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Milena A. Carone
sedici
1989
www.sedici.us
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In copertina: costiera jonica, Salento
Grafica di Sabrina Barbante
al cuore dell’ipotenusa
Ocra carico, direi
E io che mi metto?
Lanciò la giacca sul letto e la raggiunse dopo pochi
secondi. Le piaceva affondare nell’odore delle sue cose,
anche stropicciandole un po’. Lino stirato tra faccia e
cuscino, magnifica pensata.
Domandò a voce alta, ma Alma non avrebbe sentito,
altamente probabile. La camera aveva di lato un cunicolo
stretto e lungo che portava al bagno. Ed era già dal bar che
le scappava.
Uma proseguì imperterrita nel monologo. Non è che
pensasse a voce alta. Recitava, se mai. Era narcisa quanto
basta a farlo per se stessa.
Chi se ne frega poi della Rivoluzione Francese! Non mi
piace il francese, non mi piace il loro cinema e non mi
piacciono le francesi. Non mi piace niente della Francia.
Forse Marsiglia, e mi sa che con la Francia ha poco a che
spartire. Così dico, a naso.
Sollevando appena il volto dal lino sul cuscino, continuò
per circa trenta secondi a sproloquiare contro la Francia.
Salvò solo i colori della bandiera.
14 luglio. Campo dei Fiori. Un caldo soffocante già alle
prime ore. Nel bar aveva chiesto un caffè in ghiaccio per
colazione. Lo sapeva, non lo avrebbero fatto come voleva.
Si lanciò nella performance più che altro per svegliarsi.
No grazie, non lo voglio shakerato. Mi restano le
bollicine sullo stomaco. Un caffè normale, grazie. Potrei
avere quattro cubetti di ghiaccio? Grazie. E un bicchiere
alto di vetro? Grazie.
Perché non imparano? È semplice!
Il barista le aveva rivolto uno sguardo strano.
Un bombolone per dialogare col caffè.
Le altre erano già fuori e lei traccheggiava ancora con
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tazzina e salviettine.
In albergo sentì appena il rumore dello sciacquone
mentre si girava a pancia sopra sul letto.
Alma uscì dal bagno sfregando i capelli umidi di mezza
doccia. Dicevi? Non ho sentito.
Lei partì con la prima venuta in mente, o forse l’ultima.
Pensavo alla tinta delle pareti. Che colore è, di preciso?
Alma diede uno sguardo veloce in giro piegando il collo
a sinistra. Ocra carico, direi. Pensi di guardarlo tutta la
mattina?
Lei lo prese come un invito. Ma è vero che era un
albergo a ore? Dice che è lo stesso della canzone di Paoli.
Quella del soffitto viola. Dice che ogni stanza ha un colore
diverso. E una ha uno specchio gigante che prende tutto il
soffitto. Così ti guardi. Non ci scappi proprio, ti vedi anche
se non vuoi.
Alma le andò vicina col sorriso più bello del mondo.
Sottolineò l’incedere quasi ritmando le parole.
Ideale per chi non ha la stessa fantasia che hai tu.
Al tu, sollevò la destra con pollice e indice uniti da un
immaginario pennello. Dipinse nell’aria con un paio di
giravolte del polso. Con le stesse dita sciolse il nodo
dell’asciugamano.
Uma le restituì il sorriso e di più. Forse dovremmo
avvertire le altre che arriveremo più tardi.
Alma le si versò addosso scostando la giacca di lino che
muta ringraziò dell’umidità ricevuta. Hanno inventato il
telefono anche per questo tipo di emergenze.
Quando sei qui con me questa stanza non ha più pareti.
Ma alberi. Alberi infiniti.
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Libertà! Libertà?
Ha il destino di un anno memorabile. Per tutte. Per tutti.
Ovunque. Anno di crolli e resurrezioni. E di eventi meno
eclatanti, come ogni anno.
Veloce e intenso, parte alla grande. A gennaio, in una
piazza di Praga reprimono con ferocia una manifestazione
in memoria dello studente di filosofia che vent’anni prima
lì s’era dato fuoco. Con un accendino. Davanti al Museo
Nazionale. La piazza era intitolata all’Armata Rossa.
Tempo qualche mese e le daranno il nome di Jan
Palach. Proprio lui, la torcia umana che aveva preso ad
esempio i monaci buddisti vietnamiti nel suo inno estremo
alla libertà. Libertà! Libertà! Libertà!
A febbraio, gli eredi di un’Armata Rossa devono ritirarsi
anche dall’Afghanistan. E Fausto Leali con Anna Oxa
cantano Io ti lascerò. Vincono pure, almeno loro. Ed è il
Festival di Sanremo in Italia.
In primavera ai Polacchi dicono di Solidarnosc. Esisteva
ed era autentica. Anche Pechino si risveglia, ma per poco. E
lì la piazza si chiama Tienammen. In Italia si dimette solo il
Governo De Mita e gli scandali continuano a farla da
padroni. In Usa mandano in onda la prima puntata dei
Simpson e un primo Presidente col cognome Bush. In Italia
Umberto Bossi manda in politica la Lega Nord.
Ai primi caldi, provano ad ammazzare per la prima
volta il giudice antimafia Falcone. Dopo, visto che il tritolo
era annacquato, si tenterà di demolirlo con veleni
confezionati da colleghi e politici vari. Solo tre anni dopo,
finalmente, saranno… Capaci.
In un giorno d’autunno sudafricano qualcuno pensa che
forse si può abolire l’apartheid. Su tutto, in un bellissimo
giorno di novembre i Pink Floyd vanno a cantare The Wall
sulle macerie di un Muro. Ed è Berlino.
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Il giorno dopo, in Italia, il Segretario Achille Occhetto
dice che anche il Partito Comunista Italiano deve voltare
pagina. Cambiare nome, programma e ovviamente il
simbolo. Ed è la Bolognina. Dal nome del quartiere di
Bologna dove si annuncia la svolta. Cambiare,
cambieranno. Compresi i nomi. Come in un telefono senza
fili per passare, o ritornare, dal PCI alla DC.
A Praga intanto la Rivoluzione la chiamano di Velluto.
Per onorare un anno così veloce, in Italia viene
introdotto il rito abbreviato nel processo penale. Si fa quel
che si può. Siamo pur sempre un Paese in libertà vigilata.
Anche in Romania un processo breve, forse perché
capita nel giorno di Natale. Anzi, brevissimo. Pochi minuti
e un Tribunale improvvisato decide di far fuori un dittatore
indisturbato per vent’anni. Con lui, giustiziata anche la
moglie. Usano la quantità di proiettili sufficiente per il
massacro di un centinaio di persone. Esagerati. In attesa da
vent’anni, ma esagerati. A quanto pare, le ultime parole di
Elena Ceausescu saranno: andate tutti al diavolo!
Romania è un caso a parte nel 1989, come del resto lo
era stata prima. Ancora non si sa bene se si trattò di una
rivolta popolare oppure della farsa atroce di un altro colpo
di stato. Ma quel che è stato è stato.
Il penultimo giorno dell’anno varano un’altra legge per
regolamentare l’immigrazione. In Italia. E altre ne
verranno. Tempo qualche anno e inizia pioggerella fine che
diventerà acquazzone di nuove e antiche mestieranti. Alle
quali sarà dato il nome brutto di badanti. Rumene
soprattutto, le schiave del nuovo millennio. Comunitarie,
ma schiave. Se la Romania intera non andrà al diavolo
come si augura Elena, poco ci manca. Ventennio che va,
ventennio che viene. Libertà? Libertà? Libertà?
Per farla completa, è l’anno del bicentenario di una
Rivoluzione. Anzi, della Madre di tutte le Rivoluzioni.
Ed era stata Francese, accidenti!
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Quasi introvabile
I salti mortali, ma ce l’aveva fatta. Non poteva dirgli che
si trattava di una festa. Di venerdì. Di sole donne. Un
importantissimo convegno a Roma, quello poteva andare.
Il 14 di luglio? Si tratta di donne. Anzi, è proprio sulla
tratta. Sta prendendo piede. Dobbiamo fare qualcosa.
Ilaria metabolizzò il senso di vergogna con l’alibi del
momento. Aveva scomodato la tratta, sì. Ma che colpa ne
ho se il cuore è uno zingaro e va?
Certo, amava il marito. Come si può amare qualcuno
con cui sei sposata da 15 anni. Amava i suoi figli, due, un
maschio e una femmina. E amava molto il suo lavoro di
avvocata delle donne. Ma da una settimana sentiva di
amare anche Paola, affascinante guaio quarantenne venuto
alla luce per l’appunto una settimana prima. Non avrebbe
saputo dire come. Ma era accaduto. Ed era frastornata. Ma
felice. Ilaria si sentiva molto felice, intanto che sistemava in
valigia l’ennesima scatola di gianduiotti. Non era più un
regalo, ma il suo biglietto da visita per le romane.
Si conoscevano da tanto. Entrambe avvocate. Entrambe
parte di qualcosa che lottava per le donne, queste
poverette. Aveva condiviso con lei parole, lacrime e
proposte di legge. Ma fino a una settimana prima non
avrebbe immaginato quel guaio così intrigante.
Avevano scambiato un paio di frasi nella megariunione
chiamata Le donne con le donne possono, a metà strada
tra il personale e il politico. Ma nessuna delle due avrebbe
immaginato di potere. Questo Ilaria pensava.
Certo, avevano entrambe frequentazioni lesbiche. Di
donne che non diresti subito che sono lesbiche. Di meno di
quelle che invece sì. Soprattutto di lesbiche importanti, con
parole sacrosante e buone per tutte, lesbiche politiche
storiche romane con i fiocchi. Entrambe le avevano
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ascoltate estasiate e a tratti invidiose. Certo, entrambe
erano donne emancipate e di buone letture. Ma nessuna
delle due aveva superato la soglia dello sguardo.
Questo Ilaria pensava da una settimana.
Era accaduto a cena. Si erano ritrovate vicine, questa
volta di fronte, nel tavolo lungo di una trattoria romana.
Cacio e pepe, dopo tante parole. Finalmente.
Come e più di lei, Paola faceva chilometri e chilometri
per partecipare a riunioni femministe romane. Anche Paola
era sposata. Senza figli. E un solo aborto. Una piega amara
aveva segnato le sue labbra, quando accennò all’aborto.
Così parve a Ilaria.
Non ne abbiamo mai voluti. Non avremmo voluto
neanche sposarci. Solo che ero rimasta incinta e tre giorni
dopo il matrimonio ho avuto un aborto. Spontaneo. Si
dice così, no? Per me acqua naturale, grazie.
Sì, si conoscevano da tanto. Fin dalla prima volta, si
erano sempre cercate con lo sguardo. In una sala riunioni.
Con la valigia ancora in mano, appena arrivate. Se non era
una era l’altra. E si ritrovavano vicine di sedia.
Affinità elettive col medium della giurisprudenza.
Una settimana prima era venuta meno la prudenza.
Perché solo davanti a un cacio e pepe si erano
veramente guardate e viste. Questo Ilaria pensava, intanto
che dava un bacio con raccomandazioni alla piccola. Torno
presto, sii prudente con la bici nuova.
Un paio di mesi prima, l’episodio del brivido.
Accantonato quasi subito. Con stupore. Con vergogna.
Quasi. Ripensandoci, sorrise a se stessa, chiudendo la porta.
Un complimento per la scelta del profumo. Una delle
frasi innocenti tra donne, in un momento di relax durante
un convegno serioso. Ottimo, lo sentiva anche da lì. Paola
aveva accostato la sedia, col collo in avanti. Dici questo? E
lì, un brivido sulla pelle. Improvviso. Imprevisto. Veloce.
Dissimulato con altrettanta velocità. Come si chiama?
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Parlarono subito d’altro.
Paola tuttavia la guardava in modo strano. Questo le
sembrava. E che le guardasse il collo. Questo ricordava.
La notte in albergo non chiuse occhio. Si struccava
davanti allo specchio. E indugiò col batuffolo sul collo. Lì
rivide un altro collo, desiderò di averlo accanto al suo,
annusarlo di nuovo. Toccarlo. Baciarlo? Scacciò il pensiero
all’istante, ancora allo specchio. Un’importante relazione
da risistemare per il giorno dopo. Poi, a letto. Ma non
prese sonno che all’alba. I suoi occhi continuavano a
vedere un collo che non c’era. Il giorno dopo, dalla
presidenza, sarebbe stato almeno più distante.
Passarono i giorni, si sentirono molte volte per telefono,
ogni volta con una scusa valida. Lavoro, politica per le
donne, queste poverette. Ora lo sapeva che si trattava di
scuse. Un po’ come la tratta. La voce di Paola ogni volta le
sembrava nuova e antica. Molto più di una voce amica.
Davanti al cacio e pepe accadde tutto. Il principio di
tutto. Appena sedute, Paola aveva pescato dalla borsa un
pacchetto viola. Con disinvoltura. Così Ilaria ricordava.
È quasi introvabile. Ne ho portato un flacone per te.
La vista del profumo la fece arrossire platealmente.
Tornò alla notte insonne e ai pensieri scacciati invano. Non
riuscì nemmeno a balbettare un grazie. A lei non
mancavano mai le parole. Paola aveva corrugato
leggermente la fronte davanti al rossore e al silenzio.
Poi aveva sorriso. E pronunciato le parole del non
ritorno. È troppo, collega? Allora dopo si va insieme in
quel locale per donne, dicono sia carino. Noi non ci siamo
mai andate, sempre prese da impegni. E lì tu pagherai
l’ingresso. Ci stai?
Paola parlava e aveva aperto ancora di più il suo sorriso.
Innocente. Strano. Dopo la serata nel locale, senza dire una
parola, si presero per mano. E mano nella mano
s’incamminarono verso l’albergo di Paola. Il più vicino.
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Tre parole piccole
Uma aveva detto ‘e io che mi metto?’.
In realtà, aveva già con sé gli abiti da indossare per la
festa. Solo, non sapeva come avrebbe mosso il corpo.
La serata le procurava una leggera ansia.
Non conosceva tutte le invitate. Ma erano le appena
conosciute a procurarle una sensazione come di
smarrimento.
Tutte quelle femministe in un colpo solo!
Deciso, avrebbe fatto la gatta. Sarebbe andata in giro ad
annusare negli angoli. Avrebbe mangiato. E guardato, ma
senza farsi vedere. Se proprio la faccenda fosse diventata
insostenibile, avrebbe schiacciato un pisolino da qualche
parte. Prendere sonno è sempre il rimedio migliore nelle
situazioni difficili.
Conosceva già la casa di Letizia.
Una settimana prima ci era andata con Alma a trovare
Viola. Casa immensa. Si attorcigliava intorno a un pozzo
luce altrettanto grande. Nell’attico di un palazzo antico di
piazza Adriana. Come una chiocciola.
Una casa così Uma non l’aveva mai visitata, neanche a
Boston. Restò incantata davanti a Castel Sant’Angelo,
rimirato da una finestra. Mai visto un monumento del
genere. Da un’altezza del genere. Pari.
Ma una festa è una festa. Non puoi metterti a dormire
senza dare nell’occhio. E che vengano a chiederti se per
caso ti stai sentendo male. Chi, io? Per nulla, sto benissimo,
grazie.
Fantasticare sull’immediato futuro era uno dei suoi
giochi preferiti. Ma non andava più in là con la fantasia.
Era in ansia.
Sapeva solo cosa avrebbe indossato nella bellissima
pensata di una festa di donne per il bicentenario di una
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rivoluzione. Nel rispetto dei tre colori.
Camicione immacolato della nonna con colletto di
pizzo. Gonna di velluto rosso. Gilè blu. Anche lui di
velluto, però brillante. All’appello mancava solo un
pennarello. Per il tocco finale.
Lo sapeva, Alma non viaggiava mai senza matite
colorate o pennarelli. Immaginò giusto. Uma sapeva le
cose immaginandole. Nel caso del pennarello, comunque,
andò a colpo sicuro.
Con indosso il solo camicione circolava a piedi nudi
come fantasmino nella stanza dalle pareti ocra.
La domanda la buttò lì come venuta in mente sul
momento. Ne hai per caso uno indelebile per il cotone che
non si sbavi tutto al primo lavaggio? Vorrei scrivere qui.
Pensavo alla frase francese. E libertè. E egalitè. E fraternitè.
Queste parole giravano, giravano. Soprattutto libertè. Alla
fine, ho pensato tre parole. Piccole, semplici. Le vorrei qui,
a sinistra. Anzi qui, proprio sul cuore. Le scriveresti te per
favore, ché io non sono buona?
Alma aveva già tirato fuori dalla borsa un pennarello
nero. Cicciottello, però a punta fine. Restò ferma in attesa
che l’altra smettesse la danza fantasmina per andare a
piazzarsi davanti a lei. Sapeva che lo avrebbe fatto.
Con un sorriso un po’ canzonatorio le posò una mano
sul cuore. Tre parole? Non è che ci sia molto spazio qui.
E puntando il dito contro il cotone, aveva preso a girarci
in tondo. Fu di un certo gradimento.
C’è. Tanto, sono piccole. Lì per te.
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Non c’è nulla di male
Paola aveva sempre amato le donne.
Non tutte le donne. Diciamo due, va.
La prima si chiamava Elisabetta e aveva trent’anni,
insegnante di storia e filosofia al liceo classico. Un classico.
Prima di conoscerla, il cuore non le aveva dato segno di
interesse verso chicchessia. E omosessualità era solo
argomento vagamente intellettuale. Oppure da battute
volgari. Battute di altri. Argomento si fa per dire, nel
secondo caso.
Un giorno l’insegnante d’italiano, un uomo, aveva
portato in classe un testo con certe poesie di Catullo.
Quelle vere. E aveva parlato con grande naturalezza.
Solo nell’edizione Einaudi trovate la versione autentica.
Nei testi per le scuole hanno volutamente falsato la
traduzione, per occultare la verità, stravolgendo l’originale.
Invece, Catullo amava un uomo, tutto qui.
Uno ridacchiò, dal fondo. Era arrabbiato, in fondo. Lo
dicevo io che era frocio, e mi vuole pure bocciare, sto
ricchione! Paola, voltatasi di scatto verso l’ignorante, sibilò:
tu invece sei solo un ignorante!
L’insegnante continuò su Catullo, all’oscuro di battute.
O forse solo noncurante. Amava un uomo e cantava il suo
amore nelle poesie, senza veli. Oggi sarebbe messo
all’indice, o dentro per pedofilia. E chi lo sa? Invece è solo
Catullo, un grande poeta!
Tipo strano, l’insegnante d’italiano. Catullo a parte. Non
proprio uno da liceo, l’avresti visto meglio in una cattedra
universitaria. Ancor più, in un eremo seppellito dai suoi
libri su Dante e Leopardi. Era fissato con i due. Ogni tanto,
fuori busta, Pavese. Carducci, ma vogliamo scherzare?
Rischiarono di non finire il programma in tempo per gli
esami dell’ultimo anno. Un amore d’insegnante per Paola.
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Elisabetta invece fu amore vero. Platonico. O almeno,
non consumato. Ma amore vero, durato nel tempo.
Le aveva dato tanti consigli. E alcuni libri.
Paola solo molti dei suoi pomeriggi.
Sapeva di piacerle, era la più brava. E ci teneva a non
fare passi falsi. Ma la donna tanto bella e sola in una casa
di così tante stanze la affascinava tanto. Un giorno prese
coraggio e lo disse. Il liceo però lo aveva finito.
Potrei innamorarmi di te.
Elisabetta aveva solo sorriso. Con un che di malinconico.
Può capitare, cara. Non c’è nulla di male. Ma stai attenta,
potrebbe capitarti per davvero.
Era finita lì, forse perché Elisabetta parlò d’altro. E Paola
non ebbe coraggio altro. Ancora pomeriggi e libri. Libri e
pomeriggi di letture e sorrisi. Poi tutto finì, forse perché
Elisabetta si trasferì.
La seconda fu la storia per davvero.
Amore breve, assoluto e tragico. Un altro classico.
L’aveva conosciuta all’università, per la precisione nella
sede di qualcosa di extraparlamentare accanto all’ateneo.
Paola aveva voglia di rivoluzione come tante. E tanti.
Nei primi anni 70. Tutte e tutti a dirsi che tutto era
possibile.
E tutto era così tutto possibile che, quando la donna che
sapeva anche parlare le diede un bacio improvviso e muto
accanto al ciclostile, lei rispose con un altro bacio. Fino in
fondo. Poi furono giorni e notti fuori dal comune.
Fuori da tutto. Tutto è possibile.
Notti e giorni di una settimana intensa. Chiuse a doppia
mandata in una stanza con i manifesti di Che Guevara alle
pareti e un materasso improbabile per terra. Ogni tanto
uscivano per comprare qualcosa da mettere sotto i denti.
Oppure per lavarsi i denti.
Tra altri dubbi senza risposta, Paola continuerà per
molto a chiedersi se lo status di rivoluzionari richiedesse un
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cattivo rapporto con l’igiene. Ma per una settimana non le
importò di nulla. Il pensiero della polvere non la sfiorò
neppure. E dire che soffriva di allergie!
Poi la donna sparì, così com’era apparsa. Che fine ha
fatto? Tu l’hai vista? Chi ha il suo numero? E dove abita?
L’avevano guardata con una discreta compassione muta.
Rivoluzionaria, ma muta.
Una piccola e scura prese finalmente la parola. E fu una
mazzata al cuore e due al cervello. I suoi l’hanno internata,
quegli stronzi fascisti. In manicomio, ti rendi conto? Avete
letto Basaglia? Ragazzi, dobbiamo dar battaglia!
Il coro rivoluzionario andò ingrossandosi nel giro di un
minuto. Neanche una parola sul suo amore muto.
Manicomi e carceri erano uguali, per molti, in quei
tempi. E si battagliava molto, dentro e fuori. Moltissimo
con le parole.
Compagni, conosco una psichiatra, una alternativa. Le
stanno facendo la cura del sonno, maledetti fasci!
Neanche una parola sull’avventura di una settimana in
una stanza della quale tutte e tutti sapevano abbastanza.
Paola senza respirare si ritrovò spinta in un’utilitaria
scassata zeppa di volantini. Missione compiuta. L’indirizzo
giusto lo aveva la donna piccola e scura. Lei restò in
macchina. Muta.
E muta resterà per giorni e giorni.
Non chiese niente. Niente di rivoluzionario da sapere.
Soffre di crisi maniacali, questo il verdetto alternativo della
psichiatra, arrivato fuori tempo massimo.
Nessuna e nessuno capì niente o poco più. Perché non
c’era molto da capire. E poco o nulla di rivoluzionario da
ingaggiare.
A Paola il tutto regalò una di quelle depressioni tanto
profonde che, se non decidono di internarti per il tuo
stesso bene, poco ci manca.
Dissimulò con la scusa dello studio per la tesi. Ma non
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studiò per settimane e settimane. Non usciva da casa, non
mangiava quasi nulla. Dormiva. Solo, ogni tanto, una
lavata a corpo e lenzuola. Per via delle allergie.
Tutte e tutti si erano sciolte e sciolti nei rivoli della
rivoluzione prossima ventura.
Un paio di mesi dopo le accadde un primo fatto che,
unito al resto, le cambierà la vita.
Un amico, un compagno, uno sconosciuto come tanti
andò da lei un giorno. Ed era di sera. Lo riconobbe
appena. Gentile. Delicato. Strano compagno. Non uno in
prima linea. Una voce dolce. Ci fece all’amore. Solo una
volta. Diventò suo marito perché restò incinta.
Tanto, che importa?
Non avevano nulla in comune. Perfino i gameti si erano
detti non è cosa. La gravidanza che aveva deciso per loro
un matrimonio andò a ramengo col resto.
La depressione di Paola scomparve pian piano.
Per prima, quella per un aborto. Si vergognava con se
stessa ad ammetterlo. Ma non poteva farci nulla.
Anzi, i pellegrinaggi parentali per alleviare il dolore di
giovane-sposa-mancata-madre le davano sui nervi.
Dissimulò anche lì e continuò a dissimulare per lungo
tempo. Su molto altro.
