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Milena A. Carone sedici 1989 www.sedici.us www.sedici.us In copertina: costiera jonica, Salento Grafica di Sabrina Barbante al cuore dell’ipotenusa Ocra carico, direi E io che mi metto? Lanciò la giacca sul letto e la raggiunse dopo pochi secondi. Le piaceva affondare nell’odore delle sue cose, anche stropicciandole un po’. Lino stirato tra faccia e cuscino, magnifica pensata. Domandò a voce alta, ma Alma non avrebbe sentito, altamente probabile. La camera aveva di lato un cunicolo stretto e lungo che portava al bagno. Ed era già dal bar che le scappava. Uma proseguì imperterrita nel monologo. Non è che pensasse a voce alta. Recitava, se mai. Era narcisa quanto basta a farlo per se stessa. Chi se ne frega poi della Rivoluzione Francese! Non mi piace il francese, non mi piace il loro cinema e non mi piacciono le francesi. Non mi piace niente della Francia. Forse Marsiglia, e mi sa che con la Francia ha poco a che spartire. Così dico, a naso. Sollevando appena il volto dal lino sul cuscino, continuò per circa trenta secondi a sproloquiare contro la Francia. Salvò solo i colori della bandiera. 14 luglio. Campo dei Fiori. Un caldo soffocante già alle prime ore. Nel bar aveva chiesto un caffè in ghiaccio per colazione. Lo sapeva, non lo avrebbero fatto come voleva. Si lanciò nella performance più che altro per svegliarsi. No grazie, non lo voglio shakerato. Mi restano le bollicine sullo stomaco. Un caffè normale, grazie. Potrei avere quattro cubetti di ghiaccio? Grazie. E un bicchiere alto di vetro? Grazie. Perché non imparano? È semplice! Il barista le aveva rivolto uno sguardo strano. Un bombolone per dialogare col caffè. Le altre erano già fuori e lei traccheggiava ancora con 5 tazzina e salviettine. In albergo sentì appena il rumore dello sciacquone mentre si girava a pancia sopra sul letto. Alma uscì dal bagno sfregando i capelli umidi di mezza doccia. Dicevi? Non ho sentito. Lei partì con la prima venuta in mente, o forse l’ultima. Pensavo alla tinta delle pareti. Che colore è, di preciso? Alma diede uno sguardo veloce in giro piegando il collo a sinistra. Ocra carico, direi. Pensi di guardarlo tutta la mattina? Lei lo prese come un invito. Ma è vero che era un albergo a ore? Dice che è lo stesso della canzone di Paoli. Quella del soffitto viola. Dice che ogni stanza ha un colore diverso. E una ha uno specchio gigante che prende tutto il soffitto. Così ti guardi. Non ci scappi proprio, ti vedi anche se non vuoi. Alma le andò vicina col sorriso più bello del mondo. Sottolineò l’incedere quasi ritmando le parole. Ideale per chi non ha la stessa fantasia che hai tu. Al tu, sollevò la destra con pollice e indice uniti da un immaginario pennello. Dipinse nell’aria con un paio di giravolte del polso. Con le stesse dita sciolse il nodo dell’asciugamano. Uma le restituì il sorriso e di più. Forse dovremmo avvertire le altre che arriveremo più tardi. Alma le si versò addosso scostando la giacca di lino che muta ringraziò dell’umidità ricevuta. Hanno inventato il telefono anche per questo tipo di emergenze. Quando sei qui con me questa stanza non ha più pareti. Ma alberi. Alberi infiniti. 