recensioni - Riviste Erickson

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Segnalazioni e Recensioni
RECENSIONI
A cura di Lucio D’Abbicco
G. Riva
Nativi digitali. Crescere e apprendere nel mondo dei
media
il Mulino, Bologna 2014
“Nativi digitali” è una definizione di successo coniata da Marc Prensky
nel 2001, che indica la capacità, tipica delle ultime generazioni, di
utilizzare le nuove tecnologie intuitivamente e apparentemente senza
sforzo. Il successo dell’espressione è dimostrato anche dalla frequenza con
cui essa compare nei titoli della saggistica: da una veloce ricognizione nei
cataloghi delle librerie online risultano attualmente in commercio almeno
nove testi (solo fra quelli italiani). Fra questi c’è il presente volume di
Giuseppe Riva, docente di Psicologia e nuove tecnologie della
comunicazione e presidente dell’Associazione Internazionale di
CyberPsicologia. L’approccio che Riva propone a un tema evidentemente
molto presente nel dibattito scientifico (e non solo) è proprio quello della
cyberpsicologia (o “psicologia dei nuovi media”), che pone al centro della
sua attenzione l’analisi dei processi di cambiamento attivati dai nuovi
media; lo sfondo teorico è costituito dalla psicologia cognitiva e della
comunicazione, dalla psicologia sociale e dall’ergonomia.
Il suo testo si presta a una duplice possibilità di lettura: quella del
saggio scientifico vero e proprio, articolato in sei capitoli, e quella del
saggio “divulgativo”, attraverso le sintesi poste alla fine di ogni capitolo
che, riducendo e semplificando il discorso, lo rendono facilmente fruibile
anche dal lettore non addetto ai lavori. In effetti il ragionamento di Riva
muove a partire da una serie di domande che in parte attengono a
MEDIA EDUCATION – Studi, ricerche, buone pratiche
© Edizioni Centro Studi Erickson S.p.a.
ISSN 2038-3002- Vol. 6, n. 1, anno 2015, pp. 175-179
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interessi più propriamente specialistici («esistono i nativi digitali? E se
esistono, chi sono e in che cosa si differenziano dalle generazioni
precedenti?...»), in parte provengono dalla platea di coloro che a vario
titolo sono investiti da responsabilità educative, genitori in primis («è
giusto far sperimentare ai bambini giovanissimi le tecnologie touch come
smartphone e tablet?...»). L’ultimo capitolo del libro affronta
specificamente il tema: “educare il nativo digitale”.
La posizione di Riva si pone esattamente a metà strada fra coloro che
sostengono una “diversità ontologica” nell’apprendimento da parte delle
nuove generazioni (posizione sostenuta da Prensky e, in Italia, dal
pedagogista Paolo Ferri) e coloro che, al contrario, definiscono come una
“neuromitologia” tale diversità (Rivoltella). Riva, anche sulla scorta delle
osservazioni empiriche che fa lui come docente universitario ma che
qualunque docente e educatore può fare (non tutti i giovani sono in grado
di utilizzare le tecnologie in maniera intuitiva), sostiene che «nativo
digitale non è qualcuno che fin dalla nascita è in grado di usare le nuove
tecnologie, ma piuttosto un soggetto che le sa usare intuitivamente, senza
sforzo. In altre parole, essere nativi digitali non è una questione
generazionale ma di capacità».
Al di là di queste puntualizzazioni tassonomiche, la parte più
interessante del lavoro di Riva consiste nell’approfondimento che fa circa i
cambiamenti oggettivamente introdotti dalle tecnologie nelle modalità di
apprendimento e nella dimensione esperienziale dei “nativi digitali”.