Scomparve anche la depressione vera, quella per un
amore pieno di polvere e dubbi, lasciandole solo un
profondo cinismo nei confronti della vita in generale.
Nel frattempo, aveva preso un paio di decisioni.
La prima, avrebbe fatto l’avvocata. All’inizio pensava di
entrare in Soccorso Rosso, per via dei compagni
rivoluzionari nelle galere. La seconda, il matrimonio era
stato una manna dal cielo. Non proprio pane degli angeli,
ma lo avrebbe lasciato lì dov’era nato. Perché?
Intanto, al marito strano e delicato non andava più di
tanto di assolvere ai doveri coniugali. E, visto che era
sposata, nessun uomo o amico o compagno sconosciuto le
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avrebbe rotto più le scatole. Se non del tutto, pochissimo.
Nella sventura, una pacchia in tempi di emancipazione
spinta procurata.
La prima idea, essere l’avvocata di un Soccorso Rosso,
visse in lei un mese. Più della sostanza di un matrimonio.
Le restò solo la voglia di fare l’avvocata. Delle donne?
Perché no? Tanto, che importa?
Esperta in dissimulazioni e cinismo com’era diventata, le
si schiuse una carriera.
Il matrimonio invece non sarà mai sciolto perché in
fondo conveniva a entrambi. Che resteranno muti
sull’argomento a lungo.
Il compagno delicato poi marito si chiamava Paolo.
Pensa che fantasia i casi della vita!
Poco tempo dopo matrimonio e aborto a Paola capitò
un secondo fatto. Che unito al resto determinò il suo
futuro. Sulle prime, le consentì di uscire definitivamente
dalla depressione. Per entrare, quasi senza volerlo, in un
altro mondo.
Vide Paolo che passeggiava in una stradina del centro
storico, mano nella mano a uno, occhi negli occhi.
Si nascose in un androne e continuò a guardare.
Prima incredula. Poi irritata. Infine… un sorriso le
impresse quattro rughe indelebili ai lati di labbra e occhi.
Ripensò al compagno di liceo. Vergognandosi ma non
tantissimo, sorrise anche dentro. E sempre nell’androne.
M’andò di lusso. Sposai un ricchione.
E la lotta continua.
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Significa anche cavallo
Uma all’anagrafe era Manuela.
Un paio d’anni prima dell’incontro con Alma aveva
trovato un altro nome, magnifico. Grazie a sua zia Emma.
Il suo originale le piaceva abbastanza, però aveva
deciso. Basta. Non riuscì a convincere tutte e tutti, non lo
cambiò sulle carte, ma lo cambiò. Oltretutto, certe sue
amiche avevano il vizio di chiamarla Manu. Le aveva
minacciate: se continuate, vi prendo a calci. E loro ‘dai,
Manu è carino’. Una volgarotta l’aveva fatta grossa un
giorno, strusciandosi addosso a lei come una gatta: ‘Manu,
me dai la manu?’ La mano gliela diede sotto forma di
pugno, spaccandole un dente. Suo padre pagherà il
dentista. Non ti hanno denunciata, meno male, il padre
della ragazza è nostro cliente, mezzo amico.
Era una ribelle nata. Solo Emma, sorella minore della
madre, riusciva a tenerla a freno. Ma durò poco, perché zia
andò via da Lecce, all’improvviso.
Manuela la adorava. Zia le raccontava sempre favole
belle, diverse dai libri delle favole. Favole favolose con
principesse guerriere e cavalli bianchi. Qualche volta cavalli
neri. Ma sempre belli. Selvatici e liberi come l’aria, si
facevano cavalcare solo dalle principesse. Che cacciavano,
pescavano, si arrampicavano sugli alberi come la scimmia
di Tarzan. E andavano in giro per salvare la Terra. Per
salvarla facevano anche la guerra. Ché la Terra, non si sa
com’è, era sempre in pericolo. Una volta era un terremoto.
Un’altra un vulcano. L’esercito degli uomini neri. O certi
extraterrestri brutti e verdi. Però arrivavano sempre loro, le
principesse. Che erano due. Una bionda e una rossa. Rossa
come Pippi Calzelunghe? Quasi. E zacchete e zacchete,
sistemavano tutto. Gli altri alle principesse mettevano in
testa corone di fiori colorati. E ci davano un sacco di regali,
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dolci, un sacco sacchissimo. Passavano i guai, certe volte, le
principesse! Alla fine però riuscivano sempre a salvarsi. E a
salvare la Terra. Dai draghi, dagli uragani, da tutto.
Un brutto giorno zia le disse devo andare. Lontano. Che
la chiamava. E poi le scriveva. E poi tornava. Invece niente.
Quando chiamava parlava solo con la mamma. Non può
stare al telefono, costa, ti manda un bacio.
Una volta arrivò un pacco tutto per lei. Un gioco da zia
Emma col cielo sbriciolato in pezzettini, che poi li mettevi
insieme uno a uno e diventava cielo intero. Lei ci mise un
po’ a sistemare le formine strapizzate. Le diede una mano il
fratello grande, Luca. Lo appese in camera sua e di notte
brillava, ché i pezzetti avevano su certi granelli come
brillantini. Si vedevano le stelle. Le galassie. E i pianeti.
Manuela aveva deciso che zia Emma stava sulla Chioma
di Berenice, proprio bella. Che si chiamava così a Manuela
lo aveva detto il fratello. Le scritte erano in inglese e lei
conosceva solo l’italiano. Abbastanza.
Prima di partire Emma aveva lasciato un altro regalo per
Manuela. Ma Antonio glielo doveva dare al compimento
dei 14 anni. Ora no. Era un libro sulle streghe.
Quando appese il puzzle in camera Manuela sapeva
leggere e scrivere in italiano già da un pezzo. Però non le
scrisse mai. Nemmeno una letterina di Natale. Era
arrabbiata assai con lei per averla lasciata senza favole.
Smise anche di chiedere di zia. Perché ogni volta le
rispondevano ‘sta bene, sta bene, poi viene, poi viene’.
E cambiavano discorso. La madre piangeva di nascosto e
il padre ‘prendiamo un gelato’ oppure ‘guardiamo il film
con Pippi Calzelunghe’. Come quando si faceva male.
Come se quella di zia ‘sta bene, sta bene, poi viene, poi
viene’ era una storia brutta che faceva male a tutti.
All’inizio per consolarsi si era fatta un’idea sua. Zia era
andata a salvare la Terra con un’altra principessa, un
cavallo bianco e un cavallo nero. Col tempo, i bisbigli delle
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amiche e qualche buona lettura, capirà che niente come la
sua favola inventata era più vicino alla verità.
Dopo le medie, seppe dove zia si trovava di preciso.
La città era Boston, nello Stato del Massachusetts, uno
degli Stati Uniti d’America. A scuola Manuela non ci
andava volentieri, era stata bocciata tre volte, una alle
medie e due a ragioneria. Niente, non studiava mai. Quella
volta studiò quanto riuscì a trovare. Storia, geografia e tutti
i particolari della guerra d’indipendenza dove nel 1770
avevano fatto un massacro, a Boston.
Un giorno decise. E a tavola disse parole che sapeva
avrebbero fatto male a qualcuno. Papà, mamma, voglio
chiamare zia Emma. Voglio andare a trovarla. E non voglio
più andare a scuola. Voglio lavorare. Faccio i soldi e parto.
Tanto, quest’anno mi bocciano un’altra volta!
Il silenzio durò poco. Lo ruppe il padre. Non se ne parla
proprio! Prima finisci ragioneria. Se no, sono guai.
La madre invece disse solo due parole. Oh, Signore!
Il primo aveva provato con le minacce, ma sapeva
sarebbe stata vita dura. La seconda si era limitata a
invocare il cielo e a sospirare, come sempre.
La soluzione la trovò Luca. Che lavorava già e aveva
l’aria di uno che la sa lunga. Manuela ne aveva anche un
altro di fratello. Il secondo. Massimo. Lui, alla faccia del
nome, riduceva tutto al minimo, compresi i colloqui a
tavola. Minimo sforzo, minimo rendimento, minimo
coinvolgimento. Insomma, Massimo.
Dopo le parole del padre, Luca si alzò da tavola e fu
grande davvero, più di sempre. Che bisogno hai di lasciare
la scuola? Ci andiamo insieme, quest’estate. Voglio andare
anch’io a Boston da zia Emma. Ok? Luca aveva chiuso
guardando i genitori, ma l’unica in grado di dare una
risposta conclusiva era Manuela, lo sapevano. Avrebbe
fatto veramente la cazzata di lasciare la scuola.
Il padre guardò Luca prima male, poi bene. Infine, disse
21
l’essenziale. Però questo quadrimestre porta una pagella
come si deve!
Lei studierà come non aveva mai studiato.
Prenderà anche l’inutile diploma.
Il viaggio di andata fu una favola. La valigia piccola
piccola. Tre aerei. Tutto quel blu.
Boston invece era quasi sempre grigia. E un po’
marrone. Per le case quasi tutte fatte di mattoni.
Altre case invece sono alte come nei film. E fatte di
vetro quasi specchio. Ti vedi da fuori ma non vedi dentro.
Le strade non sono tutte come nei film, però circolano
macchine col cofano uguale al portabagagli, lunghi e
squadrati come enormi valigie di ferro.
Anche a Boston c’è il mare. Anzi, l’oceano. Non è bello
per niente. E l’oceano che ci entra dentro come fiume
puzza, in alcuni punti. Sì, Boston non era poi questo
granché. Però c’era zia. Che quasi non la riconobbe.
Manuela sì, era sempre zia sua bellissima. Uguale. Solo,
parlava con un accento strano. Americano. Ma era sua zia!
La casa di zia si trova in una strada piena di ciottoli per
terra. Tra un ciottolo e l’altro l’erba. Fuori da una casa
vicina sta appesa la bandiera americana. Proprio come nei
film. La casa è piccola, ma con un sacco di quadri e foto e
fiori. E un divano colorato. L’amica sua si chiama Helen e
sta lì con lei. Luca lo spedirono da un amico italiano lì
vicino. Manuela dormì sul divano colorato. Helen e zia
invece dormono insieme, nell’altra stanza, nel lettone.
I suoi 20 giorni a Boston saranno disordinati, strani, ma
bellissimi. Partì che Boston un po’ le piaceva. Partì dicendo
in continuazione e solo due frasi alle due donne, in
aeroporto. Ma venite sul serio? Prometti, zia? Sì, promesso.
Il suo cielo all’andata era ancora a pezzettini. Al ritorno,
tutte le stelle avevano trovato il proprio posto. Ogni stella
passata e presente era nel suo cielo.
E fece spazio per una stella nuova, un nome.
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Zia Emma conosceva un professore che di nome faceva
Robert Thurman. Un esperto di buddismo. E il professore
aveva una figlia.
È più piccola di te, Manuela. Ma è una tosta,
anticonformista. Un po’ come te. Vuole fare l’attrice. Ha
già avuto una parte. Senza grande successo. Ma sono certa
che diventerà una star. Sì, sarà una stella, lo sento. Te la
farò conoscere. La prossima volta, magari. Si chiama Uma.
Uma? E che cacchio di nome è?
La zia sorrise dolcemente. A parte il sorriso, non fece
una piega. La conosceva, nonostante gli anni. E le rispose
con la voce seria. È uno dei nomi della Dea Madre,
Manuela. Una divinità indiana. Significa luce. Ti darò un
libro. E, in lingua giapponese, Uma significa anche cavallo.
Ricordi i nostri cavalli, Manuela?
Certo che me li ricordo! E…
Manuela ci pensò su solo un paio di secondi. Scattò dal
divanetto colorato portandosi al centro della minuscola
stanza bostoniana. Girò su se stessa velocemente una
decina di volte, derviscio indiavolato con le braccia aperte.
Si bloccò lasciandole in avanti, tese. Luca, il nuovo amico
di Luca, Emma ed Helen scambiarono un’occhiata tra loro.
Mute e muti avevano assistito alla performance del twister.
Uma si fermò col fiatone e una voce nuova.
Deciso. Non chiamarmi più Manuela, zia. Neanche voi.
E neanche tutti. Mai più! Da oggi il mio nome è Uma. E, il
libro, zia... ok, lo leggerò lo stesso.
Nessuno dei presenti disse una parola.
Solo, Emma si alzò dal divano, l’abbracciò e, sempre
abbracciata a lei, si diresse verso uno scaffale. Lì, dirà solo
due parole. Porgendole con gesto solenne il libro sulla Dea
Madre. Prometti, Uma?
Anche lei risponderà con due. Promesso, zia.
23
Si dice avvocata
Doriana era a sistemare carte nella loro stanza-studio.
Franca si sporse dal cucinotto stropicciando una salvietta
con le mani unte. Apri tu? Deve essere Paola. In anticipo,
come sempre.
Le due donne abitavano un trilocale a quattro passi da
piazza Trilussa e dalla sede di molte riunioni di donne.
Romane e non. Una fortuna, viste le dimensioni della loro
casa, da una parte, e le frotte di femmine più o meno
femministe con la voglia di frequentazioni al tempio,
dall’altra.
Erano una coppia storica. Di quelle dove il lesbismo
passa quasi inosservato. O comunque sublimato nella
politica per le donne, queste poverette.
Nel loro intimo, sapevano anche quanto il lesbismo
fosse passato del tutto, sotto un certo aspetto. Ma si
guardavano bene dal farne parola, intanto a se stesse.
Ne avevano fatto abbastanza di sesso. E discusso.
Abbastanza. Di sesso se n’era parlato, nell’arco degli anni
70/80. Prima in quattro, poi di più. Etero e non etero. In
un erotico diffuso, ma poco dichiarato. Dove l’antico
volemose bene si era fuso con un pericolosissimo ‘forse
possiamo anche noi’. Molte resteranno imprigionate in
vesti simili a un cliché. Come personaggi dei giochi di ruolo
virtuali a venire.
Doriana percepiva il pericolo, se non i sintomi, di un
tale imprigionamento. Ci stava pensando giusto prima di
andare ad aprire la porta. Un semplicissimo pensiero.
Prima o poi, manderò qualcuno al diavolo.
In luoghi e modi differenti, Doriana e Franca avevano
condiviso battaglie nella lotta di emancipazione delle
donne in Italia.
La vicenda all’inizio le aveva quasi risucchiate. E forse
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salvate da un esistenzialismo lesbico eternamente in bilico
sull’orrido della perdizione.
Entrambe avevano urlato slogan in manifestazioni dove
di lesbismo non compariva neanche l’ombra di un’attesa.
Una volta a Doriana toccò l’incombenza di aprire un
convegno sugli asili nido. Per sostituire una dirigente,
all’ultimo momento. Non le mancavano le parole. Magari,
l’entusiasmo spinto.
Ti tocca mediare troppo nel cuore e nel cervello per
appassionarti a un dibattito su scuole materne e dintorni, se
sei lesbica e in più faresti volentieri fuori l’infanzia tutta
peggio di Erode. Si va di metafora, logico. Ma la
correttezza universale femminista finora aveva impedito la
minima insorgenza di rigurgiti antifamilistici.
Le scuole non si chiamarono più materne, con un
aggettivo che da solo era un programma, come aveva
voluto Benito Mussolini. Divennero scuole dell’infanzia. La
sostanza restò più o meno la stessa.
Altre
lotte
verranno.
E
altre
conquiste.
Dell’emancipazione. Delle donne. Italiane.
E così, pensava Doriana mentre sistemava carte prima di
andare ad aprire, così c’è toccato di dare una mano per
sistemare l’istituto famiglia in Italia. A noi. Montare una
bella impalcatura. A noi. Dare il contributo per rendere più
vivibili le scelte etero-obbligate. A noi. Indirettamente, ma
lo abbiamo fatto. Accidenti. A noi.
Ok, vado. Ciao, avvocato. Sempre pacchi tu, eh?
Paola tracimò nell’ingresso abbracciandola con le braccia
ancora cariche di buste e bustine. Si dice avvocata.
E smack. Era una pantomina abbastanza rodata.
Una partiva con ciao, avvocato. L’altra replicava con si
dice avvocata. Lo sapevano entrambe, era come dire ciao,
come stai, ti voglio bene, bentornata.
Il bacio con lo schiocco era sempre autentico.
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Nessun bisogno
Paola adottò Doriana e Franca. O loro l’adottarono?
O, meglio ancora, lei aveva innestato la marcia per una
triplice adozione?
Fatto sta che le aveva individuate fin dalla
partecipazione alla prima manifestazione.
Sapeva del loro comune impegno in questioni per lei
interessanti. Non solo per lavoro. Non solo per le donne,
queste poverette.
Conosceva soprattutto il lavoro politico di Doriana.
Una che sì, lavorava in banca come lavoro, ma che
scriveva della trasmissione dei beni in quel modo, come
poteva non interessarla?
Paola sapeva anche chi erano Doriana e Franca insieme.
Non è che avesse le idee chiarissime sul punto.
Dopo la storia di una settimana di passione e polvere
finita in cenere, dopo la depressione dalla quale era uscita
incinta, sposata e infine avvocata, dopo quella sorta di
‘prendi tre fregature e ne paghi solo una’ che era stata la
sua vita a ridosso dei 30 anni, si era imposta di guardare
una donna in un certo modo solo sullo schermo di un
cinema. E di film brutti ne aveva visti troppi
sull’argomento.
Aveva pensato più che altro alla carriera.
Per il resto, si era ritrovata a incarnare una modernità
fuori dal comune. Mitteleuropea, per giunta.
Aveva sposato Paolo per non dare un colpo al cuore a
sua madre. Nel cuore di Catania. Tanto, che importa?
Ed era finita a dare ospitalità a due amanti gay nella casa
fine ottocento ereditata dallo zio prete.
Paolo le aveva presentato Pavel. Lettore cecoslovacco
semirifugiato politico conosciuto all’Orientale di Napoli.
Queste le sue prime parole a lei. E che a lei bastarono.
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Pavel che lei riconobbe subito.
Pavel che aveva cinque anni più di Paolo. Ma
dimostrava la metà dei suoi. Pavel col viso lungo quasi
senza l’ombra di un pelo. Pavel con un paio d’occhi chiari
senza colore e un eterno sorriso triste. Pavel che non
parlava molto, ma amava la musica classica almeno quanto
lei. Pavel che leggeva e studiava. Studiava e scriveva.
Pavel che in questo 1989 sarebbe finalmente diventato
ceco. Quattro lettere. Senza la i.
Pavel che… certo, può stare da noi. Anzi, sono felice e
onorata.
Sarà così che, senza volerlo, senza che fosse la piena
verità, la coppia Paola-Paolo diverrà un simbolo. In una
città che voleva darsi un tono già da tempo. Dove
l’università era divenuta crocevia di modernità alla ricerca
di respiro più ampio. Fuori dalla Sicilia d’altri tempi.
Nel giro di poco, sul portone della loro casa fine
ottocento, in pieno centro a Catania, si materializzò per
tutte e tutti un’inesistente ma tangibilissima targa aurea:
‘supporto terrone a lontana rivoluzione’.
Tanto, che importa?
Paolo e Pavel facevano sesso, spesso.
Lei lo sapeva. A volte lo sentiva.
Forse non tanto spesso. Per lei le unità di misura di
tempo nel sesso erano vaghe, al pari di altro.
In nome della modernità, col primo si era accordata su
stanze separate fin dall’inizio. Anzi, lontane. La casa lo
permetteva, era grande e lunga. Però li sentiva lo stesso.
Una volta definitivamente fuori dalla depressione, le sue
fantasie sessuali solitarie ne trassero qualche beneficio.
Li immaginava. Li vedeva. Sentirli li sentiva già.
Di tanto in tanto, le veniva voglia di sesso anche con
un’altra anima sotto forma di corpo.
Scartò l’idea di farlo in tre, anche prima del muto e
generoso invito dei due. Più muto che generoso.
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Scartò il pensiero di un amante in loco, troppo
complicato. Troppo viavai, perfino per una casa grande e
lunga come la sua.
Complice una carriera destinata a decollare, prese molti
aerei ed ebbe amanti un po’ ovunque.
Amanti maschi, per carità. Abbiamo già dato.
Solo una volta, un’avventura di tre giorni con una
collega svizzera. Durante un convegno sul diritto
comunitario del lavoro e sue implicazioni in Svizzera.
Faccenda di solo sesso volante nella Svizzera italiana.
Anche la collega svizzera era italiana, originaria di qualcosa
dalle parti di Orvieto, ma in attesa di nuova cittadinanza.
Paola si concesse così un lusso extraeterosessuale nei suoi
lussi extraconiugali. Che di coniugale la sua vita non aveva
nulla lo sapevano solo in tre. Ma all’esterno era una carta
vincente. Si faceva sesso facile e si sapeva che sarebbe finita
lì. Lo sapevano tutti gli uomini con cui era andata a letto.
Lo sapeva anche la collega, extracomunitaria e distante
al punto giusto. Non fu uno spasso con la svizzera, niente
di extralusso sul piano sessuale.
Paola non era un’esperta.
A parte l’aura magica e tragica nella quale aveva
racchiuso l’unico episodio lesbico della sua vita, le idee le
aveva chiare solo al negativo. Sapeva cosa non le piaceva
in una donna. Sul piano fisico e ancor più sul mentale.
Non le piacevano le donne femminili.
E non pensava mai alle donne in generale. Anzi,
nonostante la professione, nonostante le trappole buoniste
anzi che no, a lei di pensare le donne come universo unico
e a se stante non veniva bene per niente. Infine, non le
piaceva lesbica, come parola. Forse per colpa del liceo.
Però sapeva, dentro di sé lo sapeva, che solo con una
donna prima o poi si sarebbe sentita intera.
Ci mise pochissimo a farsi riconoscere da Doriana.
Scelse lei tempi e modi per uscire allo scoperto.
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Si ritrovarono da sole in un angolo appartato a fumare
in pausa chiacchiere. In una delle tante riunioni femministe.
Paola la guardava con insistenza ogni volta che aspirava.
Guardava, piegava lo sguardo quando gettava fuori il
fumo, riprendeva ad aspirare e guardare.
In attesa di parole che non tardarono ad arrivare.
L’altra andò subito al dunque, come faceva sempre.
Allora sei sposata e fai l’avvocato.
Paola era preparata a un approccio anche più duro.
Sorrise. Si dice avvocata e, delle due, è l’unica autentica,
per ora. Le era bastato ammiccare alla parola autentica.
Doriana proseguì nel gioco dell’interrogatorio, per
puntualizzare i contorni di quanto aveva già intuito.
Vuoi dire che stai per separarti?
Lei era pronta anche per un gioco più complesso.
Ma una pausa è una pausa, anche per una grande
donna. Pensava di avere davanti una terroncella venuta a
Roma per imparare la vita vera? Ok, saremo più esplicite.
L’avvocata in lei ci pensò per tre secondi.
Scandì le parole una ad una, ma alla velocità della luce,
calcando il tono su alcune. E così parlò, l’avvocata.
Voglio dire che fino a quando non troverò una donna
che mi faccia venire anche voglia di sposarla, e fino a
quando non ci sarà il matrimonio anche tra persone dello
stesso sesso, non ho nessun desiderio di separarmi. Anzi,
ora come ora, non ho nessun bisogno di separarmi. Come
non avevo voglia di sposarmi. Solo che, primo, ero rimasta
incinta. Secondo, stavo male da morire per aver perso una
donna. E terzo, vivevo in una città dove mettere al mondo
dei figli da sola era uno scandalo. E ci vivo ancora. Il resto
lo sai già, ho abortito spontaneamente.
Riprese fiato, gettò nel posacenere il mozzicone che le
stava ustionando le dita e rilanciò prima di una possibile
replica dell’altra.
Ah, scordavo. L’amante di mio marito vive con noi. Ed è
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un uomo. Non male, eh? Non ne volevo neanche uno e mi
ritrovo con la casa piena di maschi di tutte le razze, da
mattina a sera. Scusami un attimo.
‘Scusami un attimo’ erano le parole studiate meglio,
nell’infilata spavalda.
Le servirono per infilarsi nel bagno lì accanto.
