Il mistero del Male in «Giro di vite»

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Il mistero del Male in «Giro di vite»
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Il mistero del Male
in «Giro di vite»
focus on
C
di Giorgio Pestelli
on «giro di vite », nel significato prestatogli da
Henry James, si deve intendere quel grado in più
di effetto che si accompagna a un racconto già
spaventoso in sé, quando si aggiungano elementi narrativi particolari, come il coinvolgimento nell’azione di
bambini innocenti: è la sfida che Britten assume e vince rappresentandola in un saggio altissimo di teatro musicale senza sconvolgerne le strutture basilari. Nel 1954
quando la Biennale di Venezia commissiona a Benjamin
Britten Il giro di vite per il Festival di musica contemporanea, il nome del musicista inglese è da circa un decennio
in prima linea nel campo
del teatro musicale moderno: almeno dal successo clamoroso di Peter Grimes rappresentato nel 1945
per la riapertura del Sadler’s Wells dopo l’interruzione della guerra; l’ambiguo rapporto del marinaio Grimes con il suo mozzo verrà individuato e sviluppato nella nuova opera sui temi dell’innocenza e dell’adolescenza, ma
i suoi precedenti formali
più diretti sono nella concezione dell’opera «da camera», maturata in Britten nell’esperienza di direttore artistico dell’English Opera Group: campo privilegiato sia per
nuove creazioni (come
Albert Herring del 1947),
sia per riprese di antiche
opere inglesi, come The
Beggar’s Opera di Gay e Dido and Aeneas di Purcell: proprio dall’intreccio di antico e
moderno, di lontano e di quotidiano nasce la soluzione
di questo frutto peculiare in tutta l’opera del Novecento.
Rispetto alla fonte dell’opera, il racconto breve The Turn
of the Screw di Henry James (1898), due sono le innovazioni principali del libretto di Myfanwy Piper: la centralità
della figura dell’istitutrice (la cui psicologia James scandaglia con crudele precisione) cede il primo piano ai due
bambini, Miles e Flora; più di tutto, la presenza corporea, la voce fisica dei due fantasmi, Quint e Jessel; nel racconto costoro, limitandosi alla pura apparizione, potevano sembrare una proiezione della mente dell’istitutrice;
nell’opera invece parlano, non solo alle loro vittime, ma
anche fra loro, in congiura, proponendosi (nella prima
scena del secondo atto) un piano di conquista della cittadella del Bene che culmina in un verso di Secondo Avvento di W.B.Yeats, «La cerimonia dell’innocenza è morta».
Resta però fermo il centro di tutto, anzi nell’opera musicale reso ancora più penetrante e pervasivo: la presenza
del Male, il suo mistero che è la sua presenza stessa, intessuto di velate implicazioni sessuali che si spandono come
un veleno; tuttavia un «Male molto inglese» come osservò Fedele d’Amico, quello evocato dalla coscienza puritana in un contrasto irrisolto fra angelismo e dannazione.
Sul terreno propriamente musicale è ragione di continua ammirazione il rigore formale esercitato dal musicista su una materia tanto rischiosa e sfuggente: tutta l’azione è incanalata nella struttura di un Tema con quindici Variazioni concluse da una magistrale ciaccona finale;
ogni variazione inoltre sfocia direttamente in una scena
corrispettiva alla quale fa da prologo strumentale, preparandone il materiale inventivo: in definitiva una rete che
non lascia libera una sola maglia del tessuto. L’ossigenato
ambiente marino del Grimes, in cui era implicito un senso
di riscatto, è rimosso: un’aria di serra, viziata e soffocante
grava sulla casa di Bly teatro di tutta l’azione; infine, colpo
di genio che dà al Giro di vite il suo colore specifico, è quel-
la di aver disciolto nell’invenzione tematica un tipo di vocalità tipicamente inglese, con i suoi modelli nei madrigali
elisabettiani e in Purcell; non mancano riflessi di uno stile vocale italiano, ad esempio nelle parti di Grose e di Jessel, e russo per Quint (nel senso delle acutezze stranianti dell’Oedipus di Stravinsky); ma il tocco definitivo, tale
da riassumere nel ricordo la «tinta» di tutta l’’opera, sono
le voci bianche dei due adolescenti, le nursery rhymes e quasi tutti i canti intonati dai due fanciulli; sopra tutto il desolato canto di Miles «Malo, Malo, Malo, I would rather
be», che torna alla fine dell’opera, come il suo sigillo profondo quanto indecifrabile nella sua subdola dolcezza. ◼
The Turn of the Screw secondo Luca Ronconi
al Teatro Regio di Parma.
