Anas per l`arte 1

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Anas per l`arte 1
Anas per l’arte
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Venezia 2005
© Copyright Anas 2005
© Copyright foto Hélène Binet
Referenze fotografiche
Hélène Binet
Mario Bigazzi
Progetto grafico
Fabio Balcon
Impaginazione e realizzazione
Segno Associati
www.segnoassociati.it
Venezia, giugno 2005
Sede Anas Santa Croce
Prefazione
di Pietro Lunardi
Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti
L’opera che viene inaugurata a Venezia e che questo libro racconta è straordinariamente significativa da due punti di vista: polico-imprenditoriale e artistico-culturale.
Il dato politico si lega alla trasformazione dell’Anas in società per azioni con la missione del rilancio delle infrastrutture stradali in Italia nel quadro della linea generale
indicata dalla “Legge Obiettivo”.
Questo cambiamento non è stato solo giuridico-normativo, ma ha cambiato la logica
stessa di valutazione di tutti gli ambiti di competenza dell’Anas a partire dal patrimonio aziendale.
Quello che prima era una indistinta sommatoria di beni pubblici, con la spa diventa
un preciso inventario di cui si cura l’accatastamento, si valuta il cespite, lo si iscrive
a bilancio e se ne programma la manutenzione e la valorizzazione.
È da questo processo virtuoso che nasce in Anas la “scoperta” (o riscoperta) del
Palazzetto Foscari che era da decenni nella sua disponibilità senza che se ne fosse
colta l’eccezionalità localizzativa e le potenzialità d’uso all’interno di una politica di
sviluppo. Il recupero edilizio è stato il primo passo di questa riscoperta (con il riuso
anche dell’apprezzabile arredo “da modernariato” che l’immobile conteneva) ma ancor
più importante è stata la scelta d’uso, destinando una parte considerevole dell’edificio
a sede di incontri internazionali e a luogo stabile di collaborazione fra Anas e IUAV.
Così facendo non solo il bene pubblico e il patrimonio aziendale vengono valorizzati
ma si crea il valore aggiunto di una sede che unisce sapere universitario a competenza aziendale per far decollare un polo di eccellenza nella cultura del progetto stradale.
Il fatto poi che la sala meeting sia stata dedicata ad una “grande firma” dell’ingegneria (che si fa anche architettura) come Eugenio Miozzi, aggiunge un dato di sensibilità verso la storia e il sapere delle infrastrutture e rende evidente come l’Anas sia
stata, sia e ancor più, possa tornare ad essere, un luogo propizio per le eccellenze progettuali come lo fu, con Miozzi, nel primo novecento quando egli assunse responsabilità di vertice del compartimento del Veneto.
Se questo sta avvenendo è perché il processo avviato è stato fondamentalmente giusto e, alla base di questa positività, che genera buoni frutti, c’è la correttezza e la lungimiranza delle scelte politiche che l’hanno promossa e dell’impegno imprenditoriale
dell’Azienda che le persegue.
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Il secondo aspetto è, se possibile, ancor più importante, perché rivela che la grande
svolta “realizzati” in materia di interventi infrastrutturali che ha visto e vede Anas
protagonista non si è limitata alla dimensione quantitativa, ma ha generato qualità,
e qualità culturale in particolare.
Il Presidente Pozzi, nel suo intervento, ricorda, sia pure sinteticamente, tutte le molteplici iniziative culturali che il CdA ha avviato in questi anni: dalle collaborazioni universitarie ai concorsi, dagli accordi con la Biennale di Venezia e quelli con il Touring
Club, la Rai, l’Istituto Luce, ecc.
Ma l’aver trasformato a Venezia un palazzo sul Canal Grande (che nei decenni era
diventato un magazzino) in una sede culturale attiva, piena di giovani che studiano,
progettano e amano le strade (del passato, del presente e del futuro) è molto di più
di una bella operazione immobiliare, è un segno, il simbolo di un nuovo corso che è
assai vicino agli indirizzi che la Commissione “Infrastrutture e Cultura” che presiedo
(e che l’arch. Costanza Pera segue quotidianamente come vice-presidente) e che vede
l’ammodernamento stradale del Paese come non conflittuale, ma anzi partecipe e
motore della conoscenza, tutela e valorizzazione del territorio e dei suoi beni storicoartistici.
Ma questo orientamento culturale nel caso del “Palazzetto Foscari” dell’Anas a Venezia
è reso, se possibile, ancor più chiaro e stimolante dalla scelta, concordata da Anas con
la Biennale, di affidare ad un giovane artista italiano (sottolineo giovane e italiano)
l’intero atrio di ingresso e la scala, da pensare, trattare e far vivere unitariamente in
un allestimento d’arte di grandi dimensioni e di natura coinvolgente al punto che il
pubblico dei visitatori del palazzo “non potrà non entrare” nell’opera stessa e, in qualche modo farne parte, superando così il rigido confine tra l’opera e la sua fruizione.
L’autore Flavio Favelli ha chiamato “VESTIBOLO” la sua realizzazione, che è tante cose
(tante arti?) insieme: attraverso questo vestibolo passeranno la vita, il lavoro, i contratti nazionali e internazionali di Anas a Venezia, offrendo all’Europa una vetrina di
altissimo livello dell’Italia che lavora, che pensa, che studia e che, soprattutto, non si
arrende alle difficoltà della congiuntura internazionale.
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Introduzione
di Vincenzo Pozzi
Presidente dell’Anas
Il 19 dicembre 2002 l’Anas è diventata una società per azioni e questo suo radicale
“cambio di pelle”, che ha cominciato a tradursi in un concreto processo di trasformazione nel 2003, è coinciso con il 75° anniversario della sua fondazione nel 1928.
Quando il Consiglio di Amministrazione ha valutato questa straordinaria concomitanza fra passato e presente (con la conseguente proiezione nel futuro) ha escluso subito
l’idea di celebrare solo una ricorrenza, interpretando invece il genetliaco come occasione di riflessione storica e prefigurazione progettuale del “nuovo inizio” dell’Anas Spa.
In quest’ottica ha perso di senso ogni rigido riferimento cronologico al “compleanno
aziendale” avviando invece un percorso che, partendo dal Convegno “L’Architettura
delle strade” dell’autunno 2003, prosegue tutt’ora. Le iniziative sono tante: dal Master
interuniversitario che si propone di formare nuove leve di progettisti interdisciplinari
di strade e di far entrare il tema delle infrastrutture anche nelle facoltà che si occupano di ambiente, architettura e paesaggio, alla riscoperta della storia per immagini con
l’Istituto Luce; dalla guida delle strade dell’Italia Romana con il Touring Club alla carta
dei servizi che impegna l’Anas verso gli utenti delle “sue” strade; dai concerti al
Campidoglio all’accordo con la Biennale di Venezia per riportare il tema della strada nel
circuito creativo dell’arte: musica, danza, arti figurative…
E’ un percorso che è ormai fuoriuscito dall’orizzonte “eccezionale” del 75° anniversario
per diventare un dato di normalità che concorre a definire il profilo culturale della
nuova Anas. La svolta “quantitativa” che ha visto il conseguimento di obiettivi realizzativi impensabili solo pochi anni fa si accompagna dunque anche ad una inedita
attenzione agli aspetti qualitativi non solo dei progetti infrastrutturali (tracciato,
opere d’arte, rapporto con i luoghi attraversati) ma anche dei molteplici significati e
valori che ruotano intorno al tema della strada. In questo filone di attenzioni si colloca ad esempio l’accordo con la RAI che ha portato al ciclo di trasmissioni di Radio 3
sulla riscoperta della Via Francigena dall’Abbazia di Novalesa fino a Roma, ripercorsa a
piedi, a tappe di circa 20 Km al giorno, da gruppi di scrittori, giornalisti, uomini e
donne di cultura che rinnovano itinerari del nostro immaginario in cui la strada diventa qualcosa che va ben al di là del mero dato infrastrutturale per diventare percorso di
culture, di civiltà e paradigma di dialogo fra diversità.
Questo lavoro sulla “cultura della strada” ha portato ad esempio l’Anas a bandire un
grande concorso internazionale per la progettazione di tre importanti interventi nel-
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l’area di Firenze, di Venezia e nella “Magna Grecia”. Sono state scelte tre localizzazioni
simboliche che sono in grado di parlare all’immaginario internazionale evocando luoghi simbolo dell’Italia e della sua storia: si tratta di tre tipologie di opere che vanno da
un doppio ponte sull’Arno al disegno degli imbocchi delle gallerie del tunnel di Mestre
fino alla rinaturalizzazione di quasi 10 Km di territorio (dove viene dismesso il vecchio
tratto dell’A3 essendo stato costruito il nuovo asse della Salerno-Reggio Calabria) con
un museo accessibile dall’autostrada per far conoscere i reperti archeologici emersi nel
corso dei lavori.
E’ la prima volta (anche in questo) che l’Anas affronta una sfida di questa portata in
cui pensiamo di mobilitare il meglio della progettualità interdisciplinare mondiale.
Al di là dei progetti e delle opere oggetto del concorso, quello che è essenziale è il
segnale di discontinuità che Anas vuol dare: dopo questa mobilitazione di eccellenza,
dovrà essere anche “psicologicamente impossibile” accettare sciatterie progettuali e
costruttive nelle nostre realizzazioni. Si è già fatta molta strada sul tema della qualità
delle strade: ora si tratta di consolidare e socializzare questi sforzi facendoli diventare
prassi corrente e abito mentale diffuso, superando logiche occasionali e operazioni
“una tantum” da “fiore all’occhiello”.
Ho richiamato questo percorso per dire che il “VESTIBOLO” di Flavio Favelli che interpreta artisticamente e trasforma creativamente l’atrio del “Palazzetto Foscari” dell’Anas
sul Canal Grande a Venezia non è una “rara avis” né una iniziativa estemporanea, ma si
colloca dentro un filone di ricerca e di iniziative che ha il respiro di un percorso culturale ricco di voci, esperienze, interlocutori e obiettivi.
Il dialogo di un’Azienda come l’Anas con le correnti più nuove dell’arte contemporanea
non può non contenere anche un azzardo, ma è un azzardo meditato e creativo che
contribuisce ad arricchire di valori, riflessioni e (perché no?) discussioni il nostro percorso. Sarebbe stato assai più semplice e “sicuro” comprare un’opera consacrata o commissionarne una ad un artista dello “star system” del mondo creativo ed esporla come
icona nell’atrio (risistemato) del “Palazzetto Foscari”. Questa operazione avrebbe potuto essere legittimata come investimento e iscritta nel grande libro del mecenatismo
che nobilita culturalmente tante aziende offrendo argomenti al marketing e ausili
accattivanti ai responsabili della comunicazione. Gli esempi sono innumerevoli, ma il
loro (nobile ed importante) significato lambisce troppo spesso la strumentalità che
connota tante sponsorizzazioni motivate dal positivo ritorno di immagine atteso.
L’Anas ha scelto un’altra strada, quella di aprire uno spazio di opportunità ad un giovane artista italiano per dar vita a qualcosa di abbastanza inedito: un locale da usare
per le normali funzioni che si impongono in uno stabile dove si riunisce molta gente
(che lavora, che studia, che si incontra, che riceve altre persone, ecc.) che sia al tempo
stesso un’opera d’arte (non il luogo in cui un’opera viene esposta).
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In questo consiste l’azzardo di cui si parlava in precedenza, nel coraggio di legare un
grande marchio come quello dell’Anas ad una operazione artistica sperimentale di cui
è in parte indeterminata la stessa natura (scultura? architettura? ambiente?…) offrendo tale opportunità ad una “nuova leva” dell’arte italiana.
Ovviamente questo “azzardo” è stato ragionevolmente circoscritto chiedendo l’ausilio
della Biennale di Venezia attraverso un primo contatto con l’allora Presidente Franco
Bernabè che aprì un canale di dialogo nel cui alveo il curatore Prof. Francesco Bonami
indicò vari artisti suggerendo poi il nome di Flavio Favelli anche alla luce del tipo di
esperienze creative che questo artista stava sviluppando.
Quel primitivo contatto si è concretizzato nel VESTIBOLO di cui questo libro descrive il
senso e raccoglie le immagini (compreso il “back stage” del suo allestimento) mentre
più in generale il dialogo tra Anas e Biennale di Venezia si è arricchito di nuovi episodi e ha assunto un carattere non occasionale anche grazie alla lungimiranza di Davide
Croff che ha impresso un nuovo respiro anche imprenditoriale alla prestigiosa istituzione culturale che è stato chiamato a presiedere.
Da ultimo va sottolineata la coralità dell’iniziativa che ha condotto alla realizzazione
del VESTIBOLO di Flavio Favelli nell’atrio del Palazzo Foscari dell’Anas: una esperienza
che ha visto tutto il personale del Compartimento di Venezia mobilitarsi su un tema e
su una tipologia di “lavoro” assai lontani dal normale campo di attività.
Anche da questo punto di vista si è trattato di un’esperienza inedita con ingegneri e
geometri “stradini” impegnati con Favelli a realizzare un’opera “misteriosa” da cui, però,
si sono fatti coinvolgere al punto di sentirla anche un po’ come una propria creatura.
L’anima di questo coinvolgimento è stato dapprima l’Ing. Fabrizio Russo (che ha continuato a sentirsi partecipe dell’intrapresa anche quando è stato richiamato a Roma per
nuovi importanti incarichi) e poi l’Ing. Ugo Dibennardo, con la costante collaborazione del Sig. Rocco Barbaro, nonché dell’Arch. Roberto Canovaro, che ha diretto i lavori
di recupero del Palazzo e che ha accolto da subito con entusiasmo l’ipotesi della “intrusione creativa” di un artista come Favelli nel progetto edilizio che stava portando a
compimento.
