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RASSEGNA STAMPA venerdì 6 febbraio 2015 L’ARCI SUI MEDIA INTERESSE ASSOCIAZIONE ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da Redattore Sociale del 06/02/15 Bando per partecipare a "Mediterranea 17" Biennale giovani artisti Bjcem e il Comune di Milano promuovono Mediterranea XVII Biennale Giovani Artisti, un evento internazionale multidisciplinare che si svolgerà a Milano, presso la Fabbrica del Vapore dal 22 al 25 ottobre 2015, e che prevede la partecipazione di oltre 300 artisti. Nata nel 1985, la Biennale si svolge ogni due anni in una città diversa del Mediterraneo, concentrandosi su giovani artisti e creatori. La Bjcem è una rete internazionale con 58 membri e partner provenienti da Europa, Medio Oriente e Africa che, con il loro sostegno, rendono possibile l’evento garantendo la partecipazione degli artisti provenienti dai territori da essi rappresentati. Questa edizione, dal nome No food's land, pone l'attenzione sugli effetti dei processi legati alla nutrizione e al cibo, intesi come processi di scambio culturale e creativo e di formazione degli artisti. L'Arci sul territorio italiano selezionerà, a livello regionale e nazionale, diversi artisti nei campi dell'illustrazione e del fumetto, delle arti visive, della musica e della gastronomia, della letteratura, del cinema e dello spettacolo dal vivo. Per info sulle selezioni Arci, tel. 06/41609501, mail [email protected]. Termine per la presentazione della candidatura è il 15 marzo 2015. http://www.redattoresociale.it/Annunci/Dettaglio/477808/Bando-per-partecipare-aMediterranea-17-Biennale-giovani-artisti Da Repubblica.it (Napoli) del 06/02/15 Al Pierrot c'è Cantet Palma d'oro a Cannes Stasera la proiezione nel cinema di Ponticelli, presente il regista di PAOLO DE LUCA Atmosfere cubane per il prossimo appuntamento settimanale con le pellicole d'autore del Cineforum Arci Movie. Venerdì 6 febbraio (alle 18 e alle 21) infatti, in programma al il cinema Pierrot di Ponticelli (in via Angelo Camillo De Meis) sarà proiettato "Ritorno a L'Avana" del francese Laurent Cantet, vincitore del premio delle "Giornate degli Autori" durante l'ultima edizione del Festival del cinema di Venezia. Un racconto emotivo lungo una notte, durante la quale cinque amici si ritrovano per festeggiare il ritorno dall'esilio di un loro compagno, ripercorrendo i ricordi comuni della giovinezza, tempo di speranze poi disilluse. In occasione delle due proiezioni, interverrà lo stesso Cantet, Palma d'oro a Cannes, che torna così a Napoli per la seconda volta dopo la partecipazione di settembre alla rassegna "Venezia a Napoli". Prenderanno parte alla proiezione delle 18 anche il console Christian Thimonier e l'ambasciatore di Francia a Roma Catherine Colonna. Il regista incontrerà anche gli allievi del centro gratuito di formazione e produzione cinematografica di Ponticelli "FilmAp Atelier del cinema del reale", progetto 2 curato dall'Arci Movie con il sostegno della Fondazione "Con il sud", coordinato dal regista Leonardo Di Costanzo. I prossimi ospiti del cineforum saranno i Manetti Bros con "Song 'e Napule" attesi per giovedì 19 e venerdì 20 febbraio alle 18 e alle 21. Seguirà Francesco Munzi, regista di "Anime Nere", che incontrerà il pubblico giovedì 12 e venerdì 13 marzo, sempre alle 18 e alle 21. http://napoli.repubblica.it/cronaca/2015/02/06/news/al_pierrot_c_cantet_palma_d_oro_a_c annes-106657062/ Da Redattore Sociale del 05/02/15 Il Forum terzo settore elegge i nuovi organi, ecco tutti i nomi Mercoledì 11 febbraio le associazioni aderenti confermeranno per altri due anni il portavoce Pietro Barbieri. Il Coordinamento passa da 20 a 24 componenti con i rappresentanti dei Forum regionali, resterà quasi integralmente l’attuale squadra ROMA – E’ una sostanziale riconferma degli attuali vertici del Forum nazionale del terzo settore quella che si attende dall’Assemblea generale delle organizzazioni aderenti convocata per il rinnovo degli organi sociali mercoledì prossimo, 11 febbraio, a Roma. Sarà confermato per altri due anni l’attuale portavoce, Pietro Barbieri e con lui resterà per la gran parte immutato anche il Coordinamento nazionale, che vedrà l’avvicendamento di due dei venti membri, oltre all’aggiunta – questa sì è una novità - di altri quattro componenti eletti in rappresentanza dei Forum regionali. Si tratta con tutta evidenza di una scelta condivisa fra le organizzazioni aderenti, dal momento che alla scadenza dei termini per la presentazione delle candidature (fissati per lo scorso 27 gennaio) sono stati avanzati 21 nomi per il ruolo di portavoce e per i venti membri “storici” del coordinamento nazionale. Nomi la cui elezione si attende dunque sia effettivamente ratificata in sede di Assemblea. Se Pietro Barbieri è così l’unico candidato a portavoce nazionale, saranno 18 (con due nuovi ingressi) gli attuali componenti che continueranno a sedersi nel Coordinamento. Barbieri, eletto portavoce per la prima volta nel gennaio 2013, succederà dunque a se stesso e porterà avanti il suo incarico fino all’inizio del 2017, quando gli organi sociali del Forum saranno rinnovati con un mandato ampliato nel tempo a quattro anni (2017-2021). Barbieri bissa il mandato come prima di lui era capitato ad Andrea Olivero, eletto nel 2009, confermato nel 2011 e in carica appunto fino all’inizio del 2013. Olivero fu il primo portavoce unico del Forum; in precedenza infatti quel ruolo era sempre stato condiviso da più persone: Maria Guidotti e Vilma Mazzocco (2006-08), Edoardo Patriarca e Giampiero Rasimelli (per due mandati, 2000-2003 e 2003-2006) mentre il primissimo mandato (19972000) era stato assegnato a Luigi Bobba, Claudio Calvaruso e Gianfranco Marzocchi (con Nuccio Iovene segretario generale). Quanto invece al nuovo Coordinamento nazionale, i 18 confermati saranno Stefano Tassinari (in rappresentanza delle Acli), Nirvana Nisi (Ada), Alessandro Geria (Anolf), Fabrizio Ernesto Pregliasco (Anpas), Sofia Rosso (Anteas), Maurizio Mumolo (Arci), Enzo Costa (Auser), Renato Mattivi (Avis), Paolo Nardi (Cdo opere sociali), Armando Zappolini (Cnca), Luigi Agostini (Federconsumatori), Andrea Fora (Federsolidarietà), Benito Perli (Fitus), Paola Menetti (Legacoop sociali), Maurizio Gubbiotti (Legambiente), Franco Bagnarol (MoVi) e Vincenzo Manco (Uisp). 3 Il diciottesimo confermato a sedere nel Coordinamento è Gianfranco Cattai, che non rappresenterà più però solamente la Focsiv, ma la Aoi, l’Associazione delle organizzazioni italiane di cooperazione e solidarietà internazionale, la nuova realtà creata nel luglio 2013 e che racchiude una vasta rete di ong italiane, compresa la stessa Focsiv. Cambiano invece i rappresentanti del ModaVi (con Maria Teresa Bellucci che sostituirà Irma Casula) e del Mcl (con Giancarlo Moretti che prenderà il posto tuttora occupato da Antonio Di Matteo). Come detto, del nuovo Coordinamento – che passa da 20 a 24 membri – faranno parte anche dei rappresentanti dei Forum regionali, che sono stati divisi in quattro ambiti territoriali. Posto assicurato per Gianni Palumbo (portavoce del Forum Lazio), unico candidato nell’ambito territoriale del Centro Italia, mentre i giochi devono ancora essere decisi per l’elezione degli altri tre. Nell’ambito territoriale del nord-ovest sono candidati Claudio Basso (portavoce Forum Liguria), Anna Di Mascio (portavoce Forum Piemonte) e Sergio Silvotti (portavoce Forum Lombardia). Per il nord-est sono in gara Paolo Alfier (portavoce Forum Veneto), Luca De Paoli (portavoce Forum Emilia Romagna) e Paolo Felice (componente del Coordinamento Forum Friuli Venezia Giulia). Per il sud infine in ballo ci sono Gianluca Budano (portavoce Forum Puglia) e Giuseppe Di Natale (portavoce Forum Sicilia). Infine, la lista per i candidati al Collegio dei revisori dei conti è composta da Gianluca Mezzasoma (Agesci), Maurizio Marcassa (Aics) e Franco Giona (Aism). Quella per il Collegio nazionale di Garanzia è composta da Luca De Fraia (Action Aid), Roberto Speziale (Anffas), Licio Palazzini (Arci Servizio Civile), Stefano Gobbi (Csi) e Antonio Bronzino (Fidas). 4 ESTERI Del 6/2/2015, pag. 2 Il no della Germania: Atene sbaglia DAL NOSTRO INVIATO ATENE Un giorno di ordinaria crisi, ieri ad Atene. Per strada, in fabbrica e in Borsa. Il dramma esiste, basta vedere la disoccupazione galoppante, ma il panico che qualcuno temeva non è arrivato, almeno per ora. Nessuna particolare coda «in stile Cipro» agli sportelli, come era invece successo con la crisi bancaria a Nicosia (anche se, va aggiunto, molti conti correnti ellenici sono già stati liquidati in passato). Nessun crollo alla chiusura della Borsa, che dopo una mattinata pesante ha limitato le perdite al -3,3%, sostanzialmente contenute vista la volatilità. Il no della Banca centrale europea ad accettare titoli pubblici a garanzia dei prestiti ha agitato soprattutto la politica. «La democrazia greca non intende ricattare nessuno e non può essere ricattata», ha detto il premier greco — Tsipras nel corso della prima riunione del gruppo parlamentare di Syriza. «Non chiediamo né compassione, né supervisione — ha aggiunto — Abbiamo le nostre proposte, chiediamo tempo e anche l’Europa ha bisogno di tempo». E ancora, in vista dei prossimi importanti incontri continentali: «Ci chiedono di implementare le riforme a cui ci siamo impegnati e noi rispondiamo che rispettiamo le regole europee ma lavoriamo per cambiarle». Ma ieri è stato soprattutto il giorno del vertice berlinese tra il ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis e il suo omologo tedesco Wolfgang Schäuble. E le differenze sono subito emerse. Il secondo ha sostanzialmente bocciato il piano del primo. «Non ho potuto nascondere il mio scetticismo — ha confessato Schäuble — Alcune delle misure non vanno nella giusta direzione». Tra gli obiettivi di Atene c’è quello di ottenere un programma ponte fino a maggio e, intanto, discutere di una soluzione «una volta per tutte» per la crisi di Atene. Un aiuto potrebbe arrivare dalla stessa Bce, che non ha chiuso il canale di finanziamento degli istituti greci passando per la banca centrale ellenica (attraverso il programma Ela). Qui, secondo voci non confermate, potrebbero essere a disposizione fino a 50-60 miliardi. Resta comunque il fatto che le tensioni tra Berlino e Atene rimangono alte, e Varoufakis ieri ha evocato anche il pericolo del nazismo. «Quando stasera tornerò nel mio Paese, ha detto, troverò un parlamento in cui il terzo partito non è un partito neonazista, ma nazista». Sulla questione greca non sono poi mancati i commenti italiani. «La decisione della Bce sulla Grecia è legittima e opportuna dal momento che mette tutti i soggetti in campo attorno ad un tavolo», ha detto il premier Matteo Renzi. Sulla stessa linea il presidente francese François Hollande. Ma «insistere, come ha fatto Renzi, sul rispetto da parte di Atene del programma della troika vuol dire condannare la Grecia», ha replicato il deputato della minoranza Pd Stefano Fassina. Tuttavia, il peso massimo che è entrato sulla scena della crisi ellenica si chiama Vladimir Putin. Il presidente russo ha parlato al telefono con Tsipras di cooperazione economica tra i due Paesi e ha poi invitato a Mosca il neo premier per il 9 maggio. Invito accettato da Atene. Tra chi ha invece difeso i piani internazionali concordati in passato per la Grecia c’è il Fondo monetario internazionale, per cui «il programma per Atene è fatto per aiutare il governo greco e il popolo greco. E allo stesso tempo per evitare ogni pericolo di contagio». Intanto, dal cuore del sistema finanziario greco, il governatore della banca centrale ellenica Yannis Stournaras non ha dubbi: i depositi nelle banche del Paese sono «assolutamente al sicuro». E la stretta della Bce «può essere rivista con un accordo tra la Grecia e i partner europei». Giovanni Stringa 5 Del 6/2/2015, pag. 2 La gente in piazza ritrova l’unità «Non siamo una colonia tedesca» La manifestazione nata su Facebook. Nessun assalto ai bancomat di Maria Serena Natale DALLA NOSTRA INVIATA ATENE «Guardateci, siamo di nuovo uniti, questo è il nostro Parlamento e questa è la nostra bandiera. Siamo il popolo greco. Se dobbiamo morire di fame, moriremo con orgoglio». Jeans, giubbino di pelle nera e una sigaretta tra le dita, Marios Giannakopoulos guarda la folla crescere in Piazza Syntagma, il cuore politico di Atene ai piedi dell’Acropoli e a due passi dal tempio di Zeus Olimpio. Arrivano in migliaia alla manifestazione nata su Facebook per esprimere solidarietà al governo. Una prima assoluta. «L’assedio» titola in prima pagina il quotidiano popolare Ethnos, «Non siamo una colonia della Merkel» dicono i cartelli scritti a mano, di fretta e con la rabbia che mescola tutto, Germania, troika e Bce. I greci lo sentono, l’assedio, e si stringono al loro leader. «Finalmente uno che tiene testa al Quarto Reich – dice Marios – non lo lasceremo solo. Aiutateci, se non ce la facciamo noi, non ce la farà nessuno. Stasera si radunano anche a Patrasso, quando il 16 febbraio si riuniranno quelli dell’Eurogruppo saremo di più». Marios ha 59 anni e due figli di 18 e 15 anni, Dimitris e Faris. Gestisce un locale, se la passa «male come tutti, e sono pure separato». Sotto il bianco-azzurro della bandiera abbraccia Labros Bakolias, camionista sessantenne che rilancia: «Non vogliamo padroni e non temiamo ricatti». Marios non si è precipitato in banca a ritirare i risparmi dopo l’annuncio del taglio di liquidità deciso mercoledì sera dal Consiglio direttivo della Bce, «non abbiamo più niente da perdere, sbaglia chi vuol farci la guerra». Stanchi dell’austerità, ma anche della paura. Atene, no panic. Secondo le stime gli istituti che si sono già rivolti al Fondo d’emergenza della Banca centrale greca non hanno chiesto più di due miliardi di euro. Nikos lavora in un ufficio di Eurobank, dopo aver staccato (le banche chiudono alle due del pomeriggio) si ferma al bancomat per ritirare del contante. «Nessun assalto, niente a che vedere con l’ansia del 2012 o dei mesi scorsi». Sulla strada dello shopping dedicata a Ermes dio dei viaggi e del commercio suona un vecchio organetto, nell’antica Agorà ragazzi africani improvvisano un freestyle . Christina, 23 anni e una laurea in design d’interni, fa la commessa in un negozio con i saldi al 50%. «Anche la Bce fa politica, vuole farci pressione e mandare un messaggio a chi deve trattare con noi». Culto del capo, fuga dalla disperazione… il nuovo governo sotto tiro piace ancora di più. Prima delle elezioni del 25 gennaio girava una battuta sulla cricca dei bei tenebrosi di Alexis Tsipras: «I comunisti ci ruberanno le mogli». Ora che Tsipras è premier e al suo fianco fa furore il ministro delle Finanze Yanis Varoufakis, «ci ruberanno anche le madri». Litsa ha 50 anni, sposata con un insegnante e mamma di due ragazzi, fino a sei mesi fa lavorava nella pubblica amministrazione, ora vende castagne sulla via Syngrou, vicino alla vecchia fabbrica di birra Fix trasformata in galleria d’arte e ancora chiusa. «Tsipras non mi convinceva, adesso sì. In Europa credete che siamo tutti ladri, ma chi ha rubato non ha mai pagato. Vogliamo solo dignità». Sistema le castagne, le avvolge in un foglio di carta, «non le mangi subito, aspetti che si raffreddino». 