Una volta dentro, due respiri profondi. È andata.
Pipì lunga, lavata di mani e rinfrescata al viso con cinque
sciacqui cinque. Sguardo allo specchio, altri due respiri,
posso uscire.
Doriana era nell’angolo dove l’aveva lasciata, raggiunta
da due che tra loro discutevano animatamente, cercando
animatamente di coinvolgerla.
L’amica sollevò appena sopracciglia e sguardo, inviando
un sorriso quasi impercettibile. Fece segno alle altre di
zittirsi. Una mano alzata tra le due bastò. Che infatti
smisero immediatamente.
Sopra due teste, con rinnovata semplicità, Doriana
rilanciò a sua volta. Questa sera, l’incontro che tu sai,
importantissimo, non puoi ripartire prima.
La prima pratica per l’adozione era andata a buon fine.
Non era previsto nessun incontro in serata.
Complimenti, avvocata.
E a lei, dottora.
30
Prendi un bel respiro
Non so se mi piace veramente. Ma il cuore mi batte alla
sola idea di vederla. Vorrà dire qualcosa, no? No…? No…?
Paola, dopo ‘vederla’, si era lasciata cadere sul divano.
Come una diva.
Le sue prime parole dopo la distribuzione di pacchi e
baci. Aveva lanciato gli interrogativi finali alternando lo
sguardo verso le due amiche.
Franca da pochi istanti era risbucata dal cucinotto nel
quale aveva ripreso postazione dopo i saluti. L’acqua
bolliva. Aveva sentito bene solo la parola ‘qualcosa’.
Ma che t’è successo? Hai la faccia come un peperone!
Doriana sorridendo amorevolmente zittì Franca col
solito gesto della mano in avanti. Tu se non tiri fuori una
metafora ortofrutta al giorno!
Con espressione lievemente più seria andò a sedere nella
sua poltrona preferita, in piena faccia a Paola.
Stasera ci vai e vedrai se ti piace veramente, semplice!
La fai facile, tu. È tutto semplice per te!
Questa è una cazzata che non ti fa onore, avvocato.
Si dice avvocata.
Ma non ti fa onore lo stesso! Perché non è mai facile. E
non è stato facile mai. Neanche per chi lo sa dalla culla!
Franca aveva assistito al battibecco tenendosi in disparte.
Non era la prima volta. Decise per una dignitosa ritirata, la
pasta doveva essere quasi cotta.
Prima, depositò uno dei suoi consigli passepartout.
Qualsiasi cosa devi fare, prendi un bel respiro, prima. A
proposito, grazie per le gocce omeopatiche, te ne sei
ricordata, che cara.
Rimaste sole, le due si guardarono in silenzio per mezzo
minuto. Paola, senza alzarsi dal divano aveva aperto la
portafinestra, mandato un segno d’intesa e acceso
31
l’ennesima.
Scusami. Non volevo dirlo. Cioè, lo volevo dire, ma
non nel senso… Oh, com’è complicata la vita. E quanto
sono complicate le donne!
Sulla complicazione, avvocata, possiamo concordare.
Concordo e di più!
Risero un po’ e la tensione si allentò.
Paola decise di deviare su una richiesta di consiglio più
terra terra. Le ho portato il mio profumo. Cioè, non il mio.
Uguale al mio. Oh, per farla breve, ho pensato a un regalo.
Che dici, può andare?
Dico che è di una banalità profondissima. E sì, può
andare, tutto può andare.
Banalità? Mi costa un occhio della testa, ogni volta, e
sono miope!
Doriana rise di nuovo. E l’altra con lei.
Franca urlò piano dal cucinotto. Sarebbe pronto, se
volete apparecchiare.
Mentre sistemava piatti e bicchieri, Doriana lasciò cadere
la domanda che prima o poi faceva sempre. Una domanda
tanto per. O forse no.
Con Paolo, tutto bene? E Pavel, novità?
L’amica rispose nel solito stile venato da cinismo, con
una punta appena di umorismo.
Tutto bene, come sempre. Cioè, niente. Anzi no,
qualcosa si muove. Certo, sono in subbuglio. Pavel è
tornato una settimana fa. E Paolo ha detto che la prossima
volta andrà con lui. Che ti devo dire, spero solo che non si
facciano ammazzare! Altrimenti, mi toccherà andare a
ritirare due corpi più morti di quanto non lo siano già!
Morti e però finalmente cechi. Almeno uno, ceco. Quattro
lettere. Senza la i. No, scherzo ché è meglio. Ma la
situazione sta prendendo una piega al limite dell’osceno.
Non dico del sesso, chi se ne frega di quello. E neanche del
fatto che in pratica mantengo due nullafacenti. Che però
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sono tanto carini, intellettuali, impegnati, ora per giunta
rivoluzionari! È tutto l’insieme. Sta a sentire, questa è di
ieri, una sciocchezza, ma è per darti un’idea. Ti ho già
detto che sono amanti del cinema di Kieslowski, vero? Lui
e tutti gli stramaledetti numeri dei suoi Decalogo. Ero nello
studio di casa, con una cliente, ma fa niente, è un’amica.
Paolo entra, mi guarda, ammicca come un ebete e…
‘scusate, volevo dirti che tra un po’ noi si va a vedere
Breve film sull’amore, vieni? In Italia lo hanno tradotto
Non desiderare la donna d’altri . Non lo trovi buffo,
Paola?’ Gli avrei tirato in testa il manuale di medicina
legale, guarda!
Al che, Doriana iniziò a ridere.
Si levò dalla poltroncina che rideva ancora.
Rise così forte e a lungo da avere un attacco di tosse
convulsa. Piegata su se stessa si reggeva con le mani sul
bordo del tavolo.
Paola non rideva molto. Ma era ancora sotto l’effetto
delle proprie parole per poter intervenire.
Franca arrivò di corsa. Che hai fatto? La domanda era
per Doriana, ma la fece guardando Paola che allargò le
braccia, trattenendosi a stento dal ridere anche lei.
Solo dopo essersi ripresa, solo dopo tre colpi dietro la
schiena e altrettanti sorsi d’acqua, Doriana riuscirà a dire la
verità. Con le lacrime agli occhi.
Niente, tesoro, niente. Devo dirti una cosa, però ti giuro
che non c’è nulla di personale. Io adoro questa donna!
Ancora risate.
Rise anche Franca. Politically correct. Come sempre.
33
Mica vuol dire
Non so come fai. Al tuo posto, dovrei essere tre
persone, o forse quattro!
Nello stesso momento in cui, dalle parti di piazza
Trilussa, tre donne sedevano intorno a un tavolo per
pranzare dopo una buona dose di risate, altre due si
rincorrevano in tondo in un attico di piazza Adriana.
La verità, non si rincorrevano. Solo, Viola provava a
stare dietro a Letizia che ispezionava ogni angolo alla
velocità della luce. Vista la casa a chiocciola, se ripresa
dall’alto di un satellite, la scena sarebbe parsa
l’inseguimento di spie in un classico 007. Finisce che non
sai mai chi insegue chi.
Dov’è la sciarpa rossa? E la borsa di Fendi? Per Giove
abulico, possibile che sistemi sempre a modo suo? Forse in
un altro continente le borse si tengono in frigo?
Ogni tanto le poteva capitare una battuta leggera.
Ma Letizia non era per niente razzista. Per niente.
Viveva di rendita e passatempi.
Così li chiamava Viola, passatempi.
Letizia era in età da pensione, ma la sua sarebbe stata la
minima. Per fortuna, aveva metaforicamente ammazzato il
resto della parentela fino al quinto grado ed ereditato una
quantità indefinita di case e terreni in Abruzzo.
Tra affitti e colonìe, la commercialista le faceva firmare
ogni anno carte e assegni terminanti con moltissimi zeri.
I passatempi in realtà erano quasi tutti seri.
Letizia era da sempre immersa in una miriade d’impegni.
Forse, espiava il senso di colpa per essere così ricca,
senza aver sudato poi tanto.
Lei, che era comunista. E della prima ora.
A suo modo, dava un notevole contributo
all’abbassamento del tasso di disoccupazione. Per iniziare,
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aveva due cuoche, un’italiana e una francese. E un
domestico indiano. Par condicio con disparità, in nome
della differenza sessuale.
La massaggiatrice era una donna, lo dice la parola stessa.
L’agopunturista un uomo. Venivano tre volte a settimana,
a testa, da sempre. Letizia non era malata per niente. Si
portava avanti.
Un’inglese madrelingua le dava inutili lezioni d’inglese.
Una cinquantenne originaria di Stevenage che a Letizia
piaceva moltissimo. Veniva ogni volta che lei la chiamava.
Tanto, la strapagava. Non facevano sesso. Solo inglese.
Parlato.
Nel complesso, una costellazione di gente di cui Letizia
aveva perso il conto le ruotava intorno. Piano, ma
eternamente. Tutte sul suo conto corrente. Tutta bella
gente.
Letizia era alta, con una certa stazza e generosa di petto.
A dieta praticamente sempre. Ossia mai.
L’ultima delle sue serissime occupazioni era la
sistemazione di un Archivio di una Storia di donne. Con
l’aiuto di altre. Di una Storia di cui faceva parte anche lei.
Quando ne parlava, scherzava sempre.
In fondo, mi sto a sistemare anch’io!
Le piaceva molto scherzare.
L’unico passatempo nel senso autentico del termine era
lo scopone scientifico. Il più serio, all’apparenza. Quando si
giocava a scopone nell’attico non volava una mosca, si
staccava il telefono e a volte il campanello.
Viola era l’unica ad avere la chiave di casa.
L’unica da cinque anni, da quando viveva con Letizia.
Che perdeva sempre oggetti. Chiave compresa.
Deciso, lei quella chiave non l’avrebbe più avuta.
Per non dover cambiare serratura a ogni smarrimento.
In casa quasi sempre qualcuno. E presi i dovuti accordi col
portiere. Per la chiave d’ingresso. Del solo ingresso.
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Una volta dentro, solo lei e Viola sapevano dove
cercare le seconde chiavi per proseguire nella chiocciola.
La prudenza non è mai troppa.
Essere comuniste mica vuol dire essere fesse, no?
Rideva ogni volta che lo diceva. Ossia spessissimo.
Essere comuniste non vuol dire essere fesse.
Viola era molto più giovane e l’amava di un sentimento
autentico. Aveva una bellezza tutta sua. Un’aura di
bellezza dolce le apparteneva costantemente.
Era bella ed efficiente.
Forse per questo i pianeti della costellazione all’oscuro
pensavano fosse la dama di compagnia, assistente,
segretaria tuttofare di Letizia. Dolce, ma efficiente.
Invece Viola non faceva niente.
A parte l’arredatrice d’interni per hobby. E amare
incondizionatamente quella forza della natura dispotica ma
adorabile di Letizia.
Eccola! Viola trovò la sciarpa, ma non la borsa.
Che l’altra ricordò di aver lasciato in Archivio.
Uscita di fretta, aveva preso solo la ventiquattrore.
Per Giove abulico, sono in ritardo col parrucchiere. Poi
mi toccherà passare da lì prima di andare dalle
Soroptimiste. L’invito con l’indirizzo ce l’ho in borsa. Farò
il giro di Roma. Oh, che stress! Lo chiami tu il taxi? E
ricordati il catering per la festa. Vogliono la conferma del
numero. Ho perso il conto, quante siamo?
Sedici. Ok, ci penso io. Ciao, amore.
Nessuna
conosceva
l’origine
dell’esclamazione.
Sapevano solo che era di Letizia. Ed era l’unica.
Letizia che per il resto non sopportava le parolacce e
poteva toglierti il saluto e molto altro davanti a una
bestemmia. Se sei comunista mica vuol dire che ti piacciono
certe cose, no? Per Giove abulico!
36
Del dissimulare un’arte
Salutatemi alla Sicilia! A domani, vi dirò tutto. O forse
no. Se non dico tutto è meglio, no?
Paola ammiccò, mandando un bacio con la destra e
aprendo l’ascensore con la sinistra.
Doriana e Franca avevano un cinema tranquillo per la
serata. Nuovo Cinema Paradiso, film ambientato nella
Sicilia anni 50 e candidato all’Oscar. Lo vincerà, poi.
Paola lo aveva già visto. Buona la musica. Come ogni
siciliana che si rispetti era entrata in sala con diffidenza.
Alla fine non le piacque quasi niente. Ma lo tenne per sé.
Capace di incrociare un’entusiasta. E costretta a dire il
perché e il percome. Meglio di no.
Non lo disse in giro, come faceva di buona parte dei
propri pensieri. Diceva sempre altro. Oppure altro accanto
alle verità, per trattenere presso di sé il cuore della verità.
Aveva fatto carriera anche grazie a quello. Il suo essere
avvocata non era la causa, se mai la conseguenza, con
altro, di un’attitudine appresa nell’infanzia e affinata dopo.
Sull’arte del dissimulare avrebbe potuto scrivere un
manuale. L’ultima sua vittima in ordine di tempo era la
donna con cui aveva una riunione. Poi, forse, una cena.
Forse da sole. E poi, forse…
Ilaria non aveva dovuto faticare per convincerla a
entrare nel gruppo di studio per avviare un’altra proposta
di legge. Paola accettò subito. Lo avrebbe fatto comunque.
Per non insospettirla attese solo di conoscere l’argomento.
Arte della dissimulazione, capitolo primo, paragrafo terzo.
Ilaria le era piaciuta subito. Donna delicata e ferrea. In
una marea di donne e uomini. Più donne che uomini, a
convegno. Ilaria al tavolo dei relatori. E solo un’altra con
lei. Più uomini che donne, al tavolo dei relatori.
Per questo si dice relatori, no? Altrimenti, come si
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direbbe se al tavolo ci fossero otto donne e due uomini?
Sempre relatori? Ancora e sempre relatori, rispondeva
Signora Grammatica nella testa di Paola. Che la conosceva
da bambina. Non l’aveva mai abbandonata, una
rompiballe affascinante. Il suo primo amore vero, in fatto
di giochi. Le bambole con l’intero ambaradan altoborghese-siciliano-cattolico-ma-non-troppo destinato alle
infanti siciliane anni 50 erano state solo una passione
passeggera. La grammatica e i giochi di parole divennero
ben presto i suoi primi amori fedeli, fuori discussione.
L’amore, poi. Che roba era l’amore? Paola non si era
posta spesso la domanda. Sapeva quello che non era e lì si
fermava. Non c’era amore nelle storie inanellate e appese
come ghirlande al collo con su scritto ‘benvenuta
nell’emancipazione sessuale’. Lo sapeva. Ma l’amore vero,
di che materiale è fatto? Bella domanda.
Paola era erudita in fatto di domande. Sapeva che se
non ti interessano davvero le risposte è inutile formulare le
domande. Inutile e semmai gentile, se non le fai a te stessa,
ma a chi non aspetta altro se non la domanda giusta.
Magari. E da così tanto aspetta che la risposta non è più
possibile. O, peggio, non è la risposta giusta. Magari.
Gentili e false alcune sue risposte, quanto inopportune se
non dolcemente violente certe domande altrui.
Aveva risposto poche volte con la verità, perché le
poche erano bastate. La colpa imperdonabile era nella sua
risposta, non nella domanda sciocca e impudente.
Dalle prime botte nei denti aveva imparato la lezione.
E iniziato un gioco nuovo, quello di domande e risposte.
Imparò a non porsi le prime quando l’oggetto delle
seconde non era di suo gradimento. E qui, si direbbe,
siamo sul facile, a meno che domande e risposte non
risiedano nel condominio dei propri desideri.
Ma Paola aveva una sapienza più complessa. Per non
dare risposte differenti da quelle attese. Prevedeva in
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tempo le domande. E riusciva sempre a non farsele fare,
quando non era possibile dare risposte false ma gentili.
Oppure quando, molto più spesso, l’eventuale risposta
autentica sarebbe stata di tutt’altro condominio. O peggio,
così tanto autentica da far male. Innanzitutto a se stessa.
Col tempo divenne maestra anche in quello.
Si specializzò durante la fase che altre e altri chiamarono
della depressione. Forse l’avrebbe chiamata così anche lei.
Tanto, che importa? Quella capacità fu arte per la propria
sopravvivenza, a lungo. Poi, fu solo arte.
Una maestra senza allieve. Un capitolo a sé nel
personalissimo manuale sul dissimulare.
Ora però la domanda la inquietava. Continuò a farsela
nel taxi. Anche mentre pagava. L’amore, che roba è
l’amore? Il vissuto che in pochi giorni, secoli prima, le
aveva desertificato l’anima dopo averla infiammata di
passioni sconosciute, poteva essere amore?
E quanto provava ora per Ilaria, poteva? L’ammirazione
immediata per parole pronunciate con soavità mista a
fermezza e percepite in una voce unica. La voglia di starla a
sentire mai stanca. Il bisogno fisico di cercarla con gli occhi
e poi trovarla in una sala, appena arrivata. Magari prima,
sulle scale. E gli occhi nella scollatura, mentre scendevano
le scale. La voglia di tuffarcisi dentro, quando le chiese del
profumo che indossava. Era amore il frullato di emozioni
che le procurava una morsa piacevolissima all’altezza
dell’ombelico? Ed era stato il carburatore per alcune idee
nella parte sinistra del suo cervello, negli ultimi tempi?
Più la domanda si faceva impellente in lei, più percepiva
che la risposta non dipendeva solo da lei. Un vero guaio.
Non solo le importava per la prima volta, ma la
faccenda si era complicata, perché la sua arte l’aveva
portata, parola per parola, silenzio per silenzio, a lasciar
credere a Ilaria di avere una vita felice, accanto a un uomo
unico…! S’era scavata la fossa da sola? Forse no, aveva
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visto una luce nei suoi occhi. Ilaria che aveva smesso di
raccontarle dei progressi dei figli a scuola. O dell’ultimo
tappeto indiano per la casa. Che aveva accennato alla
mostra di Tamara de Lempicka. Ci vado. Ci vieni? E
quell’attrice. Mi piace, ti piace? E come lo diceva, Ilaria.
Paola non sapeva bene cosa ci fosse dentro tutti quei mi
piace ti piace. Ma pensò che poteva osare.
La sera a cena osò la proposta del locale carino per sole
donne. Che si rivelò di una noia tristissima. Solo, diede
loro il tempo per continuare a guardarsi. E bere. Bere e
guardarsi. Da sole. Finalmente. Dopo il cacio e pepe, il
profumo e il rossore muto di Ilaria in una tavolata dove
altre avevano continuato a parlare solo di diritto.
Anche nel locale lei sentì che poteva osare. E tirò dritto.
Facciamo quattro passi?
Serata splendida di fine giugno. Il cielo di Roma brillava
di mille luci accese sotto e sopra.
Paola fece solo finta di prenderla sottobraccio. La pelle
nuda del braccio. Un fremito. Il gomito. Il polso. Poi, la
mano. Ilaria la strinse nella sua, si guardò attorno e la
portò nella tasca ampia della sua gonna ampia. E lì la
tenne. Stretta. Poi meno stretta. Poi premuta a sé.
Paola sentiva sul dorso della mano destra ogni
movimento dell’anca sinistra di Ilaria. Sentiva i muscoli e
perfino le ossa. In mezzo, muto cotone puro.
Respirarono e camminarono. E basta. Neanche uno
sguardo di lato. Paola era l’unica a conoscere alla
perfezione le stradine intorno al Pantheon. Ma lei dettò
solo la strada. Muta. L’altra decise la sorte della mano.
Muta. Ilaria gliela lasciò solo per tirare fuori un tesserino
dalla borsa. Alla reception dell’albergo di Paola.
L’addetta al turno di notte parve adeguarsi
perfettamente al loro silenzio. Quasi fosse stata tacita
testimone di una camminata di mezz’ora muta.
Ma era una di poche parole già di suo.
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Non chiamarmi signora
Nella primavera 1989 Uma lavorava nel negozio del
padre. A Lecce. Uno di quei negozi specializzati in tinte e
vernici, con un reparto a sé per le cose d’arte. Tele, cornici,
materiali per découpage, pennelli su pennelli. E tanti, tanti
colori. Una sorta di sūq ordinatissimo e coloratissimo.
Era stata lei a consigliare di ampliare l’offerta. Prima, era
solo una grande ferramenta qualsiasi. Con l’Accademia di
Belle Arti qui vicino, conviene, no?
Il consiglio lo aveva dato ché lei, quand’era ancora
Manuela, frequentava molto l’Accademia.
Non ci studiava. La frequentava e basta. Le piaceva una
che faceva la modella per aspiranti artiste e artisti.
Da qualche tempo parlava strano. Sempre di pittori e
pittrici. Di più pittrici. Aveva addirittura comprato libri
d’arte. Ne aveva sempre uno sul comodino. In copertina,
uno sgozzamento. Al confronto, il più truculento dei film
di Dario Argento lo consiglieresti per sonni tranquilli.
L’autrice era una certa Artemisia.
Al padre aveva fatto una testa così. Si vendeva un locale
a fianco. Ok, lo compriamo. La accontentava sempre. Solo
in una cosa non lo aveva fatto. E mai lo farà. Non la
chiamava Uma. Ma Manuela. Come la madre.
Uma perdonò l’affronto solo a lui. Anche perché la
madre dopo un po’ smise di chiamarla Manuela. La
chiamava e basta. Al più, diceva figlia mia.
Nel febbraio 1989, per il suo compleanno, Uma si era
fatta i capelli rossi. Ma proprio rossi. Rosso bandiera. E ritti
sulla testa. In casa accettarono la stranezza nel modo di
sempre. Prima, un piccolo putiferio paterno e il solito
sospiro materno. Poi, rassegnazione generale.
Solo da Luca una frase carina: sembri una pappagalla
dell’Amazzonia, di quelle in via di estinzione, proprio una
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bella bestiolina! Lei fece quattro autoscatti nella macchina
per le fototessere. Quattro pose differenti. Spedite a Boston
con un biglietto: Pippi Calzelunghe ormai mi fa un baffo.
Un bacio a te e a Helen. Quando venite, allora?
Lavorava, è una parola. Era sempre in giro. Di studiare
non aveva mai avuto voglia. S’era capito. Peccato, i suoi
avrebbero voluto che almeno la femmina andasse
all’università. Una dottora in famiglia fa sempre bene.
Magari, architettura. Invece, un fallimento su tutta la linea!
Colpa della matematica, aveva detto dopo ragioneria.
Io e la matematica siamo incompatibili. In-com-pa-ti-bi-li!
Non era proprio così. Alle elementari e alle medie le era
piaciuta abbastanza. Giocava sempre con i numeri. Grazie
alla matematica e alla memoria aveva anche inventato un
trucco nuovo nel tressette. Poi no. A ragioneria l’ora di
matematica era una pena. L’insegnante era antipatica, si
rivolgeva solo ai maschi quando spiegava. A volte
sorrideva facendo battute sceme, sempre ai maschi. Ed era
brutta, Manuela la chiamava la Gufa. Una civetta col
rossetto, che antipatica! Fino alle medie, sì. Un po’. Poi no.
Basta. Incompatibili.
Il fratello Massimo che faceva tutto al minimo lavorava
col fratello grande, Luca. Che aveva messo su un’attività in
proprio. I fratelli, di otto e due anni più grandi di lei,
andavano in giro per le case a cospargere le pareti di
pitture che Uma trovava ridicole. Ma erano di moda. E
pagate profumatamente.
A dir la verità, Luca da solo non aveva messo su niente.
Il padre aveva fornito i soldi necessari per l’attività dei
figli. Macchinari, furgoncino e accessori vari. E continuava
a rifornirli a prezzi stracciati oppure gratis. Il negozio però
lo lascio per metà a Uma, disse Mattia. Vado dal notaio e
ve lo metto sulla carta, disse. E mi sembra il minimo, pensò
lei. Che comunque lo ringraziò come si deve.
Sua madre Gina invece non faceva niente. Cioè, faceva
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la casalinga. Ossia, una frascica di lavori da mattina a sera.
Uma in casa non c’era quasi mai. Non sapeva neanche
dove cercare lo straccio per pulire. Abbiamo fatto la
femmina sbagliata, diceva ogni tanto suo padre alla moglie.