Da sinistra, Debora Beronesi (Mrs Grose),
Fleur Todd (Flora), Gun-Brit Barkmin (L’istitutrice),
in alto Patrizia Orciani (Miss Jessel) (foto di Roberto Ricci).
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Jeffrey Tate dirige
«The Turn of the Screw»
lavori assoluti del Novecento che comprende anche Peter
Grimes e Billy Budd, ma sono convinto che The Turn of the
Screw sia la più perfetta dei tre.
Che cosa in particolare la colpisce di questa partitura così
originale?
Mi affascina incredibilmente la costruzione, questo susseguirsi di variazioni del tema iniziale basato sui dodici
semitoni della scala, quasi che ogni variazione costituisca
un «giro di vite» ulteriore. È poi intrigante il modo in cui
Britten utilizza un’orchestra così ridotta, riuscendo a otdi Enrico Bettinello
tenere da un tale organico un così grande numero di effetti e di suggestioni sonore.
er un direttore d’orchestra affrontare The Turn
Questa particolarità della strumentazione mette in difficoltà il diof the Screw è sempre una sfida intrigante: il fascino strarettore, che non ha più a disposizione il pieno orchestrale, oppure no?
ordinario di questo lavoro, nel quale Benjamin Britten è riDevo dire che in questo senso Britten è un compositouscito a rendere – grazie a una scrittura di rigoroso eclettismo – le
re che agevola molto i direttori e The Turn of the Screw è, per
inquiete atmosfere delle pagine di Henry James, è infatti per quaquanto mi riguarda, una partitura abbastanza agevole.
lunque bacchetta un momento di confronto diretto con l’originalità
Le difficoltà ce le ha piuttosto l’orchestra, sulle cui spaldel compositore.
le c’è un lavoro molto intenso e, ovviamente, le voci, anche se mi sembra che Britten
scriva magnificamente per le
voci, rendendo
le loro parti relativamente facili
da cantare.
Ci sono altre opere del Novecento di cui tiene conto quando affronta
The Turn of the
Screw?
I riferimenti più immediati e ovvi sono a
Stravinskij, che
tra l’altro sempre a Venezia
aveva debuttato
tre anni prima
di Britten con
The Rake’s Progress, e ad Alban
Berg, specialmente al Wozzeck, con cui condivide la strutNon stupisce quindi che a dirigere il nuovo allestimento veneziatura a variazioni e che Britten stesso ammirava molto.
no dell’opera sia stato chiamato un artista di indiscutibile sensibiliNel nuovo allestimento avrà come regista Pier Luigi Pizzi: vi siete
tà come Jeffrey Tate, che abbiamo raggiunto telefonicamente a Parigià sentiti per capire come lavorare all’opera di Britten?
gi, da dove ci risponde con la consueta finezza e capacità di inquaNon ancora, ma lo faremo presto. Conoscendo la grandrare al meglio il discorso.
de visionarietà di Pizzi e sapenÈ per me un grande onore dirido quale visionarietà richiegere The Turn of the Screw proprio
de quest’opera, sono davvea Venezia, nello stesso teatro in
Venezia – Teatro La Fenice
ro contento e curioso di iniziacui si tenne la prima rappresen25, 29 giugno e 1 luglio, ore 19.00
27 giugno, 3 luglio, ore 15.30
re a lavorarci. Anche il cast mi
tazione di quest’opera. A questo
va aggiunto un altro dato, cioè The Turn of the Screw (Il giro di vite) di Benjamin Britten sembra molto interessante e il
opera in un prologo e due atti op.54
suo peso è davvero essenziail particolare rapporto personalibretto di Myfanwy Piper
le per la riuscita del lavoro. ◼
le che mi lega al lavoro di Britdal racconto omonimo di Henry James
ten, il primo che ho conosciuto
maestro concertatore e direttore Jeffrey Tate
comprandone una versione diOrchestra del Teatro La Fenice
scografica quando ero ragazzo.
regia, scene e costumi Pier Luigi Pizzi
Sopra e a pagina 15, bozzetti di scena
Fa parte di quel trittico di caponuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice
di Pier Luigi Pizzi.