6 del 06/02/15, pag. 4 Centinaia di persone sui gradini del Parlamento liberati ormai da ogni protezione Doppio scoglio per il premier: la fiducia al governo e il candidato alla Presidenza Gli ateniesi in piazza mobilitati dalla Rete “Prima la gente, poi l’Ue” Polizia con i manifestanti ETTORE LIVINI MILANO . Atene – convocata via Facebook – scende in piazza per protestare contro la Bce. E Alexis Tsipras, rientrato in patria dopo il tour europeo, chiude la porta alla richiesta di rinnegare le promesse elettorali nel nome del compromesso con Bruxelles: «Siamo un Paese sovrano e democratico – ha detto ieri ai parlamentari di Syriza dopo il giuramento del nuovo Parlamento – Abbiamo un contratto con chi ci ha votato e onoreremo i nostri impegni ». Tradotto per i creditori: il programma di governo che verrà presentato da domenica in aula (un’altra partita delicatissima per il premier) dovrebbe contenere le misure – rialzo dello stipendio minimo e assistenza sanitaria universale su tutte – andate di traverso a Berlino. I greci, almeno per il momento, sembrano ancora schierati al suo fianco. Lo schiaffo di Eurotower ha scatenato una rivolta social nel Paese. Poche ore dopo la decisione di Francoforte, un gruppo di ragazzi ha lanciato via Facebook l’idea di una manifestazione contro Mario Draghi (“No ai ricatti, non abbiamo paura” lo slogan) e di sostegno a Tsipras. Il tam tam virale ha funzionato e in un tramonto luminoso e tiepido – ad Atene ieri c’erano 21 gradi – piazza Syntagma ha ospitato il primo corteo digitale della storia. Migliaia di persone senza bandiere di partito – “La gente conta più dei mercati”, recitava uno dei pochi cartelli issati sopra le teste – a conferma della trasversalità del consenso antiausterity di Syriza. Tutti pigiati sulle scale di fronte al Parlamento aperte al pubblico per decisione del governo pochi giorni fa con l’eliminazione delle transenne anti-contestatori piazzate da Antonis Samaras nel 2012. La polizia ha seguito la manifestazione da lontano e con discrezione, quasi fosse schierata a fianco dei manifestanti. Tsipras però non si fa troppe illusioni. E sa che la strada è in salita, non solo in Europa ma anche quando gioca in casa. Ieri gli esperti economici di Syriza hanno aperto un filo diretto con la banca centrale per verificare se lo stop della Bce all’uso di titoli di Stato ellenici come garanzia per finanziamenti al sistema creditizio avesse scatenato – come temono in molti – una corsa ai Bancomat. Dati ufficiali non ce ne sono ma fonti vicine al partito confermavano in effetti un timido rialzo, pur se ancora non da allarme rosso, di prelievi. «I depositi sono al sicuro», ha provato a gettare acqua sul fuoco il Governatore Yannis Stournaras. Ma i risparmiatori hanno buona memoria e non dimenticano che la stessa rassicurazione era stata fatta ai ciprioti pochi giorni prima che il Paese mettesse dalla sera alla mattina rigidi controlli sui capitali usando poi le cifre oltre i 100mila euro sui conti correnti per salvare le banche nazionali. Il primo cruccio del premier – che il 9 maggio su invito di Vladimir Putin sarà in visita ufficiale a Mosca – è però quello della fiducia al governo in Parlamento. L’iter partirà domenica per concludersi con un voto martedì. Sulla carta non c’è storia. La strana coppia rosso-nera Syriza-Anel ha in aula 162 voti su 300. Il passaggio però è lo stesso molto delicato e Tsipras dovrà stare attento a calibrare anche le virgole. Se il programma dell’esecutivo replicherà in fotocopia quello presentato agli elettori – luce e pasti gratis ai 7 poveri, riassunzione di chi è stato licenziato senza giustificazione, ritorno ai contratti collettivi e stop alle privatizzazioni, per capirsi – Bruxelles e Bce potrebbero far saltare subito il tavolo dei negoziati, spingendo Atene verso il default. Se invece farà qualche concessione di troppo ai creditori, rischia di scatenare la rivolta interna al suo partito dove l’ala più massimalista e di sinistra (su alcuni punti più rigida di Wolfgang Schauble) ha già mal digerito l’alleanza con la destra di Panos Kammenos. La strada insomma è molto stretta. E il rischio di incidenti di percorso è altissimo. Il rischio, dicono i catastrofisti, è che il Paese sia costretto a tornare subito a nuove elezioni in caso di divisioni interne a Syriza, con conseguenze politiche e sociali (Alba Dorata è pronta a monetizzare i guai altrui) che nessuno vuole nemmeno immaginare. Incassata la fiducia, Tsipras dovrebbe presentare mercoledì il nome del candidato alla Presidenza della Repubblica. Qualche giorno fa si era ipotizzato il nome affascinante del regista Costa Gavras. Il premier però potrebbe calare un asso a sorpresa: un candidato del centrodestra, nel nome dell’unità nazionale. Qualche avances sarebbe stata fatta a Kostas Karamanlis, ex premier e “totem” di Nea Demokratia. La scelta però potrebbe cadere su Dimitris Avramopoulos, commissario agli Affari Interni della Ue, altro uomo del partito dell’ex nemico Samaras. Il senso della scelta sarebbe chiaro: la partita per salvare la Grecia è delicatissima. E, nel nome della realpolitik, c’è bisogno davvero di tutti. Del 5/2/2015, pag. 1 Guai ai vincitori Marco Bascetta Già prima che Tsipras arrivasse al governo, mentre andava delineandosi sempre più nettamente la vittoria di Syriza, la stampa tedesca aveva cominciato a minacciare preventivamente gravi conseguenze e pesanti ritorsioni. La Bce, l’Fmi, e i governi europei, indebitati e non, hanno dato prontamente seguito a queste funeste previsioni. I primi chiudendo il rubinetto, i secondi assentendo senza battere ciglio. Senza avere peraltro idea di come risolvere i problemi, tutt’altro che marginali, conseguenti alla possibile uscita della Grecia dall’eurozona, eventualità che tutti assicurano di voler scongiurare. Non c’entra l’etica protestante, né l’espiazione delle «colpe» del debitore, e nemmeno la contabilità del Vecchio continente. La questione è fino in fondo politica. Quella politica che decide i meccanismi e i vincoli dell’economia finendo con l’identificarvisi integralmente. Se governi come quelli italiani e francesi, che certo non sono avvantaggiati dalle attuali politiche europee, plaudono al rigore di Draghi è perché piegare la Grecia rappresenta una mossa decisiva in difesa del sistema liberista, concorrenziale e privatizzatore in cui pienamente si riconoscono, «parlando la stessa lingua» di Merkel. I greci mettono sul tavolo europeo il proprio programma di risanamento e di riforme. Ma è esattamente quello che la governance europea, pilotata da Berlino, non vuole. C’è da scommettere che la riforma fiscale elaborata da Syriza non assomiglierà in nulla a quella prevista da Renzi. Che la Grecia riesca ad uscire in qualche modo dalle condizioni catastrofiche in cui versa non è ciò che rileva. Non è il fine che conta, ma i mezzi e cioè le «riforme» in versione Troika. Questi mezzi non possono essere messi in discussione perché così si aprirebbe una breccia nella dottrina liberista e nel dispositivo di comando che la incarna a garanzia della rendita finanziaria. Al contrario, la capitolazione di Atene (è a questo e non a un compromesso che si punta) o il suo solitario precipizio in una crisi ancora più aspra di quella attuale, con inquietanti conseguenze politiche, servirebbe da cupo monito, in primo luogo 8 per gli spagnoli che vanno ingrossando le fila di Podemos. Non è escluso che proprio il timore per l’evoluzione della situazione spagnola spinga Francoforte e Bruxelles ad escludere qualsiasi cedimento nei confronti di Tsipras. Le reazioni da Roma e da Parigi rivelano quanto fragile fosse quell’asse mediterraneo, o meridionale, nel quale molti avevano confidato. Chi paventava un «effetto domino» può ora dormire sonni tranquilli. Almeno fino a quando saranno questi i governi che tengono a bada il sud indebitato. La Grecia, per il momento, è sola a dispetto della sua mai sconfessata volontà europeista. Solo le forze sociali, i movimenti e i sindacati europei possono sostenere le ragioni di Atene, riconoscendovi in larga misura le proprie. Con il sostegno dichiarato al nuovo corso ellenico e mettendo sotto pressione quelli che «parlano la lingua di Schaeuble e Merkel». Del 6/2/2015, pag. 12 Ucraina, il piano di pace Merkel-Hollande I due leader volano a Kiev e oggi vedranno Putin. Kerry: Usa aperti a tutte le opzioni, pronti a fornire armi DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PARIGI «A partire da oggi ci sono due opzioni sul tavolo per l’Ucraina», dice François Hollande nel momento più importante della sua conferenza stampa all’Eliseo. «Possiamo entrare nella logica di armare i protagonisti: visto che i russi lo fanno con i separatisti, facciamolo anche noi con gli ucraini». È l’idea che sta guadagnando consensi nell’amministrazione americana, e che agli europei non piace. «E poi — continua Hollande — c’è un’altra opzione, che non ha garanzie di riuscita, ma deve essere tentata: l’opzione della diplomazia, del negoziato, che però non può essere prolungato all’infinito». Per questo subito dopo la fine dell’incontro con i giornalisti, ieri intorno alle 13, il presidente francese è partito per Kiev, dove assieme alla cancelliera Merkel ha presentato al presidente ucraino Petro Poroshenko un nuovo piano di pace franco-tedesco. Oggi Hollande e Merkel voleranno a Mosca per sottoporlo al presidente russo Vladimir Putin. Perché questa iniziativa improvvisa, dopo 10 mesi di un conflitto che ha fatto oltre cinquemila morti? Perché gli scontri tra separatisti filorussi e forze governative filooccidentali si sono fatti più sanguinosi nell’Ucraina orientale, il numero delle vittime civili continua a crescere, la Russia guadagna posizioni e per fermarla il segretario di Stato americano John Kerry si trova già a Kiev, pronto a concedere armi all’Ucraina. In novembre gli Stati Uniti hanno già stanziato 118 milioni di dollari in equipaggiamenti «non letali», come radar o forniture mediche; adesso Washington potrebbe fornire armi da combattimento, missili anti-carro o droni. A quel punto la guerra totale sarebbe inevitabile, ed è ciò che Francia e Germania vogliono evitare. Il piano Merkel-Hollande è in sostanza una riedizione dell’accordo stipulato a Minsk in settembre e mai applicato: cessate il fuoco di 15 giorni, ritiro delle armi pesanti, coinvolgimento degli osservatori Osce. Le parti potrebbero convincersi a metterlo finalmente in pratica perché rappresenta l’ultima occasione. Hollande ne sembra cosciente, tanto che annunciando il viaggio con Merkel ha aggiunto «almeno si potrà dire che Francia e Germania hanno tentato tutto il possibile». Le posizioni sono distanti: il governo ucraino vuole difendere una vera integrità territoriale, mentre Putin spera di congelare il conflitto e replicare nell’Est dell’Ucraina la stessa situazione di Abkhazia e Ossezia (Georgia) e Transnistria (Moldavia), territori controllati di fatto dalla Russia. Francia e Germania puntano a un compromesso che garantisca alle 9 zone orientali dell’Ucraina un certo grado di autonomia ma sempre sotto la sovranità di Kiev. Federica Mogherini, responsabile della politica estera Ue, ha dato il suo appoggio all’iniziativa franco-tedesca: «Non esiste soluzione militare per la crisi in Ucraina». Stefano Montefiori Del 6/2/2015, pag. 13 Subito truppe e «basi» nell’Est La Nato alza il muro in Europa Stoltenberg: via al più grande rafforzamento dalla fine della Guerra Fredda L’ira della Russia, che mobilita i suoi riservisti. Ma l’Alleanza è spaccata DAL NOSTRO CORRISPONDENTE BRUXELLES «Questo è il più grande rafforzamento e riposizionamento della difesa collettiva della Nato fin dai tempi della Guerra Fredda». Non è la solita frase ad effetto, quella che giunge da Bruxelles. Dietro le parole di Jens Stoltenberg, segretario generale dell’Alleanza Atlantica, ci sono eventi e cifre che potrebbero entrare presto nei libri di storia. Mentre Nato, Ue e Usa si dividono sulla necessità di armare l’Ucraina, mentre Angela Merkel e François Hollande volano a Kiev per tentare un’ultima mediazione, e mentre Vladimir Putin proclama la mobilitazione dei suoi riservisti per due mesi («succede ogni anno», ma quest’anno è successo prima), la Nato annuncia che triplicherà o quasi le sue truppe nell’Est-Europa: quanto prima possibile, porterà da 13mila a 30mila i soldati del suo dispositivo di rapido impiego approvato soltanto nello scorso settembre. E con loro, moltiplicherà i loro mezzi: carri armati, artiglieria pesante e leggera, aerei, elicotteri, navi, batterie lancia-missili, anche forze speciali di varie nazioni addestrate alla guerriglia. Formalmente, si spiega che questo servirà alla difesa complessiva dello «spazio euro-atlantico» da nord a sud, fino ai confini meridionali dove preme il terrorismo islamico. Ma intanto, sei centri di comando e controllo (non basi, si precisa) verranno istituti quanto prima in altrettanti Paesi Nato dell’Est: Bulgaria, Estonia, Romania e poi Lettonia, Lituania, Polonia, tutta l’area del Baltico. Le forze che vi faranno capo, schierate di fronte ad analoghe forze russe, potranno e già possono entrare in azione nel giro di 48-72 ore: Stoltenberg non lo ricorda certo a caso, davanti ai ministri della Difesa della Nato riuniti a Bruxelles. Spiega che queste sviluppi — strategici, non tattici — si sono resi necessari perché in Ucraina «la violenza sta peggiorando e la crisi si sta aggravando» a causa del ruolo giocato da Mosca, «e questo è un momento molto critico per la sicurezza dell’Europa e del mondo». Le truppe che ora la Nato ha deciso di triplicare sono la cintura di sicurezza che protegge i suoi Paesi-membri dall’incendio fiammeggiante nel cuore dell’Europa. Una parte di esse, la brigata multinazionale «Punta di lancia» forte di cinquemila unità, è nata a dicembre e avrebbe dovuto entrare a pieno regime solo nel 2016. Ma adesso, il suo addestramento è stato accelerato al massimo, secondo un modello operativo «provvisorio», e almeno in parte potrebbe muoversi anche subito, se la situazione precipitasse: se cioè uno dei Paesi Nato dovesse essere attaccato dall’esercito russo, o esplodere dall’interno per effetto di una rivolta separatista armata da Mosca, così come accaduto in Crimea. «Punta di lancia» è formata in gran parte da unità fornite dalla Germania, dall’Olanda e dalla Norvegia, ma è aperta al contributo di altre nazioni, Italia compresa. In apparenza, la scacchiera su cui vaga l’incendio ha margini ben segnati: Mosca accusa Kiev di 10 perseguitare la folta minoranza russa, la Nato accusa Mosca di sostenere I separatisti «con l’addestramento, le truppe e centinaia di armi avanzate, in spregio ai suoi impegni internazionali». Stoltenberg sa bene, e ripete sempre, che l’Ucraina non è membro dell’Alleanza, che un intervento militare in suo aiuto del suo governo sarebbe impossibile: ma ripete anche che la Nato «sosterrà la sovranità politica e geografica dell’Ucraina, che ha il diritto di proteggere se stessa». Le armi, aggiunge, non sono della Nato ma dei singoli governi, «tocca a loro decidere». E qui, i pezzi sulla scacchiera si confondono: perché dagli Stati Uniti giunge l’appello ad armare Kiev, anche con armi offensive e letali. La prima risposta giunge da Mosca: la Russia considererebbe una minaccia per i propri vitali interessi l’invio di armi all’Ucraina. Ma la seconda risposta giunge da alcuni comandanti militari della Nato, che mettono in guardia contro una situazione potenzialmente fuori controllo, e da vari Paesi membri dell’Alleanza, che continuano a invocare una soluzione politica: Italia, Olanda, Germania, Gran Bretagna, e altri. «Più armi in quella regione non ci avvicinerebbero a una soluzione — avverte il ministro tedesco della Difesa, Ursula von der Leyen — e non porrebbero fine alla sofferenza della popolazione». Ma l’incendio continua, e porta via tutte le voci. Luigi Offeddu del 06/02/15, pag. 17 L’irritazione dell’America verso gli alleati europei “Una prova di debolezza andare alla corte dello zar” FEDERICO RAMPINI DAL NOSTRO CORRISPONDENTE NEW YORK VLADIMIR Putin vuole mettere l’Occidente davanti al fatto compiuto, ritagliarsi una fetta di Ucraina da annettere alla Russia come la Crimea. Davanti a questa sfida l’Unione europea è indecisa a tutto, non riesce neppure a varare nuove sanzioni economiche. Il viaggio di Angela Merkel e François Hollande alla “corte dello Zar Putin”, oggi a Mosca, è un umiliante segnale di debolezza. Queste sono le analisi che circolano fra la Casa Bianca e il Dipartimento di Stato, in un’America dove cresce la voglia di armare l’esercito ucraino: almeno per rispondere simmetricamente a ciò che Putin sta facendo coi ribelli filorussi. L’incontro di Kiev tra John Kerry e i leader europei ieri era studiato per dare un’immagine di unità, e il copione è stato rispettato. Ma dietro la facciata, l’insofferenza americana è palpabile. La riassumeva, sia pure nel vellutato gergo della diplomazia, uno dei massimi responsabili delle strategie internazionali alla Casa Bianca: «Ci sono tre questioni sul tavolo. La prima: come aumentare il costo economico per la Russia attraverso nuove sanzioni. La seconda: assicurare all’Ucraina il sostegno finanziario necessario alla sua sopravvivenza. La terza: rafforzare la capacità dell’Ucraina di difendersi, che è anche un modo per rendere più attraente alla Russia e ai separatisti l’opzione del negoziato per cessare il conflitto». È evidente che solo sul secondo punto c’è un’intesa abbastanza sostanziale tra Europa e Stati Uniti; sul primo e sul terzo le due sponde dell’Atlantico fanno fatica a raggiungere una vera unità. 