Però la amava. E perdonava sempre ogni stranezza alla
ragazza bellissima che era sua figlia e sembrava più maschio
degli altri due. Se solo avesse avuto voglia di studiare,
sarebbe stata la migliore! Se avesse avuto voglia di lavorare
sul serio, poi! Se almeno si fosse trovata uno come si deve,
per sistemarsi e farlo stare tranquillo. Niente, sempre con
amiche e amici strani. Come si chiamano, fricchettoni?
Scamusi e basta, altro che. Perché, se uno fa l’artista, deve
andare in giro sempre vestito come un barbone? Meno
male che gli artisti fricchettoni hanno soldi da spendere. E
vengono a spenderli anche qua, i soldi di mamma e papà,
pensava sempre Mattia. Che in cuor suo era contento
perché il consiglio della figlia si era rivelato un ottimo
investimento. Però non glielo dirà mai.
Poco prima dell’estate, non esattamente in linea con i
desideri inespressi del padre, Uma si sistemerà per la vita.
Sempre grazie alla ferramenta. Dove un giorno entrò Alma
per comprare una tela. Alma che con un battito d’ali
spazzò via tutte le modelle del mondo.
Uma si trovava in negozio per caso. Che fortuna!
Fu attratta dalla signora fin dal suo primo gesto: levarsi
gli occhiali da sole con la testa appena inclinata e strizzare
lievemente gli occhi, nel guardarsi attorno.
Poi, Uma vide il vestito ampio, lungo, colorato, leggero.
Come certi camicioni africani. Un incedere elegante senza
essere appariscente. Un sorriso splendente. E un corpo che
sembrava grande, anche se non lo era. Corpo rotondo, ma
lieve. Rinascimentale. Una stupenda donna del Tiziano,
decise Uma. Sì, del Tiziano.
Uma cicerona la portò a spasso tra gli scaffali come per
musei. Con sapienza, come una che sta lì tutti i momenti.
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Le fece visitare l’intero negozio lasciando per ultime le tele
in offerta. Poi questo. E questo. Lei dipinge? Che bella cosa!
Ma è di Lecce, signora? Mi scusi, è la prima volta che la
vedo. Qui in negozio, dico.
Alma rispose con voce suadente. E lo sguardo sempre
sorridente che passava dai capelli alla sua bocca. Dalla
bocca ai capelli. E ritorno.
No, non era di Lecce. Era lì in vacanza con la famiglia.
Tra poco andremo a visitare la Cattedrale di Otranto.
L’ho vista solo sui libri. I mosaici devono essere magnifici.
Li hanno già restaurati? Non vedo l’ora! E, a parte le
marine, ho in programma la Chiesa di Casaranello. E la
Basilica di Santa Caterina d’Alessandria, a Galatina. Con i
suoi affreschi. Non voglio perderla. E tu, dipingi?
Uma sentiva su di sé lo sguardo insistente dell’altra. Lo
sentiva sulla bocca. Sui capelli. E ritorno. Per la prima volta
nella vita avvertì una sensazione prossima all’imbarazzo.
Famiglia, poi. A Uma la parola aveva fatto un certo
effetto. Oh, famiglia può voler dire tante cose!
È appena uscito un libro su quei mosaici, signora. Chi,
io? Oh… è so… solo un hobby. Una co… cosa piccola.
Uma non aveva mai balbettato prima. Mai.
Alma promise di tornare, di rientro a Lecce. Poi, forse,
chi sa! E guardava sempre bocca e capelli. Capelli e bocca.
Lei da quel giorno andò in negozio tutti i giorni.
Al padre non parve vero. Per due settimane almeno,
non gli parve vero. Oh, e una è fatta! Pensò. Se solo la
smettesse con i colori sui capelli, lei che li ha così belli. Ah,
le mode! Per fortuna, passano.
Passarono pochi giorni e Alma tornò in negozio. Uma
era riuscita a procurarsi il libro raro sui mosaici antichi.
Non raro perché antico. Era nuovissimo. Solo molto caro.
E si mostrerà quasi offesa del fatto che la signora volesse
pagarlo. Ma grazie! Non ho parole, veramente…
Invece Alma le trovò. Giuste. L’inizio di un viaggio
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stupendo. Un nuovo inizio per Uma. E un po’ per tutte.
E non chiamarmi sempre signora, ti prego. Mi fa sentire
vecchia. Non ho ancora compiuto 35 anni. Mi chiamo
Alma. E tu?
U… ma. Mi chiamo Uma. Pri… prima Manuela. Adesso,
solo Uma. Per la signora il nome Uma doveva essere il più
normale e bello del mondo, perché rilanciò, sempre
sorridendo. Uma, perché non vieni a trovarmi nella
Galleria di Roma? Ti faccio vedere i miei quadri. E magari
ricambio il tuo pensiero. Non è proprio una Galleria. È uno
studio, ma noi lo chiamiamo così. Lo abbiamo aperto in
tre. Ti do l’indirizzo, hai una penna?
Erano finite in fondo al negozio, tra scaffali pieni di tele
e colori, nascoste alla vista degli altri avventori.
Una penna? Sta sul bancone, pensò Uma al fulmicotone,
e da qua non mi schiodo neanche se arriva un tornado!
Fece finta di guardarsi in giro, sorrise piano a un ripiano
che ospitava i gel colorati per dipingere sul vetro, allargò le
braccia. Mi dispiace. Una penna no. Però…
Fu solo un’impressione la sua o la donna di nome Alma
che sentiva le avrebbe mandato il cuore in cielo la stava
guardando con un sorriso canzonatorio?
Aspetta. Ho sempre un pennarello in borsa. E ora dove
lo scrivo l’indirizzo, sul palmo della tua mano?
Uma chiamò in soccorso il suo antico fare sfrontato.
Le piazzò davanti entrambe le mani. Con i palmi insù.
Lievemente a coppa. E a mezzo centimetro scarso dal seno.
Guardandola negli occhi, restò muta per circa tre secondi.
Poi parlò. L’altra non indietreggiava. Anzi, Uma sentì, per
una frazione di secondo ma sentì, che avvicinava il corpo a
sfiorare la punta delle sue dita.
Sul palmo della mia mano? Perché no? Quale desidera?
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Una di famiglia
Letizia conosceva Franca. Si erano viste spesso, ma di
sfuggita. La prima sempre di corsa tra mille impegni seri. La
seconda sempre con una faccenda casalinga in sospeso.
Qualche mese prima della festa per il bicentenario erano
sedute accanto in una riunione dove si parlava di violenza
sessuale. E lì si fermarono a parlare un po’ di più.
Entrambe, in luoghi e modi differenti, avevano
contribuito all’iniziativa di legge popolare per far diventare
la violenza carnale e gli atti di libidine un reato differente,
in Italia. Una decina di anni prima.
Fine anni 80 e il Parlamento Italiano ancora non si
decideva! A cassare l’assurdità voluta dal Codice Rocco.
Chiamato così dal nome del giurista che per il Fascismo
aveva creato il vigente Codice Penale. Non proprio creato,
diciamo rivoltato come un calzino di lana grossolano.
Ancora violenza carnale e atti di libidine! Ancora delitti
contro la morale pubblica! E non contro la persona, e la
libertà sessuale. Nel 1989. Assurdo!
Un’assurdità per le femministe, sia chiaro. Perché, per
Rocco prima e altri poi, le distinzioni avevano un senso.
Un conto è la penetrazione vera e propria. E che diamine,
quella sì, puoi chiamarla stupro! Dipende poi dove. Se
davanti o dietro. A stabilirlo, giudici e ausiliari vari. La
distinzione era doverosa. Nel graduare, si controllavano
anche vari status della violata. Se fosse vergine oppure no,
prima. Se sposata oppure zitella, prima. Se minorenne,
durante. O deficiente, prima, durante e dopo.
Giusto, l’impianto era costruito a baluardo di morale e
buoncostume. E per difendere la Famiglia, caposaldo e
palestra insieme di moralità e buoncostume, in Italia.
Famiglia dove, da che mondo è mondo, più o meno
allegramente si stuprava e si incestuava. Anche se non è
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corretto, l’ultimo verbo si è fatto carne, in senso stretto.
Soprattutto in Italia, Patria della Famiglia.
Già. la penetrazione si poteva chiamare stupro.
Gli atti di libidine sono ben altro, vuoi mettere?
Anche se un lontano parente ti fa fare i pompini chiusa
in uno sgabuzzino buio, con la testa ferma tra le mani.
Anche se lo fa da anni e anni, da quando tu ne avevi 12, di
anni. E anche fino a quando, dal benedetto 1975 in Italia,
sei diventata finalmente maggiorenne anche tu, a 18 anni. E
quello ancora continua coi pompini. Avrebbe continuato
dopo, anche con i tuoi 21 anni, quelli necessari per
diventare maggiorenne in Italia prima del benedetto 1975.
Per la precisione, prima di una legge varata il giorno 8
marzo del 1975. Che bel regalo ambosesso, finalmente…
Con te che nel frattempo hai perso la voglia di diventare
qualsiasi cosa. Che non mangi più nulla. Perché ogni cosa
porti alla bocca ti fa pensare solo una cosa. Con te che
prima dei 21 anni, non si sa com’è, per la prima volta nella
vita trovi la forza di fare una cosa da sola. La prima e
l’unica, perché ci sei riuscita. Con te che l’hai fatta finita.
Beh, vuoi mettere? Sì, lo stupro era un’altra cosa…
Non dobbiamo usare sessuale. Sessualità è un’altra cosa!
Chiamiamola violenza sessuata e facciamola finita!
Che lusso! Nella riunione dove Franca e Letizia si
ritrovarono sedute accanto, l’oratrice era una femminista
doc. Nel 1978 aveva fatto parte di una formazione
femminista che più femminista non si può. Che aveva
deciso di unirsi ad altra formazione nell’intraprendere la
battaglia per modificare il Codice Rocco, in Italia.
A quel tempo la seconda formazione si occupava molto
delle donne, queste poverette. Di lavoro, asili nido,
pensioni. Diritti giusti, per carità. Ma anche in Italia era
scoppiata la voglia di liberazione, poco prima del
benedetto 1975, quando una donna sposata non aveva gli
stessi diritti di un uomo sposato. In Italia.
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Anche le donne della seconda formazione iniziarono a
parlare di sesso e di violenze. O di solo sesso, perfino.
Franca lo ricordò sorridendo. Sapeva di un Questionario
sulla Sessualità. Frutto di un’indagine portata avanti dalle
donne della seconda formazione. Una compagna di Ferrara
aveva recapitato a Roma i risultati. Tutto con garanzia di
anonimato, ma ricerca ordinata ed esauriente. Per capirsi,
produzione emiliano-romagnola. Per dire, alla domanda
hai mai provato l’orgasmo? un’ex mondina aveva risposto
tanto tempo fa, una volta, in bicicletta.
Nei primi ani 70 anche le donne della seconda
formazione parteciparono a manifestazioni colorate con le
gonnellone a fiori, dove si urlava a squarciagola e le mani
in alto a formare il segno della vagina. E quella volta lì,
non era il 1973? Quando Jane Fonda si trovava a passare
da Roma e s’infilò in un corteo? Per l’occasione, perfino la
TV di Stato democristiana manderà in onda un servizio
sulle scalmanate. E Italia intera capirà tre cose, finalmente.
Che le femministe urlavano alle finestre semichiuse ‘vieni
giù, vieni giù, scendi in piazza pure tu!’. Che le femministe
bruciavano i reggiseni in piazza. E che le femministe erano
contro la famiglia. Non s’è mai saputa l’origine di questa
bufala in Italia. La seconda era una vera bufala. Ma ha
avuto lunga vita, con altre bufale. I reggiseni forse erano
diventati un simbolo di costrizione? Un emblema degli
accessori di cui le donne dovevano liberarsi, anche in Italia?
Che dire, i reggiseni svolgevano egregiamente la loro
funzione nei favolosi anni 70, se avevi la quarta di misura e
il petto ti ballava a cento all’ora, mentre scappavi dalle
grinfie di un celerino molto celere, o forse solo arrapato.
Le parole della femminista doc avevano ricevuto un
plauso convinto, anche da parte di Letizia e Franca. Era
una che di sesso aveva scritto e parlato, tanto. Una che ci
sapeva fare con le parole. Ma intervenne un’altra.
Lì ancora non decidono una riforma e noi qui a fare il
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pelo e il contropelo alle parole? E chiamatela come vi pare,
è sempre violenza!
Ora a intervenire era una compagna cui non importava
nulla se la chiamavano femminista o comunista. Era solo
una che andava al sodo ogni volta. Una che a barricate,
barricate vere, aveva partecipato molte volte. Sempre
pronta per ogni occasione. A Mirafiori come davanti al
Ministero della Pubblica Istruzione. Che a quel tempo
aveva ancora l’aggettivo pubblica, dentro.
La compagna faceva parte della seconda formazione e
strappò gli applausi anche lei. Dalle stesse che avevano
applaudito prima. In riunioni del genere poteva capitare.
Accadeva anche altro. Anche prima. Sempre in Italia.
Per dirne una, Franca e Letizia, per motivi differenti,
negli anni 60 e 70 non avrebbero saputo da dove iniziare
per intavolare una discussione come si deve sulla famiglia,
in Italia. Per arrivare a una proposta di riforma del Diritto
di Famiglia come si deve, sempre in Italia.
Franca era una zitella già insegnante di ruolo di storia e
geografia alle inferiori. Dopo un corso abilitante, insegnerà
storia e filosofia alle superiori. Letizia era solo la quasi
vedova allegra di un compagno sindacalista. Quasi perché
non ancora sposata ma in procinto, questione di giorni.
Allegra perché sempre allegra.
Ed entrambe, non solo partecipavano alle riunioni con a
tema la Famiglia, il bello era che intervenivano! E tanto.
Non solo le donne come Franca. E ovviamente Letizia.
Qualcosa di simile capita anche oggi, a volte, In Italia.
Andiamo al bar vicino al Pantheon? Fanno un caffè che
è una squisitezza! La riunione era finita e Letizia parlò senza
guardarla. Non era imbarazzata. Figuriamoci, imbarazzata
Letizia! Solo, si guardava in giro preoccupata di non
ritrovare le sue cose sparse sulle sedie intorno. Blocco
appunti, borsa, ombrello, sciarpa e giacca. C’è tutto.
Anche Franca ostentò un’aria trafelata. Però, sono
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ancora le sette. Volentieri, andiamo. Non rientrerò tardi.
Sai, ho promesso gnocchi per cena!
Aveva parlato col tono inconfondibile di certe
casalinghe. In Italia. Al centro di un quadrivio perfetto, tra
il rassegnato, il materno, l’efficiente e il compiaciuto.
Letizia la guardò stupita, inclinando leggermente la testa.
Sei sposata tu? Hai figli? Per Giove abulico, non l’avrei
detto! Franca diventò rossa come un peperone, la sua
metafora preferita. Poi si schermì. No, non sono sposata.
Cioè… No, non sono sposata. E lì si bloccò.
Al bar vicino al Pantheon ci riprovò. Riuscendo a
imbastire un racconto come si deve sulla propria vita.
Prima e dopo l’incontro con Doriana. Soprattutto dopo. A
sentirla , la sua relazione con Doriana, e con altre intorno
citate en passant, quel rapporto lì sembrava una famiglia.
Seduta stante, Letizia fece di Franca una di famiglia.
Solo nel 1996 Italia varerà finalmente una legge dove la
violenza sessuale è delitto contro la persona. A 18 anni
esatti da una raccolta di firme femministe unite. Un
bell’esame di maturità. In Parlamento la chiameranno
trasversalità.
La riforma abolirà sulla carta alcune distinzioni. E
innalzerà le pene. L’incombenza di graduare la gravità di
fatti e misfatti e, per conseguenza, pene, sarà lasciata ai
giudici. Per l’ennesima volta.
Ci sarà anche chi arriverà a pensare una naturalissima
assurdità, senza dirla.
Rocco aveva le idee chiare sul punto! Il Patriarcato
quando è forte ha sempre le idee più chiare. Un conto è la
penetrazione e un conto è altro. Adesso, saranno i giudici a
dovercisi raccapezzare. E in fondo, una differenza c’è, vuoi
mettere? Sì, il Patriarcato quando è forte ha sempre le idee
più chiare.
Altre donne, a metà anni 90, in Italia scriveranno che il
Patriarcato era finito. Morto. Addirittura.
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Nel frattempo, le femministe in Italia si erano portate
avanti, non solo con le parole.
Purtroppo, si erano spaccate al loro interno. Anche sulla
violenza. Anche tra le giuriste. Tra chi voleva la
procedibilità d’ufficio per un reato tanto orrendo, al pari di
ogni altro delitto. Solo certi furtarelli o lesioni lievi o
calunnie possono continuare a essere roba da querela! E chi
invece voleva la procedibilità a querela sempre per lo
stupro, sempre. Per rispettare l’autonomia di giudizio della
donna, prima di altre emergenze. Sempre! Perché la
violenza contro le donne non è un delitto come gli altri!
Non puoi trattarla con lo stesso metro, non puoi applicarle
le misure di giudizio del Diritto. Figlio anche lui di un
Patriarcato, in fondo!
Le divisioni saranno laceranti. Molte più di due. Come in
ogni diatriba femminista erano incluse le sfumature.
Dagli anni 80, infine, alcune donne stufe di aspettare
leggi in Italia apriranno Centri chiamati Antiviolenza. O di
Ascolto. O di Rifugio per Donne Maltrattate.
Centri che saranno autonomi fino a quando in
Parlamento si penserà che potevano anche giovare allo
Stato. E si potevano finanziare.
Centri che, anni dopo, perderanno finanziamenti.
In qualche caso, anche la pazienza.
Ma in ogni caso saranno tutti luoghi dove, senza
distinzione di latitudine, si scoprirà che la violenza prima,
la più diffusa, la più nascosta, la più atroce, un universo
intero di atti atroci che non ti spediscono in Chiesa con
ritorno - come vorrebbe un ritornello vaticano - ma in
Ospedale oppure direttamente al Cimitero, era la Violenza
in Casa. Altrimenti detta Violenza in Famiglia.
O meglio, come diranno sociologhe esperte nel ramo, il
Fenomeno delle Violenze Familiari. Amen.
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Quattro Fontane
Viola aveva conosciuto Alma nel suo studio.
Studio che non era solo suo, ma di altre due e una delle
due era amica di Viola. Studio che non era una galleria
d’arte, ma ci assomigliava. Studio che non aveva molta
luce naturale, questo sì. Anche di giorno era acceso di
molte luci. Scelte con cura, in qualità e posizione. Il neon
no, non va bene.
Studio in pieno centro a Roma, in via delle Quattro
Fontane. A un tiro di schioppo dalla Galleria Nazionale di
Arte Antica di Palazzo Barberini. Solo che, per tirar fuori
alcunché da lì, anche senza schioppo, fosse pure un
semplice sguardo, dovevi arrivare a una delle grate a livello
del soffitto. Perché lo studio non era altro che un enorme
scantinato. Affittato a poco dal negoziante di ottica sopra
la testa. Il quale non sapeva che farsene, dopotutto.
Le tre amiche lo chiamavano Galleria perché costituito
da un unico locale lungo e alto, con la volta a botte.
Gli aggeggi contro l’umidità erano sempre in funzione.
Funzionavano anche molto bene. Venivano spenti solo
durante le visite. Oppure se il loro ronzio fastidiava le
orecchie alle artiste. Alma non li sentiva mai. Lei non era
sorda. Solo molto concentrata, quando dipingeva.
Non solo quando dipingeva.
Fuori da ogni stereotipo immaginabile sulla vita di
un’artista, Alma era una persona precisa, ordinata, sempre
puntuale. Simpatica e gioviale senza strafare. Una dalla vita
semplice, all’apparenza. Invece viveva sempre sull’orlo di
una crisi. Ma non l’avresti detto. Anche perché, in un
modo o nell’altro, la crisi non arrivava. Per fortuna.
Qualcosa che non era una crisi, ma ci andò vicino, le
piombò addosso come un uragano, da dove meno se
l’aspettava. O forse l’aspettava?
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Alma era anche sposata a un medico, da quasi 10 anni.
Un chirurgo plastico. Alma aveva poi un figlio di 9 anni.
All’esterno, una vita alquanto agiata. E molte amicizie. Di
quelle che amicizie vere non sono mai. Amica sua vera
divenne solo Viola. Viola appassionata d’arte e di donne
artiste. Viola con la sua aura di bellezza costante.
Inconfondibile. Vorrei farti un ritratto, posso?
Lei dipingeva solo Madonne, da qualche tempo. Non le
chiamava così. Ma quello sembravano. Anche se non erano
quasi mai Madonne sole sulle tele. La richiesta era uscita
dalla sua bocca quasi senza controllo. Lei che controllata
era sempre. E precisa, ordinata, puntuale. Viola aveva
sorriso. Certo che sì. Ma cosa doveva fare? L’altra rispose
con tranquillità al sorriso, e sorridendo. Niente, a parte
stare ferma. E, dipende, venire qui anche ogni giorno, se
puoi. Alma sapeva che Viola poteva. Non aveva un lavoro
vero o altro con orario fisso a impedire.
Durante le sedute le due donne parlavano. E tanto.
Alma le parlerà di sé come con nessuna mai. Parlare non
era d’impedimento all’arte.
Domani arriva la ragazza di Lecce. È in gamba, frequenta
l’Accademia di Belle Arti. Avrà poco più di vent’anni. Ha i
capelli come una punk. Inorridiresti solo a guardarla. Ma
penso che ti piacerà. Sotto la scorza, ha un certo non so
che. A me è parsa la reincarnazione di un’amazzone. E…
mi affascina. Sì, ti piacerà, vedrai.
Fine giugno. Parole di Alma a Viola, mentre dipingeva.
Il giorno dopo l’Amazzone reincarnata scese alla Termini
con uno zaino sdrucito. E con i capelli… i capelli di un
altro colore. Il suo originale, di un castano scuro con
sfumature dal rame al mogano. Più mogano che rame.
Uma si era stancata di stare appresso ai lavaggi colorati
in casa. E di circolare col terzo colore di una bandiera in
testa. Si guardava intorno per capire dove cavolo fosse la
fermata del 64. Intanto ripensava al motivo vero. Ora
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vediamo se la signora continua a guardare solo capelli e
bocca, bocca e capelli e basta.
Qualche giorno prima aveva composto il numero scritto
da Alma sul palmo della sua mano sinistra, accanto a un
indirizzo. E parlato come una che ci ha pensato all’ultimo
momento. Salve, signora Alma. Vengo a Roma per una
settimana. A trovare un amico. Forse, potrei visitare questa
Galleria. Come? Sì. No. Abita sulla Prenestina.
Arrivò col treno della notte che parte da Lecce alle 10 di
sera e ti sforna a Roma alle 6 di mattina. Quello che, se
non prendi un vagone letto o una cuccetta, ti ritrovi con le
ossa rotte, come minimo. Rimbambita dalle tante frenate e
ripartenze. Se non stai con gli occhi aperti, anche senza
portafogli. Uma non usava portafogli. Aveva soldi e
documento in una bustina trasparente, la bustina nelle
mutande, le mutande sotto i pantaloni, lo zaino sotto la
testa e dormì alla grande. L’amico era un universitario
fuorisede. Con una stanza per sé appena. Ok, vieni - le
aveva detto - ci arrangiamo.
Sulla Prenestina, dove? Oh, mia cara! Ma è praticamente
fuori Roma! Alma nella telefonata era stata perentoria. Le
avrebbe prenotato una pensione. Ok, un albergo no. Ok,
che non costi molto. Però sarebbe stata sua ospite. A
trovare l’amico ci sarebbe andata lo stesso. Ma sarai mia
ospite, non si discute. I tuoi mosaici sono stupendi, Uma!
