilterra per completarvi l'educazione all'Università di
Oxford, dove egli stesso aveva imparato ad amare la letteratura classica.
Mrs Wingrave era convinta che l'uguale del figlio non fosse reperibile in
entrambi gli emisferi, ma era rispettosa delle antiche tradizioni che le
imponevano l'obbedienza assoluta. Così, soffocando i singhiozzi, preparò
al ragazzo il baule e un semplice corredo di provinciale, e lo mandò per la
sua strada al di là dei mari. Bernard fu iscritto al college del padre e
trascorse in Inghilterra cinque anni, non con grande onore, in verità, ma
divertendosi un mondo e senza gettar discredito sul proprio nome. Lasciata
l'università compi un viaggio in Francia. A ventitre anni s'imbarcò per far
ritorno in patria, preparato a trovare il povero piccolo New England (era
davvero molto piccolo allora) una residenza noiosa, antiquata. Ma c'erano
stati dei cambiamenti in casa, non meno che nelle opinioni di Bernard. Egli
trovò la casa materna abitabilissima, e le due sorelle trasformate in due
deliziose signorine, con tutte le prerogative di grazia delle giovani inglesi e
una certa innata simpatica brus-querie, un che di selvatico che, se non era
una dote, costituiva un'attrattiva in più. A quattr'occhi con la madre
Bernard le assicurò che le sorelle non sfiguravano a confronto con le
raffinate damigelle d'Inghilterra: al che, naturalmente, la povera Mrs
Wingrave spronò le figlie a camminare a testa alta. Tale era l'opinione di
Bernard, e tale, ma decuplicato, era il giudizio di Mr Arthur Lloyd. Questi,
mi affretterò ad aggiungere, era un compagno d'università di Bernard, un
giovane di famiglia onorata, bello d'aspetto e in vista d'u-n'eredità cospicua
che era in procinto d'investire nel commercio della fiorente colonia. Erano
amici intimi, lui e Bernard; avevano attraversato insieme l'oceano, e il
giovane americano non aveva indugiato a presentar l'amico in casa di sua
madre, dove aveva fatto la stessa buona impressione che aveva ricevuta e
di cui ho appena detto.
A quell'epoca le due sorelle erano nel fiore della loro freschezza
giovanile; e ciascuna se ne adornava, com'è naturale, nella maniera che più
le si confaceva. Erano, nell'aspetto e nel carattere, ugualmente dissimili.
Rosalind, la maggiore, che contava allora ventidue anni, era alta e pallida,
con tranquilli occhi grigi e trecce dai riflessi dorati; somigliava dunque ben
poco alla Rosalind di Shakespeare, che io mi raffiguro come una brunetta
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(se mi consentite), una creatura minuta, vivace, sensibile alle più delicate e
sottili emozioni. Rosalind Wingrave, con la sua carnagione chiara un poco
anemica, le sue belle braccia, la statura maestosa e la lenta loquela, non era
fatta per le avventure. Non avrebbe mai indossato una giacca da uomo o un
paio di pantaloni; il che, florida com'era - a prescindere dal suo innato
senso di dignità -, avrebbe forse fatto bene ad evitare. Anche Perdita
avrebbe potuto benissimo scambiare la dolce malinconia evocata dal suo
nome con qualcosa di più consono al suo aspetto e alla sua indole. Aveva
una carnagione da zingara e occhi infantili, ardenti, oltre al vitino più
sottile e i piedini più veloci di tutta la patria dei Puritani. Se le veniva
rivolta una domanda, lungi dal far aspettare una risposta com'era abitudine
della sua bella sorella (mentre teneva fisso sull'interlocutore lo sguardo dei
suoi occhi grigi un po' freddi), gliene avrebbe offerto la scelta fra una
mezza dozzina, prima che l'altro avesse avuto il tempo di esprimere solo la
metà del proprio pensiero.
Le due fanciulle furono lietissime di rivedere il fratello, il che non
impedì loro di riservare un'ampia dose di buona accoglienza al suo
compagno. Tra i loro amici e vicini di casa, la belle jeunesse della colonia,
v'erano molti giovanotti eccellenti, parecchi devoti corteggiatori, e due o
tre che godevano fama di conquistatori affascinanti. Ma l'educazione
casalinga e la galanteria alquanto rumorosa di quell'onesta gioventù
coloniale venivano completamente eclissate dal bell'aspetto, dal vestire
raffinato, dall''empressement rispettoso, dal tratto squisito e lo sconfinato
sapere di Mr Arthur Lloyd. In verità nessuno reggeva al suo confronto: era
un giovane sincero, risoluto, intelligente, educato, ricco di sterline, di
salute, di rosee speranze e del suo piccolo capitale di affetti non investiti.
Ma era anche un gentiluomo: aveva bei tratti, aveva studiato e viaggiato;
parlava il francese, suonava il flauto e leggeva versi ad alta voce con
grande finezza di gusto. C'erano abbondanti ragioni perché da quel
momento in poi le signorine Wingrave facessero le difficili nella scelta
delle loro conoscenze maschili. Alle nostre giovinette del New England i
discorsi di Mr Lloyd rivelarono molte più cose di quant'egli potesse
immaginare sugli usi e costumi della gente alla moda delle capitali
europee. Era così piacevole starlo a sentire quando, con Bernard,
discorreva della bella società e delle belle cose che avevano vedute. Dopo
il tè si radunavano intorno al fuoco nel salottino dalle pareti rivestite di
legno; e allora, uno di qua, uno di là dal camino, i due giovani rievocavano
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questa o quella o quell'altra avventura. Rosalind e Perdita avrebbero spesso
dato volentieri qualcosa per sapere di che specie d'avventura si trattasse, e
dove aveva avuto luogo, e chi c'era, e com'erano vestite le signore; ma
allora non s'usava che una giovane ben educata s'intromettesse di propria
iniziativa nella conversazione e facesse troppe domande; e le poverine se
ne restavano lì, emozionate e agitate, costrette a dipendere dalla più flebile
- o più discreta - curiosità della loro mamma.
Che le sorelle fossero due ragazze molto carine Arthur Lloyd non ci
mise molto a scoprirlo; ma gli ci volle un po' di tempo per decidere quale
delle due sorelle gli piacesse di più: se la maggiore o la più piccola. Aveva
il netto presentimento - una sensazione di carattere troppo lieto
nell'insieme per potersi definire un presagio - d'essere destinato a
comparire davanti al pastore con una delle due; eppure era incapace di
formulare una preferenza. Se quella doveva essere la conclusione, una
preferenza era certo indispensabile, tanto più che Lloyd era troppo giovane
per accettare l'idea di lasciare la propria scelta al caso e rinunciare alla
gioia d'innamorarsi. Decise di dare tempo al tempo e di lasciar parlare il
cuore. Intanto era in una situazione ideale. Mrs Wingrave mostrava
un'indifferenza dignitosa verso le sue «intenzioni», ugualmente lontana dal
trascurare l'onore delle figliole e dal mostrare quella premurosa alacrità di
indurlo a pronunciarsi che, nella sua qualità di giovane facoltoso, troppe
volte egli aveva dovuto riscontrare nelle madri nobili delle sue isole natali.
Quanto a Bernard, non chiedeva di meglio che l'amico considerasse le
sorelle come sorelle sue; e quanto alle due giovinette, benché forse
ciascuna aspirasse in segreto al monopolio delle attenzioni di Mr Lloyd,
mantenevano un contegno irreprensibile, improntato a lieta modestia.
Nel loro rapporto reciproco, tuttavia, stavano piuttosto sul chi vive.
Erano buone amiche fraterne, e concilianti compagne di letto (dividevano
infatti il lettone a quattro colonne) e più d'un giorno sarebbe occorso
perché tra loro germogliassero e fruttificassero i semi della gelosia; le due
ragazze avevano però l'impressione che quei semi fossero stati gettati nel
giorno stesso in cui Mr Lloyd aveva posto piede in casa loro. Ognuna
aveva deciso che, se disprezzata, avrebbe sopportato il suo dolore in
silenzio e nessuno ne avrebbe saputo nulla; poiché, se erano capaci di
molto amor proprio, erano anche fornite di una buona dose di orgoglio. Ma
ciascuna nel proprio intimo pregava che, malgrado tutto, la scelta, la
preferenza di Lloyd cadesse su di lei. Abbisognavano certo di molta
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1970 - Racconti Di Fantasmi
pazienza, di molto dominio di sé, di molta capacità di dissimulazione. A
nessuna ragazza di buona famiglia era lecito, a quei tempi, prendere la
minima iniziativa; le era soltanto consentito rispondere a quelle che
venivano prese. Una ragazza doveva starsene seduta sulla propria seggiola
con gli occhi rivolti al tappeto, lo sguardo fisso sul punto dove sarebbe
caduto il fatidico fazzoletto. Il povero Arthur Lloyd era costretto a fare la
sua corte nel salottino boisé, sotto gli occhi di Mrs Wingrave, del di lei
figlio e dell'eventuale cognata. Ma così scaltri sono giovinezza e amore
che cento piccoli indizi e pegni si sarebbero potuti scambiare senza che
nessuno di quei sei occhi ne captasse il passaggio. Le due giovani, l'una in
quasi costante compagnia dell'altra, avevano infinite occasioni di tradirsi.
Che ciascuna sapesse d'essere osservata non causava però la minima
differenza in quei piccoli favori che si rendevano a vicenda, o nelle varie
mansioni casalinghe che assolvevano insieme. Né l'una né l'altra dava
segno di timore o d'agitazione sotto il muto dardeggiare degli occhi della
sorella. L'unico visibile mutamento nelle loro abitudini fu che ebbero
meno da dirsi. Parlare del signor Lloyd era impossibile, e parlar d'altro era
ridicolo. Per tacito accordo cominciarono a mettersi i vestiti più belli, a
escogitare dei piccoli espedienti di civetteria in materia di nastri, gale e
falpalà consentiti nell'ambito d'un'indiscussa modestia. Trattando fra loro a
mezza bocca quegli argomenti delicati, osservavano un piccolo patto di
sincerità. «Va meglio così?» chiedeva ad esempio Rosalind appuntandosi
sul petto un fiocco di nastri e volgendosi dallo specchio alla sorella; e
Perdita alzava compuntamente gli occhi dal lavoro per esaminare la
guarnizione. «Direi che faresti bene ad aggiungerne ancora uno»,
rispondeva con molta gravità alla sorella, mentre il suo sguardo sembrava
aggiungere: «parola d'onore». così continuavano a cucire e ad abbellire le
loro gonnelle, a stirarsi le mussole, a inventar lozioni, pomate e cosmetici,
come le signore nella casa del vicario di Wakefield. Trascorsero tre o
quattro mesi: si entrava nel pieno inverno, e Rosalind per il momento
sapeva che, se Perdita non aveva motivo di vantarsi più di lei, la sua
rivalità destava ben pochi timori. Ma contemporaneamente Perdita, la
deliziosa Perdita, sentiva che il suo segreto era diventato dieci volte più
prezioso di quello della sorella.
Un pomeriggio Rosalind stava seduta, sola - il che accadeva di rado davanti allo specchio della toeletta, intenta a pettinarsi i lunghi capelli. Si
stava facendo troppo buio per vederci ancora: accese allora le due candele
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1970 - Racconti Di Fantasmi
nei bocciuoli fissati alla cornice dello specchio e andò alla finestra per
tirare le tende. Era una grigia sera decembrina: il paesaggio era nudo e
brullo, il cielo carico di nuvole di neve. In fondo al grande giardino su cui
si affacciava la finestra c'era un muro, con una porticina posteriore che
s'apriva su un viottolo. Per quanto potè discernere nell'oscurità crescente,
la porta era semiaperta e si muoveva lentamente avanti e indietro, come se
qualcuno la sospingesse dalla strada. Senza dubbio era una delle cameriere
che aveva avuto appuntamento con l'innamorato. Ma, nell'atto di far
ricadere la tendina, Rosalind scorse la sorella affrettarsi per il viale del
giardino verso casa. Riaccostò la tenda, lasciando soltanto uno spiraglio
per vedere. Perdita stava risalendo il viale e sembrava esaminare qualcosa
che teneva in mano, avvicinandosela agli occhi. Raggiunta la casa, si
fermò un istante, guardò attentamente l'oggetto e se lo premette alle labbra.
La povera Rosalind tornò lentamente a sedersi davanti allo specchio; se
vi avesse posato uno sguardo meno distratto, vi avrebbe scorto i suoi bei
tratti tristemente alterati dalla gelosia. Poco dopo l'uscio si aperse alle sue
spalle e Perdita entrò ansimando nella stanza, con le guance rosse per l'aria
frizzante.
Trasalì. - Ah, - disse, - credevo che fossi con la mamma -. Era previsto
un ricevimento di signore, e in quelle occasioni una delle due ragazze era
solita assistere la madre nel cambiarsi d'abito. Invece di entrare, Perdita
indugiava sulla soglia.
- Vieni, vieni avanti, - disse Rosalind. - C'è ancora più di un'ora di
tempo. Volevo proprio pregarti di dare qualche colpo di spazzola ai miei
capelli -. Sapeva che la sorella desiderava ritirarsi, e che lei poteva
sorvegliare dallo specchio tutti i movimenti nella stanza. - Via, aiutami con
questi capelli, - soggiunse. - Poi vado io dalla mamma.
Perdita si fece avanti contro voglia e prese la spazzola. Vedeva nello
specchio gli occhi dell'altra fissi sulle sue mani. Non aveva dato tre passate
che Rosalind afferrò con la mano destra la sinistra della sorella e balzò su
dalla sedia. - Di chi è quest'anello? - esclamò con veemenza, attirandola
verso la luce.
Sul medio della fanciulla brillava un anellino d'oro, adorno di un
minuscolo zaffiro. Perdita comprese di non dover mantenere oltre il
segreto; era però necessario rivelarlo con baldanza. - E mio, - dichiarò
orgogliosa.
- Chi te l'ha dato? - gridò l'altra.
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1970 - Racconti Di Fantasmi
Perdita esitò un istante. - Mr Lloyd, - disse.
- E diventato generoso tutt'a un tratto, Mr Lloyd.
- Eh no! - esclamò pronta Perdita. - Non tutt'a un tratto. È già un mese
che me l'ha offerto.
- E a te è bastato farti corteggiare un mese per accettarlo? - fece
Rosalind guardando il gioiellino, in verità non particolarmente raffinato,
ma quanto di meglio poteva offrire l'orefice di provincia.
- Io l'avrei fatto aspettare almeno due mesi!
- Non è l'anello che conta, - replicò Perdita, - è ciò che significa!
- Significa che non sei una ragazza ammodo, - esclamò Rosalind. Vorrei sapere: e informata la mamma della tua condotta? Ne è informato
Bernard?
- La mamma ha approvato la mia 'condotta', come tu la chiami. Mr
Lloyd ha chiesto la mia mano, e mamma gliel'ha concessa. Avresti voluto
che chiedesse la tua, sorella carissima?
Rosalind le rivolse un lunga occhiata, piena di rovente invidia e di
sofferenza. Poi abbassò le ciglia sulle guance pallide e si scostò. Perdita si
rendeva conto che la scena era stata spiacevole; ma la colpa era della
sorella. Questa, tuttavia, ritrovò il proprio orgoglio e tornò sui suoi passi. Ti faccio i miei migliori auguri, - le disse con un leggero inchino. - Ti
auguro ogni felicità e lunghissima vita.
Perdita uscì in un riso amaro. - Non parlarmi in quel tono, -esclamò. Preferirei che mi maledicessi di tutto cuore. Via, sorellina, - aggiunse, non poteva mica sposarci tutt'e due!
- Ti auguro ogni bene possibile, - ripetè Rosalind come un automa,
risedendosi davanti allo specchio, - una lunga vita e un mucchio di figli.
C'era qualcosa nel suono di quelle parole che non piacque affatto a
Perdita. - Un anno almeno me lo concedi? - le domandò. - In un anno
posso avere un bel maschietto... o magari una bambina. Se mi ridai la
spazzola, ti aggiusto i capelli.
- Grazie, - rispose Rosalind. - Sarà meglio che tu raggiunga la mamma.
Non sta bene che una signorina fidanzata si prenda cura di una ragazza che
non lo è.
- Ma andiamo, - ribatté Perdita ritrovando il suo buon umore.
- Io ho Arthur che si prende cura di me. Hai più bisogno tu del mio aiuto
che io del tuo.
Ma la sorella la spinse fuori. Perdita usci e, quando se ne fu andata, la
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1970 - Racconti Di Fantasmi
povera Rosalind cadde in ginocchio davanti alla toeletta, nascose la testa
fra le braccia e versò un fiume di lagrime fra i singhiozzi. Dopo quello
sfogo si senti molto meglio. Quando Perdita rientrò nella stanza, Rosalind
insistè nelTaiutarla a vestirsi, nel farle indossare ciò che aveva di più bello.
La indusse ad accettare un suo merletto: adesso che era fidanzata, affermò,
doveva fare del suo meglio per apparir degna della scelta del suo
pretendente. Assolse tali servigi con laconico rigore, ma si trattò appunto
di puri servigi, intesi a chieder perdono, a offrire riparazione; e non ne
prestò più altri.
Ora che Lloyd era ricevuto in famiglia come fidanzato ufficiale, non
rimaneva che stabilire la data del matrimonio. Si decise per il prossimo
aprile, e nel frattempo si attese con diligenza ai preparativi per le nozze.
Lloyd, dal canto suo, era assorbito da impegni d'affari: voleva iniziare un
rapporto di scambio con l'importante ditta commerciale inglese con la
quale era entrato in relazione. Non fu più dunque l'assiduo frequentatore di
casa Wingrave ch'era stato durante i mesi della sua irresoluta perplessità,
sicché lo spettacolo delle tenerezze reciproche dei due innamorati fece
soffrire la povera Rosalind meno di quanto avesse temuto. Nei confronti
della futura cognata Lloyd si sentiva la coscienza perfettamente tranquilla.
Non c'era mai stata fra loro la minima sfumatura di sentimento, ed egli non
nutrì mai il minimo sospetto ch'ella avesse aspirato a qualcosa di più d'un
affetto fraterno. Arthur si sentiva del tutto a suo agio: la vita prometteva
così bene, sia dal lato domestico che finanziario! La grande rivolta delle
Colonie non era ancora nell'aria, e temere che la sua felicità coniugale
potesse prendere una piega tragica era un pensiero assurdo, blasfemo.
Intanto in casa della signora Wingrave più che mai frusciavano sete,
risuonavano i colpi secchi delle forbici, gli aghi correvano veloci. La brava
signora aveva deciso che la figliola dovesse portarsi via di casa il corredo
più elegante che i suoi mezzi le consentissero o che la contrada potesse
fornire. Furono convocate tutte le esperte comari della contea e tutte
insieme furono chiamate a influire col loro gusto sul corredo di Perdita. La
posizione di Rosalind in quel momento non era certo invidiabile. La
poverina nutriva per i vestiti una passione smodata e un gusto
assolutamente squisito, come sua sorella sapeva benissimo. Rosalind era
alta, era maestosa e fiorente, era fatta per portar rigidi broccati e ricche
trine pesanti, come si conviene all'abbigliamento della consorte d'un uomo
facoltoso. Ma, mentre la madre e la sorella e le rispettabili signore di cui
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s'è detto si occupavano e si scervellavano sui diversi tessuti, sopraffatte
dall'abbondanza delle risorse a loro disposizione, Rosalind se ne stava
seduta in disparte, le belle braccia incrociate in grembo e il capo rivolto
altrove. Un giorno arrivò in casa un bel taglio di seta bianca damascata in
turchino e argento, mandato dal fidanzato stesso, giacché a quei tempi non
si considerava sconveniente che lo sposo prescelto contribuisse al corredo
della sua promessa. Perdita era incapace d'immaginare un modello e degli
ornamenti che valorizzassero in maniera adeguata lo splendore della stoffa.
- L'azzurro è un colore più adatto a te che a me, sorella, - disse con uno
sguardo afflitto. - Che peccato che non sia per te: tu sapresti che cosa
farne.
Rosalind s'alzò dal suo posto e guardò il grande tessuto lucente spiegato
sullo schienale d'una sedia. Poi lo sollevò tra le mani, lo palpò con amore Perdita se ne rese ben conto - e si voltò verso lo specchio. Ne lasciò cadere
un capo fino ai piedi drappeggiandone l'altra estremità su una spalla e
trattenendolo intorno alla vita col braccio bianco, nudo fino al gomito.
Gettò il capo all'indietro e rimirò la sua immagine, mentre una treccia dei
suoi capelli dorati ricadeva sulla superficie sgargiante della seta. Il quadro
era di una bellezza abbagliante. Le comari all'intorno emisero un piccolo
«oh!» di meraviglia. - Sì, è vero, - ammise Rosalind in tono pacato,
-l'azzurro è il colore che fa per me -. Ma Perdita capì che la fantasia della
sorella era stata stimolata e che ora si sarebbe messa al lavoro per risolvere
tutti i loro serici enigmi. E in verità si comportò benissimo, come Perdita
era stata pronta ad affermare, conoscendo lo sconfinato amore di Rosalind
per l'abbigliamento. Metri e metri di belle sete, di rasi, di mussole, di
velluti e merletti passarono per le mani esperte di Rosalind, senza che mai
una parola d'invidia le uscisse dalle labbra. Grazie ai suoi sforzi, il giorno
delle nozze Perdita era pronta a sposare vanità mondane in numero
superiore a qualsiasi altra emozionata fanciulla che mai avesse affrontato
la benedizione sacramentale di un ecclesiastico del New England.
Era stato convenuto che la giovane coppia passasse i primi giorni di vita
coniugale nella villa di campagna di un gentiluomo inglese, persona
altolocata e ottimo amico di Arthur Lloyd, uno scapolo che si era
dichiarato lietissimo di lasciare libero il campo agli influssi di Imene.
Dopo la cerimonia in chiesa (officiata da un sacerdote inglese) la giovane
signora Lloyd s'affrettò a tornare alla casa materna per mutare le vesti
nuziali con un costume da amazzone. Rosalind l'aiutò a cambiar d'abito
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1970 - Racconti Di Fantasmi
nella vecchia cameretta che le aveva viste sorelle affettuose. Poi Perdita
uscì in fretta per salutare la madre, pensando che Rosalind la seguisse.
L'addio fu breve: i cavalli erano alla porta, e Arthur impaziente di partire.
Ma Rosalind non l'aveva seguita, e Perdita salì in fretta in camera,
spalancando l'uscio di colpo. Come al solito, Rosalind stava davanti allo
specchio, ma in un atteggiamento che fece rimaner l'altra ferma sui due
piedi, sbigottita. S'era posati sul capo il velo e la ghirlanda da sposa
deposti da Perdita, e aveva agganciato intorno al collo il pesante filo di
perle che la sorella aveva ricevuto dal marito come dono nuziale. Questi
oggetti erano stati messi affrettatamente in disparte, in attesa del ritorno
dalla campagna della loro proprietaria. Così stranamente agghindata,
Rosalind stava ritta davanti allo specchio, indugiando con lo sguardo nella
profondità del cristallo e scorgendovi Dio sa quali visioni audaci. Perdita
ne fu orripilata. Vide risorgere l'odioso spettacolo della loro antica rivalità.
Fece un passo verso la sorella, come per strapparle di dosso velo e fiori.
Ma, incontrando nello specchio gli occhi di Rosalind, s'arrestò.
- Addio, cocca, - disse. - Potevi almeno aspettare che fossi uscita di casa
-. E abbandonò di corsa la stanza.
A Boston Mr Lloyd aveva acquistato una casa che, secondo il gusto di
quei tempi, era considerata una meraviglia di eleganza e di comodità; e
ben presto vi si stabili con la giovane moglie. Una distanza di venti miglia
lo separava dalla dimora della suocera. In quell'epoca tanto primitiva in
materia di strade e di mezzi di trasporto, venti miglia equivalevano a cento
del giorno d'oggi; di conseguenza, Mrs Wingrave ebbe solo rare occasioni
di vedere sua figlia nei primi dodici mesi del suo matrimonio. Di tale
assenza ella soffriva non poco; né la sua pena era certo diminuita dal fatto
che Rosalind era caduta in uno stato di terribile depressione, tale da
rendere indispensabile per la sua salute un cambiamento d'aria e
d'ambiente. Il lettore non durerà fatica a sospettare quale fosse la vera
causa di quell'abbattimento. Mrs Wingrave e le sue comari ritenevano però
che il malessere della fanciulla fosse unicamente fisico e non dubitavano
che il rimedio suaccennato le avrebbe portato sollievo. Per il bene della
figliola la madre propose dunque di mandarla in visita da certi parenti da
parte di padre residenti a New York, i quali da tempo si lagnavano di
vedere tanto di rado le cugine del New England. Così Rosalind fu spedita,
sotto conveniente scorta, da quelle brave persone, e vi rimase per parecchi
mesi.
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Nel frattempo suo fratello Bernard, che aveva cominciato a far pratica
legale, decise di prender moglie. Rosalind fece ritorno a casa per il
matrimonio, in apparenza guarita della sua profonda malinconia, con un
autentico color di rose e di gigli sulle guance e un fiero sorriso sulle
labbra. Arthur Lloyd venne da Boston per assistere alle nozze del cognato,
ma senza la moglie, che attendeva da un momento all'altro di fargli dono di
un erede. Era passato quasi un anno da quando Rosalind l'aveva visto
l'ultima volta. Non avrebbe saputo dire perché, ma era contenta che Perdita
fosse rimasta a casa. Arthur aveva l'aria felice, ma era più serio e
contegnoso di prima del matrimonio. Rosalind lo trovò «interessante»,
termine che - sebbene, nel senso attuale, a quei tempi non fosse stato
ancora inventato - sicuramente rende bene l'idea. La verità è che Arthur era
in ansia per lo stato di sua moglie e il suo imminente travaglio. Ciò non ali
impedì tuttavia di constatare come la bellezza e lo splendore di Rosalind
fossero tali da offuscare completamente l'immagine della sua povera
sposina. La medesima somma che era stata concessa a Perdita per il suo
abito nuziale era stata ora assegnata alla sorella, e questa, senza dubbio,
aveva saputo metterla a buon frutto. All'indomani del matrimonio Arthur
fece sellare all'amazzone il cavallo del domestico venuto con lui dalla città
e uscì con la fanciulla per una cavalcata. Era un mattino di gennaio sereno
e pungente, il suolo era brullo e duro e i cavalli in buone condizioni - per
tacer di Rosalind, incantevole con quel suo cappello piumato e la tenuta
d'amazzone turchino cupo, orlata di pelliccia. Cavalcarono tutta la mattina,
smarrirono la strada e all'ora di pranzo furono costretti a fermarsi in una
fattoria. Quando giunsero a casa era già calato il precoce crepuscolo
invernale. Mrs Wingrave andò loro incontro con aria preoccupata. A
mezzogiorno era arrivato un messaggero di Mrs Lloyd: erano cominciate
le doglie e pregava il marito di tornare subito a casa. Al pensiero di aver
perso tante ore il giovane uscì in un'imprecazione: con una buona
galoppata a quell'ora sarebbe stato già accanto alla moglie! Acconsenti
solo a fermarsi per un boccone di cena, poi montò in sella al cavallo del
messaggero e parti al galoppo.
Arrivò a casa a mezzanotte. La moglie aveva dato alla luce una bambina.
- Ah! - esclamò quand'egli si accostò al suo letto, - perché non sei rimasto
con me?
- Quando giunse il tuo incaricato ero fuori. Ero con Rosalind, - rispose
candidamente Lloyd.
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La moglie emise un debole lamento e gli volse le spalle. Continuò
tuttavia a sentirsi meglio, e per una settimana la ripresa durò ininterrotta.
Ma infine, fosse per un eccesso di dieta o per un'infreddatura, il
miglioramento cessò e la poverina andò rapidamente peggiorando. Lloyd
era disperato. Fu presto evidente che la sua ultima ora era vicina. Perdita,
cosciente della fine prossima, dichiarò d'essere rassegnata alla morte. Tre
sere dopo l'improvviso aggravamento disse al marito di sentire che non
avrebbe passato la notte. Fece allontanare i domestici e pregò anche la
madre, arrivata il giorno prima, di ritirarsi. S'era fatta portare la neonata
nel letto accanto a lei e stava sdraiata su un fianco, con la piccina contro il
seno e le mani del marito strette fra le sue. La lampada notturna era
nascosta dietro le pesanti cortine del letto, ma la stanza era rischiarata dalla
rossa fiamma proveniente dal gran fuoco di ceppi nel camino.
- Sembra strano non ritrovare vita davanti a un fuoco come questo, disse la giovane donna, tentando un debole sorriso.
- Avessi soltanto un po' di quel fuoco nelle vene! Ma il mio fuoc0 l'ho
donato tutto a questa piccola favilla mortale -. E abbassò gì: occhi sulla
bambina. Poi li alzò verso il marito e lo fissò con un lungo sguardo
penetrante. L'ultimo sentimento che indugiava nel suo cuore era di
sospetto. Non era riuscita a riprendersi dal colpo infertole da Arthur
quando egli le aveva detto che nell'ora del suo travaglio era stato con
Rosalind. Aveva fede nel marito quasi pari all'amore che gli portava; ma
ora, sul punto di scomparire per sempre, provava nei confronti della sorella
un senso di gelido terrore. Intuiva nell'intimo che Rosalind non aveva mai
cessato d'invidiarle la sua buona sorte; un anno di serena sicurezza non
aveva cancellato in lei l'immagine della fanciulla ornata dei suoi paramenti
nuziali, sorridente di finto trionfo. Adesso che Arthur restava solo, che
cosa non avrebbe fatto Rosalind? Era bella, era seducente; a quali arti non
avrebbe ricorso, quale influenza non avrebbe esercitato sull'animo afflitto
del giovane? Mrs Lloyd guardò suo marito in silenzio. Sembrava difficile,
dopo tutto, dubitare della sua costanza. I begli occhi di lui erano pieni di
lagrime, il viso era alterato dal pianto, la stretta delle sue mani era calda e
appassionata. Che aspetto nobile aveva, com'era tenero, leale, devoto!
«No, - pensò Perdita, - lui non è fatto per una come Rosalind. Lui non mi
dimenticherà mai. Del resto, lei non lo ama veramente: ama soltanto i
fronzoli, i bei vestiti, i gioielli». E abbassò lo sguardo sulle sue bianche
mani che la generosità del marito aveva ricoperto d'anelli, sulle crespe di
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merletto che guarnivano i bordi della sua camicia da notte. «Tiene più ai
miei anelli e alle mie trine che a mio marito», si disse.
Fu come se, in quel momento, al pensiero dell'avidità della sorella,
un'ombra scura si frapponesse tra Perdita e il corpicino indifeso della
piccola. - Arthur, - gli disse, - devi togliermi gli anelli, non li voglio con
me nella tomba. Un giorno li porterà mia figlia: i miei anelli, i miei
merletti, le mie sete. Li ho fatti tirar fuori tutti, oggi, e me li son fatti
mostrare. È un guardaroba meraviglioso, non ce n'è d'uguale nella
provincia: posso dirlo senza vanto ora che sto per lasciarlo. Per la bambina
sarà un'eredità preziosa, quando sarà donna. Alcune di quelle cose un
uomo può permettersi di comprarle una sola volta: se andassero perdute
non le vedresti mai più. Perciò dovrai custodirle gelosamente. Una dozzina
di capi li ho lasciati a Rosalind; li ho tutti specificati a mia madre. Le ho
dato quell'abito azzurro e argento: era proprio fatto per lei. Io l'ho messo
una volta sola: mi faceva sembrar malata. Ma tutto il resto dev'essere
religiosamente conservato per questa piccola innocente. Che fortuna che
abbia la mia stessa carnagione! I miei vestiti le staranno bene; ha gli occhi
della sua mamma. A vent'anni di distanza, lo sai, la roba torna di moda,
così lei potrà portare tutto tale e quale. E intanto il mio corredo starà lì ad
aspettare che lei cresca, conservato nella canfora e nelle foglie di rosa, e in
quell'oscurità profumata non perderà i suoi colori. Nostra figlia avrà i
capelli neri, dovrà portare la mia veste di seta rosa, come me. Me lo
prometti, Arthur?
- Prometterti che cosa, tesoro?
- Prometti di conservare i vecchi vestiti della tua povera mogliettina.
- Hai paura che li venda?
- No, ma che vadano dispersi. La mamma provvederà a farli avvolgere
bene, e tu li metterai in disparte, chiusi sotto chiave a doppia mandata. Ti
ricordi quel cassone che c'è in solaio, quello listato di ferro? Lì dentro ci
sta ogni bendidio. Puoi metterceli dentro tutti. Se ne occuperanno la
mamma e la governante, e consegneranno a te la chiave. E tu terrai la
chiave nel tuo scrittoio e non la darai mai a nessuno se non a tua figlia. Me
lo prometti?
- Ma certo, te lo prometto, - rispose Lloyd, stupito della forza con cui la
moglie pareva aggrapparsi a quell'idea.
- Lo giuri? - ripetè Perdita.
- Sì, lo giuro.
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- Va bene... mi fido di te... mi fido di te, - ripetè la poverina, fissandolo
negli occhi con uno sguardo nel quale, s'egli avesse soltanto sospettato le
sue apprensioni, avrebbe letto una supplica non meno che una certezza.
Arthur sopportò il suo lutto con virile fermezza. Un mese dopo la morte
della moglie, nel corso del suo lavoro, emersero circostanze che gli
offrirono occasione di recarsi in Inghilterra, ed egli accolse quella
possibilità per cambiare corso ai suoi pensieri. Rimase lontano quasi un
anno, durante il quale la sua figlioletta fu teneramente allevata e curata
dalla nonna. Al suo ritorno Lloyd fece riaprir casa e annunciò l'intenzione
di mantenere lo stesso tenore di vita che aveva prima della morte della
moglie. Ben presto si sparse la voce che si sarebbe risposato, e vi fu
effettivamente almeno una decina di fanciulle delle quali non si può
davvero dire che fosse colpa loro se, nei sei mesi successivi al suo ritorno,
la previsione non si avverò. In quel periodo continuò a lasciare la piccola
affidata alle mani di Mrs Wingrave, la quale asseriva che un cambiamento
d'ambiente in così tenera età poteva nuocere alla piccina. Ma alla fine
Arthur dichiarò di struggersi dal desiderio di quella minuscola presenza;
chiese che gli rosse rimandata in città, e spedi la governante a prenderla
con la carrozza. Mrs Wingrave fu presa dall'angoscia che nel viaggio
potesse succedere qualcosa alla nipotina; Rosalind, rispettosa del
sentimento della madre, si offri allora di accompagnarla: sarebbe tornata il
giorno dopo. Così raggiunse Boston con la bambina, e Arthur l'accolse
sulla soglia di casa, commosso da tanta gentilezza e da un sentimento di
paterna gratitudine. Invece di rientrare l'indomani, Rosalind rimase in città
tutta la settimana; e quando finalmente fece ritorno, fu soltanto per
prendersi del vestiario. Arthur non aveva voluto sentir parlare di un suo
ritorno a casa, e così pure la nipotina. Appena Rosalind la lasciava sola,
quella personcina piangeva e singhiozzava; Arthur a quello spettacolo
quasi perdeva la testa, giurando che il dolore avrebbe ucciso la figlia.
Insomma, l'unica soluzione fu che Rosalind rimanesse con loro finché la
piccina si fosse abituata ai visi estranei.
Ci vollero due mesi per arrivare a tanto: soltanto allo scadere di quel
termine, infatti, Rosalind si accomiatò dal cognato. Mrs Wingrave era
insofferente della lontananza della figlia; non era cosa per bene, aveva
protestato, in provincia ne parlavano tutti. Lei vi si era rassegnata soltanto
perché, durante l'assenza di Rosalind, la casa aveva goduto di un insolito
periodo di quiete. Bernard Wingrave aveva portato ad abitare lì sua
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moglie, e fra le cognate esisteva un'aperta ostilità. Rosalind forse non era
un angelo, ma nel trantran quotidiano era abbastanza di buon carattere e, se
bisticciava con la moglie di Bernard, non era che non vi fosse provocata.
Comunque bisticciava, con gran fastidio non solo della sua avversaria, ma
anche dei due spettatori di quel costante litigio. Le sarebbe stato, perciò,
quanto mai gradito vivere presso il cognato, se non altro per starsene
lontana dall'oggetto della sua antipatia presente in casa; e doppiamente
gradito le era - anzi, dieci volte di più - in quanto le permetteva di restare
vicina all'oggetto della sua antica fiamma. Gli acuti sospetti della povera
Mrs Lloyd circa i sentimenti di Rosalind per il marito erano stati ancora
ben lontani dalla realtà.
Fin dal principio per Rosalind s'era trattato di una passione, e una
passione rimaneva: una passione del cui calore irraggiante, in armonia con
la delicata condizione del suo stato d'animo, Lloyd ben presto risentì
l'influsso. Come ho detto, egli non era un moderno Petrarca: l'attenersi a
un'ideale costanza non rientrava nella sua natura. Non erano passati molti
giorni di convivenza con la cognata quando incominciò a convincersi che per usare il linguaggio dell'epoca -quella donna era «diabolicamente
bella». Inutile indagare se Rosalind mettesse veramente in pratica quelle
arti insidiose che la sorella era stata tentata di attribuirle. Basti dire che
essa trovò modo di mostrarsi a proprio totale vantaggio. Ogni mattina si
sedeva davanti al gran camino della sala da pranzo, intenta a un ricamo a
mezzo punto mentre la nipotina si trastullava con i gomitoli della sua lana
sul tappeto davanti a lei, o sullo strascico della sua veste. Lloyd sarebbe
stato uno stupido se fosse rimasto insensibile alle suggestioni di quel
quadretto affascinante. Voleva un bene dell'anima alla sua bambina e non
si stancava mai di prenderla in braccio, di gettarla in aria e riprenderla al
volo mentre lei mandava gridolini di gioia. Molto spesso però
s'abbandonava a giochi ancora troppo arrischiati per la fanciullina che
manifestava con urla il suo scontento. Rosalind allora posava il ricamo e
tendeva le belle mani, con il sorriso serio della fanciulla cui la vergine
fantasia ha rivelato tutti i segreti delle consolatrici arti materne. Lloyd le
cedeva la piccola, i loro sguardi s'incontravano, le loro mani si toccavano,
e Rosalind riusciva a spegnere i singhiozzi della creaturina tra le pieghe
del candido fisciù incrociato sul suo seno. Dignitosa com'era, nulla poteva
essere meno invadente del modo in cui accettava l'ospitalità del cognato. Si
potrebbe quasi dire, anzi, che nel suo riserbo vi fosse un che di scostante.
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1970 - Racconti Di Fantasmi
Lloyd provava la sconcertante impressione ch'ella vivesse in casa sua e
fosse tuttavia inavvicinabile. Mezz'ora dopo cena, al primo infittirsi delle
lunghe sere d'inverno, Rosalind accendeva la sua candela, faceva al suo
ospite un rispettosissimo inchino e se ne andava a letto. Se queste erano
arti, Rosalind era una grande artista. Ma il loro effetto risultava così
delicato, così graduale, così ben dosato ad esercitare sull'animo del
giovane vedovo un crescendo finemente smorzato che, come il lettore ha
visto, parecchie settimane trascorsero prima che Rosalind cominciasse a
sentirsi sicura che le sue entrate avrebbero compensato le spese. Allorché
ne fu intimamente persuasa, fece il baule e riprese la via di casa. Per tre
giorni aspettò; al quarto giorno Mr Lloyd comparve, pretendente rispettoso
ma pieno d'ardore. Rosalind lo stette ad ascoltare con grande umiltà e lo
accettò con infinita modestia. E difficile supporre che Mrs Lloyd avrebbe
perdonato il marito; ma se qualcosa avesse potuto annullare quel
risentimento, sarebbe stato il comportamento cerimonioso di
quell'incontro. Rosalind impose al fidanzato un periodo d'attesa assai
breve. Si sposarono, com'era doveroso, con una cerimonia molto intima quasi in segreto -, forse nella speranza che, come si disse allora per celia,
la defunta Mrs Lloyd non lo venisse a sapere.
Il matrimonio appariva felice sotto ogni aspetto: ognuno dei contraenti
aveva ottenuto ciò che aveva desiderato: Lloyd «una donna diabolicamente
bella», e Rosalind... ma i desideri di Rosalind, come il lettore avrà
osservato, sono rimasti un bel mistero. A vero dire, due nubi oscuravano la
loro felicità, ma il tempo forse le avrebbe dissipate. Durante i primi tre
anni di matrimonio la nuova Mrs Lloyd non riuscì a diventare madre, e dal
canto suo il marito subì gravi perdite di denaro. Quest'ultima circostanza
comportò una riduzione delle spese di casa, e Rosalind dovette adattarsi a
non essere la gran signora ch'era stata sua sorella. Ella fece in modo,
tuttavia, di sostenere senza soluzione di continuità la parte della signora
elegante, il che - bisogna ammetterlo - richiedeva un'applicazione di
maggiore ingegnosità di quanto non ne esiga la serenità di spirito d'una
vera aristocratica. Da molto tempo Rosalind aveva appurato che il
vastissimo guardaroba di sua sorella era stato requisito a beneficio della
figlia e che languiva nel buio spietato del polveroso solaio. C'era da
rivoltarsi al solo pensiero che quegli splendidi manufatti dovessero
aspettare gli ordini d'una bimbetta in seggiolone, che mangiava pane e latte
col cucchiaio di legno. Per diversi mesi, tuttavia, Rosalind ebbe il buon
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1970 - Racconti Di Fantasmi
gusto di non parlare della faccenda. Poi, finalmente, avviò un timido
discorso con il marito. Non era un peccato che tanta bella roba andasse
perduta? Perché sarebbe stata certo perduta: le tinte si sarebbero sbiadite,
le tarme ne avrebbero fatto scempio, sarebbe cambiata la moda. Ma Lloyd
rispose alla sua richiesta con un rifiuto così secco e perentorio che
Rosalind comprese: per il momento, il suo tentativo era andato a vuoto.
Passarono altri sei mesi e portarono con sé esigenze nuove, nuove fantasie.
I pensieri di Rosalind si libravano amorevolmente intorno alle reliquie
della sorella. Salì in solaio a contemplare il cassone che le teneva
prigioniere. La muta sfida che emanava da quei tre grossi lucchetti e dalle
fasce di ferro non faceva che acuire la sua bramosia. V'era qualcosa di
esasperante in quell'immobilità incorruttibile. Suscitava il pensiero d'un
vecchio domestico dal viso torvo e dai capelli grigi che mantenga la bocca
chiusa su un segreto di famiglia. E poi, quella gran mole dava
un'impressione di capacità senza fine, e quando Rosalind ne percosse un
lato con la scarpina, il baule rispose con un suono di così completa
pienezza che la fece avvampar di rabbia e di frustrazione. - E assurdo, esclamò; - non è giusto, è una cattiveria! - e decise di ripartire all'attacco
con il marito. L'indomani, a pranzo finito, quand'egli ebbe bevuto il suo
bicchier di vino, lo affrontò coraggiosamente. Ma egli la interruppe in tono
molto severo.
- Sia detto una volta per tutte, Rosalind, - disse, - non se ne parla
nemmeno. Mi darai un gran dispiacere se tornerai sull'argomento.
- Va bene, - disse Rosalind. - Sono lieta di sapere in quale
considerazione sono tenuta. Santo cielo! - esclamò. - Sono davvero una
donna felice. Fa bene al cuore sapersi sacrificata a un capriccio! - E gli
occhi le si riempirono di lagrime di stizza e di delusione.
Lloyd, come tutti gli uomini di buon cuore, nutriva orrore dei singhiozzi
di una donna, e tentò - o per meglio dire accondiscese all'idea - di offrirle
una spiegazione. - Non si tratta di un capriccio, cara: è una promessa, rispose, - ... un giuramento.
- Un giuramento? Bel motivo di giuramento! E fatto a chi, vorrei sapere?
- A Perdita, - rispose il giovane levando lo guardo per un istante, ma
riabbassandolo subito.
- Perdita! Ah... Perdita! - E Rosalind proruppe in pianto. Singhiozzi
convulsi le squassarono il petto - singhiozzi che erano il seguito
lungamente differito della violenta crisi di pianto cui s'era abbandonata la
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sera che aveva scoperto il fidanzamento della sorella. Nei suoi momenti
migliori aveva creduto di aver chiuso per sempre con la gelosia; ma ecco
che la gelosia si scatenava di nuovo, selvaggia. - Vuoi dirmi, - esclamò, che diritto aveva Perdita di disporre del mio avvenire? Che diritto aveva di
obbligare te ad essere meschino, crudele? Ah, occupo davvero un posto
ben degno, ci faccio una gran bella figura! Mi si chiede di prendere il
posto che Perdita ha lasciato! E che cosa ha lasciato, dopo tutto? Mai come
ora m'ero resa conto di quanto poco ha lasciato! Niente ha lasciato, niente,
niente!
Era un discorso assai poco logico, ma non per ciò meno appassionato.
Lloyd cinse la vita della moglie cercando di baciarla, ma Rosalind lo
respinse con altero disdegno. Poveretto! L'aveva desiderata, la donna
«diabolicamente bella», e l'aveva trovata. Quel suo disprezzo era
insopportabile. Si allontanò irresoluto, confuso, con le orecchie rintronate.
Si trovò davanti al suo scrittoio; lì dentro c'era la chiave sacra con cui egli
stesso aveva dato un triplice giro al lucchetto. Vi andò, lo aperse, tolse la
chiave da un cassettino segreto; era avvolta in un pacchetto ch'egli aveva
sigillato con il suo onesto stemma gentilizio. Je garde, ne era il motto. Ma
si vergognò di rimetterla a posto. La gettò sul tavolo accanto a sua moglie.
- Tientela! - gridò lei. - Non so che farmene. La odio!
- Io me ne lavo le mani! - le gridò in risposta il marito. - E che Dio mi
perdoni!
Con una sdegnosa alzata di spalle Rosalind si precipitò fuori dalla
stanza, mentre Arthur si ritirava da un'altra porta. Dieci minuti più tardi
essa fece ritorno e trovò la sala occupata dalla piccola figliastra e dalla
bambinaia. Sul tavolo la chiave non c'era più. Guardò la bambina. Questa,
arrampicata su una seggiola, teneva in mano il pacchetto. Ne aveva
spezzato il sigillo con le manine. Rosalind fu lesta a impadronirsi della
chiave.
Alla consueta ora di cena Arthur Lloyd uscì dal suo ufficio. Era giugno:
la cena veniva servita che ancora faceva giorno. Le pietanze erano in
tavola, ma la padrona di casa non era comparsa. Il domestico, mandato dal
padrone a chiamarla, tornò indietro assicurando che la camera della
signora era vuota e che le donne gli avevano detto di non averla più vista
dopo il pranzo. In verità, s'erano accorte che aveva pianto e, ritenendo che
si fosse chiusa nel suo salottino, non l'avevano disturbata. Il marito la
chiamò ad alta voce per nome in varie parti della casa, ma senza ottenere
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1970 - Racconti Di Fantasmi
risposta. Infine gli venne in mente che avrebbe potuto trovarla in solaio.
Quel pensiero gli diede una strana sensazione di disagio: ordinò ai
domestici di restare ai loro posti, non volendo testimoni in quella ricerca.
Raggiunse la base della rampa che conduceva all'ultimo piano e rimase
con la mano sulla ringhiera, chiamando il nome della moglie. Gli tremava
la voce. Chiamò ancora, con voce più alta e più ferma. L'unico suono che
turbò il silenzio assoluto fu la debole eco della sua voce che ripeteva il
richiamo sotto i grandi spioventi del tetto. Si senti, malgrado tutto,
irresistibilmente spinto a salire la scala. Questa si apriva su un vano
spazioso, tappezzato di armadi di legno e terminante in una finestra
esposta a occidente, dalla quale entravano gli ultimi raggi del sole. Il baule
era davanti alla finestra. Davanti al baule, inginocchiata, il giovane scorse
con inorridito stupore la figura della moglie. Superò in un attimo lo spazio
che li divideva, incapace di emettere un suono. Il coperchio della cassa era
sollevato e mostrava, tra i lini profumati, il suo tesoro di tessuti e di
gioielli. Rosalind non stava più in ginocchio; era caduta riversa, con una
mano al suolo per sostenersi e l'altra premuta contro il cuore. Le sue
membra erano mortalmente rigide: sul suo volto, nella luce del sole al
declino, c'era il terrore di qualcosa di peggio della morte. Le labbra erano
dischiuse come in una supplica, in un'espressione d'angoscia e d'agonia;
sulla fronte e sulle gote esangui spiccavano i segni di dieci orribili ferite
cagionate dalle mani di un fantasma vendicatore.
Traduzione di Maria Luisa Castellani Agosti.
DE GREY:
UNA STORIA DRAMMATICA
Correva l'anno 1820 e, per la stessa ragione, come dicono in Irlanda (e
del resto anche fuori), la signora De Grey aveva raggiunto le sue
sessantasette primavere. Ciò nonostante, era ancora una bella donna e, quel
che più conta, ancora una donna amabile. Il corso calmo e sereno della sua
vita non aveva lasciato nel suo carattere più rughe che sul suo viso. Era
alta e matronale, con occhi scuri e folti capelli bianchi che portava
all'indietro sulla fronte, arrotolati su un cuscinetto o altro artificio
consimile. La freschezza della gioventù e della salute non aveva affatto
abbandonato quelle gote, né si era spento sul suo labbro l'inalterabile
sorriso della sua cortesia. Come si addice a una donna della sua età e
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vedova, vestiva di nero, ravvivato però da abbondante bianco, con una
quantità di anelli preziosi sulle belle mani. Sovente, in primavera, portava
al seno un fiorellino, o un ramoscello di foglie verdi. Era stata accusata di
ricevere quei piccoli ornamenti floreali dalle mani di Padre Herbert (del
quale avrò da raccontare più in là); ma era un'accusa infondata, in quanto
essi venivano accuratamente scelti dal mazzo colto in giardino dalla sua
cameriera.
Che la signora De Grey potesse proprio essere la placida, elegante
vecchia signora che era, ciò costituiva più o meno un enigma e un
problema agli occhi della gente comune, nonostante l'abbondanza di un
certo genere di attestazioni a favore di un simile dato di fatto. E vero che
chiunque fosse un po' informato sul suo conto sapeva che essa aveva
goduto di grande prosperità materiale e che non aveva subito rovesci di
fortuna. Era proprietaria a pieno titolo di una bella tenuta e di una bella
casa: aveva bensì perduto il marito neppure un anno dopo le nozze; ma
poiché il defunto George De Grey era stato un uomo di carattere cupo e
misantropo - al punto di far persino sospettare della sua sanità mentale - il
lutto che l'aveva colpita, lasciandola ben provvista dal punto di vista
finanziario, poteva a rigore esser considerato un vantaggio. Suo figlio, poi,
non le aveva mai causato il minimo cruccio; crescendo era diventato un
giovane affascinante, di bell'aspetto, saggio e di vivace ingegno, un
modello di devozione filiale. La signora aveva una salute eccellente;
disponeva di una mezza dozzina di domestici inappuntabili e godeva della
costante compagnia dell'impareggiabile Padre Herbert; era la più bella
figura di signora anziana della città: aveva dunque pieno diritto di esser
felice e di sembrarlo. D'altra parte era risaputo che molte e svariate signore
di buon senso avevano solennemente dichiarato che, nonostante tutti i suoi
tesori e la sua prosperità, mai e poi mai avrebbero voluto essere la signora
De Grey. Naturalmente quelle signore non erano in grado di addurre alcun
motivo logico per una così forte avversione. Ma è certo che sulla storia e
sulle vicende della signora De Grey si stendeva un velo di nebbia,
un'ombra di mistero, capaci di raggiungere le stesse immaginazioni inclini
ad accendersi d'invidia per le sue fortune. «Vive nell'oscurità», qualcuno
aveva detto di lei. Osservatori attenti le facevano l'onore di credere che
nella sua vita ci fosse un segreto, ma di natura del tutto indefinita. Era
vittima di qualche pena nascosta, o recava in sé una clandestina letizia?
Possiamo facilmente credere che tali supposizioni fossero in parte spiegate
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dalla circostanza che la signora De Grey era cattolica e teneva in casa un
prete. Quanto alla parte non spiegata, sarebbe bastato il suo contegno
assolutamente innocente e soddisfatto a renderla poco plausibile.
Conversando con lei, riusciva certo difficile immaginare su quale parte
della sua persona potesse appuntarsi un mistero: se sugli occhi tondi e
limpidi, o sulle belle labbra sorridenti. Diciamo pure allora, sfidando la
voce del mondo, che non era una regina da tragedia. Era una bella donna,
un po' insulsa, una gentildonna perfetta. Aveva preso la vita come le
piaceva prendere il tè: chiaro, con un aroma delicatissimo, molta crema e
molto zucchero. Non conosceva l'intemperanza per l'ottima ragione che
non aveva alcun temperamento. Non era tormentata da timori, da dubbi o
da scrupoli, né godeva della grazia di sacre certezze. Amava suo figlio, la
chiesa, il giardino, i bei vestiti. Aveva uno straordinario buongusto, dal
punto di vista morale poteva dirsi una donna senza storia. La signora De
Grey aveva sempre condotto vita appartata; per un paio d'anni prima
dell'epoca di cui stiamo parlando era vissuta in solitudine. Il figlio,
compiuti i ventitre anni, era andato a fare un lungo viaggio in Europa,
realizzando un progetto che, a intervalli, era stato argomento di
discussione durante tutta la sua adolescenza fra sua madre e Padre Herbert.
Non avevano inteso pianificare la sua futura carriera, o prepararlo a una
professione. In realtà, a rigore egli era libero, come suo padre buonanima,
di fare a meno di una professione. Non che fosse da augurarsi che
prendesse a modello la vita di suo padre. Era noto alla gente in genere e,
soprattutto, beninteso, alla signora De Grey e al suo compagno, che
l'esistenza di quel signore era stata rovinata, nel fiore degli anni, da
un'infelice storia d'amore; e si sapeva che, in conseguenza di ciò, egli
aveva trascorso i brevi anni della sua età matura in uno stato di cupa
ignavia e dissolutezza. La signora De Grey, figlia di un inglese ridotto in
miseria ma con pretese di alta aristocrazia, dichiarava di non riuscire a
capire perché Paul non potesse condurre una vita decorosa con i propri
mezzi; e Padre Herbert asseriva che in America, qualunque strada si scelga
nella vita, l'ozio è cosa inammissibile; perciò si augurava che il giovane almeno formalmente - si scegliesse una carriera. Tutti e due riconoscevano
però che non v'era motivo di affrettarsi e ch'era opportuno che in primo
luogo il giovanotto vedesse il mondo. Il mondo, per la signora De Grey,
era poco più di un'espressione verbale, mentre per Padre Herbert, benché
prete, era una viva realtà. Egli avvertiva tuttavia che il giovane generoso e
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intelligente, sulla cui educazione aveva profuso ogni tesoro d'affetto e di
sagacia, non era inadatto, sia per indole che per cultura, a misurarsi contro
le prove e le tentazioni del mondo; e, pensava, gli avrebbe voluto ancor più
bene se a venticinque anni fosse tornato a casa in figura di gentiluomo
compiuto e buon cattolico, reso più serio e più maturo dall'esperienza,
scettico verso le inezie e fiducioso nelle grandi cose, e con una ricca messe
di storie interessanti. Divenuto maggiorenne, Paul ebbe, come si suol dire,
il via sotto forma di una lettera di credito per una bella sommetta presso
certi banchieri di Londra. Ma il giovane si ficcò in tasca la lettera e rimase
a casa a consumarsi gli occhi sui libri, a bighellonare in giardino e a
scribacchiare versi eroici. Trascorso un anno, preso da un minimo
d'ambizione, andò a fare un giro per il paese, per lo più a cavallo. Al
ritorno era un americano convinto, e si sentiva sicuro di poter andare
all'estero senza pericolo. Durante la sua assenza scrisse dall'Europa
innumerevoli lunghe lettere: composizioni così elaborate (secondo i gusti
di quell'epoca pur tanto recente) e così piacevoli che, combattuti com'erano
tra l'orgoglio per il talento epistolare del giovane e il desiderio di rivederlo,
la madre e l'ex-tutore sarebbero stati imbarazzati a stabilire se egli avrebbe
dato loro maggiori soddisfazioni stando in patria oppure viaggiando
all'estero.
Con la partenza di Paul la casa sprofondò in uno stato di quiete assoluta.
La signora De Grey non usciva né riceveva. Una breve visita mattutina era
il massimo che si potesse richiedere alla sua ospitalità. Padre Herbert, da
quell'erudito che era, trascorreva tutte le sue ore nello studio, e la padrona
di casa se ne stava per lo più da sola, abbigliata con perfezione
inappuntabile - una perfezione che a nessuno era dato ammirare, eccettuata
forse la sua cameriera personale, per la quale costituiva un costante
oggetto di stupefazione -, intenta a leggere qualche libro di pietà o a
confezionare a maglia qualche indumento per i parrocchiani bisognosi.
Talvolta, è vero, scriveva al figlio lunghe lettere, il cui contenuto sfuggiva
alle congetture di Padre Herbert. Già quarantanni fa una vita simile era
giudicata noiosa; adesso, non c'è dubbio che non la si considererebbe
neppure vita. Non deve dunque far meraviglia se, finalmente, una mattina
d'aprile del suo sessantasettesimo anno di vita, come ho detto, la signora
De Grey cominciò all'improvviso a rendersi conto di essere sola. Un altro
lungo anno doveva ancora iniziare e finire prima che Paul tornasse. Per un
momento la signora De Grey meditò in silenzio, poi decise di consigliarsi
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1970 - Racconti Di Fantasmi
con Padre Herbert.
Questi, inglese di nascita, era stato amico intimo di George De Grey che
lo aveva conosciuto prima del matrimonio, durante un viaggio in Europa.
Era figlio cadetto di un'ottima famiglia cattolica, e a quell'epoca,
disponendo di scarse risorse, cominciava a far pratica legale. De Grey ne
fece la conoscenza a Londra e fra i due sorse una forte simpatia reciproca.
Herbert non aveva gusto per la sua professione, né apparenti ambizioni di
sorta. Per di più era di salute delicata e il suo amico non ebbe difficoltà a
convincerlo a diventare suo compagno di viaggio attraverso la Francia e
l'Italia. De Grey, che era ricchissimo, si dimostrò un amico e protettore
quanto mai liberale; i due giovani si spinsero fino a Venezia nella migliore
disposizione d'animo e nei migliori rapporti. A Venezia, tuttavia, per
ragioni meglio conosciute soltanto a loro, ebbero un durissimo, insanabile
scontro. Qualcuno parlò di questioni di gioco, altri di una donna.
Comunque, in seguito a ciò, De Grey ritornò in America e Herbert si
rifugiò a Roma, dove fu accolto in un convento, studiò teologia e infine
venne ordinato sacerdote. In America, a trentatre anni, De Grey sposò la
signora di cui si è parlato. Qualche settimana dopo il matrimonio egli
scrisse a Herbert esprimendo il più vivo desiderio di riconciliarsi con lui.
Herbert intuì che la lettera era quella di un uomo assai infelice: dal canto
suo l'aveva già perdonato. Ne provò compassione e dopo qualche tempo
riuscì ad ottenere un incarico ecclesiastico negli Stati Uniti. Arrivato a
New York, si presentò alla casa dell'amico, che da quel momento divenne
casa sua. La signora De Grey aveva da poco dato alla luce un figlio; il
marito era costretto in stanza dalla malattia, ridotto com'era all'ombra di se
stesso a causa di reiterati eccessi dei sensi. Non sopravvisse che un paio di
mesi all'arrivo di Herbert, e dopo la sua morte si sparse la voce che con
l'ultimo testamento aveva assegnato al sacerdote una rendita rilevante, a
condizione che questi continuasse ad abitare presso la sua vedova e si
prendesse interamente carico dell'educazione del figlio.
Le voci furono confermate dai fatti. All'epoca di cui si narra, Herbert
viveva ormai da venticinque anni sotto il tetto della signora De Grey in
qualità di amico, compagno e consigliere, e come tutore del figlio di lei.
Una volta riconciliato col suo amico, aveva abbandonato a poco a poco la
sua attività sacerdotale. D'indole profondamente devota, non aspirava
tuttavia a parrocchie né a pulpiti; d'altronde era diventato un appassionato
studioso. Aveva ereditato dal defunto una biblioteca di valore, che era
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andato man mano ampliando. Tuttavia la sua passione per lo studio
appariva singolarmente disinteressata: per molti anni, infatti, unico
testimone e ricettacolo di tanto sapere era stato il piccolo Paul. Vero è che
egli attendeva alla stesura di una larga parte della storia della Chiesa
cattolica in America, storia che, sebbene esista in manoscritto, non ha mai
visto la luce e, suppongo, non è destinata a vederla. Opera di contenuto
eccellente, raccoglie un enorme complesso di avvenimenti ed è scritta da
un punto di vista non partigiano, bensì strettamente rispettoso dei fatti; ha
però un difetto esiziale: manca di piaggeria.
Lo stesso appunto si sarebbe potuto muovere al carattere personale di
Padre Herbert. Era la quintessenza dell'educazione, ma di una cortesia
fredda e formale. Quando sorrideva lo faceva, come dicono i francesi, con
gli angoli della bocca, e quando dava la mano era solo con la punta delle
dita. In gioventù aveva avuto un volto affascinante e, al tempo in cui gli
uomini s'incipriavano i capelli, i suoi begli occhi neri avevano dovuto
produrre un magnifico effetto. Ma aveva perso i capelli e adesso, sulla
testa calva, portava uno zucchetto di seta nera. Una cravatta nera ad
abbondanti pieghe gli cingeva il collo senza colletto. Era basso di statura,
esile, curvo di spalle, e aveva due belle mani.
- Se non fosse per un triste segno del contrario, - disse la signora De
Grey perseguendo la determinazione di ricorrere al consiglio dell' amico, crederei di stare ringiovanendo.
- Qual è il segno del contrario? - chiese Herbert.
- Sto perdendo la vista. Non ci vedo più a leggere. Che stia diventando
cieca?
- E che cosa la induce a credere a un ritorno di gioventù?
- Mi sento sola. Ho bisogno di compagnia. Mi manca Paul.
- Paul sarà di ritorno fra un anno.
- Sì, ma intanto sarò infelicissima. Vorrei conoscere una persona
simpatica a cui chiedere di vivere con me.
- Perché non si prende una compagna... una signora povera in cerca di
casa? Le farebbe un po' di lettura, di conversazione.
- No, sarebbe orribile. Sarebbe certo vecchia e brutta. Mi piacerebbe
qualcuno che occupasse il posto di Paul... una persona giovane e fresca
come lui. Siamo tutti così tremendamente vecchi in questa casa. Lei ha
almeno settantanni; io ne ho sessantacinque (alla signora De Grey piaceva
dire questa piccola bugia); Deborah ne ha sessanta; la cuoca e il cocchiere
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cinquantacinque ciascuno.
- Vuole una ragazza giovane, dunque?
- Sì, una figliola simpatica, fresca, capace di una risata di tanto in tanto,
che faccia un po' di musica... un po' di rumore dentro queste mura.
- Ebbene, - disse Herbert dopo un momento di riflessione, -farebbe bene
a trovarla prima del ritorno di Paul. Non le resta che un anno.
- Dio mio, - replicò la signora De Grey, - non vorrei sentirmi in obbligo
di mandarla via a causa di Paul.
Padre Herbert fissò la sua interlocutrice con uno sguardo penetrante. Ciò nondimeno, mia cara signora, lei sa che cosa voglio dire.
- Oh sì, so quello che vuol dire... e lei, Padre Herbert, sa come la penso.
- Sì, signora, e mi permetta di aggiungere che non tengo in gran conto la
sua opinione. Perché dovrei farlo? Spero con tutto il cuore che lei non
debba mai trovarsi costretta a cambiare idea.
- Paul ha avuto sicuramente tutto il tempo di vivere la sua piccola
tragedia una dozzina di volte, - ribatté la signora De Grey.
- Suo padre, - replicò gravemente Herbert, - aveva ventisei anni.
A queste parole la signora De Grey fissò il prete corrugando un po' la
fronte e arrossi in volto. Ma evitò d'incontrare lo sguardo del sacerdote:
qualche istante dopo, in silenzio, aveva riacquistato la calma abituale.
Una settimana dopo questo colloquio la signora De Grey notò in chiesa
due persone che le sembrarono estranee alla congregazione: una donna
attempata, modestamente vestita ed evidentemente malferma in salute, ma
assai raffinata nella persona e nei modi, e una giovinetta che la signora De
Grey giudicò esserne la figlia. La domenica successiva le trovò di nuovo
raccolte in preghiera e rimase molto colpita dall'espressione triste e turbata
dei loro volti, del loro comportamento. La terza domenica le due donne
erano assenti, ma nell'attraversare la chiesa per andarsi a confessare ella
s'imbattè nella ragazza, pallida, sola e vestita a lutto, che sembrava aver
appena lasciato il confessionale. Qualcosa nell'andatura e nell'aspetto della
giovane diede alla signora De Grey la certezza ch'essa era sola al mondo,
senza amici e senza aiuti; e la brava donna, che a volte era acutamente
consapevole del proprio isolamento tra il prossimo, provò per lei un così
forte impulso di compassione che volle rivolgere la parola all'estranea per
chiederle quale fosse il segreto del suo dolore. La fermò prima che uscisse
di chiesa e, parlandole con estrema amabilità, seppe così presto
conquistare la sua fiducia che mezz'ora dopo era a conoscenza dell'intera
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storia della giovane. Essa aveva perduto la madre pochi giorni prima, e ora
si trovava nella grande città senza un soldo e praticamente senza tetto.
Venivano dal Sud: il padre era stato ufficiale di marina ed era morto in
mare due anni avanti. La salute della madre era andata declinando e,
piuttosto sconsigliatamente, erano venute a New York per consultare un
medico illustre. Questi era stato molto gentile, non aveva voluto onorari,
ma la sua perizia non aveva avuto alcun risultato. Il loro denaro se n'era
andato per altre vie: per il vitto, l'alloggio, il vestiario. Ne era avanzato a
sufficienza per dare alla povera signora degna sepoltura, ma alla giovane
non era rimasta altra risorsa che la propria buona volontà. Non aveva
parenti a cui appoggiarsi, ma si professava molto desiderosa di lavorare. Sono debole d'aspetto, - disse, -sono pallida, ma in realtà sono molto forte.
Mi sento solo stanca... triste. Sono pronta a fare qualunque cosa. Ma non
so dove rivolgermi -. Aveva perso il colorito, la floridezza e l'elasticità
propri della gioventù, era magra e mal vestita; ma la signora De Grey si
rese conto che, una volta riacquistata l'antica forma, doveva apparire
davvero una bella creatura, e che aveva tutti i titoli per riuscire simpatica.
La fanciulla guardò l'anziana signora con lucidi, imploranti occhi azzurri,
di sotto la brutta cuffietta nera che le nascondeva la massa dei capelli
chiari e soffici. Le assicurò di avere ricevuto un'ottima istruzione e di saper
suonare il pianoforte. La signora De Grey la immaginò spogliata di quelle
squallide gramaglie, vestita di bianco con un nastro azzurro, in atto di
leggere ad alta voce davanti a una finestra aperta o di sfiorare i tasti della
vecchia spinetta casalinga , capace ancora di qualche melodia: se infatti la
prendeva (come ebbe ad esprimersi mentalmente), la signora De Grey era
decisa a non lasciarsi opprimere dalla vista di quegli abiti neri. Era
evidente che, spaventata e debole e nervosa com'era, la povera figliola
avrebbe accettato incondizionatamente qualsiasi lavoro. Le diede allora un
tenero bacio fra quelle sacre mura e l'accompagnò alla propria carrozza,
dimenticando del tutto il suo proposito di confessarsi. L'indomani
Margaret Aldis (così si chiamava la giovane) fu trasferita, per mezzo dello
stesso veicolo, alla residenza della signora De Grey.
L'edificio, che qualche anno fa è stato demolito, sorgeva su un'area che
costituisce oggi il centro di un'arteria di gran traffico. Ma all'epoca di cui
sto narrando esso si levava alla periferia della città: da un lato offriva
sull'aperta campagna una vista non meno estesa della prospettiva che si
apriva dall'altro sulle strade fitte di abitazioni. Era una bellissima villa, del
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miglior gusto del tempo, con grandi stanze quadrate, ampie sale e
finestroni profondi e soprattutto un delizioso vasto giardino separato dalla
strada da alte siepi di fitta ver-zura. Qui, abbandonandosi al riposo e al
benessere fisico, al sicuro dalle torbide acque di una vita volgare, vivendo
appartata nel piacevole calore di un sole un po' velato, apprezzata, stimata,
coccolata e tuttavia con l'impressione di non essere semplicemente un
passivo oggetto di beneficenza, ma di fare del suo meglio per sdebitarsi
con la sua benefattrice, la brava signorina Aldis sbocciò e rifiorì alla vita.
Col riposo, con gli agi e l'ozio riapparvero in lei serenità e bellezza: una
bellezza non certo abbagliante, né un'invadente giocondità, che però, unite
insieme, formavano un fiore di grazia giovanile. Conservava ancora
nell'aspetto un che di estenuato, di fragile: il passo leggero, la voce
sommessa, il tenue incarnato lasciavano indovinare un'intima conoscenza
del dolore. Ciò nonostante in quei profondi occhi azzurri sembrava ardere
la fiamma di una vitalità appassionata, e su quelle labbra pallide e ferme si
leggeva un'espressione di salda, leale volontà. A volte ella sembrava
abbandonarsi con una libertà incontrollata, sensuale, quasi egoistica, alla
consapevolezza della tranquillità raggiunta. Era palese il suo gusto innato
per il lusso. A volte stava seduta immobile, per ore e ore, il capo
arrovesciato all'indietro, gli occhi erranti lentamente intorno, in una tacita
estasi di serenità. Padre Herbert, che aveva preso ad osservarla da vicino
fin dal suo arrivo (poiché, per quanto studioso e isolato dal mondo, non
aveva perduto la facoltà di apprezzare la grazia femminile) in quei
momenti stava a guardarla non visto, fantasticando sulla strana, apatica
creatura che la signora De Grey s'era scelta per compagna. Una sera, dopo
un simile prolungato torpore, durante il quale la ragazza non aveva fatto un
movimento né detto una parola, ma era rimasta a sedere immobile come se
la sua anima si fosse staccata dal corpo e vagasse nello spazio, finalmente,
a un ordine della signora De Grey, ella si alzò e si mosse come per
ubbidire; poi, d'un tratto, corse verso la vecchia e cadde in ginocchio,
seppellendole il capo in grembo e scoppiando in un parossismo di
singhiozzi. Herbert, che era presente, andò a posarle una mano sulla testa e
vi tracciò sopra un segno benedicente di croce, quasi a consacrare
l'appassionata gratitudine che si era finalmente manifestata. Da quel
momento prese a volerle bene.
Margaret leggeva ad alta voce alla signora De Grey e la domenica sera
cantava con limpida, dolce voce i canti della loro Chiesa: era sempre
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1970 - Racconti Di Fantasmi
occupata con fini lavori d'ago, in cui era molto esperta. Passavano insieme
le lunghe mattinate estive leggendo, lavorando e discorrendo. Margaret
narrava all'amica i semplici, dolorosi particolari della storia che già le
aveva riassunto; e la signora De Grey, trovando naturale di considerare
quel racconto una specie di romanzo di vita vissuta inteso ad intrattenerla,
glielo faceva ripetere decine di volte. Anche lei gratificava la giovinetta
col racconto della propria biografia, che nella sua sconfinata vuotaggine
produceva in Margaret una vaga impressione di grandiosità. La
vuotaggine, in realtà, era compensata dalla figura di Paul che la signora De
Grey non si stancava mai di descrivere e al quale Margaret aveva preso a
pensare con piacere. Ascoltava con la massima attenzione i panegirici che
la signora tesseva del figlio, e le pareva un gran peccato che non fosse lì.
Cominciò allora a sospirare il suo ritorno e poi, improvvisamente, a
temerlo. Forse egli non avrebbe gradito la sua presenza fra quelle mura e
l'avrebbe messa alla porta: era evidente che la madre non era incline a
contraddirlo. O forse - peggio ancora - avrebbe sposato una straniera e
l'avrebbe portata a casa, e quella sarebbe diventata selvaggiamente gelosa
di lei, Margaret, come è costume delle straniere. Nel suo vagabondare per
l'Europa, De Grey, se da una parte - beato lui - era sicuro di non esser mai
assente dai pensieri della sua buona mamma, dall'altra restava serenamente
ignaro del posto elevato che usurpava nelle meditazioni di quell'umile
convivente. Certo, sappiamo dove la nostra vita comincia, ma chi sa dire
dove finisce? Paul era un giovanotto spensierato, la cui esistenza destava
un'eco costante nell'animo di una povera ragazza a lui del tutto
sconosciuta. La signora De Grey possedeva due ritratti di suo figlio, che
naturalmente si affrettò a mostrare a Margaret: uno di quando era un
bimbo dagli sfavillanti capelli fulvi e dalle guance paffute, il corpicino
imprigionato in una giacchetta turchina con un collettone a pieghe molto
scollato; l'altro, eseguito subito prima della sua partenza, mostrava un bel
giovane con un gilè di camoscio, ben rasato, d'aspetto vivace, i ricci color
rame scuro e occhi bellissimi. Dalla prima di queste immagini Margaret
ebbe l'impressione di un graziosissimo bambino, ma alla seconda la povera
figliola lasciò addirittura il cuore, tanto più che la signora De Grey le
assicurava che, sebbene il ritratto fosse più che discreto, dava soltanto una
pallida idea delle adorabili fattezze del suo rampollo. Di lì a un paio di
mesi arrivò una lettera di Paul lungamente attesa, e con un altro ritratto:
una miniatura dipinta a Parigi da un artista famoso. Paul vi risultava di
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gran lunga più bello che non nel ritratto del pittore americano. In che
consistesse la diversità era difficile dire; ma la madre dichiarò che se ne
poteva dedurre che Paul aveva passato quei due anni in Europa circondato
dalle migliori compagnie.
- Oh, le migliori compagnie! - interloquì Padre Herbert, che conosceva
il valore di quell'espressione. E dopo un fugace sorriso d'indulgente
disprezzo ripiombò nella gravità che gli era consueta.
- Mi pare che abbia l'aria molto triste, - disse timidamente Margaret.
- Sciocchezze! - esclamò Herbert spazientito. - Ha l'aria di un
bellimbusto. Certo, la colpa è di quel francese, - soggiunse un poco
rabbonito. - Ma che bisogno aveva di mandarci il suo ritratto? E un
bell'impertinente! Crede che ce lo siamo dimenticati? Quando voglio
ricordarmi del mio ragazzo, ho qualcosa di meglio da guardare che non
quel pretenzioso pezzo d'avorio!
A queste parole le due signore lasciarono la stanza portando via il
ritratto, per leggere in santa pace la lettera di Paul. Era una missiva di otto
pagine, che Margaret lesse ad alta voce. Quando ebbe finito, la lesse di
nuovo, e la sera la rilesse un'altra volta. L'indomani la signora De Grey,
aprendo interamente il suo cuore alla giovane, tirò fuori un grosso pacco
contenente le precedenti lettere del figlio, e Margaret trascorse tutta la
mattinata a rileggerle ad alta voce. Quella sera andò a passeggiare sola per
il giardino - quel giardino dove lui aveva giocato da ragazzo e indugiato
sognando da giovanotto. Scoperse il nome di lui - il suo bel nome rozzamente intagliato in una panchina di legno. Introdotta - come le
sembrava di essere dopo aver letto le lettere - nei recinti della sua
personalità, nel mistero del suo essere, nel cerchio magico dei suoi
sentimenti, delle sue opinioni, delle sue fantasie, vagabondando non vista
al suo fianco per l'Europa e calcando non udita i risonanti pavimenti di
chiese e palazzi famosi, Margaret ebbe la sensazione di godere per la
prima volta la vita, in tutta la sua pienezza e dolcezza. Per un'ora passeggiò
sotto le stelle, tra i vialetti oscuri e profumati. La signora De Grey non si
era sentita bene e s'era ritirata in camera. La fanciulla stette ad ascoltare il
lontano brusio della città che andava lentamente svanendo, finché si
spense del tutto: allora, nel profondo silenzio notturno, rientrò dall'alta
porta-finestra nel salotto, accese uno dei grandi candelieri d'argento che
ornavano alle due estremità la mensola del camino e lo avvicinò alla parete
a cui la signora De Grey aveva appeso, sostituendolo a un quadro meno
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importante, il ritratto del figlio. Margaret aveva l'impressione di dover
vedere quel ritratto prima di andare a letto: guardarlo da sola, a lume di
candela, era cosa piena di fascino, d'incanto. Si era levato il vento - un
caldo vento di ovest - e i lunghi tendaggi bianchi delle finestre spalancate
sventolavano e si gonfiavano spettrali nel buio. Margaret fece riparo con la
mano alla fiamma della candela e fissò la superficie lucida del ritratto,
calda di luce sotto la scintillante lastra di vetro. Che immensità di vita e di
passione era concentrata in quei pochi centimetri di colore artificiale! Gli
occhi del giovane sembravano fissarla con uno sguardo di intimo
riconoscimento, la tenevano come ipnotizzata, ed essa indugiava lì davanti,
incapace di muoversi. D'un tratto la pendola sopra il caminetto emise un
unico breve rintocco. Margaret trasalì e si volse di scatto, al pensiero che
fossero già le dieci e mezzo. Sollevò il candelabro per vedere il quadrante
e si rese conto di tre cose: che era l'una del mattino, che la candela era
mezzo consumata e che qualcuno, dall'altro lato della stanza, la stava
osservando. Posò il lume, e riconobbe Padre Herbert.
- Allora, Miss Aldis, - disse l'ecclesiastico avanzando verso la luce, - che
ne dice?
Margaret era spaventata e confusa, ma non imbarazzata. - Da quanto
tempo sono qui? - domandò con semplicità.
- Non ne ho idea. Io sono qui da mezz'ora.
- Lei è stato molto gentile a non avermi disturbata, - disse Margaret un
po' più freddamente.
- E davvero un bel ritratto, - commentò Herbert.
- Oh, è splendido! - esclamò la ragazza, gettando ancora di sopra la
spalla uno sguardo al quadretto.
Il vecchio sorrise tristemente e fece per andarsene; poi, tornato indietro:
- Come le sembra il nostro giovanotto, Miss Aldis? - domandò con uno
sforzo evidentemente penoso.
- Mi pare bellissimo, - disse Margaret con sincerità.
- Via, non è poi così straordinario! - replicò Herbert.
- Sua madre dice che è ancora più bello.
- In questi casi la testimonianza di una madre non è da tenere in gran
conto. Paul è un bel figliolo, ma non un portento.
- Mi sembra che abbia l'aria triste, - disse Margaret. - Sua madre dice
che è molto allegro.
- Può darsi che sia molto cambiato in questi due anni. Le pare,
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1970 - Racconti Di Fantasmi
- soggiunse il vecchio dopo un breve silenzio, - che abbia l'aspetto di un
uomo innamorato?
- Non so, - fece Margaret sottovoce, - non ne ho mai visto nessuno.
- Mai? - esclamò il prete con un'aria così seria che la fanciulla ne fu
sorpresa.
Ella arrossi un poco. - Mai, Padre Herbert.
Gli occhi scuri del sacerdote erano fissi su di lei con una strana intensità
d'espressione. - Spero, figliola mia, che non debba vederne mai, - concluse
solennemente.
- Perché proprio io e non un'altra?
Il vecchio si strinse nelle spalle. - Oh, è una lunga storia, -disse.
Passò l'estate e si dissolse nel fiammeggiante autunno, che lentamente
sbiadì, spegnendosi infine nel freddo amplesso decembrino. La signora De
Grey aveva scritto a suo figlio di aver assunto Margaret al proprio servizio.
Giunse allora una lettera in cui il giovane si compiaceva di esprimere
soddisfazione in merito a tale provvedimento. «Porgete i miei saluti a Miss
Aldis, - scriveva, - e assicuratela della mia gratitudine per il conforto che
reca alla mia cara mamma; spero, del resto, di potergliela esprimere io
stesso al più presto di persona». Nello scrivere queste frasi gentili Paul De
Grey non poteva certo prevedere lo straordinario effetto che erano
destinate ad avere nel cuore della povera Margaret. Un mese dopo arrivò
una lettera che fu consegnata alla signora De Grey alla prima colazione.
Cominciava così: «Avrete ricevuto la mia del 3 dicembre -(una lettera che,
a causa di un disguido, non era giunta a destinazione) - e vi sarete formati
le vostre rispettive opinioni sul suo contenuto». Mentre la signora leggeva
queste parole, Padre Herbert guardò Margaret: si era fatta pallida.
«Positive o negative che siano, -continuava la lettera, - mi spiace di esser
costretto a pregarvi di cancellarle. Ma il mio fidanzamento con la signorina
L. è rotto. Era diventato una cosa impossibile. Poiché non mi ero attentato
a for-nirvene la storia o ad esporvene le ragioni, così non cercherò adesso
di entrare nella logica della rottura. Ma questa, ve l'assicuro, è definitiva.
Amen». E lo scritto passava ad altri argomenti lasciando i nostri amici
tristemente perplessi. Aspettarono l'arrivo della lettera mancante, ma
invano: non giunse mai. La signora De Grey scrisse subito al figlio,
richiedendogli con urgenza la spiegazione dei fatti cui aveva accennato.
Paul rispose che le avrebbe raccontato ogni cosa al ritorno: l'argomento gli
era odioso. «Ma non darti pensiero, mamma cara, - aggiungeva, - il cielo
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mi ha preservato da una ricaduta. La signorina L. è morta a Napoli tre
settimane fa». Nel leggere queste parole la signora De Grey posò la lettera
e scambiò un'occhiata con Padre Herbert, che aveva chiamato ad
ascoltarne la lettura. Il viso emaciato del sacerdote si fece d'un pallore
mortale: egli ricambiò lo sguardo della vecchia signora, serrando le labbra,
gli occhi fissi come due pietre. Poi, d'improvviso, un selvaggio grido
inarticolato gli usci dalla gola e lasciò cadere sul tavolo con un tonfo
terribile la mano che aveva stretta a pugno. Margaret, seduta, lo osservava
sbalordita. Egli si alzò in piedi, la strinse fra le braccia premendosi al petto
il capo di lei.
- Figlia, figlia mia! - gridò con voce rotta. - Ti ho sempre voluto bene!
Sono stato aspro, duro, freddo con te. Avevo tanta paura. Ora il fulmine è
scoppiato. Perdonami, figliola. Sono tornato in me -. Margaret, spaventata,
si sciolse dall'abbraccio, ma Padre Herbert la trattenne per una mano. Povero ragazzo! - sospirò con un tremito nella voce.
La signora De Grey si lasciò cadere in una poltrona aspirando i suoi sali;
però non era visibilmente sconvolta. - Povero ragazzo! -ripetè, ma senza
sospiri, il che conferì alle sue parole un suono ironico. - Ormai non le
voleva più bene.
- Ah, signora! - esclamò il sacerdote. - Non bestemmi! Si metta in
ginocchio e ringrazi Iddio che ha risparmiato a noi quell'atroce spettacolo!
Sconvolta e inorridita, Margaret ritrasse la mano dalla stretta di lui e
guardò attonita la signora De Grey che, sorridendole debolmente, si batté
con l'indice qualche colpetto sulla fronte e scosse il capo inarcando le
sopracciglia.
Dopo aver contato i mesi che ancora mancavano al ritorno di Paul,
ormai i nostri amici erano giunti a contare le settimane e, da ultimo, i
giorni. Venne maggio: Paul era salpato dall'Inghilterra e la signora De
Grey riaperse la camera del figlio e la fece rimettere in ordine; poi invitò
Margaret a prender visione dell'arredo che non era cambiato per nulla dopo
la sua partenza. Margaret guardò la propria immagine riflessa nello
specchio di lui, si sedette un momento sul suo divano ed esaminò i libri
allineati nei suoi scaffali. Ce n'erano moltissimi, in diverse lingue, e
davano un'idea ben precisa degli interessi del loro possessore. Sopra il
caminetto era appeso un piccolo schizzo a lapis che Margaret si affrettò ad
osservare: ritraeva le sembianze d'una giovinetta disegnate con discreta
abilità. L'originale era stata, a quanto pareva, una donna bellissima, un tipo
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1970 - Racconti Di Fantasmi
buono: nell'angolo del disegno era vergato il nome dell'artista: De Grey.
Margaret guardò in silenzio il ritratto mentre il cuore le batteva più forte.
- È del signor Paul? - chiese finalmente alla signora.
- Appartiene a Paul, - le rispose questa. - Un tempo gli era molto caro e
volle a tutti i costi appenderlo qui. E uno schizzo fatto da suo padre prima
del nostro matrimonio.
Margaret respirò di sollievo. - E chi è questa signora? - domandò.
- Non lo so di preciso. Qualche straniera, credo, che aveva fatto colpo su
mio marito. Nell'altro angolo c'è un'annotazione che la riguarda.
In effetti, nell'angolo opposto alla firma, tracciata a caratteri minuti,
Margaret scorse la scritta: «obììt 1786».
- Suppongo che tu non conosca il latino, cara, - disse la signora, mentre
Margaret decifrava l'iscrizione. - Vuol dire che è morta trentaquattro anni
fa.
- Poverina! - esclamò Margaret con voce sommessa. Poi, indugiando
sulla soglia prima di uscire dalla stanza, volse attorno lo sguardo,
desiderosa di lasciare un piccolo segno della sua visita.
- Se sapessimo quando arriva, - soggiunse, - gli metterei qualche fiore
sul tavolo. Ma potrebbero appassire.
Tuttavia, siccome la signora la rassicurò che il momento preciso
dell'arrivo del figlio era quanto mai incerto, Margaret abbandonò l'idea del
mazzolino di fiori e passò il resto della giornata in dolce, trepidante attesa,
pronta a rimanere abbagliata dall'improvviso apparire di un giovanotto
bizzarramente agghindato alla moda forestiera, che avrebbe posato su di
lei un freddo sguardo di sorpresa e sarebbe corso via in cerca della madre.
A ogni rumor di passi, a ogni porta che s'apriva, la fanciulla posava il
lavoro e restava in ascolto, incuriosita. Quella sera, come per un
presentimento comune, Padre Herbert e la signora De Grey s'incontrarono
nel salotto principale: era un locale destinato esclusivamente a quelle
festività che non ricorrevano mai nelle cronache della loro tranquilla
convivenza.
- Oggi, signora, - disse Margaret mentre erano tutti e tre riuniti in
silenzio fra le ombre che s'infittivano, - si compie un anno dacché sono
venuta in casa sua. È la fine di un anno molto felice.
- Speriamo, - sentenziò Padre Herbert, - che domani ne cominci un
altro.
- Ah, signora mia cara! - esclamò Margaret commossa, - mio buon
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1970 - Racconti Di Fantasmi
Padre, miei soli amici! Quale disgrazia può toccarmi se resto vicino a voi
che mi avete sottratto alla cattiva sorte?
Aveva il cuore gonfio di gratitudine e gli occhi pieni di lagrime. Un
brivido prolungato la scosse tutta al pensiero di quello che avrebbe potuto
essere il suo destino. Ma una naturale ritrosia ad importunare con le
proprie sensazioni personali l'attenzione di chi era tutto assorbito dal
pensiero di una gioia imminente, la indusse a lasciare la stanza, e uscì nel
giardino.
Qualche minuto dopo si aperse un cancelletto nella palizzata, a pochi
metri dal punto in cui Margaret si trovava. Entrò un uomo che, nell'incerta
luce della sera, ella riconobbe per Paul De Grey. In un istante le fu accanto
come per salutarla, ma si fermò di colpo togliendosi il cappello.
- Ah, lei è Miss... la signorina, - disse: non ricordava più il suo nome.
Era qualcosa di diverso, qualcosa di più offensivo della fredda
manifestazione di sorpresa immaginata da Margaret. Tuttavia gli rispose,
con voce abbastanza chiara: - Sono in salotto: l'aspettano.
Egli si lanciò di corsa per il vialetto ed entrò in casa. Ella lo segui a lenti
passi sino alla porta-finestra e rimase fuori in ascolto. Il silenzio con cui il
giovane fu accolto esprimeva tutto il calore del benvenuto riservatogli dai
famigliari.
Paul De Grey aveva tratto buon profitto dal suo soggiorno in Europa:
non aveva perso nessuno dei suoi meriti d'un tempo e ne aveva acquistati
parecchi altri. Era per natura ed educazione una persona intelligente, fine,
simpatica e aveva la fortuna di possedere un indefinibile fascino personale
nei tratti e nei modi. Alto e slanciato di corporatura, ma saldo e robusto di
membra, vivace, di bella carnagione chiara, aveva una fronte spaziosa e
prominente, capelli ricciuti color biondo rame e lo sguardo e il sorriso
degli occhi irradiavano giovinezza e intelligenza. Il suo piglio era franco,
maschio, diretto; e tuttavia a Margaret sembrava di avvertire nel suo
comportamento una certa dignità, un'eleganza - talvolta al limite del
formalismo -che lo distingueva da quello degli altri uomini. Non per
questo ella scorgeva nel suo carattere i segni di quella strana, fondamentale
malinconia che così potentemente aveva agito sugli altri suoi famigliari
(nonché, a quanto le era parso di capire, su suo padre). Al contrario, le
sembrava di non aver mai conosciuto tanta serietà di spirito associata a
tanta gaiezza. Se fosse stata dotata di maggior capacità d'analisi, Margaret
si sarebbe detta che quella di Paul De Grey era una natura eminentemente
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aristocratica. Ma la fanciulla si contentava di penetrarla meno e, in segreto,
di amarla di più; e alla ricerca di un epiteto che riassumesse ciò che
sentiva, aveva scelto un termine più semplice. Paul era come un raggio di
sole splendente nella vita monotona e scolorita delle due donne, un raggio
che riempiva la casa di luce, di calore, di gioia. Nella fantasia di Margaret
egli si muoveva in un'aureola di gloria quasi soprannaturale. Le parole che
gli uscivano dalle labbra erano diamanti e perle; e in effetti, per tutto il
mese che segui al suo ritorno, la conversazione del giovane fu di una
piacevolezza estrema. La casa della signora De Grey era par excellence la
dimora della distensione, il castello dell'indolenza; sia Paul parlando, sia i
suoi compagni ascoltandolo erano consapevoli di non essere soggetti ad
alcun vincolo di gelosia, a qualsiasi volgare obbligo. Le giornate estive
erano lunghe e le scorte quotidiane di loquacità di Paul inesauribili. Già
una settimana dopo il suo arrivo, Padre Herbert aveva preso l'abitudine di
portarselo con sé nello studio, e Margaret, passando davanti all'uscio
semiaperto, era solita ascoltare la mutevole melodia della voce del
giovane. In quei momenti invidiava al vecchio prete il privilegio di godere
da solo di tanta eloquenza. Intuiva che i discorsi tenuti da Paul al suo
tutore erano molto più saggi e più ricchi di quanto non potessero essere in
presenza di due modeste donne, e nutriva il desiderio rispettoso di
ascoltarlo, di vederlo nella sua luce migliore. Ottima luce in verità era
quella in cui egli appariva a Padre Herbert, giacché Paul aveva superato le
sue più rosee aspettative. Aveva accumulato una straordinaria provvista di
cognizioni, aveva fatto tesoro di tutto il buono che il vecchio gli aveva
elargito, e pur non avendo del tutto ignorato il male contro cui il sacerdote
l'aveva messo in guardia, i giudizi che esprimeva in proposito erano pieni
di spirito e di saggezza. In generale, alle donne e ai religiosi un uomo
riesce tanto più simpatico in quanto non del tutto innocente. Padre Herbert
era estremamente soddisfatto della felice evoluzione del carattere di Paul.
Era più che un figlio della sua carne: era il frutto del suo intelletto, della
sua pazienza, della sua devozione.
Paul era libero di dedicare i pomeriggi e le sere a sua madre, la quale,
una volta lasciata la propria camera, non si privava neppure per un'ora
della compagnia di Margaret: era ormai diventata per lei una necessità
assoluta, grazie alla delicatezza di tatto e alla partecipe simpatia che la
giovane le dimostrava. Mentre Paul discorreva, Margaret stava seduta col
suo lavoro accanto alla dama, stupita e ammirata dell'inesauribile riserva di
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chiacchiere e di aneddoti ch'egli aveva in serbo e che infiorava di
descrizioni vivaci e realistiche. Città, chiese, musei, teatri si animavano e
risplendevano dinanzi agli occhi estatici di lei: le pareva di vedere le
persone da lui conosciute e i paesaggi che aveva attraversati, e la povera
figliola finiva per sentirsi girare la testa, tanto rapida era la successione
delle immagini. A volte, poi, egli pareva farsi malinconico e se ne
rimaneva zitto; e Margaret, levando di sottecchi lo sguardo dal lavoro,
vedeva i suoi occhi fissarsi nel vuoto con aria assente, mentre le labbra si
atteggiavano a un tenue sorriso oppure a una fredda gravità, e si
domandava quali lontani ricordi riportassero i suoi pensieri a quello
sconosciuto mondo europeo. Altre volte, più raramente, alzando gli occhi
lo sorprendeva in atto di guardarla, di osservare la sua testa china sul moto
operoso delle mani. Almeno fino allora, però, egli non aveva mai distolto
con imbarazzo lo sguardo da lei, ma lo aveva lasciato indugiare,
giustificando quella contemplazione con qualche commento semplice e
naturale.
Col passare delle settimane e col volgere dell'estate verso il suo culmine,
la signora De Grey aveva preso l'abitudine di ritirarsi in camera dopo il
pranzo, e si può presumere, pur col dovuto rispetto, che trascorresse il
pomeriggio a sonnecchiare in deshabillé. Ma De Grey e Miss Aldis
tacitamente convennero che fosse totale follia, nel rigoglio e nella
primavera della vita, sprecare in tal modo le ore più lunghe e più luminose
dell'anno; sicché dal canto loro avevano contratto l'abitudine di ritirarsi
nella penombra del salotto a chiacchierare fino a un'ora prima del tè.
Talvolta, per cambiare, attraversavano il giardino e raggiungevano al
centro della proprietà una specie di serra la cui facciata non guardava la
villa, ma era rivolta a nord e aveva i fianchi coperti di una folta vite
rampicante. All'interno, appoggiata alla parete, c'era una comoda panchina
da giardino e al centro un tavolo su cui Margaret posava il suo cestino da
lavoro e il giovane il libro che, affermando di volerlo leggere, portava
abitualmente con sé. Dentro c'era frescura, ombra profonda e silenzio,
fuori lo splendore abbagliante dell'immenso cielo estivo. Quando parlo di
silenzio, intendo dire che non c'era nulla a interrompere il dialogo di quei
due felici sfaccendati. La loro conversazione passò ben presto a quel tono
sconnesso e volubile che è segno di grande intimità. Margaret trovava
modo di porre a Paul molte domande che non si era sentita libera di
rivolgergli in presenza della madre e di chiedergli ulteriori chiarimenti su
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una quantità di piccoli particolari che la signora De Grey aveva preferito
lasciare nel vago. Paul era estremamente comunicativo. Se Miss Aldis
aveva voglia di ascoltare, lui era senza dubbio contento di parlare. Ma
all'improvviso si rese conto che la disposizione d'animo della sua
interlocutrice era una strana provocazione all'egocentrismo e che da più
d'un mese, in realtà, egli non aveva fatto altro che parlare di sé: delle sue
avventure, delle sue impressioni, dei suoi giudizi.
- Oh insomma, Miss Aldis, - esclamò, - lei sta facendo di me un
mostruoso egoista. Ecco di cosa siete capaci, voi donne. Io non dirò più
una parola di Paul De Grey. Tocca a lei, adesso.
- Tocca a me parlare di Paul De Grey? - domandò Margaret con un
sorriso.
- No, di Miss Margaret Aldis; che, fra l'altro, è un bellissimo nome!
- Fra l'altro davvero! - disse Margaret. - Fra l'altro per lei, forse. Ma
quanto a me, il mio bel nome è tutto quello che ho.
- Se intende dire, Miss Aldis, - esclamò Paul, - che la sua bellezza sta
tutta nel suo nome...
- ... mi sbaglio di grosso. D'accordo, non lo dirò. Il resto è nella mia
fantasia.
- Credo proprio di sì. Certo non nella mia.
In quel periodo Margaret era davvero assai graziosa: un po' pallida per la
calura, ma fiorente e irrobustita dal riposo e dal benessere, e animata, starei
quasi per dire esaltata da un'affettuosa gratitudine. Nell'osservarla mentre
pronunciava quelle parole, De Grey era rimasto fortemente colpito
dall'interesse che riscontrava in quel viso. Sì, senza dubbio, era
indiscutibilmente una bellezza. E il fascino del suo volto si rinnovava e si
animava di continuo grazie alla segreta amabilità della sua anima.
- Sì, Miss Aldis, voglio proprio dire alla lettera che desidero che lei
parli di sé. Voglio sentire le sue avventure. Lo pretendo... lo esigo.
- Le mie avventure? - fece Margaret. - Io non ne ho mai avute.
- Benissimo! - esclamò Paul. - Già questa è un'avventura. Fu così che
Margaret venne a narrargli la breve storia della sua
giovane vita. Per quanto breve fosse, tuttavia non bastò un pomeriggio a
raccontarla per intero; in altri termini, dopo un'intera settimana che aveva
iniziato, la giovane si trovò a dover chiarire a Paul un punto sul quale egli
aveva ricevuto un'impressione sbagliata.
- Ma no, è sposato, - disse Margaret, - gliel'ho detto!
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- Ah, è sposato? - ripetè Paul.
- Sì, e sua moglie è una grassona incredibile. -Ah, sua moglie è una
grassona incredibile?
- Sì, e lui è persuaso che sia un portento.
- Ah, lui è persuaso che sia un portento?
A questo modo, intervenendo Paul di continuo con i suoi commenti, non
c'è da stupirsi che il racconto procedesse adagio. Ma, in aggiunta alle
osservazioni qui riportate, altre, meno esplicite e più profonde, ne andava
maturando il giovane tra sé e sé. Mentre ascoltava la schietta loquela della
bionda fanciulla e pensava a quanti altri al mondo piuttosto che a lui ella
avrebbe potuto rivolgersi in cerca di confidenza e di simpatia, e vedeva
come solo al suo giudizio ella consegnasse i propri ingenui ricordi e
pensieri, così come gli avrebbe posato la candida mano sul braccio, gli
pareva che le oneste intenzioni ch'essa evidentemente gli attribuiva
prendessero agli occhi di lei un carattere più solenne, più elevato. Sbiadiva
tutto lo splendore delle nostalgie e dei ricordi del suo recente soggiorno in
Europa; non si accorgeva più che della presenza di Margaret e della tenue
luce rosea in cui ella si muoveva, come in una sorta di aureola terrena. Era
dunque possibile, si chiedeva, che mentre andava vagabondando per
l'Europa nell'incerta, inquieta ricerca del proprio avvenire, il suo fine, il
suo scopo e tutte queste cose stessero ad aspettarlo tranquille presso il
disertato focolare domestico, tutte raccolte nel virginale candore della più
dolce, della più bella tra le donne? Un giorno, finalmente, questa realtà gli
apparve con tanta chiarezza da fargli esclamare in un'estasi di fiducia e di
gioia:
- Margaret, mia madre ti ha trovato in chiesa, e là, davanti all'altare, ti ha
baciata e abbracciata. Ho ripensato spesso a questa scena. E stata
un'adozione davvero inconsueta.
- Certo, anch'io l'ho pensato spesso, - rispose Margaret.
- Ha significato un vincolo sacro e imperituro, - soggiunse Paul. - In
quel giorno benedetto tu sei venuta da noi per sempre.
Margaret lo guardò con occhi incerti fra il sorriso e le lagrime. - Fin
quando vorrai tenermi, - gli disse. - Ah, Paul! - Poiché un istante era
bastato al giovane per esprimere tutto il suo desiderio, la sua passione.
Benché nutrisse grandissimo affetto e stima per sua madre, Paul aveva
sempre trovato naturale dare la precedenza a Padre Herbert nella richiesta
di assistenza morale e di confidenza. Il vecchio prete era dotato di una
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1970 - Racconti Di Fantasmi
sensibilità e delicatezza che rendevano la sua partecipazione e il suo
consiglio ugualmente gradevoli. Qualche giorno dopo i discorsi intorno ad
alcuni punti salienti cui ho accennato di sfuggita, Paul e Margaret
rinnovarono nella serra le promesse reciproche. Erano ormai così
profondamente certi della sincerità dei loro sentimenti, così felicemente
rassicurati dalle reiterate dichiarazioni che si scambiavano, che altro non
rimaneva loro se non mettere a parte gli anziani del loro segreto.
Attraversarono insieme il giardino; quando furono sulla soglia di casa,
Margaret si accorse di aver dimenticato le forbici nella serra e Paul tornò
indietro a cercarle. La fanciulla entrò in casa: giunta ai piedi dello scalone,
restò ad aspettare l'innamorato. In quel momento Padre Herbert comparve
nel vano della porta del suo studio e guardò Margaret con un sorriso
malinconico. Passandosi lentamente una mano sopra l'altra, la fissò con
sguardo benevolo ma cupo.
- Mi pare, Miss Margaret, - le disse infine, - che lei stia celando un
meraviglioso segreto al suo povero dottor Herbert.
Davanti a quell'affabile venerando erudito Margaret senti che non era il
caso di ricorrere a volgari rossori, a sciocche affettazioni o dinieghi.
- Caro Padre Herbert, - rispose con angelica semplicità, - ho appunto
pregato Paul di parlargliene.
- Ah, figliola mia, - e il vecchio cercò di reprimere un sospiro, - è un
mistero strano e terribile.
Paul entrò ed attraversò il vestibolo col passo leggero di un innamorato.
- Paul, - gli disse Margaret, - Padre Herbert lo sa.
- Padre Herbert lo sa! - ripetè l'ecclesiastico. - Padre Herbert sa tutto.
Come innamorati siete davvero trasparenti, non c'è che dire!
- Lei è molto perspicace, Padre, per essere un prete! - disse Paul
arrossendo.
- L'ho capito da una settimana, - precisò il vecchio con gravità.
- Ebbene, Padre, - riprese Paul, - anche se adesso ci vogliamo tanto più
bene, non per questo ne vogliamo a lei meno di prima e lo stesso speriamo
del suo affetto per noi.
- Padre Herbert trova che è «terribile», - interloquì Margaret sorridendo.
- Oh, mio Dio! - esclamò Herbert portandosi una mano alla testa come in
preda a un dolore acuto. Girò sui tacchi e rientrò nel suo studio.
Paul si passò la mano di Margaret sotto il braccio e segui il sacerdote. Lei soffre, Padre, - gli disse, - all'idea di perderci, all'idea che noi la si
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lasci. Ma non ha proprio ragione di preoccuparsene. Dove dovremmo
andare? Finché lei avrà vita, finché avrà vita mia madre, noi continueremo
a formare una sola famiglia.
Il vecchio sembrava aver riacquistato un contegno.
- Ah! - esclamò, - siate felici sempre e dovunque, e io sarò felice con
voi. Siete così giovani!
- Non poi tanto giovani, - lo corresse Paul ridendo, ma rifiutando per
istinto di essere considerato un ragazzino. - Ho ventisei anni. J'ai vécu, ho
vissuto.
- Ha avuto ogni genere di esperienze, - aggiunse Margaret
appoggiandosi al braccio di lui.
- Non proprio ogni genere -. E Paul con un lieve sorriso abbassò gli
occhi per incontrare lo sguardo di lei.
- Eh, vuol fare il modesto... - mormorò Padre Herbert.
- Paul è stato già quasi sposato, - disse Margaret.
Il giovane ebbe un gesto d'impazienza. Herbert non gli staccava gli occhi
di dosso.
- Perché parlare di quella povera ragazza? - si difese Paul. Dopo il suo
ritorno, pur avendo dato completa soddisfazione a Margaret circa il suo
progettato matrimonio in Europa, aveva sempre evitato, con la scusa che
l'argomento gli riusciva sommamente penoso, di discuterne tanto con la
madre che col vecchio tutore.
- Forse Miss Aldis è gelosa, - insinuò arguto Padre Herbert.
- Oh, Padre! - esclamò Margaret.
- C'è ben poco motivo di gelosia, - disse Paul.
- Ma bravo il nostro Paul! - esclamò l'ecclesiastico. - Si direbbe
addirittura che tu non l'abbia mai amata!
- E la pura verità.
- Oh! - e la voce di Padre Herbert aveva un tono di serio rimprovero
mentre egli posava la mano sul braccio del pupillo. - Non dire così.
- No, Padre, debbo dirlo. Non l'ho mai nascosto nemmeno a lei stessa.
Mi affascinava, m'incantava, ma, com'è vero Dio, non l'ho mai amata.
- Oh, che il Signore ti aiuti! - esclamò il sacerdote sedendosi e
nascondendo il volto tra le mani.
Margaret si era fatta mortalmente pallida e rievocava la scena che s'era
svolta quando avevano ricevuto la lettera di Paul in cui egli annunciava la
rottura del fidanzamento.
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1970 - Racconti Di Fantasmi
- Padre Herbert, - gridò, - quale orribile, spaventoso mistero lei nasconde
in cuore? Se riguarda me... se riguarda Paul... esigo che ce lo dica.
Evidentemente, reso consapevole dall'accento angosciato della giovane
della necessità di un certo autocontrollo, Herbert scopri il viso e rivolse a
Margaret un rapido sguardo supplichevole. Ella intuì cosa aveva inteso
significarle: tacere ad ogni costo. Poi, in uno sforzo sovrumano di
dissimulazione, egli protese le mani e ne posò ciascuna sulla spalla dei due
innamorati. - Scusami, Paul, - disse, -sono uno stupido. I vecchi professori
appartengono a una razza sentimentale, superstiziosa. Noi crediamo ancora
che tutte le donne siano angeli, e gli uomini...
- Tutti sciocchi, - completò Paul sorridendo.
- Appunto. Mentre invece, come vedi, - bisbigliò Padre Herbert, - gli
sciocchi siamo soltanto noi.
Il cuore di Margaret batteva forte nell’ascoltare quello strano scambio di
battute, fermamente decisa a non accontentarsi di cosf vaghe spiegazioni
alle tragiche allusioni fatte dal vecchio.
Herbert intanto scongiurava Paul di aspettare qualche giorno prima di
informare la madre del suo fidanzamento.
Due giorni dopo era domenica, l'ultima d'agosto. Da una settimana il
caldo s'era fatto opprimente, e adesso l'aria era ferma e pesante come per
l'avvicinarsi di un temporale. Nell'alzarsi da tavola, dopo la prima
colazione, Margaret si senti toccare il braccio: era Padre Herbert.
- Non andare a messa, - le disse sottovoce, - trova una scusa per restare a
casa.
- Una scusa?
- Di' che devi scrivere delle lettere.
- Delle lettere? - sorrise un po' amaramente Margaret, - a chi mai dovrei
scrivere delle lettere?
- Oh povero me, allora di' che non ti senti bene. Ti do io l'assoluzione.
Quando saranno usciti, vieni nel mio studio.
Al momento d'andare in chiesa, dunque, Margaret finse una leggera
indisposizione: e la signora De Grey, appoggiandosi al braccio del figlio,
montò nella vecchia carrozza dai bassi strapuntini, che presto si allontanò
dall'ingresso. Margaret si recò senza indugio nel quartierino di Padre
Herbert. Sul viso del vecchio lesse il presagio di qualche spaventevole
rivelazione: tutto il suo aspetto tradiva il peso di un'ineluttabile necessità.
- Figliola mia, - cominciò il sacerdote, - tu sei una giovane coraggiosa e
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1970 - Racconti Di Fantasmi
pia...
- Ah! - gridò Margaret, - si tratta di qualcosa di terribile, altrimenti non
parlerebbe così! Mi dica subito!
- Devi far appello a tutto il tuo coraggio.
- Paul dunque non mi ama?... Oh, per amor di Dio, parli!
- Se non ti amasse di una passione che lo condanna, non avrei nulla da
obiettare.
- Ma dica quello che vuol dire, allora!
- Ebbene... Devi lasciare questa casa.
- Perché?... Quando?... Dove devo andare?
- All'istante, se possibile, devi andare non importa dove, quanto più
lontano tanto meglio... quanto più lontano possibile da lui. Ascolta, figlia
mia, - riprese il vecchio col cuore stretto dall'espressione attonita e
sbigottita che s'era dipinta in volto a Margaret, -non vale protestare,
piangere, opporre resistenza. È la voce del destino!
- Perdoni, reverendo, - disse Margaret, - di che mi accusa?
- Io non accuso nessuno, non accuso nemmeno il cielo.
- Ma c'è un motivo... c'è una ragione...?
Herbert si pose l'indice sulle labbra, indicandole una sedia: poi,
volgendosi verso un vecchio cofanetto posato sulla sua scrivania, lo aperse
e ne tolse un piccolo volume rilegato in pergamena, che sembrava un
antico messale miniato.
- Non mi resta, - concluse, - che raccontarti tutta la storia.
Si sedette di fronte alla giovane, irrigidita nell'attesa. La stanza si andava
oscurando per l'addensarsi di nuvoloni. Il tuono brontolava in lontananza.
- Lascia che ti legga una decina di parole, - disse il prete, aprendo il
volume a una pagina non stampata, ricoperta da una lunga annotazione o
promemoria che fosse, scritta con grafie diverse, alcune minute, altre a
stento leggibili.
- Il Signore sia con te! - E il vecchio si fece il segno della croce.
Involontariamente Margaret lo imitò. «George De Grey, - egli lesse, conobbe e amò, nel settembre 1786, Antonietta Gambini, milanese, morta
il 9 ottobre dello stesso anno. John De Grey sposò il 4 aprile 1749,
Henrietta Spencer, che morì addì 7 di maggio. George De Grey si fidanzò
nell'ottobre 1710 con Mary Fortescue, deceduta addì 31 ottobre. Paul De
Grey di anni 19, promesso nel giugno 1672 in Bristol, Inghilterra, a
Lucretia Lefevre, di anni 31, di detta città. Essa morì il 27 di luglio. John
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1970 - Racconti Di Fantasmi
De Grey scambiò promessa di matrimonio addì 10 gennaio 1649 con
Bianche Ferrars di Castle Ferrars, Cumberland: essa morì per mano
dell'amato il 12 gennaio. Nell'ottobre del 1619 Stephen De Grey offerse la
propria mano ad Isabel Stirling, deceduta entro il mese stesso. Paul De
Grey scambiò, nell'agosto del 1586, promesse d'amore con Magdalen
Scrope, che morì di parto nel settembre del 1587». Padre Herbert tacque. Ti basta? - domandò alzando due occhi di fiamma. - Ce ne sono altre due
pagine. I De Grey sono una famiglia antica: tengono aggiornate le loro
cronache.
Margaret era stata ad ascoltare con un'espressione di orrore sempre più
intensa, feroce, appassionata, un'espressione che tradiva piuttosto rabbia e
orgoglio ferito che non spavento. Spiccò un balzo felino verso il prete e gli
strappò dalle mani il raccapricciante documento.
- Che abominevole assurdità è mai questa? - esclamò. - Cosa significa?
Non sono stata neanche a sentirla: la disprezzo, me ne rido!
Il vecchio le afferrò un braccio e glielo tenne stretto. - Paul De Grey, disse, - scambiò promessa d'amore con Margaret Aldis nell'agosto del
1821: ella morì... al cader delle foglie.
La povera Margaret si guardò intorno in cerca d'aiuto, d'ispirazione, di
un conforto qualsiasi. La stanza non conteneva che fitti scaffali di vecchi
libri pergamenati, ciascuno dei quali pareva una sinistra replica di quello
caduto ai suoi piedi.
Nel silenzio del mezzogiorno risuonò il cupo rimbombo di un tuono.
All'improvviso le forze l'abbandonarono. La mano del destino l'aveva
afferrata: si sentiva debole e sola. Padre Herbert aperse le braccia ed ella
gli si gettò al collo, scoppiando in lagrime.
- Ti rifiuti ancora di lasciarlo? - domandò il prete. - Se lo lasci, sei salva.
- Salva? - ribatté Margaret alzando la testa. - E Paul?
- Ecco, appunto. Ti dimenticherà.
La giovane rifletté un momento. - Perché mi dimentichi, a quanto
sembra, dovrei morire -. Poi, torcendosi le mani in un nuovo accesso di
disperazione: - E sicuro, - gridò, - che non vi siano state eccezioni?
- Nessuna eccezione, figlia mia, - e l'ecclesiastico raccattò il volume. - È
il primo amore, capisci, la prima passione. Dopo, ridiventano innocui:
guarda la signora De Grey. È una stirpe che si porta dietro una maledizione
per un terribile, imperscrutabile mistero. Avevo sperato che tu ne fossi
indenne, figliola, e che lo scotto l'avesse pagato la povera signorina L. Ma
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1970 - Racconti Di Fantasmi
Paul ha fatto di tutto per disilludermi. Ho indagato nella sua vita, ho
sondato la sua coscienza: il suo cuore è puro. Ah, bambina mia! L'ho
temuto fin dal primo momento. Ho tremato quando sei entrata in questa
casa. Volevo che la signora De Grey ti mandasse via. Ma lei ride di tutto
questo, dice che sono fole da vecchie comari. Lei sì, si è salvata: ma a suo
marito di lei non importava un fico secco. Però, sepolta in terra italiana, c'è
una ragazzina dagli occhi scuri che potrebbe narrarle un'altra storia. Era la
vita stessa, figliola, un raggio vivente del suo sole meridionale; e i baci di
De Grey la fecero appassire, morire. Non chiedermi quando tutto ciò è
cominciato: è sempre stato così, fin dalla notte dei tempi. Si dice che uno
di questa stirpe abbia fatto ritorno dall'Oriente, dalle Crociate, affetto dai
sintomi della peste. Prima della partenza aveva giurato amore a una
fanciulla e le nozze dovevano aver luogo subito dopo il suo ritorno. Non
sentendosi bene, il cavaliere volle consultare un fratello maggiore della
sposa, esperto di taumaturgia e al quale venivano attribuiti poteri magici.
Questi accertò in lui i sintomi del terribile male e lo richiamò al dovere di
rinviare il matrimonio. Il giovane crociato si rifiutò di obbedire e il
medico, in preda all'ira, scagliò una maledizione sull'intera sua
discendenza. Le nozze ebbero luogo: di lì a una settimana la sposa morì fra
atroci sofferenze; il giovane invece guari dopo aver superato una lieve
malattia. La maledizione aveva attecchito.
Margaret prese in mano lo strano vecchio libro di preghiere e lo apri al
macabro elenco di morti. Al pensiero di ciò che tristemente la affratellava
a tutte quelle sventurate d'altri tempi, si senti gelare il cuore. Sventurate le
donne sì, ma, ahimè, dieci volte più sventurati gli uomini, vittime
impotenti di sentimenti funesti! Margaret taceva, fissando il libro con
sguardo assente; quasi meccanicamente lo aperse a un'altra pagina e lesse
una ben nota orazione alla Vergine benedetta. Poi, levando la testa, con gli
occhi azzurro-cupo scintillanti di fredda, irreversibile decisione, di un
prodigioso atto di volontà: - Padre Herbert, - pronunciò solennemente a
bassa voce, - io revoco la maledizione, la cancello: la maledico!
Da quel momento, nulla l'avrebbe più indotta a dedicare un solo istante
al pensiero di trovar salvezza nella fuga. Era troppo tardi, dichiarò. Se era
destino che morisse, ormai aveva assorbito il contagio fatale. Ma bisogna
vedere. Non che tenesse in dispregio l'esistenza o il potere del terribile
maleficio: era semplicemente persuasa, e con così profonda fiducia in sé
da riempire il vecchio erudito di un'ammirazione mista ad angoscia, che
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1970 - Racconti Di Fantasmi
invano esso avrebbe esercitato, una volta per tutte, la propria forza
trascendente sulla sua esistenza appassionata e devota. Padre Herbert
giunse le mani tremanti, rassegnato. Aveva fatto il suo dovere: il resto era
affidato a Dio. Vissuto com'era da anni nel timore del momento ormai
sopraggiunto, la cui ombra gli aveva oscurato tutta la vita, gli pareva
talvolta che fra le bizzarre possibilità offerte da madre natura vi potesse
anche esser quella che una fragile e pura fanciulla, obbedendo all'ordine
dell'amore oltraggiato, insorgesse alla riscossa dell'infelice dinastia cui egli
aveva dedicato gli anni della sua maturità. V'erano poi dei momenti in cui
pareva a Herbert ch'ella si buttasse con gioia nell'oscuro abisso. In ogni
caso il senso del pericolo aveva rinnovato in Margaret energie e fascino; e
se Paul non fosse stato troppo conquiso da quella febbrile gaiezza e grazia
per preoccuparsi di cercarne le ragioni e l'origine, ben difficilmente
avrebbe potuto spiegarne l'improvvisa, morbosa intensità. Da lei esortato,
il giovane annunciò senz'altri indugi il suo fidanzamento alla madre, che
atteggiò il viso a grande benevolenza e fece a Margaret l'onore di una
specie di bacio ufficiale.
- Povero me! - brontolò Padre Herbert. - Adesso questa crederà di averli
uniti per sempre! - E l'indomani, quando la signora De Grey, parlandogli
della cosa, confessò che in verità le costava un certo sforzo accettare come
figlia una ragazza a cui aveva pagato uno stipendio... - Uno stipendio,
signora! - esclamò il prete con una risata amara, - parola d'onore, mi pare
che meno di così lei non potesse fare!
- Nous verrons, - replicò compunta la signora De Grey. Passò una
settimana senza presagi funesti. Paul viveva in un'estasi di virile felicità.
C'erano momenti in cui era quasi sgomento dalla pienezza con cui il suo
amore e la sua fede venivano ripagati. Margaret era come trasfigurata,
esaltata dalla passione che ardeva nel suo cuore. «Basta che una ragazza
qualunque, non specialmente bella, s'innamori, - pensava Paul, - e
diventerà graziosa, avrà un suo fascino. Quando poi s'innamora una bella
ragazza...» E, se Margaret era presente, gli occhi eloquenti del giovane
lasciavano intendere il resto; se invece non c'era, con passi inquieti
muoveva alla sua ricerca. Negli ultimi dieci giorni la bellezza di lei
sembrava aver acquistato calore e opulenza: Paul s'immaginava addirittura
che la sua voce si fosse fatta più profonda, più armoniosa. Sembrava
cresciuta d'età, si sarebbe detto che avesse superato d'un balzo un anno del
suo sviluppo, che la sua giovinezza avesse toccato il suo punto di piena
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1970 - Racconti Di Fantasmi
maturazione e, anziché essere al di qua del giorno delle nozze, ella ne
fosse già al di là.
Frattanto Paul acquistava consapevolezza di un indefinibile, sottile
cambiamento delle sue emozioni personali. Il delicato sentimento di
compassione ch'essa gli suscitava, quel senso così accattivante di
debolezza che emanava da lei, la devozione angelica che con dolce
tensione aveva gonfiato la piena dei suoi affetti, tutto questo era svanito
per dar luogo a un vago e profondo moto di rispetto. Margaret non era,
dopo tutto, un personaggio tanto semplice: anche la sua indole celava dei
misteri. In verità, pensava Paul, la sensibilità, la delicatezza sono premio a
se stesse. Egli si era chinato a cogliere quel pallido fiore di una casa senza
sole, ne aveva intinto il gambo sottile nelle acque vive del suo amore, ed
ecco, quel fiore aveva levato il capo, dischiuso i suoi petali, ed ora
splendeva fulgido di porpora e di verde. Quella radiosa forza della bellezza
gli incuteva un tremore ch'era quasi un presagio. Bramava possederla, la
guardava con occhio cupido, voleva poterla chiamare sua per sempre.
- Margaret, - le disse, - tu sei per me fonte d'incredibile felicità. Diventi
ogni giorno più bella. Dobbiamo sposarci subito, altrimenti, di questo
passo, il giorno delle nostre nozze finirò per avere una paura terribile di te.
Giuro sull'anima di mio padre che non mi aspettavo una cosa simile!
Guardati in quello specchio -. E la fece voltare verso una lunga specchiera
che si trovava nello spogliatoio della madre; la signora De Grey era
passata nella camera accanto.
Margaret si vide riflessa dalla testa ai piedi nelle cristalline profondità
dello specchio e si rese conto del suo mutamento. Dalla curva delle spalle
ben tornite il capo si ergeva con una sorta di altera serenità: gli occhi erano
lucidi, le labbra frementi, il seno si sollevava e si abbassava nell'empito
della sua totale dedizione. «Bianche Ferrars, di Castle Ferrars, - disse fra
sé, - Isabel Stirling, Magdalen Scrope... povere sciocche! Non eravate
donne, voi: eravate delle bambine!» - È colpa tua, Paul, - disse poi ad alta
voce, - se sono così cambiata. Perché c'è un tale amore fra noi? «E,
vedendo accanto al suo il viso del giovane, ebbe l'impressione che fosse
sbiancato. - Mio Paul, - gli disse afferrandogli le mani, - sei pallido. Bella
cera davvero per un innamorato felice! Sei nervoso, ecco. Ohimè, mio
signore! Sarà per quando tu vorrai.
Le nozze vennero fissate per l'ultimo di settembre. Subito le due donne
si diedero un gran daffare con l'acquisto del corredo. Col suo stipendio
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1970 - Racconti Di Fantasmi
Margaret era riuscita a metter da parte una somma sufficiente per
comperarsi un bel vestito da sposa, ma per gli altri capi del guardaroba le
fu giocoforza rimettersi alla liberalità della signora De Grey, alla quale non
si faceva scrupolo di far spendere ingenti somme di denaro e, spese quelle,
di chiederne altre. Provava un piacere intenso, violento, nel procacciarsi in
gran numero i tessuti più ricchi. Le pareva di essersi finalmente staccata da
ogni stupida dignità, ogni riservatezza, ogni convenzionale ritegno, quasi
si fosse spogliata della propria coscienza per offrirla a donne comuni,
felici, spregiudicate. Andava ammucchiando il corredo come per una
specie di baldanzosa sfida a qualche incombente calamità, e si sentiva tutta
animata dalla volontà di superarla, di scongiurarla, di sgominarla.
Un giorno stava attraversando il vestibolo con un campione di stoffa
appena ricevuto dal negozio. Era un grosso scampolo di seta di un rosa
intenso, un lembo del quale le era ricaduto dal braccio sul piede. La porta
dello studio di Padre Herbert era spalancata: Margaret si fermò un istante,
poi entrò.
- Mi perdoni, reverendo, - disse, - ma mi sembrava un peccato non farle
vedere questo splendido campione. Non è un rosa magnifico? È quasi
rosso, è un carminio. È il colore del nostro amore, della mia morte. Padre
Herbert! - gridò con un'acuta, sonora risata, - è il mio sudario! Non le pare
che come sudario non sarebbe male? Un sudario di seta rosa, con trine
color miele e trapunto di perle?
Il vecchio la guardò angustiato.
- Figliola mia, - le disse, - Paul avrà in te una moglie impareggiabile.
- Senza dubbio, se lei mi paragona a quelle donzelle del suo libro di
preghiere. Eh, Paul avrà una moglie, quanto meno. Questo è certo.
- Ebbene, - soggiunse il vecchio, - sei più coraggiosa di me, tu. Mi fai
spaventare.
- Caro Padre, non fu lei, un'altra volta, a farmi spaventare?
Il sacerdote fissò Margaret con affetto misto a sofferenza. - Dimmi
figliola, - le disse, - in tutto questo trambusto trovi mai il modo di pregare?
- Dio me ne guardi! - esclamò la poverina. - Non ho il cuore disposto
alla preghiera!
Con Paul teneva lunghi discorsi sulle loro gioie future, sulla vita serena
che avrebbero condotto. Egli dichiarò che avrebbe impresso un diverso
orientamento alle loro abitudini, che la famiglia non sarebbe più rimasta
sepolta nel silenzio e nella penombra. Era uno stato di cose assurdo e Paul
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1970 - Racconti Di Fantasmi
si stupiva che si fosse mai verificato. Avrebbero cominciato a vivere come
gli altri, a occupare il loro giusto posto in società. Avrebbero ricevuto
gente, avrebbero viaggiato, di sera sarebbero andati a teatro. Margaret non
aveva mai visto una commedia: dopo il matrimonio avrebbe potuto
vederne una alla settimana per un anno, se lo desiderava. - Non temere,
cara, - dichiarò Paul, - non ho intenzione di seppellirti viva: non ti sto
scavando la fossa. Se pensassi che ti accontenti di vivere come vive quella
povera donna di mia madre, tanto varrebbe che ci sposassimo con un rito
funebre!
Quando Paul parlava con tanta spensierata animazione, lo sguardo fisso
a un lungo e felice avvenire per il quale non nutriva dubbi, Margaret traeva
dalle sue parole un'intrepida serenità, uno sprezzo di qualsiasi pericolo. Il
segreto di Padre Herbert sembrava una visione, una fantasia, un sogno:
finché, passato un po' di tempo, ella si trovò di nuovo faccia a faccia col
vecchio prete e in quei tratti tirati lesse che, per lui, esso era sempre una
realtà profonda. Nondimeno, nel passar febbrilmente dalla speranza al
timore, dall'esaltazione all'angoscia, mai per un istante ella cessava di
sorvegliare con occhio vigile le proprie sensazioni fisiche, in attesa di
sintomi morbosi di paranoia. Con quel terribile peso sul cuore, si stupiva di
non essere stata spinta già da tempo nel baratro della follia, o soverchiata
da totale demenza. Pensava che, per quanto dolorosa le sarebbe stata
l'ignoranza del mistero in cui la sua vita si era trovata coinvolta, esserne a
conoscenza era ancor più terribile. Per tutta la settimana successiva al suo
incontro con Padre Herbert delle ventiquattro ore del giorno non ne aveva
dormito neppure mezza; e tuttavia, lungi dal soffrire per la mancanza di
sonno, si era sentita - come mi sono sforzato di dimostrare - quasi drogata,
elettrizzata dalla tensione incessante e dal controllo della propria volontà.
Ma sapeva bene che ciò non poteva durare per sempre.
Un pomeriggio, qualche giorno dopo aver fatto alla sua futura sposa
quelle brillanti promesse, Paul era montato in sella per una cavalcata.
Margaret, in piedi accanto al cancello, lo guardò con rimpianto allontanarsi
al galoppo mentre le mandava un bacio con la mano. Un'ora prima del tè,
lasciata la sua stanza, entrò nel salotto dove la signora De Grey s'era
sistemata in attesa della sera. Un istante dopo Padre Herbert, che stava
accendendo la lampada nel suo studio, udì risuonare nella casa un grido
acutissimo.
Il cuore gli si fermò. «È giunta l'ora, - si disse, - sarebbe peccato non
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assistervi». Si affrettò verso il salotto, seguito dai domestici, essi pure
messi in allarme dal grido. Margaret giaceva abbandonata sul divano,
pallida, immobile, ansimante, con gli occhi chiusi e la mano premuta su un
fianco. Herbert scambiò una rapida occhiata con la signora De Grey che
stava china sopra la giovane, tenendole l'altra mano.
- Niente scandali, almeno, - disse dignitosamente la signora, e subito
congedò i domestici. A poco a poco Margaret si riebbe, assicurò che non
era nulla, un semplice acuto dolore improvviso: ora si sentiva meglio e
pregò i presenti di non agitarsi. La signora De Grey andò in camera sua a
prendere una boccettina di sali odorosi lasciando Herbert solo con
Margaret. Egli stava inginocchiato a terra, e le teneva la mano. Margaret si
sollevò a sedere sul sofà.
- So quello che sta per dirmi, - esclamò, - ma è falso. Dov'è Paul?
- Hai intenzione di dirglielo? - chiese Herbert.
- Dirglielo? - ripetè Margaret levandosi in piedi. - Se morissi, gli
strazierei il cuore, ma se glielo dicessi, glielo spezzerei.
Si era alzata, come ho detto: aveva udito e riconosciuto il passo rapido
del suo innamorato nel corridoio. Paul spalancò la porta ed entrò
precipitosamente, ansante e mortalmente pallido. Margaret gli andò
incontro premendosi ancora la mano sul fianco, mentre anche Padre
Herbert s'alzava di scatto.
- Cos'è accaduto? - gridò il giovane. - Ti sei sentita male?
- Chi ti ha detto che sia accaduto qualcosa? - gli rispose Margaret.
- Che fa Padre Herbert in ginocchio?
- Pregavo, figliolo, - disse il sacerdote.
- Margaret, - ripetè Paul, - in nome del cielo, che cosa ti succede?
- Che cosa succede a te, Paul? Direi che sono io a dovertelo chiedere.
De Grey fissò la giovane con uno sguardo cupo, indagatore, poi chiuse
gli occhi e si afferrò alla spalliera di una seggiola, come colto da un
capogiro. - Dieci minuti fa, - disse, e parlava lentamente, - cavalcavo lungo
il fiume: improvvisamente l'aria fu squarciata da un grido lontano che
sapevo venire da te. Ho voltato il cavallo, e via al galoppo! Ho percorso tre
miglia in otto minuti.
- Un grido, Paul? E perché avrei dovuto gridare? E farmi sentire tre
miglia lontano! Un bel complimento per i miei polmoni!
- Be', - fece il giovane, - sarà stata la mia immaginazione. Ma l'ha sentito
anche il mio cavallo: ha rizzato le orecchie e con uno scarto è partito come
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una freccia.
- Anche per lui si sarà trattato d'immaginazione! È la prova che sei un
ottimo cavaliere, se tu e la tua bestia vi sentite un sol uomo!
- Ah, Margaret, non scherzare!
- Un solo cavallo, allora!
- Ebbene, qualunque cosa sia stata, non mi vergogno di confessarlo,
sono tutto sconvolto. Non so cosa mai sia successo ai miei nervi.
- Allora, per carità, non rimanere lì a rabbrividire e a barcollare come se
avessi la febbre. Vieni, siediti sul divano -. Lo prese per un braccio e lo
accompagnò al sofà. Egli l'afferrò per il braccio a sua volta e la fece sedere
accanto a sé. Padre Herbert usci senza far rumore, inosservato. Fuori
incontrò la signora De Grey con i suoi sali odorosi.
- Non credo che ne abbia più bisogno, adesso, - le disse. - C'è Paul con
lei -. E i due si trasferirono insieme al tavolo del tè. Quand'ebbero quasi
finito, Margaret entrò con Paul.
- Come ti senti, caro? - domandò la signora De Grey.
- Sta molto meglio, - si affrettò a rispondere Margaret.
La signora sorrise compiaciuta. «Senza dubbio, - pensò, - la mia futura
nuora sa dire le cose con molto garbo».
L'indomani, entrata nella stanza della signora De Grey, Margaret vi
trovò Paul insieme alla madre. Quest'ultima aveva gli occhi rossi, come se
avesse pianto, e Paul aveva un'espressione turbata, come se avesse appena
fatto una penosa confessione. Vedendo entrare Margaret, egli si portò
davanti alla finestra e guardò fuori, senza rivolgerle la parola. Essa finse di
essere venuta a cercare qualcosa da cucire e, trovato quanto le interessava,
si ritirò. Ma si sentiva profondamente ferita. Cosa aveva fatto Paul, cosa
aveva detto? Perché non le aveva rivolto la parola? Perché le aveva voltato
le spalle? Soltanto la sera prima, quando s'erano trovati soli nella sala di
soggiorno, egli si era mostrato così indicibilmente tenero... Era un mistero
crudele, ed ella non avrebbe avuto pace finché non l'avesse chiarito,
benché di pace ne avesse assai poca anche così. Nel pomeriggio Paul
ordinò di nuovo il cavallo e si vesti per una cavalcata. Margaret lo attese al
varco in fondo alle scale, completo di stivali e speroni, e poiché il cavallo
non era ancora pronto, si diresse con lui in giardino.
- Paul, - gli disse tutt'a un tratto, - che cosa dicevi stamane a tua madre?
Sì, - soggiunse tentando invano un sorriso, - devo confessarlo: sono gelosa.
- Oh, anima mia! - esclamò il giovane portandosi tutt'e due le mani al
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1970 - Racconti Di Fantasmi
viso.
- Mio caro Paul, - disse Margaret prendendogli il braccio, - è
un'espressione dolcissima, ma non è una risposta.
Paul si fermò nel vialetto, afferrò le mani della ragazza e la fissò
insistentemente in viso, con un'espressione ch'era in realtà di stanchezza,
no, peggio, di disperazione. - Sei gelosa, dici?
- No, adesso non più! - ella esclamò stringendogli le mani.
- È la prima sciocchezza che ti ho sentito dire.
- Ebbene, sì, è stato da sciocca essere gelosa di tua madre; ma sono
tuttora gelosa della tua solitudine, di questi piaceri che non mi è consentito
dividere con te... gelosa del tuo cavallo... delle tue lunghe cavalcate.
- Desideri che smetta di andare a cavallo?
- Paul, caro, ti dà di volta il cervello? Desiderarlo... è un conto; dire che
lo desidero significa fare la figura della sciocca.
- Il mio cervello... il mio cervello è con qualcosa che se n'è andato per
sempre! - Chiuse gli occhi e contrasse la fronte come per un dolore acuto. Con la mia giovinezza, la mia speranza, come devo dire? la mia felicità.
- Ah! - esclamò Margaret in tono di rimprovero, - hai bisogno di
chiudere gli occhi per pronunciare questa parola!
- Ma via, che cos'è la felicità se non si ha la giovinezza?
- Eh diamine, si direbbe ch'io abbia quarant'anni! - esclamò Margaret.
- E va bene, purché io ne abbia sessanta!
La giovane intuì che dietro quella battuta scherzosa si celava qualcosa di
molto grave. - Paul, - gli disse, - il guaio è che tu non stai bene,
semplicemente questo.
Egli fece un cenno di assenso e con quell'assenso parve a lei che una
mano invisibile le strappasse la vita dal cuore.