Senza questa multiforme e pluralistica convergenza di volontà e di impegni forse il
VESTIBOLO non si sarebbe fatto o non si sarebbe fatto così. La constatazione che quest’opera nata indubitabilmente da un singolo artista (Favelli) sia una realtà sentita e
vissuta come propria da molte persone della nostra Azienda, può forse essere presa a
simbolo della “nuova Anas”, che ha potuto rilanciare il tema delle infrastrutture stradali in Italia moltiplicando la sua capacità realizzativa proprio grazie all’impegno di
amministratori, dirigenti, tecnici e maestranze che hanno saputo dare (e stanno
dando) in ogni settore qualcosa di più di ciò che sarebbe dovuto in base ai soli mansionari ad ogni livello.
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Il vestibolo nudo
(Su un’installazione di Flavio Favelli)
di Mario Fortunato
foto di Hélène Binet
Ho conosciuto Flavio Favelli e il suo lavoro qualche anno fa, a Londra. Devo il
tutto a Vittorio Urbani, ideatore e animatore di quel piccolo miracolo di impegno no profit nel campo dell’arte contemporanea, che si chiama Nuova Icona
e ha sede a Venezia. Urbani stava lavorando, per conto dell’Istituto Italiano di
Cultura a Londra che allora dirigevo, a una trilogia espositiva in cui di volta in
volta due artisti – uno italiano e l’altro inglese – dialogavano fra loro, creando cortocircuiti di senso e di esperienza. Favelli mi fece l’effetto di un Valerio
Magrelli più radicale, perfino un po’ estremista. Del poeta romano, del suo lucido razionalismo capace di sconfinare, come per un sovvertimento dei sensi,
nell’opposto di una maniacalità minuziosa quanto ossessiva, Favelli mi parve
condividere finanche la postura fisica – cauta, guardinga, tuttavia non alieno
da un’ironia severa, direi di natura morale. Mi colpì a ogni modo il suo lavoro.
Una serie di stampe con progetti di ville su cui l’artista era intervenuto con
schizzi e disegni di proprio pugno. Un grande tappeto fatto di tanti pezzi di
tappeti diversi e ricuciti umilmente fra loro, una specie di patchwork che pareva alludere all’interno di una moschea. Due specchi simmetrici (uno dei quali
nero come un buco nero), meticolosamente suddivisi in geometrici quadratini
e poi ricomposti in unità grazie a una cornice dorata d’altri tempi. Questi i
lavori che ricordo con maggiore vividezza. Ma ce n’erano degli altri che comunque ridisegnavano, o meglio, reinventavano lo spazio espositivo come si trattasse di un luogo proprio, depositario di memorie individuali remote e piuttosto decadute, riferimento a un antico decoro ormai compromesso, se non perduto per sempre… Le foto di Graham Fagen – l’artista scozzese che Urbani
aveva scelto come deuteragonista di quella mostra intitolata curiosamente “La
mia casa dov’è?” –, quei suoi ritratti che ricalcavano altrettanti dipinti della
metà del Settecento raffiguranti il principe Charles Edward Stewart, facevano
da perfetto contrappunto alle opere di Favelli: nello spazio ricreato da quest’ultimo, i ritratti di Fagen, ordinatamente appesi alle pareti, non ne erano
che il corollario, e quasi sparivano dentro alla dimensione spazio-temporale
messa in essere dall’altro. Dopo l’esperienza londinese, ho seguito Favelli di lontano. Come in un romanzo di Patrick Modiano, ho pedinato i suoi passi nella
segreta convinzione che, dietro ai gesti misurati e attenti della sua ricerca,
racchiusa nelle sue architetture silenziose e sfuggenti, si nascondesse una verità dolorosa fino ai limiti dell’impronunciabile. Ricordo una sua mostra a Roma,
nella galleria di Pino Casagrande, o ancora la presenza alla cinquantesima
Biennale veneziana curata da Francesco Bonami: in entrambi i casi, assai dif-
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ferenti fra loro per dimensioni e natura, le opere di Favelli mi si presentarono
raccolte in una radura di mutismo e discreto isolamento, come visioni momentanee di qualcosa che non poteva essere detto se non per accenni, pause,
ripensamenti. Credo proprio per sottolineare questo senso di sospensione in
cui qualcosa sta per accadere – ed è forse il “qualcosa” che domina il tempo dell’adolescenza, quando la vita si rivela di colpo e insieme per la prima volta
esita, inciampa –, per rimarcare l’allarme e l’incertezza che fanno da ossigeno
al suo lavoro, Favelli usa non di rado anche la scrittura. E’ una scrittura inventata, inutile, oppure è quella del ricordo personale: pezzi di racconto, brani di
storie che, dimentichi di un incipit come della loro conclusione, affollano l’opera di domande, allusioni, sottintesi. Che cosa vuol dire l’artista quando
accenna in maniera veloce ma insistita, testarda, a suo padre? Che cosa sta
suggerendo? Proprio a Francesco Bonami, curatore anche della mostra “Exit”
alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, che gli domanda quale è l’artista
che ha più influenzato il suo lavoro, Favelli risponde lapidario: “Senza il minimo dubbio, mio padre”. In quella mostra, l’opera esposta si chiamava
“Tavolazione”, una installazione del 1998 in cui, a far da colonne di un dimesso arco di proscenio, erano due casse di legno verticali da cui fuoriuscivano
altrettanti gomiti umani: è dunque, il padre, la bara dentro cui è custodita la
propria identità profonda, non essendo il resto che mera (e muta) rappresentazione? E’ qui che si nasconde la verità, il “punctum” della ricerca di Favelli?
Nel suo bellissimo libro “La camera chiara”, Roland Barthes, parlando di ciò che
distingue una foto anonima da un’altra che ci colpisce e rimane nella memoria, scrive: “In questo spazio quasi sempre unario, io sono talvolta attratto
(ma, ahimè, raramente) da un 'particolare'. Io sento che la sua sola presenza
modifica la mia lettura, che quella che sto guardando è una nuova foto, contrassegnata ai miei occhi da un valore superiore. Questo 'particolare' è il punctum (ciò che mi punge)”. Il “punctum” per Barthes non si può sottoporre a una
vera e propria analisi: per coglierlo, è utile piuttosto il ricordo. Prosegue
Barthes: “Un dettaglio viene a sconvolgere tutta la mia lettura; è un mutamento vivo del mio interesse, una folgorazione”. Il “punctum” si presenta quindi come qualcosa di imprevisto e inusitato, una sorta di satori dello sguardo.
E’ un supplemento a ciò che vedo e “che tuttavia è già nella foto”. Ma per
cogliere tutto questo, per accedere al piacere-dolore che la puntura della visione produce, conclude il grande semiologo francese, “dovevo penetrare maggiormente dentro di me… Io dovevo fare la mia palinodia”. E’ noto che per
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Barthes penetrare dentro l’essenza della fotografia significasse proustianamente tentare di ricostruire il ricordo (anche fisico) della madre. Sono straordinarie, in tal senso, le pagine dedicate a quello specifico strazio che ogni
lutto impone secondo cui, per quanto si consultino foto e ritratti, pare di
colpo impossibile ricostruire i lineamenti della persona scomparsa (“Secondo le
foto, in certune riconoscevo una regione del suo volto, il tale rapporto del naso
con la fronte, il movimento delle sue braccia, delle sue mani”). Se in Barthes
il “punctum” della ricerca è il corpo materno (ma lui parla anche di “anima”),
per Favelli ciò che punge, il “particolare” necessario alla visione, si disvela nella
figura paterna. Il vestibolo di un edificio è propriamente il vano che serve di
entrata. In linguaggio anatomico, è uno spazio cavo che mette in comunicazione con un’altra cavità (c’è il vestibolo auricolare, quello vaginale). Credo che
entrambe le connotazioni di senso vadano tenute a mente, entrando nel
“Vestibolo” realizzato da Flavio Favelli per la sede Anas veneziana. Appena varcata la soglia d’ingresso, ecco di fronte una composizione di specchi frammentati: restituiscono la mia immagine moltiplicata e frantumata, una specie
di messa in mora dell’io e della sua (supposta) unità. Dal soffitto pendono tanti
lampadari in vetro, piccoli e medi chandeliers trovati in chissà quale negozio
di rigattiere, tutti diversi fra loro ma insieme simili, su cui l’artista è intervenuto introducendo, o qui e là sostituendo qualche pezzo: l’effetto luminoso
ricorda l’interno di una chiesa ortodossa, o di una sinagoga, pur rimanendo
ancorato al ricordo di vecchi interni borghesi (la casa dei nonni, la sala da
pranzo delle zie…). Non si tratta dell’unica illuminazione: contro le pareti gialline, lucide di una vernice molto british, incorniciando la serie inquietante
degli specchi frantumati e neri, spiccano delle appliques sui cui paralumi
Favelli ha dipinto delle sagome astratte, a metà strada fra la radiografia di un
insetto e una macchia di Rorschach. Al centro della vasta sala, una strana
panca da museo ricoperta di marmo. Marmo che si ripete lungo lo scalone che
porta al piano nobile - scalone scuro e misteriosamente funebre, presidiato
lungo un fianco da una successione di ringhiere in ferro, assemblate in un
modo tale per cui risulti difficile stabilirne le differenze, le smagliature. Le presunte macchie di Rorschach si ritrovano poi, ossessive e imperturbabili,
impresse su vetrate che affacciano su spazi interni occlusi alla sguardo.
A una prima occhiata – quella immediata e immemore della pura visione,
l’Augenblick di cui parlava Heidegger – il “Vestibolo” di Favelli si presenta come
un luogo astratto eppure famigliare, minuziosamente lavorato, gremito di
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segreti. Si pensa subito che è un luogo di frontiera, il passaggio da una dimensione strettamente fisica a un’altra di natura mentale. E’ a poco a poco che se
ne svelano i particolari: per esempio, la ringhiera cui accennavo sopra sembra
di primo acchito un pezzo unico, invece che un insieme di lavori differenti;
non immediatamente si decifra anche la tramatura del marmo pavimentale, e
di quello usato per lo scalone. Favelli insiste molto sui dettagli e sul loro occultamento, probabilmente convinto, come Aby Warburg, che sia appunto nel
particolare a rivelarsi il buon Dio, o il Diavolo. Ma oltre il primo sguardo, che
cosa colpisce di questa installazione? Dove risiede il suo “punctum”? La parola
“vestibolo” rinvia all’atto del vestirsi e svestirsi. Entrando in questo spazio, io
mi tolgo degli abiti – soprabito, sciarpa, guanti, cappello – per reindossarli nel
momento in cui andrò via, quando lascerò l’edificio. Il vestibolo è un luogo di
transito in cui mi prendo moderatamente cura del mio corpo, parzialmente
denudandolo o abbigliandolo. Favelli ne sottolinea la portata con specchi, panche, lampadari, vetrate: moltiplica la visione come per moltiplicare l’identità.
In questo senso, il suo spazio cavo mette in comunicazione con la cavità che
io stesso sono: cavità colma di memoria, di parole, in definitiva di nulla. Ecco
perché prima dicevo che, nel lavoro di Favelli, le due aree semantiche della
parola “vestibolo” devono essere custodite e tenute insieme. Ciò che interessa
all’artista non è la dimensione temporale dell’esistenza bensì quella spaziale.
Non a caso le sue opere prevedono sempre uno spazio preciso che le connoti,
o addirittura – come in “Vestibolo” e altre sue installazioni – quello spazio tendono a costruirselo. Come se l’opera in sé non fosse altro che una variazione,
l’infinita, instancabile variazione che l’artista realizza ossessivamente intorno
al concetto di casa. E quale è la prima casa che ogni uomo abita fin dalla nascita, se non il proprio corpo? L’idea dell’origine, l’idea della casa sembrerebbero
suggerire una vocazione femminile, per non dire materna, dell’opera. Ma già
l’impatto estetico (o estatico) con il lavoro di Favelli mi dice che siamo lontani da una connotazione femminile e materna. In lui, niente di morbido, nessuna apparente concessione soft e affettiva. Nel suo “Vestibolo”, ma direi in
generale nella sua produzione, Favelli pare piuttosto voler restituire un’immagine severa e predittiva della propria ricerca. Dominano i toni del grigio e del
nero. Dominano le strutture, la rappresentazione, le impalcature dell’io. Siamo
dalle parti di un’eleganza sobria e non di rado punitiva. Distacco, calcolo, una
certa freddezza sono le sue stelle polari. Pur alludendo di continuo a un’urgenza esistenziale che, come notavo prima, è di una violenza che rasenta la
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crudeltà, Favelli fa dell’autocontrollo il suo stigma: che naturalmente, da un
momento all’altro, può perderlo scaraventandolo in un delirio senza fondo. Il
suo sguardo è come la macchina da presa in quell’ininterrotto, unico pianosequenza che compone il film “L’arca russa” di Alexander Sokurov: la cinepresa
registra inesorabile, annota, enumera, divora ogni cosa: e infine produce nello
spettatore una specie di smarrimento, un mal di mare visivo di cui non ci si
libera facilmente. Al contrario però del cineasta russo, Favelli non lavora per
accumulo ma per sottrazione. Sottraendo, scava il proprio percorso fino all’origine. La sua è un’origine tutta maschile, partenogenetica, che postula una corporeità da macchina celibe, incapace di generare se non la propria stessa finitezza. Jacques Lacan diceva che il padre è “il signore della Morte”. Ed è appunto al padre, a questa figura sgranata ma anche straordinariamente nitida, che
tutta la ricerca di Favelli pare rivolgersi. Il padre è colui che partecipa alla generazione rimanendo distante, separato nel proprio corpo. Il padre è il vestibolo
nudo della nostra esistenza.
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Lampadari originali e servizi da macedonia. Soffitto e pareti tinteggiati con smalto lucido.
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Pavimento in marmo Portoro Nero
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Doppia panca rivisitata in legno
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Specchiere in mosaico di specchio con cornice originale in pastiglia
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Specchiere in mosaico di vetro nero con cornice originale in pastiglia
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Arte pubblica sulla strada di casa
“Una buona casa la si deve poter riconoscere fin dal vestibolo, e, non appena si entra,
si deve poter discernere che dentro non ci sono tenebre, quasi che la luce della lucerna collocata
dentro risplenda anche fuori.”