L’albergo che doveva essere una pensione si trovava
dalle parti di Largo Argentina. Uma saltò giù dal 64 con un
indirizzo stampato nella mente, a furia di mandarlo a
mente. Arrivò in un posto con un tot di stelle. Un tipo alto
e lungo in completo bordeaux profilato nero la squadrò
dalla testa ai piedi, soffermandosi a lungo sullo zaino.
Dopo di che, sospirò e stop. Sì, il nome è questo. Prego.
La camera aveva il letto a baldacchino. E anche tre
poltrone e una scrivania. Profumava di sole e di pulito. Mi
hai sistemata proprio bene, signora Alma!
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Ci pensò su un attimo e chiamò l’amico dal telefono in
camera. In pratica, lo svegliò. Non erano neanche le otto
di mattina. Parlava guardandosi intorno. Carlo, senti.
Volevo dirti che forse non ci vediamo. No. Sì, sono
arrivata ora. Ma penso che sarò molto presa da questa
Galleria. E te lo volevo dire subito. Ciao, adesso devo
proprio scappare! Ma vedi di andare a… La parolaccia di
Carlo si perse nella cornetta, Uma sorrise e buttò giù.
Niente di grave, le voleva bene. Non la stava mandando al
diavolo sul serio. E neanche nel posto della parolaccia. Era
il loro modo di dirsi le cose. E la voce di Carlo sembrava
anche sollevata.
Già, la signora proprio bene l’aveva sistemata! Dovrò
sistemare quattro cose anch’io, si disse. Iniziamo da me.
Dopo la doccia e il resto, la prima fu scendere nella hall
che sembrava un’altra. Il tipo in bordeaux e nero sollevò lo
sguardo e restò a bocca aperta. La seconda fu attraversare
Corso Vittorio di corsa. Non sulle strisce pedonali. Aveva
già visto sul lato opposto un grande negozio di fiori. Sta
aprendo proprio ora. La terza fu l’acquisto di una pianta
d’orchidea gigante. Orchidea gialla. Spese la metà dei soldi.
La quarta decisione su faccende da sistemare, presa come
le altre sotto la doccia, era un biglietto. Vorrei sapere una
cosa, se possibile. Anzi, vorrei questo, di preciso. Dovrebbe
arrivare alle ore 11.30 precise. È possibile? Precise, eh!
Tutto è possibile, signorina. Pagando, s’intende.
Era l’orario per visitare la Galleria. Voleva darle una
lezione, per lo scherzo dell’albergo non pensione.
Girellò nei dintorni. Una seconda colazione con i fiocchi.
Nel senso che prese per la seconda volta un cappuccino e
un bombolone con la panna. Comprò una cartina di Roma
e fece un rapidissimo calcolo. Restò a guardare i gatti del
Largo per una mezz’ora. Col cuore che già le batteva forte
puntò verso via delle Quattro Fontane. Piazza Venezia. Via
Nazionale. Sali. Scendi. Risali. Sì, Roma l’hanno costruita
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proprio sui colli! Arrivata nei pressi, percorse la strada
prima in discesa, poi in salita, poi di nuovo in discesa.
Però, lunghe le Quattro Fontane!
Le 10,30 precise. Riprese a camminare. Faceva caldo.
Lieve stanchezza nelle gambe. Un caffè in ghiaccio è
l’unica. Bar in via Venti Settembre. Seduta? No, in piedi.
No, non lo voglio shakerato. Senta, un caffè normale!
Le 11. Via Quattro Fontane. Ormai la conosceva a
memoria. Si fermò davanti a una villa enorme con un
giardino enorme. Cancello aperto, ottima postazione.
Vide arrivare, rallentare e fermarsi un motorino. Flora
Express scritto sulle spalle di una tuta blu. E sulla cassetta
del motorino. Blu la cassetta. Giallo il motorino. Gialle le
scritte. Dentro la tuta, una ragazza alta e bionda.
Quando Uma la vide suonare, s’acquattò. Se viene
qualcuno chissà se ci crede, sempre che glielo dica. Però
immaginava già i titoli: ragazza magnifica in abito verde
chiaro, sorpresa da custode a spiare villa monumentale,
dichiara ‘son qui che aspetto la donna della mia vita, le ho
mandato un’orchidea, speriamo bene’.
Il portone si aprì, ma lei non vide nessuno. Entrò la
ragazza in blu che poco dopo uscì, inforcò il motorino e
ripartì. E che t’aspettavi, scema? Che la signora si facesse
avanti in bella vista sull’uscio di casa? Per mostrarsi in tutto
il suo splendore da te che stai qua nascosta come una
ladra? Si mandò al diavolo da sola. Le capitava spesso.
S’alzò rassettando il vestito verde acqua e cercando di
assumere l’aria di una che, se ha deciso di restare là, forse è
smemorata, forse si è persa, ma una ladra proprio no.
Restò nei pressi del cancello cinque minuti buoni, che le
parvero molto lunghi. Troppo lunghi. Guardava in
continuazione l’orologio giallo brillante, regalo bostoniano
di zia Emma mai indossato. Lei non amava gli orologi,
come ogni cosa che si muove restando ferma.
Però, è venuta bene! Compiaciuta, occhieggiava il
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risultato della depilazione, evento straordinario già in sé.
Compiaciuta e distratta. Al punto da non accorgersi quasi
del portone che con un altro scatto secco si apriva. Di
nuovo. È lei! Uma volò via dal nascondiglio. Appena uno
sguardo al traffico di auto e gente intorno. Urlò solo tre
parole nel bel mezzo della strada. Aspetta! Non chiudere!
Una Mercedes bianca proveniente dalla sua destra
inchiodò a pochi centimetri da gambe perfettamente
depilate. Alma voltò la testa verso la sua voce e impietrì
davanti alla scena. Il conducente scese dall’auto infuriato,
con Uma che neppure lo guardò e raggiunse con altri due
balzi il marciapiede. La sospinse dentro. Il portone si
richiuse con un altro scatto.
Uma aveva l’affanno. Poggiate appena le spalle sulla
parte interna del portone massiccio, con le braccia in avanti
teneva ferma Alma. E toccava Alma. Che riuscì a dire solo
ma sei pazza? Mi hai fatto prendere… E perché hai scritto
sul biglietto che non venivi più? E cosa hai fatto ai capelli?
Lei continuava a tenerla ferma. Lontana. E a toccarla.
Lievemente. Con le mani che le tremavano. Senza una
parola. Sempre con l’affanno.
Sputava fuori l’aria e non parlava. Quando le sue mani
smisero di tremare, l’attirò a sé. L’abbracciò. Poi si lasciò
abbracciare. Un abbraccio lungo.
L’affanno passò. Lasciando il posto a un bacio. Lungo.
Come Uma non avrebbe mai pensato. Lungo.
Le loro labbra con semplicità si erano fuse dopo
l’abbraccio. Senza uno sguardo, prima. Accadde in un
attimo. Lungo. Nessuna delle due aveva fatto nulla da sola.
Nulla di classificabile come la prima mossa, prima.
Si baciarono e basta. A lungo. Poi Alma disse soltanto tre
parole. Andiamo dentro, meglio.
Una volta dentro, ci resteranno per un paio d’ore. Senza
una parola. A luci spente. Spento anche il deumidificatore.
57
L’amore con le Madonne
Devo andare. Ti amo.
Le prime parole di Alma, dopo. Con la testa di Uma tra
le mani, a pochi centimetri dalla sua, occhi negli occhi. E
due baci sugli occhi verdi di Uma, tra ‘devo andare’ e ‘ti
amo’. Le sue prime parole dopo il ‘meglio’ detto in un
portone, un secolo prima.
In mezzo, due ore di gesti e pensieri.
Prima lenti. E frettolosi. E ancora lenti. Poi convulsi. E
delicati. Poi rabbiosi. Poi di nuovo lenti. E sudati. E delicati.
E violenti. E sapienti. E sconosciuti. Di una sapienza nuova
e antica.
L’unico atto non compiuto all’unisono fu pensare, per
due ore. Ma non pensarono molto. Nessuna delle due
pensò molto. Forse Alma. Prima e dopo. Due corpi in
azione e, in mezzo, solo passione. Pura. Dura. Nuda.
Uma non aveva visto nulla dello studio, una volta
dentro. Buio era già abbastanza buio. E Alma cliccò subito
su un tot di pulsanti. Quattro tende schermarono all’istante
le quattro scacchiere delle quattro grate del seminterrato. al
quale, col capo insù, vedresti solo porzioni di gambe
passanti. Da fuori, invece, con le luci accese dentro,
potresti
gustare
un’anteprima
d’arte,
mettendoci
l’intenzione. In contemporanea, si spensero tutti i
deumidificatori. La seconda azione di Alma fu lasciare
borsa e giacca su una sedia. Delicatamente.
La terza e le altre, per due ore, con Uma, all’unisono.
Sulle prime Alma era quasi arrabbiata. Poi confusa. Poi
fusa. Non riusciva a staccarsi da Uma. E Uma da lei. Non è
che non riuscissero. Non ci pensarono proprio.
Alma, dopo aver posato borsa e giacca, le tenne per un
po’ la testa tra le mani. Le baciò la bocca e gli occhi. Poi i
capelli. E di nuovo la bocca. Il naso. Gli occhi. Il lobo
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dell’orecchio destro. Poi il sinistro, sul quale indugiò a
succhiarlo. Poi di nuovo i capelli. Sorrideva di un sorriso
simile al pianto. Con gli occhi accesi. Dopo averle baciato
per l’ennesima volta i capelli la guardò, interrogativa.
Uma sorrise picchiettando l’indice destro sulla propria
clavicola destra, per tre volte. A dire questa è tutta roba
mia, autentica! Lei era già nuda. Non solo di clavicola.
Il vestito di cotone verde chiaro aveva preso un volo
velocissimo. Preceduto dalla cartina e seguito dagli slip.
Verdini anche loro. Lei usava raramente il reggiseno. E
borse solo in casi di estrema necessità. Aveva lasciato una
parte dei soldi in albergo e con sé lo stretto necessario per
la mattina. Il poco resto dello stretto necessario era per
terra, fuoriuscito dalla cartina.
L’unico oggetto addosso per due ore fu un orologio
giallo. Ma non sapeva di averlo. E non lo guardò più.
Alma impiegò più tempo, aveva una camicia con molti
bottoni. E ordinata, precisa, delicata, la fece indossare a
una tela intonsa posata su un cavalletto. Lo stesso con la
gonna. E le scarpe, sotto. Con cura. Il tutto sembrò
animarsi, testimone manichino. Alma però spogliò se stessa
senza distogliere mai lo sguardo dall’altra. E nuda la
raggiunse. Un passo appena. A piedi nudi. Le prese ancora
una volta la testa tra le mani. La guardava, scuoteva
leggermente il capo, sorrideva. Nel frattempo, pensava.
Matta. Sei una matta. E io di più. Che sto facendo? E
ancora baci. Che stiamo facendo? E pelle. Baci a pelle.
Devo andare. Un altro bacio. Mi guarda. Vieni. Mi sta
implorando? E baci. E pelle. È tardi! I profumi della pelle.
Una sola pelle. Due profumi. E ancora profumi.
Sconosciuti. Chi è? La sua pelle. Non voglio andare via.
Non vado più via. Tienimi qui. Ti tengo qui. Cascasse il
mondo resto qui! Dovessi morire ora, muoio così. Entrami
dentro! Sono già dentro. Dammi la mano. Tieni la mia
mano. Tienimi dentro! Tu sei già dentro.
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Il traffico fuori scandiva il loro silenzio. Dentro due
respiri. Traffico. La strada. La macchina. Potevo perderti. E
non sapevo che eri mia. Vieni, testa matta. Vienimi dentro.
La testa di Uma tra le mani di Alma. Non andare via. Le
mani di Alma sulla propria testa. Che sto facendo? Sorride.
Voglio farlo fino all’eternità. Tu non fermarti ora.
Dovrebbero venire con una ruspa a tirarmi via. E non ci
riuscirebbero lo stesso. Dio, quant’è bello il sesso!
Questi e pochi altri similari furono i pensieri.
Madonna mia, quante Madonne! Abbiamo fatto l’amore
con le Madonne! Le prime parole di Uma, dopo.
Guardandosi attorno.
I suoi occhi si erano abituati alla semioscurità, ma i
dettagli a una certa distanza dal proprio corpo si chiarirono
solo quando l’altra, rivestita di tutto punto, fece scattare
con un clic la tenda di una delle grate, la più lontana.
Alma sorrise e si chinò sulla pianta per sfiorare con le
labbra un’orchidea, lo sguardo su Uma. Proprio con le
Madonne direi di no! Con le Madonne intorno, nel caso.
Comunque non sono Madonne. Non di quelle lì. Poi ti
dico. Resta qui. Torno tra pochissimo. Ora devo scappare.
Alma…!?
Sì?
Niente, ti amo anch’io.
60
La festa alla cultura
Dovremmo essere tutte come lei!
Doriana, in un semicerchio con altre cinque, col solito
gesto della mano in mezzo, aveva usato queste parole per
porre fine a un chiacchiericcio che la infastidiva dall’inizio.
In mano aveva un bicchiere di cristallo purissimo,
identico agli altri circolanti per la casa. Sembrò un brindisi,
ma non lo era.
Lo fece guardando verso la parte opposta della sala.
Dove Uma era apparentemente intenta a dialogare con
la gatta della casa, un affare enorme di peli e sfumature.
Placida e regale, una. Apparentemente intenta, l’altra.
Erano passate due settimane dal primo appuntamento di
in via Quattro Fontane.
Il tipo in bordeaux e nero restò di stucco per la seconda
volta quando Uma lasciò l’albergo la sera stessa dell’arrivo.
La camera non mi piace, i mobili sono scuri e il bidet
perde, dal rubinetto dell’acqua calda. La saluto! Quasi di
stucco. Era uno abituato a tutto.
Alma aveva chiamato Viola. Che ne parlò con Letizia.
Che pensò di chiamare Franca. Che lo disse subito a
Doriana. Che lo riferì a Paola.
Penso di sì, ci dovrebbe essere posto.
Uma andrà così nell’albergo vicino Campo dei Fiori. La
camera era più piccola, ma molto più invitante. Almeno
per Uma, solo più invitante.
Il motivo per il quale Alma le aveva chiesto di trasferirsi
era un altro. Sono stata un’idiota. Ma non potevo… Lì mi
conoscono. E conoscono mio marito. Sono sposata, Uma.
E ho un figlio. Ha 9 anni. Si chiama Gabriele. Gabriele è il
nome di mio figlio.
Alma aveva il dono della sintesi, tra i tanti.
Uma ne aveva altri e si aggrappò all’ironia per non
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cadere lunga distesa in mezzo alle Madonne. Nessuna è
perfetta, cosa devo fare?
Nell’albergo che forse era stato un albergo a ore Alma e
Uma passarono ore e ore a far l’amore. Per giorni e giorni.
Di giorno. Di notte Uma ci dormiva. Da sola.
Ma non dormiva poi tanto. Girava per Roma di notte.
Sola. Le piaceva. Le vennero le occhiaie e finì i soldi.
Papà, sono al verde. Rientro tra una settimana. Ma devo
tornarci, ho un colloquio importante qui, sono nel mercato
romano dell’arte! Bugia presa in prestito dalle uniche
certezze toccate in quei giorni, a parte il cielo con un dito.
Il primo giorno Alma non le aveva detto altro.
E lei non aveva chiesto altro.
Quando Uma non faceva l’amore, se non dormiva o
passeggiava, leggeva e guardava le figure. Spese il resto dei
soldi in un negozio specializzato in arte. E comprato ogni
testo possibile per le sue tasche. E giù, a imparare cose
d’arte! Contemporanea.
Anche nei giorni successivi, Alma evitò di fornirle notizie
della sua vita fuori dalle Quattro Fontane. Ne diede solo
una e fece benissimo a darla. Con la solita sintesi, ma
subito. Per fortuna. E per la sana e robusta costituzione
della fantasia di Uma.
Con mio marito ci sfioriamo appena. A pranzo o a cena.
E neanche sempre. Ma solo a pranzo o a cena, Uma.
Non pronunciava mai il nome di questo mio marito. Per
la precisione, Alma non lo dirà per più di un anno. A essere
ancora più precise, fino alla sera del 13 dicembre 1990.
Anzi, era di notte. E lì, lo dirà solo perché costretta dalle
circostanze.
Alma non le diceva altro. A Uma non serviva sapere
altro. La notte del 14 luglio sarà l’unica dell’estate romana
passata insieme nell’albergo che forse era stato un albergo
a ore. Voglio svegliarmi con te, domani - le aveva detto
Alma - voglio vedere l’alba del bicentenario con te.
62
A Uma del bicentenario non fregava un niente. Ma fu
una notte di mezza estate che non ti bastano duecento
anni per riviverla.
Alla festa del 14 luglio, anche Alma e Viola guardavano
Uma da lontano, nello stesso momento in cui Doriana
aveva interrotto un chiacchiericcio.
Le due amiche erano sedute accanto, su un divano
antico. Rosa antico. In disparte.
In giro per la sala una decina di donne di età e umore
variabili. Tutte con i colori della Rivoluzione Francese
addosso. La scelta più semplice e fine era stata di Viola,
come sempre. Optò per una spilla, una sorta di piccola
coccarda. Per il resto, l’attico di piazza Adriana era un
tripudio di blu, bianchi e rossi. Anche differenti tra loro. E
con sfumature che, in qualche caso, se accostate, stonavano
lievemente. Nell’insieme però la festa aveva un incedere
armonioso. Nulla di rivoluzionario, solo una festa alla
memoria. Profumata, intellettuale. E ricca.
Letizia convinse anche le cuoche. Col domestico indiano
dovette faticare di più, ma alla fine ogni cosa sarà come
l’aveva desiderata. Tutte più uno con i tre colori addosso.
In sala, tutte con qualcosa tra le mani. Chi un bicchiere
di cristallo, chi una minuscola tartina. Letizia circolava da
un gruppo all’altro come una matrona, però leggera. Gli
occhi sempre attenti e vispi. Raggiante.
Franca provò una volta sola a cercare la cucina per
vedere se poteva rendersi utile. Trovò le cuoche che
gentilmente la spedirono fuori dal loro regno. Il domestico
le indicò la strada del ritorno. Questa casa è veramente
enorme, ti ci perdi!
Avrò perso la testa? Però credo di amarla, Viola. Non
sto scherzando. E per la prima volta in vita mia non
guardo alle conseguenze. Solo un pensiero mi fa tremare.
Quando ci penso. Lei mi amerà veramente?
Alma era splendida. L’emozione vitale, inebriante per
63
quel nuovo amore, nei fatti il primo amore della sua vita,
dava al suo corpo un’energia e una luce rinnovate, cariche
di promesse.
Non ti ho mai vista così, replicò l’amica. E hai ripreso a
dipingere. Non conosco un amore come questo. E
certamente non sono nella testa di Uma. Che però si fa
ogni giorno più interessante. Meglio non aver visto la
versione punk, amica mia! Ma avevi ragione. È
un’amazzone. Selvatica, come ogni buona amazzone. E, se
è il suo amore a dare il contributo, la amo anch’io.
Viola guardava Uma da lontano e parlava ad Alma, da
vicino. Sottovoce. E proseguì, sempre sottovoce. A parte
questo, non posso darti consigli. Poi lo sai, sono parte
molto interessata. Ti rinnovo la proposta, per quando
vorrai, per quando sarai pronta. Appena la situazione sarà
più tranquilla. Va già meglio, vero? Vedrai, tutto si
sistemerà e avrai la felicità che meriti. Sono sempre
disponibile per la mostra. Non a Roma, se qui proprio non
vuoi esporre. Magari, Milano…
Alma si limitò a sorridere e a stringere lievemente le
spalle, portando alle labbra un bicchiere di cristallo.
All’altro capo della sala, Ilaria era colei che aveva dato
la stura al chiacchiericcio. Anche lei con un bicchiere in
mano. Nonostante l’avventura fresca con Paola, i suoi alibi
a prova di bomba e l’eleganza di sempre, aveva sfornato
delle frasi fatte, incartate alla meglio. Gianduiotti sfatti.
Le sembrava inconcepibile che un esserino così giovane
e, diciamolo, anche un po’ ignorante, potesse essere
l’amore della vita di una donna come Alma! Suvvia, non
scherziamo. Sarà un capriccio da artista!
Paola aveva fatto spallucce, ma sentenziato anche lei.
Non dura un mese! Non è l’ignoranza, né l’età. Anche se
non si discute. Sulla differenza d’età, E, sì, anche
sull’ignoranza. Ma alla seconda c’è sempre rimedio. Solo,
ho la netta sensazione che la farà soffrire. E sto male se ci
64
penso.
Altre due avevano rinforzato le chiacchiere, eleggendosi
parte integrante della giuria popolare. D’alto bordo, ma
sempre giudicante. Altamente giudicante, con sfumature
molte e disparate. Più dispari dei colori circolanti. La nota
che accomunava tutte nel verdetto era l’ignoranza di Uma.
Doriana non ci vide più.
Già Ilaria le stava sullo stomaco, col suo fare perfettino.
Ora ci si metteva anche Paola. Non credeva alle proprie
orecchie. Poi un’altra. E un’altra ancora. Basta! pensò,
quando è troppo è troppo. Parlò ruotando lo sguardo su
tutte, ma soffermandosi su Paola.
A me piace. Quanto dura? E chi può dirlo? Di te lo puoi
dire, forse? Sull’età, non sarebbe la prima volta. Ma
scusate, perché non vi meravigliate così tanto se un uomo
di cinquanta se la fa con una di trenta? Senza essere per
forza pappone e prostituta? Perché ci può essere amore
vero lì e qui invece gridate allo scandalo? Ché, se non
sbaglio, ci sarà sì e no una decina d’anni di differenza? E tu,
perché dici che sarà lei a far soffrire Alma? Potrebbe essere
l’esatto contrario! Sempre per l’età? O perché la vedi con
la sua aria libera? E voi, perché non è come voi? Perché
porta scritto in fronte che, se vuole, può fare tutto? Però
decide lei se e quando volere? Pensate forse che andrà
nella prima discoteca utile a fare conquiste e vacanze
romane? Siete più borghesi nel cervello di quanto avrei
immaginato! Sull’ignoranza, poi, vi dico come la penso. In
poche parole, ma in fila. Dovremmo essere come lei! La
cultura…! Pensate piuttosto a liberarvene, signore care! La
cultura. Ma fatemi il piacere!
Sull’ultima battuta alla Totò, Doriana sollevò più in alto
il calice in un gesto che da lontano poteva sembrare un
brindisi caloroso e le lasciò lì, con i bicchieri in mano,
sbalordite. Pronte quasi al pentimento. E se ne andò. Da
un’altra parte. A sedere.
65
Per Paola fu uno choc. Non tanto perché era stata
Doriana a parlare, evenienza che da sola stava portando le
altre a un repentino quanto ambiguo ripensamento.
Era la passione con cui l’amica aveva parlato. Se vuole
può fare tutto. Morsa allo stomaco, a quelle parole.
Per un istante, Paola rivide un tempo e un luogo dove
aveva assaporato, inebriata, l’idea che tutto fosse possibile.
Durò un attimo. Acuto, atroce. Per fortuna, passò.
Letizia arrivò nei pressi dei bicchieri in aria o quasi vuoti.
Si disinteressò dell’argomento sul quale le altre avevano
ripreso a ricamare. Prelevò Paola e Ilaria, portandole
sottobraccio al centro della sala.
Ragazze, evviva tutte le Rivoluzioni!
Evviva il 1989!
Abbattiamo tutti i muri.
E avanti con la musica!
66
Famiglie e compagnie
Mia madre non sta bene. Non sarebbe comunque una
pacchia. Tu perché non vai a Vicenza? Con le amiche ci
ritroveremo a Pasqua. Paola mi ha detto di un posto
all’Abetone.
Doriana parlava a Franca.
Con grande anticipo, le aveva detto di voler passare il
Natale con i suoi. E da sola. Partirà anche prima del
previsto. Riuscendo a strappare due settimane di ferie
arretrate al punto giusto.