Un nuovo allestimento
veneziano per l’opera
di Britten
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Fantasmi in scena:
«The Turn of the Screw»
da Henry James
a Benjamin Britten
focus on
C
di Rosella Mamoli Zorzi
on il racconto lungo The Turn of the Screw (1898),
di Henry James, ci troviamo davanti ad uno dei
testi più famosi, più discussi, ma anche più apprezzati del grande scrittore americano, fin dal momento in cui comparve, prima a puntate su «Collier’s Weekly»
(gennaio-aprile 1898), poi nel volume The Two Magics, con
Covering End, nell’ottobre 1898, e infine, in edizione riveduta, per la New York Edition nel 1908.
Le recensioni colsero immediatamente il tema alla base del racconto, la presenza, ma soprattutto gli effetti del
male sull’innocenza, e la straordinaria capacità di James
di trasmettere al lettore questo tema senza (quasi) nessun orpello esterno appartenente ai canoni del realismo
o della tradizione «gotica». Sulla esistenza, o meno, dei
«fantasmi» in questo racconto – sono loro i portatori del
male o è chi li vede o immagina il vero corruttore? –, sono stati scritti molti saggi, a partire dall’interpretazione
freudiana di Edna Kenton (1924), all’assai più noto saggio di Edmund Wilson (1934), dove tutto viene ricondotto alle «allucinazioni» della istitutrice-narratrice.
Come è noto, The Turn of the Screw è preceduto da un prologo, di taglio tradizionale, in cui alcune persone, alla vigilia di Natale, davanti a un camino acceso, in una vecchia casa, raccontano storie di fantasmi, tra le quali quella
di un’apparizione ad un bambino: è a questa storia che reagisce il padrone di casa, Douglas, promettendone un’altra, scritta in un diario da una donna, morta ormai da
vent’anni, dove non solo c’è un bambino, ad aggiungere
«un giro di vite» al terrore della storia, ma ve ne sono due.
«Se il bambino offre un giro di vite all’effetto, che ne dite
di due bambini...?» Il manoscritto viene recuperato, Douglas accenna ad alcuni fatti che riguardano la donna che
lo ha scritto. È una ragazza di campagna, che si presenta ad un ricco signore di Harley Street come istitutrice per i suoi due nipoti, rimasti orfani. La
ragazza lo vede «all in a glow of high fashion,
of good looks, of expensive habits, of charming ways with women» («in uno splendore di moda, di bellezza, di abitudini costose, di modi che affascinano le donne»), sente
il suo fascino e accetta le condizioni imposte:
non dovrà mai, mai, consultarlo su nulla
riguardo ai bambini che le saranno affidati in una casa nell’Essex, non dovrà mai mettersi in contatto con
lui. Douglas fornisce solo alcuni dettagli, tutti tesi a tenere desta l’attenzione e la
curiosità degli ascoltatori,
ma insieme utili al lettore per l’interpretazione
della storia. Il diario, in
prima persona, costitu-
isce il vero racconto.
Il racconto dell’istitutrice inizia con il suo arrivo a Bly,
una vecchia casa di campagna, inizialmente presentata
come un luogo paradisiaco, anche se già vi sono presenti segni negativi, e con il suo incontro con i due bambini, Flora e Miles, con la governante, Mrs. Grose, e con la
graduale scoperta di una serie di misteri: l’espulsione di
Miles da scuola, la morte della istitutrice che la ha preceduta, Miss Jessel, le apparizioni del fantasma di Miss Jessel e di Peter Quint, un tempo a servizio a Bly, anche lui
morto in circostanze misteriose e in ogni modo tragiche.