(S. Agostino)
di Stefano Pezzato
Il progetto di Flavio Favelli per un “ambiente” praticabile e permanente nei
locali d’ingresso della sede ANAS di Santa Croce a Venezia costituisce lo sbocco naturale e insieme una sfida per il lavoro di questo artista, che ha fatto dell’intervento diretto sull’architettura e della creazione di oggetti dall’apparenza
funzionale i fulcri della propria ricerca.
In passato Favelli ha ideato e proposto interventi personali per edifici privati,
locali dismessi e spazi culturali off, oppure per piazze e scalinate all’aperto, nell’intento di recuperare o sollecitare una visione del luogo conforme alle proprie
intuizioni del momento. Successivamente ha realizzato installazioni e presentato sculture dalla parvenza domestica, quasi privata, nei luoghi deputati
all’arte, come gallerie, musei, fondazioni, lavorando anche su incarico in
maniera del tutto originale. Ora questa commissione dell’ANAS, fatta su invito, apre all’artista una terza strada: quella di una grande opera duratura, per
un interno usufruibile, quotidiano, in cui il pubblico si reca abitualmente per
lavoro, ponendo l’arte a confronto con uno scopo preciso e con dei limiti
oggettivi che Favelli non ha trovato né in luoghi privati, abbandonati o per
così dire alternativi, né in qualsiasi sede espositiva temporanea egli abbia frequentato finora.
L’idea di “arte pubblica” si sposa perfettamente con il concetto di “ambiente”
sviluppato da Favelli, una vera e propria costruzione al limite tra scultura e
architettura, fra creazione personale, concezione poetica propria dell’artista, e
spazio condiviso, luogo aperto ad una fruizione allargata oltre i soli confini
dell’arte e disposta dunque a varie interpretazioni.
L’opera d’arte si carica della responsabilità di trasformare uno spazio altrimenti anonimo, come l’ingresso della palazzina costruita nei primi anni Cinquanta
a lato del Ponte degli Scalzi, di fronte alla stazione ferroviaria di Santa Lucia,
sul luogo dove sorgeva il gotico Palazzetto Foscari. Assume inoltre il compito
di suscitare interesse e generare attenzione, invitando il pubblico a conoscere
questo luogo defilato rispetto al passaggio dei flussi turistici, non fisicamente
ma per ovvie ragioni legate alla sua funzione, quindi a visitarlo e ad usarlo.
Sono le qualità specifiche dell’opera a infondere di contenuto questo spazio,
ad attirare qui il visitatore d’arte o ad interessare chi ci viene per ragioni pratiche, legate all’attività dell’ANAS o dell’attigua Facoltà di Architettura.
Da questo punto di vista la ricerca di Favelli trova precursori illustri nella “sintesi costruttivista” di forme e funzioni, ideata da Wladimir Tatlin ed El
Lissitzky negli anni Venti in Unione Sovietica, e nella raccolta di oggetti tro-
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vati, assemblati dal dadaista Kurt Schwitters all’interno della propria abitazione di Hannover nel famoso Merzbau (1923-32). Tuttavia, se vogliamo cercare un
modello per Favelli, possiamo pensare a Lucio Fontana, autore di vari Ambienti
spaziali (dal 1949 al 1968), Soffitti a luce indiretta e Soffitti al neon (dal 1949
al 1961), Strutture al neon (1951), Decorazioni murali e Decorazioni a ceramica (anni Cinquanta), e inoltre del Lampadario per il Cinema Duse a Pesaro
(1959-60) e dell’Atrio con luce a soffitto del condominio Milano a Rovereto
(1960).
L’accostamento a Fontana va riferito non tanto all’esecuzione e alla forma delle
opere quanto piuttosto alla pratica artistica e ai luoghi a cui questa si rivolge.
L’opera su scala “ambientale” assume infatti una finalità estetica ma soprattutto delle qualità sensoriali, ha implicazioni mentali, soggettive, ma non disdegna un utilizzo pratico, collettivo, è realizzata per spazi espositivi, ma pure
per luoghi di vita reale. Il Lampadario, per fare un esempio, nasce come opera
d’arte, come il frutto di un’elaborazione intellettuale personale e di una ricerca formale specifica, unica nel suo genere e non ripetibile a livello industriale
e commerciale, eppure viene utilizzato sostanzialmente anche come fonte di
luce.
Il carattere “ambientale” dell’opera stimola nel visitatore una riflessione sulla
disposizione, il significato o l’uso dello spazio, in sintesi sul senso del luogo.
L’intervento artistico è in grado di trasformare lo spazio mettendolo in risalto
o, all’opposto, facendolo scomparire, e riesce a provocare un effetto attivo sul
visitatore, che può essere fisico o psicologico. Nel caso di Fontana l’ambiente
si smaterializza, allargando le possibilità cognitive oltre il limite dello spazio
fisico, nei tagli inferti alle superfici, nella luce bianca diffusa dai neon, o nei
neri profondi rischiarati da punti di luce di Wood.
Nel dopoguerra, in un’Italia da ricostruire culturalmente oltreché materialmente, Fontana auspicava il confronto delle ricerche artistiche con le nuove
tecnologie e le ricerche scientifiche più avanzate. Diverso è quanto avviene
oggi: nell’epoca della diffusione elettronica della realtà e della riconversione
post-industriale delle attività economiche, Favelli agisce come un fine ricercatore di tracce del passato, un ordinatore di frammenti che raccoglie faticosamente e poi ingegnosamente ricompone.
Ponendosi all’interno dell’ambiente Favelli immagina situazioni, comportamenti e movimenti delle persone che vi soggiornano e lo usano. Talvolta realizza degli schizzi, dei disegni preliminari come nel caso di questo progetto.
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Poi, pian piano, vi costruisce l’opera, adattandosi al luogo come se lo sentisse
o lo volesse far suo. Egli se ne appropria fin nel titolo: il Vestibolo era già per
gli antichi latini lo spazio d’ingresso alla casa, consacrato alla dea Vesta protettrice del focolare domestico. Ciò che fa l’artista è quindi arredare l’atrio, il
corridoio laterale, la scala e il ballatoio d’accesso agli uffici dell’ANAS posti al
primo piano, facendone una zona di passaggio e insieme d’attesa, adeguata sia
all’articolazione sia alla funzione del luogo, ma altresì uno spazio abitabile,
familiare e composto, vicino all’idea di locale privato, ad un contesto di permanenza più intima.
Entrandovi si resta immediatamente colpiti dalla sfavillante abbondanza di
lampadari, a cui si aggiungono le numerose lampade a parete inframezzate da
composizioni di specchi dentro a vecchie cornici. Se si ha la pazienza di osservare, una dovizia di oggetti e dettagli si schiude dinnanzi ai nostri occhi: i
lampadari di vetro e cristallo degli anni Trenta e Quaranta sono stati modificati attraverso l’inserimento di parti di bottiglie, coppe di cristallo, vecchi bicchieri, provenienti da chissà quali servizi da tavola; ogni lampada d’ottone e
stoffa contiene un disegno originale a inchiostri colorati su carta, che nell’insieme forma un variegato sciame d’insetti, come se fossero stati attratti qui
dal calore della luce; un simile motivo zoomorfo si ritrova serigrafato anche
sulle finestre, fra cui una laterale a specchi; le specchiere alternate bianche e
nere sono state tagliate a mano in piccoli tasselli, ricomposti all’interno di cornici a stucco o pastiglia di fine Ottocento e primi Novecento, ognuna recante
un differente motivo floreale, che un tempo poteva decorare qualche stanza
racchiudendo chissà quale raffigurazione.
La scomposizione delle immagini riflesse nelle specchiere, il mimetismo dei
disegni inseriti nelle lampade e degli oggetti applicati ai lampadari, hanno il
potere di far scivolare lo sguardo distratto sulla superficie delle cose e, se non
si è attenti, di non far vedere che ogni elemento qui presente è unico e irripetibile, come la storia che porta con sé.
L’artista non si limita a introdurre nello spazio i suoi oggetti d’affezione, evocativi di possibili immagini e ricordi, tra i quali compaiono anche lo scanno
bifronte al centro della sala d’accesso, composto unendo simmetricamente due
vecchi sedili di legno dell’Università di Torino, e le differenti balaustre di ferro
provenienti da altrettante scale e ballatoi, assemblate fra loro sotto al corrimano delle scale e sul parapetto del ballatoio. Per introdurre il visitatore nelle
sue stanze immaginarie, Favelli sceglie con cura anche il colore giallo crema
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delle pareti, il prezioso marmo nero Portoro del pavimento, il Bardiglio grigio
e il tappeto rosso delle scale. Ad un primo colpo d’occhio sembrano normali
interventi affidati agli artigiani che li hanno posati, ma soffermandosi più
attentamente si nota che il giallo rende più caloroso, più accogliente l’intero
ambiente, che lo stesso marmo nero si trova posto in modo volutamente sconnesso anche sul pianale orizzontale sopra agli scanni di legno, che il Bardiglio
grigio disegna uno scalino virtuale incassato a terra sotto alla rampa vera e
propria e che le stecche sul tappeto sono per una volta cromate: si tratta di
particolari, finezze, che nessun artigiano avrebbe mai realizzato basandosi
semplicemente sul suo proverbiale senso pratico.
Davanti alla sapiente conoscenza dei materiali e al sottile uso dei dettagli da
parte di Favelli, alla consapevolezza delle forme e ai nessi con l’attività di tutti
i giorni che l’artista ci infonde, viene in mente l’esperienza di Arts and Crafts
che nell’Inghilterra della seconda metà dell’Ottocento tentarono d’inserire la
pratica artistica nella vita sociale, di unire cioè il bello all’utile. Ancor più tornano alla mente i testi di John Ruskin: The Seven Lamps of Architecture
(1849), The Stones of Venice (1851-53), in cui si affermano i principi estetici e
morali che hanno ispirato le ricerche di Arts and Crafts. In particolare Ruskin
attesta la necessità, che appare valida tuttora, di superare la separazione esistente fra colui che pensa e colui che opera, per indurre il pensatore ad operare e l’operatore a riflettere. Come molti altri, anche lui rimase affascinato
dalle “pietre” di una Venezia al crepuscolo dove, oggi come allora, appare
impossibile pensare d’inserire nuove opere d’arte e sembra inevitabile operare
per conservare l’esistente e darlo in pasto ai turisti.
La scelta dell’ANAS fa sperare che dietro a queste “pietre” fervano sempre
nuove idee, progetti, energie, e che a Venezia, come avveniva un tempo nei
suoi palazzi, nelle Scuole e nelle chiese, si possa fare ancora un’importante
opera d’arte.
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Lampadari
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Scala in marmo Grigio Bardiglio. Ringhiera composta da differenti parti originali in ferro battuto
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Vetrata sabbiata con decori modulari
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Inchiostro su veletta di paralume
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La scultura crepuscolare
di Flavio Favelli
Bellezza riposata dei solai
dove il rifiuto secolare dorme!
In quella tomba, tra le vane forme
di ciò ch'è stato e non sarà più mai…
(Guido Gozzano, La signora felicità)
Intervista di Ilaria Bonacossa
Foto di Mario Bigazzi
Flavio Favelli (1967) artista fiorentino di nascita, ma bolognese d’adozione,
sviluppa la sua pratica artistica a partire da una concezione intima e molto personale del tempo e dello spazio. L’artista riappropriandosi e montando insieme
cancelli, panche, porte, balaustre, ballatoi, sedie, tavoli, letti, specchi, tappeti e lampadari crea opere dall’aspetto funzionale capaci di trasformare l’atmosfera dei luoghi che li contengono, caricandoli di suggestioni emotive. Le sue
installazioni riescono a fare emergere il valore estetico e poetico degli oggetti banali che ci circondano. Il suo lavoro è un continuo tentativo di rielaborare il proprio senso di spaesamento. Favelli, infatti, a partire dagli anni ’90, ha
creato istallazioni site-specific in edifici in disuso, intervenendo e modificando, non solo l’architettura pre-esistente, ma anche la luce e gli oggetti, a volte
prendendo addirittura domicilio temporaneo negli spazi in cui interveniva.
Il suo lavoro si differenzia da quello della maggior parte degli artisti, in quanto non mira a riempire lo spazio espositivo di oggetti, ma invece a modificare
la percezione del visitatore nei confronti dello spazio che questi oggetti
dovrebbe contenere. Le singole parti delle sue installazioni, specchi composti
da mosaici di specchio in cornici d’epoca, tappeti nati dal patchwork di tappeti recuperati, lampadari ricomposti, mantengono comunque quel senso di
leggera alienazione anche re-inseriti in un contesto domestico. I suoi lavori
sembrano registrare il passare del tempo ed il carattere arbitrario del nostro
rapporto con il mondo che ci circonda, attraverso una bizzarra sintesi tra pittura, scultura, istallazione. Per questo motivo forse, guardando i suoi lavori
viene in mente la poesia crepuscolare italiana. Favelli diviene un ‘Guido
Gozzano’ contemporaneo, nelle sue sculture come nelle poesie è il piacere del
ricordo a prevalere, il Piemonte provinciale d’inizio secolo del poeta si trasforma nel paesaggio immobile dell’Appennino tosco-emiliano dell’artista. Il crepuscolarismo poetico dal tono dimesso e pacato capace di dar vita ad un
‘modesto realismo quotidiano’ si trasforma in una scultura intimista capace di
creare ambienti onirici; così il linguaggio semplice delle poesie in cui il verso
tende alla prosa diviene nelle sculture di Favelli un montaggio di oggetti quotidiani, come sedie, tavoli, porte e finestre, tutti oggetti recuperati dall’artista nei mercatini dell’usato.