A Franca non parve vero, ma fece finta di niente. Anzi,
si mostrò un pochetto dispiaciuta. Non vedeva i parenti da
una vita. Sarebbe stato il suo primo Natale a Vicenza dopo
molto tempo.
I suoi genitori erano morti già da anni. Le mancavano
soprattutto la sorella e le nipoti. Le aveva abbracciate un
anno prima, venute a Roma in visita pasquale guidata. Ma
a lei sembrava un secolo.
La sorella di Franca, Marta, era una fan di Papa
Giovanni Paolo II. E con lei le figlie. L’intero suo parentado
era molto cattolico. Aveva anche una zia suora di clausura.
Da quando lei viveva a Roma aveva smesso di andare in
Chiesa. A messa non ci andava volentieri neanche prima.
Però a Vicenza sì. Non poteva una cosa tanto tremenda a
Vicenza! A dirla tutta, lì non ne avrebbe potute anche altre.
Che a Roma le si erano schiuse, finalmente. Anni prima.
Negli ultimi tempi Franca andava di rado nella città
d’origine. Non è che avesse grandi difficoltà a spostarsi. Il
lavoro a scuola le consentiva ferie e accessori vari che
Doriana invece doveva sudare per avere, in banca. Ma, da
quando vivevano insieme, 12 anni circa, le visite di Franca
ai parenti erano sempre più sporadiche.
E le poche volte che ci andava era da sola.
67
I parenti sapevano poco o nulla della sua vita privata.
Il poco che sapevano non lo sapevano da lei.
Facevano tutti finta. Per prima lei.
Per le nipoti era la zia professoressa che sta a Roma. Che
scrive articoli importanti sulla scuola, a Roma. E divide
l’appartamento con un’amica, anche lei importante, a
Roma. Le nipoti adorate erano le uniche parenti che Franca
vedeva a Roma. Sempre accompagnate però dalla
sorella/madre. Che non mandava mai le figlie da sole a
trovare la zia. Anche da grandi. Soprattutto da grandi.
Quando le tre venivano a trovare Franca, Doriana era
sempre impegnata. Da mattina a sera. Solo una pizza
insieme. Una volta sola, in 12 anni.
Doriana non ne poteva più di pantomine familiari. Lei
non era una da coming out spinto. Era anche abbastanza
orso di carattere. Coming out, poi…! Figuriamoci. Negli
anni 60 e ancora 70 e ancora 80 a Roma non circolava
ancora traduzione autentica della locuzione, in ambienti
comunisti. Ossia i luoghi collettivi che, col sindacato,
Doriana frequentò molto negli anni 60. Luoghi ai quali si
era aggiunta un’organizzazione di donne comuniste. E, solo
dopo, un’associazione femminista. Niente di niente con la
parola lesbica dentro. Nel titolo come nella sostanza.
Doriana non chiacchierava molto. Né di se stessa né di
altre. Odiava i pettegolezzi. Ma non amava neanche
raccontar chiacchiere sulla propria vita. Lei a domanda
rispondeva. Spesso, per le rime.
In una riunione di Sezione - non ricordo più quando diede uno schiaffo al Segretario lanciatosi in una battuta
fuori luogo. Mandandolo a sbattere sulla fotocopiatrice.
Si seppe in giro. Da quel giorno, lei divenne quasi un
mito. Il compagno Segretario, va detto, era uno stronzo
parecchio stronzo, con tutte e tutti.
Ma pensa un po’! Una studia da una vita. Lavora da una
vita. Lotta da una vita. Scrive da una vita. E… diventa
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famosa per lo schiaffo a un coglione!
Doriana raccontava l’episodio, inclusi i commenti, a una
giovane amica in treno. Il 9 dicembre del 1989.
Battute a parte, famosa lo era diventata per davvero.
Pian piano, in certi ambienti. Il suo rigore, la sua serietà, le
sue battaglie, il suo impegno costante per i diritti sindacali
erano noti e ampiamente riconosciuti.
Quando poi si veniva a sapere delle sue origini, il
quadro era completo. Tutto tornava. Un perfetto quadro
comunista. Per donne e uomini.
Il valore di Doriana non era riconosciuto solo tra le
romane. Anzi, le donne, comuniste e non, femministe e
non, furono in assoluto le seconde, dopo i compagni del
sindacato.
Le riconobbero qualità anche certe dirigenti che
storcevano il naso su argomenti privati, appena sapevano.
Ma non lo davano mai a vedere. Vuoi per la stima. Vuoi
per una correttezza universale storicamente determinata a
divenire, da comunista, emancipata e infine femminista. E
infine perché intimamente convinte, una ad una, che
Doriana non si sarebbe fermata davanti all’appartenenza di
genere. Uno schiaffone sarebbe volato anche tra donne.
Doriana a casa sua per Natale, anzi prima, senza dirlo a
nessuna, andò in compagnia di una donna che nessun
compagno sindacalista della prima ora avrebbe visto bene
accanto a una come lei. Neanche le compagne e i
compagni del Partito. Partito nel quale aveva smesso di
mettere piede già da un pezzo, ma dove la conoscevano
anche le più giovani, anche i più giovani. La stimavano
molto. Sì, anche la meglio gioventù comunista avrebbe
visto male assortita la coppia, anche solo come compagnia
di viaggio. Per andare a casa sua, poi…! Decisamente, no.
Neanche le compagne seriose di certe riunioni femministe.
Diciamola tutta, neanche certe lesbiche con la puzza sotto
il naso, intellettuali anzi che no. Forse.
69
Ma Doriana ci andò. Trovandosi in ottima compagnia.
Perché non lo aveva detto a nessuno? Avrebbe avuto
qualche problema a farlo, forse? Macché, il motivo era un
altro e più che valido. Intanto, non attaccava in giro i
manifesti con su scritto i fatti della propria vita privata. Poi,
era stata una decisione improvvisa. Presa appena poche ore
prima della partenza.
Però, anche se lo sai da pochissimo, cosa ci vuole a dirlo
alla tua compagna, con cui dividi vita e casa da 12 anni?
Perché neanche a Franca? Perché… perché ora mi fa caldo.
Quando torno, se esce fuori il discorso, nessun problema.
Ma adesso mi fa caldo. Vado da mia madre e da mio
fratello, come deciso e comunicato da tempo. In anticipo
per motivi seri. E ci mancherebbe! In compagnia di chi,
saranno fatti miei? Ah, prima o poi, sì, mi dovrò decidere a
mandare al diavolo qualcuno!
Doriana pensava tutto questo mentre preparava di corsa
la valigia. Il pensiero finale era ricorrente.
In genere, lei aveva presente il destinatario della
mandata al diavolo, sempre con fattezze femminili
collettive. Doriana usava dire qualcuno, al maschile. Come
usava avvocato. Retaggi d’istruzione anni 40 e poi 50 e
poi 60? Forse.
Nel fare la valigia, poi, qualcosa la tratteneva per
ragioni inconfessate dal riempire di sostanza piena quel
qualcuno. Qualcosa con fattezze femminili.
Forza, su! Ché parte il treno.
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Tempi di guerra
Per la Befana potrei andare a dare una mano nella
tabaccheria? Parole di Uma a Doriana, sul finire del 1989.
Prima, però, occorre andare indietro nel tempo.
La mamma di Doriana aveva rilevato una tabaccheria,
qualche anno dopo la guerra. Più che rilevato, ereditato.
Dal fratello morto in un incidente.
La tabaccheria era diventata nel tempo un emporio con
dentro un po’ di tutto. Tipico dei paesini dove, per anni,
saranno sconosciuti i supermercati. Aveva un’insegna bella,
in caratteri coloniali. Resisteva ancora. Per tutte e tutti era
La Tabaccheria. Sali E Tabacchi. Maiuscoli.
Doriana, fin da piccola, non aveva molta voglia di starci
dentro. Ma ci andava sempre, per dare una mano, dopo la
scuola. Come il fratello. Nato un anno dopo di lei.
Entrambi in piena guerra. La seconda mondiale.
Flora aveva voluto la scuola per entrambi i suoi figli.
Almeno fino alla media. Poi si vedrà. Il fratello iniziò la
scuola per geometri. Non la finirà. Doriana invece era
bravissima in matematica e proseguì gli studi al Tecnico
Paolo Savi di Viterbo. Il fratello si occupava a tempo pieno
del negozio, con la madre. Non si era mai sposato. Per
quanto ne sapeva la sorella, non aveva mai avuto una
fidanzata. Donne sì. Fidanzate mai.
Lei si diplomò col massimo. Voleva studiare economia.
Allo stesso tempo, rendersi del tutto indipendente. E
andare a Roma. Un caro amico aveva un amico con un
altro amico dirigente della filiale di una Banca a Roma. La
madre sulle prime era restia, non le piacevano le
raccomandazioni. Ma non era una raccomandazione come
le altre. Intanto, il primo amico era un comunista. E fin dai
primi giorni di apprendistato l’azienda si era convinta che
Doriana sarebbe stata un ottimo acquisto, a prescindere.
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Doriana sorrise dentro di sé – oh, se sorrise! - quando le
chiesero di firmare un contratto con la clausola di nubilato.
Ossia l’impegno a non sposarsi, dopo. Sorrise e però pensò
anche altro. Firmo che non mi sposo, certo! E firmo che
non avrò figli. La verità vera la tengo per me. All’orizzonte
della sua vita non vi era nessun marito, fin dalla
giovinezza. Ancor meno figli. Sono affari miei! Firmo, ma
lo sapete quanto me che questa clausola fa schifo!
Conosceva l’impiegata in un sindacato chiamato Fisac
Cgil. Una compagna, si diceva allora. Nel sindacato entrerà
anche lei. Che nella prima banca era entrata dalla porta
principale. E dalla stessa porta uscirà qualche anno dopo
per andare in un posto più ambito, la Banca d’Italia.
Intanto, si era iscritta a Economia. Ogni finesettimana
tornava a dare una mano nella tabaccheria. Ma studiava e
studiava. E intanto lavorava. E intanto lottava. Studiava,
lavorava e lottava. Una gran fatica. Condita da riunioni
fumose in posti fumosi. Iniziò a fumare, lei che non aveva
mai sfiorato un pacchetto di nazionali nel suo negozio.
Riunioni su riunioni. E manifestazioni. E lotte sindacali.
Che anni, gli anni sessanta! Tutte e tutti avranno benefici
da nuove leggi, entrate in vigore dopo lotte senza
quartiere che poche e pochi come lei avevano condotto.
Lotte perché le donne fossero assunte in tutti gli uffici
pubblici, come diceva l’art. 51 della Costituzione - questa
novità è del 1963, cara mia! - e lotte contro i licenziamenti
senza giusta causa. Lotte per la parità salariale. E certo,
lotte per avere leggi che tutelassero di più le madri che
lavoravano. E sì, anche lotte contro la clausola di nubilato.
Rise largo Doriana, in treno, sospendendo il suo
sintetico racconto alla compagna di viaggio.
Ed è sempre il 9 dicembre del 1989.
L’abolizione del divieto di sposarsi a me personalmente
non sarebbe mai servita. Però, cosa c’entra? Certo che è da
ridere! Quando mi assunsero la prima volta uno si premurò
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di dirmi ‘stai attenta, se poi ti sposi commetti reato’. A me!
Un reato! Ci dovrò scrivere su, un giorno o l’altro.
E Doriana continuò a sorridere. Raccontando a Uma.
Già! Perché a casa sua, dalla madre malata, senza dirlo
neanche a Franca, lei aveva deciso che poteva andarci
Uma. Lo aveva detto al volo. Se vuoi, puoi venire con me.
Voleva andarci da sola, però con Uma forse sì. Forse, solo
Uma. In ogni caso, non ci aveva pensato su tanto.
E, in treno, riprese il suo racconto. Era stata la
giovanissima madre a infondere in lei la voglia di
emergere, essere indipendente e sempre fiera. Fin da
piccola le diceva che doveva studiare, lavorare e mai
dipendere da nessuno, neanche da un marito. Forse,
all’inizio, sua madre avrebbe preferito un impiego più
vicino. Magari in una scuola. O in un ufficio postale.
Doriana non avrebbe fatto molta fatica a trovarlo. Era
brava, ma c’era dell’altro. Altro da dire anche a Uma.
Prima del loro arrivo. A parte i meriti, sarei passata davanti
a tutti in graduatoria. Perché ero orfana di guerra.
Un’orfana doc. Come certi vini buoni.
Doriana decise quella battuta per aprire al ricordo di un
padre morto in guerra. Morto Partigiano.
Partito Alpino, a lui e tanti altri con lui capitò la
sventura di essere comandati da chi ordinò di ammazzare
partigiani, in Jugoslavia. Dopo, lui e pochi altri con lui
entrarono in una Brigata, inquadrati di tutto punto in una
Divisione Partigiana. Dove morì, babbo Vittorio. Per la
Libertà. Poco dopo aver conosciuto, amato, sposato e
messo incinta sua madre Flora. Che non era una partigiana.
Ma solo una contadina di appena diciotto anni. E tuttavia
già forte come tante altre donne, in tempo di guerra.
Ora, la giovane vedova fortissima, nel giorno
dell’Immacolata 1989, aveva avuto una crisi cardiaca.
Sono arrivata alla fine, Doriana - dirà all’orecchio della
figlia, appena arrivata. Piacere, signorina. Venga - sorriderà
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Flora a Uma. Che bella che è! Se Doriana l’ha portata vuol
dire che è anche una ragazza molto in gamba. Mi spiace
solo di non stare tanto bene…
Ragazza in gamba e lei non lo aveva detto a nessuno…!
Uma, dal canto suo, non aveva proferito verbo con
Alma sul viaggio a Viterbo. Ma quello sarà il meno. Con
cura lei eviterà di dirle ben altro.
Tanto per cambiare, avevano litigato. Anche il giorno
dell’Immacolata. Non proprio litigato. Non litigavano mai
nel vero senso della parola. Ma il loro amore fu una guerra
fin dall’inizio. Non proprio dall’inizio inizio, ma sarà anche
una guerra. Tra due che si amavano senza tregua.
L’unica tregua dell’amore era la guerra.
Guerra sui generis. Condita da imboscate e rappresaglie.
Mai dichiarata, perché nessuna delle due l’avrebbe
accettata. Né vinta. Né persa. Ma c’era. Semisconosciuta
dalle poche a conoscenza di una storia d’amore e sesso tra
perfette sconosciute. Guerra sottile fatta di silenzi e rare
parole. Poche, ma che iniziarono a far male. A entrambe.
Nessuna delle due avrebbe voluto sparare, ma capitava.
A fine giugno Alma le aveva detto pochissimo della sua
vita. Quanto basta della verità. Quanto bastava a lei. Uma
all’inizio se lo fece bastare. Il loro amore di giorno, fatto di
pelle, colori e profumi, la inebriava.
Alma non si staccò da Roma per tutta l’estate 1989. E si
staccò pochissimo da Uma, quando Uma era a Roma.
Almeno, non si staccava di giorno, che fossero in albergo o
alle Quattro Fontane. Ed era amore. La guerra iniziò con
sciocchezze, piccole schermaglie che forse sarebbero state
diluite, smaltite, se solo ci fosse stato il tempo.
Quando non faceva l’amore o la guerra senza saperlo,
Alma dipingeva. Questo vedeva Uma, che non sapeva altro.
Quando non faceva l’amore o la guerra senza saperlo,
Uma dormiva. Poco, perché andava in giro di notte. O
guardava le figure con didascalie dei libri d’arte. Questo
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sapeva Alma, che sapeva dei libri e vedeva le sue occhiaie.
Amore e guerra si alternarono quasi con pari dignità.
Solo ad ottobre si era inserita una discontinuità.
Alma era tesa da qualche giorno. E a Uma non
sfuggirono alcuni particolari. Fa le cose a scatti. Arriva alle
Quattro Fontane già stanca. Non parla niente, lei che già
parla poco. Sistema colori o finge di dipingere. Non sta
dipingendo. Una mattina, in albergo, sempre di giorno, ma
capitò una volta sola, l’aveva abbracciata stretta e zitta, poi
si era addormentata di un sonno che non era sonno.
In un giorno di ottobre, alle Quattro Fontane, aveva
fermato per aria il pennello. Devo fare un salto in
Svizzera. Per una settimana. Con mio figlio.
Alma col dono della sintesi aveva parlato davanti alla
bozza di un dipinto, assorta. Uma, stesa lunga lunga su una
dormosa, quasi dormiva. Ma capì abbastanza. Ossia, tre
parole. Svizzera, settimana, figlio.
Quando Uma non faceva la guerra o l’amore dormiva.
Nessuna è perfetta. Lo aveva detto solo una volta. Lì, alle
Quattro Fontane. Ad Alma, il primo giorno. Molto più
spesso lo diceva a se stessa, quando ci pensava.
Lo pensò anche a ottobre, ma non replicò. Non chiese
nulla, né prima né dopo. Amore e guerra ripresero così la
loro alternanza, fino a dicembre. Con alti e bassi. Sempre
più bassi che alti. In mezzo, andirivieni da Roma a Lecce.
Uma aveva perso il conto delle volte che si era
ripromessa adesso basta. Basta guerra. Fino all’ennesimo
proposito per le feste in arrivo. Nel tempo, aveva
imbastito un decalogo alla buona. Sempre lo stesso, poche
varianti. Un dialogo con sé.
Le veniva facile il botta e risposta. La solitudine notturna
vide la nascita di due Uma che domandavano e
rispondevano, accanto all’insorgenza di qualche malanno
lieve, per l’umidità delle notti romane.
Non aveva voglia di vedere nessuno a parte Alma. Senza
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di lei ci stava di notte. E di notte andava in giro a
sussurrare domande e poi risposte. Al Pantheon come
all’Argentina. Alla Tartaruga e pure al Viminale. Villa
Borghese, no. Lì, mai di notte.
Via del Decalogo numero 10, proviamo.
Primo: smettere di seguire Alma per vedere dov’è che va
a dormire ogni sera. Questa è facile. Una volta scoperto,
non è che ci torni tutte le sere. Nessuna è perfetta,
procediamo.
Secondo: smettere di chiedere ad Alma del marito.
Anche questa è facile. Chi se ne frega! L’ho fatto solo una
volta. E solo per sapere che lavoro faceva. Non fare la
gnorri con me, signorina. Ok, smettere di tirare in ballo,
anche solo con una battuta di straforo, il fatto che Alma è
sposata. Ma io non lo tiro in ballo, c’è! Sì, ma lo fai sempre
per traverso. Mai una domanda diretta. Del tipo, che so?,
visto che non ci stai mai insieme, con tuo marito, perché ci
stai? Fossi scema, io una domanda così! Già, scema totale.
Perché vuoi sapere ma non chiedi. Di questo passo ti verrà
l’ulcera. Ma come faccio? Non lo so. Ok, ci provo. No,
non devi provarci e basta. Ok, promesso.
Terzo: non chiedere ad Alma niente di niente di suo
figlio. Facile, facile, facile! Non me ne importa un fico
secco, punto! Non provare a fregarmi, ti conosco. Le ho
chiesto soltanto cos’ha provato quando le è uscito dalla
fica. Non potevo? Semplice curiosità! Semplice? Ok, perché
la fica è anche sesso. Ah, ecco. Allora non le chiederò
com’è fatto. Lo hai già chiesto e se è per questo lo hai
anche visto, di nascosto. Bello, magrolino, ma assomiglia
ad Alma. Una specie di Alma tascabile coi capelli corti.
Di punto in punto, il ‘Decalogo Umano’ era proseguito
per tutto l’autunno. Sempre di notte. Tra strade e fontane,
piazze e monumenti. Con numeri di propositi che
superarono la decina. La guerra nel frattempo continuava,
di giorno. Nelle tregue dell’amore.
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Tempo tre giorni
7 dicembre.
Giorno in cui a Lecce, a casa sua, mangiavano pucce,
scapece e pesciolini. Giorno chiamato del Digiuno e non
aveva mai capito perché, visto che si strafogavano.
Il 7 dicembre Uma aveva deciso per l’ennesima volta
basta. Basta guerra. E proprio quel giorno Alma, che a
ottobre era andata in Svizzera con il figlio, le aveva detto
che ci sarebbe tornata anche a dicembre. Tra pochi giorni.
La seconda vacanza questa volta durava tre settimane e
mezzo. Sempre col figlio, solo col figlio. No, mio marito
no. Solo Gabriele.
Alma non aggiunse molto altro, né prima né dopo.
Pochi particolari insignificanti. E Uma non aveva mai
chiesto nulla. Sentirsi durante? Non se ne parla! Non
chiamarmi, non mi piacciono le telefonate.
L’altra forse non avrebbe telefonato comunque, ma
Uma lo aveva detto. Odiava le telefonate da lontano dal
tempo che zia Emma era andata via col cavallo bianco.
Che ci troverà poi in questa Svizzera? Avrà parenti o
solo montagne? E le montagne, stanno solo lì? Non
chiedeva, aveva un orgoglio da sproposito. Ma odiò la
Svizzera con tutte le sue forze. Fosse stata Stato le avrebbe
dichiarato Guerra.
Il sentimento più brutto della sua guerra fu provare odio
verso il figlio di Alma, pian piano.
Gabriele magrolino che, sì, a conti fatti, non è che ci stia
tanto con la madre. Però iniziò a odiarlo ugualmente. Poi a
pentirsene amaramente. Poi a odiarlo. E a pentirsene
nuovamente.
Non era proprio odio. E su Gabriele non dirà mai a se
stessa nessuna è perfetta. Si dirà sempre e solo stronza. Ma
non poteva farci nulla.
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8 dicembre.
Giorno dell’Immacolata. Giorno seguente all’ultimo
decalogo rinnovato. Con propositi crollati e ricostruiti
all’istante. Alma sarebbe partita di lì a pochi giorni.
Un giorno come un altro. Con l’ennesimo colpo da
guerra fredda, appena tiepida d’amore appena fatto. Uma
aveva aperto con forza il pesante portone delle Quattro
Fontane ed era uscita, di corsa. Andando a sbattere su
Viola. Forse stava per suonare?
Viola che l’abbracciò, guardandola dolce e un po’
severa. Restò a scrutarla. La sua dolcezza poi si trasformò.
Da severa diventò smarrita, poi dolente. Infine, decisa.
Basta, io te lo dico. Alma non si rende conto, ha la testa
altrove. E tu chissà che farai! Vieni, facciamo quattro passi.
Alma non mi perdonerà, ma fa niente.
Non fecero neanche il giro completo del trapezio
strambo. La forma sottolineata più volte da Uma sulla sua
cartina. Sottolineato e poi cerchiato. Così lo chiamava, il
mio trapezio strambo. Il posto del cuore. Il posto delle
Madonne del suo amore. Il posto della guerra e della pace.
Dell’amore e del sesso riparatore. Già, sesso riparatore!
Quando lei lo diceva Alma la guardava quasi sempre male.
Perché quasi mai era una battuta spiritosa. E mai Alma la
meritava. Ma a saperlo era la sola Alma.
Un trapezio strambo veramente. Con una stella nel
punto con un edificio che ospitava un seminterrato, con
dentro uno studio che non era una Galleria, chiamato
Quattro Fontane da Uma. Metonimia del cuore.
Trapezio strambo conosciuto bene. Percorso molte
volte, prima e dopo. Sperimentato ogni angolo dove
acquattarsi, prima e dopo. Dal cancello della prima volta.
Ora però non era lei a decidere la strada. Si lasciò
prendere sottobraccio. Ascoltò Viola dall’inizio alla fine, in
silenzio. Arrivate in piazza Barberini, l’amica aveva
guardato a sinistra verso via del Tritone, poi a destra.
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Scelse la destra. Sta facendo il lato del mio trapezio.
Via Barberini, sempre parlando. In pausa solo tra un
marciapiede e l’altro o con gente nei pressi. Continuarono
così fino alla svolta della Salita di San Nicola da Tolentino.
Ancora destra. Terzo lato del trapezio. La fecero tutta.
Il marciapiede in alcuni punti aveva dei parabordi alti in
ferro. Uma vi si appoggiò una volta sola, per non cadere.