- È questo che dicevi a tua madre? Egli assenti di nuovo.
- E che non volevi dire a me?
Paul avvampò. - Naturalmente, - rispose.
Margaret gli lasciò le mani e, stremata, si abbandonò su una panchina
del parco. Poi, levandosi d'un tratto: - Va', va' a fare la tua cavalcata, soggiunse. - Ma prima, baciami una volta.
E Paul la baciò, poi montò in sella. Rientrando in casa, ella s'incontrò
con Padre Herbert che, dalla veranda dell'ingresso, era stato a guardare il
giovane allontanarsi a cavallo, e stava ora tornando al suo studio.
- Mia cara figliola, - disse il prete, - Paul sta molto male. Dio voglia che,
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se tu riesci a sopravvivere, non debba essere lui a pagarne il prezzo!
Per tutta risposta Margaret, passandogli accanto, lo fissò con uno
sguardo gelido, spettrale, angosciato, che parve una pungente risposta ai
timori che attanagliavano il cuore di lui. Raggiunta la propria camera, la
giovane si sedette sul letto, sforzandosi di pensare in modo chiaro,
meditato. Le parole del vecchio sacerdote avevano destato un'eco profonda
nella sconfinata solitudine spirituale del suo essere. Doveva dunque
concludere che, nonostante l'intensità del suo amore, l'anatema era
assoluto, ineluttabile, eterno. Poteva mutare direzione, ma non essere
eluso; malgrado gli spasimi parossistici di un'angoscia umana, esso
reclamava insaziabile la sua vittima. Ogni sua energia era esaurita: che le
restava da fare? Tutta la sua splendida ostentazione di coraggio e di
spavalderia veniva meno di colpo, ed essa era seduta lì, sola sola, in una
prostrazione che la faceva rabbrividire. Stupida illusa ch'era stata a voler
nascondere la sua pena per un giorno, per un'ora, all'uomo che l'amava!
Quanto più greve era il fardello, tanto più avrebbe dovuto confidare in lui!
Ciò che nessuno dei due riusciva a sopportare da solo, certamente
avrebbero potuto sopportarlo insieme. Ma lei, cieca, insensibile, crudele,
gli aveva a poco a poco succhiato dalle vene la linfa vitale: mentre lei
sbocciava e fioriva, lui intristiva e si sfibrava. Mentre lei viveva per lui, lui
moriva di lei. Esecranda, infernale commedia! Da che cosa sperare aiuto,
ora? Pensò al suicidio, alla fuga; l'uno valeva più o meno l'altra. Se,
improvvisamente annientandosi, avesse potuto liberare, dispensare Paul,
non le ci sarebbe voluto che un istante per immergersi un coltello nel
cuore. Ma chi avrebbe potuto escludere che, indebolito e stremato di forze
com'era, il trauma della morte di lei non avrebbe provocato la fine anche
per Paul? Peggio d'ogni altra cosa era il sospetto ch'egli avesse cominciato
a non amarla più e che una sia pur vaga percezione dell'influsso nefasto
che da lei emanava si fosse ormai impadronita di lui. Era freddo, era
distante. Altrimenti, perché - quando aveva incominciato a sentirsi
veramente male - non s'era confidato prima di tutto con lei? Provava per
lei repulsione, odio. Nondimeno, con tutta l'avidità della disperazione,
Margaret si aggrappava ancora all'idea che non era troppo tardi per
metterlo sull'avviso, per rivelargi tutti gli orrori del proprio segreto. Allora,
qualunque cosa fosse avvenuta, morte o liberazione, almeno sarebbero
stati insieme ad affrontarla.
Ora, sottratta all'incantesimo del suo immaginario trionfo, si sentiva
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sopraffatta ed esausta. Tutto il suo essere si struggeva dal desiderio di
sonno e di oblio. Chiuse gli occhi e piombò in un riposante sopore.
Quando tornò in sé, la camera era buia. Si alzò, andò alla finestra, vide le
stelle. Accesa una candela, si accorse che la sua pendolina segnava le
nove. Aveva dormito cinque ore. Si vesti in fretta e scese dabbasso.
Nel salotto, presso una finestra aperta, avvolta in uno scialle, era seduta
la signora De Grey.
- Beata te, cara, - esclamò, - che riesci a dormire sodo, mentre noi si è
tutti in questo stato.
- In che stato, signora?
- Paul non è rientrato.
Margaret non rispose; era intenta ad ascoltare in lontananza lo scalpitio
di un cavallo. Corse fuori dalla stanza, verso la porta d'ingresso, e
attraverso il cortile raggiunse il cancello. Alla luce oscura delle stelle vide
avanzare un'ombra e udì un rapido risuonar di zoccoli. La poverina per un
attimo trattenne il fiato. Il cavallo di Paul arrivava di corsa, senza
cavaliere. Margaret, con un grido, si gettò in avanti, aggrappandosi alle
briglie, ma la bestia ebbe uno scarto improvviso ed emise un alto nitrito;
poi, rallentando solo un po' la corsa, irruppe nel recinto attraverso un punto
più basso, e Margaret ne udì risuonare i ferri sul lastricato che portava alla
scuderia, dove l'accolsero le grida e le esclamazioni dello stalliere.
Fuori di sé, Margaret si lanciò a precipizio nel buio, lungo la strada,
chiamando Paul per nome. Non aveva percorso un quarto di miglio che udì
una voce in risposta. Ripetè il grido e riconobbe gli accenti dell'amato.
Se ne stava ritto, appoggiato a un albero e appariva illeso: ma il viso
riluceva nell'oscurità, come una maschera di rimprovero, bianco, in un
fosforescente sudore di morte. Si era sentito a un tratto vacillare, colto da
vertigine, e nello sforzo di mantenersi in sella aveva spaventato il cavallo
che si era furiosamente impennato, disarcionandolo. Si appoggiò alla
spalla di Margaret cercando sostegno, e le parlò con voce rotta.
- Andavo come un pazzo, - le disse. - Mi sentivo già male al momento
d'uscire, ma senza l'ombra di un motivo. Ero deciso a farmi passare il
malessere col moto all'aria aperta -. E si fermò ansimando.
- E ora ti senti meglio, amore mio? - gli sussurrò Margaret.
- No, peggio. Sto morendo.
Margaret strinse il suo diletto fra le braccia, mentre dalla bocca le usciva
un gemito prolungato e lacerante che echeggiò nella notte.
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- Non ti appartengo più, cara anima infelice... Per chissà quali fatali,
inesorabili vincoli appartengo ormai all'oscurità, alla morte, al nulla, che
mi stanno soffocando... Mi senti?
- Ah, insensata e sciocca che sono stata, ti ho ucciso io!
- Credo di sì... Strano, però. Cos'è, Margaret? Tu eserciti un incantesimo
funesto e fatale... - La sua voce era poco più d'un sussurro, come se stesse
per venirgli meno: Margaret ne percepiva l'alito freddo sul viso, il braccio
di Paul le cingeva il collo.
- Su, avanti, - gridò. - Continua! Dì qualcosa che possa uccidermi!
- Addio, addio! - disse Paul, accasciandosi senza vita.
L'urlo di Margaret era stato il segnale che aveva guidato gli atterriti
abitanti della casa al punto dove essa si trovava. La rinvennero seduta sul
ciglio della strada, i piedi ciondolanti in un fosso, le braccia strette intorno
al corpo esanime del suo diletto che copriva di baci, gemendo disperata. La
sua mente, non meno che il corpo di lui, erano stati abbandonati dai sensi;
e per l'una come per l'altro non v'era speranza di ricupero.
Trascorsero, non occorre dirlo, molti e molti mesi prima che la signora
De Grey si sentisse in grado di alludere esplicitamente all'immane sciagura
che aveva travolto la sua casa; quando lo fece, Padre Herbert si stupì di
constatare ch'ella si rifiutava ancora d'accettare l'idea di un potere
soprannaturale sulla vita di suo figlio e si cullava nella tranquilla certezza
che fosse morto per una caduta da cavallo.
- E se invece fosse morta Margaret? L'avesse voluto il cielo! -disse il
prete.
- Oh, ammettiamolo pure! - rispose la signora De Grey. - Ma lei se lo
augurerebbe per amore della sua teoria?
- Supponiamo che Margaret avesse avuto un amore, un amore
appassionato, un uomo che le avesse offerto il suo cuore prima che Paul
l'incontrasse, e che poi fosse venuto Paul a portarle amore e morte...
- E con questo?
- Quale dei tre, secondo lei, avrebbe avuto maggior motivo di
sofferenza?
- Sono sempre quelli che sopravvivono alle sciagure a meritare pietà, concluse la signora De Grey.
- Sì, signora, quelli che sopravvivono... anche dopo cinquant’anni.
Traduzione di Maria Luisa Castellani Agosti.
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L'ULTIMO DEI VALERII
Più d'una volta avevo avuto occasione di dichiarare che, se la mia
figlioccia avesse desiderato sposare uno straniero, io le avrei rifiutato il
mio consenso. Eppure, quando a Roma mi venne presentato il giovane
conte Valerio come suo pretendente gradito e seriamente intenzionato,
dopo averlo fissato con meraviglia per un istante, mi trovai a considerare il
felice giovanotto con una certa benevolenza paterna; pensai anzi che dal
punto di vista pittorico (lei con i suoi ricci biondi, lui con i suoi ricci scuri)
formavano una coppia singolarmente ben assortita. Lei me lo presentò con
un misto d'orgoglio e di timidezza, spingendolo avanti a sé, mentre con
uno dei suoi sguardi di colomba mi pregava di mostrarmi molto educato.
Non so se di regola io non produca tale impressione, ma Martha era così
presa dalla grandeur del suo promesso che le sembrava impossibile
onorarlo come si meritava. Senza dubbio la grandeur del conte Valerio
non era affatto qualcosa per cui una fanciulla americana dall'aspetto
principesco e dalle quasi principesche abitudini avesse da insuperbirsi; ma
lei ne era disperatamente innamorata, e non solo il suo cuore era rimasto
colpito ma anche la sua fantasia. Era davvero bellissimo, di una bellezza
che non dipendeva soltanto da felici lineamenti esteriori, come
generalmente avviene nella bella razza romana. V'era nella sua mirabile
maschera una tenerezza latente, e il suo grave, lento sorriso, se non
lasciava presagire un intelletto specialmente sveglio, suggeriva però l'idea
di una virile costanza, che prometteva bene per la felicità di Martha. Aveva
poco della superficiale urbanità a buon mercato dei suoi connazionali: dal
suo sguardo spirava una specie di stolido candore, come se tenesse in
sospeso la risposta finché non fosse sicuro di avervi ben compreso. Un po'
ottuso lo era certo, e immaginavo che a una domanda di natura politica o
estetica avrebbe risposto con particolare lentezza. - È buono, forte,
coraggioso, - mi aveva però assicurato la ragazza; e io le credetti senza
fatica. Forte, il conte Valerio lo era di certo; aveva una testa e un collo
come certi busti del Vaticano. Per il mio occhio, ormai abituato da gran
tempo a guardare le cose dal punto di vista del pittore, era un vero fastidio
vedere un collo del genere emergere dalla cravatta bianca allora di moda,
un collo che sosteneva una testa massicciamente rotonda come quella
dell'imperatore Caracalla, e ricoperta dalla stessa folta corona scultorea di
ricci. La sua capigliatura superba, simile a quella che dovevano avere gli
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1970 - Racconti Di Fantasmi
antichi Romani quando, a capo scoperto e abbronzati, percorrevano il
mondo a piedi, formava un arco perfetto sopra la fronte bassa e liscia,
prolungandosi sul mento e sulle guance in una barba fitta e crespa, forte di
forza propria e per nulla indurita dal rasoio. Nessuna delicatezza nel naso
né nella bocca, che erano anzi di taglio marcato, di belle proporzioni,
maschio. Il suo colorito era d'un lucido bruno scuro, inalterabile da
qualsiasi emozione, e i grandi occhi splendenti sembravano fissarvi come
due pietre dure ben polite. Era di statura media, con un torace dalla
circonferenza così generosa che ci si aspettava quasi di sentir scricchiolare
la camicia ad ogni respiro. E tuttavia, con quel suo sorriso semplice e
umano, non aveva l'aria né di torello né di gladiatore. La sua voce
altisonante non era affatto aspra, e la sua prolissa, cerimoniosa risposta al
mio saluto echeggiò con la stessa corposa solennità con cui nell'età
d'Augusto si dovevano pronunciare le orazioni civili. Io, che avevo sempre
considerato la mia figlioccia una personcina molto americana in tutte le
onorevoli accezioni del termine, dubitavo che quel giovane latino
tracagnotto avrebbe saputo cogliere l'elemento oltreoceanico del suo
carattere; sicuramente, però, sarebbe stato per lei un amante ardente e
leale. Lei, nella sua grazia sfumata, mi sembrava così tenera, così
incantevole, così affascinante, da non lasciar credere ch'egli pensasse a
questo più che all'altrettanto cospicua sostanza della quale, da buon
italiano, doveva aver tenuto esatto conto: sospetto, questo, che non cessava
di assillarmi. I beni terreni di lui consistevano nella tenuta paterna, una
villa all'interno delle mura di Roma, che le sue magre risorse finanziarie
avevano lasciato cadere in penoso abbandono. - È innamorata della villa
non meno che del conte, - diceva la madre di Martha. - Sogna di convertire
il conte, e va bene. Ma il suo sogno è di restaurare la villa!
I tappezzieri vennero chiamati, credo, già prima del matrimonio, e vi fu
un gran sfregare e spazzar saloni, un gran rastrellare e sarchiare viali e
vialetti. Mentre aveva luogo questo cerimoniale, Martha compiva frequenti
ispezioni; ma un giorno, tornandone, entrò nel mio studiolo con un'aria di
comico orrore. Li aveva trovati intenti a grattare il sarcofago del grande
viale di lecci, a spogliarlo del suo rivestimento di muschio, a scrostare la
sacra muffa dei secoli! Era così che pensavano di rendere comoda la villa!
Martha aveva ordinato agli uomini di trasportare il sarcofago nel luogo più
umido che potessero trovare; giacché ciò che soprattutto apprezzava,
subito dopo il sorriso - lento ad apparire e lento a scomparire - del suo
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innamorato, era la tinta rugginosa dei suoi marmi aviti.
La conversione del giovane conte progrediva meno in fretta, e in verità
ritengo che la fidanzata mettesse poco zelo nella faccenda. Nutriva per lui
un amore così devoto da tener per certo che nessun mutamento di fede
avrebbe potuto migliorarlo; per amor suo sarebbe stata pronta a dire le
preghiere a Gesù Bambino il giorno dell'Epifania. Ma egli aveva il buon
gusto di non richiederle un simile sacrificio, e io rimasi colpito dal felice
significato d'una scena di cui fui casuale spettatore. Fu in San Pietro, un
venerdì pomeriggio, durante la funzione dei vespri nella cappella del coro.
Incontrai la mia figlioccia che passeggiava serena al braccio del suo
innamorato, mentre la madre si era seduta vicino all'ingresso su un
seggiolino pieghevole. La folla era radunata lì intorno e la maggior parte
della basilica era vuota. Di tanto in tanto le acute voci dei coristi
invadevano il grande spazio adiacente, dissolvendosi adagio nell'atmosfera
greve d'incenso. Qualcosa nell'incedere della fanciulla e il modo in cui si
teneva stretta al braccio del fidanzato mi fecero intuire la pienezza della
sua soddisfazione. Quando, rovesciando il capo all'in-dietro, guardò verso
la solenne immensità della volta e della cupola, mi fu chiaro che si trovava
in quell'invidiabile stato d'animo in cui ogni senso si concentra su un unico
punto, e che l'impressione derivantele dagli splendori circostanti era
tutt'uno con l'estasi della sua fiducia. Si fermarono davanti a quel nero
gruppo di confessionali poliglotti che così solennemente proclamano la
peccaminosità del mondo, e mi parve che Martha asserisse con forza
qualche cosa. Pochi minuti dopo li raggiunsi.
- Non è forse d'accordo con me, caro amico, - disse il conte, sempre con
la sua consueta, affabile deferenza, - che prima di sposare una creatura così
dolce e pura come questa, dovrei accostarmi a uno di quei luoghi e
confessare ogni peccato di cui mi son reso colpevole... ogni cattivo
pensiero, impulso o desiderio della mia grossolana protervia?
Martha lo fissò con uno sguardo un po' di protesta e un po' di omaggio,
quasi a voler insistere sul fatto che il suo innamorato non poteva aver vizi,
e nello stesso tempo che, se ne aveva, erano qualcosa di meraviglioso. - Ha
sentito? - esclamò sorridendo. - Sarebbe un elenco lungo, e se aspetterai di
averlo finito, farai tardi per le nozze. Ma se tu confessi i tuoi peccati per
me, è solo giusto che io confessi i miei per te. Sa che cos'ho detto a
Marco? - aggiunse rivolgendosi a me con quella confidenza semifiliale che
mi aveva sempre dimostrato, mentre le guance le si tingevano di rosa. Henry James
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Che voglio fare per lui qualcosa di più di quanto fanno in genere le ragazze
per il loro promesso: compiere un gran passo, correre qualche rischio,
violare magari qualche legge! Sono dispostissima a cambiar religione, se
lui me lo chiede. In certi momenti sono terribilmente stanca di stare a
guardare a bocca aperta il cattolicesimo; sarà un sollievo venire a
inginocchiarsi in una chiesa. Dopo tutto, le chiese sono fatte per questo!
Perciò, Marco mio, se il pensiero che sono eretica getta un'ombra sul tuo
cuore, andrò a inginocchiarmi davanti a quel buon vecchio prete ch'è
appena entrato nel confessionale laggiù e gli dirò: «Padre, mi pento,
abiuro, credo. Mi battezzi nell'unica fede».
- Se è un omaggio al conte, - dissi io, - mi pare che toccherebbe a lui
prevenirlo, rinunciando per te a qualcosa di altrettanto importante.
Martha aveva parlato allegramente, con un sorriso e tuttavia con un
sottofondo di ardore fanciullesco. Il fidanzato la guardò con un'espressione
solenne, perplessa, e scosse il capo. - Conserva la tua religione, - disse. - A
ciascuno la sua. Se tu volessi abbracciare la mia, temo che fra le tue
braccia cingeresti un'ombra! Io non sono un buon cattolico, un buon
cristiano! Tutti questi canti e riti e splendori io non li capisco. Da bambino
non sono mai riuscito a imparare il catechismo, il mio povero vecchio
confessore di tanti anni fa dovette rinunciarvi: mi diceva ch'ero un bravo
ragazzo, ma un pagano! Tu non devi essere più devota di tuo marito; non
che io capisca meglio la tua religione, ma ti prego di non cambiarla con la
mia: se ha contribuito a far di te quella che sei, dev'essere buona -. E, presa
la mano della fanciulla, stava per portarla teneramente alle labbra; ma a un
tratto, ricordando che si trovavano in un luogo non consono alle passioni
profane, la riabbassò con un sorriso divertito. - Andiamo via, - mormorò,
passandosi una mano sulla fronte, -quest'aria pesante di San Pietro
m'inebetisce ogni volta.
In maggio si sposarono, e in estate ci separammo; la mamma della
contessa attraversò l'oceano per illuminare della sua nobiltà riflessa la
cerchia domestica. Quando io tornai a Roma in autunno, trovai la giovane
coppia sistemata nella villa Valerio, ormai parzialmente riscattata
dall'antico decadimento. Avrei desiderato che la mano delle migliorie
avesse agito con maggior delicatezza, poiché – da quel vecchio e
spregiudicato pittore di vestigia e rovine che ero, con l'occhio sempre
rivolto ai «soggetti» - preferivo che le macerie fossero lasciate libere di
macerarsi a loro talento. La mia figlioccia era della stessa opinione:
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apprezzava al massimo le antichità. Consultandosi con me, spesso, su
progetti di modifiche, si rivelava talvolta più conservatrice di me, e io ebbi
a sorridere più d'una volta del suo zelo archeologico e a dichiararle che
pensavo avesse sposato il conte perché somigliava a una statua della
decadenza. Ero stabilmente invitato a passare le mie giornate alla villa, e il
mio cavalletto era sempre installato in uno dei viali del giardino. Mi
sentivo sempre più attratto a dipingere in quel luogo, a familiarizzare con i
suoi cespugli intricati, con gli alberi contorti, con le anfore ricoperte di
muschio, i sarcofaghi ammuffiti e i malinconici busti di quei tetri antichi
Romani che difficilmente avrebbero potuto permettersi un aspetto più
arcigno. La proprietà non era molto vasta; ma, sebbene vi fossero molte
altre ville più pretenziose e splendide, nessuna mi sembrava più
squisitamente romantica, più visitata dai fantasmi del passato. Memorie
aleggiavano nel profumo dei fiori selvatici, nel ronzio degli insetti. C'era,
tra quei recessi solitari e abbandonati, un vecchio viale di lecci nel quale
solevo passare religiosamente mezz'ora al giorno - poiché, debbo
confessarlo, mezz'ora era il massimo del tempo che potevo resistere senza
cominciare a starnutire. Gli alberi s'inarcavano e s'intrecciavano nella
simmetria più perfetta sopra la cupa prospettiva; ed essendo l'intero viale
esposto a ponente, il sole del tramonto vi trasfondeva una sorta di foschia
dorata, giocando con mille dita vermiglie sopra le foglie, i rami nodosi, i
marmi muschiati. Era pieno di frammenti di sculture dissepolte: statue
senza nome, teste senza naso, sarcofaghi di rozza fattura che gli
conferivano una deliziosa solennità. Le statue si ergevano in quella
costante mezza luce come oggetti consapevoli, meditabonde su tutto ciò
che avevano visto nei secoli. Io indugiavo accanto ad esse, quasi sperando
che mi parlassero e mi raccontassero i loro segreti di pietra, che mi
sussurrassero con voce roca i nascondigli dei loro compagni di
disfacimento, ancora celati sotto terra.
La mia figlioccia, innamoratissima, godeva di uno stato di felicità
idilliaca. Io ero costretto ad ammettere che anche le regole più rigide
hanno le loro eccezioni e che una volta tanto un conte italiano poteva
essere un portento di autenticità. Marco era un originale perfetto (non una
copia) e pareva molto soddisfatto dell'apprezzamento dimostratogli. La
vita dei due era uno scambio infantile di carezze, candide e naturali come
quelle di un pastore e di una pastorella in un poemetto bucolico.
Passeggiare per il viale di lecci sentendo il braccio del marito cingerle la
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vita, e la spalla di lui contro la sua guancia; arrotolargli sigarette che lui
fumava sbuffando nella grande rotonda pavimentata di marmo al centro
della villa; riempirgli il bicchiere da una vecchia anfora rugginosa - erano
queste le graziose mansioni che facevano la gioia della giovane contessa.
A volte cavalcava con lui nell'ombra erbosa di acquedotti e di sepolcri, e
a volte acconsentiva a che egli mostrasse la sua bella moglie a pranzi e
balli romani. Dopo pranzo giocava con lui a domino e di tanto in tanto
rispettava la buona norma di leggergli i giornali. L'osservanza di tale
regola era soggetta a fluttuazioni, data l'invincibile tendenza del conte ad
appisolarsi - debolezza che sua moglie non cercava mai di dissimulare o
attenuare in alcun modo. Allora gli si sedeva vicino e gli scacciava le
mosche, mentre lui giaceva statuariamente russando, e se per caso io
m'avvicinavo lei si poneva un dito sulle labbra e sussurrava che, a suo
giudizio, suo marito addormentato non era meno bello che da sveglio.
Confesso che mi sentii sovente tentato di risponderle che era perlomeno
altrettanto discorsivo, perché la felicità del giovane non aveva moltiplicato
gli argomenti sui quali era disposto a conversare. Aveva un notevole buon
senso, e in generale valeva la pena di sentire il suo parere su qualsiasi
argomento pratico. Veniva spesso a sedersi vicino a me mentre io lavoravo
al cavalletto e gratificava di amichevoli critiche ciò che stavo facendo. I
suoi gusti erano un po' rozzi, ma possedeva un occhio eccellente, e la sua
capacità di misurare le proporzioni fra un particolare del mio abbozzo e
l'oggetto che cercavo di riprodurre era attendibile come quella d'uno
strumento matematico. Ma mi sembrava d'avvertire in lui non so se uno
strano riserbo o un'ancor più strana semplicità; mi faceva l'effetto d'essere
totalmente sprovvisto di alcunché di lontanamente simile a un'idea. Non
aveva credi né speranze né timori: nulla che non fosse senso, appetiti, gusti
serenamente lussuosi. Spesso, mentre lo guardavo passeggiare intento a
rimirarsi le unghie, mi domandavo se fosse dotato di qualcosa che si
potesse propriamente definire anima, e se la buona salute e il buon
carattere non fossero tutte le qualità positive che possedeva. «Fortuna che
è di buon carattere, - ripetevo tra me, - perché, se non lo fosse, non ci
sarebbe nulla nella sua coscienza capace di tenerlo a freno. Se non avesse
nervi saldi ma fosse d'indole irascibile, ci strangolerebbe tutti come Ercole
fanciullo strangolò i poveri serpentelli. È l'uomo allo stato di natura! Per
fortuna di una natura buona, che mi consente di mescolare i colori a mio
agio». Chissà a che pensava, chissà cosa gli passava per la mente nell'ozio
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solatio che sembrava escluderlo dal mondo dell'attività quotidiana: di quel
mondo di cui, nonostante la mia passione d'imbrattare vecchie tavole
ritraendo malamente statue muffite contro sfondi di bosso, continuavo a
lusingarmi di far parte. Giungevo addirittura a credere che a volte si
astraesse totalmente dal mondo.
Aveva atteggiamenti in cui la sua consapevolezza appariva tanto remota
e il suo intelletto così irresponsabile e sordo, che nulla sarebbe riuscito a
stimolarlo se non un nuovo, tenero appellativo o qualche improvvisa
violenza. Anche nella tenerezza che nutriva per sua moglie c'era qualcosa
che mi metteva a disagio. Avesse o no un'anima lui stesso, pareva non
sospettare che l'avesse lei. Io nutrivo un interesse paterno per lo sviluppo
della parte immortale di Martha. Il mio affetto mi faceva credere che fosse
una creatura suscettibile di vita morale; ma che ne sarebbe stato della sua
vita morale in quell'interminabile luna di miele paganeggiante? Un bel
giorno si sarebbe stancata dei beaux yeux del conte a avrebbe fatto appello
al suo intelletto. Essa coltivava, a quanto sapevo, progetti di studio, di
beneficenza, si proponeva di sostenere degnamente il suo ruolo di contessa
Valerio, posizione per la quale le cronache di famiglia fornivano
edificantissimi esempi. Ma se il conte trovava soporiferi i giornali, c'era da
dubitare che avrebbe sfogliato velocemente le pagine di Dante per leggerle
a sua moglie, o che avrebbe sorriso di gusto agli aneddoti del Vasari.
Come poteva uno come lui consigliarla, istruirla, darle appoggio? E se
fosse diventata madre, come avrebbe diviso con lei le responsabilità?
Senza dubbio avrebbe trasmesso al figlioletto ed erede due solide paia di
braccia e di gambe e una magnifica corona di riccioli; qualche volta si
sarebbe tolta di bocca la sigaretta per baciare una fossettina; ma mi era
difficile immaginarlo a prestar la propria voce per insegnare al robusto
rampollo l'alfabeto o le preghiere o i rudimenti della virtù infantile. In
verità il conte aveva una caratteristica che ne avrebbe fatto un piacevole
compagno di giochi: portava in tasca una raccolta di preziosi frammenti di
pavimenti antichi, pietruzze di porfido, malachite, lapislazzulo, basalto,
scavate nel suo stesso terreno e rese lucenti dall'uso. Non di rado lo si
vedeva intento a maneggiarle per una buona mezz'ora, divertendosi a
gettarle in aria e poi riacchiapparle, a ordinarle in cerchio, a buttarle in alto
una dopo l'altra e farsele ricadere sul dorso della mano. Era di un'abilità
notevole: lanciava in alto un sassolino e prima che gli ricadesse in mano
gettava, riprendeva e spostava tutti gli altri. Io lo stavo a osservare,
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
affettuosamente preoccupato: da certi segni capivo che in Martha andava
facendosi luce la sensazione d'essere, almeno un tantino, stranamente
maritata.
Col passare delle settimane mi parve una volta o due di leggere quei
segni nel suo sguardo; pareva che ripensasse a certi miei vecchi discorsi
nei quali avevo affermato - con quanto fondamento è senza dubbio
opinabile - che un francese, un italiano, uno spagnolo, per quanto possa
essere un'ottima persona, non sarà però mai capace di rispettare realmente
la donna che afferma di amare. Per lo più, tuttavia, i miei allarmi, sospetti
e pregiudizi si dissipavano facilmente nell'atmosfera incantata della nostra
abitazione, romantica e classica insieme. Vivevamo fuori dal mondo
moderno e gli scrupoli moderni ci erano estranei. Quel luogo era così
luminoso, così pieno di pace, così sacro al silente, imperturbabile passato,
che un'appaga-ta sonnolenza sembrava la sua legge naturale; e quando, a
volte, seduto a dipingere, vedevo i miei compagni attraversare a braccetto
l'orizzonte di uno di quei vasti panorami e poi, tornando alla mia tavolozza
con quella radiosa visione negli occhi, avevo l'impressione che i colori
fossero impalliditi, avrei potuto credere senza difficoltà di essere un
vecchio cronista monastico, un copista impegnato a miniare una leggenda
medievale.
La decisione presa dal conte, cedendo alle pressioni di sua moglie, di
dare inizio a una serie di scavi sistematici, contribuì a rasserenare la mia
disposizione di spirito. Gli scavi sono un lusso costoso: né Marco né i suoi
più recenti antenati avevano mai posseduto i mezzi per una ricerca
archeologica disinteressata. Ma sua moglie si era convinta che il
calpestatissimo suolo della villa fosse pieno di tesori sepolti come un dolce
di nozze è pieno di uva passa, e che sarebbe stato un grazioso omaggio
all'antica dimora che l'aveva accolta come padrona il devolvere parte della
propria dote alla rimessa in luce dei suoi vetusti trofei. Non era aliena,
penso, dall'immaginare che una simile liberalità avrebbe concorso a
purificare i suoi dollari yankee dallo sgradevole lezzo mercantile. Si munì
di erudite istruzioni in materia, e di lì a poco sarebbe stata pronta a
giurarvi, sulla base di presupposti irrefutabili, che una colossale Minerva
di bronzo, menzionata da Strabone, aspettava placidamente d'esser
risuscitata a cento metri di distanza dall'angolo di nord-ovest della casa.
Invitò a pranzo un paio di vecchi antiquari asmatici, li esortò a inusitate
libagioni, li spedì a passeggiare sui terreni; e sebbene fossero in totale
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1970 - Racconti Di Fantasmi
disaccordo su qualsiasi argomento al mondo, ciascuno le assicurò che
ricerche ben condotte avrebbero probabilmente consentito un'ine-guagliata
messe di scoperte. Il conte si era mostrato non solo indifferente ma
addirittura ostile al progetto, e più d'una volta aveva posto termine in tono
insolitamente aspro alle compiaciute allusioni fatte al riguardo dalla
consorte. - Lasciali stare in pace, quei poveri dèi diseredati, tutte le
Minerve, Apolli e Cereri che sei così sicura di trovare, - le aveva detto, non interrompere il loro sonno. Che vuoi da loro? Non possiamo adorarli.
Vorresti metterli su un piedestallo per starli a rimirare beffardamente? Se
non puoi credere in loro, non li disturbare, e che riposino in pace! Ricordo che fui molto colpito da una confessione estortagli da sua moglie:
rispondendo a certe rimostranze ch'essa gli fece in tal senso, affermò
scherzosamente di essere davvero un gran superstizioso. - Sì, perbacco,
sono superstizioso! - esclamò. - Troppo, forse! Ma io sono un italiano
all'antica, e devi prendermi come sono. Qui si sono viste e fatte cose che si
lasciano dietro strani influssi! Certamente non hanno presa su di te, che
vieni da un'altra razza; ma io li avverto spesso nel mormorio delle foglie,
nell'odore della terra putrida, nello sguardo vacuo delle statue. Io, le statue,
non le posso guardare in faccia. In quelle orbite vuote mi sembra di vedere
altri strani occhi, e non riesco a capire quel che mi dicono. Per me sono
fantasmi, queste povere vecchie statue; e, in coscienza, ce ne sono già
abbastanza qui attorno, che guatano, che scrutano in ogni angolo d'ombra!
Basta con gli scavi, o io non rispondo dei miei nervi!
Questa autodenuncia della ipersensibilità di Marco era troppo bizzarra
per non sembrare a sua moglie quasi una celia; e sebbene io intuissi che
nascondeva dell'altro, una celia era cosa tanto rara in lui che mi sarebbe
rincresciuto mutare in sospetto il sorriso di quella brava figliola. E fu il suo
sorriso ad avere la meglio: di li a qualche giorno, infatti, arrivò una specie
di esperto archeologo o commissario agli scavi, con una dozzina d'operai
irti di picconi e di vanghe. Dal canto mio ero segretamente infastidito da
quelle misure energiche, perché, malgrado il mio amore per le sculture
dissepolte, mi spiaceva veder tormentare la terra e deploravo i rumori
profani che d'ora innanzi avrebbero turbato l'assonnata quiete dei giardini.
Mi era particolarmente antipatico il personaggio che guidava le operazioni:
un brutto nanerottolo, simile in tutto e per tutto a un genietto sotterraneo, a
uno gnomo degl'inferi. Andava intorno forzando il terreno, con un
sorrisetto maligno che tradiva il suo piacere più per il denaro che il signor
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conte avrebbe seppellito là sotto che non quello per le sculture e i bronzi
sperati. Una volta smosse le prime zolle, l'umore del conte parve assai
cambiato: la curiosità aveva avuto in lui il sopravvento sugli scrupoli.
Annusava deliziato il profumo della terra umida e, mentre gli operai
scavavano sempre più a fondo, stava ad osservarli con sguardi di
compiaciuta ammirazione; ogni volta che una picconata risuonava contro
un sasso lanciava un grido acuto, e solo l'assicurazione datagli dal piccolo
perito che si trattava di un falso allarme, lo tratteneva dal balzare dentro lo
scavo. La prospettiva di scoperte imminenti sembrava agire sui suoi nervi;
più d'una volta mi accadde d'incontrarlo mentre passeggiava inquieto tra i
suoi viali di cedri, quasi che avesse finalmente imparato anche lui a
riflettere. Mi prendeva per un braccio e mi faceva passeggiare al suo
fianco, tenendomi lunghi discorsi sulle probabilità di una «scoperta». Quel
suo improvviso accalorarsi mi stupiva non poco: mi chiedevo se ciò che
l'interessava era il passato o il futuro -ossia l'interesse intrinseco di
eventuali Minerve e Apolli, oppure il loro valore di mercato. Quando il
conte visitava gli scavi e - come avveniva molto spesso - prendeva a
rimproverare d'infingardaggine il suo piccolo esercito di badilanti, quel
soldo di cacio di soprintendente ai lavori mi guardava con una strizzatina
d'occhi, quasi a insinuare che a volte gli scavi sono una trappola. Si rimase
parecchio tempo nell'incertezza perché furono compiuti diversi tentativi
infruttuosi, si fecero sondaggi nei punti sbagliati. Il conte era scoraggiato:
ne faceva fede la ripresa dei suoi pisolini. Ma il mastro scavatore, che
aveva idee precise in proposito, prosegui nelle sue sagaci fatiche; seduto al
mio cavalletto, io udivo il gaio rumore dei picconi che urtavano contro le
pietre rimosse, e ogni tanto mi fermavo per un'incontrollabile
accelerazione dei battiti del mio cuore. «Potrebbe darsi davvero, - mi
dicevo, - che qualche capolavoro marmoreo si stesse scrollando nel sentir
diminuire il peso della terra! I buoni pesci del mare non sono mai stati
pescati tutti! E se mi chiamassero a salutare il ritorno alla celebrità di un
altro Antinoo, o di una Venere, di un Fauno, di un Augusto?»
Una mattina mi parve di aver inteso per più di mezz'ora un alternarsi di
voci insolitamente vivace; ma, tutto assorto com'ero in un punto
complicato del mio lavoro, non indagai. D'un tratto un'ombra cadde sulla
mia tela; io mi voltai a guardare. Il piccolo scavatore mi stava a lato col
berretto in mano, lo sguardo scintillante, la testa grondante sudore. Nel
cavo del suo braccio era adagiato un frammento di marmo sporco di terra.
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1970 - Racconti Di Fantasmi
In risposta alla mia occhiata interrogatrice lo sollevò per mostrarmelo, e
vidi una bella mano femminile. - Venga! - mi disse semplicemente, e mi
fece strada verso lo scavo. Gli operai erano così fittamente radunati presso
la buca aperta che non vidi nulla finché egli non li fece scostare. Allora, in
pieno sole, e quasi rimandandone il riflesso ad onta delle scure
incrostazioni, vidi, sostenuta da pietre contro un mucchio di terra, una
maestosa figura marmorea. Mi sembrò poco meno che gigantesca, sebbene
subito dopo mi rendessi conto che le sue proporzioni erano solo quelle di
una donna eccezionalmente alta. Le tempie presero a pulsarmi, perché
intuii che mi trovavo di fronte a qualcosa di grande, e che essere fra i primi
a conoscerla era un vero privilegio. La sua bellezza perfetta le conferiva un
aspetto quasi umano, e i suoi occhi assenti sembravano ricambiare con
stupore i nostri sguardi. Era avvolta in un ampio drappeggio: capii perciò
che non si trattava di una Venere. - E una Giunone, - asserì con sicurezza
l'esperto; e sembrava in effetti l'incarnazione di una supremazia, di una
calma celestiale. La sua bella testa, cinta da una semplice fascia, non si
sarebbe potuta chinare che in un cenno d'imperio; gli occhi guardavano
dritto davanti a sé, la bocca era di un'implacabile gravità; una delle due
mani era protesa come se avesse tenuto una verga di comando; l'altro
braccio, mutilato della mano, pendeva lungo il fianco in atteggiamento
maestoso e regale. La lavorazione era estremamente delicata, e sebbene
l'opera mostrasse forse un'espressione personale più decisa del consueto,
nel complesso era trattata nello stile semplice e naturale del grande periodo
ellenistico. Era un capolavoro di maestria e un miracolo di conservazione.
- Il conte è informato? - domandai subito, provando come il rimorso che i
nostri occhi stessero defraudandola di qualche cosa.
- Il signor conte sta facendo la siesta, - rispose il padrone col suo
sogghigno scettico. - Preferiamo non disturbarlo.
- Eccolo che viene! - gridò uno degli operai, e tutti fummo subito pronti
a fargli strada. Evidentemente la sua siesta era stata interrotta
all'improvviso: era rosso in viso, coi capelli arruffati.
- Ah, ma il mio sogno... il mio sogno era giusto, allora! - egli esclamò
mentre, immobile, fissava la statua.
- Che cos'ha sognato? - gli domandai, poiché la sua faccia esprimeva
piuttosto costernazione che gioia.
- Che avevano trovato una meravigliosa Giunone, e che s'era alzata e mi
era venuta incontro e aveva posato la sua mano di marmo sulla mia, Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
rispose il conte tutto eccitato.
- Santissima Vergine! - proruppe sgomento uno degli sterratori che
l'aveva ascoltato.
- Sì, signor conte, e questa è la mano! - asserì il soprintendente
sollevando verso di lui il frammento perfetto. - È mezz'ora che me la tengo
qui, al sicuro; impossibile, dunque, che l'abbia toccata!
- Ma è chiaro che lei non s'è sbagliato sul punto che fosse una Giunone, dissi io. - L'ammiri pure a suo talento -. E mi voltai; preferivo, se il conte
era superstizioso, non metterlo in imbarazzo standolo a osservare.
Raggiunsi in fretta la casa per recare la notizia alla mia figlioccia, che
trovai assopita - senza sogni, si sarebbe detto - sopra un grosso volume di
archeologia. - Hanno toccato il fondo, - le dissi, - hanno trovato una statua
dello stile di Fidia o di Prassitele, a dir poco! - Essa lasciò cadere il libro e
suonò per farsi portare un parasole. Le descrissi la statua, ma, temo, in
modo poco aderente al vero, perché Martha fece una smorfietta ironica.
- Un lungo peplo a pieghe? - ripetè. - Che strano! Non riesco a credere
che sia bella.
- E bella quanto basta a renderti gelosa, figlioccia mia, - replicai.
Trovammo il conte in piedi, fisso nella contemplazione della dea risorta,
a braccia conserte. Sembrava essersi ripreso dall'impressione del sogno,
ma mi parve che il suo volto tradisse un'emozione ancor più profonda. Era
pallido, e non reagì all'affettuosa stretta di braccio della moglie. Non sono
sicuro, però, che l'atteggiamento di lei non fosse piuttosto un ammirato
tributo alla perfezione di quella figura. Uscendo nel giardino, ella aveva
continuato a ridere del mio entusiasmo, e io m'ero risovvenuto di
un'asserzione letta non so più dove: che alle donne manca la percezione
della bellezza più pura. Tuttavia Martha sembrava rendersi lentamente
conto dell'infinita maestà della nostra Giunone. La rimirò a lungo in
silenzio, appoggiata al marito, e poi scese, un po' esitante, sulle pietre che
facevano da rozzo sostegno alla statua. Appoggiò le mani rosee, senza
guanti, sulle dita di pietra della dea, e per qualche istante le tenne
caldamente avvinte, fissando i suoi occhi vivi su quella fronte cieca.
Quando si voltò verso di me, gli occhi le brillavano delle lagrime che a
volte può provocare una profonda ammirazione e che, in quel momento,
suo marito era troppo assorto per rilevare. Evidentemente egli aveva già
ordinato di sturare - in onore degli sterratori che avevan fatto la scoperta un barilotto di vino che fu portato e aperto sul posto; il piccolo perito,
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1970 - Racconti Di Fantasmi
versato il primo bicchiere, si fece avanti col cappello in mano e presentò
cerimoniosamente il calice alla contessa. Ella se ne inumidì solo le labbra
e lo porse al marito, il quale lo alzò con gesto meccanico all'altezza della
bocca; poi si fermò di colpo, lo tenne alto un istante, e infine, con mossa
lenta e solenne, lo versò ai piedi della dea.
- Oh, - esclamai, - questa è una libagione! - Egli non rispose e si
allontanò a passi lenti.
Quel giorno non si lavorò più. Gli uomini stettero sdraiati sull'erba,
assaporando da buoni romani il gusto di una bella scultura, ma senza
sprecare il vino in riti pagani. La sera il conte fece un'altra visita alla dea e
dette ordini perché all'indomani fosse trasportata nel chioschetto.
Chiamavano così un padiglione abbandonato che sorgeva nel giardino,
dalla non sgradevole architettura imitante un tempio ionico, nel quale i
progenitori di Marco dovevano essersi spesso radunati a sorbire freschi
sciroppi da bicchieri veneziani, ascoltando madrigali e altri concerti*.
Conteneva alcuni preziosi frammenti di sculture antiche, ed era
sufficientemente spazioso per ospitare quella più ricca collezione di cui la
Giunone cominciava ad apparire al mio animo entusiasta il nucleo
originario. E ben presto, infatti, essa vi venne collocata, serenamente eretta
su un piedistallo abbastanza solido, costituito da un cippo funerario
rovesciato. Il minuscolo soprintendente, che era, a quanto pareva, un
provetto esperto di operazioni di restauro, la strigliò e la scrostò con
misteriosa perizia, rimosse le macchie di terra, le restituì tutto il lustro
della sua bellezza. Le ferme, raffinate fattezze della dea sembravano
risplendere di una sorta di rinascente purità, e se non fosse stato per quella
mano spezzata, si sarebbe potuto credere che avesse appena ricevuto
l'ultimo colpo di scalpello. La sua presenza non rimase segreta. Di lì a due
o tre giorni una mezza dozzina di conoscenti curiosi s'erano messi in coda
per averne visione. Mi capitò d'esser presente quando il primo di questi
signori (un tedesco con gli occhiali blu e una cartella sottobraccio) si
presentò alla villa. Il conte, udita la sua voce all'ingresso, venne avanti
squadrandolo freddamente da capo a piedi.
- A mio avviso, signor conte, - cominciò il tedesco, - la sua nuova
Giunone è più probabilmente una certa Proserpina...
- Non ho né una Giunone né una Proserpina di cui discutere con lei, replicò seccamente il conte. - Lei è male informato.
- Non ha dissepolto una statua? - esclamò il tedesco. - Che scandalosa
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presa in giro!
- Nessuna degna della sua erudita attenzione. Mi dispiace che si sia
disturbato a portare fin qui il suo libretto d'appunti -. Il conte era diventato
di colpo spiritoso!
- Ma senza dubbio lei ha qualcosa. E voce comune in tutta Roma.
- Al diavolo la voce! - esclamò il conte esasperato. - Non ho niente!...
Ha capito? Abbia la bontà di riferirlo ai suoi amici!
La risposta era stata esplicita, e il povero archeologo riparti scuotendo la
zazzera color lino. A me però fece compassione e osai muovere al conte
qualche rimostranza. - Tanto varrebbe che fosse restata sotto terra, se
nessuno deve vederla, - dissi.
- Devo vederla io: io e basta! - rispose lui con la stessa insolita asprezza
di prima. E un attimo dopo, accortosi che lo guardavo insospettito,
sgomento e sorpreso: - Mi faceva orrore con quel suo gigantesco album.
Ne avrebbe fatto un disegno orribile.
- Ah, questa è per me, - risposi. - Anch'io avevo in animo di farne un
piccolo schizzo.
Tacque per qualche istante, poi si volse e mi afferrò il braccio, meno
irritato, ma con singolare gravità. - Ci vada verso il crepuscolo, - disse, - e
resti seduto un'ora a guardarla. Credo che rinuncerà al suo schizzo. E se
no, caro vecchio amico... faccia come crede!
Seguii il suo consiglio e, rispettando la nostra amicizia, rinunciai al mio
abbozzo. Ma un artista è un artista, e io mi struggevo in segreto dal
desiderio di tentare. Ai domestici vennero impartiti ordini severi in
conformità alla risposta data dal conte al nostro amico tedesco, e costoro,
con coscienza italianamente tranquilla e cordiale capacità di persuasione
assicurarono tutti i successivi postulanti che purtroppo erano stati male
informati. In verità non dubito che, in mancanza di occasione più
favorevole, riuscirono a rendere remunerative le loro espressioni di
rammarico. Per il momento furono sospese ulteriori operazioni, ad evitare
di recar affronto all'incomparabile Giunone. Gli operai se ne andarono, ma
il piccolo esperto continuò a bazzicare da quelle parti saggiando il suolo
per proprio diletto. Un giorno venne da me con la sua solita smorfia
ambigua. - La bella mano della dea, - mormorò, - che fine ha fatto?
- Io non l'ho più veduta da quando lei mi ha chiamato ad ammirarla.
Ricordo che, quando me ne andai, era adagiata sull'erba, presso lo scavo.
- Dove l'avevo posata io stesso! Poi, è scomparsa. Pare impossibile!
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- Sospetta qualcuno dei suoi uomini? Un frammento come quello
renderebbe più scudi di quanti la maggior parte di loro ne abbia mai visti!
- Alcuni, forse, sono più ladri di altri. Ma, se richiamassi il più
mascalzone del gruppo e lo accusassi, il conte si metterebbe di mezzo.
- Eppure anche il conte dev'essere consapevole del valore di quella bella
mano.
Lo pseudo archeologo si guardò attorno e ammiccò. - Ne è così
consapevole ch'è stato lui a sottrarla. Questa è la mia convinzione, e credo
che meno ne parliamo meglio è.
- Sottrarla? Ma, caro signore, dopo tutto è di sua proprietà.
- Quanto a questo, non sono d'accordo! Una meraviglia come quella è
più o meno proprietà di tutti: ognuno di noi ha il diritto di guardarla! Ma il
conte la tratta come se fosse una santa immagine della Madonna; la tiene
sotto chiave e va a vederla da solo. Che altro può fare? Quando una bella
donna è di marmo, tutto quello che se ne può fare è guardarla. E cosa fa di
quella mano preziosa? La tiene in un cofano d'argento, ne ha fatto una
reliquia! - E con un grottesco sghignazzo il cinico personaggio si
allontanò.
Mi lasciò ad almanaccare con disagio su che diavolo avesse voluto dire.
Certo, il conte aveva deciso di circondare la sua Giunone di mistero; ma
nella prima estasi del possesso la cosa appariva naturale. Io ero pronto ad
attendere il permesso di avvicinarmi alla statua e, intanto, mi rallegravo di
constatare che l'apatia costituzionale di Marco aveva trovato un limite.
Però, col passare dei giorni, cominciai a rendermi conto che il suo
godimento non era comunicativo, ma stranamente freddo, schivo,
riservato. Il fatto che si estasiasse per una dea marmorea non era un motivo
perché disprezzasse il genere umano, eppure egli sembrava proprio fare
odiosi confronti con noi. Né da quella ridicola proscrizione era eccettuata
la sua affascinante consorte. Talvolta, quando cercavo di persuadermi che,
come compagno, il conte non fosse né peggiore né migliore del consueto,
una certa espressione sul viso di lei contraddiceva la mia superficiale
opinione. Martha non diceva nulla, ma aveva uno sguardo perplesso che
muoveva a compassione. A volte stava a fissarlo con occhi imploranti di
curiosità, quasi che sul momento fosse troppo sorpresa per essere irritata.
Su cosa avvenisse tra loro in privato, io non avevo naturalmente alcun
diritto di indagare. Nulla, temevo -e questo appunto era il guaio! Come
pure faceva parte del guaio ch'egli rimanesse impenetrabile a quei muti
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sguardi e vagasse con gli occhi al disopra della testa di lei con aria di altera
distrazione. Ogni tanto pareva rendersi conto che anch'io non sapevo cosa
pensare del suo stato, e allora per un istante nei suoi occhi spenti passava
come un baleno, un po' - si sarebbe detto - per una sorta di sinistra ironia,
un po' per un impulso di giustificazione inspiegabilmente represso non
appena lo avvertiva. Ma da sua moglie teneva inesorabilmente distolto lo
sguardo; e quando Martha gli si avvicinava con qualche malinconico
tentativo di tenerezza, l'accoglieva con un brivido mal dissimulato. La
situazione mi pareva orribilmente assurda, tanto che finii col detestare il
conte e tutto ciò che gli apparteneva. «Avevo mille volte ragione, - mi
ripetevo, - un conte italiano può anche essere un gran signore, ma sempre
conte italiano rimane! Fosse un bel ragazzone robusto del nostro sangue,
non ci giocherebbe nessuno di questi oscuri tiri da vecchio mondo! Io, che
pure aspiravo ad essere un artista, non raccomanderò mai più un marito di
antiche tradizioni!» Persi il piacere di frequentare la villa con le sue ombre
violette e le sue luci d'ambra, i marmi muschiosi e la lunga striscia del
profilo dei Colli Albani. Non riuscivo più a dipingere: tutto mi sembrava
brutto. Seduto, pasticciavo con la tavolozza e mi pareva di mescolare i
colori con la mota. Lugubri pensieri mi si affollavano nella mente, un peso
insopportabile mi opprimeva il cuore. Nella mia immaginazione il povero
conte divenne una cupa efflorescenza del cattivo germoglio innestato dalla
storia nella sua stirpe. Nessuna meraviglia che fosse predestinato ad essere
crudele. Non era infatti la crudeltà una tradizione della sua razza, il
crimine un modello di vita? Le empie passioni dei progenitori rivivevano
incurabili nella sua natura rozza, esigendo sordamente uno sfogo. Quale
pesante retaggio mi sembrava l'interminabile ascendenza del conte, mentre
cercavo di farne il calcolo nelle mie meditazioni malinconiche! Risalendo
indietro alla dissipata rinascenza di arti e di vizi, e più indietro all'intrico di
guerre medioevali, e indietro ancora alle lunghe, corrusche tenebre dell'età
di mezzo, fino alle sue onerose origini nel massiccio stato romano ripercorrendo all'indietro tutta l'oscura storia, quel retaggio incombeva
incessante, perdendo via via ogni diritto alle mie simpatie. Simili
precedenti erano di per sé un anatema; e la mia cara fanciulla aveva
sperato che una simile tradizione potesse sovrapporsi leggera e gradevole
alla sua intima essenza come la piuma posata sul suo cappellino! Non so
bene quanto durasse questa penosa situazione. La persistente reticenza
della mia figlioccia e la mia incapacità di offrirle una parola di conforto la
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fecero sembrare più lunga. Una donna sensibile, delusa del suo
matrimonio, dà fondo a tutte le sue risorse inventive prima di rivolgersi ad
altri per consiglio. Le preoccupazioni del conte, quali che fossero, lo
rendevano sempre più inquieto: andava e veniva a caso, nervoso,
improvviso; faceva lunghe cavalcate da solo e, da quanto arguivo, di rado
osservava la formalità di scusarsene con sua moglie; e tuttavia, col passare
del tempo, non faceva nulla per spiegare il suo mistero. Col volgere dei
mesi, però, confesso che la mia ansia cominciò a temperarsi di
compassione. Se m'ero aspettato di vederlo propiziarsi gl'inesorabili
antenati col perpetrare un misfatto, ora che il suo carattere onesto
sembrava aver rifiutato loro quella soddisfazione, provavo per lui una
specie di gratitudine mista a rancore. Uno non poteva essere così
infernalmente depresso senza sentire bisogno di simpatia, fosse disposto o
no a confessarlo. Marco m'aveva sempre trattato con quella deferenza
d'altri tempi che si deve a una barba grigia, quella deferenza per la quale
gli anziani riservano una particolare predilezione di fronte alle mode che
passano; e io stimai possibile che alla fin fine mi permettesse di intervenire
con mano salutare a lenire la sua pena. Una sera, dopo essermi accomiatato
dalla mia figlioccia e averle dato la mia alquanto inefficace benedizione
con un silenzioso bacio, uscii in giardino, e trovai il conte seduto alla mite
luce delle stelle. Teneva gli occhi fissi su un Ermes ammuffito, che
sorgeva da un ciuffo d'oleandri. Mi sedetti accanto a lui e gli dissi chiaro
che la sua condotta richiedeva una spiegazione. Girò un poco la testa e le
sue nere pupille scintillarono per un istante.
- Capisco, - disse, - lei mi crede pazzo! - e si batté sulla fronte.
- No, pazzo no, ma infelice. E se l'infelicità corre a briglia sciolta, la
mente, senza dubbio, è sottoposta a una grande fatica.
Tacque un momento e poi: - Non sono infelice! - esclamò d'un tratto. Sono terribilmente felice. Non può credere la soddisfazione che provo a
starmene qui seduto, a fissare quel vecchio Ermes consunto dalle
intemperie. In un primo tempo mi faceva paura: il suo cipiglio mi
ricordava un vecchio prete dalle sopracciglia folte che fu mio maestro di
latino e che mi guardava truce al disopra del libro quando incespicavo nel
tradurre Virgilio. Ma ora mi sembra l'oggetto più caro, più allegro del
mondo, e mi ispira visioni quanto mai dilettevoli. Duemila anni fa avrà
fatto il broncio nel giardino di qualche antico romano, avrà visto calpestare
i viali da piedi calzati da sandali, avrà veduto chinarsi sopra il vino teste
Henry James
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inghirlandate di rose. Ha conosciuto banchetti e riti antichi, antichi
credenti, antiche divinità. Mi parla il suo muto linguaggio mentre sto qui a
sedere, e mi descrive ogni cosa! No, no, amico mio, io sono il più felice
degli uomini!
Avevo negato di ritenerlo pazzo, ma d'un tratto cominciai a sospettarlo:
non trovavo nulla di rassicurante in quella singolare rapsodia. Per miracolo
l'Ermes aveva conservato il naso; e nel riflettere che la mia cara contessa
veniva trascurata a causa di quel blocco pagano inanimato, mi ripromisi in
segreto di venir l'indomani con un martello a vibrargli un colpo gagliardo,
così da renderlo troppo ridicolo per quel genere di sentimentale tète-à-tète.
Intanto però l'infatuazione del conte non era argomento su cui scherzare, e
nel dirgli, dopo una pausa, che gli raccomandavo di consultarsi con un
prete o con un medico, espressi la mia convinzione più sincera.
Scoppiò in una risata fragorosa. - Un prete! Che dovrei farmene di un
prete, o che se ne farebbe lui di me? Non li ho mai amati, io, i preti, e
adesso ne ho meno intenzione che mai. Un prete! - ripeté, posandomi una
mano sul braccio, - mio caro amico, non mi metta intorno un prete se ha a
cuore la sanità di mente di quel poveretto! Una mia confessione lo
spaventerebbe al punto di farlo uscir di senno! Quanto a un medico, non
sono mai stato meglio in vita mia; e a meno che, - soggiunse
all'improvviso, alzandosi in piedi e guardandomi di traverso, - a meno che
lei abbia intenzione di avvelenarmi l'esistenza, le consiglio, per carità di
Dio, di lasciarmi in pace.
Non c'era dubbio: il conte era proprio ammattito, e per alcuni giorni mi
mancò l'animo di tornare alla villa. Come dovevo trattarlo, che
atteggiamento dovevo assumere, qual era il contegno che richiedevano la
felicità e la dignità di Martha? Vagavo per Roma rimuginando questi
problemi, e un pomeriggio mi trovai nel Pantheon. Aveva preso a cadere
una pioggerella primaverile, e mi ero affrettato a cercar rifugio nella vasta
rotonda che gli altari cristiani hanno solo parzialmente convertita in chiesa.
Nessun monumento romano ha conservato pili di questo l'impronta della
vita antica né la forma impressagli dalle antiche credenze, i cui templi
erano più nobili dei loro dèi. L'enorme cupola scura sembra serbare per
l'orecchio dello spirito un vago riflesso di culto pagano, così come la
conchiglia raccolta sulla spiaggia serba il rumore del mare. Tre o quattro
persone erano disperse davanti ai vari altari; un'altra stava vicino al centro
del tempio, sotto l'apertura della cupola. Avvicinandomi, mi accorsi che
Henry James
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quella persona era il conte.
Era piantato lì, con le mani dietro la schiena a guardare in su, prima alle
nuvole grevi di pioggia che attraversavano il grande occhio di bue, e subito
dopo al cerchio coperto di spruzzi sul pavimento, a quell'epoca ancora
screpolato e stupendamente antico. L'ampio spazio, a diretto contatto con
le intemperie, era ammuffito, muscoso e verdeggiante come una striscia
coltivata a giardino. Fra le screpolature delle lastre era spuntata un'erbetta
tenera i cui germogli microscopici rilucevano nella pioggia. Questo libero
afflusso di masse atmosferiche, penetrando dalla volta scoperchiata,
elimina interamente gli abituali effluvi d'incenso e di sego e ci riporta a
una fede che aveva un rapporto di reciprocità con la natura. Tale effetto
pareva lo avesse sortito sul conte; gli era dipinta in viso un'indefinibile
espressione estatica, ed era cosf rapito in contemplazione che ci volle un
po' prima che si accorgesse della mia presenza. In cielo il sole lottava con
le nuvole, e continuava a cadere una sottile pioggia, scendendo di sbieco
nel vano semibuio in una sorta di spruzzaglia luminosa. Il conte guardava
ogni cosa con gli occhi incantati con cui un bambino guarda una fontana;
poi si volse premendosi la fronte con una mano e si avviò verso uno di
quegli altari abbastanza posticci. Qui si fermò di nuovo con lo sguardo
fisso, ma un attimo dopo tornò sui suoi passi, nel punto in cui stava prima.
Solo allora mi riconobbe ed ebbe la sensazione - suppongo - dello sguardo
curioso con cui dovevo averlo seguito. Mi fece un cenno di saluto con la
mano e infine mosse alla mia volta. Era in uno stato di esaltazione nervosa,
ma faceva del suo meglio per mostrarsi naturale.
- Questo è il più bel posto di Roma, - mormorò. - Vale cinquanta San
Pietro. Ma lo sa che fino all'altro giorno non c'ero mai venuto? Lo lasciavo
ai forestieri, a quelli che se ne vanno in giro con i loro libri rossi e i loro
binocoli, e leggono di questo e di quello, e credono di conoscerlo. Ah! è un
luogo che bisogna sentire, sentire la bellezza e l'opportunità di quel gran
lucernario aperto. Di lassù ora non entra che vento e pioggia, sole e freddo;
ma una volta... una volta, - e mi toccò un braccio con uno strano sorriso, ne scendevano dèi e dee pagani per prender posto ai loro altari. Che
processione, se gli occhi della fede potessero vederla! Invece, ecco che
cosa ci hanno dato al posto! - E scrollò le spalle con aria di compatimento.
- Avrei voglia di tirar giù quei loro quadri, rovesciare i loro candelabri,
avvelenare la loro acqua santa!
- Mio caro conte, - gli dissi affabilmente, - dovrebbe essere più tollerante
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1970 - Racconti Di Fantasmi
con la fede semplice del popolo. Vorrebbe ristabilire l'Inquisizione a
vantaggio di Giove e di Mercurio?
- È la mia fede che il popolo non tollererebbe, se ne avesse il sospetto! esclamò. - S'è fatto tanto discorrere delle persecuzioni pagane, ma i
cristiani non erano da meno come persecutori, e nelle caverne e nei boschi
si adoravano gli antichi dèi non meno dei nuovi. Com'era giusto, del resto:
essi abitavano proprio nelle caverne, nei boschi e nei fiumi, nella terra,
nell'aria e nell'acqua. E lì... e anche qui, a dispetto di tutte le vostre
lustrazioni cristiane, un figlio dell'Italia antica riesce ancora a trovarli!
Aveva detto più di quanto ne avesse intenzione, e aveva gettato la
maschera. Lo guardai fisso e sentii un moto repentino di quella
compassione che sempre si prova per una creatura irresponsabile. Pareva
che avessi individuato l'origine del suo tormento, e il sollievo che ne trassi
fu grande, perché la mia scoperta mi fece venir voglia di uscire in una
risata. Ma mi limitai a sorridergli benevolmente. Egli ricambiò la mia
occhiata con sospetto, quasi volesse giudicare fino a che punto si fosse
tradito; e nel suo sguardo in qualche modo lessi che aveva una coscienza
alla quale si poteva fare appello. Gliene fui così grato da esser disposto a
ringraziarne tutti gli dèi che voleva.
- Badi, badi, - gli dissi, - sta dicendo certe cose che se il sacrestano
sentisse e andasse a ripeterle...! - e, presolo sottobraccio, lo condussi via.
Ero spaventato e scandalizzato, ma anche divertito, confortato. A un
tratto il conte era diventato ai miei occhi un fenomeno piacevolmente
stravagante, e passai il resto della giornata a meditare sulla curiosa
incancellabilità delle caratteristiche nazionali. «Un vigoroso giovanotto
latino» avevo definito il povero Marco, e, per Dio! di vigore ne aveva più
di quanto avessi immaginato! La discrezione era ormai fuori luogo, e
l'indomani ne parlai con la mia figlioccia. Negli ultimi tempi essa aveva
sperato, credo, che l'aiutassi a togliersi quel peso dal cuore, perché subito
diede sfogo alle lagrime, confessando d'esser disperata. - In principio, disse, - avevo creduto che fossero tutte fantasie, che non si trattasse di
minore affetto da parte sua, ma di maggiori pretese da parte mia. Poi,
all'improvviso fui assalita come da un gelo mortale: fui convinta che
avesse cessato di volermi bene, che qualcosa si fosse frapposto tra noi. E
ciò che mi rendeva perplessa era l'assenza di una qualsiasi causa possibile
nella mia condotta, o di un indizio che ci fosse di mezzo un'altra donna. Mi
sono stillata il cervello per scoprire che cosa avevo potuto dire o fare o
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pensare che gli fosse dispiaciuto! Eppure lui se ne va attorno come uno che
abbia ricevuto un'offesa troppo profonda per lagnarsene. Non mi ha mai
detto una parola dura, non mi ha mai guardata con aria di rimprovero. Ha
rinunciato a me, ecco tutto. Sono uscita dalla sua vita.
Parlava con un piccolo tremolio nella voce, cosf patetico che fui sul
punto di dirle che avevo risolto l'enigma, e questo significava già una
mezza vittoria. Ma avevo paura della sua incredulità. La mia soluzione era
così fantastica, così astrusa in apparenza, così assurda che decisi di
aspettare una prova convincente. Per ottenerla continuai a tener d'occhio il
conte, di nascosto e con prudenza, ma con un'attenzione resa ormai
intensamente acuta dalla mia disinteressata curiosità. Tornai alla mia
pittura senza trascurare pretesto alcuno per aggirarmi nel parco in
prossimità del padiglione. Il conte, credo, sospettava i miei piani, o quanto
meno i miei sospetti, e sarebbe stato contento di rammentare almeno quel
che si era lasciato sfuggire nel Pantheon in mia presenza. Ma il mio
interesse per la sua strampalata situazione era reso più intenso dal fatto
che, per quanto riuscivo a leggere nel suo viso accigliato, sembrava anche se con un certo disprezzo - avermi perdonato. Di tanto in tanto,
passandomi vicino, mi lanciava un'occhiata in cui una muta richiesta
d'aiuto pareva lottare con la certezza che uno come me non l'avrebbe mai
capito. Io ero più che disposto ad aiutarlo, ma il caso era estremamente
delicato, e io volevo restare arbitro dei sintomi. Intanto lavoravo,
aspettando e ponendomi degli interrogativi. Ah! interrogativi me ne
ponevo, ve l'assicuro, e senza tregua; per quanto mi sforzassi, non riuscivo
ad abituarmi alla mia idea. A volte essa mi si offriva con un fascino così
perverso da togliermi ogni desiderio d'intromettermi nella faccenda. Il
conte mi si presentava come un raffinato studio psicologico, e la mia
delicatezza di sentimento sembrava dettarmi un affettuoso rispetto per la
sua delusione. Qualche volta chiudevo gli occhi con un vago desiderio di
trovare, riaprendoli, Apollo sotto l'albero di fronte che baciava pigramente
il suo flauto, o di vedere Diana discendere a gran passi il viale dei lecci.
Ma per lo più il mio ospite mi appariva come un giovane infelice, con una
morbosa piega della mente che occorreva appianare al più presto. Se però
il rimedio doveva essere all'altezza della malattia, che dose imponente ne
sarebbe stata necessaria!
Una sera, dopo aver dato la buonanotte alla mia figlioccia, m'avviai per
raggiungere a piedi, come al solito, il mio appartamento sul Corso. Cinque
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minuti erano passati dacché avevo lasciato il cancello della villa, quando
m'accorsi d'aver dimenticato là gli occhiali, oggetto per me d'uso costante.
Mi ricordai subito che, mentre dipingevo, s'era spezzato il cordoncino col
quale li tenevo appesi al collo, e che li avevo agganciati provvisoriamente
al ramoscello d'un mandorlo in fiore lì accosto. Poco dopo avevo raccolto
le mie cose e m'ero ritirato, dimentico degli occhiali; e siccome ora ne
avevo bisogno per leggere il giornale della sera al Caffè Greco, non v'era
altra scelta che tornare sui miei passi e staccare le lenti dal ramoscello. Le
ritrovai facilmente e m'indugiai un poco ad osservare nella notte l'insolito
aspetto del luogo ch'era stato oggetto del mio studio durante il giorno. La
notte era splendida, satura del respiro della precoce primavera romana. Si
stava levando rapida la luna, che giocava coi suoi scacchi d'argento nelle
pesanti masse d'ombra. Nel contemplare quel gioco m'inoltrai nel giardino
e all'improvviso mi trovai di fronte al padiglione.
Proprio allora la luna, rimasta celata per un momento, toccò con un
raggio bianco una figuretta marmorea che ornava il timpano del piccolo e
un po' lezioso edificio. Il rilievo ch'essa andava prendendo mi suggerì
l'idea che avevo sotto gli occhi uno spettacolo di natura più rara: quello
stesso influsso - pensai - doveva convenirsi in modo speciale alla Giunone
prigioniera. La porta del padiglione era chiusa come di consueto, ma il
chiaro di luna inondava le finestre altolocate di tanta luce da rendere la mia
curiosità ostinata e immaginosa. Trascinai fuori dal portico una panchina,
la collocai in po’ sizione e riuscii ad arrampicarmici sopra portandomi col
petto all'altezza di una delle finestre. L'intelaiatura, cedendo alla mia lieve
spinta, girò sui cardini e mi mostrò ciò che aspettavo: una trasfigurazione.
La bella statua, bagnata dal freddo chiarore lunare, risplendeva d'una purità
che la rendeva incontestabilmente divina. Se alla luce del giorno il suo
ricco pallore dava l'impressione di uno sbiadito color oro, il suo aspetto
adesso era simile all'argento leggermente appannato. L'effetto che ne
derivava era quasi terribile: una così espressiva bellezza non poteva essere
inanimata. Questa fu la mia prima osservazione; lascio al lettore di
stabilire se la seconda fu meno interessante. A qualche distanza dai piedi
della statua, fuori dal fascio di luce, scorsi una figura appiattita sul
pavimento, prosternata, a quanto pareva, in atto di devozione. Non saprei
spiegare perché tale visione completasse l'effetto altamente suggestivo
della scena. In effetti essa conferiva all'abbagliante immagine l'aspetto di
una vera dea, la cui maschera marmorea esprimeva una specie di
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consapevole fierezza. Non occorre dire che nell'adoratore prostrato
riconobbi immediatamente il conte; e mentre indugiavo a guardare, quasi
nello sforzo di interpretare il pieno significato di quel suo atteggiamento, il
chiarore della luna si spostò illuminandogli il petto e il viso. Vidi allora
che teneva gli occhi chiusi, e che dormiva, o forse era caduto in deliquio.
Osservandolo con attenzione scorsi che respirava regolarmente: non v'era
quindi motivo d'allarme. La luce lunare gli sbiancava il volto, già di per sé
pallido di stanchezza. Era venuto alla presenza della dea, obbedendo a
quella fantasiosa passione i cui sintomi ci avevano dato tanto motivo di
meraviglia, e spossato - fosse per l'acquiescenza o per la passività di lei - le
era caduto ai piedi in uno stato d'inebetito torpore. Tuttavia, l'influsso
lunare presto lo ridestò; borbottò qualche parola e si sollevò da terra, lo
sguardo vagante nel vuoto. Poi, resosi conto della sua condizione, si alzò
in piedi e rimase per qualche minuto a guardare intento, con un'espressione
che non mi parve del tutto umilmente devota. Pronunciò una sequela di
parole smozzicate, di cui non riuscii ad afferrare il senso, e poi, dopo
un'altra pausa e un gemito prolungato e triste, si volse lentamente verso la
porta. Lesto e silenzioso quanto possibile, discesi dal mio posto
d'osservazione, passai dietro il chioschetto e di lì a un istante udii la chiave
girare nella toppa e il rumore dei passi che si allontanavano.
Il giorno dopo, imbattendomi in giardino nel soprintendente agli scavi,
lo affrontai agitandogli contro un dito, con l'intenzione di mostrarmi
particolarmente severo. Ma egli si limitò a sghignazzare -da quel malizioso
coboldo a cui l'avevo sempre paragonato - arriciandosi i baffi, come se il
mio gesto di minaccia fosse una gran burla. - Se continuerà a scavare altre
buche qui intorno, - gli dissi, -scaraventeremo lei nella più profonda di
tutte e la copriremo con un bello strato di terra. Di scoperte se ne son fatte
abbastanza; statue non ne vogliamo più. La sua Giunone per poco non ci
ha rovinati. Egli scoppiò a ridere. - Me l'aspettavo! Avevo una mia teoria,
io!
- Che cos'era la sua teoria?
- Che il signor conte avrebbe cominciato a recitar le sue orazioni davanti
a quella.
- Santo cielo! È un caso così comune? Come mai se l'era immaginato?
- Al contrario, è un caso insolito. Ma ho frugacchiato così a lungo nella
mostruosa eredità del tempo antico che ho imparato una quantità di
segreti... ho imparato che le reliquie antiche possono operare miracoli
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moderni. In tutti noi, non parlo di voi, illustrissimi forestieri, c'è un
elemento pagano, e gli dèi d'un tempo hanno conservato i loro adoratori.
Lo spirito antico serpeggia ancora qua e là, e il signor conte ne ha la sua
dose. È un brav'uomo, ma, detto fra noi, è un pessimo cristiano! - E il
singolare personaggio riprese la sua impertinente ilarità.
- Se le sue previsioni erano così precise, avrebbe dovuto farmene parola,
- gli dissi. - Avrei mandato a spasso i suoi sterratori!
- Eh, la Giunone però è così bella!
- Al diavolo la sua bellezza. Mi sa dire cos'è diventata quella della
contessa? Per gareggiare con la dea, sta diventando di marmo anche lei.
- Eh, ma la Giunone vale cinquantamila scudi! - obiettò scrollando le
spalle.
- Ne darei centomila purché scomparisse. Chissà, dopo tutto forse le
ordinerò di scavare un'altra buca.
- Al suo servizio! - mi rispose con una mezza riverenza, mentre io gli
volgevo le spalle.
Un paio di giorni dopo, come spesso m'accadeva, pranzai con i miei
ospiti, incontrandomi faccia a faccia col conte per la prima volta dopo le
sue prosternazioni nel padiglione. Ne portava il segno, e rimase
insolitamente taciturno e assorto. Mi parve di capire che il sentiero della
fede antica non era tutto rose, e che Giunone si faceva ogni giorno una
padrona più difficile da servire. Il pranzo era a malapena terminato ch'egli
s'alzò da tavola e prese il cappello. Nel far ciò, passando accanto a sua
moglie, esitò un attimo, si fermò, e le rivolse - per la prima volta,
suppongo - quello sguardo vagamente implorante ch'io avevo colto
sovente. Ella mosse le labbra, tentando qualche inarticolata parola di
solidarietà, e gli tese le mani. Egli la trasse a sé, la baciò con violenza
quasi brutale, e se ne andò. L'occasione era propizia, ogni ulteriore indugio
inutile.
- E molto strano quello che ho da raccontarti, - cominciai a dire alla
contessa, - molto improbabile, molto poco credibile. Ma forse la cosa è
meno brutta di quanto tu possa temere. Nella faccenda c'è proprio una
donna! La tua rivale è Giunone. Il conte, come dire? il conte la prende au
sérieux -. Martha tacque, ma dopo un istante mi toccò il braccio con una
mano, e io compresi ciò che voleva significare: quella che io avevo
espresso era la sua convinzione. - Tu ammiravi tanto quella sua semplicità
da uomo dei tempi antichi: vedi fino a che punto s'è spinta! E tornato alla
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religione dei suoi padri. Dormiente com'era da secoli, quell'imperiosa
immagine l'ha tacitamente ridestata. Egli crede in quelle genealogie che tu
ti sforzavi d'imparare a memoria, sgualcendo il tuo libro scolastico di
mitologia. In poche parole, figliola cara: Marco è un antropomorfista. Sai
cosa significa?
- Temo di scandalizzarla terribilmente, - rispose, - se le dico che gli
auguro felicità con qualsiasi fede, purché la divida con me. Sono pronta a
credere in Giove, se lui me lo chiede! Non è questo il motivo del mio
dolore: che mio marito sia se stesso! Il mio dolore è l'abisso di silenzio e
d'indifferenza che s'è aperto fra noi. La sua Giunone è la realtà: io sono la
finzione!
- Da qualche tempo mi sono fatto una ragione di questo abisso di
silenzio, della tua momentanea perdita d'importanza. Dopo la favola, la
morale! Il poveretto per metà è stato sopraffatto, ma l'altra metà protesta
ancora. L'uomo moderno si trova esiliato nel buio insieme con la sua
irreprensibile consorte. Come può egli non aver sentito, sia pure
vagamente e approssimativamente se così doveva essere, ma con ogni
palpito del suo cuore, che tu sei un più perfetto esperimento della natura,
un più maturo frutto del tempo, che non quegli esseri primitivi per i quali
Giunone era fonte di terrore e che prendevano Venere a modello? Egli ti fa
l'omaggio di crederti un irriducibile esemplare dell'età moderna. Ha
attraversato l'Acheronte, ma ti ha lasciata indietro, come pegno per il
presente. Noi lo indurremo a riscattare codesto pegno. I fantasmi antichi
degli avi dovrebbero essere paghi quando una bella creatura come te ha
sacrificato la parte migliore della propria vita. Lui ha dimostrato di essere
uno dei Valerii: noi faremo in modo che sia l'ultimo, ma che nondimeno la
sua scomparsa lasci il conte Marco in ottima salute.
Avevo parlato con fiducia, e in certo modo la nutrivo davvero, perché mi
sembrava che, se il conte poteva essere commosso, ciò doveva accadere
grazie alla sensazione che la sua straordinaria passeggiata spirituale non lo
aveva fatto detestare da sua moglie. Chiacchierammo a lungo e con esito
felice, perché, prima che la lasciassi, la mia figlioccia espresse il desiderio
di uscire per dare un'occhiata alla Giunone. - Ne ho avuto paura quasi fin
dall'inizio, - mi disse, - e in pratica non l'ho più vista da quando è stata
messa nel chioschetto. Forse avrò una lezione da imparare da lei, forse
riuscirò a capire come fa ad ammaliarlo!
Esitai un momento, temendo che potessimo disturbare le devozioni del
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conte. Ma un'ombra che scorsi sul viso della povera ragazza mi suggerì
che lei pure aveva avuto lo stesso pensiero; allora, spinto dal subitaneo
impulso di cogliere la vittoria nel cuore del pericolo, le offersi
coraggiosamente il braccio. La notte era nuvolosa, sicché c'era da credere
che la dea trionfante avrebbe dovuto per questa volta far assegnamento
sulla propria lucentezza. Ma, avvicinandoci al padiglione, mi accorsi che
la porta era dischiusa e l'interno illuminato. La lampada era sospesa
dirimpetto alla statua e ci mostrava che il vano era vuoto. Era chiaro però
che il conte era appena stato lì. Davanti alla statua s'ergeva un altare
sommariamente improvvisato, composto di un informe frammento di
marmo antico, su cui stava incisa un'iscrizione greca illeggibile. Sembrava
proprio di trovarci in un tempio pagano; e mentre contemplavamo la
serenità della dea, credo che entrambi sentissimo aleggiare per un istante il
soffio della apostasia. E forse quella sensazione sarebbe andata crescendo,
se non l'avessimo bruscamente dimenticata scorgendo uno strano luccichio
sulla fronte del piccolo altare. Un secondo sguardo ci rivelò che quello era
sangue!
La mia compagna mi guardò, pallida d'orrore, e si voltò con un grido.
Una miriade di sinistre congetture mi si affollò alla mente, e per un
momento fui preso dal ribrezzo. Ma mi sovvenni infine che c'è sangue e
sangue, e che nella loro epoca aurea i Romani antichi non offrivano
sacrifizi umani.
- Sta' tranquilla, - le dissi, - è sangue innocentissimo: un agnello, un
capretto o un vitellino da latte! - Ma i nervi e la coscienza di Martha non
ressero alla vista di quel rivolo porporino, ed ella tornò a casa nella
massima agitazione. Il resto della notte non le riportò la calma. Il conte
non era rientrato, e lei lo aspettò alzata, un'ora dopo l'altra. Io le rimasi
accanto, fumando il mio sigaro il più compostamente possibile; ma fra me
e me mi domandavo che cosa mai di orribile gli fosse accaduto. A poco a
poco, col passar delle ore, giunsi a una vaga interpretazione di quelle
pratiche inconsuete _ un'interpretazione non meno valida che gradita, in
quanto relativamente ottimistica. Le gocce di sangue sull'altare almanaccavo - erano il saldo del suo debito e segnavano la fine della sua
allucinazione. Erano state una fausta necessità, perché dopo tutto egli era
una creatura troppo generosa da non odiarsi per averle versate, da non
aborrire un idolo così ostinatamente crudele. Aveva vagato qua e là per
ritrovare se stesso in solitudine, e sarebbe tornato a noi con cuore pentito,
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con mente avida di conoscere! Tutto questo, però, mi sarebbe stato assai
più facile crederlo se avessi potuto udire il suo passo nell'atrio. Con la luce
grigia dell'alba lo scetticismo minacciava di farsi strada e, non trovando
pace, mi recai sotto il portico. Pochi momenti dopo lo vidi attraversare il
prato con passo pesante, coperto di fango e palesemente sfinito. Doveva
aver camminato tutta la notte, e il viso denotava un'agitazione dello spirito
non minore di quella del corpo. Mi passò vicino e prima di entrare in casa
si fermò, mi guardò un istante e poi mi tese la mano. L'afferrai con calore,
e mi parve che palpitasse di tutto ciò ch'egli era incapace di esprimere.
- Vuol vedere sua moglie? - chiesi.
Si passò una mano sugli occhi e scosse il capo. - Ora no... non ancora...
un momento o l'altro! - rispose.
Fui deluso, ma riuscii a convincere Martha che il demonio era ormai
esorcizzato. Essa provò, poverina, un perdonabile desiderio di solennizzare
l'evento. Io tornai alla mia abitazione, passai la giornata a Roma e verso il
crepuscolo feci ritorno alla villa. La contessa, mi fu detto, era in casa.
Sulle prime la cercai con prudenza, pensando che, tutto sommato,
rischiavo di disturbare le naturali conseguenze di una riconciliazione; ma,
non avendola trovata, mi diressi verso il padiglione e mi trovai faccia a
faccia col piccolo impresario beffardo.
- Per caso Vostra Eccellenza ha con sé venti metri di corda robusta? - mi
domandò con aria grave.
- Pensa forse d'impiccarsi per i guai che ha combinato? - replicai
- E proprio un problema d'impiccagione, glielo garantisco. La contessa
ha dato disposizioni. Potrà ritrovarla nel padiglione. Con quella sua vocetta
gentile, sa bene come farsi obbedire.
Sulla porta del piccolo edificio stava una mezza dozzina di operai
dall'aspetto vagamente solenne, simili a inservienti avventizi per un
funerale di prima classe. La contessa era all'interno, e il suo atteggiamento
forniva la soluzione dell'indovinello del soprintendente. Teneva gli occhi
fissi sulla Giunone che, rimossa dal suo piedestallo, era distesa in tutta la
sua mirabile lunghezza su una specie di rozzo giaciglio.
- Avete capito? - disse. - E bella, è nobile, è preziosa, ma deve
tornarsene da dove è venuta! - E con un gesto appassionato sembrò
descrivere una tomba aperta.
Io ero al colmo della contentezza, ma giudicai opportuno accarezzarmi il
mento con aria perplessa. - Vale cinquantamila scudi, -dissi.
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Ella scosse tristemente il capo. - Se anche la vendessimo al papa e
distribuissimo il denaro ai poveri, non ne trarremmo profitto. Deve tornare
indietro... deve tornare indietro! Dobbiamo soffocare la sua bellezza
nell'orrore della terra. Mi dà quasi l'impressione di essere viva; ma ieri
sera, quando mio marito è tornato e ha rifiutato di vedermi, ho provato la
sensazione ineluttabile ch'egli non sarà più se stesso finché lei resterà
sopra la terra. Per tagliare il nodo bisogna seppellirla! Magari ci avessi
pensato prima!
- No, prima no! - risposi, scuotendo il capo a mia volta. - Voglia il cielo
compensare il nostro sacrificio adesso!
Quando ricomparve, il piccolo perito non aveva precisamente l'aria di un
emissario d'influenze soprannaturali, ma, ciò che più contava, si mostrò
abile e solerte. Di tanto in tanto emetteva un gemito mezzo inarticolato, a
guisa di protesta contro la crudeltà della contessa; io, però, lo vidi scrutare
in disparte la statua giacente con occhi che parevano tradire una maliziosa
soddisfazione per il fatto di stare sopra un punto imprecisato del terreno, e
ghignare tanto che gli altri lo guardarono sorpresi. Aveva portato con sé
fune in abbondanza e, fatto un cenno ai suoi assistenti che sollevarono
energicamente la lettiga, apri la marcia verso lo scavo originale che, con
l'idea di ulteriori ricerche, non era stato ricoperto. Quando raggiungemmo
l'orlo del sepolcro era ormai calata la sera, e la venustà della nostra vittima
di marmo era avvolta in un fosco velo. Nessuno parlava -se non proprio
per vergogna, quanto meno per rimpianto. Qualunque ne fosse la causa, la
nostra messinscena aveva, a dir poco, un che di mostruosamente profano.
Furono disposte le funi e la Giunone venne lentamente calata nel suo letto
di terra. La contessa raccolse un pugno di terriccio e lo lasciò cadere con
solennità sul seno della statua.
- Possa esserti lieve, ma per sempre! - esclamò.
- Amen, - gridò il piccolo soprintendente, con un'inflessione stranamente
beffarda; e allontanandosi ci fece un inchino che tradiva la gradita
consapevolezza di conoscere il luogo dov'eran sepolti cinquantamila scudi.
I suoi dipendenti si ebbero una botticella di vino, col risultato, per loro, di
un arresto totale di coscienza e una susseguente irreparabile confusione di
mente circa il luogo in cui avevano fatto uso delle loro vanghe.
La contessa non aveva ancora rivisto suo marito, il quale si era
evidentemente messo in comunicazione col grande dio Pan. Naturalmente
io ero poco propenso a lasciarla sola nell'incontro con i risultati della sua
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1970 - Racconti Di Fantasmi
memorabile iniziativa. Ella si avviò lentamente nel salotto e finse di
occuparsi d'un certo ricamo; ma in realtà stava coraggiosamente dandosi
un contegno in vista di una «spiegazione». Io presi in mano un libro, ma lo
trovai ugualmente poco interessante. Sul finir della sera udii un
movimento dalla soglia e vidi il conte sollevare il tendaggio di arazzi che
nascondeva la porta cercando in silenzio sua moglie. Aveva gli occhi
scintillanti, ma non d'ira. Non aveva più trovato la Giunone - e aveva tirato
un bel respiro di sollievo! La contessa teneva gli occhi fissi sul lavoro,
tendendo i fili di seta come una vivente immagine di serenità domestica.
Quella visione parve affascinarlo: avanzò a passi lenti, quasi in punta di
piedi, raggiunse il camino e si fermò un momento, dedicandole di sottecchi
tutta l'attenzione possibile. Che cosa fosse passato o stesse passando nella
sua mente lascio a voi d'intuire. La mano della mia figlioccia tremava nel
levarsi e nel ricadere, mentre le gote riprendevano colore. Infine alzò gli
occhi e sostenne lo sguardo di lui, nel quale sembrava concentrarsi tutta la
fede riconquistata. Egli esitò un istante, come se proprio il perdono di
Martha tenesse aperto quell'abisso che si era schiuso fra loro; poi fece
qualche passo avanti. S'inginocchiò, affondando il capo nel grembo di lei.
Io me ne uscii come il conte era entrato: in punta di piedi.
Marco non diventò mai, a ben vedere, un uomo interamente moderno;
ma un giorno, anni dopo, quando un visitatore al quale egli stava
mostrando il suo gabinetto azzardò qualche domanda circa una mano di
marmo appesa in un cantuccio appartato, il conte si fece grave e girò la
chiave della custodia. - È la mano di una bella creatura, - spiegò, - che un
tempo ho molto ammirato.
- Ah... Una romana? - chiese il visitatore con un sorrisetto ambiguo.
- Una greca, - rispose accigliato il conte.
Traduzione di Maria Luisa Castellani Agosti.
L'INQUILINO FANTASMA
Avevo ventidue anni ed ero appena uscito dal college. Libero com'ero di
scegliermi una carriera, non avevo avuto esitazioni nella decisione. Più
tardi, in verità, rinunciai alla mia scelta con uguale prontezza, e tuttavia
non ebbi mai a rimpiangere quei due anni di gioventù, pieni di esperienze
controverse ed esaltanti, ma al tempo stesso piacevoli e ricche di frutti.
Avevo un'inclinazione particolare per la teologia: durante il trimestre
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
universitario ero stato un infatuato lettore del dottor Channing. La sua era
una teologia di gusto gradevole, che sembrava offrire la rosa della fede
sfrondata delle sue spine. E poi (giacché ritengo che il fatto abbia a che
vedere col mio racconto) m'ero preso d'entusiasmo per l'antica Facoltà di
Teologia. Ho sempre avuto considerazione per lo scenario che fa da sfondo
al dramma umano, e mi pareva che in quell'angolo appartato e tranquillo di
casistica discreta, col suo rispettabile viale da una parte e, dall'altra, la sua
prospettiva di verdi prati confinanti con acri di bosco, avrei potuto
svolgere il mio compito con buona probabilità di successo (almeno per
me). Per chi ama i boschi e i campi, Cambridge, da allora, è mutata in
peggio e la zona di cui parlo ha perduto molta della sua quiete fra pastorale
e scolastica. A quel tempo era una specie di aula magna in mezzo ai boschi
- una commistione affascinante. Ciò che è adesso non ha nulla a che
vedere con la mia storia; e non dubito che vi siano ancora giovani
laureandi assetati di dottrina che, passeggiando in quei luoghi nei
crepuscoli d'estate, si ripromettano di gustarne più tardi l'atmosfera
distensiva. Quanto a me, non ero stato deluso. M'ero installato in una
grande stanza quadrata, dalle pareti a mansarda, con sedili profondi sotto
le finestre e, dopo aver attaccato ai muri stampe di Overbeck e di Ary
Scheffer, e aver sistemato i libri ordinandoli con grande meticolosità nelle
nicchie accanto all'ampio ripiano del caminetto, m'ero dedicato alla lettura
di Plotino e sant'Agostino. V'erano tra i miei compagni due o tre giovani
intelligenti e socievoli, coi quali di tanto in tanto centellinavo un boccale
accanto al fuoco; e fra stimolanti letture, discorsi profondi, libagioni
coscienziosamente innocue e lunghe passeggiate per la campagna, la mia
iniziazione al ministero sacerdotale procedeva abbastanza piacevolmente.
Con uno dei miei compagni avevo stabilito un più stretto sodalizio, e
trascorrevamo insieme gran parte del tempo. Egli soffriva, purtroppo, di
una debolezza cronica a un ginocchio, il che lo costringeva a condurre vita
molto sedentaria; io, invece, ero un camminatore metodico, e ciò portava a
una certa divergenza di abitudini fra noi. Sovente io partivo per la mia
passeggiata quotidiana senz'altro compagno che un bastone in mano o un
libro in tasca. Ho sempre trovato però compagnia sufficiente nell'uso delle
gambe e nel godimento illimitato dell'aria aperta; a ciò dovrei forse
aggiungere che il dono naturale d'un paio d'occhi acutissimi mi procurava
una sorta di piacere mondano. Eravamo in rapporti eccellenti, i miei occhi
e io; essi erano osservatori infaticabili di tutto quanto incontravano per via,
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1970 - Racconti Di Fantasmi
e, purché ne fossero soddisfatti, io non chiedevo di meglio. In effetti, è alla
loro abitudine d'indagare che debbo il possesso di questa curiosa storia.
Gran parte della campagna intorno alla vecchia cittadina universitaria è
ancor oggi assai amena, ma trent'an-ni fa lo era di più. La molteplice
eruzione di cartapesta edilizia, che ora abbellisce il paesaggio in direzione
delle collinette azzurre di Waltham, non si era ancora verificata: non erano
ancora sorti quei civettuoli villini a mortificazione di prati spelacchiati e di
stecchiti frutteti - accostamento che negli anni successivi non giovò né
all'uno né all'altro elemento del contrasto. Certi incroci di straducole
tortuose mi sono rimasti nella memoria come un'immagine ben più viva e
genuina; e, più in là, le solitarie casette sparse sui lunghi pendii erbosi,
acquattate sotto l'immancabile grande olmo che incurvava a mezz'aria il
suo fogliame come spighe sporgenti da un covone di grano, se ne stavano
incappucciate nei loro tetti di scandole di abete, affatto ignare della moda
dei tetti alla francese: facevano pensare a vecchie contadine incartapecorite
che portassero tranquille la tradizionale cuffia aderente, neppur vagamente
presaghe di quei copricapi a tesa rialzata che avrebbero messo
impudicamente in mostra le loro fronti venerande. Era quello un inverno
cosiddetto «mite»; molto freddo, ma con poca neve; le strade erano
compatte e deserte, e il maltempo mi aveva raramente costretto a
rinunciare alla mia passeggiata.
In un grigio pomeriggio di dicembre scelsi come meta il vicino borgo di
Medford, e già stavo sulla via del ritorno, mantenendo un passo regolare e
osservando i colori pallidi e freddi - l'ambra trasparente e il rosa sbiadito che velavano a ponente il cielo invernale e mi facevano pensare al sorriso
disincantato delle labbra di una bella donna. Con il calar del crepuscolo
giunsi a una stradicciola che non avevo mai percorsa, e che pensai potesse
costituire una scorciatoia verso casa. Avevo ancora circa tre miglia di
strada, ero in ritardo e sarei stato contento che le miglia fossero solo due.
La imboccai, camminai per altri dieci minuti e mi accorsi allora che la
strada aveva un aspetto molto solitario. Le carreggiate apparivano tracciate
da tempo; il silenzio sembrava particolarmente percettibile. Eppure, in
fondo alla strada c'era una casa: la via, dunque, doveva essere stata in
qualche modo frequentata. Da un lato si levava un alto argine naturale, in
cima al quale era appollaiato un pometo i cui rami intricati stendevano una
specie di rozzo merletto nero sopra il roseo occidente infreddolito. In breve
raggiunsi la casa, che destò subito il mio interesse. Vi sostai davanti
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osservandola attentamente, non avrei saputo dire perché, ma con un vago
miscuglio di curiosità e di timore. Anche se era una casa come molte altre
dei dintorni, forniva però senza dubbio un bell'esempio della propria
categoria sociale. Sorgeva sopra un erboso pendio, aveva a fianco il solito
grande olmo, con le fronde che ricadevano imparzialmente tutt'in giro; alle
spalle aveva il vecchio coperchio nero del pozzo. Di proporzioni assai
vaste, colpiva per l'aspetto di solidità e di robustezza del suo legno. Inoltre,
era carica d'anni, perché il lavoro d'intaglio sul portone e sotto le grondaie,
abbondante e minuzioso, la faceva risalire almeno alla metà del secolo
scorso. Una volta era stata tutta dipinta di bianco, ma le poderose spalle
del tempo, appoggiate da cent'anni a quegli stipiti, avevano messo a nudo
la vena del legno. Dietro l'edificio si stendeva un frutteto di meli,
insolitamente nodosi e irreali, che nell'infittirsi del crepuscolo apparivano
consunti, esausti. Tutte le finestre della casa avevano imposte arrugginite,
senza sportellini e accuratamente chiuse. Intorno non v'era segno di vita: la
casa appariva vuota, deserta, spoglia, e tuttavia, mentre indugiavo lì
davanti, mi pareva contenere un significato familiare, un'udibile
eloquenza. Ho sempre ripensato alla prima impressione che mi destò
quella grigia dimora in stile coloniale, come a una prova del fatto che
l'induzione può essere talvolta strettamente affine alla divinazione;
giacché, dopo tutto, nulla nel suo aspetto esteriore poteva giustificare la
grave conclusione cui ero giunto. Balzai indietro e mi portai sul lato
opposto della strada. Sul punto di svanire, il tramonto mandò un ultimo
bagliore rossastro che per un istante si soffermò languido sull'argentea
facciata della vecchia casa. Con regolarità perfetta toccò, uno dopo l'altro, i
piccoli pannelli di vetro della finestri-na a forma di ventaglio posta sopra
la porta, illuminandola di luce irreale. Infine dileguò, lasciandosi dietro
un'atmosfera più cupa. In quel momento, con accento di profonda
convinzione, mi dissi: «Questa è una casa infestata dagli spiriti!»
Non so perché, ne fui immediatamente certo, e dato che non mi ci
trovavo rinchiuso, l'idea mi procurò un senso di piacere. Era qualcosa
d'implicito nell'aspetto dell'edificio, e che lo spiegava. Mezz'ora prima, se
me l'avessero chiesto, avrei risposto, come si conveniva a un giovane
dedito alla ricerca sistematica di confortanti visioni del soprannaturale, che
non esistono case infestate dai fantasmi. Ma quella che mi stava dinnanzi
dava un senso concreto a quelle parole vuote; era una casa corrotta nello
spirito.
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1970 - Racconti Di Fantasmi
Più la guardavo e più intenso appariva il segreto che racchiudeva. Ne
feci il giro, cercando di sbirciare qua e là attraverso una fessura delle
imposte; mi presi la soddisfazione puerile di posare una mano sulla
maniglia a pomolo facendola girare pian piano. Se la porta avesse ceduto,
sarei entrato? Avrei cercato di penetrare in quel silenzio di tenebra? Per
fortuna non ci fu bisogno di mettere alla prova la mia audacia: il portone
era mirabilmente solido e non riuscii nemmeno a scuoterlo. Alla fine mi
allontanai, continuando a volger indietro lo sguardo. Proseguii per la mia
strada e, dopo una marcia più lunga di quanto mi fossi aspettato, raggiunsi
la strada maestra. A una certa distanza dal punto in cui vi sboccava il
lungo sentiero di cui ho parlato, si ergeva una dimora comoda, ordinata, il
prototipo della casa da cui i fantasmi stanno assolutamente lontani - una
casa senza sinistri misteri e che altro non conosceva all'infuori di una
solida agiatezza. La verniciatura bianca e linda spiccava tranquilla nella
penombra; il portico sormontato da rampicanti era ricoperto di paglia in
vista dell'inverno. Davanti all'uscio un vecchio calesse, tirato da un solo
cavallo e carico di due visitatori in partenza, stava per allontanarsi; dalle
finestre libere da tendaggi scorsi il salotto illuminato e la tavola ancora
imbandita per il tè improvvisato in anticipo a ristoro degli ospiti. La
padrona di casa, che aveva accompagnato gli amici fino al cancello,
sembrò indugiare un momento dopo che il calesse si fu avviato cigolando,
un po' per seguirli con lo sguardo, un po' per rivolgere a me, che passavo
nella penombra, un'occhiata interrogativa. Era una donna giovane, vivace,
graziosa, dagli occhi scuri e penetranti, e io, facendomi coraggio, mi
fermai e le rivolsi la parola.
- Quella casa che si trova laggiù, - dissi, - lungo la stradina a circa un
miglio di qui, quella casa isolata, mi sa dire di chi è?
Ella mi fissò per un istante e, mi parve, arrossi un pochino. - Noi non
facciamo mai quella strada, - rispose laconica.
- Ma è una scorciatoia per Medford, - obiettai.
Scosse leggermente il capo. - Forse finirebbe per rivelarsi una strada più
lunga. Comunque, noi non ce ne serviamo.
La cosa era interessante. Una prospera famiglia yankee doveva avere le
sue buone ragioni per tenere in dispregio sistemi che aiutano a risparmiare
tempo. - Ma lei conosce la strada, almeno? - domandai ancora.
- Be', l'ho vista.
- E a chi appartiene?
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La signora uscì in una risatina e volse altrove lo sguardo, quasi si
rendesse conto che, all'orecchio di un forestiero, le sue parole potevano
sembrar permeate di superstizione contadina. - Direi che appartiene a chi
ci sta dentro.
- Ma ci sta qualcuno? È perfettamente chiusa.
- Fa lo stesso. Non escono mai, e non vi entra mai nessuno -. E mi volse
le spalle.
Ma io insistetti, posandole rispettosamente una mano sul braccio: - Vuol
farmi credere che è abitata dagli spiriti?
Ella si ritrasse, rossa in viso; accostò un dito alle labbra e si affrettò a
rientrare. Un attimo dopo vennero abbassate le tende ai vetri delle finestre.
Per diversi giorni pensai più volte a quella piccola avventura,
assaporando tuttavia il piacere di tenerla per me. Se la casa non era abitata
da fantasmi, era inutile rendere di pubblico dominio le mie capricciose
fantasie; e se lo era, era bello vuotare la coppa dell'orrore senza farne
partecipe chicchessia. Decisi, naturalmente, di ripassare da quella strada; e
una settimana più tardi - era l'ultimo giorno dell'anno - rifeci lo stesso
cammino. Mi avvicinai alla casa venendo dalla direzione opposta e la
raggiunsi pressapoco alla stessa ora della volta precedente. Il giorno stava
per finire, il cielo era basso e grigio; lungo la stradicciola arida e nuda
gemeva il vento, sospingendo in lenti mulinelli le foglie annerite dal gelo.
La malinconica dimora sembrava volersi avvolgere nel crepuscolo
invernale, dissimulandovisi fino a diventare invisibile. Io non sapevo bene
che cosa ero venuto a fare fin lì, ma avevo l'impressione che, se stavolta il
pòmolo avesse girato e la porta si fosse aperta, avrei preso il coraggio a
due mani e lasciato che si richiudesse alle mie spalle. Chi erano i
misteriosi inquilini a cui aveva alluso la brava signora dell'angolo? Che
cosa era stato visto o sentito, che cosa se ne diceva? La porta si rivelò
ostinata come prima, e nonostante i miei irriguardosi armeggìi con la
serratura, nessuna finestra si spalancò al piano di sopra, nessuno strano
viso pallido si affacciò. Mi arrischiai perfino a sollevare il battente
rugginoso, scotendolo cinque o sei volte, ma non ottenni che un suono
piatto, morto, senza eco. Un rapporto di famigliarità con le cose genera
indifferenza: non so cos'altro avrei fatto se, lontano, su per la strada (la
stessa che avevo percorso io), non avessi visto avanzare una figura
solitaria. Non desideravo farmi sorprendere ad aggirarmi intorno a quella
malfamata dimora e cercai rifugio tra le ombre di un vicino boschetto di
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pini, dal quale avrei potuto guardare senza essere scorto. Poco dopo, lo
sconosciuto si avvicinò: mi resi conto che stava dirigendosi proprio verso
la casa. Era un vecchierello il cui aspetto colpiva soprattutto per l'ampio
mantello, di foggia più o meno militare, che lo rivestiva. Teneva in mano
un bastone e procedeva a passo lento, affaticato, un po' zoppicante, ma con
aria decisa e risoluta. Abbandonò la strada, segui l'incerta carreggiata e,
giunto a pochi passi dall'edificio, s'arrestò. Levò uno sguardo fermo,
indagatore, come se contasse le finestre o ritrovasse certi particolari ben
noti. Poi si tolse il cappello, fece un inchino profondo, solenne, una specie
di riverenza. Potei osservarlo bene mentre rimaneva ritto, a capo scoperto.
Come ho detto, era un vecchietto minuto, ma sarebbe stato arduo decidere
se appartenesse a questo mondo o all'oltretomba. La sua testa mi ricordava
vagamente i ritratti di Andrew Jackson. Aveva una corona di capelli grigi,
ispidi come setole, e un viso scarno, emaciato, glabro, e occhi d'un
luccicore intenso, sormontati da folte sopracciglia ancora nerissime. Come
il suo mantello, anche il suo volto sembrava quello d'un vecchio soldato; si
sarebbe detto un militare di grado modesto in pensione: ma ciò che in lui
più mi colpi fu quella capacità d'apparire eccentrico e grottesco anche al di
là della prerogativa tipica di un personaggio del genere. Finito che ebbe
con le sue riverenze, mosse verso la porta, frugò nelle pieghe del mantello
che gli pendeva molto più sul davanti che sul dietro, e tirò fuori una
chiave. La inserì nella toppa lentamente, con attenzione, poi parve darle un
giro. Ma l'uscio non si aprì subito; dapprima l'uomo abbassò la testa, tese
l'orecchio e rimase in ascolto, poi guardò in su e in giù per la via.
Soddisfatto o rassicurato, appoggiò la sua vecchia spalla contro uno dei
solidi pannelli, facendo pressione per un istante. La porta cedette spalancandosi sull'oscurità più completa. L'uomo si fermò ancora sulla
soglia, di nuovo si tolse il cappello e rifece l'inchino. Poi entrò, chiudendo
accuratamente la porta dietro di sé.
Chi diamine era, e che cosa andava cercando? Si sarebbe detto un
personaggio dei racconti di Hoffmann. Era una visione o una realtà? Uno
di casa o un visitatore abituale, un amico? Che cosa avevano voluto
significare, nell'uno e nell'altro caso, le sue pie genuflessioni, e come
intendeva dirigersi in quel buio pesto? Uscii dal mio nascondiglio per
osservare più da vicino alcune finestre. In ciascuna di esse, a intervalli,
nello spiraglio tra le due ante delle imposte, si scorgeva un raggio di luce.
Era chiaro che il vecchio stava accendendo delle candele; voleva dare una
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festa - una tregenda di fantasmi? La mia curiosità cresceva, ma non sapevo
come appagarla. Per un momento pensai di bussare perentoriamente alla
porta, ma abbandonai l'idea giudicandola scortese e capace di rompere
l'incantesimo, se d'incantesimo si trattava. Feci un giro intorno alla casa e
cercai d'aprire, senza scassinarla, una delle finestre del pianterreno. Questa
resistette, ma subito ebbi maggior fortuna provando con un'altra. In
quell'armeggiare correvo senza dubbio un rischio: quello che mi vedessero
dall'interno, o - peggio - di vedere io stesso qualcosa che mi sarei poi
pentito d'aver visto. Ma, come ho detto, ormai la curiosità mi trascinava, e
il rischio era attraente in sommo grado. Attraverso la fenditura delle
imposte spinsi lo sguardo in una stanza illuminata - illuminata da due
candele in un candeliere d'ottone posto sulla mensola del camino. La
stanza, che pareva essere una specie di salotto secondario, era ancora
completamente ammobiliata. L'arredamento, semplice e antiquato,
consisteva di sedie e divani di ruvido tessuto, di tavoli di mogano
scompagnati; campioni di ricamo incorniciati erano appesi alle pareti. Ma,
benché arredata, la stanza aveva un aspetto stranamente disabitato; i tavoli
e le sedie stavano rigidi ai loro posti, né si vedevano soprammobili o
suppellettili d'uso domestico. Non riuscivo a vedere tutto; indovinai solo
l'esistenza, sulla destra, di una grande porta a due battenti. La porta
sembrava aperta, e dalla stanza vicina entrava la luce. Aspettai un poco,
ma la camera rimase vuota. Infine, sulla parete dirimpetto alla porta, mi
resi conto che si proiettava una grande ombra: l'ombra, evidentemente, di
una figura nella stanza attigua. Alta e grottesca, vi si riconosceva la
sagoma d'una persona seduta di profilo, in assoluta immobilità. Credetti di
riconoscere la chioma irta e il lungo naso a becco del mio vecchietto. C'era
qualcosa di strano in quella sua posizione: pareva seduto a fissare
attentamente qualcosa. Guardai a lungo l'ombra, che rimaneva immota.
Alla fine, tuttavia, proprio quando la mia pazienza cominciava a venir
meno, essa si mosse lentamente, si allungò fino al soffitto e si fece
indistinta. Non so cosa mi sarebbe toccato di vedere ancora, se per un
impulso incoercibile non avessi chiuso l'imposta. Fu per delicatezza - o per
pusillanimità? Non saprei dirlo. Nondimeno, indugiai intorno alla casa
nella speranza di veder ricomparire il mio amico. Né fui deluso, perché
finalmente egli riemerse, tal quale com'era entrato e accomiatandosi nello
stesso modo cerimonioso (le luci, come avevo già notato, erano scomparse
dalle fessure delle varie finestre). Davanti alla porta fece dietro-front, si
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levò il cappello e s'inchinò rispettosamente. Avevo tutte le intenzioni di
rivolgergli la parola quando si voltò per andarsene, ma finii col lasciarlo in
pace. Questa sf, posso dirlo, fu pura delicatezza - troppo ritardata, forse mi
obietterete. Mi pareva che avesse ogni diritto di risentirsi della mia
sorveglianza, benché il mio diritto ad esercitarla (ammesso che si trattasse
di spiriti) mi sembrasse altrettanto indiscutibile. Continuai a osservarlo
mentre si allontanava zoppicando lievemente giù per la china e poi lungo
la strada solitaria. Allora, soprappensiero, mi avviai nella direzione
opposta. Avevo avuto la tentazione di seguirlo a distanza per vedere cosa
avrebbe fatto; ma anche questa sembrava un'indelicatezza; e debbo
confessare inoltre che provavo una certa voglia di gingillarmi -diciamo
così - con la mia scoperta, di staccare i petali del fiore a uno a uno.
Di tanto in tanto continuavo ad annusare quel fiore; l'eccentricità del suo
profumo mi aveva affascinato. Tornai a passare davanti alla casa del
crocevia, ma non incontrai più il vecchio dal lungo mantello, né alcun altro
viandante. Si sarebbe detto che gli osservatori si tenessero a distanza, e io
ebbi cura di non parlarne in giro: un solo indagatore - mi dicevo - può
aprirsi un varco nel mistero, ma per due non c'è posto. Al tempo stesso,
naturalmente, avrei salutato con gioia qualsiasi luce che si fosse fatta sulla
faccenda, benché non mi fosse chiaro da qual parte sarebbe potuta venire.
Sperai d'incontrare ancora il vecchio dal mantello, ma siccome i giorni
passavano senza ch'egli ricomparisse, smisi d'illudermi. Pensavo d'altronde
che abitasse da quelle parti, dato che aveva compiuto a piedi il suo
pellegrinaggio alla casa vuota. Se fosse venuto di lontano, senza dubbio
sarebbe arrivato sul posto in qualche vecchio calesse dall'ampio mantice,
con le ruote gialle - un veicolo non meno venerando e grottesco di quanto
lo era lui stesso. Un giorno feci una passeggiata al cimitero di Mount
Auburn, istituzione ai suoi albori a quell'epoca, piena d'un fascino silvestre
andato ormai completamente perduto. Era più ricco di aceri e betulle che
di salici e cipressi, e i dormienti non vi stavano certo a contatto di gomito.
Non si poteva dire una città dei morti, ma tutt'al più un villaggio, e il
visitatore pensieroso poteva vagare là dentro senza sentirsi
inopportunamente sollecitato a meditare sul lato grottesco delle nostre
pretese di prestigio postumo. Io ero uscito per godere dei primi segni della
primavera: era una di quelle giornate miti di tardo inverno in cui la terra
insonnolita sembra trarre il primo lungo respiro che segna la rottura
dell'incantesimo del sonno. Il sole, velato d'una nebbiolina, era abbastanza
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caldo, e il gelo erompeva dai suoi nascondigli più riposti. Da mezz'ora
percorrevo i viottoli tortuosi del cimitero, quando notai d'un tratto una
figura ben nota, seduta su una panchina addossata a una siepe di
sempreverde volta a mezzogiorno. Dico una figura ben nota perché l'avevo
vista sovente con la memoria e con la fantasia; in realtà l'avevo
contemplata una sola volta. Mi volgeva le spalle, ma era avviluppata in un
grande, inconfondibile mantello. Ecco finalmente il mio compagno di
visite alla casa degli spiriti, ed ecco per me l'occasione, se lo desideravo, di
avvicinarlo! Feci una diversione e gli andai incontro. Egli mi scorse in
fondo al viale e rimase seduto immobile, con le mani appoggiate
all'impugnatura del bastone, scrutandomi di sotto le nere sopracciglia
mentre m'avvicinavo. Da lontano quelle sopracciglia nere apparivano
formidabili; erano l'unica cosa che riuscivo a vedere sul suo volto. Ma,
guardandolo più dappresso, mi sentii rassicurato semplicemente perché mi
resi conto lì per lì che nessun altro al mondo poteva avere un'aria così
incredibilmente truce come quel povero vecchio. Il suo viso era una specie
di caricatura di marziale truculenza. Mi fermai davanti a lui e gli chiesi
rispettosamente il permesso di sedermi a riposare sulla sua panchina. Egli
me lo concesse con un gesto silenzioso, pieno di dignità, e io mi
accomodai accanto a lui. Così seduto, fui in grado, senza dar nell'occhio, di
osservarlo da vicino. Non era meno strambo in quella mattina di sole di
quanto non mi fosse apparso nell'incerto crepuscolo. I tratti di quel viso
erano duri, come se un inesperto ebanista li avesse intagliati nel legno:
occhi di fuoco, naso terrificante, bocca implacabile. E tuttavia, dopo un
momento, quando si volse lentamente per fissarmi in viso, intuii che,
nonostante quella maschera sinistra, era un vecchio mitissimo. Ero sicuro
che sarebbe anche stato contento di sorridermi, ma evidentemente i suoi
muscoli facciali erano troppo rigidi: avevano preso una volta per tutte una
piega diversa. Mi domandai se fosse demente ma scartai l'idea: il luccichio
fisso dei suoi occhi non era quello della follia. Ciò che la sua faccia
esprimeva in realtà era semplicemente una profonda tristezza; forse aveva
il cuore spezzato, ma il cervello era integro. Il suo abito era logoro ma
pulito, e il vecchio mantello turchino aveva conosciuto mezzo secolo di
spazzolature. Mi affrettai a fare qualche osservazione sull'eccezionale
mitezza della giornata, ed egli mi rispose con una voce cortese e pacata,
che sorprendeva sentir uscire da labbra così bellicose.
- È un posto molto piacevole, questo, - soggiunse poi.
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- A me piace molto passeggiare per i cimiteri, - replicai con intenzione,
lusingandomi d'aver azzeccato una possibile via d'approccio.
Fui incoraggiato: si volse e mi fissò con quei suoi occhi splendenti di
luce fosca. Poi, molto gravemente: - Cammini, vada a spasso, sì. Faccia
adesso tutto il moto che può. Verrà giorno in cui dovrà coricarsi in un
camposanto in posizione definitiva.
- Verissimo, - confermai. - Ma, come lei sa, qualcuno dice che certa
gente non smette di far del moto neppure dopo quel giorno.
Aveva continuato a guardarmi tranquillo; a quella mia uscita volse di
nuovo il capo.
- Non mi capisce? - gli chiesi cortesemente. Continuò a guardar fisso
davanti a sé.
- Sa, c'è gente che va in giro anche dopo morta.
Infine si volse a guardarmi in maniera più impressionante che mai. - Lei
non ci crede, - disse con semplicità.
- Come fa a sapere che non ci credo?
- Perché è giovane e non ha giudizio -. Pronunciò queste parole senza
asprezza, anzi gentilmente, ma col tono di un vecchio a cui la
consapevolezza della propria grave esperienza fa sembrare tutto il resto
poco rilevante.
- Certo, sono giovane, - risposi, - ma, tutto sommato, non credo di
mancare di giudizio. Dica piuttosto che non credo ai fantasmi: ce ne sono
molti della mia stessa opinione.
- C'è molta gente stupida! - asserì il vecchio.
Lasciai cadere l'argomento e parlai d'altro. Il mio compagno sembrava
stare all'erta, mi lanciava occhiate di sfida, dando brevi risposte alle mie
osservazioni. Tuttavia io ebbi l'impressione che il nostro incontro gli
riuscisse gradito, che fosse addirittura un avvenimento sociale di qualche
importanza. Era chiaramente una creatura solitaria, cui si offrivano rare
occasioni di far quattro chiacchiere. Aveva avuto dei crucci che l'avevano
staccato dal mondo e ricacciato in se stesso; ma nel suo animo antico la
corda della comunicativa non s'era spezzata del tutto, ed ero sicuro che si
compiaceva di riscontrare com'essa fosse ancora in grado di vibrare
debolmente. Finì col farmi a sua volta delle domande: volle sapere se ero
studente.
- Sono studente di teologia, - risposi.
- Di teologia?
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1970 - Racconti Di Fantasmi
- Appunto. Studio per diventare pastore.
Mi scrutò allora con particolare intensità - e poi il suo sguardo si
perdette ancora nel vuoto. - Ci sono cose che dovrebbe sapere, allora, disse infine.
- Ho una gran sete di sapere, - risposi. - Quali cose intende? Mi guardò
di nuovo per un po', senza far caso alla mia domanda.
- Mi piace il suo aspetto, - dichiarò. - Lei mi ha l'aria di un ragazzo per
bene.
- Oh, sono molto per bene! - esclamai, discostandomi per un istante dal
mio perbenismo.
- Mi pare una persona onesta, - continuò il vecchio.
- Dunque non le faccio più l'impressione di uno scriteriato? -domandai.
- Mantengo quanto ho detto sulla gente che nega agli spiriti dei defunti il
potere di ritornare. Sono degli imbecilli! - E diede un rabbioso colpo di
bastone per terra.
Esitai un momento e poi, d'un tratto: - Lei ha visto un fantasma! - dissi.
Non sembrò per nulla sorpreso.
- Proprio così, signore, - rispose con grande dignità. - Per quanto mi
concerne, non si tratta di fredda teoria... non ho avuto bisogno d'indagare
nei libri antichi per imparare a che cosa credere. Io so! Con questi occhi ho
veduto il fantasma di un defunto ergersi davanti a me, a questa stessa
distanza! - E mentre parlava i suoi occhi sembravano davvero essersi
posati su cose strane.
Ero irresistibilmente suggestionato, in preda alla credulità.
- Ed è stato terribile? - volli sapere.
- Sono un vecchio soldato: non ho paura!
- Quando è stato?... dove? - domandai.
Mi lanciò un'occhiata diffidente, e mi accorsi che stavo correndo troppo.
- Mi dispensi dall'entrare nei particolari, - rispose. - Non mi è consentito
dire di più. Le ho riferito tutto ciò perché non sopporto di sentir parlare
alla leggera di quest'argomento. Si ricordi in avvenire di aver conosciuto
un onestissimo vecchio che le ha raccontato, sul suo onore, di aver visto un
fantasma! - E si alzò, come se pensasse di aver parlato abbastanza.
Riserbo, timidezza, orgoglio, timore di essere deriso, il ricordo, forse, di
precedenti battute di sarcasmo - da una parte tutto ciò pesava su di lui, ma
d'altra parte io sospettai che a sciogliergli la lingua fosse stata la loquacità
propria della vecchiaia, il senso della solitudine, il bisogno di simpatia... e
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magari, anche, l'amabilità che aveva dimostrato nei miei confronti.
Sarebbe stato poco assennato, evidentemente, incalzarlo ancora; speravo
però di rivederlo.
- Per dar maggior peso alle mie parole, - soggiunse, - permetta, signore,
che le dica il mio nome: sono il capitano Diamond, veterano dell'esercito.
- Spero di avere il piacere d'incontrarla di nuovo, - gli dissi.
- Anch'io, signore! - E brandendo rabbioso il suo bastone -benché con le
intenzioni più amichevoli - si allontanò impettito.
Chiesi a due o tre persone, scelte con discernimento, se sapessero
qualcosa del capitano Diamond, ma nessuna fu in grado d'illuminarmi.
All'improvviso, finalmente, mi battei la fronte dandomi dello sciocco: mi
ricordai che avevo trascurato una fonte d'informazioni alla quale non m'ero
mai rivolto invano. L'eccellente signora alla cui tavola ero solito
consumare i miei pasti, offrendo ospitalità agli studenti a un tanto per
settimana, aveva una sorella buona quanto lei, dotata di maggiori e più
varie capacità discorsive. Questa sorella, conosciuta come Miss Deborah,
era una vecchia zitella nella piena espressione del termine. Era deforme,
non usciva mai di casa; rimaneva tutto il giorno seduta davanti alla
finestra, tra una gabbia d'uccelli e un vaso di fiori, intenta a ricamare
biancheria fine, misteriose fasce e gale increspate. Maneggiava l'ago, mi
assicuravano, in modo squisito, e i suoi lavori erano altamente apprezzati.
Malgrado la sua deformità e la reclusione cui era costretta, aveva una
faccina tonda e fresca e una serenità di spirito imperturbabile. Aveva anche
una vivacità di mente tutta sua particolare, era un'osservatrice quanto mai
attenta, e dimostrava un gran gusto per la buona conversazione. Nulla le
faceva piacere come il vedervi accostare la sedia presso la sua finestra
piena di sole - e tanto più, direi, se eravate un giovane studente di teologia
- disponendovi a una bella chiacchierata d'una ventina di minuti. - Allora,
signore, - soleva dire, -qual è l'ultima mostruosità in materia di critica
biblica? - poiché le piaceva fingere di essere orripilata dalla tendenza
razionalistica dell’epoca. Era invece un'implacabile piccola filosofa, più
razionalista - ne sono convinto - di chiunque di noi; se avesse voluto,
avrebbe potuto porci dei quesiti da far sussultare di spavento il più audace
fra gli studenti. La sua finestra dominava tutta la cittadina, o, per meglio
dire, tutta la campagna. Mentre se ne stava seduta a cantare con la sua
vocetta fessa nella bassa sedia a dondolo, s'arricchiva di sapere. Era la
prima a venire a conoscenza di qualsiasi cosa e l'ultima a dimenticarsene.
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Aveva sulla punta delle dita tutti i pettegolezzi della città e conosceva vita
morte e miracoli di gente che non aveva mai visto. Quando le chiedevo
come avesse fatto ad accumulare tanto sapere, mi rispondeva
semplicemente: - Oh, osservo! Basta osservare abbastanza da vicino, - mi
disse una volta, - non importa dove si è. Si può star chiusi in un
bugigattolo nero come la pece. Occorre solo un punto di partenza:
un'osservazione porta a un'altra, tutto s'intreccia. Chiudetemi in uno
stanzino buio, e io dopo un momento avrò notato che certi angoli sono più
scuri di altri. Dopo di che (datemi tempo) vi saprò dire che cosa sarà
servito per pranzo al presidente degli Stati Uniti -. Una volta volli farle un
complimento. - La sua capacità di osservare, - le dissi, - è sottile come il
suo ago, e le sue asserzioni sono precise come i punti del suo ricamo.
Naturalmente Miss Deborah era informata sul conto del capitano
Diamond. Anni prima s'era parlato molto di lui, ma era sopravvissuto allo
scandalo connesso al suo nome.
- Che scandalo? - domandai.
- Ha ucciso sua figlia.
- Ucciso? - esclamai. - Come?
- Oh, non con la pistola, o un pugnale, o una dose di arsenico! Con la
lingua. E poi si dice della lingua delle donne! La maledisse... con qualche
orribile imprecazione... ed essa morì!
- Che cosa aveva fatto?
- Aveva ricevuto un giovane che l'amava e al quale egli aveva proibito di
entrare in casa.
- In casa, - dissi, - ... ah, sì! Quella casa là fuori, in campagna, a due o tre
miglia da qui, a un crocicchio solitario.
Miss Deborah mi trapassò con un'occhiata, mentre spezzava il filo coi
denti.
- Ah, lei conosce la casa? - domandò.
- Un poco, - risposi, - l'ho vista. Ma voglio che mi racconti di più.
A questo punto però Miss Deborah diede prova di una mancanza di
comunicativa del tutto insolita.
- Non mi darebbe della superstiziosa, vero? - chiese.
- Superstiziosa, lei? Ma se è la quintessenza della pura ragione!
- Ebbene, ogni filo ha il suo punto logoro, ogni ago il suo. granello di
ruggine. Di quella casa preferisco non parlare.
- Non immagina quanto lei accresce la mia curiosità! - e-sclamai.
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- La capisco, ma ciò mi metterebbe in uno stato di grande nervosismo.
- Che male gliene può derivare? - obiettai.
- Ne derivò del male a una mia amica -. E Miss Deborah fece un
energico cenno di conferma col capo.
- Che cosa aveva fatto la sua amica?
- Aveva parlato con me del segreto del capitano Diamond, confidatole
da lui nel massimo mistero. Era stata una sua antica fiamma, e lui l'aveva
eletta a confidente. Le aveva ordinato di tacerne con tutti; altrimenti, le
aveva detto, le sarebbe capitato qualcosa di terribile.
- E cosa le capitò?
- Morì.
- Be', siamo tutti mortali! - osservai. - Gli aveva fatto una promessa?
- Non l'aveva preso sul serio, non gli aveva creduto. Venne a riferire a
me la storia; tre giorni dopo si ammalò di polmonite. Un mese più tardi,
seduta qui come lo sono ora, ricamavo il suo sudario. Da allora, non ho più
fatto parola con nessuno di ciò che mi aveva raccontato.
- Era qualcosa di molto strano?
- Era strano, ma era anche comico. Roba da far accapponare la pelle e da
far ridere al tempo stesso. Ma con me non riuscirà a venirne a capo. Sono
sicura che, se glielo raccontassi, mi spezzerei subito un ago nel dito e la
settimana dopo morirei di tetano.
Tornai in camera senza più far pressioni su Miss Deborah. Tuttavia, ogni
due o tre giorni, dopo pranzo, andavo a sedermi vicino alla sua sedia a
dondolo. Non feci più allusione al capitano Diamond; me ne stavo in
silenzio, tagliuzzando con le sue forbici un pezzo di fettuccia. Finalmente
un giorno ella osservò che avevo una brutta cera, ch'ero pallido.
- Sto morendo di curiosità, - confessai. - Ho perso l'appetito. A pranzo
non ho toccato cibo.
- Si ricordi della moglie di Barbablù! - ammoni Miss Deborah.
- Si può morir di spada come di fame! - le risposi.
Ma ella continuò a tacere, tanto che infine io m'alzai con un sospiro
melodrammatico e me ne andai. Avevo raggiunto la porta quando Miss
Deborah mi chiamò, indicandomi la sedia che avevo lasciato vuota. - Non
sono mai stata dura di cuore, - dichiarò. - Si sieda, e se dobbiamo morire,
voglia il cielo che si muoia insieme-.
Poi, in poche parole, mi comunicò quanto sapeva del segreto del
capitano Diamond. - Era un uomo di carattere molto dispotico e, sebbene
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volesse un gran bene alla figlia, la sua volontà doveva essere legge. Le
aveva scelto un marito, e l'aveva informata delle sue decisioni. La madre
era morta ed essi vivevano soli insieme. La casa era stata portata in dote
dalla signora Diamond; il capitano, credo, non aveva un soldo. Erano
venuti ad abitarvi dopo il matrimonio, e lui aveva cominciato a lavorare il
podere. L'innamorato della povera ragazza era un giovanotto con i favoriti,
di Boston. Il capitano entrò in casa una sera e li trovò insieme; afferrò il
giovane per il colletto e lanciò una maledizione terribile alla povera
fanciulla. Il giovanotto protestò che essa era sua moglie e il capitano
chiese a lei se era vero. - No! - fu la riposta. Al che il padre, con furia
crescente, ripetè la sua maledizione, ingiunse alla ragazza di lasciare la
casa e la diseredò per sempre. Lei svenne, ma il padre, continuando ad
inveire, l'abbandonò. Parecchie ore dopo fece ritorno, ma trovò la casa
vuota. Sul tavolo c'era un biglietto del giovane che lo accusava di aver
ucciso la figlia, confermando l'assicurazione che la ragazza era sua moglie.
Dal canto suo egli reclamava per sé il solo diritto di affidarne le spoglie
alla terra. Aveva portato via il cadavere con un calesse! Il capitano gli
scrisse in risposta un tremendo biglietto nel quale affermava di non credere
che sua figlia fosse morta, ma che in ogni caso per lui era morta. Una
settimana più tardi, nel cuore della notte, gli apparve il fantasma della
poverina. Allora, credo, ne fu convinto. Il fantasma riapparve più volte e
infine prese a visitare regolarmente la casa, con grande angoscia del
vecchio: a poco a poco la sua ira era sbollita ed egli era ormai preda del
tormento. Finalmente si decise ad abbandonare il luogo, e cercò di
venderlo o di affittarlo; ma frattanto la storia s'era propalata, altre persone
avevano visto il fantasma, la casa aveva una cattiva fama ed era
impossibile venderla. Insieme al piccolo podere, essa costituiva l'unica
proprietà del vecchio, il suo solo mezzo di sussistenza; nell'impossibilità di
abitarvi o di affittarla il capitano era ridotto alla miseria. Il fantasma non
aveva misericordia, come non ne aveva avuta lui. Cercò di resistere per sei
mesi, poi si arrese. Indossò il suo vecchio mantello turchino, prese il
bastone e si dispose a vagare per il mondo mendicando il pane. Fu allora
che il fantasma si ammansì e propose un compromesso. - Lasciami la casa!
- gli disse, - essa tocca a me. Vattene ad abitare altrove. Ma, per consentirti
di vivere, ne sarò io l'inquilino, dal momento che non ne trovi altri.
Affitterò la casa e ti pagherò una certa somma -. E il fantasma la precisò. Il
vecchio acconsenti, e da allora va a ritirare una volta ogni trimestre la sua
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pigione!
Il racconto mi fece ridere, ma, confesso, anche rabbrividire, perché i fatti
coincidevano esattamente con quanto io stesso avevo potuto constatare.
Non ero stato forse testimone di una delle visite trimestrali del capitano,
non l'avevo visto quasi nell'atto di controllare che il suo inquilino fantasma
gli versasse il denaro pattuito? E quando s'era allontanato camminando
faticosamente nel buio, non aveva forse celato nelle pieghe del mantello un
sacchetto di monete d'inusitata provenienza? Di queste riflessioni non feci
parte a Miss Deborah, perché avevo stabilito di proseguire nelle mie
ricerche, e mi ripromettevo il piacere di offrirle il mio racconto nella sua
completezza.
- Il capitano Diamond non ha altri mezzi di sussistenza? - le domandai.
- Nessun altro. Non lavora, non fa nulla... È il suo fantasma a dargli di
che vivere.
- E in che moneta paga, il fantasma?
- In solide monete americane d'oro e d'argento, che hanno quest'unica
peculiarità: sono tutte di data anteriore alla morte della ragazza. Non le
pare uno strano miscuglio di spirito e di materia?
- E il fantasma, fa le cose ammodo? Paga un buon affitto?
- Il vecchio vive decorosamente, credo: non gli manca né la pipa, né un
bicchier di vino. Ha preso una casetta giù vicino al fiume: l'ingresso è di
lato, sulla strada, e c'è davanti un giardinetto. Ora passa lì i suoi giorni, con
una vecchia di colore che gli sbriga le faccende. Anni fa, andava in giro
parecchio: in città era una figura nota e la sua storia era risaputa. Da ultimo
però si è chiuso nel suo guscio; se ne sta davanti al fuoco senza più destare
la curiosità altrui. Temo che stia rimbambendo. Ma sono certa, o almeno
voglio sperare, -concluse Miss Deborah, - che non sopravviverà alle sue
facoltà mentali o motorie perché, se ben ricordo, il contratto prevedeva
ch'egli andasse di persona a ritirare la pigione.
A quanto risulta, né Miss Deborah né io avemmo a subire castighi di
sorta per queste indiscrezioni; ogni giorno la ritrovavo a ricamare
cantando, né più né meno attiva del solito. Quanto a me, continuai
impavido nelle mie indagini. Tornai più d'una volta al grande cimitero, ma
la mia speranza di trovarvi il capitano Diamond restò delusa. Tuttavia mi
si affacciò alla mente una congettura che mi offriva un certo compenso:
avevo astutamente inferito che i pellegrinaggi trimestrali del vecchio
dovessero aver luogo allo scadere del termine. Quando l'avevo visto la
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prima volta era stato il 31 dicembre, ed era probabile che tornasse alla casa
degli spiriti all'ultimo giorno di marzo. Quella data non era lontana, e
finalmente arrivò.
Mi recai nel tardo pomeriggio alla vecchia casa del crocevia,
supponendo che l'ora del crepuscolo fosse quella convenuta. Non mi
sbagliavo. Avevo passato un po' di tempo a girellare lì attorno, sentendomi
anch'io molto simile a un fantasma inquieto, quando egli comparve allo
stesso modo dell'altra volta e nel medesimo abbigliamento. Mi nascosi di
nuovo e lo vidi entrare in casa con lo stesso cerimoniale usato nella
precedente occasione. Dalla fessura lasciata da ogni paio d'imposte filtrò
via via una luce; aprii la finestra che già una volta aveva ceduto alla mia
insistenza. Rividi la grande ombra sulla parete, immobile, solenne. Ma non
vidi altro. Finalmente ricomparve il vecchio, fece la sua fantasiosa
riverenza davanti all'edificio e sgusciò via nell'oscurità.
Un giorno, più d'un mese dopo, lo incontrai di nuovo a Mount Auburn.
L'aria era piena delle voci di primavera. Gli uccelli erano tornati e stavano
cinguettando dei loro viaggi invernali: nella ver-zura acerba sussurrava un
debole vento di ponente. Il capitano, sempre avvolto nel suo enorme
mantello, era seduto su una panchina al sole; appena mi avvicinai mi
riconobbe subito. Mi fece un cenno, come un vecchio pascià pronto a dare
il segnale della mia decapitazione, ma evidentemente era contento di
vedermi.
- L'ho cercata già altre volte, - gli dissi. - Lei non viene spesso.
- Che voleva da me? - domandò.
- Volevo godermi la sua conversazione. L'ho apprezzata molto quando ci
siamo incontrati l'altra volta.
- Mi ha trovato divertente?
- Interessante, - dissi.
- Non mi ha giudicato un mentecatto?
- Mentecatto...? - protestai. - Mio caro signore...
- Sono l'uomo più sano di mente del mondo. Lo so che tutti i matti
dicono sempre così, ma in generale non possono dimostrarlo. Io sì, invece!
- Glielo credo, - dissi. - Ma sono curioso di sapere come si fa a
dimostrare una cosa del genere.
Tacque un momento.
- Glielo dirò. Una volta, senza intenzione, io commisi un grande delitto.
Ora lo sto espiando. Vi consacro tutta la mia vita. Non mi sottraggo, anzi,
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affronto l'espiazione lealmente, sapendo benissimo di che si tratta. Non ho
cercato di cancellare la mia colpa, non ho chiesto grazia, non sono fuggito.
Il castigo è terribile, ma io l'ho accettato. L'ho presa con filosofia! Se fossi
stato cattolico, avrei potuto farmi frate e trascorrere il resto dei miei giorni
digiunando e pregando. Ma codesta non è una condanna, è un'evasione.
Avrei potuto farmi saltare le cervella... sarei potuto impazzire. Non ho
fatto né una cosa né l'altra. Ho semplicemente affrontato la situazione, ne
ho tratto le conseguenze che, come dico, sono terribili! Le traggo in certi
giorni, quattro volte all'anno. Sono vent'anni che si va avanti così; e così
andrà finché avrò vita. Sono affari miei, di mia competenza. Io la vedo
così: direi che è un modo di vedere ragionevole!