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ll tuo lavoro è sempre incentrato su un forte rapporto con lo spazio. Si inserisce e lo
modifica caricandolo di un bagaglio di emozioni e ricordi. Lo fa’ però in modo molto
naturale, sembra quasi che gli oggetti si siano trasformati autonomamente o addirittura siano pre-esistenti al tuo lavoro artistico. Come concepisci il tuo lavoro?
Da qualche parte ho scritto che mi sento un individuo con precisa fissa dimora. E poi uno dei più grandi miei desideri è quello di costruire una tomba, come
facevano gli egizi per i sovrani, ma da usare ancora in vita. La mia tomba abitabile. Uno spazio da percorrere e vivere e che ospiterebbe le mie immagini;
anziché una residenza estiva o una invernale, questa sarebbe la ‘mia residenza
immaginale’. Se avessi una stanza con un piedistallo di porfido nero penserei
ad un "monumento" differente ogni volta. Monumento alla tavola da pranzo,
al servizio di porcellana, alla teca dei minerali...
La questione dello spazio è vitale. Il primo corridoio che ricordo era lunghissimo, andavo su e giù.
Tutto è collegato da una sottile bava che lega il mio passato e i miei ricordi
alle mie immagini. Io poi cerco di fissare queste con quadretti, disegni,
ambienti, oggetti: le mie opere. La distanza, poi, nello spazio, è come un
ingrediente importante in un piatto difficile da: “degustare con perizia”. Un
tavolo vicino ad una sedia è molto diverso da un tavolo lontano da una sedia.
A undici anni (anno del fanciullo, 1979) ero andato al tribunale di Pistoia, non
in visita, ma come parte lesa. Ho pochi ricordi, ma nitidi: delle vecchie panche, le sedie, le scrivanie, i corridoi avorio. Ma già prima mi avevano portato
in un'aula, assomigliava ad una scuola... Ho un grande archivio in testa di luoghi che ho visitato e sono sempre architetture, palazzi, chiese, chiostri, case,
uffici, tutti con i loro arredi; soprattutto mi ricordo i momenti vissuti in quegli ambienti. Una lampada fulminata, una finestra aperta... Se potessi mi comprerei un antico palazzo o una moschea dell'Asia Centrale, magari rifarei il cortile con dei materiali che sceglierei io, non mi interesserebbe il parere degli
archeologi.
Le tue istallazioni nascono sempre dal montaggio di oggetti quotidiani che una volta
trovati tu restauri e rielabori. Sembra che la fisicità degli oggetti crei un’atmosfera intima, quasi tattile: questi oggetti sono nel tuo lavoro contemporaneamente reali ed
‘assurdi’ assumendo una valenza simbolica ed evocativa. Ma come nascono i singoli
oggetti di cui le tue istallazioni sono composte?
Parto sempre da una qualche forma esistente, un piatto, una lavagna di scuola, una sedia. Accumulo cose, spendo tutto in oggetti mondani. E poi li cam-
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bio, li rivesto, li segno, li coloro, li stravolgo, me ne approprio, li descrivo, li
uso, li espongo e poi magari li vendo. Così rimango senza e ne acquisto di
nuovi. Quando ho fatto il trasloco dal mio vecchio studio nella periferia di
Bologna - un ex garage seminterrato - (il marmista di fianco che impastava il
mastice, mi diceva: "vai via di qui, che si respira male, si vive cinque anni di
meno”) alla ex stalla-fienile sulle colline dove abito ora, ci ho impiegato quindici viaggi con un furgone. A Bologna stavo in una casa vuota, pavimento grigio e poche cose. Cerco di liberarmi, ma poi riaccumulo. Infatti, alcune mie
mostre le ho chiamate Archivio.
Spesso lavori anche in contesti pubblici, inserendo in questo modo i tuoi oggetti fuori
da un contesto prettamente artistico e obbligandoli a confrontarsi con il mondo reale.
I toni soffusi del tuo lavoro sembrano volerlo allontanare dalla cacofonia assordante
delle metropoli contemporanee.
Questa è stata sempre una mia esigenza, ho iniziato al Link Project di Bologna,
nel 1997 feci una sala bar con bancone che funzionò per tre giorni. Era tutto
chiuso, tipo banca o ufficio postale. E poi ho creato progetti o performance in
luoghi abbandonati, nel 2000 in occasione di Bologna Capitale della Cultura
affittai un ex dormitorio delle Ferrovie dello Stato. Ci sono stato per tre mesi
poi ho invitato le persone, vennero in pochi. I neon che avevo messo per illuminare sfarfallavano per via del generatore a benzina (gli spazi dell'area FS non
vanno con l'Enel) avevo risistemato un'intera ala al primo piano, ridipinto i
muri, lucidato i pavimenti. Oggi quello spazio è stato occupato da una comunità di rumeni, nelle foto pubblicate nei giornali della città riconosco i miei
interventi fra i loro letti accatastati. Riaprire un palazzo, dopo una chiusura di
una ventina d'anni, e invitare il pubblico a vedere un'opera casa-mia fu per me
un'operazione importante. Nel catalogo generale di Bologna 2000 scrissero
che avevo rielaborato lo spazio con l'ausilio dell'arte elettronica! E pensare che
la cosa più sofisticata era il generatore a benzina (super!), ma non si parlava
d'altro che di comunicazione e nuove tecnologie. Erano, in quegli anni, tutti
invasati con progetti in rete. Lavoro sempre partendo dal mio concetto di
bello. Ma anche se parto sempre dalla mia storia e dalle mie immagini, non
vivendo in una torre d'avorio, credo che i miei progetti siano molto ampi e
abbiano delle conseguenze che riguardano gli altri. Voglio dire che se ho scelto di fare performance in vetrine (bar, negozi) è perché mi piace questa cosa
che ho un pubblico mobile davanti; tutto ciò ha ovviamente mille implicazioni. Gli artisti che parlano come sociologi o politici li ho sempre trovati noiosi
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e soprattutto innocui. Lavoro su temi che sono per me vitali, ma è tutto declinato alla mia persona. Quando sento che c'è gente che lavora sul corpo... io
lavoro sul mio, mi basta e avanza, e mi dà parecchi problemi.
Vi è una componente emotiva e melanconica nei lavori che seduce ma che contemporaneamente allontana lo spettatore. Infatti, sembra che tu voglia mostrare un frammento di un ricordo senza però fornirne la chiave di lettura.
Bellezza e raffinatezza: ovviamente il mio concetto di bellezza e il mio concetto di raffinatezza. Ho iniziato a creare opere per casa mia; niente stramberie, curiosità culturali e interessi artistici, volevo addobbare tutto ciò che mi
circondava semplicemente per stare meglio. Per bellezza intendo tutto ciò che
è innanzitutto ricercato, tortuoso da raggiungere, più che difficile da comprendere; mi interessa che abbia un significato ampio, un'ampiezza stretta, da
percorrere a dorso di mulo. La bellezza e la decorazione vengono liquidate con
troppa facilità; come se fossero inutili, banali. Amo certi decori, certi oggetti
così raffinati da essere desueti (come il riso, così brillato da essere poco
nutriente e tremendamente falso, ma essenza di un costume che tiene alla
forma). Io ho, lo vedo, della raffinatezza un'idea quasi apocalittica. In un
ambiente che vedo-sento raffinato, percepisco un senso di decadenza, estremamente seducente. Sarebbe come dondolarsi su un'altalena intrecciata in
midollino a ridosso di un precipizio, mentre servono il tè. Credo che la ringhiera della scala di Vestibolo sia tutte queste cose insieme. Così pure i lampadari con delle tazze-portamacedonia. E poi c'è un'aurea che definirei psicologica e psicoanalitica.
Il ricordo come fatto personale che diviene qui centrale al lavoro senza cedere a sentimentalismi. La particolarità del tuo lavoro, non solo in Vestibolo, è questa distanza tra
la dimensione evocativa e la freddezza del lavoro, che unite suscitano una sensazione
di spaesamento.
Per me è difficile misurare questa cosa. Come qui in Vestibolo e anche nel prossimo intervento che farò al Museo Pecci di Prato, illumino con i lampadari i
miei ambienti e questi lampadari sono essi stessi opere. E' chiaro che è subito
un segno forte, ma voglio evitare l'effetto mostra-museo per approdare ad un
effetto casa, un effetto privato, insomma niente illuminotecnica, ma lampadine. Siamo tutti su un pavimento, ma soprattutto siamo su una mattonella.
Guardando alla storia dell’arte si trovano riferimenti ed antecedenti al tuo lavoro. Dai
tagli di Gordon Matta-Clark ai quadri della metafisica ferrarese carichi di emozioni fredde e di scenari urbani immaginari e surreali, fino a molti artisti come Monica Sosnoska
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o Jaan de Cock che oggi lavorano con lo spazio. Quali sono i tuoi punti di riferimento?
Questa è una domanda che mi mette parecchio in difficoltà. I miei punti di
riferimento sono le vicende che ho vissuto. L'arte m'interessa in quanto legata a vicende più ampie. E queste vicende piene di immagini sono esse stesse
arte.
Lavori spesso con oggetti d’uso, trasformando anche gli spazi domestici. Il tuo lavoro è
sempre sospeso su un crinale tra il ‘design’ e la produzione artistica. Cosa succederebbe
se un tuo oggetto venisse prodotto in serie e immesso nel mercato?
Per la verità ci ho anche provato. Nel 1997 ho costruito Cavo Stagno, un parallelepipedo di vetro, una specie di cassa alta come una persona, all'interno
avevo messo una lampadina, poi ho chiuso il coperchio con della colla da vetro,
era diventato un pezzo unico. Da un foro usciva il cavo elettrico. Ogni volta
che accendevo la luce, poteva essere l'ultima... nessuno conosce la durata di
una lampadina a filamento. Magari anche poche ore, spesso migliaia. Poteva
morire da un momento all'altro e poi si sporcava... tutti i vetri esterni erano
sabbiati, le ditate vi rimanevano impresse, era pesante circa 40 kg ma al contempo fragile. Ne avevo parlato con un'azienda del bolognese che progetta
luci, ma non se ne fece nulla. Troppi rischi, troppi costi, mi fu chiesto di fare
il coperchio apribile...
Fra il design e l'arte la seconda ha una "eccedenza". Quasi tutte le mie opere
le ho fatte senza un ordine, senza commessa, senza parere del commercialista
e questa pulsione deve essere sostenuta da una forza molto complessa o forse
essere ‘patologica’. Oppure è entrambe le cose. Nel mondo dell'industrial design
alla fine ci sono sempre due e tre questioni ineludibili: "conviene?" "si venderà?" "chi paga?". Mi piace quando l'arte è fuori cornice, fuori dal mondo del
dare-avere. Questo è anche un rischio, alcuni ne hanno approfittato... Ho sempre incontrato professionisti, soprattutto nel campo della moda per fare progetti, (a questo riguardo le Biennali di Firenze o le mostre della Fondazione
Prada hanno fatto un po' come gli ultimi conflitti col mondo arabo-mussulmano, hanno creato interesse, il mondo della moda per l'arte e l'Occidente per
l'Islam, ma sempre in modo superficiale, una specie di fenomeno di costume...
nelle riviste non si parla d'altro!) ma al momento cruciale di esporsi (comunicazione e denaro) si sono sempre tirati indietro. Credo che il tema del desiderio di chi vorrebbe ma non può, sia molto interessante. Spesso non è nemmeno una questione di soldi, ma di impantanarsi in un mondo non chiaro: per
imprenditori che si confrontano quotidianamente col mercato, fare qualcosa
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con l'arte può diventare ambiguo. Gli stessi galleristi nelle interviste parlano
poco di mercato, strategie. Hanno una specie di senso di colpa, parlano sempre
di cultura. Un po' come gli attori americani, o certi artisti americani, che si
sono accorti di non essere più tanto americani perché hanno scoperto che c'è
dell'altro e allora si sentono privi di riferimenti, vogliono fare i difficili, gli strani, cercano conflitti non loro, in pochi attimi vogliono su di sé il peso di una
storia che non gli appartiene, si avvicinano alla politica, parlano di giustizia, di
religione, si accorgono che il successo e i soldi sono troppo banali, ma arimangono profondamente americani e le loro interviste sono solo dei lamenti. Deve
essere terribile essere ricchi e famosi e vedersi solo su riviste patinate!
Per risponderti meglio, penso che l'unico mio interesse di fare qualcosa nel
mondo del design sarebbe legato a quello economico che non è comunque cosa
di poco conto. Ma devo dire che l'ultimo dei miei interessi è quello di ragionare attorno a degli oggetti per un vasto pubblico. Cavo Stagno è un progetto interessante e vivo, anche un attimo prima della sua morte.
Il tuo lavoro Vestibolo commissionato dall’ANAS per il piano terra del palazzo che ospita i loro uffici sul Canal Grande di fronte alla stazione S. Lucia è molto particolare.
Raramente si ha l’occasione di progettare un’opera-ambiente transitabile e permanente. Quando hai visto per la prima volta il Palazzo dell’ANAS a Venezia cosa ti ha comunicato?
I suoi uffici, certe finiture negli arredi, un certo clima... ho subito pensato agli
uffici delle Ferrovie dello Stato; mio padre era ferroviere.
Cosa vuol dire creare uno spazio pubblico per non addetti ai lavori ma che sia al contempo un’istallazione d’arte contemporanea?
Vuol dire che ognuno vedrà quel che potrà. Secondo i suoi saperi, i suoi limiti,
le sue capacità, i suoi desideri. Alla fine ho ristrutturato in tutti i sensi una
stanza di passaggio per accedere a degli uffici. Si può passare, quindi, ma ho
messo una panca che si può anche usare, che evoca una situazione da museo.
Si può anche aspettare, attendere, riposare un attimo. Si può giocare anche a
riflettersi nelle tessere delle specchiere. Se dovessi raccontare tutte le sale d'attesa, le sale d'aspetto in cui ho vissuto dei momenti, non mi basterebbe un
libro.