Viola parlava, si fermava ogni tanto, la guardava e
riprendeva. Forse avrebbero completato il giro. Ma Uma
non volle. Oggi non voglio chiudere il trapezio.
Arrivate all’incrocio con via Venti Settembre, Viola
aveva già detto tutto. Stavano per svoltare nuovamente a
destra, in direzione di un incrocio conosciuto da Uma
come le sue tasche. Con quattro statue e l’acqua in mezzo.
Non erano proprio statue. Erano le sue quattro fontane.
Non voglio chiuderlo. Oggi no. Uma si bloccò. Dicendo
pochissime parole all’altra. Calme, tranquille. La rasserenò.
Sembrava un’altra. Ma le disse no. No, senti. Mi fermo
qua. Poi vado di là. Vai tu. Vai da lei. Ci stavi andando,
no? Tutto a posto, ho capito. Magari, magari ti chiamo.
Posso chiamarti? Mi dai il tuo numero? Aspetta, ti do
quello di casa mia. Casa mia a Lecce.
Uma che non amava il telefono, odiava telefonare e
non passava mai le feste con i suoi, lungo il tragitto era
stata fulminata da una piccola illuminazione. Mentre Viola
forniva altri inutili dettagli. L’essenziale lo aveva appreso
già dalla Piazza.
In via Barberini Uma aveva alzato gli occhi, una volta
sola. I suoi occhi verdi, per il resto del trapezio, li tenne
sempre bassi, semichiusi. Non aveva neanche gli occhiali da
sole, fedeli compagni delle passeggiate diurne. Nella fretta
li aveva lasciati alle Quattro Fontane. Aveva alzato gli
occhi in un punto esatto di via Barberini. Targa di ottone.
Regione Puglia. Un segno. E aveva deciso.
Le ultime parole di Viola, sull’incrocio, erano state
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accorate ma inutili, non ce n’era bisogno. Uma capì Viola e
il tono suo accorato, ma non serviva. Uma, non farle
casini. E non farli adesso. Amala. Continua ad amarla.
Anche da lontano. Lei non è mai stata così. Amala e basta.
9 dicembre.
Uma non andrà così lontano. Solo con Doriana in
provincia di Viterbo. Lei che non telefonava mai, il giorno
prima, quell’8 dicembre del trapezio strambo e dolente, da
via Venti Settembre era andata direttamente a casa sua,
dopo il saluto a Viola. Se non fosse stato giorno festivo,
sarebbe corsa in banca per cercarla. Non avrebbe dovuto
neanche correre più di tanto. Era proprio lì. Uma lo
sapeva. E sarebbe stata anche la sua prima volta in una
banca. Ma l’8 non si lavora. Speriamo sia in casa.
Doriana non si era fatta dire molto. Forse guardarla le
bastò. Poi, andava di fretta. Ma Doriana non decise in
fretta. Decise e basta. Parto domani, vieni con me? Vado in
un paesino, ti piacerà. Nel viaggio, se ti va, mi dici il resto.
Uma a Doriana dirà poco. E ad Alma quasi nulla.
A Lecce per Natale e Capodanno, bella scusa!
Alma non aveva battuto ciglio.
Ottima scusa, certo! Uma non passava mai le feste con i
suoi. Che infatti saranno sorpresi. Prima e dopo.
Sempre un’aria malata. Ma guai a chiederle che hai,
mandava tutti a quel paese. Si staccherà da Lecce solo nei
primi del nuovo anno. E prima non si staccherà mai dalla
sua stanza. Chiusa a leggere didascalie e guardare figure.
Ogni tanto telefonava. Lei che odiava le telefonate da
lontano chiamava Viola. Telefonate brevissime.
L’operazione è per domani. Sì, ti richiamo io.
Viola, come Alma se non di più, amava la sintesi.
80
Matrimonio all’italiana
Si tratta solo di una settimana. E a me, lo sai, non piace
sciare. Viene Giovanna, neh? I ragazzi sono contenti.
Nelle sue bugie al marito Ilaria sta per toccare livelli di
perfezione ineguagliabili. Impensati appena un anno prima.
Ora, infatti, siamo a dicembre 1989, ne diluisce una con
la verità. Dicendo, com’è vero, di non amare lo sci. Per la
Pasqua successiva a sciare ci andrà, poi. All’Abetone.
L’avventura con la collega Paola è diventata una storia
vera. Nel senso che si vedono in ogni occasione già
possibile. Dal convegno sulla tratta ogni lasso di tempo è
allungato con un giorno prima e uno dopo. Sempre
fuorisede. Sempre per convegni. Come a settembre, per un
imperdibile quanto provvidenziale corso di aggiornamento
sul diritto ambientale. Dalle parti di Orbetello.
La sorella di Ilaria, Giovanna, è molto affezionata ai
nipoti. Lei non ha figli. E non ha impegni di lavoro. Da
quando si è burrascosamente separata è spesso ospite in
casa della sorella. Quasi ogni giorno a pranzo. E sempre a
cena, quando Ilaria è fuori. Soprattutto se Ilaria è fuori.
Perché Giovanna è l’amante di suo cognato, marito di
Ilaria. Da anni e anni prima della separazione burrascosa.
Il marito di Giovanna la mena da sempre. Non sa che lei
lo tradisce. L’avrebbe menata comunque.
Quando Giovanna non riuscì a nascondere l’ultimo
livido la sorella insorse. Non è possibile! Basta, quel bifolco
lo mandiamo in galera! Però te lo avevo detto, sorellina…
Il violento non andrà in galera, ma pagherà alimenti per
colazione, pranzo e cena.
Ilaria è una matrimonialista con i controfiocchi.
L’esimio ingegnere verserà anche una discreta
liquidazione, vedrai! Appena scadono i termini per il
divorzio.
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In Italia per un divorzio ti toccano le forche caudine. E
un tot di soldi in più per avvocati. O avvocate. Se non
sono tua sorella. In Italia, dopo Vaticano e Mafia, dettano
legge a pari merito Ipocrisia e Burocrazia. Ok, era passato il
divorzio nel 1970. Perché italiane e italiani erano pronte e
pronti. E i tempi erano maturi. Ma, appena fu possibile
mettere mano all’intera questione, la sistemarono per
bene. Ossia all’italiana. In Italia, prima di un divorzio, devi
ricevere da un Tribunale l’autorizzazione a vivere separata
e separato. Sempre coniugi, ma separati. E sentiti
ringraziamenti a Signora Ipocrisia coniugata mai divorziata
da Madama Burocrazia! Il Vaticano sopporta. Certo, non
porge ostie ai divorziati! In compenso, Basiliche famose
ospitano spoglie di mafiosi, altrettanto se non più famosi. E
neanche tanto pentiti, in punto di morte. Viva l’Italia!
Il marito di Ilaria non è nulla di eccezionale. Quasi un
uomo qualunque. Commercialista a Torino. Ma con una
passione segreta da anni. Scrive romanzi gialli tendenti al
porno-erotico. Già pubblicati due titoli con uno
pseudonimo. Nello studio ha uno stuolo che fatica in suo
nome e per conto. Lui si limita a presentare il conto.
Chiuso nella sua stanza scrive gialli. Passione segreta alla
quale un giorno s’affiancò Giovanna. Sempre di nascosto.
Giovanna che arrivò piangendo. Solo a te posso dirlo,
Giovanni! Giovanni è il nome del marito di Ilaria. Che
fantasia, i casi della vita...!
Lei non aveva il coraggio di confessare alla sorella
avvocata il fallimento del suo grande amore, per il quale
giovanissima volle sposare a tutti i costi… e chi? un
maledetto terrone! Bello e con i soldi, ma sempre terrone.
Ilaria col resto della famiglia aveva ingoiato il rospo.
Il marito picchiava Giovanna dal viaggio di nozze. In
albergo uno la guardò e lui la picchiò perché si era fatta
guardare. Fino al livido sullo zigomo Giovanna condivise
solo con Giovanni il suo segreto. Lei è anche l’unica a
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sapere della scrittura gialla. Di segreto in segreto, la storia
tra la sorella e il marito di Ilaria va avanti da anni.
Un occulto ménage à trois. Quasi perfetto.
Dei tre, chi si sente più in colpa è Ilaria. Da anni e anni
prima del convegno sulla tratta. In colpa perché sempre
fuori, piena d’impegni, appresso alla carriera. In colpa con i
figli. Che ama tanto. Meno male che c’è Giovanna…!
Che ragazza sfortunata, mia sorella! E che sprovveduta,
però, a sposare il calabrese bellimbusto! Ilaria si sentì in
colpa due volte, prima e dopo il matrimonio di Giovanna.
Prima, perché le aveva detto dammi retta, non è l’uomo
giusto, non era riuscita a convincerla e se ne faceva una
colpa, lei che riusciva sempre in tutto. Dopo, perché
davanti alla verità l’aveva rimproverata. Come se non
bastasse, poveretta! Ma che mostro sto diventando? Ah,
questa professione! T’indurisce il cuore e ti fa dimenticare
che, se la tua vita è appagata e perfetta, non è per niente
giusto sbatterlo in faccia ad altre. A tua sorella, poi…!
I suoi ragazzi, per fortuna, adorano la zia che ha
riversato la sua attenzione su di loro, da quando ha
scoperto di non poter avere figli. Povera Giovanna! E lei,
invece? Due. E giù, sensi di colpa!
Ilaria si sente in colpa anche col marito. Che ama come
si può amare uno con cui sei sposata da 15 anni. E che
trascura un po’, lo sa. Certo, ogni tanto ci scopa. Come
puoi farlo con uno con cui dormi nello stesso letto da 15
anni. Con la testa altrove. E il cuscino sempre sistemato
bene, per evitare urti non voluti alla cervicale.
Negli ultimi anni lo fanno sempre meno. Ilaria non si da
grande pensiero. Può accadere, dopo 15 anni. Sarà stanco
anche lui, povero Giovanni. Col daffare nello studio.
Lei, Ilaria, a letto non fa mai la prima mossa. Solo,
aspetta. Se lui muove i piedi in un certo modo o le punta
contro un ginocchio, piano, lei capisce e si volta.
Dal convegno sulla tratta Ilaria ha fatto sesso coniugale
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solo tre volte. La prima volta, durante, pensa sempre a
Paola. Penserà poco. Tra la prima e la seconda, e tra la
seconda e la terza, penserà altro. Avrà problemi il mio
Giovanni? Sono passati mesi! Forse non sono più la donna
di una volta. Si sente più vecchia e brutta, oltre che in colpa.
Ma non ci pensa molto, ha sempre tanto altro cui pensare.
La terza volta Ilaria tirerà un sospiro di sollievo. Meno
male, non ha nessuna malattia! Pensiero piccolo, veloce.
Anche lei è stanca. Tanto da non pensare neanche a Paola,
durante. Domattina devo uscire presto. Una causa
importante. Buonanotte, tesoro.
Buonanotte. Giovanni, quella terza volta lì, è reduce da
un coito interrotto molto male nel tardo pomeriggio.
Dall’arrivo in studio di un pacco postale. Strettamente
riservato personale. La copertina per la ristampa del suo
secondo libro era venuta proprio bene. Di venire era
passata voglia a lui e anche a Giovanna. Che però
andranno a cena per festeggiare. Da soli, ovviamente.
Nessuno doveva sapere delle due passioni due nella vita di
Giovanni. La sua Ilaria non meritava quel colpo al cuore e
due alla carriera. Lui però non si sente in colpa.
A Giovanni, quella terza volta lì, forse il vino, forse la
contentezza, pensando al libro e un po’ anche a Giovanna,
a Giovanni tornerà voglia. E s’arrangerà alla meglio.
Che donna sua moglie! Non gli dice mai di no. Non ha
molta voglia di sesso la sua Ilaria, per fortuna. Certo, ogni
tanto qualunque donna va soddisfatta. Altrimenti, che
uomo sei? Se è tua moglie, poi…! Oddio, sesso estremo
con Ilaria proprio no! Sorridendo a se stesso, placido come
un bambino, Giovanni s’addormentò.
Quanto al Senso di Colpa, nei rapporti interpersonali,
dai secoli dei secoli dà più di due lunghezze alla Madama e
alla Signora di cui sopra. Inarrivabile la sua potenza.
Il vero oppio dei popoli sul piano personale.
In Vaticano al Senso di Colpa? Baciamo le mani.
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Le due clitoridee
Uma prima di Natale va in un paesino con Doriana. Per
le feste va dai suoi ma chiamerà Doriana. Per la Befana
vado a dare una mano in tabaccheria? L’insegna coloniale
le era piaciuta, anche se sapeva di guerra. L’insegna e non
solo lei. Ma perché Doriana? Perché per la Befana? Se è per
questo, anche prima, perché Doriana per Uma? E, ancora
di più, perché Uma per Doriana?
Semplice. In un giorno d’autunno, per caso, due
clitoridee sconosciute si erano incontrate. E riconosciute.
Domenica. Giorno di guerra e pace come altri, per Uma.
Incrociò Doriana in una delle sue rare passeggiate
diurne. Perché Uma andava in giro soprattutto di notte, se
non dormiva. E passeggiava uguale a come dormiva. Da
sola. A volte, dormiva camminando. O viceversa.
Piazza Santa Maria in Trastevere. Uma guardava le case
attorno oppure il cielo. Indossava il solito paio d’occhiali
da sole con la montatura in plastica verde scuro, enormi e
fedeli compagni delle sue rare esposizioni al sole.
L’altra non la riconobbe subito, ma non per gli occhiali.
Le donne Doriana non le guardava poi tanto. Neanche se
avevano una massa stupenda di capelli color dell’autunno.
Fu attratta da un libretto in bilico precario sull’orlo di una
tasca. Libretto verde. Formato e copertina inconfondibili.
Un libro di Carla Lonzi. Allora Doriana guardò. E, quando
la sorpassò, si voltò a salutare l’amazzone di Alma.
Passeranno il giorno assieme. A parlare, passeggiare,
stare zitte e poi mangiare. Avresti detto zia e nipote, al più.
Mamma e figlia, per nulla. Intanto, diverse nell’aspetto.
Doriana robusta, con capelli brizzolati portati a spazzola e
lineamenti da Bronzo di Riace. Uma alta, non magrissima,
ma col seno piccolo. Tra capelli, occhi e abbigliamento
poteva passare per un’irlandese o un’olandese in vacanza
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romana. Forse svedese, però senza le lentiggini di Pippi
Calzelunghe. Fisicamente, quindi, nessuna corrispondenza.
Se solo un po’ le avessi conosciute, poi, mai avresti messo
nel loro rapporto la parola materno, neanche per difetto.
Passeranno l’intera giornata assieme, ma parlò quasi
sempre la più giovane. Non raccontò molto di sé, della
famiglia, di Lecce. Neanche di zia Emma. E non una parola
su Alma. Uma caterpillar scaricò su Doriana ogni parola
che poteva, voleva e doveva dirle a partire da quel libro.
Andarono a sedere subito sui gradini di qualcosa, forse
una Chiesa. E Uma attaccò. Mentre lei parlava Doriana
sorrideva, ma era seria e attenta. Aveva capito che doveva
innanzitutto ascoltare. E capire.
Giorni prima Uma aveva visto in studio da Alma un
titolo con dentro una donna che era clitoridea. E un’altra
invece vaginale. Clitoridea? Vaginale? Diamo un’occhiata.
Sfogliò con la solita aria, tra distratta e diffidente. Cercò
una poltrona lontana da Alma che stava usando un liquido
maleodorante. Voleva capire. Dove vuole andare a parare
la donna che scrive di un filosofo che ci devi sputare
addosso? Soprattutto, perché clitoridea e vaginale? Non ci
capì niente, ma voleva capire. Posso prenderlo?
Viola lo ha scordato qui. Io l’ho appena sfogliato. Vedi
di non perderlo. Anche il Diario di Carla Lonzi non è male.
Lieve e unica bugia, Alma aveva letto e riletto Sputiamo
su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale . E aveva
letto altro. Solo, non le era parso vero. Uma aveva voglia
di leggere qualcosa! A parte le figure con didascalia di tutta
l’arte contemporanea possibile. A parte qualche romanzo
di Agatha Christie. E quotidiani, ma solo per informarsi su
accadimenti notturni romani vari, da fatti di cronaca nera
ad eventi spettacolari. E con l’unico scopo di evitare le
strade con dentro gli uni e gli altri.
Ad Alma non passò neanche dall’anticamera di
consigliarle Autoritratto. Il primo libro di Lonzi. Intanto,
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era un’edizione introvabile, mai più ristampata. Non
voleva correre rischi. E se prima non legge altro si
stancherà, pensava Alma, strofinando le mani su uno
straccio intriso di trementina. Pensieri e azioni scelti con la
solita attenzione e cura. Aveva parlato volutamente come
chi non dà poi tanto peso alla faccenda. Non voleva
forzarla, sapeva che sarebbe stata fatica vana.
Più che altro, era quasi certa che, se si fosse mostrata
quasi indifferente, Uma si sarebbe quasi interessata a Lonzi.
Tre quasi. Lonzi che aveva molto a che spartire con l’arte.
Ma Autoritratto adesso no. Alma sbaglierà solo in un
particolare. Uma si fisserà molto su Carla Lonzi.
In quella domenica d’autunno con Doriana parlava e
parlava. Non chiedeva, ma si capiva che voleva capire.
Parlava come un libro stampato, ma senza dire parole
come libro stampato. Ogni tanto metteva il libretto sotto il
naso di Doriana, lì dove aveva sottolineato il punto che le
piaceva. O dove non aveva capito niente. E lì dove c’erano
le figure, con la clitoride e il plateau dell’orgasmo.
E, guarda qui, dove parla della guerra dei maschi. Non
avevo mai pensato alla guerra in questo senso. Qui, invece,
parla sempre di psicanalisi. Mah! Era di gran moda tempo
fa, Uma. Ogni tanto Doriana interloquiva. Mai con l’aria di
dare risposte, neanche quando le parole dell’altra avevano
l’aria di essere domande. Chi sarà questo Reich? No, non
voglio sapere niente di psicanalisi. E qui, dove trascrive il
canto delle donne africane? Che roba brutta dev’essere
stata questa cosa chiamata escissione della clitoride,
Doriana. La fanno ancora, Uma. Oh, per la miseria!
Non faceva domande, ma voleva capire. Doriana lo
capiva. E ogni tanto darà risposte ai dubbi dell’altra. Senza
rispondere, perché le parole di Uma non erano domande.
E Doriana non parlerà mai come libro stampato. Non si
sforzerà molto in questo. Perché aveva capito. Intuito. E
poi trovato la lunghezza d’onda giusta.
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E qua, dove parla della clitoride, del sesso delle donne e
del sesso degli uomini? E del sesso delle vaginali? Qua ho
capito quasi tutto. Ma la politica davvero ha a che fare con
la fica? Con le vaginali che fanno politica vaginale e le
clitoridee invece politica clitoridea? Neanche questa era
una vera domanda. Uma non la faceva come domanda.
Era più uno stupore affascinato, pieno di voglia di capire.
Doriana capì di avere davanti una donna che avrebbe
trovato tutte le sue risposte, prima o poi, perché sulla
strada delle domande giuste. Alzò lo sguardo una volta
sola. Guardò ben bene la testa tanta di capelli come
l’autunno. Riandò con la mente a una festa di mezza
estate. E pensò. Signore mie, vi presento l’Ignorante!
E, lì, la guardò con amore. Un amore autentico. Lei
sapeva che amore era. Uma non lo aveva ancora capito,
ma ci sarebbe arrivata. Amore grande, di quelli senza sesso
e senza ritorno. Di quegli amori che non possono mai
finire. Possono restare nascosti per secoli. Sopravvivere a
meteoriti preistoriche e altro di più catastrofico. Dormire.
Li puoi chiudere in una torre e lasciare lì per anni e anni.
Ma non marciranno mai. Certi amori. Poi, ti si parano
davanti, per caso, in un giorno d’autunno.
Giornata indimenticabile, per entrambe. Che ne ebbero
altre. Sempre di domenica. Magari, non sempre intere
come la prima. Forse, se Carla Lonzi avesse potuto vederle,
avrebbe scritto di clitoridee sconosciute che in un giorno
d’autunno si erano incontrate. E riconosciute. Una
sapendolo. L’altra ancora no.
Uma, si deve dire anche questo, aveva ridotto il libro a
una mappa da caccia al tesoro. Con frecce, stelline,
appunti. Ed evidenziature di sei colori diversi. Quando
Alma lo vide si trattenne a malapena. Solo, le diede
l’indirizzo di una Libreria delle Donne dalle parti di
Trastevere. Vedi di trovarne un altro.
La stava indirizzando bene. E non poteva sapere quanto.
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Il pallino sbagliato
Anche Franca imparerà a trattare Uma con amore. Un
amore sincero. All’inizio, per innamorarsi della ragazza, le
bastò vedere come le parlava Doriana. E come la
guardava, quando era da loro a cena.
Per il resto, Doriana parlava poco di Uma. Strano.
La prima volta che ne fece parola con Franca non la
nominò neanche col suo nome. Domani vorrei invitare a
cena la ragazza di Lecce amica di Alma, cosa ne dici?
Non era una richiesta, ma una comunicazione.
Doriana era politically correct almeno quanto l’altra.
Col tempo Franca amerà Uma di un amore sempre più
grande. Sempre dello stesso tipo. Come per una nipote.
Oppure, perché no? Una figlia. Amore molto distante da
quello di Doriana. Anzi, diciamolo, di un altro pianeta. Di
una costellazione prossima alla Galassia di Famiglia.
A Uma andava bene. Franca cucinava niente male.
Per Doriana lei non era affatto la ragazza di Lecce amica
di Alma, anche se così l’aveva nominata la prima volta.
Anche se Doriana sapeva del loro rapporto, come lo
sapevano altre. Le pochissime altre a conoscenza di
un’amazzone nella vita di Alma.
Doriana non diceva nulla a Franca delle sue passeggiate
domenicali con Uma. Lei non raccontava nulla delle sue
passeggiate domenicali, in generale. A chiunque.
Con Franca aveva stabilito un accordo. Da 12 anni. Le
domeniche erano tutte per sé. E ognuna per sé. Un po’
come la stanza di Virginia Woolf. Ogni domenica per sé,
fino alla sera. Poi, magari, un cinema insieme.
Le passeggiate con Uma non erano qualcosa da tenere
nascosto. Niente di morboso o complice. O di esclusivo, ad
ogni costo. Prendevano appuntamento e stop.
Scopriranno di avere una grande passione in comune, a
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parte Carla Lonzi e altre piccole venute allo scoperto nelle
passeggiate, tipo il gelato di riso da Pica.
Una su tutte era la loro passione, senza essere esclusiva e
neanche fenomenale. Per nulla passione femminista. Forse,
neanche tanto da femmine, per qualcuno.
Era una passione e basta. Giocavano a bocce.
Uma aveva la passione delle palle verdi e rosse col
pallino bianco fin da quando ci giocò la prima volta nel
campetto scalcagnato vicino al cimitero, da bambina. Col
tempo le bocce avevano cambiato colore e dimensione.
Ma la passione no. Aveva provato anche il bowling. Una
volta sola. A Roma. Non era la stessa cosa. Non le
piacevano i suoni del bowling, né le facce del bowling. E
non le piaceva giocare da sola. Vinceva sempre. Che noia!
Una mattina era con Doriana in una stradina.
Le rotolò addosso una boccia arrivata da chissà dove.
Forse dalle scale di quella casa col portoncino aperto.
La boccia aveva preso una bella rincorsa. Rotolosa,
rumorosa. Di sampietrino in sampietrino, atterrò sul piede
destro di Uma. Toinc toinc toinc tonc tonc tonc e ptah, sul
piede seminudo! Lei la raccolse e la tenne in una mano,
mentre con l’altra massaggiava il collo del piede. La guardò
piegando la testa a sinistra, quasi cagnolino di razza.
Parlò alla boccia come persona. Lo faceva spesso con gli
oggetti. Meno male che mi piace giocare a bocce,
altrimenti chissà che fine facevi te, stamattina!