Perché, se è assolutamente verificato che qualunque tecnologia della
comunicazione produce tali cambiamenti, a maggior ragione il discorso
vale per le nuove tecnologie che, tra l’altro, si sono evolute con una
velocità mai conosciuta nelle epoche precedenti. A tal proposito Riva
individua già quattro generazioni di “nativi digitali”: dalla “generazione
text” (nati a partire dalla metà degli anni Settanta), che ha cominciato a
utilizzare le interfaccia testuali (e-mail, le chat, i newsgroup, gli sms), alla
“generazione touch” (nati a partire dal 2007), con la quale si supera la
barriera linguistica per accedere ai media, passando per la “generazione
web” e per la “generazione social media”. Dunque nell’arco di circa un
trentennio è avvenuta una rivoluzione mediale che ha progressivamente
modificato il modo di relazionarsi al mondo: emblematico è l’episodio
citato dall’autore in apertura (e tratto, manco a dirlo, da YouTube) della
bambina di circa un anno che interagisce con una rivista cartacea come se
fosse un i-Pad.
Riva approfondisce queste modificazioni a livello di soggettività e
relazionalità sociale. Ma l’attenzione del media educator è colpita
soprattutto dalle osservazioni relative al rapporto fra apprendimento e
tecnologia. La domanda cruciale è la seguente: «Ha senso chiedere a un
nativo digitale che non legge più libri a parte quelli che vede a scuola, che
interagisce con i propri compagni di classe più sulle pagine di Facebook
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che tra i banchi di scuola, di andare a scuola e studiare come abbiamo
imparato a fare venti, trent’anni fa?». A parte un eccesso di riduzionismo
nel delineare così il profilo del famoso “nativo digitale” (ma nella
trattazione tale profilo è molto più approfondito e sviscerato), la risposta
di Riva è affermativa, purché i docenti (ma anche i genitori) sappiano
adattare i propri metodi e le proprie strategie alle opportunità offerte
dalle nuove tecnologie: una ricetta non nuova ma ancora poco applicata.
L’autore individua tre possibili livelli: un primo livello in cui la tecnologia
può supportare lo sviluppo cognitivo attraverso le dimensioni del gioco e
della simulazione offerte dai serious games; a un secondo livello la
tecnologia offre la possibilità di passare dall’astrazione all’esperienza
concreta attraverso la multimedialità e l’interazione, in particolare con un
esperto (è il caso della formazione a distanza); il terzo livello è quello in
cui la tecnologia può favorire la generazione di interpensiero attraverso
luoghi digitali (gli Ambienti virtuali collaborativi), dove i soggetti possono
incontrarsi e interagire per raggiungere un obiettivo comune.
Il volume è corredato da un importante apparato bibliografico, mentre
specifici riferimenti sitografici sono forniti nel corso della trattazione.
F. Mangiapane
Peppa Pig
doppiozero, Milano 2014
Questo lavoro è pubblicato nella collana «Miti d’oggi» della casa
editrice doppiozero; non è un caso, dunque, che l’autore si collochi
esplicitamente nel solco di una riflessione culturale che, muovendo da
Levy-Strauss, vede in Roland Barthes un punto di riferimento
irrinunciabile, insieme al rilancio della critica alla contemporaneità che
negli anni ’90 ha fatto il semiologo francese Floch. Pertanto Peppa Pig
diventa un “caso di studio” proprio per la sua valenza “mitica”, in grado
cioè di fornire risposte a domande che attraversano la temperie culturale
da cui promana, rivelandosi un prodotto della cultura popolare ben più
complesso e denso di significati di quello che una lettura ingenua potrebbe
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pensare. E l’approccio di Mangiapane è altrettanto significativo in quanto
egli mette in campo una doppia competenza: quella del papà e quella
dell’analista.