- Mirabilmente ragionevole! - commentai. - Ma lei mi riempie di
curiosità, di compassione.
- Soprattutto di curiosità, - precisò il capitano argutamente.
- Ma come? - ribattei. - Se conoscessi con precisione di che cosa soffre,
potrei compatirla di più.
- Le sono molto obbligato. Non ho bisogno della sua compassione, non
mi sarebbe d'aiuto. Le voglio raccontare una cosa, non per mio beneficio,
per il suo -. Fece una lunga pausa e si guardò intorno, come se potesse
esserci qualcuno a sentire. Aspettavo con ansia la sua rivelazione, ma
rimasi deluso.
- Continua a studiare teologia? - mi chiese.
- Oh sì, - risposi, forse con un tantino d'irritazione. - Non è cosa che si
possa imparare in sei mesi.
- Lo credo bene, finché si hanno soltanto i libri a disposizione. Conosce
il proverbio: «Un grammo d'esperienza val più d'una libbra di precetti»?
Oh, sono un gran teologo, io.
- Ah, dunque lei ha dell'esperienza, - mormorai in tono di simpatia.
- Lei ha letto dell'immortalità dell'anima, ha visto come, in proposito,
Jonathan Edwards e il dottor Hopkins hanno tagliato a fette la logica per
giungere alla conclusione, in poesia e in prosa, che si: l'anima è immortale.
Ma io l'ho verificato con questi occhi; l'ho toccato con queste mani! - E il
capitano alzò due vecchi pugni rugosi, scotendoli minacciosamente. - E
stato meglio così, - continuò, - ma l'ho pagato caro. Lei farà meglio a
dedurlo dai libri: è chiaro che seguirà sempre questa via. Lei è un
buonissimo giovane, non avrà mai delitti sulla coscienza.
Con una certa giovanile fatuità gli risposi che senza dubbio, per quanto
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buonissimo giovane e futuro dottore in teologia, speravo di avere anch'io la
mia parte di umane passioni.
- Ah, ma ha un buon carattere, è un tipo tranquillo, - insistette. - Anch'io
lo sono... adesso! Ma un tempo ero un violento, un gran violento... Eh,
cose del genere succedono, lo sa anche lei. Io ho ucciso mia figlia.
- Sua figlia?
- L'ho gettata a terra con una mazzata e l'ho lasciata morire. Non
poterono impiccarmi, perché non l'avevo abbattuta con le mie mani.
L'avevo fatto con parole vergognose, esecrabili. Qui sta la differenza; le
leggi che ci governano sono generose! Ebbene, signore, posso garantire
che l'anima di mia figlia è immortale. Abbiamo un appuntamento quattro
volte all'anno, e allora me ne accorgo!
- Non le ha mai perdonato?
- Mi ha perdonato come perdonano gli angeli! E questo che non
sopporto: quello sguardo dolce, tranquillo, che posa su di me. Preferirei
che mi rigirasse un coltello nel cuore... Oh Dio, Dio, Dio! - e il capitano
Diamond chinò il capo sull'impugnatura del suo bastone, appoggiando la
fronte sulle mani incrociate.
Ero impressionato e commosso: per il momento il suo contegno
sembrava porre freno ad altre domande. Prima che mi arrischiassi a
chiedergli qualcos'altro, si alzò lentamente e si avvolse il gran mantello
intorno alla persona. Non era solito parlare dei suoi guai, e i ricordi
l'opprimevano. - Devo andarmene, - disse, - devo filare.
- Forse c'incontreremo qui un'altra volta, - dissi.
- Oh, sono un povero vecchio acciaccoso, - ribatté, - e mi costa
abbastanza fatica venire fin qui. Debbo tenermi da conto. Qualche volta ho
passato un mese intero senza muovermi dalla poltrona e fumando la pipa.
Però sarei contento di rivederla -. E si fermò, fissandomi con uno sguardo
cortese e terribile nello stesso tempo. -Un giorno, forse, mi rallegrerò di
aver messo le mani su un'anima giovane, incorrotta. Se si può riuscire a
farsi un amico è sempre qualcosa di guadagnato. Come si chiama?
Avevo in tasca un volumetto dei Pensieri di Pascal: sul frontespizio
erano segnati il mio nome e l'indirizzo. Lo tirai fuori e l'offersi al mio
vecchio amico. - Conservi questo libriccino, la prego, -gli dissi. - È
un'opera che mi è molto cara, e le potrà dire qualcosa sul mio conto.
Egli prese il volume e lo rigirò lentamente fra le mani, poi mi scrutò con
un cipiglio che esprimeva gratitudine: - Non sono uno che legge molto, Henry James
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dichiarò. - Ma non voglio rifiutare il primo regalo che ricevo dacché... ho
avuto i miei guai; e sarà anche l'ultimo. Grazie, signore! - E si allontanò
col libretto in mano.
Dopo quel giorno, rimasi alcune settimane a immaginarlo seduto
solitario in poltrona con la sua pipa. Non lo rividi. Ma aspettavo
l'occasione, e l'ultimo giorno di giugno, allo scadere di un altro trimestre,
giudicai che fosse venuta. In giugno si fa sera tardi, e io aspettai con
impazienza quell'ora. Finalmente, verso il crepuscolo di una bella giornata
estiva, tornai a visitare la dimora del capitano Diamond. Adesso era tutta
circondata dalla verzura, eccetto l'appassito orticello sul retro; tuttavia il
grigiore, la tristezza che la caratterizzavano mi colpirono con la stessa
forza di quando l'avevo contemplata sotto il cielo decembrino. Quando mi
avvicinai, mi accorsi di aver fatto tardi per lo scopo che m'ero prefisso:
volevo semplicemente prevenire l'arrivo del capitano e chiedergli con
coraggio di lasciarmi entrare insieme a lui. Egli mi aveva preceduto e già
la luce trapelava dalle finestre. Naturalmente non desideravo disturbarlo
durante la sua intervista col fantasma, e l'aspettai finché uscì. A poco a
poco le luci si spensero; poi la porta si aprì e il capitano Diamond sgusciò
fuori. Quella sera non si prostrò in inchini davanti alla casa visitata dagli
spiriti, perché la prima cosa che vide fu il suo benintenzionato giovane
amico piantato lì davanti con aria dimessa ma ferma, proprio vicino
all'ingresso. Si arrestò di botto guardandomi: questa volta il suo fiero
cipiglio era intonato alla situazione.
- Sapevo di trovarla qui, - gli dissi. - Sono venuto apposta. Apparve
sconcertato e guardò inquieto la casa.
- Le chiedo scusa di aver osato tanto, - soggiunsi, - ma lei mi ha
incoraggiato, lo sa.
- Come ha fatto a sapere che ero qui?
- Per deduzione. Lei mi ha raccontato metà della sua storia; l'altra metà
l'ho indovinata. Sono un osservatore accanito: questa casa l'avevo notata
passando e mi parve che racchiudesse un mistero. Quando lei fu tanto
buono da confidarmi che vedeva dei fantasmi, fui sicuro che soltanto qui
poteva vederli.
- E davvero intelligente! - esclamò il vecchio. - E come mai questa sera è
venuto qui?
Fui costretto a eludere la domanda.
- Oh, ci vengo sovente; mi piace guardare questa casa... mi affascina.
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Si volse a guardarla a sua volta. - Dal di fuori non c'è nulla da vedere.
Ovviamente il capitano non si rendeva conto dell'aspetto particolare
della vecchia dimora, e questa strana circostanza, di cui venivo informato
così, nella luce del crepuscolo, proprio davanti al fronte corrucciato del
sinistro edificio, sembrò rendere più concreta in lui la visione di quello che
c'era dentro.
- Avevo sperato, - spiegai, - di aver l'occasione di poterla vedere
nell'interno. Ho pensato che forse la trovavo qui e che lei m'avrebbe fatto
entrare. Sarei curioso di vedere ciò che lei vede.
Sembrò disorientato dal mio ardire, ma nell'insieme non dispiaciuto. Mi
posò una mano sul braccio. - Lei sa quello che vedo? ~ domandò.
- Come si fa a sapere se non - come lei disse l'altro giorno - per
esperienza? Voglio avere quest'esperienza. La prego, apra la porta e mi
faccia entrare.
Sotto le fosche sopracciglia gli occhi del capitano Diamond si dilatarono
e, trattenuto il fiato un istante, egli si abbandonò per la prima e l'ultima
volta a quella parvenza di risata che mi permise di vedere alterata la sua
solenne fisionomia: una risata grottesca, ma completamente silenziosa. Farla entrare? - bofonchiò. - Non entrerei mai un'altra volta prima dello
scadere del termine, dovessi prendere una somma mille volte maggiore di
questa -. E, cacciata una mano fuori dalle pieghe del mantello, esibì un
cumulo di monete annodate nell'angolo di un vecchio fazzoletto di seta. Io mi attengo al patto, né più né meno!
- Ma, la prima volta che ebbi il piacere di parlarle, lei mi disse che non
era così terribile...
- E neppure dico adesso che sia terribile. Ma è maledettamente
sgradevole!
Tale aggettivo fu pronunciato con una veemenza che mi fece esitare e
riflettere. In quell'istante mi parve di percepire un leggero movimento
proveniente da una delle imposte del primo piano. Guardai in su, ma tutto
appariva immobile. Anche il capitano Diamond era rimasto
soprappensiero; d'un tratto si volse verso la casa. - Se ci vuole entrare da
solo, - disse, - s'accomodi.
- Mi aspetta qui?
- Sì, non potrà fermarsi molto.
- Ma dentro casa c'è buio pesto. Quando entra lei, ci sono delle luci.
Affondò la mano nelle profondità del mantello e ne cavò qualche
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1970 - Racconti Di Fantasmi
fiammifero. - Prenda questi, - mi disse. - Sul tavolo dell'anticamera troverà
due candelieri con relative candele. Li accenda, ne prenda uno in ogni
mano e vada avanti.
- Dove devo andare?
- Dove vuole, dappertutto. Può star sicuro che il fantasma la troverà.
Non voglio negare che, ormai, arrivato a questo punto, il mio cuore s'era
messo a battere forte. E tuttavia suppongo che il gesto con cui sollecitai il
vecchio ad aprire la porta fosse abbastanza dignitoso. M'ero convinto che
doveva esserci davvero un fantasma; avevo accettato la premessa. Soltanto
avevo assicurato a me stesso che -una volta preparato spiritualmente, in
modo che non vi fossero sorprese - era possibile conservare il sangue
freddo. Il capitano Diamond fece scattare la serratura, spalancò la porta e
si profuse in un inchino profondo mentre entravo. Fermo, nel buio, udii la
porta richiudersi alle mie spalle. Per qualche istante rimasi immobile, lo
sguardo fisso audacemente nell'impenetrabile oscurità. Ma, non scorgendo
e non sentendo nulla, mi risolvetti ad accendere un fiammifero. Sul tavolo
c'erano due vecchi candelieri d'ottone, arrugginiti per il disuso. Accesi le
candele e iniziai il mio giro d'esplorazione.
Davanti a me si ergeva una scala spaziosa, protetta da un'antica balaustra
intagliata nel modo austero e delicato così frequente nelle vecchie case del
New England. Rinunciai per il momento a salire e mi volsi per entrare
nella stanza alla mia destra. Era un salottino antiquato, arredato
modestamente, che odorava di stantio per l'assenza d'ogni presenza umana.
Sollevai i miei due lumi a una certa altezza, ma non vidi altro che sedie
vuote e pareti nude. Dietro il sa-lottino c'era la stanza nella quale avevo
sbirciato dal di fuori e che, in effetti, comunicava con esso, come avevo
arguito, per mezzo di porte a due battenti. Anche lì non ebbi a trovarmi a
confronto con nessuno spettro minaccioso. Di nuovo attraversai
l'anticamera e diedi un'occhiata ai due vani sull'altro lato: sul davanti una
sala da pranzo dove avrei potuto scrivere col dito il mio nome sullo strato
di polvere che ricopriva la grande tavola quadrata; dietro, una cucina dalle
pentole e dalle padelle fredde d'un gelo sempiterno. Tutto ciò era
angoscioso e tetro, ma non pauroso. Tornai nell'anticamera e mi portai ai
piedi della scala, tenendo alte le candele; salire esigeva un nuovo sforzo,
ma io volevo scrutare nel buio di lassù. Tutt'a un tratto, con una sensazione
impossibile a esprimersi, mi resi conto che quell'oscurità era animata;
sembrava muoversi e condensarsi. Lentamente - e dico lentamente perché
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
nel mio stato di tensione gli attimi sembravano secoli - assunse l'aspetto di
una figura massiccia, nettamente delineata, e questa figura venne avanti e
si fermò in cima alla scala. Confesso francamente d'esser stato
consapevole in quel momento di una sensazione cui il dovere m'impone di
attribuire il termine volgare di paura. Potrei far della poesia e chiamarla
Terrore, con la T maiuscola; comunque, era la sensazione della terra che
manca sotto i piedi. Me ne capacitavo man mano che cresceva, e mi
sembrava assolutamente ineluttabile; infatti pareva venire non dall'interno,
ma dall'esterno, e prender corpo nella fosca immagine là in alto. In certo
modo ragionavo - ricordo che ragionavo: «Ho sempre pensato, - dicevo tra
me, - che i fantasmi fossero bianchi e diafani; questo è un ammasso di
ombre fitte, dense, opache». Rammentai a me stesso che l'occasione era
unica, e che dovevo raccogliere tutte le impressioni possibili finché mi
rimaneva quel tanto di lucidità di spirito, prima di venir sopraffatto dalla
paura. Arretrai, un passo dietro l'altro, gli occhi ancora fissi
sull'apparizione, e posai le candele sul tavolo. Mi rendevo perfettamente
conto che la cosa giusta da fare era salire risolutamente le scale e mettermi
faccia a faccia con l'apparizione, ma pareva che, di colpo, le suole delle
mie scarpe si fossero trasformate in pesi di piombo. Avevo ottenuto ciò
che volevo: stavo guardando il fantasma. Cercai di fissarmi in capo quella
figura tanto nettamente da poterla ricordare e da vantarmi a buon diritto,
più tardi, di non aver perso l'autocontrollo. Mi chiesi persino quanto era
giusto pretendere che stessi lì sui due piedi a guardarla, e quando avrei
potuto onorevolmente battere in ritirata. Pensieri che, naturalmente, mi
passarono per la testa con la rapidità del fulmine, e che a un certo punto
vennero bloccati da un altro movimento del fantasma. Nell'oscura massa
eretta apparvero due mani bianche, che si alzarono lentamente a quello che
poteva essere il livello del capo. Qui vennero premute insieme sopra la
zona del viso, da cui poi si staccarono, e la faccia si svelò. Era bianca,
indistinta, strana, spettrale in ogni senso. Mi guardò per un attimo: dopo di
che una delle mani si levò di nuovo, lentamente, e si mosse avanti e
indietro dinanzi al volto. V'era qualcosa di molto singolare in quel gesto;
pareva significare risentimento e congedo, e tuttavia il movimento aveva
un che di ovvio, di famigliare. Il fatto che la Presenza frequentatrice mi
trattasse famigliarmente non era entrato nei miei calcoli, e non mi fece
buona impressione. Mi sentii d'accordo col capitano Diamond: era
«maledettamente sgradevole». Fui pervaso dall'intenso desiderio di
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1970 - Racconti Di Fantasmi
muovere in composta e, se possibile, dignitosa ritirata. Aspiravo a che
fosse una ritirata coraggiosa, e pensai che sarebbe stato un atto di coraggio
spegnere le candele. Mi volsi e, con precisione, mandai ad effetto l'intento;
poi, annaspando nel buio, mi diressi verso la porta e l'aprii. Sebbene quasi
del tutto spenta, per un attimo la luce esterna entrò, giocò sui recessi
polverosi della casa e mi mostrò il solito contorno dell'apparizione.
In piedi, sull'erba, chino sul suo bastone, sotto lo scintillio delle prime
stelle, ritrovai il capitano Diamond. Alzò gli occhi a fissarmi per un
momento, ma non mi fece domande, poi andò a richiudere la porta.
Assolto questo compito, eseguì l'altro: s'inchinò come il prete davanti
all'altare, e poi, senza più badare a me, si allontanò.
Alcuni giorni dopo, sospesi gli studi, partii per le vacanze estive. Rimasi
assente alcune settimane, durante le quali ebbi tutto l'agio di esaminare le
mie impressioni circa il soprannaturale. Trovai qualche po' di
soddisfazione nel constatare che non ne ero uscito ignobilmente
terrorizzato; non ero scappato né svenuto: avevo sostenuto la mia parte con
dignità. Ciò nonostante, mi sentii certamente più tranquillo quand'ebbi
interposto trenta miglia fra me e il teatro delle mie gesta, e per parecchi
giorni continuai a preferire la luce del giorno all'oscurità. I miei nervi
erano stati grandemente scossi; me ne resi particolarmente conto allorché,
sotto l'influsso dell'aria torpida della costa, la mia eccitazione cominciò
pian piano a declinare. Quando fu svanita del tutto, tentai di dare un
giudizio rigidamente razionale della mia esperienza. Senza dubbio, avevo
visto qualcosa - non era stata immaginazione, ma che cosa? Adesso
rimpiangevo amaramente di non esser stato più ardito, di non essermi
avvicinato maggiormente a esaminare l'apparizione. Ma parlare era facile:
avevo fatto quel che qualsiasi altro uomo avrebbe osato fare nelle mie
circostanze; era stata una sorta d'impedimento fisico a trattenermi
dall'avanzare. Quella paralisi delle mie energie non era di per se stessa un
influsso soprannaturale? Non necessariamente, forse: perché un falso
fantasma, una volta accettato, poteva provocare la medesima reazione di
un fantasma vero. Ma perché avevo accettato così facilmente la fosca
apparizione che agitava la mano? Perché mi si era tanto impressa nella
mente? Vero o falso che fosse, era senza dubbio un fantasma molto
perspicace. Preferivo di gran lunga che si fosse trattato di un vero
fantasma: prima di tutto perché non mi andava l'idea di aver rabbrividito
per nulla, in secondo luogo perché, si sa, l'essersi trovato al cospetto di un
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1970 - Racconti Di Fantasmi
autentico, spettro, è motivo d'orgoglio per un uomo pacifico. Cercai
dunque di lasciare in pace la mia apparizione e di smetterla di arrovellarmi.
Tuttavia, a intervalli, un impulso più forte della mia volontà seguitava a
pormi sulle labbra una domanda beffarda. Ammettiamo che l'apparizione
fosse la figlia del capitano Diamond; se era lei, quello era certo il suo
spettro. Ma non era il suo spettro e insieme qualcos'altro?
La metà di settembre mi ritrovò insediato fra le ombre teologiche, però
senza alcuna fretta di tornare alla casa degli spiriti.
Si avvicinava l'ultimo del mese, scadenza di un altro trimestre per il
povero capitano Diamond. Stavolta non mi sentii incline a disturbare il
pellegrinaggio di prammatica del vecchio, per quanto debba ammettere di
aver pensato con molta compassione al pover uomo che avanzava debole e
solitario nell'oscurità autunnale per adempiere alla sua bizzarra
incombenza. Il 30 settembre, verso mezzogiorno, stavo sonnecchiando
sopra un pesante volume in-ottavo, quando udii bussare un colpo discreto
alla mia porta. Risposi invitando ad entrare, ma poiché l'invito non
produsse alcun effetto, andai all'uscio e l'aprii. Mi trovai di fronte una
negra d'età avanzata, col capo avvolto da un turbante scarlatto e un
fazzoletto bianco incrociato sul seno. Mi fissò intensamente in silenzio;
aveva quell'aria dignitosa ed estremamente compunta che spesso è
caratteristica delle persone anziane della sua razza. Le rivolsi uno sguardo
interrogativo, e finalmente, traendo una mano dalla tasca profonda, la
donna levò alto un libriccino. Era la copia dei Pensieri di Pascal che avevo
regalato al capitano Diamond.
- Scusi, signore, - mi disse molto timida, - conosce questo libro?
- Perfettamente, - risposi io, - c'è scritto il mio nome sul frontespizio.
- È proprio il suo nome... non un altro?
- Se vuole, le scrivo il mio nome, e lei può confrontarli, - la
tranquillizzai.
Tacque per un momento e poi, con dignità: - Sarebbe inutile, signore, disse, - io non so leggere. Se mi dà la sua parola, mi basta. Vengo, continuò, - da parte del signore a cui lei ha regalato il libro.Mi ha
incaricata di portarglielo in pegno, sì, pegno... così ha detto. È molto giù,
molto malandato, la vuole vedere.
- Il capitano Diamond è malato! - esclamai. - È grave?
- Sta molto male... è bell'e spacciato.
Espressi il mio dispiacere, il mio cordoglio, e mi offersi di recarmi
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1970 - Racconti Di Fantasmi
subito da lui, se la sua bruna messaggera mi avesse indicato la strada. La
donna consenti con deferenza; pochi istanti dopo la seguivo per le vie
soleggiate, con la sensazione di assomigliare molto a un personaggio delle
Mille e una notte, condotto a una posteria segreta da una schiava etiope. La
mia guida diresse i suoi passi verso il fiume e si fermò davanti a una
decorosa casetta gialla in una delle vie in discesa che menano al corso
d'acqua. Fu pronta ad aprire la porta e a farmi strada, e subito mi trovai in
presenza del mio vecchio amico. Era a letto, in una stanza oscurata, in uno
stato evidente di estrema debolezza. Giaceva con la testa riversa sul
guanciale, guardando fisso davanti a sé; i capelli erano più irti che mai e i
vecchi occhi di un nero intenso e lucente scintillavano di febbre.
L'alloggio, modesto e tenuto con pulizia scrupolosa, attestava che la mia
guida dalla pelle d'ebano era una serva fedele. Rigido e pallido sopra le
lenzuola di bucato, il capitano assomigliava a una figura rozzamente
scolpita sul coperchio di una tomba gotica. Mi guardò in silenzio, mentre
la nostra compagna si ritirava lasciandoci soli.
- Sì, è proprio lei, - disse infine, - è lei quel bravo giovanotto. Non mi
sbaglio, vero?
- Spero di no; credo di essere un bravo giovanotto, ma mi dispiace che
sia ammalato. Che cosa posso fare per lei?
- Sto male, molto male; le mie povere ossa mi dolgono tanto! -E,
gemendo pietosamente, cercò di voltarsi verso di me.
Lo interrogai sulla natura del suo male, sulla durata della sua infermità,
ma mi badò appena; sembrava impaziente di parlare di qualcos'altro. Mi
afferrò per la manica, mi tirò verso di sé e bisbigliò in fretta:
- Oggi scade il mio termine!
- Oh, spero proprio di no, - risposi, fraintendendolo. - Sono sicuro che la
rivedrò in piedi.
- Lo sa Dio! - replicò. - Ma non volevo dire che sto per morire; neanche
per sogno. Intendo dire che devo recarmi alla casa... Oggi è il giorno della
pigione.
- Già, certo! Ma non ci può andare.
- Non ci posso andare. È terribile: perderò i miei soldi. Anche se muoio,
li voglio ugualmente. Voglio pagare il medico. Voglio essere seppellito
come una persona che si rispetti.
- E per questa sera? - chiesi.
- Questa sera, all'ora del tramonto precisa.
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1970 - Racconti Di Fantasmi
Giaceva fissandomi, e, nel ricambiargli lo sguardo, compresi d'un tratto
la ragione per cui m'aveva mandato a chiamare. Nell'attimo in cui la intuii,
sussultai nel mio intimo. Ma credo di aver continuato ad apparire
imperturbabile, perché il capitano proseguì nello stesso tono: - Non posso
perdere quel denaro. Deve andarci qualcun altro. L’ho chiesto a Belinda,
ma non vuol nemmeno sentirne parlare.
- È sicuro che la somma venga pagata a un'altra persona?
- Si può quanto meno tentare. Non ho mai mancato prima, e non so. Ma
se lei le dice che sto male come un cane, che le mie vecchie ossa sono tutte
un dolore, che sto morendo, forse le crederà. Non vuole farmi morire di
fame, dopo tutto!
- Desidererebbe dunque che andassi io al suo posto?
- Lei c'è già stato una volta; sa di che si tratta. Ha paura? Esitai.
- Mi dia tre minuti di tempo per riflettere, - dissi, - e glielo dirò. I miei
occhi vagarono sulla stanza posandosi sui vari oggetti che testimoniavano
della povertà consunta ma dignitosa del suo occupante. Screpolati, sbiaditi,
sparpagliati com'erano, parevano fare muto appello alla mia pietà, alla mia
risoluzione. Intanto il capitano continuava con un filo di voce:
- Credo che si fiderà di lei, come mi fido io; la sua faccia le piacerà,
vedrà che lei è incapace di far del male. Sono, per l'esattezza,
centotrentatre dollari. Badi di metterli al sicuro.
Infine cedetti. - Sì, andrò, e, per quanto dipende da me, questa sera alle
nove lei avrà i suoi soldi.
Parve molto sollevato; mi prese la mano e la strinse debolmente. Poco
dopo mi congedai. Per il resto della giornata cercai di non pensare alla mia
incombenza della sera, ma, naturalmente, non pensavo ad altro. Non
voglio negare di essermi sentito nervoso; in realtà ero molto eccitato, e
passai il tempo ora sperando che il mistero si dimostrasse meno profondo
di quanto sembrava, ora temendo che fosse troppo inconsistente. Le ore
passavano lentamente: quando il pomeriggio iniziò a declinare, mi misi in
cammino per la mia missione. Mi fermai lungo la via della modesta
abitazione del capitano Diamond, per chiedere notizie e ricevere quelle
eventuali ultime istruzioni che avesse desiderato impartirmi. La vecchia
negra, grave e imperturbabile nella sua placidità, mi fece entrare e,
rispondendo alle mie domande, affermò che il capitano era molto «giù»;
era peggiorato rispetto alla mattina.
- Deve fare in fretta, - soggiunse, - se vuol essere di ritorno prima della
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1970 - Racconti Di Fantasmi
sua fine.
Un suo sguardo mi confermò ch'essa era al corrente della mia progettata
spedizione, benché la sua nera pupilla opaca non desse il minimo segno di
tradirsi.
- Ma perché dovrebbe finire, il capitano Diamond? - domandai. - Certo,
sembra molto debole; ma non riesco a capire se si tratta di una malattia
vera e propria.
- La sua malattia è la vecchiaia, - sentenziò la donna.
- Ma non è poi così vecchio: sessantasette, sessantott'anni al massimo.
Tacque per un momento.
- E consumato, è logoro, non ce la fa più.
- Posso vederlo un momento? - chiesi; ed essa mi fece entrare.
Egli giaceva in letto allo stesso modo in cui l'avevo lasciato, tranne che
teneva gli occhi chiusi. Appariva davvero molto «giù», come aveva detto
Belinda, e aveva un polso debolissimo. Malgrado ciò, appresi che il
dottore, venuto nel pomeriggio, si era dichiarato soddisfatto. - Ma lui non
sa come stanno le cose, - aggiunse sbrigativa la negra.
Il vecchio si agitò un poco, apri gli occhi, e un momento dopo mi
riconobbe.
- Vado, sa, - gli dissi. - Vado a riscuotere il suo denaro. Ha ancora
qualcosa da dirmi? - Egli si sollevò a fatica, con uno sforzo doloroso,
appoggiandosi ai cuscini; ma pareva quasi non comprendermi. - La casa,
capisce? - gli spiegai. - Sua figlia.
Si stropicciò la fronte per un poco, con gesto lento, e infine la sua mente
si ridestò. - Ah, sì, - mormorò, - mi fido di lei. Centotren-tatre dollari. In
monete vecchie... tutte monete vecchie -. Poi, con aumentato vigore e uno
scintillio negli occhi: - Sia molto rispettoso, - si raccomandò, - molto
educato. Se no... se no... - e di nuovo la voce gli venne meno.
- Lo sarò certamente, - lo assicurai, con un sorriso un po' forzato. - Ma,
se no...?
- Se no, verrò a saperlo! - disse in tono grave. A questo punto gli occhi
gli si chiusero e ricadde sui cuscini.
Continuai la mia spedizione camminando con passo abbastanza risoluto.
Raggiunta che ebbi la casa, le feci una riverenza propiziatoria a imitazione
del capitano Diamond. Avevo regolato la mia andatura in modo da poter
entrare subito; la notte era caduta allora. Girai la chiave, aprii la porta e me
la richiusi alle spalle. Poi feci un po' di luce e trovai sul tavolo
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1970 - Racconti Di Fantasmi
dell'anticamera i due candelieri che avevo adoperato l'altra volta. Avvicinai
un fiammifero a entrambi, li presi in mano ed entrai nel salotto. Era vuoto,
e benché aspettassi un momento, vuoto rimase. Passai nelle altre stanze del
piano terreno: nessuna oscura immagine si levò dinanzi a me a trattenere i
miei passi. Infine tornai nell'anticamera e mi fermai chiedendomi se
dovevo salire al piano di sopra. La scala era stata teatro della mia
precedente sconfitta: l'avvicinai perciò con estrema diffidenza. Prima di
salire attesi un attimo, guardando in su con la mano sulla balaustra.
Aspettavo in uno stato di grande tensione, ed era una tensione giustificata.
A poco a poco, nell'incombente oscurità, la figura nera che avevo già vista
prese forma. Non era illusione: era una figura, la stessa. Le lasciai il tempo
di delinearsi: ora stava eretta e mi guardava dall'alto, nascondendo il volto
con un velo. Allora, risolutamente, alzai la voce e parlai.
- Sono venuto al posto del capitano Diamond, dietro sua richiesta, dissi. - È molto malato, nell'impossibilità di lasciare il letto. Insiste perché
il denaro che gli spetta venga versato a me; glielo porterò immediatamente
-. La figura rimase immobile, senza dare alcun segno. - Il capitano sarebbe
venuto di persona se fosse in grado di muoversi, - aggiunsi subito dopo, in
tono di preghiera;
- ma non può più fare un passo.
A queste parole la figura scoprì il viso, mostrandomi una maschera
bianca, dai contorni confusi; poi prese a scendere lentamente gli scalini. Io
mi ritrassi come per istinto, portandomi sulla porta del salotto anteriore.
Con gli occhi sempre fissi su lei, indietreggiando, varcai la soglia e mi
fermai al centro della stanza, dove deposi i due lumi. La figura mosse
verso di me: si sarebbe detta quella di una donna alta, vestita di vaporoso
crespo nero. Quando mi fu vicina, vidi che il suo volto era perfettamente
umano, ma pallidissimo e triste. Rimanemmo a guardarci. La mia
agitazione era del tutto scomparsa e partecipavo intensamente alla scena.
- Mio padre è in pericolo? - domandò l'apparizione. Nell'udire quella
voce - una voce gentile, tremula, umanissima
- feci un balzo in avanti, e l'agitazione mi riprese. Trassi un lungo
respiro, emisi una specie di grido, poiché mi trovavo di fronte non a un
fantasma senza corpo, ma a una bella donna, un'attrice consumata.
Irresistibilmente, per istinto e per un'incoercibile reazione contro la mia
credulità, allungai una mano e afferrai il lungo velo che le avvolgeva il
capo. Gli diedi uno strattone violento che per poco non lo fece cadere del
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1970 - Racconti Di Fantasmi
tutto, e rimasi con gli occhi fissi su una maestosa figura femminile, di
trentacinque anni all'incirca. Con uno sguardo abbracciai l'intera sua
persona: il lungo vestito nero, il viso smunto, scavato dalla sofferenza,
truccato per apparire più pallido, i bellissimi occhi - gli occhi di suo padre
- e un'espressione risentita per il mio gesto.
- Voglio sperare che mio padre non l'abbia mandata qui per
oltraggiarmi! - esclamò. Si volse rapida e, afferrata una delle candele, si
diresse verso la porta. Qui s'arrestò, mi guardò ancora una volta, ebbe un
attimo d'esitazione; poi, toltasi di tasca un borsellino, lo gettò sul
pavimento. - Ecco il suo denaro! - concluse con sussiego.
Incerto fra lo stupore e la vergogna, rimasi immobile, mentre lei passava
nell'anticamera. Allora raccolsi da terra il portamonete. Un attimo dopo
udii un urlo e il fracasso di qualcosa che cadeva, ed essa tornò indietro
barcollando nella stanza, senza la candela.
- Mio padre... mio padre! - gridò; e corse verso di me con la bocca
spalancata e gli occhi dilatati.
- Suo padre... ma dov'è? - domandai.
- In anticamera, ai piedi della scala.
Feci per spingermi avanti, ma essa mi afferrò il braccio.
- È vestito di bianco, - gridò, - è in camicia! Non è lui!
- Ma via, suo padre è a casa sua, nel suo letto, malatissimo, - le risposi.
Mi guardò con occhi fissi, indagatori.
- Moribondo?
- Spero di no, - balbettai.
Emise un lungo gemito, coprendosi il volto con le mani.
- Oh cielo! Ho visto il suo fantasma! - esclamò.
Mi teneva ancora stretto per un braccio; sembrava troppo terrorizzata per
lasciarmi.
- Il suo fantasma! - le feci eco, incredulo.
- È il castigo per la mia lunga follia! - aggiunse.
- Ah, - feci io, - è il castigo per la mia indiscrezione... per la mia
prepotenza!
- Mi porti via, mi porti via! - gridò, sempre afferrata al mio braccio. No, non di là... - soggiunse, mentre io stavo dirigendomi verso l'ingresso,
alla porta principale. - Non da quella parte, per l'amor di Dio! Da questa...
dalla porta di servizio! - E, afferrate dal tavolo le altre candele, mi guidò
attraverso la stanza vicina, in direzione della parte posteriore della casa.
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Là, da una specie di retrocucina, una porta s'apriva sull'orto. Feci scattare
la serratura arrugginita e, usciti all'aperto, ci trovammo nell'aria fredda,
sotto le stelle. Qui la mia compagna raccolse intorno a sé i lunghi
drappeggi della sua veste nera e rimase ferma un momento, incerta. Io ero
in uno stato di confusione estrema, ma la curiosità nei confronti di quella
creatura ebbe in me il sopravvento. Agitata, esangue, statuaria, essa
appariva, in quella prima luce della sera, d'una bellezza estrema.
- Per tutti questi anni, - le dissi, - lei ha continuato a sostenere una
straordinaria commedia.
Mi guardò con espressione torva, riluttante a rispondere.
- Io sono venuto del tutto in buona fede, - continuai. - L'ultima volta...
tre mesi fa... ricorda?... lei mi ha molto spaventato.
- Certo, è stata una commedia fuori del comune, - rispose finalmente la
donna. - Ma era l'unico modo.
- Non l'aveva dunque perdonata?
- Finché mi pensava morta, sì. Ma ci sono stati episodi nella mia vita che
lui non poteva perdonare.
Esitai, e poi: - Dov'è ora suo marito? - chiesi.
- Non ho marito... non ho mai avuto marito.
Ebbe un gesto come per frenare altre domande, e si allontanò
rapidamente. Feci con lei il tratto di cammino intorno alla casa verso la
strada, mentre essa continuava a mormorare: - Era lui... era lui! Raggiunta la strada, si fermò per chiedermi da che parte sarei andato. Le
indicai il sentiero per il quale ero venuto. - Io prendo l'altro, - dichiarò. Lei va da mio padre? - soggiunse.
- Immediatamente, - risposi.
- Vuol farmi sapere domani che cos'ha trovato?
- Volentieri, ma come faccio a comunicare con lei?
Ebbe un'espressione di smarrimento e si guardò intorno. - Mi scriva due
parole e le metta sotto quella pietra -. E mi indicò una delle lastre di lava
che bordavano il vecchio pozzo. Le promisi di accontentarla. Ella si volse:
- Conosco la strada, - affermò. - È tutto predisposto. È una vecchia storia.
Mi lasciò con passo rapido, e mentre si allontanava nel buio i fluttuanti
contorni delle sue vesti nere le ridiedero quell'aspetto di fantasma con cui
m'era apparsa la prima volta. Stetti a guardarla finché divenne invisibile,
poi abbandonai anch'io quel luogo. Tornai in città di buon passo, e mi
diressi senza indugio alla casetta gialla vicino al fiume. Mi permisi
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d'entrare senza bussare e, non trovando alcun ostacolo, procedetti verso la
camera del capitano Diamond. Fuori dalla porta, su un panchettino, la nera
Belinda era seduta a braccia conserte.
- Come sta? - chiesi.
- È salito alla gloria eterna.
- Morto? - gridai.
La donna si alzò soffocando una tragica risata.
- Ormai è un fantasma come tutti gli altri!
Passai nella stanza: il vecchio giaceva irrevocabilmente rigido e immoto.
Quella sera scrissi poche righe che intendevo collocare l'indomani sotto la
pietra accanto al pozzo; ma era destino che la mia promessa non fosse
mantenuta. Dormii molto male quella notte -cosa ben comprensibile - e
non trovando sonno m'alzai dal letto per passeggiare nella stanza. In
quella, passando davanti alla finestra, vidi un bagliore rosso rischiarare il
cielo a nord-ovest. Nella campagna c'era dunque una casa in fiamme, ed
evidentemente stava bruciando in fretta. Era nella stessa direzione del
luogo dove s'erano svolte le mie avventure serali. Mentre fissavo
l'orizzonte infocato, fui assalito da un ricordo preciso. Io avevo spento la
candela che aveva fatto luce a me e alla mia compagna fino alla porta dalla
quale eravamo fuggiti, ma non avevo più pensato all'altro lume, quello che
lei aveva portato nell'anticamera e che nel suo stato d'angoscia aveva
lasciato cadere Dio sa dove. L'indomani uscii con la lettera ripiegata e
svoltai al noto crocicchio. La casa dei fantasmi era un ammasso di travi
carbonizzate e ceneri fumanti; il coperchio del pozzo era stato spostato in
cerca d'acqua, dai pochi vicini che avevano avuto l'ardire di contrastare
quelle fiamme (certamente, secondo loro, alimentate dal demonio); le
lastre di pietra erano a soqquadro e il terreno calpestato tutto una
pozzanghera.
Traduzione di Maria Luisa Castellani Agosti.
SIR EDMUND ORME
La narrazione sembra sia stata scritta, per quanto il frammento non porti
data, molto dopo la morte di sua moglie, che io considero una delle
persone di cui vi si fa parola. Non c'è tuttavia nulla, nella strana vicenda,
che confermi questo punto di vista, il quale, d'altra parte, non ha forse
alcuna importanza, ora. Quando entrai in possesso delle cose che gli erano
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
appartenute, trovai queste pagine in un cassetto chiuso a chiave, in mezzo
a documenti che si riferivano alla troppo breve esistenza della sventurata
signora - era morta di parto un anno dopo il matrimonio: lettere, appunti,
conti, fotografie sbiadite, biglietti d'invito. È l'unico nesso che io possa
menzionare, ed è agevole trovarlo, come probabilmente farete, troppo
fantasioso per riconoscergli una qualsiasi base concreta. Ammetto di non
poter affermare che egli volesse riferire una vicenda realmente accaduta posso soltanto garantire che era, di regola, veritiero. Comunque, la
narrazione che egli scrisse per sé, non per gli altri, io la offro agli altri,
avendo piena libertà di scelta, appunto a causa della sua stranezza. Quanto
alla forma del racconto, si ricordi che egli lo scrisse unicamente per sé. Io
non ho modificato che i nomi.
Se la cosa può definirsi un racconto, posso fissare il momento esatto nel
quale cominciò. Fu in un mite e tranquillo meriggio domenicale di
novembre, subito dopo la funzione, sul Lungomare inondato di sole.
Brighton appariva affollata; la «stagione» era al colmo e la giornata, anche
pili dignitosa che bella, spiegava l'insolita affluenza di gente lungo la
passeggiata. Lo stesso mare azzurro era decoroso; sembrava - se in tal caso
si può parlare di decoro -russare in sordina mentre la natura predicava il
suo sermone. Dopo aver scritto lettere tutta la mattina ero uscito a dare
un'occhiata al passeggio prima della colazione. Appoggiato alla ringhiera
che divide la King's Road dalla spiaggia, avevo fumato, mi sembra, una
sigaretta, quando venne a riscuotermi un leggero bastoncino da passeggio,
posato scherzosamente sulla mia spalla. L'idea, mi avvidi, era stata di
Teddy Bostwick dei Fucilieri e mirava a trovar qualcuno con cui
chiacchierare. La nostra conversazione si avviò mentre ci mettevamo a
gironzare insieme - Teddy vi prendeva sempre sotto braccio per farvi
capire che perdonava la vostra incomprensione del suo carattere - a
guardare la gente, a fare un cenno di saluto a qualcuno a domandarci chi
fosse il tale e il tal altro, a trovarci in disaccordo circa la bellezza delle
ragazze. Quanto a Charlotte Marden, come la vedemmo avvicinarsi in
compagnia di sua madre, fummo tuttavia dello stesso parere; e chiunque
sarebbe stato d'accordo con noi. In passato l'aria di Brighton soleva far
belle le brutte e ancor più belle le belle - non so se la magia operi ancora.
La località era comunque straordinaria per le carnagioni, e quella della
signorina Marden era tale da far voltare la gente. Sa Iddio se non inducesse
noi a fermarci - per lo meno fu una delle ragioni, perché noi già
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
conoscevamo le due signore. Prendemmo per la loro strada, ci unimmo a
loro, andammo dove loro erano dirette. Non avevano altra meta che
arrivare in fondo al Lungomare e poi tornare indietro - erano appena uscite
di chiesa. Una nuova manifestazione del carattere di Teddy fu di
impossessarsi immediatamente di Charlotte e di lasciare la madre a me.
Tuttavia non mi sentii infelice; la ragazza era davanti a me e potevo parlare
di lei. Prolungammo la passeggiata; la signora Marden non volle
rinunciare alla mia compagnia e a un certo momento disse di sentirsi
stanca e di voler riposare. Trovammo da sederci su una panchina riparata e
ci disponemmo a fare qualche pettegolezzo mentre la gente ci passava
davanti. Già altra volta avevo notato che la rassomiglianza fra madre e
figlia era, nel caso della signora Marden e di Charlotte, più impressionante
del solito, tanto più che risentiva così poco della diversità di carattere. Si
sente spesso dire che le madri in età sono altrettanti moniti - cartelli
indicatori, più o meno scoraggianti, della via che seguiranno le figlie. Ma
non v'era niente di sgradevole nell'idea che, a cinquantacinque anni,
Charlotte sarebbe stata, anche a condizione di apparire altrettanto pallida e
preoccupata, bella come la signora Marden. A ventidue anni aveva la
carnagione bianca e rosata ed era mirabilmente avvenente. La sua testa
aveva la bella forma di quella di sua madre, i suoi lineamenti la stessa
raffinatezza. Poi c'erano gesti e atteggiamenti e toni - momenti nei quali
sarebbe stato difficile dire se si trattasse di movimento o di suono - che
stabilivano, fra l'una e l'altra, rispondenze, evocavano ricordi.
Le due signore avevano una piccola fortuna e, a Brighton, una gaia
casetta piena di ritratti e cimeli e trofei - animali impagliati in cima agli
scaffali e squallidi pesci verniciati sotto vetro - ai quali la signora Marden
si dichiarava attaccata in virtù di ricordi pii. A suo marito, quando s'era
ammalato, avevano prescritto di trascorrere a Brighton gli ultimi anni della
sua vita, e la signora Marden mi aveva già detto che era un luogo nel quale
si sentiva ancora sotto la protezione della sua bontà. Pare che la sua bontà
fosse stata grande, e qualche volta ella sembrava difenderla da vaghe
insinuazioni. Evidentemente un certo senso di protezione, di trovarsi sotto
un influsso invocato e prediletto, le era necessario; aveva un'irrequietezza
oscura, un ansioso bisogno di sentirsi al riparo. Desiderava essere
circondata da amici, e ne aveva molti. Era stata gentile con me fin dal
primo incontro, e non avevo mai sospettato in lei il volgare proposito di
«accalappiarmi» - per quanto quel sospetto sia sconvenientemente
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
frequente in molti giovani vanitosi. Non mi era mai venuto in mente che
pensasse a me per sua figlia, e nemmeno, come tante madri impenitenti,
per sé. Pareva che avessero entrambe un profondo e timido bisogno in
comune e fossero pronte a dire: - Prego, siateci amico e non abbiate
timore! Non vi si domanda di prenderci in moglie. - C'è qualcosa di
speciale nella mamma: è questo che la rende così simpatica! - mi aveva
detto confidenzialmente Charlotte fin dai primi tempi della nostra
conoscenza. Aveva un'adorazione per l'aspetto fisico di sua madre. Era
l'unica cosa di cui fosse vanitosa; accettava le sopracciglia inarcate come
un delizioso ultimo tocco. - Cara!, sembra che aspetti il dottore, - disse
un'altra volta. - Forse il dottore siete voi; che ne dite? - In conclusione
parve che io avessi veramente un certo potere risanatore. Comunque,
quando un giorno la signora Marden si lasciò sfuggire l'osservazione, e
venni a sapere come anche lei trovasse, per parte sua, che in Charlotte c'era
qualcosa di «molto strano», il rapporto tra le due signore mi parve
senz'altro interessante. In fondo, era abbastanza felice: ciascuna delle due
aveva l'altra tanto a cuore.
Il passeggio sul Lungomare continuava, e a un certo momento Charlotte
ci passò davanti con Teddy Bostwick. Sorrise, fece un cenno di testa, e
prosegui; ma, quando tornò indietro, si fermò, e prese a parlare. Il capitano
Bostwick si rifiutava recisamente di rientrare - dichiarava che l'occasione
era troppo bella: non potevano concedersi un altro giro? Sua madre elargì
un «Fa come ti piace», e, sul punto di allontanarsi, la ragazza mi rivolse, di
sopra la spalla, un impertinente sorriso. Teddy mi guardò incastrandosi il
monocolo nell'occhio, ma io non ci feci caso. Mentre, rivolto alla mia
compagna, ridevo, non pensavo che alla signorina Marden: - Sapete che è
un po' civettina?
- Non state a dirlo... non state a dirlo! - mormorò la signora Marden.
- Le migliori ragazze lo sono sempre... per quanto poco, - ebbi la
magnanimità di aggiungere.
- E perché sono sempre punite allora?
L'impeto della domanda mi colpi - le era uscita di bocca vivida come un
baleno. Dovetti quindi riflettere un momento prima di ribattere: - Che ne
sapete voi della loro punizione?
- Forse... sono stata anch'io una ragazza cattiva.
- E foste punita?
- È un peso che mi porto dietro sempre, - disse, guardando altrove. - Ah!
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1970 - Racconti Di Fantasmi
- ansimò improvvisamente, alzandosi in piedi e guardando verso sua figlia
che era ricomparsa col capitano Bostwick. Rimase alcuni secondi in piedi
col viso stranamente alterato, poi ricadde a sedere, e notai che s'era fatta
paonazza. Charlotte, che s'era accorta di tutto, le si avvicinò subito e,
prendendole con pronta tenerezza la mano, si sedette al suo fianco,
dall'altra parte della panchina. La ragazza s'era fatta pallida - guardava sua
madre con occhi fissi e spauriti. La signora Marden, la quale doveva essere
rimasta impressionata da qualche cosa che c'era sfuggita, si riprese; rimase,
cioè, a sedere tranquilla e senza far parola, intenta a guardare la folla
indifferente, l'aria soleggiata, il mare sonnacchioso. Accadde tuttavia che i
miei occhi si posassero sulle mani allacciate delle due signore, e mi avvidi
immediatamente che la stretta della più anziana era violenta. Bostwick
stava davanti a loro, domandando a se stesso che cosa fosse successo, e a
me, attraverso il piccolo disco di vetro, se lo sapessi. Questo, qualche
momento dopo, indusse Charlotte a dirgli con una certa irritazione: - Non
state li a quel modo, capitano Bostwick. Andate via, ve ne prego, andate
via.
A queste parole mi alzai, esprimendo la speranza che la signora Marden
non si sentisse male; ma questa insistette subito perché non le lasciassimo:
rimanessimo assolutamente con loro, anzi; anche a colazione. Mi tirò a
sedere accanto a sé; e, per un momento, sentii la sua mano stringermi il
braccio in un modo che poteva essere un involontario sintomo d'angoscia e
poteva anche essere un aperto segnale. Che cosa volesse mai farmi capire
non potei indovinare: forse aveva visto nella folla qualcuno o qualche cosa
di anormale. Pochi minuti dopo ci spiegò che si sentiva benissimo, soffriva
soltanto di palpitazioni: venivano e passavano via con pari rapidità. Era
tempo di muoversi - riconoscemmo la giustezza dell'osservazione e
agimmo in conseguenza. Avevamo l'impressione che l'incidente fosse
ormai chiuso. Bostwick e io facemmo colazione con le nostre amabili
amiche; e, quando me ne andai con lui, mi dichiarò di non aver mai
incontrato persone più di suo gusto in tutto e per tutto.
La signora Marden ci aveva fatto promettere di ritornare il giorno dopo
per il tè, e ci aveva anzi esortati ad andarle a trovare quanto più spesso
potevamo. Tuttavia, quando, il giorno dopo, alle cinque, picchiai alla porta
della loro bella casa, mi fu detto che le signore erano andate in città.
Avevano lasciato ordine al maggiordomo di comunicarci che avevano
avuto una chiamata improvvisa e che erano molto dispiacenti. Sarebbero
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1970 - Racconti Di Fantasmi
rimaste via qualche giorno. Questo fu tutto quello che mi riuscì di cavare
dalla bocca del riservatissimo domestico. Ritornai tre giorni dopo, ma le
signore erano ancora assenti; soltanto alla fine della settimana ricevetti un
biglietto dalla signora Marden: - Siamo di nuovo qui, - scriveva, - venite e
perdonateci -. Ricordo come fosse in quell'occasione - quando andai
appena ricevuto il biglietto - che la signora Marden mi disse di avere delle
intuizioni molto chiare. Non so quante persone ci fossero in Inghilterra, a
quel tempo, in condizioni analoghe, ma ce n'erano certo pochissime
disposte a farne parola; tanto che trovai la dichiarazione originale,
specialmente in quanto la signora insistette sul punto che alcuni dei suoi
misteriosi presentimenti si riferivano a me. C'erano altre persone presenti le solite vecchiette sfaccendate di Brighton, con gli occhi spauriti e le
interiezioni vuote di senso - e non potei scambiare con Charlotte che
qualche parola; ma il giorno dopo andai a pranzo da loro ed ebbi la
soddisfazione di sedere accanto alla signorina Marden. Ricordo
quell'incontro come l'ora nella quale mi resi pienamente conto che
Charlotte era una bella e generosa creatura. Non avevo intravisto sino a
quel punto che sprazzi della sua personalità, barlumi, come in una canzone
cantata a frammenti, ma ora era lì, spiegata davanti a me in tutto il suo
roseo splendore, come in un pieno orchestrale. Sentivo la melodia intera,
ed era una musica dolce e fresca che dovevo poi spesso canticchiare fra
me.
Dopo il pranzo scambiai qualche parola con la signora Marden; la sera
era ormai avanzata e si stava servendo il tè. Un domestico ci passò davanti
portando un vassoio: le domandai se ne desiderava una tazza e, alla sua
risposta affermativa, ne presi una e gliela porsi. Alzò il braccio per
prenderla, e credetti l'avesse già salda in mano, quando, sul punto in cui le
sue dita stavano per stringersi, ebbe un sussulto e un momento d'arresto:
bastò perché la mia fragile tazza e il bel piattino cadessero sul pavimento
in un rovinio di porcellana, senza che la mia compagna accennasse a fare il
solito gesto della donna che cerca di salvare il vestito. Mi chinai per
raccattare i frammenti, e quando mi rizzai, vidi che la signora Marden
stava guardando verso la parte opposta delle stanza in direzione di sua
figlia, la quale restituì l'occhiata col sorriso sulle labbra ma l'occhio
ansioso. «Mamma cara, che cosa ti succede mai?» la silenziosa domanda
sembrava chiedere. La signora Marden arrossi come aveva fatto dopo il
suo strano gesto sul Lungomare una settimana prima, e fui quindi sorpreso
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
di sentirle dire con la più inaspettata sicurezza di sé: - In verità dovreste
avere la mano più ferma! - Avevo incominciato a balbettare in difesa della
mia mano, quando notai gli occhi di lei fissi su di me con un'espressione
d'intensa preghiera. A tutta prima la cosa mi parve ambigua e non fece che
aumentare la mia confusione; poi, improvvisamente, capii, con altrettanta
chiarezza che se mi avesse bisbigliato: - Date a credere che la colpa è stata
vostra, date a credere che la colpa è stata vostra -. Il domestico ritornò a
prendere i pezzi della tazza e ad asciugare il tè rovesciato; e, mentre io ero
intento a fare la commedia, la signora Marden si sottrasse bruscamente
all'attenzione di sua figlia e alla mia andando in un'altra stanza. Non parve
preoccuparsi minimamente delle condizioni del suo vestito. Quella sera
non vidi più né l'una né l'altra, ma la mattina dopo, in King's Road,
incontrai la più giovane con un rotolo di musica nel manicotto. Mi disse
che aveva fatto una corsa da sola per andare a esercitarsi in alcuni duetti
con un'amica, e le domandai se avrebbe gradito di fare un pezzo di strada
in compagnia. Mi concesse di accompagnarla fino alla sua porta, e quando
fummo lì, le domandai se potevo entrare. - No, non oggi, non è il caso,
-disse con molta franchezza, per quanto non sgarbatamente, e le parole mi
spinsero a gettare uno sguardo curioso e sconcertato verso una finestra
della casa. S'imbattè nel viso pallido della signora Marden, rivolto verso di
noi dal salotto. Rimase li abbastanza a lungo, e potei accertarmi che era
proprio lei, e non l'apparizione per la quale l'avevo quasi presa; ma svanf
prima che sua figlia l'avesse veduta. Durante la nostra passeggiata, la
ragazza non aveva mai parlato di lei. Dal momento che non ero desiderato,
le lasciai qualche tempo in pace; poi circostanze imprevedute ci tennero
discosti anche più a lungo. Infine feci una scappata a Londra, e mentre mi
trovavo lì, ricevetti un caloroso invito ad andare immediatamente a
Tranton, una graziosa tenuta nel Sussex, appartenente a una coppia con la
quale avevo fatto conoscenza da poco. Lasciai la città per Tranton, e,
all'arrivo, trovai nella casa insieme con una dozzina d'altre persone, le
Marden. - Mi perdonate? - disse per prima cosa la signora Marden; e
quando le domandai che cosa le dovessi perdonare: - Di avervi gettato il tè
addosso, - rispose. Le ricordai che in realtà era andato addosso a lei; allora
disse: - Comunque fui molto scortese, ma credo che in futuro capirete, e
mi concederete le attenuanti -. Il primo giorno che mi trovai lì, fece due o
tre di queste allusioni -s'era già lasciata andare a farne delle altre all'iniziazione mistica che m'era riservata; così che incominciai, come si
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1970 - Racconti Di Fantasmi
suol dire, a tormentarla in proposito, a dirle che avrei preferito fosse meno
straordinaria, e farne l'esperienza al più presto. Mi rispose che, quando
fosse venuta, avrei dovuto farne esperienza senz'altro - senza possibilità di
scelta. E che sarebbe venuta era per lei, misteriosamente, cosa certa, ne
aveva un presentimento profondo - non per altro ne aveva parlato. Non
ricordavo, forse, che aveva parlato d'intuizioni? Dal primo momento che
m'aveva visto, era stata sicura che c'erano cose le quali non avrei potuto
evitare di conoscere. Per il momento non c'era da far altro che aspettare e
mantenersi calmi, non precipitare le cose. Desiderava in modo particolare
di non diventare eccessivamente nervosa. E io stesso dovevo soprattutto
non essere nervoso - ci si può abituare a tutto. Risposi che sebbene non mi
riuscisse di capire a che cosa alludesse, ero terribilmente spaventato: la
mancanza di ogni punto di riferimento dava tal gioco alla fantasia!
Esagerai di proposito; perché, se era vero che la signora Marden mi
appariva misteriosa, non posso dire che il suo contegno fosse tale da
impressionare. Non mi riusciva di indovinare che cosa avesse in mente, ma
ero più stupito che spaventato. Avrei potuto dire a me stesso che era un po'
scombinata di cervello, ma non ci pensai nemmeno. Avevo l'impressione
che vedesse irrimediabilmente giusto.
C'erano altre ragazze nella casa, ma che Charlotte fosse la più
affascinante, era un fatto così generalmente riconosciuto che la sua
presenza era quasi d'intralcio alla strage della selvaggina. C'erano due o tre
uomini, e io del numero, che preferivano infatti la sua compagnia a quella
dei battitori. Veniva considerata una forma di sport superiore e squisita.
Era gentile con tutti noi - ci faceva uscir tardi e rientrare di buon'ora. Non
so se civettasse, ma parecchi della brigata si illudevano di essere oggetto
delle sue grazie. Invero, quanto a se stesso, Teddy Bostwick, che ci aveva
raggiunti da Brighton, ne era palesemente certo.
Il terzo di questi giorni era domenica e, per andare in chiesa, si fece una
bella passeggiata attraverso i campi. Era una giornata grigia e senza vento
e la campana della vecchia chiesetta annidata nel fondo della valle suonava
vicina e familiare. Camminavamo, chi avanti chi dietro nell'aria umida e
tranquilla - come sempre, in quella stagione, pareva che gli alberi
divenissero più numerosi col perdere delle fronde, e il cielo più ampio - e
io feci in modo di rimanere parecchio indietro con la signorina Marden.
Ricordo che mentre camminavamo insieme sull'erba, mi venne una forte
tentazione di dire qualcosa di intensamente personale, qualcosa di violento
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1970 - Racconti Di Fantasmi
e di importante, importante per me - come, ad esempio, che non mi era mai
apparsa così bella o che quel momento particolare era il più dolce della
mia vita. Ma, in giovinezza, accade sempre che queste parole salgano alle
labbra più volte prima di venire effettivamente pronunciate; e io avevo
l'impressione non di non conoscerla abbastanza - di questo mi curavo assai
poco - ma che lei non conoscesse sufficientemente me. In chiesa - era un
museo di antiche tombe ed epitaffi dei Tranton - il banco di famiglia era
pieno. Alcuni di noi erano sparsi qua e là, e io trovai un posto per la
signorina Marden, e uno per me accanto a lei, a una certa distanza da sua
madre e dalla maggior parte dei nostri amici. Sulla panca c'erano due o tre
bravi contadini che si strinsero un po' per lasciar sedere anche noi: mi
sedetti per primo, si da lasciar discosta la mia compagna dagli altri. Dopo
che la signorina Marden si fu seduta, restava ancora un posto libero che
rimase vuoto fino a oltre metà della funzione.
Per lo meno soltanto allora mi accorsi che era entrata un'altra persona, la
quale aveva occupato quel posto. Quando mi accorsi del nostro nuovo
vicino - doveva evidentemente esser lì da qualche minuto - si era già
messo a sedere; aveva posato il cappello sulla panca e, con le mani
intrecciate sul pomo del bastone, guardava fisso davanti a sé, verso l'altare:
era un pallido giovane vestito di nero e dall'aria signorile. La sua presenza
mi sorprese un poco, perché la signorina Marden non s'era spostata per
fargli posto e non aveva quindi richiamato la mia attenzione. Qualche
minuto dopo, osservando che il giovane non aveva il libro delle preghiere,
allungai il braccio verso di lui e gli posai davanti il mio: il gesto mirava
anche alla possibilità che, vedendomi privo del mio libro, la signorina
Marden mi invitasse a leggere con lei nel suo volumetto di velluto. La
manovra era tuttavia destinata a fallire perché, nel momento stesso che tesi
il libro, l'intruso - la cui intrusione avevo in quel modo condonata - si alzò
senza ringraziarmi, uscì senza far rumore dalla panca, che non aveva
sbarra, e con tanta discrezione da non essere notato da nessuno, s'allontanò
lungo la navata centrale. Per le sue devozioni gli erano bastati pochi
minuti. Il suo modo di comportarsi era stato sconveniente, quell'andarsene
dopo pochi minuti ancor più dell'essere arrivato in ritardo; ma i suoi
movimenti furono tanto accorti che non ne fummo affatto disturbati e,
voltandomi per seguirlo con gli occhi, notai che nessuno si mostrava
sorpreso del suo contegno. Osservai soltanto che la signora Marden ne era
stata tanto impressionata da alzarsi, del tutto involontariamente, da sedere.
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1970 - Racconti Di Fantasmi
Lo guardò, mentre passava, fissamente, ma egli passò rapido, ed ella
altrettanto rapidamente si risedette; non tanto rapidamente, tuttavia, da non
incontrare i miei occhi attraverso la chiesa. Cinque minuti dopo domandai
sottovoce il mio libro - avevo aspettato per vedere se facesse il gesto
spontaneamente. La ragazza mi restituì il volume devoto, ma era stata
tanto lontana dal preoccuparsene che, nel farlo, mi disse: - Vorrei sapere
perché lo avete messo lì -, Stavo per risponderle quando lei si inginocchiò
e dovetti tacere. La mia intenzione era stata semplicemente di dire: - Non
altro che per cortesia.
Dopo la benedizione, mentre stavamo per lasciare il nostro posto, fui
nuovamente alquanto sorpreso nel vedere che la signora Marden, invece di
uscire con i suoi compagni, aveva risalito la navata per unirsi a noi: aveva
qualcosa da dire a sua figlia. Lo fece, ma capii subito che era stato un
pretesto - la persona che le interessava ero io. Mandò Charlotte avanti e
improvvisamente mi bisbigliò:
- Lo avete visto?
- Il signore che s'è seduto qui? E come avrei potuto non vederlo?
- Zitto! - disse la signora Marden al colmo dell'agitazione, -non
parlategliene, non ditele niente!
M'infilò una mano sotto il braccio per trattenermi vicino a sé -per
tenermi, si sarebbe detto, lontano da sua figlia. Precauzione inutile, perché
Teddy Bostwick s'era già impossessato della signorina Marden, e mentre i
due uscivano di chiesa davanti a me, vidi un altro mettersi a fianco della
giovane, dall'altra parte. Sembravano pensare che io avevo avuto il mio
turno. La signora Marden mi si staccò dal braccio appena fummo fuori, ma
ebbi tempo d'accorgermi che il mio sostegno le era stato necessario. - Non
parlatene a nessuno... non dite niente a nessuno! - continuò.
- Non capisco. Dire a nessuno che cosa?
- Che lo avete visto.
- Lo hanno certamente visto anche loro.
- Nessun altro lo ha visto, nessun altro -. Disse le parole con una
sicurezza così appassionata che la guardai: teneva gli occhi fissi davanti a
sé. Ma senti il mio sguardo che la fissava e si fermò sui due piedi, sotto il
portale di legno scuro della chiesa, mentre gli altri erano ormai parecchio
lontani. Lì, guardandomi in faccia, ora, e in un modo veramente
straordinario: - Voi siete la sola persona, - disse, - la sola persona al
mondo.
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1970 - Racconti Di Fantasmi
- Ma voi, signora?
- Oh, io... naturalmente. E la mia condanna! - E con queste parole
s'allontanò in fretta per unirsi al resto della compagnia. Io continuai a
camminare verso casa discosto dagli altri... Avevo tante cose a cui pensare.
Chi avevo visto, e perché l'apparizione - mi sorse nuovamente
limpidissima davanti agli occhi della mente - era invisibile agli altri? Se la
signora Marden rappresentava un'eccezione, perché costituiva
quell'eccezione una condanna, e perché dovevo io condividere un dono
così discutibile? Questo interrogativo, che io tenni ben custodito dentro di
me, mi fece indubbiamente rimanere molto silenzioso durante la colazione.
Dopo la quale uscii sulla vecchia terrazza per fumare una sigaretta; ma
avevo fatto appena un giro o due quando intravvidi il viso solcato della
signora Marden alla finestra di una delle stanze che davano sulle pietre
sconnesse della terrazza. La cosa mi ricordò la medesima presenza fugace
dietro la finestra a Brighton il giorno che avevo incontrato Charlotte e
l'avevo accompagnata a casa. Ma questa volta la mia ambigua amica non
scomparve: batté il vetro con un dito e mi fece cenno di entrare. Si trovava
in una strana stanzetta, uno dei molti salotti di cui era composto il
pianterreno della casa; era nota sotto il nome di stanza indiana ed era
arredata in uno stile definito orientale - sedie a sdraio di bambù, paraventi
laccati, lanterne dai lunghi paralumi a frange, nicchie con strani idoli, tutti
oggetti non propriamente adatti a creare un'atmosfera di socievolezza. Il
luogo era poco frequentato, e quando vi entrai per raggiungere la signora
Marden non c'eravamo che noi. Non appena comparvi: - Ditemi, vi prego...
siete innamorato di mia figlia? - mi domandò.
Dovetti in realtà indugiare un momento prima di rispondere. - Prima che
io risponda alla vostra domanda, volete essere tanto cortese da dirmi che
cosa vi ha suggerito questa idea? Non mi sembra di essere stato molto
indiscreto.
La signora Marden, contraddicendomi con i suoi begli occhi ansiosi, non
mi dette soddisfazione in proposito; continuò invece ostinatamente: - Le
avete detto niente andando in chiesa?
- Che cosa vi fa pensare che io abbia detto qualche cosa?
- Il fatto che lo avete veduto.
- Veduto chi, signora Marden?
- Oh, lo sapete bene, - rispose gravemente; un po' in tono di rimprovero,
anzi, come cercassi di umiliarla costringendola a nominare l'innominabile.
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
- Intendete dire il signore che fu argomento della vostra strana
affermazione in chiesa... quello che entrò nella nostra panca?
- Lo avete visto, dunque, lo avete visto! - ansimò con una strana aria tra
lo sgomento e il sollievo.
- Naturalmente, e anche voi.
- E diverso. Avete avuto l'impressione che la cosa fosse inevitabile?
Mi trovai di nuovo imbarazzato. - Inevitabile?
- Che voi lo vedeste?
- Certo, dal momento che non sono cieco.
- Avreste potuto esserlo. Tutti gli altri lo sono -. Io ero totalmente in alto
mare e lo confessai con tutta franchezza alla mia interlocutrice, ma non ci
vidi per nulla più chiaro quando, un momento dopo, esclamò: - Sapevo che
lo avreste visto nel momento in cui foste stato veramente innamorato di
lei! Sapevo che sarebbe stato il segno, come dire? la prova.
- Quella condizione di privilegio comporta allucinazioni così strane? domandai sorridendo.
- Potete giudicare voi stesso. Voi lo vedete, lo vedete! - la cosa la faceva
addirittura esultare. - Lo rivedrete.
- Non ho nulla in contrario, ma m'interesserò di più a lui se mi farete la
cortesia di dirmi chi è.
La signora Marden evitò i miei occhi... poi, volontariamente, li affrontò.
- Ve lo dirò se prima mi riferirete che cosa avete detto a mia figlia mentre
andavamo in chiesa.
- Vi ha detto qualche cosa?
- Vi pare che ne abbia bisogno? - domandò con voce molto espressiva.
- Già, ricordo... le vostre intuizioni! Ma sono dolente di constatare che
questa volta vi hanno tratta in inganno: perché in verità non ho detto a
vostra figlia niente di diverso dal solito.
- Ne siete proprio certo?
- Sul mio onore, signora Marden.
- Dunque giudicate di non essere innamorato di lei.
- Questa è tutt'altra cosa! - risi.
- Dunque lo siete... lo siete! Se non lo foste, non lo avreste visto.
- Ma chi diavolo è dunque, signora? - insistetti con una certa irritazione.
Si ostinò tuttavia ancora a rispondere con una domanda: - Non avete per
lo meno avuto desiderio di dirle qualcosa... non siete stato sul punto di
farlo?
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1970 - Racconti Di Fantasmi
Sì, qui eravamo più vicini alla verità: la domanda confermava le famose
intuizioni. - Beh, «sul punto», sì, fin che volete... c'è mancato un capello.
Non so davvero come mi sia trattenuto dal parlare.
- Ce n'era abbastanza, - disse la signora Marden. - Quello che si dice non
ha importanza; conta quello che si sente. Non bada ad altro, lui!
Ero irritato, alla fine, dai suoi continui riferimenti a una identità non
ancora stabilita, e giunsi le mani in un atteggiamento di preghiera che
nascondeva molta impazienza, una più forte curiosità, e anche i primi brevi
sussulti d'un certo sacro terrore. - Vi supplico di dirmi di chi parlate.
La donna alzò le braccia, distogliendo gli occhi dai miei, come per
scuotersi di dosso ogni riserbo e ogni responsabilità. - Sir Edmund Orme.
- E chi è mai Sir Edmund Orme?
In quello stesso momento la signora Marden trasalì.
- Silenzio... sono qui -. Poi, come seguendo la direzione dei suoi occhi,
vidi Charlotte fuori in terrazza, a due passi dalla nostra finestra. La madre
aggiunse con un tono intensamente ammonitore: - Non accennate a lui...
mai!
La signorina Marden, che si stava facendo schermo delle mani agli occhi
per guardare dentro la stanza sorridendo, ci fece cenno attraverso il vetro
di farla entrare; andai ad aprirle la porta-finestra. Sua madre volse gli occhi
altrove, e la ragazza entrò apostrofandoci allegramente: - Che cosa state
mai complottando voi due qui? -C'era un programma - non ricordo quale in vista per il pomeriggio, e si sollecitava la partecipazione o il consenso
della signora Marden; la mia adesione era data per certa; e Charlotte era
stata in cerca di sua madre per tutta la casa. Vedendo la signora Marden
agitata - quando si voltò verso sua figlia dissimulò la cosa fino
all'esagerazione, gettandole le braccia al collo e abbracciandola - ero
agitato anch'io, e, per non dare nell'occhio spinsi la mia galanteria
all'eccesso.
- Ho domandato la vostra mano.
- Davvero? E vi è stata concessa? - rispose la signorina Marden con
vivacità.
- Vostra madre stava per farlo quando siete comparsa.
- Beh... se si tratta solo d'un momento... vi lascio liberi.
- Ti è simpatico, Charlotte? - domandò la signora Marden con un
candore che non mi sarei aspettato.
- E difficile rispondere in presenza sua, non ti pare? - continuò
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l'incantevole creatura, entrando con buona grazia nello spirito della cosa,
ma guardandomi come se la sua simpatia per me fosse in verità assai poca.
Avrebbe dovuto rispondere anche davanti a un'altra persona, perché in
quel momento entrò nella stanza dalla terrazza - la porta-finestra era
rimasta aperta - un signore che era apparso, almeno ai miei occhi, soltanto
in quel momento. La signora Marden aveva detto «sono qui», ma era
chiaro che egli aveva seguito la figlia a una certa distanza. Lo riconobbi
subito per lo stesso personaggio che s'era seduto accanto a noi in chiesa.
Questa volta lo vidi meglio, e vidi che il suo viso e il portamento erano
strani. Lo chiamo personaggio perché si aveva l'impressione,
indescrivibile, che un principe del sangue fosse entrato nella stanza. Si
comportava con una sorta d'imponenza, come fosse d'una razza diversa da
noi. Mi guardava tuttavia fisso e grave, tanto che finii per domandarmi che
cosa si aspettasse da me. Aveva forse in mente che io dovessi posare un
ginocchio in terra o baciargli la mano? Volse gli occhi allo stesso modo
verso la signora Marden, ma lei sapeva che cosa doveva fare. Dopo la
prima agitazione causata dalla sua comparsa, non gli rivolse più
un'occhiata; la cosa mi fece tornare con la mente all'appassionata preghiera
che mi aveva rivolta. Sarebbe stato un grande sforzo per me imitarla;
perché, sebbene sapessi di lui soltanto che era Sir Edmund Orme, la sua
presenza agiva su di me come un richiamo irresistibile, quasi come
un'oppressione. Stava lì senza parlare - giovane, pallido, bello, ben raso,
dignitoso, con straordinari occhi azzurri e qualcosa dei tempi andati, come
in un ritratto di anni addietro, nella testa e nel modo di portare i capelli.
Era vestito completamente a lutto - si vedeva subito che era molto elegante
- e portava il cappello in mano. Mi guardò ancora con strana fissità, come
nessuno al mondo m'aveva mai guardato prima d'allora, e ricordo d'aver
avuto un senso di freddo, desiderato di sentirgli dire qualche cosa. Nessun
silenzio m'era mai sembrato così privo di suono. Tutto questo si risolse
naturalmente in un'impressione rapidissima; ma che qualche istante ne
fosse assorbito m'apparve improvvisamente chiaro dall'espressione del
viso di Charlotte Marden, che guardò dall'uno all'altro di noi - egli non
volgeva mai gli occhi verso di lei, e lei non dava alcun segno di vederlo - e
infine proruppe: - Si può sapere che cosa avete? Fate delle facce così
strane! - Sentii il sangue ritornare alla mia, e quando Charlotte continuò
con lo stesso tono: - Si direbbe che abbiate visto uno spettro! - ebbi
coscienza di essere diventato di brage. Sir Edmund Orme non arrossi
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affatto e vidi chiaramente che non era per nulla imbarazzato. Gente di
quella specie ne avevo pur incontrata, ma nessuno la cui impassibilità
giungesse a quel punto.
- Non essere impertinente, e va' a dire agli altri che verrò anch'io, - disse
la signora Marden con molta dignità, ma con un tremito nella voce che non
mi sfuggi.
- E voi verrete... voi? - domandò la ragazza sul punto di allontanarsi.
Non risposi, supponendo per una ragione o per l'altra, che la domanda
fosse rivolta al suo compagno. Ma egli era più silenzioso di me, e quando
la ragazza fu davanti alla porta - usciva da quella parte - si fermò con la
mano sulla maniglia, e mi guardò, ripetendola. Io assentii, precipitandomi
ad aprirle, e mentre stava per uscire, esclamò, con l'aria di burlarsi di me: Non avete il cervello a posto... non avrete la mia mano!
Chiusi la porta e, voltandomi, constatai che, nel frattempo, un attimo
appena, Sir Edmund Orme era uscito per la porta-finestra. La signora
Marden era in piedi in mezzo alla stanza e ci guardammo a lungo. Solo in
quel punto - mentre la ragazza s'allontanava -m'ero reso conto che la figlia
era inconsapevole di quello che era accaduto. Abbastanza stranamente, fu
questo - non la vista del nostro visitatore, che mi era apparsa naturalissima
- a darmi un brivido improvviso. Capii chiaramente che la ragazza non
s'era accorta di lui nemmeno in chiesa, e i due fatti uniti insieme - ora che
appartenevano al passato - mi fecero battere il cuore con più forza. Mi
passai una mano sulla fronte, e la signora Marden proruppe in un gemito
basso e disperato: - Ora sapete... sapete che cos'è la mia vita!
- In nome di Dio, chi è... che cosa è?
- È l'uomo al quale ho fatto del male.
- Come gli avete fatto del male?
- Oh, orribilmente... anni fa.
- Anni fa? Ma è molto giovane.
- Giovane... giovane? - esclamò la signora Marden. - È nato prima di
me!
- Come mai ha quell'aspetto allora?
La donna mi s'avvicinò, mi posò una mano sul braccio; c'era qualcosa
nella sua faccia che mi fece ritrarre un poco. - Non capite... non sentite? mi domandò, con veemenza.
- Non capisco in che mondo mi trovi! - risi; e mi accorsi che la nota del
mio riso confermava la verità delle mie parole.
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- È morto! - disse la signora Marden, più pallida che mai.
- Morto? - ansimai. - Allora quel signore era...? - Non mi riusciva
nemmeno di trovare la parola.
- Chiamatelo come volete... ci sono venti parole una più volgare
dell'altra. Egli è una presenza perfetta.
- È una presenza stupenda! - esclamai. - La casa è infestata, infestata! Dissi la parola con esultanza, quasi stesse a significare quanto avevo
sognato.
- La casa non c'entra, purtroppo! - ribatté subito. - La casa non ci ha
niente a che vedere!
- Allora si tratta di voi, signora? - feci la domanda come se così fosse
ancor meglio.
- No, neanche di me... magari!
- Forse di me, - suggerii con un pallido sorriso.
- Non si tratta d'altri che di mia figlia, della mia figliuola innocente,
innocente! - Dette queste parole la signora Marden si accasciò del tutto, si
lasciò cadere su una sedia e scoppiò in lacrime. Balbettai qualche
domanda... le offrii sgomento i miei uffici, ma non fece che respingermi,
inaspettatamente, quasi con impeto. Insistetti. .. potevo aiutarla? potevo
intervenire? - Siete già intervenuto, -singhiozzò, - ci siete dentro anche voi,
anche voi.
- Sono contento di trovarmi dentro una cosa così straordinaria, dichiarai con spavalderia.
- Contento o no, non potete uscirne.
- Non ne ho nessuna voglia... la cosa è troppo interessante.
- Sono contenta che vi piaccia! - s'era voltata un momento dall'altra
parte, affrettandosi ad asciugarsi gli occhi. - E ora andatevene.
- Ma voglio sapere altre cose in proposito.
- Vedrete tutto quello che vorrete. Andate via!
- Ma voglio capire quello che vedo.
- Come potete... quando non capisco io stessa? - esclamò la j donna
sconsolatamente.
- Insieme ci riusciremo... scopriremo di che cosa si tratta.
A queste mie parole la donna si alzò, fece ancora quanto potè per
cancellare le lacrime. - Sì, in due sarà meglio... per questo mi siete
piaciuto.
- Oh, ne verremo a capo! - risposi.
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- Ma dovete dominarvi di più.
- Certo, certo... con l'esperienza.
- Vi ci abituerete, - disse la mia amica con voce che non ho più
dimenticata. - Ma andate a raggiungere gli altri, ora... Verrò subito anch'io.
Uscii sulla terrazza persuaso di aver la mia parte da recitare. Ben lontano
dal temere un altro incontro con «la perfetta presenza», come la signora
Marden l'aveva chiamata, mi sentivo preso addirittura da un senso di
piacere. Desideravo una nuova conferma del mio privilegio; ero tutto
proteso verso quella sensazione; girai intorno alla casa rapidissimamente,
quasi avessi la speranza di raggiungere Sir Edmund Orme. Per quella volta
non lo raggiunsi, ma prima che la giornata volgesse alla fine, mi persuasi
che, come aveva detto la signora Marden, le occasioni di vederlo non mi
sarebbero mancate.
Noi tutti, o quasi, andammo a fare la cordiale passeggiata collettiva che,
nella casa di campagna inglese, è - o era a quell'epoca - il passatempo di
prammatica dei pomeriggi domenicali. Dovemmo limitarci al modesto
giretto consentito alle forze delle signore - i pomeriggi, per di più, erano
brevi - e alle cinque ci ritrovammo davanti al focolare con l'impressione,
almeno da parte mia, che avremmo potuto fare qualcosa di più per
guadagnarci il tè. La signora Marden aveva detto che sarebbe uscita con
noi, ma non la si era veduta; sua figlia che l'aveva rivista prima di uscire,
la scusò alludendo soltanto a un po' di stanchezza. Rimase invisibile tutto
il pomeriggio, ma non detti a questo particolare maggiore importanza di
quanta ne avessi data al fatto che Charlotte non era stata con me nemmeno
cinque minuti per tutta la passeggiata. Ero troppo preso da altri interessi
per farci caso; sentivo sotto i piedi la soglia della strana porta che s'era
improvvisamente aperta nella mia vita e della quale usciva l'aria più
eccitante che avessi mai respirata, d'un sentore più forte del vino. Avevo
sentito parlare di apparizioni fin da ragazzo, ma tutt'altra cosa era averne
vista una, e sapere che, con tutta probabilità, l'avrei rivista, posso ben dire,
familiarmente. Stavo all'erta, come il pilota il quale cerchi con gli occhi il
guizzo del faro che s'accende e si spegne. Ero pronto a discutere intorno al
sinistro argomento, a sostenere con chiunque che gli spettri erano molto
meno paurosi e molto più divertenti di quanto comunemente si
supponesse. Senza dubbio ero molto eccitato. Non riuscivo a persuadermi
della distinzione cui ero fatto segno, dell'eccezione - nel senso di un
mistico ampliarsi del mio raggio visuale - fatta a mio favore. Credo, al
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tempo stesso, che io giustificassi l'assenza della signora Marden - quasi un
commento, a pensarci, delle parole che mi aveva dette: - Ora sapete che
cos'è la mia vita -. Da anni, probabilmente, era presa di mira dal nostro
spirito errante, e non avendo la mia forza di resistenza, aveva ceduto alla
tensione. I nervi, per quanto avesse potuto dire che, in un certo senso, ci si
abituava, l'avevano tradita. Si era abituata a darsi per vinta.
Il tè pomeridiano, quando imbruniva presto, era un'ora gradevole a
Tranton; il bagliore del focolare illuminava qua e là l'ampia sala bianca del
secolo scorso; le reciproche simpatie sembravano confessarsi, si indugiava
insieme, prima di andarsi a vestire per il pranzo, sui molli divani, con gli
stivali infangati, per scambiare le ultime parole dei discorsi incominciati
durante la passeggiata; perfino l’attenzione solitaria dedicata al terzo
volume d'un romanzo desiderato da un altro ospite sembrava una forma di
cordialità. Quando vidi che Charlotte stava per ritirarsi, colsi il momento e
mi avvicinai a lei. Le signore s'erano allontanate a una a una, e quando
mostrai di rivolgermi particolarmente a Charlotte i tre uomini che ancora
gi-ronzavano per la sala scomparvero. Scambiammo qualche parola vaga può darsi che fosse un po' preoccupata, e sa il cielo se io non lo fossi - poi
disse che doveva andare: altrimenti avrebbe fatto tardi per il pranzo. Le
dimostrai a suon di cifre che aveva tempo quanto ne voleva, ma mi obiettò
che doveva comunque salire da sua madre; temeva che fosse indisposta.
- Al contrario, sta meglio di quanto non stesse da tempo... ve lo
garantisco, - dissi. - Ha scoperto che può fidarsi di me e questo le ha fatto
bene -. La signorina Marden s'era rimessa a sedere - io stavo in piedi
davanti a lei - e mi guardava senza sorriso, con una vaga angoscia negli
occhi, nei suoi begli occhi, non proprio come se la mia presenza le fosse
sgradevole, ma come non fosse più disposta a vedere in luce di scherzo
quanto era accaduto - di qualunque cosa si trattasse, non c'era comunque
ragione di toccare i vertici della solennità - fra sua madre e me. Ma mi
sentivo di rispondere al suo appello con tutta prontezza e candore, perché
ero veramente persuaso che la buona signora, avendo ceduto a me parte
del suo fardello, se ne sentiva più alleggerita e rasserenata. - Sono certa
che ha dormito tutto il pomeriggio come non faceva da anni, - continuai. Non avete che da domandarle.
Charlotte si alzò di nuovo. - Vi state dimostrando molto utile.
- Avete un buon quarto d'ora, - dissi. - Non ho il diritto di parlarvi un po'
cosf, da solo a sola, dal momento che vostra madre mi ha concesso la
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vostra mano?
- E vostra madre ha concesso la vostra a me? Le sono molto obbligata,
ma non la voglio. Credo che le nostre mani non appartengano alle nostre
madri... si dà il caso che appartengano a noi! -rise.
- Sedetevi, sedetevi e lasciate che vi parli! - supplicai.
Rimasi lì, davanti alla sedia, ansioso di vedere se mi avrebbe
accontentato. La ragazza parve esitare, guardando vagamente qua e là,
come sottoposta a un'imposizione un po' dolorosa. La sala vuota era
immersa nel silenzio - sentivamo soltanto il vigoroso ticchettio del grosso
orologio. Allora la signorina Marden ricadde lentamente a sedere, e io
presi una sedia per sedermi vicino a lei. Il movimento mi fece voltare
nuovamente verso il fuoco, e rimasi sconcertato di vedere che non
eravamo soli. Un momento dopo, in modo inspiegabilmente strano, il mio
disappunto, invece di accrescersi, cessò del tutto: la persona davanti al
caminetto era Sir Edmund Orme. Stava lì come lo avevo visto nel salotto
indiano, e mi guardava con la vacua attenzione che derivava tanta gravità
dalla sua cupa raffinatezza. La sapevo così lunga sul suo conto, ora, che
dovetti frenare un cenno di saluto, un gesto che desse a intendere come io
mi fossi accorto di lui. Una volta che ne fui consapevole e lo vidi rimanere,
il senso che Charlotte e io non eravamo soli mi abbandonò: ebbi anzi
l'impressione che fossimo anche più intimamente insieme. Nessun segno
della presenza del nostro compagno le era palese, e io feci uno sforzo
terribile, e quasi coronato da successo, per non farle capire che la mia
propria sensibilità era tutt'altra, e che i miei nervi erano tesi come corde
d'arpa. Ho detto «quasi» coronato da successo, perché - mentre tacevo - la
ragazza mi guardò un momento in un modo che mi fece temere stesse per
dire, come aveva già detto nel salotto indiano: - Che cosa avete?
Glielo dissi subito, che cosa avevo, perché, alla vista commovente della
sua inconsapevolezza, la piena coscienza di quello che stava accadendo mi
sopraffece. In presenza di quello straordinario prodigio Charlotte
diventava veramente commovente. Qualunque cosa esso annunciasse,
pericolo o dolore, felicità o sventura, era una cosa di secondaria
importanza; mentre mi sedeva lì davanti, innocente e incantevole, pensavo
soltanto che si trovava vicina a un orrore - che tale avrebbe potuto
giudicarlo - che per avventura le era nascosto, ma che poteva rivelarsi a lei
da un momento all'altro. Io non ci facevo caso, ora, come avevo avuto
modo di constatare - potevo, se non altro, sopportare la cosa benissimo; ma
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era quanto mai probabile che lei non ne avrebbe avuto la forza, e, se non la
si trovava strana e interessante, la situazione poteva facilmente assumere
un aspetto pauroso. Poi mi resi conto che, se non mi preoccupavo tanto per
me stesso, ciò era dovuto in gran parte alla circostanza che ero tutto preso
dall'idea di proteggere lei. A questo pensiero il mio cuore si mise d'un
subito a battere furiosamente: mi ripromisi di fare tutto quello che potevo
per mantenere i suoi sensi suggellati. Ma mi sarei probabilmente trovato a
brancolare invano in cerca della via da seguire, se, col passare dei minuti,
non mi fossi andato persuadendo, sopra ogni altra cosa, che le volevo
bene. La via della salvezza era di amarla, e la via da seguire per amarla era
di confessarle, lì e subito, il mio amore. La presenza di Sir Edmund Orme
non era di ostacolo, tanto più che un momento dopo ci voltò le spalle, e
rimase lì in piedi, a guardare discretamente il fuoco. In capo a un altro
momento appoggiò la testa sul braccio, contro il caminetto, con un'aria di
progressivo abbattimento, come uno spirito anche più stanco che discreto.
Alle mie parole Charlotte Marden si alzò di scatto... saltò in piedi come per
sottrarvisi; ma non si dimostrò offesa; il sentimento che io avevo espresso
era troppo sincero. Si limitava a muoversi qua e là per la stanza,
mormorando fra sé in tono di disapprovazione, e io ero così teso a cogliere
il menomo appiglio che mi si potesse offrire, da non accorgermi del modo
nel quale Sir Edmund Orme era scomparso. So solo che, ad un tratto,
trovai il posto, precedentemente occupato da lui, vuoto. La situazione non
ne subiva nessun mutamento... aveva dato così poco fastidio. Ricordo
soltanto che rimasi improvvisamente colpito da qualcosa di inesorabile nel
modo dolce e sconsolato col quale Charlotte scosse la testa verso di me.
- Non chiedo una risposta ora, - dissi, - voglio soltanto che non abbiate
dubbi... che sappiate quanto la cosa mi stia a cuore.
- Non ho intenzione di rispondervi né ora né mai! - rispose. -Vi prego, è
un argomento che detesto... perché non si deve essere lasciati in pace?
Poi, sul punto di lasciare la stanza, come timorosa che io avessi potuto
trovare qualcosa di aspro in quel grido sincero e irrefrenabile della bellezza
stretta d'assedio, aggiunse subito, con un'aria ad un tempo vaga e benevola:
- Grazie, grazie... molte grazie!
A pranzo, fui tanto generoso da essere contento per lei che, trovandosi
dalla mia stessa parte della tavola, non mi avesse continuamente sotto gli
occhi. Sua madre mi era quasi di fronte, e appena ci fummo seduti mi
lanciò un'occhiata lunga e profonda che confermava, e al massimo grado,
Henry James
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il nostro inaudito rapporto. Il suo sguardo voleva naturalmente dire: - Mia
figlia m'ha detto, - ma voleva dire anche altre cose. Comunque, so che cosa
significasse la mia muta risposta: - L'ho rivisto... l'ho rivisto! - Questo non
impedì alla signora Marden di trattare i suoi ospiti con la consueta
scrupolosa cortesia. Dopo il pranzo, quando gli uomini raggiunsero le
signore in salotto e io mi avvicinai immediatamente per dirle che
desideravo scambiare qualche parola con lei in privato, disse subito, a
bassa voce, abbassando gli occhi verso il ventaglio mentre lo apriva e lo
chiudeva: - È qui... è qui.
- Qui? - girai gli occhi per la stanza, ma rimasi deluso.
- Guardate dove è lei, - disse la signora Marden con una voce nella quale
era una lieve traccia di asprezza. Charlotte non era infatti nel salotto
principale, ma in uno più piccolo, attiguo, noto sotto il nome di stanza del
mattino. Feci qualche passo e la vidi, attraverso la porta, in piedi nel
mezzo della stanza: parlava con tre signori che mi voltavano praticamente
la schiena. Per un momento la mia ricerca parve vana; poi mi resi conto
che uno degli interlocutori - quello al centro - non poteva essere che Sir
Edmund Orme. Questa volta era sorprendente che gli altri non lo
vedessero. Sembrava pro-rio che Charlotte tenesse gli occhi su di lui e
parlasse a lui direttamente. Dopo un istante mi vide e guardò
immediatamente altrove. Ritornai da sua madre, preso dal vivo timore che
la ragazza potesse credersi sorvegliata da me, la qual cosa sarebbe stata
ingiusta. La signora Marden aveva trovato un piccolo divano - un po'
discosto - e io mi sedetti accanto a lei. C'erano alcuni punti che desideravo
intensamente discutere, e avrei voluto trovarmi ancora con lei nel salotto
indiano. In breve, tuttavia, mi persuasi che eravamo sufficientemente
appartati. Comunicavamo così intimamente e completamente, ora, e con
cosf silenziosa reciprocità, che la posizione del divano era in ogni caso
adeguata.
- Oh, sì, - dissi, - è lì; e alle sette e un quarto circa era in sala.
- Ne ero certa... e così contenta! - rispose subito.
- Contenta?
- Che questa volta fosse affar vostro e non mio. Per me è un riposo.
- Avete dormito tutto il pomeriggio? - domandai poi.
- Come non facevo da mesi. Ma come lo sapete?
- Come voi sapevate, immagino, che Sir Edmund era in sala. E evidente
che d'ora in poi ciascuno di noi saprà questa o quella cosa... sempre che
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riguardi l'altro.
- Sempre che riguardi lui, - corresse la signora Marden. - E un dono del
cielo che voi prendiate le cose come fate, - aggiunse con un sospiro dolce e
prolungato.
- Le prendo, - risposi subito, - da uomo che è innamorato di vostra figlia.
- Si capisce... si capisce -. Per quanto intensamente sentissi ora di
desiderare la ragazza, non potei fare a meno di ridere un po' del tono di
quelle parole; e la mia compagna ne fu indotta ad aggiungere
immediatamente: - Altrimenti non lo avreste veduto.
Bene, apprezzai il privilegio, ma trovai subito una obiezione: - Forse che
tutti quelli che la amano lo vedono? Se fosse così, ce ne sarebbero a
dozzine.
- Non sono innamorati di lei come voi.
Pesai le parole e non potei far altro che accettarle. - Naturalmente io non
posso parlare che per me... - e un momento prima di pranzo trovai modo di
farlo.
- Me lo ha detto appena m'ha visto, - rispose la signora Marden.
- E posso avere qualche speranza... qualche chance?
- Che possiate averla è quello che io desidero ardentemente, quello per
cui prego.
La dolorosa sincerità di quelle parole mi commosse. - Come potrò mai
ringraziarvi abbastanza? - mormorai.
- Credo che tutto finirebbe... se soltanto vi amasse, - continuò la povera
donna.
- Finirebbe tutto? - Non capivo bene.
- Voglio dire che allora ci libereremmo di lui... non lo rivedremmo più.
- Se soltanto mi amasse, non m'importerebbe di vederlo anche tutti i
giorni! - risposi senza esitare.
- Ah, voi prendete la cosa come io non potrei mai prenderla, -disse la
mia compagna. - Voi avete la fortuna di non sapere... di non capire.
- No davvero. Che cosa vuole costui?
- Vuol farmi soffrire -. Nel dire queste parole voltò verso di me il viso
pallidissimo, e vidi ora per la prima volta, e vidi bene, con quanta
efficacia, se quello era stato il suo disegno, il nostro visitatore avesse
compiuto l'opera sua. - Per quello che gli ho fatto, -spiegò.
- E che cosa gli avete fatto?
Mi lanciò un'occhiata indimenticabile. - L'ho ucciso -. Considerato che
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lo avevo visto a poche decine di metri di distanza non più di cinque minuti
prima, le parole mi fecero sussultare. - Sì, vi faccio fremere; badate che
non vi vedano. È ancora lì, ma s'è ucciso. Gli spezzai il cuore... ebbe
ragione di credermi molto molto crudele. Dovevamo sposarci, ma io
mandai tutto a monte... proprio all'ultimo momento. Avevo incontrato
qualcuno che mi piaceva di più; non ebbi altro motivo che quello. Non fu
per interesse o per il danaro o per la posizione o per qualche bassezza del
genere. Aveva tutte le buone qualità. Ma io m'innamorai del maggiore
Marden, semplicemente. Quando lo conobbi sentii che non potevo sposare
nessun altro. Non ero innamorata di Edmund Orme; la cosa era stata
combinata da mia madre e dalla mia sorella maggiore, già sposata. Ma lui
s'era innamorato di me e io sapevo, cioè sapevo quasi, quanto! Ma gli dissi
che non avevo amore per lui... che non potevo averne, che non ne avrei
mai avuto. Ruppi ogni rapporto, e lui prese qualche cosa, una qualche
abominevole droga o pozione, che si dimostro fatale. Una cosa spaventosa,
orribile; lo trovarono in quelle condizioni... morì disperato. Io sposai il
maggiore Marden, ma soltanto cinque anni dopo. Fui felice...
immensamente felice... il tempo cancella tutto. Ma quando mio marito
morì cominciai a vederlo.
Avevo ascoltato con attenzione, pieno di stupita curiosità. - A vedere
vostro marito?
- No, no... non a quel modo, grazie a Dio! A vedere lui... e con
Charlotte, sempre con Charlotte. La prima volta per poco non morii dallo
spavento... circa sette anni or sono, quando Charlotte fece il suo ingresso
in società. Mai quando sono sola... soltanto con lei. Ci sono qualche volta
intervalli di mesi, poi, per una settimana di seguito, tutti i giorni. Non so
che cosa non abbia tentato per rompere l'incanto... medici, diete, stazioni di
cura; ho pregato Iddio in ginocchio. Quel giorno a Brighton, sul
Lungomare con voi, quando credeste che mi sentissi male, fu la prima
volta dopo moltissimo tempo. E poi la sera, quando vi rovesciai il tè
addosso, e il giorno che eravate davanti alla porta con lei e vi vidi dalla
finestra. Tutte le volte Edmund Orme era presente.
- Capisco, capisco -. Ero più eccitato di quanto non possa descrivere. - È
un'apparizione come un'altra.
- Come un'altra? Ne avete visto un'altra? - esclamò.
-No. Voglio dire del genere di quelle di cui si è tanto sentito parlare. È
molto interessante imbattersi in un caso.
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- Mi definite un «caso»? - esclamò la mia amica con intenso
risentimento.
- Pensavo a me stesso.
- Oh, voi siete l'uomo adatto! - continuò. - Ho avuto ragione di fidarmi
di voi.
- Vi sono profondamente grato di averlo fatto; ma che cosa vi ci ha
indotto? - domandai.
- Non c'era lato della questione che non avessi esaminato. Ne avevo
avuto di tempo, negli anni terribili, durante i quali egli mi puniva in mia
figlia!
- Non proprio, - obiettai, - se la signorina Marden non ne ha mai saputo
niente.
- Quello è il mio terrore, che mia figlia possa accorgersi di qualche cosa
da un momento all'altro. Ho una paura indicibile dell'effetto che la
rivelazione può avere sopra di lei.
- Non ne saprà mai nulla, non ne saprà mai nulla, - protestai con tal voce
che parecchie persone si voltarono a guardare. La signora Marden mi fece
alzare, e per quella sera la nostra conversazione ebbe termine. Il giorno
seguente le dissi che dovevo lasciare Tranton - non era piacevole né
delicato rimanere in veste di corteggiatore rifiutato. Ella apparve
sconcertata, ma accettò le mie ragioni, limitandosi a guardarmi con occhi
supplichevoli, imploranti: - Mi lasciate sola col mio fardello? - Eravamo
naturalmente d'accordo che per parecchie settimane sarebbe stato
inopportuno «tormentare la povera Charlotte». Con illogicità
caratteristicamente femminile e materna alluse in questi termini a un
atteggiamento da parte mia che ella approvava. Io ero deciso a essere
delicato fino all'eroismo, ma fui del parere che anche la più estrema
delicatezza non mi vietava di dire una parola alla signorina Marden prima
di andarmene. Dopo colazione la pregai di fare un giro con me in terrazza,
e poiché si mostrava esitante e mi guardava con distacco, le dichiarai che
volevo soltanto farle una domanda e prendere congedo... partivo per lei.
Uscì con me e facemmo tre o quattro volte il giro della casa, lentamente.
Niente di più bello di quella grande piattaforma ariosa, dalla quale ogni
sguardo spazia per la campagna orlata nel fondo dal mare. Poteva darsi che
mentre passavamo davanti alle finestre gli ospiti della casa ci notassero e
alludessero sarcasticamente al motivo della mia fuga indubbiamente
significativa. Ma non me ne preoccupavo; mi domandavo soltanto se
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1970 - Racconti Di Fantasmi
questa volta non avrebbero veramente visto Sir Edmund Orme, il quale
s'era unito a noi durante uno dei nostri giri e camminava lentamente a
fianco di Charlotte. Di quale strana essenza fosse formato, non so; non ho
nessuna teoria sul suo conto - lascio il compito ad altri - come non ne ho
sul conto di una qualsiasi dei miei compagni umani (e della sua legge di
vita) accanto ai quali mi sono trovato a passare nella mia esperienza di tutti
i giorni. Egli era un fatto non meno positivo, individuale e definito.
Soprattutto, egli era, secondo ogni apparenza, di una composizione
altrettanto fine e sensibile, e altrettanto degna di rispetto; così che non mi
sarei mai sognato di prendermi una libertà - di fare un esperimento su di
lui, di toccarlo, per esempio, o di rivolgergli la parola, dal momento che
dava l'esempio del silenzio - allo stesso modo che non mi sarei sognato di
commettere una qualsiasi altra scorrettezza sociale. Aveva sempre, come
potei più particolarmente constatare in seguito, la massima coscienza della
sua posizione - appariva sempre vestito impeccabilmente, e si comportava,
in ogni particolare, esattamente come esigevano le circostanze. Ne
ricevevo incontestabilmente un'impressione di stranezza, ma, in certo qual
modo, sempre, di assoluta proprietà. Finii in breve per annettere alla sua
inosservata presenza un'idea di bellezza, della bellezza che accompagna
una vecchia leggenda d'amore, di dolore e di morte. Finii per persuadermi
che parteggiava per me, che vegliava sui miei interessi, che mirava a
evitarmi qualche brutto scherzo, così che il mio cuore, almeno, non venisse
spezzato. Oh, le aveva prese sul serio, lui, la sua ferita e la sua perdita - ne
aveva dato ben prova ai suoi giorni! Se la povera signora Marden,
responsabile di tutto, aveva, secondo quanto affermava, esaminato la cosa
da tutti i lati, la sottoposi anch'io all'analisi più fine di cui ero capace. Era
un esempio di giustizia retributiva, che scendeva a castigare nei figli i
peccati delle madri, dal momento che i padri non erano in questione.
Questa madre disgraziata doveva pagare, in sofferenza, per la sofferenza
che aveva inflitta; e poiché la tendenza a farsi gioco delle legittime
speranze d'un onest'uomo poteva manifestarsi di nuovo, a mio danno, nella
figlia, quest'ultima doveva essere studiata e sorvegliata, così che si potesse
far soffrire anche lei ove commettesse una colpa simile. Avrebbe potuto
emulare sua madre in una qualche forma di caratteristica perfidia, così
come le somigliava in bellezza; e se si scoprisse in lei quell'impulso, se
venisse cioè scoperta a mancare di parola o a compiere qualche atto
crudele, i suoi occhi si sarebbero in forza d'una logica insidiosa aperti
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all'istante e spietatamente sulla «perfetta presenza», che ella avrebbe poi
dovuto far entrare in qualche modo nella sua giovanile concezione
dell'universo. Non avevo gran timore per lei, perché non avevo avuto
l'impressione che m'avesse stregato per vanità, e sapevo che, se ero
sconcertato, lo ero unicamente per aver precipitato le cose. C'era per lo
meno ancora un bel tratto di strada da percorrere, prima che io mi trovassi
a poter essere sacrificato da lei. Non poteva ritogliere quello che aveva
dato, senza dare di più. E che quel di più io lo domandassi o no era in
verità tutt'altra cosa. A buon conto, quella mattina, sulla terrazza, le
domandai soltanto se durante l'inverno potevo continuare a frequentare la
casa della signora Marden. Promisi che non sarei andato troppo spesso e
che per tre mesi non le avrei parlato della questione che avevo sollevata il
giorno prima. Mi rispose che potevo fare come meglio credevo, e con
questo ci separammo.
Mantenni la promessa; per tre mesi non aprii bocca. Ci furono momenti,
durante questo periodo, nei quali, contrariamente a ogni mia supposizione,
Charlotte mi parve capace, per quanto indifferente le fosse la mia
infelicità, di accusare la mancanza del mio omaggio alla sua bellezza. Ero
tanto desideroso di riuscirle gradito che divenni sottile e ingegnoso,
mirabilmente pronto, pazientemente diplomatico. Talvolta mi illudevo di
aver conquistato la mia ricompensa, di averla portata al punto di dire: - Sì,
sì, siete il migliore fra tutti... ora mi potete parlare -. Poi la sua bellezza si
faceva più impenetrabile che mai, e c'erano giorni nei quali s'accendeva nei
suoi occhi una luce beffarda, una luce che sembrava dire: - Se non badate a
quello che fate, dirò di sì per liberarmi di voi nel modo più completo -. La
signora Marden m'era di grande conforto per il solo fatto della sua fede in
me; della quale feci tanta più stima in quanto mi fu mantenuta anche
durante una repentina interruzione del miracolo che m'era stato rivelato.
Dopo la nostra visita a Tranton, Sir Edmund Orme ci concesse una tregua,
e confesso che, a tutta prima, ne provai un senso di disappunto. Mi sentivo
meno designato, meno coinvolto e connesso - sempre nei riguardi di
Charlotte, intendo dire. - Non state a gridare finché non siete uscito dal
bosco, - fu il commento della madre, - qualche volta mi ha risparmiata
anche per sei mesi. Salterà fuori di nuovo quando meno ve lo aspettate... sa
fare la sua parte alla perfezione -. Per lei quelle settimane furono settimane
di felicità, ed ebbe il buon senso di non parlare di me a sua figlia e la bontà
di assicurarmi che avevo scelto la via giusta; che mi davo l'aria di essere
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sicuro del fatto mio, e che a lungo andare, di fronte a un contegno del
genere, una donna si dà per vinta. Aveva visto le cose prendere quella
piega anche quando l'uomo, a causa di quell'atteggiamento, di quella
sicurezza di sé, aveva fatto la figura dello sciocco - ma proprio dello
sciocco, senza attenuanti. Quanto a se stessa, trovava quei giorni deliziosi,
fra i migliori della sua vita, una specie d'estate di San Martino dell'anima.
Si sentiva meglio di quanto non stesse da anni, e lo doveva a me. Il senso
d'incubo che la opprimeva s'era fatto più lieve - non tremava ogni volta che
alzava gli occhi. Charlotte mi contraddisse più volte, ma contraddiceva se
stessa ancor più. Quell'inverno, lungo l'antica costa del Sussex, fu
meravigliosamente mite, e spesso uscivamo a prendere il sole. Io
passeggiavo su e giù con la figlia; e la signora Marden, seduta a volte su
una panchina, altre su una sedia a sdraio, ci aspettava e, quando
passavamo, sorrideva. La guardavo sempre in faccia in attesa d'un segno «E con voi, è con voi» (lo avrebbe visto prima di me), ma non accadde
nulla; la stagione ci aveva portato anche una sorta di rilassamento
spirituale. Verso la fine d'aprile, l'aria somigliava tanto a quella del giugno,
che una sera, avendo incontrato le mie due amiche a uno dei consueti
trattenimenti di Brighton - una riunione musicale di dilettanti -, invitai la
più giovane, che non vi si oppose, a uscire con me su di un balcone, al
quale dava accesso, da una delle sale, una finestra aperta. La notte era fitta
e buia, le stelle indistinte; sotto di noi sentivamo il rombo cupo del mare
contro le rupi. Ascoltammo un poco, e ci giungeva insieme alle orecchie,
dall'interno della casa, il suono di un violino con accompagnamento di
pianoforte - il pezzo che ci era servito di pretesto per allontanarci.
- Vi dispiaccio un po' meno? - mi arrischiai a dire dopo qualche minuto.
- Vi sentite di darmi ascolto ancora una volta?
Avevo appena detto queste parole, quando Charlotte mi posò
improvvisamente la mano sul braccio con una certa forza. - Tacete! non c'è
qualcuno lì? - Teneva gli occhi fissi nelle tenebre verso la parte opposta
della terrazza. Questa terrazza correva lungo tutta la lunghezza della casa,
lunghezza che nelle migliori case antiche di Brighton è notevole. Noi
eravamo in qualche modo illuminati dalla finestra aperta alle nostre spalle,
ma le altre finestre, con le tende abbassate dalla parte interna, lasciavano le
tenebre intatte, così che io intravvidi molto vagamente la sagoma d'un
uomo che stava lì in piedi e ci guardava. Era in vestito da sera, come tutti
gli invitati - vidi il vago chiarore della camicia bianca e il pallido ovale
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della sua faccia: poteva essere benissimo un invitato uscito a prendere una
boccata d'aria lì fuori prima di noi. A tutta prima Charlotte fece certamente
lo stesso pensiero - poi, evidentemente, nello spazio di pochi secondi, si
avvide che l'insistenza di quello sguardo usciva dalle regole della buona
società. Che cos'altro vedesse non saprei dire; ero troppo preso dalla mia
impressione per poter andare oltre il senso immediato dell'inquietudine di
lei. La mia impressione era infatti una sensazione tra le più violente, una
sensazione d'orrore; quale poteva mai essere il significato di quello che
stava accadendo, se non di dimostrare che la ragazza finalmente vedeva?
Si lasciò sfuggire un «Ah!», soffocato e improvviso, poi scomparve
rapidamente dentro la casa. Soltanto in seguito mi resi conto che avevo
provato anch'io un'emozione del tutto nuova - il mio orrore s'era
trasformato in ira, e l'ira m'aveva indotto a percorrere d'impeto l'intera
lunghezza della terrazza con un gesto di riprovazione. Il caso era ormai
semplificato al massimo: si riduceva alla vista d'una ragazza adorabile
minacciata e atterrita. Mi feci avanti per rivendicare il suo diritto a essere
lasciata tranquilla, ma non mi trovai di fronte a nessuno. Era stato tutto un
abbaglio o Sir Edmund Orme era svanito.
Seguii immediatamente Charlotte, ma quando entrai nel salotto vi trovai
segni di confusione: una signora era svenuta, la musica era stata interrotta:
c'era un gran fruscio di sedie smosse e di gente che si faceva avanti. La
signora non era Charlotte, come avevo temuto, ma la signora Marden, la
quale s'era improvvisamente sentita male. Ricordo il sollievo col quale
constatai la cosa: vedere Charlotte in quelle condizioni m'avrebbe dato un
senso d'angoscia, mentre il malessere di sua madre poteva servire di sfogo
alla sua agitazione. L'incidente riguardava naturalmente i padroni di casa e
le signore; io non potevo in nessun modo occuparmi delle mie amiche, né
condurle fino alla loro carrozza. La signora Marden si riscosse e insistette
per andare a casa; dopo di che mi ritirai anch'io, parecchio agitato.
La mattina seguente passai dalle Marden con la speranza di avere
migliori notizie e mi fu detto che la signora stava un po' meglio; ma
quando feci domandare a Charlotte se era disposta a ricevermi mi mandò
giù un messaggio col quale si scusava di non potere. Per il resto della
giornata non mi restò altro da fare che vagare qua e là col cuore in
subbuglio. Tuttavia, verso sera, mi fu portato a mano un biglietto scritto a
matita: - Vi prego di venire; mia madre desidera vedervi -. Cinque minuti
dopo mi trovai nuovamente alla porta e fui fatto entrare in un salotto. La
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signora Marden era coricata su un divano, e appena la guardai le vidi in
viso l'ombra della morte. Ma mi disse per prima cosa che stava meglio,
molto meglio; il suo povero vecchio cuore malandato aveva fatto ancora
una volta le bizze, ma ora aveva messo discretamente giudizio. Mi porse la
mano e io mi chinai verso di lei, gli occhi negli occhi, così da poter leggere
nei suoi quello che la bocca non diceva: «Sto in verità molto male, ma fate
mostra di prendere quello che dico come fosse l'esatta verità». Charlotte
stava in piedi accanto a lei: non aveva l'aria spaventata, ora, ma
intensamente grave, e i suoi sguardi evitavano i miei. - M'ha detto tutto...
m'ha detto tutto! - continuò sua madre.
- Vi ha detto tutto? - Guardai interdetto dall'una all'altra, domandandomi
se la mia amica intendesse dire che la ragazza aveva accennato
all'inspiegabile presenza sul balcone.
- Che le avete parlato di nuovo... che siete mirabilmente fedele.
Queste parole mi dettero un fremito di gioia; dimostravano che quel
ricordo dominava ogni altro, e anche che sua figlia aveva voluto dirle la
cosa che la avrebbe maggiormente tranquillizzata, non quella che la
avrebbe messa in agitazione. Pure io ero certo, ora, altrettanto certo che se
lo avessi saputo dalle labbra stesse della signora Marden, che ella sapeva,
che aveva saputo all'istante che cosa fosse apparso agli occhi di sua figlia.
- Sì, ho parlato... ho parlato, - dissi, - ma non mi ha dato nessuna risposta.
- Ve la darà ora, vero Charlotte? Lo desidero tanto, ma tanto! - mormorò
la nostra compagna con ansia indicibile.
- Siete molto buono con me... - cominciò Charlotte con voce seria e
dolce a un tempo, ma gli occhi fissi sul tappeto. C'era in lei un che di
nuovo, di diverso dal passato. Aveva riconosciuto qualcosa, sentiva una
imposizione. La vidi in preda a un tremore che non le riusciva di
dominare.
- Oh, se mi deste soltanto modo di mostrarvi come so essere buono! esclamai tendendole le mani. Mentre pronunciavo le parole, ebbi coscienza
che c'era intorno a noi qualcosa di mutato. Una figura era apparsa dall'altra
parte del divano e si chinava sulla signora Marden. Tutto il mio essere si
protese nella muta preghiera che Charlotte non vedesse e che io riuscissi a
non tradirmi. L'impulso di guardare verso la madre era anche più forte del
moto involontario che portava i miei occhi verso Sir Edmund Orme, ma
resistetti anche a quello e la signora Marden rimase perfettamente
immobile. Charlotte si alzò per darmi la mano, e in quel punto - proprio
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1970 - Racconti Di Fantasmi
mentre compiva il gesto - orrendamente vide. Lanciò, con un grido,
un'occhiata di sgomento, e un altro suono, il gemito di chi sta per morire,
mi colpi nello stesso istante l'orecchio. Ma m'ero già slanciato verso la
creatura che amavo, per farle schermo, per coprirle il viso, ed ella si era
gettata altrettanto appassionatamente fra le mie braccia. Ve la tenni un
momento - stringendola a me, perduto in lei, sentendo i battiti del suo
cuore mescolarsi con quelli del mio senza che mi riuscisse di distinguerli;
poi, all'improvviso, con un brivido, fui certo che eravamo soli. Charlotte si
sciolse dalle mie braccia. La figura dall'altra parte del divano era svanita,
ma la signora Marden giaceva al posto di prima con gli occhi chiusi e
qualcosa nella sua immobilità che ci riempi di nuovo terrore. Charlotte lo
espresse nel grido di «Mamma, mamma!», col quale si gettò su sua madre.
Io caddi in ginocchio accanto a lei... La signora Marden era spirata.
Il suono udito da me quando Charlotte aveva gridato - l'altro e ancor più
tragico suono intendo - era stato il grido angoscioso della povera signora
ghermita dalla morte, o il singulto articolato (era parso la raffica d'un
violento uragano) dello spirito esorcizzato e placato? Quest'ultima cosa,
forse, perché, grazie al Cielo, quella fu l'ultima comparsa di Sir Edmund
Orme.
Traduzione di Carlo Izzo.
NONA VINCENT
I.
- Mi chiedevo se le spiacerebbe leggermelo, - disse Mrs Alsager, mentre
indugiavano un poco presso il camino prima di accomiatarsi. Volse uno
sguardo di scorcio alla fiamma e ne scostò la veste. Aveva fatto la proposta
con quella timida spontaneità che accresceva il suo fascino. Allan
Wayworth quel fascino l'aveva sempre subito, come pure quello della casa,
semplice distillazione della personalità di lei; un'atmosfera così
consolatrice, così allettante da provocare sempre in lui, quando stava per
lasciarla, ripetuti falsi tentativi di commiato. Vi aveva trascorso alcune ore
così buone, aveva dimenticato, nella calda dorata atmosfera di quel salotto,
tanta solitudine e tanti crucci, che esso aveva finito per diventare la
risposta immediata alla sua ispirazione, la cura per le sue sofferenze, il
porto in cui le sue burrasche trovavano rifugio.
Le tribolazioni non era il primo mortale a patirle, mentre alcuni lati
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1970 - Racconti Di Fantasmi
positivi, anche se comuni, erano in lui di livello notevole, in quanto - per
essere così giovane - era intellettualmente molto dotato e, per essere così
povero, estremamente indipendente. Aveva ventotto anni, la sua era stata
una vita intensa, piena com'era di ambizioni, di curiosità e di frustrazioni.
L'occasione di parlare di taluni di questi argomenti in Grosvenor Square
attenuava sensibilmente l'immenso svantaggio di vivere a Londra.
Svantaggio che, per Allan Wayworth, verteva essenzialmente
sull'insensibilità dei londinesi per il suo stile letterario. Wayworth
possedeva uno stile letterario, o almeno ne era convinto, e il fatto che Mrs
Alsager lo riconoscesse era la più dolce consolazione ch'ella gli potesse
offrire. Quanto a talento letterario e artistico, lei ne aveva ancor più di lui,
tant'è che mentre a lui capitava spesso di trovare un eccesso alla sua
produzione (era questo il suo lavoro, la sua occupazione), la generosa
signora, ricca di idee felici, ma inedite e sconosciute, stava in mezzo al
crescere della marea come una ninfa di fonte sta nello zampillo di una
fontana marmorea.
Un anno prima, a un pranzo di una grande casa editrice di giornali si era
trovato seduto accanto a lei e, insieme, avevano trasformato quell'ora
intensamente materiale in un banchetto della ragione. Lo invitò ad andarla
a trovare per il semplice motivo che le era piaciuto, cosa che a lui fu tanto
più gradita in quanto s'era reso conto nello stesso momento, di aver fatto la
conoscenza di una persona squisita. Mrs Alsager godeva della invidiabile
libertà di comportarsi secondo le proprie simpatie, e il fatto di sentirsi per
il momento incluso fra queste attenuò in Wayworth la sensazione dei
propri insuccessi.
Tenne la rivelazione per sé: in effetti, che una gentile signora si
mostrasse amabile con lui, non era cosa da fargli girare la testa. Mrs
Alsager era così completamente padrona del terreno in cui si muoveva che,
se non si fosse attenuta al principio della prodigalità, sarebbe stata
condannata all'inazione.
Suo marito, di vent'anni più vecchio, era una personalità cospicua nel
campo della City e massiccia in casa: seduto o in piedi che fosse, sembrava
un monumento. Proprietario per metà di un importante quotidiano, e per
intiero di una quantità di altre cose, ammirava sua moglie, sebbene non gli
desse dei figli, e ne apprezzava la diversità di gusti in quanto ciò sembrava
schiudere alla loro esistenza orizzonti più ampi. Coltivava ambizioni tanto
vaste da individuarne a stento i confini e aveva, per principio, di lasciare
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1970 - Racconti Di Fantasmi
che la moglie perseguisse le proprie senza limiti di sorta, sicché
l'ostentazione di tanto spreco non cessasse di sbalordire la società. Le sue
idee erano un prodigio di pacchianeria, ma per fortuna, a realizzarne
alcune, c'era una persona di grande sensibilità. Per una questione, appunto,
di sensibilità, nel realizzarle, ella ricorreva a trucchi singolari, senza che
egli se ne accorgesse. Lo manovrava senza che se ne rendesse conto, anzi,
era convinto di essere stato lui a fare di lei una gran donna. Senza di lei, in
verità, egli sarebbe stato ancora più invadente e la società, che così
respirava più libera, si sentiva vincolata a lei da sentimenti di gratitudine
che si esprimevano con atteggiamenti di impacciato riguardo.
Ella sentiva un trepido bisogno di dedicare le ore di ozio e di libertà di
cui godeva alle cose dello spirito, le più belle che conoscesse. Quando
consacrava tempo a ricercarle, le trovava in cento luoghi diversi e
specialmente in una sacra regione oscura - quella della carità attiva - ma,
quando vi penetrava, lasciava calare un sipario così atto dietro di sé che
sollevarlo sarebbe stato irriverente. Coltivava altre passioni volte al bene e,
se accarezzava un sogno particolarmente nobile esso le pareva avverarsi
allorché poteva cogliere la bellezza, come un fiore, nel giardino dell'arte.
Amava l'opera perfetta: in lei vibrava una corda artistica che poteva
risuonare soltanto se toccata da altri, cosicché nel suo animo la passione
del bello era accresciuta dall'intensità del rimpianto. Comprendeva la gioia
di creare e non faceva gran caso che di lei si dicesse essere lei stessa
creatrice di felicità. Le sarebbe piaciuto in ogni modo scegliere da sé come
crearla: ma qui, appunto, la libertà le veniva meno. L'unica invidia di cui
era capace era per coloro che - come lei soleva dire - sapevano fare
qualche cosa.
Tuttavia, poiché ella convertiva ogni suo atto in un atto di bontà, verso
l'intera categoria di quelle persone dimostrava un'ospitalità squisita. Allan
Wayworth era uno in grado di realizzare qualche cosa, e a lei piaceva
sentirgli dire come intendeva fornirne la prova.
Lui non ne faceva cenno quasi con nessun altro: Mrs Alsager, in quanto
ascoltatrice, lo aveva viziato. Con la sua giovinezza piena e la sua grazia
tranquilla, ella costituiva davvero un pubblico ideale: se mai gli avesse
confidato che le sarebbe piaciuto scribacchiare qualcosa (in realtà, non ne
aveva fatto parola con anima viva), Wayworth si sarebbe sentito
pienamente autorizzato a chiederle perché mai una donna con un volto così
significativo non avrebbe dovuto riuscirci. Come esprimersi più di tanto?
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Né Shakespeare, né Beethoven avrebbero potuto competere con lei. Mai
era stata più generosa di quella volta che, aderendo all'invito cui ho già
accennato, egli le aveva portato il suo dramma per fargliene lettura.
Gliene aveva parlato prima, in un grigio pomeriggio di novembre,
quando l'ardente caminetto di casa Alsager si era dimostrato un rifugio
ideale dai luoghi e dalle intemperie. Aveva esclamato nell'entrare: - È
finito, è finito! - Lei lo aveva sollecitato a raccontare tutto, dimostrando un
interesse minuzioso, ponendogli domande squisitamente pertinenti. Ne
aveva parlato, fin dall'inizio, come se egli stesse per mettere in scena il suo
lavoro, facendogli superare, con la sua partecipazione, tutti i penosi
momenti intermedi. Mrs Alsager amava il teatro come tutte le espressioni
artistiche: a Wayworth era noto come soleva spingersi fino a Parigi per una
particolare rappresentazione. Una volta l'aveva accompagnata lui stesso
quando si era portata appresso quella sciocca di Mrs Mostyn.
Allorché aveva tracciato, a grandi linee, l'argomento del dramma, ne era
rimasta colpita e gli aveva detto parole che lo avevano incoraggiato a
credere nella propria opera. Appena calato il sipario sull'ultimo atto, era
corso a trovarla, ma poi aveva trattenuto il testo per gli ultimi numerosi
ritocchi. Finalmente, il giorno di Natale, come convenuto, Mrs Alsager era
rimasta ad ascoltarlo seduta davanti al fuoco. Erano tre atti in prosa, di
gusto piuttosto romantico, anche se ambientati nella società inglese
contemporanea, ed egli amava credere che si sentisse la mano se non del
maestro, quanto meno dell'allievo meritevole di premio.
A ventidue anni, dopo un'educazione eclettica ricevuta all'estero Allan
Wayworth era ritornato in Inghilterra: suo padre era stato per anni
corrispondente di un importante giornale inglese in vari paesi esteri. Era
morto subito dopo il rientro del figlio in patria, lasciando la moglie e le
altre due figliole, due ragazze senza dote, a vivere di una minuscola rendita
in una noiosissima città tedesca. Agli inizi, la vita del giovane a Londra era
stata difficile, e più difficile egli la rendeva con la sua avversione per il
giornalismo. Le relazioni del padre in quel campo lo avrebbero aiutato, ma
egli era (insensatamente, secondo il giudizio diffuso fra i suoi amici - la
grande eccezione era, come sempre, Mrs Alsager) inimitable sul problema
dello stile. Questo, secondo il suo modo di intendere, non era quello voluto
dai giornali inglesi, né egli era disposto a fornirlo nella forma da loro
richiesta. Comunque non vi era grande offerta da nessuna parte, e
Wayworth passò preziose settimane a ritoccare piccole composizioni per
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1970 - Racconti Di Fantasmi
riviste che non «retribuivano» lo stile. In effetti, la sola persona che
ripagasse per questo era Mrs Alsager, dotata di un infallibile istinto per la
perfezione. Ripagava a modo suo, è vero: se Allan Wayworth fosse stato
un lavoratore salariato avrebbe avuto ragione di pensare che, non
ricevendo il compenso dovutogli per legge, il palmo della sua mano
accoglieva di tanto in tanto una buona mancia.
Aveva anche lui i suoi limiti, le sue debolezze, ma quel che vi era di
meglio in lui era la parte più viva: era un uomo onesto, irrequieto.
Tuttavia, ciò che più ci interessa è l'impressione che egli produsse su
Mrs Alsager, la quale lo trovò non solo assai attraente, ma molto originale.
Egli non avrebbe mai commesso azioni per solito ritenute cattive: troppi
erano i pantani perigliosi da attraversare per imboccare la scorciatoia del
successo.
Dal canto suo, Wayworth non era mai stato tanto soddisfatto come dopo
aver intravisto la strada (così egli amava appassionatamente credere),
verso una sorta di padronanza del concetto di teatro, che prospettandola
ora dall'interno, gli pareva tutt'altra cosa. Nei primi tempi l'aveva
considerato con disprezzo allorché gli era apparso una gemma, se mai
opaca, nascosta in un letamaio, un lucignolo che si consumava lentamente
in un'atmosfera irrespirabile di volgarità. Non valeva la pena di sacrificarsi
e di consumarsi, circondato com'era da meschine vie d'accesso. Per
occuparsene, un uomo di lettere avrebbe dovuto mettere al bando tutta la
letteratura: sarebbe stato come chiedere a un blasonato di rinunciare
all'atavico nome di famiglia. Ma col mutare dei punti di vista, cambia
anche l'aspetto delle cose. Una mattina, Wayworth si era svegliato in uno
stato d'animo tutto diverso.
Inutile qui ripercorrere sino all'origine le tappe di quell'avvenimento.
Sarà assai più interessante, per chi voglia conoscere la vita del giovane,
seguire alcune delle conseguenze che ne derivarono. Senti di essere stato
fatto oggetto di una speciale rivelazione: si buttò il cappello in testa, come
un innamorato. Un angelo l'aveva preso per mano, guidandolo alla porta
un po' sgangherata che si apriva -a quanto gli parve - su un interno
splendido ed austero al tempo stesso. Il concetto di teatro - una volta
accettato - era magnifico; la forma drammatica aveva una purezza che
faceva apparire le altre ingloriosamente grossolane. Come la matematica e
l'architettura, aveva l'alta dignità delle scienze esatte, offriva il conforto
che offrono il calcolo e la costruzione, l'incorruttibilità del sistema
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giuridico. Spoglia ma eretta, povera ma nobile: a Wayworth rammentava
l'immagine di un sovrano, famoso per la sua giustizia, costretto a vivere in
una reggia disadorna. Ciò comportava una quantità paurosa di concessioni,
ma quel che restava era di una rara ricchezza. Bisognava continuare a
gettare a mare il carico per salvare la barca, ma quale spinta riuscivi ad
imprimerle quando le facevi superare le onde! Un movimento armonioso
come la danza di una dea.
A questo pensava Wayworth, facendo lunghe passeggiate per Londra: la
città con le sue suggestioni gli riempiva le orecchie di un mormorio
sonoro.
L'immaginazione gli si accendeva man mano che andava forgiando
materiale; i suoi propositi si moltiplicavano e l'atmosfera era come una
vaporosa nuvola d'oro. Vedeva non solo ciò che doveva fare al momento,
ma che cosa fare in seguito e dopo ancora: il futuro gli si apriva dinanzi,
gli pareva di camminare su lastre di lucido marmo. Più si cimentava con il
dramma, più vi si appassionava; più lo contemplava, più ricco gli appariva.
Ciò che vi scorgeva, in verità adesso lo percepiva ovunque: se, nel
crepuscolo londinese, si fermava a contemplare una vetrina sfolgorante di
luci, essa si spostava subito dietro le luci di una ribalta, faceva da sfondo ai
suoi personaggi.
Questi personaggi egli modellava nella sua stanza solitaria e,
modellandoli, dava forma al loro contesto scenico come un orafo che,
cesellando uno scrigno, vi stia sopra chino per la gioia dell'opera perfetta.
Quando non vagava per le strade in compagnia della sua visione, né si
arrovellava sui suoi problemi alla scrivania, scambiava idee in generale
con Mrs Alsager, a cui annunciava particolari divertenti per ore ancor più
liete in futuro.
Quando le lesse le ultime battute del lavoro finito, gli occhi di lei si
riempirono di lacrime, mentre mormorava estasiata:
- E adesso, metterlo in scena, metterlo in scena subito!
- Già, davvero, metterlo in scena! - fece eco Wayworth fissando il fuoco,
mentre arrotolava la copia dattiloscritta. - Ma questa è tutta un'altra
faccenda, una questione secondaria.
- Ma naturalmente lei desidera che sia rappresentato?
- Certo che lo desidero... ma è un improvviso cedimento. Lo desidero
ardentemente, ma me ne vergogno.
- E proprio qui che cominciano le difficoltà, - disse Mrs Alsager un po'
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disorientata.
- Come può dirlo? E proprio qui che finiscono!
- Ah, aspetti di vedere dove finiranno!
- Intendo dire che d'ora in poi saranno di carattere totalmente diverso, spiegò Wayworth. - Secondo me, non c'è nulla di più difficile a questo
mondo dello scrivere un dramma in grado di resistere alla severità dei
critici: in confronto, tutte le complicazioni che insorgono a questo punto
sono, nel complesso, di entità minore.
- Sì, non sono incoraggianti, - rispose Mrs Alsager, - al contrario, sono
deprimenti perché così meschine. L'altro problema, l'elaborazione del
lavoro in sé, è arte pura.
- Oh, come comprende bene ogni cosa! - Il giovane era scattato in piedi
e stava appoggiato al caminetto con le braccia conserte, volgendo la
schiena alla fiamma. La copia del suo lavoro stretta nel pugno chiuso,
poggiava nell'ansa di un gomito. Abbassò lo sguardo su Mrs Alsager e le
sorrise grato. Lei gli ricambiò il sorriso volgendo su di lui due occhi ancor
pieni di entusiasmo. - Eh, sì, - riprese lui un istante dopo, - le meschinità
cominciano adesso.
- E lei ne soffrirà terribilmente.
- Soffrirò per una buona causa.
- Già, offrendo al mondo questo suo lavoro! Me lo lasci: voglio le ggero
e rileggerlo! - pregò Mrs Alsager alzandosi per strappare la copia dalla
stretta in cui egli la teneva: adesso, con quella sua copertina verdognola, a
Wayworth pareva avesse un'identità assai banale.
- Ma chi mai ci riuscirà? Chi lo interpreterà? - ella prosegui, fattasi
vicina a lui e sfogliando il manoscritto. E prima che lui avesse il tempo di
risponderle, s'era fermata ad un certo foglio; volgendo la pagina verso di
lui, gliene indicò un tratto. - Questo è il punto più bello, queste righe sono
perfette -. Wayworth lanciò un'occhiata al passo che lei gli indicava,
chiedendogli di leggerlo ancora; già prima glielo aveva letto in modo
mirabile. Lui lo conosceva a memoria e, richiudendo il fascicolo, mentre
lei lo tratteneva fra le sue mani, le ripetè a bassa voce quel passaggio
(aveva invero una cadenza che lo soddisfaceva), spiando l'approvazione
sul viso di lei con un'espressione di lieto compiacimento che sperava gli
venisse perdonata.
- Ah, ma chi saprà pronunciare parole come queste? - lo interruppe Mrs
Alsager, - chi si troverà per interpretare la parte di lei?
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- Troveremo interpreti per tutti i personaggi!
- Ma non gente che ne sia degna.
- Saranno tutti abbastanza degni, se lo vorranno. Io lavorerò con loro, li
torchierò a dovere -. Parlava come se di commedie ne avesse già
rappresentate una ventina.
- Sarà interessante, - riprese lei.
- Ma prima dovrò trovare il teatro. Dovrò trovare un impresario che
abbia fiducia in me.
- Appunto: è gente così stupida!
- Ma pensi a quanta pazienza mi occorrerà, a quante ricerche dovrò fare,
al tempo che dovrò aspettare, - disse Allan Wayworth.
- Mi ci vede a andare in giro per Londra, offrendo il mio lavoro come un
venditore ambulante?
- No davvero; sarebbe un bel disastro.
- Eppure sarà quello che mi toccherà fare. Prima che vada in scena mi
saranno venuti i capelli bianchi!
- Invecchierò prima io, se non riusciamo! - esclamò Mrs Alsager. - Io ne
conosco un paio... - soggiunse pensierosa.
- Sarebbe disposta a parlargliene?
- Il punto è di indurli a leggerlo. Questo mi sentirei di farlo.
- Di più non posso chiederle. Ma anche per questo sarò costretto ad
aspettare.
Lo guardò con teneri occhi di sorella: - Non aspetterà.
- Cara buona signora! - disse a mezzavoce Wayworth.
- Cioè, può darsi che lei debba attendere, ma io non aspetterò! Mi vuole
lasciare la sua copia? - soggiunse, riprendendo a sfogliare le pagine.
- Certo, io ne ho un'altra -. In piedi vicino a lui, ella rileggeva
sommessamente un passaggio qua e là, poi ne lesse altri con la sua bella
voce. - Ah, se soltanto lei fosse un'attrice! - esclamò il giovane.
- Questa è l'ultima cosa che sono: non c'è ombra di commedia in me!
Mai come in quel momento gli era apparsa come il suo buon genio. - C'è
per caso un po' di tragedia? - le chiese con delicata confidenza. Al che lei
gli volse le spalle con una risatina strana, piena di fascino. - Forse sarà lei
a doverlo stabilire! - gli rispose. Ma prima che egli potesse declinare una
responsabilità del genere, lei si era di nuovo voltata verso di lui e si era
messa a parlare di Nona Vincent come della loro amica più cara, la cui
momentanea condizione sollecitava un irresistibile appello alla loro
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1970 - Racconti Di Fantasmi
solidarietà. Nona Vincent era la protagonista della commedia, e Mrs
Alsager s'era presa di gran passione per lei.
- Non so dirle quanto mi piace quella donna! - esclamò con accento di
così fervida convinzione che lo spirito dell'artista ne fu confortato come da
un balsamo.
- Sono molto contento se le ho trasfuso un po' di vita. La mia
impressione è che Nona Vincent assomigli molto a lei, - osservò
Wayworth.
Mrs Alsager arrossi lievemente e guardò un attimo nel vuoto.
Evidentemente quella somiglianza non l'aveva colpita, ma non la prese
come uno scherzo.
- Confesso che non sento questa somiglianza: non mi ci vedo a fare
quello che lei fa.
- Non è tanto quello che fa, - obiettò il giovane lisciandosi i baffi.
- Ma è proprio questo il punto: il suo comportamento. Nona dichiara il
suo amore; io non lo farei mai.
- Se rifiuta questo comportamento con tanta energia, perché le piace il
personaggio?
- Non è per questo che mi piace.
- Per che cosa, allora? La sua vera caratteristica sta appunto in questo.
Mrs Alsager parve riflettere guardando la fiamma del camino: si sarebbe
detto che di buone ragioni, per amare quel personaggio, ne avesse almeno
mezza dozzina. Ma quella che offri al suo interlocutore fu inaspettatamente
semplice, si sarebbe anche potuto pensare che le fosse suggerita dalla
disperazione di non trovarne altre. - Mi piace perché l'ha creata lei! esclamò ridendo, e si scostò nuovamente dal suo ospite.