6 Libertà! Libertà? Ha il destino di un anno memorabile. Per tutte. Per tutti. Ovunque. Anno di crolli e resurrezioni. E di eventi meno eclatanti, come ogni anno. Veloce e intenso, parte alla grande. A gennaio, in una piazza di Praga reprimono con ferocia una manifestazione in memoria dello studente di filosofia che vent’anni prima lì s’era dato fuoco. Con un accendino. Davanti al Museo Nazionale. La piazza era intitolata all’Armata Rossa. Tempo qualche mese e le daranno il nome di Jan Palach. Proprio lui, la torcia umana che aveva preso ad esempio i monaci buddisti vietnamiti nel suo inno estremo alla libertà. Libertà! Libertà! Libertà! A febbraio, gli eredi di un’Armata Rossa devono ritirarsi anche dall’Afghanistan. E Fausto Leali con Anna Oxa cantano Io ti lascerò. Vincono pure, almeno loro. Ed è il Festival di Sanremo in Italia. In primavera ai Polacchi dicono di Solidarnosc. Esisteva ed era autentica. Anche Pechino si risveglia, ma per poco. E lì la piazza si chiama Tienammen. In Italia si dimette solo il Governo De Mita e gli scandali continuano a farla da padroni. In Usa mandano in onda la prima puntata dei Simpson e un primo Presidente col cognome Bush. In Italia Umberto Bossi manda in politica la Lega Nord. Ai primi caldi, provano ad ammazzare per la prima volta il giudice antimafia Falcone. Dopo, visto che il tritolo era annacquato, si tenterà di demolirlo con veleni confezionati da colleghi e politici vari. Solo tre anni dopo, finalmente, saranno… Capaci. In un giorno d’autunno sudafricano qualcuno pensa che forse si può abolire l’apartheid. Su tutto, in un bellissimo giorno di novembre i Pink Floyd vanno a cantare The Wall sulle macerie di un Muro. Ed è Berlino. 7 Il giorno dopo, in Italia, il Segretario Achille Occhetto dice che anche il Partito Comunista Italiano deve voltare pagina. Cambiare nome, programma e ovviamente il simbolo. Ed è la Bolognina. Dal nome del quartiere di Bologna dove si annuncia la svolta. Cambiare, cambieranno. Compresi i nomi. Come in un telefono senza fili per passare, o ritornare, dal PCI alla DC. A Praga intanto la Rivoluzione la chiamano di Velluto. Per onorare un anno così veloce, in Italia viene introdotto il rito abbreviato nel processo penale. Si fa quel che si può. Siamo pur sempre un Paese in libertà vigilata. Anche in Romania un processo breve, forse perché capita nel giorno di Natale. Anzi, brevissimo. Pochi minuti e un Tribunale improvvisato decide di far fuori un dittatore indisturbato per vent’anni. Con lui, giustiziata anche la moglie. Usano la quantità di proiettili sufficiente per il massacro di un centinaio di persone. Esagerati. In attesa da vent’anni, ma esagerati. A quanto pare, le ultime parole di Elena Ceausescu saranno: andate tutti al diavolo! Romania è un caso a parte nel 1989, come del resto lo era stata prima. Ancora non si sa bene se si trattò di una rivolta popolare oppure della farsa atroce di un altro colpo di stato. Ma quel che è stato è stato. Il penultimo giorno dell’anno varano un’altra legge per regolamentare l’immigrazione. In Italia. E altre ne verranno. Tempo qualche anno e inizia pioggerella fine che diventerà acquazzone di nuove e antiche mestieranti. Alle quali sarà dato il nome brutto di badanti. Rumene soprattutto, le schiave del nuovo millennio. Comunitarie, ma schiave. Se la Romania intera non andrà al diavolo come si augura Elena, poco ci manca. Ventennio che va, ventennio che viene. Libertà? Libertà? Libertà? Per farla completa, è l’anno del bicentenario di una Rivoluzione. Anzi, della Madre di tutte le Rivoluzioni. Ed era stata Francese, accidenti! 