11 La questione degli aiuti militari diventa sempre più urgente, perché la Russia non sta riducendo le sue forniture belliche ai separatisti (com’era nei patti), anzi dietro la recrudescenza dei combattimenti molti esperti vedono un pressing deliberato di Mosca. Lo squilibrio tra i flussi di aiuti che vengono da Est e da Ovest è enorme, secondo l’analisi che ne fanno il Pentagono e la Nato. I russi hanno mandato ai secessionisti i nuovi carri armati T-80, la cui corazza è una difesa impenetrabile per la vetusta artiglieria ucraina. I ribelli hanno ricevuto anche nuove forniture di razzi Grad e altri armamenti pesanti. Infine le forze russe stanno facendo un ricorso sistematico alla guerra elettronica, “accecando” i sistemi di comunicazione ucraini. Sul fronte opposto gli aiuti militari sono pressoché nulli. L’Amministrazione Obama ha promesso 118 milioni di dollari di aiuti per «addestramento e attrezzature non di combattimento» al ministero della Difesa di Kiev. Poca roba. E solo la metà di quanto promesso è stato effettivamente consegnato. Un altro sforzo di dimensione analoga è nei piani di Washington, ma continua a rimanerne escluso qualsiasi aiuto di tipo militare in senso proprio. Ed è questo che l’Ucraina continua a chiedere con insistenza: dai fucili di precisione alle munizioni, dai lancia-granate ai bazooka anti- carro, dalle autoblindo ai radar e ai droni. Kiev è praticamente sprovvista di tutto ciò che caratterizza un esercito moderno, dalle armi leggere alla strumentazione elettronica. A differenza degli europei, i dirigenti Usa stanno cambiando posizione su questo tema. Il comandante militare della Nato, generale Philip Breedlove, è ormai apertamente favorevole alle forniture di armi a Kiev. Anche il suo collega che è il capo di stato maggiore a Washington, generale Martin Dempsey, è sulla stessa posizione. Kerry si sarebbe spostato ugualmente nel campo dei falchi. Fino a qualche tempo fa resisteva la persona che ha più influenza su Obama in questo campo, la sua consigliera per la sicurezza nazionale Susan Rice. Ma di recente l’opinione della Rice sarebbe cambiata. Vi ha contribuito la pubblicazione di un rapporto di esperti indipendenti, coordinati da Michèle Flournoy che viene indicata come possibile segretario alla Difesa in una futura Amministrazione Hillary Clinton. Il rapporto esorta gli Stati Uniti a moltiplicare per trenta il suo sforzo di aiuti all’Ucraina, raggiungendo i 3 miliardi di dollari. E soprattutto includendovi armi offensive oltre che difensive, droni e radar. «L’Occidente — si legge nel rapporto — deve aumentare i rischi e i costi a cui la Russia si espone con la sua offensiva. A questo fine occorre fornire un’assistenza militare diretta all’Ucraina, includendovi armamenti di tipo letale ». Ma usare come soggetto della frase “l’Occidente”, implica un accordo europeo che non esiste. Del 6/2/2015, pag. 13 I giocattoli-bomba non passano mai di moda SONO RIAPPARSE IN UCRAINA LE MINE CAMUFFATE DA BALOCCHI: LO STRUMENTO BELLICO PIÙ SUBDOLO UCCIDE ANCORA I PIÙ PICCOLI Un coniglietto azzurro, una bambola vestita di rosa, una macchina rossa a pedali, una scatola di dolci. Sotto le bombe, i giocattoli assumono una funzione non solo ludica: aiutano i bambini a elaborare psicologicamente le mostruosità a cui assistono, facendole mimare ai giocattoli. I dolci, come qualsiasi tipo di cibo, durante le guerre scarseggiano e poi finiscono. Se se ne trova una scatola, come non prenderla? E gli adulti, gli orchi che costruiscono armi, i politici che scatenano i conflitti, lo sanno bene. Per questo dentro ai 12 giocattoli, da decenni, vengono nascoste le mine eufemisticamente chiamate antiuomo. Quelle non letali, ma in grado di mutilare e rendere invalidi i bambini. L’ultimo a denunciare l’uso dei giocattoli-bomba è stato il primo ministro ucraino Yatsenyuk. In una conferenza stampa ha denunciato il ritrovamento di questi “giocattoli” nel Donbass dove la guerra tra l’esercito di Kiev e i separatisti filorussi si è nuovamente acutizzata: “I separatisti vogliono distruggere il futuro dell ’ Ucraina, rendendo invalidi i bambini facendogli saltare gli arti o rendendoli paralizzati a causa delle schegge”. Il primo in Italia a raccontare nei dettagli le conseguenze catastrofiche di queste armi è stato Gino Strada (il chirurgo di guerra fondatore di Emergency) nel libro intitolato Pappagalli verdi: due ali di plastica verde con al centro un piccolo cilindro pieno di esplosivo hanno volteggiato per anni sul cielo afghano, posandosi poi nei cortili, nei campi, tra le case, come regali per offrire un momento di svago dall’orrore. I “PAPPAGALLI VERDI” SONO MINE inventate dagli scienziati dell’Unione Sovietica, ma non fu solo l’aviazione russa a lanciarle dagli elicotteri militari. Furono dispiegate anche in Vietnam. In Afghanistan sono state gettate dagli elicotteri con effetti devastanti dai sovietici. “Ho dovuto crederci, anche se ancora oggi ho difficoltà a capire”, ha scritto Strada. Durante i suoi vent’anni sul campo, il chirurgo italiano ha visto “pappagalli verdi” ovunque: in Bosnia, in Somalia, in Etiopia, a Gibuti, nel Kurdistan iracheno, in Cambogia. E ogni volta che ha fatto il suo lavoro di chirurgo tagliando e ricucendo quelle povere carni deve essersi posto le stesse domande sulla diabolica ferocia umana. A farne un uso spietato sono stati in tanti, uno per tutti Pol Pot in Cambogia durante la guerra civile, ma anche nelle guerriglie del centro America sono state usate. Non sono però solo i leader che ordinano ai loro eserciti di usarle, i colpevoli. Che dire di coloro che le fabbricano? Fino al 1997 noi italiani ne siamo stati i più esperti e sofisticati assemblatori. Le mine antiuomo sono state messe al bando dal Parlamento italiano con una legge, la numero 374 del 29 ottobre 1997, che ne vieta la progettazione, la produzione e il commercio. Ma ci sono voluti anni di discussione e due legislature. Allo scopo di proibire la produzione e l’uso di mine antiuomo, molti paesi Onu hanno sottoscritto il Trattato di Ottawa del 1997, il cui obiettivo è l’eliminazione definitiva. L’accordo ha tuttavia visto il rifiuto di 36 Stati fra cui tutte le superpotenze: Usa, Russia, Cina, India e Pakistan. L’odiosità di questi strumenti di morte è accentuata dalla loro immortalità: finché non vengono ritrovate, continuano a rimanere una minaccia subdola. Ancora oggi in Cambogia ci sono zone dove è proibito andare perché ancora da sminare. Trovare i “pappagalli verdi” e altri piccoli giocattoli in mezzo al verde della giungla o sotto la neve del Donbass non è facile e spesso a riuscirci sono proprio i bambini, che amano scavare e andare a cercare immaginari tesori nei luoghi più improbabili e indifferenti agli adulti. I loro carnefici. del 06/02/15, pag. 1/40 L’attentato a “Charlie Hebdo” di un mese fa ha riaperto il dibattito sul diritto a esprimersi senza limiti. Anche sulla religione. Un tema che torna ciclicamente nella storia dell’uomo Free speech un mese dopo il sangue di Charlie Se la libertà di parola è ancora in pericolo CHRISTIAN SALMON 13 L’ATTENTATO contro Charlie Hebdo si iscrive in una lunga storia. Ai suoi albori, il cristianesimo condannava la risata. E c’era chi arrivava a sostenere, come San Giovanni Crisostomo (morto nel 407) che l’ilarità e lo scherzo non venissero da Dio, ma dal diavolo, affermando addirittura che il Cristo non avesse mai riso! In tempi più vicini a noi, il giansenismo e l’invettiva di Rancé «Guai a voi che ridete!» portano il segno di un rigorismo morale non riconducibile all’islam radicale, tutt’altro. Furono spesso i vertici della Chiesa cattolica – e non l’estremismo religioso – a lanciare anatemi ogni qual volta un libro, un film o una mostra si avvicinavano ai territori del sacro. La reazione di papa Francesco non deve sorprendere: quella che ha espresso è la posizione costante della Chiesa cattolica. Ai tempi del caso Rushdie, Monsignor Lustiger, membro dell’Accademia francese, si spinse assai più in là, arrischiandosi ad affermare che «la figura del Cristo e quella di Maometto non appartengono all’immaginario degli artisti…». Monsignor Decourtray, arcivescovo di Lione, stabilì persino un collegamento tra il caso Rushdie e la campagna scatenata alcuni mesi prima contro il film di Scorsese L’ultima tenstica, tazione di Cristo , quando scrisse: «Ancora una volta si insultano i credenti nella loro fede. Ieri, in un film che sfigura il volto di Cristo. Oggi è la volta dei musulmani, in un libro sul profeta». E la stessa riprovazione fu espressa dal gran rabbino di Israele, dal Vaticano e da Margaret Thatcher… Eppure l’atteggiamento della Chiesa non è sempre stato così repressivo. Al contrario, nel Medioevo la religione si mostrò di gran lunga più tollerante verso le parodie e le feste carnevalesche. Fin dall’XI secolo tutti gli elementi del culto ufficiale sono oggetto di parodie – la parodia sacra in latino, ma anche in lingua volgare: le preghiere così come i Vangeli, le regole monacali, i decreti della Chiesa e quelli del Concilio, le bolle e i messaggi pontifici, i sermoni… Per le cerimonie della Pasqua la tradizione ammetteva le risate e le facezie licenziose all’interno stesso della Chiesa (il risus paschalis , associato alla rinascita gioiosa). Esisteva anche l’ilarità del Natale. È difficile oggi immaginare quanto fosse estesa la pratica della parodia. A redigere testi e trattati comici non erano solo i chierici, ma anche gli ecclesiastici d’alto bordo e i dotti teologi. Una delle opere più antiche di questa letteratura parodi- la Cena di Cipriano, scritta tra il V e il VII secolo, travestiva le Sacre Scritture in uno spirito carnevalesco, sbeffeggiando tutta la storia sacra nella descrizione di un eccentrico e buffonesco banchetto. Ma è durante il Rinascimento che il riso carnevalesco, a lungo confinato nelle feste popolari, irrompe nella letteratura, dando vita a capolavori immortali quali il Decameron di Boccaccio, le opere di Rabelais, il romanzo di Cervantes o le commedie di Shakespeare. «Nella persona di Rabelais – scrive Bachtin – la parola e la maschera del buffone medievale, le forme popolari di divertimento carnevalesco, la foga della basoche (corporazione di chierici e legali, NdT) con le sue idee democratiche, che travestivano e parodiavano tutti i discorsi e i gesti dei saltimbanchi di fiera, si associano al sapere degli umanisti, alla scienza e alle pratiche mediche». Bachtin ricorda che mentre la prudenza indusse Rabelais a ritirare dai suoi due primi libri, per l’edizione del 1542, tutti gli attacchi contro la Sorbona, «non gli venne neppure in mente di espurgare gli altri pastiche di testi sacri, visto che il diritto e la libertà di ridere erano ancora ben vivi». La compenetrazione tra testi sacri e letteratura profana era tale che la prima traduzione francese della Bibbia, realizzata da Olivétan, porta il segno della lingua e dello stile di Rabelais. D’altra parte, non sempre i critici più severi di Rabelais si reclutavano nella Chiesa. La storia del recepimento della sua opera in Francia ci riserva qualche sorpresa. Nel 1690 La Bruyère emise un giudizio senza appello: «Marot e Rabelais sono imperdonabili per aver seminato immondizia nei loro scritti… Soprattutto Rabelais è incomprensibile: il suo libro è un mostruoso assemblaggio di morale fine e ingegnosa e di lurida corruzione». Lo stesso Voltaire, regolarmente evocato contro l’oscurantismo, rimproverava Rabelais per aver mescolato l’erudizione alla spazzatura e alla noia. Perciò chi si schiera in difesa di Charlie Hebdo richiamandosi ai filosofi dei Lumi 14 dovrebbe pensarci due volte. Sarebbe più convincente Rabelais. E Cervantes! Soprattutto Cervantes, il primo a mostrare come nel momento in cui si cancella la linea evanescente che separa la realtà dalla finzione, la follia e il disordine entrano nel mondo. E difatti, chi è Don Chisciotte, se non colui che si è smarrito da qualche parte, ai confini tra i libri e la realtà, fino a non percepire più chiaramente questa linea di separazione? Tanto che arriverà addirittura a interrompere uno spettacolo di Guignol per passare a fil di spada le marionette di legno, colpevoli di aver trasgredito ai principi della cavalleria! Il motto di Cervantes è la formula popolare, pregna di umorismo e di saggezza, che avrebbe potuto figurare sulla prima pagina di Charlie Hebdo : «Non bisogna confondere!» Per la prima volta, un racconto non pretendeva di fondare una legge né una comunità, ma affermava un’etica del discernimento. Nel suo libro Lo scherzo, Kundera descrive il totalitarismo come un mondo che tende a cancellare la linea evanescente tra il serio e il faceto; un mondo in cui uno scherzo non fa più ridere, ma può sconvolgere una vita. La burla è un prolungamento della finzione nella vita quotidiana. Grazie alla parodia, al gioco, alla risata, si possono inventare altri rapporti all’interno di una relazione umana, invertire i ruoli, relativizzare il significato che si dà a se stessi. Sappiamo oggi che rendendo impossibile lo scherzo, il totalitarismo annunciava il nostro ingresso in un mondo in cui l’illusione romanzesca è divenuta il bersaglio delle coorti sinistre dell’idea fissa. Questo mondo – il mondo dei media e dei mullah – è caratterizzato dalla confusione tra realtà e finzione, tra sacro e profano, tra il gioco e la fede. È un mondo ove l’etica del discernimento non ha più senso. Ad essere in gioco, nel dibattito intorno a Charlie Hebdo, è per l’appunto quest’etica. Che non contrappone credenti e non credenti. Perché l’etica del discernimento si esercita nel seno stesso delle religioni del libro (Esegesi canonica, Talmud e Tafsir). E neppure definisce l’Occidente dei Lumi contro un Islam che si pretende oscurantista. La censura rivolta contro gli artigiani dell’immaginario, siano essi disegnatori, scrittori, cineasti, pittori o scultori, non punisce un reato d’opinione (per cui la loro difesa non rientra nella difesa della libertà d’espressione, brandita come un feticcio) ma contro la fiction in quanto tale, il diritto alla letteratura, all’umorismo, alla metamorfosi… E proietta su scala mondiale, attraverso mille distorsioni, confusioni e malintesi, la nuova guerra per il monopolio della narrazione che ha preso possesso del pianeta. In questa guerra, la cui posta in gioco va al di là delle caricature di Charlie Hebdo , l’immaginazione, l’ironia e la poesia sono ostaggi disarmati che cercano di far sentire lo loro voce. «L’arte degli uomini – scriveva Mandelstam – avanza come una cavalleria d’insonnie, e là dove si mette a scalpitare non vi può essere che la poesia o la guerra…». Del 5/2/2015, pag. 10 Hollande da comparsa a capo E la Francia ritrova se stessa Cesare Martinetti Un anno fa si presentò ai giornalisti sotto lo choc di quelle foto con il casco in testa dopo una notte clandestina all’uscita dell’abitazione dell’amante Julie Gayet. Ieri François Hollande ha affrontato la liturgia della conferenza stampa di inizio anno un mese dopo il doppio attacco islamista a Parigi in un Paese dove il 60 per cento dei cittadini si sente «in guerra». Nessuno avrebbe potuto immaginare un cambiamento più radicale nel clima, nell’occasione e nel Presidente. Hollande è clamorosamente trasformato, non è più il goffo 15 segretario di partito capitato per caso all’Eliseo per rimpiazzare il vero candidato socialista Dominique Strauss-Kahn precipitato nel disonore di uno scandalo da bordello. La presenza e la misura con cui ha saputo affrontare la tragedia del 7 e 9 gennaio (la sparatoria contro i vignettisti di Charlie Hebdo e l’attacco antisemita al supermercato kosher) gli hanno conferito la statura del Capo di Stato; lo spirito dell’11 gennaio, giorno in cui scesero in piazza due milioni di persone a Parigi ed altrettante nel resto della Francia, è il capitale spirituale e quasi mistico che il popolo chiede a un Presidente della Quinta Repubblica. Egemonia franco-tedesca Ieri mattina François Hollande ha dispiegato questo stato di grazia in tutte le direzioni. A sorpresa anche sulla crisi ucraina annunciando la missione diplomatica su Kiev e Mosca insieme ad Angela Merkel e in uno spirito nettamente vecchia Europa contrapposta ai più duri oppositori di Putin, Stati Uniti e «nuovi» europei un tempo al di là della cortina di ferro, polacchi e baltici sopra tutti. Hollande ha rivendicato alla coppia franco-tedesca un’egemonia politica capace di «decisioni su scala mondiale». Il senso era no all’escalation militare di chi vorrebbe armare l’Ucraina, dando una chance alla diplomazia pur riconoscendo che non si potrà «prolungare all’infinito». E no all’ingresso dell’Ucraina nella Nato: un viatico quasi preliminare per accedere a un vero negoziato con Putin. Sul fronte interno Hollande ha costruito una risposta al clima di guerra generato dagli attentati lucidando i gioielli della République: laicità, scuola, cultura. «Gli estremisti hanno voluto dividerci, ma la Francia ha fatto blocco, suscitando l’ammirazione del mondo intero», ha detto il Presidente: la République sarà «intraitable, implacable, irreprochable» nella difesa dei valori di libertà a diritto. Laicità a scuola che vuol dire rispetto di tutti e studio del francese fin dalla materna: gli insegnanti saranno formati a questo fine. E un servizio civile nazionale per i ragazzi in modo da consolidare l’unità costruita in reazione agli attentati. Il duello con Marine Le Pen E la politica politicante? Hollande ha mantenuto il profilo di Presidente di tutti, ben sapendo che tra i milioni scesi in piazza c’erano anche molti elettori del Front National nonostante l’assenza di Marine Le Pen (ieri contestata a Oxford). Per questo non ha voluto rispondere alle domande dei giornalisti sul ballottaggio di domenica prossima in un collegio del Doubs dove sono di fronte un socialista e una candidata lepenista, eliminato al primo turno l’uomo della destra di Sarkozy. È lo schema più probabile delle prossime presidenziali: destra e socialisti che si contendono la sfida con la Le Pen. Ma cosa faranno gli elettori di destra del Doubs? Un voto «repubblicano» contro il Front? O, caduti tutti i tabù, sdoganeranno definitivamente l’estrema destra? Un piccolo voto darà una grande risposta. Del 5/2/2015, pag. 7 Abdallah pronto a lanciare operazioni di terra Giordania. La monarchia hashemita ha già inviato i cacciabombardieri contro Mosul, la "capitale" dello Stato Islamico in Iraq, facendo decine di morti. Forse manderà anche truppe scelte alla frontiera orientale contro i miliziani dell'Isis per completare la rappresaglia per l'esecuzione del pilota giordano Muaz al Kassesbeh prigioniero dei jihadisti 16 Michele Giorgio La Giordania lancia all’attacco i suoi cacciabombardieri contro Mosul, la capitale dello Stato Islamico (Isis) in Iraq, dopo l’esecuzione compiuta dai jihadisti del suo pilota Muaz al Kassesbeh e non esclude la possibilità di impiegare truppe speciali di terra per operazioni contro lo Stato islamico. Questo almeno è quanto sostiene una fonte governativa anonima citata ieri dal quotidiano panarabo Asharq al Awsat. L’annuncio (non ufficiale) è giunto qualche ora dopo la notizia – data con un tweet dai Peshmerga curdi — di un violento raid aereo compiuto dai bombardieri giordani su al-Kesk, una località a ridosso di Mosul, in cui sarebbero rimasti uccisi 55 presunti membri dell’Isis, tra i quali un comandante militare Abu-Obida al Tunisi. Altre fonti parlano di 37 morti. Non è da escludere che tra le vittime ci siano anche civili e non solo jihadisti. Le centinaia di raid aerei compiuti dalla Coalizione arabo-occidentale guidata dagli Usa su Iraq e Siria negli ultimi mesi hanno fatto anche vittime innocenti. Ad esempio lo scorso 28 dicembre, ha riferito ieri una organizzazione umanitaria, circa 60 persone, per lo più civili tra cui minori, sono stati uccise nel nord della Siria, in una zona controllata dallo Stato islamico in attacchi compiuti dalla Coalizione. Non sono però queste vittime civili che stanno o starebbero inducendo alcuni Paesi arabi, come gli Emirati, a rinunciare alla campagna aerea anti-Isis. Le petromonarchie sono irritate dalla decisione di