La risata di Wayworth fu ancor più rumorosa. - A crearla ha contribuito
un po' anche lei. Ho immaginato che avesse i suoi tratti.
- Dovrebbe essere molto più bella di me, - disse Mrs Alsager,
-comunque, certamente io non mi comporterei come lei.
- Neppure nelle stesse circostanze?
- Io non verrei mai a trovarmi in situazioni del genere. Queste si
riferiscono unicamente alla sua commedia: non hanno nulla in comune con
una vita come la mia. Tuttavia, - continuò, - per Nona quella linea di
condotta è perfettamente naturale, e non soltanto naturale, a mio avviso,
ma profondamente bella, nobilissima. Non so abbastanza esprimerle la mia
ammirazione per la bravura, la delicatezza con cui è riuscito a far accettare
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1970 - Racconti Di Fantasmi
il suo comportamento. Glielo dico con tutta franchezza: davanti a un
giovane che, agli inizi dell'opera sua, è stato capace di un'intuizione simile,
io vedo schiudersi un brillante avvenire. Grazie al cielo posso ammirare
Nona Vincent con la stessa intensità con cui tento di non assomigliarle!
- Non esageri su questo punto, - la ammoni Allan Wayworth.
- Quanto alla mia ammirazione?
- Quanto alla vostra dissimiglianza. Nona Vincent ha il suo viso, i suoi
gesti, la sua voce, il suo modo di muoversi: ha moltissimo di lei.
- Così segnerà la condanna della sua commedia! - replicò Mrs Alsager.
Scherzarono un po' su questo punto; non fu però in tono faceto che, di lì a
poco, la signora uscì a dire: - Un rimedio ad ogni modo lei ce l'ha: la faccia
interpretare dall'attrice giusta!
- La faccia interpretare! La faccia interpretare! - esclamò l'autore in tono
garbatamente querulo.
- Capisco, povero amico mio. Che peccato! Una parte così bella...
un'occasione strordinaria per un'attrice giovane, seria, intelligente...! La
sua commedia è praticamente Nona Vincent: sta alla protagonista portarla
lontano, oppure lasciarla cadere al primo angolo di strada.
- Bella prospettiva, - commentò Allan Wayworth, fattosi d'un tratto
scettico. Si scambiarono uno sguardo cupo, uno sguardo in cui in quel
momento si affacciarono le più nere previsioni; ma prima del commiato
erano di nuovo corse tra loro fiduciose promesse volte al raggiungimento
del loro ideale.
Non si deve supporre, però, che il pensiero dell'aiuto di Mrs Alsager
diminuisse in Wayworth la voglia di aiutarsi da sé. Fece quanto potè, ben
sapendo che lei dal canto suo, non faceva di meno.
Ma, passato un anno, dovette riconoscere che i loro sforzi congiunti
avevano generato, in sostanza, il raffinato fiore dello sconforto. Trascorso
un anno, il suo disprezzato capolavoro aveva perduto a suo stesso giudizio
quel po' di lustro iniziale, e Wayworth si ritrovò a scrivere, per un
dizionario biografico, piccole vite di personaggi celebri che non aveva mai
sentito nominare. Il vedersi pubblicato, ovunque fosse e comunque, era già
un mezzo successo per uno scrittore incapace di farsi rappresentare, e il
venir pagato, ancorché a rate enciclopediche, ebbe come conseguenza di
indurlo alla rassegnazione e alla verbosità. Non poteva contrabbandare
bella prosa in un dizionario, ma poteva se non altro pensare di aver fatto
del proprio meglio per apprendere, attraverso la drammaturgia, che il bello
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1970 - Racconti Di Fantasmi
stile è quasi ovunque una stravaganza grottesca.
Aveva bussato alla porta di tutti i teatri di Londra e, con una spesa
rovinosa, aveva moltiplicato le copie dattiloscritte di Nona Vincent per
sostituire quelle vergate ih bella calligrafia e precipitate negli abissi degli
uffici manageriali. La sua commedia non veniva neppure rifiutata: non gli
era nemmeno concessa la lusinghiera impressione che il testo fosse stato
letto. Ormai poco gli importava di ciò che gli impresari avrebbero fatto per
Mrs Alsager: appariva chiarissimo che per lui non avrebbero fatto nulla.
L'affascinante signora si sentiva umiliata a morte nel considerare la scarsa
risposta ottenuta dai potenti sui quali aveva fatto assegnamento. Ormai,
insieme, del dramma non parlavano più: tuttavia lui si sforzava di
dimostrarle un'amicizia ancor più devota per non lasciarle supporre di
sentirsi deluso. Continuava a camminare su e giù per Londra in compagnia
dei suoi sogni: ma, come i mesi succedettero ai mesi e un intero anno gli
stava già dietro le spalle, quei sogni - più che di successo - erano ormai di
rivalsa.
Come compenso alla sua pazienza la parola «successo» gli appariva un
termine sbiadito: gli ci voleva qualcosa di sfacciatamente vistoso, qualcosa
di truculento addirittura. Tuttavia, ciò che più lo appagava era ancora il
concetto di teatro; non si era mai reso conto fino a quel momento di quanto
ne fosse innamorato.
Quando anche un secondo anno fu trascorso invano, il suo sterile talento
gli divenne ancor più caro per l'insulto a cui pareva essere esposto. Passava
le ore migliori in un mondo di trame e di spunti. Scrisse un'altra
commedia, tanto diversa dalla prima quanto poteva esserlo un dramma
eccellente; e magari lo era pure, ma una volta al vaglio del limbo del
teatro, una sorte indiscriminata non rilevò la differenza. Riuscì, finalmente,
a lasciare l'Inghilterra per tre o quattro mesi e si recò in Germania per fare
la visita così a lungo differita alla madre e alle sorelle.
Poco prima della data stabilita per il suo ritorno, ricevette da Mrs
Alsager un telegramma così concepito: «Loder desidera vederla, intende
iniziare subito prova Nona». Passò le poche ore che ancora mancavano alla
partenza distribuendo baci a mamma e sorelle, abbastanza informate sul
conto di Mrs Alsager per considerare una fortuna il fatto che quella
rispettabile signora maritata non si trovasse lì - un sollievo, tuttavia,
accompagnato da prospettive incerte per quanto riguardava Londra e il
futuro.
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Loder, come il nostro giovane autore ben sapeva, significava il nuovo
«Renaissance», e tuttavia, pur avendo raggiunto Londra in serata, non fu
verso quel confortevole teatro moderno che Wayworth diresse i suoi passi.
A tarda sera, passò un'ora in compagnia di Mrs Alsager, un'ora densa di
progetti. La sua amica gli disse che Mr Loder era una persona simpatica:
per leggerlo, aveva semplicemente aspettato che venisse il turno del
manoscritto di Wayworth, e adesso nutriva speranze a quel riguardo che,
per venire da parte di un pessimista di professione, potevano addirittura
definirsi travolgenti. Le parti erano state assegnate con un certo margine
per eventuali modifiche: protagonista sarebbe stata Violet Grey. Durante
l'assenza di Wayworth essa aveva fatto una buona prova in quella vecchia
catapecchia del «Legitimate»; la commedia era un goffo réchauffé, ma lei
almeno aveva dimostrato freschezza. Wayworth la ricordava: forse che per
due anni non si era dedicato con entusiasmo a «cercare», frequentando tutti
i teatri di Londra a caccia di possibili interpreti? Non ne aveva ancora
scovati molti, per il momento, e questa giovane attrice non era mai rimasta
impigliata nella sua rete. Era carina e originale, ma non se l'era mai
figurata nella parte di Nona Vincent, né si sentiva - nonostante la sua
pratica professionale - di dare un giudizio sulla personalità artistica di Miss
Grey.
Mrs Alsager era d'opinione diversa: dichiarò di essere stata non poco
impressionata da certi suoi accenti. Nel lavoro dato al «Legitimate» la
giovane aveva destato interesse; e Mr Loder, che la teneva d'occhio, la
definiva ambiziosa e intelligente. Ci teneva tanto a farsi strada, e alcune di
quelle attrici erano così fiacche! Wayworth rimase scettico: aveva veduto
Miss Violet Grey, specie di attrice itinerante, in una dozzina di teatri, ma
sempre con un unico volto. Nona Vincent aveva una dozzina di volti, ma
in un unico teatro; eppure con quanta febbrile curiosità il giovane si
ripromise di osservare l'attrice l'indomani!
Discuterne con Mrs Alsager sembrava adesso costituire il nocciolo della
prova. La prospettiva ormai prossima di venir rappresentato gli imponeva
di non formulare domande; voleva camminare in punta di piedi fino alla
sera della prima, ponendo come sola condizione che ci si attenesse al suo
testo. Anche se lo scenografo gli avesse fatto trovare una stamberga di
legno di rovere, gli pareva che non avrebbe neppur sollevato un
sopracciglio in segno di disapprovazione.
L'indomani cominciò a capire che non sarebbe stato questo il pericolo
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cui sarebbe andato incontro, eppure non riusciva ad individuare quale
fosse. Pericoli ce n'erano, indubbiamente; nel mondo dell'arte i pericoli
esistevano ovunque, e ancor più ve n'erano nel mondo degli affari; ma ciò
che gli pareva di avvertire veramente era il battito d'ali della vittoria. Nulla
poteva insidiare quest'impressione, poiché la vittoria stava già nel fatto di
andare in scena. Sarebbe stata vittoria anche se il dramma fosse stato mal
rappresentato - riflessione che non gli impedì, tuttavia, nella sua politica
votata all'ottimismo, di bandire dal proprio vocabolario la parola «male».
Nei compromessi d'uso era un termine che non veniva mai applicato, e
neppure si poteva dir male della sua commedia, adesso che sentiva di
essersela lasciata alle spalle: prevedeva nelle settimane a venire di venir
esposto per causa sua a un alternarsi continuo di allarmi e certezze.
Quando scese nel teatro, debolmente illuminato dalla luce del giorno (gli
sembrò di entrare sotto l'arco del tempio della fama), Mr Loder, ch'era
davvero simpatico come gli aveva annunciato Mrs Alsager, gli apparve
come il buon nume dell'ospitalità. L'impresario cominciò a spiegargli
come mai non si fosse fatto vivo per tanto tempo; ma ormai questa era
l'ultima cosa che gli interessava, né seppe ricordare più tardi i vari motivi
enumerati da Mr Loder. Gli piacque tutto quanto fu oggetto di discussione
per l'allestimento, anche ciò che aveva pensato gli sarebbe probabilmente
dispiaciuto, e si entusiasmò agli argomenti per i quali era ben disposto.
Quella sera osservò Miss Violet Grey con occhi che si sforzavano di
penetrarne le capacità. Alcune le possedeva per certo: doti di voce e di
espressione, forse addirittura doti intellettuali: ad ogni modo rimase fermo
al suo posto con attenzione incoraggiante e lusinghiera, senza cessare di
ripetersi nel modo più convincente possibile che non era un'attrice
qualunque, fatto tanto più meritorio in quanto la parte ch'essa interpretava
gli appariva disperatamente banale. Intuì, appunto, che questa era la
ragione per cui il pubblico appariva soddisfatto: apprezzava più il ruolo
che l'attrice. Lo colse un intimo timor panico: se era quello lo stile che
piaceva al pubblico, come poteva sperare che si apprezzasse il suo stile? Il
suo stile, la sua forma, erano diventati ormai un'idea fissa. Allorché la
serata ebbe fine, alcuni tratti di Miss Violet Grey - certo suo volger del
capo, certe vibrazioni della voce - rientravano nella stessa categoria. Sì, era
interessante, era raffinata, e lui, comunque, l'aveva accettata: il che
equivaleva a dire la stessa cosa. Quella sera, però, lasciò il teatro senza
averle rivolto la parola, spinto da un insolito impulso a rimandare, fatto
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che non mancò di sconcertarlo un poco.
L'indomani doveva leggere i suoi tre atti alla compagnia e non gli
sarebbe mancata occasione di dire molte cose; per il momento provava una
specie di riluttanza a prendere iniziativa. Inoltre era leggermente infastidito
dal fatto che, sebbene per tutta la sera si fosse sforzato di vedere Nona
Vincent nella persona di Violet Grey, i suoi occhi avevano serbato
semplicemente l'immagine di Violet Grey nella persona di Nona. Non
gradiva vedere l'attrice così da vicino, così direttamente, e lo sforzo di
mettere a fuoco Nona sia come sua interprete, sia come l'attrice del
«Legitimate» gli era costato molta fatica. Quella sera, prima di andare a
letto, impostò tre righe dirette a Mrs Alsager: «Non è affatto quella che
dovrebbe essere; spero in ogni modo di riuscire a cavarne qualcosa».
Fu molto soddisfatto il giorno appresso del modo in cui l'attrice stette ad
ascoltare la lettura; in verità di molte cose fu soddisfatto in quell'occasione,
specialmente della lettura stessa. Tutto assumeva ai suoi occhi dimensioni
grandiose, ingigantite dai suoi progetti. Godeva di disporre di quell'ampio,
vuoto teatro dalle tinte smorzate, pieno degli echi delle «scene ad effetto»
e di un particolare effluvio di gas e di successo mescolati: era come una
tela vergine pronta per il quadro. Per la prima volta in vita sua aveva dei
mezzi a disposizione: l'espressione gli era nota, ma non aveva mai creduto
di poterne conoscere il vero significato. Ciò che Loder sembrava pronto a
fare lo sorprendeva, ma badava a non lasciarlo trasparire. Nella
realizzazione artistica di una commedia prevedeva due elementi
concomitanti: uno costituito da una grande angoscia, l'altro da un
divertimento illimitato.
Ebbe a rievocare in seguito questa lettura come l'ora più felice di tutta la
vicenda: aveva capito in quel momento che la sua opera era degna di
essere rappresentata. Ciò che sarebbe venuto dopo era cosa che riguardava
gli altri; ma questa, con le sue imperfezioni e i suoi errori, era cosa sua.
Durante quell'ora, in ogni modo, il dramma aveva avuto una vita sua, una
vita di un'intensità destinata a perdersi nella povertà di prove
abborracciate; lo vedeva riflesso in una maniera che gli riusciva gradita:
nel silenzio degli attori, disposti in semicerchio, avvolti nei loro
impermeabili, calzati di stivali fangosi, ma attenti, impenetrabili.
L'ascoltatrice cui aveva più cose da dire era Violet Grey, ed egli si
sforzò di trasmetterle lo spirito della sua parte, lì sul posto, parlandole
attraverso il palcoscenico disadorno. Il suo atteggiamento era pieno di
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grazia, ma benché sembrasse tendere all'ascolto ogni facoltà il volto
rimaneva del tutto inespressivo; il che peraltro non disanimò Wayworth,
che anzi la apprezzò maggiormente per il suo riserbo. Gli altri attori
diedero segni evidenti di riconoscersi nelle varie battute della commedia,
eppure Wayworth, a lei, perdonò anche in quel caso ogni assenza di
espressione. Miss Grey, era chiaro, desiderava più di ogni altra cosa essere
ben sicura dell'argomento.
Ancor più che dalle rivelazioni dell'intenzionale grandiosità di Mr
Loder, Wayworth fu sorpreso dalla scoperta che alcuni interpreti non
gradivano la parte: che diavolo avrebbe potuto cavare da costoro, si
domandava col cuore stretto, se avessero mantenuto quell'atteggiamento di
ottusità? Fu questa la prima delle sue delusioni; chissà perché si era
aspettato che ciascuno, all'istante, si rendesse conto con gratitudine
dell'occasione rara che gli si presentava: dal momento in cui comprese di
aver fatto previsioni errate si senti come in alto mare o comunque
consapevole che altre disillusioni si sarebbero aggiunte. Capire ciò che
piacesse o non piacesse all'impresario era impossibile; non un giudizio,
non un commento gli sfuggiva di bocca: il suo consenso alla commedia e
le sue opinioni sul modo di allestirla sembravano averlo trasformato in una
creatura velata, ammantata di mistero. Wayworth avverti che da quel
momento si sarebbero mossi tutti in un'atmosfera più elevata, più rarefatta
che non quella dell'omaggio e della fiducia. Quando, dopo la lettura, si
intrattenne con Violet Grey, comprese che in realtà ella mancava di
finezza: quale miglior dimostrazione poteva offrirne se non quella di
astenersi dal prorompere all'istante in espressioni di giubilo per la grande
fortuna toccatale? Ma evidentemente questo riserbo non aveva nulla a che
vedere con la presunzione: Violet Grey voleva fargli sentire che una
persona del suo livello non si abbandona a facili entusiasmi. Comprese
poco dopo che era disorientata e persino un po' spaventata: segno che in
certo senso non aveva capito. Nulla lo attraeva più della possibilità che gli
si presentava di chiarire le difficoltà che essa incontrava, esaminate le
quali tuttavia venne a scoprire ben presto che, quel che aveva capito,
Violet Grey l'aveva capito male. Se era un po' rozza, quella era una ragione
di più per parlarle, e continuava a ripeterle: - Chieda, chieda a me: mi
chieda qualsiasi cosa le venga in mente.
Ed ella gli chiedeva, gli poneva domande senza tregua e alle prime
prove, così vuote di forma e di contenuto da sembrargli più la morte di un
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esperimento che l'alba di un successo, in un angolo del palcoscenico
dibatterono le questioni così a fondo che, alla fine, egli fu convinto della
sua indiscutibile serietà. Era sempre maggiormente persuaso che la
protagonista era la chiave di volta del suo arco, opinione che l'attrice era
prontissima a condividere. Ma quando fece presente alla giovane donna
che, in pratica, tutto dipendeva da lei, ella si allarmò e ne fu addirittura
scandalizzata: gli fece intendere che questo non era proprio il modo giusto
di costruire un dramma, accollando a una povera ragazza nervosa la
responsabilità di tenerlo in piedi o farlo crollare. Era coscienziosa a un
livello quasi patologico e in teoria, sotto questo aspetto, Wayworth
l'apprezzava, benché tre o quattro volte gli avesse fatto perdere la pazienza
con le cose che si sentiva o non si sentiva di fare. Quelle volte gli occhi di
Violet Grey si erano riempiti di lacrime, ma piangeva per la sua stupidità si era affrettata ad assicurargli - non per il tono con cui egli le parlava, che
anzi, date le circostanze, egli era sempre gentilissimo. La sua spontaneità
la rendeva bella ed egli si augurava con tutto il cuore (e si fece un dovere
di dirglielo) che un po' di quella bellezza potesse riflettersi su Nona. Una
volta però gli apparve così commossa e turbata che, per un istante, nel
vederla, anche gli occhi di lui s'inumidirono. Il caso volle che, girandosi in
quel momento, egli si trovasse faccia a faccia con Mr Loder. Il produttore
spalancò tanto d'occhi, gettò uno sguardo all'attrice che gli volgeva le
spalle poi, sorridendo a Wayworth, esclamò con lo spirito di uno che tutte
le sere ascolta le risate del loggione:
- Ma guarda guarda!
- Che c'è? - domandò Wayworth.
- Mi fa piacere vedere che Miss Grey si dà tanto da fare con lei!
- Ah, sì! Finirà per farmi diventar matto! - rispose gaio il giovane. Si
rendeva perfettamente conto che il suo interesse per Nona agli occhi altrui
non appariva superficiale ed era fermamente determinato ad ottenere che le
prove del dramma non sacrificassero a considerazioni esteriori neppure
un'ombra di accuratezza.
Mrs Alsager, dalla quale si recava spesso nel pomeriggio per una tazza
di tè, ringraziandola in anticipo per tutto ciò che gli offriva e raccontandole
come le prove - fatte a quel modo erano addirittura comiche - esaurissero
le sue energie, Mrs Alsager dunque, sempre più il suo buon genio e, come
lui non cessava di ripeterle, il suo angelo custode, approvava la sua
fermezza, incoraggiandolo a qualsiasi forma di devozione in onore
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dell'arte. Naturalmente, non aveva mai mostrato tanto interesse all'opera
sua come adesso, e di tutto voleva sentir parlare, a qualunque proposito.
Lo trattava come un eroe stanco, lo assediava con cibi e bevande
corroboranti, lo faceva sdraiare su cuscini e petali di rosa. Seduti davanti al
camino, chiacchieravano come non mai della vita nel mondo dell'arte; egli
le confidò, per esempio, tutte le sue esperienze e preoccupazioni a
proposito dell'interprete di Nona. La signora s'interessava immensamente a
questa giovane e lo dimostrava continuando a prenotare un palco dopo
l'altro (era già andata a vederla almeno una mezza dozzina di volte)
nell'intento di studiarne le capacità attraverso lo schermo del ruolo
affidatole in quel momento. E, come Allan Wayworth, la trovò
incoraggiante solo a tratti, poiché aveva delle parentesi di totale incapacità.
Era intelligente, ma esigeva a gran voce un'adeguata preparazione ed era
così totalmente priva d'esperienza che soltanto un decimo della sua
intelligenza si rifletteva sulla scena. Era come una lama spuntata: un buon
acciaio che non era mai stato affilato; ed ella vibrava fendenti nella dura
pagnotta dell'arte drammatica senza riuscire a tranciarne fette sottili.
II.
- Certo la mia prima attrice non riuscirà a far rassomigliare Nona a lei! osservò tristemente un giorno Wayworth a Mrs Alsager. C'erano giorni in
cui quella prospettiva gli sembrava orribile.
- Tanto meglio: non ce n'è nessun bisogno.
- Vorrei tanto che lei la istruisse un po': le sarebbe così facile! - prosegui
il giovane. Per tutta risposta Mrs Alsager lo pregò di non prenderla così
crudelmente in giro. Ma quella ragazza la incuriosiva, voleva essere
informata della sua indole, della sua vita privata, come viveva e dove:
insomma sembrava desiderosa di farsela amica. Della vita privata di Miss
Grey, Wayworth forse ne sapeva ben poco, ma, dopo tre settimane di
prove, dimostrò coi fatti di poter fornire informazioni su vari punti. Era
una personcina deliziosa, esemplare, di squisita educazione e cultura, di
gusti modernissimi, musicista eccellente. Era orfana e molto sola al
mondo: uniche sue parenti erano una sorella, sposata a un impiegato statale
- con un posto di alta responsabilità - in India, e una cara zietta all'antica
(una prozia, per vero dire) con la quale abitava a Notting Hill, autrice di
libri per bambini e, in tempi lontani, a quanto risultava, anche di una
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pantomima di Natale. Un ambiente d'artisti, insomma -non al livello di
quello di Mrs Alsager (se è lecito paragonare il minimo al massimo) - ma
estremamente raffinato e dignitoso. Wayworth si spinse addirittura ad
accennare al fatto che una visita di Mrs Alsager a Notting Hill sarebbe
stato un gesto veramente umano e simpatico: chissà come sarebbero state
liete di accoglierla! Così sovente la signora si era attenuta ai vaghi
suggerimenti del giovane, ch'egli aveva preso la buona abitudine di
considerarlo un suo diritto: elargire quei suggerimenti gli dava
un'impressione di saggezza, di responsabilità. Ma questa volta la proposta
parve cadere nel vuoto e Wayworth non insistette. Tuttavia Mrs Alsager
doveva essere tornata di nuovo al «Legitimate», come egli scopri il giorno
dopo, perché gli disse all'improvviso:
- Oh, farà bene, farà benissimo -. Durante quelle settimane, quando il
soggetto non veniva nominato, era sottinteso che parlavano di «lei», di
Violet Grey, sebbene per lo più fingessero di riferirsi a Nona Vincent.
- Eh, sì! - assenti Wayworth. - Ci tiene tanto!
Mrs Alsager per un momento tacque, poi domandò con una certa
incoerenza, come ridestandosi da un sogno ad occhi aperti: - Davvero ci
tiene tanto?
- Moltissimo: a quanto sembra è stata affascinata dal suo ruolo sin
dall'inizio.
- Allora, perché non l'ha detto?
- Oh, perché è così strana.
- Sì, è strana, - convenne Mrs Alsager pensosa; e soggiunse poco dopo: È innamorata di lei.
Wayworth sgranò gli occhi, arrossi violentemente, poi sbottò in una
risata.
- Che ci sarebbe di strano? - volle sapere; ma prima che la sua
interlocutrice potesse soddisfare la domanda, insistette a chiederle come
facesse a saperlo.
Dopo aver tentato con garbo di eludere il problema, gli spiegò che la
sera innanzi, al «Legitimate», Mrs Beaumont, la moglie del direttore
artistico, le aveva fatto una visitina nel palco e lì, fra una chiacchiera e
l'altra, Mrs Alsager aveva confessato di non aver mai messo piede nel
retroscena. Al che Mrs Beaumont s'era offerta di farle fare subito un giro e
a lei era saltato il ticchio di accettare. Sul momento la cosa l'aveva
divertita; e così era accaduto che la sua accompagnatrice - accogliendo la
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1970 - Racconti Di Fantasmi
sua richiesta - l'avesse presentata a Miss Violet Grey che, dietro le quinte,
aspettava di entrare in scena. Mrs Beaumont aveva dovuto assentarsi per
qualche minuto e in quel ritaglio di tempo, trovatasi faccia a faccia con
l'attrice, Mrs Alsager aveva scoperto il segreto della povera figliola.
Wayworth definì insensata quell'ipotesi, ma insistette per sapere che cosa
l'aveva condotta alla scoperta del mistero. Mrs Alsager definì quella
richiesta «superficiale», per uno che si vantava di ritrarre
il,comportamento femminile, ed egli non migliorò certo la situazione
osservando un po' a vanvera che anche un gatto può alzare lo sguardo su
un re e che certe cose è opportuno conoscerle. Ma a questo punto Mrs
Alsager lo mise in guardia: poteva darsi che la povera figliola non fosse un
argomento su cui scherzare. A sua volta Wayworth, asserendo di detestare
i discorsi Sulle passioni che egli sarebbe stato capace di suscitare, si
accontentò di rispondere che aveva voluto dire una sola cosa: la questione
non poteva far alcuna differenza per Mrs Alsager.
- Come diamine pretende di sapere ciò che fa e non fa differenza per
me? - replicò la signora, con freddezza inattesa e un'alterigia che, da parte
di quell'animo tanto delicato, destava stupore.
Quella sera, a teatro, Wayworth vide Violet Grey e fu lei che per prima
parlò di aver fatto la conoscenza di una sua amica.
- È innamorata di lei, - dichiarò l'attrice, dopo ch'egli ebbe finto di non
saperne nulla; - questo non le dice niente?
Wayworth arrossi ancor di più di quanto non l'aveva fatto arrossire Mrs
Alsager, ma rispose con sufficiente prontezza e molta disinvoltura che,
naturalmente, c'erano centinaia di donne che morivano d'amore per lui.
- Oh, ma a me non importa, dal momento che lei non ne è innamorato! prosegui la giovane.
- Le ha rivelato anche questo? - domandò Wayworth; ma in quel
momento ella dovette allontanarsi.
In piedi, in un angolo da cui riusciva a vederla, egli pensò che, quella
sera, l'attrice stava dedicando alla scena - la migliore del suo ruolo nella
commedia - un'arte più viva di quanta avesse mai mostrato, un talento
capace di far fronte a qualsiasi difficoltà. Improvvisava continuamente
battute fuori copione (già tre ne aveva suggerite nel testo del suo
compagno di scena) e altrettante volte Wayworth s'era augurato con tutta
l'anima che anche Nona Vincent potesse godere di quel beneficio. Ma
sembrava che Miss Grey fosse in grado di improvvisar battute per
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
chiunque altro salvo che per lui -voglio dire, per Nona.
In quei giorni era consapevole di provare uno strano sentimento nuovo,
che si mescolava (e ciò appunto ne costituiva il lato curioso) a un altro
molto spontaneo e relativamente vecchio: nel complesso, volendone
definire la natura, si sarebbe potuto parlare di un dolore sordo, di un
rammarico che la cattiva stella di quella fanciulla l'avesse spinta sul
palcoscenico. Al colmo del disagio, si augurò che, invece di proseguire, lei
rinunciasse, e tuttavia si riebbe da quel disagio rievocando i motivi che
l'avevano indotto a sperare che Nona sarebbe stato, grazie a lei, un vero
successo. C'erano dei momenti strani, penosi, in cui - come interprete di
quel personaggio - quasi la odiava; poi si rassicurava: aveva esagerato e
ciò che, quando era nervoso, faceva apparire così grande la sua avversione,
era semplicemente il contrasto con l'impressione crescente dell'esistenza di
altri motivi - completamente diversi - per cui Miss Grey gli piaceva. Gli
piaceva perché era una creatura affascinante, per la sua franchezza, la sua
malizia, per la mutevolezza e le sorprese che riservava la sua indole e per
certi felici aspetti della sua persona. Lontana dal palcoscenico, gli pareva
che avesse due occhi tristi, una voce irreale. Non tollerava il pensiero di
vederla delusa e umiliata e desiderava unicamente salvarla, proteggendola
e portandola via di lì. Un mezzo per salvarla era quello di fare in modo
che, mettendo in opera tutta la propria abilità, la rappresentazione della sua
commedia ottenesse un trionfo; l'altro mezzo - era davvero troppo buffo
per esprimerlo - era l'augurarsi quasi il contrario. Allora ci sarebbe stata
serenità e pace per il futuro e non la pace della morte: la pace di una vita
diversa. Va aggiunto che il nostro giovanotto si aggrappava alla prima di
queste due alternative con la stessa intensità con cui era perfidamente
attratto dalla seconda. Era nervosissimo, di un nervosismo che andava
crescendo in modo intollerabile; ma unico rimedio immediato era
continuare a provare e riprovare, a perfezionare con Violet Grey il suo
ruolo. Alcuni degli attori si lamentavano ch'egli riservasse solo a lei quel
comportamento come se lei fosse tutta l'opera; al che egli replicava che
loro si potevano permettere di venir trascurati: erano tutti così
eccezionalmente bravi! Miss Grey era la sola a non essere adulata.
Autore e attrice si appassionarono tanto al loro lavoro che a lei rimase
pochissimo tempo per parlargli ancora di Mrs Alsager, della quale in realtà
la sua mente sembrava essersi sufficientemente sbarazzata. Una volta
Wayworth le fece osservare che intorno si diceva che Nona Vincent
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1970 - Racconti Di Fantasmi
assomigliasse parecchio alla sua gentile amica, ma lei gli rispose con un
«Chi lo dice?» così vuoto d'espressione, ch'egli si guardò bene dal tornare
sull'argomento. Con la consueta confidenza, confessò il suo nervosismo a
Mrs Alsager, ed ella capì subito che quelle ansie erano strettamente
collegate e varianti d'intensità di ora in ora; qualunque sollievo ella gli
avesse arrecato, era annullato dal fatto che quell'ansia era di natura tanto
molteplice. Un pomeriggio, quando la prima era ormai imminente,
Wayworth disse all'amica di non aver chiuso occhio tutta la notte ed essa,
porgendogli la consueta tazza di tè, gli rispose:
- Capisco; lei deve attraversare veramente un brutto momento: l'ansia
per un'altra persona è peggio dell'ansia per noi stessi!
- Un'altra persona? - ripetè Wayworth, levando lo sguardo al di sopra
della tazza.
- Povero amico mio, lei è nervoso per Nona Vincent, ma lo è
infinitamente di più per Violet Grey.
- Ma è lei Nona Vincent!
- No che non lo è: nemmeno un po'! - ribatté brusca Mrs Alsager.
- Ne è davvero convinta? - esclamò Wayworth, versando il tè fuori dalla
tazza per l'agitazione.
- Non ha importanza ciò di cui sono convinta io, in questo caso. Quello
che volevo dire è che, per quanto grande sia la sua ansia per la commedia,
lo è ancor di più quella per la sua prima attrice.
- Posso solo ripeterle che la mia prima attrice è la mia opera. Mrs
Alsager scrutò pensierosa nella teiera.
- La sua attrice è la sua...
- La mia che? - domandò il giovane con un certo tremito nella voce
quando la sua ospite s'interruppe.
- La prediletta del suo cuore. Ora come ora lei ne è innamorato -. E con
un colpetto secco Mrs Alsager lasciò ricadere il coperchio sopra la teiera
profumata.
- Non ancora, non ancora! - commentò il suo visitatore con una risata.
- Lo sarà, se Miss Grey riesce a procurarle il successo.
- Ma lei stessa asserisce che non ci riuscirà!
Mrs Alsager tacque un istante e poi disse come in un bisbiglio: Pregherò per lei.
- Lei è la più generosa delle donne! - esclamò Wayworth, poi arrossi
come se avesse usato un'espressione poco felice. E, in verità, quelle parole
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1970 - Racconti Di Fantasmi
non avrebbero fatto onore a un uomo di tatto.
Il mattino dopo ricevette da Mrs Alsager quattro righe scritte in tutta
fretta. Era stata improvvisamente chiamata a Torquay per far visita a un
parente molto ammalato: vi si sarebbe trattenuta parecchi giorni, ma
sperava vivamente di tornare in tempo per la prima di Nona Vincent. Gli
faceva in ogni caso i suoi più fervidi auguri. Wayworth senti moltissimo la
sua mancanza perché quegli ultimi giorni furono di una tensione estrema; e
poco conforto gli veniva da Violet Grey ancor più nervosa di lui e così
pallida e alterata da fargli temere che stesse troppo male per andare in
scena. Convennero tra loro che, stando insieme, altro non facevano che
peggiorare la situazione reciproca e che lui avrebbe fatto assai meglio a
lasciarla sola. Del resto, avevano sminuzzato Nona in modo tale che
sembrava non esserne rimasto più nulla: le lasciasse almeno il tempo di
immedesimarsi di nuovo nel personaggio. Wayworth fece del suo meglio
per lasciarla in pace, ma Violet Grey, dal canto suo, non si attenne ai patti
con altrettanto scrupolo. Tornò da lui con nuovi problemi, sperò che le
risolvesse certi vecchi dubbi; alla vigilia della prima, mezz'ora avanti
l'ultima prova in costume, gli sottopose un'interpretazione della sua eroina
del tutto nuova. Questo fatto gli causò un tale senso d'insicurezza che le
voltò le spalle senza proferire parola, si precipitò fuori dal teatro, percorse
di volo lo Strand e raggiunse a piedi la Bank. Poi saltò su una carrozza e
tornò verso i quartieri occidentali della città; quando raggiunse il teatro la
prova era quasi finita. Pareva che non fosse andata tanto male, ed egli
provò quasi del disappunto per non potersi consolare col vecchio adagio
nel mondo del teatro: le peggiori prove generali fanno le migliori prime.
L'indomani, mercoledì, era il giorno fatidico; il teatro era rimasto chiuso
lunedi e martedì. Mercoledì ciascuno fece il possibile per lasciare in pace
gli altri e tutti fallirono manifestamente nell'intento. Era inteso che, fino
alle sette, la giornata dovesse venir consacrata al riposo ma, ad eccezione
di Violet Grey, a teatro si fecero vedere tutti. Wayworth guardava Mr
Loder e Mr Loder guardava da un'altra parte: a tanto si riduceva il loro
dialogo. Wayworth stava sulle spine, incapace di mangiare un boccone o
di dormire o di star seduto tranquillo, a volte sembrava in preda al panico.
Come al solito riuscì a mantenersi calmo camminando: tentava in tal modo
di rimuovere il suo nervosismo. Nel pomeriggio si avviò a piedi verso
Notting Hill e fu capace di mantenere il proposito di non prendere contatto
con l'attrice. Essa gli appariva come un'acrobata in piedi su una palla
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1970 - Racconti Di Fantasmi
scivolosa: se l'avesse sfiorata le avrebbe fatto fare un capitombolo. Tre
volte passò davanti alla porta di casa sua e trecento volte pensò a lei. Fu
questo il momento in cui si rammaricò che Mrs Alsager non fosse tornata:
era infatti passato da casa sua solo per apprendere che la signora era ancora
a Torquay. Gli sembrava strano, e ancor più strano giudicava che non gli
avesse scritto; ma anche di questo non era sicuro poiché, avendo perduto come ormai aveva completamente perduto - un'opinione sulla sua
commedia, gli pareva di aver perduto un'opinione su qualsiasi cosa.
Quando rientrò, tuttavia, trovò un telegramma della signora di Grosvenor
Place: «Reso possibile mio ritorno raggiungerò Londra ore sette».
Alle otto e mezzo, attraverso uno spiraglio nel sipario del
«Renaissance», la scorse in un palco con un gruppo di amici,
assolutamente splendida e benigna.
Il teatro era magnifico: troppo bello, gli parve troppo bello per la sua
commedia, troppo bello per qualunque opera drammatica. Tutto adesso gli
sembrava troppo bello: lo scenario, gli arredi, i costumi, persino i
programmi. Gli venne in mente che questo forse era il punto debole
dell'interprete di Nona: era addirittura troppo brava.
Con la giovane donna aveva convenuto fin nei particolari quali
dovessero essere i loro rapporti durante la serata e, sebbene ogni altro
accordo fosse stato poi modificato, questo si promisero a vicenda di non
modificarlo. Incredibile quante cose non si promisero! Lui le avrebbe dato
l'imbeccata accompagnandola fino al palcoscenico: poi, lasciato il teatro,
sarebbe rimasto fuori fin quasi alla fine. Lei lo supplicò di starle lontano si sarebbe sentita tanto più disinvolta. Wayworth notò che nel costume
aveva apportato un paio di cambiamenti in meglio rispetto alla sera
precedente; questo gli parve un valido argomento su cui rimuginare,
mentre la carrozza lo portava, mezzo intorpidito, verso casa. Abitava a un
paio di miglia di distanza, ma appena uscito dal teatro, appena resosi conto
che s'era levato il sipario, aveva scelto il rifugio di quel lento veicolo
apposta per far passare il tempo.
A casa il fuoco era spento, la camera gelida: si sdraiò sul divano senza
togliersi il cappotto. Aveva mandato di proposito la sua affittacamere in
prima galleria: l'avrebbe altrimenti sommerso di discorsi pieni di
sgrammaticature. L'alloggio gli sembrò un antro vuoto come antri vuoti gli
erano parse dianzi le strade: erano accorsi tutti -spaventoso! - al suo
spettacolo. Finalmente ritrovò un po' di pace; più di quanta ne avesse
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1970 - Racconti Di Fantasmi
goduta da quindici giorni: si senti troppo debole anche soltanto per
chiedersi come sarebbe andato lo spettacolo. Credette in seguito di aver
dormito un'ora; ma ammesso che così fosse, intuì che era ancor troppo
presto per tornare a teatro. Si sedette vicino alla lampada e tentò di leggere
un breve compendio della vita di un grande statista inglese, in un
volumetto che faceva parte di una collana: gli parve un lavoro brillante,
ben fatto, e si chiese se non fosse quella la scelta cui avrebbe dovuto
attenersi: non la carriera dell'uomo politico, ma l'arte delle biografie brevi.
Si rese conto all'improvviso che doveva affrettarsi se voleva ancora
arrivare in tempo al teatro: erano le undici meno un quarto. Si buttò fuori
di casa e, questa volta, prese un calessino leggero - negli ultimi tempi
aveva speso tanti quattrini in carrozze di piazza da accrescere in lui la
speranza che i profitti della nuova produzione sarebbero stati cospicui. Fu
di nuovo preso dall'ansia, da un senso di attesa frenetica e, mentre il
calessino lo portava - questa volta velocemente - verso il «Renaissance»,
l'alternarsi di stati d'animo diversi lo fece quasi star male. Appena varcata
la soglia del teatro, la prima persona che gli si fece incontro - un qualche
inserviente - gli gridò con quanto fiato aveva: «La cercano, signore, la
cercano!» Quel grido gli sembrò quanto mai sinistro; fissò l'uomo con
occhi sbarrati, in attesa che si tradisse: voleva fargli sapere che lo
ricercavano per condannarlo a morte? Qualcun altro lo spinse, lo cacciò
avanti: eccolo già sul retroscena. Divenne conscio allora di un suono più o
meno continuato, ma che a lui sembrò debole e lontano e che sulle prime
scambiò per le voci degli attori, filtrate attraverso le pareti di tela della
bella sala allestita per l'ultimo atto. Ma gli attori erano lì, fra le quinte, e lo
circondarono; il sipario era calato ed essi se ne ritraevano dopo essersi
mostrati alla ribalta. Avevano avuto la chiamata - e anche lui era chiamato
- tutti lo stavano acclamando con grida di «Fuori! Fuori l'autore!»
Wayworth era terrorizzato, non aveva la forza di uscire: non credeva nella
sincerità di quell'applauso che giungeva al suo orecchio così attutito da
sembrare tiepido.
- E andata? E proprio andata? - chiese con voce rotta a chi gli stava
intorno; e senti che gli rispondevano «Eccome, eccome!» meccanicamente,
in tono che gli parve menzognero, accompagnato addirittura da risatine
beffarde, il ghigno della sconfitta e della disperazione. Sebbene tutto ciò
non durasse che pochi istanti, d'un tratto, sbucato da chissà dove, gli
piombò addosso Loder:
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1970 - Racconti Di Fantasmi
- Per amore del cielo, non li faccia aspettare, se non vuole che smettano!
- Ma non posso farmi vedere solo per questo! - esclamò Wayworth
angosciato: gli pareva che quel rumore fosse già cessato del tutto. Loder lo
sospinse afferrandolo per un braccio; egli oppose resistenza e volse uno
sguardo frenetico in cerca di Violet Grey, che forse gli avrebbe detto la
verità. Adesso, dietro quella quinta, si era formato un capannello di gente
dal volto truccato, atteggiato a smorfie grottesche; ma Violet non c'era, ed
era proprio la sua assenza a spaventarlo.
Ne pronunciò il nome in un tono di cui più tardi si penti perché, pensò, li
tradiva tutti e due; e mentre Loder lo spingeva verso il sipario, udì
qualcuno che diceva: - Dopo la prima chiamata è scomparsa. «Una
chiamata l'ha avuta, allora» questo fu il pensiero costante del giovane, ritto
per un momento nel bagliore accecante delle luci della ribalta a fissare
senza vederlo il grande ferro di cavallo popolato da una folla indistinta.
Ora gli applausi con cui venne salutato gli parvero troppo fragorosi per i
suoi meriti e troppo deboli per i suoi desideri, ma cessarono presto; ebbe la
sensazione che passasse parecchio tempo prima di riuscire a sua volta ad
afferrare l'impresario per un braccio e gridargli con voce ormai rauca: - Ma
allora è andata, è andata davvero?
Mr Loder gli rivolse un'occhiata dura e un attimo dopo rispose: _ La
commedia in sé è ottima!
Wayworth pendeva dalle sue labbra. - E allora, che cos'è che non va?
- Dobbiamo fare qualche cosa per Miss Grey.
- Che le è successo?
- Non vive la sua parte!
- Intende dire, che non ce l'ha fatta?
- No, accidenti: non ce l'ha fatta.
Wayworth sgranò gli occhi. - Allora, come fa a dire che la commedia è
ottima?
- Oh, la salveremo, la salveremo.
- Ma dov'è Miss Grey? Dove diavolo si è cacciata? - chiese il giovane.
Loder gli afferrò il braccio mentre l'altro stava voltandosi ancora in
cerca della protagonista. - Non si preoccupi di lei adesso: lo sa!
Wayworth venne avvicinato nello stesso momento da un signore che
conosceva come un amico di Mrs Alsager: l'aveva notato nel palco della
signora. Era là appunto che Mrs Alsager attendeva l'autore di quel dramma
di successo; desiderava vivamente che la raggiungesse per conferire con
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lei. Wayworth volle prima rassicurarsi che Violet avesse davvero lasciato
il teatro, e una delle attrici lo informò con certezza che l'aveva vista
gettarsi addosso un mantello senza cambiarsi d'abito; poco dopo apprese
che si era subito infilata, insieme alla zia, in una carrozza. Wayworth si era
ripromesso d'invitare a cena in casa sua mezza dozzina di persone fra cui
Miss Grey e la sua anziana parente; ma lei si era rifiutata in anticipo di
prendere qualsiasi impegno (sarebbe stato tremendo mantenerlo se avesse
fatto fiasco) e il suo comportamento aveva mandato a monte l'allettante
programma. Lui l'aveva accusata di eccessivo puntiglio, ma lei era stata
irremovibile. Il messaggero inviato da Mrs Alsager gli fece sapere che era
atteso per cena a Grosvenor Place e, mezz'ora dopo era seduto a quella
tavola, fra gente che si complimentava con lui, tra fiori e tappi che
saltavano, e gustava il primo pasto regolare dopo una settimana. Mrs
Alsager l'aveva accolto nella sua vettura, gli altri erano arrivati con mezzi
propri. Non appena la sua ospite ebbe cominciato a parlargli della
straordinaria impressione che la sua commedia aveva fatto su ciascuno di
loro, egli la interruppe brusco, inchiodandola sul problema di Violet Grey.
Aveva rovinato il dramma, l'aveva falsato, maltrattato - era stata un
disastro - o in qualche modo aveva dimostrato una certa bravura?
- Senza dubbio la rappresentazione sarebbe risultata migliore se migliore
fosse stata lei, - ammise Mrs Alsager.
- E anche il testo avrebbe figurato meglio, se migliore fosse stata la
recitazione, - concluse cupamente Wayworth dall'angolo della vettura.
- Fa quello che può: ha dimostrato talento, molta grazia. Ma non riesce a
vedere Nona Vincent. Non capisce il tipo, non ne coglie l'identità... non
vede la donna che aveva in mente lei scrivendo. Ne resta al di fuori, non la
impersona.
- Oh, la donna che avevo in mente io...! - esclamò il giovane guardando i
lampioni di Londra che gli sfilavano accanto. - Se soltanto avesse
conosciuto lei! - soggiunse, mentre la carrozza si fermava e, oltrepassata la
soglia di casa, concluse, rivolto alla sua amica: - Vede bene che non mi
consentirà mai di affermarmi.
- La perdoni, sia buono con lei! - intercedette Mrs Alsager.
- La ringrazierò e basta. La commedia può andare al diavolo.
- Se ci andasse... se davvero ci andasse... - iniziò Mrs Alsager col suo
puro sguardo posato su di lui.
- Ebbene, se andasse?
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Ella non potè rispondere perché gli altri invitati irruppero tutti insieme
nella sala, ma ebbe appena il tempo di dirgli: - Non deve andare al diavolo!
Wayworth si ritirò prima degli altri, in preda ad un desiderio
incontrollato di recarsi a Notting Hill quella sera stessa benché fosse già
tanto tardi; era ossessionato dal pensiero che Violet Grey avesse ormai
misurato il suo insuccesso. Ma, quando raggiunse la strada, si lasciò
guidare da un ripensamento; il destarla alle due di notte bussando alla
porta difficilmente l'avrebbe calmata.
Nei sei giornali che sfogliò al mattino non trovò un solo elogio per lei. I
critici si mostravano assai favorevoli al dramma, ma erano unanimi nel
dichiararsi delusi dalla giovane attrice che pure, nelle precedenti prove,
aveva lasciato bene sperare e che, in questa occasione, portava il peso di
gravi responsabilità. Si chiedevano in coro che cosa le fosse accaduto e
altrettanto in coro dichiaravano che l'opera, su cui si potevano formulare
buoni auspici, perdeva valore (usavano tutti lo stesso termine) a causa
della discrepanza tra personaggio e interprete. Wayworth si recò di
buon'ora a Notting Hill, ma non portò i giornali con sé; c'era da
scommettere che Violet Grey li avesse mandati a comprare alle prime luci
dell'alba alimentando così abbondantemente il suo tormento.
Rifiutò di vederlo: mandò soltanto da basso la zia a dire che si sentiva
molto poco bene e non sarebbe stata in grado di recitare la sera se non la si
fosse lasciata tranquilla a letto per tutta la giornata Wayworth s'intrattenne
un'ora con la vecchia signora: una persona che capiva tutto e alla quale
poteva parlare con franchezza. Gli fece un quadro commovente delle
condizioni della nipote, un quadro reso tanto più vivo dalla semplicità
delle parole con cui venne tracciato. - Sente che non è a posto, capisce?
Sente che non va.
- Le dica che non importa... che non importa niente! - disse Wayworth.
- E lei ha tanto orgoglio, lo sa! - esclamò l'anziana signora.
- Le dica che io sono più che soddisfatto, che l'accetto con gratitudine
così com'è.
- Dice che fa del danno alla sua commedia, che la rovina, - rincarò
l'interlocutrice.
- Migliorerà, migliorerà moltissimo; riuscirà a entrare nel personaggio, replicò il giovane.
- Migliorerebbe se sapesse come fare... ma lei dice di non saperlo. Lei ha
dato tutto quello che può, ma non capisce cosa si pretende da lei.
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- Ciò che le chiedo è semplicemente di continuare così, e avere fiducia
in me.
- Come può avere fiducia in lei quando sa che sta per perderla?
- Perdermi? - esclamò Wayworth.
- Lei non la perdonerebbe mai se dovessero togliere dal cartellone la sua
commedia.
- Terrà il cartellone sei mesi, - affermò l'autore dell'opera. La vecchia
signora gli posò una mano sul braccio. - Che cosa farebbe per mia nipote
se così fosse?
Egli fissò un istante la zia di Violet Grey. - Ha detto che ha molto
orgoglio, non è vero?
- Troppo per questa professione tremenda.
- Allora non gradirebbe che lei mi facesse questa domanda, -rispose
Wayworth alzandosi.
Rincasando, si senti molto stanco e, per uno cui era consentito pensare di
aver mietuto un successo, la giornata trascorsa era stata notevolmente tetra.
L'irrequietezza era scomparsa e ora si sentiva in preda alla sfinimento, alla
depressione. Si abbandonò nella sua vecchia poltrona accanto al fuoco e vi
rimase per ore ad occhi chiusi. Entrò la padrona di casa a portargli la
colazione, ma lui finse di dormire per evitare che gli rivolgesse la parola.
C'è da credere che fosse finalmente colto dal sonno, perché verso l'ora in
cui cominciava a calare la sera, ebbe la sensazione straordinaria di ricevere
una visita, un'impressione che non poteva accordarsi con una coscienza
vigile. Nona Vincent, in carne ed ossa, la protagonista viva della sua
commedia, si levò davanti a lui nella stanza silenziosa e gli si sedette
vicino presso il tenue focherello. Non era Violet Grey, non era Mrs
Alsager, non era nessuna donna che mai avesse incontrato sulla terra, né il
simulacro di qualcuno venuto ad offrirgli amicizia o pentimento. Eppure,
indicibilmente bella e consolatrice, gli riusciva più famigliare di qualunque
altra donna conosciuta da vicino. Riempiva della sua presenza la povera
stanza, soave come un effluvio d'incenso. Era tranquilla e affettuosa come
una sorella, né la sua presenza destava in lui stupore. Non gli era mai
accaduto nulla di più reale, nulla, in certo senso, di più rassicurante. Senti
la mano di lei posarsi sulla sua: tutti i suoi sensi sembravano tesi a ricevere
un messaggio. Ebbe la curiosissima impressione di trovarsi di fronte alla
sua creatura e, al tempo stesso, alla sua ispiratrice che gli offriva la più
felice consapevolezza di successo. Se nella luce rosata riflessa dal camino,
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gli appariva tanto affascinante nelle vesti di un chiaro colore indefinibile,
era perché lui l'aveva creata così, e d'altro canto, se si sentiva sollevato dal
peso che gli gravava sul cuore, era perché lei lo aveva liberato. Quando
chinò su di lui i suoi grandi occhi profondi, essi sembravano esprimere
certezza e libertà, prospettandogli il futuro come un verde giardino.
Sorrideva di tanto in tanto, dicendogli: «Sono viva, viva, viva!» Non
avrebbe saputo dire quanto tempo fosse rimasta con lui; ma quando la
padrona di casa incespicando entrò nella stanza per portargli il lume, Nona
Vincent non c'era più. Wayworth si stropicciò gli occhi; mai aveva fatto un
sogno così vivo e intenso. E mentre si alzava pigramente dalla poltrona,
provò una tacita profonda felicità - la felicità dell'artista - nel considerare
quanto aveva avuto ragione nel crearla così simile a lei stessa. Era venuta
per dimostrarglielo. Tuttavia, passati cinque minuti, si senti talmente
confuso che richiamò la padrona: voleva rivolgerle una domanda. Quando
la donna ricomparve, la domanda stentò a formularsi, per venire infine
articolata così:
- È venuta qui una signora?
- Nossignore, nessuna signora.
La donna pareva leggermente scandalizzata.
- Non è venuta Miss Vincent?
- Miss Vincent, signore?
- Sa, la signorina della mia commedia...
- Ah, il signore intende dire Miss Violet Grey!
- No, non voglio affatto dire lei. Volevo dire Mrs Alsager.
- Non c'è stata nessuna Mrs Alsager, signore.
- Né un'altra che le assomigli?
La donna lo guardò come chiedendosi che cosa gli fosse preso. Poi in
tono risentito, domandò: - Perché non dovrei dirglielo, se ci fossero state
visite per lei, signore?
- Forse avrà pensato che stessi dormendo.
- Infatti dormiva, signore, quando sono salita con la lampada... e l'aveva
ben meritato, Mr Wayworth!
Un'ora dopo la padrona tornò a portargli un telegramma: Wayworth
aveva appunto iniziato a vestirsi per andare a cena al suo club e passare poi
in teatro.
- Mi guardi bene stasera e non mi avvicini prima della fine.
Con queste parole Violet gli comunicava i suoi desideri per la sera. Egli
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obbedì alla lettera e la osservò dal fondo di un palco. Non aveva elementi
di confronto con la recitazione dell'attrice la sera precedente, ma ciò che
vide in quelle magiche ore lo riempi d'ammirazione, di gratitudine. Questa
volta ella era entrata nel suo ruolo; si era ripresa, si era immedesimata nel
personaggio; ogni gesto era felicemente appropriato. Fresco della recente
apparizione di Nona, era adesso in condizioni di poter giudicare e ogni
giudizio lo faceva esultare. Era travolto dalla commozione e inoltre
curiosissimo di sapere che cosa le fosse accaduto, per quale insondabile
mistero dell'arte ella fosse riuscita in così poche ore ad operare un
mutamento tanto radicale. Durante gli entr'actes non si mosse; sarebbe
andato a parlarle soltanto alla fine; ma prima che il dramma fosse a metà
l'impresario irruppe nel suo palco.
- È prodigioso quello che sta combinando, - esclamò Mr Loder, quasi
più sbalordito che compiaciuto. - Si è impegnata in un'interpretazione del
tutto nuova, un salto mortale nel vuoto, che Dio la benedica!
- È molto diversa? - chiese Wayworth, condividendo lo stupore
dell'altro.
- Diversa? Quanto Iperione da un satiro! È maledettamente brava,
ragazzo mio!
Maledettamente brava, - ripetè Wayworth, - e in chiave
completamente differente da quella delle prove!
- La terrò in cartellone sei mesi! - dichiarò l'impresario; e di nuovo si
precipitò nelle vicinanze dell'attrice, lasciando Wayworth con la precisa
sensazione di essersi ormai affermato. A Violet Grey il pubblico tributò un
enorme successo personale.
Quando, calato il sipario, egli si portò dietro le quinte, dovette aspettarla;
si fece vedere solo al momento in cui fu pronta per lasciare il teatro.
Comparve allora insieme alla zia, che si era trattenuta nel camerino con lei.
La giovane gli passò davanti con passo rapido, facendogli segno di non
parlare finché non fossero stati fuori dal teatro. Wayworth notò che era
eccitatissima, come trasportata al di sopra del suo normale livello artistico.
- Deve venire a cena con noi, - gli disse l'anziana signora, - è già tutto
preparato -. Avevano una carrozza con uno strapuntino aggiunto ed egli vi
salì con loro. Passò molto tempo prima che l'attrice si decidesse a parlare.
Si appoggiò all'indietro nel suo angolino, senza profferire parola ma
continuando a trarre brevi profondi sospiri, come un mare che si acqueti:
gli occhi scintillanti di trionfo rilucevano nel buio. Presa dalla soggezione Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
e forse da un senso di discrezione - la zia taceva, e Wayworth era
sufficientemente felice per poter aspettare. In verità dovette aspettare
finché non scesero a Notting Hill, dove la buona zia andò a vedere se tutto
fosse pronto per la cena.
- Sono stata più brava, sono stata più brava! - affermò Violet Grey,
deponendo il mantello nella piccola sala di soggiorno.
- È stata perfetta. Sarà così ogni sera, nevvero?
Gli sorrise: - Ogni sera? E difficile che succeda un miracolo al giorno!
- Che intende dire con miracolo?
- Ho avuto una rivelazione. Wayworth la guardò attonito. - A che ora?
- All'ora giusta, questo pomeriggio. Giusto in tempo per salvarmi... e
salvare lei.
- Verso le cinque? Intende dire che ha ricevuto una visita?
- È venuta a trovarmi. È rimasta due ore con me.
- Due ore? Nona Vincent?
- Mrs Alsager -. Il sorriso di Violet Grey si fece ancor più misterioso. - È
la stessa cosa.
- E come ha fatto Mrs Alsager a salvarla?
- Mi ha permesso di guardarla, di ascoltarla mentre mi parlava. Mi ha
consentito di conoscerla.
- E che cosa le ha detto?
- Cose buone, gentili, incoraggianti, intelligenti.
- Ah, che cara persona! - esclamò Wayworth.
- Dovrebbe volerle bene, lei le vuole bene. Era... era proprio la persona
di cui avevo bisogno, - soggiunse l'attrice.
- E cioè, le ha parlato di Nona?
- Mi ha detto che, a giudizio dell'autore, Nona doveva somigliare a lei
stessa. E infatti le assomiglia: è una donna squisita.
- È davvero squisita, - ripetè Wayworth. - Le ha suggerito come recitare?
- Oh, no: mi ha detto solo che, se guardarla poteva aiutarmi, lei ne era
felice. E io ho sentito che mi aiutava veramente. Non so che cosa sia
avvenuto... È stata seduta qui, nient'altro, mi ha tenuto la mano
sorridendomi... Aveva un tatto, una grazia, tanta bontà e bellezza che ha
quietato il mio nervosismo, ha illuminato la mia fantasia. Sembrava in
certo modo volermi far dono di tutto. Ho accettato il dono, oh sì, l'ho
accettato. L'ho tenuta davanti a me, ne ho assorbito ogni tratto, ogni gesto.
Per la prima volta, da quando ho studiato la parte, avevo davanti a me il
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
modello, dovevo semplicemente riprodurlo. Mi sono sentita tornare tutto il
coraggio e con esso tante altre sensazioni mai provate prima. Lei era
diversa: era deliziosa, gliel'ho detto: una rivelazione. Mi ha baciata
andando via e può ben immaginare se non ho ricambiato il bacio!
Sentivamo grande affetto l'una per l'altra, ma è a lei che vuol bene! concluse Violet Grey.
Mai in vita sua Wayworth si era sentito tanto eccitato e confuso al tempo
stesso. Disse che sarebbe andato l'indomani a trovare Mrs Alsager. E lo
fece, ma sulla porta del palazzo gli dissero che la signora era ritornata a
Torquay. Vi rimase tutto l'inverno e tutta la primavera, e quand'egli la vide
di nuovo, il suo dramma teneva il cartellone già da duecento sere e lui
aveva sposato Violet Grey.
I suoi lavori ottengono talvolta successo, ma sua moglie non vi recita, né
recita in altri. Alle rappresentazioni è quasi sempre presente Mrs Alsager.
Traduzione di Maria Luisa Castellani Agosti.
LA VITA PRIVATA
I.
Parlammo di Londra di fronte a un grande, irto ghiacciaio primigenio.
L'ora e il paesaggio creavano una di quelle impressioni che fanno un poco
ammenda, in Svizzera, per quanto di indegno è nel sistema moderno di
viaggiare: per le promiscuità e le volgarità, per la stazione e l'albergo, per
la pazienza collettiva e la fatica di strappare un briciolo d'attenzione, per la
tristezza di sentirsi ridotti a numeri. L'alta vallata era tinta del rosa della
montagna, l'aria vivificatrice fresca, come se il mondo fosse giovane. Le
nevi intatte avevano il lieve incarnato del pomeriggio, e il socievole
tintinnio del gregge non visto ci giungeva mescolato a un odore di tosatura
e di sole. L'albergo a balconate stava proprio sulla sella del passo più
incantevole di tutto l'Oberland, e da una settimana avevamo buona
compagnia e bel tempo. Trovavamo che questa era una grande fortuna,
perché una delle due cose sarebbe stata compenso sufficiente se l'altra
fosse stata cattiva.
Il bel tempo sarebbe stato certo sufficiente a compensarci di una
compagnia poco allettante; ma questa fatica non gli era imposta, perché,
per buona sorte, avevamo la fleur des pois: Lord e Lady Mellifont, Gare
Vawdrey la più grande, secondo molti, delle nostre glorie letterarie e
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1970 - Racconti Di Fantasmi
Bianche Adney, la più grande, secondo tutti, di quelle teatrali. Nomino
questi per primi perché erano proprio persone che a quel tempo tutta
Londra cercava di «avere». La gente si sforzava di «prenotarli» con sei
settimane di anticipo; pure, in quest'occasione, ci eravamo imbattuti in
loro, ci si era incontrati per caso, senza che nessuno avesse tirato i fili. Una
partita a carte ci aveva riuniti tutti alla fine di agosto, e riconoscemmo la
nostra fortuna rimanendo insieme, sotto la protezione del barometro.
Quando 1 giorni aurei fossero finiti - e ciò sarebbe stato molto presto saremmo scesi chi da una parte chi dall'altra del passo e scomparsi oltre le
creste delle montagne circostanti. Appartenevamo alla stessa comunità,
eravamo contraddistinti da segni di riconoscimento del medesimo alfabeto.
Ci vedevamo a Londra con irregolare frequenza; eravamo governati, più o
meno, dalle leggi e dalla lingua, dalle tradizioni e dai simboli di casta della
stessa gremita classe sociale. Credo che noi tutti, perfino le signore,
«facessimo» qualcosa, per quanto fingessimo il contrario quando se ne
parlava. A Londra, in verità non si parla di queste cose, ma qui ci
concedevamo l'innocente piacere di essere diversi. Ci voleva pure qualcosa
che contrassegnasse la differenza: altrimenti non avremmo avuto
l'impressione che quella era la nostra vacanza annuale. Sentivamo
comunque che le condizioni di vita erano più umane che a Londra, o, per
lo meno, che eravamo più umani noi. Eravamo espliciti su questo punto,
ne parlavamo apertamente: ne stavamo appunto parlando mentre
guardavamo il ghiacciaio tinto di rosa, quando qualcuno osservò la lunga
assenza di Lord Mellifont e della signora Adney. Eravamo seduti sulla
terrazza dell'albergo, dove c'erano panchine e piccoli tavoli, e quelli tra noi
che erano più inclini a mostrare con quale slancio fossimo tornati alla
natura, stavano prendendo, secondo lo strano uso tedesco, il caffè prima
del pasto.
L'osservazione circa l'assenza dei nostri due compagni non fu raccolta da
nessuno, nemmeno da Lady Mellifont, nemmeno dal piccolo Adney,
l'appassionato compositore; perché era stata fatta soltanto durante una
breve pausa del discorso di Clare Vawdrey (questa celebrità, sul
frontespizio dei libri, si chiamava semplicemente «Clarence»). Il tema del
suo discorso era appunto quella rivelazione del fatto che dopo tutto
eravamo umani. Domandò alla compagnia se, onestamente, ciascuno non
si fosse sentito tentato di dire a ciascun altro: «Non pensavo davvero che
foste così simpatico». Per parte mia, io avevo avuto l'idea che egli lo fosse,
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1970 - Racconti Di Fantasmi
e anche molto più che non desse a divedere, ma questa è una cosa troppo
complicata per discuterne ora; per di più è proprio il nocciolo della mia
narrazione. C'era un'intesa generale fra noi che quando Vawdrey parlava
noi si dovesse tacere, e non, per strano che possa sembrare, perché egli se
lo aspettasse. Non se lo aspettava affatto, anzi, perché era il più spontaneo,
il meno arido e professionale dei grandi parlatori. Quella che prevaleva tra
noi era piuttosto la religione del padrone e della padrona di casa: l'idea era
loro, ma quando invitavano a pranzo il grande romanziere erano sempre
desiderosi di procurarsi una cerchia d'ascoltatori. Nella circostanza di cui
sto parlando non c'era probabilmente nessuno tra i presenti che non avesse
pranzato con lui a Londra, e sentivamo la forza dell'abitudine. Aveva
pranzato perfino con me; e la sera di quel pranzo, come ora in questo
pomeriggio alpino, non avevo fatto nessuna fatica a tacere, assorto come
inveteratamente ero, nel problema che mi si presentava sempre così
imponente di fronte alla sua bella persona quadrata e massiccia.
Il problema era tanto più tormentoso in quanto sono certo che egli non
supponeva nemmeno lontanamente di proporlo; allo stesso modo che non
si era mai accorto come ogni giorno della sua vita, a pranzo, tutti lo
ascoltassero. Lo si definiva abitualmente, nei settimanali, «soggettivo e
introspettivo», ma se quelle parole volevano significare che era avido di
sentirsi rendere omaggio, non c'era in società uomo eminente che lo fosse
meno di lui. Non parlava mai di sé; ed era un lato del suo carattere, per
quanto straordinariamente degno di lui, del quale appariva chiaro che non
si rendeva nemmeno conto. Aveva le sue ore e le sue abitudini, il suo sarto
e il suo cappellaio, la sua igiene e il suo vino particolare, ma tutte queste
cose riunite non costituivano mai un atteggiamento. Rappresentavano
tuttavia il solo che adottasse, ed era facile, per lui, accennare al fatto che
eravamo «più cordiali» all'estero che in patria. Lui era esente da variazioni,
e neanche per ombra più o meno cordiale in un luogo di quel che fosse in
un altro. Differiva dagli altri, ma mai da se stesso - salvo che nel senso
straordinario sul quale farò luce - e mi dava l'impressione di non avere né
umori, né suscettibilità, né preferenze. Quanto all'influenza esercitata su di
lui dall'età, dalla condizione o dal sesso, lo si sarebbe detto sempre in
compagnia della stessa persona: si rivolgeva alle donne esattamente come
agli uomini, chiacchierava con tutti nel medesimo modo, mai parlando agli
intelligenti meglio che agli sciocchi. Mi dolevo tra me che qualsiasi
argomento valesse per lui - per quel che io potevo giudicare - quanto un
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1970 - Racconti Di Fantasmi
altro: ce n'erano tanti che mi erano così sgraditi! Non lo avevo mai visto
altro che ciarliero e festoso ed allegro, e non lo avevo mai sentito
affermare un paradosso, o indicare una sfumatura o giocare con un'idea.
Quella fantasia del nostro essere «umani» era, nella sua conversazione, un
volo veramente eccezionale. Le sue opinioni erano sane e di second'ordine,
ed era imbarazzante pensare quali potessero essere le sue impressioni. Gli
invidiavo la sua stupenda salute.
Vawdrey si era inoltrato col suo passo regolare e la sua coscienza
perfettamente tranquilla nel piano paese dell'aneddoto, nel quale le storie si
vedono in distanza come mulini a vento o indicazioni stradali; ma osservai
in breve che l'attenzione di Lady Mellifont s'era fatta vaga. Si dava il caso
che le sedessi vicino. Notai che i suoi occhi erravano un po' inquieti lungo
i pendii più bassi delle montagne. Finalmente, dopo aver guardato
l'orologio, mi domandò: - Sapete dove sono andati?
- Intendete dire la signora Adney e Lord Mellifont?
- Lord Mellifont e la signora Adney -. Le parole della nobildonna
parvero - senza dubbio involontariamente - correggermi, ma non pensai
che potesse essere un effetto della gelosia. Non le imputavo un sentimento
così volgare: in primo luogo perché veniva sempre immediatamente
spontaneo a chiunque - in qualsiasi circostanza - di nominare Lord
Mellifont per primo. Egli era primo -straordinariamente primo. Non dico
più grande o più saggio o più rinomato, ma essenzialmente in cima alla
lista e a capo della tavola. Era una posizione tutta particolare, e sua moglie
era naturalmente assuefatta a vederlo in quella luce. La mia frase era
suonata come se la signora Adney lo avesse preso; ma era impossibile che
egli venisse preso - non faceva che prendere. Nessuno, nell'ordine naturale
delle cose, poteva saperlo meglio di Lady Mellifont. Agli inizi avevo avuto
un po' paura di lei, trovandola, coi suoi rigidi silenzi, la prevalente
tendenza al nero e la cupezza di quasi tutto ciò che faceva parte della sua
persona, alquanto dura, perfino un po' tetra. Il suo pallore sembrava
lievemente grigio e i capelli neri, lucidi, avevano riflessi metallici, come i
fermagli e i nastri e i pettini che inveteratamente li adornavano. Era vestita
perpetuamente a lutto, e portava innumeri ornamenti di giaietto e onice,
mille catene tintinnanti e lustrini e conterie. La signora Adney la chiamava
Regina della Notte, e la definizione, se si supponeva la notte nebulosa, era
calzante. Nascondeva un segreto, e se, conoscendola meglio, non lo
scoprivate, toccavate per lo meno la certezza che era mite senza
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1970 - Racconti Di Fantasmi
affettazione, limitata, e, al tempo stesso, alquanto rassegnatamente
malinconica. La si sarebbe detta una donna la quale soffrisse di una
malattia scevra di dolore. Le dissi che avevo soltanto visto suo marito e la
sua compagna allontanarsi insieme giù per la valle un'ora prima, e aggiunsi
che il signor Adney sapeva forse qualcosa delle loro intenzioni.
Vincent Adney, il quale, per quanto cinquantenne, aveva l'aspetto di un
buon bambino al quale si fosse insegnato che i bambini in visita non
devono parlare, sosteneva con notevole semplicità e buon gusto la parte di
marito d'una grande attrice. Quando s'era detto tutto quello che c'era da
dire circa l'abilità con la quale sua moglie gli agevolava il compito, non si
poteva esimersi dall'ammirare l'affetto cieco col quale egli accettava tutto
il resto. È difficile, per un marito che non abbia nulla a che vedere col
palcoscenico, o per lo meno col teatro, comportarsi con buona grazia nei
confronti di una moglie che vi occupi una posizione cospicua; ma Adney
faceva più che superare l'imbarazzo - lo piegava, nel più strano dei modi, a
rendere interessante lui. Metteva la sua amata in musica; e ricordate quanto
genuina la sua musica sapesse essere - la sola musica inglese che io abbia
mai visto ammirata dagli stranieri. Sua moglie entrava sempre, in qualche
modo, nelle sue composizioni: erano una traduzione libera e felice
dell'impressione che ella produceva. Si ascoltava, e sembrava di vederla
passare ridendo, coi capelli sciolti e il passo d'una ninfa boschereccia,
attraverso la scena. Egli si era trovato a essere non altro che un modesto
violinista d'entr'acte nel teatro dove lei recitava, sempre in poltrona
durante la recita; ma lei ne aveva fatto un uomo raro e coraggioso e
incompreso. La loro superiorità era diventata una specie di
compartecipazione, e la loro felicità era parte della felicità dei loro amici.
Il solo cruccio di Adney era di non saper scrivere una commedia per sua
moglie, e s'immischiava nei fatti suoi unicamente per chiedere alle persone
più impossibili se se ne sentissero capaci.
Dopo aver guardato un momento verso di lui, Lady Mellifont osservò
che preferiva non fargli nessuna domanda. E soggiunse:
- Non vorrei far vedere che sono inquieta.
- Inquieta?
- Lo sono sempre quando mio marito si allontana a lungo.
- Pensate che gli sia successo qualcosa?
- Sì, sempre. Naturalmente ci sono abituata.
- Vi viene il pensiero che sia precipitato in un burrone, volete dire... cose
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1970 - Racconti Di Fantasmi
del genere?
- Non so esattamente che cosa temo: ho la sensazione generica che non
debba più ritornare.
Diceva tanto, e tanto taceva, che il solo modo di prendere la sua
idiosincrasia sembrava lo scherzoso.
- Per certo non vi abbandonerà! - risi.
Guardò un momento per terra. - Oh, in fondo sono tranquilla.
- Nulla potrà mai accadere a un uomo così compito, così infallibile, così
armato di tutto punto, - continuai con lo stesso tono.
- Oh, voi non sapete quanto armato egli sia! - rispose con un tremito così
strano nella voce che potei spiegarmelo soltanto attribuendolo alla sua
inquietudine. Quest'idea mi fu confermata qualche momento dopo dalla
mossa improvvisa di cambiar di posto senza palese motivo, non per tagliar
corto alla nostra conversazione, ma unicamente perché era agitata. Non mi
riusciva di leggere nei suoi sentimenti, per quanto fossi in breve sollevato
nel vedere la signora Adney venire verso di noi. Aveva in mano un gran
mazzo di fiori di campo, ma Lord Mellifont non era al suo fianco. Capii
subito, comunque, che non aveva nessuna catastrofe da annunciare; ma
sapevo che c'era una domanda alla quale Lady Mellifont avrebbe sentito
rispondere volentieri senza aver desiderio di farla, ed espressi subito,
rivolgendomi alla signora Adney, la speranza che Sua Grazia non fosse
rimasto in qualche crepaccio.
- Oh, no! Mi ha lasciata tre minuti fa. E entrato in casa -. Bianche Adney
fissò un momento gli occhi nei miei - era un genere di rapporto al quale, in
sé e per sé, nessun uomo poteva fare obiezione. In questa circostanza
l'interesse era ravvivato da quel che di particolare si dava il caso dicessero
gli occhi. Di solito dicevano soltanto: - Oh, sì, sono affascinante, lo so, ma
non dateci tanta importanza. Voglio soltanto una nuova parte da recitare,
questo voglio, questo! - Ora essi aggiungevano, vagamente, furtivamente e
naturalmente con dolcezza - perché essi facevano tutto con dolcezza: - Sì,
ma un incidente c'è stato. Ve lo dirò forse più tardi -. Si voltò verso Lady
Mellifont; e il passaggio a una disinvolta gaiezza dimostrò ancora una
volta quanto fosse padrona della sua arte. - L'ho riportato sano e salvo.
Abbiamo fatto una passeggiata deliziosa.
- Ne sono molto lieta, - disse Lady Mellifont col suo pallido sorriso; e,
alzandosi, continuò vagamente: - Sarà andato a vestirsi per il pranzo. Non
è quasi ora? - Si allontanò in direzione dell'albergo, prendendo congedo
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con la sua scioltezza semplificatrice, e noi tutti, sentendo nominare il
pranzo, guardammo l'orologio del vicino, come per sottrarci alla
responsabilità di quella scorrettezza. Il capo-cameriere, fondamentalmente
come tutti i suoi colleghi uomo di mondo, ci concedeva ore e luoghi
particolari, così che la sera, appartati sotto una lampada, formavamo un
piccolo circolo compatto e riconosciuto. Ma soltanto i Mellifont si
vestivano da sera, e si ammetteva da tutti che in loro la cosa era naturale:
lei esattamente allo stesso modo che in qualunque altra sera della sua
cerimoniosa esistenza - non era donna le cui abitudini potessero tener
conto di una cosa così mutevole come l'opportunità - e lui, d'altro canto,
con notevole adattamento e convenienza. Era quasi altrettanto uomo di
mondo che il capo-cameriere, e parlava quasi altrettante lingue; ma si
asteneva dal tentare di assortire vestiti da sera e panciotti bianchi,
studiando la situazione in un modo molto più sottile - con velluto nero e
velluto blu e velluto bruno per esempio, con delicate armonie di cravatte e
abili trasandatezze della camicia. Aveva un costume per ogni funzione e
una morale per ogni costume; e le sue funzioni e costumi e morali
facevano sempre parte dei diletti della vita - parte comunque della sua
bellezza e del suo fascino - per una cerchia immensa di spettatori. Per i
suoi amici intimi queste cose erano in verità più che un diletto; erano un
argomento, un sostegno sociale, e naturalmente, per di più, un perpetuo
tema di curiosità filosofica. Se sua moglie non fosse stata presente prima
del pranzo, ne avremmo probabilmente fatto oggetto di una conversazione
a bassa voce.
Clare Vawdrey era uno scrigno di aneddoti in proposito: conosceva Lord
Mellifont quasi dai suoi primi passi nel mondo. La caratteristica di quel
nobiluomo era che non ci poteva essere conversazione sul suo conto la
quale non prendesse istantaneamente la forma dell'aneddoto, e inoltre che
non ci poteva evidentemente essere aneddoto che non ridondasse a conti
fatti, a suo onore. In qualunque momento entrasse in una stanza, si poteva
dire con bella franchezza: - Naturalmente raccontavamo storie su di voi! Tenendo conto di quello che sono le coscienze a Londra, la coscienza
collettiva sarebbe in complesso stata tranquilla. Per di più sarebbe stato
impossibile immaginare che egli potesse prendere l'omaggio altro che
amabilmente, perché era sempre imperturbabile come l'attore che sa la sua
parte alla perfezione. Mai in vita sua aveva avuto bisogno del suggeritore aveva fatto le prove anche per i momenti d'imbarazzo. Personalmente,
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quando si parlava di lui, avevo sempre l'impressione che si parlasse di un
morto: la conversazione era contrassegnata da quella particolare
accumulazione di fatti significativi. La sua reputazione era una sorta di
obelisco dorato, come fosse stato sepolto lì sotto: la somma di leggende e
di reminiscenze di cui egli sarebbe un giorno stato oggetto si era
cristallizzata in anticipo.
L'ambiguità derivava, suppongo, dalla circostanza che il solo suono del
suo nome e l'aria della sua persona, l'aspettativa generale che egli creava,
avevano in certo modo un tono così romantico e anormale. L'esperienza
della sua urbanità veniva sempre dopo; la previsione, la leggenda,
impallidivano di fronte alla realtà. Ricordo che la sera di cui parlo quella
realtà mi colpi come suprema. Il più bell'uomo del tempo non avrebbe mai
potuto competere con lui, e sedeva tra noi come un tranquillo direttore
d'orchestra, il quale domini col modo armonioso del braccio un'orchestra
ancora un po' grezza. Guidava la conversazione con gesti non meno
irresistibili che vaghi; si sentiva che senza di lui non avrebbe avuto niente
che si potesse chiamare «tono». Era questo essenzialmente il suo
contributo in qualsiasi occasione - il suo contributo, soprattutto, alla vita
pubblica inglese. La pervadeva, la colorava, la abbelliva; senza di lui le
sarebbe mancato, in certo senso, un lessico. Avrebbe certamente mancato
di stile, perché, nel possedere Lord Mellifont, possedeva appunto uno stile.
Egli era tutto stile. Ne ebbi nuovamente l'impressione nella salle-à-manger
dell'alberghetto svizzero, quando ci rassegnammo all'inevitabile vitello.
Messa a contrasto con la sua forma elevata (devo dire tra parentesi che
l'opposizione era assai scarsa) la conversazione di Clare Vawdrey faceva
pensare al cronista di fronte al poeta. Era interessante osservare
quell'attrito di caratteri dal quale tanto ci si può aspettare durante una
serata. Comunque non c'erano urti - tutto veniva attutito e ridotto ai minimi
termini dal tatto di Lord Mellifont. Trovare, nel far gli onori di casa, la
soluzione di quel problema, assumersi responsabilità che comportavano un
qualche sacrificio, era in lui istintivo. In verità non era mai stato ospite
d'altri in vita sua: anfitrione, patrono, moderatore d'ogni tavola imbandita.
Se c'era un difetto nella sua maniera - e lo dico a bassa voce - era che
spiegava più arte di quanto qualsiasi complicata circostanza potesse
umanamente richiedere. Si facevano comunque queste riflessioni notando
come il compito pari d'Inghilterra manipolasse la situazione, e il rude
uomo di lettere non avesse il più piccolo sospetto che la situazione - e
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meno che meno lui stesso come parte dell'insieme - venisse manipolata.
Lord Mellifont prodigava tesori di tatto, e Clare Vawdrey nemmeno si
sognava che lo facesse.
Vawdrey non sospettò l'esistenza di alcuna precauzione del genere
nemmeno quando Bianche Adney gli domandò se non vedesse veramente
ancora il terzo atto - domanda nella quale ella insinuava una sottigliezza
tutta sua. Aveva stabilito che Vawdrey dovesse scrivere una commedia per
lei, e che l'eroina, solo che egli avesse fatto il dover suo, avrebbe dovuto
rappresentare la parte alla quale aspirava da tempo immemorabile. Aveva
quarantanni - non era un segreto per quelli che l'avevano ammirata fin
dall'inizio della sua carriera - e ora poteva ben stendere la mano e toccare
la meta più alta. C'era una sorta di passione tragica - attrice perfetta qual
era - nel suo desiderio di non lasciarsi sfuggire il capolavoro. Gli anni
erano passati, e finora le era sempre sfuggito; non una delle cose che aveva
fatte si avvicinava a quella che sognava, e ora non aveva più tempo da
perdere. Era il bruco nella rosa, il dolore sotto il suo sorriso. Quell'ansia la
rendeva commovente - rendeva la sua malinconia più efficace della sua
allegrezza. Aveva recitato i vecchi inglesi e i francesi moderni, aveva
affascinato per qualche tempo la sua generazione; ma era ossessionata dal
sogno di un'alea più alta, di qualcosa che si avvicinasse di più alla realtà
che la circondava. Era stanca di Sheridan e Bowdler la irritava; aspirava a
un canovaccio di trama più sottile. La cosa più spiacevole, secondo me, era
che non sarebbe mai riuscita a cavar fuori la sua commedia moderna dal
grande romanziere ormai maturo, il quale era altrettanto incapace di
scriverla che di infilare un ago. Lo blandiva, gli parlava, gli faceva, e lo
proclamava francamente, la corte; ma si cullava in illusioni; avrebbe
dovuto vivere e morire con Bowdler.
Dire in poche parole di questa donna incantevole, che era bella senza
bellezza e completa con almeno una dozzina di deficienze, è difficile. La
prospettiva del palcoscenico la offriva all'ammirazione di tutti, e in società
era come la modella scesa dal piedestallo. Era il dipinto uscito dalla
cornice per le strade del mondo; e questa, agli occhi di una società senza
acume, era una perpetua sorpresa - un miracolo. La gente credeva che ella
avrebbe raccontato loro i segreti dell'arte pittorica e le offrivano in cambio
un po' d'ozio ristoratore e di tè. Ella non diceva loro niente e prendeva il tè;
ma ci facevano sempre un affare. Vawdrey stava veramente lavorando a
una commedia; ma se l'aveva cominciata perché lei gli piaceva, credo che
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la tirasse per le lunghe per la stessa ragione. Si rendeva segretamente conto
della terribile difficoltà, e si teneva lontano, per continuare a illudersi, dal
punto cruciale delle prove e delle tribolazioni. Non ci poteva essere
tuttavia niente di più piacevole che avere una partita del genere aperta con
Bianche Adney, e di tanto in tanto egli metteva senza dubbio qualcosa di
eccellente nella commedia. Se ingannava la signora Adney lo faceva
unicamente perché, nella sua disperazione, ella desiderava essere
ingannata. Alla sua domanda circa il terzo atto, rispose che prima di
pranzo aveva scritto una scena stupenda.
- Prima di pranzo? - dissi. - Come, cher grand maitre, se prima di
pranzo ci avete tenuti tutti sotto il fascino delle vostre parole, in terrazza?
Le mie parole volevano essere uno scherzo, perché avevo creduto che lo
fossero anche le sue ; ma per la prima volta di cui avessi memoria, sorpresi
in lui una traccia d'imbarazzo. Mi guardò fisso, gettando la testa
vivacemente all'indietro, un po' come un cavallo che venga fermato
all'improvviso. - Oh, prima ancora, - rispose con. sufficiente naturalezza.
- Prima avete giocato al bigliardo con me, - intervenne Lord Mellifont.
- Allora dev'essere stato ieri, - disse Vawdrey.
Ma si trovava con le spalle al muro. - Questa mattina mi diceste che ieri
non avevate fatto niente, - obiettò Bianche.
- Non credo di saper bene quando lavoro -. Guardò distratto, senza
servirsi, un piatto che gli veniva offerto in quel momento.
- È sufficiente che lo si sappia noi, - sorrise Lord Mellifont.
- Sono certa che non avete scritto nemmeno una riga, - disse Bianche
Adney.
- Credo che vi potrei ripetere la scena -. E Vawdrey si rifugiò negli
haricots verts.
- Oh, fatelo, fatelo! - esclamarono due o tre della compagnia.
- Dopo il pranzo, in sala, sarà un vero régal, - dichiarò Lord Mellifont.
- Non sono certo di poterlo fare, ma tenterò, - continuò Vawdrey.
- Oh, uomo dolcissimo! - esclamò l'attrice; usava espressioni che
credeva americanismi, ed era rassegnata perfino a una commedia
americana.
- Ma a questa condizione, - disse Vawdrey, - che facciate suonare vostro
marito.
- Suonare mentre leggete?
- Mai, sono troppo vanitoso, - disse Adney.
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
I begli occhi di Lord Mellifont lo onorarono di uno sguardo nella sua
direzione. - Ci farete una introduzione musicale prima che si levi il sipario.
E un momento particolarmente squisito.
- Non leggerò, dirò i versi a memoria, - disse Vawdrey.
- Meglio ancora: lasciate che io vada a prendere il manoscritto, - suggerì
Bianche.
Vawdrey rispose che non ce n'era bisogno; ma un'ora dopo, in sala,
desiderammo che lo avesse, il manoscritto. Eravamo seduti lì, in attesa,
ancora sotto il fascino del violino di Adney. Sua moglie, in primo piano, su
un sofà, era tutta impazienza e profilo, e Lord Mellifont, sulla sua sedia quella di Lord Mellifont era sempre la sedia presidenziale - dava al nostro
gruppetto riconoscente l'impressione di essere un congresso di sociologia o
una distribuzione di premi. Improvvisamente, invece di cominciare, il
nostro leone ammansito prese a ruggire fuori tono - aveva dimenticato
assolutamente tutto. Era assai contrariato, ma i versi non gli volevano
tornare alla mente; si vergognava molto, ma la sua memoria era un vuoto
completo. Non aveva affatto l'aria di vergognarsi - Vawdrey non aveva
mai avuto quell'aria in vita sua; era soltanto imperturbabilmente e
allegramente naturale. Protestava che non si sarebbe mai aspettato di fare
una così magra figura, ma noi tutti avemmo l'impressione che questo non
avrebbe impedito all'episodio di entrare a far parte dei suoi ricordi più
spassosi. Soltanto noi eravamo veramente umiliati, come ci avesse fatto
uno scherzo premeditato. Questo era il momento, se mai ce n'era stato uno,
nel quale Lord Mellifont doveva usare del suo tatto, e lo fece discendere su
di noi come un balsamo: ci disse, con la sua arte incantevole, col suo bel
modo di gettare archi di ponte sopra i vuoti della conversazione (aveva un
àébit - non c'era niente di simile in Inghilterra - pari a quello degli attori
della Comédie Francaise), di un suo incidente in un'occasione memorabile
- un discorso che doveva fare a una folla immensa - quando, accorgendosi
di avere dimenticato gli appunti, aveva frugato invano nelle tasche
impeccabili, in cerca degli indispensabili fogli. Ma la conclusione della
storia era più fine che non fosse il facile fiasco del nostro dicitore mancato;
perché Lord Mellifont fece intravvedere con pochi gesti disinvolti quanto
brillante fosse stata l'esibizione che aveva vinto e superato il suo
imbarazzo, e che si era risolta - la cosa veniva lasciata alla nostra fantasia in un risultato riconosciuto al momento come non proprio una macchia su
quella che il pubblico era tanto buono da chiamare la sua reputazione.
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
- Suona! Suona! - esclamò Bianche Adney, dando un colpetto sulla
spalla di suo marito, ricordandosi come, sul palcoscenico, ogni
contretemps venga sempre sommerso nella musica. Adney si gettò sul
violino, e io dissi a Clare Vawdrey che il suo errore poteva venire
facilmente riparato mandando qualcuno a prendere il manoscritto. Se mi
diceva dov'era, sarei andato io immediatamente. Alla mia proposta: Amico mio, - rispose, - ho paura che non ci sia nessun manoscritto.
- Allora non avete scritto niente?
- Scriverò domani.
- Ah, ci prendete in giro! - dissi, parecchio confuso.
Allora parve pensarci meglio. - Se c'è qualcosa, è sul mio tavolo.
Proprio in quel momento un altro gli rivolse la parola, e Lady Mellifont
osservò in modo da farsi sentire, come per correggere dolcemente la nostra
mancanza della dovuta attenzione, che il signor Adney stava suonando
qualcosa di molto bello. Avevo già notato che pareva assai appassionata di
musica; la ascoltava sempre con una sorta di intento rapimento.
L'attenzione di Vawdrey si rivolse altrove, ma le parole che aveva lasciate
cadere non mi parve potessero essere prese per un esplicito permesso di
andare nella sua camera. Per di più volevo parlare a Bianche Adney; avevo
qualcosa da domandarle. Dovetti tuttavia aspettare l'occasione favorevole,
perché prima si tacque per ascoltare suo marito e poi la conversazione si
fece generale. Avevamo l'abitudine di andare a letto presto, ma un po' di
tempo rimaneva ancora, e prima che si fosse esaurito del tutto trovai modo
di dire a Bianche che Vawdrey mi aveva dato il permesso di andare a
prendere il manoscritto. Mi scongiurò, per quello che avevo di più sacro,
di farglielo avere; e la sua insistenza non venne meno di fronte alla mia
osservazione che ormai era troppo tardi perché Vawdrey potesse darne
lettura. Non era, mi assicurò, troppo tardi perché potesse incominciare a
leggerlo lei: dovevo quindi impossessarmi delle pagine preziose senza
perder tempo. Le dissi che le avrei obbedito senz'altro, ma volevo che mi
togliesse, prima, una curiosità. Che cosa era accaduto prima di pranzo,
mentre era sulle colline con Lord Mellifont?
- Come sapete che è accaduto qualcosa?
- Ve l'ho letto in viso quando siete ritornata.
- E dicono che sono un'attrice! - esclamò la mia amica.
- E di me che cosa dicono? - domandai.
- Che siete uno scrutatore di cuori, quella cosa frivola che si chiama
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
«osservatore».
- Vorrei che vi faceste scrivere una commedia da un osservatore! esclamai.
- La gente non si occupa di quello che scrivete voi: mettereste il bastone
fra le ruote della più fortunata tra le carriere.
- Comunque, non vedo che commedie intorno a me, - dissi, -l'aria,
stasera, ne è piena.
- L'aria? Tante grazie! Vorrei averne pieni i cassetti, io!
- Vi ha fatto la corte sul ghiacciaio? - continuai.
Sgranò gli occhi - poi si abbandonò all'estasi progressiva del suo riso. Lord Mellifont, poveretto? Che luogo buffo! Sarebbe veramente il luogo
adatto per i nostri amori!
- È caduto in un crepaccio? - continuai.
Bianche Adney mi guardò di nuovo come aveva fatto - in un modo, per
quanto fugace, così chiaro, quando era rientrata prima di pranzo con le
mani piene di fiori. - Non so in che cosa sia caduto. Ve lo dirò domani.
- Allora è caduto davvero?
- Forse è salito, - rise. - È una cosa veramente strana.
- A maggior ragione dovete dirmela stasera.
- Devo ripensarci; devo dipanare la matassa.
- Se volete matasse da dipanare ve ne propongo un'altra, - dissi. - Si può
sapere che cosa succede al Maestro?
- Al maestro di che?
- D'ogni forma di dissimulazione. Vawdrey non ha scritto un verso.
- Andate a prendere le sue carte e vedremo.
- Non voglio smascherarlo, - dissi.
- Perché no, se io smaschero Lord Mellifont?
- Allora son disposto a fare qualunque cosa, - ammisi. - Ma perché mai
Vawdrey avrebbe detto il falso? E molto strano.
- Molto strano, - ripetè Bianche Adney con aria pensosa e gli occhi su
Lord Mellifont. Poi, scuotendosi, aggiunse: - Andate a cercare nella sua
stanza.
- Nella stanza di Lord Mellifont?
Si voltò di scatto verso di me. - Sarebbe un modo!
- Un modo di che?
- Di scoprire... di scoprire! - Parlava gaia ed eccitata, ma
improvvisamente si dominò. - Stiamo dicendo un mucchio di sciocchezze.
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
- Stiamo facendo un guazzabuglio, ma la vostra idea mi sembra buona.
Domandatene il permesso a Lady Mellifont.
- Oh, ha già guardato lei! - esclamò Bianche con una stranissima
drammaticità d'espressione. Poi, dopo un gesto della bella mano levata,
come volesse allontanare una visione della sua fantasia, aggiunse con
impeto: - Portatemi la scena, portatemi la scena!
- Vado a prenderla, - risposi, - ma non ditemi che non so scrivere una
commedia.
Mi lasciò, ma la mia impresa fu interrotta dall'avvicinarsi di una signora
che tirò fuori un «album dei compleanni» - la minaccia incombeva su di
noi da parecchie sere - e mi fece l'onore di sollecitarmi per un autografo.
Lo aveva domandato a tutti e non poteva escludere me senza passare per
maleducata. Di solito ricordavo il mio nome, ma mi ci voleva sempre un
pezzo per ricordarmi la data di nascita, e anche quando ci riuscivo, non ero
mai ben sicuro. Mi trovai a esitare tra due giorni diversi, e dissi alla mia
postulante che, se le faceva piacere, potevo mettere la firma sotto tutte e
due le date. Osservò che certamente ero nato una volta sola, e io risposi
naturalmente che il giorno che l'avevo conosciuta ero nato una seconda
volta. Accenno a questa fiacca battuta scherzosa per chiarire che, con
l'esame d'obbligo degli altri autografi, dedicammo alcuni minuti
all'operazione. Quando la signora si allontanò col suo album, notai che la
compagnia si era sciolta. Mi trovai solo nella sala che ci era stata riservata.
La mia prima impressione fu di disappunto: se Vawdrey era andato a letto
non volevo disturbarlo. Tuttavia, mentre esitavo, pensai che il nostro
amico doveva certamente essere ancora in piedi. Una finestra era aperta e
mi giunse dall'esterno un suono di voci: Bianche era sulla terrazza col suo
commediografo e stavano parlando delle stelle. Mi avvicinai alla finestra
per dare un'occhiata - la notte alpina era stupenda. I miei amici erano usciti
insieme; li fuori la signora Adney s'era messa un mantello sulle spalle: mi
parve di riconoscere in lei l'aspetto che le avevo visto tra le quinte a teatro.
Tacquero un momento e sentii il rombo del torrente vicino. Mi voltai
nuovamente verso la stanza e la sua luce tranquilla mi dette un'idea. I
nostri compagni se n'erano andati - era tardi per un paese di pastori - e noi
tre avevamo la sala a nostra disposizione. Clare Vawdrey aveva scritto la
scena; e non poteva essere che stupenda; se ce la avesse letta lì, a quell'ora,
sarebbe stata una cosa indimenticabile. Sarei andato a prendere il
manoscritto, e lo avrei fatto trovare lì quando fossero rientrati.
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
Uscii dalla sala con quel proposito; ero stato nella stanza di Vawdrey e
sapevo che era al secondo piano, in fondo a un lungo corridoio, l'ultima.
Un minuto dopo la mia mano era sul pomo della porta, che naturalmente
aprii senza bussare. Era egualmente naturale che, in assenza dell'ospite, la
stanza fosse buia; tanto più che quell'ultima parte del corridoio non era, a
quell'ora, illuminata, e che l'oscurità non era diminuita in conseguenza del
mio aver aperto la porta. A tutta prima mi avvidi soltanto di non aver
sbagliato e che, non essendo le tendine della finestra abbassate, avevo
davanti a me due vaghe aperture illuminate dalle stelle. Il loro aiuto non
era tuttavia sufficiente a mettermi in grado di trovare quello che cercavo, e
avevo già la mano sulla scatola di fiammiferi che portavo sempre in tasca
per le sigarette. Improvvisamente mi feci indietro con un sussulto,
balbettando un'esclamazione di sorpresa, una scusa. Avevo sbagliato
stanza; uno sguardo di qualche secondo mi aveva rivelato una sagoma
d'uomo, seduto a un tavolo davanti a una delle finestre - di primo acchito
l'avevo presa per una coperta da viaggio gettata su una sedia. Stavo per
ritirarmi confuso, quando, più rapidamente che non mi ci voglia a dirlo, mi
resi conto che quella era proprio la stanza di Vawdrey e, in secondo luogo,
che Vawdrey in persona era incredibilmente davanti a me. Mi fermai sulla
porta sbalordito, ma prima di averne coscienza avevo esclamato: - Ehi,
dico, siete voi Vawdrey?
Non si voltò né mi rispose, ma la mia domanda ricevette una risposta
pratica e immediata in seguito all'aprirsi di una porta dalla parte opposta
del corridoio. Una cameriera era uscita portando una candela accesa dalla
stanza di fronte e in quel fugace passaggio di luce riconobbi senza
possibilità di dubbio l'uomo che un momento prima avevo lasciato, per
quel che ne sapevo, al piano di sotto, in conversazione con la signora
Adney. Mi voltava un poco la schiena ed era chino sul tavolo
nell'atteggiamento di chi scrive, ma la sua identità mi penetrò attraverso
ogni poro. - Vi chiedo scusa, credevo che foste giù, - dissi; e siccome
l'altro non dava segno di sentirmi aggiunsi: - Se siete occupato non voglio
disturbarvi -. Indietreggiai fino alla porta, uscii, la richiusi - ero stato
dentro, credo, meno di un minuto. Ero stupefatto, e la mia stupefazione si
fece infinitamente più grande un momento dopo. Stavo lì, con la mano
ancora sul pomo della porta, sopraffatto dall'impressione più strana che
avessi mai provato in vita mia. Vawdrey era seduto al suo scrittoio, ed era
un posto abbastanza naturale per lui; ma perché scriveva al buio e perché
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
non mi aveva risposto? Aspettai alcuni secondi, in attesa di sentire qualche
movimento nell'interno della stanza: forse si sarebbe scosso dalla sua
astrazione - spiegabile in un grande scrittore - e avrebbe esclamato: - Ehi,
amico mio, siete voi? - Ma non sentii che il silenzio, non potei aggiungere
alcuna impressione a quella che avevo ricevuta dalla stanza buia illuminata
dalle stelle, e dall'inattesa presenza che essa racchiudeva. Mi allontanai,
ritornando lentamente sui miei passi, e scesi le scale perplesso. La lampada
era ancora accesa in sala, ma la stanza era vuota. Andai verso la porta
dell'albergo e uscii fuori. Anche la terrazza era vuota. Bianche Adney e
l'uomo che le faceva compagnia erano evidentemente rientrati. Gironzai
intorno qualche minuto, poi andai a letto.
II.
Dormii male: ero agitato. Quando ripenso a questi strani avvenimenti
(vedrete fra poco quanto strani!) forse mi pare di esserne stato più
impressionato in seguito che sul momento; le grandi anomalie non sono
mai così grandi a tutta prima come dopo averci riflettuto sopra. Ci vuole
tempo per esaurire tutte le spiegazioni possibili. Ero vagamente inquieto avevo subito una scossa violenta; ma non c'era cosa che non potessi
chiarire quella mattina stessa domandando, per prima cosa, a Bianche
Adney chi fosse stato con lei sulla terrazza. Piuttosto stranamente, tuttavia,
quando spuntò l'alba - e spuntò mirabilmente - sentii meno il desiderio di
chiarire la questione che quello di uscire all'aperto e togliermi di dosso il
torpore dello sbalordimento. Vidi che la giornata sarebbe stata stupenda e
mi prese la fantasia di passarla, come avevo passato alcuni giorni felici
della mia giovinezza, in una solitaria scorribanda sulle montagne. Mi vestii
di buon'ora, presi il caffè di rito, misi un grosso pane in una tasca e una
fiaschetta nell'altra e, con un grosso bastone in mano, mi diressi verso le
cime. La mia storia non è strettamente legata alle ore incantevoli che
passai lassù - ore di quelle che lasciano i ricordi più intensi. Se vagai per
una buona metà di esse tra le montagne, rimasi per l'altra metà sdraiato
sull'erba dei pendii e col berretto calato sugli occhi - salvo un'occhiata di
tanto in tanto al paesaggio sconfinato - ascoltai, nel silenzio luminoso, il
ronzio dell'ape montanina, e molte cose sentii allontanarsi e svanire. Clare
Vawdrey si fece minuscolo, Bianche Adney divenne indistinta, Lord
Mellifont mi apparve vecchio, e prima che la giornata fosse finita avevo
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1970 - Racconti Di Fantasmi
dimenticato di essere mai stato perplesso. Quando, nel tardo pomeriggio,
scesi verso l'albergo, avevo soltanto desiderio di sapere se l'ora del pranzo
fosse vicina. Quella sera mi vestii alla meglio per il pranzo, e quando fui
presentabile trovai che erano già tutti a tavola.
In loro compagnia il mio piccolo dilemma mi si ripresentò alla mente, ed
ero curioso di vedere se Vawdrey mi avrebbe guardato in un modo un po'
strano. Ma non mi guardò affatto; la qual cosa mi dette la possibilità di
pazientare e di domandarmi perché esitassi a fargli la mia domanda
attraverso la tavola. Esitavo, e, con la consapevolezza di quel fatto, fui un
po' sorpreso dall'agitazione che avevo lasciata dietro di me, o sotto di me,
durante il giorno. Non mi vergognavo, tuttavia, del mio scrupolo: non era
che una forma di sottile discrezione. Sentivo vagamente che una domanda
in pubblico non sarebbe stata leale. C'era Lord Mellifont, naturalmente, il
quale avrebbe mitigato con i suoi modi perfetti ogni conseguenza; ma
credo di aver pensato che con quegli elementi particolari Sua Grazia non si
sarebbe trovato a suo agio. Perciò quando ci alzammo, mi avvicinai alla
signora Adney, domandandole se, con una così bella serata, voleva uscire a
far due passi con me.
- Avete fatto cento miglia, oggi; non fareste meglio a star tranquillo? rispose.
- Ne farei altre cento per indurvi a dirmi qualcosa.
Mi guardò un momento con un po' della strana consapevolezza che
avevo cercata, ma non trovata, negli occhi di Clare Vawdrey. - Quello che
accade a Lord Mellifont, volete dire?
- A Lord Mellifont? - A causa della mia nuova preoccupazione avevo
perduto quel filo.
- Dove avete la memoria, sventato che non siete altro? Ne parlammo ieri
sera.
- Ma sì! - esclamai, ricordando; - avremo un mucchio di cose di cui
parlare -. La condussi fuori in terrazza e, prima di aver fatto tre passi,
domandai: - Chi era qui fuori con voi ieri sera?
- Ieri sera? - era altrettanto fuori strada quanto lo ero stato io un
momento prima.
- Alle dieci, dopo che la compagnia si fu sciolta. Usciste qui fuori con un
uomo. Parlavate delle stelle.
Mi guardò fisso un momento, poi dette nella sua solita risata. - Siete
geloso del buon Vawdrey?
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1970 - Racconti Di Fantasmi
- Dunque era lui?
- Certo che era lui.
- E quanto si trattenne?
Rise di nuovo. - La malattia è grave! Si trattenne circa un quarto d'ora,
forse anche di più. Camminammo un po' insieme. Parlò della sua
commedia. Ecco tutto. Non ho usato altra magia che questa.
Non era ancora abbastanza per me; quindi: - Che cosa fece Vawdrey
dopo di questo? - continuai.
- Non ne ho la più pallida idea. Lo lasciai e andai a letto.
- A che ora andaste a letto?
- E voi? Si dà il caso che ricordi di essermi separata dal signor Vawdrey
alle dieci e venticinque, - disse la signora Adney. - Tornai in sala a
prendere un libro e guardai l'orologio.
- In altre parole voi e Vawdrey rimaneste evidentemente qui dalle dieci e
cinque circa fino all'ora che avete detto?
- Non so quanto distinti fossimo, ma passammo il tempo molto
piacevolmente. Où voulez-vous en venir? - domandò Bianche Adney.
- Semplicemente a questo, cara signora: mentre voi e il vostro compagno
eravate occupati nel modo che avete descritto, il vostro compagno era
anche intento a scrivere nella sua stanza.
Si fermò di colpo, e i suoi occhi scintillarono nelle tenebre. Mi domandò
se mettevo in dubbio la verità delle sue parole; risposi che al contrario la
sostenevo - rendeva il caso così interessante! Ribatté che avrebbe avuto
valore soltanto se lei avesse sostenuto la mia, ma la persuasi facilmente a
farlo quando le ebbi raccontato punto per punto l'episodio della mia ricerca
del manoscritto - che, in quel momento, per una ragione che capii subito,
sembrava esserle completamente uscito dalla memoria.
- Le sue parole mi fecero dimenticare... dimenticare che vi avevo
mandato a prendere il manoscritto. Fece ammenda per il fiasco in sala: mi
recitò la scena, - disse Bianche. Si era lasciata andare su una panchina e,
mentre stavamo seduti lì, mi aveva sottoposto in breve a un vero e propro
interrogatorio. Poi proruppe in un nuovo scoppio di riso: - Oh, le
eccentricità del genio!
- Davvero! Mi sembrano perfino più grandi di quanto supponessi.
- Oh, i misteri della grandezza!
- Dovreste saperla lunga in proposito, ma io ne sono sorpreso, dichiarai.
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1970 - Racconti Di Fantasmi
- Siete assolutamente certo che era Vawdrey? - domandò la mia
compagna.
- Se non era lui, chi poteva mai essere? Che un estraneo, esattamente
simile a lui e della medesima professione, sedesse nella sua stanza a
quell'ora e scrivesse al suo tavolo al buio, - insistetti, - sarebbe
praticamente altrettanto stupefacente che la mia affermazione.
- Già; perché al buio?
- I gatti, al buio, ci vedono, - dissi.
Mi sorrise vagamente. - Somigliava a un gatto?
- No, cara signora, ma vi dirò che somigliava... sì, somigliava all'autore
delle mirabili opere di Vawdrey. Gli somigliava infinitamente di più che
non gli somigli il nostro stesso amico, - dissi.
- Volete dire che era qualcuno dal quale egli le fa scrivere?
- Sì, mentre pranza fuori e vi delude.
- Delude me? - mormorò candidamente.
- Me, e chiunque cerchi in lui il genio al quale sono dovute le pagine che
adoriamo. Dov'è quel genio nella sua conversazione?
- Ah, ieri sera fu magnifico, - disse l'attrice.
- È sempre magnifico, come è magnifico il vostro bagno mattutino o un
lombo di manzo o il servizio ferroviario per Brighton. Ma non è mai raro.
- Capisco quello che volete dire.
L'avrei abbracciata, e forse lo feci. - Per questo si prova piacere a parlare
con voi. Sono spesso rimasto interdetto, ora so. Sono due.
- Che idea stupenda!
- Uno esce, l'altro rimane a casa. Uno è il genio, l'altro il borghese, e noi
non conosciamo personalmente che il borghese. Parla, va in giro, è
enormemente popolare, vi fa la corte...
- Mentre voi avete il privilegio di far la corte al genio! - interruppe la
signora Adney. - Vi sono molto obbligata della cortesia.
Le posai una mano sul braccio. - Andate a vedere con i vostri occhi.
Provate, fate l'esperimento, andate in camera sua.
- In camera sua? Non sarebbe conveniente! - disse, col tono delle sue
battute migliori.
- Tutto è conveniente in un caso del genere. Se lo vedete la cosa è
definita.
- Magnifico!... Definirla! - Pensò un momento, poi si alzò di scatto. Volete dire subito?
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
- Quando volete.
- E se trovassi quello che non va? - disse con squisita efficacia.
- Quello che non va? E cosa sarebbe quello che va?
- Quello che non va è che non sta bene che una signora vada a trovare
qualcuno in camera sua. Se trovassi, non il genio, ma l'altro?
- Oh, all'altro ci penso io, - risposi. Poi, dando un'occhiata intorno per
caso, aggiunsi: - Fate attenzione, c'è Lord Mellifont.
- Vorrei che pensaste a lui, - disse, abbassando la voce.
- Che cosa gli succede?
- Era appunto quello che stavo per dirvi.
- Ditemelo ora. Non viene da questa parte.
Bianche lanciò un'occhiata. Lord Mellifont, che sembrava essere uscito
dall'albergo per fumare filosoficamente un sigaro, si era fermato a una
certa distanza da noi e stava ammirando le meraviglie del paesaggio,
visibili anche nell'oscurità. Ci allontanammo lentamente in direzione
opposta, e la signora Adney riprese a parlare: - La mia idea è stravagante
quanto la vostra.
- Non definirei la mia stravagante: è bella.
- Non c'è niente di più bello dello stravagante, - ribatté la signora Adney.
- E un punto di vista professionale. Ma sono tutto orecchi -. La mia
curiosità era infatti nuovamente eccitata.
- Bene, amico mio, se Clare Vawdrey è doppio, e sento il dovere di dire
che più ce ne sono meglio è, Sua Grazia ha il male contrario: non è
nemmeno intero.
Ci fermammo quasi simultaneamente. - Non capisco.
- Neanch'io. Ma ho in mente che se ci sono due Vawdrey, non ci sia,
tutto calcolato, nemmeno quanto basta per fare un Lord Mellifont intero.
Riflettei un momento, poi risi. - Credo di capire quello che volete dire.
- Per questo si prova piacere a parlare con voi -. Lei, ahimè, non mi
abbracciò, ma continuò subito: - Lo avete mai visto solo?
Cercai di ricordare. - Oh, sì, è stato a trovarmi.
- Ma allora non era solo.
- E io sono stato a trovare lui, nel suo studio.
- Sapeva che c'eravate?
- Naturalmente, fui annunciato.
Mi guardò facendo gli occhi grandi, come una bella cospiratrice. - Non
bisogna essere annunciati! - E riprese a camminare.
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La raggiunsi, senza fiato. - Volete dire che bisogna sorprenderlo quando
lui non lo sa?
- Dovete prenderlo alla sprovvista. Dovete andare in camera sua... ecco
la cosa da fare.
Se ero eccitato dal modo nel quale il nostro mistero ci si schiudeva
davanti agli occhi, ero anche, perdonabilmente, un po' confuso. - Quando
so che non c'è?
- Quando sapete che c'è.
- E che cosa vedrò?
- Non vedrete niente! - esclamò mentre ci voltavamo per tornare
indietro.
Avevamo raggiunto l'estremità della terrazza e così ci ritrovammo faccia
a faccia con Lord Mellifont, il quale, avendo ripreso la sua passeggiatina,
ci aveva ora, senza indiscrezione, raggiunti. La vista di lui in quel
momento fu rivelatrice, accese tutta una luminaria retrospettiva di idee, le
quali costituivano insieme l'impressione complessiva che si aveva del
personaggio. Mentre stava lì, sorridendoci e agitando una mano esperta
nell'aria trasparente della notte
- presentava il paesaggio come fosse stato un candidato e «appoggiava»
la candidatura delle stesse Alpi - mentre sorgeva davanti a noi avvolto
dalla delicata fragranza del suo sigaro e da tutte le altre sue raffinatezze e
fragranze, con più perfezioni accumulate in certo modo sulla sua bella
testa che si fossero mai vedute accumulate su qualsiasi testa prima o
altrove, egli mi apparve così essenzialmente, così cospicuamente e
uniformemente nella luce dell'uomo «pubblico» che lessi in un lampo la
risposta all'enigma di Bianche. Era tutto «pubblico» e non aveva una
corrispondente vita privata, così come Clare Vawdrey era tutto privato e
non aveva una corrispondente vita pubblica. Avevo sentito soltanto una
metà del racconto della mia compagna; tuttavia, mentre ci univamo a Lord
Mellifont
- ci aveva seguiti perché la signora Adney gli era simpatica, ma si
pensava sempre di lui che accettasse la compagnia altrui piuttosto che
cercarla -, mentre partecipavamo per mezz'ora della prodiga ricchezza del
suo discorso, sentii, con una duplicità nella quale non era ombra di rossore,
che noi lo avevamo, per così dire, smascherato. Ero anche profondamente
divertito dal lembo di sipario che l'attrice aveva sollevato per me, più che
non lo fossi stato dalla mia propria scoperta; e se non provavo nessuna
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
vergogna nel condividere il suo segreto, come non ne provavo per aver
condiviso il mio con lei -Per quanto, dei due misteri, il mio fosse il più
luminoso in grazia del personaggio al quale si riferiva - ciò accadeva
perché non c'era traccia di perfidia nel mio vantaggio, ma al contrario una
grande tenerezza e un vero e proprio senso di compassione. Oh, non aveva
nulla da temere con me; e mi sentivo, per di più, ricco e illuminato come
avessi repentinamente l'universo in tasca. Avevo appreso quanto
inconsistente e fugace fosse l'importanza d'un aspetto imponente. Se
dicessi che avevo sempre sospettato, dietro la facciata dell'esistenza di Sua
Grazia, la possibilità di un magnifico esempio del genere, direi troppo; ma
è per lo meno un fatto, per quanto vane possano sembrare le mie parole,
che avevo sempre avuto coscienza di un certo fondo d'indulgenza per lui.
Lo avevo segretamente commiserato per la perfezione con la quale
recitava la sua parte, mi ero domandato quale vuoto quella maschera
coprisse in realtà, che cosa gli rimanesse nelle ore spietate in cui l'uomo è
solo con se stesso, o, peggio ancora, solo con quel se stesso anche più
severo che è la sua legittima moglie. Com'era in casa e che cosa faceva
quand'era solo? C'era qualcosa in Lady Mellifont che giustificava questi
dubbi, qualcosa che suggeriva come anche per lei egli dovesse continuare
a essere l'uomo «pubblico», e lei assediata da dubbi della stessa natura.
Non li aveva mai risolti: ecco il motivo della sua perpetua inquietudine.
Noi dunque, Bianche Adney e io, la sapevamo più lunga di lei; ma non
glielo avremmo detto per tutto l'oro del mondo, né probabilmente ce ne
sarebbe stata grata. Preferiva la grandezza relativa del dubbio. Non
partecipava intimamente della sua vita, e quindi non poteva capire; e con
lei egli non era solo e di conseguenza non poteva illuminarla. Egli
rappresentava per sua moglie, ed era per i suoi servi, l'eroe, e si voleva
arrivare a quello che egli diveniva realmente quando nessun occhio lo
poteva vedere, e a fortiori nessuno poteva ammirare. Probabilmente si
abbandonava, riposava; ma quale vuoto spaventoso doveva mai essere
necessario per compensare tanta pienezza di presenza! Quale intensità di
entracte per rendere possibili altre rappresentazioni di quella portata! Lady
Mellifont era troppo orgogliosa per spiare, e siccome non guardava mai
per il buco della serratura, rimaneva dignitosa e oppressa.
Forse era una mia fantasia che la signora Adney inducesse il nostro
compagno a esibirsi, o forse l'effettiva ironia del nostro rapporto con lui in
quel momento me lo faceva vedere più vividamente: non mi era comunque
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
mai sembrato tanto diverso da quello che sarebbe stato se noi non gli
avessimo offerto un riflesso della sua immagine. Eravamo una folla di due
persone soltanto, ma non mi era mai apparso più «pubblico». I suoi modi
perfetti non erano mai stati più perfetti, il suo notevole tatto mai più
notevole, la sua unica concepibile raison d'ètre, l'unicità assoluta della sua
identità, mai più evidente. Avevo la tacita persuasione che tutto quello che
andava dicendo lo avremmo poi trovato nell'articolo di fondo di qualche
giornale del mattino, e sorridevo al pensiero di sapere qualcosa che nessun
giornale, per quanto intraprendente e pronto a pagarmi un patrimonio,
avrebbe mai pubblicato. Devo tuttavia aggiungere, che nonostante il mio
godimento - era quasi sensuale, come quello di un piatto prelibato o di un
piacere senza precedenti - ero impaziente di trovarmi nuovamente solo con
la signora Adney, la quale mi doveva ancora un aneddoto. Quella sera la
cosa si dimostrò impossibile, perché alcuni altri uscirono a vedere che cosa
egli trovasse tanto entusiasmante; e poi Lord Mellifont invitò il violinista a
suonare, e il violinista suonò divinamente, sulla nostra piattaforma d'echi,
davanti agli spettri delle montagne. Prima che il concerto fosse finito notai
che la nostra attrice era scomparsa e, guardando attraverso la finestra della
sala, vidi che s'era installata lì con Vawdrey che le leggeva da un
manoscritto. La grande scena era evidentemente stata composta, e Bianche
la trovava certo tanto più interessante in grazia dei nuovi lumi che aveva
raccolti sul conto del suo autore. Pensai che disturbarli non sarebbe stato
discreto, e andai a letto senza averle riparlato. La cercai la mattina dopo di
buon'ora, e poiché la giornata prometteva bene le proposi una passeggiata
fra le montagne ricordandole il grave impegno che s'era assunta. Lo
riconobbe e mi concedette l'onore della sua compagnia, ma prima che
avessimo fatto dieci metri su per il pendio proruppe con impeto: - Amico
mio, non potete immaginare come quel pensiero mi ossessioni! Non mi
riesce di pensare ad altro.
- Che alla vostra teoria sul conto di Lord Mellifont?
- Al diavolo Lord Mellifont! Alludo alla vostra sul conto di Vawdrey,
che è di gran lunga il più interessante dei due. Sono affascinata da quella
visione della sua... come la chiamate?
- Seconda identità?
- Del suo secondo io: è più facile da dire.
- Dunque la accettate, la adottate?
- La adotto? Ne godo! Ieri sera mi apparve con una vivezza incredibile.
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
- Mentre leggeva in sala?
- Sì, mentre lo ascoltavo, lo guardavo. Semplificava tutto, spiegava tutto.
Fui orgoglioso del mio trionfo. - Questo è il lato positivo della cosa! È
molto bella la scena?
- Magnifica, e legge stupendamente.
- Quasi altrettanto bene di come l'altro scrive! - risi.
Si fermò un momento, posandomi una mano sul braccio. - Esattamente
la mia impressione! Mi sembrava che leggesse l'opera d'un altro.
- In un modo che era un servigio all'altro, - completai.
- Una persona assolutamente diversa, - disse Bianche. Parlammo della
differenza continuando a camminare, e di quale risorsa fosse nella vita un
simile sdoppiamento di personalità.
- Dovrebbe contribuire a farlo vivere il doppio degli altri, -dissi.
- Far vivere quale dei due?
- Dio mio, tutti e due; dopo tutto è una ditta unica, e uno solo non
potrebbe mai mandare avanti gli affari senza l'altro. Per di più una mera
sopravvivenza sarebbe terribile sia per l'uno che per l'altro.
Tacque un momento; poi esclamò: - Non so, vorrei che lui
sopravvivesse.
- Posso chiedere quale dei due?
- Se non siete capace di indovinarlo, non ve lo dico.
- Conosco il cuore della donna. Le donne preferiscono sempre l'altro.
Si fermò di nuovo, guardandosi intorno. - Qua fuori, lontano da mio
marito, posso dirvelo. Sono innamorata di lui!
- Disgraziata, egli non ha passioni, - risposi.
- Appunto per questo lo adoro. Una donna che abbia condotto la vita che
ho condotta io, sa bene che le passioni degli altri sono insopportabili.
Un'attrice, poveretta, non può avere interesse per nessun amore che non sia
tutto dalla sua parte; non può prendersi il lusso di essere ricambiata. Il mio
matrimonio lo dimostra: un matrimonio gradevole, fortunato come il
nostro, è rovinoso. Sapete che cosa mi occupava ieri sera mentre il signor
Vawdrey mi leggeva quei bellissimi discorsi? Un folle desiderio di
conoscerne l'autore -. E, drammaticamente, come per nascondere la sua
vergogna, Bianche Adney riprese a camminare.
- Troveremo il modo, - risposi. - Anch'io ho voglia di rivederlo. Ma vi
prego intanto di ricordare che aspetto da quarantotto ore la prova che deve
avvalorare la descrizione, intensamente suggestiva e plausibile, della vita
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
privata di Lord Mellifont.
- Oh, Lord Mellifont non m'interessa.
- Ieri v'interessava, - dissi.
- Sì, ma ieri non ero ancora innamorata. Con la vostra storia lo avete
annullato.
- Mi farete pentire di avervela raccontata. Via, - pregai, - se non mi dite
come vi è venuta quell'idea penserò semplicemente che ve la siete
inventata di sana pianta.
- Datemi tempo di ricordarla bene, allora, mentre camminiamo lungo
questa gola vellutata.
Ci trovavamo all'imboccatura d'una incantevole valletta tortuosa, parte
del fondo pianeggiante della quale formava il letto di un corso d'acqua così
rapido che non mostrava un'increspatura. Entrammo nella valle e il molle
sentiero lungo il limpido torrente ci portò parecchio avanti; finché,
improvvisamente, mentre andavamo avanti e io aspettavo che la mia
compagna ricordasse la sua storia, un gomito della valle ci portò in vista di
Lady Mellifont che veniva verso di noi. Era sola, sotto la cupola
dell'ombrellino, con lo strascico nero che sfiorava l'erba del sentiero; e in
quella forma, in strade fuori di mano, era un'apparizione abbastanza rara.
Di solito si faceva accompagnare da un domestico che marciava dietro di
lei lungo le strade maestre, e la cui livrea riusciva strana ai rozzi contadini
del paese. Vedendoci arrossi, come dovesse giustificare in qualche modo
la sua presenza in quei paraggi; sorrise vagamente e disse che era uscita
soltanto per una breve passeggiata mattutina. Mentre stavamo lì fermi
scambiando qualche frase convenzionale, ci disse che aveva un po' sperato
di incontrare suo marito.
- È da queste parti? - domandai.
- Credevo. È uscito un'ora fa per dipingere.
- Lo avete cercato? - chiese la signora Adney.
- Un po'; non molto, - disse lady Mellifont.
Ciascuna delle due donne posò gli occhi con una certa intensità, mi
parve, su quelli dell'altra. - Lo cercheremo per voi, se volete, -disse
Bianche.
- Oh, non importa. Avevo soltanto pensato di raggiungerlo.
- Non dipingerà il suo quadro, se non lo raggiungete, - insinuò la mia
compagna.
- Può darsi che lo dipinga se lo raggiungete voi, - disse Lady Mellifont.
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- Oh, sono certo che salterà fuori, - osservai.
- Lo farà certamente se saprà che siamo qui! - ribatté Bianche.
- Volete aspettare, mentre noi lo cerchiamo? - domandai a Lady
Mellifont.
Ripetè che la cosa non aveva importanza, e allora la signora Adney
continuò: - Lo cercheremo per il piacere di aver qualcosa da fare.
- Vi auguro una bella passeggiata, - disse la nobildonna, e si stava
allontanando quando mi venne di domandarle se dovevamo informare suo
marito che lei non era lontana. - Che l'ho seguito? -Esitò un momento, poi
si lasciò uscire stranamente di bocca: - Meglio che non gli diciate nulla -.
Con queste parole si congedò, veleggiando un po' rigidamente giù per la
valle.
La mia compagna e io seguimmo con gli occhi la sua ritirata; dopo di
che ci scambiammo un'occhiata e una pallida ombra di sorriso s'increspò
sulle labbra dell'attrice. - Si direbbe che stia camminando per i suoi vialetti
a Mellifont!
Io avevo il mio punto di vista. - Ha dei sospetti, sapete.
- E non vuole che lui se ne accorga. Non ci sarà nessun dipinto.
- A meno che noi non lo si raggiunga, - suggerii. - In quel caso lo
troveremmo al lavoro, nell'atteggiamento più aggraziato e consacrato, e la
cosa strana è che il dipinto sarà ben riuscito.
- Lasciamolo in pace... così tornerà a casa senza dipinto - propose la mia
amica.
- Preferirebbe non tornare mai a casa. Oh, lo troverà sempre un
pubblico!
- Magari le mucche, - arrischiò Bianche; e mentre stavo per condannare
la sua mancanza di rispetto, continuò: - È proprio quello che m'è accaduto
di scoprire.
- Di che cosa volete parlare?
- Dell'incidente dell'altro giorno. Sussultai. - Ah, sentiamolo, finalmente!
- Esattamente la stessa cosa... come Lady Mellifont: non mi riuscì di
trovarlo.
- Lo perdeste?
- Fu lui a perdere me, piuttosto. Credeva che io me ne fossi andata. E
allora...! - Ma si fermò, e lo sguardo - il sorriso, anzi, - valeva un libro
intero.
- Comunque lo trovaste, - dissi, mentre riflettevo alla cosa, -dal
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1970 - Racconti Di Fantasmi
momento che tornaste a casa con lui.
- Fu lui a trovare me. È chiaro che non può essere diversamente. Appare
non appena si accorge della presenza di qualcun altro.
- Capisco le sue intermittenze, - risposi dopo un momento di riflessione,
- ma non afferro bene la legge che le governa.
Bianche l'aveva capita bene invece! - E una sfumatura, ma in
quell'attimo non mi sfuggi. Stavo per incamminarmi verso l'albergo; ero
stanca e avevo insistito perché non si disturbasse a riaccompagnarmi.
Avevamo trovato alcuni fiori rari, quelli che avevo in mano quando tornai,
e li aveva scoperti quasi tutti lui. La cosa lo divertiva molto e ne voleva
prendere ancora; ma ero stanca e lo lasciai. Non protestò, dove sarebbe
andato a finire, altrimenti, il suo tatto?
E io ero troppo ignara, allora, per capire che dal momento che io non ero
più lì nessun fiore sarebbe stato, avrebbe potato essere, raccolto. Presi la
via del ritorno, ma in capo a tre minuti mi accorsi di aver portato via con
me il suo temperino, me lo aveva prestato perché spogliassi un ramoscello,
e sapevo che ne avrebbe avuto bisogno. Tornai indietro di alcuni passi per
chiamarlo, ma lo cercai prima con gli occhi. Non potete capire quello che
accadde allora senza avere ben chiara davanti a voi quella parte della
vallata.
- Portatemici, - dissi.
- Potete rendervi conto del prodigio anche qui. Il luogo era
semplicemente tale da non offrire nessuna possibilità di occultamento; un
gran declivio tranquillo, senza asperità o buche o cespugli o alberi. Alle
mie spalle c'erano alcune rocce dietro le quali ero sparita, ma, ritornando
sui miei passi, ne ero immediatamente riemersa.
- Allora deve avervi vista.
- Era troppo assente, troppo completamente «andato», «andato» come
una candela spenta, per una qualche ragione che solo lui poteva sapere. Un
momento di fatica, probabilmente, capite, e con quel senso di ritorno alla
solitudine la reazione era stata proporzionalmente grande, l'estinzione
proporzionalmente completa. Comunque la scena era nuda come la vostra
mano.
- Non poteva essere altrove?
- In quel momento non poteva essere che dove lo avevo lasciato. Pure il
luogo era completamente deserto... deserto come questo tratto di valle
davanti a noi. Era svanito, aveva cessato di esistere. Ma appena la mia
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1970 - Racconti Di Fantasmi
voce risuonò, avevo detto il suo nome, sorse davanti a me come il sole che
si leva.
- E dove sorse il sole?
- Nel solo luogo dove poteva sorgere, esattamente dove sarebbe stato e
dove lo avrei visto se si fosse trattato di un uomo come gli altri.
Avevo ascoltato col più profondo interesse, ma era mio dovere sollevare
delle obiezioni. - Quanto tempo passò fra il momento nel quale foste sicura
della sua assenza e il momento che lo chiamaste?
- Dio mio, pochi secondi. Non pretendo che sia stato lungo.
- Ma abbastanza perché voi poteste esserne assolutamente certa? - dissi.
- Certa che non era lì?
- Si; e che non vi eravate sbagliata, che non eravate stata vittima di un
abbaglio.
- Posso essermi sbagliata, ma ho la ferma convinzione del contrario.
Comunque, appunto per questo vorrei che faceste una capatina in camera
sua.
Riflettei un momento. - Come posso, quando non osa farlo nemmeno
sua moglie?
- Ne ha desiderio; fatele la proposta. Non ci vorrà molto a persuaderla.
Ha dei sospetti.
Riflettei ancora un momento. - Vi è parso che avesse coscienza della
cosa?
- Che avevo notato la sua mancanza e che poteva darsi me ne fossi
immensamente stupita? Forse; ma, insieme, che probabilmente aveva
l'impressione di essere stato abbastanza pronto. Non può fare a meno di
pensarlo, capite, di prendere la cosa, per lo più, come certa.
Ah, mi ci perdevo - chi poteva dire? - Ma accennaste almeno alla sua
scomparsa?
- Nemmeno per idea; y pensez-vous? La cosa m'era sembrata troppo
strana.
- Giusto. E che aspetto aveva?
Mentre si studiava di rievocare la scena e ricostruire il miracolo,
Bianche Adney fissò gli occhi nel vuoto su per la valle. Improvvisamente
esclamò: - Esattamente quello che ha ora! - e vidi Lord Mellifont davanti a
noi col suo album degli acquarelli. Mentre ci avvicinavamo vidi che non
era né sospettoso né imbarazzato: stava lì, semplicemente, come stava
sempre dovunque, a fare da elemento fondamentale del paesaggio.
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1970 - Racconti Di Fantasmi
Naturalmente non aveva nessun dipinto da mostrarci, ma nulla avrebbe
potuto confermare meglio l'idea che ora ci facevamo di lui, del modo col
quale si mise in posizione appena ci vide. Aveva scelto il punto di vista, ne
prese possesso agitando la matita in aria. Si appoggiò a una roccia; la sua
bella scatola d'acquarelli era posata sul tavolo naturale formato accanto a
lui da un ripiano della parete, quasi nuova dimostrazione della
perseveranza con la quale la natura assecondava le sue esigenze.
Dipingeva mentre parlava e parlava mentre dipingeva; e se il dipinto era
miscellaneo come il discorso, il discorso avrebbe tuttavia potuto figurare
degnamente in un album. Ci trattenemmo per assistere all'esibizione, e
anche i consapevoli profili delle vette sembravano, ai nostri occhi, ansiosi
di assistere al suo successo. Si fecero scuri come silhouettes di carta incise
contro un cielo livido, dal quale, tuttavia, non c'era niente da temere finché
l'acquarello di Lord Mellifont non fosse finito. Tutta la natura s'inchinava
davanti a lui, e gli elementi stessi aspettavano. Bianche Adney comunicò
con me senza parole, e io potei leggere il linguaggio dei suoi occhi: Fossimo capaci, noi, di fare la nostra parte così bene! Riempie il
palcoscenico in un modo insuperabile -. Non riuscimmo a staccarcene:
sarebbe stato come lasciare il teatro prima della fine dello spettacolo; ma a
suo tempo prendemmo con lui la via del ritorno verso l'albergo, davanti
alla porta del quale Sua Grazia, dando un'altra occhiata all'acquarello
appena dipinto, strappò il foglio ancora fresco dal blocco e lo presentò con
alcune indovinate parole alla nostra amica. Poi entrò in casa; e un
momento dopo, alzando gli occhi dal luogo dove eravamo, lo vedemmo, in
alto, alla finestra del suo salottino - aveva le stanze migliori - intento a
scrutare i segni del tempo.
- Dopo questa fatica dovrà riposare, - disse Bianche abbassando gli
occhi sul suo dipinto.
- Senza dubbio! - Alzai i miei verso la finestra: Lord Mellifont era
svanito. - Si è già ridissolto.
- Ridissolto? - Vidi che l'attrice stava ora pensando a qualcos'altro.
- Nell'immensità del cosmo. S'è abbandonato di nuovo. L’entr’acte è
incominciato.
- Dovrebbe essere lungo -. Guardava verso la terrazza, e poiché in quel
momento il capo-cameriere apparve sulla porta si voltò a parlargli. - Avete
visto il signor Vawdrey?
L'uomo si avvicinò immediatamente. - È uscito cinque minuti fa per fare
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una passeggiata, credo. Ha preso dalla parte della valle; aveva un libro con
sé.
Stavo guardando le nubi minacciose. - Avrebbe fatto meglio a prendere
con sé un ombrello.
Il cameriere sorrise: - Io gliel’avevo consigliato.
- Grazie, - disse Bianche; e l’Oberkellner si ritirò. Poi aggiunse
bruscamente: - Volete farmi un favore?
- Sìììì, se voi ne fate uno a me. Desidererei vedere se il vostro dipinto è
firmato.
Prima di darmi il bozzetto vi gettò un'occhiata: - Pare incredibile, ma
non è firmato.
- Dovrebbe esserlo, per aver tutto il suo valore. Posso tenerlo un
momento?
- Sì, purché facciate quello che vi domanderò. Prendete un ombrello e
raggiungete il signor Vawdrey.
- Per accompagnarlo dalla signora Adney?
- Per tenerlo fuori, più a lungo che potete.
- Lo tratterrò finché non incominci a piovere.
- Non pensateci alla pioggia! - esclamò la mia compagna.
- Volete che c'inzuppiamo fino al midollo?
- Senza rimorso -. Poi, con una strana luce negli occhi: - Voglio fare il
tentativo.
- Il tentativo?
- Di vedere quello genuino. Potessi riuscirci! - proruppe con impeto.
- Provate, provate! - risposi. - Tratterrò il vostro amico fuori tutto il
giorno.
- Se mi riesce di arrivare a quello che lavora, - e si fermò con gli occhi
scintillanti, - se mi riesce di parlare con lui, avrò un altro atto, avrò la mia
parte!
- Tratterrò Vawdrey sulla montagna per l'eternità! - le gridai dietro
mentre spariva rapidamente dentro l'albergo.