Come ha inciso il contesto veneziano, che è sicuramente molto particolare, sulla concezione del lavoro?
Veramente non so quanta Venezia ci sia in Vestibolo. Venezia è una città che
corrisponde alle mie categorie di bellezza e raffinatezza, come Istanbul,
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Damasco, ma anche Lisbona. Venezia cigola e si muove più di altre. Magari è
lei che va su e giù, non la marea. Il clima che si respira in Vestibolo può essere anche quello di Venezia. È un clima inquieto, che magari si può aggirare
contando quante ciotole di macedonia hanno il manico e quante no. Sui lampadari.
Entrando in Vestibolo sono rimasta colpita da come inizialmente non si colga nulla di
particolare (eccetto forse le panche). Sembra di essere in una bella sala d’aspetto e solo
dopo averci passato un po’ di tempo si cominciano a notare le finestre con il vetro che
riproduce quell’immagine ottenuta con il metodo delle macchie di Rorschach, i lampadari in cui hai inserito coppette di cristallo da macedonia al posto dei sotto candela, i paralumi disegnati uno ad uno, la vernice riflettente da pavimento usata sul soffitto, il parapetto delle scale di ferro battuto fatto componendo diversi parapetti assemblati ognuno
con il proprio motivo decorativo e la propria pendenza. E poi il marmo nero del pavimento tagliato in mattonelle sempre diverse, le tessere di specchio inserite nelle specchiere. Sembra che gradualmente lo spazio prenda vita, come se gli oggetti si animassero. La sala però mantiene un’atmosfera composta e intima, sembra un luogo privato.
Credo che ci siano sempre differenti piani, diverse sfaccettature, nelle persone, nelle cose. Sì, mi piace la possibilità che uno possa andare per gradi. Da
quando ho presentato questo progetto ho sempre sostenuto che Vestibolo è
una parte di una casa immaginaria, una casa mentale, una zona prossima al
privato, un privato comunque importante.
Si respira un’aria di sospensione quasi ad amplificare il senso di attesa. È come se i desideri, le paure e le speranze restassero sospese fuori dal tempo in questo spazio, è un
effetto voluto?
È difficile volere una cosa. Gli ambienti che ho progettato e costruito, a cominciare dalle case dove ho abitato, sono sempre stati luoghi masticati e rimasticati. Ad esempio nel sotterraneo del Link decidevo un colore, lo facevo, non
mi soddisfaceva, ne ridavo un altro. Qui è stato diverso, è stato difficile prevedere qualcosa. Non potevo far chiudere l'ufficio per tre mesi e far ritornare
tutti a vedere l'avanzamento dei miei progetti.
Forse Vestibolo è solo un atrio per accedere a dei ricordi che ci segnano per
tutta un'esistenza.
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Flavio Favelli (Firenze, 1967)
Vive e lavora a Savigno (Bologna). Dopo la Laurea in
Storia indirzzo Orientale all'Università di Bologna ha
esposto in importanti spazi pubblici e privati in Italia
e all’estero (tra le principali mostre personali e collettive: Vestibolo D'Aspetto Museo Pecci, Prato 2005,
Interior, IIC Los Angeles 2004, Clandestini, 50ª Biennale di Venezia, 2003; La mia casa è la mia mente,
Galleria Maze, Torino, 2003; Where is my home?, IIC,
Londra, 2003; Moltitudini-Solitudini, Museion, Bolzano, 2003; Exit, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino, 2002; My home is my mind, Artinprogress, Berlino, 2002).
Favelli realizza anche interventi "site specific",
Dialogo nello Spazio: César/Favelli, Museo della Permanente, Milano, 2002; Crocicchio, Palazzo delle
Papesse Siena, 2000), spesso anche in luoghi non tradizionalmente deputati all’arte (La Vetrina dell'Ostensione, Via De' Musei, Bologna, 2003; Catetere,
Ex Dormitorio FS, Bologna 2000).
ranea Luigi Pecci di Prato: assistente alla Direzione
artistica fino al 2002, consulente della Direzione
generale del Progetto internazionale ARS AEVI Museo d’arte contemporanea di Sarajevo fino al 1999,
membro del Comitato tecnico del Sistema metropolitano per l’arte contemporanea (SMAC) di FirenzePrato-Pistoia nel 2000-02, dal 2003 è responsabile del
Dipartimento Mostre.
Presso il Centro Pecci di Prato ha curato le
seguenti mostre:
Massimo Bartolini: Desert Dance (2003-04)
Letizia Cariello: HALLENBAD PROJECT (2003)
Wim Delvoye (2003-04, con Daniel Soutif)
Fabien Verschaere: Coming In/Coming Out (2003-04)
Domenico Gnoli (2004, con Daniel Soutif)
Kinkaleri: West (2004)
Massimo Vitali fotografo (2004, con Daniel Soutif)
Bertrand Lavier (2004-05, con Daniel Soutif)
Luca Vitone: Prêt-à-porter (2004-05)
Flavio Favelli: Vestibolo d’aspetto (2005)
Oltre ai cataloghi delle mostre monografiche ha
curato l’edizione delle seguenti pubblicazioni:
Collezione permanente, Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, Prato 1998
Collezione permanente: Nuove acquisizioni, Centro
per l’arte contemporanea Luigi Pecci, Gli Ori, Prato
2002
Mario Fortunato (Cirò, Calabria 1958)
Laureato in Filosofia, lavora come critico letterario
per il settimanale “L’Espresso” e collabora al quotidiano “La Stampa”. È stato consulente della casa editrice
Einaudi, membro della Commissione Consultiva per il
Cinema del Ministero dei Beni e Attività Culturali e
Direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a Londra.
Attualmente è direttore della Fondazione Antonio
Ratti e consulente culturale per la Provincia di
Crotone. Dall’autunno 2004 tiene lezioni e conferenze
presso l’università IULM di Milano.
Ha pubblicato i seguenti libri:
La casa del corpo, poesie (Shakespeare & Company,
1987)
Luoghi naturali, racconti (Einaudi, 1988)
Il primo cielo, romanzo (Einaudi, 1990)
Immigrato, con Salah Methnani, testimonianza
(Theoria, 1990)
Sangue, romanzo (Einaudi, 1992)
Passaggi paesaggi, reportages (Theoria, 1993)
L’arte di perdere peso, romanzo (Einaudi, 1997)
Amore, romanzi e altre scoperte, autobiografia
(Einaudi, 1999)
L’amore rimane, romanzo (Rizzoli, 2001)
Tutti i suoi libri sono tradotti in varie lingue.
Ha inoltre curato i seguenti testi:
Il pane nudo, di Mohamed Choukri (Theoria a
Bompiani)
Boule de suif e La maison Tellier, di Guy de
Maupassant (Einaudi, Scrittori tradotti da Scrittori)
Italia Fantastica, con Enrico Palandri (Bompiani,
2004)
TransEuropaExpress. Gli scrittori della nuova Europa,
con Maria Ida Gaeta (Rizzoli Bur, 2005)
È coautore, insieme al regista Peter Del Monte, della
sceneggiatura del film “Compagna di viaggio” (1996),
con Michel Piccoli e Asia Argento, vincitore di vari
premi nazionali e internazionali.
Nel 2001 ha realizzato per la BBC un documentario su
Umberto Eco.
Ilaria Bonacossa è Junior Curator alla Fondazione
Sandretto Re Rebaudengo di Torino, dove ha curato
nel 2004 la rassegna D-segni, cinque mostre monografiche dedicate ad artiste emergenti sul panorama
internazionale. Nel 2005 ha curato insieme a
Charlotte Laubard la mostra, Vorticanti, collettiva di
scultura internazionale presso la Galleria Maze di
Torino. Nel 2003 ha curato insieme a Cecilia
Brunson, la mostra Arch of Desire, women Artists in
the Hessel Collection, al Center for Curatorial Studies,
NY e la mostra Magic Mountains, presso la Torre del
Lebbroso ad Aosta prima mostra del ciclo Da Cima a
Fondo. Dopo essersi laureata in Storia dell'Arte
Contemporanea all'Università degli Studi di Milano,
consegue un Master in Studi Curatoriali presso Il
Center for Curatorial Studies, Bard College, New York
dove nel 2002 cura una collettiva di artisti italiani dal
titolo Leggerezza. Collabora come research assistent
alla Biennale del Whitney del 2003, è assistente curatore a Manifesta 3 a Lubiana in Slovenia nel 2001.
Scrive regolarmente per Label magazine, Torino,
Contemporary, London, The Plan, Bologna.
Hélène Binet, di origine svizzera e francese, è nata
nel 1959 a Roma dove è cresciuta e ha studiato fotografia.
Nel 1986 il suo interesse si è indirizzato verso la fotografia d’architettura, lavorando con architetti quali
John Hejduk, Daniel Libenskind, Zaha Hadid, Raoul
Bunshoten, Peter Salter, St. John e Caruso, Ben van
Berkel, Coop Himmelblau, Zvi Hecker, David
Chipperfield, Peter Zumthor ed altri.
Il suo studio è situato a Londra dove svolge attività di
fotografa indipendente.
Hélène Binet è inoltre autrice di saggi fotografici su
Dimitris Pikionis, Sigurd Lewerentz, “Stadt in Latenz”
in Linz e ha recentemente terminato un saggio fotografico sul paesaggio per la mostra “Paysage en
Poesie” in Svizzera.
Il suo lavoro è stato oggetto di diverse mostre sia personali che collettive.
Stefano Pezzato (Padova, 1996)
Si è laureato in Discipline delle Arti, Musica e
Spettacolo presso l’Università di Bologna con una tesi
di Storia dell’arte contemporanea su: I musei d’arte
contemporanea italiani e gli sviluppi delle ricerche
artistiche negli ultimi anni.
Dal 1995 lavora presso il Centro per l’arte contempo-
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Un “vestibolo” tra le strade
dell’arte e l’arte della strada
Postfazione di
Arch. Mario Virano
Consigliere di Amministrazione ANAS S.p.A.
“A” come Arte (contemporanea) ed “A” come Anas…
La vocale dell’incipit lessicale potrebbe essere l’unico elemento in comune fra
le due realtà e i relativi mondi di riferimento:
- Da un lato la variegata, contraddittoria, complessa e (spesso) provocatoria
vicenda dello sperimentalismo creativo, perennemente in fieri, che prescinde dal consenso esteso dei fruitori, per ricercare l’autolegittimazione nell’individualità dell’autore e la validazione nel riconoscimento del circuito culturale e del mercato dell’arte che restano di pochi (eletti senza elezione) ma
che generano spesso, per vie anche contorte, indirette, spesso inconoscibili, influenze durature sulle sensibilità (propensioni, atteggiamenti, immagini, immaginari, ecc…) dei molti che poi vivono quelle inseminazioni creative in modo inconsapevole, culturalmente, socialmente ed antropologicamente subliminale a livello del gusto;
- Dall’altro la concretezza operativa, aziendale e statuale, di un soggetto pubblico (ancorchè oggi di diritto privato) che da oltre 75 anni progetta, costruisce e manutiene la fondamentale rete viabilistica nazionale con i suoi
22.000 Km circa di strade statali (le famose “SS.” seguite da un numero), che
controlla gli oltre 6.000 Km di autostrade gestite dalle società concessionarie e che non può prescindere dalla questione del consenso nel rapporto di
massa con gli utenti del servizio-strada.
Il bagaglio cromosomico dei due mondi non potrebbe essere più antinomico ed
il rispettivo DNA più distante per gli effetti di una sorta di darwiniano processo di selezione che, a seguito delle specializzazioni dei ruoli e dei diversi
habitat di riferimento, ha dato vita a percorsi separati che si potrebbero icasticamente connotare rispettivamente come “la strada dell’arte” da una parte e
“l’arte della strada” dall’altra.
Ma è proprio così? Si tratta di due mondi così separati?
Se ci si ferma all’apparenza non c’è dubbio, ma se ci si addentra un po’ di più
nelle rispettive problematiche si vede che la creatività artistica e la strada
hanno molteplici punti di contatto. Anzitutto nell’opera stradale c’è spesso
molta arte inglobata (in forma di architettura) che si concentra nelle “opere
d’arte” che la connotano e, in parte, la fanno esistere. Il ponte sul Basento di
Musmeci così come molte opere di Nervi, Morandi, Zorzi, Cestelli Guidi,
Miozzi, per non parlare di più recenti realizzazioni di Calatrava, Foster, Van
Berkel, ecc… non possono non essere considerate come autentici capolavori
d’arte (Architettura? Ingegneria? Land art?)
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Poi c’è la strada come soggetto all’interno della creazione artistica: tutto il filone “on the road” del cinema (“Easy Rider” di Dennis Hopper per citare un titolo fra tanti) e della letteratura (una per tutte l’opera-emblema di Jack
Kerouac); nelle arti figurative la strada che pure era presente nelle vedute di
molti paesaggisti classici, irrompe da protagonista nelle tele degli impressionisti, diventando da allora elemento importante nell’iconografia e dell’immaginario creativo fra i due secoli, per affermarsi definitivamente nel ‘900 in
tutte le sue declinazioni: dal mito vitalistico imperniato sulla velocità e il
movimento del futurismo alla fissità della pittura metafisica fino al surrealismo e all’oggettivismo comunque declinato (cubismo, pop-art, iperrealismo),
passando per l’astrattismo di varia matrice (geometrica, espressionistica, ecc).
Bisognerebbe poi ricordare la strada quale fonte ispiratrice di musica, danza,
teatro, fotografia…la casistica potrebbe continuare rafforzando l’idea che
strada ed arte sono più vicini di quanto la vulgata corrente potrebbe indurci
ad immaginare.