Barack Obama di dare spazio alla partecipazione dell’Iran agli attacchi contro lo Stato Islamico. Intanto Re Abdallah non toglie l’elmetto. Ieri ha visitato a Karak la famiglia del pilota arso vivo dall’Isis mentre, ha riferito la tv statale, alcuni caccia sorvolavano la zona di ritorno da un raid su un obiettivo non specificato, probabilmente quello riferito dai Peshmerga. Il sorvolo su Karak di ritorno dall’attacco in Iraq, è stato una sorta di risarcimento che Abdallah ha voluto dare al padre di Muaz al Kassesbeh, che due giorni fa aveva invocato una dura vendetta e definito «insufficiente» l’avvenuta impiccagione della kamikaze mancata Sajida Rishawi e del qaedista Ziad Karbouli. Asharq al Awsat non precisa dove le forze speciali giordane potrebbero essere impiegate contro lo Stato Islamico. Tuttavia tenendo presente che l’Isis non ha unità nel sud della Siria, al confine con la Giordania – dove invece sono attivi contro l’esercito governativo i qaedisti di al Nusra e gli islamisti radicali del Fronte Meridionale –, è plausible ipotizzare che un’eventuale azione di terra delle forze armate di Amman avverrà al confine con l’Iraq. Re Abdallah potrebbe presentarla alla sua opinione pubblica come un’operazione a difesa della frontiera orientale del paese. Lo Stato Islamico non sembra particolarmente scosso dalle intenzioni vere o presunte di re Abdallah e del suo governo. D’altronde da mesi subisce ogni giorno attacchi aerei della Coalizione ma continua a conservare il controllo di quasi tutto il vasto territorio tra Iraq e Siria che ha conquistato in pochi giorni la scorsa estate. Il califfo al Baghdadi non si scompone e i suoi uomini non tralasciano, anche durante i combattimenti, di produrre filmati propagandistici che, nella maggior parte dei casi, fanno gelare il sangue nelle vene di chi li guarda. Nell’ultimo diffuso in ordine di tempo, di taglio però più politico, compare una donna che potrebbe essere Hayat Boumeddiene, la moglie di Amedy Coulibaly, il francese musulmano responsabile il mese scorso dell’uccisione di quattro persone nel supermarket kosher di Parigi, prima di essere a sua volta ucciso dalla polizia. Il video si intitola “Blow up France 2″. La donna appare col volto coperto, in tuta mimetica, armata di kalashnikov e schierata accanto a un gruppo di altri guerriglieri col volto nascosto da passamontagna. Si vede poi un combattente dell’Isis che loda gli attacchi di Parigi al giornaleCharlie Hebdo e al supermercato e che inneggia a nuovi attentati. Per gli investigatori francesi quella donna potrebbe essere Hayat, apparentemente fuggita in Siria, passando per la Turchia, prima dell’azione compiuta dal marito a Parigi. 17 del 06/02/15, pag. 18 Nella Giordania in lutto l’ombra della guerra “Attacco di terra contro l’Is” Il dolore per il pilota ucciso sembra unire il paese dietro il sovrano Nelle strade la gente piange, ma teme il contagio del conflitto FABIO SCUTO DAL NOSTRO INVIATO AMMAN SFRECCIA nell’azzurro cielo giordano lo squadrone di caccia F-1-6in formazione d’attacco. Compie un ampio giro a bassa quota sul villaggio di Ayy, vicino alla città di Karak 120 chilometri a Sud della capitale, dove la grande tenda delle condoglianze della famiglia Kasasbeh è ancora affollata di divise, dignitari, ministri, donne, bambini e gente comune. Re Abdallah II è seduto a fianco a Sefi Kasasbeh, il padre del pilota bruciato vivo dai miliziani del “Califfato”, e indica col dito il cielo e l’omaggio che i piloti da guerra hanno voluto fare alla famiglia del loro compagno d’armi. Il volto di Muaz, il giovane pilota “martire”, è ovunque, in tv, sui manifesti per le strade, sulle prime dei giornali. Non si parla d’altro in tutto il regno. Di colpo questo giovane pilota è diventato il figlio di tutta la Giordania. Seduti fianco a fianco con la tradizionale kefiah rossa dei beduini del deserto, re Abdallah e Sefi parlano fitto fitto, la commozione di tutti i presenti è palpabile. Il Comando aereo giordano ha fatto sapere solo in serata che i caccia avevano colpito poco prima la città di Raqqa, in Siria, la capitale “de facto” del Califfato, esattamente dove lo scorso 24 dicembre era stato abbattuto l’ F-1-6 giordano. «Il sangue del martire Muaz al-Kasasbeh», aveva detto il sovrano in mattinata prima di salire su un pullmino e guidare personalmente dalla capitale fino a Karak, «non sarà inutile e la risposta giordana e del suo esercito sarà severa». Re Abdallah ha ben chiaro che il suo Paese sta per essere risucchiato dentro la nuova guerra del Medio Oriente, quella contro lo Stato islamico (Is): «La Giordania sarà dura perché questa organizzazione terroristica non solo ci combatte, ma lotta anche contro l'Islam e i suoi valori puri». Soprattutto perché il regno hashemita – lo dice la sua storia – ha sempre dovuto lottare per la sua sopravvivenza, dai tempi di Abdallah I, il capostipite, passando per Hussein, il padre dell’attuale re, e che seppe salvaguardare l’unità del regno facendo inseguire i feddayn palestinesi dalla sua Legione Araba nel settembre del 1970 e resistendo anche all’ondata del terrorismo negli anni Novanta. Oggi questo giovane sovrano, ha solo 53 anni, è chiamato al difficile compito di tenere unito e compatto il Paese per affrontare una sfida alla quale non è possibile dare un orizzonte temporale: la guerra al Califfato potrebbe durare ancora degli anni. Tutti i giornali giordani ieri mattina aprivano con la notizia che presto il re potrebbe ordinare una escalation militare terrestre, ordinando un'operazione «rapida e fulminante» contro i jihadisti. Medita anche di rivedere la sua strategia nel quadro della coalizione internazionale anti-Is guidata dagli Usa. Mohammad al-Momani, portavoce del governo di Amman, ha annunciato che il Paese intensificherà i suoi sforzi nel quadro della coalizione internazionale contro il Califfato. «Stiamo discutendo - ha detto - di una maggiore collaborazione nella coalizione per intensificare gli sforzi per fermare il terrorismo e farla finita con Daesh», l’acronimo arabo dell'Is. Inviare truppe speciali di terra è però un coinvolgimento diretto e ad alto rischio. I giordani che nelle strade invocano la guerra sono ancora travolti dallo shock e dalla rabbia; sono 18 più freddi gli strateghi militari. «In questa fase, le operazioni militari terrestri sembrano improbabili, ma le forze armate non esiteranno a far fronte a eventuali minacce che potrebbero sorgere ai nostri confini », spiega a Repubblica Reda Btoush, ex generale e vice presidente del Centro nazionale per la sicurezza e la gestione delle crisi. Gli attacchi aerei sono la scelta migliore per il momento, spiega il generale in pensione, «la guerra di terra è improbabile che avrà luogo oggi, ma in un prossimo futuro ci potranno essere operazioni straordinarie sul terreno in modo mirato contro obiettivi specifici nelle mani dell’Is». La tragica morte del giovane pilota sembra aver “riunito” le tante famiglie e tribù beduine in cui è sempre stata divisa la Giordania, e anche rinsaldato il rapporto di questo giovane sovrano con il suo popolo, sfilacciato e scostante finora. I suoi quindici anni di regno non sono stati facili e le critiche non sono mancate, anche a Corte sono circolati molti veleni. Abdallah non era destinato a diventare re. Il predestinato era il giovane Hamza, l’ultimogenito di Hussein, che all’epoca era troppo giovane per salire al trono. I rapporti fra Abdallah II, primogenito della seconda moglie di Hussein, e il fratellastro Hamza sono sempre stati molto tesi. Abdallah è diventato erede al trono – dopo una vita spesa in Gran Bretagna all’Accademia militare di Sandhurst, è capitano dei dragoni della regina Elisabetta – richiamato dal padre sul letto di morte. Re Hussein fece promettere al primogenito che avrebbe passato l’eredità del trono al fratellastro Hamza. Ma Abdallah nel 2004 tolse il titolo al fratellastro – a cui sono sempre andate le simpatie dell’uomo della strada - nominando erede al trono il suo primogenito Hussein. Sono stati anni difficili per il re, contestato per i suoi vestiti di Savile Row, i primi ministri cambiati in continuazione (15 in 16 anni di regno) e le riforme mai avviate. «Non conosce nemmeno bene la nostra lingua, parla l’arabo che insegnano agli stranieri», sosteneva la gente per la strada rimarcando ancor più le distanze con questo re “arrivato dall’estero”. Clamorosa nel 2010 fu la lettera firmata da 36 capi tribù che contestava lo stile di vita dei sovrani, paragonando quello sontuoso della regina a quello della rapace moglie dell’ex presidente tunisino Ben Ali. Mai nessuno prima aveva contestato pubblicamente un discendente diretto del Profeta. Adesso l’onda emotiva che si è rovesciata sulla Giordania sembra d’un colpo aver allontanato tutto questo. Il re-soldato piace ai giordani, ma il piccolo regno è preda di spinte che sembrano contrapposte, tra chi chiede maggiore adesione alla tradizione e chi invoca riforme moderne. E l’eco della guerra è lì, a meno di duecento chilometri. Del 5/2/2015, pag. 7 Balata: caccia ai “fuorilegge” Cisgiordania. Non tutti sono convinti che l'operazione delle forze speciali nel campo profughi alla periferia di Nablus abbia avuto come obiettivo soltanto la criminalità locale. Da alcune settimane la polizia e le unità di sicurezza dell'Anp attuano pesanti rastrellamenti, in particolare a Hebron e nel sud della Cisgiordania, Michele Giorgio Si è placato solo ieri pomeriggio il violento scontro a fuoco tra le forze speciali dell’Autorità nazionale palestinese e decine di giovani armati non meglio identificati dentro e fuori il campo profughi di Balata, alla periferia di Nablus, il più grande della Palestina. Un combattimento vero e proprio – è noto solo il bilancio ufficiale: 3 feriti gravi tra gli agenti — che 19 l’Anp ha descritto come l’esito di un’operazione contro “spacciatori di droga”. Ad un certo punto questi “fuorilegge” sarebbero stati in grado di respingere l’assalto e di bloccare la strada principale vicino al campo, costringendo le autorità a chiudere le scuole e gli uffici pubblici della zona. Per alcune ore è regnato il caos con tante famiglie barricate in casa. Il vice presidente della Camera di Commercio locale, Omar Hashim in serata ha reclamato azioni di forza per “mantenere la legge e l’ordine” a Nablus. Eppure non tutti sono convinti che l’operazione delle forze speciali abbia avuto come obiettivo solo la criminalità locale. Da alcune settimane la polizia e le unità di sicurezza dell’Anp hanno avviato pesanti rastrellamenti, in particolare a Hebron e nel sud della Cisgiordania, che non sembrano avere come obiettivo solo ladri e trafficanti. In non pochi casi tra i “criminali” sono finiti anche simpatizzanti veri e presunti di Hamas e di altre formazioni islamiste. Inoltre l’Anp sostiene di aver intensificato gli sforzi per individuare in Cisgiordania eventuali “affiliati” all’Isis. A inizio settimana i media locali avevano riferito del fermo di almeno 15 palestinesi che, secondo le indagini, avevano avviato contatti con l’Isis e di una donna di Gerusalemme Est, madre di due figli, che si sarebbe unita ai jihadisti a Raqqa (Siria). Notizie alle quali poi non sono seguite conferme ufficiali. E’ opinione di non pochi palestinesi che questo impegno contro l’Isis – che in effetti non esiste come organizzazione in Cisgiordania – sia volto principalmente a mostare la partecipazione (simbolica) dell’Anp alla campagna internazionale militare e di sicurezza contro lo Stato Islamico. Del 6/2/2015, pag. 12 I bambini vittime e carnefici dell’Isis RAPPORTO ONU SUGLI ABUSI DI MINORI DA PARTE DEI JIHADISTI: DISABILI COSTRETTI A LAVORARE, ALTRI RIDOTTI A KAMIKAZE Scudi umani e kamikaze, seviziati e vittime di abusi sessuali. Ogni cinque minuti un bambino muore a seguito di un atto violento. L’ultimo rapporto della Commissione per i diritti del bambino dell’Onu mette sotto la lente d’ingrandimento dodici Paesi. Il focus sull’Iraq che non usciva dal 1998 – non è stato prodotto durante l’occupazione americana – illustra la condizione dei minori nei territori controllati dall’Isis. Nella Baghdad sconvolta dalla guerra e dagli attentati, un gruppo di bambini gioca con armi finte riproducendo la terribile realtà che li circonda. Tutti apprezzano il gioco tranne Hassan, lui non gioca alla guerra, preferisce le macchinine a fucili e pistole. È un fotogramma del cortometraggio Hassan in Wonderland, vincitore del-Maazeni Film Festival di Paternò. La storia di Hassan è uguale a quella di tutti i bambini iracheni: sognano la normalità, ma vivono in uno Stato che è in guerra da ancor prima che nascessero. L’Isis uccide, tortura e violenta sistematicamente bambini, donne e minoranze. L’ultimo capitolo dell’orrore estremista lo scrive la Giordania che ha bombardato Mosul, uccidendo 55 membri dell’Isis, rappresaglia dopo le immagini dei miliziani dello Stato islamico che proiettano a Raqqa, in Siria, il video del pilota giordano mentre viene bruciato vivo per un pubblico di bambini. IL DOSSIER DI GINEVRA cita “molti casi di esecuzioni di massa di minori che vengono crocifissi, decapitati e sepolti vivi”. Le vittime sono yazidi o membri di comunità cristiane, ma anche sciiti e sunniti. “Abbiamo notizie di bambini, soprattutto bambini con ritardi mentali, utilizzati come attentatori suicidi, molto probabilmente senza che nemmeno loro lo possano capire”, ha spiegato Renate Winter membro del Comitato Onu. La strage di innocenti era stata denunciata già l’estate scorsa da Marzio Babille, responsabile Unicef per l’Iraq: “È un 20 calvario, abbiamo le prove di esecuzioni di bambini. Ci sono video in cui è possibile vederne di molto piccoli, circa otto anni o meno, addestrati per diventare bambini soldato”. La commissione evidenzia inoltre che i membri dell’Isis si sono resi responsabili di sistematiche violenze sessuali, rapimenti e riduzione in schiavitù di donne, quasi sempre minorenni. L’età minima per andare in sposa è 16 anni, e se un tutore lo autorizza anche prima. In aumento i matrimoni forzati, gli episodi di violenza domestica, le mutilazioni genitali, i delitti d’onore frutto del giudizio arbitrario del capofamiglia e le conversioni forzate. E se le ragazze si ribellano o presentano denuncia prima vengono allontanate da casa, poi subiscono violenze da parte della Polizia. Alle porte di Baghdad, nel luogo dove vengono ammassate le carcasse di auto utilizzate per gli attacchi suicidi un gruppo di bambini si ritrova per giocare alla guerra. Tutti tranne Hassan che rimane attratto dai resti di uno scuolabus. Gli urlano: “Dai vigliacco, vieni a giocare!” del 06/02/15, pag. 34 Domani si vota per rinnovare l’Assemblea di New Delhi, dove pulsa il cuore della nazione Autisti, fattorini e intellettuali tifano per “Keji”, l’uomo qualunque che armato di scopa promette una società più giusta e soprattutto onesta L’incantatore indiano RAIMONDO BULTRINI NEW DELHI BEN pochi tranne Arvind Kejriwal, l’indomito eroe dell’”uomo qualunque” che campeggia sui manifesti con una scopa in mano e un cappelletto da muratore, potevano predire ciò che la storia aveva in serbo per l’India. Siamo all’immediata vigilia del voto di domani per rinnovare l’Assemblea dello Stato di Delhi, un piccolo regno autonomo nella grande federazione del Continente, dove però pulsa il cuore politico della nazione da un miliardo e 200 milioni di anime. Attorno al Palazzo del Governo su Central Secretariat, dove siede l’uomo forte del momento, il premier Narendra Modi, sfilano le auto nere di ministri, sottosegretari e leader del partito di maggioranza Bjp votato alla bulgara appena otto mesi fa e oggi messo in serissima crisi dalla candidatura di Kejriwal proprio dove esercita il suo massimo potere. I Vip superano a sirene spiegate file di vetture bloccate già da innumerevoli comizi e cortei elettorali che fanno impazzire il traffico più di quanto già lo sia, tra passanti e motociclisti intossicati dai metalli nell’aria di una metropoli da 20 milioni di persone e un fiume di automezzi dagli scappamenti fumanti. A ogni angolo carovane motorizzate con le bandiere dell’India e i simboli dei partiti principali sfilano col ritmo martellante della musica hindi pop a tutto volume e gli slogan dei militanti. Indossano soprattutto i cappelli arancioni del Bjp e bianchi dell’Aam Admi Party fondato da Kejriwal, mentre il Congresso sembra, ancora una volta, travolto dagli eventi che lo hanno ridotto a un ruolo di risicata minoranza. Molti dei vecchi conoscenti di Delhi — autisti, fattorini, guidatori di risciò, guardie di sicurezza alle case dei ricchi, intellettuali che votavano il partito dei Gandhi tappandosi il naso — ci hanno confessato che sostenere Kejriwal come capo ministro dello Stato di Delhi è l’unica maniera di dimostrare a Modi «che i muscoli non bastano a conquistare il cuore della gente», come dice la scrittrice e giornalista di Outlook Saba Naqv. Nel cuore dei sostenitori più entusiasti raccolti attorno ai social network e nelle favelas dei suburbi urbani dove un anno fa Kejriwal autoridusse le bollette elettriche e fornì acqua 21 gratuita appena salito al potere dello Stato (salvo dimettersi 49 giorni dopo), c’è l’idea che la ramazza purificatrice salverà i poveri e gli oppressi della metropoli da un governo nazionale che fin dalle prime mosse ha fatto capire di stare dalla parte dei ricchi e dei potenti. Non solo. I musulmani da sempre ostili all’ortodosso Bjp potrebbero votare in massa per lui, così i cristiani e cattolici che hanno visto diverse chiese bruciare per mano dei fondamentalisti hindu, e le minoranze immigrate dal Nord povero e del Nord Est, maltrattate e vessate perfino per strada. È forse la prima