La sua audacia era comunicativa, e io rimasi lì in preda a un'eccitazione
febbrile. Guardai l'acquarello di Lord Mellifont e guardai il temporale che
s'avvicinava; levai gli occhi sulla finestra di Sua Grazia e li abbassai di
nuovo sull'orologio. Vawdrey era uscito da così poco tempo che lo avrei
raggiunto anche perdendo cinque minuti per salire fino al salottino di Lord
Mellifont - dove eravamo stati tutti graziosamente ricevuti - e dirgli, in
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veste d'ambasciatore, che la signora Adney lo pregava di apporre al dipinto
l'alta consacrazione della sua firma. Mentre esaminavo ancora quell'opera
d'arte notai che vi mancava certamente qualcosa: che cosa mai se non un
così nobile autografo? Avevo il dovere di riparare senza perder tempo a
quella deficienza, e con quel proposito rientrai immediatamente
nell'albergo. Salii fino alle stanze di Lord Mellifont; raggiunsi la porta
della sua sala. Qui, tuttavia, mi trovai di fronte a una difficoltà alla quale la
mia avvertenza non aveva pensato. Bussando alla porta avrei rovinato
tutto; ma avevo il coraggio di trascurare quella formalità? Mi proposi il
dilemma e rimasi perplesso; girai tra le mani più volte il dipinto, ma non
mi dette la risposta che desideravo. Volevo che dicesse: - Apri la porta
pian piano, senza far rumore ma rapidamente: poi vedrai quel che vedrai -.
Ero arrivato al punto di posare la mano sul pomo della porta quando mi
accorsi (i miei sensi erano cos tesi) che proprio come avevo desiderato pian piano, senza far rumore - un'altra porta s'era mossa, e dalla parte
opposta della sala. In quello stesso momento mi trovai a sorridere piuttosto
imbarazzato a Lady Mellifont, la quale, vedendomi, s'era fermata sulla
soglia della sua stanza. Per un attimo, mentre lei stava lì, ci scambiammo
due o tre idee, tanto più singolari in quanto non pronunciammo parola. Ci
eravamo sorpresi a vicenda mentre ronzavamo lì intorno, e fino a quel
punto c'intendevamo; ma mentre mi avvicinavo a lei - così che fra noi e il
salottino c'era tutta la larghezza della sala - le sue labbra formarono, senza
che quasi ne uscisse suono, la preghiera: - Non fatelo! - Lessi nei suoi
occhi consapevoli tutto quello che essa significava; la confessione della
sua curiosità e il timore delle conseguenze della mia. - Non fatelo!,- ripeté
mentre mi fermavo davanti a lei. Se il mio esperimento le appariva sotto
l'aspetto di un atto di violenza, ero pronto a rinunciarvi; pure, mi parve di
cogliere nel suo viso spaventato una rivelazione anche più profonda, una
possibilità di disappunto se io avessi ceduto. Era come dicesse: - Se ve ne
assumete la responsabilità, fate pure. Sì, per mezzo di un altro sarei
disposta a sorprenderlo; ma non dovrebbe mai sapere che io ci sono entrata
per qualcosa.
- Abbiamo trovato Lord Mellifont, - dissi, alludendo al nostro incontro
con lei di un'ora prima, - e fu tanto buono da offrire questo bel dipinto alla
signora Adney, la quale mi ha sollecitato a venire di sopra per pregarlo di
aggiungervi la firma, che manca.
Lady Mellifont mi prese l'acquerello dalle mani e indovinai la lotta che
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1970 - Racconti Di Fantasmi
si svolgeva in lei mentre lo guardava. Non disse parola, e sentii che tutte le
sue delicatezze e dignità, tutte le timidezze accumulate e le compassioni,
facevano ostacolo alla sua grande chance. Si allontanò da me col dipinto,
ritornò in camera sua. Si trattenne un paio di minuti, e quando riapparve
capii che aveva vinto la tentazione, che s'era anzi fatta indietro con una
sorta di rinnovato orrore. Aveva lasciato il dipinto nella stanza. - Se volete
essere tanto gentile da lasciarmi il quadro avrò cura che il desiderio della
signora Adney sia soddisfatto, - disse con grande cortesia e dolcezza, ma
quelle parole mettevano in certo modo fine al nostro colloquio.
Annuii con un entusiasmo forse un po' artificiale, e poi, per rendere la
nostra separazione più naturale, osservai che avremmo avuto un
cambiamento di tempo.
- In quel caso partiremo... partiremo subito, - rispose la povera donna.
La vivacità con la quale fece questa dichiarazione mi divertì: pareva
rappresentasse una vagheggiata fuga verso la salvezza, una fuga col suo
segreto minacciato. Fui di conseguenza tanto più sorpreso, quando, mentre
stavo per andarmene, ella tese la mano per stringere la mia. Aveva il
pretesto di prendere congedo, ma mentre gliela stringevo e facevo quella
supposizione, sentii che il vero significato del gesto era: - Vi ringrazio
dell'aiuto che avreste voluto darmi, ma meglio lasciare le cose come sono.
Se sapessi, chi mi potrebbe più aiutare? - E mentre^ritornavo in camera
mia per prendere l'ombrello, dissi tra me: - E sicura, ma non vuol fare la
prova.
Un quarto d'ora dopo avevo raggiunto Clare Vawdrey e in capo a pochi
minuti ci trovammo a dover cercare riparo. Non soltanto il temporale era
andato facendosi sempre più minaccioso, ma era scoppiato infine con
straordinaria violenza. Ci arrampicammo lungo un pendio verso una
capanna vuota, una rozza costruzione la quale non era gran cosa più di una
baracca per la protezione del bestiame. Era un discreto rifugio, comunque,
e attraverso le fessure potevamo goderci la scena, assistere alla gran
collera della natura. Lo spettacolo durò un'ora... un'ora che m'è rimasta
impressa nella memoria come piena di strane discordanze. Mentre il lampo
s'alternava al tuono e la pioggia colava sopra i nostri ombrelli, dissi a me
stesso che Clare Vawdrey era deludente. Non so esattamente come mi
raffigurassi un grande scrittore esposto al furore degli elementi, non so dire
quale atteggiamento alla Manfredi mi aspettassi dal mio compagno, ma
avevo comunque l'impressione che non avrei mai previsto di sentirmi
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ammannire da lui, in quelle circostanze, tutta una serie di storie - che
avevo già sentite - sul conto della famosa Lady Ringlose. Lady Ringlose
costituì l'argomento della conversazione; per quanto, prima che fosse
finito, egli prendesse a parlare con pari calore del signor Chafer, il non
meno famoso critico. Sentire un uomo come Vawdrey parlare di critici mi
spezzava il cuore. I lampi gettavano una luce vivida e spietata sulla verità,
che m'era familiare da anni e della quale gli ultimi due o tre giorni avevano
dato una conferma prodigiosa, sull'irritante certezza che per i rapporti
sociali quel mirabile genio trovava sufficiente una sua personalità di
seconda scelta. Senza dubbio la società non meritava di meglio, ma la
distinzione comportava un disprezzo che non poteva non riuscire umiliante
per un ammiratore. Il mondo era volgare e stupido, e l'uomo genuino
sarebbe stato uno sciocco a esibirsi davanti ad esso quando poteva
chiacchierare e pranzare per delega. Tuttavia, nel vedergli usare quel
sistema, mi sentii mancare il cuore. Non so bene che cosa volessi; volevo
forse che facesse un'eccezione per me, per me soltanto, munificamente e
affettuosamente, tra l'innumerevole gregge degli sciocchi. Quasi credevo
che lo avrebbe fatto, solo che avesse saputo a qual punto ammiravo il suo
ingegno. Ma non mi era mai riuscito di farglielo intendere, e applicava il
suo principio rigidamente. Ero comunque più certo che mai, che a
quell'ora, nella sua camera, la sua sedia, almeno, non era vuota: lì era
l'atteggiamento alla Manfredi, lf erano le intuizioni balenanti. Non potevo
far altro che invidiare la signora Adney per il suo presumibile godimento
di tanto dono.
Il tempo infine si calmò e la pioggia sminuì tanto da permetterci di
uscire dal nostro ricovero e ritornare all'albergo, dove, al nostro arrivo,
trovammo che la nostra prolungata assenza aveva prodotto una certa
inquietudine. Si era evidentemente pensato che il temporale ci avesse
messo in condizioni difficili. Alcuni nostri amici erano sulla porta e
parvero sconcertati nel constatare che eravamo soltanto molli di pioggia.
Per avventura Clare Vawdrey s'era bagnato più di me e andò direttamente
in camera sua. Bianche Adney era tra le persone radunate ad aspettarci, ma
quando l'oggetto delle nostre speculazioni le andò incontro si ritrasse senza
fare un cenno di saluto; con un moto che giudicai quasi studiatamente
freddo gli voltò le spalle ed entrò rapidamente in sala. Pur bagnato com'ero
la seguii; allora si voltò di scatto e mi guardò. La prima cosa di cui mi resi
conto fu che non era mai stata così bella. C'era una luce ispirata in lei, e col
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più rapido dei bisbigli, che fu al tempo stesso il grido più alto che avessi
mai sentito, mi confidò: - Ho avuto la mia «parte»!
- Siete andata in camera sua; avevo ragione?
- Ragione? - ripetè Bianche Adney. - Ah, amico mio! - mormorò.
- Era lì; lo avete visto?
- Egli ha veduto me. È stata l'ora più bella della mia vita.
- Della sua, direi, se eravate bella soltanto la metà di quello che lo siete
adesso.
- È magnifico, - continuò come se non mi sentisse. – Il vero,quello che
lavora, è lui! - Ascoltavo profondamente impressionato, e Bianche Adney
aggiunse: - Ci siamo capiti.
- Alla luce dei lampi?
- Oh, non avevo occhi per i lampi!
- Quanto tempo siete rimasta? - domandai, ammirato.
- Quanto è bastato per dirgli che lo adoro.
- È proprio quello che io non sono mai riuscito a dirgli! - dissi, e la mia
voce era un vero e proprio gemito.
- Avrò la mia parte; avrò la mia parte! - continuò con sublime
indifferenza; e si mise a camminare per la stanza come invasata, contenta
come una bambina; si fermò soltanto per dire: - Andate a cambiarvi.
- Avrete la firma di Lord Mellifont! - dissi.
- Al diavolo la firma di Lord Mellifont! È molto più simpatico del signor
Vawdrey, - continuò sconclusionatamente.
- Lord Mellifont? - finsi di chiedere.
- Lord Mellifont può andare all'inferno! - E Bianche Adney, nella sua
esaltazione, mi passò frusciando vicino e prese di nuovo, rapida, la via
della porta. Appena fuori s'imbattè in suo marito; e, con un bel grido di: Stavamo parlando proprio di te, amor mio! -gli gettò le braccia al collo e lo
baciò.
Andai nella mia stanza e mi cambiai, ma rimasi lì fino a sera. La
violenza del temporale era passata, ma era rimasta una pioggerella
insistente. Quando scesi a pranzo notai che il cambiamento di tempo aveva
già smembrato la nostra compagnia. I Mellifont erano partiti con una
carrozza a quattro cavalli, erano stati seguiti da altri, e parecchi veicoli
erano stati ordinati per il giorno dopo. Tra questi era quello di Bianche
Adney la quale, col pretesto dei preparativi per la partenza, appena il
pranzo fu finito ci lasciò. Clare Vawdrey mi domandò che cosa avesse Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
sembrava che si fosse messa a detestarlo improvvisamente. Non ricordo
che risposta gli diedi, ma feci del mio meglio per consolarlo offrendogli un
posto nella mia carrozza il giorno seguente. Quando scendemmo Bianche
era già svanita; ma a Londra dovettero riconciliarsi perché egli finì la
commedia e Bianche la interpretò. Devo aggiungere che è tuttavia sempre
in cerca della gran parte da sostenere. Io ne ho una bellissima in mente, ma
lei non viene da me per spronarmi al lavoro. Lady Mellifont ha sempre una
parola gentile per me, quando ci incontriamo, ma questo non mi consola.
Traduzione di Carlo Izzo.
SIR DOMINICK FERRAND
I.
«Ci sono parecchie obiezioni da fare, ma, se lo modifica, lo accetto»,
aveva detto la breve nota di Mr Locket; né le parole si sprecavano nel
poscritto, in cui aveva aggiunto: «Se passerà a trovarmi, le mostrerò ciò
che intendo». Questa comunicazione aveva raggiunto Jersey Villas con la
prima posta, e a Peter Baron era rimasto appena il tempo d'ingoiare il suo
coriaceo panino prima di mettersi in moto per ottemperare all'ordine del
direttore. Sapeva che tanto precipitarsi poteva denotare uno stato d'animo
affannoso, ed egli non aveva la minima voglia di mostrarsi affannato: non
era nel suo interesse. Ma come mantenere una calma olimpica in omaggio
ai propri principi, quando per la prima volta una grande rivista aveva
accettato, sia pure con crudele riserva, un prodotto del suo fervido
intelletto giovanile?
Solo allorché, nella sua carrozza di terza classe - simile a un fanciullo
che si accosta una conchiglia all'orecchio - cominciò a rendersi conto del
gran fragore della «sotterranea», si senti pungere fin nell'intimo dalla
crudeltà di quella riserva come da un odore acre di fumo. Era davvero
meschino mostrarsi preoccupato davanti alla necessità di dover apportare
delle modifiche. Peter Baron cercò in quel momento di immaginare se
stesso non in atto di correre, tradendo così il suo estremo bisogno, ma di
affrettarsi a scendere in campo in favore di alcuni di quei passi
particolarmente arditi su cui senza dubbio il direttore della «Rassegna di
Miscellanea» si sarebbe accanito. Finse - sia pure davanti al sudicio
compagno di viaggio che gli sedeva di fronte - di sentirsi indignato; ma
capì che, ai piccoli occhi tondi del suo ancor più bistrattato fratello, egli
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
impersonava l'egoista di successo. Avrebbe voluto soffermarsi sull'idea
che «Miscellanea» lo aveva «convocato»; tuttavia, qualunque giudizio si
fossero fatti di alcuni suoi voli di fantasia alla redazione del periodico, il
suo ricorrente sospetto di venir considerato in quell'ufficio un noto
rompiscatole non mancava di convinzione. L'unica cosa chiaramente
lusinghiera era il fatto che la «Miscellanea» ben di rado pubblicava
narrativa: Baron doveva dunque essere stato oggetto di una deviazione da
un metodo severo, e questo l'avrebbe più che compensato di una frase
contenuta in uno dei precedenti inesorabili biglietti di Mr Locket, una frase
che gli bruciava ancora, a proposito dell'assenza in lui di qualsiasi sintomo
di facoltà veramente creativa. «Lei sembra incapace di tener insieme un
personaggio», aveva osservato in un altro punto l'impietoso revisore.
Mentre il treno si fermava, Peter Baron, seduto nel suo angolo, considerò
nella luce a gas resa più fioca dalla nebbia il livello letterario offerto dal
chiosco di libri, e si chiese quale personaggio fosse crollato in pezzi questa
volta. In verità gli era sempre apparso un destino crudele quello di saper
creare col cervello senza possedere una penna adeguata.
Sarà tuttavia opportuno ricordare che, prima di partire per il suo incontro
con Mr Locket, l'attenzione di Baron era stata trattenuta per un certo tempo
da un episodio verificatosi a Jersey Villas. Uscendo di casa (egli abitava al
n. 3, la cui porta si apriva su un giardinetto prospiciente la strada), aveva
incontrato la signora che, da una settimana, era l'inquilina delle stanze al
pianterreno, i cosiddetti «studioli» secondo la terminologia di Mrs Bundy.
Due o tre volte ne aveva udito la voce dalla finestra; l'aveva anche veduta
entrare e uscire, e questa osservazione aveva destato nella sua mente un
giudizio vagamente favorevole nei suoi confronti. Tale giudizio in verità
era il risultato di un intenso esame; era apparso abbastanza evidente che
ella aveva un passo leggero, ma non meno degno di considerazione era il
fatto che possedesse un pianoforte verticale. Aveva inoltre un bambinetto,
e una voce dolcissima: Peter Baron ne aveva colto l'inflessione, non dal
canto (suonava soltanto), ma dalle gaie ammonizioni rivolte al figlio, al
quale permetteva ogni tanto di divertirsi -entro limiti pubblicamente
codificati - nel fazzoletto di terra nera posto a mo' di cortile davanti a ogni
casa, e che, nella squallida schiera di costruzioni, passava per un
abbellimento. Jersey Villas era una strada di villini che si ergevano a due a
due, semistaccati uno dall'altro. Mrs Ryves - questo il nome con cui la
nuova inquilina si era presentata - era stata ammessa nella casa nella sua
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
qualità di musicista dichiarata. Mrs Bundy, l'austera proprietaria del n. 3,
che considerava i suoi «studioli» (erano di quattro metri quadri) ancor più
attraenti - se possibile - del secondo piano di cui doveva accontentarsi
Baron - Mrs Bundy, che si riservava la stanza di soggiorno per un lavoro
saltuario di sarta, aveva già sviscerato l'argomento della nuova inquilina
col nostro giovanotto, facendogli notare che l'affetto ch'essa gli portava
stava a dimostrare le sue preferenze - a parità di condizioni - per gli
inquilini dotati d'ingegno.
Era questo il caso di Mrs Ryves, che aveva convinto Mrs Bundy di non
essere una strimpellatrice qualunque. Mrs Bundy aveva confidato a Peter
Baron che, per quanto la riguardava, una bell'arietta lei l'ascoltava
volentieri, e Peter aveva risposto con franchezza di avere un orecchio non
meno sensibile. Tutto sarebbe dipeso dal «tocco» della loro coabitante: se
la mano della pianista si fosse rivelata pesante, o le scelte volgari, il
pianoforte di Mrs Ryves gli avrebbe rovinato l'esistenza: se invece avesse
suonato con garbo musica gradevole, gli avrebbe anzi reso un servizio
durante le sue pipatine. Mrs Bundy, cui stava a cuore affittare le proprie
stanze, si rendeva garante per conto dell'estranea di un talento di
prim'ordine, e Mrs Ryves, che evidentemente sapeva molto bene il fatto
suo, non aveva smentito l'alquanto affrettata predizione. Non suonava mai
di mattina, quando Baron lavorava; nelle altre ore egli si trovava ad
ascoltare con piacere quelle melodie discrete e malinconiche. In effetti, pur
intendendosi assai poco di musica, l'unica critica che Baron avrebbe mosso
all'idea che di essa nutriva Mrs Ryves, era quella di sembrare troppo
incline al lugubre. Queste melodie, però, non gli riuscivano sgradite: al
contrario, si levavano nell'aria come una sorta di risposta consapevole a
certe sue meditazioni, certi dubbi. L'armonia sarebbe dunque regnata
sovrana se non fosse intervenuto a turbarla il singolare cattivo gusto del n.
4. Il pianoforte di Mrs Ryves poggiava contro il lato esterno della casa e,
secondo Mrs Bundy, nessuno poteva trovarvi a ridire, salvo il loro
coabitante, persona così ragionevole. Ma altrettanto non si poteva dire del
signore del n. 4, il quale non aveva neppure l'attenuante di essere uno
«studiato» come Mr Baron, e possedeva un mastino e cinque cappelli (tutta
la strada li aveva contati); e, a sentire Mrs Bundy, si sarebbe detto separato
dal fastidioso strumento da pareti e corridoi, ostruzioni e intercapedini di
struttura massiccia e favolosa estensione. Questo signore aveva assunto un
atteggiamento entrato ormai nella fase di scambio di lettere in vista di
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
transazione: tutti i vicini più immediati erano però dell'opinione che non
avesse un argomento valido da accampare e, per quanto vaghi fossero i
sentimenti di Jersey Villas su qualsiasi argomento, non lo erano di sicuro
circa i diritti e i torti delle padrone di casa.
Quando Peter Baron era uscito, c'era in giardino il bimbetto di Mrs
Ryves: anche sua madre era venuta fuori in quel momento – si sarebbe
detto - a capo scoperto, per assicurarsi che il piccino non facesse guai, e si
era messa ad esaminare con lui i rischi in cui poteva incorrere passando un
pezzo di spago intorno a una delle sbarre di ferro per fingere di tenere le
redini di un «gigì» (cavallo). Accadde però che, alla vista dell'altro
pigionante, il bambino ebbe un'intuizione più acuta del soggetto da
guidare, e corse incontro a Baron agitando le briglie e gridando: «Oppa,
gigì!» in modo tale da provocare una sorta di leggiadro imbarazzo nella
madre. Baron accolse la richiesta del piccino ponendoselo sopra una spalla
e fingendo per un istante di galoppare; così che, alla fine della scenetta per
la quale non occorsero che pochi secondi, il giovane si senti già presentato
a Mrs Ryves. Il sorriso di lei lo colpi per il suo fascino: impressioni del
genere abbreviano molti passi. «Oh, grazie! - gli disse, - ma non gli
permetta di disturbarla»; e poi, mentre Baron posava a terra il bambino e si
levava il cappello volgendosi per andar via, soggiunse: - Lei è molto
buono a non lagnarsi del mio pianoforte.
- Ne traggo un diletto particolare: lei suona magnificamente, -rispose
Peter Baron.
- Io devo suonare, capisce: è tutto ciò che so fare. Ma i vicini non
approvano, sebbene la mia stanza, come lei sa, non sia attigua al loro
muro. Perciò la ringrazio: mi autorizza a dir loro che, qui nella casa, lei
non mi considera un'importuna.
Aveva un'aria gaia e gentile nel parlare, e mentre gli occhi del giovane si
posavano su di lei, la sopportazione per la quale Mrs Ryves si diceva
debitrice sembrò a lui la minima delle indulgenze su cui ella avesse il
diritto di contare. Tuttavia Baron si accontentò di sor-riderle dicendo: - Oh
no, lei non è un'importuna! - La presentazione era stata così più che
completa.
A questo punto il bambino - un bel maschietto - reclamò a gran voce
un'altra cavalcata e, per quietarne gli ardori, la madre stessa lo prese in
collo. Rimase lì, col bimbo tra le braccia, mentre l'esuberante piccino le
infilava le dita fra i capelli, talché, nel sorridere a Baron, ella scosse
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dolcemente e indulgentemente la testa per liberarsene.
- Se proprio ne fanno un dramma, dovrò andarmene, - soggiunse.
- Oh, non se ne vada! - proruppe Baron con tanto improvviso calore che
la sua voce, giungendogli all'orecchio, gli parve appartenere a un altro.
Mrs Ryves uscì in un'esclamazione vaga, e con un leggero - ma non
scontroso - cenno del capo si ritirò in casa. Aveva prodotto sul suo
interlocutore un'impressione che rimase in lui fino al suo arrivo in
stazione: allora essa fu sopraffatta dal pensiero dell'imminente colloquio
con Mr Locket. Il che stava a dimostrare l'intensità di quell'interesse.
Il sapore rimasto in bocca a Peter Baron dopo l'incontro con l'editore
non fu meno intenso. Dopo aver trattato a fondo la questione con Mr
Locket, se n'era venuto via col suo manoscritto sotto il braccio, e ora si
sentiva in uno stato di esaltazione simile a un senso di trionfo. In verità
sulle prime gli riuscì di vedere la cosa sotto questa luce. Mr Locket aveva
dovuto ammettere che, nel racconto, un'idea c'era, e già questo era un
tributo di cui Baron poteva andar fiero; ma c'era anche una scena che
urtava la coscienza del direttore, e che il giovane aveva promesso di
riscrivere. Quell'idea che Mr Locket s'era degnato di rilevare poggiava
essenzialmente, per amore di chiarezza, su quella scena; era dunque facile
comprendere come la sua obiezione fosse fuori luogo. Questa convinzione
dava probabilmente esca alla serenità di Peter Baron diretto verso casa,
recante un contributo alla rivista che si lusingava di considerare accettato.
Fece la strada a piedi per calmare la sua eccitazione e pensare al modo di
riscrivere il pezzo. Camminò per un buon tratto senza venire a capo di
nulla; poi, quando la cosa incominciò a preoccuparlo, si mise a guardare
distrattamente le vetrine in cerca di soluzioni, di suggerimenti. Mr Locket
abitava nel cuore di Chelsea, in una graziosa casetta rivestita di legno, e
Baron prese la via di casa passando da King's Road. La passeggiata
mattutina per Londra gli procurò uno svago nuovo, un rimescolio più
intenso. Di solito, queste ore mattutine le passava a tavolino, nella
posizione goffa impostagli dal povero mobiletto - tipico esemplare
dell'arredo del secondo piano di Mrs Bundy - che doveva funger da altare
al suo sacrificio letterario. Se eccezionalmente gli capitava di uscire
quando il giorno era giovane, aveva notato che la vita stessa gli pareva più
giovane: c'erano occasioni più immediate di cui avvalersi, e giovani, rosee
commesse, da guardare: c'era nelle strade un'aria diversa e l'osservatore di
costumi vi avrebbe colto qualche scenetta di commercio minuto.
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1970 - Racconti Di Fantasmi
Soprattutto era quella l'ora in cui il povero Baron faceva acquisti, tutti
frutto di una mente svagata; per qualche misteriosa ragione le sue
prodigalità erano tutte mattutine, e aveva il presentimento che, se si fosse
rovinato, ciò sarebbe accaduto ben prima di mezzogiorno. Quella mattina
si sentiva in vena di sperperi grazie a ciò che la «Miscellanea» avrebbe
fatto di lui: aveva perso di vista, per il momento, ciò che a lui toccava fare
per la rivista. Davanti ai vecchi negozi di libri e di stampe - vetrine zeppe
di piccoli antiquari e allettanti mostre di mogano restaurato - Baron era
solito - come per un giuoco innocente - abbandonarsi a follie di lusso.
Riammobiliava l'alloggio di Mrs Bundy con una liberalità che a lei non
costava nulla e si perdeva in visioni di un secondo piano trasfigurato.
Quel giorno in particolare King's Road si mostrò di una dispendiosità
quasi senza precedenti. In effetti questa occasione differiva dalla maggior
parte delle altre, poiché conteneva il germe di un pericolo reale. Per una
volta si sentì rimordere la coscienza: fu tentato di derubare se stesso. Non
poteva vedere una scrivania comoda, con spazio per appoggiare il gomito,
fornita di cassetti, e una bella superficie di pelle con eleganti incisioni
dorate ai bordi, senza rievocare il ciarpame delle camere di Mrs Bundy. A
King's Road di scrivanie del genere ce n'erano parecchie; quel giorno poi
sembravano particolarmente numerose. Peter Baron le adocchiava tutte
attraverso le vetrine dei negozi, ma ve ne fu una che lo trattenne in estatica
contemplazione. Il bel tono sicuro che ne spirava pareva offrire garanzia di
capolavori; tuttavia, quando finalmente si decise ad entrare e - tanto per
darsi un po' di coraggio - ne chiese l'inabbordabile prezzo, la cifra indicata
dal loquace commesso lo beffò più di quanto si sarebbe aspettato. Era
assolutamente troppo caro, dichiarò Baron, e fu sul punto di concludere la
commedia battendo in meditabonda ritirata, quando il negoziante richiamò
la sua attenzione su un altro articolo pressappoco dello stesso genere: a
detta del mercante, per ciò che il mobile valeva, era quanto mai
conveniente. Era un pezzo antico, proveniente da una vendita di
campagna, e già da qualche tempo si trovava in magazzino, ma era stato
spostato fuori vista in una delle stanze superiori, vera miniera di tesori: per
combinazione era emerso alla luce appena di recente. Peter si lasciò
condurre in un interminabile corridoio semibuio, e di lì a poco si trovò
chino sopra uno di quei tavoli massicci e quadrati in mogano stagionato,
sostenuto - grazie a due gambe anteriori - da una specie di basamento
rientrante fornito di cassettini e altre piccole comodità, uno di quei mobili
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
insomma noti da tempo immemorabile ai conoscitori col nome di
«ribaltine». Questo esemplare aveva visibilmente combattuto le sue
battaglie, ma prometteva una solidità d'altri tempi, e a Peter Baron andò
inaspettatamente a genio.
Sulle prime avrebbe detto che un mobile del genere era proprio quello di
cui non aveva bisogno; ma quando il bottegaio gli accostò una sedia, ed
egli si sedette appoggiando i gomiti sul piano leggermente inclinato della
solida ampia ribalta, ebbe l'impressione che, con una simile base, la
battaglia per la letteratura sarebbe stata vinta per metà. Sollevò lo
sportello, guardò intenerito nel capace interno, e mantenne un silenzio
sinistro mentre l'altro inopinatamente dichiarava: «È un mobile che amo io
stesso». Allora, quando l'uomo menzionò il prezzo ridicolo (lo stavano
veramente regalando!) egli meditò sul vantaggio di possedere un altare
letterario sul quale accendere davvero un fuoco. Una ribaltina era un
compromesso, ma, dopo tutto, che cos'era la vita se non un compromesso?
Poteva indurre il mercante ad abbassare il prezzo - e da Mrs Bundy era
costretto a scrivere su un tavolino da gioco. Dopo essere rimasto seduto
per un momento alla simpatica scrivania, ebbe la curiosa impressione di
poterle confidare un paio di segreti - uno dei segreti di forma, uno dei
misteri sacrificali -, benché il curriculum letterario del mobile fosse stato
letterario soltanto nel senso di aver aiutato qualche vecchia signora a
scrivere inviti per pranzi noiosi. Esalava da quel ricettacolo uno strano
leggero effluvio, quasi che un tempo vi fossero state riposte profumate
reliquie. Sollevando il capo dal vano si rivolse al bottegaio: «Sono
disposto a venirle incontro a metà strada». Gente che se ne intendeva gli
aveva detto che era quello il sistema giusto. Si senti piuttosto meschino,
ma quella sera la ribaltina arrivò a Jersey Villas.
II.
- Oserei dire che andrà a finir bene; adesso pare tranquillo, -disse la
povera signora degli «studioli» qualche giorno dopo, a proposito del loro
litigioso vicino e della situazione precaria del suo pianoforte. I due
pigionanti avevano fatto regolare conoscenza, e il piano vi aveva molto
contribuito. Così, come col signore del n. 4 lo strumento era stato oggetto
di disputa, allo stesso modo era diventato base di un'intesa speciale tra
Peter Baron e l'occupante degli «studioli», e comunque argomento di
Henry James
223
1970 - Racconti Di Fantasmi
rinnovata conversazione tra loro. Mrs Ryves era così seducente da
infondere in Peter Baron la certezza che, anche non ci fosse stato il piano,
egli avrebbe trovato qualche altro tema di conversazione su cui
intrattenersi con lei. Per fortuna, però, avevano il piano, dal quale lui,
perlomeno, traeva il massimo vantaggio, ora che ne sapeva di più sul conto
della vicina. Questa, quando teneva il suo bel bambino in braccio, con
quell’aria di vedova stanca somigliava vagamente a una Madonna
moderna. Caratteristica generale di Mrs Bundy, nella sua qualità di
affittacamere ammobiliate, era un atteggiamento rigoroso nei confronti
delle donnine avvenenti, ma in Mrs Ryves essa aveva riposto la massima
fiducia. S'illuminava tutta all'idea di avere per inquilina una signora, anzi
una signora capace di riportarla al grato ritrovamento di una
manifestazione intellettuale per cui proprio lei nutriva una personale
considerazione. Mrs Ryves era una professionista, ma a Jersey Villas si
poteva andar orgogliosi di una professione che, giustappunto, non era
quella sbagliata: vi erano già state tristi esperienze in tal senso. Mrs Ryves
disponeva di un centinaio di sterline all'anno (Baron si domandava come
facesse a saperlo Mrs Bundy; gli pareva improbabile che glielo avesse
confidato Mrs Ryves); per il resto doveva contare sulla sua bella musica.
Baron pensava che - per bella che fosse - quella sua musica era un debole
sostegno: a stento sarebbe bastata a riempire una sala da concerto. Sulle
prime si era chiesto se la signora suonasse danze popolari a festicciole
infantili, o desse lezioni a signorine che coltivavano uno studio al disopra
della loro condizione sociale.
In verità gli era occorso ben poco tempo per venirne sufficientemente in
chiaro. Tutto si svolse in fretta, perché il bambino riuscì d'aiuto non meno
del pianoforte. Sidney compariva di continuo sulla soglia del n. 3: era
socievolissimo e con Peter aveva stabilito un rapporto autonomo: lo
dimostravano le frequenti audaci visite, disopra, a certi libri illustrati
(criticati per non raffigurare tutti «gigì») e a certi bastoni da passeggio
fortunatamente meglio accetti. Anche la finestra del giovane contribuiva
alla loro conoscenza. Attraverso una tendina di mussola inamidata, egli
poteva tener costantemente d'occhio la vicina e spiarne i movimenti più di
quanto gli pareva averne diritto. Egli era capace di timide curiosità, di
piccole delicatezze silenziose nei suoi confronti. Qualche lezione, più che
altro locale, Mrs Ryves la dava veramente, e Peter finiva per sapere più o
meno il motivo di ogni sua uscita, o da quale commissione fosse rientrata.
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1970 - Racconti Di Fantasmi
Visite non ne riceveva quasi per nulla, salvo un paio di vecchie signore per
bene e, ogni giorno, la povera sbiadita Miss Teagle, anziana la sua parte,
che veniva - umile e sottomessa - a far da governante al bambino degli
«studioli». La finestra di Peter Baron si era sempre affacciata su un ampio
squarcio di vita, egli pensava, e una delle cose che non aveva cessato di
palesargli era che non c'è nessuno di così povero da non poter esigere, per
un compenso di due soldi, i servizi di qualcuno ancor più povero. Mrs
Ryves era una donna che lottava per vivere (anche se a Baron non piaceva
pensarlo), ma per Miss Teagle, persona di pur agiate origini la cui vita era
stata un seguito di diplomi e di umiliazioni, essa stava in cima a un
pinnacolo.
Mrs Ryves, come lo stesso Baron, usciva talvolta con dei manoscritti
sotto braccio, e - ancora più come Baron - quasi sempre li riportava a casa.
I suoi vani approcci erano rivolti ai venditori di musiche: cercava di
produrre, di comporre canzoni destinate ad ottenere successo. Una canzone
di successo costituiva un'entrata, ella ebbe a confidare a Peter una delle
prime volte in cui lui riaccompagnò Sidney, blasé e assonnato, dalla
madre. Non fu in una di queste occasioni, ma un'altra volta, quando egli
era entrato in casa di lei senza miglior pretesto se non quello di desiderarlo
(lei, dopo tutto lo aveva virtualmente invitato), fu allora che gli disse che,
su mille canzoni, una sola riscuoteva successo; la tremenda difficoltà era
trovare le parole appropriate. L'adeguatezza del testo era solo una volgare
questione di fortuna: c'erano mucchi di parole bellissime che non
servivano proprio a niente. Peter, ridendo, osservò che, senza dubbio,
qualsiasi testo avesse tentato di comporre lui, sarebbe apparso troppo
ricercato... Eppure, solo tre settimane dopo il suo primo incontro con Mrs
Ryves, eccolo seduto alla sua diletta ribaltina (pur conscio di essere
pressato da doveri più urgenti), nell'intento di mettere insieme una filza di
versi abbastanza melensi da fare la fortuna della vicina. La finezza del
talento musicale di Mrs Ryves lo appagava: c'era in esso una nota
commovente, la stessa nota commovente che era nella sua persona.
La ribaltina era una vera delizia dopo sei mesi di quel suo traballante
predecessore, e l'avere, grazie a quel mobile, rinsaldato il proprio stile, non
attenuava nel giovane l'impressione di esserselo procurato con mezzi non
del tutto leciti. L'aveva comprato calcolando in anticipo il compenso che si
aspettava da Mr Locket, ma la generosità di Mr Locket doveva per forza
dipendere dalla capacità inventiva del suo collaboratore, il quale si trovava
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225
1970 - Racconti Di Fantasmi
ora di fronte alle conseguenze del proprio frivolo ottimismo. Guardato con
i gomiti appoggiati allo scrittoio, il frutto della sua fatica mostrava un
volto del tutto intransigente e incorruttibile. Sembrava a sua volta guardare
Baron con aria di rimprovero e giungere a una sua conclusione sostanziale:
«Come hai potuto fare una promessa tanto vile? Come ti sei indotto a dare
la tua parola per mutilarmi, per disonorarmi?» Le modifiche richieste da
Mr Locket erano impossibili, le concessioni al giudizio formulato dal
direttore sulla mente ottusa del pubblico addirittura degradanti. La mente
del pubblico! Come se il pubblico avesse una mente o un qualunque
canone di percezione più vivace di quanto non sia lo sguardo vitreo di un
ammasso di pecore! Peter Baron sentiva che toccava a lui stabilire se, per
riscrivere il suo racconto, a fargli difetto non fosse l'ingegno o, piuttosto
semplicemente, l'incapacità di prostituirsi. In verità, se avesse avuto meno
orgoglio, sarebbe stato più abile, e, dotato di maggiore esperienza, si
sarebbe mostrato più saggio. Nella professione letteraria l’umiltà era per
metà questione di esperienza, e metà del successo stava nella
rassegnazione. Il povero Peter arrossiva di sofferenza nel riconoscere che
la produzione di una gelida prosa (della quale il suo editore non sapeva che
farsene da un lato, e che egli stesso era ugualmente incapace di utilizzare
dall'altro) non era garanzia di successo. La verità circa il suo sfortunato
racconto era questa: dopo essere riuscito - bene o male - ad assaporare per
qualche giorno il gusto del successo, ora quel gusto si era fatto tanto più
amaro.
Quando se ne stava lì seduto, avvilito e scuro in volto, a mordicchiare la
penna e a chiedersi quali fossero i «compensi» della letteratura, di solito
finiva col gettare da una parte la composizione deflorata da Mr Locket e
metteva mano a quella specie di melensaggini che Mrs Ryves avrebbe
magari tentato di musicare. Un'esperienza del genere non era un
«compenso» letterario, ma non poteva forse diventare una fatica d'amore?
Lo sforzo compiuto gli sarebbe riuscito gradito se l'avesse gradito la sua
impenetrabile vicina. Tale ella gli appariva adesso: a poco a poco, aveva
appreso sul conto di lei quel tanto che gli bastava ad intuire quanto ancora
restasse da apprendere. Passare le mattine a comporre rime facili per lei era
senza dubbio un modo di eludere il quesito immediato: c'erano però ore in
cui il problema gli appariva troppo arduo nel complesso, ore in cui
rifletteva che tanto valeva perir di spada che di fame. Inoltre, considerare
che il suo fallimento non sarebbe stato così completo se fosse riuscito a
Henry James
226
1970 - Racconti Di Fantasmi
mettere insieme qualche canzoncina a cui le musiche di Mrs Ryves
avrebbero dato una certa diffusione, sarebbe stato come affrontare il
problema di striscio. Non si era ancora arrischiato a mostrarle nulla, ma
una mattina, in un momento in cui Sidney era da lui, gli parve, come per
ispirazione, di essere giunto a un felice punto intermedio (era un'arte a sé!)
fra musica e significato. Se il significato reggeva era perché le note gli
erano ormai famigliari.
Aveva detto al bambino, al quale aveva sacrificato zucchero d'orzo
(benché non di suo gusto, ne serbava sempre qualche pezzetto in quei
giorni), aveva dunque confidato al piccolo Sidney che, se avesse aspettato
un momento, l'avrebbe incaricato di portare alla mamma una bella cosa.
Mentre Peter ricopiava in nitida calligrafia la canzone, Sidney, assorbito
dai fatti suoi, vagava per la stanza, gorgogliante e appiccicoso. In questo
stato se ne venne barcollando come un piccolo ubriaco verso la parte
posteriore della ribaltina, situata a pochi passi dal vano della finestra, e,
siccome gli piaceva accompagnare le sue gioie più intense battendo il
tempo, cominciò a picchiare la superficie di legno con un tagliacarte
caduto per caso proprio su quel punto del pavimento. Nell'istante in cui
Sidney si abbandonava a tali violenze, il suo benevolo amico aveva
sollevato la ribalta dello scrittoio e, a testa bassa, stava frugando tra un
mucchio di carte in cerca di una busta adatta. - Ehi, ehi, ragazzino! esclamò, preoccupato per la patina antica di quel suo bene prediletto.
Sidney smise per un attimo; poi, mentre Peter era ancora a caccia della
busta, assestò un secondo colpo, questa volta con manifesta disubbidienza.
Peter, che ne udì il rumore dall'interno, rimase colpito dalla stranezza del
suono, tanto che - abbandonato per un momento il piccino in preda a una
perversa sensazione d'impunità - attese incuriosito il ripetersi del colpo.
Che venne subito, naturalmente, e allora il giovane, trovata finalmente la
busta, si levò di scatto esclamando: - Perbacco, quest'affare ha un doppio
fondo! - Immobilizzò il visitatore imprigionandolo col braccio sinistro
sopra un ginocchio, mentre con la mano libera vergò l'indirizzo sulla
missiva a Mrs Ryves.
Zelante com'era in fatto d'ambasciate, Sidney fu tolto di torno senza
difficoltà. Quando se ne fu liberato, Baron stette un momento in piedi
davanti alla finestra a far tintinnare in tasca monetine e chiavi, mentre si
chiedeva se l'affascinante compositrice avrebbe giudicato le parole per la
sua musica belle o - per meglio dire - brutte quanto le giudicava lui. Volse
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1970 - Racconti Di Fantasmi
la testa, e l'occhio gli cadde sulla parte posteriore della ribaltina dove, con
suo rincrescimento, tre o quattro segnacci denunciavano l'aggressione di
Sidney. - Accidenti a quel piccolo mostro! - esclamò, come se gli fosse
stato dissacrato l'altare. Si rammentò tuttavia della constatazione a cui
l'oltraggio recato l'aveva indotto e, per un'ulteriore verifica, batté con la
nocca un colpetto sul legno. Da quella posizione il rumore prodotto era
abbastanza normale, ma Peter si confermò nel suo sospetto allorché, di
nuovo in piedi accanto alla scrivania, s'introdusse col capo sotto la ribalta
sollevata, e rimase in ascolto mentre, col braccio teso, batteva un colpo
secco nello stesso punto. Il fondo del mobile era chiaramente cavo: fra le
pareti interne ed esterne c'era uno spazio così profondo (avrebbe saputo
dire quanto) che si diede dello sciocco per non essersene accorto prima. Il
ricettacolo, da una parte all'altra, era tanto vasto da sacrificare - senza
essere scoperto - una notevole quantità di spazio, e il sacrificio andava
inteso naturalmente per uno scopo, e lo scopo non poteva essere che quello
di creare uno scomparto segreto. Peter Baron era ancora abbastanza
ragazzo per eccitarsi all'idea di un particolare di questo genere, tanto più
che qualsiasi indicazione in merito risultava abilmente dissimulata. Gli
antiquari non se n'erano mai accorti, altrimenti vi avrebbero richiamato
l'attenzione del cliente, magari rincarando il prezzo. Miti e leggende gli
insegnavano che, dove c'è un nascondiglio segreto, c'è sempre una molla
nascosta, e Baron esaminò, premette, tastò nell'ansiosa ricerca del punto
nevralgico. Il mobile era davvero un capolavoro di precisione; ogni
particolare vi era inserito con esattezza tale da mantenerne integro l'aspetto
esteriore.
Proseguendo nella ricerca durata parecchi minuti, Baron rifletté che quei
bottegai, dopo tutto, non erano così sciocchi. Avevano ammesso del resto
di aver trascurato per puro caso quel relitto di nobile provenienza, sfuggito
ai loro occhi in mezzo alla profusione di tanti tesori. Si ricordò adesso che
il mercante voleva passare una mano di lucido sul mobile prima di spedirlo
a casa, e che lui stesso, soddisfatto dal canto suo di quell'apparenza
rispettabile, avverso com'era al mobilio verniciato, aveva ricusato, nella
sua impazienza, di aspettare che l'operazione venisse eseguita, cosicché il
pezzo era partito per Jersey Villas due o tre ore dopo, portando, com'era
presumibile, il suo segreto con sé. Pareva davvero volerlo serbare, quel
segreto: era assurdo lasciarsi confondere a quel modo, eppure Peter non
riusciva a scoprire la molla. Batté e sondò, tese l'orecchio e tornò a
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1970 - Racconti Di Fantasmi
esaminare, ispezionò ogni commessura, ogni interstizio, ottenendo il
risultato di essere sempre più sicuro dell'esistenza di una cavità e di
concludere che la sua ribaltina era davvero un pezzo pregiato. Non soltanto
esisteva uno spazio tra i due fondi, ma dentro quello spazio era celato
qualcosa, senza dubbio! Si trattava forse di un manoscritto smarrito - una
bella storia intatta, all'antica, per la quale Mr Locket non avrebbe sollevato
obiezioni. Peter tornò alla carica: gli venne in mente che forse non aveva
esaminato a sufficienza i sei cassettini di varie dimensioni che, disposti in
due file verticali e inseriti di lato in quel pezzo della struttura, costituivano
in parte la base della scrivania. Estrasse i tiretti e studiò più minutamente
la condizione dei loro scorrevoli, raggiungendo il felice risultato di
scoprire infine, nel punto in cui era inserito il terzo cassetto a sinistra,
un'assicella liscia e mobile. Dietro l'assicella ecco una molla, come un
bottone piatto, che cedette con un clic alla sua pressione, rivelando subito
l'allentarsi di uno dei pezzi del ripiano che formava la parte superiore della
ribaltina, tutti commessi uno nell'altro con una precisione capace
d'ingannare chiunque.
Questo pezzo in particolare risultò essere, a sua volta, un pannello
scorrevole che, sospinto, rivelò l'esistenza di un nascondiglio più piccolo,
una scatola stretta, rettangolare, nella finta parete del mobile: era di
limitata capacità, ma se non poteva celare molte cose, poteva nasconderne
di preziose. Di fronte all'ingegnosità con cui il segreto era dissimulato,
Baron avverti subito la stranezza del caso: se il piccolo Sidney non avesse
vibrato quei colpi all'esterno nel momento in cui lui stesso stava col capo
dentro lo scrittoio, sarebbero forse trascorsi degli anni senza che avesse il
minimo sospetto di nulla. E sarebbe stato un bel danno, perché non si era
sbagliato nel supporre che la cavità non fosse vuota. Conteneva qualche
cosa che - preziosa o no - era stata ritenuta da qualcuno degna di essere
nascosta. Il «qualche cosa» era una raccolta di pacchettini piatti del
formato di lettere, avvolti in carta bianca e sigillati con cura. I sigilli,
impressi meccanicamente, non presentavano né stemmi né iniziali. La
carta, vecchia, era diventata lievemente giallognola: chissà da quanto erano
là dentro, quei pacchetti! Baron li contò: erano nove in tutto, di varia
dimensione; li voltò e li rivoltò, li palpò incuriosito, li annusò: avevano un
vago odore di muffa che gli provocò un senso di malinconia, quasi si
trattasse di una voce umana soffocata. I plichi non portavano nome né
numero, non v'era una parola di scritto su nessuno degli involucri:
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contenevano semplicemente vecchie lettere, scelte e suddivise in base a
date o nomi di corrispondenti. Narravano di qualche vecchia storia morta:
erano le ceneri di fuochi spenti.
Mentre Peter Baron si passava le sue scoperte da una mano all'altra,
avverti un curioso stato d'animo: non era esaltazione, e tuttavia era ancor
meno pura sofferenza. Aveva fatto una scoperta, una scoperta che però, in
qualche modo, veniva ad aumentare la sua responsabilità: egli si trovava in
presenza di qualcosa d'interessante, ma la circostanza veniva a un tratto - e
non avrebbe saputo dire perché - a rappresentare un pericolo. Era
l'intuizione di questo pericolo, per esempio, che lo tratteneva dall'impulso
di spezzare uno dei sigilli. Li osservò tutti da vicino, ma badò bene a non
staccarli, mentre con un certo disagio si domandava se non fosse giusto
considerare il contenuto del segreto proprietà di quegli antiquari di King's
Road. Aveva sì sborsato dei denari per la ribaltina, ma ne aveva sborsati
per quelle carte che in essa erano sepolte? Ne pagava lo scotto con quella
indefinibile sensazione di freddo che gli era venuta addosso - lo scotto
pagato già altre volte in passato: quello di esser fatto di materia sensibile.
Era come se gli si fosse surrettiziamente presentata un'occasione di
sacrificio, un sacrificio sull'altare di una nobile superstizione, qualcosa di
simile all'onore, alla bontà o alla giustizia, qualcosa di forse ancor più
nobile: un dovere di difficile decifrazione, un'impossibile, allettante prova
di saggezza. In piedi davanti al suo ambiguo tesoro, assorto per il
momento nell'impressione di un guaio incombente, sussultò nell'udire un
bussare leggero e rapido alla porta dello studio. Istintivamente, prima di
rispondere, rimase in ascolto un istante, nell'atteggiamento dell'avaro
sorpreso a contare il proprio gruzzolo. Poi rispose: - Un attimo, per favore!
- e fece scivolare il mucchio di plichi nel più grosso cassetto della
scrivania rimasto aperto. Il varco nel doppio fondo era tuttora evidente e
Peter non ebbe il tempo di azionare di nuovo la molla; vi posò sopra un
grosso libro e andò ad aprire.
La visione che gli si offerse non gli riuscì meno gradita per essere
inattesa: l'aggraziata e irrequieta figura di Mrs Ryves. Era in uno stato di
così evidente agitazione da fargli credere sulle prime che fosse accaduto
qualcosa di grave al bambino e si fosse precipitata di sopra a chiedere
aiuto, a pregarlo di andare a chiamare un medico. Poi si rese conto che
quell'agitazione era probabilmente dovuta ai versi sciagurati che le aveva
inviato un quarto d'ora prima, giacché la vicina teneva in una mano il
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1970 - Racconti Di Fantasmi
foglio manoscritto aperto, e con l'altra lo spiegazzava. Era spaventata e
graziosa, e se, nel violare l'intimità di un coinquilino, si era resa colpevole
di una deroga da usanze severe, appariva perlomeno cosciente della
mostruosità del passo compiuto e incapace di prenderlo alla leggera.
Leggero si senti Peter Baron, che si sforzò tuttavia di ammantare di
rispetto la propria cordialità, sospingendo davanti all'ospite la seggiola
d'onore e ripetendo quanto piacere gli procurasse quella visita. Mrs Ryves
era entrata lasciando l'uscio socchiuso e, dopo un minuto durante il quale
egli - nell'intento di venirle in aiuto - la sollecitava a dirgli di vergognarsi
di mandarle robaccia del genere, lei riacquistò sicurezza sufficiente per
balbettare che i suoi versi erano proprio ciò di cui aveva bisogno, a tal
punto che, dopo averli letti, era stata presa da un impulso irresistibile,
straordinario: quello di non tardare a ringraziarlo di persona.
- E stato l'impulso di un animo gentile, - rispose lui, - e non le dico il
piacere che mi procura.
Mrs Ryves ricusò di accomodarsi: era chiaro che desiderava dare
l'impressione di essere venuta per pochi minuti. Si guardò intorno
imbarazzata, e quando il suo sguardo incontrò quello di lui, Peter fu
colpito dall'appello ansioso che conteneva. Non pensava ovviamente alla
canzoncina da lui composta, sebbene avesse ripetuto per tre o quattro volte
di seguito che era splendida.
- Ecco, desideravo solo che lo sapesse, ma ora debbo andare, -soggiunse.
Viceversa, sul tappeto davanti al camino, indugiò con così inatteso
abbandono che quasi gli fece compassione.
- Forse posso modificarla se trova che non va, - disse Baron. - Sono così
lieto di fare ciò che posso per lei.
- Può darsi che un paio di parole vadano cambiate, - gli rispose con aria
assente. - Bisognerà che ci ripensi, che me ne impadronisca un po'. Ma mi
piace, e volevo dirglielo.
- E molto gentile da parte sua. Non sono affatto occupato, -annunciò
Baron.
Di nuovo lei lo guardò intensamente turbata, poi all'improvviso, gli
domandò: - C'è qualcosa che non va?
- Che non va?
- Voglio dire: non si sente bene, o è preoccupato? Me lo sono chiesta a
un tratto, una fantasia così, ed è questa, credo, la vera ragione per cui sono
salita.
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- Nulla del genere, le assicuro: sto benissimo. Ma le sue fantasie
improvvise sono ispirazioni.
- Sono assurdità: lei deve scusarmi. Arrivederla, - disse Mrs Ryves.
- Quali sono le parole che vuole cambiare? - domandò Baron.
- Nessuna, se lei sta bene. Arrivederla, - ripetè la visitatrice fissando per
un istante lo sguardo su un oggetto dello scrittoio che l'aveva colpita. Gli
occhi di lui si volsero nella stessa direzione e si accorse che, nella fretta di
nascondere i pacchetti trovati nella ribaltina, ne aveva dimenticato uno,
rimasto in vista con i suoi sigilli. Lì per lì si senti scoperto come se avesse
atteso a un'occupazione vergognosa, e soltanto ripensandoci un attimo si
disse quanto poco poteva riguardare Mrs Ryves la vicenda di cui quel
pacchetto era una conseguenza. Lo sguardo consapevole di lei tornò ad
incrociare il suo, come per sondarlo. Ad un tratto, all'istinto di tenere la sua
scoperta per sé, fece seguito in Baron la deduzione davvero allarmante
che, con rara prontezza, Mrs Ryves aveva indovinato qualcosa e che quella
divinazione (davvero soprannaturale) era stata la vera ragione della sua
visita. Qualche segreta telepatia l'aveva fatta vibrare, ispirandole la
certezza che egli aveva fatto una scoperta. Pochi istanti dopo capì ch'essa
aveva intuito la sua riflessione di quel momento, il che gli procurò un
desiderio vivo, un desiderio grato, gioioso di mostrarsi come uno che non
ha nulla da nascondere. Quanto a lei, quella certezza la indusse alla
determinazione ancora più salda di concludere la breve visita. Ma prima
che avesse raggiunto la soglia, Baron uscì a dire:
- Se sto bene? Come può stare altrimenti uno che ha appena fatto una
tale scoperta?
Lei tacque a queste parole e mantenne un'espressione seria nel
domandargli: - Che cosa ha scoperto?
- Vecchie carte di famiglia, in uno scomparto segreto del mio scrittoio -.
E, preso in mano il pacchetto dimenticato, lo tenne davanti agli occhi della
sua ospite: - Ce ne sono parecchi altri come questo.
- Che cosa sono? - chiese Mrs Ryves in un bisbiglio.
- Non ne ho la minima idea. Sono sigillati.
- Non ha spezzato i sigilli? - Era tornata indietro di un altro poco.
- Me n'è mancato il tempo. È successo solo dieci minuti fa.
- Lo sapevo, - fece Mrs Ryves, questa volta in tono più gaio.
- Che cosa sapeva?
- Che si era messo in qualche impiccio.
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1970 - Racconti Di Fantasmi
- Lei è straordinaria. Non ho mai assistito a un prodigio del genere: e
alla distanza di due rampe di scale!
- Ma è veramente in un impiccio? - chiese lei.
- Sì; non so se restituirli o no -. Peter Baron, in piedi davanti alla sua
visitatrice, la guardava sorridendo e tamburellando col pacchetto sul palmo
della mano. - Lei che mi consiglia?
Fu lei a sorridere ora, con gli occhi fissi sul plico. - Restituirli a chi?
- Al rigattiere da cui ho comprato la scrivania.
- Ah, allora non sono carte della sua famiglia?
- No davvero. Il mobile in cui erano nascosti non l'ho ereditato dai miei
avi. L'ho comperato di seconda mano - vede com'è vecchio - l'altro giorno,
in King's Road. A quanto sembra, l'uomo che me l'ha venduto mi ha
venduto più di quanto supponesse: non sospettava (dando prova di
stupidità, dal suo punto di vista) che il mobile avesse un «segreto» in cui
erano celati documenti misteriosi. Dovrei andarglielo a dire? È un bel
problema.
- Sono documenti di valore?
- Non ne ho la minima idea. Ma posso accertarmene rompendo un
sigillo.
- Non lo faccia! - esclamò Mrs Ryves, come ispirata. Aveva ripreso
un'espressione grave.
- E abbastanza allettante, ma certo è un po' un problema, -continuò
Baron, rivoltando il pacchetto tra le mani.
Mrs Ryves esitò. - Vuole mostrarmi ciò che ha in mano? Baron le porse
il plico, ed ella se lo portò al naso per un attimo. - Ha uno strano profumo,
affascinante, - osservò il giovane.
- Affascinante? È tremendo. - Glielo restituì, ripetendo con maggior
enfasi: - Non lo faccia!
- Non devo rompere il sigillo?
- Non restituisca i documenti!
- È onesto tenerli?
- Certamente. Appartengono a lei quanto alla gente del negozio. Quando
il mobile venne nelle loro mani, le carte erano nascoste nel segreto:
avevano ogni possibilità di scoprirle. Non l'hanno fatto, perciò ne accettino
le conseguenze.
Peter Baron rifletté, divertito dall'intensità di quella partecipazione. Era
pallida, lo sguardo infuocato. - Lo scrittoio l'avevano lì da anni.
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- Ciò dimostra che nessuno s'è accorto della mancanza delle carte.
- Le voglio far vedere com'erano celate, - riprese Baron. Le mostrò
l'ingegnoso nascondiglio e il funzionamento della strana molla. La sua
ospite era interessatissima; nell'eccitazione il suo tono divenne famigliare.
Di nuovo lo supplicò di non far nulla di tanto insensato come rinunciare a
quelle carte, il resto delle quali egli dispose in fila davanti ai suoi occhi,
negli involucri sbiaditi, impenetrabili. - Se ne potrebbe rintracciare la
storia... l'appartenenza, - egli obiettò. Mrs Ryves rispose che, appunto per
questo, lui doveva starsene zitto. Baron dichiarò che le donne non hanno il
minimo senso dell'onore, e lei replicò che, comunque, hanno intuizioni
diverse, più sottili di quelle degli uomini. Fu pronto ad ammettere che,
probabilmente, quei documenti erano ciarpame, ed ella convenne che nulla
era più probabile; tuttavia, alla proposta di chiarire la questione all'istante,
Mrs Ryves lo afferrò per il polso riconoscendo - per assurdo che fosse - di
sentirsi nervosa. Alla fine aggirò la situazione pregandolo di farlo solo per
lei. Gli chiese di trattenere i documenti, di non farne parola, unicamente
per compiacerla. Non gli pareva motivo sufficiente? La conoscenza di
Baron, il suo cordiale rapporto con lei permisero di fare molti passi avanti
nella disamina del problema, discutendo il quale finì per farsi strada una
sorta di amichevole candore.
- Non riesco a capire perché le stia tanto a cuore l'una piuttosto che
l'altra soluzione, né perché valga la pena di discuterne, -osservò il giovane.
- Neppure io. È soltanto un capriccio.
- Certo, per farle piacere non dirò nulla al negozio.
- E molto gentile da parte sua, gliene sono assai grata. Ora capisco che è
stato questo l'impulso che mi ha spinta a salire: salvare i documenti, continuò Mrs Ryves. E soggiunse nel congedarsi che, avendoli ormai
messi in salvo, doveva proprio andarsene.
- Messi in salvo per che cosa? - fece Baron; - dal momento che non mi
permette di dissigillarli...
- Non so... per compiere un bel gesto.
- Ma perché un bel gesto? Qual è la posta in gioco? - domandò Peter
appoggiato allo stipite, mentre lei indugiava sul pianerottolo.
- Cosa sia non so; ma ho la sensazione che qualche cosa sia in pericolo.
Li bruci! - esclamò; e le brillavano gli occhi.
- Ah, lei chiede troppo! Io muoio di curiosità!...
- Bah, non voglio chiedere più di quanto mi sia lecito, e già le sono
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molto grata per avermi promesso di tacere. Mi affido al suo discernimento.
Addio.
- Il mio discernimento merita però una ricompensa, - osservò Baron,
uscendo sul pianerottolo.
Mrs Ryves stava già scendendo le scale e si fermò; gli sorrise guardando
in su, appoggiata alla balaustra.
- Senza dubbio l'averla onorata della mia visita è già una ricompensa.
- Deliziosa, su questo siamo d'accordo. Ma cosa farà lei per me, se io
brucio quelle carte?
Mrs Ryves parve riflettere un momento. - Prima le bruci, e poi vedrà!
Dopo di che scese rapidamente le scale, e Baron, al quale la risposta era
apparsa inadeguata, e la proposta, formulata a quel modo, grossolanamente
ingiusta, se ne tornò in camera. Il vivo interesse da lei mostrato in una
faccenda in cui essa - era ovvio - non rischiava nulla, lo intrigava, lo
divertiva e, per di più, lo affascinava in maniera irresistibile. Era una
donna delicata, estrosa, facile a prender fuoco, rapida di sentimenti, rapida
nell'azione. Non se ne rammaricava, era così che gli piacevano le donne;
ma per il momento nulla lo vincolava a consegnare alle fiamme i pacchetti
sigillati. Li lasciò cadere di nuovo nel loro pozzo segreto, e usci. Si sentiva
irrequieto, eccitato: aveva sprecato un'altra giornata: e il lavoraccio da fare
per Mr Locket era ulteriormente rinviato.
III.
Dieci giorni dopo la visita di Mrs Ryves, fissato un appuntamento col
direttore della rivista, Peter si recò di nuovo a trovarlo nella casetta di
Chelsea, rivestita di legno. Quell'ufficio, circondato da tutti i ferri del
mestiere - uno strame di giornali, una siepe di enciclopedie, una galleria di
fotografie di collaboratori ben noti - scuro e affumicato com'era, gli
rammentava il fornello di una vecchia pipa. Si ripromise sulle prime di
rubare a Mr Locket pochissimi dei minuti che tanti numerosi impegni si
contendevano. Tuttavia fu l'editore stesso che, poco dopo, diede maggiore
spazio, maggior respiro all'intervista, quand'ebbe scoperto che il povero
Baron era venuto per dirgli qualcosa di più interessante della propria
incapacità - dopo tutto - di rabberciare il racconto. Peter aveva iniziato
così: aveva rispettosamente dichiarato ch'era quello un caso contro il quale
si ribellavano in lui sia esperienza che principi; poi, constatato quale scarso
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1970 - Racconti Di Fantasmi
effetto la sua audacia produceva su Mr Locket, si era sentito debole,
piuttosto sciocco, lasciato solo a reggere il peso del proprio eroismo. Si era
armato per una lotta in campo aperto, ma la rivista non protestava neppure,
e non gli sarebbe rimasto altro che andarsene con la prospettiva di non
farsi vedere mai più, se d'un tratto non fosse uscito a dire, con tono
indifferente, mentre si alzava per accomiatarsi:
- Non le interessa per caso Sir Dominick Ferrand?
Mr Locket, che si era alzato a sua volta, lo guardò al di sopra degli
occhiali. - Il defunto Sir Dominick?
- L'unico: come lei sa, la famiglia è estinta.
Mr Locket lanciò al suo giovane amico un'altra occhiata penetrante,
muta replica alla sua richiesta disinvolta. - Estintissima, senza dubbio. Al
giorno d'oggi, temo, l'argomento risulterebbe di scarso interesse.
- Ne è proprio sicuro? - domandò Baron.
Mr Locket si sporse un poco in avanti, le punte delle dita premute sul
tavolo, in atto di chi autorizza l'altro a prender congedo - Potrei
considerare la cosa sotto un profilo speciale -. Tacque un momento,
relegando il povero Peter nel vago: ma, incrociato di nuovo lo sguardo del
giovane, domandò: - Intende, ehm, proporre un articolo su di lui?
- Non esattamente proporre un articolo... perché non vedo in quale modo
io... ma l'idea mi attira abbastanza.
Mr Locket asserì con sicurezza che l'eminente statista era stato a suo
tempo una figura di rilievo; poi soggiunse: - L'ha studiato?
- Mi ci sono immerso.
- Temo non sia un argomento d'attualità, - disse Mr Locket radunando
delle carte.
- Forse potrei renderlo io d'attualità, - dichiarò Peter Baron. Mr Locket
lo fissò di nuovo, incapace di trattenere un «Lei?» tutt’altro che smorzato.
- Ho del materiale nuovo, - disse il giovane arrossendo un poco- - Ciò
vale molte volte a rinfrescare una vecchia storia.
- Sovente serve a seppellirla. Spesso non è altro che una nuova Pietra
tombale.
- Dipende da cosa si tratta, - riprese Peter. - Tuttavia le carte di cui le
parlo costituirebbero una documentazione schiacciante.
Di sotto le lenti Mr Locket gli lanciò un'altra occhiata esitante. - Allude
a... ehm,... rivelazioni?
- Rivelazioni molto curiose.
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1970 - Racconti Di Fantasmi
Mr Locket, sempre in piedi, aveva mantenuto il corpo nella posizione di
un mezzo inchino; gli fu quindi facile, dopo un istante, curvarsi ancora di
più e lasciarsi cadere sulla propria sedia, con un movimento della mano
verso la seggiola occupata prima da Baron. Baron approfittò del vantaggio,
e la conversazione riprese l'avvio, resa un po' meno avvilente per il nostro
giovanotto dall'elargizione di quel privilegio. Non aveva formulato alcun
progetto di confidare il suo segreto a Mr Locket: era venuto per recargli
coscienziosamente l'altro annuncio: quello per cui risultava chiaro che
tanto suo fervore artistico era andato sprecato. Nei giorni precedenti giorni di penosa indecisione - egli si era rivolto con l'immaginazione al
direttore della rivista come s'era rivolto ad altre fonti di conforto; ma,
girala e voltala, i suoi scrupoli continuavano a molestarlo e se, da un lato,
non aveva assolutamente escluso di far accenno allo straordinario
ritrovamento, a maggior ragione aveva affidato il modo di introdurre il
tema alla decisione del momento. In realtà era troppo nervoso per prendere
partito: solo avvertiva l'esigenza di comunicare il rinvenimento del
carteggio per sentirsi l'animo in pace. Gli occorreva un'opinione, il parere
di qualcun altro, e persino, durante quella visita eminentemente
professionale, cinque minuti dopo l'inizio del racconto della sua curiosa
storia si senti alleggerito di metà del suo fardello. La storia era davvero
curiosissima: lui stesso, parlandone, ne misurava la stranezza: ma non
sarebbe stata proprio questa la circostanza atta a qualificarla per la rivista?
- Naturalmente le lettere potrebbero essere un falso, - sentenziò alla fine
Mr Locket.
- È fuor di dubbio che molti la penseranno così.
- Le ha viste qualche esperto?
- No davvero: non le ha viste nessuno.
- Ne ha qualcuna con sé?
- No: mi innervosiva il solo pensiero di portarle in giro.
- Peccato: avrei desiderato vederle con i miei occhi.
- Potrà vederle se viene a casa mia. Se poi preferisce non farlo senza
ulteriori garanzie, gliene trascriverò qualche brano.
- Scelga alcuni dei peggiori! - disse Mr Locket ridendo. Le sconvolgenti
informazioni di Baron l'avevano fatto diventare più umano, più simpatico.
Ma, poco dopo, soggiunse asciutto: - Lei sa che bisognerebbe sottoporre i
documenti ad un esperto.
- È proprio ciò che mi fa paura, - disse Peter.
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- Senza di questo per me non avranno nessun valore.
Peter fece appello alle sue più segrete energie. - E che valore potranno
avere per me se li sottoponiamo?
Mr Locket si rigirò sulla poltrona. - Prima di rispondere a codesta
domanda, esigerei vederli.
- Sono stato al British Museum: ci sono molte lettere di Sir Dominick
Ferrand. Ho ottenuto il permesso di esaminarle, e ho confrontato con cura
ogni cosa. Escludo ogni possibilità di falso. Ci sono tutti i segni
dell'autenticità: esistono particolari, persino nei timbri postali, che nessun
falsario si sarebbe potuto inventare. Del resto, chi ne avrebbe tratto
vantaggio? Un lavoro di indicibile difficoltà, e a quale scopo? Sono
parecchie lettere: ventisette in tutto.
- Buon Dio, che idiota! - esclamò Mr Locket.
- Sarà una delle più straordinarie rivelazioni post mortem di cui la storia
conservi testimonianza.
Mr Locket, fattosi serio, tormentava con un tagliacarte l'interstizio di un
cassetto. - Molto curioso. Ma affinché simili documenti abbiano un
qualunque valore, debbono venir sottoposti ad una ricerca critica... una
ricerca storiografica, voglio dire.
- Certamente; ciò sarà compito del pubblicista che li presenterà ai lettori.
Di nuovo Mr Locket rifletté, poi alzò il capo sorridendo. - Lei farebbe
bene a rinunciare alla composizione di opere originali per dedicarsi
all'acquisto di mobili usati.
- Dice che sarebbe più redditizio?
- Nel suo caso direi che la composizione originale non potrebbe rendere
meno. La capacità creativa è così rara!
- Mi sento proprio tentato di rivolgere la mia attenzione a protagonisti
reali, - rispose Peter.
- Devo dichiarare che Sir Dominick Ferrand non è mai stato per me un
protagonista. Presuntuoso, scaltro, un personaggio di second'ordine, così
l'ho sempre giudicato io. Del resto, non è un segreto che la sua vita privata
aveva dei lati deboli. Un fuoco di paglia; ecco quello che è stato, null’altro.
- Ma dice qualcosa al popolo di questo Paese, - osservò Baron.
- Lo ha detto a suo tempo; ma la sua voce, la voce del suo prestigio,
intendo dire, ormai non giunge quasi più all'orecchio di nessuno.
- Al Foreign Office fece cose di cui ci si vanta ancor oggi: il famoso
«scambio» con la Spagna, nel Mediterraneo, che colse l'Europa di sorpresa
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e destò il risentimento dell'altra parte, specie quando risultò evidente il
vantaggio che ne avevamo tratto noi. Poi l’improvvisa, inattesa prova di
forza con la quale impose agli Stati Uniti la nostra interpretazione di quel
noioso trattato. Non sono mai riuscito a capire che cosa stabilisse. Sono
stati entrambi argomenti di cui a nessuno è mai importato un fico secco,
ma che inducevano a credere di dar loro importanza: la nazione fece tanto
di cappello alla maniera con cui egli seppe giocare le sue carte: fu un
evento insolito. Fu uno dei pochi uomini della nostra epoca che colse
l'Europa - o l'America - di sorpresa e le tenne un po' sulla corda: il paese lo
apprezzò, era una innovazione gradita. Il resto del mondo credette di
sapere comunque ciò che noi avremmo fatto: nulla, come sempre. Dica
quello che vuole, è ancora un nome che ha una sua risonanza: in parte,
senza dubbio, per motivi diversi: i successi riportati in gioventù, la sua
morte prematura, la sua facciatosta politica, il suo acume; il suo stesso
aspetto esteriore - era certo un bell'uomo - e le possibilità di futura
supremazia personale; allora era di moda dire che quelle possibilità sono
scomparse con lui, ed è di moda ancor oggi. Era stato due volte al Foreign
Office: già questo era un fatto notevole per un uomo morto a
quarantaquattro anni. Che cosa penserà di lui il Paese quando saprà che era
venale?
Peter Baron non ce l'aveva personalmente con Sir Dominick Ferrand che
- dopo una settimana di «lettura febbrile» - era diventato per lui un
interessantissimo soggetto di studio psicologico; ma gli era facile mettersi
nei panni di quella parte di pubblico ancora abbastanza memore del
proprio amor patrio per esserne traumatizzata. Per buona sorte era
parecchio tempo che la conduzione della cosa pubblica sentiva l'esigenza
di uomini disinteressati e abili, ma gli eccezionali documenti celati (chi
l'avrebbe mai pensato? - era una fantasia da incubo!) in una «occasione» di
seconda mano trovati da un oscuro pubblicista, avrebbe procurato uno
choc ben prevedibile a chi serbasse memoria del passato. Baron prevedeva
lucidamente che, se quelle reliquie fossero state rese pubbliche, ne sarebbe
seguito uno strascico enorme di scandali, di indignazione, di pettegolezzi.
Altrettanto enorme sarebbe stato il contributo recato alla verità, alla
rettifica storica. Da diversi giorni aveva l'impressione (ed era questa ad
averlo reso così nervoso) di tenere in mano la chiave dell'attenzione
pubblica.
- Ci sono troppe cose da spiegare, - prosegui Mr Locket, - e la singolare
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1970 - Racconti Di Fantasmi
provenance del suo carteggio potrebbe addirittura contare di più, anche
superando altre obiezioni. Occorrerebbe tracciare un lungo pedigree,
probabilmente complicatissimo. Come sono entrate in quella che lei
chiama la sua «ribaltina»? Da quanto tempo vi erano nascoste? Quali mani
le hanno scelte? Quali le hanno così incredibilmente tenute strette,
conservate? Chi sono le persone in esse menzionate? Chi i corrispondenti,
chi i contraenti delle infauste transazioni? Lei dice che le transazioni
sembrano appartenere a due generi distinti: alcune connesse con affari
pubblici, altre con oscuri rapporti personali.
- Hanno tutte un dato comune, - disse Peter Baron, - testimoniano da
parte dello scrivente un certo disagio, in taluni momenti un penoso timore
di scandalo: in un caso specifico, a quanto ho capito, lo scandalo per
essersi avvalso di opportunità ufficiali per promuovere imprese (opere
pubbliche e cose del genere) in cui egli aveva interessi finanziari. Nell'altro
caso la paura di uno scandalo è chiaramente di natura diversa: si tratta
delle prime lettere, in ordine di data. Sono indirizzate a una donna dalla
quale egli aveva evidentemente ricevuto del denaro.
Mr Locket si ripulì le lenti. - Quale donna?
- Non ne ho la minima idea. Ci sono moltissime domande a cui non so
rispondere, naturalmente: moltissime identità che non so definire, un gran
numero di lacune che mi sento incapace di colmare. Ma su due punti sono
ben sicuro, e sono i due punti essenziali: in primo luogo, le carte in mio
possesso sono originali; in secondo luogo sono compromettenti.
Così dicendo, Peter Baron si alzò di nuovo, piuttosto irritato con se
stesso per non essere stato indotto a fare pubblicità al suo tesoro (era lo
scetticismo perfettamente naturale del suo interlocutore a provocare
quell'effetto): sentiva che si stava mettendo in una posizione falsa.
Scopriva nello studiato distacco di Mr Locket il fermentare di certe
reazioni da cui, malgrado il suo insuccesso, egli stesso auspicava liberarsi.
Mr Locket rimase seduto: guardò Baron che attraversava la stanza per
riprendere il cappello e l'ombrello. - Naturalmente insorgerà il problema a
chi oggi appartengano legalmente simili documenti. Bisogna tener conto di
eredi, discendenti, esecutori.
- Fino a un certo punto, forse: ma ho approfondito un poco la questione.
Sir Dominick Ferrand non ha avuto figli; non ha lasciato né fratelli né
sorelle. Gli sopravvisse la moglie, che mori dieci anni fa. Non può aver
avuto né eredi né esecutori di cui valga la pena di parlare, perché non ha
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1970 - Racconti Di Fantasmi
lasciato patrimoni.
- Ciò gli fa onore, ma è contro la teoria che lei sostiene, - replicò Mr
Locket.
- Io non ho teorie. Ha lasciato un bel mucchio di debiti, - soggiunse
Peter Baron. Al che Mr Locket si levò, mentre il suo visitatore proseguiva:
- Per quanto ho potuto appurare, sebbene le mie indagini siano state per
necessità molto rapide e superficiali, oggi non esiste più nessuno
direttamente o indirettamente imparentato col personaggio in questione,
nessuno che possa in qualche modo subire danno dalla pubblicazione di
questi documenti. Si presenta il raro esempio di una vita senza un preciso
costrutto, per così dire. Quanto meno per il momento non se ne percepisce
alcuno.
- Capisco, capisco, - fece Mr Locket. - Ma non credo di avere molto
interesse per il suo articolo.
- Quale articolo?
- Quello che mi pare lei desideri scrivere, affrontando questo nuovo
argomento.
- Oh, io non desidero scriverlo! - esclamò Peter. E disse addio a Mr
Locket.
- Arrivederla, - rispose questi. - Badi bene, io non dico che la faccenda
sia vuota di senso.
- Ne coglierebbe il senso, se vedesse i miei documenti.
- Mi piacerebbe vedere lo scomparto segreto, - riprese ironico l'editore. Me ne trascriva, però, qualche estratto.
- A che scopo, se lei esclude che le possano servire?
- Non dico questo; può darsi che mi piacciano le lettere in sé.
- In sé?
- Non come base di un articolo, ma così... solo per pubblicarle... per fare
sensazione.
- Le farebbero vendere il numero! - rise Baron.
- Direi insomma che mi piacerebbe dar loro un'occhiata, - ammise Mr
Locket dopo un momento. - Quando la trovo in casa?
- Non venga, - rispose il giovane, - Non è un'offerta, la mia.
- Può darsi che gliene faccia una io, - insinuò l'editore.
- Non si disturbi: probabilmente le distruggerò.
Con queste parole Peter Baron lasciò l'ufficio, trattenendosi tuttavia
nella strada vicina, come in attesa di una carrozza di passaggio, a cui, se
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1970 - Racconti Di Fantasmi
fosse comparsa, non avrebbe fatto segno. Forse Mr Locket gli sarebbe
corso dietro, ma Mr Locket evidentemente aveva altro da fare, e Peter
Baron se ne tornò a piedi a Jersey Villas.
IV.
La sera successiva a questo incontro palesemente infruttuoso, Baron
ebbe un colloquio più conclusivo con Mrs Bundy, la cui visione,
sagacemente filosofica, della vita, gli aveva fatto esprimere più volte persino con la stessa brava donna - apprezzamenti non da poco. La
situazione a Jersey Villas (Mrs Ryves era improvvisamente fuggita a
Dover) era tale da suscitare in lui il bisogno di un sostegno morale, e in
Mrs Bundy c'era una sorta di domestico pragmatismo che sembrava
metterla in valore. Aveva chiesto di lei rientrando, ma gli avevano risposto
ch'era fuori per un'ora; al che Peter s'era dedicato macchinalmente al
compito di rabberciare il suo disonorato manoscritto - il ben congegnato
racconto verso il quale Mr Locket aveva dato prova di tanta ottusità - nella
prospettiva di altre avventure e non improbabili sconfitte. Aveva trascorso
un pomeriggio inquieto e inconcludente a domandarsi se il suo ingegno
fosse soltanto una terribile delusione, oppure a guardar fuori dalla finestra
in attesa di qualcosa che non accadeva; l'arrivo di un suadente Mr Locket o
il rientro della sua simpatica vicina degli «studioli» da un'assenza più
deludente ancora di quella di Mrs Bundy. Era così nervoso, così depresso
da sentirsi addirittura incapace di fissare la mente sul biglietto che avrebbe
accompagnato il manoscritto alla prossima peregrinazione. Era troppo
nervoso per mandar giù un boccone, e si scordò persino di cenare;
dimenticò di accendere le candele e lasciò spegnere il fuoco. Fu nel
malinconico freddolino del tardo crepuscolo che Mrs Bundy, arrivando
finalmente a portargli la lampada, lo trovò, immusonito, coricato sul
divano. Era stata avvertita che Baron desiderava parlarle e, nell'applicare
sul maleodorante corpo luminoso uno schermo bisunto di cartone verde,
espresse di cuore la speranza che «stasse» bene in salute.
Il giovanotto si levò dal suo giaciglio, riprendendo sufficiente
autocontrollo per rispondere di essere in discreta salute, ma spiritualmente
a terra. Sentiva un bisogno prepotente di «tirare» la padrona
sull'argomento di Mrs Ryves, non meno di una viva convinzione che il
tema della vicina avrebbe facilmente indotto Mrs Bundy a raccontare più
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
cose di quante ne sapesse realmente. Nello stesso tempo rifuggiva dal
voler investigare nei segreti privati dell'amica assente: discorrerne con
l'affaccendata affittacamere assomigliava troppo, per i suoi gusti, al
cianciare di una serva con una padrona stupida.
Non aveva però tenuto conto di quanto Mrs Bundy conoscesse il cuore
umano: e cercar di sapere se Mrs Ryves dava l'impressione - su
un'osservatrice di tal fatta - di essere felice non significava ancora volersi
immischiare negli affari altrui. Questo ragionamento lo rassicurò, e ogni
barriera cadde: a tal segno che a un tratto, in tono asciutto, arrossendo
persino un po', egli pose a Mrs Bundy la domanda esplicita; e questo portò
ovviamente a un'altra domanda che gli pesava altrettanto sul cuore (in
realtà erano solo aspetti diversi della stessa) alla quale la brava donna
rispose con calore esclamando: - Una libertà che lei vada a trovarla per
qualche ora? Mio caro signore, se quella la pensa così, la mandi pure da
me, che le parlo io! - Ma, quanto a felicità, essa lo ammoni, Baron non
doveva pretendere troppo da una poverina che ne aveva passate tante; e
prima di sapere come, senza responsabilità di scelta, egli si trovò ad
accettare docilmente la versione che di tali esperienze gli veniva offerta da
Mrs Bundy. Era un quadro interessante, anche se con qualche magagna,
una delle quali, congenita, consisteva nel fatto che era scaturita
essenzialmente dal cervello verginale di Miss Teagle. Ampliata, riveduta,
abbellita dal più fervido ingegno di Mrs Bundy, che vi aveva incorporato e
ora generosamente introdotto ampi stralci della vicenda romantica della
stessa Miss Teagle, la storia offri a Peter Baron abbondante materia di
riflessione; diminuì invece solo in parte la sua curiosità circa le cause della
misteriosa stranezza dell'affascinante signora.
Tentò di far risuonare questa nota nelle orecchie di Mrs Bundy, ma fu
facile constatare che non destava alcun'eco nel suo cervello. Essa non
aveva idea di quale fosse l'immagine della vicina che egli avrebbe
naturalmente desiderato in dono, ed era perciò incapace di stabilire i punti
che lo irritavano messi a raffronto con l'attuale situazione. Mrs Bundy non
aveva in effetti un concetto adeguato delle esigenze intellettuali di un
giovane innamorato. Non era in grado di dirgli perché la loro irreprensibile
amica fosse così isolata, così derelitta, così suscettibile, così orgogliosa e
diffidente. D'altra parte era in grado di raccontargli - ciò che gli era già
noto - che la loro vicina aveva passato molti anni della sua vita a
perfezionarsi in una sede del sapere remota né più né meno quanto
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1970 - Racconti Di Fantasmi
Boulogne, e che Miss Teagle aveva conosciuto da vicino il defunto Mr
Everard Ryves, un giovane che si stava facendo «molta strada» in città, e
guadagnava pulite pulite le sue belle milleduecento sterline all'anno. Adesso che non è più qui a guadagnarsele, la sua povera vedova non può
vivere più come una volta, è vero o no? - concluse Mrs Bundy.
Baron non era disposto ad affermare il contrario; l'indomani nel treno
sferragliante diretto a Dover, pensò a un altro modo in cui ella avrebbe
potuto vivere. La cittadina, man mano che vi si avvicinava gli apparve gaia
e fresca: i suoi vagabondaggi non erano stati né abbastanza frequenti né
così remoti da fargli apparire insipida la costa della Manica. Naturalmente
Mrs Bundy gli aveva fornito il necessario indirizzo e uscendo dalla
stazione egli era sul punto di chiedere da quale parte dovesse dirigersi.
Tuttavia in quel momento la sua attenzione fu distratta dal trambusto
suscitato intorno alla nave in partenza; a Londra era rimasto segregato
abbastanza per rendersi conto del sollievo che offriva anche solo il
pensiero di volgere lo sguardo verso Parigi. Si avviò al molo in compagnia
di turisti più allegri di lui: appoggiatosi a un parapetto, osservò con invidia
i preparativi, il tramenio di un viaggio all'estero. Per qualche istante
pregustò il sapore dell'avventura, ma ohimè, quando gli sarebbe stato
concesso di gustarla davvero? Trasse un sospiro interrogativo, e si voltò in
tempo per scorgere, in un altro punto del molo, un gruppetto di due signore
e un bambino riuniti con la stessa espressione di inappagabile desiderio in
volto. Il bimbetto si girò per caso un momento a guardarsi intorno, e con la
perspicacia dell'età predatoria riconobbe nel nostro giovanotto una fonte di
delizie di cui negli ultimi tempi era stato privato. Si buttò in avanti con
irreprimibili strilli di «gigì!» e Peter lo sollevò tra le braccia. Quando lo
depose a terra, il pellegrino di Jersey Villas si trovò faccia a faccia con una
Miss Teagle visibilmente severa, corsa all'inseguimento del suo pupillo.
«Che diavolo le piglia, a questa vecchia?» si domandò Peter nel porgerle
una mano che essa considerò come il più insignificante dei particolari.
Comunque il suo viso esprimeva (e molto opportunamente da parte di una
fedele suivante) lo stesso risentimento che, nello sventolare il cappello in
segno di saluto, parve a Peter di leggere a distanza sul volto di Mrs Ryves
che non s'era mossa d'un dito. Pallida come gli era sembrata, ella rispose al
saluto di lui, spostandosi di quel tanto che era necessario per apparire tutta
presa dallo spettacolo della nave in partenza per Calais. Peter tuttavia
tenne ben saldo il bambino, invano contesogli dall'astuzia di Miss Teagle;
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
la cocciuta e istintiva lealtà di Sidney gli fu d'aiuto e gli permise di
ottenere - oh con quanta gratitudine! - il felice effetto di venir trascinato
dal suo giubilante amico nella precisa direzione verso la quale tendeva da
tante ore. Quando si avvicinò, Mrs Ryves si volse ancora una volta, e poi,
dal dolce sorriso un po' forzato col quale gli chiese se si preparasse a
partire per la Francia, Peter si rese conto che, sebbene irritata per essere
stata seguita, aveva presto superato il suo risentimento.
- No, io non parto; ma mi è sorto il dubbio che partisse lei, ed è per
questo che l'ho rincorsa... per acchiapparla in tempo.
- Eh, non possiamo partire, è un gran peccato. Ma perché, -volle sapere
Mrs Ryves, - se potessimo permettercelo, lei dovrebbe desiderare di
impedirlo?
- Perché prima ho una cosa da chiederle... una cosa per cui ci vuole forse
un po' di tempo -. Notò allora che l'imbarazzo di lei non era dettato da
risentimento; era nervosa, tremante come per l'emozione di una gioia
inattesa.
- È una cosa che ho deciso proprio ieri sera, senza chiederle prima il
permesso di farle questa visitina; è stato questo, e la voglia matta di
giocare ancora un po' a cavalluccio con Sidney. Oh, sono venuto a
cercarla, - Peter Baron continuò, - e non faccio mistero del fatto che spero
lei si sottometta con grazia alla prova, concedendomi tutto il suo tempo. È
una bella giornata, e il posto è altrettanto bello, lo giuro. Mi lasci
assaporare appieno codeste cose, mi lasci svuotare la coppa fino in fondo
come un uomo che da mesi e mesi non è uscito da Londra. Mi permetta di
andare a passeggio con lei, di conversare con lei, di mangiare un boccone
con lei: torno a Londra nel pomeriggio. Insomma mi faccia dono di tutte le
sue ore in modo che esse mi restino nella memoria come una delle più
dolci occasioni della vita.
Lo sbuffo di vapore emesso dal postale francese fu accompagnato da un
tale baccano che Baron potè sussurrare la sua passione nell'orecchio della
giovane donna senza scandalizzare i presenti, e il fascino che, a poco a
poco, egli riuscì a soffondere nella sua breve visita si dimostrò in effetti
essere il risultato delle condizioni da lui espresse a parole.
- Cos'è che vuol chiedermi? - domandò Mrs Ryves, rimanendogli
accanto in piedi. Al che egli rispose che le avrebbe spiegato tutto a patto
che mandasse via Miss Teagle con Sidney. Miss Teagle, pronta come
sempre a intuire gli ordini, aveva già cominciato a fissare ostentatamente
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1970 - Racconti Di Fantasmi
le lontane rive della Francia: e fu facilmente persuasa ad avviarsi in
anticipo, assumendosi la responsabilità di fermarsi lungo il tragitto a
litigare con il macellaio.
Dovette però allontanarsi senza Sidney, rimasto aggrappato alla sua
preda riconquistata; così il resto della vicenda fu condito - secondo il modo
di vedere di Baron - dalle importune tiratine della mano grassoccia e fresca
del piccino. I due amici andarono bighellonando insieme con aria
coniugale, senza Sidney in mezzo: all'inizio indugiando assorti sulla
sagoma allungata della nave diretta a Calais, finché poterono scorgerla
mentre si allontanava rombando, in un tacito incontro che parve rivelare specie allorché, un momento più tardi, i loro occhi s'incontrarono - che
essa aveva destato in entrambi lo stesso desiderio appassionato. Del resto,
la presenza del ragazzino non impedì loro un dialogo in apparenza molto
franco. Di lì a poco Peter Baron spiegò alla sua compagna il motivo per
cui si era messo in viaggio, e quando ella lasciò intendere di aver
immaginato trattarsi di qualcosa di più importante, riuscì a superare il
proprio senso di sconfitta. Apparve delusa - ma disposta al perdono
-nell'apprendere che aveva voluto solo sapere se lo giudicava molto
severamente per non aver rispettato la sua richiesta di non infrangere certi
sigilli.
- Di quanta severità mi sospetta? - volle sapere lei.
- Tanta da averla indotta a lasciare la casa un momento dopo.
Indugiavano ancora sulla grande banchina di granito, quand'egli affrontò
l'argomento, ed ella si sedette all'estremità del pontile mentre la brezza,
riscaldata dal sole, increspava il mare fattosi di porpora. Turbata, Mrs
Ryves arrossi lievemente e ripetè in tono interrogativo: - Un momento
dopo?
Appena le ebbi raccontato ciò che avevo fatto. Fui scrupoloso, se ne
ricorderà: scesi immediatamente a confessarglielo. Lei si volse senza fare
parola; non seppi immaginare allora, e giuro che non so immaginare
adesso, perché una storia come quella dovesse toccarla così da vicino.
Uscii per qualche commissione e, quando rientrai, lei aveva lasciato la
casa. Si sarebbe proprio detto che l'avessi offesa, che avesse desiderato
allontanarsi da me. Non mi diede neppure il tempo di spiegarle come,
contro il suo parere, avessi preso la decisione di verificare per conto mio
che cosa rappresentava la mia scoperta. Ora mi deve rendere giustizia e
stare a sentire che cosa mi indusse a prendere la decisione.
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1970 - Racconti Di Fantasmi
Alzatasi dal suo sedile, Mrs Ryves gli chiese il favore speciale di non
alludere mai più alla famosa scoperta. Non era affatto cosa che la
riguardasse, non aveva alcun diritto d'indagare nei segreti di Baron. Le
dispiaceva molto di essergli parsa per un momento così insensata e gli
domandava umilmente perdono per essersene immischiata. Detto questo,
prosegui nella passeggiata con un colorito incantevole sulle gote, mentre
lui - sebbene davvero disorientato -volse in ridere l'infinita capricciosità
delle donne. Per buona sorte l'episodio non sciupò quell'ora, ricca di altre
fonti di soddisfazione, ed essi diressero i loro passi verso l'abitazione di lei,
con tante piccole soste piacevoli, tante deviazioni lungo il percorso che
consentirono a lei di mostrargli i punti di Dover degni d'interesse. Gli
permise di fermarsi da un vinaio a comprare una bottiglia per colazione,
cui attinsero entrambi mentre - scambiandosi occhiate di indulgente
intimità - trangugiavano con aria ipocrita un pudding uscito dalla fantasia
di Miss Teagle. Uscirono di nuovo e, mentre Sidney scavava nella
ghiaietta della spiaggia, si sedettero da veri egoisti sulla passeggiata, con
disappunto di Miss Teagle, che aveva riposto le sue speranze in una gita in
calesse a visitare il castello, come si addiceva alle vere signore. Baron
teneva d'occhio il suo orologio: doveva pensare al treno, al triste viaggio di
ritorno e a molte cose malinconiche; ma il mare, nella luce pomeridiana,
offriva un quadro più allettante. Il vento era caduto, la Manica brulicava di
vele bianche di navi che si perdevano nella distanza infocata.
Il giovane aveva chiesto alla sua compagna (già glielo aveva domandato
una volta), quando intendeva tornare a Jersey Villas; lei gli aveva risposto
che probabilmente sarebbe rimasta a Dover un'altra settimana. Costava un
occhio della testa, ma faceva un gran bene al bambino e, se Miss Teagle
fosse riuscita a tornar su per certe commissioni, le sarebbe forse riuscito di
prolungare il soggiorno. Qualche ora prima aveva detto che forse non
sarebbe tornata affatto a Jersey Villas, oppure soltanto per risolvere il
rapporto con Mrs Bundy. In un altro momento aveva parlato di una
prossima data, di un'imminente rioccupazione dei meravigliosi «studioli».
Baron comprese che, senza progetti di sorta e nessun motivo valido, si
manteneva nel vago e, nel suo intimo, era preoccupata e nervosa, in attesa
di qualche cosa che non dipendeva da lei. Mentre contemplavano le vele
rilucenti, un silenzio di parecchi minuti era sceso tra loro, un silenzio a cui
Mrs Ryves pose fine esclamando all'improvviso, ma senza completare la
frase: - Oh, se fosse venuto per dirmi che li aveva distrutti...
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- Quegli orribili documenti? Mi piace sentirla parlare di distruzione. Se
non sa nemmeno che cosa contengono!
- Non lo voglio sapere. Mi mettono in un tale stato...!
- Che specie di stato?
- Non lo so: mi perseguitano come fantasmi.
- Hanno perseguitato anche me; per questo appunto d'improvviso una
mattina non ho saputo tenere le mani a freno. Le avevo detto che non li
avrei toccati. Mi ero sottomesso al suo capriccio, alla sua, diciamo così,
superstizione, ma alla fine hanno vinto loro, le carte. Ero stato sveglio tutta
una notte a dibattere il problema, divorato dalla curiosità. Mi facevano star
male: avevo i nervi a fior di pelle, se così posso esprimermi; non ero più
capace di lavorare. Nelle ore piccole fui preso da un'ossessione, un'idea
fissa: quelle balorde reliquie non conservavano nulla, stavo rendendomi
ridicolo con degli scrupoli eccessivi. Con nove probabilità su dieci erano
robetta, lettere di poco conto, vuote e futili; magari un tiro birbone di
qualche ricco sfaccendato, di scarso cervello, l'ex proprietario della
dannata ribaltina. Quanto più ci girellavo cautamente attorno, tanto pili me
ne sentivo attratto; quanto più presto avessi scoperto la loro vuotaggine,
tanto prima sarei tornato al mio solito lavoro. Sulla base di tale certezza, la
mia mano divenne così incontrollabile che quel mattino, prima di far
colazione, spezzai uno dei sigilli. Mi bastarono pochi minuti per rendermi
conto che il contenuto non era robetta: il pacco conteneva vecchie lettere,
vecchie lettere molto curiose.
- Lo so, ho capito: «privato e confidenziale». Così ruppe gli altri sigilli,
vero? - Mrs Ryves lo fissò con quello strano sguardo di apprensione che le
aveva scorto negli occhi quand'era comparsa sul suo uscio dopo il
ritrovamento.
- Certo che lo sa: gliel'ho raccontato io un'ora più tardi, benché lei mi
abbia consentito di dirle assai poco.
Nel cogliere quello sguardo particolare, Baron affettò un ampio sorriso
per impedirle d'intuire la pena provocata dal sottile rimprovero contenuto
nelle ultime parole di lei; ma quella donna sembrava capace di divinare
ogni cosa. Gli ricordò che non aveva dovuto aspettare la mattina quand'era
sceso lui per sapere cos'era accaduto di sopra; gli aveva anzi dimostrato
subito di averlo capito già da un'ora, dopo aver passato dal canto suo la
stessa notte inquieta; aveva dovuto farsi una forza straordinaria per non
precipitarsi nell'appartamento di sopra, proprio mentre lui si dedicava
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all'esame dei pacchetti aperti. - Lei ha una sensibilità così perfezionata, è
dotata di così misteriosi poteri che mi sconcerta.
- Sento ciò che avviene a distanza, tutto qui.
- Si sarebbe detto che qualcuno che le stava a cuore fosse in pericolo.
- Le ripeto che ne ebbi l'intuizione lo stesso giorno che salii a trovarla.
- Oh, ma io non le sto a cuore fino a questo punto! - obiettò Baron
ridendo.
Ella esitò: - No, direi di no.
- Sarà stato per via dell'altro, dell'altra parte in causa. Ma lei, quel
giorno, non volle che gliene dicessi il nome.
A queste parole Mrs Ryves si levò di scatto. - Non voglio saperlo. La
cosa non mi riguarda.
- No, grazie al cielo credo proprio di no, - replicò Baron, camminandole
a fianco lungo la passeggiata. Ora era lei a tenere Sidney per mano, e il
giovane le stava dall'altro lato. Presero la via della stazione; si era offerta
di accompagnarlo per un tratto. - Ma col suo dono prodigioso è un
miracolo che non l'abbia indovinato.
- Io indovino solo quello che voglio, - fece Mrs Ryves.
- Comodo però! - esclamò Peter, al quale Sidney in quel momento si era
di nuovo appiccicato. - Soltanto che, all'oscuro di tutto com'è, è difficile
capire la ragione per cui desidera che quelle carte vengano bruciate.
Mrs Ryves rimase meditabonda a fissare il terreno: - Pensavo che
avrebbe potuto farlo per usarmi una cortesia.
- Le pare che una pretesa del genere, formulata in questo modo, sia
ragionevole?
Mrs Ryves si arrestò di botto e questa volta posò su di lui due limpidi
occhi rannuvolati. - Che intende farne?
Fu la volta di Peter Baron di restare assorto in meditazione: il che egli
fece, sull'asfalto nudo della Passeggiata (a Dover la stagione non era
ancora iniziata) dove le loro ombre si allungavano nella luce pomeridiana.
Era preso da un incanto come non aveva mai conosciuto, e sentiva un
desiderio immenso di avere il coraggio di risponderle: - Farò tutto quello
che vorrai, se tu mi ami -. Tuttavia parole del genere avrebbero
rappresentato una responsabilità e costituito quella che volgarmente si
definisce una proposta. Ma quale proposta? si chiese rapidamente anche
ora, come già si era chiesto dopo aver fatto in ispirito altri goffi tentativi
nello stesso senso: offerte di che, se non della sua povertà, della sua
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1970 - Racconti Di Fantasmi
oscurissima fama, degli sforzi naufragati, delle capacità di cui non poteva
fornire testimonianza? Povero com'era, odiava lo squallore (che nemmeno
lei - ne era certo - amava) e per parlare di matrimonio si sentiva piccino.
Perciò non le pose la domanda con le parole che gli sarebbe piaciuto
pronunciare ma, con una nuova fitta al cuore, scese a un compromesso e le
disse: - Che cosa farà lei per me, se io le elimino?
Mrs Ryves scosse tristemente il capo - era il più grazioso dei suoi
atteggiamenti. - Non posso promettere nulla... Oh no, non posso
promettere! Ora dobbiamo salutarci, - soggiunse. - Perderà il treno.
Peter guardò il suo orologio e prese intanto la mano che lei gli tendeva.
Ella fu lesta a ritirarla e allora non gli rimase altro, prima di correre alla
stazione, se non sollevare Sidney e stringerlo così forte a sé da fargli
lanciare uno strilletto.
Durante il viaggio di ritorno in città la situazione gli apparve grottesca.
V.
L'indomani quel pensiero s'era fatto così tormentoso che, dopo averlo
ancora analizzato, Baron senti in certo modo di aver subito un torto.
L'intromissione di Mrs Ryves lo aveva messo profondamente a disagio:
essa aveva assunto un atteggiamento autoritario senza riconoscergli diritti.
Si era imposta come arbitro del caso, ma, quanto all'esserne partecipe,
aveva tenuto le distanze. Le sembrava dovuto ch'egli facesse certe cose per
compiacerla, e tuttavia non voleva in alcun modo svelargli quale beneficio
gliene sarebbe derivato. Sarebbe stato auspicabile da parte sua un riserbo
maggiore, oppure una maggiore disponibilità a parlar chiaro. Baron si
chiedeva perché toccasse a lui essere lo zimbello dei suoi capricci, dei suoi
misteri. Si rendeva conto dell'eccezionalità delle sue intuizioni, ma ad
offenderlo era appunto quella manifesta infallibilità. Perché non si metteva
addirittura a fare la veggente di professione, arrotondando con maggiore
successo la sua piccola rendita? Un talento di quel tipo, in chi conduceva
una vita del tutto privata, era sconcertante: le divinazioni, le elusività di lei
disturbavano comunque la sua tranquillità.
Lo disturbò ancora di più il ricevere di buon mattino la visita di Mr
Locket, il quale, lasciando Peter senza illusioni circa le ragioni di tanto
onore, dichiarò appena entrato nella stanza - anzi, mentre ancora saliva
ansimando la seconda rampa e uno sgorbio di servetta gli teneva aperta la
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250
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porta - di aver accolto l'invito del suo giovane amico: veniva a dare
un'occhiata di persona alle lettere di Sir Dominick Ferrand. Peter le tirò
fuori con una prontezza volta a riconoscere il carattere commerciale della
visita, senza curarsi di attenuare l'incoerenza di quell'inizio con l'ultima
decisione comunicata a Mr Locket. Mostrò al suo ospite la ribaltina e il
segreto, e si mise a fumare una sigaretta canterellando sottovoce, con una
sensazione di insolito vantaggio, di trionfo, mentre il cauto editore, seduto
e zitto, scartabellava i documenti. Nonostante tutta la sua prudenza, Mr
Locket non riuscì a dissimulare una luce più calda nel suo occhio di
giudice dicendo infine a Baron, in tono di cordiale concisione -un tono che
dava molte cose per scontate: - Me li porto a casa: richiedono molta
attenzione.
Il giovane lo guardò un momento: - Crede che siano autentici? - Non
voleva beffarsi di lui, al contrario, ma ai suoi stessi orecchi le parole
suonarono beffarde, e si accorse che lo stesso effetto avevano prodotto su
Mr Locket.
- Non posso stabilirlo in alcun modo. Dovrò studiarli a mio agio ed è per
questo che le chiedo di prestarmeli.
Nel parlare aveva ammucchiato le carte con un movimento che
sembrava preludere a quello di infilarle in una sua reticella nera rimasta
appoggiata sul ripiano della ribaltina: a Peter, che lo vedeva di scorcio,
quell'oggetto apparve oscuramente professionale e destò in lui, in certo
modo, un'improvvisa apprensione: il vantaggio di cui si era appena reso
conto stava per trasmigrare, grazie a un semplice giochetto di prestigio,
nelle mani di una persona che di vantaggi ne aveva già abbastanza. Baron,
insomma, provò un doloroso e inspiegabile senso di trepidazione. Mr
Locket dava troppe cose per scontate, non c'era che dire, e l'indagatore
sulle irregolarità di Sir Dominick Ferrand si sovvenne nuovamente di
quanto - dopo tutto - fosse stato chiaro nel manifestare la propria
indisponibilità a farne oggetto commerciale. Chiese al visitatore perché
voleva portarsi via le lettere: da una parte per il momento non c'era
neppure da parlare dell'articolo nella rivista che avrebbe rivelato la loro
esistenza; dall'altra egli stesso, in quanto loro possessore, si faceva mille
insormontabili scrupoli all'idea di metterle in circolazione.
Mr Locket lo guardò al disopra degli occhiali come dai merli di una
fortezza. - Io non penso alla fine, io sto pensando all'inizio. Pochi sguardi
mi hanno dato la certezza che questi documenti devono essere sottoposti a
Henry James
251
1970 - Racconti Di Fantasmi
un occhio competente.
- Non deve farli vedere a nessuno! - esclamò Baron.
- Lei può ritenermi presuntuoso, ma l'occhio a cui ho alluso in questi
termini...
- È l'occhio fisso ora su di me, con aria così terribile? - lo interruppe
Peter ridendo. - Ah, sarebbe interessante, lo ammetto, sapere come li
giudica un uomo del suo acume! - Gli era venuto in mente che con
un'ammissione di tal fatta avrebbe potuto accattivarsi un arbitro letterario
fin'allora implacabile. Che volesse affidargli la pubblicazione di Sir
Dominick Ferrand era escluso a priori, ma Mr Locket sarebbe forse entrato
nell'ordine di idee di pubblicare lui, Peter Baron, come dovuto
riconoscimento dei servizi resigli. - Quanto tempo intende trattenerli? volle sapere il giovane con un tono che, se ne rese immediatamente conto,
fu tale da spingere Mr Locket ad ammucchiare le lettere per infilarle nella
reticella. Intuito questo, si avvicinò lesto all'editore e, posata una mano sul
segreto aperto, ne riaccostò delicatamente i pannelli. Così i due stettero
uno di fronte all'altro qualche secondo in un atteggiamento quasi di
conturbante sfida, a guardarsi dritto negli occhi.
La tensione fu presto allentata dal rossore di sorpresa che si diffuse sulla
fronte di Mr Locket, il quale fece qualche passo indietro con aria di dignità
offesa, quasi a protestare contro una violenza fisica. - In verità, mio caro
giovinotto, il suo contegno equivale a un'accusa di manifesta malafede.
Crede forse che voglia rubare queste maledette scartoffie? - In risposta a
tale sfida Peter potè solo affrettarsi a dichiarare di non essere colpevole di
alcun indegno sospetto: esigeva soltanto che gli si precisasse un termine,
voleva una garanzia che lo cautelasse contro ogni infortunio. Mr Locket,
riconosciuta la legittimità della richiesta, gli assicurò che avrebbe restituito
ogni cosa entro tre giorni e, con l'aiuto di Peter, completò le sue piccole
manovre per asportare il carteggio con discrezione. Quando fu pronto e la
sua perfida reticella fu gonfia del tesoro, Mr Locket indugiò con lo
sguardo sulla misteriosa ribaltina: - Come diavolo siano mai finite lì
dentro, è questo che mi fa arrovellare il cervello!
- C'è stata una certa catena di circostanze che, se chiarite, si
rivelerebbero abbastanza naturali, senza dubbio; ma per accertarsene
occorrerebbe rimontare il corso del tempo. Su un punto ho preso una ferma
decisione: non fornire informazioni, non svolgere indagini al negozio.
Accetto il mistero così com'è, - dichiarò Peter, con una certa magnanimità.
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
- Inserita in un racconto, sarebbe una ben modesta scappatoia, - fece Mr
Locket sorridendo.
- Sì, ma non è a lei che offrirei il racconto. Sarò impaziente di veder
ritornare le mie carte! - gridò poi dietro il visitatore che scendeva di corsa
le scale.
Quella sera, con l'ultima distribuzione, col timbro postale di Dover,
ricevette una lettera che non veniva da Miss Teagle. Era un biglietto
piuttosto confuso, ma nel complesso amichevole, scritto la mattina stessa
dopo colazione, il cui pretesto apparente era quello di ringraziarlo della
cortese visita e di scusare la scrivente per avergli dato occasione di
ritenerla capace di immischiarsi in cose che non la riguardavano. Lo
informava altresì del fatto che, la sera prima, dopo la sua partenza, in un
momento d'ispirazione, le era sgorgata dal cuore un'idea veramente
musicale, in perfetta armonia con i versi di cui egli le aveva così
gentilmente fatto omaggio. In calce allo scritto aveva scarabocchiato a mo'
d'esempio un paio di battute: misteriosi, beffardi segni musicali, senza
significato per il destinatario. Tutta la lettera tradiva un desiderio
irrequieto ma piuttosto vago di rimanere in contatto con lui. Tuttavia, nel
risponderle - il che egli fece quella sera stessa prima di andare a letto Baron si diffuse essenzialmente sulla brillante possibilità di una loro
collaborazione e sui vantaggi che ne sarebbero derivati a ciascuno dei due.
Parlò di questo futuro con un'eloquenza di cui era pronto a difendere la
sincerità, e ne tracciò un quadro straordinariamente ricco.
L'indomani mattina, mentre stava accingendosi a lavori da tempo troppo
trascurati con la sensazione che, dopo tutto, era un discreto sollievo non
star seduto così a contatto di Sir Dominick Ferrand (divenuto motivo di
tante insidiose divagazioni) proprio nel momento in cui era solito rivolgere
un'invocazione preliminare alla musa, fu disturbato dall'arrivo di un
telegramma: era una richiesta urgente di Mr Locket di andare subito da lui.
Il che per il povero Baron - i cui fondi erano ormai pressoché esauriti significava il sacrificio di un'altra mattina; però non gli passò neppure per
la mente di far valere con l'editore della rivista, custode delle chiavi della
sua celebrità, le proprie esigenze di tempo; aveva l'arrendevolezza di un
collaboratore alle prime armi. Concesse un'altra vacanza alla musa
provando gran vergogna per lei, e a tempo debito si trovò seduto nella
stessa poltrona, alla scrivania stessa di Mr Locket - superficie tanto più
nobile del piano scivoloso della sua ribaltina - e, nel profluvio di parole
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1970 - Racconti Di Fantasmi
appena pronunciate dal suo ospite, percepì prontamente quanta felicità,
quanta emancipazione potevano celarsi in cento sterline.
Sì, era questo il costrutto: nello spazio di ventiquattr'ore Mr Locket
aveva scoperto nelle reliquie letterarie di Sir Dominick tante cose che
l'avevano indotto a fare un'offerta. Cento sterline gli sarebbero state pagate
quel giorno, quel minuto stesso, senza discussioni né da una parte né
dall'altra. - Mi assumo io tutti i rischi, mi assumo io tutti i rischi, - ripeteva
l'editore della rivista. Le lettere erano sparse sul tavolo, Mr Locket stava in
piedi sulla stuoia davanti al caminetto, come un oratore sul podio, e Peter,
sopraffatto dall'improvviso ultimatum, si era lasciato cadere sulla sedia più
vicina. Poi (resosi conto che questa si muoveva su un perno) le impresse
un moto rotatorio per trovare il tempo di alzare sul suo tentatore uno
sguardo che voleva essere gelido. Ciò che più lo sorprese fu il constatare
che, sull'opportunità di pubblicazione, Mr Locket stava prendendo
esattamente il partito opposto a quello che egli si era immaginato.
«Mettiamo tutto a tacere! Uno scandalo da poco, un'offesa a cui non c'è
più rimedio! Ma queste sono le cose al mondo che meno di tutte
giustificano una riesumazione!» Una frase del genere Baron si sarebbe
aspettato da un uomo che passava la vita a soppesare problemi di
perbenismo e che, soltanto ieri, guidato da tali principi, aveva sollevato
obiezioni per un'opera della più disinteressata delle arti. Ma l'autore di
quella purissima, intoccabile opera d'arte aveva colpito nel segno quando,
nel corso dell'ultima visita, aveva detto al suo interlocutore che, se rivelate
al mondo dalle pagine della rivista, le aberrazioni di Sir Dominick
sarebbero andate a ruba. Non fu necessario a Mr Locket ripetere al suo
giovane amico la frase da lui pronunciata a proposito di «far sensazione».
Se voleva acquistare i «diritti» - come si suol dire nel mondo del teatro non era per proteggere un nome famoso o per rinchiuderli in un armadio.
La formula usata da Baron copriva un vasto terreno, e la previsione di una
sola edizione esaurita era una stima inferiore al probabile successo della
rivista.
Peter lasciò le lettere dall'editore e, ritiratosi, fece una lunga passeggiata
sino all'Enbankment. Provava sentimenti contrastanti: gli pareva di perdere
la testa di fronte a possibilità di cui egli negava tuttora l'esistenza. Aveva
acconsentito ad affidare le carte a Mr Locket per un altro paio di giorni,
onde avere il tempo di pensare alle condizioni a cui si sarebbe indotto a
disporne qualora certi eventi si fossero verificati. Cento sterline non erano
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1970 - Racconti Di Fantasmi
l'ultima offerta dell'editore, né forse lui, Peter, nella sua irragionevole
intrattabilità, aveva detto l'ultima parola. Sospirò, senza badare alle chiatte
pittoresche sul fiume: sospirava perché tutto ciò poteva significare denaro.
Ed egli aveva un assillante bisogno di denaro: ne doveva parecchio in varie
direzioni. Mr Locket gli aveva fatto presente la sua alta responsabilità:
forse toccava a lui vendicare la verità sfigurata, recare il contributo di un
capitolo della storia inglese. - Lei non ha il diritto di tener nascosti fatti di
un così grave momento, - gli aveva dichiarato l'avido piccolo editore,
mentre pensava a come la storia a puntate (l'avrebbe distribuita in tre
numeri) poteva diventare l'argomento del giorno. Se avesse avuto soldi,
Peter avrebbe potuto concedersi ardori, ebbrezze. Mr Locket aveva detto,
senza dubbio fondatamente, che c'erano un'infinità di problemi da
affrontare una volta trovato il coraggio di impegnarsi in quella rischiosa
partita. Questi problemi, questi scogli, questi pericoli - il pericolo, per
esempio, di veder spuntare all'improvviso qualche litigioso parente in
agguato - se li sarebbe addossati lui, Mr Locket, senza riserve, avrebbe
affrontato lui lo scontro. Andava tenuto presente che il carteggio era
screditato in origine, viziato dalla sua provenienza puerile. Un'origine così
assurda suggeriva, come già l'editore aveva accennato una volta, la
modesta inventiva di un romanziere di terz’ordine; era questa una cosa di
cui Baron doveva tener conto: il positivo svantaggio di non rivelarsi.
Avrebbe preferito non dover rendere conto della vicenda, piuttosto che
esporsi al ridicolo che avrebbe immancabilmente suscitato una storia del
genere. E che? non erano da prevedere in anticipo le battute spiritose,
sarcastiche pubblicate dai quotidiani, dai settimanali? Peter Baron non
mancava d'ingenuità, ma - andava ripetendosi mentre vibrava colpi di
bastone che gli rivelavano la qualità granitica dei parapetti del Tamigi non era tanto sciocco da non intuire come Mr Locket avrebbe
«manipolato» il mistero della sua eccezionale scoperta. Nulla poteva
avvalorarla maggiormente agli occhi del pubblico dell'impenetrabile
segreto che ne era all'origine. Se Mr Locket fosse riuscito a sollevare un
polverone sufficiente intorno alle circostanze che gli avevano guidato la
mano, la fortuna di Baron era bell'e fatta, letteralmente. Peter pensava che
cento sterline erano un'offerta modesta, e tuttavia si chiedeva come la
rivista si fosse indotta a offrire una cifra così cospicua, che tale appariva
alla luce dei compensi letterari finora noti al nostro giovanotto. La
spiegazione di tale anomalia era naturalmente che l'astuto editore
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
prevedeva una dozzina di modi di rifarsi del suo denaro. Più avanti, con
l'aumentare della «sensazione», ci sarebbe stato da fare un libro in edizione
speciale, il libro del giorno; i profitti del libro dello scandalo, o se si vuole,
la ricostruzione, per dei posteri imparziali, di un grande falso storico; in
altre parole la somma che ogni editore accorto sarebbe stato disposto a
pagare «pronta cassa» per quelle carte, assumeva contorni ben definiti nei
calcoli di Mr Locket. Insomma, Peter veniva invitato a rinunciare alla
possibilità di trattare in prima persona con l'eventuale accorto editore. Il
giovane scoppiò in una gran risata, rallegrandosi in cuor suo di non essersi
lasciato tentare subito - nel covo da cui era appena evaso - da una cifra che
avrebbe rappresentato all'inarca tutto il suo patrimonio. Per buona sorte,
aggiunse mentalmente nel volgere i passi verso casa, appariva assai poco
probabile dover dare battaglia con particolare urgenza.
VI.
Quando, mezz'ora dopo, raggiunse Jersey Villas, notò che il can-celletto
di casa era aperto; poi, avvicinatosi alla porta, vi scorse, incorniciata, una
figura inattesa. Mrs Ryves, in giacca e cuffietta, si stagliava su quello
sfondo, e guardava fuori come aspettando qualcosa; passeggiava avanti e
indietro quasi a spiare qualcuno. Ma quando lui espresse il piacere di un
così gradito benvenuto, la vicina gli rispose che aveva solo sperato di
veder arrivare una carrozza. Baron si offerse di andare a cercargliene una,
al che risultò che no, dopo tutto, per il momento almeno, non ne aveva
bisogno. Tornò con lei
fino al salotto, dove essa lo informò che, da un paio di giorni, aveva
visto con maggior chiarezza qual era la cosa migliore da fare: aveva deciso
di lasciare Jersey Villas ed era tornata allo scopo di portare via la sua roba,
che stava appunto radunando per fare i bagagli.
- Ieri sera le ho scritto una bella lettera in risposta alla sua, -disse Baron.
- Lei non aveva fatto parola, scrivendomi, di un ritorno imminente.
- Non è stata la sua lettera a farmi venire. Non era ancora arrivata
quando io sono partita.
- Quando tornerà, vedrà che era una bella lettera.
- E probabile -. Baron aveva osservato che la stanza non era a
soqquadro, come lei aveva lasciato presumere: i preparativi per la partenza
di Mrs Ryves non davano certo nell'occhio. Ella vide che lui si guardava
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1970 - Racconti Di Fantasmi
attorno e, in piedi davanti al caminetto senza fuoco, le mani dietro la
schiena, gli domandò all'improvviso: - Da dove viene adesso?
- Da un colloquio con un amico letterato.
- Che state tramando insieme?
- Nulla di nulla. Abbiamo litigato, non siamo d'accordo.
- E un editore?
- È il direttore di una rivista.
- Ebbene, sono contenta che non siate d'accordo. Non so che cosa voglia,
ma qualunque cosa lui voglia, lei non la faccia.
- È lui che deve fare quello che voglio io! - esclamò Baron.
- E che cos'è?
- Oh, glielo dirò a cose fatte!
Baron la pregò di fargli ascoltare «l'idea musicale» di cui aveva parlato
nella sua lettera; e allora, liberatasi di cuffietta e giacca, seduta al suo
pianoforte, Mrs Ryves gli offri, con un sentimento di cui già le prime note
lo fecero palpitare, l'accompagnamento alle parole da lui composte. Il suo
fraseggio era delicato e un po' incerto, ed egli se ne stava come attanagliato
in una morsa di velluto, vibrante di un'emozione che non potè mai
ritrovare in seguito con la stessa freschezza: l'emozione del giovane artista
per la prima volta in presenza della propria «creatura»: le bozze di un
libro, l'esposizione di un quadro, la prova di una commedia. Quand'ebbe
finito, le chiese di rinnovare la stessa delizia, e di fargli ascoltare altra
musica, e altra ancora. Gli faceva un mondo di bene, gli dava pace e
sicurezza interiore, spianava le rughe del suo spirito. Lasciate da un canto
le proprie creazioni, lei gli offri brani immortali, ed egli vi si crogiolò,
pacificato e ammaliato, mentre la povera stanzetta gli sembrava
ingrandirsi, e vaghe liete possibilità affacciarsi di nuovo. All'improvviso,
davanti alla tastiera, lei gli gridò: - Quelle sue carte... le carte che ha
scoperto... non sono in casa?
- No, non sono in casa.
- Ne ero sicura. Non importa, va benissimo! - soggiunse. Lei stessa
provava un senso di pace: il turbamento sarebbe stato una nota falsa. Più
tardi egli fu sul punto di chiederle come mai sapeva che ciò cui aveva
accennato non si trovava in casa; ma lasciò correre. Quell'argomento era
un enigma senza senso, un rompicapo che diveniva sempre più grottesco
come un mostro visto riaprendo gli occhi nel buio. Abbassò le palpebre:
era un'altra la visione che Baror desiderava. D'altronde lei gli aveva
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1970 - Racconti Di Fantasmi
dimostrato di avere intuizioni eccezionali: la spiegazione che ne avrebbe
dato sarebbe stata ancor più bizzarra del fatto in sé. E poi, avevano altro di
cui discorrere, in particolare il problema di rimandare all'indomani il
ritorno di lei a Dover, privandosi per il momento della valida protezione di
Sidney. Questo non era in verità che un secondo aspetto del problema di
uscire a cena insieme quella sera (dove avrebbe cenato lei altrimenti?),
accompagnandolo, per esempio, in un bel posticino di Soho per un'ora di
vita bohème, in quelle loro esistenze mortalmente rispettabili. Mrs Ryves
respinse quell'affronto al suo tenor di vita, ma in realtà, venuto il
momento, finì per accompagnarlo nel bel posticino dove furono loro
serviti maccheroni e Chianti. La coppia appoggiò i gomiti sulla tovaglia
sgualcita; e così, viso a viso, le tazzine da caffè spinte da un lato e la
sigaretta di Peter accesa per ordine di lei, andarono acquistando sempre
maggior confidenza. Dopo si recarono a teatro, in posti economici, e
tornarono a casa in «bus»; e poi al riparo degli ombrelli.
Sulla via del ritorno, Peter andava rimuginando fra sé un pensiero come
mai aveva rimuginato prima; si domandava cioè se, alla fine, lei gli
avrebbe permesso di restare cinque minuti nel suo salotto: l'argomento lo
teneva in uno stato d'ansia e d'impaziente attesa, e tuttavia per quale
motivo, se non quello di dirle quanto era povero? Era questo alla lettera il
momento per dirglielo, tanto sprovvisto d'ogni bene l'aveva lasciato
quell'ora di vita bohème. Persino la bohème costava cara, e tuttavia nel
corso della giornata la sua mentalità a proposito di certe convenienze
sociali era completamente mutata. A Jersey Villas (era quasi mezzanotte e
Mrs Ryves, accendendo un fiammifero per il suo tremolante moccolo, gli
aveva detto: - Oh sì, entri pure un minuto se le fa piacere!) lo aveva tenuto
in piedi nel suo modestissimo salotto che, dopo gli splendori della serata,
era davvero un ritorno alla squallida realtà. Baron cercò di spiegarle che
certamente, quanto a fama e ricchezza, aveva ancora molto da sperare, ma
che la giovinezza, l'amore, la fede, l'energia - per tacere di quanto
infinitamente lei gli era cara - erano tutti dalla sua parte. Se gli inizi erano
difficili, forse che uno doveva rendersi le condizioni di vita ancor più dure,
rinunciando al sogno che - se lei lo avesse lasciato parlare fino in fondo avrebbe fatto tutta la benedetta differenza? Se Mrs Ryves lo abbia
ascoltato fino in fondo o no, è una circostanza su cui si dà il caso che la
nostra cronaca mantenga il silenzio. Ma dopo ch'egli si fu impadronito di
tutt'e due le sue mani e le ebbe alitato in viso l'intensità del suo affetto - nel
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sollievo che gli procurava la gioia di dichiararsi si sentiva trasportato come
da una marea crescente - ella lo frenò con più saggi ragionamenti, con un
tono preoccupato, distaccato e dolce al tempo stesso - nel quale egli
avverti un sentimento profondo. Più grazioso che mai era quel suo scuotere
il capo come a voler temporeggiare; eppure quel gesto non aveva mai
significato tanti timori, o tanta pena, tanti ricordi di cose irrealizzabili, e
indipendenza e devozione e una sorta di non querulo dolore per la fine di
un'amicizia che era stata felice. Aveva avuto simpatia per lui - se non ne
avesse avuta non gliel'avrebbe lasciato credere! - ma protestò di non averlo
mai «incoraggiato» nel senso odioso e volgare della parola. D'altronde non
si poteva parlare di quegli argomenti, in quella stanza, e a quell'ora, e lo
pregò di non farle rimpiangere, col prolungare la visita, la sua generosità.
Nella sua situazione v'erano circostanze particolari, insormontabili
considerazioni. Con amabilità imbarazzata si liberò della presenza di lui.
Più tardi, nella notte d'opprimente umiliazione che segui, Peter ebbe la
sensazione di essere stato messo al suo posto. Sapeva di donne che dopo
aver veramente amato e perduto, di solito continuano a vivere in attesa di
nuove albe nelle quali i vecchi fantasmi si dissolvono. Ma nella
capricciosità della sua vicina c'era qualcosa che gli sembrava terribilmente
invulnerabile.
VII.
- Ho avuto modo di esaminare ancora un poco ciò che siamo disposti a
fare, - disse Mr Locket - questo è uno di quei casi in cui ritengo
consigliabile andare fino in fondo -. La mattina seguente Jersey Villas
aveva avuto l'onore di ricevere ancora una volta il redattore capo della
rivista; ed eccolo nuovamente seduto davanti alla ribaltina dove stava ben
in vista l'oggetto del contendere sotto specie di un gran mucchio di fogli
sciolti, attestanti quanto fossero stati maneggiati. - Considereremo la
possibilità di offrirgliene trecento, ma non possiamo, le assicuro in modo
categorico, fare un solo passo in più.
Peter Baron, in vestaglia e pantofole, con le mani in tasca, andava su e
giù per la stanza senza far rumore, ripetendosi sottovoce e in un tono che
per il proprio bene si sforzava di rendere ilare: - Trecento... trecento -. Ma
lungi dal buon umore era il suo stato d'animo: si sentiva povero, irritato e
deluso; ma voleva dimostrare a se stesso di essere inflessibile, di essere
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1970 - Racconti Di Fantasmi
fatto - in generale e in particolare - di una tempra indistruttibile. La prima
cosa che aveva notato, entrando nella stanza prospiciente la strada, era che,
davanti alla porta del n. 3, stava una carrozza a quattro ruote, con sopra i
bagagli di Mrs Ryves. Concedendosi, da dietro la tenda, una perdonabile
sbirciatina, vide uscire di casa la signora dei suoi pensieri seguita da Mrs
Bundy, e prender posto nel modesto mezzo di trasporto. Dopo di che i suoi
occhi rimasero fissi a lungo sulla schiena di cotone a fiorami
dell'affittacamere, che agitava senza posa, davanti al finestrino della
carrozza, la vecchia testa moraleggiante. Mrs Ryves aveva davvero preso
la fuga - era stato lui a renderle impossibile la dimora a Jersey Villas - ma
Mrs Bundy, con una magnanimità senza precedenti nella sua professione,
sembrava esprimere ferma fede nella purezza delle sue ragioni. Baron senti
che almeno per il momento la separazione da lui era un dato di fatto e per
istintiva delicatezza si tenne indietro.
Mr Locket parlò a lungo, e Peter Baron ascoltò e attese. Rifletteva sul
fatto che la sua disponibilità ad ascoltare avrebbe probabilmente suscitato
speranze nel suo ospite - speranze che, dal canto suo, era pronto a
considerare senza farsi scrupoli. Non provava compassione per l'ansiosa
attesa di Mr Locket o per le sue possibili illusioni: si sentiva nauseato,
abbandonato, bisognoso di conforto e di denaro. E tuttavia era come un
oltraggio alla sua dignità la sensazione di avere il coltello alla gola:
soprattutto lo irritava il terreno su cui Mr Locket poneva la questione:
quello di servire la causa della verità storica. Poteva anche darsi, ma non ci
vedeva ben chiaro; poteva darsi: era una questione profonda, troppo
profonda, forse, per quanto ne capiva lui. Comunque doveva controllarsi
per non interrompere rabbiosamente quelle chiacchiere aride, interessate,
quella voce falsa che parlava il gergo dei mercanti. Fissò la finestra con
occhi disperati e vide la stupida pioggia che cominciava a cadere. La
giornata era ancor più cupa del suo spirito: le case di Jersey Villas erano
così brutte, così squallide che non c'era da stupirsi se Mrs Ry-ves non le
sopportava piti. Per brutte che fossero, nel corso della giornata avrebbe
dovuto dire a Mrs Bundy ch'era costretto a cercare un alloggio più
modesto. - Ritengo, - iniziò a dire all'improvviso, interrompendo Mr
Locket, - che questa concessione mi assicurerebbe senza restrizioni
l'ospitalità sulla rivista.
Mr Locket lo guardò attonito. - Assicurare?... l'ospitalità?... -Palpava la
proposta come un frutto acerbo.
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1970 - Racconti Di Fantasmi
- Voglio dire che, naturalmente, cortesia per cortesia, lei non
continuerebbe a rifiutare i miei scritti.
- Vi dedicherei la massima attenzione, come ho sempre fatto finora.
Peter Baron esitò. A ben vedere il suo caso presentava qualche
prospettiva di successo per un aspirante idealmente astuto in posizione di
vantaggio come lui. Un attimo dopo però si senti affluire il sangue al viso
per la vergogna: la causa della sua produzione letteraria andava perorata
unicamente in vista dei meriti di essa. Era come se, stupidamente, si fosse
messo lui a parlarne male. Ciò nonostante lanciò la domanda diretta: Pubblicherebbe per esempio la mia novelletta?
- Quella che ho letto l'altro giorno, facendo obiezioni su certi punti?
Intende dire... ehm... modificata? - rispose Mr Locket.
- Oh no, intendo dire senza modifiche di sorta. Le pagine che lei
vorrebbe modificare contengono, come le ho molto chiaramente spiegato,
quella che ritengo la raison d'ètre della storia e perciò mi sembrerebbe una
cretineria di prima grandezza eliminarle -. In verità Peter aveva rinunciato
ad ogni speranza di far comprendere al suo critico il proprio pensiero, ma favorito dalle attuali circostanze - non poteva rinunciare a concedersi il
lusso, che probabilmente non gli si sarebbe più presentato, di essere del
tutto schietto, per un istante di follia, con un direttore di rivista.
Mr Locket affettò un sorriso forzato. - Pensi allo scandalo, Mr Baron.
- Ma non è proprio un altro scandalo quello a cui state correndo dietro?
- Sarà un grande servizio reso al pubblico.
- Le lettere produrranno un grosso scandalo, mentre la mia povera
novella ne provocherà uno piccolo piccolo, ed è soltanto con gli scandali
grossi che si fanno i soldi.
Mr Locket si alzò. Anche lui aveva la sua dignità da difendere. - Una
somma come quella che le offro dovrebbe escludere qualsiasi
rivendicazione.
- Infatti, io non ho rivendicazioni da fare, poiché lei non apprezza ciò
che scrivo. Prendo atto della sua offerta, - prosegui Peter, - e mi impegno
per questa sera a darle, in poche righe che le lascerò a casa, la mia risposta
definitiva, assolutamente inappellabile. I movimenti di Mr Locket,
starnazzante intorno alle reliquie dell'eminente statista, erano quelle di un
pennuto che difende il nido minacciato. Se quella mattina aveva restituito
la sua covata di scartafacci, era perché si era sentito così sicuro di
concludere l'affare da permettersi di essere generoso. Con gli occhi lucidi
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fissi sulle carte, temeva, disse, di dover sollecitare, prima di lasciarle,
l'assicurazione che nel frattempo Baron non le avrebbe passate in altre
mani. A queste parole Peter uscì in una risata più aspra di quanto volesse e
chiese, con ragione, a qual titolo il suo visitatore facesse tale richiesta e
perché mai lui stesso non fosse qualificato ad offrire la sua merce al
miglior offerente.
- Non vuol mica andare in giro a vendere cose del genere? -gridò Mr
Locket; ma prima che Baron trovasse il tempo di rispondergli cinicamente,
soggiunse: - Pubblicherò la sua novella!
- Oh grazie!
- Pubblicherò tutto quello che mi farà avere, - rincarò Mr Locket
nell'uscire. Poco prima Peter aveva virtualmente promesso che, per il
carteggio, avrebbe trattato soltanto con «Miscellanea».
Durante una parte del pomeriggio il giovane visse le ore più agitate della
sua vita, e tuttavia, a distanza di tempo, non ebbe a ripensarvi come a un
momento di tentazione, sebbene fossero state ore prodighe di quel
turbamento che si accompagna a una prospettiva densa di scelte. La
battaglia era già vinta in partenza. Per quanto povero, gli parve di non
poterlo essere abbastanza per accettare i soldi di Mr Locket. Esaminò le
due alternative con la calma di chi ha fatto la propria scelta, ma quella
calma stessa gli procurò la più esaltante delle emozioni: era davvero un
mutamento radicale, una specie di nobile pietà. Gli pareva di aver posto il
dito sul polso della storia, essere addentro al segreto degli dèi. Tutto era in
mano sua: le tavole della legge, la bilancia della giustizia, la fiaccola della
ricerca. Non sapeva tenere insieme un personaggio, ma era capacissimo di
ridurlo in pezzi. Sarebbe stata un'«opera creativa» di nuovo genere; poteva
ricostruire il personaggio in modo meno gradito, rivelandone aspetti
ignorati. Mr Locket aveva fatto un gran parlare di responsabilità, e in
effetti il senso della responsabilità gli aveva tenuto compagnia per tutta la
mattina, mentre andava su e giù per la sua gabbia angusta, guardando la
implacabile pioggia primaverile battere sui vetri. Aveva pensato allora alla
tetraggine che attendeva Mrs Ryves, in viaggio per Dover, e a quel
pensiero si era sovrapposta l'immagine del povero Sir Dominick Ferrand;
la sua fisionomia ormai era divenuta così percettibile, così freddamente e
stranamente personale come fosse stato uno spettro levatosi dall'antica
pietra del suo focolare. Il nostro amico era abituato a quella compagnia; in
effetti, negli ultimi tempi, aveva passato con lui tante ore seguendolo sin
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
dentro il Museo, a raffrontare i suoi vari ritratti, le litografie e le incisioni
da cui uno sguardo consapevole e implorante sembrava posarsi su chi
l'aveva tradito, tanto che la loro insolita dimestichezza si era fatta intima
come un abbraccio. Sir Dominick, muto com'era, dipendeva fortemente da
lui, e Peter non l'avrebbe incoraggiato con tanta curiosità, né rassicurato
con così numerose prove di deferenza, se non avesse respinto la possibilità
di uscire dalle proprie angustie col mettere a nudo un uomo.
Non importava che quell'uomo fosse morto, che fosse stato disonesto.
Peter lo sentiva abbastanza vivo per essere capace di soffrire. Avvertiva in
Mr Locket un così puntiglioso bisogno di rettificare la storia, da far si che
tale rettifica non divenisse affatto per lui stesso un imperativo categorico.
Gli era apparso inoppugnabilmente chiaro che, se il suo successo doveva
dipendere da un'opera di diffamazione, ciò che più lo avrebbe aiutato a
sentirsi la coscienza a posto era abbandonare l'idea del successo. No, no:
anche a costo di morir di fame non avrebbe ricavato denaro dal disonore di
Sir Dominick. Mentre, scuro in volto, se ne andava su e giù per la stanza,
fu quasi sorpreso dal senso di violento disgusto che lo colse all'idea di un
vantaggio qualsiasi procurato in tal modo. Chi era per lui Sir Dominick, in
fin dei conti? Così non vi si fosse mai imbattuto! In una delle sue pause
meditabonde presso la finestra - la finestra dalla quale, a quanto pareva,
mai più avrebbe scorto Mrs Ryves attraversare il giardino con quel passo
che aveva apprezzato fin dalla prima volta - si avvide che la pioggia stava
per cessare, e il sole - benché riluttante - per fare ammenda. Era segno che
poteva uscire: aveva la vaga impressione di dover fare diverse cose:
cercarsi un lavoro e un'abitazione più economica, e una nuova ispirazione
(dal momento che tutte quelle coltivate finora l'avevano abbandonato); in
più bisognava lasciare alla porta di Mr Locket il promesso bigliet-tino.