8 Quasi introvabile I salti mortali, ma ce l’aveva fatta. Non poteva dirgli che si trattava di una festa. Di venerdì. Di sole donne. Un importantissimo convegno a Roma, quello poteva andare. Il 14 di luglio? Si tratta di donne. Anzi, è proprio sulla tratta. Sta prendendo piede. Dobbiamo fare qualcosa. Ilaria metabolizzò il senso di vergogna con l’alibi del momento. Aveva scomodato la tratta, sì. Ma che colpa ne ho se il cuore è uno zingaro e va? Certo, amava il marito. Come si può amare qualcuno con cui sei sposata da 15 anni. Amava i suoi figli, due, un maschio e una femmina. E amava molto il suo lavoro di avvocata delle donne. Ma da una settimana sentiva di amare anche Paola, affascinante guaio quarantenne venuto alla luce per l’appunto una settimana prima. Non avrebbe saputo dire come. Ma era accaduto. Ed era frastornata. Ma felice. Ilaria si sentiva molto felice, intanto che sistemava in valigia l’ennesima scatola di gianduiotti. Non era più un regalo, ma il suo biglietto da visita per le romane. Si conoscevano da tanto. Entrambe avvocate. Entrambe parte di qualcosa che lottava per le donne, queste poverette. Aveva condiviso con lei parole, lacrime e proposte di legge. Ma fino a una settimana prima non avrebbe immaginato quel guaio così intrigante. Avevano scambiato un paio di frasi nella megariunione chiamata Le donne con le donne possono, a metà strada tra il personale e il politico. Ma nessuna delle due avrebbe immaginato di potere. Questo Ilaria pensava. Certo, avevano entrambe frequentazioni lesbiche. Di donne che non diresti subito che sono lesbiche. Di meno di quelle che invece sì. Soprattutto di lesbiche importanti, con parole sacrosante e buone per tutte, lesbiche politiche storiche romane con i fiocchi. Entrambe le avevano 9 ascoltate estasiate e a tratti invidiose. Certo, entrambe erano donne emancipate e di buone letture. Ma nessuna delle due aveva superato la soglia dello sguardo. Questo Ilaria pensava da una settimana. Era accaduto a cena. Si erano ritrovate vicine, questa volta di fronte, nel tavolo lungo di una trattoria romana. Cacio e pepe, dopo tante parole. Finalmente. Come e più di lei, Paola faceva chilometri e chilometri per partecipare a riunioni femministe romane. Anche Paola era sposata. Senza figli. E un solo aborto. Una piega amara aveva segnato le sue labbra, quando accennò all’aborto. Così parve a Ilaria. Non ne abbiamo mai voluti. Non avremmo voluto neanche sposarci. Solo che ero rimasta incinta e tre giorni dopo il matrimonio ho avuto un aborto. Spontaneo. Si dice così, no? Per me acqua naturale, grazie. Sì, si conoscevano da tanto. Fin dalla prima volta, si erano sempre cercate con lo sguardo. In una sala riunioni. Con la valigia ancora in mano, appena arrivate. Se non era una era l’altra. E si ritrovavano vicine di sedia. Affinità elettive col medium della giurisprudenza. Una settimana prima era venuta meno la prudenza. Perché solo davanti a un cacio e pepe si erano veramente guardate e viste. Questo Ilaria pensava, intanto che dava un bacio con raccomandazioni alla piccola. Torno presto, sii prudente con la bici nuova. Un paio di mesi prima, l’episodio del brivido. Accantonato quasi subito. Con stupore. Con vergogna. Quasi. Ripensandoci, sorrise a se stessa, chiudendo la porta. Un complimento per la scelta del profumo. Una delle frasi innocenti tra donne, in un momento di relax durante un convegno serioso. Ottimo, lo sentiva anche da lì. Paola aveva accostato la sedia, col collo in avanti. Dici questo? E lì, un brivido sulla pelle. Improvviso. Imprevisto. Veloce. Dissimulato con altrettanta velocità. Come si chiama? 