guerra di classe di una “sinistra indigena”, come la descrive l’analista Satya Sivaraman, guidata da un uomo che si è definito apertamente “anarchico”, diversa da quella dei partiti marxisti tradizionali che ancora affiggono nelle loro sedi le foto di “stranieri” come Lenin, Marx e Mao, e ha per immagine il volto da uomo comune di “Keji”, il candidato premier di Delhi che vive in un appartamento in affitto, dorme per strada coi suoi fedelissimi e militanti per chiedere la firma delle leggi anticorruzione, o semplicemente le dimissioni di qualche poliziotto “beccato” a chiedere mazzette o abusare dei cittadini. Uno studente che per mantenersi all’università lavora in un call centre, danza per le strade del quartiere di Janakpuri a ritmo di una canzone di Bollywood riadattata che dice A saal Kejriwal, pressappoco «È l’anno di Kejriwal». Tutt’attorno alla scena dove si esibisce il loro “flash mob per la democrazia”, si alternano slum, grattacieli spettrali in attesa di inquilini e palazzine dei più benestanti, la base elettorale dell’aristocratico Bjp della classe medio alta e della borghesia imprenditoriale, principali beneficiarie delle politiche economiche avviate con il governo di Modi. Nessuno ne parla apertamente, ma l’idea che traspare dalla foga rivoluzionaria dei militanti è quella di una vera e propria guerra di classe, per un progetto di società quantomeno più giusta, dove chi svolge i lavori più umili possa avere dignità e una casa con l’acqua («possibilmente calda» ci dice un venditore di foglie del betel che voterà Kejriwal) senza pagare le bollette esose pretese dalle società concessionarie grazie al sostegno del governo locale e nazionale. Altro che la rivoluzione tecnocratica e liberista affidata a un condottiero pur di grande cipiglio e carisma come Modi, che si serve di grandi compagnie e poche famiglie per rilanciare l’India già devastata dal malgoverno del progressista Congresso dei Gandhi attraverso la stessa politica ultra capitalista. L’immagine solitaria ed elegante del neo premier con la barba ben curata sui pannelli delle carrozze della metropolitana, con lo sfondo arancione e il simbolo del loto del Bjp, fa da contrasto a quella di Kejriwal che si mischia tra la folla e abbraccia l’uomo qualunque, lo arringa con una sciarpa di lana in testa come quella dei portatori di risciò, promette cose concrete, servizi efficienti, e soprattutto onestà. Poco importano ora le polemiche sui presunti “finanziamenti illeciti” ricevuti dall’Aam Admi, e sulla scelta suicida di Kejriwal di dimettersi meno di due mesi dopo essere stato eletto proprio a Delhi senza aver portato avanti il suo programma. Di certo il voto non fermerà l’”onda Modi” che ha dato al premier la maggioranza assoluta da Nord a Sud. Ma potrebbe costituire una prima diga e cominciare a riscrivere la storia della democrazia bipolare nel grande continente. 22 INTERNI del 06/02/15, pag. 10 Frequenze tv, stretta del governo stop sconti a Mediaset e Rai Forza Italia: “È una ritorsione” L’emendamento al Milleproroghe costa alle aziende 50 milioni Gli azzurri contro il premier: “Ci fa pagare la rottura sul Nazareno” ALBERTO D’ARGENIO ROMA . Il governo interviene sul mondo della televisione ed è scontro frontale con Forza Italia. Ieri l’esecutivo ha depositato in commissione a Montecitorio un emendamento al Milleproroghe che avvia la riforma delle regole sulle frequenze della tv digitale che ha mandato su tutte le furie il centrodestra. Da Forza Italia arriva l’accusa a Renzi: è una «ritorsione» contro Berlusconi per aver fatto saltare il patto del Nazareno. Gli azzurri attaccano, sostengono che il nuovo testo farebbe spendere 50 milioni a Rai e Mediaset. Dopo la bagarre, l’emendamento viene accantonato e rinviato alla prossima settimana. La norma di fatto annulla il maxisconto per l’uso delle frequenze che l’Autorità per le comunicazioni (Agcom) aveva accordato lo scorso autunno alla tv pubblica e al Biscione. Il tutto ha inizio nel 2012, quando la legge Passera-Monti chiede all’Agcom di riformare il sistema. Nel 2013 l’importo complessivo versato dai broadcaster per l’uso delle frequenze del digitale terrestre è stato inferiore ai 50 milioni, coperto quasi interamente da Rai e Mediaset che hanno versato rispettivamente 26,2 milioni e 17,7 milioni. Lo scorso luglio la Commissione Ue aveva ammonito per iscritto il governo che non avrebbe chiuso la procedura d’infrazione contro la legge Gasparri se i canoni sulle frequenze avessero favorito gli ex duopolisti. Il ministero dello sviluppo, il 23 luglio e il 4 agosto, aveva mandato due lettere all’Agcom chiedendo di non fare favori ai due incumbent. Ma a settembre l’Autorità ha approvato il maxi sconto sulle frequenze, seppure con il voto contrario del suo presidente, Angelo Marcello Cardani. L’autorità ha deciso che le quote da pagare venivano legate alla quantità e alla qualità delle frequenze utilizzate, non ai fatturati delle emittenti. Mediaset, ad esempio, nel 2014 avrebbe dovuto versare 3 milioni per l’uso delle frequenze contro i 17,7 pagati l’anno precedente. Il governo - convinto che lo sconto avrebbe penalizzato le tv locali e danneggiato l’erario ha deciso di riformare il settore e togliere le competenze in materia all’Agcom. Prima ci ha provato con un emendamento alla Legge di Stabilità, che però è stato dichiarato inammissibile. Quindi il 29 dicembre con un decreto il ministero dello Sviluppo economico ha annullato la delibera dell’Agcom e ha stabilito che per l’affitto delle frequenze nel 2014 Rai e Mediaset intanto avrebbero dovuto versare un acconto pari al 40% di quanto pagato nel 2013, riservandosi in un secondo momento di completare la riforma, insieme al ministero delle Finanze, dei criteri per calcolare il canone e decidere l’importo finale. Così le due emittenti hanno versato l’acconto, Mediaset poco più di 7 milioni e la Rai una decina. Con l’emendamento al Milleproroghe ora il ministero dello Sviluppo avvia la riforma, che intende chiudere entro poche settimane e con la quale deciderà gli importi finali che i due ex duopolisti dovranno pagare per l’uso delle frequenze, cifra che comunque non sarà superiore a quanto versato nel 2013. Per questo ieri il sottosegretario Antonello Giacomelli 23 (Pd) ha respinto la tesi della ritorsione per la rottura del Nazareno. «Posso capire la tensione di questi giorni, ma suggerirei di attenersi ai fatti. L’emendamento riporta alla piena titolarità del governo la riforma delle norme sul canone delle frequenze che abbiamo annunciato già da agosto 2014». Del 5/2/2015, pag. 4 Tramonta il Nazareno, si litiga sulle frequenze tv Milleproroghe. Diritti, il governo batte cassa. Per i forzisti è una ritorsione Micaela Bongi IL conflitto d’interessi, quando l’interessato non è al governo, è un fianco scoperto. E lì nemici o ex amici che invece al governo ci stanno, possono infierire. I forzisti non sembrano avere dubbi. Quel che è accaduto nottetempo e precipitato nelle commissioni parlamentari bilancio e affari costituzionali, riunite per discutere il decreto milleproroghe, è chiaramente un attacco agli interessi del loro capo. Una ritorsione contro la messa in discussione — per non dire ancora la rottura definitiva, perché Berlusconi tanto definitivo non intendeva esserlo — del patto del Nazareno. Un avvertimento che va appunto a colpire Silvio Berlusconi, che ormai ha messo in secondo piano il suo partito, lì dove fa più male: le aziende. E lo fa attraverso una riformulazione da parte del governo di alcuni emendamenti parlamentari al milleproroghe, che in sostanza rimette nelle mani dello stesso governo la questione del pagamento dei diritti per l’uso delle frequenze tv in digitale e che porterà Rai e Mediaset a dover sborsare, il 30 giugno, i circa 40 milioni di euro che erano complessivamente stati «scontati» alle emittenti. La riformulazione degli emendamenti all’articolo 3 (per ora interamente accantonato dalla commissione, che altrimenti sarebbe stata bloccata dai forzisti) dice che «l’importo dei diritti amministrativi e dei contributi per i diritti d’uso delle frequenze televisive in tecnica digitale, dovuto dagli operatori di rete, è determinato con decreto del ministero dello Sviluppo economico in modo trasparente, proporzionato allo scopo, non discriminatorio ed obiettivo sulla base dell’ambito geografico del titolo autorizzato». Una formulazione che tra l’altro elenca i criteri (il modo «trasparente, proporzionato e non discriminatorio», appunto) indicati nella lettera che la Commissione europea aveva spedito all’Authority per le comunicazioni il 18 luglio scorso, contestando la bozza della delibera della stessa Agcom, approvata poi a fine settembre, sui criteri per la fissazione del canone per l’uso delle frequenze. Una delibera che aveva ridotto gli importi, perché il dovuto non era più calcolato sull’1% del fatturato dei broadcaster, ma trasferito sugli operatori di rete (Raiway e Ei Towers per Mediaset) legandolo alla quantità e alla qualità delle frequenze utilizzate e non ai fatturati. Una delibera già messa in discussione dal governo, che con un decreto del ministero dello sviluppo firmato dal sottosegretario alle comunicazioni Giacomelli, approvato il 29 dicembre e entrato in gazzetta ufficiale il 19 gennaio, era sì tornato al vecchio calcolo basato sull’1% del fatturato, ma stabilendo che dovesse essere pagato, entro il 31 gennaio, solo un acconto del 40% della somma versata nel 2013. In attesa della fissazione definitiva della somma da parte dello stesso ministero. Dunque, si rinviava la questione. Forza del patto del Nazareno? A sentire i forzisti, che legano la riformulazione dell’articolo 3 (che riporta l’ammontare della somma a quella versata nel 2013) proprio alle tensioni sul patto, sì. Insomma, se ne potrebbe dedurre che 24 nell’accordo entrassero effettivamente anche questioni che andavano al di là delle riforme. In ogni caso a Arcore si mastica amaro tantopiù perché sembra anche in arrivo, con l’accordo di maggioranza sul ddl anticorruzione, l’estensione dell’area di punibilità per il falso in bilancio. Un uno più uno che Berlusconi leggerebbe proprio come «ritorsione» di Renzi. Se non, piuttosto, come un affrancamento del premier dall’ingombrante socio, una volta ottenuto ciò che serviva. Secondo il sottosegretario Giacomelli, il «Patto» non c’entra, nel senso che i forzisti sono certo nervosi, ma è meglio «tenersi ai fatti e non agli stati d’animo», perché già ad agosto scorso era stata annunciata una riforma del canone delle frequenze. Quel che ora accadrà si vedrà la prossima settimana. L’articolo 3 sarà votato per ultimo, per mandare avanti questioni meno spinose, ma «lo approveremo», assicura il capogruppo del Pd in commissione bilancio, Maino Marchi. Ma se i deputati che avevano in origine proposto gli emendamenti dovessero rifiutare la riformulazione, sarà il governo a dover assumere in proprio la misura. E i forzisti si arrabbieranno ancora di più. Del 5/2/2015, pag. 4 E ora patto anti-corruzione Giustizia. Il governo annuncia un accordo di maggioranza: eliminate le soglie sulla punibilità del falso in bilancio. Prescrizione rinviata alle camere Eleonora Martini Con la fine del patto del Nazareno e l’ovazione bipartisan alle parole del nuovo presidente Sergio Mattarella, che ha definito la lotta alla corruzione una «priorità assoluta», l’empasse sul reato più seguito dai berluscones, che tanto ha diviso gli alleati di governo e portato scompiglio pure in casa democratica, sembra quasi superato. Almeno stando all’annuncio dato congiuntamente dal Guardasigilli Andrea Orlando (Pd) e dal viceministro Enrico Costa (Ncd) di un accordo trovato all’interno della maggioranza — dopo un vertice a dieci durato un’ora e mezza in via Arenula, presenti i responsabili Giustizia del Pd e di Ncd, i capogruppi delle commissioni Giustizia di Camera e Senato, e esponenti di Scelta civica — sul testo di legge anti-corruzione, al chiodo da tempo in commissione Giustizia di Palazzo Madama. «Un percorso condiviso da tutti», ha annunciato entusiasta Orlando. Tra i più importanti punti dell’intesa, che entro mercoledì prossimo sarà tradotta in un emendamento governativo da votare in commissione, c’è l’eliminazione delle soglie, volute dal centrodestra e da Confindustria, che delimitavano l’area di punibilità del falso in bilancio, reato che ora dovrebbe diventare sempre perseguibile d’ufficio mentre l’emendamento governativo presentato prima di Natale prevedeva la sola procedibilità a querela per le società non quotate. Sanzioni penali dunque anche se in bilancio il falso è al di sotto del 5% del fatturato, fermo restando – spiegano al ministero – che si debba tenere conto della rilevanza del fatto e della dimensione dell’impresa, «ovviamente non quotata in borsa». E’ prevista poi, come chiedevano in tanti, nel mondo della giustizia, «un’armonizzazione delle sanzioni per i reati di corruzione propria, induzione e messa a libro paga, quindi con riflessi anche sulle pene accessorie». E uno sconto di pena per chi collabora, come proponeva l’Anm che suggeriva di usare gli stessi strumenti della lotta alle mafie. Le sanzioni penali previste per il pubblico ufficiale sono estese anche all’incaricato di pubblico servizio. Sulla prescrizione, invece, il governo si prende una pausa di riflessione: «Sarà approntata integralmente dalla commissione Giustizia della Camera insieme alle misure sul processo penale», ha spiegato Orlando. Durante la prima settimana di dicembre, invece, sull’onda 25 emotiva della «Mafia capitale», mentre Renzi sbeffeggiava gli avvocati con un «scordatevi la prescrizione come carta difensiva», l’esecutivo aveva annunciato un ddl che allungava la prescrizione per la corruzione fino a 12 anni e mezzo, più le sospensioni. Il ministro ha auspicato però che l’iter parlamentare dei due provvedimenti – anticorruzione e prescrizione — prosegua comunque di pari passo. Alla Camera, scade giovedì prossimo il termine per presentare gli emendamenti. E dopo l’accordo di maggioranza, nessuna paura che il testo si fermi al Senato: «Non mi pare che ci siano barriere ideologiche che ci dividono – ha commentato Costa — ma aspetti tecnici con più soluzioni». Tra i membri della commissione Giustizia di Palazzo Madama c’è invece chi plaude vivamente, come il capogruppo del Pd Verini o il senatore Lumia, entrambi presenti al vertice, e chi invece nicchia. L’ex magistrato Felice Casson, per esempio, attende di vedere il testo: «In commissione abbiamo presentato decine di emendamenti al Testo unico del relatore D’Ascola – ha detto al manifesto – perché tra noi e il Ncd c’è una visione completamente diversa sulle norme anticorruzione». Dal fronte opposto, cauto anche il presidente della commissione, il berlusconiano Nitto Palma che si augura di poter andare avanti con l’iter «troppe volte bloccato da iniziative governative spesso confuse o contraddittorie». Quando poi il provvedimento arriverà in Aula, «la corsia preferenziale c’è già e permetterà di arrivare presto alla meta e un’approvazione definitiva del testo», ha assicurato Orlando confidando sulla collaborazione di Pietro Grasso, autore del ddl base su cui ha lavorato D’Ascola, presentato due anni fa prima di diventare presidente del Senato. Anche Sel attende le carte oltre agli annunci, mentre i grillini, cge mercoledì al avevano lanciato la proposta di calendarizzare la discussione, incassano l’annuncio come una propria vittoria. E l’Anm: Non tutte le nostre indicazioni sono state accolte», ma «la strada è giusta», ora «si proceda con più coraggio». Del 6/2/2015, pag. 8 Operazione Scelta civica, Renzi amplia il Pd Già oggi i senatori e parte dei deputati del partito fondato da Monti potrebbero aderire ai dem Pace fatta anche con Alfano. Ora il leader lavora a nuovi interventi su Rai e liberalizzazioni ROMA Una tempesta in un bicchiere d’acqua. È durato poco più di tre giorni il malessere politico del Nuovo centrodestra nei confronti del governo. Due giorni fa Angelino Alfano e Matteo Renzi si sono visti, «l’incontro è andato molto bene», ha detto ieri mattina il primo, insomma pace fatta, se mai c’è stata guerra, e incomprensioni archiviate. Eppure in Parlamento l’eco di quanto successo con l’elezione di Sergio Mattarella non si spegne. Debora Serracchiani, vicesegretario dem, auspica maggioranze più ampie facendo appello al senso di «responsabilità» di tutti i parlamentari. Un appello frutto della rottura degli accordi con Berlusconi, ma che ovviamente non sta bene proprio al partito di Alfano: ci siamo noi, la maggioranza regge e non ha bisogno di altre stampelle è la replica di Maurizio Lupi: «Di responsabili il governo Berlusconi è morto». Ma lo schema della maggioranza attuale potrebbe anche cambiare in modo strutturale, almeno nel medio periodo. Ieri sera lo stesso premier ha compiuto un’ulteriore mossa. Due giorni fa aveva in qualche modo dileggiato il contributo di Scelta civica («esiste ancora?»), ieri ha chiarito che forse non si trattava solo di ironia, esprimendo apprezzamento «per il contributo leale arrivato finora», ma soprattutto facendo presagire uno schema in cui il Pd 26 ingloba quello che resta del partito di Mario Monti: «La condivisione può individuare un approdo comune e un comune cammino per il cambiamento dell’Italia». Già oggi i senatori di Sc, e una frazione dei deputati, potrebbero addirittura annunciare l’adesione ai dem. Insomma la situazione politica è più che mai fluida, mentre qualcuno pronostica persino defezioni azzurre verso il Pd. In ogni caso nelle prossime settimane il governo si troverà ad affrontare una situazione nuova: la possibile saldatura fra minoranza dem, che fra le altre cose vorrebbe