Guardò l'orologio e fu sorpreso dell'ora, perché tutto quel tempo non aveva
significato per lui altro che pena. Doveva sbrigarsi a mutar d'abito, ma nel
passare in camera da letto l'occhio gli cadde sul mucchietto di lettere
ammonticchiato da Mr Locket sulla sua ribaltina. Lo fecero sussultare e,
con lo sguardo fisso su di esse, fra divertito e annoiato che esistessero
ancora, si fermò un istante. Le aveva così completamente distrutte col
pensiero che ormai per lui l'azione era scontata; ripensò tuttavia ai gradi
successivi attraverso cui deve passare un'intenzione per essere sincera.
Armato dunque di tutta la sua sincerità, Baron si accostò alle lettere, e
sulla griglia vuota del caminetto (dove negli ultimi giorni non era più stato
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
acceso il fuoco, per cui non ebbe che da rimuovere un orrendo aggeggio di
carta velina, caro a Mrs Bundy) ne bruciò con meticolosa metodicità
l'intera raccolta. Il veder consumarsi e divenire illeggibile cenere le pagine
più compromettenti lo rese più felice - se felicità può essere il termine
appropriato per la sensazione che gliene derivò durante l'operazione: un
crepitare così secco e scricchiolante da far pensare al fruscio di morte di
tanti biglietti di banca.
Quando, dieci minuti più tardi, tornò nel suo studio, gli parve di trovarsi
curiosamente - e all'improvviso - davanti a un panorama più ampio. Era
come se fosse stato rimosso un corpo estraneo di così vasta mole da
permettergli di contemplare più cielo, più paesaggio. Eppure le case di
fronte c'erano ancora, naturalmente, e se quel cupo scorcio appariva più
luminoso era senza dubbio soltanto perché la pioggia era cessata davvero e
il sole irrompeva attraverso i vetri. Peter si avvicinò alla finestra per aprirla
all'aria nuova e, così facendo, scorse davanti al cancelletto del giardino la
modesta carrozza da nolo in cui, poche ore prima, aveva visto partire Mrs
Ryves. Non c'era da sbagliarsi (ricordava il cavallo bianco dai ginocchi
ossuti), ma il fatto che sul tetto non vi fosse più il bagaglio della vicina non
faceva che aumentare il suo disorientamento. Forse il vetturino l'aveva già
portato via.... Ora costui se ne stava a cassetta a fumare una pipa di delizie:
le delizie che derivavano dal non-lavoro pagato. Rientrato nella stanza, fu
sorpreso da un colpo bussato alla porta, una bussata presto chiarita - non
appena ebbe aperto - dal fiato corto di Mrs Bundy.
- Scusi, signore, sono venuta a dirci che è tornata.
- Perché diavolo è tornata? - La domanda di Baron suonò sgarbata ma
egli provò una nuova fitta al cuore. Ebbe timore di un'altra ferita;
sembrava uno scherzo di cattivo genere.
- Credo che è per lei, signore, - fece Mrs Bundy. - Desidera vederla un
momento, se ha la cortesia, nel vecchio studiolo di un tempo.
Peter segui per le scale la padrona di casa, che lo precedette
starnazzando nel locale da lei così affettuosamente definito.
- Sono partita stamani, e sono tornata solo per un momento, -spiegò Mrs
Ryves non appena Mrs Bundy ebbe chiuso l'uscio. Peter notò in lei un
mutamento, come se qualche fatto nuovo l'avesse resa più benevola.
- È andata e tornata da Dover?
_ No, ma sono andata a Victoria Station a lasciare i bagagli... poi sono
andata in giro in carrozza.
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1970 - Racconti Di Fantasmi
- Spero che si sia divertita.
- Moltissimo. Sono andata a trovare Mr Morrish.
- Mr Morrish?
- L'editore di musica. Gli ho portato la nostra canzone. Gliela ho
eseguita e lui ne è stato entusiasta. Assicura che è proprio il genere che ci
vuole. Mi ha dato 50 sterline. Ha fiducia in noi, credo, _ continuò Mrs
Ryves, mentre Baron contemplava il miracolo, gli pareva ancora troppo
bello per essere vero, di lei che gli stava davanti, in piedi, e gli parlava di
cose che avevano in comune. - Cinquanta sterline, cinquanta sterline! esclamò, sventolandogli davanti il benedetto assegno. Era tornata indietro
subito per dirglielo, e naturalmente avrebbe diviso la somma a metà. Era
rosea, giubilante, spontanea; parlava come una donna felice. Disse che
bisognava lavorare di più, molto molto di più. Mr Morrish aveva davvero
promesso di accettare qualunque cosa allo stesso livello. Lei aveva
trattenuto la carrozza perché partiva per Dover: non poteva lasciare soli gli
altri due. Era un trabiccolo, malconcio e pigro, ma dopo un po' Baron
cominciò ad apprezzarne il passo, giacché lei aveva acconsentito a
lasciarlo salire e a farsi accompagnare - ma sul serio, questa volta - a
Victoria. Era venuta solo per dargli la buona notizia, ripetè più di una
volta. Ne parlarono tanto intensamente che lì per lì Baron si scordò di ogni
altra cosa: l'impegno preso con Mr Locket e il gran sacrificio appena
consumato, persino la strana coincidenza, che andava ad aggiungersi alla
stranezza di tutte le altre, del ritorno di lei come per una delle sue ben note
divinazioni, proprio nel momento preciso in cui le carte che erano state
alla base della loro amicizia avevano cessato di esistere. Ma lei, dal canto
suo, le carte le aveva evidentemente dimenticate: non ne fece mai parola e
Peter Baron non si gloriò per nulla di ciò che aveva fatto. Per un certo
tempo non vi accennò, curioso di vedere se la sagacia della sua amica non
fosse stata messa in allarme. Poi, più tardi, quando si trattò di assumere per
sempre quel comportamento, mantenne il silenzio, un prodigioso,
religioso, tremebondo silenzio in seguito a un dialogo particolare avuto
con lei.
Il dialogo si svolse a Dover, quando lui le portò il denaro di Mr Morrish
ritirato dalla banca dove aveva consegnato l'assegno. Fu in certo modo
quell'assegno, o piuttosto certe cose che esso rappresentava, a definire il
mutamento radicale dei loro rapporti. Mutamento che fu enorme, e Baron
credette che a spiegare un cambiamento così improvviso fosse solo la
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1970 - Racconti Di Fantasmi
conferma della prospettiva di un fruttuoso lavoro comune. Questa volta lei
non parlò più di impossibilità non sembrò voler mai interrompere la loro
collaborazione; soltanto quando, all'indomani del suo arrivo a Dover con le
cinquanta sterline (dovette infine acconsentire a dividerle con lei, non
poteva sperare che accettasse da lui un regalo in denaro), egli tornò a porle
la domanda che aveva formulato la sera in cui avevano cenato insieme, solo allora (lui era arrivato con una valigia e si sarebbe fermato) lei
accennò al fatto di aver qualcosa di speciale sulla coscienza, qualcosa che
voleva dirgli prima ch'egli potesse compromettersi. Nell'affrontare
l'argomento le si soffuse in volto una luce premonitrice che lo spaventò,
una luce carica di qualcosa di cosf strano che per un attimo egli trattenne il
fiato. Questo lampo, foriero di possibili sventure, tuttavia si dileguò e Peter
fece un movimento come a prendere più tenero possesso di lei. Ma lei lo
trattenne, sollevando un dito con aria grave, compunta. - Mi dica, mi dica
tutto! - esclamò Baron.
- Lei deve sapere cosa sono, chi sono: deve sapere specialmente che cosa
non sono! C'è una parola per questo, una parola bruttissima, crudele! Non
ne ho colpa. Altri lo hanno saputo, ho dovuto dirlo: ha cambiato la mia
vita. Certo ha indovinato! - continuò con un sottilissimo tremito d'ironia
nella voce. E gli permise di prenderle la mano, ch'era fredda e rigida come
il dovere da compiere. - Non vede che non possiedo niente, che non ho
parenti, non ho amici, nulla di nulla al mondo che sia mio? Ero solo una
povera figliola.
- Una povera figliola? - Baron era confuso, commosso, desolato, e
cercava di raccapezzarsi in qualche modo in ciò che lei intendeva dirgli,
ma sentiva, in una grande ondata di compassione, che sarebbe stato un
motivo in più per amarla.
- Mia madre... la mia povera mamma, - disse Mrs Ryves. Tacque e,
attraverso le lagrime, i suoi occhi incontrarono quelli di lui come a
supplicarlo di capirla. Egli comprese e la trasse più vicino, ma lei riuscì
ancora a sciogliersi da lui, e continuò: - Era una povera ragazza sola, una
governante; credeva che lui l'amasse. La amava veramente: credo che sia
stata la sola felicità che mia madre abbia mai conosciuto. Ma ne è morta.
- Oh, sono contento che me ne parli... Com'è generoso da parte sua! sussurrò Baron. - E poi... suo padre? - Esitò come se avesse posto il dito su
antiche ferite.
- Aveva guai per conto suo, ma con lei fu buono. Fu solo miseria e
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1970 - Racconti Di Fantasmi
follia: lui era sposato. Non era felice: credo per validi motivi. Lo so da
certe lettere, l'ho saputo da una persona che è morta. Sono morti tutti
ormai, troppo tempo è passato. È l'unica cosa buona, questa. Con me fu
molto caro: io me lo ricordo, ma allora, da bambina, non sapevo chi fosse.
Mi collocò presso una famiglia di bravissime persone... Ha fatto quanto ha
potuto per me. Più tardi, credo, sua moglie seppe ogni cosa... una signora
che venne a trovarmi una volta dopo la sua morte. Ero una bambina
piccina allora, ma molte cose me le ricordo. Fece quello che potè... lui...
qualcosa che mi fu d'aiuto in seguito, che ancor oggi mi aiuta. Penso a lui
con una specie di strana compassione: io lo vedo - asserì Mrs Ryves, e i
suoi occhi si velarono dell'ombra del passato. - Lei non dovrà mai dir nulla
contro di lui, - soggiunse con dolce gravità.
- Mai, mai! Perché ha soltanto accresciuto in me la gioia di amarla.
- Bisogna aspettare, bisogna riflettere: aspetteremo insieme, -ella riprese.
- Lei non può ancora essere sicuro, e deve lasciarmi un po' di tempo.
Adesso che lo sa, mi sento sollevata: ma era necessario che lo sapesse.
Siamo ancora pivi amici, non le pare? - domandò con un sorriso così
stanco che ebbe l'effetto di rimandare ancor più il racconto di Baron. Ma
un attimo dopo, come se avesse l'impressione di non doverlo rinviare
troppo, Mrs Ryves aggiunse in fretta: - Lei non conosce i fatti, lei non può
giudicarli, li deve lasciar decantare. Ci rifletta, ci pensi; oh lo so che ci
penserà, non parliamone più. Anch'io devo aver tempo, oh e come! Sì, lei
mi deve credere.
Si voltò, ed egli rimase a guardarla per un poco.
- Come lavorerò volentieri per lei! - esclamò Baron.
- Deve lavorare per sé: l'aiuterò io -. Di nuovo i loro sguardi s'erano
incontrati, e lei, pensosa, esitante, seguitò: - Sarà meglio, forse, che le dica
chi era.
Baron scosse il capo, sorridendo fiducioso. - Non me n'importa nulla.
- A me sì, un po' me ne importa. Era un grand'uomo.
- Certo, qualcosa di buono doveva avere.
- Era un personaggio famoso. L'avrà sentito nominare spesso. Baron si
domandò per un attimo chi poteva essere. - Lei è una
principessa, non ho più dubbi! - esclamò ridendo: lo aveva innervosito.
- Non mi vergogno di lui. Era Sir Dorninick Ferrand.
Gli bastò un secondo per leggerle in volto di aver colto
appienol’espressione del suo sguardo. Sapeva di averla fissata sbalordito,
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1970 - Racconti Di Fantasmi
poi di essersi sbiancato in viso; la notizia gli aveva prodotto l'effetto di un
violento scossone. Un brivido di gelo lo colse, come agghiacciata era
rimasta lei, di fronte all'incombente pericolo, piena di spavento per il colpo
vibratogli. Ma il sangue tornò a fluire nelle loro vene, man mano che Peter
riprendeva rapidamente equilibrio e sicurezza, rendendosi conto che la sua
amica aveva scorto nell'emozione di lui soltanto la violenza della sorpresa.
Era uscito in un bisbiglio soffocato - Ah, sei tu, amore mio! - che andò
smorzandosi del tutto mentre l'attirava a sé e la teneva a lungo stretta in un
intenso abbraccio, ancora sbalordito di essersi sottratto a un tale pericolo.
Gli ci volle un po' di tempo per continuare a ripetersi con sufficiente
insistenza, nascondendo il viso: «Ah, non lo saprà mai, non dovrà saperlo
mai!»
Non lo seppe mai; apprese soltanto, avendoglielo una volta chiesto
casualmente, che in effetti egli aveva bruciato i vecchi documenti per i
quali lei aveva dato prova di un capriccio così bizzarro. La sensibilità e la
curiosità che quelle carte avevano avuto l'assurdo potere di suscitare in lei
erano misteriosamente crollate con la medesima irresponsabilità con cui
erano sorte dal nulla; ed ella sembrò allora averle dimenticate, o piuttosto
attribuire ora ad altre cause l'agitazione e alcuni dei curiosi avvenimenti di
cui erano state oggetto. Naturalmente a Peter Baron diedero parecchio
altro da pensare, molto pane - in verità - per meditazioni clandestine.
Nonostante i numerosi sforzi compiuti per non lasciarsi sorprendere, ella
talvolta le rilevò e, per quanto risultò a lui, le interpretò come uno stato
depressivo conseguente alla lunga prova cui ella stessa l'aveva sottoposto.
Ed egli fu più paziente di quanto - ad onta di tutte le sue facoltà divinatorie
- lei seppe intuire, perché, se a dura prova era stato posto lui, nemmeno lei
ne era uscita indenne. Peter non cessava di pensare che, se i documenti da
lui distrutti stavano a dimostrare qualcosa, dimostravano perlomeno che gli
umani errori di Sir Dominick Ferrand non erano di un'unica specie. Era un
pensiero di cui non riusciva a liberarsi: che la donna da lui amata fosse
proprio la figlia di quel padre. Ciò che più conta è che, conoscendola
sempre più a fondo - perché, sotto la protezione di Mr Morrish, lavorarono
molto insieme - il suo amore per lei certo non diminuì di intensità. Alla
luce della lealtà senza pari di lei (il loro matrimonio ne rivelò ancor più di
quanto egli avesse mai supposto) Baron si chiese talvolta se le reliquie
trovate nella ribaltina fossero autentiche. Quel mobile gli è ancor oggi non
meno utile della protezione di Mr Morrish. Per esprimersi con il
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
linguaggio usato da questo signore, parecchie delle loro canzonette
incontrano moltissimo. Tuttavia Baron si cimenta anche con la prosa, e
non sempre adesso le riviste rifiutano le sue offerte. Ma non si è mai più
avvicinato a «Miscellanea». Questa rassegna ha pubblicato a suo tempo
uno studio altamente elogiativo sulla ragguardevole carriera di Sir
Dominick Ferrand.
Traduzione di Maria Luisa Castellani Agosti.
OWEN WINGRAVE
I.
- Sull'onor mio dovete aver perso la testa! - esclamò Spencer Coyle,
mentre il giovane, bianco in viso, era lì davanti a lui, un po' ansimante, e
ripeteva: - Vi dico che ho veramente deciso, - e: - Vi assicuro che ho
esaminato la cosa da tutti i lati -. Erano pallidi tutti e due, ma Owen
Wingrave sorrideva in un modo che esasperava il suo istitutore, il quale
aveva tuttavia ancora tanto discernimento da capire che quella smorfia una sorta di risolino inconsulto -non era che l'effetto d'un nervosismo
estremo e comprensibile.
- Arrivare fino a questo punto è stato certamente un errore; ma proprio
per questo sento che non devo andar oltre, - disse il povero Owen
aspettando meccanicamente, quasi umilmente, una risposta (non voleva
darsi delle arie, e in verità non ne aveva ragione) e posando attraverso la
finestra il freddo scintillio dei suoi occhi sulle scolorite case di fronte.
- Sono indicibilmente disgustato. Mi avete sconvolto in un modo
terribile... - e il signor Coyle appariva in realtà completamente fuori di sé.
- Me ne dolgo moltissimo. Non ho parlato prima appunto per timore
dell'effetto che la cosa vi avrebbe fatto.
- Avreste dovuto parlare tre mesi fa. Non sapete che cosa avete in mente
da un giorno all'altro? - domandò il più anziano dei due.
Il giovane esitò un momento; poi con la voce che gli tremava:
- Siete molto irritato con me... - protestò, - e me lo aspettavo. Vi sono
molto obbligato per quanto avete fatto per me. Farò qualunque altra cosa
per voi, in cambio, ma non questa. Tutti mi diranno il fatto loro,
naturalmente. Ci sono preparato, sono preparato a tutto. Per questo mi ci è
voluto tanto tempo: capite bene che me l'aspettavo. Credo che il vostro
disappunto sia quello che sento e deploro di più. Ma a poco a poco lo
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1970 - Racconti Di Fantasmi
supererete, - concluse Owen.
- Voi lo supererete un po' più rapidamente, suppongo! – esclamò l’altro
ironico. Era non meno agitato del suo giovane amico, e non erano
evidentemente in condizione di prolungare un colloquio che li faceva
sanguinare tutti e due. Ma Coyle era «istitutore» di professione; preparava
aspiranti per l'esercito, accogliendone tre o quattro alla volta, e facendo
operare su di loro lo stimolo irresistibile che costituiva a un tempo il suo
segreto e la sua fortuna. Non aveva un'organizzazione in grande;
personalmente, avrebbe detto che non lavorava all'ingrosso. Né il suo
sistema, né la sua salute, né il suo carattere consentivano un numero
elevato di scolari; di conseguenza soppesava e misurava gli allievi col
massimo scrupolo, e rifiutava più ammissioni di quante ne accettasse.
Nella sua professione, era un artista; si occupava soltanto di elementi
scelti, ed era capace di sacrifici quasi appassionati per il singolo. Gli
piacevano i giovani entusiasti - c'erano tipi di capacità e generi di bravura
che lo lasciavano indifferente - e Owen Wingrave aveva suscitato in lui
una grande simpatia. La particolare qualità delle doti di quel giovane, per
non parlare della sua intera personalità, emanava quasi un fascino e, in
ogni modo, lo rendeva attraente. I candidati del signor Coyle di solito
facevano meraviglie, e avrebbe potuto sfornarne una moltitudine. Era un
uomo di statura esattamente pari a quella del grande Napoleone, con un
certo lampeggiamento di genio nei chiari occhi azzurri: si era detto di lui
che aveva l'aspetto di un pianista da concerto. Il tono del suo allievo
favorito esprimeva ora, per quanto davvero senza intenzione, una superiore
saggezza che lo irritava. In passato, l'alta opinione che Wingrave aveva di
sé, e che sembrava giustificata da qualità eccezionali, non gli aveva mai
dato noia; ma quel giorno, improvvisamente, la trovò intollerabile. Pose
bruscamente fine alla discussione, rifiutandosi nel modo più assoluto di
considerare i loro rapporti come conclusi, e fece osservare al suo alunno
che avrebbe fatto bene a prendersi una vacanza - a Eastbourne, per
esempio: il mare gli avrebbe fatto cambiare idea - così da avere qualche
giorno per ritrovare l'equilibrio e tornare in sé. Era così avanti negli studi
che poteva prendersi il lusso di perdere quel po' di tempo: ricordando
quanto Wingrave fosse effettivamente avanti negli studi, a Spencer Coyle
venne l'impeto di prenderlo a schiaffi. L'alto e atletico giovanotto non era,
fisicamente, un soggetto adatto a tale semplificazione di argomenti; ma la
turbata mitezza del suo bel viso, indice di risolutezza mista a
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1970 - Racconti Di Fantasmi
compunzione, significava in realtà che, se la cosa avesse potuto fargli
bene, avrebbe presentato senz'altro entrambe le guance. Era chiaro che non
pretendeva di spacciare la sua saggezza come superiore; la presentava
unicamente come sua. Dopo tutto si trattava della sua carriera. Non poteva
rifiutarsi alla formalità di tentare una vacanza a Eastbourne o, per lo meno,
di tenere la lingua a posto; ma, nel suo atteggiamento, era implicito il
pensiero che, se lo avesse fatto, sarebbe stato in realtà unicamente per
permettere al signor Coyle di ricomporsi.
Egli non si sentiva minimamente affaticato, ma non c'era niente di più
naturale che, data l'enorme quantità di lavoro alla quale s'erano sottoposti,
il signor Coyle lo fosse. L'intelletto del signor Coyle avrebbe tratto
vantaggio dalla vacanza del suo scolaro. Il signor Coyle intuì il pensiero
del giovane, ma si dominò; chiese soltanto, come suo diritto, una tregua di
tre giorni. Owen, per quanto dare alimento a fallaci illusioni fosse
visibilmente contrario alla sua coscienza, la concesse; ma prima che si
separassero, il famoso istitutore osservò: - Comunque sento il dovere di
parlare con qualcuno. Mi avete detto, mi sembra, che vostra zia è arrivata
in città...
- Oh sì, sta in Baker Street. Andate, andate a trovarla, - disse il giovane
in tono confortante.
Il maestro gli gettò un'occhiata scrutatrice:
- Le avete accennato a questa vostra follia?
- Non ancora, non ne ho parlato con nessuno. M'è sembrato giusto
parlarne a voi prima che a ogni altro.
- Oh, quanto a quello che voi trovate «giusto»! - esclamò Spencer Coyle
irritato dai principi del suo giovane amico. Aggiunse che probabilmente
sarebbe andato a far visita alla signorina Wingrave; dopo di che l'alunno
infedele lasciò la casa.
Ma non parti subito per Eastbourne; si diresse soltanto verso il parco di
Kensington, dal quale l'invidiabile residenza del signor Coyle - che era
terribilmente spendereccio e aveva una casa molto grande - non si trovava
lontana. Il famoso istitutore teneva a pensione i suoi scolari, e Owen aveva
detto al maggiordomo che sarebbe ritornato per il pranzo.
La giornata di primavera era calda per il suo giovane sangue, e poiché
aveva un libro in tasca, quando fu entrato nel parco, e, fatto un breve giro
pei viali, si fu lasciato cadere su una sedia, lo tirò fuori col sospiro lento e
beato che saluta alfine un piacere lungamente desiderato. Stese a suo agio
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1970 - Racconti Di Fantasmi
le lunghe gambe e incominciò a leggere; era un volume delle poesie di
Goethe. Si trovava da giorni in uno stato di estrema tensione, e ora che la
corda s'era spezzata, il sollievo si palesava altrettanto grande: soltanto, era
caratteristico della sua natura che la liberazione assumesse la forma di un
piacere intellettuale. Se aveva rinunciato alla prospettiva di una carriera
magnifica, non era già per gingillarsi lungo Bond Street o esibire la sua
indifferenza dalla finestra di un qualche circolo cittadino. Comunque, in
pochi minuti, aveva dimenticato tutto: l'enorme dispendio di energia, il
disappunto del signor Coyle e perfino la formidabile zia di Baker Street.
Se quei sovraintendenti alla sua vita lo avessero sorpreso lì, la loro
esasperazione avrebbe avuto qualche scusa. Era senza dubbio perverso;
perfino la scelta del passatempo dimostrava quali progressi avesse fatto
nello studio del tedesco.
- Lo sapete voi che cosa diavolo gli sta succedendo? - domandò Spencer
Coyle quel pomeriggio al giovane Lechmere, il quale, in passato, non
aveva mai sentito il direttore dell'istituto dare esempio di scorrettezza di
linguaggio. Il giovane Lechmere era non soltanto compagno di studi di
Wingrave; lo si giudicava suo intimo, anzi il suo migliore amico, e aveva
inconsapevolmente compiuto agli occhi del signor Coyle la funzione di
rendere più vivida, per contrasto, la promessa delle grandi qualità
dell'altro. Era basso e tarchiato e, nell'insieme, tutt'altro che entusiasmante,
tanto che il signor Coyle, il quale non provava nessun piacere a doversi
confidare con lui, non lo aveva mai trovato più insipido di quello che gli
appariva ora, mentre sgranava gli occhi su di un viso dal quale non si
capiva se avesse afferrato l'idea più di quanto si possa giudicare il proprio
pranzo guardando il coperchio di una casseruola. Il giovane Lechmere
teneva nascosto ogni successo del genere come si fosse trattato di
indiscrezioni giovanili. Comunque, era evidente che non vedeva alcuna
ragione per la quale si. dovesse pensare che ci fosse qualcosa di diverso
dal solito nell'umore del suo compagno di studi; il signor Coyle si trovò
quindi costretto a continuare: - Si rifiuta di andare avanti. Manda tutto
all'aria!
La cosa che più colpiva il giovane Lechmere nella faccenda era la
freschezza, quasi di vernacolo dimenticato, impartita al vocabolario del
suo maestro. - Non vuole andare alla scuola di guerra?
- Non vuole andare in nessun posto. Rinuncia alla carriera militare
completamente. E contrario, - disse il signor Coyle con un tono che quasi
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1970 - Racconti Di Fantasmi
tolse il respiro al giovane Lechmere, - alla professione delle armi.
- Ma se è stata la professione di tutta la sua famiglia!
- Professione? La loro religione, è stata! Conoscete la signorina
Wingrave?
- Oh sì! Terribile, no? - esclamò candidamente il giovane Lechmere.
Il suo istitutore rimase un momento interdetto. - Formidabile, vorrete
dire, ed è giusto che lo sia; perché, in certo qual modo, nel suo aspetto
stesso, da quella brava vecchia zitella che è, rappresenta le tradizioni e le
gesta dell'esercito inglese. Rappresenta la forza d'espansione del buon
nome britannico. Credo che si possa contare su un'azione concorde della
famiglia, ma bisogna mettere in moto ogni influenza. Desidero sapere
quale sia la vostra. Credete di poter fare qualcosa?
- Posso tentare in qualche modo, - disse il giovane Lechmere
meditabondo. - Ma la sa lunga. Ha le idee più impensabili.
- Allora ve ne ha detto qualcosa... si è confidato con voi!
- L'ho sentito parlare ore e ore, - sorrise l'onesto Lechmere. -Mi ha detto
che ne ha un profondo disprezzo.
- Che cosa disprezza? Non capisco.
Il più riflessivo degli allievi del signor Coyle meditò un momento, come
conscio di una responsabilità. - Ebbene, io credo la vita militare, capite?
Dice che la vediamo sotto una luce sbagliata.
- Non dovrebbe tenere questi discorsi a voi. E’ un corrompere i giovani
ateniesi. E’ uno spargere la sedizione.
- Oh, io non mi lascio corrompere! - disse il giovane Lechmere. - D'altra
parte non mi ha mai detto che voleva tirarsi indietro. Ho sempre pensato
che volesse esaminare la cosa a fondo, perché è nella sua natura. È capace
di sostenere qualunque punto di vista. È capace di farvi uscir di cervello
con la sua parlantina... se c'è una cosa che posso dire di lui, è questa. Ma è
un gran peccato... sono certo che avrebbe fatto una carriera stupenda.
- E allora diteglielo; difendete la buona causa; prendetelo di petto... per
amor di Dio.
- Farò quello che posso... gli dirò che è una vergogna bella e buona.
- Sì, battete su quel punto... insistete sulla vergogna che ricadrebbe su di
lui.
Il giovane dette al signor Coyle uno sguardo strano.
- Sono certo che non farebbe niente di disonorevole.
- Sì... ma l'opinione del mondo? Dovete fargli sentire questo... mettere
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bene in luce la cosa. Ditegli qual è il punto di vista di un camerata... di un
fratello d'armi.
- In verità pensavo che lo saremmo diventati, - mormorò
romanticamente il giovane Lechmere, molto orgoglioso della missione che
gli veniva affidata. - È un ragazzo di prim'ordine.
- Nessuno la penserà così, se si tira indietro! - disse Spencer Coyle.
- Non lo vengano a dire a me! - ribatté l'allievo con impeto.
Il signor Coyle, notando il tono, e convinto che, nella mutevolezza degli
eventi, per quanto quel giovane fosse un soldato nato, nessun dramma
sarebbe mai sorto dalle sue scelte, se non forse agli occhi della bella
ragazza alla quale, in un giorno tutt'altro che lontano, si sarebbe
placidamente unito, rimase un momento pensieroso. - Avete simpatia per
lui... avete fede in lui?
In quei giorni la vita del giovane Lechmere consisteva nel dover
rispondere a domande terribili, ma non si era mai trovato di fronte a un
fuoco di fila così intenso. - Se ho fede in lui? Credo bene!
- Allora salvatelo!
Il povero ragazzo rimase perplesso, quasi sentisse nell'impeto delle
parole un appello assai più disperato che a tutta prima non sembrasse; e si
rese conto senza dubbio che intravedeva appena allora quanto la situazione
fosse complessa, allorché, un momento dopo, con le mani in tasca,
speranzoso, ma senza albagia, rispose: - Credo che mi riuscirà di
ricondurlo alla ragione!
II.
Prima di parlare col giovane Lechmere, il signor Coyle s'era deciso a
telegrafare alla signorina Wingrave chiedendole un colloquio. Aveva
pagato in anticipo la risposta, la quale, rimessa nelle sue mani con la
massima prontezza, segnò la fine della conversazione che abbiamo riferita.
Prese subito una carrozza per Baker Street, dove la signorina Wingrave
aveva comunicato che lo attendeva, e cinque minuti dopo il suo arrivo,
mentre si sedeva nel salotto della notevole zia di Owen Wingrave, ripetè
più volte con irritata tristezza e con l'infallibilità dell'esperienza: - E così
intelligente... è così intelligente! - E aveva già detto che istruire un giovane
simile era stata una festa.
- Si capisce che è intelligente; come potrebbe essere altrimenti?
Henry James
274
1970 - Racconti Di Fantasmi
Abbiamo avuto un solo idiota nella famiglia, che io sappia! - disse Jane
Wingrave. Il signor Coyle era in grado di capire l'allusione; e mentre vide
in essa un altro motivo di disappunto, in certo qual modo, di umiliazione
per la brava gente di Paramore, la accolse al tempo stesso come un nuovo
esempio della consapevole rudezza che aveva altre volte osservata nella
sua ospite. Il povero Philip Wingrave, figlio maggiore del defunto fratello
di lei, era letteralmente imbecille e bandito dalla società; deforme,
inavvicinabile, inguaribile, era stato relegato in una clinica privata, e, per
gli amici di famiglia, non era diventato altro che una vaga leggenda
lugubre, della quale non si parlava. Tutte le speranze della casa, della
pittoresca dimora di Paramore, divenuta ora il costante e piuttosto
malinconico rifugio del vecchio Sir Philip - le sue infermità dovevano
tenerlo lì sino alla fine - erano perciò riposte sul secondogenito, che la
natura, quasi pentita del suo aborto precedente, aveva dotato, oltre che di
una notevole bellezza, di eccellenti attitudini di ogni genere. Quei due
erano stati i soli figli dell'unico rampollo del vecchio, il quale rampollo
come tanti suoi antenati, aveva sacrificato una vita giovane e valorosa al
servizio della patria. Owen Wingrave, il vecchio, aveva ricevuto il colpo
mortale in un corpo a corpo, da una sciabola afgana: il fendente gli aveva
spaccato il cranio. Sua moglie, che si trovava a quel tempo in India, stava
per dare alla luce il terzo bambino; e quando accadde la tragedia, tra
l'angoscia e il pensiero d'un avvenire oscuro, il piccolo venne al mondo
senza vita, e la madre soccombette al moltiplicarsi delle sventure. Il
secondogenito, che era in Inghilterra, a Paramore, col nonno, divenne
oggetto delle cure particolari di sua zia, la sola rimasta nubile; e durante
l'interessante domenica che, in seguito a un urgente invito, Spencer Coyle,
per quanto occupatissimo, dopo aver acconsentito a preparare Owen alla
carriera militare, passò sotto quel tetto, il celebre istitutore ricevette
un'impressione vivissima dell'influenza esercitata, almeno nelle intenzioni,
dalla signorina Wingrave. Invero il piccolo e acuto istitutore serbò
dell'insieme di quella breve visita un ricordo curioso. Ne riportò la visione
di una casa dei tempi di re Giacomo, immiserita, mal ridotta e
naturalmente tetra, ma ancor piena di dignità e di colore, come cornice alla
nobile figura del pacifico veterano. Sir Philip Wingrave, piuttosto una
reliquia che una celebrità, era un piccolo ottuagenario, bruno ed eretto,
dagli occhi che ancora serbavano un certo fuoco, e studiatamente cortese.
Gli piaceva fare i ridotti onori della sua casa, ma anche quando accendeva
Henry James
275
1970 - Racconti Di Fantasmi
con mano tremante la candela per la notte a un ospite che si affannava a
protestare, era impossibile non sentire, sotto la crosta, lo spietato vecchio
di sangue militaresco. L'occhio della fantasia risaliva al suo denso passato
d'Oriente... a episodi che il suo rispetto delle forme non doveva aver reso
che più terribili. Aveva una sua leggenda... e si raccontavano, oh sì, certe
storie, sul suo conto!
Il signor Coyle ricordava anche altre due persone... una scialba e
innocua signora Julian, che era di casa grazie alle sue frequenti visite come
vedova d'un ufficiale e come amica particolare della signorina Wingrave, e
sua figlia, una giovanetta di diciotto anni, notevolmente intelligente, che
colpì l'attento ospite come già matura per altri legami. Era molto
impertinente con Owen, e nel corso d'una lunga passeggiata che aveva
fatto col giovane, e la cui conclusione, dopo molte parole, era stata di
confermare definitivamente l'alta opinione di lui, aveva appreso - perché
Owen si apriva con tutta confidenza - che la signora Julian era sorella di un
valoroso gentiluomo, il capitano d'artiglieria Hume-Walker, caduto
durante la rivolta indiana, e che tra lui e la signorina Wingrave (era l'unica
concessione del genere che le fosse attribuita) si credeva fossero corsi
rapporti piuttosto delicati, che avevano avuto una conclusione tragica.
Erano stati fidanzati, ma lei aveva ceduto alla sua indole intollerante,
aveva rotto ogni legame, e lo aveva abbandonato al proprio destino, che
era stato terribile. La convinzione d'essere stata ingiusta con lui e un
rimorso aspro ed eterno s'erano allora impossessati di lei; e quando la
povera sorella di lui, legata pure a un soldato, si era trovata, in seguito a un
colpo anche più crudele, quasi senza il necessario, si era dedicata
accanitamente a una lunga espiazione. Aveva cercato conforto nel tenere la
signora Julian la maggior parte dell'anno con sé a Paramore, dove era
diventata una sorta di governante non rimunerata, per quanto non immune
da critiche; e Spencer Coyle era incline a pensare che parte del conforto
cercato le provenisse dal poterla trattar male a suo piacimento.
L'impressione che Jane Wingrave fece su di lui quell'intensa domenica non
fu tra le più fuggevoli di una giornata, singolarmente gremita per lui del
senso di perdite dolorose, di lutti, di memorie, di nomi mai pronunciati, di
lontani lamenti di vedove, di echi di battaglie e di notizie penose. Era un
insieme molto militare, e il signor Coyle si trovò a rabbrividire un poco
della professione alla quale avviava giovani altrimenti innocui. La
signorina Wingrave poteva inoltre far sì che la cattiva coscienza di lui si
Henry James
276
1970 - Racconti Di Fantasmi
sentisse anche peggiore, tanto limpida e fredda e chiara era quella che lo
guardava attraverso i suoi begli occhi dallo sguardo sicuro, e squillava
nella sua voce sonora.
Era una signora d'aspetto molto distinto, angolosa ma non goffa, dalla
fronte ampia e dai folti capelli neri - adesso irregolarmente striati di bianco
- acconciati come quelli di una donna che giudicava, forse scusabilmente,
di avere una testa «nobile». Tuttavia, sebbene la signorina Wingrave
rappresentasse per il nostro agitato amico il genio d'una stirpe di soldati,
non è da credere che avesse il passo d'un granatiere o il vocabolario d'una
vivandiera di reggimento. Le sue simpatie in quel senso erano chiaramente
implicite nel fatto essenziale al quale il suo stesso portamento, e ogni suo
gesto, ogni suo sguardo, ogni tono di voce, erano altrettante allusioni
costanti e dirette al supremo valore della famiglia. Era militaresca perché
usciva da una famiglia di soldati e perché per nulla al mondo avrebbe
voluto essere diversa da quello che i Wingrave erano sempre stati. Nel
vantare i suoi antenati era quasi volgare, e chi si fosse lasciato tentare a
bisticciarsi con lei, avrebbe avuto un buon pretesto nel suo scarso senso
delle proporzioni. Spencer Coyle era tuttavia molto lontano da tentazioni
del genere; invero per lui la signorina Wingrave era un vero balsamo;
come donna di forte carattere, quale ella si rivelava nel colore e nel tono,
era lieto di considerarla una forza attiva al suo fianco. Avrebbe voluto che
il nipote avesse una ristrettezza mentale anche maggiore, invece d'essere
quasi diabolicamente ossessionato dalla tendenza a guardar le cose nei loro
reciproci rapporti. Si domandò perché mai, quando veniva in città, la
signorina Wingrave andasse sempre a stare in Baker Street. Non aveva mai
saputo né sentito dire che Baker Street fosse un quartiere d'abitazione, non
gli richiamava alla mente che bazar e fotografie. Intuiva in lei un'assoluta
indifferenza a qualsiasi cosa che non fosse la passione della sua vita.
Null'altro le stava veramente a cuore, e sarebbe andata ad abitare persino
nel suburbio se la sua tattica avesse potuto avvantaggiarsene.
Ricevette il suo ospite in una grande stanza fredda e sbiadita, arredata di
sedie senza solidità e adorna di vasi d'alabastro e fiori di cera. L'unica
modesta comodità personale alla quale sembrava aver pensato, era un
grosso catalogo dell'Unione militare per l'Esercito e la Marina, che stava
su un grande e desolato tappeto d'un azzurro molto incerto. La sua lucida
fronte - la si sarebbe detta una sorta di lavagna di porcellana, ricetto di
indirizzi e di somme - s'era fatta rossa quando l'istitutore di suo nipote le
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1970 - Racconti Di Fantasmi
aveva dato l'incredibile notizia; ma Spencer Coyle vide subito come la
cosa, fortunatamente, più che spaventarla, la indignasse. Aveva, e avrebbe
sempre avuto, essenzialmente, troppo poca fantasia per lasciarsi prendere
dalla paura; e, per di più, la sana abitudine di guardare qualunque pericolo
in faccia, le aveva insegnato che il destino trovava di solito pane per i suoi
denti. Spencer Coyle si rendeva conto che, al momento, l'unica paura che
ella potesse avere era di fallire nel tentativo di salvare il nipote dal dare
pubblico spettacolo di sé, dal passare per un imbecille o peggio; e che, a
un'apprensione del genere, Jane Wingrave era assolutamente inaccessibile.
Da donna che aveva la testa sulla spalle, non si lasciò turbare nemmeno
dalla sorpresa; non ammetteva nessun sentimento futile o delicato. Se
Owen s'era reso, per un momento, ridicolo, se ne indignava, sconcertata
come sarebbe rimasta nel sentire che si fosse permesso di fare dei debiti o
di innamorarsi di una ragazza di bassa condizione. Ma, in qualsiasi
evenienza, rimaneva la via di salvezza del fatto che nessuno avrebbe mai
preso in giro lei.
- Non ricordo di essermi mai tanto interessato a un giovane... non m'è
mai successo, credo da quando ho preso a occuparmene, - disse il signor
Coyle. - Mi piace, ho fiducia in lui. È stato un piacere per me seguire i suoi
progressi.
- Oh, li conosco! - La signorina Wingrave alzò la testa con l'aria di chi
non ha nulla da apprendere, come se tutta una parata di generazioni le
fosse sfilata davanti in un baleno con un gran tintinnio di foderi e di
speroni. Spencer Coyle capì l'allusione: Jane Wingrave non aveva niente
da imparare da nessuno circa il naturale comportamento di un Wingrave; e,
alle sue prime parole, ebbe la chiara impressione che, con l'angosciosa
storia del suo disappunto e le sue lamentele, egli non era agli occhi di lei
gran cosa più di un povero diavolo. - Se il ragazzo vi piace, - esclamò, tenetelo dunque tranquillo, per amor di Dio!
Il signor Coyle cominciò a spiegarle che questo era meno facile di
quanto lei sembrava immaginare; ma capì chiaramente che la donna non si
rendeva molto conto di quel che egli diceva. Più insisteva sul punto che il
ragazzo aveva una sorta di indipendenza intellettuale, più il fatto le
appariva sotto la luce di una prova conclusiva che suo nipote era un
Wingrave e un soldato. Soltanto quando le disse che Owen aveva parlato
della carriera militare come di cosa che era «al disotto» di lui, soltanto
quando quella più intensa luce gettata sulla complessità del problema
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1970 - Racconti Di Fantasmi
fermò la sua attenzione, soltanto allora, dopo un momento di stupefatta
riflessione, proruppe: - Mandatelo subito da me!
- È proprio quello che volevo chiedervi il permesso di fare. Ma
intendevo anche prepararvi al peggio, farvi capire che il ragazzo mi
sembra veramente ostinato, e dirvi che i più forti argomenti a vostra
disposizione, specialmente se vi riesce di trovarne qualcuno di
energicamente pratico, non saranno mai troppo efficaci.
- Credo di avere un argomento molto forte, - e la signorina Wingrave
guardò fisso il suo ospite. Egli non aveva la più piccola idea di che cosa
questa macchina potesse essere, ma la scongiurò di metterla in moto senza
indugio. Promise che il giovane si sarebbe trovato in Baker Street quella
sera stessa, aggiungendo, tuttavia, che lo aveva già sollecitato a passare un
paio dei prossimi giorni a Eastbourne. Questo indusse Jane Wingrave a
domandare, sorpresa, che efficacia ci poteva essere in un rimedio così
dispendioso; e, quando egli ebbe detto: - L'efficacia di un po' di riposo, di
un po' di novità per i nervi affaticati, - rispose decisa: - Non state a trattarlo
come un invalido... ci sta già costando parecchio denaro! Gli parlerò io, e
lo porterò con me a Paramore; lì sarà trattato come si merita, e ve lo
rimanderò col cervello raddrizzato.
Spencer Coyle salutò questa promessa, in apparenza, soddisfatto, ma
prima di lasciare l'energica signora capì che, in realtà, s'era creato un'ansia
nuova, una inquietudine che gli fece dire tra sé con un intimo gemito: Questa donna, in fondo, è un granatiere, e non avrà nessun tatto. Io non so
quale sia il suo grande argomento; ho soltanto paura che farà qualche
sciocchezza e che il ragazzo ne uscirà peggio di prima. Il vecchio è
preferibile, almeno è capace di tatto, per quanto sia un vulcano non del
tutto spento. Owen la farà probabilmente andare in bestia. In conclusione,
la difficoltà grande è che il ragazzo è il migliore di tutti loro.
Quella sera, a pranzo, si riconfermò nell'opinione che il ragazzo era il
migliore della compagnia. Il giovane Wingrave - che, con sua grande
soddisfazione, non era ancora partito per il mare - apparve a pranzo
secondo il solito, con un'aria inevitabilmente un po' imbarazzata, ma non
troppo fuor del comune per una casa della buona borghesia. Parlò con
molta naturalezza alla signora Coyle, che lo aveva giudicato fin dal primo
giorno il più bel giovane che avessero mai accolto in casa; e la persona
meno a suo agio fu il povero Lechmere, che si dava una gran pena, come
mosso da un profondo senso di delicatezza, per evitare gli occhi del
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
camerata fuorviato. Spencer Coyle pagò tuttavia il prezzo del suo
maggiore acume sentendosi sempre più preoccupato; vedeva senza sforzo,
nel suo giovane amico, una quantità di cose che i suoi familiari di
Paramore non sarebbero stati capaci di capire. All'idea che lo avrebbero
tormentato cominciava perfino a reagire, a riflettere che il ragazzo, dopo
tutto, aveva il diritto di pensare con la sua testa, a ricordare che era fatto di
materia troppo delicata perché si potesse maneggiarla con dita grossolane.
In questo modo, il piccolo e ardente istitutore, con le sue intuizioni
capricciose e le sue complicate simpatie, era perpetuamente condannato a
non trovar pace né nelle sue contrarietà né nei suoi entusiasmi. La sua
passione per la schietta verità non gli consentiva mai di goderne.
Dopo il pranzo parlò a Wingrave dell'opportunità di una sua visita
immediata a Baker Street, e il giovane, con un'aria «strana», come egli
pensò - sorridendo cioè ancora con ostinazione, nella superiore coscienza
della sua causa sbagliata, di cui aveva fatto mostra durante il loro recente
colloquio - uscì per affrontare la prova. Spencer Coyle tenne per certo che
il giovane era spaventato, che aveva paura di sua zia; ma, in certo qual
modo, non gli parve che quello fosse un segno di pusillanimità. Si rendeva
perfettamente conto che , nei panni del povero ragazzo, sarebbe stato
spaventato anche lui, e la visione del suo scolaro che marciava verso i
cannoni puntati nonostante la paura, era una sicura conferma del suo
temperamento di soldato. Molti giovani di fegato si sarebbero sottratti a un
rischio di quel genere.
- Ha le sue idee, e come! - proruppe il giovane Lechmere rivolgendosi al
suo istitutore, dopo che Owen ebbe lasciata la stanza. Era agitato e
piuttosto compunto, aveva un'emozione da smaltire. Prima di pranzo aveva
affrontato il suo amico a bruciapelo, secondo il desiderio del signor Coyle,
e gli aveva strappato la dichiarazione che i suoi scrupoli si basavano
sull'assoluto convincimento della stupidità - della «crassa barbarie», come
l'aveva chiamata - della guerra. La sua grande obiezione era che gli uomini
non avessero saputo inventare niente di più intelligente, ed era deciso a
dimostrare, nel solo modo possibile, che egli non era un bruto di quella
fatta.
- È dal parere che tutti i grandi generali dovrebbero venire fucilati, e che
Napoleone Bonaparte, in particolare, il più grande di tutti, era una
canaglia, un criminale, un mostro, per il quale il linguaggio umano non ha
un epiteto adeguato! - Il signor Coyle, completando il quadro descritto dal
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280
1970 - Racconti Di Fantasmi
giovane Lechmere, soggiunse: - Vi ha propinato, a quel che sento,
esattamente le medesime perle di saggezza che a me. Ma voglio sapere che
cosa avete detto voi.
- Che era un cumulo di sciocchezze! - Il giovane Lechmere disse queste
parole con enfasi, e fu un po' sorpreso nel constatare che il signor Coyle
accoglieva quella giusta definizione con una risata fuori tono. Dopo un
momento, riprese:
- E una cosa veramente curiosa... direi che, dopo tutto, qualche cosa di
vero c'è. Ma è un peccato!
- Mi ha detto che il problema incominciò a presentargli sotto quella luce
quattro o cinque anni fa, quando fece un quantità di letture intorno ai pezzi
grossi e alle loro campagne: Annibale e Giulio Cesare, Marlborough, e
Federico, e Bonaparte. Ha letto il leggibile, e dice che gli si sono aperti gli
occhi. Dice che è stato sopraffatto da un'ondata di disgusto. Ha parlato
della «smisurata tragedia» delle guerre, e mi ha domandato perché le
nazioni non fanno a pezzi i governanti che le promuovono. Odia il povero
Bonaparte più di ogni altro.
- Quanto a questo, il povero Bonaparte era una canaglia. Era un
cialtrone della peggiore specie, - dichiarò inaspettatamente il signor Coyle.
- Ma spero che voi non abbiate ammesso questo.
- Oh, credo bene che fosse un uomo impossibile, e sono molto contento
che noi lo abbiamo mandato a gambe all'aria. Ma a Wingrave ho fatto
osservare che la sua condotta avrebbe provocato commenti senza fine -. Il
giovane Lechmere esitò un momento, poi aggiunse: - Gli ho detto che
doveva aspettarsi il peggio.
- Naturalmente vi avrà domandato che cosa intendevate per «il
peggio».
- Sì, me lo ha domandato, e sapete che cosa ho risposto? Gli ho risposto
che la gente avrebbe chiamato i suoi scrupoli di coscienza e la sua ondata
di disgusto un mero pretesto. Allora mi ha domandato: «Pretesto di che?»
- Ah, direi che così vi ha messo con le spalle al muro! - ribatté il signor
Coyle con una risatina che il suo scolaro trovò incomprensibile.
- Nemmeno per idea, perché gliel'ho detto.
- Che cosa gli avete detto?
Ancora una volta, per pochi secondi, con gli occhi che fissavano incerti
quelli del suo istruttore, il giovane indugiò. - Naturalmente quello di cui s'è
parlato qualche ora fa. Che avrebbe dato l'impressione di non avere... Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
L'onesto giovane esitò di nuovo, ma superò l'ostacolo: - Il temperamento
militare, no? Ma sapete che cosa ha avuto il coraggio di rispondere? continuò il giovane Lechmere.
- Al diavolo il temperamento militare! - rispose pronto l'istitutore.
Il giovane Lechmere sgranò gli occhi. Dal tono del signor Coyle non
capì se attribuisse la frase a Wingrave o esprimesse un'opinione personale;
ma esclamò: - Le sue esatte parole!
- Non gliene importa niente, - disse il signor Coyle.
- Forse no. Ma non è giusto che debba offendere tutti noi. Gli ho risposto
che è il più bel temperamento del mondo e che non c'è niente di più
sublime del coraggio e dell'eroismo.
- Ah, così sì lo avete messo a posto!
- Gli ho detto che sparlare di una nobile e splendida professione era
indegno di lui. Gli ho detto che non c'è tipo d'uomo più superbo del soldato
nell'adempimento del dovere.
- Che è essenzialmente il vostro tipo, mio caro ragazzo -. Il giovane
Lechmere arrossi. Non gli riusciva di capire - e il pericolo gli si presentava
naturalmente inatteso - se in quel momento egli non esistesse soprattutto
per servire di passatempo al suo amico. Ma fu parzialmente rassicurato
dalla cordialità con la quale l'altro, posandogli una mano sulla spalla,
continuò. - Stategli alle calcagna senza tregua. Può darsi che ci riesca di
fare qualcosa. In ogni modo vi sono molto obbligato.
Un altro dubbio rimaneva tuttavia non placato in Lechmere: il dubbio
che lo indusse, prima di lasciar cadere il doloroso argomento, a un ultimo
sfogo: - Non gliene importa niente! Ma è incredibile!
- Senza dubbio, ma non dimenticate quello che avete detto oggi nel
pomeriggio, voglio dire che non consigliate a nessuno di fare insinuazioni
malevole.
- Potete star certo che prenderei il miserabile a pugni! - disse il giovane
Lechmere. Il signor Coyle si era alzato; la conversazione s'era svolta
mentre sedevano insieme dopo che il signor Coyle s'era allontanato dalla
tavola, e il capo dell'istituto, in omaggio a principi che facevano parte della
sua esuberanza, somministrò al suo candido scolaro un bicchiere di
squisito vino di Bordeaux. Lo scolaro in parola, anch'egli in piedi, indugiò
un istante, non in attesa di un altro «colpetto», come lo avrebbe chiamato,
alla bottiglia, ma per asciugarsi con cura insolita e prolungata i
microscopici baffi. Il suo compagno vide che il giovane aveva bisogno di
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
un ultimo sforzo per togliersi un peso dallo stomaco, e rimase un momento
in attesa con la mano sulla maniglia della porta.
Allora, come il giovane Lechmere gli si avvicinava, Spencer Coyle vide
nella sua faccia rotonda e ingenua una tensione insolita. Il ragazzo era
nervoso, ma cercava di comportarsi da uomo di mondo. - Naturalmente sia
detto fra noi, - balbettò, - e non ne farei parola a chi non avesse per il
povero Wingrave l'interesse che avete voi. Ma credete che si voglia
sottrarre?
Il signor Coyle lo guardò un momento così fisso che il giovane fu
visibilmente spaventato di quello che aveva detto. - Sottrarre? A che cosa?
- Voglio dire a quello di cui s'è parlato, al servizio -. Il giovane
Lechmere parve inghiottire qualcosa, poi, con una mancanza di agilità
mentale che Spencer Coyle trovò quasi patetica: - I pericoli, capite?
- Volete dire che pensi alla pelle?
Gli occhi del giovane Lechmere si aprirono come per invocare pietà, e,
nella sua faccia rossa, il maestro lesse il timore di una delusione; gli parve
di veder perfino brillare una lacrima tanto più crudele quanto più la
schiettezza dell'ammirazione era stata grande.
- Ha... ha forse paura? - ripetè l'onesto giovane con un tremito di vera
angoscia.
- Ma neanche per idea! - rispose Spencer Coyle, voltando le spalle.
A quelle parole il giovane Lechmere si senti un po' umiliato e anche un
po' vergognoso. Ma, soprattutto, si senti sollevato.
III.
Meno di una settimana dopo questi avvenimenti, il signor Coyle
ricevette un biglietto dalla signorina Wingrave, che aveva immediatamente
lasciato Londra col nipote. Proponeva che la domenica seguente egli
andasse a Paramore. Owen era veramente molto irritante. Lì, in quella casa
di esempi e di memorie, unitamente al suo povero buon babbo, che era
«enormemente seccato», valeva la pena di fare un ultimo sforzo. Il signor
Coyle lesse tra le righe della lettera che a Paramore si era fatta molta strada
da quando la signorina Wingrave, in Baker Street, aveva giudicato la sua
disperazione passeggera. Non era una donna insinuante, ma giungeva al
punto di mettere la questione sul piano di uno speciale favore da non
negare a una famiglia immersa nella desolazione, e accennava al piacere
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1970 - Racconti Di Fantasmi
che avrebbe fatto loro andando con la signora Coyle, per la quale
accludeva un invito separato. Diceva inoltre che scriveva in pari tempo,
subordinando la cosa alla sua approvazione, al giovane Lechmere. Pensava
che un ragazzo così simpaticamente virile non avrebbe potuto fare che del
bene al suo disgraziato nipote. Il famoso istitutore decise di cogliere
l'occasione: e si dava ora il caso che fosse assai più ansioso che irritato.
Mentre rispondeva alla lettera della signorina Wingrave, gli venne da
sorridere al pensiero che andava piuttosto a difendere il suo ex scolaro che
ad accusarlo. A sua moglie, che era una bella donna, fresca e posata molto più imponente d'aspetto che non lui - disse che avrebbe fatto bene a
prendere la signorina Wingrave in parola: era un esemplare di vecchia casa
inglese, straordinaria e affascinante. Quest'ultima allusione era
bonariamente sarcastica: infatti, più di una volta aveva accusato la buona
signora di essere innamorata di Owen Wingrave. La buona signora
riconosceva che era vero; si gloriava anzi della sua passione - il che
dimostra che l'argomento veniva trattato fra loro con larghezza d'idee - e
sostenne lo scherzo accettando l'invito con entusiasmo. Il giovane
Lechmere fu felice di fare altrettanto: il suo istitutore era stato
benevolmente del parere che la breve interruzione lo avrebbe ritemprato
per l'ultimo sforzo prima dell'esame.
Ciò che più colpi il nostro amico dopo essere stato due o tre ore nella
bella casa d'altri tempi, fu che gli abitanti di Paramore prendevano la loro
disavventura molto sul serio. Quella brevissima seconda visita, che
cominciò il sabato sera, doveva rimanere l'episodio più strano della sua
vita. Non appena si trovò solo con sua moglie - si erano ritirati per vestirsi
da sera prima del pranzo - ciascuno dei due fece osservare all'altro, senza
riserbo, e quasi con preoccupazione, la sinistra tetraggine diffusa per tutta
la casa. L'edificio visto dalla vecchia facciata grigia, con le due ali che si
protendevano in modo da formare tre lati d'un quadrato, era stupendo, ma
la signora Coyle non si fece scrupolo di dichiarare che se avesse saputo
prima il genere d'impressione che doveva riceverne, non vi avrebbe mai
messo piede. A suo parere, la casa aveva un aspetto cattivo strano, sinistro.
Suo marito le aveva parlato in anticipo di alcune caratteristiche che doveva
aspettarsi, ma mentre si vestiva con agitazione quasi febbrile, trovò
innumerevoli domande da fare. Non le aveva detto niente della ragazza,
della straordinaria ragazza, la signorina Julian; non le aveva detto, cioè,
come quella giovane, fosse di fatto, e come conseguenza del suo modo di
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1970 - Racconti Di Fantasmi
comportarsi, la persona più importante della casa. La signora Coyle era già
in grado di dichiarare che detestava i modi affettati della signorina Julian.
E, soprattutto, suo marito non le aveva detto che avrebbero trovato il loro
giovane amico invecchiato di cinque anni almeno.
- Non potevo immaginarlo, - disse Spencer; - né che l'acutezza della crisi
sarebbe stata così evidente. Ma l'altro giorno dissi alla signorina Wingrave
che bisognava agire su suo nipote con energia, e mi ha preso in parola. Gli
hanno tagliato i viveri, stanno tentando di ridurlo alla resa per fame.
Questo non è quello che intendevo, ma, in verità, non so bene che cosa
intendessi, oggi. Owen accusa la pressione, ma non cederà.
Lo strano era che il crucciato piccolo istitutore, trovandosi ora sul posto,
s'accorgeva ancor più, per quanto facesse del suo meglio per chiudere gli
occhi, che il suo umore era stato sopraffatto da un'ondata di reazione. Se
era lì, era perché parteggiava per Owen. Sul posto, la sua impressione, la
sua comprensione dell'insieme, s'era fatta molto più profonda. C'era
qualcosa nella stessa resistenza del giovane fanatico che cominciava ad
affascinarlo. Quando sua moglie, nell'intimità del colloquio cui ho
accennato, gettò via la maschera, ed elogiò persino esageratamente la
posizione presa dal giovane (era troppo buono per diventare un
soldataccio, e quel soffrire per le sue idee era un segno di nobiltà; non
aveva forse l'aspetto vigoroso d'un giovane eroe, anche se era pallido come
un martire cristiano?), la buona signora espresse puramente e
semplicemente la simpatia, che, con la scusa di considerare il loro recente
ospite come una rara eccezione, egli aveva già riconosciuta in sé.
Perché mezz'ora prima, dopo un tè preso ciarlando di cose senza peso
nella vecchia sala della casa, cupa e buia, quel ricercatore di motivi gli
aveva proposto, prima che andassero a cambiarsi per il pranzo un giro
all'aperto, e, sulla terrazza, mentre passeggiavano insieme, gli aveva
supplichevolmente passato una mano sotto il braccio, permettendosi cosìì
una familiarità insolita fra scolaro e maestro, intesa a far capire che aveva
indovinato da chi poteva aspettarsi la maggiore bontà e comprensione.
Spencer Coyle, da parte sua, aveva anche indovinato qualcosa, così che
non si sorprese che il ragazzo avesse una particolare confidenza da fare.
S'era reso conto, appena arrivato, che ciascun componente della
compagnia avrebbe fatto di tutto per impadronirsi di lui prima degli altri, e
sapeva che in quel momento Jane Wingrave stava spiando attraverso
l'antica opacità di una delle finestre - la casa era stata così poco
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rammodernata che le invetriate spesse ed oscure erano vecchie di tre secoli
- per vedere se il nipote avesse l'aria di voler avvelenare lo spirito
dell'istitutore. Il signor Coyle non perdette quindi tempo nel ricordare al
giovane - per quanto avesse cura di buttar la cosa in ridere - che non era
venuto a Paramore per farsi corrompere. Era venuto per tentare, a tu per tu,
un ultimo appello, che sperava non sarebbe stato interamente vano. Owen
sorrise tristemente senza fermarsi, e gli domandò se gli pareva che la sua
aria fosse, nell'insieme, quella di un uomo che stesse per cedere.
- Vi trovo un'aria strana, malata, - disse Spencer Coyle molto
onestamente. S'erano fermati davanti alla balaustra.
- Ho dovuto esercitare una gran forza di resistenza, ed è una cosa
estenuante.
- Ah, mio caro ragazzo, vorrei che la vostra grande forza, perché è
evidente che l'avete, si esercitasse per una causa migliore!
Owen Wingrave guardò con un sorriso il suo piccolo ma marziale
istitutore. - Non credo! - Poi, in via di spiegazione, aggiunse: - Quello che
volete da me (se siete così buono da avere una buona opinione del mio
carattere), non è forse di vedermi esercitare il massimo sforzo in qualsiasi
direzione? Bene, questa è la direzione nella quale compio lo sforzo
maggiore -. Ammise di aver passato ore terribili con suo nonno, che lo
aveva aggredito in un modo da fargli rizzare i capelli in testa. S'era
aspettato che la cosa non sarebbe andata loro a genio, senza dubbio, ma
non s'era nemmeno sognato che avrebbero fatto tanto chiasso. Sua zia era
diversa, ma era egualmente oltraggiosa. Gli avevano fatto sentire, sì, che si
vergognavano di lui; lo accusavano di infangare pubblicamente il loro
nome. Era solo che si fosse tirato indietro: il primo, in trecento anni. Tutti
avevano saputo che s'era avviato per la carriera militare, e ora tutti lo
avrebbero considerato un giovane ipocrita che all'improvviso si metteva a
fare la commedia degli scrupoli. Parlavano dei suoi scrupoli come voi non
parlereste di un dio dei cannibali. Suo nonno 1o aveva coperto di vituperi. Mi ha chiamato... mi ha chiamato... - Qui Owen esitò e la voce gli venne
meno. Aveva l'aspetto più squallido che un giovane in così perfetta buona
salute potesse mostrare
- Probabilmente lo so! - disse Spencer Coyle, con una risata nervosa.
Gli occhi velati del suo compagno, come seguissero l'ultima strana
conseguenza delle cose, si posarono un attimo su un oggetto lontano. Poi
incontrarono i suoi e per un altro attimo lo scrutarono profondamente.
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1970 - Racconti Di Fantasmi
- Non è vero. No. Non è quello!
- Credo bene! Ma che cosa proponete invece?
- Invece di che?
- Invece della stupida soluzione della guerra. Se volete abolirla,
suggerite almeno un sostituto.
- Questo spetta ai responsabili, ai governi e ai ministeri, - disse Owen. Lo troveranno senza perder tempo, il sostituto, specialmente se si fa loro
capire che verranno impiccati, e anche squartati e fatti a pezzi, se non si
sbrigano. Fatene un motivo di pena capitale: servirà a stimolare il cervello
dei ministri! - Gli occhi gli si accendevano mentre parlava, tutta la sua
persona spirava sicurezza ed esaltazione. Il signor Coyle sospirò,
tristemente rassegnato alla resa: era veramente un'ossessione irriducibile.
Un momento dopo senti che Owen era sul punto di domandargli se anche
lui lo giudicasse un vigliacco, ma ebbe il sollievo di persuadersi che il
ragazzo non lo credeva capace di giungere fino a quel punto, o si ritraeva
impacciato dal rischio della domanda diretta. Spencer Coyle voleva
dimostrare la sua fiducia; ma, in certo qual modo, un'assicurazione
esplicita che egli non dubitava del suo coraggio era un complimento
troppo grossolano, sarebbe stato come dire che non dubitava della sua
onestà. La difficile situazione fu risolta pochi momenti dopo da Owen che
riprese a parlare: - Mio nonno non può diseredarmi della casa, ma non avrò
altro; e la casa, come sapete, è piccola, e, con quello che si van facendo le
rendite, non frutta quasi più nulla. Mio nonno ha un po' di denaro, non
molto; ma, molto o poco, non mi lascerà un centesimo. Mia zia farà lo
stesso, mi ha già comunicato le sue intenzioni. Doveva lasciarmi un
reddito di seicento sterline all'anno. Era già tutto sistemato, ma ora, di
certo c'è una cosa soltanto: che se rinuncio alla carriera militare non avrò
un soldo. Per onestà, devo aggiungere che ho trecento sterline all'anno da
mia madre. E vi dico la pura verità quando affermo che non m'importa un
accidente di perdere il denaro -. Il giovane emise il sospiro lungo e lento
delle creature in pena; poi aggiunse: - Non è questo che mi tormenta!
_ E che cosa avete intenzione di fare invece? - domandò il suo amico
senz'altri commenti.
- Non lo so... forse niente. Niente di grande, in tutti i casi. Solo qualcosa
di pacifico!
Owen ebbe uno stanco sorriso, quasi che, per turbato che fosse, sapesse
ancora apprezzare l'effetto umoristico di una dichiarazione simile nella
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bocca di un Wingrave. Ma il suo ospite, il quale lo guardava con la
persuasione che, dopo tutto, non era un Wingrave soltanto di nome e che
sapeva sostenere il fuoco degli avversari con fermezza di soldato, pensava
all'esasperazione che una dichiarazione simile, fatta a quel modo, e... tale
da suonare alle loro orecchie come l'ultima delle vergogne, doveva aver
prodotto in suo nonno e in sua zia. «Forse niente!» quando avrebbe potuto
continuare la grande tradizione! Sì, il ragazzo non era debole, ed era
interessante, ma si poteva ben capire che da un certo punto di vista riusciva
irritante. - Si può sapere, insomma, che cosa vi turba? - domandò il signor
Coyle.
- Oh! la casa, l'aria stessa, l'atmosfera di questa casa. Ci sono strane voci
che sembrano borbottare contro di me... dire cose terribili mentre passo.
Mi perseguita la consapevolezza, insomma, la responsabilità di quello che
faccio. Naturalmente non è stata una cosa facile, no certo! Vi assicuro che
non mi ci diverto -. Con una luce entro di essi, che sembrava chiedere
ansiosamente giustizia, Owen abbassò nuovamente gli occhi verso quelli
del piccolo istitutore; poi continuò: - Ho ridestato gli spettri. I ritratti stessi
mi guardano con occhi di fuoco dalle pareti. Ce n'è uno del mio trisavolo
(quello di cui conoscete la straordinaria vicenda, il quadro appeso al
secondo pianerottolo dello scalone) che addirittura si agita sulla tela, si
sporge un po' in avanti, quando m'avvicino. Devo pur salire e scendere le
scale; è molto sgradevole! Mia zia li chiama la cerchia familiare: siedono
lì, aggrottati e feroci, costituiti in corte di giustizia. Sono tutti qui dentro, è
una sorta di presenza paurosa che non lascia via di scampo, e si prolunga a
perdita d'occhio nel passato. Quando tornai qui con lei l'altro giorno, la
signorina Wingrave mi disse che non potevo avere l'impudenza di fare
certi discorsi qui dentro. Ho dovuto farli a mio nonno, invece; ma ora che
li ho fatti mi sembra che la questione sia conclusa. Voglio andarmene,
anche se sarà per non tornare mai più.
-Ma siete un soldato, - rise il signor Coyle, - dovete lottare fino in fondo!
Quella leggerezza parve scoraggiare il giovane; ma un momento dopo,
mentre si voltavano e riprendevano a camminare nella direzione dalla
quale erano venuti, sorrise debolmente egli stesso, e rispose: - Già, siamo
contagiati tutti quanti!
Fecero parte della strada verso il vecchio portico in silenzio, finché il
signor Coyle, dopo essersi assicurato di trovarsi abbastanza lontano dalla
casa per non essere sentito, si fermò di scatto e fece a bruciapelo la
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domanda: - Che cosa ne dice la signorina Julian?
- La signorina Julian? - Owen era visibilmente arrossito.
- Sono certo che non avrà nascosto la sua opinione.
- Oh, è quella della cerchia familiare; perché lei, naturalmente, ne fa
parte. E poi ha la sua personale.
- Opinione?
- Cerchia personale.
- Intendete dire sua madre, quella buona signora?
- Intendo dire, particolarmente, suo padre, che cadde sul campo. La
faccia del signor Coyle, ora stranamente contratta, ascoltava
intenta. - Non le sembra sufficiente il sacrificio di tante vite? Perché
vuol sacrificare anche voi?
- Oh lei mi odia! - dichiarò Owen mentre riprendevano a camminare.
- Bah! L'odio delle belle ragazze per i bei giovani! - esclamò Spencer
Coyle.
Non ci credeva, ma ci credette perfettamente, a quel che parve, sua
moglie, quando egli le accennò al colloquio mentre gli ospiti si
preparavano per il pranzo nel modo che s'è detto. La signora Coyle s'era
già accorta che nulla avrebbe potuto essere più perfido del contegno tenuto
dalla signorina Julian verso il giovane in disgrazia durante la mezz'ora che
la compagnia aveva passata in salone; e sosteneva che bisognava esser
ciechi per non vedere che stava già manifestamente cercando di civettare
col giovane Lechmere. Portare quello sciocco era stato un errore: se ne
stava giù in sala con la ragazza anche in quel momento. La versione di
Spencer Coyle era diversa: era convinto invece che ci fossero motivi più
sottili. La posizione della ragazza nella casa era inspiegabile se non ci si
basava sul presupposto che era destinata al nipote della signorina
Wingrave. Come zia del suo infelice promesso, Jane Wingrave doveva
averle assegnato di buon'ora il compito di sanare, unendosi alla speranza
della stirpe, la tragica rottura che aveva separato i loro maggiori; e se a
questo si poteva obiettare che una ragazza di spirito non poteva trovare di
suo gusto che in cose del genere le si prescrivesse la strada, l'illuminato
amico di Owen era pronto a ribattere che una giovane nella posizione della
signorina Julian non sarebbe mai stata tanto sciocca da lasciarsi sfuggire
per un puntiglio un'occasione d'oro. A Paramore era di famiglia e non
correva nessun rischio; poteva perciò concedersi il piacere di dare a
credere che agiva in assoluta libertà. Era un seguito di gherminelle e
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atteggiamenti innocenti. Aveva un fascino curioso, ed era sciocco supporre
che l'erede della famiglia potesse sembrare un partito poco desiderabile a
una ragazza, per quanto sveglia, di diciotto anni. La signora Coyle ricordò
a suo marito che il loro ex allievo, in quel momento preciso, non
apparteneva alla famiglia: quel lato della questione fu tra i punti
controversi più dibattuti fra i due coniugi, dopo che maestro e scolaro
ebbero fatto il loro giretto sulla terrazza.
Spencer disse a sua moglie che Owen aveva paura del ritratto del suo
trisavolo. Glielo avrebbe mostrato, dal momento che non lo aveva visto,
mentre scendevano le scale.
- Perché del trisavolo più che di qualsiasi altro?
- Perché è il più terribile. E quello che qualche volta si vede.
- Dove? - La signora Coyle s'era voltata di scatto.
- Nella camera in cui lo trovarono morto. L'hanno sempre chiamata la
camera bianca.
- Vuoi dire che la casa ha notoriamente uno spettro? - quasi strillò la
signora Coyle. - E mi ci hai portata senza dirmi niente?
- Non te ne parlai dopo l'altra mia visita?
- Nemmeno alla lontana. Non parlasti che della signorina Wingrave.
- Ma se avevo la testa piena di quella storia... Te ne sarai dimenticata,
ecco tutto.
- Allora avresti dovuto rinfrescarmi la memoria.
- Anche se ci avessi pensato, sarei stato zitto, altrimenti non saresti
venuta.
- Così avessi fatto! - esclamò la signora Coyle. - Ma si può sapere, domandò immediatamente, - tutta la storia?
- Non altro che un atto di violenza compiuto qui tanto tempo fa, durante
il regno di Giorgio Secondo, mi sembra. Il colonnello Wingrave, uno dei
loro antenati, preso da un accesso di collera dette a uno dei suoi figli, un
ragazzo ancora sul crescere, un colpo alla testa del quale il povero figliolo
morì. La cosa, per il momento, ru messa a tacere e se ne dette una
spiegazione diversa. Il povero ragazzo fu posto in una delle stanze che si
trovano nell'altra ala del palazzo, e i funerali si svolsero tra mormorazioni
soffocate. La mattina seguente, quando la famiglia si riunì, il colonnello
Wingrave non c'era; lo si cercò inutilmente, finché qualcuno pensò che
forse si trovava nella stanza dalla quale suo figlio era stato portato al
cimitero. La persona bussò senza ricevere risposta; poi aprì la porta. Il
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poveretto giaceva morto sul pavimento, vestito, come avesse perduto
l'equilibrio e fosse caduto riverso, senza una ferita, senza un segno senza
nessuna traccia in viso che avesse lottato o sofferto. Era un uomo forte e
sano... Niente poteva spiegare una morte improvvisa. Si suppone che
andasse nella stanza durante la notte, prima di coricarsi, preso da un
accesso di rimorso o affascinato da una qualche allucinazione paurosa. La
verità sulla morte del ragazzo fu saputa soltanto dopo questo fatto. Ma
nella stanza non dorme mai nessuno. La signora Coyle era diventata
piuttosto pallida.
- Spero bene! Sia ringraziato il cielo che non abbiano messo noi lì
dentro!
- Siamo a una distanza rassicurante; conosco il luogo dell'accaduto.
- Intendi dire che sei stato dentro...?
- Qualche istante. Sono, in certo qual modo, orgoglioso della cosa, e
quando fui qui la prima volta il mio giovane amico mi fece vedere la
stanza.
La signora Coyle sbarrò gli occhi. - E che aspetto ha?
- È una semplice camera da letto antica, vuota e triste, piuttosto grande e
ammobiliata alla moda del tempo. E rivestita di legno dal pavimento al
soffitto, e la rivestitura, anni e anni fa, era evidentemente verniciata di
bianco. Ma la vernice s'è fatta scura col tempo e ci sono tre o quattro
curiosi lavoretti di ricamo messi sotto vetro, in cornice, e attaccati al muro.
La signora Coyle si guardò attorno con un brivido.
- Sono contenta che non ci siano ricami qui. Non ho mai sentito niente di
così impressionante! Andiamo a pranzo.
Sulla scala, mentre scendevano, Spencer Coyle mostrò a sua moglie il
ritratto del colonnello Wingrave, che rappresentava, con una certa forza e
un certo stile, per il luogo e per il periodo, un gentiluomo dalla bella faccia
severa, in giacca rossa e parrucca. La signora Coyle dichiarò che il suo
discendente, il vecchio Sir Philip, gli somigliava in un modo prodigioso; e
suo marito pensò, sebbene tenesse la cosa per sé, che chi avesse avuto il
coraggio di percorrere i vecchi corridoi di Paramore di notte, avrebbe forse
incontrato, o visto vagare con l'irrequietezza d'un fantasma, una figura
simile, che avrebbe tenuto per mano quella d'un giovane d'alta statura.
Mentre si dirigeva con sua moglie verso il salotto si sorprese
improvvisamente a rammaricarsi di non aver insistito di più circa la gita di
Owen a Eastbourne. La serata dette, tuttavia, l'impressione di voler fugare
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1970 - Racconti Di Fantasmi
ogni fantasioso presentimento del genere, perché la tetraggine della cerchia
familiare, come egli l'aveva prevista, fu diradata da un'infusione di
«vicinato». A pranzo la compagnia si accrebbe di due coppie piuttosto
vivaci (una di esse era composta dal pastore e da sua moglie) e di un
giovane silenzioso che era venuto in campagna a pescare. Questo fu un
sollievo per il signor Coyle, il quale aveva cominciato a domandarsi che
cosa ci si aspettasse, alla fin fine, da lui, e perché fosse stato tanto sciocco
da venire. Ora sentiva che, almeno per le prime ore, non avrebbe dovuto
affrontare direttamente la situazione. Invero trovò, come aveva trovato fin
da prima, di che occupare la sua perspicacia nel rilevare i diversi sintomi
dei quali la società raccolta sotto i suoi occhi era l'espressione. Domani li
aspettava, probabilmente, una giornata campale; prevedeva le difficoltà
della domenica lunga e dignitosa, e il sapore che le idee dell'arida Jane
Wingrave, esposte in un colloquio ai ferri corti, avrebbero avuto. La
signorina Wingrave e suo padre gli avrebbero fatto capire che
pretendevano da lui l'impossibile, e se avessero cercato di farsene un
alleato in una politica troppo priva di tatto, avrebbe potuto finire col dir
loro che cosa ne pensava, incidente non necessario a fare della sua visita
un malinconico errore. Il vero piano del vecchio era evidentemente di far
sì che i suoi amici la interpretassero come un segno certo che tutto andava
nel migliore dei modi. La presenza del grande maestro londinese
equivaleva a una professione di fede nell'esito degli esami imminenti.
Senza dubbio si era ottenuta da Owen, per quanto con una certa sorpresa
dell'ospite più importante, la promessa che non avrebbe turbato in nessun
modo l'apparente armonia. Lasciò passare senza commenti le allusioni al
suo arduo lavoro e, senza dir parola dei fatti suoi, parlò con le signore
altrettanto affabilmente che se non fosse stato messo «al bando». Quando
il signor Coyle alzò un paio di volte gli occhi verso l'altra parte della
tavola, e incontrò quelli del giovane, dai quali traspariva un ardore
indefinibile, ricevette dalla sua faccia ridente un'impressione dolorosa,
difficile da spiegare: non si poteva non provare una stretta al cuore di
fronte all'agnello così palesemente segnato per il sacrificio. - Diavolo di
ragazzo, peccato che sia un combattente di quella fatta! - sospirò fra sé... e
con una mancanza di logica che era soltanto superficiale.
Quell'idea lo avrebbe tuttavia assorbito molto di più se tanta parte della
sua attenzione non fosse stata rivolta su Kate Julian, la quale, ora che
l'aveva ben davanti agli occhi, gli fece l'impressione d'una ragazza
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notevole, se non addirittura interessante. L'interesse non era dovuto a una
bellezza fuor del comune. Se i lunghi occhi orientali, i magnifici capelli e
la spavalda originalità dell'insieme, la rendevano attraente, egli aveva pur
visto visi più rosei e fattezze che gli piacevano di più; l'interesse era
dovuto alla strana impressione che produceva di essere esattamente quale,
nella sua situazione, i principi più elementari - quelli della prudenza e
forse un po' anche quelli del decoro - avrebbero dovuto imporle di non
essere. Era quel che si suole volgarmente chiamare una dipendente, senza
mezzi, protetta, tollerata: ma qualcosa in tutto il suo contegno manifestava
chiaramente che se la sua posizione era inferiore, il suo spirito, in
compenso, era al di sopra di ogni precauzione o sottomissione. Non che
fosse minimamente aggressiva; era troppo indifferente per esserlo;
soltanto, non avendo niente da perdere e niente da guadagnare, aveva l'aria
di pensare che poteva prendersi il lusso di comportarsi come meglio le
piaceva. Spencer Coyle pensò che, in realtà, ci poteva essere in gioco assai
più che la fantasia della ragazza non sembrasse supporre; ma, quale che
fosse l'entità della posta, non aveva mai visto una ragazza che si
preoccupasse meno di non correre rischi. Si trovò inevitabilmente a
chiedersi quali rapporti corressero fra Jane Wingrave e un'ospite di quel
genere; interrogativi che erano naturalmente abissi insondabili. Forse Kate
la faceva da padrona anche con la sua protettrice. La prima volta che era
stato a Paramore aveva avuto l'impressione che, con Sir Philip al suo
fianco, la ragazza avrebbe saputo combattere anche con le spalle al muro.
Sir Philip ci si divertiva: la trovava incantevole, e la gente che non aveva
paura gli piaceva; inoltre, non c'era dubbio alcuno su chi, tra lui e sua
figlia, comandasse di più. C'erano molte cose che la signorina Wingrave
considerava ovvie, e soprattutto il rigore della disciplina e il fato dei vinti e
dei prigionieri.
Ma quale strano rapporto s'era formato fra il loro intelligente ragazzo e
una così originale compagna d'infanzia? Indifferenza non poteva essere, e,
da parte di creature belle e giovani e liete, era anche meno probabile che
fosse avversione. Non erano Paolo e Virginia, ma dovevano aver avuto la
loro estate in comune e il loro idillio. Una bella ragazza non poteva aver
detestato un così bel giovane se non per non esserne stata ammirata, e
nessun bel giovane poteva aver resistito a una vicinanza simile. In verità il
signor Coyle ricordò che la signora Julian gli aveva parlato in modo da far
capire che la vicinanza non era stata per nulla costante, a causa delle
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1970 - Racconti Di Fantasmi
assenze di sua figlia, per non parlare di quelle di Owen, dalla scuola; delle
sue visite ad alcuni amici che erano tanto buoni da «prenderla» di tanto in
tanto; dei suoi soggiorni a Londra - così difficili da sostenere, ma, con
l'aiuto di Dio, ci si riusciva sempre - per «coltivarsi», in disegno e canto, o
piuttosto nella pittura a olio, nella quale s'era fatta molto onore. Ma la
buona signora aveva anche detto che i due giovani crescevano come
fratello e sorella, e questo, dopo tutto, riportava a Paolo e Virginia. La
signora Coyle aveva visto giusto, ed era evidente che Virginia stava
facendo del suo meglio per passare il tempo piacevolmente col giovane
Lechmere. La conversazione non era così vivace da costringere il nostro
critico a uno sforzo per riflettere intorno a queste cose: il tono della serata,
grazie principalmente agli altri invitati, non mostrava di voler uscire dal
seminato. Si ripetevano aneddoti, si discuteva degli affitti, e gli argomenti
si accalcavano insieme come animali spauriti. Sentiva quanto intensamente
i suoi ospiti desiderassero che la sera passasse come se nulla fosse
accaduto, e questo gli dava la misura del loro intimo risentimento. Prima
della fine del pranzo, si senti inquieto sul conto del suo secondo scolaro.
Da quando aveva cominciato a prepararsi per l'esame il giovane Lechmere
aveva fatto tutto quel che ci si poteva aspettare da lui; ma questo non
poteva render cieco il suo maestro di fronte al fatto evidente che nei
momenti di distensione era candido come un lattante. Il signor Coyle
aveva previsto che gli svaghi di Paramore gli sarebbero probabilmente stati
d'incitamento, e il contegno del povero ragazzo dimostrava l'esattezza
della previsione. L'incitamento gli era stato indubbiamente somministrato,
ed era venuto a lui sotto forma di rivelazione. La luce negli occhi del
giovane Lechmere annunciava - con un candore che quasi implorava
compassione, o per lo meno di essere risparmiato dal ridicolo - che egli
non aveva mai visto niente di simile alla signorina Julian.
IV.
Dopo il pranzo, in salotto, la ragazza trovò modo di avvicinare l'ex
maestro di Owen. Si fermò un momento davanti a lui, sorridendo mentre
apriva e chiudeva il ventaglio, poi disse bruscamente, alzando i suoi strani
occhi: - So che cosa siete venuto a fare, ma è inutile.
- Sono venuto a occuparmi un poco di voi. Vi sembra inutile?
- Molto gentile. Ma non si tratta di me in questo momento. Non
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riuscirete a niente con Owen.
Spencer Coyle esitò un momento. - Che cosa avete intenzione di fare del
suo giovane amico?
La ragazza sgranò gli occhi, si guardò intorno: - Del signor Lechmere?
Povero figliolo! Abbiamo parlato di Owen. Lo ammira tanto!
- Anch'io. E bene che lo sappiate.
- Noi tutti lo ammiriamo. Per questo siamo così disperati.
- Personalmente, dunque, vi piacerebbe che facesse il soldato?
-domandò il signor Coyle.
- Mi sta moltissimo a cuore. Adoro la carriera delle armi e voglio un
gran bene al mio vecchio compagno di giochi, - disse la signorina Julian.
Spencer ricordò la diversa versione del giovane circa l'atteggiamento di
lei, ma giudicò leale non contraddirla. - Non è concepibile che il vostro
vecchio compagno di giochi non vi voglia altrettanto bene. Deve quindi
desiderare di accontentarvi; e non vedo perché, fra di voi, da quei ragazzi
intelligenti che siete, non dobbiate sistemare la cosa.
- Accontentare me! - fece eco la signorina Julian. - Sono dolente di dire
che non dimostra nessun desiderio del genere. Mi giudica un'impudente
sfacciata. Gli ho detto quello che penso di lui e mi detesta, semplicemente.
- Ma ne avete una stima così elevata. Mi avete detto or ora che lo
ammirate.
- Il suo ingegno, le sue capacità, sì; anche il suo aspetto personale, se è
lecito che io vi alluda. Ma non ammiro il suo contegno degli ultimi giorni.
- Ne avete discusso con lui? - domandò Spencer.
- Oh sì, ho avuto l'ordine di parlargli con franchezza, mi sembrava che la
situazione giustificasse la cosa. Non può aver trovato gradevole quello che
gli ho detto.
- Che cosa gli avete detto?
La ragazza rimase un momento pensosa, aprì e richiuse nuovamente il
ventaglio. - Insomma... dal momento che siamo cos buoni e vecchi amici,
gli ho detto che il suo modo di comportarsi non era certo quello di un
gentiluomo!
Quando ebbe parlato i suoi occhi si incontrarono con quelli del signor
Coyle che scrutarono le loro profondità ambigue. - Che cosa avreste detto,
mi domando, se non ci fosse stato nessun precedente?
- Strano che voi mi chiediate questo... e in tal modo! - rispose la ragazza
ridendo. - Non capisco il vostro punto di vista: credevo che aveste il
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compito di fabbricare dei soldati!
- Non dovreste adontarvi del mio piccolo scherzo. Ma, quanto a Owen
Wingrave, non c'è proprio bisogno di fabbricare niente, -dichiarò Spencer
Coyle. - A parer mio, - e il piccolo istitutore s'interruppe, conscio del
paradosso di cui si assumeva la responsabilità – a parer mio Owen è, nel
più alto senso del termine, un guerriero.
- Allora lo dimostri! - esclamò la ragazza con impazienza e voltandogli
bruscamente le spalle.
Spencer Coyle la lasciò andare: c'era qualcosa nel suo tono che lo
irritava e anche, non poco, lo disgustava. Evidentemente uno scontro era
avvenuto fra i due giovani, e la considerazione che la cosa dopo tutto non
lo riguardava, lo turbava ancora di più. La famiglia era senza dubbio una
famiglia di soldati, e la signorina Julian, comunque, una fanciulla il cui
ideale maschile - le ragazze hanno sempre i loro ideali maschili - era il
guerriero armato di tutto punto. Un gusto come un altro; ma perfino un
quarto d'ora dopo, trovandosi a fianco del giovane Lechmere, che
rappresentava il tipo, Spencer Coyle era ancora tanto agitato che rivolse la
parola all'innocente ragazzo con una certa secchezza professionale. - Non
c'è nessun bisogno che rimaniate in piedi fino a tarda ora, sapete. Non vi
ho portato qui per questo -. Gli invitati stavano prendendo congedo, e le
candele per la notte già scintillavano una accanto all'altra, ammonitrici. Il
giovane Lechmere era comunque troppo gradevolmente eccitato per
risentirsi di un appunto: la lieta preoccupazione da cui era invaso quasi lo
mosse a una smorfia di riso:
- Sono quanto mai impaziente di ritirarmi. Sapete che c'è una camera
attraentissima?
Spencer dibatté fra sé un momento se dar peso all'allusione; poi,
innervosito com'era, parlò: - Non vi avranno messo lì, spero!
- No davvero: nessuno dorme lì dentro da tempo immemorabile. Ma
proprio questo vorrei fare... sarebbe una cosa bellissima.
- E avete cercato di ottenere il permesso dalla signorina Julian?
- Bah, dice che non può darlo. Ma ci crede, e sostiene che nessuno ha
mai osato.
- Nessuno dovrà mai osare! - disse Spencer deciso. - Un uomo,
soprattutto nella vostra posizione particolare, deve passare la notte
tranquillamente.
Il giovane Lechmere ebbe un sospiro di disappunto, ma parve
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rassegnato. - Sia pure. Ma non posso rimanere un po' alzato e prendere
Wingrave per il bavero? Non l'ho ancora fatto.
Il signor Coyle guardò il suo orologio. - Vi permetto di fumare una
sigaretta.
Si senti una mano sulla spalla e, voltandosi, vide sua moglie che gli
faceva gocciolare la cera della candela sulla giacca. Le signore stavano
andando a letto, ed era l'ora inveterata di Sir Philip; ma la signora Coyle
confidò a suo marito come, dopo le cose paurose che egli le aveva narrate,
si rifiutasse categoricamente di essere lasciata sola, anche per un momento,
in qualunque parte della casa. Egli promise di seguirla in capo a un paio di
minuti e dopo le strette di mano di prammatica le signore si allontanarono
tra un gran fruscio di sete. A Paramore si mantenevano impavidamente le
forme, come se il cuore della vecchia casa non fosse, al momento, stretto
d'angoscia. La sola della quale Coyle notò la mancanza fu che Kate Julian
non gli fece alcun cenno di saluto. Non gli rivolse né una parola, né uno
sguardo, ma l'istitutore la vide guardar fisso Owen. Sua madre, timida e
compassionevole, fu apparentemente la sola persona dalla quale il giovane
ebbe un cenno del capo. La signorina Wingrave fece strada alle tre signore
- in testa alla sua piccola processione di candele accese - su per lo scalone
dalla balaustra di quercia e davanti al ritratto del suo infelice antenato. Un
domestico particolare porse il braccio al vecchio Sir Philip, il quale voltò
rigidamente la schiena al povero Owen quando il ragazzo fece un vago
accenno di offrire il suo. In seguito, il signor Coyle apprese che prima di
cadere in disgrazia, quando era a casa, Owen aveva sempre avuto il
privilegio di accompagnare solennemente suo nonno in camera sua all'ora
di andare a letto. Le consuetudini di Sir Philip erano sprezzantemente
diverse, ora. Gli appartamenti del vecchio erano al piano di sotto, ed egli vi
si diresse, trascinando i piedi per terra, ma rigido, con l'aiuto del servo,
dopo aver fissato un momento, significativamente, sul più illuminato dei
suoi ospiti, l'intenso raggio rosso, simile al chiarore della brace rimossa,
che creava sempre uno strano contrasto fra i suoi occhi e i suoi modi
bonari. Quegli occhi sembravano dire al povero Spencer: - Domani faremo
veder noi che cosa c'è di nuovo a quel disgraziato! - Se ne sarebbe potuta
ricevere l'impressione che il disgraziato, che ora s'era avviato verso la parte
opposta della scala, avesse per lo meno falsificato una cambiale. Il suo
amico lo segui con gli occhi un momento, lo vide lasciarsi andare
nervosamente su una sedia, poi con un moto d'impazienza, alzarsi di
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1970 - Racconti Di Fantasmi
nuovo. Lo stesso impulso lo riportò verso il signor Coyle che stava
rivolgendo un'ultima ingiunzione al giovane Lechmere.
- Io vado a letto e desidererei che vi atteneste a quello che vi ho detto
poco fa. Fumate una sola sigaretta, qui, col nostro ospite, e poi andate nella
vostra camera. Se sento che durante la notte tenterete qualche sciocchezza,
avrete a che fare con me -. Il giovane Lechmere, guardando il pavimento
con le mani in tasca, non disse parola; continuò soltanto a tormentare con
la punta del piede l'angolo d'un tappeto, tanto che il signor Coyle,
scontento di una così tacita promessa, continuò rivolto a Owen: - Devo
pregarvi, Wingrave, di non tenere alzato un giovane così eccitabile; vi
prego, anzi, di metterlo a letto e di chiuderlo a chiave dal di fuori -. E
poiché Owen sbarrò un momento gli occhi, incapace di capire il motivo di
tanta sollecitudine, aggiunse: - Lechmere ha una curiosità morbosa circa
una delle vostre leggende... delle vostre stanze storiche. Soffocatela mentre
è ancora sul nascere.
- Oh sì, la leggenda è piuttosto bella, ma ho paura che la camera sia un
falso bello e buono! - rise Owen.
- Sai perfettamente che non credi a quello che dici, ragazzo mio! ribatté il giovane Lechmere.
- Sono del medesimo parere -. Il signor Coyle notò che il viso di Owen
si era macchiato di rossore.
- Non s'arrischierebbe a passare una notte lì dentro! - continuò il loro
compagno.
- So chi vi ha detto questo, - disse Owen accendendo con palese
imbarazzo una sigaretta alla candela, senza offrirne a nessuno dei suoi due
amici.
- Ebbene, e se anche l'ha fatto? - domandò il più giovane dei tre,
piuttosto rosso in viso. - Le vuoi tutte tu? - continuò in modo faceto,
frugando nel portasigarette.
Owen Wingrave continuò a fumare tranquillamente; poi, con uno sforzo:
- Già... anche se l'ha fatto? Ma lei non sa, - aggiunse.
- Che cosa non sa?
- Niente sa! Gli rincalzerò le coperte! - continuò Owen rivolgendosi al
signor Coyle, il quale si avvide come la sua presenza, ora che un certo
tasto era stato toccato, mettesse i due giovani a disagio. Era curioso, ma
c'erano discrezioni e delicatezze, nei confronti dei suoi scolari, che s'era
sempre vantato di osservare: scrupoli, i quali, tuttavia, non gli impedirono,
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1970 - Racconti Di Fantasmi
mentre s'avviava verso le scale, di raccomandare ai due ragazzi di non
rendersi ridicoli.
In cima alle scale fu sorpreso di incontrare la signorina Julian che stava
evidentemente tornando giù. Non aveva nemmeno cominciato a svestirsi,
né si mostrò esteriormente contrariata di vederlo. Tuttavia, in un modo un
po' in contrasto col suo contegno sostenuto di dieci minuti prima, quando
aveva addirittura ignorato la sua esistenza, lasciò cadere le parole: Scendo a cercare qualcosa. Ho perduto un gioiello.
- Un gioiello?
- Una turchese piuttosto di valore, mi s'è sfilata dal medaglione. Siccome
è il solo vero ornamento che io abbia l'onore di possedere...! - E cominciò
a scendere.
- Volete che venga ad aiutarvi? - domandò Spencer Coyle.
Si fermò qualche gradino sotto di lui, alzandogli in viso gli occhi
orientali. - Mi sbaglio, o sento le voci dei nostri amici in sala?
- Quei distinti giovani sono appunto lì.
- Mi aiuteranno loro -. E Kate Julian continuò a scendere. Spencer Coyle
ebbe la tentazione di seguirla, ma, ricordando i suoi principi, raggiunse sua
moglie nella loro stanza. Tuttavia non si decise ad andare a letto e, sebbene
entrasse nello spogliatoio, non si decise nemmeno a togliersi la giacca. Per
mezz'ora finse di leggere un romanzo: dopo di che, tacito, ma dovrei
piuttosto dire agitato, passò nel corridoio. Lo percorse fino alla porta della
stanza che sapeva essere stata assegnata al giovane Lechmere e fu
soddisfatto di trovarla chiusa. Mezz'ora prima aveva notato che era aperta;
poteva dunque dedurne senz'altro che, per quanto perplesso, il giovane era
andato a letto. Non s'era voluto accertare che di questo, e, tranquillo, stava
per ritirarsi, quando, in quello stesso momento, senti un rumore nella
stanza. Lechmere stava facendo, alla finestra, qualcosa che gli consentiva
di bussare senza doversi rimproverare di averlo svegliato. Infatti il giovane
si presentò sulla porta in pantaloni e camicia. Fece entrare, un po' sorpreso,
il suo visitatore, e quando la porta fu richiusa, quest'ultimo disse: - Non
voglio che la vita vi diventi un peso, ma sentivo il dovere di vedere coi
miei occhi che non vi esponiate a emozioni eccessive.
- Oh, ce n'è da vendere! - disse l'ingenuo giovane. - La signorina Julian è
ridiscesa.
- Per cercare una turchese?
- così disse.
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1970 - Racconti Di Fantasmi
- L'ha trovata?
- Non so. Sono venuto di sopra, l'ho lasciata col povero Owen.
- Avete fatto benissimo, - disse Spencer Coyle.
- Non so, - ripetè il giovane Lechmere mostrandosi preoccupato. - Li ho
lasciati che litigavano.
- Per quale ragione?
- Non capisco. Sono una strana coppia!
Spencer rimuginò la cosa fra sé e sé. Di regola aveva i suoi principi e
riserbi molto rigorosi, ma ora aveva soprattutto una grande curiosità, o
meglio, per chiamarla col suo vero nome, simpatia, che glieli faceva
mettere da parte. - Avete l'impressione che sia furiosa contro di lui? - si
permise di domandare.
- Direi! Lo accusa addirittura di mentire!
- Cosa intendete?
- In presenza mia, vi dico. Per questo li ho lasciati: la situazione si
andava facendo troppo tesa. Ebbi la stupidità di tirar fuori di nuovo la
storia della camera stregata e quanto mi dolesse la promessa che vi avevo
fatta di non tentare la prova.
- Non potete mica cacciare il naso in quel modo nelle case degli altri!
Sono libertà che non ci si possono prendere, capite? - esclamò il signor
Coyle.
- Non me lo sogno nemmeno, vedete come sono obbediente? Non ho la
benché minima voglia di avvicinarmi a quella porta! -disse il giovane
Lechmere con tutta sincerità. - La signorina Julian m'ha detto: «Oh credo
bene che voi affrontereste la prova, ma...» e si voltò ridendo verso Owen:
«Non ci si può aspettare altrettanto da un uomo che ha preso la sua
straordinaria decisione». Capii che la cosa era stata già dibattuta fra loro,
che lei lo aveva punzecchiato o sfidato. Può darsi che non ci fosse niente
di serio, ma la sua rinuncia alla carriera militare aveva evidentemente
messo sul tappeto la questione della viltà, del suo coraggio, insomma.
- E che cosa ha risposto Owen?
- A tutta prima niente; poi, tranquillo: «Ho passato tutta la scorsa notte
in quella stanza della malora», ha detto. Abbiamo fatto gli occhi così, tutti
e due stupefatti, e gli ho domandato che cosa avesse visto. Owen ha
risposto che non aveva visto niente, e la signorina Julian ha aggiunto che
doveva raccontare la storia un po' meglio, cavarne un po' di effetto. «Non è
una storia, è semplicemente un fatto», ha ribattuto lui; allora lei lo ha preso
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1970 - Racconti Di Fantasmi
in giro e gli ha domandato perché, dal momento che aveva fatto la prova,
non le avesse raccontato tutto fin dalla mattina; a maggior ragione sapendo
che cosa pensasse di lui. «Lo so, mia cara, ma non me ne curo», ha detto il
povero ragazzo. Questo l'ha mandata su tutte le furie, al punto che gli ha
domandato con tutta serietà se gli faceva piacere essere informato che il
suo parere personale era che egli cercasse d'ingannarci.
- Che perfida! - esclamò Coyle.
- E una ragazza straordinaria, non so che cosa abbia in mente di fare, quasi ansimò il giovane Lechmere.
- Straordinaria davvero. Far comunella e scambiar parole a quell'ora con
degli scavezzacolli!
Ma il giovane Lechmere si spiegò. - Lo dico perché credo che Owen le
piaccia.
Il signor Coyle rimase così colpito da quell'insolito sintomo di acume
che lanciò subito: - E credete che lei piaccia a lui?
La domanda produsse da parte del suo scolaro un moto di
scoraggiamento e un sospiro lamentoso. - Non so, ci rinuncio! Ma sono
sicuro che Owen ha visto o sentito qualcosa, - aggiunse.
- In quella ridicola camera? Che cosa vi fa essere così sicuro?
- Non so... gli si vede in faccia. Ho in mente che si capisca... in casi del
genere. Si comporta in un modo da far pensare che qualcosa ci sia.
- E perché non ne avrebbe parlato allora?
Il giovane Lechmere parve ripetere la domanda a se stesso e trovare la
risposta.
- Forse è così terribile che non ci sono parole.
Spencer Coyle rise. - Non siete contento di esserne fuori?
- Altro che contento!
- Andate a letto, bamboccione, - disse Spencer con un ritorno di riso
nervoso. - Ma prima ditemi come Owen ha reagito all'accusa che cercava
di ingannarvi.
- «Conducetemi lì voi stessa e chiudetemi dentro!»
- E lei lo ha fatto?
- Non so... io son venuto di sopra.
Spencer Coyle scambiò un lungo sguardo col suo scolaro. - Non credo
che siano in sala ora. Dov'è la camera di Owen?
- Non ne ho la più pallida idea.
Il signor Coyle non sapeva che cosa fare: non ne sapeva più del giovane
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1970 - Racconti Di Fantasmi
e non poteva certo andare a provare porta per porta. Disse a Lechmere di
andare a letto; poi usci nel corridoio. Si domandò se sarebbe stato capace
di rintracciare la stanza che Owen gli aveva mostrata in passato,
ricordando come quasi tutte avessero il loro nome tradizionale dipinto
sulla porta. Ma i corridoi di Paramore erano complicati; per di più qualche
servo poteva essere ancora in piedi e non voleva dare l'impressione di
gironzolare indebitamente. Tornò in camera sua, dove la signora Coyle
notò la sua persistente incapacità di riposare. Dato che, in quella squallida
casa, ammetteva di essere anche lei presa da un crescente senso
d'oppressione, i due passarono le prime ore della notte a conversare, così
che parte della loro veglia fu inevitabilmente occupata dal racconto fatto
dal signor Coyle del suo colloquio con il giovane Lechmere e dalle
opinioni scambiate fra marito e moglie in proposito. Verso le due la
signora Coyle s'era fatta così nervosa sul conto del loro giovane amico
perseguitato, e così presa dalla paura che quella perfida ragazza si fosse
valsa della proposta di lui per sottoporlo a una prova abominevole, che
supplicò suo marito, per quanto la cosa potesse turbarlo, di andare a dare
un'occhiata. Ma Spencer, a mano a mano che il fascino della notte calava
sopra di loro, aveva innaturalmente finito col ridursi a una trepida
accettazione della prontezza con la quale Owen si era dimostrato disposto
ad affrontare Dio solo sa quale inumana tensione nervosa: cimento tanto
più estenuante per una sensibilità già eccitata, in quanto il povero ragazzo
sapeva, dalla prova della notte precedente, quale sforzo disperato avrebbe
dovuto sostenere. - Spero che ci sia andato davvero, - disse a sua moglie:
-Li metterà tutti così smaccatamente dalla parte del torto! - D'altronde non
poteva avventurarsi a esplorare una casa che conosceva così poco. Ma fu
incoerente e non si preparò per andare a letto. Si sedette invece nello
spogliatoio con la candela e il suo romanzo, e aspettò di sentirsi venire il
sonno. Finalmente la signora Coyle si voltò dall'altra parte e cessò di
parlare, e finalmente si addormentò anche lui, sulla sedia. Quanto tempo
dormisse non potè calcolare che in seguito; a tutta prima s'accorse soltanto
di essere stato svegliato di soprassalto e sotto l'impressione di un clamore
pauroso. I sensi intorpiditi gli si schiarirono presto, aiutati senza dubbio da
un grido di orrore che gli giunse all'orecchio, come una conferma, dalla
camera di sua moglie. Ma non accorse da quella parte; s'era già lanciato
nel corridoio. Lì il clamore si ripetè, era il grido di «Aiuto! Aiuto!», di una
donna in preda al terrore. Veniva da una parte lontana della casa, ma si
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1970 - Racconti Di Fantasmi
capiva con sufficiente chiarezza da quale direzione. Corse a precipizio
davanti a sé, col rumore nelle orecchie di porte che si aprivano e di voci
agitate, negli occhi il pallido chiarore delle prime luci dell'alba. Alla svolta
d'un corridoio, s'imbattè nella bianca figura d'una ragazza svenuta su una
panca, e come illuminato da una rivelazione capi all'istante, continuando
nella sua corsa, come Kate Julian, presa troppo tardi dal gelo del rimorso
per la sfida beffarda cui il suo orgoglio l'aveva spinta, dopo essere andata a
liberare la vittima della sua derisione, fosse fuggita via barcollando,
costernata dalla visione della catastrofe di cui era stata causa, catastrofe
davanti alla quale egli si trovò un momento dopo, sgomento, sulla soglia
d'una porta spalancata. Owen Wingrave, vestito come lo aveva visto poche
ore prima, giaceva morto nel luogo stesso dove il suo trisavolo era stato
trovato. Aveva in tutto e per tutto l'aspetto del giovane soldato caduto sul
campo della vittoria.
Traduzione di Carlo Izzo.
L'ALTARE DEI MORTI
I.
Aveva un'antipatia mortale, povero Stransom, per gli anniversari
meschini, e ancor meno gli garbavano quando avevano la pretesa di far
figura. Celebrazioni e omissioni gli riuscivano ugualmente penose; tuttavia
fra le prime, una ve n'era che aveva trovato posto nella sua vita. Non aveva
mancato, ogni anno, di ricordare a modo suo la data della morte di Mary
Antrim. Forse sarebbe più esatto dire che era la data a ricordarglielo:
almeno in quanto aveva per effetto di impedirgli di fare qualunque altra
cosa. Pareva ogni volta trattenerlo con una mano di cui il tempo aveva
allentato la stretta senza mai scioglierla. Si destava a quella celebrazione
della memoria non meno cosciente di quanto lo sarebbe stato alla
celebrazione delle sue nozze. Da gran tempo il matrimonio aveva avuto
troppo poco a che fare con la sua vicenda: per la fanciulla destinata a
divenire sua sposa non v'era stato amplesso nuziale. Era morta di una
febbre maligna poco dopo ch'era stato fissato il giorno delle nozze, e prima
ancora di averlo gustato a sufficienza, egli aveva perduto un affetto che
prometteva di colmargli la vita.
Ma sarebbe falso affermare che la vita l'aveva veramente orbato di
quella benedizione; la sua esistenza era tuttora dominata da un pallido
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spettro, ancora governata da una presenza sovrana. Non era stato un uomo
di molte passioni, e anche in tutti questi anni nessun sentimento si era tanto
rafforzato nel suo intimo quanto quello di essere stato defraudato. Non
aveva avuto bisogno né di prete né di altare per capire di essere vedovo per
sempre. Molte cose aveva fatto al mondo: anzi, quasi tutto, salvo una cosa:
non aveva mai, mai dimenticato. Aveva cercato di introdurre nella sua
esistenza qualsiasi altro elemento potesse trovarvi posto, ma era riuscito a
farne soltanto la dimora di una padrona assente in eterno. Più che mai
assente ella si faceva sentire in quella ricorrenza decembrina cui la tenacia
di Stransom aveva dato speciale rilievo. Non che la osservasse di
proposito, ma quella data si era interamente impadronita dei suoi nervi,
costringendolo senza misericordia a uscir di casa. La meta del suo
pellegrinaggio era lontana. Ella era stata seppellita in un sobborgo di
Londra, allora nel cuore della natura, ma egli aveva visto sparire man
mano, uno dopo l'altro, ogni aspetto di freschezza di quel luogo. In realtà, i
suoi occhi lo contemplavano meno che mai nei momenti in cui vi sostava.
Allora essi fissavano un'altra immagine, si aprivano a un'altra luce. Era un
futuro credibile? Era un incredibile passato? Qualunque fosse la risposta,
era una fuga senza fine dal presente.
E vero che, se non c'erano altre date all'infuori di questa, c'erano altri
ricordi; e all'epoca in cui George Stransom aveva compiuto i
cinquantacinque anni, questi ricordi s'erano ampiamente moltiplicati. Oltre
quello di Mary Antrim, altri spettri popolavano la sua vita. Forse non
aveva subito perdite in numero maggiore di gran parte degli uomini, ma in
certo modo le aveva sofferte più in profondità. A poco a poco aveva preso
l'abitudine di contare i suoi Morti: aveva capito fin dalla giovinezza che
qualcosa andava fatto per loro. Essi persistevano nella loro essenza, resa
più semplice e più intensa, assenti consapevoli nella loro espressiva
pazienza, con una personalità così marcata come se fossero stati
semplicemente resi muti. Venuta meno ogni percezione di essi, spentasi
ogni loro voce, era come se il loro purgatorio fosse ancora realmente sulla
terra; era così poco ciò che chiedevano, poveretti, che ottenevano ancora di
meno, e morivano di nuovo, morivano ogni giorno del duro logorio della
vita. Nessun servizio religioso veniva celebrato per loro, non godevano di
un posto riservato, né di onoranze, né di sicuro rifugio. Anche gli
ingenerosi si davano cura per i vivi, ma persino i cosiddetti generosissimi
non facevano alcunché per gli altri. Così in George Stransom si era andata
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1970 - Racconti Di Fantasmi
formando con gli anni la risoluzione di far almeno lui qualche cosa, far
qualcosa, cioè, per i propri defunti: sarebbe stato un gesto di carità estrema
per nulla riprovevole. Ciascuno aveva i suoi, e ciascuno poteva ricorrere,
per far fronte a questo gesto di carità, alle vaste risorse della propria anima.
Senza dubbio era la voce di Mary Antrim che si levava alta per loro;
comunque, col passare degli anni, egli si trovò in regolare comunione con
questi pensionati differiti, quelli cioè che nei suoi pensieri egli era solito
definire «gli Altri». Riservava loro ritagli di tempo, predisponeva la sua
opera di carità. Proprio in che modo essa era sorta, probabilmente non
avrebbe mai saputo dire, ma sta di fatto che un altare - un altare come
avrebbe potuto essere a portata di tutti - splendente di ceri perpetui e
dedicato a questi riti segreti s’era elevato negli spazi del suo spirito. Da
gran tempo si era domandato, non senza imbarazzo, se avesse una
religione, certissimo di non possedere in ogni modo - e non senza poca
soddisfazione - la religione che alcune persone di sua conoscenza
avrebbero desiderato per lui. Poco alla volta aveva trovato una risposta alla
domanda: gli divenne chiaro che la religione istillatagli dalla sua prima
coscienza era stata semplicemente la religione dei Morti. Si confaceva alla
sua inclinazione, procurava soddisfazione al suo spirito, gli consentiva di
mettere alla prova la sua pietà. Rispondeva al suo amore per le funzioni
solenni, per un rituale splendido e imponente, giacché nessun altare poteva
esser più adorno, nessun cerimoniale più maestoso di quelli ai quali si
riallacciava il suo culto. Non era solito fantasticare di queste cose, se non
per concepire l'idea che esse erano alla portata di chiunque ne sentisse il
bisogno. Il più povero avrebbe potuto innalzare tali templi dello spirito,
farli sfavillare di candele e fumare d'incenso, farli risplendere di fiori e dei
colori dei quadri. Quanto al costo del mantenimento, per dirlo alla buona,
esso ricadeva interamente sulla generosità del cuore.
II.
Quell'anno, alla vigilia dell'anniversario a lui caro, gli avvenne di
provare un'emozione che non esulava dalla sfera del sentimento di cui s'è
detto. Tornando a piedi verso casa al termine di una giornata densa di
occupazioni, s'era fermato di botto nella via londinese, attratto dall'effetto
particolare di una vetrina che illuminava la cupa aria bruna con il suo
commerciale sogghigno e davanti alla quale erano radunate diverse
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1970 - Racconti Di Fantasmi
persone. Era la vetrina di un gioielliere, i cui brillanti e zaffiri sembravano
ridere con bagliori simili alle note acute di un suono, per la pura
soddisfazione di sapere che valevano assai più della maggior parte degli
scoloriti pedoni che li fissavano al di là del vetro. Stransom indugiò
abbastanza per cingere, con l'immaginazione, il candido collo di Mary
Antrim di una collana di perle: poi, a trattenerlo, fu il suono di una voce a
lui nota.
Accanto a lui una vecchia stava borbottando qualcosa e, al di là di essa,
c'era un signore con una signora al braccio. La voce proveniva da lui, da
Paul Creston, che commentava con la sua compagna qualcuno degli
oggetti preziosi della vetrina. Stransom l'aveva appena riconosciuto che la
vecchia se ne andò; ma proprio nell'attimo in cui l'occasione di rivolgersi
all'amico si era fatta più propizia, sì senti pervadere da una strana
sensazione che lo fermò mentre stava per posare una mano sul braccio
dell'altro. Fu un attimo, ma bastò per fargli balenare alla mente una
domanda insensata. Ma non era morta, Mrs Creston? Il dubbio lo colse nel
momento in cui senti la voce del marito abbassarsi in un sommesso tono
coniugale - ammesso che lo fosse - e in cui vide i due volti chinarsi uno
verso l'altro. Nel muovere un passo per guardare qualche altra cosa,
Creston gli si avvicinò, gli rivolse uno sguardo, trasalì, e uscì in
un'esclamazione: un comportamento che sul momento non sortì altro
effetto che quello di lasciare Stransom a bocca aperta nel rievocare,
attraverso il succedersi dei mesi, l'altro viso, il viso del tutto diverso che il
pover'uomo gli aveva mostrato l'ultima volta: una maschera sconvolta,
devastata, china sulla tomba aperta presso la quale avevano sostato
insieme. Adesso quel figlio dello strazio non portava il lutto: lasciò il
braccio della sua accompagnatrice per afferrare la mano dell'amico di un
tempo. Quando Stransom si levò il cappello in un impacciato tentativo di
saluto alla signora, Creston, illuminato dalla luce violenta della vetrina,
arrossi e sorrise nello stesso tempo. Stransom ebbe appena modo di notare
che la donna era graziosa, prima di trovarsi, sconcertato, a ricevere una
spiegazione ancor più strabiliante. - Carissimo, permetti che ti faccia
conoscere mia moglie.
Creston l'aveva detto arrossendo e balbettando un poco, ma mezzo
minuto dopo, secondo le consuetudini della società per bene, al nostro
amico non era rimasto che il ricordo del colpo ricevuto. Restarono lì in
piedi a ridere e a chiacchierare; Stransom aveva istantaneamente rimosso
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1970 - Racconti Di Fantasmi
lo choc, per serbarlo per suo privato consumo. Si accorgeva di far delle
smorfie, di eccedere in compitezza, ma era consapevole di sentirsi non
poco confuso. Quella donna mai vista, quell'attrice prezzolata, Mrs
Creston? Mrs Creston era stata per lui più vitale di qualunque altra donna,
ad eccezione di una. Questa signora aveva una faccia che sfavillava in
pubblico come la vetrina del gioielliere, e nello stesso felice candore con
cui si immedesimava nel suo mostruoso ruolo v'era una nota di procace
grossolanità. Il ruolo di moglie di Paul Creston così conferitole era
mostruoso per le ragioni di cui Stransom era a conoscenza, come l'amico
perfettamente sapeva. La coppia felice era appena arrivata dall'America,
ma Stransom non aveva avuto bisogno di esserne informato per indovinare
la nazionalità della signora. In certo modo ciò accentuava nel marito l'aria
da babbeo che la sua impacciata cordialità non riusciva a dissimulare.
Stransom si rammentò di aver sentito dire che il povero Creston, ancor
fresco di lutto, aveva traversato l'oceano per quel che la gente in simili
circostanze suole chiamare un diversivo. L'aveva davvero trovato il
diversivo, se l'era portato con sé al ritorno, il diversivo; eccolo lì, il piccolo
diversivo, in piedi davanti a loro: per quanto il marito, mettendo in mostra
i suoi grossi incisivi, si desse da fare lei non poteva impedirgli di aver
l'aria di un consapevole imbecille. Stavano per entrare nel negozio,
dichiarò Mrs Creston, e pregò Mr Stransom di entrare con loro per aiutarli
nella scelta. Questi la ringraziò, e facendo scattare la molla del suo
orologio addusse a pretesto un impegno per il quale era già in ritardo. Si
separarono mentre lei gli gridava nella nebbia: - Badi di venirmi a trovare
al più presto! - cosa che Creston aveva avuto la delicatezza di non
suggerire. E Stransom sperò che il sentire la consorte strillare cosf ai
quattro venti, lo avesse fatto in qualche modo soffrire.
Nell'allontanarsi si senti fermamente determinato a non avvicinarla mai
più in vita sua. Era forse un essere umano, ma Creston non avrebbe dovuto
mostrarla senza prendere delle precauzioni, anzi, non avrebbe mai dovuto
mostrarla affatto. Le sue precauzioni avrebbero dovuto essere quelle di un
falsario o di un assassino, e in patria nessuno avrebbe mai parlato di
estradizione. Questa era una moglie per un incarico all'estero o per uso
puramente esteriore: un minimo di riflessione le avrebbe risparmiato
l'offesa del confronto. Tale fu la prima reazione di George Stransom; ma,
mentre se ne stava seduto solo, quella sera, - c'erano ore particolari ch'egli
trascorreva sempre da solo - l'asprezza di quel giudizio cadde per lasciar
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1970 - Racconti Di Fantasmi
posto soltanto al rimpianto. Lui sì, sarebbe stato in grado di passare una
sera con Kate Creston, se non lo era colui al quale ella aveva dato tutto.
Vent'anni di conoscenza avevano fatto di lei l'unica donna per la quale
poteva anche commettere un'infedeltà. Kate era tutta intelligenza e
comprensione e fascino; di tutte le case al mondo la sua era stata la più
accogliente, la sua amicizia la più salda. Egli l'aveva amata senza
complicazioni, come era capitato a tutti: Kate aveva saputo rendere le
passioni che suscitava normali e tranquille come le maree governate dalla
luna. Certo, era stata assolutamente al di sopra del marito, ma lui non
l'aveva mai sospettato, e nulla l'aveva resa tanto degna d'ammirazione
come l'arte squisita con cui aveva cercato d'impedire a ciascuno (impedirlo
a Creston non era un problema) di scoprirlo. Ecco un uomo a cui ella
aveva dedicato la vita e al quale l'aveva sacrificata, morendo nel dare alla
luce un figlio del loro letto; aveva soltanto dovuto accettare il proprio
destino per non contare per lui - prima che l'erba fosse spuntata sopra la
sua tomba - più di una serva di casa sostituita. Tanta superficialità, tanta
assenza di decoro riempirono di lacrime gli occhi di Stransom; quella sera
ebbe la netta sensazione di essere l'unico ad avere il diritto di marciare a
testa alta in un mondo d'indelicatezza. Dopo cena, fumando, teneva un
libro sulle ginocchia, ma non aveva occhi per la lettura: nel vuoto
brulicante di immagini, i suoi occhi sembravano aver incontrato duelli di
Kate Creston, e nel dolente silenzio di quegli occhi egli fissava lo sguardo.
Era a lui che lo spirito sensibile di lei si era rivolto sapendo ch'egli avrebbe
pensato a lei. A lungo Stransom rifletté su come gli occhi chiusi delle
donne morte riescano ancora a vivere, come avrebbero potuto aprirsi in
una stanza silenziosa illuminata da una lampada, molto tempo dopo aver
guardato per l'ultima volta. Avevano degli sguardi che sopravvivevano,
allo stesso modo che i grandi poeti sopravvivono nei versi delle citazioni.
Il giornale - che arrivava di pomeriggio e che i domestici ritenevano
fosse la cosa desiderata - era posato accanto alla sua poltrona: senza affatto
pensare a ciò che poteva contenere, Stransom l'aveva aperto
meccanicamente e poi lasciato cadere. Prima di coricarsi lo riprese e,
questa volta, cinque parole all'inizio di un periodo lo fecero trasalire. Restò
in piedi davanti al fuoco guardando nel vuoto. LA SCOMPARSA DI SIR ACTON
HAGUE, K.c.B., l'uomo che dieci anni prima era stato l'amico suo più intimo,
e che, cadendo da quell'eminente posizione, aveva lasciato il posto
vacante. L'aveva ancora visto dopo la loro rottura; ora da molti anni non lo
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vedeva più. In piedi davanti al fuoco, si senti gelare nel leggere quel che
era accaduto all'amico. Eletto poco tempo prima al governatorato delle
Isole Occidentali, Acton Hague era morto, nel desolato e triste onore del
suo esilio, di una malattia causata dal morso di un serpente velenoso. Il
giornale riassumeva la sua carriera in una dozzina di righe, scorrendo le
quali George Stransom fu percorso soltanto da un vivo sentimento di
sollievo per l'assenza di qualsiasi riferimento al loro contrasto, incidente a
suo tempo infangato - grazie al loro comune impegno in affari di vasta
portata - da una terribile pubblicità. Conosciuto da tutti, a giudizio di
Stransom, era stato in realtà il torto da lui subito, nota l'offesa, da lui
passivamente sopportata da parte dell'unica persona che gli fosse
intimamente amica: il compagno, quasi adorato, degli anni d'Università,
divenuto poi oggetto della sua lealtà appassionata: così «pubblico» che egli
non ne aveva mai fatto parola con anima viva, così «pubblico» che l'aveva
indotto a metterci una pietra sopra. L'amicizia era finita per sempre, quella
era stata per lui 1 unica differenza. Il contrasto di interessi era stato in
sommo grado di natura privata; ma l'azione di Hague si era svolta davanti
agli occhi di tutti. Ormai pareva che ciò fosse accaduto unicamente perché
lui, George Stransom, dovesse pensare a lui come a «Hague»,
permettendogli di rendersi conto con precisione di quanto lui stesso
potesse assomigliare a una pietra. Si senti percorrere da un brivido un
brivido improvviso e orribile. E andò a letto.
III.
L'indomani, di pomeriggio, nel grande sobborgo grigio, comprese che la
lunga camminata l'aveva stancato. Nel tetro cimitero era rimasto soltanto
un'ora sui due piedi. Quegli stessi piedi che poi istintivamente, sulla via del
ritorno, l'avevano condotto a fare una deviazione in un deserto in cui
nessun vetturino circolava puntando su una possibile preda. Si fermò a un
angolo a misurare la vastità della desolazione; poi, attraverso l'oscurità
infittita, scoperse di trovarsi in una di quelle zone di Londra meno tetre di
notte che di giorno, perché di notte godono del civile dono della luce. Di
giorno non c'era nulla, ma di notte c'erano i lampioni, e George Stransom
era in uno stato d'animo per cui i lampioni erano cosa buona di per sé. Non
che gli consentissero di vedere qualcosa, ma almeno splendevano di chiara
luce. Tuttavia, poco dopo, non senza sua sorpresa, proprio qualcosa gli
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309
1970 - Racconti Di Fantasmi
mostrarono: l'arco di un alto portale preceduto da una bassa gradinata, in
fondo al quale - quasi un oscuro vestibolo - il sollevarsi di un tendaggio,
nel momento in cui egli vi passava davanti, gli permise di scorgere un
viale di tenebre chiuso da uno sfolgorio di candele. Si fermò e guardò in
su, riconoscendo in quel luogo una chiesa. Gli venne subito in mente che,
siccome era stanco, lì si sarebbe potuto riposare, e un momento dopo
aveva a sua volta sollevato la cortina di cuoio ed era entrato. Era un tempio
della fede primitiva, e secondo ogni evidenza vi si era svolta una funzione
- forse un servizio per i defunti; l'altar maggiore era tutto uno scintillio di
candele: uno spettacolo che gli era sempre piaciuto. Si abbandonò su una
panca con sollievo. Mai come in quel momento gli parve bene che
esistessero le chiese.
Questa era semivuota e gli altari intorno erano spenti. Un sacrestano
andava ciabattando su e giù, una vecchia tossi, ma nella fitta atmosfera
dolciastra Stransom intuì un che di ospitale. Era solo l'odore dell'incenso,
oppure qualcosa di più vasto intendimento? Comunque, aveva
abbandonato il gran sobborgo grigio e si era avvicinato al cuore caldo della
città. Di lì a poco non ebbe nemmeno più l'impressione di essere un
intruso, stabilendo alla fine persino un senso di comunione con l'unica
devota che gli fosse vicina, l'austera presenza di una donna in gramaglie di
cui vedeva solo la schiena, prosternata e immersa nella preghiera a poca
distanza da lui. Auspicò di potersi ugualmente abbandonare, con pari
immobilità, rapito in quell'atteggiamento di devozione. Lasciato passare
qualche minuto, spostò la propria sedia: poteva apparire indelicato l'essere
tanto consapevole della presenza di lei. Ma di lì a poco Stransom si
perdette del tutto, rapito in quel mare di luci. Se simili occasioni fossero
state più frequenti nella sua vita, egli avrebbe avuto più presente
l'archetipo originale, eretto in una miriade di templi, dell'inaccostabile
sacrario da lui stesso elevato nella propria mente. All'inizio quell'altare gli
aveva richiamato alla mente il fasto della Chiesa, ma l'eco aveva finito per
provocare un richiamo più forte del suono stesso. Ora il suono ridondava,
l'archetipo irradiava su di lui tutte le sue luci, con un fulgore misterioso in
cui infiniti significati potevano brillare. Fu come se, mentre rimaneva lì
seduto, l'oggetto di fronte a lui divenisse il suo altare particolare, come se
ogni luminoso cero esprimesse un particolare voto. Li contò, diede a
ciascuno un nome, li raggruppò: era l'appello silente dei suoi Morti.
Creavano tutti insieme una luminosità vasta e intensa, un fulgore in cui il
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
modesto sacrario dei suoi pensieri sbiadì a tal segno che, mentre si
dissolveva, egli si chiese se non avrebbe forse trovato la sua vera
consolazione in qualche gesto materiale, qualche rito esteriore.
L'idea s'impossessò di lui mentre, poco più in là, la signora ne-rovestita
stava tuttora prosternata; egli si senti così dolcemente esaltato dalla sua
idea, che alla fine si alzò, tutto eccitato da un progetto improvviso. Vagò in
punta di piedi tra le navate, sostando dinanzi alle varie cappelle, tutte,
salvo una, dedicate a una speciale devozione. Qui, in questo spoglio
recesso, non illuminato e disadorno, si fermò molto a lungo - tutto il tempo
che gli occorse per dare forma al concetto di abbellirlo grazie alla sua
prodigalità. Non lo avrebbe sottratto ad altri riti, né lo avrebbe associato ad
alcunché di profano; l'avrebbe preso semplicemente come glielo avrebbero
dato, per farne poi un capolavoro di splendori, una montagna di fuoco.
Custodito tutto l'anno come luogo sacro, circondato dalla chiesa
santificante, sarebbe stato sempre pronto per i suoi rituali. Difficoltà ce ne
sarebbero state, ma fin dall'inizio si prospettavano superabili. Anche per un
estraneo al culto com'era lui, sarebbe stata solo questione di mettersi
d'accordo. Prevedeva ogni cosa, e in particolare quanto splendore avrebbe
riflesso per lui la cappella quando si fosse concesso qualche sosta nel
lavoro o durante la penombra pomeridiana; quanta generosa sicurezza gli
avrebbe offerto in qualsiasi momento, ma soprattutto nel mondo
indifferente. Prima di uscire si avvicinò ancora al posto dove si era seduto
entrando e, così facendo, incrociò la signora che aveva visto immersa nella
preghiera e che ora si stava avviando verso la porta. Gli passò rapidamente
davanti ed egli colse solo per un attimo i tratti del suo pallido viso, dei suoi
occhi assenti, come ciechi. In quell'istante gli apparve sciupata, eppure
bella.
Fu questa l'origine dei riti più palesi e tuttavia certamente esoterici che
finalmente fu in grado di compiere. Gli ci volle parecchio tempo, un anno:
sia l'attuazione sia il risultato avrebbero offerto -a chi l'avesse saputo - una
chiara visione della sua buona fede. Nessuno ne era al corrente in realtà,
salvo i miti ecclesiastici con i quali aveva cercato subito di prendere
contatto con l'astuzia, la curiosità e la comprensione, ottenendone infine il
consenso a tanta munifica eccentricità e qualche indulgenza in cambio di
talune concessioni. A un primo stadio della sua richiesta, Stransom,
naturalmente, era stato indirizzato al Vescovo, e il Vescovo era stato
deliziosamente umano, il Vescovo si era quasi divertito. Il successo era
Henry James
311
1970 - Racconti Di Fantasmi
stato comunque prevedibile, dal momento che coloro dai quali esso
dipendeva si erano mostrati liberali in cambio di liberalità. L'altare e la
sacra abside semicircolare che lo conteneva, dedicati a riti di ordinaria
amministrazione, sarebbero stati conservati in tutto il loro splendore; ciò
che Stransom riservava a se stesso era solo il numero dei ceri e il
godimento gratuito della sua idea. Una volta mandata questa a completo
effetto, il godimento fu ancor maggiore di quanto egli avesse osato
sperare. Amava ripensare a questo effetto quando ne era lontano, ma ancor
più amava convincersene allorché vi era vicino. Non accadeva sovente, in
verità, che vi si trovasse a così breve distanza da non far passare una visita
per qualcosa di simile a un faticoso pellegrinaggio; ma il tempo dedicato
all'esercizio della sua pietà finì per sembrargli piuttosto un contributo agli
altri suoi interessi che un tradimento. Anche una vita carica di impegni può
riuscire forse più facile se la si arricchisce di nuove esigenze.
Quanto più facile, probabilmente, non lo indovinò mai nessuno, neppure
chi sapeva soltanto che c'erano ore in cui egli spariva: molti davano
un'interpretazione volgare a quelle che venivano definite le sue
immersioni. Erano immersioni in profondità più tranquille di quelle nelle
abissali caverne marine: in capo a un anno o due quell'abitudine era
divenuta per lui irrinunciabile se non a ben caro prezzo. Adesso i suoi
Morti avevano per davvero qualcosa di irrevocabilmente loro; e gli era
caro pensare che in certi casi potevano anche essere i Morti di altri, allo
stesso modo che i Morti altrui potevano venir evocati lì, sotto la protezione
di ciò che lui aveva fatto. Gli pareva che chiunque piegasse un ginocchio
sul tappeto da lui disteso agisse secondo la sua intenzione. Ogni candela
aveva un nome per lui e di quando in quando un'altra ne veniva accesa. Era
questo il punto sul quale si era essenzialmente accordato: che ci potesse
essere sempre spazio per tutti. Ciò che i passanti o quelli che vi sostavano
davanti vedevano era solo il più splendente degli altari, riportato
d'improvviso a un'utilità viva, e un tranquillo signore anziano, su cui esso
esercitava in apparenza un fascino speciale, spesso seduto li, come
assonnato o incantato. Ma gran parte del conforto che questo luogo offriva
all'incostante e misterioso devoto era il ritrovarvi gli anni della sua vita
trascorsa, e i legami, gli affetti, le battaglie, le umiliazioni, le conquiste, se
pur ve n'erano state, il documento insomma di quell'avventuroso viaggio in
cui l'inizio e la fine dei rapporti umani sono incisi a chiare lettere su pietre
miliari. In genere egli non amava rievocare il passato come parte della
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1970 - Racconti Di Fantasmi
propria storia; altrove e in altri momenti esso gli appariva per lo più
miserando e irreparabile; ma - là seduto - lo accettava con quella certa
soddisfazione positiva con cui ci si adatta a un male che comincia a
soccombere alla cura. Alla cura del tempo la malattia della vita comincia a
un dato momento a soccombere; e queste erano senza dubbio le ore in cui
quella verità gli appariva più concreta. Là era scritto il giorno in cui per la
prima volta aveva conosciuto la morte, e le successive fasi di quella
conoscenza erano segnate ciascuna da una fiammella.
Ormai le fiammelle erano andate infittendosi, perché Stransom si
trovava già nella parabola discendente della nostra vita terrena, quando
ogni giorno muore qualcuno. Pareva ieri che per Kate Cre-ston si era
acceso un bianco fuoco; eppure già nuove stelle sfavillavano sulle punte
dei lucignoli. Varie persone per le quali non aveva nutrito particolare
interesse gli si erano fatte più vicine, entrando a far parte del sodalizio. Le
passava in rassegna una per una, fino a sentirsi il pastore di un gregge
ammassato alla rinfusa, con la capacità d'individuazione del pastore per
ogni minima differenza fra un capo dell'armento e l'altro. Distingueva ogni
singola candela, persino dal colore della fiamma; le avrebbe riconosciute
anche se la loro posizione fosse stata mutata. Per un'immaginazione
diversa dalla sua avrebbero potuto significare altro: Stransom nulla
chiedeva se non che la loro presenza su quell'altare imponesse il silenzio,
pur intensamente consapevole com'era della nota particolare che ciascuna
sprigionava e del modo in cui ognuna contribuiva al concerto. V'erano
momenti in cui quasi si coglieva ad augurarsi che qualche suo amico
morisse, s da stabilire con lui in tal modo un legame più intimo di quello
che, magari, li aveva uniti in vita. In quanto a coloro dai quali si è separati
dalle lunghe curve del globo, tale legame non poteva che migliorare: te li
metteva subito a portata di mano. Certo nella costellazione c'erano dei
vuoti: Stransom sapeva che poteva soltanto pretendere di agire in proprio,
e che non aveva diritto a venir commemorata ogni figura che passasse
davanti ai suoi occhi per immergersi nel grande buio. La morte elargiva
una sorta di santificazione, ma certi personaggi erano più santificati
dall'oblio che dal ricordo. Il vuoto più grande nella pagina radiosa era la
memoria di Acton Hague, un ricordo da cui egli cercava accanitamente di
liberarsi. Per Acton Hague nessuna fiamma avrebbe mai potuto levarsi su
un altare da lui voluto.
IV.