Diventeranno ospiti fisse di un ritrovo, appena
fuoriporta. Ritrovo domenicale un po’ triste, ma con un
grande giardino. Le uniche a giocare da sole.
Per il resto, sempre uomini, a volte accompagnati, di età
indefinibile. Che sbirciavano e bisbigliavano ogni tanto in
direzione della strana, stranissima coppia assidua di donne.
Che ridevano oppure si arrabbiavano. A ogni punto. E
parlavano, parlavano. Discutendo di distanze e posizioni.
Di lanci e torsioni del polso. Che strane, gareggiano e si
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danno consigli. Ti conviene tirare da qua. No, così.
Guarda. Però era una gara vera. Chi perdeva ci restava
male. Sempre. Chi vinceva esultava. E dopo abbracciava
l’altra. Sempre. Che strane!
Nossò de Roma, senti come parlano, parlano strano. Dice
Debora che la giovane deve essere australiana, ché c’ha un
nome come de canguro. Insomma, de animale australiano.
Doriana e Uma, fatte salve le esultanze, parlavano in
modo normale, con accento quasi inesistente. Di strano il
loro dire forse poteva avere l’argomento. Ma non sempre,
perché l’argomento cambiava sempre.
Politica, stanno a parla’ de politica, lascia fare. Allora, a
chi tocca? Oh, hai sentito? La rossa ha detto fica! Macchè
fica e fica, te sei malato nel cervello, ha detto amica. No,
ha detto proprio fica. E malato sarai te. Ma guarda sto
deficiente! Deficiente sarai te. Tira, va!
Doriana e Uma erano sempre ignare di quanto dicevano
o pensavano di loro gli ospiti della bocciofila. Ignare
perché disinteressate. Sempre.
E sì, Uma quella volta aveva detto proprio fica. Non a
voce alta, ma aveva detto fica. Fica infilata in uno
sproloquio lungo, arrabbiato. Fiume di parole varie tra le
quali Gabriele. Aveva fatto un tiro e l’aveva sbagliato.
L’altra le aveva risposto per le rime.
Il gioco delle bocce, con i suoi tiri e le metafore, era
l’unico luogo dove Doriana lanciava qualche buon
consiglio, mentre lanciava. Oppure giudizio. Però mai
sopra le righe. Mai condiscendente. Mai intollerante. Solo
un paio di frasi al punto giusto. Sempre giocando.
Non è un problema tuo, Uma. Ti ammazzi se vai dietro
a questo dilemma. Forse dovresti cambiare l’obiettivo. Tiri
di boccia e t’arrabbi. Ma non è la boccia, Uma. E non è la
posizione. E neanche il colore. È il pallino che è sbagliato!
E… guarda, ho fatto punto! Doriana esultò.
E anche quella volta si abbracciarono.
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Non lo pensavano tutti
La mamma di Doriana, in barba alle sue premonizioni,
non morirà a Natale. E neanche a Capodanno. Anzi, a
febbraio 1990 si sentirà abbastanza bene da tornare a dare
una mano al figlio nella tabaccheria. Non dava proprio una
mano. Ci stava e basta. Seduta su una bella poltrona, con i
cuscini al punto giusto, si guardava in giro, osservava e…
Sì, dava una mano. Gli occhi sono sempre d’aiuto in un
posto dove vanno e vengono tante anime portatrici di
animi non sempre conosciuti.
Di anime il paese d’origine di Doriana ne aveva sempre
meno. La Tabaccheria era ancora l’unico posto rifornito di
un po’ di tutto. Per dire, altre sigarette e non di ogni marca
le trovi solo in un bar, molto più lontano.
Uma non fumava, ma la tabaccheria le era piaciuta
subito. Anche a mesi di distanza le tornavano alla mente
odori, colori, luci, sapori. Sentiva tutto presente, accanto,
dentro. Come se stesse provando ogni emozione sul
momento.
Mi piace la tabaccheria, compresi gli odori. E il paese
con le stradine scendi e sali, giri, riscendi e poi risali. E un
po’ ti perdi. Mi piace questo gruppo di case e un
campanile, con gli odori dappertutto di camino e di legna
per il camino. Così diverso dai paesi del suo Salento, sorta
di piccola California amara e brulla, piatta e piena di cuti.
Per il resto, ulivi e vigne, vigne e ulivi. Ogni tanto,
tabacco. Meno male che il mare è vicino.
La tabaccheria e il paese mi sono piaciuti quasi quanto
Flora, che mi piace pure come nome.
Flora è una tosta, s’è ripresa che noi eravamo ancora lì.
Si vedeva che era fiera di Doriana, del suo lavoro. Si
vedeva da come la guardava. Fiera anche di quanto non
sapeva. E forse non voleva sapere. Va bene così.
92
Il fratello di Doriana, invece, Uma non era riuscita a
inquadrarlo bene nel primo periodo della permanenza.
Anzi, fino alla sera prima di partire.
Non è male. Solo, uno di poche parole. Uno per conto
suo. Chiude la tabaccheria, cena con noi e poi va a finire la
serata altrove. Non parla niente. Mamma e sorella non
chiedono. E non dicono niente. Nemmeno Flora.
Vittorio si chiamava Giacomo all’anagrafe. Anche lui
non porta il nome suo, però glielo hanno dato subito.
Era il nome del Padre Partigiano.
Morto per la Libertà in Croazia. E onnipresente nella
casa e un po’ anche in tabaccheria. Foto, medaglie e onori
sotto vetro. Dappertutto.
Per il resto, solo quadri con contadine e contadini. Ma
non sono quadri senza i volti, dove ci vedi dentro il sudore
e basta. Guardano verso chi guarda il quadro, a testa alta.
Uma aveva studiato ogni cosa d’arte alle pareti.
Quando ripensava alla casa di mamma Flora e fratello
Vittorio rivedeva sempre gli eventi dell’ultima sera. Ed era
tutto presente in lei. Lì, davanti ai suoi occhi. Ogni volta.
Vado a piazzarmi davanti al quadro gigante, mi piace
guardarlo. È l’unica altra faccia reale di uomo sotto vetro
nella casa. Di epoca più recente. Ma non sfigura per niente
in questa casa santuario della libertà del passato.
Non è proprio un quadro, ma la riproduzione di una
foto. Scattata di lato a un uomo che parla alla folla, da un
palco. Lo so chi è quello.
Sempre nel quadro, sempre sotto vetro, parole scritte.
Doriana mi viene vicina e guarda la foto con le parole:
Enrico, il più amato.
Il dialogo che Uma rivedeva spesso nella sua mente
andò così, né più né meno. Parte Doriana.
Enrico Berlinguer, lo sai chi è? Sì, lo so, è morto, era il
Segretario del Partito Comunista.
L’altra, a quel punto, aveva ripetuto per due volte le
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parole della scritta. Enrico, il più amato. Ma non stava
leggendo. Uma lo capì. Enrico, il più amato. Da tutti.
Uma però non capiva. E il motivo per il quale non
capiva era che voleva capire. Perché la frase sta scritta qua?
Doriana sorrise. Non l’ho detta io, se è questo che
intendi. Neanche mia madre. E neanche mio fratello.
Eravamo… eravamo tutti.
Uma ancora non capiva. Tutti chi?
Tutti, anche chi non era comunista.
E Uma ancora niente, voleva proprio capire. La
dicevano tutti, Doriana?
Già, e lo dicono ancora. Dopo queste poche parole
Doriana aveva fatto un piccolo sospiro.
Allora Uma capì, finalmente. Siccome aveva capito fece
una domanda. Che non era una domanda.
E lo pensavano tutti, Doriana? Doriana che restò a
guardare Enrico il più amato per un paio di secondi, poi
guardò lei e parlò a voce bassissima, non sembrava la sua.
Anche la risposta di Doriana non era una risposta.
No, non lo pensavano tutti. Vado, è pronta la cena.
Ogni volta che Uma ricordava aveva presente la scena
per intero. Doriana va verso la stanza della madre, io
guardo ancora la foto e poi la scritta. La foto e poi la
scritta. Resto ferma a guardarla per un po’.
In quel momento, Uma non poteva saperlo, dall’altra
stanza Doriana sbirciava con la coda dell’occhio lei ancora
immobile davanti al quadro. L’Amazzone ha colpito
ancora, non lo pensavano tutti.
Tempo qualche secondo e Uma statua amazzone si volta
e vede Vittorio alla porta di casa. Entrato zitto zitto,
nessuna delle tre donne lo aveva sentito. Fermo sulla
soglia, guarda anche lui il quadro con la foto, poi guarda
Uma che guarda lui. Poi di nuovo il quadro. Le si avvicina
senza staccare il volto dalla foto, all’altezza dei suoi occhi.
Vittorio è alto, grande e grosso.
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Poi le mette delicatamente una mano sulla spalla e parla
più parole delle altre messe insieme sentite da Uma in sette
giorni. Con voce ispirata, dolorosa, infine incazzata.
Sembra si rivolga a lei. Anzi, l’ultima frase senza dubbio
è per Uma, Vittorio abbassa lo sguardo su di lei, sempre
con la mano sulla spalla. E Uma a domanda risponde.
Ragazza educata.
Enrico, il più amato. Già. Roba d’altri tempi, Enrico.
Roba buona! Non questa che vogliono inventare adesso.
La cosa democratica di sinistra. Enrico era un’altra cosa.
Tutti noi lo eravamo. Roba buona. Roba comunista! E te…
te sei comunista? No, ma gioco a bocce.
Vittorio tuonò allora in una risata fragorosa. Come
quella di Doriana, però da maschio. Risata poderosa.
Sempre con la mano sulla sua spalla, rideva ancora
piegato in due quando la sorella attraversò la sala con la
madre sulla sedia a rotelle. Rideva e ora quasi piangeva.
Uma non capiva perché. Ma veramente! La sua risposta
non era stata ironica, per niente. Anzi, l’aveva data con
una faccia seria che più seria non si può.
Perché Vittorio era stato serio. E Uma si adeguò.
Ma dove l’hai trovata? Proruppe lui verso la sorella
appena gli fu accanto. E continuava a ridere, sempre con la
mano sulla spalla di Uma. Alto, grosso, ma delicato.
Rise le risate che forse mai aveva riso in vita sua.
Uma allargò le braccia verso Doriana con la testa
incassata nelle spalle, a dire non so niente.
Doriana rispose seria, ma si vedeva che rideva sotto i
baffi pure lei. Quale che sia il posto deve essere allegro.
Guarda che bell’effetto, Vittorio!
La cena fu molto buona, come sempre.
Con sguardi e sorrisi belli, leggermente diversi da quelli
di sempre. Con poche parole, quelle di sempre. Flora ogni
tanto sospirava, guardando i figli. Prima uno e poi l’altra. E
così via. Sospirava e sorrideva, restando zitta.
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Terminata la cena, come sempre, Vittorio si alzò per
andare in bagno. Tornò in cucina con la giacca a vento già
indosso, come sempre. Per salutare le donne.
Ma non salutò come le altre volte. Guardò prima la
madre, poi Doriana. Infine, si rivolse a Uma.
Te sai giocare anche a biliardo?
Vittorio ogni sera andava a Viterbo. Da sempre.
E si vedeva col Ridolfi e il Giovagnoli. E altri compagni.
Anche compagne, però di meno. Dalla Sezione, quasi
sempre, finivano nella Sala Biliardo lì accanto.
E continuavano a parlare di politica, anche con la stecca
in mano. Qualcuno bestemmiava, di tanto in tanto.
Se la prendevano col Governo. Ora con l’America di
Bush. Qualche volta col Partito. Oppure con Vittorio. Che
la metteva sempre in buca. Sempre.
Perché Vittorio era campione di biliardo.
Quella sera Uma entrò in un posto fumoso di verde e di
marrone, con lui che sempre delicato le teneva la mano
sulla spalla. Dentro, solo due uomini che giocavano, in
silenzio. Ma sembrava fosse passato di lì un esercito di
fumatori incalliti. Forse comunisti?
Lungo la strada, venti minuti appena di curve e silenzi,
Vittorio disse poche parole, come sempre.
Le avrebbe mostrato come si fa, col biliardo.
Ogni tanto sorrideva, con gli occhi alle curve.
Non poteva insegnarle il comunismo, non ci sarebbe mai
riuscito. A Uma poi del comunismo non fregava niente.
Vittorio lo aveva capito. E si adeguò.
96
Gabriele e mio marito
Tutto bene. Tornerà a scuola a fine gennaio. Forse
qualche giorno dopo. Ma l’operazione è andata bene. Sì, ti
richiamo io. Domani. Se insisti. Ok, giuro!
Viola era l’unica che Uma sentiva. Beh, non proprio.
Diciamo che le sue telefonate erano le uniche attese.
Dopo la trasferta con Doriana e il suo magico incontro
col biliardo, un paio di giorni appena e aveva preso un
altro treno.
Aveva detto vado dai miei a Lecce. Torno a Roma per
Capodanno. Forse dopo, non so di preciso.
Alma non aveva replicato nulla. Davanti a ogni sua
comunicazione sillabata. Parole dette piano, per trovarle
giuste. Allora, ci sentiamo. Un bacio piccolo e via, verso il
portone delle Quattro Fontane.
A parte le tre di Doriana, due di Vittorio e una volta
sola Carlo, Viola fu l’unica voce romana sentita durante le
feste. Carlo, va detto, era ormai romano d’adozione.
Su tutto, Viola fu l’unica alla quale Uma fece due
telefonate. Due volte! Una cosa seria. Per il resto, chiamava
l’altra. Chiamava spesso. Viola era l’angelo della
comunicazione. Dal giorno dell’Immacolata. Da quando
era stata l’angelo dell’annunciazione.
Uma pensava a questo strano tipo di angelo durante le
feste. E altri angeli ancora. Tipo l’Arcangelo Gabriele, per
esempio. Più che altro, aveva un pensiero ricorrente. Un
pensiero quasi unico. Perché Alma non mi ha detto niente?
L’8 dicembre Viola non era stata costretta a implorarla
più di tanto. Non farò nulla, stai sicura.
Lo disse con un’espressione così seria che a Viola sembrò
un’altra donna, una donna più seria.
Invece lei era solo incazzata come una iena. Dentro.
Perché Alma non ha detto niente? Al diavolo lei e la
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Svizzera! E fantasie su montagne e vacanze e nevi sprecate
per settimane e settimane! Perché? Perché?
Con altre imprecazioni non riportate per decenza, Uma
continuerà a porre la domanda solo a se stessa.
Non voleva né poteva una risposta da Viola.
La risposta di Alma adesso la voleva ancora meno.
La voleva sì, ma non adesso. Alma lo avrebbe fatto,
prima o poi. Uma lo sentiva. Le avrebbe dato la risposta e
forse tutto. Però, perché non lo ha fatto prima?
Gabriele magrolino, la miniatura, il bonsai di Alma coi
capelli corti. Aveva rischiato di morire già a ottobre. E lei?
Niente! Un difetto al cuore dalla nascita. Non un difetto
gravissimo, ma era tenuto costantemente sotto controllo.
Pensavano di operarlo quando avrebbe avuto 13, 14 anni
al massimo. Ora una leggera crisi e i medici avevano
consigliato di anticipare l’intervento a dicembre. Già, a
dicembre…! E a lei Alma non aveva detto niente!
Viola, lungo il percorso del trapezio non chiuso, aveva
provato a comunicarle altro. Percepito da Uma solo come
l’eco delle sue parole, una volta compreso l’aspetto più
importante: Alma non mi ha detto niente.
Uma, io ho saputo della malattia di Gabriele qualche
anno fa da… da un’amica comune. E solo dopo, dopo
Alma me ne ha parlato. Mi ha fatto giurare di non dirlo a
nessuno, neanche a Letizia. Non vuole parlarne. Continua
a tenerla dentro. La teneva dentro già da prima. Da
sempre. Forse la rifiutava. Non lo so. Anche
dell’operazione non l’ho saputo direttamente da lei. Alma
con me si è limitata a confermarlo e stop. Non vuole
parlarne. Sembrava che Gabriele stesse meglio. Poi,
all’improvviso, questa crisi. Proprio ora. Proprio ora. Non
so, non so. Sono certa che te lo dirà, Uma. Subito dopo.
Ne sono certa. Se non lo fa… Non so, veramente. Io non
sono come lei. Lei è diversa da me. Da tutte. Mi chiedo
sempre come fa. Ma vedrai che te lo dirà. Subito dopo.
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I dubbi che la stessa Viola non riusciva a esternare, i
dubbi celati malamente nel suo continuo ripetere ‘te lo
dirà’, quei dubbi non erano percepiti dall’altra. Così come
Uma non recepiva, neanche indirettamente, alcun tipo di
rassicurazione. Viola non ci sarebbe riuscita neanche fosse
stata capace di argomentarla meglio.
Un’unica certezza rimbalzava nella testa di Uma come
pallino impazzito di flipper. Senza uscire dalla sua bocca.
Per questo le martellava nella mente molto più di un
flipper. E faceva male.
Non aveva detto nulla neanche a Doriana.
L’unica sua certezza era: Alma non mi ha detto nulla.
Perché? Perché non l’ha detto a me? Chi sono io per lei?
L’amante le aveva fornito solo una notizia riguardante il
figlio. In tutti quei mesi. Solo una.
Più Uma ci pensava ora, più le sembrava la meno
importante. Non è il figlio di mio marito.
Solo questo. Alma, come le altre poche volte, non aveva
pronunciato il nome proprio di questo mio marito. Mai
una volta che fosse una. Fin dalla prima. Solo mio marito.
E così lo pensava Uma, quando lo pensava. Come mio
marito. Con la stessa locuzione continuerà a pensarlo
anche dopo averne scoperto nome e cognome.
Ci era riuscita con un semplice appostamento sotto casa.
Dopo di che era partita in uno dei suoi giri da investigatrice
in erba dei tempi della guerra fredda e quasi muta.
Il nome e solo quello. Non lo aveva mai visto. Solo il
nome e il cognome, che erano due. Perché certa gente ha
due cognomi? Che se ne fa, allarga la targa?
Uma aveva individuato uno studio in Quartiere Prati.
Con i muri di vetro scuro, fuori. E marmi bianchi, dentro e
fuori. Tre piani di studio che le parvero una Clinica.
Non aveva mai visto in faccia mio marito durante il suo
unico appostamento nei pressi. Sarà una faccia di uomo
come tante. Lei non entrò nella Clinica, restò fuori. Anche
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nel frangente aveva gli occhiali verdi di plastica. Li
indossava sempre, non solo d’estate, quando era nella luce.
Tutto poteva sembrare tranne la versione femminile
moderna di Sherlock Holmes.
Ci andò in un giorno d’ottobre in cui sapeva di non
correre il rischio d’incrociare Alma. Sicuro, perché è in
Svizzera col figlio. E lei sapeva, dentro di sé lo sapeva
anche ora che era incazzata come una iena, che Alma le
diceva la verità.
Parlava poco Alma, ma il poco che diceva era la verità.
Parlando poco, parlava di poche verità. Le altre restavano
nei silenzi o sulle tele. Uma aveva fatto il possibile per
amare gli uni e le altre. Ci era riuscita solo con le seconde.
L’amava anche ora. E doveva sforzarsi per non amarla di
più. Ora che sapeva. Non voglio amarla di più. Perché non
mi ha detto niente?
Le poche frasi di Alma a lei, risalenti a mesi prima, si
rincorrevano nella sua testa, in assenza di altro.
Non è il figlio di mio marito. Ero fidanzata con lui. Da
sempre. In casa. Sposa promessa. Non ero felice, Uma. Per
niente. Sono solo andata a letto con un perfetto
sconosciuto. Il giorno di prima di sposarmi. Mio marito lo
sa. Che Gabriele non è suo figlio. Gliel’ho detto subito.
Ma…
A ogni frase una pennellata e pausa. Ogni volta che si
fermava, un tocco col pennello.
Al ‘ma’, Alma si era fermata. Stava per dire una bugia?
Non l’avrebbe detta. Si era fermata e basta. Non aveva
riempito con altre parole la sospensione, ma posato il
pennello, pulito come sempre le mani su uno straccio, con
attenzione e cura, fatto pochi passi verso di lei e sollevato
leggermente le spalle. Il viso serio e triste.
Uma non aveva chiesto nulla. E l’altra un bacio.
Un bacio soltanto. E basta.
Solo ora, Uma provava a inserire parole sue dopo quel
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‘ma’. E ogni parola immaginata le sembrava insensata.
Ma Gabriele aveva un difetto al cuore, dalla nascita.
E mio marito, vediamo, non aveva dato di matto. Non
l’aveva picchiata. Speriamo. Solo una cosa era certa, non
l’aveva lasciata. Per il figlio? Forse. L’amava nonostante il
tradimento? Più probabile. Come fai a non amare una
come Alma? L’aveva perdonata? Forse. E lei, si era
perdonata? E la malattia di Gabriele, com’era andata? Stava
espiando una scopata prematrimoniale con uno
sconosciuto, da una vita? Alma che fa una cosa del genere?
Perché? Perché? E perché non l’ha detto a me?
Domande che non erano domande. Ennesimo galoppo
di fantasie. Ma ogni fantasia era inconcludente.
Le poche certezze turbinanti nella sua mente avevano
come ausilio immagini stridenti e sovrapposte.
Caleidoscopio vivente in testa rossa. Fu il regalo assurdo
e prolungato a se stessa per Natale e Capodanno.
Quadri alle Quattro Fontane, bambina che sembra una
piccola Madonna, bambino in braccio a una Madonna,
mano destra di Alma senza anelli, sinistra di Alma senza
fede, strada di Roma, una villa, due cognomi, strada di
Roma, una Clinica, due targhe, marmi bianchi, vetri scuri,
montagne, neve, strada di Roma, strade di montagna,
Gabriele bonsai che esce di casa, di mattina presto, mano
nella mano a una che non è sua madre, ospedale tutto
verde, verde come la Svizzera, e ancora marmi bianchi e
vetri scuri, marmi bianchi e vetri scuri.
Il caleidoscopio riprendeva ogni volta, distorcendo
ricordi e fantasie. Il buio completo arrivava solo col sonno.
Un sonno senza sogni. Meno male.
Uno dei particolari sconosciuti nel 1989 da Uma - resa
edotta di dettagli solo nella Pasqua del 1990, un particolare
compagno di sventura di notizie apprese solo nel dicembre
successivo, mano nella mano a qualcosa che Uma saprà
solo nella primavera del 1992, un particolare che aveva per
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contorno altri che non vedranno mai la luce - era che
targhe, marmi, vetri, moquette, tutto compreso in
Quartiere Prati erano stati messi su con i soldi del padre di
Alma. Che di nome faceva Gabriele, come il nipote.
Medico molto in gamba, molto famoso e molto ricco.
Morto abbastanza giovane, ma in condizioni tali da
lasciare eredità di pietra a un genero molto promettente.
Che aveva scelto una branca differente.
Mio marito era un chirurgo plastico, sì. Ma uno
veramente bravo, non di quelli che ti raddrizzano solo il
nasino storto. Mio marito era uno che poteva cambiarti
anche tutti i connotati. E nessuno ti avrebbe più
riconosciuta, dopo.
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Indice
Ocra carico, direi................................................... 5
Libertà! Libertà?..................................................... 7
Quasi introvabile................................................... 9
Tre parole piccole ................................................ 12
Non c’è nulla di male ........................................... 14
Significa anche cavallo .......................................... 19
Si dice avvocata .................................................. 24
Nessun bisogno ................................................... 26
Prendi un bel respiro ............................................ 31
Mica vuol dire..................................................... 34
Del dissimilare un’arte ......................................... 37
Non chiamarmi signora ........................................ 41
Una di famiglia ................................................... 46
Quattro Fontane ................................................. 52
L’amore con le Madonne .................................... 58
La festa alla cultura............................................... 61
Famiglie e compagnie ......................................... 67
Tempi di guerra ................................................... 71
Tempo tre giorni ................................................. 77
Matrimonio all’italiana......................................... 81
Le due clitoridee.................................................. 85
Il pallino sbagliato............................................... 89
Non lo pensavano tutti ....................................... 92
103
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Gabriele e mio marito ......................................... 97
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