10 Parlarono subito d’altro. Paola tuttavia la guardava in modo strano. Questo le sembrava. E che le guardasse il collo. Questo ricordava. La notte in albergo non chiuse occhio. Si struccava davanti allo specchio. E indugiò col batuffolo sul collo. Lì rivide un altro collo, desiderò di averlo accanto al suo, annusarlo di nuovo. Toccarlo. Baciarlo? Scacciò il pensiero all’istante, ancora allo specchio. Un’importante relazione da risistemare per il giorno dopo. Poi, a letto. Ma non prese sonno che all’alba. I suoi occhi continuavano a vedere un collo che non c’era. Il giorno dopo, dalla presidenza, sarebbe stato almeno più distante. Passarono i giorni, si sentirono molte volte per telefono, ogni volta con una scusa valida. Lavoro, politica per le donne, queste poverette. Ora lo sapeva che si trattava di scuse. Un po’ come la tratta. La voce di Paola ogni volta le sembrava nuova e antica. Molto più di una voce amica. Davanti al cacio e pepe accadde tutto. Il principio di tutto. Appena sedute, Paola aveva pescato dalla borsa un pacchetto viola. Con disinvoltura. Così Ilaria ricordava. È quasi introvabile. Ne ho portato un flacone per te. La vista del profumo la fece arrossire platealmente. Tornò alla notte insonne e ai pensieri scacciati invano. Non riuscì nemmeno a balbettare un grazie. A lei non mancavano mai le parole. Paola aveva corrugato leggermente la fronte davanti al rossore e al silenzio. Poi aveva sorriso. E pronunciato le parole del non ritorno. È troppo, collega? Allora dopo si va insieme in quel locale per donne, dicono sia carino. Noi non ci siamo mai andate, sempre prese da impegni. E lì tu pagherai l’ingresso. Ci stai? Paola parlava e aveva aperto ancora di più il suo sorriso. Innocente. Strano. Dopo la serata nel locale, senza dire una parola, si presero per mano. E mano nella mano s’incamminarono verso l’albergo di Paola. Il più vicino. 11 Tre parole piccole Uma aveva detto ‘e io che mi metto?’. In realtà, aveva già con sé gli abiti da indossare per la festa. Solo, non sapeva come avrebbe mosso il corpo. La serata le procurava una leggera ansia. Non conosceva tutte le invitate. Ma erano le appena conosciute a procurarle una sensazione come di smarrimento. Tutte quelle femministe in un colpo solo! Deciso, avrebbe fatto la gatta. Sarebbe andata in giro ad annusare negli angoli. Avrebbe mangiato. E guardato, ma senza farsi vedere. Se proprio la faccenda fosse diventata insostenibile, avrebbe schiacciato un pisolino da qualche parte. Prendere sonno è sempre il rimedio migliore nelle situazioni difficili. Conosceva già la casa di Letizia. Una settimana prima ci era andata con Alma a trovare Viola. Casa immensa. Si attorcigliava intorno a un pozzo luce altrettanto grande. Nell’attico di un palazzo antico di piazza Adriana. Come una chiocciola. Una casa così Uma non l’aveva mai visitata, neanche a Boston. Restò incantata davanti a Castel Sant’Angelo, rimirato da una finestra. Mai visto un monumento del genere. Da un’altezza del genere. Pari. Ma una festa è una festa. Non puoi metterti a dormire senza dare nell’occhio. E che vengano a chiederti se per caso ti stai sentendo male. Chi, io? Per nulla, sto benissimo, grazie. Fantasticare sull’immediato futuro era uno dei suoi giochi preferiti. Ma non andava più in là con la fantasia. Era in ansia. Sapeva solo cosa avrebbe indossato nella bellissima pensata di una festa di donne per il bicentenario di una 12 rivoluzione. Nel rispetto dei tre colori. Camicione immacolato della nonna con colletto di pizzo. Gonna di velluto rosso. Gilè blu. Anche lui di velluto, però brillante. All’appello mancava solo un pennarello. Per il tocco finale. Lo sapeva, Alma non viaggiava mai senza matite colorate o pennarelli. Immaginò giusto. Uma sapeva le cose immaginandole. Nel caso del pennarello, comunque, andò a colpo sicuro. Con indosso il solo camicione circolava a piedi nudi come fantasmino nella stanza dalle pareti ocra. La domanda la buttò lì come venuta in mente sul momento. Ne hai per caso uno indelebile per il cotone che non si sbavi tutto al primo lavaggio? Vorrei scrivere qui. Pensavo alla frase