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1970 - Racconti Di Fantasmi
Ogni anno, tornando a piedi dal cimitero grande, si recava nella chiesa
come aveva fatto il giorno in cui era nata in lui quell'idea. In una di queste
occasioni, trascorso un anno, gli accadde di rendersi conto che il suo altare
era frequentato da una fedele non meno assidua di lui. Nel resto della
chiesa altri fedeli andavano e venivano e, nell'allontanarsi, gli
risvegliavano la sensazione di un vago o un preciso riconoscimento, ma
quella presenza la constatava sempre immancabilmente arrivando;
quand'egli usciva, restava ferma al suo posto. Fu sorpreso, la prima volta,
dalla prontezza con la quale gli venne fatto di attribuirle un'identità: quella
della signora che, due anni prima, nel giorno dell'anniversario, egli aveva
visto prosternata in preghiera e del cui tragico volto aveva ricevuto
un'impressione tanto fugace. Dato il lungo periodo di tempo trascorso, il
ricordo di lei si era mantenuto così vivo da meravigliarlo. Di lui
naturalmente lei non aveva serbato alcun ricordo, o piuttosto, sulle prime,
non aveva mostrato di averne: ma venne il momento in cui il suo contegno
indusse Stransom a ritenere che, a poco a poco, ella avesse indovinato che
le loro visite avevano lo stesso scopo. Lei si valeva di quell'altare per un
suo fine personale: lui poteva solo sperare che, triste e solitaria come gli
era sempre sembrata, lei se ne valesse per i suoi Morti. Da parte di lui vi
furono interruzioni, defezioni, altri doveri e convegni ad impegnarlo; ma
col passare dei mesi la rivide ogniqualvolta vi fece ritorno e finì per
trovare appagamento al pensiero di aver procurato a lei quasi la stessa
gioia che a se stesso. Pregarono così sovente uno accanto all'altra che in
certi momenti egli auspicò per sé la certezza di poter invecchiare insieme
nell'adempimento di quei riti, tanto parallele si prospettavano le loro
strade. Era più giovane di lui, ma dal suo aspetto si poteva supporre che i
suoi Morti fossero almeno in ugual numero delle candele di lui. Non aveva
colore, né voce, né difetto alcuno, e un'altra cosa di cui si era convinto era
che fosse priva di mezzi. Sempre vestita di nero, doveva aver avuto
dispiaceri uno dietro l'altro. Dopo tutto, chi è colpito da tante perdite non è
povero, anzi, se ha dovuto rinunciare a tanto, è stato senz'altro ricco. Ma
l'aspetto di questa donna pia e indifferente che, in qualunque posa si
trovasse, creava sempre un involontario bellissimo disegno, in certo modo
suggeriva a Stransom l'impressione che avesse conosciuto più di un
affanno.
Egli era un appassionato di musica e aveva poco tempo per goderne; ma
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1970 - Racconti Di Fantasmi
di tanto in tanto, quando i pomeriggi del sabato smorzavano il frastuono
dei giorni lavorativi, gli tornava in mente che esisteva della splendida
musica. Del resto, aveva anche amici pronti a rammentarglielo, e allora si
ritrovava al loro fianco ad assistere a un concerto. In una di quelle sere
d'inverno, al Saint James's Hall, dopo aver preso posto, si accorse che
vicino a lui era seduta la signora vista tante volte in chiesa. Evidentemente
era sola, come appunto lo era lui quella volta. All'inizio era troppo assorta
nell'esame del programma per badargli, ma quando finalmente volse lo
sguardo su di lui, egli ne approfittò per parlarle, e la salutò dicendo che gli
pareva di conoscerla. Ella rispose sorridendo: - Oh sì, la riconosco, - e
tuttavia, nelTammettere quella conoscenza d'antica data, egli la vide
sorridere per la prima volta. Il che ebbe l'effetto di contribuire alla loro
conoscenza più di quanto fosse avvenuto con tutti gli incontri precedenti.
Non aveva «afferrato» - Stransom si disse - che fosse così graziosa. Più
tardi, quella sera, mentre in carrozza si recava a cenar fuori, dovette
aggiungere che non aveva nemmeno «afferrato» che fosse così
interessante. Il mattino dopo, mentre lavorava, all'improvviso e senza una
ragione evidente rifletté che l'impressione, ch'essa gli aveva pur fatto da
tanto tempo, era simile a un fiume tortuoso che ha finalmente raggiunto il
mare.
Sta di fatto che per tutto quel giorno il suo lavoro fu come offuscato dal
pensiero di ciò che era avvenuto fra loro. Non era stato molto, ma aveva
cambiato il loro rapporto. Avevano ascoltato insieme Beethoven e
Schumann; avevano chiacchierato durante gli intervalli, e quando, alla
fine, diretti insieme verso l'uscita, egli le aveva chiesto se poteva esserle
d'aiuto per il rientro, lei lo aveva ringraziato e aveva aperto l'ombrello per
scivolar via tra la folla, senza alludere a un eventuale nuovo incontro. Non
una parola era stata scambiata - come egli ebbe agio di ricordare - in
merito allo scenario consueto dei loro incontri. L'omissione gli parve ora
naturale, ora perversa. Avrebbe potuto non concedergli in alcun modo il
diritto di parlarle, eppure, se l'avesse fatto, egli l'avrebbe ritenuta una
maleducata. Era curioso che - quantunque fosse riuscito a comunicarle
l'impressione di essere vecchi amici - non ci fosse mai stato nulla ad
avvicinarli realmente: strano che questo elemento negativo contasse in
certo modo più di quanto si fossero detti. Era anche vero che il suo
successo era stato attenuato dalla rapida fuga di lei e ciò faceva aumentare
in lui l'assurdo desiderio di sottoporla a prova più valida. Dato e non
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1970 - Racconti Di Fantasmi
concesso che gli venisse in aiuto un'altra banale occasione, tale prova
poteva aver luogo solo incontrandola di nuovo in chiesa. Se fosse dipeso
da lui, vi sarebbe andato quel pomeriggio stesso, non foss'altro che per la
curiosità di vedere se ve l'avrebbe trovata. Ma proprio all'ultimo, quando
aveva virtualmente deciso di recarvisi, dovette scoprire che non dipendeva
da lui. Il potere che lo trattenne gli rivelò come i suoi Morti non lo
abbandonassero mai. Vi andava solo per loro - per nessun'altra ragione al
mondo.
Quell'istintivo rifiuto lo tenne lontano dalla chiesa per dieci giorni:
detestava il pensiero di collegare il luogo con motivazioni estranee ai
propri riti, e di lasciar trasparire, anche soltanto con uno sguardo, la
curiosità che quasi ve lo aveva sospinto. Per una cosa tanto semplice come
un'abituale devozione quotidiana o ad ore stabilite che fosse, era assurdo
ingarbugliare una matassa: eppure la matassa s'era ingarbugliata da sola.
Era dispiaciuto, era deluso: come se un lungo felice incantesimo si fosse
spezzato e a lui fosse venuto a mancare un senso di sicurezza. Tuttavia finì
col domandarsi se, per tema di tante complesse ragioni, dovesse rimanere
lontano per sempre. E, lasciato trascorrere un intervallo né più lungo né
più breve del solito, rimise piede in chiesa, fermamente convinto che si
sarebbe accorto a stento della presenza o dell'assenza della signora del
concerto. Quest'indifferenza non gli impedì di constatare all'istante che,
per la prima volta dacché l'aveva notata, la signora non si trovava sul
posto. Non si fece scrupolo di darle tempo di arrivare, ma lei non arrivò, e
quando Stransom si allontanò dalla cappella sempre senz'averla vista,
provò un profano ma incontestabile rammarico. Se la matassa
s'aggrovigliava sempre più, la colpa era solo sua, di lei.
Trascorso un altro anno, la matassa era più aggrovigliata che mai; ma
ormai non gliene importava più niente, e solo la sua raffinata coscienza
poteva ancora fargli nascere degli scrupoli. Tre volte in tre mesi si era
recato in chiesa senza trovarla, e senti che non erano state necessarie
queste circostanze per dimostrargli che la tensione era cessata. Eppure, per
una strana incongruenza, non era stata l'insensibilità, ma una speciale
delicatezza a trattenerlo dal chiedere al sacrestano, che l'avrebbe senza
dubbio individuata in base alla sua descrizione, se in altre ore del giorno
l'avesse notata. Era stato sempre per delicatezza che s'era ogni volta
trattenuto dal chiedere di lei; proprio quella stessa virtù che gli aveva
liberamente consentito di essere tanto signorilmente garbato con lei al
Henry James
316
1970 - Racconti Di Fantasmi
concerto.
Della stessa felice prerogativa si valse nuovamente - allorché i loro
occhi, dopo un quarto tentativo, finalmente s'incontrarono -per prendere la
ferma decisione di aspettare quando fosse uscita. La raggiunse in strada
appena si mosse, e le chiese se gli permetteva di accompagnarla per un
tratto. Ottenuto un pacato consenso, la scortò fino a un certo edificio in
quei paraggi dove lei aveva qualcosa da sbrigare: lo informò che non era
lìì che abitava. Viveva, come ebbe a dirgli, in una viuzza di un povero
quartiere, insieme a una vecchia zia, riguardo alla quale parlò dell'obbligo
di tediosi doveri e monotone occupazioni. Lei, la nipote vestita a lutto, non
era nel fiore degli anni, la sua freschezza appassita lasciava intendere, a
giudizio di Stransom, ch'essa fosse stata, in passato, tragicamente
sacrificata. Ma tutto ciò che gli raccontava lo raccontava senza un punto di
riferimento preciso. Poteva essere una duchessa divorziata, come una
vecchia zitella che dava lezioni di arpa.
V.
Infine presero l'abitudine di fare insieme un pezzo di strada a piedi quasi
ogni volta che s'incontravano, anche se, ancora per parecchio tempo, non
s'incontrarono mai se non in chiesa. Lui non poteva chiederle di andarlo a
trovare, e lei, quasi non avesse un'abitazione adatta a riceverlo, non lo
invitò mai. Conosceva la società londinese non meno di lui, ma per una
tacita intesa di riserbo frequentavano i quartieri non tracciati sulla mappa
della buona società. Tornando, lei si faceva sempre lasciare allo stesso
angolo. Guardava con lui, col pretesto di una pausa, le povere cose esposte
nelle vetrine delle botteghe suburbane; e non ci fu mai una parola detta da
lui che non ricevesse la più completa comprensione da parte di lei. Per
anni e anni egli ignorò il suo nome così come ella non pronunciò mai
quello di lui. Ma i nomi non avevano importanza: ciò che contava era il
loro rapporto perfetto, la loro esigenza comune.
Il che rendeva la loro relazione cosìì impersonale da permettere di non
attenersi alle norme o ai motivi che la gente trova di solito nell'amicizia.
Delle cose di cui si ritiene necessario tener conto nelle convenzioni
mondane essi non si occupavano. Arrivarono un giorno a lanciare l'idea né seppero mai chi dei due fosse stato il primo ad esprimerla - che non
provavano affetto uno per l'altra. Questa scoperta aumentò la loro intimità;
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1970 - Racconti Di Fantasmi
vi si aggrapparono in maniera tale da segnare una nuova svolta nella loro
confidenza. Se l'essere perfettamente all'unisono su certe questioni da cui
si sentivano del tutto staccati non garantiva sicurezza, dove allora cercar
sicurezza? Quando accadeva qualcosa che si prestasse, per così dire, a
scaldare l'atmosfera, allora arrivavano quasi al punto di chiamare i loro
Morti per nome: tuttavia, ciò non avveniva alla leggera, né sovente, non
senza uno spunto né senza emozione, non più di quanto le persone serie si
permettano di fare accenno alla propria fede. Sembrava loro di stare quasi
per manifestare del tutto il loro pensiero. Bastava la parola «loro»: era una
parola che, precisando l'accenno, aveva una dignità tutta propria, e se
qualcuno - nel corso delle conversazioni dei nostri due eroi - li avesse uditi
farne uso, li avrebbe scambiati per una coppia di antichi pagani che
alludevano con il dovuto rispetto alle divinità domestiche. Non seppero
mai - o almeno, Stransom non seppe mai - come avessero imparato ad
essere sicuri uno dell'altro. Se ciascuno si era domandato a che cosa era
dovuta la presenza dell'altro in quel luogo, la risposta certa si era insinuata
delicatamente da sé. Qualunque fede, dopo tutto, è per istinto portata al
proselitismo, ed era così naturale, così bello che là, sul posto, avessero
provato gioia nell'immaginare un seguace. Se, per ognuno di loro, il
seguace era stato uno solo, in quella circostanza era parso sufficiente.
Tuttavia, da parte di lei il debito era naturalmente molto maggiore di
quello di lui, poiché se lei gli aveva donato soltanto un adepto, lui le aveva
offerto un tempio magnifico. Una volta lei disse che lo compativa per la
lunghezza del suo elenco - aveva contato le candele di Stransom non meno
di quanto le avesse contate lui - ed egli si domandò allora quanto poteva
essere lungo l'elenco di lei. Già si era stupito della coincidenza dei loro
lutti, soprattutto perché di tanto in tanto sull'altare veniva aggiunto un
nuovo cero. In una certa occasione egli ebbe per caso ad esprimerle questa
sua curiosità, ed essa gli rispose, quasi sorpresa che lui non avesse già
capito: - Oh, per me, vede, quanto più numerosi sono, tant meglio è: non
sarebbero mai troppi. Vorrei averne centinaia e centinaia, migliaia ne
vorrei: un'immensa montagna di luce...
Allora, naturalmente, in un lampo Stransom comprese. - I suoi Morti
sono dunque Uno solo?
Ella esitò, come mai aveva fatto finora. - Uno solo -, rispose, arrossendo
come se adesso egli conoscesse il suo ben custodito segreto Ma in realtà
Stransom ebbe l'impressione di saperne meno di prima: gli era troppo
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difficile ricostruire una vita in cui una sola esperienza aveva talmente
sminuito tutte le altre. La sua propria vita, attorno al grande vuoto di
centro, era stata ben fittamente riempita. Dopo di ciò ella parve
rimpiangere la propria confessione, sebbene al momento delle sue pur
imbarazzate parole fosse trasparita una certa fierezza. Gli dichiarò che la
parte da lui posseduta era la più grande, la più preziosa: quella che,
potendo, uno avrebbe scelto; gli assicurò che riusciva perfettamente ad
immaginare alcuni degli echi di cui erano popolati i suoi silenzi. Lui
sapeva bene che non era possibile: il rapporto con ciò che si è amato e
odiato è un rapporto troppo distinto da ciò che altri hanno amato e odiato.
Questo però non impedì loro di invecchiare insieme nella loro speciale
pratica di devozione. Lei era un aspetto di quella devozione, ma anche le
volte in cui - giunti ormai a una fase di matura conoscenza - combinarono
di trovarsi a un concerto o di andare insieme a un'esposizione, ella
continuò a rappresentare per lui solo e null'altro che quell'aspetto. Accadde
così che, per Stransom, quella forma di devozione divenne più importante
di ogni altra cosa. Uno dopo l'altro gli amici scomparivano, finché da
ultimo rimasero più emblemi sull'altare di Stransom che case in cui venir
accolto. Più di chiunque altro lei rimaneva, ignota agli altri, la sua amica
fedele. Una volta che ella scopri una nuova stella - come usavano
chiamarle tra loro - si espresse dicendo che ormai la cappella ne era colma.
- Ah no, - obiettò Stransom, - manca ancora un elemento
importantissimo! La cappella non sarà mai completa finché non vi si
leverà un cero davanti al quale tutti gli altri impallidiranno. Sarà il più alto
di tutti!
Lei posò su di lui uno sguardo di pacato stupore. - Di che cero intende
parlare?
- Ma, cara signora, del mio!
Passato molto tempo, aveva appreso che lei si guadagnava da vivere con
la penna, scrivendo sotto uno pseudonimo che mai gli rivelò, per riviste
che egli non vide mai. Lei conosceva troppo bene ciò che egli si rifiutava
di leggere e ciò che ella era incapace di scrivere, e gli insegnò a coltivare
l'indifferenza con un successo che molto contribuì ai loro buoni rapporti.
L'invisibile operosità di lei gli si confaceva: lo aiutava a pensare
serenamente a lei, a quella sua vita oscura, fatta di dignità e di orgoglio,
sostenuta da un'arte magramente rimunerata, in quella casetta
inaccessibile. Perduta nella bruma del suburbio con la sua parente povera,
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1970 - Racconti Di Fantasmi
riemergeva per lui alla superficie in zone lontane. Era davvero la
sacerdotessa del suo altare e, ogniqualvolta lasciava l'Inghilterra, a lei ne
affidava la cura. Ella gli aveva dimostrato una volta di più che le donne
hanno maggiore spirito religioso degli uomini, e Stransom sentiva di avere,
in confronto alla sua, una pietà fiacca, debole. Spesso le diceva che,
avendo per sé così poco tempo da vivere, si consolava al pensiero che lei
ne avesse tanto, e si allietava all'idea che, quando fosse giunta la sua ora, a
custodia del tempio rimanesse lei. A questo scopo aveva formulato un
progetto grandioso, di cui naturalmente la mise a parte: un lascito in
denaro per mantenere l'altare in condizioni di costante splendore. Avrebbe
nominato lei soprintendente all'amministrazione di quel lascito: e, se si
fosse sentita animata da quello spirito, avrebbe potuto accendere un cero
anche per lui.
- E per me, allora, chi lo accenderà? - gli aveva ribattuto lei in tono
serio.
VI.
Era sempre vestita a lutto, eppure il giorno in cui egli tornò da
un'assenza più lunga delle altre, il suo aspetto esteriore gli rivelò all'istante
che aveva di recente subito una perdita dolorosa. Quella volta
s'incontrarono mentre lei usciva di chiesa, sicché, rinviando per conto
proprio il momento di entrarvi, egli si offerse subito di fare dietro front
accompagnandola sulla via del ritorno. Dopo breve riflessione lei gli disse:
- Entri adesso, ma venga a trovarmi fra un'ora, a casa mia -. A Stransom
era nota l'angusta prospettiva della via, senza sbocco al fondo e desolata
come una tasca vuota, dove gli squallidi villini a due a due, mezzo separati
uno dall'altro, ma indissolubilmente uniti, somigliavano a certe coppie di
coniugi in cattivi rapporti. Per quanto spesso l'avesse imboccata, non si era
mai spinto oltre l'inizio della strada. Intuì subito che la zia era morta, come
pure che da ciò sarebbe derivato un cambiamento: ma dopo che, per la
prima volta, ella gli ebbe indicato il numero della via, al momento di
lasciarla si ritrovò non poco agitato per tale liberalità improvvisa. Non era
una donna con cui, in fin dei conti, si stabilisse facilmente un rapporto; gli
ci erano voluti mesi e mesi per sapere il suo nome, anni e anni per
conoscerne l'indirizzo. Se, in questo ritrovarsi, lei gli era parsa tanto
invecchiata, chissà come aveva dovuto sembrarle lui! Lei aveva raggiunto
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1970 - Racconti Di Fantasmi
quella fase della vita, da lui ormai superata da gran tempo, nella quale il
quadrante del volto dell'amico, incontrato dopo una lunga separazione, ci
indica l'ora che abbiamo cercato di dimenticare. Scaduto per lui il tempo
dell'attesa, voltato l'angolo dove per anni si era sempre fermato, Stransom
non avrebbe saputo dire che cosa si aspettasse: già il fatto di non doversi
più fermare lì era sufficiente causa di emozione. In certo modo era un
avvenimento; e in tutta la loro lunga consuetudine di avvenimenti non ce
n'erano mai stati. Acquistò maggiore importanza quando, cinque minuti
dopo, nella smorzata eleganza del suo salottino, ella emise con voce
tremula un saluto che mostrava quanto valore gli attribuisse. Lui aveva la
strana sensazione di essere venuto per una ragione particolare; strana
perché, fra loro, non esisteva alla lettera nulla di particolare, nulla
all'infuori del sentirsi all'unisono sul loro culto comune, ormai da gran
tempo diventato una meravigliosa realtà. È vero che, dopo la frase detta da
lei «Ora può venire quando vuole», la ragione per la quale era venuto
sembrava già essersi tradotta in atto. Le domandò se, a cambiare le cose,
era stata la morte della zia; al che lei rispose: - La zia non ha mai saputo
che ci conoscessimo. Io non volevo che lo sapesse -. La sua limpida
trasparenza - quella bellezza appassita era come un crepuscolo d'estate liberava le parole da qualsiasi parvenza d'inganno. Avrebbero potuto
sembrargli una dissimulazione profonda, ma ella gli aveva sempre dato
l'impressione di essere guidata da nobili motivi. Guardandosi intorno, egli
avvertiva la presenza della zia scomparsa nei fronzoli minuti della stanza:
il velluto a pois e il moire scanalato dei tendaggi; e sebbene, come
sappiamo, avesse il culto dei Morti, Stransom constatò che non
rimpiangeva poi troppo quella signora. Se essa non faceva parte della sua
lunga lista, rientrava tuttavia in quella più breve della nipote: adesso
almeno - egli fece osservare poco dopo a quest'ultima - nel luogo che
frequentavano insieme, lei avrebbe avuto un altro oggetto di devozione.
- Sì, è vero. È stata molto buona con me. È per questo che ora tutto è
diverso.
Meditando su una quantità di cose prima di accennare a prender
congedo, egli giudicò infine che la differenza sarebbe stata grandissima e
sarebbe consistita in molte altre cose oltre quel consenso ad entrare in
casa. Questo, anzi, lo raggelava un poco, perché erano stati molto felici
insieme così com'erano stati. In ogni modo le strappò l'ammissione che ora
lei avrebbe goduto di mezzi meno limitati, perché d'ora innanzi, ereditato il
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1970 - Racconti Di Fantasmi
minuscolo patrimonio della zia, lei sola avrebbe potuto attingere a ciò che
prima erano state costrette a far bastare per due. Ciò fu motivo di sollievo
per Stransom, per il quale finora era stato ugualmente impossibile farle dei
regali e rassegnarsi in pace ad astenersene. Era troppo increscioso starle
accanto a quel modo, nuotando nell'abbondanza per proprio conto, e
tuttavia nell'incapacità di riversarne su di lei una parte, con gesto che
avrebbe avuto lo stridore di una nota falsa. Persino lo stesso miglioramento
di situazione di lei pareva soltanto dar rilievo in certo senso alla sua
solitudine futura. L'avrebbe solamente aiutata a vivere sempre più per
amore del loro piccolo rituale, e ciò in un momento in cui lui stesso aveva
cominciato ad avvertire stancamente che, avendolo ormai avviato, poteva
allontanarsene.
Dopo essersi trattenuti un momento nel salottino dalle tinte sbiadite, lei
si alzò. - Non è questa la mia stanza, - disse. - Andiamo in camera mia -.
Stransom notò che c'era solo da attraversare il piccolo ingresso per entrare
in un'atmosfera del tutto diversa. Una volta richiusa la porta della seconda
stanza - come lei la chiamò - a lui parve di aver imparato finalmente a
conoscerla. Questa stanza aveva il calore della vita, diceva qualche cosa; le
pareti, tappezzate di rosso scuro, parlavano attraverso ricordi, reliquie.
Piccole cose semplici: fotografie e acquerelli, brani di scritti incorniciati e
fantasmi di fiori disseccati; eppure gli bastò un attimo per capire che
avevano tutti un significato comune. Era qui che lei aveva vissuto e
lavorato e, come già gli aveva detto, non avrebbe cambiato in nulla la
scena. Nelle cose che la circondavano Stransom lesse il riferimento
generico a luoghi e anni; un istante dopo, però, scorse fra tutti il piccolo
ritratto di un uomo. Pure a distanza e senza occhiali esso lo colpi al punto
di provare una curiosità vaga che lo fece avvicinare per istinto. Un attimo
dopo fissava esterrefatto l'immagine, con la sensazione di essersi lasciato
sfuggire un suono dalle labbra. Poi si rese conto di volgere verso la sua
compagna un volto divenuto pallido, esclamando in un sussulto: - Acton
Hague!
Non minore fu la sorpresa di lei. - Lo conosceva?
- E stato l'amico di tutta la mia giovinezza... della mia prima maturità. E
lei, lo ha conosciuto?
Per un istante ella avvampò in viso e fu incapace di rispondere;
abbracciava con lo sguardo tutto quanto la circondava, e con una strana
ironia sulle labbra gli fece eco: - Conosciuto?
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
Allora, mentre la camera sembrava beccheggiare come la cabina di una
nave, Stransom capì che tutto quanto era là dentro gridava il suo nome, che
quello era il museo in suo onore, che tutti gli anni recenti di lei erano stati
dedicati a lui e che l'altare da lui stesso innalzato era stato da lei convertito
appassionatamente a questo fine. Era solo per Acton Hague che lei s'era
inginocchiata ogni giorno al suo altare. Che bisogno c'era di una candela
consacrata, quando tutto quello splendore era per lei dedicato alla presenza
di Acton Hague? La rivelazione si abbatté sul nostro amico con una tale
violenza che egli si lasciò cadere sul divano ammutolito. Si rese presto
conto che lei era stata travolta dalla stessa improvvisa emozione. Ma
quando si abbandonò a sedere accanto a lui ponendogli una mano sul
braccio, Stransom ebbe l'intuizione quasi immediata che non fosse risentita
quanto lei stessa avrebbe forse desiderato.
VII.
Due cose egli apprese in quell'attimo: una, che durante quel lungo volger
di tempo lei non aveva avuto mai sentore né della loro grande amicizia, né
del grave dissidio che li aveva separati; l'altra, che nonostante tale
ignoranza, ella fu pronta - in modo abbastanza curioso - a fornire sul
momento una ragione per lo stupore del suo ospite.
- È straordinario, - esclamò Stransom di lì a poco, - che noi non lo
abbiamo mai saputo!
Lo stanco sorriso di lei parve a Stransom ancor più straordinario del
fatto in sé.
- Di lui non ho mai parlato, mai.
Stransom volse lo sguardo intorno alla stanza. - Ma perché, se la sua vita
ne è stata così piena?
- Mi è permesso farle la stessa domanda? Forse che la sua vita non è
stata altrettanto piena di lui?
- La vita di chiunque, di chiunque abbia fatto la meravigliosa esperienza
di conoscerlo. Ma io, - soggiunse Stransom, dopo una pausa, - io non ho
mai parlato di lui perché, anni fa, mi fece un torto che non posso
dimenticare.
Lei tacque, e mentre la presenza di Acton Hague aleggiava intorno a
loro, Stransom fu percorso da un brivido di paura nel non sentirle
pronunciare protesta di sorta. Accettava le sue parole, ed egli volse di
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1970 - Racconti Di Fantasmi
nuovo lo sguardo su di lei per vedere in che modo le accogliesse: fu con le
lacrime agli occhi e una rara dolcezza nell'atto di tendere una mano a
prender possesso della sua. Nulla gli parve così bello in quella stanzetta
piena di ricordi e di omaggi quanto la tacita ammissione da parte di lei,
unita ad una squisita dolcezza, che, da parte di Acton Hague, qualsiasi
ingiuria era credibile. La pendola ticchettava nel silenzio - probabilmente
era un dono di Hague - e mentre egli si lasciava tenere la mano con una
tenerezza che sembrava ammettere in lei una parte di responsabilità sia per
la sofferenza da lui patita un tempo, sia per l'attuale, un momento dopo
Stransom proruppe: - Dio mio, quanto male deve averle fatto!
Lei allora abbandonò la sua mano, si alzò e, attraversata la stanza, andò
a raddrizzare un quadretto che, nell'esaminarlo, egli aveva leggermente
spostato. Poi, riconquistata la sua serena pacatezza, si volse verso di lui: Io gli ho perdonato! - affermò.
- Lo so cosa ha fatto, - riprese Stransom, - cosa lei fa da anni -. Per un
momento si guardarono negli occhi attraverso tutto ciò che li aveva uniti
attraverso la loro lunga comunione di culto. Il breve momento segnò per
lui una confessione piena e illimitata da parte della donna che gli stava
davanti; e poco dopo, avvampando d'improvviso rossore e di nuovo
mutando posto, ella parve comprendere che proprio questo egli vi aveva
scorto. Stransom si alzò. - Quanto deve averlo amato! - esclamò.
- Le donne non sono come gli uomini: le donne sanno continuare ad
amare anche quando hanno sofferto.
- Le donne sono meravigliose, - convenne Stransom. - Ma le assicuro
che anch'io gli ho perdonato.
- Se avessi mai immaginato una cosa tanto inverosimile, non l'avrei mai
portato qui.
- In modo da continuare fino all'ultimo a non sapere?
- Che intende dire con «fino all'ultimo»? - gli chiese lei, sorridendogli
ancora.
Egli riuscì a sorriderle a sua volta. - Lo capirà... quando verrà il
momento.
Lei rifletté. - Forse è meglio così; ma com'eravamo prima... andava
bene.
- E mai accaduto che abbia parlato di me? - le domandò Stransom.
Dopo lunga riflessione, ella non rispose nulla: lui comprese che
un'adeguata risposta sarebbe stata quella di domandargli quante volte lui
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1970 - Racconti Di Fantasmi
stesso aveva nominato il loro terribile amico. Il viso di lei s'illuminò d'un
tratto di più viva luce e un commovente appello le venne alle labbra: - Lei
gli ha davvero perdonato?
- E come potrei trattenermi qui, se non gli avessi perdonato?
La profonda ma involontaria ironia di quella risposta la fece visibilmente
fremere ma, pur turbata nell'intimo, gli domandò palpitando: - Dunque fra
i ceri del suo altare...?
- Nessun cero splende mai per Acton Hague!
Lo fissò sbigottita, in preda a un abbattimento terribile. - Ma se lui_è
uno dei suoi Morti...?
- È morto per il mondo, se vuole, è un Morto che appartiene a lei. Ma
non a me. Miei sono solo i Morti che morirono continuando ad amarmi.
Sono miei nella morte come sono stati miei in vita.
- Lui le appartenne in vita, anche se per un certo tempo non fu più suo.
Se gli avesse perdonato, sarebbe tornato a lui. Quelli che si sono amati una
volta...
- Sono quelli che possono farci più male, - la interruppe Stransom.
- Ah, non è vero! Lei non gli ha perdonato! - ella gemette in tono così
appassionato che lo spaventò.
Stransom la guardò come ancora non l'aveva mai guardata. - A lei, che
cosa ha fatto?
- Tutto! - Poi, bruscamente, gli tese la mano in gesto di saluto.
- Addio.
Si senti percorrere da un brivido di freddo come la sera in cui aveva letto
l'annuncio della morte di quell'uomo. - Intende dire che non ci vedremo
più?
- Non come ci siamo visti finora, non laggiù. L'improvviso infrangersi
del loro stretto sodalizio lo lasciò senza
respiro: nell'ultima parola marcata da tanta enfasi aveva colto il tono
della rinuncia.
- Ma per lei, che cosa è cambiato?
Aspettò a rispondergli, travagliata da una pena che, per la prima volta
dacché si conoscevano, la rendeva mirabilmente severa.
- Come può capire adesso, se non ha mai capito prima?
- Non avevo capito solo perché non sapevo. Ora che so, comprendo con
che cosa ho vissuto per anni, - continuò Stransom con molta dolcezza.
Ella lo guardò con maggiore indulgenza, prendendo atto di quella
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1970 - Racconti Di Fantasmi
dolcezza. - Adesso che so, come posso io allora chiederle di continuare a
vivere in questo modo?
- Ho innalzato il mio altare con i suoi molteplici significati... -cominciò
Stransom, ma lei fu pronta ad interromperlo.
- Lei ha innalzato il suo altare, e quando io più lo desideravo, l'ho
trovato sfarzosamente allestito. Ne ho fruito con la gratitudine che le ho
sempre dimostrato, perché fin dall'inizio sapevo che era dedicato alla
Morte. Le dissi molto tempo fa che i miei Morti non erano molti. I suoi lo
erano, ma tutto ciò che lei aveva fatto in loro onore non era per nulla
eccessivo per il mio culto. Lei aveva acceso una grande luce per Ciascuno
di loro, io ho radunato quelle luci tutte insieme per Uno solo!
- Avevamo intenzioni diverse, - lui replicò. - Come lei dice, questo io lo
sapevo perfettamente: non vedo perché la sua intenzione non debba
continuare a sorreggerla.
- E perché lei è un generoso: lei riesce a immaginare, a pensare. Ma
l'incanto è rotto.
Parve al povero Stransom che, malgrado la sua resistenza, l'incanto fosse
davvero spezzato: gli stava di fronte un avvenire grigio e vuoto. - Spero
che ritenterà, prima di rinunciare, - fu tutto ciò che riuscì a dire.
- Se avessi saputo che vi eravate conosciuti, avrei dato per certo che lui
avesse il suo cero, - ella riprese poco dopo. - Di cambiato, come lei dice,
c'è questo: ora che l'ho scoperto, mi rendo conto che lui non l'ha mai avuto.
Questo fa sì che il mìo atteggiamento, - tacque come riflettendo sul modo
di esprimersi, poi disse semplicemente, - sia tutto sbagliato.
- Venga ancora una volta, - egli la supplicò.
- Ci sarà un cero per lui?
Egli esitò, ma soltanto perché la risposta avrebbe avuto un tono
sgarbato, non perché avesse il minimo dubbio dei propri sentimenti.
- Non posso far questo! - dichiarò infine.
- Addio, allora. - E gli tese nuovamente la mano.
Lo aveva congedato; e del resto, nell'agitata prospettiva di tutto ciò che
gli si spalancava davanti, egli sentf il bisogno di riprendersi come soltanto
in solitudine poteva fare. E tuttavia indugiò - indugiò ancora per vedere se
lei non avesse qualche compromesso da suggerire, qualche
accomodamento da proporre. Ma incontrò solo i suoi grandi occhi dolenti,
nei quali lesse che la compassione provata per lui non era maggiore di
quella provata per chiunque altro. Quello sguardo gli fece dire: - Quanto
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1970 - Racconti Di Fantasmi
meno, in ogni caso, posso venirla a trovare qui?
- Oh sì, venga, se vuole. Ma non credo che gioverà.
Egli si guardò attorno ancora una volta nella stanza, ben sapendo quanto
poco ciò avrebbe giovato. Anch'egli si sentiva colpito, e un senso di freddo
sempre più intenso gli percorreva le membra: quel gelo era come una
febbre malarica contro cui doveva lottare per non tremare.
- Dovrò fare io un tentativo, se lei non si sente di poterlo fare,
- fu la sua dolente risposta.
Uscì con lui nell'anticamera e lo accompagnò fino alla soglia di casa: qui
lui le rinnovò la domanda alla quale meno era capace di rispondere con
l'aiuto del proprio intelletto: - Perché non mi ha mai permesso di venire
prima?
- Perché la zia l'avrebbe vista, e io sarei stata costretta a raccontarle
come mai ci eravamo conosciuti.
- E che obiezioni avrebbe potuto fare?
- La cosa avrebbe implicato altre spiegazioni; quel pericolo ci sarebbe
stato comunque.
- Sua zia sapeva di certo che lei si recava in chiesa ogni giorno.
- Però non sapeva per quale motivo ci andavo.
- Non ha mai nemmeno sentito parlare di me?
- Lei penserà che io l'abbia ingannata. Ma non ce n'è stato bisogno!
Era sceso adesso sull'ultimo gradino, e la sua ospite teneva l'uscio
socchiuso alle sue spalle. Vide il viso di lei incorniciato in quello spiraglio.
Le rivolse un appello supremo. - Che cosa dunque le ha fatto?
- Si sarebbe scoperto tutto... La zia ne avrebbe parlato con lei. Avevo
quel timore nel cuore... è stata quella la mia ragione! - E serrò la porta,
chiudendolo fuori.
VIII.
L'aveva abbandonata senza pietà: ecco che cosa aveva fatto. Stransom
giunse a quella scoperta in solitudine, con calma, ricomponendo grado a
grado i pezzi scompagnati e vagliando a uno a uno cento punti oscuri. Ella
aveva conosciuto Hague soltanto dopo che i rapporti fra lui e il suo amico
di oggi erano cessati del tutto; anzi, evidentemente, parecchio tempo dopo.
Era abbastanza naturale che, della vita precedente di lui, fosse venuta a
conoscenza solamente da ciò che Hague aveva ritenuto opportuno
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1970 - Racconti Di Fantasmi
informarla. C'erano stati episodi che, anche nei momenti di massima
tenerezza, egli doveva averle sottaciuto, cosa del tutto concepibile. Molti
fatti della carriera di un personaggio così in vista nella società erano
naturalmente di pubblico dominio; ma questa donna viveva lontana dalla
vita pubblica: per lei l'unico periodo perfettamente chiaro sarebbe stato
quello successivo all'alba del suo dramma. Al suo posto, un uomo avrebbe
«scavato» nel passato, avrebbe magari consultato vecchi giornali. Restava
davvero singolare che, nella lunga consuetudine con il confidente della sua
vita retrospettiva, nessun accenno occasionale le avesse offerto un indizio.
Ma era inutile starci a pensare: in effetti l'occasione se n'era pure offerta,
ma semplicemente il senso di cautela aveva prevalso. Aveva accettato ciò
che Hague le aveva dato, e l'ignoranza sua circa i rapporti dell'uomo amato
con gli altri era solo una pennellata nel quadro di quell'arte di plasmare in
cui Stransom aveva eccellente motivo di scorgere il risultato dell'opera
creata - c'era da esserne certi - da un insigne maestro come Hague.
Per un po' questo quadro fu tutto ciò che il nostro amico seppe
individuare; a volte si sentiva quasi venir meno al pensiero che la donna
con la quale aveva da anni un così squisito punto di contatto era la creatura
che Acton Hague, fra tutti gli uomini al mondo aveva più o meno
plasmato. L'immagine di lei, cosìì seduta com'era stata quel giorno accanto
a lui, era rimasta impressa in modo indelebile nella sua mente. Per buona e
innocente che la ritenesse Stransom non riusciva a scuotersi di dosso
l'impressione di essere stato - come si direbbe - raggirato. Senza
rendersene conto, non più di quanto se ne fosse reso conto lui stesso, gli
aveva teso un inganno madornale. Tutto questo recente passato gli tornò in
mente come un periodo di tempo sprecato in modo grottesco. Tali almeno
furono le sue prime riflessioni; più tardi si ritrovò ancor più lacerato dal
dubbio e, alla fine, ancor più angosciato. Immaginò, rievocò, ricostruì,
raffigurò a se stesso la verità che lei aveva rifiutato di rivelargli, il che
ebbe per effetto di fargli apparire quella donna più che mai vittima del
destino. Intuì che, ad onta di tutta la sua stramberia, lei aveva una
sensibilità più acuta della sua proprio in quanto forse, anzi certamente,
aveva subito un torto maggiore. Una donna, quando subisce un'offesa, la
subisce sempre a livello più alto che non un uomo: v'erano state situazioni
nelle quali il minimo con cui essa ne era uscita, era più del massimo che
lui, Stransom, sarebbe stato in grado di sopportare. Era sicuro che quella
rara creatura non se l'era cavata col minimo. Il pensiero di una tale resa, di
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1970 - Racconti Di Fantasmi
una tale umiliazione lo colmò di pietà e di ammirazione insieme. Erano
davvero mani possenti quelle che l'avevano plasmata per indurla a
convertire in un'esaltazione così sublime la ferita ricevuta. A
quell'individuo era bastato morire perché tutte le sue brutture fossero
lavate via, come in un torrente. Era vano cercar di indovinare ciò che era
accaduto, ma nulla era più chiaro del fatto ch'ella aveva finito per
autoaccusarsi. Assolveva lui su ogni punto, adorava le sue stesse ferite. La
passione di cui Hague aveva approfittato era rifluita dopo la piena, ed ora
la marea di amore, arrestatasi per sempre dopo la piena, era troppo
profonda per poterla scandagliare. Stransom riteneva in buona fede di
avergli perdonato; ma come appariva piccino il miracolo da lui operato in
confronto a quello di lei! Il suo perdono era stato il silenzio, ma quello di
lei era un lamento non proferito. La luce da lei richiesta per l'altare di
Hague avrebbe infranto il silenzio come uno squillo di tromba; mentre tutti
i lumi della chiesa erano per lei un silenzio troppo grande.
Aveva avuto ragione a proposito della differenza - aveva detto la verità
quanto al cambiamento: Stransom dovette presto riconoscersi
perversamente ma acutamente geloso. La sua marea aveva avuto un
riflusso, non era avanzata; se aveva «perdonato» ad Acton Hague, quel
perdono era stato dettato da un motivo a cui era saltata la molla. Il fatto
stesso che lei lo avesse supplicato di offrirle un segno tangibile, un segno
che avrebbe reso il suo defunto amante pari agli altri in quel luogo,
rendeva la concessione accordata all'amico troppo nobile per il caso in
questione. Stransom non si era mai considerato un intransigente, ma una
richiesta eccessiva poteva renderlo tale. Continuava a girare intorno a
quella richiesta, allargandone senza tregua i cerchi: quanto più la
considerava, tanto meno accettabile gli appariva. Al tempo stesso non si
faceva illusioni circa l'effetto del proprio rifiuto; capiva perfettamente che
esso avrebbe portato a una rottura.
La lasciò in pace per una settimana, ma quando infine tornò da lei, fu
crudelmente confermato nella propria convinzione. Nell'intervallo si era
tenuto lontano dalla chiesa, e non fu necessaria una conferma da parte sua
per sapere che nemmeno lei vi era entrata. Il cambiamento era stato
abbastanza completo da sconvolgere la vita di lei. In verità, pure la sua era
stata sconvolta, perché gli parve d'improvviso che anche tutti i fuochi del
suo sacrario si fossero spenti. Gli venne addosso una grande indifferenza,
di per sé così greve da causargli pena; e non aveva mai capito che cosa
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avesse significato per lui quella forma di devozione, finché essa non si era
arrestata di colpo, come un orologio caduto a terra. E neppure aveva
compreso con quanta illimitata fiducia egli avesse contato sul rito finale
che ormai veniva a mancare: la disillusione mortale stava nel fatto che in
questo abbandono tutto il futuro crollava.
Quei giorni della sua assenza gli dimostrarono ciò di cui essa era capace:
tanto più che non gli era neppure passato per la mente che lei fosse
vendicativa o anche soltanto capace di risentimento. Non lo aveva
abbandonato in un momento di collera; era stato un semplice atto di
sottomissione alla dura realtà, alla logica severa della vita. Ciò gli fu
chiaro quando di nuovo si trovò seduto accanto a lei nella stanza in cui i
discorsi della defunta zia echeggiavano come le note di un pianoforte
scordato. Lei cercava di fargli dimenticare quanto si erano allontanati l'uno
dall'altra; ma, messi di fronte a ciò cui avevano rinunciato, era impossibile
non provare pena per una donna dalla quale aveva ricevuto molto più di
quanto le avesse dato. Ne discusse ancora con lei: le disse che ora poteva
avere l'altare tutto per sé; ma ella si limitò a scuotere il capo con
supplichevole tristezza, pregandolo di non sprecare fiato per l'impossibile,
per ciò ch'era estinto. Non capiva dunque che in relazione alle esigenze
personali di lei il rituale da lui voluto era in pratica un'elaborata
esclusione? Lei non rimpiangeva nulla di quanto era successo; era andato
tutto benissimo finché non aveva saputo: soltanto, ora lei sapeva troppo e,
dal momento in cui entrambi avevano aperto gli occhi, altro non rimaneva
loro se non adattarsi. Senza dubbio l'aver potuto andare avanti insieme per
tanto tempo era già stata una felicità sufficiente. Si mostrò gentile, grata,
rassegnata; ma questo non era che un modo di dissimulare la propria
irremovibilità. Stransom capi che non avrebbe più varcato la soglia della
seconda stanza, ed intuì che questo solo fatto lo avrebbe reso un estraneo,
conferendo alle sue visite una rigidità consapevole. Non avrebbe mai
tollerato di tuffarsi ancora in quel mare di rimembranze, ma altrettanto
poco lo soddisfaceva l'alternativa del nulla.
Dopo averle fatto visita tre o quattro volte, fu sorpreso di constatare che
l'essere finalmente entrato in casa sua aveva sortito il disastroso effetto di
diminuire la loro intimità. L'aveva conosciuta meglio e si era sentito più
libero di trovarla simpatica quando percorrevano insieme dei tratti di
strada, semplicemente, o quando s'inginocchiavano insieme. Ora fingevano
soltanto, prima erano stati nobilmente sinceri. Ritentarono con le loro
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passeggiate, ma si rivelarono una storpiatura, perché quelle di prima, sin
dall'inizio, erano collegate con la chiesa, sia che vi si recassero, sia che ne
uscissero. Per di più, adesso Stransom incespicava: non camminava più
come un tempo. Dover abbandonare quell'abitudine falsò ogni cosa: era
una mutilazione crudele delle loro vite. Il nostro amico ne parlava con
insistente franchezza: non faceva mistero del suo scontento, né della sua
situazione difficile. La risposta di lei, qualunque essa fosse, giungeva
sempre alla medesima conclusione: un invito implicito a giudicare - a
proposito di situazioni difficili - quale conforto poteva trarre lei dalla
propria. Per lui, in effetti, non c'era conforto neppure nelle lamentele,
giacché ogni allusione a ciò che era loro accaduto non faceva che evocare
maggiormente il responsabile della loro sofferenza. Acton Hague si ergeva
tra loro due - questa era l'essenza della questione - e mai era tanto presente
come quando si trovavano faccia a faccia. In quei momenti Stransom, pur
volendolo ancora allontanare, cercava di renderselo accetto per ritrovare
un pò di pace. Profondamente sconvolto da ciò che sapeva, sentiva
crescere il proprio tormento dal fatto che, in realtà, non sapeva. Conscio
che sarebbe stato terribilmente meschino inveire contro l'amico di un
tempo, o raccontare alla sua compagna la storia del loro dissidio, egli si
tormentava perché l'illimitato riserbo di lei non gli offriva alcuno spunto e
risultava d'una magnanimità ancora superiore alla sua.
Lanciava una sfida a se stesso, si accusava, si chiedeva se non era forse
perché era innamorato di lei che le sue passate avventure gli stavano tanto
a cuore. Non aveva mai ammesso per un istante di essere innamorato, e
dunque nulla avrebbe potuto sconcertarlo di più che scoprire di essere
geloso. Che cosa poteva far nascere in un uomo quell'esulcerante,
contraddittorio desiderio di conoscere nei particolari ciò che l'avrebbe fatto
soffrire, se non la gelosia? In effetti sapeva benissimo che tale conoscenza
non gli sarebbe mai venuta dalla persona che, in realtà, era in grado di
fornirgliela. Ella si lasciava opprimere dagli sguardi disperati di lui,
accontentandosi di sorridergli con dolce compassione, senza mai
pronunciare la parola che avrebbe rivelato il suo segreto, quella parola che
in apparenza gli avrebbe negato l'effettivo diritto al rancore. Lei non
diceva nulla, non giudicava nessuno; accettava tutto, tranne la possibilità
di tornare ai simboli di un tempo. Stransom intuiva che, anche per lei, essi
erano stati intensamente personali, e, in ore particolari e con particolari
attributi, avevano rappresentato anelli speciali della sua catena. Credette di
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
chiarire a se stesso che la stessa natura della supplica per l'amico infedele
costituiva per lui un'inibizione, e il fatto che tale supplica venisse proprio
da lei era appunto ciò che la viziava. Era sicuro che avrebbe ascoltato la
voce di una generosità impersonale: si sarebbe acconciato al giudizio del
proprio avvocato che, parlando in nome della giustizia astratta, sapendo
del suo diniego senza aver conosciuto Hague, avrebbe avuto tanta fantasia
da dirgli: «Ah, ricordi soltanto il meglio di lui; abbia pietà di lui: provveda
in suo favore». Provvedere in suo favore proprio sulla base di aver
scoperto un'altra delle sue turpitudini non significava averne compassione,
ma rendergli onore. Più ci pensava, più si rendeva conto che, qualunque
fosse stata questa relazione di Hague, altro non poteva essere che un
inganno messo in atto con maggiore o minor raffinatezza. A quale
momento della vita ch'era sotto gli occhi di tutti ciò era avvenuto? Perché
mai nessuno aveva sentito parlare di quella relazione se avesse avuto la
trasparenza delle cose onorevoli? Stransom ne sapeva a sufficienza degli
altri legami di Hague, dei suoi obblighi e della sua vita esteriore - per
tacere del suo carattere in generale - per essere certo che si trattava di
un'infamia. In un modo o nell'altro questa creatura era stata sacrificata
freddamente. Era questa la ragione per cui, adesso non meno di prima, egli
doveva continuare ad escluderlo.
IX.
Eppure questo non aveva risolto nulla, specie dopo aver detto alla sua
amica tutto ciò che, secondo i suoi pensieri, voleva chiederle di fare per lui
quando fosse giunta la fine. Gliene aveva parlato altre volte, e lei aveva
risposto con una franchezza attenuata solo da cortese riluttanza - riluttanza
a indugiare sull'argomento della morte di lui - che lo commosse. Essa
aveva poi finito per accettare l'incarico, consentendogli di capire che
poteva contare su di lei come ultima custode del suo sacrario; e in nome di
ciò che vi era stato fra loro la implorò di non abbandonarlo nella vecchiaia.
Adesso lei lo ascoltava con lucida freddezza, insistendo con la consueta
pazienza sulle proprie posizioni, e tanto più affettuosa appariva nel
deplorare quei discorsi, perché tradiva la compassione che provava nel
sentirlo abbandonato. Ciò nonostante le condizioni da lei poste
permanevano le stesse, appena meno intelligibili perché non pronunciate,
benché Stransom fosse sicuro che, nell'intimo, ancor più di lui ella si
Henry James
332
1970 - Racconti Di Fantasmi
sentisse defraudata della gioia che l'incarico solenne da lui affidatole le
avrebbe procurato. Entrambi sentivano la mancanza di un avvenire ricco,
ma era lei a sentirla di più, giacché in fin dei conti quell'avvenire avrebbe
dovuto appartenerle pienamente. Fu la sua accettazione di quella perdita
che permise a lui di misurare quanto il pensiero di Acton Hague superasse
in lei qualsiasi altro pensiero. Lui era ancora abbastanza dotato di spirito
per chiedersi con un amaro sorriso: «Perché diavolo deve piacerle tanto
più di me?» quando le ragioni per questo erano in realtà così ovvie. Ma
anche la capacità di analisi lo lasciava irritato, e questa irritazione finì col
dimostrarsi forse la più grande disgrazia che gli fosse mai capitata. Eppure
fino a quel momento non c'era stato nulla che gli avesse fatto tanto
desiderare di darsi per vinto. Naturalmente, l'età delle rinunce l'aveva
ormai raggiunta; ma ancora non gli era apparso con tanta chiarezza che era
tempo di rinunciare a tutto.
Infatti, passati sei mesi, aveva rinunciato all'amicizia un tempo così
piena di fascino, così consolatrice. Il privarsene presentava due facce, e in
occasione dell'ultimo tentativo compiuto al fine di coltivare quell'amicizia,
la faccia che gli si mostrò fu quella che meno si sentiva di contemplare.
Uno era il volto della privazione che egli infliggeva, l'altro quello della
rinuncia sofferta. Adesso, quand'era solo, gli capitava di mormorare tra sé
la condizione che lei non aveva mai espresso: - Ancora una, una sola, una
soltanto -. Per certo stava declinando: ne aveva sovente l'impressione,
quando, mentre lavorava, si sorprendeva a fissare il vuoto e a dar voce a
quel vaniloquio. Del resto la debolezza, il malessere che si sentiva addosso
ne erano prova sufficiente. L'irritazione si trasformò in malinconia, la
malinconia divenne convinzione di essere veramente ammalato. Per di più,
il suo altare aveva cessato di esistere; nel sogno, la cappella diventava un
grande antro buio. I lumi erano tutti spenti - tutti i suoi Morti erano
nuovamente morti. Dapprima non capì come la sua compagna di un tempo
avesse avuto il potere di estinguerli, giacché non era stato per lei, né grazie
a lei, che essi avevano preso vita. Poi comprese che la rinascita aveva
avuto luogo essenzialmente nella sua stessa anima e che ora essi non
potevano più attingere vita dall'atmosfera di tale anima. Materialmente, le
candele riuscivano ad ardere, ma ciascuna aveva perduto il proprio
splendore. La chiesa era diventata uno spazio vuoto: ad agire da
indispensabile medium erano state la sua presenza, la presenza di lei, la
loro presenza comune. Se v'era qualcosa di stonato, tutto era stonato - il
Henry James
333
1970 - Racconti Di Fantasmi
silenzio di lei guastava l'armonia.
Poi, trascorsi tre mesi, Stransom si senti così solo che vi ritornò,
considerando che, se per anni e anni i suoi Morti erano stati la sua
compagnia migliore, forse non avrebbero accettato che li abbandonasse
senza fare ancora qualcosa per lui. Eccoli là, come lui li aveva lasciati,
eretti nel loro splendore: grappolo luminoso che già altra volta, allorché si
sentiva incline a comparare le cose piccole alle grandi, egli aveva
paragonato a un gruppo di fari sulla riva dell'oceano della vita. Rimasto a
sedere per un poco, provò sollievo nell'avvertire ch'essi avevano ancora un
certo potere. Adesso si stancava sempre più facilmente e si faceva portare
in carrozza: il suo cuore era fiacco e non gli dava affatto la stessa sicurezza
che gli procurava la fantasia. Ciò nonostante tornò, e tornò di nuovo: tornò
parecchie volte, e da ultimo, per sei mesi consecutivi frequentò la cappella
con rinnovata assiduità, in uno stato di tensione impaziente. D'inverno la
chiesa non era riscaldata: esporsi al freddo gli era vietato, ma dal suo altare
emanava una luce quasi sufficiente a infondergli calore. Seduto nel banco,
si chiedeva a che cosa egli avesse ridotto la sua compagna assente, che
cosa ella stesse facendo in quelle ore, lontana da lui. C'erano altre chiese,
altri altari, altre candele: in una maniera o nell'altra ella avrebbe ancora
praticato la sua pietà; lui non avrebbe assolutamente potuto defraudarla dei
suoi riti. Andava così meditando, ma senza convincimento, perché sapeva
bene che quel simulacro di montagna di luce era per lei unico e
incomparabile: il solo capace di appagare in pieno le sue esigenze. E come
tale simulacro diventava sempre più grande per lui, e la sua pia
consuetudine si faceva sempre più regolare, lo strazio nell’immaginare il
buio dentro di lei si faceva sempre più intenso; perché mai come in queste
settimane il suo culto aveva avuto un significato, mai l'insieme delle luci
era parso così accogliente, addirittura invitante. Egli si perdeva nella
vastità luminosa, sempre più simile a quella che fin dall'inizio, aveva
desiderato: abbagliante come la visione del paradiso alla mente di un
bambino. Andava vagando per i campi di luce: passava, tra gli alti ceri, da
una fila all'altra, da fiammella a fiammella, da nome a nome, dal vivido
biancore di un dato simbolo a lui noto a un altro, da un salvato all'altro.
Godeva stranamente nel suo intimo per la tranquilla coscienza di aver
salvato delle anime. Non si trattava in questo caso di un'oscura salvazione
teologica, non della grazia d'un mondo contingente; quelle anime erano
salvate al di là della fede o delle opere, salvate per il mondo dei vivi da cui
Henry James
334
1970 - Racconti Di Fantasmi
si erano strappate morendo, salvate per il presente, per la continuità, per la
certezza dell'umana memoria.
Ormai egli era sopravvissuto a tutti i suoi amici; l'ultima fiamma
splendeva diritta, da tre anni, non c'era più nessuno da aggiungere alla
lista. Faceva ripetutamente l'appello, e gli pareva completo, compatto.
Dove avrebbe potuto includere un altro nome, dove, salvo altre obiezioni,
avrebbe potuto inserire un altro cero nella schiera? Con una ben
consapevole mancanza di sincerità, rifletté che sarebbe stato difficile
individuarne la collocazione. E inoltre, sempre più ponendosi faccia a
faccia con il suo piccolo drappello - leggendo e rileggendo cronache senza
fine, maneggiando gusci vuoti e giocando con il silenzio - sempre più si
rendeva conto di non aver mai fatto entrare là in mezzo un estraneo. Aveva
dato prova di grande compassione, di molta indulgenza: in taluni casi
erano state immense; ma cos'era stata dopo tutto la sua pratica devota, se
non - in fondo - una forma di rispetto? Ciò malgrado era sorpreso della
propria intransigenza; finito l'inverno, la responsabilità che gliene derivava
era ciò che più di ogni altra cosa occupava i suoi pensieri. Era ormai un
ritornello abusato, quella supplica richiesta di un altro cero. Venne il
giorno in cui, allo stremo delle forze, se la simmetria ne avesse richiesto
uno solo, un unico, egli si sentiva disposto ad accontentare la simmetria.
La simmetria era armonia, e cominciò ad essere perseguitato dall'idea di
armonia: diceva a se stesso che certo, l'armonia era tutto. Fece a pezzi con
la fantasia la sua composizione, ridistribuendola secondo schemi diversi,
creando altri accostamenti, altri contrasti. Spostò questa e quella candela
con effetti di spazi diversi, cancellando la stonatura di un possibile vuoto.
V’erano rapporti sottili e complessi, tutto uno schema geometrico, e
v'erano momenti in cui gli pareva di cogliere con lo sguardo quel vuoto
così percettibile per la donna errante in esilio, o rimasta seduta dov'egli
l'aveva vista, vicino al ritratto di Acton Hague. Proseguendo a questo
modo, finì per raggiungere un concetto dell'insieme, dell'ideale, che
lasciava evidentemente un'unica possibilità per un altro simbolo. «Una
sola, ancora una per completare il disegno; ancor una, una soltanto», gli
ronzava nella testa. Era un pensiero stranamente confuso, perché sentiva
avvicinarsi il giorno in cui lui stesso avrebbe fatto parte degli Altri. Che
gliene sarebbe importato allora degli Altri, poiché essi importano solo ai
vivi? Anche se avesse fatto parte dei Morti, che cosa avrebbe ancora
contato per lui il suo altare, poiché il suo sogno particolare di mantenerlo
Henry James
335
1970 - Racconti Di Fantasmi
vivo era svanito? Che importanza aveva in tal caso l'armonia, se tutte le
sue luci erano destinate a spegnersi? Aveva sperato in un'istituzione:
avrebbe potuto perpetuarla con qualche altro pretesto, ma il significato
particolare che egli vi attribuiva si sarebbe perduto. Quel significato era
inteso a durare tutta la vita dell'unica persona, oltre lui, che l'aveva colto.
In marzo ebbe una malattia che lo trattenne a letto due settimane:
quando si fu un po' rimesso, venne informato che due cose erano accadute.
Una, che una signora, il cui nome era ignoto ai domestici (non ne aveva
lasciato alcuno) era stata tre volte a chiedere di lui; l'altra, che nel sonno e
in un momento in cui evidentemente il suo cervello vagava lontano, lo si
era udito mormorare ripetutamente: «Ancora una, una sola». Non appena
si senti in condizioni di uscire, e prima di ottenerne la conferma dal
medico curante, presa una carrozza, andò a trovare la signora che era
venuta ad informarsi sul suo conto. Non era in casa; ma ciò gli offri
l'occasione - prima che le forze lo abbandonassero - di avviarsi alla volta
della chiesa. Vi entrò da solo; aveva rifiutato - nel modo garbato che gli
era proprio allo scopo di opporre un netto efficace rifiuto - la compagnia
del domestico o di un'infermiera. Ormai sapeva benissimo come la
pensava questa brava gente: avevano scoperto la sua relazione clandestina,
la calamita che lo aveva attirato per tanti anni, e indubbiamente avevano
attribuito un loro speciale significato alle strane parole che ali avevano
riferito. La signora senza nome era la sua relazione clandestina - e nulla
avrebbe potuto renderla più esplicita di quella indecorosa fretta di
raggiungerla.
Cadde in ginocchio davanti al suo altare, e reclinò il capo sulle mani. La
debolezza, il tedio della vita lo sopraffecero. Gli parve di essere venuto per
la resa finale. Dapprima si chiese come avrebbe fatto ad uscire; poi, col
diminuire della fiducia nelle proprie forze, il desiderio stesso di muoversi
da lì a poco a poco lo abbandonò. Era venuto, come sempre, per fuggire a
se stesso; i campi di luce stavano ancora dinanzi a lui per smarrirvisi;
soltanto che questa volta, se si fosse perduto, non sarebbe più tornato
indietro. Aveva dedicato la vita ai suoi Morti, e aveva fatto bene: questa
volta i Morti l'avrebbero trattenuto. Non riuscì a rialzarsi: credette di non
rialzarsi mai più; tutto ciò che potè fare fu sollevare il capo e fissare gli
occhi sulle luci. Esse brillavano di uno strano, insolito splendore, ma
quella che sempre lo aveva attirato di più splendeva di un fulgore senza
precedenti. Era la voce centrale del coro, il cuore ardente di quel luccichio,
Henry James
336
1970 - Racconti Di Fantasmi
e questa volta sembrava espandersi, spalancando grandi ali di fiamma.
Tutto l'altare sfolgorava, abbagliava accecante; ma la sorgente di quel
bianco sfavillio ardeva più luminosa del resto, assumendo una forma, e la
forma era quella della bellezza umana e dell'umana carità, era il volto
lontano di Mary Antrim. Gli sorrideva dalla gloria dei cieli... in quella
gloria discendeva a prenderlo. Stransom piegò il capo in segno
d'obbedienza, e nello stesso momento un'altra onda lo travolse. Era il
rapido mutarsi della gioia in dolore? Nel pieno di quella gioia comunque
senti che il suo volto, nascosto fra le mani, avvampava come per una
nuova consapevolezza che aveva la forza di un rimprovero. Di colpo senti
come proprio quell'estasi contrastasse con la felicità senza limiti che egli
aveva negato ad un'altra persona. Quel soffio di passione immortale era
tutto quello che l'altra gli aveva chiesto; la discesa di Mary Antrim aperse
il suo spirito ad un profondo anelito di pentimento per aver negato la
discesa di Acton Hague. Era come se Stransom lo avesse letto nei suoi
occhi.
Un momento dopo si guardò intorno disperato: ebbe la sensazione che la
sua linfa vitale si stesse inaridendo. La chiesa era vuota -era solo; ma
voleva fare qualcosa, rivolgere un'ultima preghiera. Quest'idea gl'infuse
sufficiente energia per compiere uno sforzo. Si alzò in piedi con un
movimento che lo fece voltare, sostenendosi alla spalliera di una panca.
Dietro di lui c'era una figura prosternata, una figura che altre volte aveva
visto, una donna in lutto stretto che pregava, chiusa nel suo dolore. L'aveva
vista in tempi passati - la prima volta che aveva messo piede in quel sacro
luogo. Ora vacillò un poco, fissandola di nuovo finché ella sembrò
accorgersi di essere stata notata. Essa alzò il capo e incontrò gli occhi di
lui: la compagna della sua pratica devota, tanto a lungo esercitata, era
tornata. Ricambiò il suo sguardo per un istante con un viso che esprimeva
meraviglia e timore: Stransom capì di averla spaventata. Ella si alzò in
fretta e gli venne incontro tendendogli tutt'e due le mani.
- Allora è potuta venire? Dio l'ha mandata! - egli disse sottovoce,
sorridendo felice.
- Lei sta molto male... non dovrebbe trovarsi qui, - replicò lei ansiosa.
- Dio ha mandato anche me, credo. Stavo male quando sono venuto, ma
il vederla opera miracoli -. Tenne strette le sue mani che gli ridavano
energia e equilibrio. - Debbo dirle una cosa.
- Non me la dica! - ella lo supplicò con dolcezza. - Lasci che gliela dica
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
io. Quest'oggi, per miracolo, per il più dolce dei miracoli, la pena del
nostro dissenso mi ha lasciata. Ero fuori, ero qui nelle vicinanze, e pensavo
e riflettevo tutta sola, quando, di punto in bianco, qualcosa nel mio cuore è
mutato. È la mia confessione questa: eccola. Tornare, tornare
immediatamente... l'idea mi ha dato le ali. È stato come se mi apparisse
qualcosa all'improvviso, come se tutto divenisse possibile. Potevo anch'io
venire per la stessa ragione per cui veniva lei. Ed eccomi. Non è per me
che vengo: quella è una storia finita. Sono qui per loro -. E ansimando,
immensamente sollevata dalla spiegazione precipitosa bisbigliata
sottovoce, fissò il loro sfolgorante altare con occhi che ne riflettevano tutto
lo splendore.
- Loro sono qui per lei, - disse Stransom, - presenti questa sera come non
mai. Parlano per lei, non vede?, esultanti di luce; cantano in coro come gli
angeli. Non sente quello che dicono? Le offrono proprio quello che lei mi
aveva chiesto.
- Oh, non ne parli... Non ci pensi; lo dimentichi! - La sua era una
supplica sommessa e, mentre i suoi occhi tradivano un allarme più vivo,
liberò una delle mani e lo circondò col braccio per meglio sorreggerlo, per
aiutarlo ad accasciarsi su una panca.
Stransom si abbandonò, appoggiandosi a lei; si lasciò cadere sul sedile
ed ella gli si inginocchiò accanto, col braccio di lui che le cingeva la
spalla. Così egli rimase un istante, con lo sguardo fisso al suo sacrario.
- Pare che ci sia un vuoto... dicono che la parata non è piena, non è
completa. Ancora una, una sola, - soggiunse dolcemente. -Non è questo
che lei voleva? Sì, ancora una, una sola.
- Ah, basta, basta, non più, - ella gemette soffocando la voce, come se
l'avesse colta un improvviso senso di terrore.
- Sì, ancora una, - ripeté lui semplicemente; - una soltanto! -E così
dicendo abbandonò la testa sulla spalla di lei, ed essa credette che la
debolezza l'avesse fatto venir meno. Sola con lui nella chiesa ormai buia fu
presa da un gran terrore per ciò che poteva accadere, giacché il viso di
Stransom aveva il pallore della morte.
Traduzione di Maria Luisa Castellani Agosti.
GLI AMICI DEGLI AMICI
Proprio come Lei aveva previsto, trovo parecchio di interessante, ma
Henry James
338
1970 - Racconti Di Fantasmi
poco che faciliti il delicato problema di una possibile pubblicazione. I diari
sono meno sistematici di quanto avrei sperato; aveva la benedetta
abitudine di annotare e raccontare. Riassumeva, accantonava; in verità, è
raro il caso che abbia trascurato un episodio di rilievo senza coglierlo al
volo. Alludo naturalmente non tanto a vicende di cui avesse inteso parlare,
quanto a cose viste o vissute da lei stessa. A volte scrive di sé, a volte di
altri, a volte ancora di sé insieme ad altri; in genere, è sotto quest'ultimo
aspetto che appare più penetrante. Ma, come Lei comprende, non è
precisamente quando si rivela più penetrante che può risultare più
pubblicabile. E terribilmente indiscreta, a dire il vero, o almeno presenta
tutto il materiale che occorre perché lo diventi anch'io. Prenda ad esempio
il frammento che Le invio, dopo averlo diviso per Sua comodità in tanti
capitoletti. È il contenuto di un quaderno che ho fatto trascrivere, e che ha
il vantaggio di formare più o meno un tutto, un insieme intelligibile.
Queste pagine risalgono evidentemente a parecchi anni fa. Ho letto con
vivissimo stupore il resoconto tanto circostanziato che vi è contenuto e ho
fatto del mio meglio per trangugiare l'elemento prodigioso che vi è
implicito. Cose del genere colpirebbero la fantasia di qualsiasi lettore - non
Le sembra? Ma Lei può immaginare un solo istante che io dia pubblicità a
un tal documento, anche se la scrittrice, quasi desiderosa che un simile
privilegio sia riservato al pubblico, non ha contrassegnato i suoi amici né
con nomi né con iniziali? Forse che Lei è in possesso di un qualunque
vago indizio che porti a riconoscerli?
Cedo il campo alla narratrice.
I.
Certo, so benissimo di essere stata io la causa di tutto; ma questo non
migliora la situazione. Fui io la prima a parlargli di lei: lui non l'aveva mai
nemmeno sentita nominare. Anche se non gliene avessi parlato io, ci
avrebbe pensato qualcun altro: in seguito ho cercato di consolarmi con
questa riflessione. Ma le riflessioni sono un magro conforto: l'unica
consolazione che conti al mondo è non essere stati stupidi, uno stato di
grazia del quale, senza dubbio, io non godrò mai. «Penso che dovresti
conoscerla, che dovreste discorrerne insieme», fu la prima cosa che gli
dissi; «ogni simile cerca il suo simile». Gli raccontai chi era lei e gli
spiegai perché erano simili: se lui aveva vissuto in gioventù una
Henry James
339
1970 - Racconti Di Fantasmi
straordinaria esperienza, pressappoco alla stessa epoca lei ne aveva vissuta
una analoga. La vicenda era nota ai suoi amici che di continuo la
invitavano a raccontarla. Era una ragazza simpatica, intelligente, graziosa,
infelice, ma la sua notorietà era essenzialmente legata a quella storia.
All'età di diciott'anni, trovandosi all'estero con una zia, aveva avuto la
visione di uno dei suoi genitori in punto di morte. Il padre si trovava in
Inghilterra, a centinaia di miglia di distanza, e per quanto risultava a lei né
moribondo né morto. Era accaduto di giorno, nel museo di una qualche
grande città straniera. Da sola, precedendo i compagni, era entrata in una
saletta che conservava una famosa opera d'arte. In quel momento vi
stavano altre due persone: una era un vecchio custode, l'altra, che a tutta
prima lei non osservò, le parve un forestiero, un turista. Si accorse appena
che era a capo scoperto e seduto su una panca. Ma nell'attimo in cui i suoi
occhi si posarono su di lui, riconobbe suo padre, che, quasi la stesse
aspettando da tempo, la guardò con un'espressione di particolare pena e
un'impazienza che rasentava il rimprovero. Ella gli corse vicino con un
grido attonito: - Cosa c'è, babbo? - ma ben più forte fu lo stupore che
manifestò subito dopo, quando, al suo accorrere, l'uomo semplicemente
svanì, mentre intorno a lei si radunavano sgomenti il custode e i famigliari
che la seguirono da vicino. Queste persone - l'inserviente, la zia, i cugini furono quindi in certa misura testimoni del fatto, o almeno
dell'impressione che le aveva causato; vi fu inoltre la testimonianza di un
medico che si trovava al seguito di un membro della comitiva e che, subito
informato della cosa, le somministrò un rimedio contro l'isterismo, dicendo
però in disparte alla zia: - Sarà bene accertarsi che a casa non sia successo
nulla -. Qualcosa era davvero successo: il povero padre, colto da un
improvviso e violento malore, era morto quella mattina stessa. La zia -una
sorella della madre - ricevette prima di sera un telegramma che le
annunciava l'accaduto e la pregava di preparare la nipote. La nipote era già
preparata; e quell'apparizione lasciò ovviamente nella giovinetta
un'impressione indelebile. La notizia raggiunse ciascuno di noi suoi amici,
e ognuno di noi la comunicò riservatamente all'altro. Erano passati dodici
anni: fattasi donna, dopo un infelice matrimonio e la separazione dal
marito, era diventata per altro verso un personaggio degno d'interesse; ma
poiché il suo nuovo cognome era molto frequente e, dato l'andazzo dei
tempi, il fatto che fosse legalmente separata non costituiva una
connotazione particolare, era invalso l'uso di qualificarla come «quella
Henry James
340
1970 - Racconti Di Fantasmi
tale, sai, che ha visto il fantasma del padre».
Quanto a lui, povero caro, aveva visto quello della madre, - ed ecco il
punto! Non l'avevo mai saputo fino al momento in cui, fattasi più intima e
confidenziale la nostra conoscenza, egli si trovò, attraverso non so più qual
giro di discorsi, ad accennare alla cosa; ciò mi spinse a informarlo che in
quel campo aveva una rivale, una persona con cui gli sarebbe stato
possibile un confronto d'esperienze. Più tardi la sua vicenda, forse per
averla io inopportunamente riferita, divenne anche per lui un'etichetta
mondana di comodo; ma non era per questo che, un anno prima, me
l'avevano presentato. Aveva ben altri meriti (così come ne aveva lei,
poverina). Posso onestamente affermare che me ne resi conto fin dal primo
istante: li scopersi prima che lui scoprisse i miei. Ricordo che mi colpi fin
d'allora il fatto che la sua intuizione delle mie qualità fosse agevolata dalla
circostanza che io avessi saputo associare - sebbene non proprio per mia
diretta esperienza - il suo strano caso a un altro. Risaliva quest'episodio,
come quello di lei, a una dozzina d'anni addietro, un anno in cui, a Oxford,
per qualche speciale motivo, egli aveva prolungato il suo soggiorno fino
alle vacanze estive. Quel pomeriggio d'agosto era stato sul fiume. Tornato
nella sua stanza, nella luce ancor chiara del giorno, vi aveva trovato sua
madre, in piedi, con lo sguardo come fisso in direzione dell'uscio. Quella
mattina egli aveva ricevuto da lei una lettera dal Galles, dove essa
soggiornava nella casa paterna. Nel vedere il figlio gli aveva teso le
braccia con un sorriso straordinariamente radioso e poi, nell'attimo in cui
egli le era corso incontro felice, a braccia aperte, si era dileguata. La sera
stessa egli le aveva scritto narrandole l'accaduto, e questa lettera era stata
accuratamente conservata. L'indomani mattina ebbe la notizia della morte
di sua madre. Discorrendone per caso con me, egli rimase assai colpito dal
piccolo prodigio rivelatogli dal mio racconto: non gli era mai avvenuto
d'imbattersi in un caso analogo al suo. Senza dubbio era bene che lui e la
mia amica s'incontrassero; senza dubbio avrebbero trovato qualche punto
in comune! Potevo combinare io l'appuntamento, nevvero? purché lei non
avesse nulla in contrario; per conto suo, era disponibilissimo. Promisi che
avrei parlato al più presto alla mia amica, e lo feci quella settimana stessa.
«Nulla in contrario» neanche per lei: era perfettamente disposta a vederlo.
E tuttavia nessun incontro - nel senso che comunemente si dà alla parola era destinato ad aver luogo.
Henry James
341
1970 - Racconti Di Fantasmi
II.
Questo costituisce appunto metà della mia storia: lo straordinario modo
in cui l'incontro venne impedito. Ne fu causa una serie d'incidenti; ma gli
incidenti si protrassero per anni e divennero, per me e per gli altri, un
argomento di celia con tutti e due; abbastanza divertenti all'inizio, finirono
col diventare un po' stucchevoli. Lo strano era che entrambe le parti in
causa erano disponibili: non si trattava certo d'indifferenza da parte loro,
né tanto meno di avversione. Fu un capriccio del caso, aiutato - direi - da
qualche contrasto d'interessi e di abitudini. Quelli di lui erano concentrati
nel suo ufficio, il suo eterno ispettorato, che gli lasciava scarso tempo
libero chiamandolo di continuo di qua e di là e costringendolo ad annullare
gli impegni. Gli piaceva la buona compagnia, ma la trovava ovunque e la
coglieva al volo. Non sapevo mai dove si trovasse a un dato momento e a
volte stavo mesi interi senza vederlo.
Lei, dal canto suo, era praticamente relegata in periferia: abitava a
Richmond e non andava mai «fuori». Era una donna di classe, ma non da
salotto e, come diceva la gente, consapevole della sua situazione.
Decisamente orgogliosa e piuttosto bizzarra, viveva la sua vita secondo un
preciso programma. V'erano cose che le si potevano chiedere, ma era
impossibile indurla a partecipare a un ricevimento in casa d'altri.
A quelli offerti da lei - che consistevano nella presenza di una cugina, in
una tazza di tè e nel panorama - ci si andava, in verità, più di quanto fosse
il caso. Il tè era buono, ma il panorama era arcinoto, anche se forse non
così sgradevolmente arcinoto come la cugina, un'antipatica vecchia zitella
che aveva fatto parte della comitiva del museo e con la quale adesso ella
viveva. Questo suo rapporto con una parente di ceto inferiore, dettato in
parte da motivi economici (a sentir lei la sua compagna era
un'amministratrice perfetta), costituiva una delle piccole stravaganze che le
si dovevano perdonare. Un'altra era la sua stima del patrimonio che la
rottura col marito le aveva assicurato: una stima esorbitante, non pochi la
trovavano addirittura patologica. Da parte sua, lei non faceva avances;
coltivava degli scrupoli ed era sospettosa - o dovrei forse dire memore - di
certi torti; fra le donne di mia conoscenza era una delle poche che quella
situazione aveva reso mite piuttosto che audace.
Poverina! Aveva certe forme di delicatezza!... Specialmente netti erano i
limiti da lei posti a possibili attenzioni da parte maschile: era suo pensiero
Henry James
342
1970 - Racconti Di Fantasmi
costante che il marito fosse sempre in attesa di piombare su di lei.
Scoraggiava, quando non giungeva a proibire, le visite di uomini, se non
molto anziani; diceva che la prudenza non era mai troppa.
Quando per la prima volta le dissi che avevo un amico a cui la sorte
aveva riservato la stessa misteriosa caratteristica, avrebbe potuto
benissimo rispondermi: - Oh, portalo a farmi visita! - Non avrei avuto
difficoltà ad accompagnarlo, e si sarebbe venuta a creare una situazione
del tutto innocente o, comunque, relativamente semplice. Ma lei si guardò
bene dal pronunciare quell'invito, limitandosi a dire: - Ah, certo, devo
conoscerlo; sf, lo cercherò -. Il che diede origine al primo rinvio, e nel
frattempo successero varie cose. Per esempio, col passare del tempo,
affascinante com'era, si circondò di un numero sempre crescente di amici, i
quali regolarmente, guarda caso, erano anche abbastanza amici di lui per
farne oggetto di conversazione. Era strano che pur non appartenendo, per
così dire, allo stesso mondo o, per usare un'orribile espressione, allo stesso
«giro», la mia contrastata coppia dovesse in tanti casi frequentare le stesse
persone, facendo sì che si unissero al buffo coro. Lei aveva amici che,
senza conoscersi l'un l'altro, immancabilmente e inevitabilmente le
facevano gli elogi di lui. Aveva inoltre quel genere di originalità,
quell'intrinseco interesse che la facevano considerare da ciascuno di noi
una specie di risorsa personale, coltivata gelosamente, più o meno in
segreto: come qualcuno che non s'incontri in società, che non a tutti sia
dato avvicinare - in ogni caso non alla gente comune - e la cui conoscenza
sia perciò particolarmente difficile, particolarmente preziosa. La si vedeva
in separata sede, dietro appuntamento e in base a patti speciali, e
trovavamo che nel complesso tornava a vantaggio del generale buon
accordo non parlarne fra noi. C'era sempre qualcuno che riceveva un suo
biglietto dopo che l'aveva ricevuto un altro; c'era sempre qualche signora
sciocca che, rimasta a lungo nel numero dei non privilegiati, per essere
stata tre volte in visita a Richmond, godeva poi fama di essere in intimità
con «un mucchio di gente intelligente e fuori del comune».
Ognuno di noi ha avuto amici che ci è sembrata ottima idea far
incontrare con altri, e ognuno ricorda come alle nostre migliori idee non
abbiano sempre corrisposto i maggiori successi; dubito però che ci sia mai
stato un caso in cui l'insuccesso sia stato in proporzione così diretta alle
pressioni esercitate. Forse, in questo caso, l'aspetto della vicenda che più
colpisce è la quantità delle pressioni messe in moto. Sia la signora che il
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1970 - Racconti Di Fantasmi
signore in questione si presentavano a mio giudizio - e a quello di altri come il soggetto d'una farsa esilarante. Il motivo addotto la prima volta
s'era un po' sbiadito con l'andare del tempo, e sopra di esso ne era fiorita
una cinquantina di più validi. I due si assomigliavano tanto: avevano le
stesse idee, manie e gusti, gli stessi pregiudizi, superstizioni ed eresie;
dicevano e talvolta facevano le stesse cose; avevano simpatia o antipatia
per le stesse persone e gli stessi luoghi, per gli stessi libri, gli stessi autori e
stili; chiunque avrebbe potuto scorgere in loro una certa somiglianza
perfino nell'aspetto esteriore, nei lineamenti. Nel linguaggio usuale
venivano giudicati altrettanto «simpatici» e quasi altrettanto belli; e anche
questo era un connotato di rilievo. Ma l'affinità più grande, oggetto di
stupore e di chiacchiere, era la loro straordinaria avversione a farsi
fotografare. Erano, a quanto si diceva, gli unici a non essere stati «ripresi»
neppure una volta e a non volerne assolutamente sapere. Mai lo avrebbero
tollerato, ad onta di tutti i possibili discorsi. Io avevo espresso loro il mio
aperto disappunto in proposito; in particolare era l'immagine di lui che
avevo invano desiderato esporre, in una cornice di Bond Street, sulla
mensola del camino nel mio salotto. Ad ogni modo era questa la più valida
di tutte le ragioni per cui avrebbero dovuto conoscersi - ogni altra essendo
annullata dalla strana legge per cui si erano sbattuti tante volte la porta in
faccia e che li aveva resi simili ai due secchi di un pozzo, o ai due sedili
dell'altalena, o ai due partiti di stato; sicché, quando uno era su, l'altro era
giù, quando uno era fuori, l'altro era dentro; né mai avveniva che uno dei
due entrasse in una casa finché l'altro non ne era uscito o che la lasciasse,
all'insaputa di tutti, prima dell'arrivo dell'altro. Giungevano solo al
momento in cui s'era rinunciato alla loro presenza, e che coincideva con
quello del commiato. Erano insomma alterni e incompatibili; si evitavano
con un'ostinazione che si sarebbe potuta spiegare solo col fatto di essere
preordinata. Era però tanto lungi dall'esserlo che aveva finito,
letteralmente, dopo parecchi anni, col deluderli e con l'infastidirli. Credo
che fossero diventati curiosi di conoscersi solo dopo che tale curiosità si
era rivelata del tutto vana. Naturalmente si fece il possibile per aiutarli, ma
fu come tendere dei fili di ferro sul loro cammino. Per fornire esempi avrei
dovuto prendere appunti; mi ricordo però per caso che non ci fu mai verso
di farli partecipare insieme ad un pranzo. L'occasione buona per l'uno non
poteva che essere sbagliata per l'altro. Alle occasioni sbagliate erano
ambedue puntualissimi, e non ve ne furono mai se non di sbagliate. Gli
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1970 - Racconti Di Fantasmi
elementi stessi cospiravano contro di loro, aiutati dalla fragilità umana.
Infallibilmente sopravveniva qualcosa: un raffreddore, un mal di capo, un
lutto, un temporale, una nebbia, un terremoto, un cataclisma. L'intera
faccenda superava i limiti della burletta.
Eppure, come una burletta andava pur sempre presa, benché non si
potesse fare a meno di sentire che lo scherzo aveva reso seria la situazione,
creando in entrambi una consapevolezza, un imbarazzo, una vera e propria
paura dell'ultimo degli incidenti possibili, l'unico cui restasse un sapore di
novità: quello che li avrebbe fatti incontrare faccia a faccia; un istinto
corroborato da quella serie di precedenti. Provavano un vero senso di
vergogna, forse anche un po' reciproca. Tanta preparazione, tanta
frustrazione: in verità, che cosa poteva esserci di così importante da
necessitare tanti preparativi? Un semplice incontro sarebbe stato solo una
piatta banalità. Potevo immaginarmeli - mi chiedevano spesso entrambi messi stupidamente a confronto dopo tanti anni? Se lo scherzo li aveva
annoiati, qualcos'altro avrebbe potuto annoiarli ancor più. Facevano
esattamente le stesse constatazioni, e in qualche maniera ciascuno veniva
immancabilmente a sapere ciò che aveva detto l'altro. Credo davvero che,
dopo tutto, sia stato grazie a questo speciale genere di diffidenza che la
situazione potè rimanere sotto controllo. Voglio dire che, se per un anno o
due non erano riusciti ad incontrarsi per causa di forza maggiore, in
seguito ne avevano mantenuta l'abitudine perché s'erano - come dire? innervositi. Ci voleva proprio un oscuro sforzo di volontà per rendere
plausibile un fatto così assurdo.
III.
Quando, a coronamento della nostra lunga conoscenza, io accettai la
rinnovata proposta di matrimonio ch'egli mi fece, si disse scherzosamente
in giro - lo so - ch'io avevo posto come condizione il dono di una sua
fotografia. Il che era vero, nel senso che avevo rifiutato di dargliene una
mia se non dopo aver avuto la sua. Comunque, finalmente la possedevo,
esposta in tutta la sua aristocratica distinzione sulla mensola del caminetto,
dove, il giorno in cui venne a farmi i rallegramenti, ella ebbe modo di
vederlo più da vicino di quanto le fosse mai capitato. Col farsi fotografare,
egli le aveva dato un esempio che io la esortai a seguire: se lui aveva fatto
sacrificio della sua eccentricità, perché lei non avrebbe fatto lo stesso?
Henry James
345
1970 - Racconti Di Fantasmi
Anche lei doveva pur regalarmi qualcosa per il fidanzamento: non voleva
farmi dono d'un pezzo a riscontro? Ella rise e scosse il capo: aveva una
maniera di scuotere il capo che sembrava trarre impulso da lontano, come
il soffio di brezza che fa dondolare un fiore. Il riscontro giusto per il
ritratto del mio futuro marito era il ritratto della sua futura moglie! Quanto
a lei, restava sulla sua posizione: non poteva discostarsene, così come non
era in grado di spiegarla. Era un pregiudizio, un entètement, un voto:
sarebbe vissuta e morta senza farsi fotografare. Per di più, ora era rimasta
sola in quella condizione: era questo che le piaceva: la rendeva tanto più
originale. Si rallegrò del cedimento del suo antico sodale e ne guardò a
lungo l'effigie, senza fare commenti particolari, ma non senza averla
rigirata osservandone il rovescio. A proposito del nostro fidanzamento, fu
carissima: piena di cordialità e di simpatia. - Tu lo conosci da tanto più
tempo di quanto non lo conosco io, - disse, - e mi pare già un secolo -.
Capiva benissimo che, avendo valicato insieme monti e valli, era ormai
inevitabile che ci riposassimo insieme. Espongo tutto questo con scrupolo,
perché quel che avvenne in seguito è così strano che mi dà una specie di
sollievo segnare con esattezza fino a quale momento i nostri rapporti si
mantennero del tutto normali. Sono stata io, in un improvviso accesso di
follia, a guastarli e a distruggerli. Capisco adesso che non fu lei a
fornirmene il pretesto e che fui io a trovarlo nel modo in cui ella guardò il
bel viso nella cornice di Bond Street. Come volevo dunque che lo
guardasse? Quel che io avevo desiderato fin dall'inizio era che lei
s'interessasse a lui. Ebbene, era ancora ciò che volevo... fino al momento
in cui ella mi promise che stavolta mi avrebbe davvero aiutata a spezzare
lo stolto incantesimo che fin allora li aveva divisi. Con lui avevo
convenuto che avrebbe fatto la sua parte se lei avesse fatto altrettanto
brillantemente la propria. Ma adesso mi trovavo in una situazione diversa:
quella di garantire per lui. Dissi che avrei combinato in modo tassativo di
farglielo trovare lì sabato prossimo, alle cinque del pomeriggio. Lui era
fuori città per un affare urgente, ma se s'impegnava a mantenere la
promessa alla lettera, sarebbe ritornato apposta e con abbondante margine
di tempo. - Ne sei assolutamente sicura? - ricordo che mi domandò lei con
aria grave e pensierosa; mi parve che fosse un poco impallidita. Era stanca,
ma si sentiva bene: era un peccato, dopo tutto, che lui dovesse vederla in
un momento così sfavorevole. Se soltanto avesse potuto incontrarla cinque
anni prima! Comunque, le risposi che stavolta ero sicura e che perciò
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1970 - Racconti Di Fantasmi
l'esito positivo dipendeva unicamente da lei. Sabato alle cinque l'avrebbe
trovato in una certa poltrona che le additai: era quella che egli occupava di
solito e in cui (ma questo non lo dissi) era seduto la settimana prima,
quando aveva posto a me la questione del nostro futuro in modo da
indurmi ad accettare. Lei guardò la poltrona senza proferir parola, proprio
come aveva guardato la fotografia, mentre per l'ennesima volta io le
ripetevo ch'era del tutto assurdo non riuscire in qualche modo a presentare
la propria migliore amica al proprio secondo se stesso. - Davvero sono la
tua migliore amica? -mi chiese con un sorriso che le restituì per un istante
la sua bellezza. Le risposi stringendomela al cuore; dopo di che mi disse: Va bene, verrò. Ho una paura terribile, ma conta su di me.
Quando m'ebbe lasciata, incominciai a chiedermi di che cosa avesse
paura, perché aveva parlato come se lo pensasse davvero. Nel tardo
pomeriggio dell'indomani ricevetti due righe da lei: tornata a casa, aveva
trovato l'annuncio della morte di suo marito. Non lo vedeva più da sette
anni, ma desiderava che io ne fossi informata così, prima di venirlo a
sapere per altre vie. Nondimeno - triste e strano a dirsi - la circostanza
faceva così poca differenza nella sua vita, che essa avrebbe
scrupolosamente rispettato l'impegno. Io ne fui lieta per lei: immaginavo
che avrebbe avuto più denaro - almeno quella differenza ci sarebbe stata:
ma pur sforzandomi, così, di pensare ad altro, ero ben lungi dal
dimenticarmi che aveva detto di aver paura e mi pareva anzi d'intravvedere
il perché di quelle parole. Con l'avanzare della sera quella paura diventò
contagiosa e in cuor mio prese la forma di un improvviso panico. Non era
gelosia - era paura della gelosia. Mi diedi della sciocca per non essermene
stata tranquilla fino al nostro matrimonio. Dopo, mi sarei in certo modo
sentita sicura. Si trattava solo d'aspettare un altro mese: un'inezia per chi
aveva già aspettato tanto. Era stato abbastanza evidente che lei si sentiva
inquieta, e naturalmente non lo sarebbe stata meno adesso che era libera.
Che cos'era dunque la sua inquietudine, se non un presentimento? Finora
era stata lei a incontrare ostacoli, ma era ben possibile che d'ora in poi
fosse lei a crearli; e in tal caso ne sarebbe stata vittima la povera
sottoscritta. Cosa avevano significato tutti quei disguidi, se non un segnale
di pericolo frapposto dal dito della Provvidenza? Il pericolo, beninteso,
riguardava me, poveretta. Era stato tenuto a bada da una serie d'incidenti di
una frequenza senza uguali, ma ora il dominio dell'accidentale era
chiaramente finito. Avevo l'intima convinzione che entrambi si sarebbero
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1970 - Racconti Di Fantasmi
trovati all'appuntamento; sentivo sempre più incombere su di me
l'impressione che si avvicinassero, che convergessero. Assomigliavano ai
cercatori dell'oggetto nascosto nel gioco «acqua-fuoco»: entrambi erano
ormai entrati nella fase del «brucia!» Avevamo parlato di spezzare
l'incantesimo; ebbene, sarebbe stato spezzato efficacemente -a meno che,
in realtà, non facesse che prendere un'altra forma, moltiplicando i loro
incontri come aveva moltiplicato le loro fughe. Erano pensieri che
m'impedivano di starmene tranquilla a riflettere; mi tenevano sveglia - a
mezzanotte ero ancor tutta agitata. Alla fine sentii che c'era un unico
mezzo per esorcizzare lo spettro. Se il dominio dell'accidentale era chiuso,
toccava a me prenderne la successione. Mi sedetti e in tutta fretta scrissi a
lui un biglietto che lo avrebbe atteso al ritorno. Poiché i domestici erano
andati a dormire, uscii di corsa a capo scoperto nella strada vuota spazzata
dal vento, e lasciai cadere il biglietto nella buca più vicina. Gli avevo
scritto che non mi sarebbe stato possibile essere a casa nel pomeriggio
come avevo sperato, e che lo pregavo di ritardare la visita fino all'ora di
cena. Questo significava che mi avrebbe trovata sola.
IV.
Quando, come d'accordo, alle cinque lei comparve, naturalmente mi
sentii bugiarda e vile. Il mio gesto era stato frutto d'una momentanea follia,
ma almeno dovevo comportarmi di conseguenza. Ella rimase un'ora; lui
ovviamente non si fece vedere, e io non potei che persistere nella mia
slealtà. Avevo ritenuto più opportuno lasciare che lei venisse; per quanto
strano ciò mi appaia ora, pensavo così di diminuire la mia colpa. E
tuttavia, quando mi fu di fronte così pallida e visibilmente stanca, turbata
da tutto quello che la morte del marito doveva aver ridestato, provai una
trafittura quasi insopportabile di pietà e di rimorso. Se non le dissi lì per lì
ciò che avevo fatto, fu perché me ne vergognai troppo. Mi finsi stupita, e
continuai nella finzione sino all'ultimo; asserii che mai come quel giorno
m'ero sentita sicura del fatto mio. Arrossisco nel narrare la mia storia:
l'accetto come una penitenza. Non ci fu termine indignato che non usassi
contro di lui; inventai delle congetture, delle attenuanti; ammisi in tono di
gran meraviglia, mentre le sfere del pendolo continuavano a camminare,
che la loro sorte non era mutata. Ella sorrise a quella visione della loro
«sorte», ma aveva un'aria ansiosa, un aspetto insolito; l'unico conforto era
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il vederla - abbastanza stranamente - vestita a lutto: non una gran
profusione di crespo, ma un nero semplice, rigoroso. Portava un cappellino
adorno di tre piccole penne nere: in mano teneva un piccolo manicotto di
astrakan Questi particolari, con l'aiuto di qualche attenta riflessione,
valsero un po' a rimettermi in sesto. Essa mi aveva scritto che l'improvviso
avvenimento non modificava il corso della sua vita, ma evidentemente un
certo cambiamento c'era stato. Se era incline a rispettare le forme usuali,
perché non rispettava quella di non uscire a far visite per un paio di giorni?
C'era dunque qualcuno che lei desiderava tanto conoscere da non aspettare
nemmeno che suo marito fosse seppellito. Lo stato di tensione tradito da
un tale atteggiamento mi rese abbastanza dura e crudele da porre in atto il
mio odioso inganno, benché, nello stesso tempo, col volgere dell'ora,
cominciassi a sospettare in lei qualcosa di ancor più profondo della
delusione, qualcosa che le era più difficile dissimulare. Voglio dire uno
strano sollievo latente, come il debole sommesso sospiro che segue
l'allontanarsi di un pericolo. Ciò che avvenne al termine di quella squallida
ora passata con me, fu che essa finì col rinunciare a lui. Lo lasciò andare
per sempre. Trattò la cosa nel modo più spiritoso che mai mi fosse
avvenuto di vedere; ma, nonostante tutto, fu quello un momento cruciale
nella sua vita. Con la sua mite gaiezza parlò di tutte le altre occasioni
mancate, di quella lunga partita a rimpiattino, della bizzarria senza
precedenti di un tale rapporto. Perché era, o era stato, un rapporto, non è
vero? Ecco in che consisteva il lato assurdo della faccenda. Quando si alzò
per andarsene, le dissi che quel loro rapporto era più vivo che mai, ma che,
dopo quanto era accaduto, non avevo il coraggio di proporle per il
momento un'altra occasione. L'unica valida, indiscutibilmente, sarebbe
stata quella del mio avvenuto matrimonio. Certo sarebbe venuta alle mie
nozze? C'era perfino da sperare che ci fosse anche lui.
- Se ci sarò io, non ci sarà lui! - dichiarò con una breve, tremula risata; e
io ammisi che ci poteva essere un po' di vero in quelle parole.
L'importante, perciò, era che prima di tutto si celebrassero le nozze. - Ma
non servirà! Nulla può servire! - esclamò congedandosi da me con un
bacio. - Non lo vedrò mai, mai! - E così dicendo mi lasciò.
Ero riuscita a sopportare ciò che ho chiamato la sua delusione; ma
quando, un paio d'ore dopo, ricevetti lui per il pranzo, mi resi conto di non
saper sopportare quella di lui. Non m'ero particolarmente preoccupata della
reazione che la mia manovra avrebbe provocato da parte sua; ma il
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1970 - Racconti Di Fantasmi
risultato fu che per la prima volta udii dalle sue labbra una parola di
rimprovero. Dico «rimprovero» perché questa parola non è davvero
esagerata per i termini in cui egli mi manifestò la sua sorpresa: come mai,
in quell'eccezionale circostanza, non avevo trovato qualche modo per non
privarlo di una simile occasione? Davvero, avrei potuto fare in maniera di
non esser costretta ad uscire, o comunque far sì che potessero ugualmente
incontrarsi. Probabilmente se la sarebbero cavata benissimo nel mio salotto
anche senza di me. A questo punto crollai: confessai la mia iniquità e la
meschina ragione che l'aveva dettata. Non avevo disdetto il mio
appuntamento con lei e non ero uscita; lei era venuta e l'aveva aspettato
per un'ora, poi se n'era andata, convinta ch'egli fosse mancato per sua
propria colpa.
- Deve giudicarmi un vero bruto! - esclamò lui. - Ha detto di me... - e
ricordo che in quella pausa trattenne per un attimo il respiro, - quel che
aveva il diritto di dire?
- Ti assicuro che non ha detto nulla che rivelasse il minimo sentimento.
Ha guardato la tua fotografia, l'ha rigirata, e dietro, guarda caso, c'è scritto
il tuo indirizzo. Ma neppure questo ha provocato in lei la minima reazione.
Non gliene importa poi tanto.
- E allora, perché hai paura di lei?
- Non era di lei che ho avuto paura. Era di te.
- Hai pensato che potessi innamorarmene? Finora non avevi mai
accennato a questa possibilità, - prosegui, mentre io rimanevo zitta. - Per
quanto me l'avessi descritta come una persona ammirevole, non era sotto
questa luce che me la prospettavi.
- Vuoi dire che, se invece l'avessi fatto, a quest'ora tu avresti trovato il
modo di vederla? Non avevo timori, allora, - soggiunsi, - non ero spinta
dallo stesso motivo.
A questo punto egli mi baciò, e quando mi sovvenne che un paio d'ore
prima lei aveva fatto lo stesso, per un attimo ebbi l'impressione che dalle
mie labbra egli aspirasse l'impronta stessa delle sue. Nonostante i baci,
l'incidente aveva provocato una certa freddezza, e io soffrivo d'un terribile
senso di colpa per essermi lasciata cogliere in flagrante impostura. Mi
aveva colta in flagrante, è vero, solo grazie alla sincerità della mia
confessione, ma io mi sentivo infelice come se avessi avuto una macchia
da cancellare. Non riuscivo a dimenticare il modo in cui mi aveva guardata
mentre gli parlavo della manifesta indifferenza di lei alla sua diserzione.
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
Per la prima volta dacché lo conoscevo m'era sembrato mettere in dubbio
le mie parole. Prima di lasciarci gli dissi che avrei raccontato anche a lei la
verità; la mattina dopo sarei andata a Richmond e le avrei spiegato come
lui fosse del tutto incolpevole. Al che egli mi baciò di nuovo. Avrei espiato
il mio peccato, dissi: mi sarei umiliata nella polvere, avrei confessato ogni
cosa e chiesto perdono. E ancora una volta egli mi baciò.
V.
Il giorno dopo, in treno, mi colpi il fatto che l'aver io ceduto tornasse del
tutto a suo vantaggio; ero però abbastanza ferma nel mio proposito per
tener duro. Salii la lunga collina fino al punto in cui si comincia a godere il
panorama, poi bussai alla porta. Mi sentii un tantino disorientata perché le
tende erano ancora accostate, e riflettei che, seppure l'assillo del rimorso
mi aveva spinto fin lì di buon'ora, avevo certamente lasciato tempo alla
gente di casa di alzarsi.
- In casa, signora? Ha lasciato la casa per sempre.
Questo annuncio datomi dall'anziana cameriera mi allarmò in sommo
grado. - È partita?
- Mi scusi, signora, è morta -. Poi, vedendomi senza fiato all'udire la
tragica parola: - È morta questa notte.
L'acuto grido che mi sfuggi risuonò alle mie stesse orecchie come una
violenta profanazione di quell'ora. Mi parve, sul momento, di averla uccisa
io; mi sentii svenire e scorsi come in una nebbia la donna che mi tendeva
le braccia. Non ho memoria di ciò che accadde dopo, né di null'altro
all'infuori di quella povera scioccherella della cugina che, in una stanza
oscurata, dopo un intervallo che ritengo essere stato brevissimo,
singhiozzava davanti a me in tono sommessamente accusatorio. Non so
dire quanto tempo mi ci volle per capire, per credere e poi reprimere con
immenso sforzo quel lacerante senso di colpa che superstiziosamente,
insensatamente, era stato sulle prime quasi l'unica cosa di cui avessi avuto
coscienza. Dopo il decesso, il medico era stato oltremodo saggio ed
esplicito: spiegava tutto con una debolezza cardiaca da lungo tempo
latente, probabilmente originata vari anni prima dalle agitazioni e dalle
paure che le erano state causate dal matrimonio, quando aveva avuto
scenate crudeli col marito, tanto da temere per la propria vita; ma chi
poteva dire che chiunque, e tanto più una «vera signora», fosse
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1970 - Racconti Di Fantasmi
effettivamente al riparo da ogni minima contrarietà? Un paio di giorni
prima aveva subito quella della morte del marito; poiché poteva trattarsi di
emozioni d'ogni genere, non soltanto motivate da dolore o da sorpresa.
Quanto a quello, ella non aveva mai immaginato tanto prossima la sua
liberazione: strano a dirsi, sembrava che il marito dovesse vivere a lungo
quanto lei. Ma la sera prima, in città, certo doveva averne subita un'altra:
era accaduto qualcosa che sarebbe stato indispensabile chiarire. Era
rientrata molto tardi - alle undici passate - e alla cugina che le era andata
incontro tutta ansiosa aveva detto che era stanca, che prima di salire
doveva riposarsi un momento Insieme erano entrate nella sala da pranzo,
mentre la sua compagna le suggeriva di bere un bicchiere di vino e si dava
da fare alla credenza per mescerlo. Fu questione d'un attimo: quando la
mia informatrice s'era voltata, la nostra povera amica non aveva avuto il
tempo di sedersi; d'improvviso, con un piccolo gemito quasi
impercettibile, s'era lasciata cadere sul divano. Era morta. Quale
sconosciuta «piccola contrarietà» le aveva inferto il colpo? Quale
emozione, nel regno del prodigioso, aveva effettivamente provato in città?
Da parte mia accennai subito all'unica che potessi immaginare: non era
riuscita a incontrare in casa mia, dove appunto, dietro mio invito, s'era
trovata alle cinque, l'uomo che io dovevo sposare, che accidentalmente era
stato trattenuto fuori città e che lei non conosceva per nulla. Era
ovviamente un motivo di scarso rilievo; ma poteva ben darsi che fosse
accaduto qualcos'altro; nulla di più facile, per le vie di Londra, di un
incidente, specie in una di quelle sfrenate carrozze. Che cosa aveva fatto,
dov'era andata, una volta uscita di casa mia? Io avevo creduto per certo che
si fosse diretta subito a Richmond. Non tardammo a ricordare entrambe
che a volte, nelle sue corse a Londra, per comodità o per ristoro, ella
sostava un'ora o due al «Gentlewomen», il tranquillo piccolo club per
signore, e promisi che sarebbe stata mia premura svolgere in quel locale
un'attenta indagine. Entrammo quindi nell'oscura, lugubre stanza dove lei
giaceva, avvolta nella morte; dopo un po' chiesi d'esser lasciata sola con
lei, e vi rimasi per mezz'ora. La morte l'aveva resa, l'aveva mantenuta
bella; ma io, inginocchiata al suo letto, sentivo soprattutto che l'aveva resa
e mantenuta enigmatica. Aveva dato un giro di chiave su qualcosa che non
mi era lecito ignorare.
Tornata da Richmond e dopo aver sbrigato un'altra faccenda, mi recai
alla casa del mio promesso. Era la prima volta, benché l'avessi sovente
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1970 - Racconti Di Fantasmi
desiderato. Per le scale, accessibili a chiunque giacché il palazzo contava
una ventina di alloggi, m'imbattei nel suo domestico, che tornò indietro
con me e m'introdusse nell'appartamento. Udendomi entrare, lui comparve
sulla soglia di una stanza interna, e non appena fummo soli gli partecipai la
notizia: - E morta!
- Morta?
Rimase tremendamente colpito: notai che non aveva avuto bisogno di
chiedere a chi avessi alluso nella mia laconicità.
- E morta ieri sera, subito dopo avermi lasciata.
Mi fissò con un'espressione stranissima, scrutando coi suoi occhi i miei,
quasi a volervi scorgere un'insidia. - Ieri sera... dopo averti lasciata? Ripetè sbalordito le mie parole. Poi se ne uscì in un'affermazione che
doveva lasciarmi a mia volta sbalordita: - E’ impossibile! Io l'ho vista!
- L'hai «vista»?
- Lì, dove sei tu.
Un attimo, e mi tornò in mente, quasi ad aiutarmi a comprendere, la
prodigiosa premonizione della sua gioventù. - Nell'ora della sua morte,
capisco: la stessa inafferrabile visione che hai avuto di tua madre.
- Ah no! Non come vidi mia madre, no, non in quel modo! -Era
profondamente scosso dalla mia notizia, assai più - me ne rendevo conto di quanto lo sarebbe stato il giorno prima; e io ebbi la sensazione precisa,
come allora dissi fra me, che v'era stato realmente un rapporto tra loro e
ch'egli l'aveva realmente incontrata viso a viso. Una simile idea, che
veniva a confermare quella sua prerogativa portentosa, me lo avrebbe fatto
apparire di colpo penosamente anormale, se egli non avesse così
energicamente insistito sulla differenza. - L'ho vista viva... l'ho vista da
poterle parlare... Così come vedo te ora!
Curiosamente, per un attimo (ma solo per un attimo) trovai sollievo nella
più personale - per così dire - ma anche nella più naturale delle due
eccezionali circostanze. Un istante più tardi, raffigurandomi lei che andava
a fargli visita subito dopo avermi lasciata e ciò che questo significava nello
spazio di tempo di cui poteva disporre, gli chiesi, con una punta di durezza
che non mi sfuggi: - Che diamine era venuta a fare?
Lui intanto aveva avuto un minuto per riflettere - per riprendersi e
giudicare gli effetti; sicché, pur parlando ancora con un lampo di
esaltazione nello sguardo, arrossi, ebbe coscienza del suo rossore e invano
tentò un vago sorriso per cancellare la gravità delle sue parole.
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- E venuta proprio per vedermi. E venuta... dopo quel ch'era successo a
casa tua... perché ci potessimo finalmente incontrare. M'è sembrato un
impulso delicatissimo, e così l'ho accolto.
Mi guardai intorno nella stanza - la stanza dove lei era stata e io non ero
stata mai.
- E il modo in cui tu hai accolto quell'impulso è stato lo stesso in cui lei
lo ha manifestato?
- Lo ha espresso soltanto con la sua presenza qui e col concedermi di
guardarla. È bastato! - esclamò lui con uno strano riso.
Continuavo a non capire. - Vuoi dire che non ti ha parlato?
- Non ha detto nulla. Mi ha solo guardato, come io ho guardato lei.
- E neppure tu hai parlato?
Mi sorrise di nuovo con quell'espressione rattristata. - Ho pensato a te.
Era una situazione quanto mai delicata. Ho usato tutto il mio tatto. Ma lei
ha capito di avermi fatto piacere -. E uscì ancora una volta in quel riso
stonato.
- È evidente che ti ha fatto piacere! - Riflettei un momento. _ Quanto è
rimasta?
- Come faccio a saperlo? Una ventina di minuti, direi, ma probabilmente
molto meno.
- Venti minuti di silenzio! - Cominciavo ad avere una mia precisa
visione dei fatti, e ormai in realtà mi ci tenevo aggrappata. _ Lo sai che mi
stai raccontando una storia assolutamente mostruosa?
Fin allora era rimasto in piedi, la schiena rivolta al caminetto: a quel
momento venne verso di me, con uno sguardo supplichevole. - Ti
scongiuro, carissima: sii comprensiva.
Riuscii ad esserlo, e glielo feci intendere; ma quando, con fare piuttosto
impacciato, egli mi aperse le braccia, per qualche oscura ragione non
lasciai che mi stringesse a sé. E per un tempo tutt'altro che breve cadde fra
noi il disagio di un profondo silenzio.
VI.
Fu lui a romperlo, di lì a poco: - È assolutamente certo che sia morta? domandò.
- Sì, purtroppo. Sono rimasta fino a poco fa in ginocchio accanto al letto
su cui l'hanno adagiata.
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1970 - Racconti Di Fantasmi
Fissò ostinatamente il pavimento, poi levò gli occhi ad incontrare i miei.
- Che aspetto ha?
- Sembra... in pace.
Si volse di nuovo, mentre l'osservavo; ma un attimo dopo soggiunse: Dunque, a che ora...
- Doveva essere circa mezzanotte. È crollata appena messo piede in casa,
a causa della malattia di cuore che sapeva d'avere e che il medico le aveva
riscontrato, ma della quale, paziente e coraggiosa com'era, non mi aveva
mai fatto parola.
Stava ad ascoltarmi intento, e per un momento fu incapace di parlare.
Infine proruppe, in un tono di cui, ancora mentre scrivo, mi risuona
all'orecchio la spontaneità quasi fanciullesca, la semplicità davvero
sublime: - Che donna straordinaria era! - Anche allora seppi mostrarmi
abbastanza comprensiva da replicargli che era quel che gli avevo sempre
detto; ma, passato un istante, quasi che dopo aver parlato avesse intuito in
un lampo tutto ciò che aveva suscitato nel mio intimo, aggiunse in fretta: Vedi bene che se fino a mezzanotte non è tornata a casa...
Lo interruppi bruscamente. - Tu dunque hai avuto tutto il tempo di
vederla? Com'è possibile, - insistetti, - dal momento che sei rimasto da me
fino a tardi? Non ricordo esattamente fino a che ora, ero preoccupata. Ma,
lo sai anche tu, malgrado tutte le cose che dicevi di aver da fare, sei
rimasto per un certo tempo dopo cena. Lei, d'altra parte, ha trascorso tutta
la sera al «Gentlewomen». Ci sono appena passata, ho verificato. Ha preso
il tè e si è fermata a lungo, molto a lungo.
- E che cosa ha fatto in tutto quel tempo?
Mi avvidi che era pronto a controbattere punto per punto il mio racconto
dei fatti; e quanto più ne dava prova, tanto più io mi sentivo incline a
insistere nella mia versione, a preferire con apparente perfidia una
spiegazione che non faceva che infittire lo sgomento e il mistero, ma che,
di fronte ai due prodigi fra cui doveva scegliere, era più facilmente accetta
alla mia rinascente gelosia. Lui, irremovibile, continuava, con un candore
di cui vedo ora la bellezza, a difendere il privilegio di aver conosciuto viva
quella donna, a dispetto della suprema sconfitta; mentre io, con una
passione di cui oggi mi sorprendo (benché fino a un certo punto covi
ancora sotto la cenere), sapevo solo rispondergli che, grazie al dono
prodigioso condiviso con sua madre, e che in lei, per di più, era ereditario,
si era rinnovato per lui il miracolo occorsogli in gioventù; e lo stesso era
Henry James
355
1970 - Racconti Di Fantasmi
accaduto a lei. Era stata a trovarlo, oh sì! e spinta da un impulso
incantevole quanto voleva, ma non in carne e ossa. Era semplicemente
questione di prove materiali. Io avevo avuto, gli assicurai, un resoconto
preciso di come aveva trascorso la maggior parte del tempo passato al
piccolo club. Il locale era semideserto ma il personale l'aveva notata. Era
rimasta immobile, sprofondata in una poltrona accanto al caminetto; col
capo reclinato all'indietro, gli occhi chiusi, sembrava dormire dolcemente.
- Capisco. Ma fino a che ora?
- Su questo punto, - fui costretta a rispondergli, - i domestici sono stati
un po' imprecisi. In particolare la custode, purtroppo, è una mezza scema,
per quanto tenuta anche lei in conto di «gentlewoman». E evidente che a
quell'ora della sera, contro il regolamento e senza che nessuno la
sostituisse, si è assentata dalla guardiola dove ha l'obbligo di rimanere a
controllare chi entra e chi esce. Mi ha risposto in modo confuso e
palesemente equivoco; perciò, non posso indicarti un'ora esatta in base a
quanto ha osservato lei. Ma verso le dieci e mezza risultava che la nostra
povera amica aveva lasciato il club.
Ciò veniva a confermare in pieno la tesi da lui sostenuta.
_ È venuta direttamente qui, e da qui è andata direttamente alla stazione.
- Non può aver calcolato i tempi così al minuto, - asserii. - E proprio una
cosa che non faceva mai.
- Non c'era bisogno di calcolare al minuto, cara: aveva tempo in
abbondanza. La memoria t'inganna quando dici che io sono uscito tardi da
casa tua: ti ho lasciata, casomai, insolitamente presto. Mi spiace che il
tempo passato con me ti sia sembrato lungo, ma io sono rientrato verso le
dieci.
- Per infilarti le pantofole e addormentarti in poltrona, - ribattei io. - Hai
dormito fino a stamani... l'hai vista in sogno! - Egli mi guardò in silenzio,
scuro in volto, con uno sguardo che tradiva irritazione repressa. Dopo un
momento ripresi: - Hai ricevuto la visita di una signora a un'ora insolita,
soit: nulla di più probabile al mondo. Ma ci sono signore e signore. Come,
in nome del cielo, dato che non s'era fatta annunciare, che non ha detto una
parola e che, per soprammercato, non avevi mai visto un suo ritratto...
come potevi identificare la persona di cui si parla?
- Non l'ho forse sentita descrivere a sazietà? Se vuoi, posso descrivertela
io stesso in ogni particolare.
- No! - esclamai con una prontezza che di nuovo lo mosse al riso. Io
Henry James
356
1970 - Racconti Di Fantasmi
arrossii, ma continuai: - È stato il tuo domestico a farla entrare?
- No, lui non c'era; è sempre via quando se ne ha bisogno. Una delle
caratteristiche di questo grande palazzo è che ogni pianerottolo è
accessibile dal portone praticamente senza controllo. Il mio domestico se
l'intende con una ragazza che lavora al piano di sopra, e ieri sera s'è
trattenuto a lungo da lei. Quando esce per questo, lascia accostata la porta
esterna, quella che dà sulla scala, così da poter scivolare in casa senza
rumore. Allora basta una piccola spinta per aprirla. E lei ha spinto: le ci è
voluto solo un minimo di coraggio.
- Un minimo? Un mucchio di coraggio le ci è voluto! E ha dovuto far
ogni sorta d'impossibili previsioni!
-Be', l'ha avuto, le ha fatte. Bada, - soggiunse, - mi guardo bene dal
negare che è stato un fatto davvero straordinario!
Qualcosa nel suo tono mi tolse per un istante l'ardire di riprendere il
discorso. Infine dissi: - Come ha fatto a sapere dove abitavi?
- Ricordando l'indirizzo sull'etichetta che per caso quelli del negozio
avevano incollato sulla cornice fatta fare per la mia fotografia.
- E com'era vestita?
- A lutto, amore mio. Non una gran profusione di crespo, ma un nero
semplice, rigoroso. Portava un cappellino adorno di tre minuscole penne
nere e teneva in mano un piccolo manicotto di astrakan. Vicino all'occhio
sinistro, - continuò, - aveva una piccolissima cicatrice verticale...
Lo interruppi bruscamente. - Il segno di una carezza di suo marito -. Poi
soggiunsi: - Come dovevi esserle vicino! - Egli non mi rispose, ed ebbi
l'impressione che arrossisse. - Ebbene, addio, -dissi allora di scatto.
- Non vuoi restare un poco? - Mi venne incontro tutto tenero, e questa
volta lo lasciai fare. - Quella visita ha avuto il suo fascino, - mormorò
stringendomi a sé, - ma la tua ne ha di più.
Lasciai che mi baciasse, ma non senza ricordare, come già avevo
ricordato il giorno prima, che l'ultimo bacio dato da lei - così supponevo in questo mondo era stato per le labbra su cui ora si posavano le sue.
- Io sono la vita, capisci? - gli risposi. - Ciò che hai visto ieri sera era la
morte.
- La vita, era! ... La vita!
Parlava con una sorta di dolce ostinazione. Mi sciolsi dalla sua stretta e
restammo a fissarci duramente.
- La tua descrizione dei fatti, ammesso che sia una descrizione, è
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
incomprensibile. E entrata in questa stanza senza che tu te ne accorgessi?
- Ho alzato il capo dalla lettera che stavo scrivendo, là, a quella
scrivania, sotto la lampada, completamente assorto, e lei era davanti a me.
- E allora che cos'hai fatto?
- Sono balzato in piedi con un'esclamazione, e lei, sorridendo, si è messa
un dito sulle labbra, quasi ad ammonirmi, eppure con una certa delicata
dignità. Con quel gesto, lo sapevo, voleva intimarmi silenzio, ma lo strano
era che sembrava al tempo stesso giustificarsi e spiegare ogni cosa. Siamo
rimasti in piedi a guardarci in viso così, per un tempo che, come ti ho
detto, non saprei calcolare. Proprio come ci troviamo ora tu ed io.
- Soltanto a fissarvi?
Egli protestò con impazienza: - Eh, ma noi due non ci stiamo mica
fissando!
- Già, ma stiamo parlando.
- Ebbene, parlavamo anche noi... in certo qual modo —. Pareva tutto
assorbito dal ricordo. - In modo altrettanto amichevole -. Stavo quasi per
domandargli se c'era poi tanto da parlare, ma mi resi conto invece che
evidentemente non avevano fatto altro che contemplarsi in reciproca
ammirazione. Poi volli sapere se l'aveva riconosciuta subito. - Non
proprio, - mi rispose, - perché naturalmente non l'aspettavo; ma molto
prima che se n'andasse compresi chi soltanto poteva essere.
Rimasi un momento soprappensiero. - E come se ne andò, infine?
- Esattamente com'era venuta. La porta era aperta alle sue spalle, e lei
uscì.
- In fretta? Adagio?
- Piuttosto in fretta. Ma volgendosi indietro a guardare, - aggiunse con
un sorriso. - Lasciai che se ne andasse perché capii perfettamente che
dovevo accettare la cosa come voleva lei.
Mi accorsi di emettere un lungo, vago sospiro.
- Ebbene, adesso devi accettare quello che voglio io: devi lasciar andare
me.
Egli allora mi si avvicinò di nuovo, trattenendomi, persuadendomi,
dichiarandomi con tutta la debita galanteria che la faccenda era ben
diversa. Non so che cosa avrei dato pur di riuscire a chiedergli se l'aveva
toccata, ma le parole si rifiutavano d'uscirmi di bocca: capivo troppo bene
come sarebbero suonate orribili e volgari. Dissi non so che altro - non
ricordo più di preciso; qualcosa di debolmente tortuoso, tendente a farlo
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
parlare senza che gli ponessi la domanda. Ma lui non parlò: si limitò, quasi
avvertisse l'opportunità di confortarmi e di consolarmi, a ribadire le
dichiarazioni di poco prima: ad assicurarmi che lei era stata, sì, deliziosa,
come io avevo sempre sostenuto, ma che la sua amica «vera» ero io e lo
sarei stata per sempre. Ciò m'indusse a riaffermare, con lo stesso spirito
della mia replica precedente, che io avevo almeno il merito d'essere viva;
la qual cosa a sua volta svegliò nuovamente in lui la fiammata di
contraddizione che mi faceva paura: - Oh, era viva, lei! Era viva! viva!
- Era morta! morta! - L'energia, la volontà che misi nell'asseverare che
così doveva essere, oggi mi appaiono quasi grottesche. Ma il suono con cui
quella parola echeggiò mi riempi d'improvviso orrore, e tutta la naturale
emozione che il suo significato avrebbe destato in altre circostanze rifluì e
traboccò come un fiume in piena. Mi sconvolse l'idea che mi veniva a
mancare un grande affetto, di quanto bene le avevo voluto, di quanto
avevo creduto in lei. E contemporaneamente ebbi la visione della bellezza
solitaria della sua fine. - Se n'è andata... l'abbiamo perduta per sempre! proruppi singhiozzando.
- È proprio quello che sento anch'io, - egli esclamò, con accento di
estrema bontà e stringendomi a sé per confortarmi. - Non c'è più;
l'abbiamo perduta per sempre: perciò, che importanza ha adesso? - Si
chinò su di me, e quando il suo viso toccò il mio non avrei saputo dire se
era bagnato delle mie o delle sue lagrime.
VII.
La mia teoria, la mia convinzione, ciò che - potrei dire - improntò il mio
atteggiamento, era che non si erano ancora mai veramente «incontrati».
Per questa ragione appunto mi dissi che sarebbe stato generoso chiedergli
di starmi accanto al momento della sepoltura. Il che egli fece, molto
discreto e affettuoso, e sebbene, da parte sua, chiaramente non si
preoccupasse affatto del pericolo, io ritenni che la solennità dell'occasione
- con l'intervento di tanti che li avevano conosciuti entrambi e dovevano
aver avvertito il prolungarsi della beffa - avrebbe risparmiato ogni fatuo
riferimento alla sua presenza. A proposito di quanto era successo la sera
della morte, poco altro fu detto fra noi. Mi aveva invaso l'orrore del fatto
inoppugnabile: nell'una e nell'altra ipotesi era evidente una grossolana
intrusione. Quanto a lui, non era in grado di fornire testimonianze, o
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1970 - Racconti Di Fantasmi
almeno nessuna se non la dichiarazione del suo portiere - un personaggio,
lo ammetteva lui stesso, quanto mai sventato e inconsistente - al dire del
quale non meno di tre signore in lutto stretto erano entrate e uscite fra le
dieci e mezzanotte. Era una prova per eccesso: di tre signore né lui né io
sapevamo che farcene. Egli sapeva che io ritenevo di aver dato conto di
ogni frazione del tempo di lei, e quindi lasciammo cadere l'argomento
come concluso, astenendoci dal discuterne ancora. Quello che però io
sapevo era che lui se ne asteneva piuttosto per compiacermi, non perché
fosse disposto a cedere alla bontà delle mie ragioni. Non cedeva - era
soltanto indulgente; si teneva stretto alla propria interpretazione perché la
preferiva, e la preferiva, pensavo, perché soddisfaceva di più la sua vanità.
Io, nei suoi panni, non ne avrei risentito a quel modo, benché di vanità non
ne avessi certo meno di lui; ma qui si tratta di reazioni individuali, e
nessuno può giudicare per un altro. Avrei creduto più gratificante essere
protagonista di una di quelle circostanze inesplicabili di cui si narra nei
racconti sensazionali e si discute in dotti convegni: non riuscivo a
concepire, da parte di qualcuno appena rimasto coinvolto in un contatto
con l'infinito e vibrante ancora di umana emozione, nulla di più squisito e
puro, di più alto e sublime che un tale impulso di riparazione, di monito o
addirittura di curiosità. Questo sì, se si vuole, era bello, e al posto suo io
avrei avuto maggiore stima di me per essere così fuori del comune. Ch'egli
fosse già - e da tempo - una persona fuori del comune, era cosa risaputa; e
quell'episodio in sé non ne era quasi una prova? Ciascuna di quelle strane
visitazioni contribuiva ad avvalorare l'altra. Lui aveva al riguardo un altro
modo di sentire; ma aveva anche, mi affretto ad aggiungere, un
incontestabile desiderio di non richiamare l'attenzione sull'accaduto, di non
farne - come si suol dire, - un cancan. Io potevo credere quel che volevo,
tanto più che tutta la vicenda era in certo modo un mistero provocato da
me. Era un fatto della mia storia, un enigma della mia coscienza, non della
sua; perciò egli avrebbe adottato in proposito il contegno che mi fosse
parso più opportuno. D'altronde avevamo entrambi altri problemi a cui
pensare: eravamo incalzati dai preparativi per il nostro matrimonio.
I miei problemi, non c'è dubbio, erano pressanti, e tuttavia, man mano
che i giorni passavano, mi rendevo conto che credere alla mia versione
«preferita» significava credere a ciò di cui ero intimamente sempre più
convinta. Del resto mi accorgevo che, dopo tutto, non era che quella
versione mi piacesse molto, o che comunque il fatto che mi piacesse era
Henry James
360
1970 - Racconti Di Fantasmi
lungi dal costituire la causa della mia certezza. La mia ossessione, come
posso effettivamente chiamarla e come incominciai ad avvertire, si
rifiutava di venir scacciata, come avevo sperato, dal senso di
imprescindibili doveri. Avevo un monte di cose da fare, è vero, ma ne
avevo ancor di più a cui pensare, e venne il momento in cui le mie
occupazioni furono gravemente minacciate dai miei pensieri. Adesso
capisco tutto, sento tutto, rivivo ogni cosa: è un terribile vuoto di gioia,
anzi, è una piena traboccante d'amarezza; eppure - devo rendere giustizia a
me stessa - non potevo essere diversa da quella che ero. Dovessi
affrontarle di nuovo, le stesse strane impressioni causerebbero la stessa
profonda angoscia, gli stessi dubbi assillanti, le stesse certezze più acute
che mai. Oh, tutto è più facile da ricordare che da scriverne, ma anche se
mi fosse dato di rievocare la vicenda ora per ora, anche se potessi trovare
parole per esprimere l'inesprimibile, lo squallore e l'angoscia mi
fermerebbero presto la mano. Molto semplicemente e brevemente mi sia
lecito dire che una settimana prima del nostro matrimonio - tre settimane
dopo la morte di lei - mi resi pienamente conto di dover affrontare
qualcosa di assai serio: se volevo compiere quel passo dovevo farlo
all'istante, prima che passasse un'altra ora. La mia inestinta gelosia - ecco
qual era la maschera di Medusa - non era morta con lei, le era lividamente
sopravvissuta, alimentata da sospetti irriferibili. Cioè, irriferibili sarebbero
oggi, se allora non avessi provato il bisogno acuto di gridarli. Quel bisogno
s'impadronì di me -per salvarmi, si sarebbe detto, dal mio destino. Una
volta divenutane preda, non c'era - lo vedevo nell'urgenza del caso,
nell'accor-ciarsi del tempo, nel restringersi dell'intervallo - che un'unica via
d'uscita, quella dell'assoluta immediatezza e sincerità. Dovevo almeno non
fargli il torto d'indugiare un altro giorno, dovevo almeno considerare la
mia angoscia troppo nobile per ricorrere a sotterfugi. Perciò, molto
tranquillamente, ma nondimeno in modo odiosamente repentino, una certa
sera gli buttai lì che dovevamo riesaminare la nostra situazione e
riconoscere che era del tutto mutata. Egli mi fissò intrepido. - In che cosa è
mutata?
- Un'altra persona si è interposta fra noi.
Esitò un istante. - Non voglio fingere d'ignorare a chi alludi -. Sorrise di
compatimento per la mia aberrazione, ma volle essere generoso. - Una
donna morta e sepolta!
- È sepolta, ma non è morta. È morta per il mondo, è morta per me. Ma
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361
1970 - Racconti Di Fantasmi
per te non è morta.
- Vuoi rivangare le nostre diverse interpretazioni della sua apparizione di
quella sera?
- No, - risposi. - Non voglio rivangare nulla. Non ce n'è bisogno. Ne ho
più che a sufficienza di quello che mi sta davanti agli occhi.
- E che cos'è, ti prego, mio tesoro?
- Tu sei completamente cambiato.
- Per via di quell'assurdità? - E rise.
- Non tanto per quella come per le altre che le hanno fatto seguito.
- E quali sarebbero state, per favore?
Il nostro era stato un incontro leale, a viso aperto; ma i suoi occhi
avevano una strana luce offuscata, e la mia certezza trionfò nel visibile
pallore del suo volto.
- Vuoi davvero farmi credere, - domandai, - che non sai di quali
assurdità parlo?
- Mia cara bambina, - replicò, - vi accenni troppo schematicamente!
Riflettei un momento. - Può essere davvero imbarazzante completare il
quadro! Ma da questo punto di vista, e sin dall'inizio, che cosa poteva
essere più imbarazzante della tua idiosincrasia?
- La mia idiosincrasia? - ripetè lui in tono volutamente vago.
- Il tuo speciale potere, ben noto a tutti.
Alzò le spalle infastidito, con un brontolio di esasperato disprezzo. - Oh,
il mio speciale potere!
- La tua capacità di accedere a certe forme di vita, - proseguii fredda, - di
comandare a impressioni, ad apparenze, a contatti che, per nostra buona o
cattiva sorte, a tutti noi altri sono preclusi. All'inizio ciò contribuì al grande
interesse che sapesti ispirarmi, fu una delle ragioni per cui mi divertiva,
anzi m'inorgogliva conoscerti. Era una prerogativa senza uguali; e lo è
tuttora. Ma naturalmente allora non potevo prevedere quali effetti avrebbe
avuto oggi; e anche se l'avessi previsto, mai avrei immaginato di esserne a
tal punto sconvolta.
- In nome di Dio, - chiese supplichevole, - a che cosa vuoi alludere con
queste fantasie? - E poiché io tacevo radunando le forze per il mio atto
d'accusa, continuò: - Che razza di effetti produce, dunque, e come diamine
riesce a sconvolgerti?
- Le eri sfuggito per cinque anni, - dissi. - Adesso non le sfuggi più. Stai
pareggiando la partita!
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1970 - Racconti Di Fantasmi
- Pareggiando? - Da pallido che era, andava facendosi rosso in viso.
- Tu la vedi, la vedi: la vedi ogni notte! - Lui emise un mugolio di
derisione, ma non suonò genuino. - Viene da te come quella sera, affermai, - ha fatto la prova e ha capito che le piaceva! - Con l'aiuto di Dio
riuscivo a parlare non accecata dalla passione, senza volgare brutalità; ma
furono proprio quelle le precise parole con cui mi espressi - e allora mi
sembrarono tutt'altro che «schematiche». Lui si era voltato ridendo;
battendo le mani quasi a commentare la mia follia; ma un istante dopo mi
fissò nuovamente in viso, con un'espressione mutata che mi colpi. - Osi
negare, - gli domandai, - che la vedi di continuo?
Aveva scelto la linea dell'indulgenza: cercava di essere conciliante, di
assecondarmi con bonarietà. Comunque uscì a dire d'un tratto, lasciandomi
esterrefatta: - Ebbene, cara, e se così fosse?
- Sei nel tuo pieno diritto; è un tuo dono di natura, un privilegio di cui
disponi, straordinario anche se non del tutto invidiabile. Ma tu capisci bene
che è qualcosa che ci separa. Ti restituisco la tua completa libertà.
- Mi restituisci la mia libertà?
- Devi scegliere tra me e lei.
Mi guardò duramente. - Capisco -. Fece qualche passo come per
afferrare il significato delle mie parole e riflettere sul miglior modo di
discuterle. Poi tornò a voltarsi verso di me. - Come fai a sapere una cosa
così terribilmente intima?
- Dato che tu hai fatto di tutto per tenerla nascosta, vuoi dire? E
terribilmente intima, certo, e puoi credere che non la rivelerò mai. Hai fatto
del tuo meglio, hai sostenuto la tua parte, ti sei comportato, povero caro!,
in maniera leale, ammirevole. Per questo ti ho osservato in silenzio,
sostenendo anch'io la mia parte; ho avvertito ogni tuo calo di voce, ogni
tuo sguardo vuoto, ogni sforzo della tua mano inerte: ho aspettato fino a
esserne del tutto sicura e disperatamente infelice. Come puoi nascondere
d'essere perdutamente innamorato di lei, quando trabocchi della gioia che
ti dà, fin quasi a morirne?
Riuscii a frenare il suo pronto diniego con un gesto ancor più pronto. Ami lei come non hai mai amato nessuna, ed essa ricambia in ugual misura
la tua passione! Ti domina, ti tiene stretto, ti ha tutto per sé! In una
situazione come la mia, una donna intuisce, sente, vede; non è una sciocca
a cui si deve spiegare tutto. Tu vieni a me meccanicamente, pentito e
contrito, con le scorie della tua tenerezza, di ciò che resta della tua vita. Io
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1970 - Racconti Di Fantasmi
posso rinunciare a te, ma non posso fare a metà con un'altra; il meglio di te
appartiene a lei; io so quello che vale e ti cedo liberamente a lei per
sempre!
Lui si batté da gentiluomo, ma non ci fu verso di accomodare le cose.
Tornò a negare, ritrattò quanto aveva ammesso, mise in ridicolo le mie
accuse, stravaganti al punto di essere indifendibili, come del resto io fui
pronta a riconoscere. Non finsi neppure per un istante di parlare di cose
comuni, non finsi neppure per un istante che lui e lei fossero personaggi
comuni; se lo fossero stati come avrei potuto io, di grazia, interessarmi a
loro? Avevano goduto di un'insolita proroga di esistenza e mi avevano
trascinato nel loro volo, ma era un'aria che io non potevo respirare e
chiedevo d'essere prontamente rimessa a terra. Tutto ciò ch'era accaduto
era mostruoso, e soprattutto lo era la mia lucida percezione dei fatti; che la
mia condotta fosse condizionata da tale percezione era l'unico aggancio
con la natura e con la verità. Mi sentii, dopo aver parlato in questo senso,
pienamente sicura di me stessa; nulla era mancato a darmi quella fiducia
quanto il vedere l'effetto che il mio discorso gli fece. Egli cercò invano di
mascherarlo dietro una nuvola di sarcasmo, diversivo che gli consentì di
guadagnare tempo e di coprirsi la ritirata. Mise in dubbio la mia sincerità,
il mio senno, persino la mia umanità, il che ovviamente allargò la breccia
che si era aperta tra noi e confermò la nostra rottura. Insomma, fece di
tutto fuorché persuadermi che avevo torto o che lui fosse infelice: ci
separammo e io l'abbandonai alla sua incredibile comunione.
Non si sposò mai, come me del resto. Quando, sei anni più tardi in
silenziosa solitudine, venni a sapere della sua morte, salutai quella notizia
come un diretto contributo alla mia teoria. Fu una morte improvvisa, di cui
non si conobbero mai bene le cause, una morte avvolta in circostanze nelle
quali - oh, come le esaminai pezzo per pezzo! - lessi un'intenzione ben
definita, il segno della sua stessa mano nascosta. Fu il risultato di una
lunga necessità, di un inestinguibile desiderio. Per dire esattamente ciò che
intendo, fu la risposta a un appello irresistibile.
Traduzione di Maria Luisa Castellani Agosti.