In un crescendo di tensione il racconto sviluppa il tema
dell’innocenza e del male, che si incontrano nei due bellissimi bambini, trascinati al male dai «fantasmi» dei corrotti Miss Jessel e Quint, o dalle allucinazioni della istitutrice-narratrice, fino al dénouement tragico della vicenda,
la morte di Miles. Il male è penetrato nell’apparente paradiso di Bly (nome che rimanda all’aggettivo «blithe», che
indica una felicità paradisiaca).
La straordinaria qualità del racconto è legata alla ambiguità della presentazione dei fatti, tutti narrati dal punto di vista – «unreliable» (inattendilibile) – dell’istitutrice. James almeno due volte definì The Turn of the Screw un
«pot-boiler», racconto scritto per soldi, ma si smentì lui
stesso ampiamente quando nella Prefazione alla edizione
di New York definì il racconto «un’incursione nel caos»,
costruita con «pura e semplice ingegnosità, freddo calcolo artistico», poiché si trattava di trovare il modo di comunicare «quel senso di sinistra profondità senza la quale la mia favola sarebbe penosamente crollata», di esprimere «il male portentoso», il male assoluto.
Se anche James ebbe interesse per il genere della «ghost
story» (storie di fantasmi), e se il «germe» di questo racconto fu in effetti una storia di fantasmi (e di bambini e
di servi corrotti) narratagli accanto a un camino dall’Arcivescovo di Canterbury nel 1895, i suoi fantasmi, come
scrisse Virginia Woolf nel 1921, «non hanno nulla in comune con i vecchi fantasmi violenti—capitani da mare insanguinati, cavalli bianchi, donne con la testa mozza su viottoli oscuri o prati spazzati dal vento. Essi hanno la loro origine dentro di noi». Nemmeno James trova
i fantasmi della tradizione interessanti: «I fantasmi buoni, dal punto di vista narrativo sono argomenti di scarso rilievo, e mi fu chiaro, fin dall’inizio, che queste mie
presenze, in agguato, incombenti, portatori di morte,
la mia coppia di agenti anormali, avrebbero dovuto
violare decisamente le regole. Sarebbero diventati, di fatto, agenti: a loro sarebbe stato imposto il
dovere ingrato di creare una situazione con l’aria
satura dell’odore del Male».
Sono questi «agenti» del male che il lettore affronta, terrorizzato non «dall’uomo dai capelli
rossi e dal volto pallido» (Quint) che compare in cima alla torre, ma, come scrive
ancora Virginia Woolf, da «qualcosa
di innominato, da qualcosa, che,
forse, è dentro di noi».
Il racconto appartiene
agli anni della maturità in cui James pubblicò
alcuni dei suoi racconti
più inquietanti, quali The
Altar of the Dead e The Figure in the Carpet (1895), o
il romanzo What Maisie Knew (1897), dove una bambina
con i genitori divorziati percepisce con intuito quasi da
adulta le situazioni in cui i genitori si trovano con i nuovi rispettivi partners; dopo il fallimento di Guy Domville
(1895) sulle scene, James utilizza la sua esperienza teatrale del «metodo scenico», che si aggiunge alle sperimentazioni del punto di vista circoscritto o di un narratore inaffidabile, per arrivare, agli inizi del Novecento ai grandi,
complessi e magnifici romanzi dell’ultimo periodo, The
Ambassadors (1900), The Wings of the Dove (1902), The Golden Bowl (1904).
The Turn of the Screw ha generato pittura, film, musica.
Il pittore americano Charles Demuth (1883-1935) tra il
1917 e il 1918 dipinse cinque acquerelli (conservati al MoMA e al Philadelphia Museum of Art), in parte pubblicati nel 1924, che rendono magnificamente in una modalità pittorica onirica alcune scene del racconto. Ne fu
tratto un famoso film, The Innocents (1961), con la regia di
Jack Clayton e con Deborah Kerr nella parte dell’istitutrice. Tra le produzioni di «Masterpiece Theatre» vi fu
una versione con Caroline Pegg, Johdy May e Colin Firth
nel 2000.