francese. E libertè. E egalitè. E fraternitè. Queste parole giravano, giravano. Soprattutto libertè. Alla fine, ho pensato tre parole. Piccole, semplici. Le vorrei qui, a sinistra. Anzi qui, proprio sul cuore. Le scriveresti te per favore, ché io non sono buona? Alma aveva già tirato fuori dalla borsa un pennarello nero. Cicciottello, però a punta fine. Restò ferma in attesa che l’altra smettesse la danza fantasmina per andare a piazzarsi davanti a lei. Sapeva che lo avrebbe fatto. Con un sorriso un po’ canzonatorio le posò una mano sul cuore. Tre parole? Non è che ci sia molto spazio qui. E puntando il dito contro il cotone, aveva preso a girarci in tondo. Fu di un certo gradimento. C’è. Tanto, sono piccole. Lì per te. 13 Non c’è nulla di male Paola aveva sempre amato le donne. Non tutte le donne. Diciamo due, va. La prima si chiamava Elisabetta e aveva trent’anni, insegnante di storia e filosofia al liceo classico. Un classico. Prima di conoscerla, il cuore non le aveva dato segno di interesse verso chicchessia. E omosessualità era solo argomento vagamente intellettuale. Oppure da battute volgari. Battute di altri. Argomento si fa per dire, nel secondo caso. Un giorno l’insegnante d’italiano, un uomo, aveva portato in classe un testo con certe poesie di Catullo. Quelle vere. E aveva parlato con grande naturalezza. Solo nell’edizione Einaudi trovate la versione autentica. Nei testi per le scuole hanno volutamente falsato la traduzione, per occultare la verità, stravolgendo l’originale. Invece, Catullo amava un uomo, tutto qui. Uno ridacchiò, dal fondo. Era arrabbiato, in fondo. Lo dicevo io che era frocio, e mi vuole pure bocciare, sto ricchione! Paola, voltatasi di scatto verso l’ignorante, sibilò: tu invece sei solo un ignorante! L’insegnante continuò su Catullo, all’oscuro di battute. O forse solo noncurante. Amava un uomo e cantava il suo amore nelle poesie, senza veli. Oggi sarebbe messo all’indice, o dentro per pedofilia. E chi lo sa? Invece è solo Catullo, un grande poeta! Tipo strano, l’insegnante d’italiano. Catullo a parte. Non proprio uno da liceo, l’avresti visto meglio in una cattedra universitaria. Ancor più, in un eremo seppellito dai suoi libri su Dante e Leopardi. Era fissato con i due. Ogni tanto, fuori busta, Pavese. Carducci, ma vogliamo scherzare? Rischiarono di non finire il programma in tempo per gli esami dell’ultimo anno. Un amore d’insegnante per Paola. 14 Elisabetta invece fu amore vero. Platonico. O almeno, non consumato. Ma amore vero, durato nel tempo. Le aveva dato tanti consigli. E alcuni libri. Paola solo molti dei suoi pomeriggi. Sapeva di piacerle, era la più brava. E ci teneva a non fare passi falsi. Ma la donna tanto bella e sola in una casa di così tante stanze la affascinava tanto. Un giorno prese coraggio e lo disse. Il liceo però lo aveva finito. Potrei innamorarmi di te. Elisabetta aveva solo sorriso. Con un che di malinconico. Può capitare, cara. Non c’è nulla di male. Ma stai attenta, potrebbe capitarti per davvero. Era finita lì, forse perché Elisabetta parlò d’altro. E Paola non ebbe coraggio altro. Ancora pomeriggi e libri. Libri e pomeriggi di letture e sorrisi. Poi tutto finì, forse perché Elisabetta si trasferì. La seconda fu la storia per davvero. Amore breve, assoluto e tragico. Un altro classico. L’aveva conosciuta all’università, per la precisione nella sede di qualcosa di extraparlamentare accanto all’ateneo. Paola aveva voglia di rivoluzione come tante. E tanti. Nei primi anni 70. Tutte e tutti a dirsi che tutto era possibile. E tutto era così tutto possibile che, quando la donna che sapeva anche parlare le