IL GIRO DI VITE
Il racconto ci aveva tenuti attorno al focolare col fiato sospeso, ma a
parte l'ovvia osservazione ch'esso era raccapricciante, come doveva essere
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1970 - Racconti Di Fantasmi
una strana storia narrata la vigilia di Natale in una vecchia casa, non
ricordo che suscitasse alcun commento finché qualcuno disse ch'era quello
il primo caso in cui s'imbatteva d'una simile esperienza toccata a un
fanciullo. Si trattava, se ben ricordo, di un'apparizione in una casa
altrettanto vecchia di quella in cui eravamo riuniti per l'occasione - una
visione spaventosa apparsa ad un bambino che dormiva nella camera di
sua madre e che l'aveva svegliata terrorizzato; svegliata non per vincere il
suo spavento e per farsi teneramente riaddormentare, ma perché lei stessa,
prima di riuscirvi, si trovasse davanti alla medesima visione che l'aveva
sconvolto. Fu questa osservazione a provocare da parte di Douglas - non
immediatamente, ma più tardi nella serata - una risposta che ebbe
l'interessante conseguenza su cui richiamo la vostra attenzione. Qualcun
altro aveva preso a raccontare una storia non particolarmente interessante
ed io mi accorgevo ch'egli non ascoltava. Ciò mi fece capire che anch'egli
aveva qualcosa da dirci e che si trattava soltanto di aspettare. Aspettammo
infatti due sere: ma quella sera stessa, prima che ci separassimo, egli
accennò a quel che aveva in mente.
- Sono d'accordo nei riguardi del fantasma di Griffin o di quel che fosse,
che l'essere apparso prima al bambino d'un'età così tenera aggiunge alla
vicenda un fascino particolare. Ma per quanto ne so, non è la prima volta
che un fenomeno tanto affascinante coinvolge un bambino. Se la presenza
d'un bambino dà effettivamente un altro giro di vite, che ne direste di due
bambini?
- Diremmo, effettivamente, - esclamò qualcuno, - che sarebbero due, i
giri di vite. E poi che vogliamo conoscere la storia.
Mi sembra ancora di vedere Douglas davanti al camino, le spalle al
fuoco, le mani in tasca mentre guarda dall'alto in basso il suo interlocutore:
- Nessuno finora, all'infuori di me, ne ha mai udito nulla. È semplicemente
troppo orribile -. Naturalmente molte voci si levarono per dichiarare che
ciò conferiva all'avvenimento un interesse estremo, e il nostro amico, con
arte sottile, si preparò il trionfo guardandoci ad uno ad uno per aggiungere,
poi: - È al di là d'ogni immaginazione. Non posso veramente paragonarlo a
nulla.
- Per puro terrore? - ricordo di aver chiesto.
Mi sembrò ch'egli volesse intendere che la cosa non era tanto semplice e
che non trovava le parole per definirla. Si passò la mano sugli occhi e fece
una leggera smorfia di pena: - Per spavento... perché è davvero
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
spaventoso!
- Oh, che delizia! - esclamò una delle donne.
Non le badò, e guardava me, ma come se vedesse, invece di me, quello
di cui parlava: - Per assoluta, snaturata ripugnanza e orrore e pena.
- E va bene, allora, - dissi, - mettiti a sedere e comincia.
Si volse verso il fuoco, diede un calcio a un ceppo, lo guardò per un
momento. Poi si volse di nuovo verso di noi: - Non posso cominciare.
Devo mandare qualcuno in città -. Queste parole furono accolte da un
unanime brontolio di disapprovazione e da molte proteste; allora, con quel
suo fare preoccupato, si spiegò: - La storia è scritta. Si trova in un cassetto
chiuso a chiave, e non ne è venuta fuori da anni. Potrei scrivere al mio
domestico, mandargli la chiave... e lui potrebbe inviarmi il plico così come
si trova -. Sembrava che questa proposta la rivolgesse a me
particolarmente, come se mi chiedesse aiuto per vincere la sua esitazione.
Aveva come spezzato una crosta di ghiaccio, il prodotto di chissà quanti
inverni; e il suo lungo silenzio doveva aver avuto delle buone ragioni. Agli
altri la dilazione non piaceva, mentre io mi sentivo affascinato dai suoi
scrupoli. Lo scongiurai di spedire la lettera con la prima posta e di mettersi
d'accordo con noi per una sollecita lettura; infine gli chiesi se l'esperienza
di cui parlava fosse stata sua. La risposta allora fu pronta: - Grazie a Dio,
no!
- E il resoconto è tuo? Hai registrato tu la cosa?
- Soltanto l'impressione. È incisa qui, - si toccò il cuore. - Non l'ho mai
perduta.
- Ma il tuo manoscritto, allora?...
- E vergato con un inchiostro vecchio, sbiadito, in una bellissima grafia
-. Esitò di nuovo. - Di una donna. È morta da vent'anni -Mi mandò quelle
sue pagine prima di morire -. Tutti adesso stavano in ascolto, e qualcuno
naturalmente osò un commento malizioso o almeno tentò di ricavarne delle
illazioni. Ma se Douglas lascio cadere le illazioni senza sorridere, lo fece
anche senza irritarsi.
- Era una persona piena di fascino, ma aveva dieci anni più di me Ed era
l'istitutrice di mia sorella, - disse quietamente.
- Era la più piacevole donna che avessi mai conosciuto in una simile
posizione; e avrebbe potuto farsi onore in qualsiasi altro lavoro. È stato
molto tempo fa, e l'episodio era ancora precedente. Io frequentavo il
Trinity College e la trovai a casa quando vi tornai per le vacanze della
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
seconda estate. Vi rimasi molto quell'anno... era un anno bellissimo; nelle
sue ore libere talvolta si passeggiava insieme e conversavamo in giardino...
e in quelle occasioni fui colpito dal suo acume e dalla sua simpatia. Ma sì,
non sorridete! mi piaceva moltissimo e oggi ancora mi sento felice all'idea
che anch'io le piacevo. Se non fosse stato così non mi avrebbe raccontato
quella storia. Non l'aveva raccontata mai a nessuno. E le credevo, non
soltanto perché me lo diceva, ma perché sentivo che era vero. Ne ero certo,
lo vedevo. Potrete capire facilmente il motivo quando mi avrete ascoltato.
- Perché la vicenda era stata tanto spaventosa?
Continuò a guardarmi fisso. - Tu lo comprenderai facilmente,
- ripetè, - tu lo comprenderai.
Anch'io lo fissai. - Capisco. Era innamorata.
Rise per la prima volta. - Sei davvero acuto. Sì, era innamorata. Cioè, lo
era stata. Ciò venne fuori... non poteva raccontare la storia senza che
venisse fuori. Io lo capii, ed ella si accorse che avevo capito; ma nessuno
dei due ne parlò. Ricordo l'ora e il luogo... l'angolo del prato, l'ombra dei
grandi faggi, e il lungo, caldissimo pomeriggio d'estate. Non era una
scenografia impressionante, ma... - Si allontanò dal fuoco e tornò a gettarsi
nella sua poltrona.
- Riceverai il plico per giovedì mattina? - gli chiesi.
- Probabilmente non prima della seconda posta.
- Bene, allora; dopo cena...
- Ci incontreremo tutti qui? - Ci guardò di nuovo uno per uno.
- Nessuno parte? - e lo disse quasi con un tono di speranza.
- Tutti rimarranno.
- Ci saremo!... Tutti ci saremo! - gridarono le signore che pure avevano
già fissato la partenza. La signora Griffin, nondimeno, manifestò la
necessità di un ulteriore chiarimento. - Di chi era innamorata?
- Il racconto lo dirà, - mi presi la briga di rispondere.
- Oh, ma io non posso aspettare il racconto!
- Il racconto non lo dirà, - fece Douglas, - perlomeno non volgarmente, a
chiare lettere.
- Peccato, allora! È il solo modo che me lo farebbe capire.
_ Non ce lo vuoi dire tu, Douglas? - domandò qualcun altro.
Balzò di nuovo in piedi. - Sì... domani. Adesso devo andare a letto.
Buona notte -. E rapidamente, afferrando un candeliere, ci lasciò piuttosto
sconcertati. Sentimmo i suoi passi sulle scale dal fondo del grande salone
Henry James
367
1970 - Racconti Di Fantasmi
buio dov'eravamo; e fu allora che la signora Griffin prese a parlare: - Bene,
se non so di chi era innamorata lei, so di chi era innamorato lui.
- Lei aveva dieci anni di più, - disse suo marito.
- Raison de plus... a quell’età! Piuttosto delicata, però, questa sua lunga
reticenza.
- Quarant'anni! - precisò Griffin.
- E adesso quest'esplosione.
- L'esplosione, - dissi io, - farà di giovedì sera un'occasione memorabile,
- e si trovarono tutti tanto d'accordo con me che, a quella luce, ogni altra
cosa non aveva più alcun interesse. L'ultima storia, per quanto incompleta
e simile all'inizio d'un racconto a puntate, era stata raccontata; con strette
di mano e «strette di candeliere», come disse qualcuno, andammo tutti a
letto.
Il giorno dopo seppi che una lettera contenente la chiave era partita con
la prima posta, diretta all'appartamento londinese di Douglas; ma,
nonostante ciò, o forse proprio a causa dell'eventuale diffusione di questa
notizia, lo lasciammo in pace fin dopo la cena, sino all'ora della serata,
cioè, che meglio poteva accordarsi al genere di emozioni su cui
contavamo. E lui divenne così comunicativo che di più non avremmo
potuto desiderare, e ce ne spiegò addirittura la ragione. Ce la spiegò di
nuovo davanti al camino del salone giacché ne eravamo rimasti
leggermente sorpresi la sera precedente. Ci sembrò chiaro che il racconto
che aveva promesso di leggerci aveva realmente bisogno, per essere ben
capito, di qualche parola d'introduzione. E lasciatemi dire chiaramente, una
volta per tutte, che questo racconto, da me trascritto fedelmente di mio
pugno molto più tardi, è quello che qui seguirà. Il povero Douglas, prima
della sua morte, quando questa era imminente, mi affidò il manoscritto
ch'era arrivato il terzo giorno, e che nello stesso luogo cominciò a leggere
la sera del quarto al nostro circolo ristretto e silenzioso, suscitando
un'emozione senza pari. La partenza delle signore, che avevano annunciato
che sarebbero rimaste, era avvenuta, grazie al cielo; erano partite, costrette
dai loro impegni, ma divorate dalla curiosità destata, come ammisero, dai
piccoli particolari con i quali Douglas aveva già stuzzicato il nostro
interesse. Ma questo fatto rese soltanto più scelto e compatto il suo piccolo
uditorio finale e lo tenne davanti al focolare soggiogato da una comune
emozione.
Prima di tutto egli ci disse che il racconto scritto iniziava la narrazione
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
dal momento in cui era già, in un certo senso, avviata. Dovevamo sapere,
infatti, che la sua vecchia amica, la minore delle numerose figlie d'un
povero parroco di campagna, a vent'anni, all'inizio, cioè, della sua carriera
d'insegnante, si era recata a Londra, tutta trepidante, per rispondere di
persona all'annuncio per il quale aveva già avuto un breve scambio di
corrispondenza con l'inserzionista. Questa persona si rivelò - quando lei si
presentò per essere esaminata in una casa di Harley Street che la
impressionò per vastità e imponenza - questo probabile padrone, dicevo, si
rivelò un gentiluomo, uno scapolo nel fiore degli anni, un personaggio,
insomma, che non era mai comparso, se non in sogno o in qualche vecchio
romanzo, a una ragazza emozionata e ansiosa proveniente da un vicariato
dell'Hampshire. Un tipo che si può facilmente descrivere giacché, per
fortuna, è di quelli che non scompaiono mai. Era bello, ardito e attraente,
spregiudicato, gaio e gentile. La colpi, inevitabilmente, la sua splendida
galanteria, ma quel che più la conquistò e le diede il coraggio che più tardi
rivelò, fu che le presentò tutto come una specie di favore, una grazia per la
quale le sarebbe stato per sempre obbligato. Lo giudicò ricco ma
terribilmente stravagante; lo vide in un'aureola di straordinaria eleganza, di
bellezza, di generosità, di abituale galanteria. La sua residenza cittadina era
una grande casa piena di ricordi di viaggio e trofei di caccia; ma era nella
sua casa di campagna dell'Essex, antica dimora della sua famiglia, che
desiderava si recasse immediatamente.
A causa della morte in India dei loro genitori, egli era diventato tutore di
un nipotino e di una nipotina, figli d'un suo fratello minore, un militare,
che aveva perduto due anni prima. Questi due bambini - sorte ben strana
per un uomo nelle sue condizioni, un uomo solo, senza esperienza e senza
un filo di pazienza - pesavano interamente sulle sue spalle. Ne era nata una
grave preoccupazione e, senza dubbio per colpa sua, una serie di sbagli
grossolani; ma egli provava una pietà immensa per i due piccoli, e aveva
fatto tutto quel che aveva potuto; in particolare li aveva mandati nell'altra
casa, poiché il posto più adatto per loro era evidentemente la campagna, e
là li aveva tenuti sin da principio, con le migliori persone che potè trovare
per accudirli, separandosi perfino dai propri servitori e andando egli stesso,
appena gli era possibile, a vedere come stavano. La cosa più imbarazzante
era che i due orfanelli non avevano praticamente nessun altro al mondo, e
che gli affari assorbivano quasi tutto il suo tempo. Li aveva sistemati a
Bly, dimora salubre e sicura, e aveva messo a guida di quella piccola
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
colonia - ma solo ai gradi più bassi - una donna eccellente, la signora
Grose, in altri tempi cameriera di sua madre, che, ne era certo, sarebbe
piaciuta alla sua visitatrice. La signora Grose badava all'andamento della
casa e fungeva provvisoriamente da istitutrice della bambina, alla quale,
priva com'era di figli suoi, era per buona sorte profondamente affezionata.
Il personale di servizio era molto numeroso, ma naturalmente la giovane
che si recava laggiù in qualità d'istitutrice avrebbe avuto pieni poteri.
Avrebbe inoltre dovuto, durante le vacanze, prendersi cura del ragazzino,
che da un trimestre era in collegio (troppo giovane, forse, per andarci, ma
che altro si sarebbe potuto fare?), e che, essendo ormai prossimo l'inizio
delle vacanze, sarebbe stato di ritorno da un giorno all'altro. Nei primi
tempi ai due bambini aveva badato una signorina che avevano avuto la
sfortuna di perdere. Persona degnissima, si era presa cura di loro in
splendida maniera fino alla sua morte: grave contrattempo, che non aveva
lasciato altra alternativa se non il collegio per il piccolo Miles. La signora
Grose, da allora, aveva fatto quanto poteva per l'educazione e le necessità
pratiche di Flora; c'erano, oltre a lei, una cuoca, una cameriera, una donna
che si occupava della cascina, un vecchio pony, un vecchio stalliere e un
vecchio giardiniere, tutti egualmente rispettabili.
Douglas aveva tracciato il quadro sino a quel punto, quando qualcuno
fece una domanda: - E di che cosa morì l'istitutrice precedente? Di un
eccesso di rispettabilità?
La risposta del riostro amico fu immediata: - Lo si saprà in seguito. Non
voglio anticipare.
- Scusami... Mi sembra che sia quello che stai facendo.
- Nei panni della nuova istitutrice, - insinuai, - io avrei voluto almeno
sapere se l'incarico comportava...
- Necessariamente un pericolo di morte? - Douglas aveva completato il
mio pensiero. - Difatti lo voleva sapere, e lo seppe. Sentirete domani, cosa
seppe. Nel frattempo, com'era naturale, la proposta le sembrò un po'
inquietante. Era giovane, inesperta, impressionabile: le si apriva davanti un
carico di gravi doveri e scarsa compagnia, una solitudine quasi senza
limiti. Esitò... chiese un paio di giorni per consigliarsi e riflettere. Ma il
salario che le veniva offerto superava di gran lunga le sue modeste pretese,
e in un secondo colloquio affrontò la «musica», s'impegnò -. Douglas a
questo punto fece una pausa che, a vantaggio della compagnia, mi permise
di dire:
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1970 - Racconti Di Fantasmi
- La morale della favola è che lo splendido giovanotto l'affascinò al
punto di farla cedere.
Douglas si alzò e, come aveva fatto la sera prima, si avvicinò al camino,
smosse col piede un tizzone e rimase per un poco immobile, voltandoci le
spalle. - Lo vide solo due volte.
- Sì, ma proprio in questo sta tutta la bellezza della sua passione.
Sorprendendomi un poco, Douglas a questo punto si volse verso di me: Sf, in questo stava la bellezza. Altre, - prosegui, - non avevano ceduto.
Egli le aveva esposto francamente tutte le difficoltà da lui incontrate... a
molte candidate le condizioni erano sembrate proibitive. Semplicemente,
per un motivo o per l'altro, ne erano spaventate. Il tutto suonava poco
chiaro, suonava strano; soprattutto a causa della condizione principale.
- Che era?
- Che non lo avrebbe mai dovuto disturbare... mai, per nessuna ragione:
né farlo chiamare, né lamentarsi, né scrivere; doveva risolvere tutti i
problemi da sola, ricevere dal suo avvocato il denaro occorrente, assumersi
ogni responsabilità e lasciarlo in pace. Gli promise di far così, e mi
raccontò che quando, sollevato, felice, le tenne per un attimo le mani fra le
sue, ringraziandola del sacrificio, si sentì già ricompensata.
- Ma fu l'unica ricompensa? - chiese una signora.
- Non lo rivide mai più.
- Oh! - esclamò la signora: e questa, poiché il nostro amico ci lasciò
immediatamente, fu l'unica parola di qualche importanza pronunciata
ulteriormente sull'argomento sino alla sera seguente, quando, accanto al
fuoco, seduto nella migliore poltrona, Douglas sollevò la sbiadita copertina
rossa di un sottile quaderno di foggia antiquata e dai tagli dorati. Ci volle
in realtà più di una sera per leggerlo, ma, alla prima occasione, la stessa
signora fece un'altra domanda: - Che titolo gli avete dato?
- Nessuno.
- Oh, ne ho uno io! - esclamai. Ma Douglas, senza badare a me, aveva
cominciato a leggere con voce limpida e netta: quasi la versione sonora
della bella grafia dell'autrice.
I.
Ricordo tutto l'inizio come un succedersi di voli e cadute, una piccola
altalena di turbamenti giusti o sbagliati. Dopo lo slancio che, in città, mi
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
aveva spinta ad accettare l'invito, passai un paio di giorni veramente
pessimi da ogni punto di vista, nuovamente piena di dubbi e sicura d'aver
commesso un errore. In questo stato d'animo trascorsi le lunghe ore del
viaggio in una diligenza traballante e sobbalzante che mi portava alla
fermata di posta dove avrei trovato una vettura della casa. Questa
comodità, mi fu detto, era stata predisposta, e infatti trovai, sul finire d'un
pomeriggio di giugno, una spaziosa carrozza che mi aspettava. Viaggiando
a quell'ora, in una splendida giornata, attraverso una campagna in cui la
dolcezza dell'estate sembrava offrirmi un amichevole benvenuto, ripresi
coraggio e, mentre svoltavamo nel viale, avvertii un senso di sollievo che
probabilmente altro non era se non la prova di quanto era stato il mio
abbattimento. Forse avevo aspettato, o temuto, qualcosa di tanto
melanconico che quello che mi accolse fu invece una piacevole sorpresa.
Ricordo la gradevole impressione che risvegliò in me la grande, luminosa
facciata, con le finestre aperte e le tende nuove e un paio di domestiche che
guardavano giù; ricordo il prato e gli splendenti fiori dai colori accesi e lo
stridere delle ruote sulla ghiaia, le cime degli alberi che s'aggrovigliavano
e al di sopra i larghi cerchi delle cornacchie in volo e il loro gracchiare nel
cielo dorato. Lo scenario era d'una tale grandiosità da umiliare al confronto
la mia tanto modesta dimora, ed ecco che subito apparve sulla soglia del
portone, tenendo per mano una bambina, una persona piena di dignità, che
mi fece una rispettosa riverenza, come se io fossi la padrona o un'ospite di
gran riguardo. L'idea che del luogo mi era stata data a Harley Street era
assai più modesta, quindi, nel ricordarmene, mi convinsi che il proprietario
era davvero un gentiluomo di razza, e immaginai che le soddisfazioni che
mi aspettavano sarebbero state assai meglio di quanto mi era stato
promesso.
Non ebbi alcuna delusione fino al giorno seguente, perché trascorsi ore
di vera esaltazione facendo conoscenza con la più piccola dei miei allievi.
La bambina che accompagnava la signora Grose mi apparve di colpo una
creatura tanto incantevole da farmi ritenere una gran fortuna l'avere a che
fare con lei. Era la più bella bambina che avessi mai vista e dovetti subito
stupirmi che lo zio «gentiluomo» non me ne avesse detto qualcosa di più.
Dormii assai poco, quella notte, ero troppo eccitata, e anche di questa
eccitazione, ricordo, ero stupita, aggiungendosi all'impressione che aveva
prodotto in me la grande gentilezza con cui ero stata trattata. La vasta
camera solenne, una delle migliori della casa, il letto vasto e solenne, le
Henry James
372
1970 - Racconti Di Fantasmi
sontuose cortine ricamate, i lunghi specchi in cui, per la prima volta nella
mia vita, potevo vedermi dalla testa ai piedi, tutto mi colpiva (oltre il
fascino straordinario della mia piccola allieva) come troppe cose belle,
tutte in una volta. Mi divenne perfino chiaro, sin dal primo momento, che
con la signora Grose avrei potuto stabilire quei rapporti d'amicizia sui
quali, mentre viaggiavo nella diligenza, forse avevo sin troppo fantasticato.
La sola cosa che, in quel primo contatto, avrebbe potuto risvegliare una
certa inquietudine, era il suo evidente sollievo nel vedermi. Mi ero accorta
che per quasi mezz'ora la sua felicità nell'incontrarmi - brava donna,
semplice, autentica linda, piena di salute - era decisamente controllata
perché non trasparisse troppo vistosamente. Mi ero quindi un poco
meravigliata del fatto che avesse cercato di nasconderla, e questo, se ci
avessi riflettuto con un po' di sospetto, avrebbe dovuto mettermi a disagio.
Ma era confortante il pensare che non ci sarebbero state ombre sul
rapporto che avrei avuto con una bambina tanto allegra e affascinante qual
era la mia piccola allieva, e il pensiero della sua angelica bellezza fu più
d'ogni altra cosa la ragione per cui, agitata come mi sentivo, mi alzai più
volte e mi misi a passeggiare per la stanza perché mi diventassero familiari
i contorni di ogni cosa; a spiare dalla finestra spalancata il lontano
albeggiare del giorno estivo, a cercar di scoprire, sin dove arrivava il mio
sguardo, le altre sezioni della casa, e a tendere l'orecchio per afferrare mentre nell'ombra che dileguava i primi uccelli cominciavano a
cinguettare - certi rumori meno naturali che mi sembrava d'aver udito, non
all'esterno ma all'interno della casa. C'era stato un momento in cui avevo
creduto di riconoscere, debole e lontano, il pianto d'un bambino; e in un
altro momento avevo sussultato credendo di sentire davanti alla mia porta
un passo felpato. Ma erano impressioni tanto lievi da potersi facilmente
respingere, ed è soltanto alla luce (e dovrei dire piuttosto «alle tenebre»)
degli avvenimenti successivi che adesso mi tornano alla memoria.
Sorvegliare, istruire, «formare» la piccola Flora doveva evidentemente
bastare a rendere utile e felice la mia vita. Al pianterreno, la sera prima, ci
eravamo già accordate con la signora Grose che, dopo quella prima notte,
la bambina avrebbe abitualmente dormito con me; e a questo scopo il suo
bianco lettino era già stato sistemato nella mia camera. Io mi ero
impegnata ad occuparmi interamente di lei, e se era rimasta ancora
un'ultima notte con la signora Grose lo si doveva alla considerazione che
io ero un'estranea e lei timida di natura. Nonostante questa timidezza (che
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1970 - Racconti Di Fantasmi
la bambina stessa, in modo assai singolare, aveva riconosciuto con
franchezza e coraggio, permettendo quindi, senza mostrare alcun intimo
disagio ma con la soave, salda serenità d'un putto di Raffaello, che noi ne
discutessimo e decidessimo in proposito) ero certa che l'avrei rapidamente
conquistata. Una parte della simpatia che già provavo per la stessa signora
Grose derivava anche dal piacere che manifestava per la mia ammirazione
e il mio incanto nel sedere ad una tavola illuminata da quattro alte candele,
con la mia allieva fra di esse, tutta allegra di fronte a me nel suo
seggiolone, un tovagliolino al collo, pane e latte davanti. C'erano
naturalmente delle cose che alla presenza di Flora potevamo dirci solo con
uno sguardo lieto e compiaciuto, o con indirette e coperte allusioni.
- E il bambino... le somiglia? E altrettanto straordinario?
Non si dovrebbero adulare i bambini. - Oh, signorina! assolutamente
straordinario. Se già pensate tanto bene di questa! - e rimase lì, con un
piatto in mano, a contemplare la nostra compagna, che volgeva su di noi
uno sguardo tanto placido e celestiale che ci dispensava dal trattenerci.
- Cioè... se già la penso così...
- Sarete facilmente conquistata anche dal signorino!
- Bene, mi sembra d'esser venuta solo per questo, per farmi conquistare.
Ho paura, nondimeno, - ricordo d'aver aggiunto d'impulso, - di lasciarmi
conquistare un po' troppo facilmente. Anche a Londra sono stata
conquistata!
Mi sembra di vedere ancora il largo volto della signora Grose mentre
ascolta le mie parole: - A Harley Street?
- A Harley Street.
- Be', signorina, non siete la prima... e non sarete nemmeno l'ultima.
- Oh, - dissi ridendo, - non pretendo d'essere l'unica. L'altro mio allievo,
ad ogni modo, se ho ben capito, arriverà domani?
- Non domani, signorina... venerdì. Arriverà con la diligenza, come voi,
sotto la sorveglianza del postiglione, e troverà ad aspettarlo la stessa
vettura.
Ebbi subito l'idea, e lo dissi, che la cosa più opportuna, oltre che
amichevole e gentile, sarebbe stata che all'arrivo della diligenza io mi
trovassi ad aspettarlo con la sua sorellina; idea che la signora Grose
accolse favorevolmente, tanto che io, in certa misura, interpretai il suo
comportamento come una sorta di confortante impegno -sempre
mantenuto, poi, grazie al cielo! - d'essere solidale con me su ogni cosa. Oh,
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
come sembrava felice della mia presenza!
Quello che provai il giorno dopo non era cosa che, a mio giudizio, si
potesse onestamente chiamare una reazione all'entusiasmo dell' arrivo; era
probabilmente, tutt'al più, un lieve senso di oppressione causato da una più
chiara valutazione della misura del mio nuovo impegno, quanto più lo
esaminavo e analizzavo in tutti i suoi aspetti. Le mie responsabilità
avevano realmente un'estensione e un peso ai quali non ero preparata e al
pensiero di doverli affrontare mi sentivo, giovanilmente, un po' sgomenta,
ma anche orgogliosa. Le lezioni, in tale stato di agitazione, subirono
naturalmente qualche rinvio; mi sembrò che il mio primo compito fosse
quello di creare una grande intimità fra me e la bambina, con l'arte più
gentile di cui ero capace. Passai la giornata all'aperto insieme a lei;
avevamo convenuto, anzi, con suo grande compiacimento, che sarebbe
toccato a lei, a lei soltanto, di farmi conoscere il luogo. Me lo fece visitare
passo a passo, stanza per stanza, segreto per segreto, col suo
chiacchiericcio infantile, bizzarro e delizioso, e con il risultato che, tempo
mezz'ora, eravamo diventate grandissime amiche. Durante il nostro breve
giro fui sorpresa dalla sicurezza e dal coraggio con cui, bambina com'era,
affrontava il percorso; in camere vuote e bui corridoi, su scale a chiocciola
che mi obbligavano a fare una sosta, e persino sulla cima d'una vecchia
torre quadrata e merlata che mi dava le vertigini, il suo cinguettio
mattutino, il suo volermi dire molte più cose di quante ne chiedessi, erano
festosi e mi stimolavano. Non ho più veduto Bly dal giorno in cui ne sono
partita, e certamente oggi apparirebbe al mio sguardo più vecchio e
disincantato, più piccolo e angusto. Ma, mentre la mia piccola guida dai
capelli d'oro e dalla vestina azzurra mi danzava davanti da un angolo
all'altro e sgambettava lungo i corridoi, Bly mi sembrò un castello
romantico abitato da un folletto rosa, un luogo che in qualche modo, per
piacere a una mente infantile, avesse assunto forma e colori dai libri di
racconti e dalle fiabe. Non era forse un libro di favole quello su cui mi ero
appisolata per sognare? No: era una casa grande, brutta e vecchia, ma
confortevole, che incorporava alcune parti d'una costruzione anche più
antica, mezzo rifatta e mezzo utilizzata, in cui fantasticavo che ci fossimo
smarriti come un pugno di passeggeri su un grande vascello alla deriva. E,
cosa ben strana, al timone c'ero io!
II.
Henry James
375
1970 - Racconti Di Fantasmi
Me ne resi conto quando, due giorni dopo, mi recai in carrozza con Flora
ad accogliere il signorino, come lo chiamava la signora Grose; e ancora
più per un incidente che, la seconda sera, mi aveva profondamente
sconcertata. Il primo giorno, come ho già detto, era stato in complesso
rassicurante; ma dovevo vederlo chiudersi nella più viva apprensione.
Nella posta di quella sera, che giunse tardi, c'era una lettera per me, di
pugno del padrone che tuttavia risultò di poche parole; a sua volta ne
conteneva un'altra, indirizzata a lui stesso, col sigillo ancora intatto.
«Questa lettera, la riconosco, proviene dal direttore del collegio, un
seccatore insopportabile. Leggetela, per favore; trattate con lui; ma non me
ne parlate. Nemmeno una parola. Parto!» Ruppi il sigillo, con grande
sforzo; tanto grande che mi ci volle un bel po' di tempo per venirne a capo;
poi portai la lettera ancora chiusa in camera mia e cominciai a leggerla
soltanto poco prima di andare a letto. Avrei fatto meglio ad aspettare sino
al mattino, perché mi procurò un'altra notte insonne. Non avendo a chi
chieder consiglio il giorno dopo ero piena d'angustie; e lo divenni a un tal
punto che alla fine decisi di confidarmi almeno con la signora Grose.
- Che cosa significa? Il bambino è stato mandato via dal collegio.
Mi lanciò uno sguardo che dapprima m'impressionò; poi assunse di
colpo un'aria assente come se volesse riprendersi: - Ma non li rimandano
tutti?
- A casa, sì, ma soltanto per le vacanze. Miles invece non potrà più
tornare in collegio.
Non potendo eludere il mio sguardo attento, arrossi: - Non vogliono più
tenerlo?
- Lo rifiutano nel modo più assoluto.
A queste parole alzò gli occhi che aveva distolto da me e li vidi pieni di
lagrime pietose: - Che cosa ha fatto?
Esitai; poi mi sembrò più semplice tenderle la lettera. Il gesto,
nondimeno, servi soltanto a farle porre le mani dietro la schiena, senza
toccarla. Scosse tristemente il capo mentre diceva: - Queste cose non fanno
per me, signorina.
La mia consigliera non sapeva leggere! Trasalii per questo sbaglio e
cercando di sfumarlo per quanto mi era possibile, apersi la lettera per
leggergliela; poi, esitando, la piegai di nuovo e la rimisi in tasca.
- E davvero cattivo?
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
Aveva ancora le lagrime agli occhi: - Dicono così, quei signori?
- Non entrano nei particolari. Esprimono soltanto il loro dispiacere per
l'impossibilità di tenerlo ancora. E questo può significare soltanto una cosa
-. La signora Grose mi ascoltava con muta emozione; ma non mi domandò
quale poteva essere la «cosa»; così, poco dopo, per dare alla faccenda un
minimo di coerenza e chiarirla a me stessa col solo aiuto della sua
silenziosa presenza, aggiunsi: - Cioè che può essere di danno ai suoi
compagni.
A queste parole, con uno dei bruschi mutamenti di umore propri alle
anime semplici, s'infiammò di colpo: - Il padroncino Miles!... Lui esser di
danno?!
C'era una tale ondata di buona fede nelle sue parole che, per quanto non
avessi ancora visto il bambino, fui spinta dai miei stessi timori ad
aggrapparmi all'assurdità di quell'idea. E non trovai di meglio, per venire
in aiuto alla mia amica, del commentare sarcasticamente lì per lì: - A quei
poveri innocentini!
- È davvero spaventoso dire cose tanto crudeli! - esclamò la signora
Grose. - Pensi che non ha ancora dieci anni!
- Sì, sì, sembra davvero incredibile!
Mi fu evidentemente grata per questa affermazione. - Dovete prima
vederlo, signorina. Poi, cercate di crederlo! - Immediatamente sentii di
nuovo il vivo desiderio di conoscerlo; era l'inizio d'una curiosità che nelle
ore seguenti si sarebbe acuita fino a darmi pena. La signora Grose, a
quanto potevo giudicare, si rendeva conto dell'effetto che aveva prodotto
su di me, e insistè con sicurezza:
- Potreste pensare la stessa cosa della bambina. Dio la benedica,
- aggiunse poi, - ma guardatela!
Mi volsi e vidi Flora - che dieci minuti prima avevo lasciato nella
stanza-scuola con un foglio di carta bianca, una matita, e una fila di begli
«o» rotondi davanti - ferma sulla soglia della porta spalancata. Coi suoi
modi graziosi, ella mostrava uno straordinario distacco dai compiti che
non le erano graditi; nondimeno i suoi occhi, accesi dalla gran luce
dell'infanzia, sembravano spiegare la sua condotta semplicemente come il
risultato dell'affetto che aveva concepito per me, e che l'aveva costretta a
seguirmi. Non mi occorreva altro perché sentissi tutta la forza del paragone
della signora Grose: strinsi la mia allieva tra le braccia e la copersi di baci,
ai quali si mescolava un singhiozzo commosso.
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
Per tutto il resto di quel giorno, andai nondimeno in cerca di altre
occasioni per avvicinare la mia collega, specialmente quando, verso sera,
cominciai a sospettare che volesse evitarmi. La raggiunsi, ricordo, sulla
scala, scendemmo insieme i gradini e giunte in fondo la trattenni,
prendendola per un braccio: - Da quello che mi avete detto questa mattina,
devo concludere che voi non l'avete mai visto comportarsi male.
Gettò indietro la testa; era chiaro che nel frattempo e con molta lealtà,
aveva deciso l'atteggiamento da prendere. - Oh, mai visto!... Non voglio
dir questo!
Ero turbata, di nuovo: - Allora lo avete visto...
- Ma sì, signorina, grazie al cielo!
Dovetti riflettere su quella risposta prima di accettarla: - Volete dire che
un ragazzo che non è mai...
- Non è un ragazzo, per me.
La strinsi più forte: - Vi piace che siano cattivi? - Poi, anticipando la sua
risposta: - Piace anche a me! - aggiunsi in fretta, -ma non sino al punto di
contaminare...
- Contaminare? - La mia parola grossa la fece esitare. Gliela spiegai: Corrompere.
Mi guardava fisso mentre finalmente capiva il significato di quel che le
avevo detto, ma il risultato fu una strana risata: - Avete forse paura che vi
corrompa? - Pose la domanda con un'ironia tanto sincera e sottile che, con
una risata simile alla sua, e senza dubbio un po' sciocca, cedetti sul
momento alla paura del ridicolo.
Ma il giorno dopo, mentre si avvicinava l'ora di salire in carrozza, tornai
improvvisamente alla carica in un'altra parte della casa: - Che tipo era la
signorina che stava qui prima?
- L'ultima istitutrice? Era anche lei giovane e carina... giovane e graziosa
quasi quanto voi, signorina.
- Ah, allora spero che la giovinezza e la bellezza le siano state d'aiuto! ricordo d'aver detto con impeto. - Sembra che ci preferisca giovani e belle!
- Oh, è proprio così! - confermò la signora Grose. - Era quello che
cercava in tutte! - Aveva appena pronunciato queste parole che volle
correggersi: - Dico che questo è il suo gusto, il gusto del padrone.
Rimasi di stucco: - Ma di chi parlavate prima? Si sforzò di apparire
disinvolta, ma arrossi: - Di chi, dunque?! Di lui.
- Del padrone?
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
- E di chi altro?
Era tanto evidente che non ci poteva essere nessun altro, che un
momento dopo avevo già dimenticato l'impressione che, senza volerlo,
avesse detto più delle sue intenzioni; pertanto le chiesi solo quel che
desideravo sapere: - E lei aveva mai notato nulla nel bambino?
- Che non andava bene? Non me l'ha mai detto.
Ebbi uno scrupolo, ma lo superai: - Era premurosa... in modo
particolare?
Mi parve che la signora Grose si sforzasse di apparire coscienziosa. - Per
certe cose, sì.
- Ma non in tutto?
Sembrò voler riflettere di nuovo: - Be', signorina... Se n'è andata. Non
voglio far pettegolezzi.
- Vi capisco perfettamente, - mi affrettai a rispondere; ma, un istante
dopo, non ritenni contrastante con questo assenso di proseguire: - È morta
qui?
- No... se n'è andata.
Non so che cosa provassi a quella concisione della signora Grose,
ma mi suonava strana: - Se n'è andata per morire altrove? - La signora
Grose guardava dritto davanti a sé, fuori della finestra, ma io sentivo che,
almeno in teoria, avevo il diritto di sapere che cosa ci si aspettava dalle
giovani assunte a Bly. - Volete dire che si ammalò e tornò a casa?
- A quanto sembra, non si era ammalata qui. Lasciò Bly a fine d'anno per
passare a casa sua, come diceva, una breve vacanza, a cui certamente le
dava diritto il tempo che aveva trascorso qui. Avevamo allora una giovane,
una bambinaia ch'era rimasta, una ragazza sveglia e abile; e fu lei ad
occuparsi dei bambini durante la vacanza. Ma la nostra signorina non tornò
più, e proprio quando mi aspettavo che tornasse, seppi dal padrone ch'era
morta.
Ci pensai un po' su: - Ma di che cosa? - domandai.
- Non me l'ha mai detto! Scusatemi, signorina, - disse la signora Grose, ma adesso devo tornare alle mie faccende.
III.
Il suo volgermi le spalle a quel modo non fu per fortuna, date le mie
preoccupazioni, un affronto che potesse compromettere lo sviluppo della
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
nostra reciproca stima. Dopo che ebbi accompagnato a casa il piccolo
Miles, ci sentimmo anzi più unite che mai dal mio stupore, dalla mia
profonda commozione: ero infatti pronta a gridare che trovavo mostruoso
che un bambino come quello che avevo appena conosciuto, fosse messo al
bando. Arrivai con un lieve ritardo, e, nel vederlo sulla porta della locanda
dove lo aveva lasciato la diligenza, gli occhi che mi cercavano
ansiosamente, mi sembrò all'istante che fosse circondato e permeato della
stessa luminosa freschezza, della stessa fragrante purezza che fin dal primo
momento avevo notato nella sua sorellina. Era incredibilmente bello, e la
signora Grose non aveva esagerato: davanti a lui ogni cosa veniva
cancellata da uno slancio di appassionata tenerezza. Ciò che fin dal primo
momento mi rapì il cuore fu qualcosa di celeste, qualcosa che non avevo
mai trovato, allo stesso grado, in altri bambini: la sua tranquilla,
indescrivibile aria di non conoscere altro al mondo che l'amore. Era
impossibile avere una brutta fama e, insieme, quell'aria d'infinita,
innocente dolcezza; così, mentre tornavo a Bly con lui, ero semplicemente
sbalordita (è la parola giusta, non mi sentivo offesa) per il contenuto
dell'orribile lettera che tenevo in camera mia, chiusa in un cassetto.
Appena mi fu possibile scambiare qualche parola in privato con la signora
Grose, le dichiarai che la cosa era persino grottesca.
Mi capì immediatamente: - Fate allusione a quell'accusa crudele?
- Non regge assolutamente. Cara signora, guardatelo un po'! Sorrise alla
mia presunzione d'aver scoperto il suo fascino. - Vi
assicuro, signorina, che non faccio altro! Allora, che direte? - aggiunse
subito dopo.
- In risposta alla lettera? - Avevo già deciso. - Niente.
- E a suo zio?
Fui categorica: - Niente.
- E al bambino?
Fui stupefacente: - Niente.
Si asciugò vigorosamente la bocca con il grembiule: - Allora sarò al
vostro fianco. Andremo sino in fondo.
- Andremo sino in fondo! - Le feci eco con ardore, tenendole la mano
come per stringere un patto.
La trattenne un momento, poi con la mano libera sollevò di nuovo il
grembiule. - Vi dispiace, signorina, se mi prendo la libertà di...
- Darmi un bacio? No! - Strinsi fra le braccia quella buona creatura, e
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380
1970 - Racconti Di Fantasmi
dopo che ci fummo abbracciate come sorelle, mi sentii ancora più energica
e piena di indignazione.
Questo fu tutto, per il momento: ma un momento così pieno che,
ripensandoci ora, mi rendo conto di dover fare un certo sforzo per
ricomporne gli esatti limiti. Quello a cui ripenso con stupore è lo stato di
cose che avevo accettato. Mi ero impegnata, con la mia compagna, di
andare sino in fondo, ma, a quanto ricordo, ero preda di un incantesimo
capace di nascondere l'ampiezza e le implicazioni di un simile impegno.
Mi sentivo sollevata da un'enorme ondata di entusiasmo e di pietà.
Trovavo semplice, nella mia ignoranza, nella mia confusione e, forse, nella
mia presunzione, il ritenere di poter trattare con un ragazzo che, nella sua
educazione alle cose del mondo, era soltanto agli inizi. Non riesco
nemmeno a ricordare, oggi, quali progetti avessi per lui una volta che,
terminate le vacanze, avrebbe dovuto riprendere gli studi. Certo, in teoria,
tutti concordavamo ch'egli dovesse prender lezioni da me durante
quell'incantevole estate, ma ora mi rendo conto che, per intere settimane,
fui io piuttosto a ricevere lezioni. Imparai qualcosa - certamente all'inizio
-che non avevo appreso nella mia vita modesta e limitata: imparai a
divertirmi, e perfino a saper divertire, e a non pensare all'indomani. Era la
prima volta, in un certo senso, che mi accorgevo dello spazio e dell'aria e
della libertà, di tutta la musica dell'estate e dei misteri della natura. E poi
c'era la considerazione di cui godevo... una così dolce considerazione! Oh,
era una trappola... non premeditata, ma profonda, per la mia
immaginazione, per la mia sensibilità forse per la mia vanità; per qualsiasi
cosa che, in me, fosse vulnerabile. Insomma, per dire come stavano le
cose: non stavo più in guardia! Loro mi davano così poco pensiero, erano
di una gentilezza d'animo veramente straordinaria. Ero solita chiedermi,
ma anche questo in modo incoerente, come li avrebbe trattati l'aspro futuro
(ogni futuro è aspro), e se li avrebbe feriti. Erano nel fiore della salute e
della gioia; eppure - come se m'avessero affidato una coppia di piccole
«altezze», di principi del sangue, per i quali ogni cosa, per esser giusta,
dev'essere vigilata e protetta - la sola forma che, per gli anni a venire,
vedessi possibile per loro nelle mie fantasticherie era un prolungamento
romantico, davvero regale, del giardino e del parco. Può darsi
naturalmente, e soprattutto, che ciò che intervenne in seguito e
all'improvviso conferisca a quel primo periodo il fascino della calma...
quella penombra quieta in cui qualcosa si acquatta o prende vigore. Difatti
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1970 - Racconti Di Fantasmi
il mutamento fu simile al balzo d'una belva. Nelle prime settimane i giorni
erano lunghi; spesso, al colmo della loro bellezza, mi regalavano ciò che io
chiamavo la «mia» ora, l'ora in cui - essendo venuto e trascorso per i miei
allievi il tempo di prendere il tè e di andare a letto - mi restava, prima di
ritirarmi definitivamente, un breve intervallo di solitudine. Per quanto mi
piacessero i miei compagni, questa era l'ora del giorno che amavo di più; e
l'amavo soprattutto quando, mentre la luce del giorno svaniva - o, per
meglio dire, il giorno indugiava, e gli ultimi richiami degli ultimi uccelli
risuonavano nel cielo dorato dai vecchi alberi - potevo passeggiare nel
parco e godere, quasi con un sentimento di possesso che mi divertiva e
insieme mi lusingava, della bellezza e del decoro del luogo. Era un piacere
per me in quei momenti sentirmi tranquilla e in pace con la mia coscienza;
e anche forse pensare che con la mia discrezione, con il mio calmo buon
senso e in generale con le mie alte qualità davo senza dubbio piacere - se
mai vi avesse pensato! - alla persona che mi aveva convinta con la sua
insistenza. Ciò che stavo facendo era quanto egli aveva ardentemente
sperato e mi aveva chiesto personalmente, e che io fossi in grado, dopo
tutto, di farlo, mi dava una gioia anche più grande di quella che avrei
potuto aspettarmi. Oso dire che mi consideravo, in poche parole, una
giovane eccezionale, e mi confortava la certezza che ciò sarebbe stato
sempre più chiaro a tutti. Bene, avevo proprio bisogno di essere
eccezionale per poter affrontare le cose eccezionali che, di lì a poco,
avrebbero cominciato a verificarsi.
Accadde all'improvviso, un pomeriggio, nel bel mezzo della «mia» ora: i
bambini erano fra le coltri a letto, ed io ero uscita per la mia passeggiata.
Uno dei pensieri (che ora non ho la minima esitazione ad annotare) che
erano soliti accompagnarmi in quel mio vagabondare era che sarebbe stato
incantevole, degno d'un romanzo affascinante, incontrare improvvisamente
qualcuno. Qualcuno che mi apparisse laggiù, alla svolta del sentiero e che fermo davanti a me -mi sorridesse con l'aria di approvarmi. Non chiedevo
niente di più... chiedevo soltanto che sapesse; e il solo modo per esser certa
che sapeva, sarebbe stato di leggerlo nel suo bel viso, rischiarato dalla luce
di quella consapevolezza. Tutto ciò - intendo dire soprattutto quel volto era esattamente presente al mio spirito, quando, alla prima di quelle
straordinarie occasioni, sul finire d'una lunga giornata di giugno, mi fermai
di colpo uscendo da uno dei boschetti, in vista della casa. Ciò che mi aveva
fatta fermare di colpo (preda di un turbamento assai più profondo di
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
quanto sarebbe stato provocato da una apparizione) era l'impressione che
la mia fantasia, in un lampo, fosse diventata realtà. Egli era là!... ma su in
alto, oltre il prato, proprio sulla cima della torre dove, la prima mattina, mi
aveva condotto la piccola Flora. Quella torre era una delle due costruzioni
quadrate, assurde, merlate, che non so per quale ragione, e sebbene io vi
vedessi solo minime differenze, erano distinte in Torre vecchia e Torre
nuova. Si ergevano ai lati opposti della casa, ed erano probabilmente due
scherzi architettonici, riscattati in certa misura dal fatto di non essere del
tutto isolate, né di un'altezza troppo pretenziosa, mentre la loro antichità
vistosa e falsa risaliva a un risveglio di architettura romantico che
costituiva già un rispettabile passato. Io le ammiravo, ci fantasticavo sopra,
dal momento che tutti potevamo ricavare qualche profitto, specialmente
quando torreggiavano nella foschia, dall'imponenza dei loro bastioni; e
tuttavia non sembrava quello il luogo più degno per l'immagine che avevo
così spesso invocato.
Nel limpido crepuscolo quell'immagine produsse in me, ricordo, due
emozioni ben distinte, le quali non furono in definitiva che due sussulti
separati di sorpresa. La seconda sorpresa fu la violenta percezione
dell'errore della prima: l'uomo che vedevo non era infatti la persona che
avevo precipitosamente supposto. Ne provai un tale turbamento che, dopo
tanti anni, non posso sperare di darne una descrizione vivida. Si ammetterà
che un uomo sconosciuto, in un posto solitario, sia causa di paura per una
ragazza cresciuta in famiglia; e la figura che mi stava di fronte, bastarono
pochi secondi perché ne fossi certa, non assomigliava minimamente né a
qualcuno che conoscessi né all'immagine che mi era familiare. Non l'avevo
veduto a Harley Street, non l'avevo veduto in nessun luogo. Per giunta il
posto, in maniera davvero singolare, era diventato all'istante per il solo
fatto di quell'apparizione, perfettamente desolato. Si rinnova interamente
almeno in me, mentre stendo qui la mia testimonianza con una lucidità che
non avevo mai avuto prima, la sensazione di quel momento. Era come se,
nell'istante in cui mi rendevo conto di quel che vedevo, tutta la scena fosse
stata toccata dalla morte. Mi sembra di udire ancora, mentre scrivo, il
silenzio totale in cui si spensero tutti i rumori della notte. Le cornacchie
smisero di gracchiare nel cielo dorato, e l'ora amica smarrì per il momento
tutta la sua voce. Ma nient'altro era mutato nella natura, a meno che non
fosse per un mutamento che io vedevo con eccezionale chiarezza. L'oro
stava ancora sospeso nel cielo, l'aria era limpida, l'uomo che mi osservava
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
da sopra i merli sembrava un ritratto nella sua cornice. Fu per questo che
pensai, con una straordinaria rapidità, a tutte le persone che avrebbe potuto
essere e non era. Ci eravamo guardati da lontano abbastanza a lungo
perché avessi modo di chiedermi con ansia chi mai fosse, e di provare,
come conseguenza della mia incapacità di trovare la risposta, uno stupore
che si faceva sempre più intenso.
Il grande problema (o almeno uno dei più grandi) che sorge in simili
casi, è certamente quello di stabilire in seguito la loro durata. Ebbene,
questa mia avventura durò (e voi pensate ciò che vi pare) il tempo
necessario perché io formulassi una dozzina di ipotesi, nessuna delle quali
mi parve soddisfacente, su come ci fosse in casa - e da quanto tempo,
oltretutto? - una persona che ignoravo. Durò inoltre il tempo sufficiente
perché io mi offendessi un poco nel pensare che la mia posizione doveva
rendere inammissibile che io ignorassi e che ci fosse quella persona. Durò,
infine, quel tanto che ci voleva perché il visitatore (e c'era una punta
d'insolenza, adesso che ci penso, nella strana familiarità che dimostrava nel
restare senza cappello) mi potesse fissare dal suo posto, rivolgendomi nella
luce che calava la stessa domanda, lo stesso interrogativo che suscitava in
me la sua presenza. Eravamo troppo distanti per poterci rivolgere la parola,
ma ci fu un momento in cui, se fossimo stati più vicini, una parola di sfida
tra di noi, rompendo il silenzio, sarebbe stato il giusto risultato di quel
nostro reciproco e sfrontato fissarci. Egli stava in un angolo, il più lontano
della casa, dritto come un fuso, pensai, e con le due mani sul parapetto.
Sicché lo vidi, come vedo le lettere che vado tracciando su questa pagina;
poi, un minuto dopo, come per rendere più interessante lo spettacolo,
lentamente cambiò di posto - passò, guardandomi fisso per tutto il tempo,
all'angolo opposto della piattaforma. Sì, ebbi la netta sensazione che
durante quello spostamento non mi togliesse mai gli occhi di dosso, e in
questo momento vedo ancora la sua mano passare da un merlo all'altro,
mentre lui si muove. Giunto all'angolo opposto si fermò, ma meno a lungo,
e anche nel ritirarsi continuò a fissarmi intensamente. Si volse - e per me
fu tutto.
IV.
Non si può certo dire che in quell'occasione non mi aspettassi di saperne
di più, tanto a fondo ero stata impietrita, e altrettanto scossa. C'era un
Henry James
384
1970 - Racconti Di Fantasmi
«segreto», a Bly... un mistero di Udolfo oppure un pazzo, un parente
innominabile, tenuto laggiù in un isolamento insospettato? Non saprei dire
per quanto tempo vi rimuginai sopra, o per quanto tempo, sospesa tra
curiosità e paura, rimasi sul luogo dove avevo avuto quel traumatico
incontro; ricordo soltanto che quando rientrai in casa, la notte era scesa.
Nel frattempo l'agitazione si era certamente impadronita di me, al punto
che, aggirandomi sempre nel medesimo posto, dovevo aver percorso circa
tre miglia; ma mi sarebbe toccato in seguito un tale cumulo di angosce che
quel primo segno di allarme era un brivido ancora relativamente umano.
L'aspetto più singolare della vicenda (singolare quanto tutto il resto) mi
apparve chiaro allorché incontrai nell'atrio la signora Grose. La scena mi
ricompare davanti nelle sue linee generali... riprovo l'impressione che mi
fecero, rientrando, l'ampio spazio a pannelli bianchi, vivamente illuminato
dalle lampade, con i suoi ritratti e il tappeto rosso, e il dolce sguardo
meravigliato della mia amica, che immediatamente mi disse di aver sentito
la mia mancanza. Compresi subito in questo contatto con lei, che - con
quella sua tranquilla cordialità, con quella semplice ansia dissipata dalla
mia comparsa -la signora Grose non sapeva nulla che avesse a che fare con
l'incidente ch'ero pronta a raccontarle. Non avevo immaginato che il suo
viso amico mi avrebbe tanto rianimata, e in certo qual modo misurai la
gravità di quanto avevo veduto dall'esitazione che provai a parlarne. Quasi
nient'altro in tutta questa storia mi appare tanto strano quanto il fatto che
alla paura che cominciava a invadermi si mescolasse, per così dire, l'istinto
di risparmiare la mia compagna. Di conseguenza, per ragioni che sinora
non avrei saputo spiegare, si compi in me, in quell'atrio accogliente e sotto
il suo sguardo, un rapido rivolgimento interiore; giustificai con una vaga
scusa il mio ritardo e prendendo a pretesto la bellezza della notte, la
rugiada abbondante e i piedi bagnati, mi ritirai il più presto possibile in
camera mia.
Lì, fu un'altra cosa; lì, per molti giorni di seguito fu davvero una strana
faccenda. Di giorno in giorno vi furono ore, o almeno momenti, strappati
anche ai doveri più elementari, in cui dovetti chiudermi in camera a
pensare. Non tanto perché il mio nervosismo superasse ormai la mia
capacità di resistenza, quanto perché avevo una gran paura di arrivare a
quel punto; poiché la verità, chiara e semplice, che dovevo affrontare
adesso, era che non potevo spiegarmi in nessun modo la presenza di quel
visitatore con cui ero giunta in rapporto in modo tanto inesplicabile e
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
tuttavia, almeno mi sembrava, tanto intimo. Mi ci volle però poco tempo
per rendermi conto che avrei potuto, anche senza un'inchiesta formale e
senza domande sospette, scandagliare ogni complicazione domestica. La
scossa che avevo subito doveva aver acuito tutte le mie facoltà; dopo tre
soli giorni, come risultato di una semplice e più accorta vigilanza, ero
infatti sicura che i domestici non si erano approfittati né presi gioco di me.
Qualunque cosa fosse ciò che io sapevo, intorno a me nessuno ne sapeva
nulla. C'era dunque una sola conclusione sensata: qualcuno si era preso
una libertà molto greve. Era questo che mi ripetevo quando correvo a
chiudermi in camera mia. Tutti noi, collettivamente, eravamo stati vittime
di un'intrusione; qualche viaggiatore privo di scrupoli, curioso di vecchie
dimore, era penetrato in casa senza essere visto, s'era goduto il panorama
dal posto più indicato, e poi era uscito furtivamente così come era entrato.
Se mi aveva squadrato con tanta sfrontatezza, ciò faceva parte
semplicemente della sua maleducazione. Dopotutto, il lato buono della
cosa era che certamente non l'avremmo più rivisto.
Non era poi tanto buono, lo ammetto, da impedirmi di considerare che
ciò che rendeva davvero tutto il resto molto poco significativo era il mio
delizioso compito. Il mio compito delizioso era nient'altro che la mia vita
con Miles e Flora, e nulla me l'avrebbe potuto rendere più piacevole
quanto il sentimento di potermici dedicare anima e corpo nonostante il mio
turbamento. L'attrattiva dei piccoli a me affidati era una gioia continua,
che mi portava a meravigliarmi continuamente dei miei vani timori
originari, del disgusto che avevo provato all'inizio per il probabile,
prosaico grigiore del mio incarico. Non ci sarebbe stato, a quanto
sembrava, né prosaico grigiore né sfibrante fatica; sicché come poteva non
essere delizioso un lavoro che si presentava come quotidiana bellezza?
C'era tutto il sapore delle fiabe infantili e delle prime poesie imparate a
scuola. Non voglio dire con questo, naturalmente, che studiassimo soltanto
favole e poesie; voglio dire che non so esprimere altrimenti il tipo
d'interesse che i miei piccoli compagni mi ispiravano. Come potrei
descriverlo se non dicendo che, invece di far l'abitudine a loro (e si tratta di
una cosa meravigliosa per un'istitutrice: chiamo a testimoni tutte le mie
colleghe!) facevo sempre nuove scoperte? C'era, certamente, una direzione
in cui tali scoperte s'arrestavano: la più fitta oscurità continuava a coprire il
settore della condotta del bambino in collegio. Tuttavia, l'ho già detto, mi
era stato subito concesso di affrontare quel mistero senza angoscia. Forse
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1970 - Racconti Di Fantasmi
sarebbe anche più vicino alla verità dire che - senza una parola - il
bambino stesso aveva dissipato ogni ombra, rendendo assurda l'intera
accusa. Le mie conclusioni sbocciarono come la sua rosea innocenza: egli
era semplicemente troppo delicato e schietto per il piccolo mondo, orrido e
sudicio, del collegio, e per questo aveva pagato. Riflettei penosamente che
la rivelazione di tale diversità, di tali superiori qualità, finisce
inevitabilmente per suscitare la vendetta della maggioranza (in cui si
possono benissimo includere direttori scolastici stupidi e sordidi).
Entrambi i bambini erano di una gentilezza di modi (era il loro unico
difetto, che del resto non aveva mai reso Miles un goffo) che li rendeva,
come dire? quasi impersonali, e certamente impossibili da punire. Erano
come i cherubini dell'aneddoto che, almeno moralmente, non avevano
niente che si potesse frustare! Ricordo che specialmente nei riguardi di
Miles provavo l'impressione che non avesse alcun passato. Non che ci si
aspetti molto da un fanciullo, ma c'era qualcosa, in quel bel bambino, di
straordinariamente sensitivo, eppure straordinariamente felice, che, più che
in ogni altra creatura della sua età che avessi conosciuto mi colpiva come
qualcosa che si rinnovasse ogni mattino. Egli non aveva mai sofferto,
nemmeno per un istante. Presi questo come la prova diretta che non gli era
mai stato inflitto un vero castigo. Se si fosse comportato male, ne avrebbe
subito la logica conseguenza, e anch'io, di riflesso, me ne sarei accorta... ne
avrei trovato le tracce. Non avevo trovato nulla, invece; dunque era un
angelo. Non parlava mai del collegio, non accennò mai a un compagno o a
un maestro, e per parte mia ero troppo disgustata per alludervi.
Naturalmente ero vittima di un incantesimo, e la cosa meravigliosa era
che, fin da allora, me ne rendevo conto perfettamente. Tuttavia mi ci
abbandonavo; era un antidoto per ogni cruccio, e di crucci ne avevo
parecchi. In quei giorni, infatti, mi giungevano lettere preoccupanti da
casa, dove non tutto andava bene. Ma accanto ai miei bambini, quale altra
cosa al mondo contava? Era questa la domanda che mi rivolgevo durante i
ritagli di tempo in cui mi appartavo dalla loro amabile grazia.
Un domenica - per proseguire il racconto - piovve tanto a lungo e
talmente forte che non potemmo affluire in chiesa; di conseguenza,
durante la giornata mi accordai con la signora Grose che, se verso sera il
tempo fosse migliorato, saremmo andate insieme alla funzione vespertina.
Fortunatamente la pioggia cessò e io mi preparai per la passeggiata fino al
villaggio che, attraverso il parco e lungo la strada maestra, richiedeva una
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ventina di minuti. Scendendo le scale per incontrarmi con la mia collega
nell'atrio, mi ricordai d'un paio di guanti che avevano richiesto qualche
punto e l'avevano avuto (con una pubblicità forse non edificante) mentre i
bambini prendevano il tè, alla domenica eccezionalmente servito in quel
gelido e pulito tempio di mogano e di ottone ch'era la sala da pranzo dei
«grandi». I guanti li avevo lasciati là e andai a riprenderli. La giornata era
piuttosto grigia, ma la luce del pomeriggio ancora indugiava e mi permise,
nel varcare la soglia, non soltanto di riconoscere, su una sedia vicino alla
grande finestra chiusa, ciò che cercavo ma anche di accorgermi di una
persona che, dalla parte esterna della finestra, guardava nella stanza. M'era
bastato fare un passo: la visione fu istantanea e perfettamente chiara. La
persona che guardava nella stanza era la stessa che mi era già apparsa. Mi
riapparve non direi con maggior nitidezza, cosa che sarebbe stata
impossibile, ma con una vicinanza che costituiva un passo avanti nei nostri
rapporti e che, al vederlo, mi gelò il sangue. Era lo stesso - era lo stesso, e
lo vedevo come la prima volta, dalla cintola in su, poiché la finestra,
sebbene la stanza da pranzo fosse al pianterreno, era più alta della terrazza
sulla quale egli si trovava. Il suo volto era premuto contro il vetro, eppure
l'effetto di questa visione ravvicinata, strano a dirsi, fu soltanto quella di
farmi capire quanto intensa fosse stata la prima. Si trattenne solo per pochi
secondi, ma abbastanza per convincermi che anche lui mi aveva vista e
riconosciuta; e fu come se lo avessi guardato per anni e lo conoscessi da
sempre. Accadde però qualcosa che non era avvenuta la volta precedente:
il suo sguardo che si fissava sul mio viso attraverso i vetri dall'altro lato
della stanza, era duro e scrutatore come la prima volta, ma mi abbandonò
per un attimo, durante il quale lo seguii e lo vidi posarsi successivamente
su diverse altre cose. Immediatamente un'altra certezza mi sconvolse: non
era venuto per me, era venuto per qualcun altro.
Questa fulminea consapevolezza (perché proprio di consapevolezza si
trattava, per quanto mescolata alla paura) produsse in me un effetto
straordinario, suscitò, mentre me ne stavo lì, una vibrazione improvvisa di
dovere e di coraggio. Dico coraggio perché, senza dubbio, ero già fuori di
me. Lasciai di corsa la sala da pranzo, raggiunsi l'ingresso della casa, in un
attimo fui nel viale, e voltato il più rapidamente possibile l'angolo della
terrazza, gettai lo sguardo lungo la facciata. Ma non c'era nulla da vedere...
il mio visitatore era svanito. Mi fermai, e quasi svenni per il sollievo; ma
tenevo il luogo sotto controllo... gli diedi il tempo di ricomparire. Lo
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chiamo tempo, ma quanto durò? Oggi non sono in grado di precisare la
durata di quegli avvenimenti. Dovevo aver smarrito la nozione del tempo: i
fatti non potevano essere durati quanto in effetti mi sembrava. Il luogo
intero, la terrazza, il prato, il giardino al di là, tutto quello che potevo
vedere del parco erano assolutamente deserti. C'erano cespugli e grossi
alberi, ma ricordo di aver avuto la chiara certezza che non nascondessero
nessuno. Mi tenni a quella convinzione; poi, istintivamente, invece di
tornare sui miei passi, andai alla finestra. Avvertivo confusamente che
dovevo mettermi nello stesso luogo nel quale si trovava. E così feci:
premetti il viso contro il vetro e guardai nella stanza come lui aveva fatto.
Proprio, quasi per permettermi in quel momento di giudicare l'ampiezza
del suo campo visivo, la signora Grose entrò nell'atrio, come io avevo fatto
poco prima. Ebbi così la perfetta ripetizione di ciò ch'era già accaduto. Mi
vide come io avevo visto il mio visitatore; si arrestò di colpo come avevo
fatto io; le feci provare, in parte, la stessa scossa che io avevo ricevuto.
Impallidì, facendomi chiedere a me stessa se anch'io fossi impallidita
tanto. In breve, mi fissò, e si ritrasse esattamente come avevo fatto io.
Compresi che usciva dalla casa per raggiungermi, e che presto l'avrei
incontrata. Rimasi dove mi trovavo, e mentre l'aspettavo più di un pensiero
mi attraversò la mente. Ma ne voglio ricordare qui uno solo: mi chiesi
perché anche lei si fosse spaventata.
V.
Oh, me lo fece sapere appena mi fu davanti girando l'angolo della casa,
con l'aria d'un fantasma: - Che cosa vi è accaduto, santo cielo? - Adesso
era rossa e ansante.
Non le risposi finché non mi fu vicina. - A me?! - e dovevo avere un
aspetto ben strano. - Si vede?
- Siete bianca come un lenzuolo. E avete un'aria spaventosa.
Per un istante dovetti riflettere: potevo affermare senza scrupoli
1’innocenza più assoluta. L'esigenza di rispettare il candore della signora
Grose mi era caduta dalle spalle, senza un fruscio, e se esitai per un istante
non fu per ciò che sapevo. Le tesi una mano ed ella la prese; la strinsi con
forza per un po' contenta di sentirmela vicino. Il suo timido sussulto di
sorpresa mi fu un poco d'aiuto: - Siete venuta a prendermi per andare in
chiesa, naturalmente, ma io non posso venirci.
Henry James
389
1970 - Racconti Di Fantasmi
- E accaduto qualcosa?
- Sì, e voi ora lo dovete sapere. Avevo un'aria molto strana?
- Alla finestra? Terribile!
- Ebbene, - dissi, - ero spaventata -. Gli occhi della signora Grose
dicevano molto chiaramente che lei non desiderava essere spaventata a sua
volta, ma dissero anche che conosceva troppo bene gli obblighi della sua
posizione per non essere pronta a condividere con me qualunque serio
inconveniente. Oh, era scritto che ne dovesse condividere molti! - Proprio
quello che avete visto un momento fa dalla finestra della sala da pranzo ne
era l'effetto. Quel che ho visto io, un attimo prima, era anche peggio.
La sua mano si strinse. - Che cos'era?
- Un uomo stranissimo. Guardava dentro.
- Quale uomo stranissimo?
- Non ne ho la minima idea.
Invano la signora Grose si guardò intorno: - Ma dov'è andato?
- Ne so ancora meno.
- Lo avevate già visto?
- Sì, una volta. Sulla torre vecchia.
Non potè far altro che guardarmi più fisso: - Volete dire che è uno
sconosciuto?
- Oh, assolutamente!
- E non me ne avete detto nulla?
- No... per certe ragioni. Ma adesso che avete indovinato... Gli occhi
rotondi della signora Grose affrontarono l'accusa:
- Io non ho indovinato! - disse molto tranquillamente. - Come lo potrei,
se voi stessa non sapete cosa pensarne?
- Non lo so nella maniera più assoluta.
- Lo avete visto soltanto sulla torre?
- E in questo punto un attimo fa.
La signora Grose si guardò di nuovo attorno: - Che cosa faceva sulla
torre?
- Se ne stava lassù e mi fissava. Rifletté un momento: - Era un signore?
Mi resi conto che non avevo bisogno di pensarci su: - No -. Mi guardava
con crescente stupore: - No.
- Allora non è nessuno del posto? Nessuno del villaggio?
- Nessuno... nessuno. Non ve l'ho detto, ma me ne sono accertata.
Emise un leggero sospiro di sollievo: stranamente, sembrava andar
Henry James
390
1970 - Racconti Di Fantasmi
meglio. Ma fu solo questione di un attimo: - Allora, se non è un signore...
- Che cos'è? E un orrore.
- Un orrore?
- È... Dio mi aiuti se lo so!
Ancora una volta la signora Grose si guardò attorno; fissò lo sguardo
nell'oscurità che stava avanzando, poi, riprendendosi, si rivolse a me con
una brusca incoerenza: - A quest'ora dovremmo essere in chiesa.
- Oh, non me la sento di andare in chiesa!
- Non potrebbe farvi bene?
- Non ne farebbe a loro! - esclamai accennando alla casa.
- Ai bambini?
- Non posso lasciarli proprio adesso. -Avete paura?...
Parlai con estrema chiarezza: - Ho paura di lui.
Sul largo volto della signora Grose apparve a questo punto, e per la
prima volta, un remoto, debole lampo di consapevolezza; e in qualche
modo vi colsi il tardivo spuntare di un idea che io non le avevo suggerito e
mi era ancora completamente oscura. Ricordo di aver pensato subito che
avrei potuto strapparle in proposito qualche confidenza; e sentivo che la
cosa era legata al desiderio, da lei immediatamente dimostrato, di saperne
di più: - Quando è successo... sulla torre?
- Verso la metà del mese. A questa stessa ora.
- Quasi al buio, - disse la signora Grose.
- Oh no, non proprio. Lo vidi come vedo voi.
- Ma come era potuto entrare?
- E come era potuto uscire? - Risi. - Non ho avuto modo di
chiederglielo! Stasera, lo vedete, - continuai, - non ce l'ha fatta a entrare!
- Si limita a spiare?
- Spero che si limiterà a questo! - Ora aveva lasciato la mia mano; e
aveva distolto un poco lo sguardo. Attesi un momento, poi proruppi: Andate in chiesa. Arrivederci. Io devo vigilare.
Lentamente si rivolse ancora a me: - Avete paura per loro?
Ci scambiammo un lungo sguardo: - E voi no? - Invece di rispondermi si
fece più vicina alla finestra, e per un po' premette il viso contro il vetro. Era così che lui guardava, - continuai.
Non si mosse. - Quanto tempo è rimasto qui?
- Finché non son corsa fuori. Ero uscita per sorprenderlo.
La signora Grose finalmente si voltò e il suo viso era divenuto ancora
Henry James
391
1970 - Racconti Di Fantasmi
più espressivo: - Io non sarei potuta uscire.
- E nemmeno io! - Risi. - Eppure sono uscita. Ho dei doveri.
- Anch'io ho i miei, - replicò, e subito dopo aggiunse: - A chi somiglia?
- Non so che cosa darei per potervelo dire. Ma non somiglia a nessuno.
- A nessuno? - mi fece eco.
- Non porta cappello -. Poi, leggendo sul suo viso che già questo
particolare era sufficiente a farle ricordare, con crescente sgomento, un
certo ritratto, aggiunsi rapidamente pennellata a pennellata: - Ha i capelli
rossi, molto rossi, molto ricciuti, e una faccia pallida, allungata, dai
lineamenti regolari e piacevoli; e piccoli, curiosi favoriti, rossi come i
capelli. Le sopracciglia sono però più scure, notevolmente arcuate e danno
l'impressione d'essere molto mobili. Gli occhi sono penetranti, strani... in
modo orribile; ma posso soltanto dire con precisione che sono piuttosto
piccoli e molto fissi. La bocca è grande, con labbra sottili e, se si
escludono i piccoli favoriti, è perfettamente rasato. Nell'insieme mi fa
pensare ad un attore.
- Un attore! - Era impossibile assomigliare a un attore meno della
signora Grose in quel momento.
- Non ne ho mai visto uno, ma immagino che siano così. È alto, agile,
dritto come un fuso, - continuai,- ma un signore no, assolutamente no.
Mentre parlavo la mia compagna era ulteriormente impallidita; i suoi
occhi tondi s'erano spalancati, e la sua mite bocca si aprì. - Un signore? balbettò confusa, stupita. - Un signore lui?
- Allora lo conoscete?
Cercò visibilmente di riprendersi: - Ma è un bell'uomo? Trovai il modo
di aiutarla: - Notevolmente bello.
- E vestito...?
- Con i vestiti di un altro. Sono eleganti, ma non sono i suoi. Si lasciò
sfuggire un gemito soffocato di approvazione: - Sono
i vestiti del padrone!
Colsi la palla al balzo: - Allora lo conoscete davvero? Esitò, ma soltanto
un attimo. - Quint! - esclamò.
- Quint?
- Peter Quint... il suo domestico personale, il suo cameriere quando lui
stava qui!
- Quando stava qui?
Ancora boccheggiando, ma pronta ad aiutarmi, mi fornì gli altri
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
particolari: - Non portava mai cappello, ma si metteva... insomma erano
scomparsi alcuni panciotti. Erano qui tutti e due, l'anno scorso... Poi il
padrone se ne andò e Quint rimase solo.
Insistetti, ma un poco esitante: - Solo?
- Solo con noi -. Poi, come se estraesse le parole ancor più dal profondo
aggiunse: - A capo di tutti noi.
- E che ne è stato di lui?
Tardò tanto a rispondermi, che mi sentii ancor più avviluppata. - Se n'è
andato anche lui, - sbottò alla fine.
- Andato dove?
Un'espressione indicibile, a questa mia domanda, le si dipinse sul viso. Dio sa dove! È morto.
- Morto? - quasi gridai.
La signora Grose sembrò chiamare a raccolta tutte le sue forze,
piantandosi più saldamente al suolo per esprimere l'arcano di quel fatto: Sì. Il signor Quint è morto.
VI.
Ci volle naturalmente più di quel particolare scambio di parole per
renderci entrambe pienamente consapevoli di ciò con cui ormai avremmo
dovuto convivere come meglio potevamo: vale a dire la mia terribile
suscettibilità a impressioni analoghe a quelle di cui avevo dato allora un
così vivido esempio, e la conseguente conoscenza (una conoscenza mezzo
costernazione mezzo compassione) che la mia compagna aveva fatto di
quella suscettibilità. Nessuna di noi due, quella sera, dopo la rivelazione
che per più di un'ora mi aveva lasciato tanto prostrata, s'era recata in chiesa
per la funzione; c'era invece stata una piccola funzione privata a base di
lagrime e di voti, di preghiere e di promesse, culmine di una serie di
richieste e di impegni reciproci che aveva avuto luogo immediatamente
dopo che ci eravamo rifugiate e chiuse a chiave nello studio per una
spiegazione esauriente. Il risultato della spiegazione consistette
semplicemente nel ridurre ai termini essenziali la nostra situazione. Lei, da
parte sua, non aveva visto nulla, nemmeno l'ombra di un'ombra, e nessuno
in casa, all'infuori dell'istitutrice, si era trovato nella situazione dell'
istitutrice; tuttavia la signora Grose, senza dubitare della mia salute
mentale, accettò la verità come gliela presentavo, e finì per dimostrarmi, in
Henry James
393
1970 - Racconti Di Fantasmi
quell'occasione, una tenerezza mista a rispetto, una viva comprensione del
mio più che discutibile privilegio; e il profumo di quegli atteggiamenti è
rimasto nella mia memoria come il segno della più dolce delle carità
umane.
Quella sera arrivammo di comune accordo alla conclusione che, tutt'e
due insieme, avremmo potuto affrontare meglio gli avvenimenti; e non ero
neppure sicura che non fosse lei, malgrado la mia prova le fosse stata
risparmiata, a dover portare il fardello più pesante. Credo che già sapessi
allora, come seppi più tardi, quello che ero in grado di affrontare per
proteggere i miei allievi; ma mi ci volle un po' più di tempo per essere
pienamente sicura di ciò che la mia onesta alleata era pronta a sostenere
per mantenere i termini di un impegno tanto rischioso. Ero una compagna
piuttosto strana, quasi quanto lei lo era per me; ma riandando mentalmente
a quello che ci toccò sopportare, scorgo quanto fortemente ci riunì quella
sola idea che, per buona fortuna, poteva darci forza. E fu quell'idea, quel
secondo impulso che mi trasse definitivamente fuori, per così dire, dalla
segreta camera della mia paura. Potevo almeno uscire a prendere una
boccata d'aria in cortile, dove la signora Grose poteva raggiungermi.
Ricordo ora perfettamente in che modo curioso ritrovai tutte le mie energie
prima che ci separassimo per la notte. Avevamo esaminato ripetutamente
ogni particolare di ciò che avevo visto.
- Cercava qualcun altro, voi dite... qualcuno che non eravate voi?
- Cercava il piccolo Miles -. Ora vedevo tutto con prodigiosa chiarezza. Ecco chi cercava.
- Ma come lo sapete?
- Lo so, lo so, lo so! - La mia esaltazione cresceva. - E anche voi lo
sapete, mia cara!
Non lo negò, ma io sentivo di non aver nemmeno bisogno di quella
controprova. Un momento dopo, ad ogni modo, ella riprese: - E se lo
avesse visto?
- Il piccolo Miles? È proprio questo che desidera! Parve di nuovo
immensamente sconvolta: - Il bambino?
- Dio non voglia! L'uomo. Lui vuol apparire a loro -. Che potesse
davvero riuscirci era un pensiero orribile, eppure, in certa misura, potevo
tenerlo a bada; cosa che del resto, mentre indugiavamo là, riuscivo a
dimostrare praticamente. Ero assolutamente certa che avrei rivisto quel che
già avevo visto, ma qualcosa mi diceva che se mi fossi offerta bravamente
Henry James
394
1970 - Racconti Di Fantasmi
come l'unico bersaglio di quella esperienza, se avessi accettato, invocato, e
infine superato tutto quanto, io sola sarei servita da capro espiatorio e, così
facendo, avrei salvaguardato la tranquillità dei miei compagni. I bambini,
in particolar modo, li avrei posti al riparo, e salvati in via assoluta. Ricordo
una delle ultime cose che dissi alla signora Grose quella sera.
- Mi colpisce il fatto che i miei allievi non abbiano mai parlato...
Mi teneva gli occhi addosso mentre io, pensierosa, mi interruppi: - Della
sua permanenza qui e del tempo che hanno passato con lui? Di quel tempo,
del suo nome, della sua presenza; della sua storia, in una parola.
- Oh, la signorina non se ne ricorda. Lei non ha mai sentito o
conosciuto...
- Le circostanze della sua morte? - Riflettevo intensamente. -Forse no.
Ma Miles dovrebbe ricordare... Miles dovrebbe sapere.
- Oh, non mettetelo alla prova! - proruppe la signora Grose. Le restituii
lo sguardo che mi aveva lanciato: - Non abbiate
paura -. Continuavo a riflettere. - Però è piuttosto strano.
- Che non ne abbia mai parlato?
- Nemmeno la minima allusione. E voi mi dite che erano «grandi
amici»!
- Oh, lui no! - dichiarò con vigore la signora Grose. - Era un capriccio di
Quint. Di giocare con lui, voglio dire ... per viziarlo -. Tacque per un
momento, poi aggiunse: - Quint si prendeva troppe libertà.
Questo mi diede, per quel che ricordavo di quel viso - e che viso! un'improvvisa sensazione di disgusto. - Troppe libertà col mio bambino?
- Troppe con tutti!
Rinunciai per il momento ad analizzare più a fondo questa descrizione,
accontentandomi di pensare che, almeno in parte, poteva estendersi a
parecchi membri della servitù, a quella mezza dozzina di cameriere e di
uomini di fatica che ancora si trovavano nella nostra piccola colonia. Ma
bastava ancora a nutrire i nostri timori il fatto, in apparenza fortunato, che
nessuna storia equivoca, nessun pettegolezzo da sguatteri, a memoria
d'uomo, aveva mai riguardato quella vecchia e gentile dimora. Essa non
aveva né cattivo nome né brutta fama, e la signora Grose, con ogni
evidenza, desiderava soltanto stringersi a me e rabbrividire in silenzio. La
misi persino alla prova, alla fine. Lo feci a mezzanotte, quando già teneva
la mano sulla porta dello studio per prender congedo: - Allora mi
assicurate, è una cosa molto importante, che egli era assolutamente e
Henry James
395
1970 - Racconti Di Fantasmi
notoriamente cattivo?
- Oh, non notoriamente. Io lo sapevo... ma il padrone no.
- E voi non glielo diceste mai?
- Be', non gli piacevano i pettegolezzi... odiava le lamentele Tagliava
subito corto con le faccende di questo tipo, e se la gente andava bene a
lui...
- Non voleva essere più seccato? - Tutto questo si accordava abbastanza
bene con l'impressione che aveva fatto a me: non era un uomo che amasse
i guai, e forse non era nemmeno troppo esigente nella scelta delle persone
che lo circondavano. Tuttavia insistetti con la mia interlocutrice: - Vi
assicuro che io gliene avrei parlato!
Afferrò il mio rimprovero: - Penso anch'io di aver sbagliato. Ma la verità
è che avevo paura.
- Paura di che?
- Delle cose che poteva fare quell'uomo. Quint era così astuto... Così
accorto.
Fui colpita da quelle parole più di quanto, probabilmente, non lasciassi
apparire: - Non avevate paura di niente altro? Non del suo influsso?
- Il suo influsso? - ripetè con espressione d'angoscia e d'attesa, mentre io
esitavo.
- Sulle piccole e innocenti e preziose vite. Erano affidate a voi.
- No, non erano affidate a me! - ribatté recisamente e tristemente. - Il
padrone aveva fiducia in lui e lo aveva sistemato qui perché si diceva che
non aveva buona salute e che l'aria di campagna gli avrebbe fatto bene. E
così poteva dire la sua su tutto. Sì, -lo ammise, - persino su di loro.
- Loro... quell'individuo? - Soffocai un grido. - E voi potevate
sopportarlo?
- No, non potevo... e non posso nemmeno ora! - e la povera donna
scoppiò in lagrime.
Dal giorno dopo, come ho detto, i bambini furono sotto una sorveglianza
rigorosa e continua; eppure, quanto spesso e con quale passione, in quella
settimana, tornammo sull'argomento! Per quanto ne avessimo discusso a
lungo quella domenica sera, io fui ancora perseguitata, soprattutto nelle
prime ore (si può facilmente immaginare se io dormissi), dal fantasma di
qualcosa che non mi era stato detto. Per parte mia non avevo omesso nulla,
ma c'era qualcosa che la signora Grose mi aveva tenuto nascosto. Verso
mattina, peraltro, mi convinsi che ciò non era dipeso da una mancanza di
Henry James
396
1970 - Racconti Di Fantasmi
sincerità, ma dal fatto che entrambe eravamo piene di timori. In realtà mi
sembra, ripensandoci, che quando il sole del giorno dopo fu alto nel cielo,
io avevo ormai letto senza requie, nei fatti che ci stavano davanti, quasi
tutto il significato che avrebbero ricevuto dai successivi e più crudeli
avvenimenti. Il massimo rilievo era per ora assicurato alla sinistra figura di
quell'uomo da vivo (il morto poteva aspettare ancora un po'!) e ai mesi da
lui trascorsi a Bly, che, messi insieme, rappresentavano un periodo
formidabile. Quel triste periodo era terminato soltanto quando, all'alba di
un giorno d'inverno, Peter Quint era stato trovato morto stecchito sulla
strada che veniva dal villaggio da un contadino che si recava per tempo al
lavoro: la catastrofe era spiegata (superficialmente, almeno) da una ferita
ben visibile al capo; una ferita che poteva esser stata prodotta (e, secondo
le risultanze finali, era andata proprio così) da uno scivolone fatale (nel
buio e dopo aver lasciato la taverna) sul ripido pendio ghiacciato: una
strada sbagliata, al termine della quale giaceva disteso. Il pendio
ghiacciato, la strada sbagliata fatta di notte e nell'ebbrezza, spiegarono
molto, anzi, in pratica, tutto, dopo l'inchiesta e le interminabili chiacchiere;
ma c'erano state tante cose nella sua vita (strane traversie e pericoli,
eccessi segreti, vizi non soltanto sospettati) che avrebbero spiegato molto
di più.
Faccio fatica a raccontare la mia storia con parole che possano dare un
quadro credibile del mio stato d'animo; ma in quei giorni ero letteralmente
capace di provare felicità nello straordinario slancio di eroismo che la
circostanza richiedeva. Comprendevo allora che ero stata chiamata ad un
compito ammirevole e difficile; e che ci sarebbe stato qualcosa di grande
nel dimostrare (oh, alla persona giusta!) che sarei riuscita là dove molte
altre giovani avrebbero fallito. Mi fu d'immenso aiuto (confesso che nel
ripensarci, quasi mi congratulo con me stessa) l'aver considerato la mia
missione con tanta forza e tanta semplicità. Io ero là per proteggere e per
difendere le più trascurate e le più amabili creature del mondo, la cui
invocazione d'aiuto era, all'improvviso, diventata anche troppo imperiosa,
così da essere una pena acuta, costante, per ogni cuore che palpitasse per
loro. Tutti quanti eravamo davvero tagliati fuori dal resto del mondo;
eravamo uniti dallo stesso pericolo. Loro non avevano altri che me ed io...
be', io avevo loro. Era, per farla breve, una magnifica occasione.
Occasione che mi si presentava in un'immagine più che concreta. Io ero
uno schermo... e dovevo stare davanti a loro. Quanto più avessi veduto io,
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
tanto meno avrebbero visto loro. Presi a sorvegliarli con un'ansia nascosta,
un'eccitazione segreta che avrebbe potuto benissimo, a lungo andare,
trasformarsi in qualcosa di prossimo alla follia. Ciò che mi salvò, lo
comprendo ora, fu che le mie sensazioni si trasformarono in qualcosa di
completamente diverso. L'ansia non durò... fu spazzata via da prove
spaventose. Prove, sì, lo ripeto... dal momento in cui mi resi pienamente
conto della situazione.
Questo momento datò da un'ora del pomeriggio che trascorsi per caso
nel parco in compagnia della minore dei miei allievi, sola. Avevamo
lasciato Miles dentro casa, sul cuscino rosso d'un ampio sedile ricavato nel
vano d'una finestra; aveva espresso il desiderio di terminare un libro, ed
ero stata lieta d'incoraggiare un proposito tanto lodevole in un ometto a cui
si poteva rimproverare soltanto qualche scoppio eccessivo di vivacità. Sua
sorella, al contrario, era stata prontissima ad uscire, ed io passeggiai con
lei una mezz'ora, cer cando di stare all'ombra, perché il sole era ancora alto
e la giornata eccezionalmente calda. Mentre camminavamo mi resi conto
un volta di più di come lei riuscisse, al pari del fratello (si trattava di un
incantevole qualità di entrambi) a lasciarmi sola con i miei pensieri senza
dare l'impressione di abbandonarmi, e a tenermi compagni senza riuscire
soffocante. Non erano mai importuni, eppure non si mostravano mai
sbadati. Tutta la mia sorveglianza consisteva in realtà nell'osservarli
mentre si divertivano immensamente senza di me: e questo spettacolo,
allestito da loro con cura particolare, mi coinvolgeva nella parte di
ammiratrice appassionata. Mi muovevo in un mondo di loro invenzione...
né loro avevano occasione di entrare nel mio; sicché il mio tempo era
impegnato solo nel rappresentare, per loro, qualche persona o cosa
straordinaria che il gioco momentaneamente richiedeva; il che, grazie al
mio ruolo superiore e onorevole, rappresentava una sinecura felice e molto
rispettabile. Non ricordo che cosa fossi in quell'occasione; ricordo soltanto
ch'ero qualcosa di molto importante e molto calmo, e che Flora stava
recitando con grande impegno. Eravamo sulle rive del laghetto e, poiché
avevamo cominciato da poco a studiare geografia, il laghetto era il mare
d'Azof.
All'improvviso, in quelle circostanze, mi resi conto che sull'altra sponda
del mar d'Azof avevamo uno spettatore interessato. Il modo in cui questa
certezza s'affermò in me fu la cosa più strana del mondo... la più strana,
cioè, se si fa eccezione per quella ancora più strana in cui rapidamente si
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1970 - Racconti Di Fantasmi
trasformò. Ero seduta con un lavoretto tra le mani (giacché rappresentavo
qualcosa che poteva star seduta) sul vecchio sedile di pietra che dominava
lo stagno; e in questa posizione cominciai ad avvertire con sicurezza, pur
senza vederla direttamente, la lontana presenza d'una terza persona. I
vecchi alberi, i fitti cespugli facevano un'ombra ampia e piacevole, ma
tutto era soffuso dal fulgore di quella ora calda e quieta. Non vi era nulla
d'ambiguo tutt'intorno; assolutamente nulla, almeno, nella convinzione che
si andava affermando in me a proposito di ciò che avrei visto dritto davanti
a me, al di là del laghetto, se solo avessi alzato gli occhi. Li tenevo, in quel
duro attimo, fissi sul cucito che mi occupava, e mi par di sentire ancora lo
spasimo dello sforzo che feci per non alzarli sin che non mi fossi calmata
abbastanza per poter decidere sul da farsi. C'era là, in piena vista, un
oggetto estraneo... una figura a cui negai subito, appassionatamente, il
diritto di trovarsi dov'era. Ricordo d'aver fatto tutte le ipotesi possibili al
riguardo, dicendo a me stessa che non vi sarebbe stato niente di più
naturale, per esempio, dell'apparizione di uno degli uomini che lavoravano
nella tenuta, o anche di un messaggero, di un portalettere, di un garzone di
bottega venuto dal villaggio. Ma questi pensieri ebbero scarso effetto sulla
mia pratica certezza, in quanto ero già convinta, pur senza aver ancora
alzato lo sguardo, che non c'entravano per nulla con la specie e il contegno
del nostro visitatore. Non c'era niente di più naturale del fatto che cose del
genere fossero ciò che assolutamente non erano.
Della precisa identità dell'apparizione mi sarei resa conto non appena il
piccolo orologio del mio coraggio avesse scoccato il momento esatto;
frattanto, con uno sforzo che già mi costò non poco, rivolsi lo sguardo alla
piccola Flora che, in quel momento, si trovava a pochi metri più in là. Per
un attimo, per l'ansia e il terrore che anche lei potesse vedere qualcosa, il
mio cuore cessò di battere; e trattenni anche il respiro nell'attesa di ciò che
un suo grido, un suo improvviso, innocente segno di curiosità o di allarme,
mi avrebbe rivelato. Aspettai, ma nulla avvenne; poi (e sento che c'è
qualcosa di più spaventoso, in questo, di tutto ciò che ho ancora da
raccontare) dapprima, a decidermi, fu la sensazione che, da circa un
minuto, giocando, aveva la schiena rivolta all'acqua. Questa era la sua
posizione quando finalmente la guardai... la guardai con la precisa
convinzione che eravamo ancora sottoposte, tutt'e due, a un'osservazione
diretta e personale. La bambina aveva raccolto un pezzetto di legno piatto,
con un piccolo foro che evidentemente le aveva suggerito l'idea di infilarvi
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
un altro legnetto a mo' di albero maestro per farne una barca. Mentre la
fissavo era tutta intenta a cercar d'infilare con grande cura quel secondo
frammento di legno. L'aver visto quel che stava facendo mi rincuorò a tal
punto che, pochi istanti dopo, sentii eh' ero pronta a tutto. Allora distolsi di
nuovo lo sguardo e affrontai quel che dovevo affrontare.
VII.
Appena mi fu possibile andai in cerca della signora Grose; e non so dare
un'idea precisa di come superai l'intervallo di tempo. Però mi sento ancora
gridare, mentre mi getto dritta nelle sue braccia:
- Essi sanno... è troppo mostruoso: sanno, sanno!
- E cosa mai...? - Sentivo la sua incredulità mentre mi sorreggeva.
- Ma come, tutto quello che noi sappiamo... e il cielo sa che altro ancora!
- Poi, mentre lei mi lasciava andare, le spiegai l'accaduto, e forse lo spiegai
soltanto allora con piena coerenza anche a me stessa. - Due ore fa, in
giardino, - e riuscivo appena ad articolare le parole, - Flora ha visto!
La signora Grose accolse queste parole come avrebbe potuto accogliere
un pugno nello stomaco: - Ve lo ha detto lei? - domandò ansante.
- Non una parola... e qui sta tutto l'orrore della cosa. Ha tenuto ogni cosa
per sé! Una bambina di otto anni, quella bambina! -Lo sbigottimento che
provavo era ancora indicibile.
La signora Grose, naturalmente, poteva solo sbalordire di più:
- Ma allora come lo sapete?
- Ero là... ho visto coi miei occhi: visto che si rendeva perfettamente
conto.
- Volete dire della presenza di lui?
- No... di lei -. Mi accorgevo, nel parlare, che sul mio viso si stavano
inseguendo prodigiose espressioni, perché le vedevo man mano riflesse sul
volto della mia compagna. - Un'altra persona... questa volta; ma una figura
di repulsione e malignità quasi altrettanto inconfondibili; una donna in
nero, pallida e orrenda... con un'espressione, poi, e una faccia!... sull'altra
sponda del laghetto. Ero là con la bimba... tranquilla in quel momento, e
proprio allora è venuta.
- Venuta come... da dove?
- Da dove vengono loro! È semplicemente apparsa ed è rimasta lì, ma
non troppo vicina.
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400
1970 - Racconti Di Fantasmi
- E senza avvicinarsi di più?
- Oh, per l'effetto che mi faceva e per quello che sentivo, avrebbe potuto
essere vicina come siete voi adesso!
La mia amica, per un singolare impulso, arretrò d'un passo:
- Era qualcuno che voi non avevate mai visto?
- Sì. Ma qualcuno che la bambina conosceva. Qualcuno che voi avevate
visto -. Poi, per rivelarle a quale conclusione ero pervenuta: - La donna che
mi ha preceduta... quella che è morta.
- La signorina Jessel?!
- La signorina Jessel. Non mi credete? - incalzai.
Si voltò di qua e di là, agitatissima: - Come potete esserne
certa?
La domanda, nello stato di nervi in cui mi trovavo, mi strappò un moto
d'impazienza: - Allora chiedetelo a Flora... lei ne è sicura! - Ma non avevo
ancora finito di parlare, che subito mi ripresi: -No, per l'amor di Dio, non
lo fate! Direbbe che non è vero... mentirebbe!
La signora Grose non era ancora sconvolta al punto di rinunciare ad un
atto istintivo di protesta: - Ah, come potete pensare...?
- Perché vedo chiaro. Flora non vuole che io sappia.
- Allora è stato per risparmiarvi.
- No, no... ci sono degli abissi, degli abissi! Più ci ripenso e più vedo a
fondo, e più vedo a fondo e più ho paura. Non so più che cosa non vedo,
che cosa non mi fa paura!
La signora Grose si sforzò di seguirmi: - Volete dire che avete paura di
vederla di nuovo?
- Oh, no; non è niente... a questo punto! - Poi mi spiegai: -Ho paura di
non rivederla.
Ma la mia compagna restava soltanto smarrita: - Non vi capisco.
- Ecco, ho paura che la bambina vada avanti con questa storia (e lo farà
certamente) senza che io lo sappia.
Davanti a una simile possibilità la signora Grose per un attimo parve
venir meno, ma si riprese subito quasi spinta dalla forza positiva della
consapevolezza di quello che, avessimo ceduto soltanto d'un pollice, ci
avrebbe certo sopraffatto. - Mio Dio... dobbiamo tenere la testa a posto! E
dopo tutto, se lei non ci fa caso!... - Provò persino un lugubre scherzo: Forse le piace!
- Piacerle queste cose... a una bimbetta!
Henry James
401
1970 - Racconti Di Fantasmi
- E non sarebbe un'altra prova della sua santa innocenza? -chiese con
aria di sfida la mia amica.
Per un attimo quasi mi convinse. - Oh, dobbiamo attaccarci a questo...
dobbiamo tenerci ben salde all'idea! Se non è una prova di quel che dite, è
una prova di... Dio sa cosa! Perché quella donna è l'orrore degli orrori.
A queste parole la signora Grose tenne per un po' gli occhi fissi a terra;
poi rialzandoli: - Ditemi come fate a saperlo, - chiese.
- Allora ammettete che lo sia? - esclamai.
- Ditemi come fate a saperlo, - ripetè semplicemente la signora.
- A saperlo? Perché l'ho vista. Per come guardava.
- Vi guardava, intendete dire... malignamente?
- No, Dio mio... questo avrei potuto sopportarlo. A me non ha dato
nemmeno un'occhiata. Fissava soltanto la bambina.
La signora Grose tentò di immaginarselo: - La fissava?
- Ah, con quegli occhi spaventosi!
Guardò allora nei miei, quasi potessero somigliare davvero a quelli. Volete dire con antipatia?
- Dio ci salvi, no. Con qualcosa di molto peggio.
- Peggio dell'antipatia? - e sembrava veramente perplessa.
- Con una determinazione... indescrivibile. Con un'intenzione quasi
furibonda.
L'avevo fatta impallidire: - Intenzione?
- D'impadronirsi di lei -. La signora Grose, guardandomi appena negli
occhi, rabbrividì e andò alla finestra; e mentre stava lì a guardar fuori,
completai la mia osservazione: - Ecco che cosa sa Flora.
Poco dopo si voltò. - Quella persona era vestita di nero, avete detto?
- Era in lutto... un lutto piuttosto povero, quasi logoro. Ma... sì... era di
una bellezza straordinaria -. Comprendevo ora a che punto, a passo a
passo, avevo portato la vittima delle mie confidenze, poiché alle mie
ultime parole la vidi duramente colpita. - Oh, bella... molto bella davvero, insistetti. - Meravigliosamente bella. Ma infame.
Lentamente tornò verso di me: - Miss Jessel... era infame -. Ancora una
volta mi prese una mano tra le sue, tenendola stretta quasi per darmi forza
contro la crescita di spavento che quella rivelazione poteva provocare. Tutt'e due erano infami, - disse finalmente.
Così, per un po', guardammo in faccia la verità ancora una volta; e fu per
me quasi un sostegno vedere come stavano realmente le cose. - Apprezzo,
Henry James
402
1970 - Racconti Di Fantasmi
- dissi, - l'estremo riserbo che vi ha impedito di parlare sino ad ora; ma è
certamente arrivato il momento di rivelarmi tutto -. Sembrò
accondiscendere alle mie parole, ma restava tuttavia in silenzio; sicché
continuai: - Lo devo sapere ora. Di che cosa è morta? Avanti, c'era
qualcosa tra loro due?
- C'era tutto.
- A dispetto della differenza...?
- Oh, della differenza di rango, di condizione -. Lo confessò gemendo: Lei era una signora.
Ci pensai e compresi di nuovo. - Sì... era una signora.
- E lui così terribilmente al di sotto, - aggiunse la signora Grose. Sentii
che non era davvero opportuno insistere, in simile compagnia, sul posto
che un domestico occupa nella scala sociale; ma nulla mi vietava di
adottare lo stesso metrò con cui la mia compagna misurava la
degradazione di colei che mi aveva preceduto. Il modo di trattare la cosa
c'era, e io lo usai; con facilità tanto maggiore quanto più netta mi stava
davanti agli occhi la visione (fin troppo chiara) del defunto domestico
«personale» del nostro datore di lavoro. Intelligente e di bell'aspetto, ma
anche impudente, presuntuoso, vizioso, depravato. - Quel tale era
spregevole.
La signora Grose rifletté come se la faccenda, a questo punto,
richiedesse delle sfumature: - Non ho mai visto nessuno come lui. Faceva
quel che voleva.
- Di lei?
- Di tutti loro.
Ora, era come se la signorina Jessel fosse riapparsa negli occhi della mia
amica. A me almeno sembrò che per un attimo la rievocassero così
distintamente come io l'avevo veduta vicino allo stagno; e dichiarai
risolutamente: - Anche lei, però, lo doveva desiderare!
Il volto della signora Grose dimostrò che era stato davvero così, ma lei
aggiunse nello stesso momento: - Poveretta, ha pagato per questo!
- Allora sapete di che cosa è morta? - chiesi.
- No, non so niente. Non volevo sapere; ero contentissima di non aver
saputo nulla; e ringraziai il Cielo che fosse ben lontana da qui!
- Però, vi eravate fatta allora una vostra idea...
- Sulla vera ragione della sua partenza? Oh sì... quanto a questo. Non
avrebbe potuto restare. Ma pensate, un'istitutrice... in questa casa! Più tardi
Henry James
403
1970 - Racconti Di Fantasmi
immaginai... e lo immagino ancora... e quel che immagino è spaventoso.
- Non così spaventoso come quello che immagino io, - replicai; e con ciò
le lasciai intravedere (me ne rendevo conto anche troppo bene) l'ampiezza
e l'amarezza della mia disfatta. Ciò non mancò di suscitare una volta di più
la sua compassione, e quella nuova manifestazione di bontà spezzò la mia
resistenza. Scoppiai in lagrime, proprio come avevo fatto scoppiare in
lagrime lei, la volta prima; mi strinse al suo seno materno, e i miei gemiti
dilagarono. - Non ce la faccio! - singhiozzai disperatamente. - Non li posso
né salvare né proteggere! È assai peggio di quanto immaginassi... sono
perduti!
VIII.
Quanto avevo detto alla signora Grose era purtroppo molto vicino al
vero; c'erano nella faccenda che le avevo esposto, abissi e possibilità, che
non avevo il coraggio di sondare; sicché, dopo che ci fummo riunite in un
rinnovato senso di stupore, convenimmo entrambe ch'era nostro dovere
resistere alle fantasie più stravaganti. Se tutto il resto ci sfuggiva,
dovevamo tenere almeno la testa a posto. .. benché fosse assai difficile di
fronte a quello che, nella nostra allucinante vicenda, era ormai impossibile
mettere in dubbio. Nella tarda serata, mentre tutta la casa dormiva, ne
riparlammo in camera mia; e la signora Grose fini per convenire con me
che era assolutamente certo che io avevo veduto proprio quello che avevo
veduto. Trovai che, per convincerla completamente, non avevo che da
chiederle come mai, se avevo «sognato» tutto quanto, mi era stato
possibile fare, di ognuna delle persone che mi erano apparse, un ritratto
che ne rivelava, sin nei minimi particolari, i tratti caratteristici... un ritratto
che l'aveva subito messa in grado di riconoscerli e di nominarli. Ella
desiderava naturalmente (ed era difficile rimproverarla per questo) mettere
tutto a tacere; ed io mi affrettai ad assicurarle che il mio stesso
interessamento nella faccenda aveva oramai assunto la forma della ricerca
febbrile di una via di scampo. Convenni che probabilmente col ripetersi
delle apparizioni (davamo per scontato che si sarebbero ripetute) mi sarei
assuefatta al pericolo; dichiarando apertamente che il mio rischio
personale era diventato di colpo l'ultima delle mie preoccupazioni. Era
invece intollerabile il mio più recente sospetto; e tuttavia, persino a questa
complicazione le ultime ore della giornata avevano recato qualche rimedio.
Henry James
404
1970 - Racconti Di Fantasmi
Lasciandola dopo il primo accesso di disperazione, ero naturalmente
ritornata ai miei allievi, associando il miglior rimedio per il mio
turbamento a quella sensazione di fascino che essi suscitavano; sensazione
che, già mi ero resa conto, era qualcosa su cui potevo contare con certezza
e che non mi era mai venuta meno. In altre parole, mi ero semplicemente
immersa di nuovo nella particolare compagnia di Flora, e mi ero accorta,
quasi con ebbrezza, che sapeva appoggiare la sua esperta manina proprio
sul punto dolente. Mi aveva osservato con soave curiosità, e poi mi aveva
accusata francamente d'aver pianto. Credevo di aver cancellato i brutti
segni delle lagrime; ma nell'effusione di quella carità infinita arrivai
letteralmente a rallegrarmi (almeno per un attimo) che non fossero del
tutto scomparsi. Contemplare l'azzurro profondo degli occhi della
bambina, e ritenere che quella dolcezza fosse il trucco di una precoce
malizia, sarebbe stato rendermi colpevole di un cinismo a cui,
naturalmente, preferivo ripudiare il mio giudizio, e, per quanto m'era
possibile, la mia inquietudine. Non potevo ripudiare il mio giudizio
soltanto perché lo volevo; ma potevo ripetere alla signora Grose (come le
ripetevo più volte, facendo le ore piccole) che con la voce dei bimbi che
echeggiava nell'aria, la pressione dei loro corpi sul petto, e il contatto dei
loro volti fragranti contro la guancia, tutto scompariva, tranne la loro
bellezza e la loro innocenza senza difese. Era un peccato tuttavia, e lo dico
una volta per tutte, che dovessi egualmente ricordare quei gesti scaltri che
nel pomeriggio, vicino al laghetto, avevano reso miracolosa la padronanza
di me stessa. Era un peccato che fossi costretta ad analizzare nuovamente
la certezza raggiunta in quel momento, e ripetere in che modo ero stata
toccata dalla rivelazione che l'inconcepibile comunione da me sorpresa in
quella circostanza era un fatto abituale per tutt'e due. Era un peccato che
dovessi di nuovo farfugliare le ragioni per cui non avevo dubitato neppure
per un attimo, e con mia grande delusione, che la bambina vedesse la
nostra visitatrice proprio come io in quel momento vedevo la signora
Grose, e che la bimba desiderasse, pur avendo una visione di quel genere,
farmi credere che non vedeva nulla, ed allo stesso tempo, senza scoprirsi,
cercare d'indovinare se io avessi veduto qualcosa! Era un peccato che
dovessi descrivere ancora una volta le piccole, portentose astuzie con le
quali aveva cercato di distogliere la mia attenzione... il percettibilissimo
accrescersi della sua vivacità, il maggior fervore nel gioco, il canto, il
chiacchiericcio senza senso e l'invito a ruzzare.
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
Tuttavia, se io non mi fossi abbandonata a questo esame, con lo scopo di
provare che non c'era nulla, mi sarei anche lasciata sfuggire i due o tre
deboli motivi di conforto che ancora mi restavano. Ad esempio, non avrei
potuto ripetere solennemente alla mia amica che ero certa (ed era tanto di
guadagnato) di non essermi tradita, io. Non sarei stata spinta dal bisogno di
sapere, da un soprassalto di disperazione (non so veramente come
esprimermi) a invocare nuovamente un chiarimento che non si poteva
ottenere se non mettendo la mia compagna con le spalle al muro. Lei mi
aveva già detto molto, un po' alla volta, e stimolata da me; ma un piccolo,
tetro enigma, dal lato in ombra delle cose, veniva di tanto in tanto a
sfiorarmi la fronte come l'ala d'un pipistrello; e ricordo come in
quell'occasione (il sonno della casa, il pericolo e la veglia comuni
sembrarono venirmi in aiuto) sentii tutta l'importanza di dare al velario
l'ultimo strappo. - Non credo a nulla di così orribile, - ricordo d'aver detto.
- No, diciamolo una buona volta, mia cara, io non lo credo. Ma se lo
credessi, sapete, c'è una cosa che esigerei da voi in questo momento e
senza risparmiarvi nulla... oh, proprio nulla! A che cosa pensavate quando,
mentre eravamo turbate per la lettera giunta dal collegio prima che Miles
ritornasse, diceste, cedendo alla mia insistenza, che non pretendevate dire
che non fosse mai, alla lettera, stato cattivo? Non è «mai», alla lettera,
stato cattivo in queste settimane che ho trascorso con lui e in cui l'ho
osservato tanto da vicino; è stato un imperturbabile, piccolo prodigio di
bontà deliziosa e amabile. Dunque, avreste potuto benissimo giurare su di
lui, se non aveste saputo, com'era evidente, che c'era un'eccezione. Qual
era la vostra eccezione, e a quale circostanza della vostra personale
esperienza vi riferivate?
Era una domanda assai grave e diretta, ma non eravamo in vena di
leggerezze, e, in ogni caso, prima di ricevere dall'alba grigia
l'ammonimento di separarci, avevo la risposta. Quello che la mia
compagna aveva pensato s'accordava alla perfezione con tutto il resto. Era,
né più né meno, il fatto che, per un periodo di parecchi mesi, Quint e il
bambino erano stati continuamente insieme. E in verità lei aveva osato
criticare la convenienza e accennare all'inopportunità di una simile
intimità, spingendosi sino al punto di parlare francamente dell'argomento
con la signorina Jessel. La signorina Jessel, con modi a dir poco singolari,
le aveva detto di badare ai fatti suoi, e la buona donna, a questo punto, si
era rivolta direttamente al piccolo Miles. Dietro mia insistenza finì per
Henry James
406
1970 - Racconti Di Fantasmi
confessarmi quel che gli aveva detto: che a lei non andava che i giovani
signori dimenticassero il loro rango.
Dopo di che, com'è naturale, insistetti per sapere il resto: - Gli avete
ricordato che Quint era soltanto un volgare servo?
- Posso ben dirlo! E, per prima cosa, la sua risposta fu cattiva.
- E poi? - Attesi. - Riferì a Quint le vostre parole?
- No, questo no. È proprio quello che non avrebbe mai fatto! -Cercava
d'impressionarmi. - Ero sicura, ad ogni modo, - aggiunse, - che non l'aveva
fatto. Ma negò invece certe circostanze.
- Quali circostanze?
- Che se ne andavano in giro insieme come se Quint fosse il suo
precettore (uno dei migliori, per giunta), e come se la signorina Jessel
fosse solo lì per la padroncina. Voglio dire quando Miles andava a spasso
con quell'individuo e trascorreva con lui ore intere.
- Allora egli eluse l'argomento... disse di non averlo fatto? - Il suo cenno
d'assenso fu abbastanza chiaro d'autorizzarmi a dire, un momento dopo: Capisco. Ha mentito.
- Oh! - mormorò la signora Grose. Quel mormorio suggeriva che la cosa
importava poco, e la sottolineò con un'altra osservazione: - Vedete, dopo
tutto alla signorina Jessel non importava. Non glielo proibiva.
Riflettei. - Vi disse questo per giustificarsi?
A questa domanda cedette ancora terreno: - No, non me ne ha mai
parlato.
- Non vi ha mai parlato di lei e di Quint?
Capì, arrossendo visibilmente, dove intendevo arrivare: - Be', non ha
mai dato a vedere nulla. Negava, - ripetè, - negava!
Oh Dio, come la incalzai allora! - Sicché, comprendevate che lui sapeva
cosa c'era fra quei due sciagurati?
- No lo so... non lo so! - gemette la povera donna.
- E invece lo sapete, poveretta, - replicai. - Soltanto non avete la mia
terribile capacità d'immaginazione, e soffocate, per timidezza e pudore e
delicatezza, persino quell'impressione che in passato, quando dovevate
brancolare in silenzio, senza il mio aiuto, vi rendeva infelice più di tutto.
Ma finirò per strapparcela! C'era qualcosa nel bambino che vi suggeriva, continuai, - che lui coprisse e dissimulasse la loro relazione.
- Oh, non poteva impedire...
- Che voi veniste a sapere la verità? Lo credo bene! Ma, mio Dio, Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
proruppi con veemenza, fremendo al solo pensarci, - come tutto questo
dimostra che cosa erano riusciti a fare di lui!
- Ah, nulla che adesso non sia cambiato in meglio! - commentò
lugubremente la signora Grose.
- Non mi stupisco più dell'aria strana che avevate, - insistetti, - quando vi
parlai della lettera giunta dal collegio!
- Mi chiedo se avevo l'aria strana quanto voi, - replicò con schietta
energia. - E se allora era cattivo come sembra, come mai adesso è un
angioletto?
- È vero... se in collegio era un discolo! Come mai, come mai? Bene, dissi nella mia angustia, - dovete domandarmelo ancora, ma non sarò in
grado di darvi una risposta prima di qualche giorno. Però, domandatemelo
di nuovo! - esclamai in un tono tale che la mia amica mi guardò stupefatta.
- Vi sono direzioni nelle quali sarà bene che per ora io non mi avventuri -.
E per il momento ritornai al suo primo esempio (quello a cui aveva già
alluso), vale a dire la rassicurante capacità del bambino di commettere di
quando in quando una marachella. - Se Quint (a proposito della
rimostranza che faceste all'epoca di cui parlate) non era che un servo
volgare, immagino che Miles vi ha risposto che l'eravate anche voi -. E il
suo cenno d'assenso, ancora, fu così eloquente che continuai: - E voi glielo
avete perdonato?
- Voi non l'avreste fatto?
- Oh sì! - e ci lasciammo andare ad una manifestazione d'ilarità che
suonò strana in quella quiete. Poi proseguii: - Ad ogni modo, mentre lui
stava con l'uomo...
- La signorina Flora stava con la donna. Era una cosa che andava bene a
tutti loro!
E andava bene anche a me, sin troppo bene; voglio dire che si accordava
alla perfezione con il sospetto mortale che cercavo a tutti i costi di proibire
a me stessa. Ma riuscii tanto bene a impedirmi di formulare quel pensiero
che, per il momento, non darò altri chiarimenti a riguardo, se non quello
che può essere fornito dall'ultima frase che rivolsi alla signora Grose: - Il
fatto che abbia mentito e che sia stato impudente mi sembra, lo confesso,
un sintomo meno incoraggiante di quello che avevo sperato di conoscere
da voi a proposito del prorompere nel bimbo dell'umana natura. Tuttavia,
-dissi pensierosa, - ne terrò conto, perché sento più che mai che devo
vigilare.
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
Un attimo dopo arrossivo nel vedere dall'espressione del viso della mia
amica come lei avesse perdonato più completamente di quanto la mia
tenerezza fosse spinta a fare dall'aneddoto che mi aveva raccontato. Questo
fu chiaro quando, sulla porta dello studio, prese congedo da me: Certamente non lo vorrete accusare...
- Di coltivare una relazione che mi nasconde? Ah, ricordate che, sino a
prova contraria, non accuso nessuno -. Poi, prima di chiudere la porta
dietro di lei che si disponeva ad andare in camera sua passando per un altro
corridoio, dissi come conclusione: - Devo soltanto aspettare.
IX.
Aspettai e aspettai, e il correre dei giorni si portava via un pò della mia
costernazione. Infatti, un piccolissimo numero di quei giorni, trascorsi a
tener d'occhio i miei allievi senza che accadesse il minimo incidente, bastò
a passare come un colpo di spugna sulle amare fantasticherie, e persino
sugli odiosi ricordi. Ho già parlato della mia inclinazione ad arrendermi
alla loro straordinaria grazia infantile come di un sentimento che pensavo
di poter coltivare attivamente, e si può facilmente immaginare se
trascurassi ora di attingere a questa fonte tutto quanto poteva dare. Lo
sforzo per lottare contro la luce che si era fatta in me, risultava certamente
più strano di quanto io non possa dire; tuttavia la tensione sarebbe stata
anche più grande se non fosse stata premiata tanto frequentemente dal
successo. Ero solita chiedermi come mai i miei pupilli non indovinassero
che io pensavo di loro cose assai strane; e il fatto che queste cose li
rendevano anche più interessanti non mi era certo di aiuto per tenerli
all'oscuro. Tremavo al pensiero che si accorgessero di quanto più
intensamente interessanti erano diventati. Ad ogni modo, anche mettendo
le cose sotto la luce peggiore, come spesso facevo nelle mie meditazioni,
ogni ombra gettata sulla loro innocenza costituiva soltanto (puri e
predestinati com'erano) una ragione di più per affrontare i miei rischi.
C'erano momenti in cui, spinta da un impulso irresistibile, li afferravo e me
li stringevo al cuore. E subito dopo mi domandavo: «Che cosa ne
penseranno? A questo modo non mi tradisco?» Sarebbe stato facile,
nell’analizzare sino a che punto potevo tradirmi, cadere in una ragnatela di
pensieri tristi e folli; ma la vera ragione delle ore di pace che ancora
riuscivo a godere stava, lo sento, nel fascino immediato dei miei compagni
Henry James
409
1970 - Racconti Di Fantasmi
ch'era un sortilegio ancora efficace, anche se minacciato da un sospetto
d'ipocrisia. Perché, se non mi sfuggiva che le brevi espansioni della mia
ardente tenerezza potevano suscitare i loro sospetti ricordo anche di
essermi domandata se per caso non c'era qualcosa di singolare anche
nell'evidente accrescersi delle loro manifestazioni d'affetto.
Durante quel periodo mi dimostrarono un attaccamento esorbitante e
anormale; me lo spiegavo dicendomi che, dopotutto, non era che la
graziosa risposta di bambini continuamente riveriti e vezzeggiati.
L'omaggio di cui erano così prodighi ebbe in realtà un eccellente effetto
sui miei nervi, come se non mi fossi mai presa la briga, per così dire, di
sorprenderli con le mani nel sacco. Penso che non avessero mai desiderato
come ora di fare tante cose per la loro povera protettrice; voglio dire
(benché si applicassero sempre più e sempre meglio allo studio, cosa che
naturalmente mi procurava un enorme piacere) distrarla, divertirla,
prepararle sorprese; leggerle qualcosa, raccontarle storie, rappresentarle
sciarade, saltarle addosso mascherati da animali o da personaggi storici; e
soprattutto stupirla con «pezzi» che avevano segretamente imparato a
memoria e potevano recitare all'infinito. Non riuscirei mai (nemmeno se
mi abbandonassi completamente all'onda dei ricordi) a descrivere sino in
fondo la stupenda, segreta attenzione, tenuta sotto una sorveglianza anche
più segreta, che dedicavo in quel tempo alle loro giornate così piene. Mi
avevano dimostrato sin dal principio una inclinazione per ogni cosa, una
disposizione a imparare tutto che, dietro uno stimolo nuovo, dava splendidi
risultati. Adempivano ai loro piccoli compiti come se ne ricavassero un
vero piacere, e indulgevano, per il solo gusto di esercitare le loro doti, a
piccoli miracoli mnemonici che non avevo loro imposto. Mi spuntavano
davanti non soltanto mascherati da tigri o da antichi romani, ma anche da
personaggi di Shakespeare, da astronomi e da navigatori. Il caso era
talmente singolare che contribuì largamente al fatto che anche oggi non
riesco a spiegare diversamente: alludo alla mia anormale tranquillità
riguardo alla scelta di una nuova scuola per Miles. Quel che ricordo è che
mi accontentavo, per il momento, di non aprire la questione, e che
quell'appagamento doveva essere scaturito dall'impressione prodotta in me
dalle sue continue sorprendenti prove d'intelligenza. Era troppo intelligente
perché potesse nuocergli una mediocre istitutrice, figlia d'un pastore; e il
più strano, se non il più brillante dei fili del ricamo mentale di cui ho
parlato era la sensazione (avrei saputo rendermene conto chiaramente, se
Henry James
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1970 - Racconti Di Fantasmi
avessi osato esaminarla) che egli fosse in preda ad un'influenza che agiva
come un formidabile incitamento alla sua giovane vita intellettuale.
Se era facile ammettere, tuttavia, che un bambino come quello potesse
ritardare la propria entrata in una scuola, era almeno altrettanto ovvio che
il fatto che un bambino simile fosse stato «buttato fuori» da un maestro di
scuola costituiva un mistero inesplicabile. Aggiungo che, stando in loro
compagnia (avevo cura in quel periodo di non lasciarli quasi mai), non
riuscivo a seguire a lungo nessuna pista. Vivevamo in una nuvola di
musica, di amore, di successi e di rappresentazioni teatrali tutte per noi.
Entrambi i bambini avevano spiccate inclinazioni musicali; ma soprattutto
il maggiore era meravigliosamente in grado di afferrare e di ripetere
qualsiasi ritornello. Il pianoforte dello studio risuonava delle più strane
improvvisazioni; e, in mancanza di musica, tenevano conciliaboli in un
angolo, al termine dei quali uno dei due, al colmo dell'eccitazione, si
preparava ad una nuova «entrata». Avevo avuto anch'io dei fratelli, e non
era una novità per me che le bambine potessero essere schiave idolatre dei
loro fratellini. Era davvero sorprendente ci fosse al mondo un bambino
capace di tanta considerazione per un'età, un sesso e un'intelligenza
inferiori. Erano straordinariamente uniti, e dire che non litigavano mai e
non si lamentavano l'uno dell'altra equivarrebbe rivolgere un complimento
molto rozzo al carattere squisito della loro gentilezza. Talvolta, in verità,
quando cadevo in un comportamento pesantemente sospettoso, scoprivo le
tracce di qualche loro piccolo complotto per tenermi occupata mentre uno
di loro se la svignava. Suppongo che in ogni diplomazia ci sia un lato naif;
ma se i miei allievi si prendevano gioco di me, lo facevano certamente col
minimo di volgarità. Fu altrove che, dopo un periodo di bonaccia, esplose
la cattiveria.
Mi accorgo di tirar davvero troppo per le lunghe; è ora che mi decida al
gran passo. Nel proseguire il racconto di ciò che vidi di orribile a Bly, io
non soltanto metto alla prova la buona fede più generosa (e di ciò mi
preoccupo poco), ma (e questa è un'altra faccenda) rinnovo anche le mie
sofferenze, percorro nuovamente sino alla fine quella storia dolorosa.
Giunse improvvisamente un'ora dopo la quale, se mi guardo addietro, mi
pare che tutto sia stato pura sofferenza; ma, almeno, sono finalmente al
duro nocciolo della questione, e la via di scampo più sicura sta nell'andare
avanti. Una sera (senza che nulla me ne avvertisse o preparasse) sentii
passare su di me il soffio ghiacciato che mi aveva accolto la notte del mio
Henry James
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arrivo, e che la prima volta (tanto più leggero, come ho accennato) non
avrebbe forse lasciato in me nessun ricordo se il mio soggiorno successivo
fosse stato meno agitato. Non mi ero ancora coricata; leggevo, seduta, alla
luce di due candele. C'era a Bly una stanza piena di vecchi libri, tra cui
alcuni romanzi del secolo scorso, che, sebbene godessero di cattiva fama,
erano penetrati (per lo più sotto forma di un esemplare isolato) in quella
casa appartata, eccitando la mia inconfessata, giovanile curiosità. Ricordo
che avevo tra le mani l'Amelia di Fielding; e anche che ero perfettamente
sveglia. Ricordo, pure, d'aver avuto una vaga idea che fosse molto tardi,
ma non volevo guardare l'orologio. Rivedo infine le bianche cortine che
avvolgevano, secondo la moda del tempo, la testata del letto di Flora, e che
proteggevano, come mi ero assicurata da un pezzo, la pace perfetta del suo
sonno infantile. Ricordo, per farla breve, che nonostante fossi interessata
alla mia lettura, voltando una pagina smarrii improvvisamente il filo della
storia, e alzai gli occhi per fissare la porta della camera. Rimasi un
momento in ascolto, ricordando la vaga sensazione che avevo avuto, la
prima notte, che qualcosa d'indefinibile si aggirasse per la casa, e notai che
attraverso la finestra aperta una brezza leggera agitava la tenda, chiusa a
metà. Allora, con tutti i segni di una determinazione che sarebbe apparsa
magnifica se qualcuno fosse stato presente per ammirarla, posai il libro, mi
alzai e, presa una candela, uscii senza esitare dalla camera. Dal corridoio,
dove il mio lume rompeva appena l'oscurità, senza far rumore mi tirai
dietro la porta e la chiusi a chiave.
Non posso dire adesso che cosa mi spingesse e mi guidasse, ma andai
diritta lungo la galleria, tenendo alta la candela, finché non fui in vista del
finestrone che dominava l'ampio giro della scala. A quel punto, mi resi
conto di colpo di tre cose. In pratica furono simultanee, e tuttavia si
susseguirono in tre lampi successivi. La mia candela, in seguito a un
brusco movimento, s'era spenta, e mi accorgevo, dalla finestra priva di
tende, che la prima incerta luce del giorno la rendeva inutile. Pur senza la
candela, un istante dopo sapevo che c'era qualcuno sulla scala. Parlo di
cose in successione, ma non ebbi bisogno di molti secondi per mettermi in
condizione d'affrontare un terzo incontro con Quint. L'apparizione aveva
raggiunto il pianerottolo a metà scala, ed era di conseguenza il punto più
vicino alla finestra dove, vedendomi, si fermò di colpo e mi fissò,
esattamente come mi aveva fissato dalla torre e dal giardino. Mi
riconobbe, come io l'avevo riconosciuto; e restammo così, faccia a faccia,
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a fissarci intensamente, nell'alba fredda e grigia, nell'incerto chiarore che
dalla specchiera si rifletteva nella lucida scala di quercia. In quel momento
egli era davvero, nel senso più assoluto, una presenza viva, detestabile,
pericolosa. Ma non era questa la meraviglia delle meraviglie; riservo
questa definizione ad una circostanza del tutto diversa: la circostanza che
la paura, senza ombra di dubbio, mi aveva abbandonata, e che non v'era in
me nulla che rifiutasse d'incontrarlo e di affrontarlo.
Dopo quel momento straordinario provai angosce infinite, ma, grazie a
Dio, non più terrore. Egli sapeva che non ne provavo... e dopo poco ne ero
magnificamente certa. Sentii, in uno slancio di fiduciosa fierezza, che se
avessi tenuto il campo ancora per un minuto, non avrei più dovuto (almeno
per qualche tempo) tener conto di lui; e durante quel minuto la cosa fu viva
ed atroce come un incontro reale; atroce proprio perché era viva ed umana,
come avrebbe potuto esserlo incontrare all'alba, in una casa addormentata,
un nemico, un avventuriero, un criminale. Era il mortale silenzio del nostro
lungo sguardo, scambiato così da vicino, a dare a quell'orrore, per
mostruoso che fosse, l'unica nota di soprannaturale. Se avessi incontrato un
assassino in quel luogo e in quell'ora, avremmo almeno parlato. Qualcosa
di animato sarebbe corso tra noi; se non altro, uno di noi si sarebbe mosso.
Quel momento si prolungò talmente che poco mancava cominciassi a
dubitare d'esser viva io stessa. Non so esprimere ciò che accadde poi, se
non dicendo che il silenzio (una prova, in un certo senso, della mia forza)
divenne l'elemento in cui vidi scomparire la forma di lui; la vidi voltarsi,
come avrei potuto veder girare su se stesso, in seguito a un ordine, il
miserabile a cui essa aveva un tempo appartenuto; con gli occhi che tenevo
fissi su quella schiena ignobile, che nessuna gobba avrebbe potuto
maggiormente sfigurare; la vidi scendere in fretta i gradini, e sparire nella
tenebra in cui si smarriva l'altra rampa della scala.
X.
Rimasi per qualche tempo in cima alla scala, ma a poco a poco si fece
strada in me la certezza che il mio visitatore se n'era andato, che non c'era
più davvero; allora ritornai nella mia stanza. La prima cosa che colpi il mio
sguardo, alla luce della candela che avevo lasciato accesa, fu il lettino
vuoto di Flora; questo fatto mi mozzò di colpo il fiato, e mi riempi di tutto
il terrore che, cinque minuti prima, ero riuscita a vincere. Mi slanciai dove
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l'avevo lasciata; il piccolo copriletto di seta e le lenzuola erano in
disordine, ma le cortine bianche erano state tirate con cura e inganno; poi
al rumore dei miei passi, con mio indicibile sollievo, rispose un altro
suono: mi accorsi che la tenda della finestra si muoveva, e la bambina,
chinandosi, emerse tutta lieta dall'altro lato. Se ne stava lì avvolta nel suo
grande candore e nella sua piccola camicia da notte, coi suoi piedini rosa
nudi e i luminosi riccioli d'oro. Aveva un'aria molto grave, e mai prima
d'allora avevo tanto avuto l'impressione di perdere un vantaggio da poco
acquistato (quel vantaggio che mi aveva appena dato un brivido così
prodigioso), come quando mi resi conto che mi stava rivolgendo un
rimprovero. «Cattiva, dove siete stata?» Invece di rimproverarla io per la
sua indisciplina, mi sentii obbligata a darle delle spiegazioni. Ma si spiegò
anche lei, con la più amabile e premurosa semplicità. Si era accorta
improvvisamente che non ero più nella stanza, ed era saltata dal letto per
vedere che cosa mi fosse capitato. Per la gioia di rivederla, ero caduta a
sedere, sentendomi, ma soltanto allora, venir meno; e Flora mi era corsa
accanto, e si era arrampicata sulle mie ginocchia, ponendo nella piena luce
della candela il suo meraviglioso visino, ancora arrossato dal sonno.
Ricordo di aver chiuso gli occhi per un momento, coscientemente arresa
all'eccessiva bellezza che splendeva nelle sue pupille azzurre. - Cercavi di
vedermi dalla finestra? - chiesi. - Pensavi che stessi passeggiando nel
parco?
- Be', sapete, pensavo che ci fosse qualcuno... - e me lo disse sorridendo,
senza esitare.
Oh, come la guardai allora! - E hai visto qualcuno?
- Ah, no! - replicò quasi delusa, con tutto il privilegio dell'incongruenza
infantile, benché prolungasse quel no con infinita dolcezza.
In quel momento, nello stato di agitazione in cui mi trovavo, credetti
fermamente che mi mentisse; e se chiusi gli occhi ancora una volta fu
soltanto perché ero turbata dall'idea di dover scegliere uno dei tre o quattro
modi che avevo per reagire. Uno di questi mi tentò, per un momento, con
una forza così singolare che, per resistervi, dovetti stringere la piccina in
un abbraccio spasmodico, ma che lei sopportò (con mia grande meraviglia)
senza un grido e senza dar segno di paura. Perché non giungere con lei ad
una spiegazione lì, sul momento, e farla finita? Perché non buttarle tutto in
pieno viso, su quel delizioso visino illuminato? «Tu lo vedi, tu lo vedi, tu
sai vedere e già sospetti che io lo creda; dunque, perché non confessarlo
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francamente, in modo che si possa almeno dividere il peso della verità, e
forse imparare, nella stranezza del nostro destino comune, dove siamo, e
che cosa tutto questo significa?» Questo impulso, ahimè, se ne andò così
com'era venuto: se mi ci fossi subito abbandonata, mi sarei almeno
risparmiata... vedrete in seguito che cosa. Invece, balzai di nuovo in piedi,
guardai il suo letto e mi risolsi a un pietoso compromesso. - Perché hai
tirato le cortine, per farmi credere che eri ancora al tuo posto?
Flora rifletté candidamente; poi, con il suo celeste sorriso:
- Perché non mi piace farvi paura!
- Ma se pensavi ch'ero uscita...
Non si scompose affatto; volse lo sguardo alla fiamma della candela,
come se la domanda fosse irrilevante, o comunque impersonale come «Fra
Martino campanaro» o «Quanto fa nove-per-nove».
- Oh, ma sapete benissimo, - rispose con ineccepibile buon senso,
- che potevate tornare, cara, e che siete ritornata! - E poco dopo, quando
si fu coricata di nuovo, dovetti restare a lungo china su di lei, tenendole la
mano, per dimostrarle che riconoscevo l'opportunità del mio ritorno.
Potete immaginare che cosa fossero le mie notti, a partire da quella. Più
volte mi capitava di restare in piedi non so fino a quando; coglievo il
momento in cui la mia compagna di stanza sicuramente dormiva per
scivolare fuori e andare pian piano giù per il corridoio, e mi spingevo
persino al punto dove avevo incontrato Quint l'ultima volta. Ma non
l'incontrai più in quel luogo; e posso anche dire subito che non lo rividi
mai più nella casa. Perdetti invece l'occasione di avere un'altra avventura
sulla scala. Una volta, mentre dall'alto guardavo giù, ravvisai la presenza
di una donna, seduta su uno degli ultimi gradini con le spalle rivolte verso
di me, piegata in due e con la testa fra le mani, in atteggiamento di dolore.
Ero là da un momento appena, quando svanì, senza girarsi a guardarmi.
Nondimeno, sapevo esattamente quale spaventoso volto poteva mostrare; e
mi chiesi se, trovandomi al pianterreno invece che in cima alla scala, avrei
avuto, per salire, lo stesso coraggio che avevo avuto ultimamente con
Quint. Tuttavia le occasioni per essere coraggiosa non mi mancarono
davvero. L'undicesima notte dopo il mio ultimo incontro con quel signore
(ormai le contavo una per una) ebbi un allarme che rischiò di superare le
mie forze e che, per il suo carattere particolarmente inaspettato, costituì il
più grave turbamento che avessi mai provato. Era precisamente la prima
notte di quel periodo in cui, stanca per le continue veglie, avevo creduto di
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potermi coricare all'ora che prima mi era abituale senza dar prova di
negligenza. Mi addormentai immediatamente e il mio sonno durò, come
seppi dopo, sino all'una circa; ma quando mi svegliai, sedetti di colpo sul
letto, completamente sveglia, come se una mano mi avesse scosso. Avevo
lasciato una candela accesa, ma ora era spenta, ed ebbi immediatamente la
certezza che l'avesse spenta Flora. Saltai subito dal letto e, nel buio, andai
diritta al suo: era vuoto. Uno sguardo alla finestra mi illuminò
ulteriormente, e la luce d'un fiammifero completò il quadro.
La bambina si era alzata di nuovo (questa volta spegnendo la candela) e
ancora una volta, allo scopo di guardare o di rispondere a qualcuno, s'era
rannicchiata dietro la tenda e spiava nella notte. Che ora vedesse qualcosa
(il che, come m'ero assicurata, non era accaduto la volta precedente) mi fu
provato dal fatto che non fu distratta né dalla luce che avevo accesa, né dai
movimenti precipitosi con cui m'ero infilata le pantofole e la vestaglia.
Nascosta, protetta, assorta, si appoggiava evidentemente al davanzale (la
finestra si apriva verso l'esterno) e si abbandonava completamente
all'osservazione. Una gran luna pacifica, che le era d'aiuto, mi aveva dato
una ragione di più per affrettarmi. Era faccia a faccia con l'apparizione che
avevamo incontrato vicino al laghetto, e ora poteva comunicare con essa
come non aveva potuto fare prima. Quel che dovevo fare io, era di
raggiungere attraverso il corridoio, senza disturbarla, un'altra finestra dallo
stesso lato della casa. Andai alla porta senza essere udita; la varcai, la
chiusi e dall'esterno accostai l'orecchio per sentire se mai facesse qualche
rumore. Mentre ero nel corridoio, mi caddero gli occhi sulla porta del
fratello, che si trovava soltanto pochi passi più in là, e che indicibilmente
destava di nuovo in me quello strano impulso che ho già chiamato la mia
tentazione. E se fossi entrata dritta nella stanza, per andare alla sua
finestra?... e se arrischiandomi a svelare il motivo del mio gesto al suo
stupore infantile, avessi preso ciò che mi mancava del mistero al laccio
della mia audacia?
Questo pensiero mi affascinava talmente che avanzai fino alla soglia,
prima di arrestarmi. Con l'orecchio teso sino allo spasimo, immaginavo
che tutto fosse possibile; mi chiedevo se anche il suo letto fosse vuoto, e
anche lui segretamente in vedetta. Passò un minuto interminabile, senza
suoni, spirato il quale il mio impulso cedette Era là tranquillo; poteva
essere innocente; il rischio era orribile; tornai sui miei passi. C'era sì una
figura nel parco... una figura che vagava per strappare uno sguardo, il
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visitatore con cui Flora era impegnata; ma quel visitatore non aveva nulla a
che fare col mio bambino. Esitai ancora, ma per altre ragioni, e per qualche
secondo soltanto; poi avevo fatto la mia scelta. A Bly c'era abb