Innanzitutto bisogna considerare la natura intermediale di Peppa Pig:
nato nel 1999 come serie tv di cartoni per la prima infanzia, dopo la messa
in onda nel 2004 conosce un successo travolgente che lo proietta al di là
della semplice dimensione televisiva e lo trasforma in un vero e proprio
brand. Dunque Peppa rappresenta un tipico fenomeno della società dei
media; di conseguenza la sua analisi aiuta a comprendere alcune delle
dinamiche sottese a questo sistema. Come, ad esempio, la necessità di non
estrapolare il testo da quello che gli sta intorno nel flusso comunicativo, in
una dimensione sia sincronica che diacronica. Così si può affermare che
Peppa Pig sia un prodotto per l’infanzia ben diverso da alcuni illustri casi
che lo hanno preceduto (Mangiapane cita Sesame Street e Blue’s Clues, ma
anche Teletubbies): il “papà” evidenzia quanto sia improbabile una
fruizione familiare condivisa di quei programmi, al contrario di ciò che
avviene (nella sua personale esperienza ma non solo) con Peppa, un
cartone che sin dalla sigla annuncia la centralità della famiglia nella sua
narrazione. D’altra parte, se si considera il caso italiano, Peppa Pig è
inserito in un palinsesto (quello di Rai Yo Yo) dove si trova accanto ad altri
popolarissimi e in alcuni casi storici cartoni per l’infanzia: Olivia the Piglet,
Pimpa, Barbapapà. A questo punto Mangiapane approfondisce la sua
analisi provando a esplicitare la mitologia contenuta nei diversi prodotti,
attraverso l’individuazione dei differenti sistemi valoriali di riferimento.
La conclusione è che ognuno di essi propone un approccio e una soluzione
diversa ad alcune domande di senso fondamentali per i piccoli
telespettatori/fruitori: che cos’è una famiglia? Come interagire in essa?
Come guardare al prossimo? Come gestire il rischio di fare la cosa
sbagliata?...
E così da un lato abbiamo Olivia the Piglet che tende a controllare
l’esperienza: il suo stile di approccio al mondo è quello della
programmazione. Dall’altro abbiamo la nostrana Pimpa (del sessantottino
Altan), che con le sue avventure al limite dell’insensatezza esprime una
propensione all’esperienza del “rischio”: Mangiapane sintetizza il suo stile
come quello dell’incidente. I Barbapapà si muovono lungo i binari della
manipolazione attraverso la mediazione del linguaggio che riesce a
estrinsecare e fare accettare la loro progettualità. Le storie di Peppa,
invece, sono mosse dallo stile dell’aggiustamento all’interno di un clima
relazionale ed emozionale di quella coesa comunità che è rappresentata
dalla famiglia (allargata ai nonni). Proprio per questo secondo Mangiapane
fra i quattro il “mito” vincente – nell’attuale temperie socio-culturale –
risulta proprio quello di Peppa: la simpatica maialina riesce a esprimere
con i toni giusti nelle sue storie alcune problematiche e trasformazioni che
interpellano la nostra società (ad esempio l’ibridazione dei ruoli di madre
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e padre). Offre al contempo un modello di famiglia che risulta rassicurante
perché in essa i problemi non si negano né si banalizzano, ma si affrontano
sulla scorta di una relazionalità intensa ricca di un’emotività non
disincarnata.
Concludendo, dobbiamo dissentire decisamente da Mangiapane in una
cosa: nelle “Note e notizie” poste alla fine del lavoro egli si definisce un
«non specialista dell’argomento», un «dilettante per professione». Che
Mangiapane abbia voluto scrivere questo saggio per un suo gratuito
“diletto” possiamo anche accettarlo, così come il fatto che non si consideri
uno specialista; ma il suo saggio denota una grande competenza di analisi,
fatta di erudizione e raffinata capacità di lettura.
In una prospettiva metatestuale quest’opera è interessante anche per il
progetto editoriale entro cui si colloca: la casa editrice/libreria elettronica
doppiozero (associazione non-profit) offre la possibilità di acquistare libri
elettronici in formato aperto, senza criptazioni proprietarie.
Un’ultima osservazione: il presente lavoro fa tornare alla mente del
media educator e fa rivalutare l’esperienza del teleforum, proposta come
novità anni addietro (cioè un’era geologica fa, secondo il calendario
accelerato delle tecnologie della comunicazione). Il mondo è cambiato da
allora e la tv non è più il centro delle esperienze mediali, tuttavia resta
incardinata dentro la costellazione dei consumi mediali; così, il saggio di
Mangiapane sembra implicitamente suggerire un percorso di media
education che, a partire da un prodotto eminentemente (ma non più solo)
televisivo, possa attraversare in maniera significativa buona parte del
sistema mediale.
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