diede un bacio improvviso e muto accanto al ciclostile, lei rispose con un altro bacio. Fino in fondo. Poi furono giorni e notti fuori dal comune. Fuori da tutto. Tutto è possibile. Notti e giorni di una settimana intensa. Chiuse a doppia mandata in una stanza con i manifesti di Che Guevara alle pareti e un materasso improbabile per terra. Ogni tanto uscivano per comprare qualcosa da mettere sotto i denti. Oppure per lavarsi i denti. Tra altri dubbi senza risposta, Paola continuerà per molto a chiedersi se lo status di rivoluzionari richiedesse un 15 cattivo rapporto con l’igiene. Ma per una settimana non le importò di nulla. Il pensiero della polvere non la sfiorò neppure. E dire che soffriva di allergie! Poi la donna sparì, così com’era apparsa. Che fine ha fatto? Tu l’hai vista? Chi ha il suo numero? E dove abita? L’avevano guardata con una discreta compassione muta. Rivoluzionaria, ma muta. Una piccola e scura prese finalmente la parola. E fu una mazzata al cuore e due al cervello. I suoi l’hanno internata, quegli stronzi fascisti. In manicomio, ti rendi conto? Avete letto Basaglia? Ragazzi, dobbiamo dar battaglia! Il coro rivoluzionario andò ingrossandosi nel giro di un minuto. Neanche una parola sul suo amore muto. Manicomi e carceri erano uguali, per molti, in quei tempi. E si battagliava molto, dentro e fuori. Moltissimo con le parole. Compagni, conosco una psichiatra, una alternativa. Le stanno facendo la cura del sonno, maledetti fasci! Neanche una parola sull’avventura di una settimana in una stanza della quale tutte e tutti sapevano abbastanza. Paola senza respirare si ritrovò spinta in un’utilitaria scassata zeppa di volantini. Missione compiuta. L’indirizzo giusto lo aveva la donna piccola e scura. Lei restò in macchina. Muta. E muta resterà per giorni e giorni. Non chiese niente. Niente di rivoluzionario da sapere. Soffre di crisi maniacali, questo il verdetto alternativo della psichiatra, arrivato fuori tempo massimo. Nessuna e nessuno capì niente o poco più. Perché non c’era molto da capire. E poco o nulla di rivoluzionario da ingaggiare. A Paola il tutto regalò una di quelle depressioni tanto profonde che, se non decidono di internarti per il tuo stesso bene, poco ci manca. Dissimulò con la scusa dello studio per la tesi. Ma non 16 studiò per settimane e settimane. Non usciva da casa, non mangiava quasi nulla. Dormiva. Solo, ogni tanto, una lavata a corpo e lenzuola. Per via delle allergie. Tutte e tutti si erano sciolte e sciolti nei rivoli della rivoluzione prossima ventura. Un paio di mesi dopo le accadde un primo fatto che, unito al resto, le cambierà la vita. Un amico, un compagno, uno sconosciuto come tanti andò da lei un giorno. Ed era di sera. Lo riconobbe appena. Gentile. Delicato. Strano compagno. Non uno in prima linea. Una voce dolce. Ci fece all’amore. Solo una volta. Diventò suo marito perché restò incinta. Tanto, che importa? Non avevano nulla in comune. Perfino i gameti si erano detti non è cosa. La gravidanza che aveva deciso per loro un matrimonio andò a ramengo col resto. La depressione di Paola scomparve pian piano. Per prima, quella per un aborto. Si vergognava con se stessa ad ammetterlo. Ma non poteva farci nulla. Anzi, i pellegrinaggi parentali per alleviare il dolore di giovane-sposa-mancata-madre le davano sui nervi. Dissimulò anche lì e continuò a dissimulare per lungo tempo. Su molto altro. Scomparve anche la depressione vera, quella per un amore pieno di polvere e dubbi, lasciandole solo un profondo cinismo nei confronti della vita in generale. Nel frattempo, aveva preso un paio di decisioni. La prima, avrebbe fatto