modificare la legge elettorale («blindata» per il premier), e l’insoddisfazione crescente in FI. E mentre Sel e minoranza Pd chiedono che il patto del Nazareno sia d’ora innanzi sostituito dal metodo Mattarella, resta da capire quale sarà l’atteggiamento futuro dell’ex Cavaliere. Assaggi di queste tensioni si sono scaricati ieri sull’intenzione del governo di riformulare i diritti che pagano Rai e Mediaset allo Stato per le frequenze, sui contenuti dei futuri decreti del Jobs Act, sul piano dell’esecutivo per cambiare le norme sulle banche popolari. Mentre sia Renzi che i suoi ministri, a cominciare da Federica Guidi, stanno programmando nuovi provvedimenti: ieri la titolare dello Sviluppo economico ha annunciato un’imminente intervento in tema di liberalizzazioni (farmaci da banco, trasporti pubblici, energia), mentre trapelano alcune indiscrezioni del piano del premier per la Rai (un ad con pieni poteri al posto dell’attuale diarchia, 5 consiglieri e non più 9, sottratti alla nomina parlamentare). Marco Galluzzo del 06/02/15, pag. 13 Caccia ai rinforzi a Palazzo Madama gli ex M5S aprono “Matteo, parliamo” GIOVANNA CASADIO ROMA . Cambia tutto. Per ridisegnare la nuova mappa dei numeri in Senato ci vuole calma e gesso. Renzi se ne sta occupando personalmente, affidando a Luca Lotti e a Maria Elena Boschi il compito di sondare. Ma poi a tirare la rete ci pensa lui, tanto che sta convincendo i 6 senatori di Scelta civica. A breve dovrebbero entrare come indipendenti nel gruppo del Pd. «D’altra parte noi siamo più renziani di molti dem...», ammette Pietro Ichino che viene dal Pd e che si convinse nelle politiche del 2013 a tentare l’avventura con Mario Monti. Monti ora dovrebbe andare nel gruppo delle Autonomie. E pure Andrea Olivero e i “suoi” 3 senatori potrebbero approdare nelle file dem. Da un lato quindi il premier vuole consolidare la maggioranza che ha già sulla carta per controllarla meglio, ma dall’altro il lavorio è di conquistare pattuglie di senatori dell’opposizione a cominciare dagli ex grillini. Alla Camera i fuoriusciti 5Stelle si sono aggregati in un unico gruppo, al Senato vanno in ordine sparso ma 6-7 sembrano disponibili a un appoggio volta per volta. Adesso che il Patto del Nazareno è rotto, bisogna fidarsi dell’ottimismo della volontà. Perché la ragione vacilla di fronte a una maggioranza ballerina e messa a rischio dai dissidenti dem e dalle temute defezioni alfaniane. Il disfacimento in atto nel centrodestra è una grande incognita: né Fi, né Ncd sono più nelle mani dei loro leader. Luigi Zanda, il capogruppo dem a Palazzo Madama, non nasconde la difficoltà: «Sono allenato ai numeri corti e per fortuna la mia famiglia mi ha donato una buona tenuta di nervi...». E’ però convinto che alla fine sarà convenienza degli stessi forzisti non tirare la corda e tornare sui loro passi dal momento che le riforme costituzionale e elettorale - sottolinea - sono per nove decimi a buon punto. Difficilmente Renzi riuscirà ad “acquistare” alle ragioni del 27 governo tutti i 16 senatori fuoriusciti del M5Stelle oggi nel Misto. Hanno messo in piedi un coordinamento che ha funzionato sull’Italicum (per votare il “no”) ma che si è sbriciolato sulla scelta di Mattarella. «Al governo però basta una cosa: rendere più stabile il supporto dei transfughi», ragiona il senatore lettiano Francesco Russo. A prendere in considerazione il dialogo c’è la pattuglia dei 6 o 7. Adele Gambaro, una delle prime a lasciare Grillo in dissenso con la politica dell’arroccamento, è disponibile: «Se le riforme ci sembrano buone non vedo perché no... ma ci devono sembrare buone». Luis Alberto Orellana circoscrive l’ambito: «Nei 5Stelle ho lamentato la mancanza di dialogo. Quindi la mia disponibilità c’è, però si vedrà volta per volta ». Martedì prossimo il coordinamento dei transfughi grillini dovrebbe convocarsi. Nel Pd poi c’è la grossa incognita dei dissidenti. La navigazione potrebbe essere particolarmente difficile su molti provvedimenti - delega fiscale, lavoro, Pubblica amministrazione oltre che per le riforme istituzionali. Il “soccorso azzurro” dei berlusconiani - che fu decisivo per l’Italicum, la nuova legge elettorale - è perduto. «La genialità mostrata da Renzi per l’elezione del nuovo presidente della Repubblica, ovvero di tessere l’unità del partito, diventa adesso una genialità obbligata ». L’osservazione è di Walter Tocci, uno dei senatori dissidenti più rigorosi, che votò il Jobs Act per disciplina di partito e subito dopo si dimise. In pratica, è il suggerimento, Renzi ascolti i dissidenti dem sulla riforma costituzionale che tornerà tra qualche settimana al Senato. Anche se la vera partita resta l’Italicum che va in terza lettura alla Camera, dove la maggioranza è abbondante, ma c’è il voto segreto. La tela politica insomma va tessuta bene tra le due Camere. La senatrice Laura Puppato parla di responsabilità però avverte: «La tranquillità della maggioranza non è né banale, né scontata. I numeri sono così risicati che se non c’è il soccorso di vari colori, le garanzie non sono sufficienti ». Puppato vede le elezioni più vicine. «Che il Pd si sia smarcato dal Patto del Nazareno è un bene, perché così sono finite le illazioni di inciucio. Però la realtà da non nascondersi è che la barca ondeggia qui al Senato ». I dissidenti dem che si misero di traverso sull’Italicum, approvato grazie a Forza Italia, dichiarano senso di responsabilità. Vannino Chiti però richiama: «Le riforme vanno fatte bene e perciò bisogna correggere sia quella costituzionale sia l’Italicum, con o senza Fi». Il Senato sarà un ring. Del 6/2/2015, pag. 5 Toh, un’idea nuova: il Ministero del Sud GENERATO DALLA CASSA PER IL MEZZOGIORNO, POI SEPOLTO SOTTO LE CENERI DI TANGENTOPOLI, ADESSO POTREBBE RITORNARE RIMPOLPATO DI FONDI EUROPEI FINO AD ORA GESTITI DA DELRIO Toh, chi si rivede! Nientemeno che il Ministero per il Mezzogiorno. Sepolto sotto le macerie di Tangentopoli è ricomparso all’improvviso, come un fantasma della storia patria, per una questione di poltrone e poltroncine. Matteo Renzi deve sostituire al ministro degli Affari Regionali Carmela Lanzetta, che ha licenziato due settimane fa. Alla Lanzetta aveva dato un portafoglio di niente. Diciamoci la verità: più che un ministero era un effetto ottico, un modo per allungare una sedia e fare ciao. OGGI, invece, si vorrebbe far divenire quell’ufficio preziosa merce di scambio, mezzo utile per far defluire potere dalle mani di chi 28 non è più nel primo livello del giglio magico. La gestione del flusso dei fondi europei che sono destinati alle aree sottosviluppate del Paese (i cui quattro quinti si trovano a Sud) è l’incarico a cui, con una fortuna altalenante, si è finora cimentato Graziano Delrio, sottosegretario alla presidenza. Nel piccolo intervento di chirurgia plastica Renzi dovrebbe alleggerirgli l’incombenza e, lavorando per sottrazione, ridurlo a semplice fante. Da qui l’invenzione: un bel Ministero per il Mezzogiorno a cui spostare risorse e competenze, come ai bei tempi. In tema di revival democristiano l’idea è veramente geniale, perchè ci riporta indietro ai Remo Gaspari e Ciriaco De Mita, a Riccardo Misasi e Carlo Donat Cattin, Salverino De Vito e Giovanni Goria. Il Pantheon dello scudocrociato che questo Parlamento, per più di un terzo sotto la soglia dei quarant’anni, ha letto (se ha letto) sui libri di storia contemporanea. La perfezione è raggiunta perchè dal novero delle (pochissime) cose buone fatte dal governo di Mario Monti vi era il Ministero per la Coesione territoriale, il termine esatto per indicare che non esiste sviluppo senza equità, non esiste Nord senza Sud, non c’è l’Italia senza gli italiani. Quel ministero è stato retto egregiamente da Fabrizio Barca, un tecnico che nella sua vita non ha fatto altro che costruire mappe, monitorare la quantità e la qualità dei flussi. Invece niente. Saltando all’indietro nel tempo, Barca è andato sott ’ acqua, e il Mezzogiorno – inteso come Ministero – è tornato in auge. Matteo Salvini se l’è cavata con una battuta non propriamente sapida, come invece il suo lessico imporrebbe, stante forse il desiderio di penetrare nel cuore dei sudisti, ora amiconi ed ex terroni sudici: “Se ne sentiva proprio la necessità!”, ha ironizzato. Romano Prodi, la cui biografia è legata alla Cassa per il Mezzogiorno, altra ferraglia storica, ha subito puntualizzato: “Se non ha coordinamento (cioè la gestione del portafogli) diventa un dicastero di serie B. In caso contrario è estremamente utile”. Dire che del Mezzogiorno a nessuno frega più nulla è poco. È stata azzerata la questione meridionale, tema delegato oramai a saggisti (uno su tutti: Pino Aprile), e definitivamente statuita la inutilità di approfondire il tema del sottosviluppo. C’è una data utile che segna il crac politico: il terremoto dell’Irpinia (23 novembre 1980). L’Italia assiste a un flusso possente di danaro (la cifra non è conosciuta nella sua esattezza ma per dimensioni è biblica, più di sessantamila miliardi di lire) che invece di restituire decoro e sviluppo nei territori martoriati risulta una passerella macroscopica di devianze e abusi. INIZIANO le campagne giornalistiche (ricordate l’Irpiniagate?) e su quelle salta la nascente Lega di Umberto Bossi: il primo manifesto leghista raffigura il Nord, nelle sembianze di una mucca che viene munta e un Sud che ingordo beve. Lo scandalo politico che ne segue, insieme alle rendite di posizione di singoli califfati meridionali, rende defunta la questione. Viene cancellato il Sud e piuttosto disonorati i meridionali. In un bel libro (Leghisti & sudisti, Laterza) Isaia Sales, uno dei più lucidi meridionalisti, spiega come il carburante leghista è frutto tipico del malgoverno a conduzione Dc-Psi. Nel tempo che segue, una sciagurata legge, la 488 del 1992, produce altri sprechi. IMMAGINATA per dare un aiuto alle imprese, diviene una strabiliante cassa a cui migliaia di questuanti chiedono di partecipare. Decine di inchieste, decine di libri raccontano lo strazio di soldi buttati a mare, dilapidati in un arraffa-arraffa. Aree industriali brulle, capannoni vuoti, falsificazioni di fatture, arresti e processi. Pier Luigi Bersani, ministro dell’Industria del primo governo Prodi, decide giustamente di mandarla al macero. Eppure la Cassa per il Mezzogiorno, il fortino economico da cui poi discenderà il Ministero per il Mezzogiorno, è stata un’idea saggia, iniziativa deliberata da De Gasperi nel 1950. L’Italia del dopoguerra non riusciva ad essere unita senza dare un po ’ di pane a intere popolazioni affamate. E tra il 1960 e il 1970 formidabili opere di ricostruzione territoriale (acquedotti, strade provinciali, i primi consorzi industriali) sono servite a tenere in vita il Sud, spolpato da ogni suo avere, e costretto, negli anni della rivoluzione industriale, a fare la valigia per Milano o per Torino. 29 LEGALITA’DEMOCRATICA Del 6/2/2015, pag. 16 Expo, dal catering ai servizi rilievi per 8 appalti su 10 Ma Cantone: ce la faremo Le infiltrazioni della ‘ndrangheta. Blindatura dei contratti ROMA Gestione del catering, servizi di vigilanza, allestimento dei padiglioni, lavori di pulizia e manutenzione: l’80 per cento delle procedure di appalto dell’Expo di Milano superiori a 40 mila euro ha subito «rilievi». E per quattro gare è stato sollecitato il commissariamento. In due casi i decreti sono già stati emessi, gli altri due sono in attesa di decisione. A tre mesi dall’avvio dell’Esposizione, l’Autorità nazionale anticorruzione traccia il bilancio dell’attività di controllo avviata nel giugno scorso. La relazione racconta quanto accaduto in questi mesi, dopo gli arresti ordinati dai giudici milanesi che avevano coinvolto alcuni manager chiamati a gestire l’evento e fatto emergere dubbi sulla possibilità di far svolgere la manifestazione che porterà in Lombardia milioni di visitatori. C’è ancora molto da fare, ma il presidente Raffaele Cantone è sicuro: «Ce la faremo. La collaborazione con i vertici di Expo sta funzionando, l’importante è recepire in fretta le indicazioni che arrivano dal nostro ufficio». Non sono le uniche. Altre misure sono state prese per contrastare le infiltrazioni mafiose che, come risulta dal bilancio del Comitato di sorveglianza delle Grandi Opere del Viminale, «sono soprattutto di matrice ‘ndranghetista». Bandi e convenzioni Sotto la lente degli specialisti guidati da Cantone sono finite «93 procedure tra bandi, accordi transattivi, varianti, contratti di sponsorizzazione, convenzioni, nomina di commissioni giudicatrici, aggiudicazioni e controlli a campione», oltre a «10 casi sui quali sono stati chiesti chiarimenti alla Stazione Appaltante». I «rilievi di legittimità o opportunità hanno riguardato 72 pratiche» e finora Expo 2015 ha già recepito le indicazioni in 17 casi modificando gli atti di gara. Le contestazioni riguardano soprattutto la stesura dei bandi, ma in alcuni casi sono risultate irregolari anche le procedure utilizzate per l’affidamento dei servizi, quelle relative ai contratti di sponsorizzazione, oppure delle forniture. E così si è deciso di intervenire chiedendo modifiche urgenti in modo da ottenere contratti «blindati» rispetto alla possibilità che l’affidamento dell’appalto sia avvenuto in cambio di soldi o favori. Non a caso nella relazione si parla esplicitamente di un’attività di controllo che aveva quattro obiettivi: «Affinare la trasparenza e l’ accountability delle procedure; aumentare la fiducia da parte degli investitori e di tutti gli attori e portatori di interesse; identificare le potenziali cause e le eventuali manifestazioni della corruzione in un’ottica di prevenzione e contrasto; rafforzare il know-how in materia di prevenzione e contrasto alla corruzione». L’incognita «varianti» Cantone appare fiducioso, ma non nasconde i problemi legati alle varianti relative ad appalti già approvati prima che la sua Autorità entrasse in funzione e invece risultati irregolari. «Ci sono ancora incognite relative a Piastra e a Palazzo Italia, stiamo lavorando sulle transazioni e attendiamo il parere dell’avvocatura dello Stato. Bisogna trovare assolutamente una soluzione. I lavori stanno comunque andando avanti e dunque siamo 30 fiduciosi sul fatto che alla fine riusciremo a raggiungere il risultato risolvendo tutti i problemi». In realtà il vero problema secondo il presidente dell’Autorità anticorruzione riguarda «la trasparenza. Lo abbiamo detto e ripetuto: abbiamo fatto grandi passi in avanti, ma ci sono ancora delle criticità che devono essere affrontate». Di tutto questo si sta occupando il pool di specialisti della Guardia di Finanza che collabora con Cantone verificando ogni documento e intervenendo anche sui contratti di valore inferiore ai 40 mila euro che potrebbero però nascondere accordi illeciti. I controlli Antimafia Verifiche che spesso si intrecciano con quelle disposte dal ministero dell’Interno per impedire alle cosche mafiose di ottenere lavori e incarichi. Un tentativo non sempre riuscito visto che, come confermano al Comitato di controllo del Viminale, «fino al 31 dicembre 2014, sono state adottate 66 informazioni interdittive antimafia relative a 46 imprese, coinvolte a vario titolo in opere essenziali o connesse allo svolgimento di Expo 2015». I contratti «superano» il valore di 120 milioni di euro e questo dato basta a fornire la dimensione dell’affare che ha interessato la criminalità organizzata. Questo fiume di soldi comprende anche i cosiddetti contratti «sotto-soglia», cioè di valore inferiore ai 150 mila euro, che secondo la normativa non dovrebbero essere assoggettati a controlli antimafia e rappresentano il 30 per cento del totale. In particolare sono subappalti o contratti laterali nei quali la ‘ndrangheta sembra essere riuscita a ottenere la fetta più consistente. Del 6/2/2015, pag. 16 I pm: false attestazioni alle aziende per vincere le gare Il trucco per ingigantire le proprie capacità produttive. Documenti fittizi per almeno 4 opere MILANO Non si «dopano» solo gli atleti per gareggiare alle Olimpiadi: ci sono anche le aziende che con fittizie operazioni garantite da false attestazioni, rese da apposite società di valutazione delegate dalla ex Authority degli appalti pubblici, «dopano» le proprie reali capacità produttive per gareggiare dove non avrebbero i requisiti e vincere le «Olimpiadi» di Expo 2015. Quattro delle gare dell’esposizione universale al via dal 1° maggio hanno visto segmenti di lavori vinti da imprese che, come anabolizzante per gonfiare i muscoli delle proprie apparenti capacità imprenditoriali (e quindi i punteggi e le chance di partecipare alle gare e vincerle), utilizzavano una particolare «droga»: acquisizioni di altrui rami d’azienda del tutto fittizie, ma formalmente attestate dalle certificazioni rilasciate da talune «Soa». Cosa sono le «Soa»? Sono apposite società di certificazione, autorizzate a operare dalla disciolta Asvp-Authority di vigilanza per gli appalti pubblici, che da un lato sono tenute alla terzietà in quanto organismi in parte pubblici, ma dall’altro sono votate alla clientela privata in quanto «spa». A scoperchiare il calderone delle fittizie attestazioni di acquisizioni di rami d’azienda finalizzate al conseguimento di appalti pubblici altrimenti irraggiungibili è stata la Procura di Roma, da dove l’aggiunto Nello Rossi e il pm Giancarlo Cirielli hanno trasmesso alle Procure di mezza Italia gli atti relativi a imprese che hanno partecipato ad appalti pubblici con il «doping» di un know how esistente solo sulla carta. Tra essi anche quattro appalti di Expo 2015, di cui ieri, nonostante la particolare discrezione usualmente 31 raccomandata sulle indagini Expo dal procuratore