Britten sentì una drammatizzazione radiofonica nel
1932 quando aveva diciotto anni, e annotò nel diario la
sua impressione: «an incredible masterpiece» («un capolavoro incredibile»). Forse fu da quel momento che germinò in lui la futura opera, del 1954, commissionatagli
dalla Biennale per la Fenice, con il libretto scritto da Myfawny Piper (1911-1997), consorte dell’artista John Piper.
Nell’opera furono incorporate due «nursery rhymes» assai note, Tom, Tom, The Piper’s Son e Lavender’s Blue, oltre ad
alcuni versi da The Second Coming di W.B.Yeats, pubblicato nel 1921, «The Ceremony of Innocence is Drowned»,
e parole latine (Atto I, Scena VI), che sembra siano state
tratte dalla grammatica di B.H.Kennedy, usata da Britten
stesso, quasi tutte allusive al sesso maschile e all’omosessualità, anche se mascherate nel significato nella grammatica stessa. Latina è anche la parola «Malo» nella canzone che Miles non ha imparato da nessuno ma dichiara
di aver «trovato», parola interpretata nei diversi significati
di «desidero», «albero di mele», ablativo di «malum» (male). La Piper, pur in un libretto che deve ridurre di molto
il testo, utilizzò il testo a volte molto da vicino: ad esempio il «Prologo», che appare in scena come personaggio,
dichiara di avere «a curious story. I have it written/in faded ink», parole usate nel Prologo a proposito del manoscritto, o ancora, quando il
«Prologo» descrive la reazione della ragazza davanti al ricco signore: «...she
was carried away» («fu travolta»), le parole stesse che
usa l’istitutrice nel primo
capitolo del manoscritto, nel primo dialogo con
Mrs. Grose, la governante
di Bly. La massima differenza, al di là della necessaria riduzione del materiale e la forma a dialogo
imposta dal libretto, consiste nel fatto che i fantasmi di Miss Jessel e di Peter Quint non hanno mai
parola o voce nel racconto, mentre a partire dalla
scena VIII del primo atto,
notturna, prendono la parola. Quint sulla torre chiama «Miles! Miles! Miles!
» tre volte, presentandosi
come «the Hero-highwayman plundering the land./
I am king Midas with gold
in his hand», con l’immagine di un eroe-bandito e del re Mida che tutto uccide
con la sua capacità di trasformare tutto in oro. Miss Jessel chiama Flora, entrambi nel tentativo di portare dalla
loro parte, di possedere, i bambini. Nella scena seguente (Atto II, scena I), sono Miss Jessel e Quint a dialogare
nel loro canto, mentre Miss Jessel ritorna in scena (III),
a comunicare la sua tragedia trascorsa e il suo desiderio
di vendetta («Here my tragedy began,/ here revenge begins»; «Qui iniziò la mia tragedia/ qui inizia la vendetta»).
Quint ritorna e canta («unseen», non visto) nelle scene
IV, V, VIII, esortando Miles a distruggere la lettera che
Miss Jessel ha scritto allo zio dei bambini e poi a non dire
la verità, e vi rimane fino al momento in cui Miles muore.
La «voce bianca» di Miles sottolinea mirabilmente il tema dell’innocenza corrotta centrale nel racconto di James. La tensione del racconto è esaltata magnificamente
dalla musica di Britten. ◼
Nella pagina a fianco: Henry James.
Sopra: Miles and the Governess, acquerello di Charles Demuth
(Philadelphia Museum of Art). (Cortesia del Dipartimento
di Americanistica dell'Università di Ca' Foscari).
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Le inquietudini
e i fantasmi
del «Giro di vite»
I
di Pier Luigi Pizzi
focus on
l giro di vite fa parte di un disegno che fonda le sue
radici nelle due ultime opere che ho realizzato per la
Fenice, cioè un altro Britten, Morte a Venezia, e Die tote Stadt di Erich Wolfgang Korngold. Quest’ultima, per
il modo in cui ho risolto la messinscena, sembrava infatti l’ideale continuazione di Morte a Venezia, perché vi si incontrava lo stesso clima e lo stesso segno stilistico. E anche questo nuovo lavoro non
nasce per caso, è la prosecuzione di quel progetto, e dunque l’approccerò con il medesimo stile.