Né va dimenticato che chi si occupa dell’”arte di fare strade” non di rado colleziona opere d’arte sul tema delle infrastrutture (e non); è il caso di molte
concessionarie autostradali che in varie realtà italiane hanno raccolto ragguardevoli patrimoni artistici: fra molti casi vorrei ricordare quelli di
“Autostrade per l’Italia” e di “Ativa”, richiamando due opere delle rispettive collezioni di cui ho avuto conoscenza diretta: nel primo caso un paesaggio (con
ponte al tramonto) di Piero Martina (l’artista torinese con cui ho avuto l’onore di studiare dapprima e di collaborare poi, insegnando all’Accademia
Albertina di Belle Arti nei primi anni ‘70); nel secondo caso un’opera del ‘64 dell’artista americano Mc Garrel che potrebbe essere presa ad emblema dell’”art on
the road” o, se si vuole, di una simmetrica “road on the art”.
Ho richiamato questi vari riferimenti sparsi perché danno un’idea del confine
mobile che separa l’apparente alterità radicale fra due mondi che, nel tempo e
in forme assai diversificate, hanno trovato e trovano punti di contatto. Ma è
vero dialogo? La domanda è meno peregrina di quanto potrebbe apparire in base
all’ovvia constatazione che esistono ambiti disciplinari autonomi che non
necessitano, di norma, di rapporti extradisciplinari; e se è vero che sovente l’interdisciplinarietà è considerata un valore, è piuttosto raro che questa integrazione fra i saperi si estenda dal mondo tecnico al mondo artistico e viceversa.
In genere nessuno sente un “vuoto artistico” nel campo della chirurgia o della
metallurgia, ma per “la strada”, forse, la questione si pone in modo diverso.
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Alla base di questa diversità c’è la complessità culturale e lo spessore semantico della strada che non è riconducibile solo alla sua dimensione tecnico-operativo-funzionale, cioè la strada come “manufatto”.
La strada infatti è anche un archetipo concettuale: nell’immaginario profondo
di popoli ed individui viene fatto coincidere con l’idea stessa di destino (la
strada dell’uomo) e con il senso della coerenza etica (la retta via); ha assunto
storicamente i caratteri di un paradigma di civiltà (la Via della Seta, la Via del
Sale, la Via Francigena); nella religione cristiana sintetizza il percorso dal dolore alla redenzione (via crucis); identifica in modo essenziale problemi sociopolitici drammatici (“ninos de rua”); evoca processi di emarginazione e sfruttamento (donne e uomini di strada); sintetizza processi formativi (iter scolastico); simboleggia processi esistenziali (viale del tramonto); dà forma a suggestioni del sentimento (la strada dell’amore)… L’elenco potrebbe continuare
indefinitamente a comprovare che la parola strada non vuol dire solo infrastruttura per il trasporto, ma che quel nome, con la sua millenaria origine,
affonda il suo significato nella profondità del processo antropico di civilizzazione, da quando il passare ripetuto dei piedi sul terreno naturale (inseguendo e ricercando gli elementi della sopravvivenza primordiale) segnò l’impronta
iniziale di una pista, di un sentiero, di un percorso per accompagnare poi, con
una concretizzazione fisica via via tecnicamente più complessa, il processo
evolutivo dell’umanità (le strade consolari romane) fino alla modernità abbinata ai processi di motorizzazione di massa. La strada è indissolubilmente legata all’idea di viaggio che non è solo percorrenza da punto a punto. Dice Giorgio
Manganelli “Ogni viaggio è il più bel viaggio del mondo. Non fanno il viaggio
né la lunghezza né la durata, né le così dette meraviglie, i capolavori che ci
può accadere di vedere. Il viaggio è fatto in primo luogo di se stesso. E’ uno
spazio longilineo, dentro il quale, come in una fessura del pianeta, cadono
immagini, profili, parole, suoni, monumenti e fili d’erba. (…)ed è lasciarsi
cadere nel fondo di quella magica fessura che ci porta da un luogo all’altro” (*)
Ridurre la strada a “conduttura del traffico” ovvero, più brutalmente, a “fognatura della mobilità” è stato l’errore e il danno più grave per la cultura (tecnica
e non) del settore viabilistico nel secondo dopoguerra, perché ne ha ristretto
il campo di legittimazione isolando dal sistema di valori che alla strada viene
associato, il solo “valore d’uso”.
(*) Giorgio Manganelli “La Favola Pitagorica”Adelphi 2005 (raccolta di scritti pubblicati su quotidiani tra
il 1971 e il 1989).
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Infatti se la strada è autoreferenziata in forza unicamente della sua funzionalità (monofunzionalità) essa diviene necessariamente “altro” rispetto ad ogni
sistema di valori non contemplato all’interno dell’orizzonte trasportistico: allora la strada diventa un’opera “nel” territorio (effetto intrusione) e non “del” territorio (rapporto fra naturalità ed artificialità).
Questo spiega anche perché nel 1975 il Parlamento italiano votò una legge
(L.n°492 del 16 ottobre 1975 art. 18 bis) che vietava di fare autostrade. Di
norma per non fare una cosa basta non farla, non c’è bisogno di impedirla “ope
legis”; (non c’è una legge che vieta di fare gli obelischi eppure l’Italia non si è
riempita di obelischi); in genere si vieta ciò che è visto come nocivo, negativo, da cui ci si dovrebbe redimere: dal proibizionismo dell’alcool nell’America
degli anni ‘30, alle leggi contro le droghe, il fumo, ecc.
Il “proibizionismo autostradale” se da un lato registrava errori ed eccessi
costruttivi, in realtà scontava soprattutto una povertà motivazionale da parte
dei “facitori di strade” (programmatori, progettisti, costruttori, gestori, ecc.)
alla base di scelte che restringevano la loro legittimazione al solo valore d’uso
(figlio del processo di motorizzazione di massa sviluppato senza coerenze
intermodali e attenzioni ambientali).
Per alcuni decenni gli stessi operatori del settore hanno perso (o hanno dato
l’idea di perdere) l’autostima del loro operato, la coscienza di realizzare pezzi
di civiltà contemporenea, di disegnare i nuovi paesaggi con gli obblighi e le
potenzialità che quella sfida comportava (e comporta).
Le “opere d’arte” stradali, ad esempio (ponti, viadotti, gallerie, ecc.) si sono
progressivamente declassate perdendo il rapporto con l’originario rango
semantico, evocativo di creatività, per ridursi a voci di capitolato che classificano le opere per dimensione, tipologia, lavori e materiali.
Nell’accezione originaria di “opera d’arte” infatti convivono tecnica ed estetica
in una tensione inscindibile di apporti reciproci che (quando ci riescono) generano valori che non sono più solo tecnici o solo estetici, ma diventano valori
“tout court” e, per questa via, acquisiscono anche una dimensione etica.
Infatti quando un bene materiale, percepito come un valore culturale, viene ad
esempio, distrutto, il “vulnus” che si genera e che colpisce le coscienze (quelle che lo percepiscono come tale) non è più né tecnico, né estetico, né solo
culturale, ma profondamente “morale” attingendo alle corde più intime della
coscienza individuale e collettiva: è il caso ad esempio della distruzione delle
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statue megalitiche del Budda in Afghanistan o anche, ad una scala diversa, l’insulsa scempiaggine della decapitazione della testa di quella involontaria scultura naturale della costiera sarda che l’immaginario collettivo aveva connotato creativamente come “opera d’arte”.
In questi casi la sfera che è investita è indubitabilmente etica, attraverso un
processo di sublimazione culturale della comprensione estetica di un bene che
nella sua materialità, spogliata dell’attribuzione di un senso antropologico,
sarebbe solo tecnica, costruttiva, economica, funzionale, naturalistica, minerale o geologica.
Se chi fa strade ha (aveva) perso il senso del suo compito e della portata collettiva e storica del suo ruolo e del suo operato, è “naturale” che qualunque portatore (sano) di valori generali sia in grado di metterlo sul banco degli imputati processandone i comportamenti: se le strade pensate, progettate e
costruite sono solo intrusioni “nel” paesaggio anziché fattori di reinterpretazione del “genius loci” (anteriore e persistente, ma non per questo immutabile); se le opere d’arte sono tali solo di nome per la contabilizzazione burocratica, ma hanno poi, in realtà, l’immagine e la consistenza dei manufatti anonimi e scandalosamente banali, delle barbare intrusioni paesaggistiche di tanti
viadotti in contesti anche raffinati e importanti; se infine il senso di sé, del
proprio lavoro, della propria missione viene banalizzato in pratiche appaltistiche forse anche di grande dimensione, ma di scarso respiro e viene barattato
con qualche (miope) tornaconto economico, allora è fisiologico, è inevitabile
(e, alla fine, è anche giusto) che l’intero settore e le singole opere finiscano
sotto processo, private di consenso da parte di una maggioranza di popolazione orientata da una minoranza militante nobilmente motivata (ancorchè spesso prigioniera dei propri stereotipi minimalisti).
Alla base del “gap” infrastrutturale italiano c’è, credo, questo processo di criminalizzazione delle opere generate dall’auto-deleggittimazione degli stessi
“facitori di opere” che hanno, per troppo tempo, espulso la cultura dal loro
orizzonte operativo pensando di trarne vantaggio semplificando i problemi ed
emarginando le voci critiche, entrando così, invece, nel corto circuito della
caduta del consenso e della perdita di status.
L’Anas è stata parte non trascurabile di questo processo involutivo a cui sta cercando di reagire riannodando i fili di un dialogo non occasionale né strumentale con gli ambienti, i protagonisti e i filoni più vivi della cultura (disciplinare e non).
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La strada (e, di riflesso, chi si occupa di strade) nell’immaginario collettivo
appare come “povera di senso” (generale) e sovraccarica di attribuzioni (funzionali) e viene percepita più come “strumento” che come “valore”. Allora la
domanda a cui va data risposta è “come si fa a riattribuire senso allo strumento riscoprendone il valore?”
Occorre senza dubbio suscitare interesse, coinvolgere sensibilità che, da nicchie influenti di riflessione e comunicazione, orientino strati di opinione pubblica progressivamente più ampi secondo il principio dei cerchi nell’acqua
quando si butta il sasso.
E’ un lavoro di lunga lena da costruire giorno per giorno, occasione per occasione, con pazienza, con determinazione, sapendo che come nell’acqua le onde
progressivamente si smorzano e torna la calma piatta se non si rianima il moto
della superficie con un nuovo stimolo, anche nei processi socio-culturali (come
quelli di cui si parla) se non si alimentano i fenomeni percettivi, interpretativi e culturali in genere, finisce inesorabilmente per prevalere la “routine”.
Va detto chiaramente che è certamente “anche” un problema di comunicazione, ma non è “solo” (né soprattutto) una questione di informazione e di veicolazione efficace di “messaggi”: questo è sicuramente utile, per certi versi
indispensabile, ma non è il cuore del problema perché al centro dell’interrogativo c’è proprio la natura, la qualità e il significato del messaggio, cioè il “senso
della strada” qui e adesso, nella “full-immersion” della contemporaneità: l’oggetto-strada è assai diverso oggi da quello di ieri sia dal punto di vista della
domanda che da quello dell’offerta, ma è ancor più diverso dal punto di vista
delle sensibilità, dei gusti, degli stili di vita, dei comportamenti e dei modelli
mentali attraverso cui la realtà della strada è compresa e/o immaginata.
Quando si tratta di cercare di capire il nuovo (o anche solo una nuova percezione del vecchio) non ci sono certezze, c’è la ricerca intesa come “avventura”
(del pensiero, della coscienza, della sensibilità) che ci porta a camminare spesso a tentoni, in campo aperto.
Se cerchi l’acqua e sai già che c’è e dov’è chiami i tecnici (l’ingegnere idraulico, il tubista, ecc); se invece non sai se c’è, né dove eventualmente sia, ricorri al rabdomante: e i “rabdomanti del senso” che si muovono nella foresta spesso muta dei significati delle cose e dei valori delle persone, mossi da capacità
e sensibilità più acute di quelle normali, agendo come antenne dell’inesplorato della società, sono talvolta i pensatori, spesso quelli più radicali, nel senso
etimologico del termine, che vanno cioè “alle radici” delle cose e dei compor-
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tamenti (Baudrillard, Severino, Derrida) ma, soprattutto, gli artisti. La poesia
(intesa come categoria dello spirito, non come genere letterario) non è mai
evasione edonistica dalla realtà, ma è una forma sottile e acuta di conoscenza
che affianca quella di altri saperi esplorandone i terreni anche più criptici.
Per questo l’Anas ha bisogno di colloquiare con l’arte, non (solo) perché l’arte
“fa immagine”, ma perché il suo ausilio serve a “capire il mondo” (e il mondo
della strada in particolare) e a investigare nuovi modi di porsi di temi considerati noti. Può essere utile ricorrere ancora una volta all’aiuto penetrante di
Manganelli che ci fa capire, anche con le parole di uno storico come
Quintavalle, che parlare di strade e di strada, vuol dire parlare di mondi e del
mondo; dice Manganelli: “L’universo è un reticolo fitto di segni, di tracce, di
appunti, di immagini che parlano, raccontano, organizzano ed interpretano.
Un linguaggio arbitrario e necessario, itinerari sottili da inseguire e di oggetto in oggetto: strade. (…) Le strade romane sono avvenimenti della ragione,
nascono dall’astrazione, dal possesso dell’idea di linea retta, non dal possesso
fisico della regione. La strada romana è un capolavoro dell’io, una serie di indicazioni su uno spazio pensato: è una strada veloce, articolata in stazioni di
tappa, luoghi di sosta, centri di vigilanza; quella strada è un’invenzione dell’impero.