milanese Edmondo Bruti Liberati che le coordina con i pm Luigi Orsi e Antonio D’Alessio, si è comprensibilmente subito appresa in Expo l’esibizione di documenti richiesti dalla GdF in un fascicolo sinora contro ignoti per le ipotesi di reato di falso in atto pubblico, truffa, e turbativa d’asta. Al vaglio sono le gare per l’impiantistica del lotto 1 del Campo base logistico (cittadella con centinaia di posti letto, mense e lavanderia per gli operai); parte dei lavori della Darsena; un canale delle Vie d’Acqua; e la Passerella tra Expo e la Cascina Merlata sede delle delegazioni nel semestre. Luigi Ferrarella Del 6/2/2015, pag. 9 Tritolo e veleni: i misteri delle navi e la ’ndrangheta NUOVO SEQUESTRO DI ESPLOSIVO. “PROVIENE DALLA LAURA C”. IN MARE ANCHE RIFIUTI TOSSICI Ci sono navi e navi in Calabria. Quelle piene di rifiuti radioattivi e quelle con stive cariche di tonnellate di esplosivo. Le prime misteriosamente sono scomparse mentre le altre sono difficili da mettere in sicurezza e restano nella piena disponibilità delle famiglie mafiose. Sono navi che dormono sui fondali calabresi e sulle quali ci guadagna la ’ndrangheta che, a largo delle coste ioniche, ha un vero e proprio supermarket del tritolo C 4. Un quantitativo enorme di esplosivo è già stato recuperato e nascosto dalle cosche. Gran parte però è ancora lì, dentro la stiva della “Laura C”, la nave militare silurata e affondata nel 1943 con 7 tonnellate di tnt. Scoperta nel 1970, quella nave è stata abbandonata fino a metà degli anni novanta quando è stata fatta una prima bonifica per impedire, solo in parte, l’accesso alla stiva. Cosa che non riuscì, tanto che nel 2002 con l’operazione “Bumma”, coordinata dal procuratore aggiunto Nicola Gratteri, si scoprì che la ‘ndrangheta, e in particolare la cosca Iamonte, riusciva a rifornirsi di tritolo proprio a largo di Melito Porto Salvo. E da qui che si deve partire per capire l’allarme lanciato ieri dal procuratore Federico Cafiero De Raho: “Ancora una volta la ‘ Laura C ’ si conferma il supermarket di tritolo per la ’ndrangheta”. EPPURE DA DUE ANNI sono iniziate le operazioni di bonifica della nave che dovevano prevedere il recupero di tutto l’esplosivo, o almeno di quella parte di cui la ’ndrangheta ancora non si è impossessata. “Con la prefettura – aggiunge il magistrato – si sta tentando di fare in modo che non sia più raggiungibile questo tritolo. Appena qualche mese fa la Marina militare è intervenuta con propri uomini e ha tolto circa 80 chili. Un quantitativo notevole ma il resto non è riuscito a recuperarlo per le precarie condizioni del luogo e della nave. È evidente che la ‘ Laura C’continua a essere, per le tonnellate di tritolo che contiene ancora, una fonte di approvvigionamento della ‘ ndrangheta”. Ieri i carabinieri hanno eseguito un blitz contro la cosca Franco a cui sono stati sequestrati 5 detonatori e dieci formelle di tritolo che gli accertamenti hanno stabilito essere stato trafugato nella stiva della ‘ Laura C’. Così come quello che, nei mesi scorsi, la Procura di Reggio ha inviato ai pm di Caltanissetta che si occupano delle stragi di Capaci e via D’Amelio. Su questo, però, Cafiero non si sbilancia: “Sono accertamenti che la Procura di Caltanissetta ha fatto ma rientrano in un’altra indagine”. Di sicuro c’è che le famiglie mafiose calabresi “in tante altre occasioni hanno 32 utilizzato il tritolo di quella nave”. Come nell’ottobre 2004 quando alcuni panetti di tritolo sono stati trovato in un bagno di Palazzo San Giorgio, sede del Comune all’epoca guidato da Scopelliti. Tre informative del Sismi, firmate da Marco Mancini, avevano rivelato il luogo esatto dove la ‘ ndrangheta aveva lasciato il tritolo. Nonostante sembrerebbe siano stati pagati circa 200 mila euro per quell’informazione, a distanza di 11 anni non si è riusciti a capire quale cosca avrebbe organizzato l’attentato a Scopelliti negli stessi giorni in cui l’Italia ospitava il presidente degli Stati Uniti George Bush, a tre anni dall’attacco alle torri gemelle e in un clima che aveva, a prescindere, il sapore di azioni terroristiche. NON C’È SOLO la “Laura C” nei fondali del mare calabrese ma anche le cosiddette “navi dei veleni” che la ‘ ndrangheta avrebbe utilizzato per smaltire rifiuti tossici e radioattivi. Navi affondate o spiaggiate sulle quali non si è mai fatta chiarezza. Tra gli atti desecretati nei mesi scorsi dalla Commissione parlamentare antimafia, c’è pure l’audizione del procuratore di Paola Bruno Giordano che ha indagato sulle rivelazioni del pentito Francesco Fonti circa l’affondamento della Cunsky, il relitto di Centraro, e della più famosa “Jolly Rosso”. “La ‘ ndrangheta – haaffermatoilmagistrato–èsolol’anelloterminale della vicenda: i ‘soldati’, gli esecutori materiali di un affondamento. Si tratta di situazioni gestite ad altissimilivelli”. Rifiutitossicieradioattiviche, senon affondati con le navi, sarebbero stati interrati, come riporta una nota trasmessa nel 1995 dai servizi al Ministro dell’Interno, “nei tubi del metanodotto o in discariche abusive nella provincia di Reggio Calabria”. Un traffico, gestito dalle famiglie De Stefano, Morabito, PiromallieTegano, che “comprenderebbe – scriveva dell’ex Sisde – anche il contrabbando di uranio rosso”. Un anno prima, sempre i servizi, avevano riferito che l’allora latitante Giuseppe Morabito, detto ‘ Tiraddritto’, “avrebbe concesso, in cambio di una partita di armi, l’autorizzazione a far scaricare, nella zona di Africo, un quantitativo di scorie tossiche e presumibilmente, anche radioattive, contenute in bidoni metallici trasportati a mezzo di autotreni”. 33 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE Del 6/2/2015, pag. 2 RM Campi rom, quel maxi appalto a misura di Buzzi sotto Capodanno Gara da 600 mila euro indetta dopo l’esplosione dello scandalo Mafia Capitale Succede infatti che, proprio sotto Capodanno, in pieno scandalo «Mafia Capitale», l’assessorato al Sociale di Francesca Danese, appena nominata, pubblichi tre bandi di gara, per eseguire degli interventi in alcuni campi rom: via di Salone, via dei Gordiani, via Cesare Lombroso, via Candoni e La Barbuta. Più la «sperimentazione di azioni relative all’asse due delle direttive dell’Unione Europea». Appalti che, visti i trascorsi, potevano far gola al clan di Salvatore Buzzi, molto attivo proprio sulla questione rom. L’«asse due» citato, infatti, è quello previsto nella strategia nazionale d’inclusione delle popolazioni Rom, Sinti e Caminanti che prevede, tra le altre cose, la «promozione della formazione professionale e l’accesso al mondo del lavoro per donne e uomini di origine Rsc». Il Comune indice le tre gare d’appalto, da 200 mila euro ciascuno (più gli oneri per la sicurezza) per lavori di bonifica, di manutenzione «generica» e di «manutenzione antincendio», fissando i requisiti che le aziende devono avere per partecipare, indicando la documentazione richiesta e, soprattutto, determinando i punteggi di assegnazione. E, trattandosi di un bando fatto per «favorire l’accesso al lavoro di donne e uomini di origine Roma, Sinti e Caminanti», quello diventa uno dei criteri fondamentali. La «valutazione degli interventi proposti» è quella che dà più punteggio (45 punti sui 100 complessivi a disposizione, più di quelli messi «in palio» dalle condizioni economiche) e — in tutte e tre le gare d’appalto — dieci punti vanno proprio per «l’impiego di rom, sinti e caminanti nell’esecuzione dei lavori». Tradotto: la ditta che vuole ottenere i lavori, deve assumere (e formare) i nomadi. I bandi ora sono in scadenza, ma c’è già chi protesta con questa decisione. Non solo da parte di alcuni partiti politici (vedi Alessandro Onorato, Lista Marchini) ma anche dal mondo delle imprese. Il presidente dell’Acer, Edoardo Bianchi, ha infatti preso carta e penna e scritto all’assessore Danese: «Dalla disamina della documentazione — scrive il presidente dei costruttori romani — di gara emergono svariate perplessità». Oltre ad una serie di rilievi formali, Bianchi contesta i criteri di valutazione delle offerte definiti «soggettivi e premianti». Come il curriculum degli operatori oppure, appunto, «eventuali assunzioni di particolari tipologie di lavoratori e/o partecipazione ai corsi di formazione». Il presidente Acer chiede «un approfondimento» alla Danese. Ci sarà? Ernesto Menicucci del 06/02/15, pag. 1/33 POLEMICA SULL’ASSOLUZIONE DI CALDEROLI 34 Se chiamare orango la Kyenge “fa parte del linguaggio politico” MICHELE SERRA LEGGERSI le due paginette con le quali la Giunta per le immunità del Senato dichiara non processabile il collega Calderoli, che diede dell’orango a Cécile Kyenge, è utile per capire quanto lo spirito corporativo vincoli tra loro gli esponenti politici, o gran parte di loro, ben al di là di quanto le idee possano dividerli. La discussa parola “casta” risuona, in casi come questo, con indiscutibile efficacia, lampante come un autoscatto. COMPRESI gli esponenti di Giunta del Pd, che si sono arrampicati sugli specchi pur di difendere il diritto di Calderoli di dire quello che ha detto pagandone zero conseguenze; ed esclusi quelli del Movimento Cinque Stelle, che hanno votato per l'autorizzazione a procedere. In quel breve e non elevatissimo dibattito tutto fa brodo, dal «diritto di satira» alle «battute umoristiche» alle «critiche, anche con locuzioni aspre, a un avversario politico» al «contesto meramente politico » al fatto che «le dichiarazioni sono state estrapolate da un contesto più ampio », pur di sottrarre la frase razzista del collega Calderoli ad altro giudizio che non sia quello, piccolo e conciliante, dei colleghi di Calderoli. Dare della scimmia a una donna italoafricana, in pubblico e davanti a centinaia di persone, non può essere imputabile di «diffamazione aggravata da finalità di discriminazione razziale» perché Calderoli disse quelle cose nel pieno delle sue funzioni di parlamentare. Non credo che la Giunta e i suoi membri si rendano conto fino in fondo di quanto quel meccanismo di difesa sputtani gravemente proprio quelle “piene funzioni parlamentari” usate come ombrello protettivo e come comodissimo alibi. Perché se ne deduce che la parola politica, proprio perché politica, può essere tranquillamente sciatta o sozza o insultante con fiduciosa irresponsabilià, tanto ci sarà sempre una Giunta di colleghi che provvede a zittire chiunque, querelante o magistrato, voglia chiederne conto. Patetico chi pretende che rappresentare il popolo e fare parte delle istituzioni aumenti le responsabilità, elevi le ambizioni e il calibro delle proprie parole. Al contrario, diminuisce responsabilità, ambizioni e calibro: perché se dai della scimmia a una persona di pelle scura da normale cittadino rischi una querela (il Papa direbbe: uno sganassone). Ma se lo fai da Calderoli, o da collega di Calderoli, puoi stare sereno, non rischi assolutamente niente. L’indimenticabile leghista Speroni, del resto, nella pausa di un dibattito televisivo di parecchi anni fa, mi disse, con ammirevole sincerità: «Guardi, io sono volgare perché rappresento elettori volgari. E questa è la democrazia ». Una visione della rappresentanza, e della politica in toto, che non avrebbe avuto molto successo ad Atene (quella di venticinque secoli fa). Si capisce che la questione della libertà di parola, in specie della parola politica, è grande; complicata; non certo risolvibile con un paio di querele o, al contrario, con un paio di nonautorizzazioni a procedere. Ma almeno sul piano dell’esempio ci si aspetterebbe che la classe dirigente di un paese europeo pretendesse, da se stessa, un minimo sindacale di compostezza e di decenza. Quante ne bastano per capire che dare dell’orango a una donna italoafricana è una schifezza proprio perché «nel pieno esercizio delle proprie funzioni politiche». In questo senso no, la Giunta per le autorizzazioni non fa pensare alla classe dirigente di un paese europeo. 35 SOCIETA’ del 06/02/15, pag. 26 La crisi cancella 94 mila botteghe artigiane LUCIO CILLIS ROMA . Una ventina di mestieri quasi scomparsi e 95mila imprese artigiane cancellate dalla crisi. La mappa tracciata dalla Cgia di Mestre è impressionante e mostra un pezzo di Italia destinato al declino e, in alcuni casi, a scomparire in breve tempo. Oggi si contano quasi 94.400 imprese artigiane in meno: se nel 2009 le imprese attive sfioravano il milione e mezzo, a fine 2014 sono scese a circa 1.371.500. Le Regioni che in assoluto ne hanno perse di più sono la Lombardia (12mila), l’Emilia Romagna e il Piemonte con 10mila in meno ognuna, e il Veneto con 9mila 900. In percentuale invece i territori più colpiti sono la Sardegna (-12,2%), il Molise (-9,7%) e l’Abruzzo (-9,4%). I settori più penalizzati sono le costruzioni (-17,4%), i trasporti (-13,5%) e le attività di natura artistica (-11%). In assoluto, invece, la crisi ha messo alle strette impiantisti, elettricisti, idraulici, manutentori, con 27.502 unità in meno. Pesante anche la situazione registrata nell’edilizia (-23.824) e nell’autotrasporto (-13.863). Crescono, al contrario, le attività di pulizia di edifici e impianti e quelli che si occupano di giardinaggio: quasi 120mila in più. Bene anche l’alimentare (rosticcerie, friggitorie, pasticcerie, gelaterie), con crescita di 3.527 imprese e il settore della produzione di software (+1.762). Resta però difficile la situazione dell’artigianato: con 10.633 chiusure le officine fabbrili sono state le più penalizzate. A queste si aggiungono le falegnamerie (-6.757 unità) e le attività del tessile, abbigliamento e calzature con 5.409 aziende in meno. «Oltre il 54% della contrazione — rileva il segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi — riguarda la casa. Ma preoccupa lo stato di salute di alcune professioni storiche che ormai stanno scomparendo: come barbieri, calzolai, fotografi, rilegatori o ricamatrici. Senza dimenticare i norcini e i casari». Un nuovo segnale di allarme, infine, arriva dai consumi delle famiglie che arretrano ancora nel 2014. Secondo Confcommercio dicembre ha registrato un calo dello 0,1% su novembre e dello 0,8% tendenziale. Nel complesso la diminuzione di beni e servizi acquistati è lo 0,7%. Del 6/2/2015, pag. 17 Il futuro dell’area dopo l’esposizione «Una Silicon Valley aperta agli atenei» Rocca (Assolombarda): un grande polo con la Statale, ma serve una decisione politica MILANO «Ora tocca alla politica. Mi sembra ci siano tutte le condizioni favorevoli per prendere una decisione strategica sul futuro di Milano e del Paese. Ma bisogna fare in fretta perché i tempi sono stretti. Poi ci si occuperà dell’aspetto economico e dei bandi». Gianfelice Rocca, presidente di Assolombarda, guarda da sempre con grande attenzione e con qualche preoccupazione al destino futuro e per ora incerto (il bando di gara è andato deserto) delle aree che tra meno di quattro mesi ospiteranno Expo. Gli stessi 36 confindustriali lombardi, a loro tempo, avevano presentato un progetto: Nexpo. L’idea era, ed è, quella di creare per il post Expo un nuovo polo dell’innovazione e della scienza, una sorta di Silicon Valley italiana. Adesso è spuntata un’altra proposta. Quella dell’Università Statale di Milano: trasferire nell’area di Pero-Rho tutte le facoltà scientifiche sparse in città e creare una cittadella del sapere. Presidente Gianfelice Rocca, che ne pensa del progetto della Statale? «È una proposta di grande interesse che si inserisce perfettamente nella nostra chiamata alla città e alla regione per immaginare il futuro di un’area strategica per tutto il Paese. È la grande sfida di ripensare la nostra identità spostando le lancette dell’orologio al 2025». Perché? «Perché l’area di Expo ha caratteristiche straordinarie dove si dispiega un’intensità tecnologica senza confronti in Italia. È una piattaforma del futuro anche per quanto riguarda i collegamenti, sia internazionali sia verso il centro della città sia con la zona Nord-Ovest di Milano così densa di movimento. È vitale utilizzare quest’area in forma creativa». Il progetto di Assolombarda di realizzare un nuovo polo dell’innovazione è compatibile con la creazione di un campus universitario? «Se immaginiamo il futuro di Milano come hub della conoscenza e dell’innovazione allora non ci sono dubbi. I due progetti sono assolutamente complementari e uno ingloba l’altro. Un’area con una grande università da una parte e con le grandi multinazionali tecnologiche dall’altra, rappresenta un’occasione unica sia per i giovani sia per le imprese: la ricerca non rimarrebbe isolata e ci sarebbe un continuo scambio tra mondo della conoscenza e mondo del lavoro. È compatibile anche con la giusta esigenza di mantenere “verde” un’elevata parte del milione di metri quadrati dell’area. E integrabile con la proposta di destinare una parte dell’area a esigenze di impianti wellness a finalità collettiva, oltre che dei lavoratori, ricercatori e studenti impegnati ogni giorno sull’area. Se a questo aggiungiamo la casa delle start up hi-tech, direi che il ciclo è completo». Tutto bello e affascinante. Ma c’è un problema: il costo d’ingresso in quell’area è di 340 milioni di euro. A cui si aggiungono i costi per la Statale. Chi può essere in grado di affrontare un’impresa del genere? «Trovo positivo che la Regione con il presidente Roberto Maroni abbia dato la sua disponibilità a non pretendere la restituzione dei soldi che ha messo nell’acquisire i terreni. C’è poi l’interesse delle grandi multinazionali pronte a trasferirsi in uno spazio del genere e delle stesse banche che finanziano le start up. Secondo me, la soluzione finanziaria si trova. C’è la sensibilità del governo molto attento al futuro delle aree Expo. E potrebbe esserci anche l’Europa con il piano Juncker. Ma sarebbe sbagliato ragionare in questi termini». Perché? «Perché il tema è tutto politico. Non bisogna subordinare la fattibilità alla sfera finanziaria, ma partire dal progetto e operare una scelta strategica. Le idee non si delegano mai. E non si deve invertire l’ordine dei fattori: prima ci vuole una decisione politica di indirizzo. E a quel punto si lavora sulla fattibilità economica seguendo tutti i criteri di trasparenza necessari». C’è il tempo? «Occorre scegliere e decidere al più presto: Comune di Milano, Regione Lombardia e Fiera di Milano devono accelerare i tempi, ed evitare un percorso a ostacoli fatto di affidamenti di gare per consulenti volti a selezionare ancora mere ipotesi. Chiediamo che la scelta di fondo della destinazione sia sin d’ora assunta dalla politica, insieme alle imprese e alle Università di Milano». 