Sono tutte opere che scavano a fondo la psicologia dei
personaggi e ricreano atmosfere particolari, che sconfinano nella patologia. Giro di
vite non l’avevo mai affrontata
prima, la mia frequentazione
con Britten infatti inizia con
la citata Morte a Venezia, allestita a Genova e in seguito
in laguna, e prosegue con A
Midsummer Night’s Dream per il
Teatro Real di Madrid. E anche dopo questa nuova esperienza mi piacerebbe continuare nello studio di questo
compositore, perché lo sento molto affine, a partire dalle tematiche che tratta, come
quella – centrale – legata a una
giovinezza non serena, turbata. Il discorso sull’amore, sulla solitudine, le tante questioni che entrano in gioco nelle sue opere mi stimolano
in modo particolare. Senza necessariamente riconoscermi in questi problemi, in questi turbamenti, in quest’assenza di risposte, mi sento in totale sintonia con lo spirito
che li evoca. Prima di mettere in scena un’opera ci si trova a interrogarla, a cercare di comprendere cosa contiene
al di là della vicenda narrata, anche per trovare degli antidoti al proprio travaglio spirituale e alla propria solitudine. E Britten, come anche Korngold, sono autori che
forniscono delle risposte. È questa la ragione per cui oggi preferisco questo tipo di musica, che mi coinvolge in
prima persona e mi appassiona, al repertorio che ho fatto durante tutta la mia vita.
La lettura del racconto di James, anche se a un primo
esame può sembrare relativamente utile al futuro lavoro scenico, dato che la storia è svolta magnificamente nell’opera, dà dei suggerimenti fondamentali sull’ambientazione, perché racconta in modo poetico ed estremamente preciso il luogo in cui si svolgono gli eventi. Lavorare su una materia come questa è assai complesso, e le
difficoltà nascono dalla necessità di catturare quello che
è imprendibile, che appartiene alla psiche dei personaggi: per ciascuno di loro bisogna svolgere un’analisi molto approfondita. La stessa protagonista è una figura sfaccettata, arriva lì da un altro universo, un mondo ordinato e limpido, e subisce, in un certo modo, la seduzione,
lo charme dello zio che la incoraggia ad assumere il suo
incarico di governante. Quindi sono già presenti molteplici implicazioni, e la vicenda comincia già con dei campanelli d’ allarme. L’idea poi che tutto parta dalla psicologia dei bambini è straordinaria: essi sono assolutamente consapevoli e perversi, e questo lo scopriamo mano a
mano, perché all’inizio sembrano due modelli di serenità
e perfetta letizia. Poi invece ci rendiamo conto progressivamente che sono posseduti dalle presenze demoniache
che li dominano. Quanto a questi fantasmi, bisogna fare
i conti con la stessa opera, che – contrariamente alla no-
vella – li colloca in scena in carne e ossa, e li fa cantare.
Questo li rende estremamente vivi e concreti, presenti in
tutto e per tutto. Però noi sappiamo che sono delle creazioni mentali. Allora come si manifestano? La mia idea –
anche se magari fra un mese sarò smentito, perché il teatro si fa sul palcoscenico e non a tavolino, e in questo momento posso soltanto suggerire delle ipotesi, che avranno
bisogno di un’accurata verifica sulla scena – è che, essendo loro stati conosciuti dai bambini, si dovrebbero palesare esattamente come sono stati da vivi, con il loro vestito, la loro uniforme di istruttore e istitutrice, perfettamente intatti, non intaccati dal disastro della decomposizione. Appartengono alla memoria dei bambini, e anche alla governante si presentano come sono stati in vita.
Credo che questa sia la soluzione più logica.
Quanto infine al cast artistico, so che il direttore sarà
Jeffrey Tate e questo mi rassicura moltissimo: veramente
non avrei potuto desiderare di meglio. Non conosco invece nessuno del cast, a parte Marlin Miller, che è stato per
me un perfetto Aschenbach e che ritrovo con sollievo. ◼

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