Lungo quella strada si collocano i riquadri geometrici dei castra, gli accampamenti (…) L’uomo medievale perde la strada di un impero che non esiste più,
l’uomo medievale è l’uomo di Isidoro di Siviglia, vive in un reticolo di segni e
simboli, in un mondo che non ha capitale e una assai oscura idea dell’imperatore, ma in cui ha fatto irruzione un Dio che da ogni cosa, animale, pianta,
numero ha ricavato una febbrile vita tra sogno e visione. Nascono le strade dei
pellegrinaggi, lente, aspre, insicure, strade per boschi e dirupi, insidiate da
lupi, difese da sacre immagini, da angeli. Ho in mente una grande fotografia
della strada del passo del Furlo, un luogo intensamente silenzioso, favoloso,
ignaro delle dure consolazioni della geometria. L’uomo non ha perso il mondo,
ma l’ha totalmente trasformato. Ora vi è sulla terra una terra che è santa; ora
vi sono i luoghi potenti di una misteriosa, sacra potenza, Roma non ha eserciti ma agisce, e agiscono i luoghi dei pellegrinaggi, da Santiago di
Compostella a San Michele nel Gargano”. (**)
Qual è il rapporto contemporaneo fra “strada” e “mondo”? Ovvero fra il disegno
delle strade e il disegno del mondo, che è in ultima analisi la sua concezione
(**) Giorgio Manganelli: op. cit.
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nella mente dei contemporanei, ovvero la nostra autorappresentazione del
mondo (reinterpretazione del passato, concezione del presente e prefigurazione del futuro).
Nel corso del Convegno internazionale su “L’architettura delle strade” nell’ottobre 2003, con il musicologo Stefano Catucci l’Anas organizzò un concerto jazz
(Koinè) sul tema della strada come itinerario multietnico e poliantropico di
culture (dalla Scandinavia all’Anatolia) seguendo il filo conduttore del viaggio
come scoperta della ricchezza delle diversità (biologiche, paesaggistiche, storiche, etniche, ecc.)
A questa prima esperienza ha poi fatto seguito, l’anno successivo, nel quadro
dei rapporti con la Biennale di Venezia, il concerto al petrolchimico di
Marghera con i gruppi musicali Pansonic e Martux e le coreografie “stradali” di
Karol Armitage.
Questo tipo di legame fra strada, musica, danza e creatività in genere resta
però di tipo elitario, rivolto ad una minoranza intellettualmente attrezzata o
quanto meno disponibile alla scoperta (o riscoperta) di simboli, assonanze
legami tra materiale e immateriale, tra il valore d’uso quotidiano infrastrutturale e astrazione creativa artistica.
Ma il connubio permane e anzi si consolida se dall’immaginario selettivo di nicchie socio-culturali si passa al mondo nazional-popolare, ad esempio, delle canzonette: ricordo, che, da bambino, mia madre cantava sul balcone su strada
“vieni c’è una strada nel bosco, il suo nome conosco, vuoi conoscerlo tu?…vieni è la
strada del cuore dove nasce l’amore…”; si commuoveva cantando e quella commozione per “la strada del cuore” non era certo riferita a una via di transito ma
all’idea emotivamente coinvolgente, di un percorso sentimentale di vita. Era
l’epoca pre-consumistica che ignorava ancora il “boom” prossimo venturo: la
chiave interpretativa non era però dissimile, in fondo, da successive riletture
della metafora canora: in chiave esistenziale per il “Ragazzo della Via Gluck” di
Adriano Celentano, sentimentale per “Strada Facendo” di Claudio Baglioni e
“Strade su Strade” di Renato Zero o ancora “Alta Marea” di Antonello Venditti e
la sua coinvolgente “…autostrada deserta al confine del mare…”
Se si esce dal filone “melò” e “neo-melò” e si prende invece come indicatore dell’immaginario giovanile di massa il Rock internazionale degli ultimi 30 anni
(comprese le componenti più dure e trasgressive) troviamo assai spesso “la
strada” come protagonista. Dai Doors (Roadhouse Blues, Riders on the Storm,
Queen of the Highway) ai Rolling Stones (Route 66), da Bruce Springsteen
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(Out in the Street, Streets of Philadelphia) agli U2 (Where the streets have no
name), dagli AC/DC (Highway to Hell) a Eminem (Yellow brick road)… L’elenco
potrebbe continuare, ma soprattutto colpisce l’estensione generazionale del
rapporto strada-musica che parla ad un pubblico vastissimo che, anche per
questa via metabolizza culturalmente un’idea “non tecnica” e universalistica di
strada.
Può risultare un gioco (però istruttivo) mettere di seguito singoli versi-chiave
tratti dai testi dei brani Rock, prima richiamati e nello stesso ordine (casuale)
con cui sono stati elencati:
Tieni i tuoi occhi sulla strada, le tue mani sul volante,
sì stiamo andando alla Roadhouse Blues
Viaggiatori nella tempesta, siamo nati in questo mondo…
Lei era una principessa, regina delle autostrade,
una scritta sulla strada dice “portaci dalla Madre”
Se mai vorrai muoverti verso ovest, viaggia alla mia maniera,
prendi l’autostrada migliore, muoviti sulla Route 66 che va da Chicago a Los
Angeles
Ragazza sono giù in strada, sono a casa,
sono a mio agio, quando sono in strada
Oh fratello stai per lasciarmi perdere
lontano nelle strade di Philadelphia
Voglio correre, voglio nascondermi…voglio emergere e toccare la fiamma,
lì dove le strade non hanno un nome
Si va, è il tempo di festeggiare, ci saranno anche i miei amici,
sono sull’autostrada per l’inferno
Poi torneremo seguendo la strada di mattoni gialli che ci porta ad un altro episodio…
Nell’insieme si genera una sorta di spontaneo, disordinato “poemetto” dedicato dal caso alla strada, intesa come metafora esistenziale che va ben al di là
dell’orizzonte operativo dell’infrastruttura.
In quest’ottica, se si considera vitale il rapporto con la creatività “vivente”,
quella che si genera “in corpore vili” nell’esperienza concreta che dialoga “senza
rete” con i fenomeni sociali e con il mutare degli immaginari generazionali di
riferimento, il rapporto con l’arte non può essere solo “collezionistico”, secondo il modello mecenatesco per cui un’impresa investe una frazione (minimale)
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delle proprie risorse nell’acquisto o nella sponsorizzazione di opere e/o eventi
d’arte, ma diventa invece coinvolgimento in un’intrapresa culturale accollandosi (almeno in parte) il rischio della sperimentazione (che è poi la vera essenza del collezionismo pioneristico-esplorativo del nuovo che avanza e cambia
sotto i nostri occhi).
Quando l’Anas, diventata società per azioni, (ri)scoprì nel proprio patrimonio
da sistemare il “Palazzo sul Canal Grande” in fregio al Ponte degli Scalzi si pose
non solo il problema della sua ristrutturazione fisica (ripulendolo dalle superfetazioni), ma anche quello dell’individuazione di una destinazione d’uso adeguata all’eccellenza della localizzazione.
Accanto ad alcuni impieghi funzionalmente necessari (foresteria e uffici) si
ritenne opportuno individuare due utilizzi qualificanti:
- il primo creando una sala seminariale per meeting a vocazione internazionale dedicata al grande Ing. Eugenio Miozzi (anche con un adeguato corredo
iconografico delle sue opere) che, oltre ad essere un progettista di rango nei
primi decenni del Novecento in campo infrastrutturale è stato il primo Capo
Compartimento dell’Anas nel Veneto dal 1928;
- il secondo ospitando la sede dell’attività congiunta di ricerca e sperimentazione fra Anas e IUAV in applicazione di una convenzione pluriennale fra le
due realtà (aziendale ed universitaria) intorno ad un progetto di collaborazione per l’innalzamento della qualità della progettazione delle strade a livello nazionale.
Restava da definire la chiave interpretativa dell’atrio di ingresso del Palazzo
con l’importanza e la criticità che sempre assume un luogo di passaggio tra
esterno e interno, fra città (e che città) e casa (casa della strada). Si escluse la
soluzione più semplice consistente nell’approccio funzionalistico basato “solo”
sulla ristrutturazione del locale (rifare i pavimenti, l’illuminazione e l’arredo)
per scegliere quella di “reinventare” quello spazio affidandolo ad un artista contemporaneo che “ripensasse l’atrio stesso come opera” e non già come luogo in
cui “esporre” un’opera d’arte.
Si chiese alla Biennale di Venezia di suggerire una rosa di nomi tra le figure più
interessanti nel panorama delle nuove leve della creatività artistica; grazie ai
suggerimenti del Prof. Francesco Bonami, in ultimo, la scelta è caduta su Flavio
Favelli che, con straordinario impegno, si è cimentato in un’opera che non potrà
essere solo “contemplata”, ma dovrà essere necessariamente vissuta, mantenuta e quindi inesorabilmente anche “manipolata” nel tempo da tanti anonimi
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fruitori che percorreranno e useranno una creazione ambigua che è un ambiente, un’installazione e che l’autore ha pensato e chiamato “VESTIBOLO”.
Il tema scelto da Favelli non è dunque quello della strada e l’opera non è la
metafora della “mission” dell’Anas; non c’è alcuna trasfigurazione simbolicocontenutistica da prendere a base dell’immaginario di questa veneziana “casa
della strada” e della cultura professionale che ruota intorno al “core business”
aziendale.
I locali d’ingresso non diventano il biglietto da visita artistico delle attività
insediate, ma la testimonianza dell’apertura di un dialogo culturale (davvero
aperto, forse al limite dell’azzardo) fra l’Anas (con il suo bagaglio di competenze e responsabilità) e le nuove frontiere della creatività dell’arte contemporanea italiana.
Ciò che l’opera di Favelli evidenzia non è dunque in alcun modo una “celebrazione” dell’Anas, ma al contrario una prova antiretorica di sperimentalismo che
crede e scommette sul dialogo con ciò che è “altro” per sensibilità e valori. Il
vero messaggio che il “VESTIBOLO” racconta è dunque metodologico: Anas non
si arrocca sul proprio terreno (ancorchè nobile ed importante) e non è solo un
soggetto riproduttore di certezze: si mette in discussione e colloquia con voci
lontane dal suo “core” culturale e dal suo profilo d’immagine.
Questa apertura, se non resta un isolato “fiore all’occhiello” può essere letta
come una garanzia di volontà dialogante con ogni alterità con cui l’Anas è chiamata ad interloquire intorno al tema della strada e del viaggio.
Ma se questo è il significato primario dell’operazione ed il suo valore esemplare che si inserisce nel quadro delle iniziative per riscoprire i molti valori
culturali, disciplinari e interdisciplinari della progettazione di infrastrutture
stradali in rapporto al territorio, al paesaggio, ai beni storico-artistici e alle
nuove sensibilità (figurative e non) del nostro tempo, il “VESTIBOLO” in quanto opera fisica, spazio e atmosfera “da vivere” e “da usare” suggerisce alcune
riflessioni specifiche partendo dal nome stesso che Flavio Favelli ha scelto per
denominarla; avrebbe potuto infatti, a buon diritto, chiamarla (come accade
di frequente nell’arte moderna e contemporanea) “SENZA TITOLO” e invece l’ha
contrassegnata con un titolo: il termine “VESTIBOLO”, che merita di essere
indagato.
Vestibolo, dal latino “vestibulum”, voce di formazione oscura…; comincia così, sul
vocabolario Treccani, la voce vestibolo: con un rimando ad una originaria opacità etimologica che conferisce indeterminazione semantica ad un termine
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che, al contrario, nella sua accezione operativa normale, appare chiaro ed univocamente determinato come “spazio libero che precede una sala (…) ambiente di
introduzione, intermediario fra l’interno e l’esterno… ambiente di disimpegno e di
ingresso dalla strada… presente anche nell’architettura medioevale… assume splendore durante il Rinascimento... prende talora sviluppo tale da corrispondere a due piani
(…) è da questa forma che si svilupperà più tardi la tipica “hall”inglese. Dall’Ottocento
il vestibolo assume nuova importanza e varie funzioni nei grandi edifici pubblici”.
Questa successiva descrizione storico-tipologico-funzionale che illumina la primigenia oscurità della genesi terminologica latina della voce vestibolo proposta dall’illustre dizionario, si attaglia perfettamente al caso del Palazzo-Anas
sul Canal Grande a Venezia: un grande atrio di ingresso da cui si accede alle
aree operative interne, provenendo dallo spazio libero esterno su cui atterra la
campata aerea del Ponte degli Scalzi, opera del Miozzi.
Questo esterno, peraltro, è connotato, nel senso comune della percezione distratta (ammirativamente distratta) di turisti, visitatori e cittadini che hanno
spesso un rapporto inconsapevole con la stratificazione storica dell’immagine
urbana, da una sostanziale ambiguità a-temporale: il ponte ad esempio sembra
ai più non un’opera relativamente recente (1931-1934), ma uno dei ponti “di
sempre” della Venezia di sempre, cioè una presenza metastorica di una città
che tende percettivamente ad appiattirsi sull’”hic et nunc” senza tempo di una
fruizione di matrice turistico-consumistica che tende a rileggere tutte le innumerevoli stratificazioni del passato con la lente sincretica e sincronica del presente.
In quest’ottica, il Ponte degli Scalzi, opera novecentesca di un moderno ed
autorevole ingegnere capo della città, potrebbe essere letto anche come lascito infrastrutturale di un qualche Doge riproponendo, anche per questa via,
l’ambigua e multiforme identità di un qualsivoglia “Principe” di cui, da
Machiavelli in poi, si postula necessariamente l’esistenza in quanto indispensabile decisore-committente di fatti e opere, essendo detentore di potere
comunque legittimato. Se è vero infatti che non ci può essere Grande Opera
senza Grande Committenza, la visione di una realizzazione importante non
può non evocare immediatamente la fonte decisionale che l’ha resa possibile
(prima ancora del manifestarsi delle capacità tecnico realizzative dell’autore e
delle maestranze). In questo circuito storico della Grande Committenza convivono mecenati, despoti, governanti democraticamente eletti, ecc. stratificati
nei secoli con profili assai diversi, talvolta antitetici, ma accomunati, a poste-
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riori dal tratto comune di aver comunque creato valori universalmente riconosciuti da moltitudini diverse arricchendo il patrimonio di molti pur avendo
perseguito talvolta l’interesse di pochi, il capriccio, l’autocelebrazione o in
ogni caso il proprio “Particulare” di Guicciardiniana memoria.