37 INFORMAZIONE Del 5/2/2015, pag. 11 Con Ray viale Mazzini scopre l’ebbrezza della rete Media. La Rai lancia una piattaforma web dedicata agli under 30 per ora limitata alla fiction. Corti, laboratori, social network e spin-off esclusive Stefano Crippa Prima timidamente — con gli esperimenti nel sito diretti a un pubblico decisamente più giovane, poi attraverso i contenuti aggiornati ciclicamente su Rai Replay e le centinaia di pagine degli archivi di Teche, la Rai prova a rimodulare il proprio rapporto con gli ascoltatori under 30 e lancia — a partire da domenica 8 febbraio — Ray. Proprio così una ipsilon finale che sta come una nuova piattaforma web dedicata a una fascia di utenza — anche se Valerio Zingarelli , il direttore della parte tecnologica Rai — non ama molto la definizione — che va dai 15 ai 30 anni. Per il momento la piattaforma si concentra sul mondo della fiction, ma non è detto che in futuro non si estenda ad altre forme di intrattenimento. Il tentativo — chiaro — di viale Mazzini è per stessa ammissione di Tini Andreatta (direttore Rai Fiction) quello di intercettare e fideizzare: «il pubblico dei più giovani che la tv la segue solo su web». Una percentuale sempre più alta e che ormai decide — attraverso lo streaming ma anche la condivisione con i social — in totale autonomia un palinsesto personalizzato, fuori da obblighi e orari. Ray proverà quindi a fideizzare questa fascia di pubblico interagendo con loro e applicando, a seconda degli input, correttivi e a cambi «in corsa» alla piattaforma per renderla sempre più a misura dei navigatori.… Ray come vetrina popolata di storie, web serie e spin-off create appositamente per il portale (a proposito, lo trovate da domenica all’indirizzzo www.ray.rai.it). Una vetrina anche per la creazione e per il talento di giovani autori con l’ambizione di trasformarsi in uno scaffale virtuale e gratuito di prodotti originali. Domenica si parte con l’anteprima di Braccialetti rossi, la seconda stagione, fiction mutuata su un format spagnolo della quale verranno mostrati 10 minuti di girato, prima della messa in onda prevista per il 15 febbraio. All’interno della sezione, contenuti aggiuntivi, come il diario di Leo, e interattivi, ma anche backstage, clip dei personaggi, video musicali. Interfaccia inevitabile i social network, il gancio con facebook, instagram e twitter in attesa di sperimentare su WhatsApp, per rendere virale il fenomeno. In questa logica un’altra creazione esclusiva di Ray, ovvero Cento anni dopo, dieci puntateda dieci minuti. La regia dei primi due corti è di Ferzan Ozpetek e Matteo Oleotto. Si tratta di contributi sulla prima guerra mondiale, ma visti attraverso l’ottica delle nuove generazioni. E poi c’è il talent 2.0 immaginato ad uso e consumo della rete, con Due posti al sole, casting da cui usciranno due giovani protagonisti che entreranno a far parte della intricate trame della soap napoletana. E ancora Io tra vent’anni, spin-off di Una grande famiglia. Già in palinsesto su Raidue e Raitre, trovano una nuova collocazione le sketch comedy, tra le quali (ri) vedremo Zio Gianni e Il candidato, tutte arricchite da contenuti appositamente realizzati e da contest che coinvolgeranno gli intenettiani. E poi Rai&Lode, dove raccogliere tutte le web series ritenute più interessanti. «Immaginare il futuro — ha spiegato Andreatta — significa pensare alle generazioni più giovani, al pubblico non solo di oggi, ma anche a quello di domani, ridefinendo i limiti e provando ad immaginare per38 corsi nuovi per l’offerta del servizio pubblico. La ricerca del talento che abbiamo compiuto con la collaborazione del Centro Sperimentale e due concorsi (La bottega delle web serie e RAInventaRai) sta iniziando a dare i suoi frutti. Tutte queste esperienze ci dicono come sia possibile giocare in un ambiente più ricco e variegato, dove nascono nuove storie, nuove forme di racconto, nuovi linguaggi e nuovi talenti». 39 CULTURA E SCUOLA Del 5/2/2015, pag. 5 «BUONA SCUOLA» Sindacati protestano al Miur il 17 febbraio, annunciati cortei degli studenti il 12 marzo «Il rapporto di lavoro si regola per contratto, non per decreto». In un comuinicato congiunto i sindacati della scuola con Pantaleo (Flc-Cgil) Scrima (Cisl) e Di Menna (Uil) Flc-Cgil, Cisl scuola e Uil scuola sono pronti a dare battaglia contro il governo. E manifesteranno martedì 17 febbraio davanti al Miur a Roma contro il governo Renzi e il suo progetto di «Buona Scuola», ma senza contratto per chi ci lavora, se non la «meritocrazia» bocciata nel sondaggio online commissionato dal governo. «Nessuna risposta - spiegano - è finora arrivata alla richiesta inviata al ministro dell'Istruzione perché, in coerenza con gli impegni assunti nel novembre scorso, si aprisse il confronto sui provvedimenti che il Governo si appresta a definire sulla scuola, in particolare sulle materie che hanno ricaduta diretta sul rapporto di lavoro, a partire dalle retribuzioni, che per legge rientrano nella disciplina contrattuale». Il 12 marzo gli studenti torneranno nelle piazze di tutto il paese per manifestare contro la «Buona Scuola». Nel loro mirino ci sono i dispositivi legislativi che il Governo presenterà a fine febbraio sulla scuola: un decreto legge e una legge delega e un terzo dispositivo dedicato agli studenti. «La consultazione del governo è stata una farsa utile soltanto per legittimare il Governo a mettere mano alla scuola del nostro Paese e ristrutturarla in chiave neoliberista». «Chiediamo la discussione sulla Legge d'Iniziativa Popolare (Lip) sulla scuola ripresentata ad agosto perché, se implementata, potrebbe costituire un grande punto di partenza per la definizione di una scuola inclusiva, laica e democratica» sostiene Danilo Lampis, coordinatore dell’Unione degli Studenti (Uds). Del 5/2/2015, pag. 11 Più fondi al cinema Non cambia l’ammontare del Fus - approvato ieri dalla Consulta per lo spettacolo e presentata dal ministro dei Beni culturale Franceschini, ma si modifica invece la ripartizione. Sempre 406.229.000 euro, ma al suo interno aumentano le risorse per cinema e spettacolo dal vivo e maggiore attenzione viene data ai giovani talenti under 35, con uno stanziamento di 8 milioni di euro per musica, teatro, danza e cinema. Somme rese disponibili, sottolinea il ministro anche: «grazie ai tagli alle spese generali e di funzionamento del ministero». Fra le varie ripartizioni del Fus, le Fondazioni liiriche sono sovvenzioante con 181.990.592 euro; per le Attività musicali sono 56.872.060 euro; per le Attività teatrali sono 67.027.785 euro; per le Attività di danza sono 11.374.412 euro; per Residenze e Under 35 sono 2.000.000 euro. per le Attività cinematografiche 77.183.510 euro, cui si aggiungono 23.473.546 euro non utilizzati nel 2014 per le agevolazioni fiscali. 40 Del 6/2/2015, pag. 7 Un Micheli è per sempre, Renzi lo riporta alla Scala L’ABILE FINANZIERE MILANESE, APPASSIONATO DI MUSICA E INTERNO ALLE TRAME DEL POTERE ITALIANO FIN DALLA PRIMA REPUBBLICA, NOMINATO NEL CDA DAL MINISTRO FRANCESCHINI Di musica Francesco Micheli ne capisce davvero, e non solo perché da sempre alimenta la sua leggenda di finanziere di successo con lo strepitoso dettaglio di un pianoforte a coda Steinway installato sul suo veliero di 54 metri Shenandoah of Sark, varato nel 1902. “Mi consente di suonare musica classica, accompagnato dal sibilo del vento nelle vele e dal sapore delle onde”, ama raccontare, beato lui che sa suonare anche con le onde. Adesso il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini gli regala una grande rivincita. Lo ha designato per il consiglio d’amministrazione della Scala di Milano, che sarà rinnovato il prossimo 16 febbraio, restituendogli il posto che il ministro tecnico montiano Lorenzo Ornaghi gli tolse per darlo ad Alessandro Tuzzi, vicedirettore amministrativo della Cattolica di Milano di cui Ornaghi era rettore. Fuori Micheli e dentro Tuzzi tre anni fa, fuori Tuzzi e dentro Micheli oggi. Delizie dello spoil system all’italiana. MA C’È UN DETTAGLIO illuminante che lo stesso Franceschini tiene a far trapelare, e cioè che il nome di Micheli a lui proprio non era venuto in mente, e invece gli è stato autorevolmente suggerito da Palazzo Chigi, cioè da Matteo Renzi, di cui Micheli è estimatore e finanziatore della prima ora. E così ogni cosa è illuminata, e la piccola storia della Scala ci restituisce la grande storia di una classe dirigente immortale, refrattaria a ogni rottamazione. A 77 anni Micheli torna alla ribalta del potere musicale sotto le sembianze di giovane renziano rampante, grazie al merito indiscutibile di non aver mai perso la grinta del giovane rampante. Nativo di Parma e quindi melomane per obbligo etnico, Micheli si è iscritto giovanissimo al partito che potremmo chiamare Dc, non nel senso di Democrazia cristiana ma di Denaro & Cultura. Ragazzo prodigio della finanza nella Montedison di Eugenio Cefis – capostipite della Razza Padrona raccontata da Eugenio Scalfari e continuatore dell’arte di intrecciare potere economico e rapporti politici appresa dal suo maestro Enrico Mattei – Micheli sposa la figlia di Lelio Basso, padre costituente e icona della sinistra, conseguendo in automatico la patente di finanziere illuminato. DIVENTA CELEBRE nel 1985, dopo essersi messo in proprio, scalando la finanziaria BiInvest della famiglia Bonomi, e consegnandola alla Montedison di Mario Schimberni. Il capitalismo delle grandi famiglie farà pagare a Schimberni il suo sogno di potere in mano ai manager. Dopo l’anatema di Gianni Agnelli (“Bi-Invest humanum, Fondiaria diabolicum”) verrà scalzato da Raul Gardini. Micheli invece continua la sua ascesa, la sua natura di finanziere puro gli consente di non intaccare amicizie e alleanze partecipando alle operazioni più svariate senza pagare dazio e con l’unico risultato di accumulare denaro. Partecipa con Silvio Scaglia alla fondazione di e-Biscom, poi Fastweb, che usa le condotte della municipalizzata elettrica milanese per costruire una innovativa rete in fibra ottica per le telecomunicazioni. La quotazione in Borsa di e-Biscom, nel pieno della bolla internettiana di fine anni 90, gli consente di fare un sacco di soldi mentre migliaia di risparmiatori illusi dalla stessa bolla ci rimettono l’osso del collo. MA LA REPUTAZIONE di Micheli è sempre inossidabile, anche perché è un indiscusso maestro nel tenere buoni rapporti con i giornalisti, a cui fornisce la notizia giusta al 41 momento giusto. Paolo Mario Lea-ti, il boss della Lombardfin al centro di un clamoroso scandalo finanziario all’inizio degli anni 90, fu accusato di corrompere grandi firme del giornalismo economico procurando loro facili guadagni in Borsa. Ai magistrati disse che era il suo amico Micheli a mandarglieli, e a decine. Il finanziere illuminato respinse seccamente le accuse, che peraltro non avevano rilevanza penale, e la storia è rimasta confinata nell’allegro scrigno delle voci di mercato, le leggende più diffuse e credute. Anche perché Micheli è di quei fortunati che con quella bocca possono dire ciò che vogliono. Regala frasi di sprezzante snobismo come questa: “Non faccio mai un’operazione per guadagnare soldi. Faccio operazioni che mi divertono”. Gli è capitato di battersi contro la legge sull ’ insider trading (utilizzo di informazioni privilegiate per speculare su un titolo in borsa) argomentando che “un po ’ di insider è necessario, almeno in piccole dosi”. Gli è capitato di difendere il sistema delle scatole cinesi (catene di società controllate l’una dall’altra e tutte quotate in Borsa) sostenendo che “è l’unico strumento che ha consentito a un capitalismo italiano storicamente povero un certo sviluppo”. E sempre si è preso l’applauso. Così quando è comparsa all’orizzonte la stella cometa che conduceva a Rignano sull’Arno, l’anziano pianista sull’oceano è stato tra i primi a precipitarsi con i doni, completando l’accreditamento con la partecipazione all’esclusivissimo matrimonio di Marco Carrai, l’amico del cuore del premier nonché smistatore dei rapporti con il business. E alla fine Renzi si è convinto che, nella sua Italia meritocratica, è al giovane finanziere di Parma che il governo deve affidare la soluzione dei gravi problemi della Scala. 42 ECONOMIA E LAVORO Del 5/2/2015, pag. 5 Cgil: “Nessuna svolta per i precari” Jobs Act. Il sindacato contro il governo: «Collaborazioni e lavoro accessorio resteranno in piedi, e anzi verranno estesi». Poletti annuncia interventi «pragmatici», ma il risultato potrebbe essere una grossa convenienza nel licenziare: prima cumuli diversi tipi di contratto, e poi per strada. Con l’impresa che incassa lauti incentivi Antonio Sciotto IL Jobs Act torna a infiammare la polemica tra la Cgil e il governo. Il sindacato ieri ha rilanciato l’allarme sul possibile “bidone” che ci attenderebbe al momento dei decreti attuativi, al consiglio dei ministri del 20 febbraio: nonostante i ripetuti annunci sul «disboscamento» dei contratti precari, l’esecutivo si starebbe disponendo solo a una operazione di maquillage, che lascerebbe il panorama attuale sostanzialmente immutato. E anzi, per alcuni versi peggiorato. Il fuoco si è riacceso dopo un’intervista rilasciata dal ministro del Lavoro, Giuliano Poletti: il ministro non scioglie ancora la riserva sui contratti che verranno aboliti, e parla di «ridisegno per semplificare: alcune tipologie non ci saranno più, altre verranno riorganizzate». E a una domanda sulla cancellazione dei cococò, più volte ventilata dal premier Matteo Renzi, Poletti taglia corto: «Noi non decidiamo “questo lo togliamo o lo lasciamo in via di principio”, faremo un lavoro molto puntuale di analisi, con un approccio pragmatico». Insomma, tutto sembra ancora in aria, e il rischio è che non si realizzi quello scambio che in qualche modo attenuava la pena di aver perso l’articolo 18, ovvero contratto a tutele crescenti a fronte della cancellazione di tutte le forme precarie. Dovremo probabilmente tenerci le attuali 46 forme, o forse poche meno, a cui si aggiungerà l’ennesima made in Renzi. Un’analisi simile viene anche dalla Cgil: la segretaria Serena Sorrentino afferma che «non c’è una svolta sulla precarietà». «Non c’è riduzione, il disboscamento annunciato non esiste — spiega — Ci si ferma alla “semplificazione”: forse aboliranno il job sharing e l’associazione in partecipazione, ma sulle collaborazioni mi pare che si voglia solo cambiare il nome». La sindacalista Cgil afferma di aver tratto queste conclusioni anche da diversi «colloqui informali», mentre da mesi il governo non fa altro che dire in tv che vuole sostituire la mole di tipologie precarie con il contratto a tutele crescenti: «Si è fatta tanta propaganda — riprende Sorrentino — ma addirittura per alcune forme prive dei diritti contrattuali minimi, come il lavoro accessorio, è prevista un’estensione. Né si realizza la copertura universale degli ammortizzatori, visto che la Nuova Aspi non copre affatto tutti. Allora, alla fine, cosa resta di concreto? La liberalizzazione dei licenziamenti illegittimi». «Se ci dicessero che a fronte del contratto a tutele crescenti si ripristina la causale nei tempi determinati — continua Sorrentino — potremmo vederci una logica. Ma per i contratti a termine si ragiona solo sulla riduzione da 36 a 24 mesi. E siccome i diversi rapporti si possono cumulare, l’imprenditore potrà prima farti un tempo determinato di due anni e poi un rapporto a tutele crescenti. Poi licenziarti e ricominciare, magari passando da un somministrato». Un giogo della precarietà senza termine, che anzi diventa ancora più minaccioso visto che il modo in cui sono costruiti gli incentivi, spingerà le imprese ad assumere per poi licenziare. «Ero a un dibattito con Assolombarda — spiega la segretaria Cgil — e loro stessi hanno ammesso che il contratto a tutele crescenti conviene farlo soltanto 43 finché ci sono gli incentivi ». Conviene insomma più licenziare che assumere, e il calcolo, come spiega Sorrentino, è presto fatto: «Se ho fino a 8.060 euro di esonero contributi per ogni anno, dall’altro lato sia il primo che il secondo anno posso licenziare dovendo dare al lavoratore solo 4 mesi di indennizzo: quindi all’impresa licenziare costerà un terzo di quanto si è incassato con gli esoneri». Giudizio negativo anche sull’idea di Poletti di unificare i bonus Garanzia giovani con le tutele crescenti: «Garanzia giovani finora non ha funzionato: su 2 milioni di neet si sono iscritti poco più del 10%. La verità è che si vuole dimostrare di spendere i fondi entro il 2015, ma l’errore è concentrarli su tipologie di lavoratori che già erano interessati dagli altri incentivi. In questo modo si escludono i neet più marginali». E se il governo va avanti con le sue ricette, anche la Cgil prepara nuove mobilitazioni: il punto si farà al Direttivo del 18. 44