L’ambiguità metastorica dello spazio esterno al Vestibolo di cui si parla, non si
limita al Ponte degli Scalzi, ma investe lo stesso “Palazzo Anas” che, in forza
della sua eccezionale “location”, sfuma l’età anagrafica, (relativamente recente) in una indistinta aura remota, affidata agli stilemi delle finestre e al trattamento dell’involucro murario, come una maschera edilizia che, come in un
sobrio Carnevale di Venezia camuffa ciò che è giovane in vecchio e il contemporaneo in classico.
Un falso? Forse… più propriamente, l’espressione di quel particolare tipo di
autenticità fasulla che reiterata, consolidata, condivisa si fa identità anziché
copia, assumendo, per questa via, autonoma caratterizzazione. E’ un po’ quello che nella vulgata universitaria di commento a certo design dei cruscotti
delle auto degli anni ‘60 si diceva dei materiali impiegati: “autentica finta
pelle”; in quell’espressione irriverentemente sessantottina c’era l’ambivalenza
di un processo stilistico-costruttivo “in nuce” che, mentre segnalava il passaggio dai cruscotti poveri in lamiera e da quelli ricchi in radica verso una comune nuova forma realizzata con nuovi materiali sintetici, evidenziava anche l’iniziale subalternità tecnico-creativa incapace, in allora di valorizzare le potenzialità dei nuovi prodotti che, per legittimarsi, mutuavano valori riconosciuti
(la pelle) riproponendone l’imitazione ma, per questa via, approdavano poi ad
una nuova generazione di materiali, di prodotti, di impieghi e di forme scaturite dalla sublimazione del “falso” in “vero” (nel senso che in questo caso si può
dare ai due aggettivi proposti come sinonimi rispettivamente di subalterno e
originale).
Ampliando la riflessione alla dimensione architettonico-urbanistica si possono
riscontrare significative analogie con il processo che ha connotato tanta parte
dell’edificazione urbana nelle nostre città di ieri e di oggi, ogniqualvolta si è
rinunciato al “rischio ideativo” del progetto innnovativo per cercare una banalizzazione diffusa di simboli, di forme e di messaggi e/o nella ripresa di stilemi del passato, prossimo o remoto, ma considerato in sé positivo, attraverso
“remake” e citazioni (dal neogotico al postmoderno).
D’altra parte sappiamo con Pirandello, ma già prima con Shakespeare che il
confine tra vero e falso è assai labile e che il teatro, l’attore, la scena, il truc-
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co, la maschera ma anche il “theatrum urbis” è emblema di un processo creativo che trova il suo senso più profondo di verità proprio in quanto percorre
fino in fondo e sublima l’artificio della finzione.
Le città sono in larga misura scene di vita e vita in essere che insegue, distrugge, interpreta, manipola, inventa e contamina segni e significati e per questa
via crea (e distrugge) senso di luoghi, spazi, itinerari, simboli, funzioni del
passato e del presente, prefigurando spesso inconsapevolmente le linee del
futuro.
All’inizio si colgono soprattutto le anomalie e l’affermarsi quantitativo di subculture imitative, ma quando queste si diffondono massivamente si consolidano come modelli identitari. Se è vero, come ci insegna Musil che anche “l’uomo senza qualità” può diventare archetipo socio-antropologico di un’epoca e di
una condizione umana, anche l’architettura (e le parti di città) “senza qualità”
finiscono per diventare “forma urbis”, armonizzandosi per affinità sottomessa
o contrapposizione conclamata, anche con limitrofe preesistenze illustri, generando elementi identificativi di un nuovo “genius loci” di luoghi sovente “senza
genio” ma non per questo de-contestualizzati e privi di senso rappresentativo
e autorappresentativo, che è soprattutto “senso del tempo” prima ancora che
“senso del luogo”: è in definitiva la “Weltangshaung” che unifica, nella prospettiva storica, ciò che nella contemporaneità è percepito solo come alterità,
antagonismo e inconciliabile diversità.
Quando a proposito del Vestibolo si parla di “ambiente di introduzione fra l’interno e l’esterno” l’esterno a cui ci si riferisce è dunque un dato complesso, caratterizzato dall’eccezionalità di essere nella Venezia plurisecolare e sul Canal
Grande, ma in un luogo in parte manipolato dalla modernità (la stazione ferroviaria, il ponte ecc.) e soprattutto pervaso dalla contemporaneità (dei segni
della mobilità e del turismo) in uno stabile che (assai dignitosamente) gestisce in sé l’ambiguità della propria immagine a-temporale orfana di storicità.
La porta d’ingresso è il confine, concettuale prima ancora che fisico, su cui si
attesta il tumultuoso e complesso turbinio di simboli e significati dell’”esterno”. Ma è anche il limite sensibile da cui si percepiscono i vuoti di senso di una
città straordinariamente plurisignificante che il turismo mordi e fuggi interpreta sempre più spesso Marcusianamente solo a “una dimensione”.
Sulla porta del vestibolo dunque sembra riproporsi oggi, dal latino remoto
delle sue origini epistemologiche quella primigenia oscurità richiamata in
apertura dal vocabolario: se “nomina sunt consequentia rerum” seguendo un
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libero processo analogico si può presumere che anche “l’oscurità” dell’origine
dei nomi sia conseguenza di più sostanziali oscurità, annidate nel processo formativo delle cose e degli eventi umani.
L’interno del Palazzo è l’altro polo del rapporto fuori-dentro di cui il VESTIBOLO
si pone come “trait d’union”. Anche qui domina la pluralità dei significati ancorati agli usi, a partire da una pluridecennale, incomprensibile vocazione a
magazzino (per lo stoccaggio non organizzato di carte e oggetti), con parziale presenza di uffici e spazi di foresteria. La connotazione dominante è stata a
lungo la residualità delle destinazioni o meglio l’assenza di una percepibile
vocazione attribuita. Crisi di senso dunque alla base di una crisi d’uso, ovvero
sottovalutazione d’impiego.
Quindi per il già richiamato principio secondo cui “nomina sunt consequentia
rerum” l’anonimato funzionale dell’immobile (“res”) non poteva che tradursi in
un’assenza identificativa della proprietà (“nomen”).
Il processo di “riappropriazione” del Palazzo da parte di Anas inizia dunque non
solo dalla sua “scoperta” patrimoniale con conseguente iscrizione del bene fra
le poste del bilancio patrimoniale della (neonata) società per azioni, ma
soprattutto da una nuova attribuzione di senso al bene attraverso un’idonea
destinazione d’uso, adeguata all’eccezionalità del sito, e, per questa via, iscrivendone finalmente la presenza (e il nome) nell’immaginario aziendale.
L’opera di Favelli si colloca proprio in questa “attribuzione di senso” partendo
dal nome che ha scelto per la sua realizzazione “VESTIBOLO” che è, a un tempo,
connotante (anche nella vulgata aziendale lo si chiamerà così) ma è anche tautologico perché è, in definitiva, il nome di ciò che è (un vestibolo, ovvero
atrio, ingresso, hall ecc.). E’ un po’ come chiamare TETTO una copertura, cioè
un tetto.
Nel libro si parla diffusamente dell’ispirazione soggettiva e della chiave di lettura che l’artista propone e che i critici, gli esperti di arte contemporanea ed
intellettuali creativi del calibro di Mario Fortunato suggeriscono riflettendo
intorno all’opera veneziana di Favelli.
Qui interessa invece considerarne l’oggettiva ambiguità entrando nella sua
intrinseca tautologia in cui tutto appare, a prima vista, per quello che è: il
pavimento è un pavimento, la panca è una panca, gli abat-jour sono abat-jour,
i lampadari sono lampadari, la ringhiera è una ringhiera e le specchiere…beh
le specchiere sono “quasi” delle specchiere che riflettono, ma non specchiano
davvero, rimandano frammenti di immagine come ha splendidamente colto
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Hélène Binet che ha saputo non solo “far vedere”, ma interpretare il luogo e le
sue presenze con le fotografie che riempiono di fascino iconografico il libro.
Dalle specchiere l’incrinatura fra ciò che sembra e ciò che è, si estende a tutti
i componenti dell’opera se solo si passa dalla percezione distratta alla visione
attenta dei particolari: quel pavimento che sembra proprio (solo) un pavimento diventa in realtà la maniacale composizione di pezzi numerati di marmo
“vecchio” (non nel senso intrinseco di un materiale che in quanto prodotto da
sedimentazioni geologiche non può che essere antichissimo) di cui viene riscoperta la particolare significanza legata al gusto di un passato (prossimo) e ad
impieghi domestico-borghesi (comò, tavoli e comodini di qualche decennio
fa). Idem dicasi per la scala con il “patchwork” di ringhiere “vecchie” combinate fra loro con i disegni dissonanti armonizzati e i lampadari manipolati da
intrusioni domestiche con vetri “banali” dell’uso quotidiano (tazzine, piattini,ecc.) mentre inconsciamente chi guarda pensa, anche senza volerlo, a
Murano, Venini e ai famosi “vetri veneziani”… allora si viene colti da una sorta
di straniamento brechtiano tanto più insinuante in quanto sussurrato e appena percettibile, ma (non appena percepito) tale da rendere impossibile quella
lettura semplice e oggettiva che pareva così “naturale”.
Si potrebbe continuare l’elenco delle cose che sembrano essere quello che sono,
ma in realtà non lo sono fino in fondo (e quindi appaiono inquietantemente
diverse da ciò che sembrano): il senso complessivo dell’opera, in definitiva, si
sposta dal modello della tautologia a quello dell’ossimoro, nel senso che convivono sotto l’apparente e conclamata unitarietà quasi banale dell’espressione la
contradditorietà di significati contrapposti.
Questa sostanziale ambiguità del VESTIBOLO è ciò che ne può (forse) consentire una fruizione non contemplativa nel tempo: lo spazio dell’ambiente-opera
può essere visto e vissuto nella sua accezione de-semantizzata, come mera
“cosa” da usare (per entrare, per passare, per sedersi,ecc.), oppure percorso e
fruito come in una quotidiana e ripetuta “performance” da mostra d’arte.
Probabilmente le due possibilità si frammenteranno e mescoleranno nel tempo
secondo logiche imprevedibili. L’unica cosa certa è che il VESTIBOLO pensato
come opera definita e fissata nell’”hic et nunc” della sua ultimazione (per l’inaugurazione) non potrà rimanere uguale a se stessa, ma sarà destinata a contaminarsi nell’uso e quindi a mutare.
Nell’architettura questo è normale (anche se non è molto studiata la trasformazione nel tempo di un’opera in funzione della vita che l’ha permeata), nelle
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arti figurative l’esperienza è assai meno consolidata: che ne sarà del VESTIBOLO
fra dieci anni? E’ difficile fare congetture, ma la questione si porrà anche per
Anas circa il modo, ad esempio, di conservare l’opera, fare le manutenzioni,
fare i conti con eventuali adeguamenti funzionali e/o normativi, ecc.
Tutte queste considerazioni, in definitiva, ruotano intorno alla domanda inespressa su che cosa sia davvero questa esperienza che Anas ha voluto e consentito di realizzare nel “suo” Palazzo e che Favelli ha ideato e messo in opera
concretamente: in altre parole che tipo di arte è quella del VESTIBOLO? E’ un
“qualcosa” che viene quotidianamente usato da tanta gente che entra con logiche proprie e presenze imprevedibili “dentro” l’opera stessa, fino ad esserne
indiscibilmente parte, al punto che essa non è visibile se non facendone parte
dall’interno (non c’è un punto di vista esterno da cui guardare l’opera né un
osservatorio privilegiato).
Nel 1923 un giornalista francese di successo R. Canudo, autore del “Manifeste
du septième art” classificò le arti in: musica, poesia, pittura, scultura, architettura, danza e cinema” (inteso come arte plastica in movimento). Cinque
anni dopo, in Italia, nasceva l’Anas. Quasi ottant’anni dopo quella rassicurante
ripartizione degli ambiti artistico creativi in sette caselle, a casa dell’Anas nel
Palazzetto Foscari di Venezia si inaugura e si propone alla fruizione un’”opera
aperta” (per citare Umberto Eco)che non rientra facilmente in nessuna delle
classificazioni proposte da Canudo. Questa difficoltà interpretativa della tipologia espressiva a cui ricondurre il VESTIBOLO dà il segno tangibile di quanto sia
cambiata la concezione stessa dell’opera d’arte nel tempo.
Se qualcuno pensa che questo riguardi solo l’arte e non anche la strada intesa
come concezione e non solo come prodotto, sottovaluta la portata della sfida
culturale (non solo tecnica) che l’Anas deve affrontare recuperando la pluralità di valori che la strada e il viaggio racchiudono.
Se questo è vero allora il VESTIBOLO è anche un’occasione concreta per riflettere sui parallelismi che legano in modo sotterraneo le autonome evoluzioni, da
un lato, delle “strade dell’arte” e dall’altro dell’”arte della strada” ovvero dell’arte di “saper fare le strade” che è il patrimonio identitario più importante
dell’Anas, che va continuamente arricchito da un dialogo costante con le tante
voci della cultura (disciplinare e non) prestando attenzione anche alle voci che
sembrano provenire da più lontano e da esperienze considerate al limite.
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Indice
9
Prefazione Pietro Lunardi
13
Introduzione Vincenzo Pozzi
19
Il vestibolo nudo Mario Fortunato
41
Arte pubblica sulla strada di casa Stefano Pezzato
67
La scultura crepuscolare di Flavio Favelli
Intervista di Ilaria Bonacossa
81
Schede biografiche
85
Un “vestibolo” tra le strade dell’arte e l’arte della strada
Postfazione di Mario Virano
Finito di stampare
nel mese di giugno 2005