l’avvocata. All’inizio pensava di entrare in Soccorso Rosso, per via dei compagni rivoluzionari nelle galere. La seconda, il matrimonio era stato una manna dal cielo. Non proprio pane degli angeli, ma lo avrebbe lasciato lì dov’era nato. Perché? Intanto, al marito strano e delicato non andava più di tanto di assolvere ai doveri coniugali. E, visto che era sposata, nessun uomo o amico o compagno sconosciuto le 17 avrebbe rotto più le scatole. Se non del tutto, pochissimo. Nella sventura, una pacchia in tempi di emancipazione spinta procurata. La prima idea, essere l’avvocata di un Soccorso Rosso, visse in lei un mese. Più della sostanza di un matrimonio. Le restò solo la voglia di fare l’avvocata. Delle donne? Perché no? Tanto, che importa? Esperta in dissimulazioni e cinismo com’era diventata, le si schiuse una carriera. Il matrimonio invece non sarà mai sciolto perché in fondo conveniva a entrambi. Che resteranno muti sull’argomento a lungo. Il compagno delicato poi marito si chiamava Paolo. Pensa che fantasia i casi della vita! Poco tempo dopo matrimonio e aborto a Paola capitò un secondo fatto. Che unito al resto determinò il suo futuro. Sulle prime, le consentì di uscire definitivamente dalla depressione. Per entrare, quasi senza volerlo, in un altro mondo. Vide Paolo che passeggiava in una stradina del centro storico, mano nella mano a uno, occhi negli occhi. Si nascose in un androne e continuò a guardare. Prima incredula. Poi irritata. Infine… un sorriso le impresse quattro rughe indelebili ai lati di labbra e occhi. Ripensò al compagno di liceo. Vergognandosi ma non tantissimo, sorrise anche dentro. E sempre nell’androne. M’andò di lusso. Sposai un ricchione. E la lotta continua. 18 Significa anche cavallo Uma all’anagrafe era Manuela. Un paio d’anni prima dell’incontro con Alma aveva trovato un altro nome, magnifico. Grazie a sua zia Emma. Il suo originale le piaceva abbastanza, però aveva deciso. Basta. Non riuscì a convincere tutte e tutti, non lo cambiò sulle carte, ma lo cambiò. Oltretutto, certe sue amiche avevano il vizio di chiamarla Manu. Le aveva minacciate: se continuate, vi prendo a calci. E loro ‘dai, Manu è carino’. Una volgarotta l’aveva fatta grossa un giorno, strusciandosi addosso a lei come una gatta: ‘Manu, me dai la manu?’ La mano gliela diede sotto forma di pugno, spaccandole un dente. Suo padre pagherà il dentista. Non ti hanno denunciata, meno male, il padre della ragazza è nostro cliente, mezzo amico. Era una ribelle nata. Solo Emma, sorella minore della madre, riusciva a tenerla a freno. Ma durò poco, perché zia andò via da Lecce, all’improvviso. Manuela la adorava. Zia le raccontava sempre favole belle, diverse dai libri delle favole. Favole favolose con principesse guerriere e cavalli bianchi. Qualche volta cavalli neri. Ma sempre belli. Selvatici e liberi come l’aria, si facevano cavalcare solo dalle principesse. Che cacciavano, pescavano, si arrampicavano sugli alberi come la scimmia di Tarzan. E andavano in giro per salvare la Terra. Per salvarla facevano anche la guerra. Ché la Terra, non si sa com’è, era sempre in pericolo. Una volta era un terremoto. Un’altra un vulcano. L’esercito degli uomini neri. O certi extraterrestri brutti e verdi. Però arrivavano sempre loro, le principesse. Che erano due. Una bionda e una rossa. Rossa come Pippi Calzelunghe? Quasi. E zacchete e zacchete, sistemavano tutto. Gli altri alle principesse mettevano in testa corone di fiori colorati. E ci davano un sacco di regali, 19 dolci, un sacco sacchissimo. Passavano i guai, certe volte, le principesse! Alla fine però riuscivano sempre a salvarsi. E a salvare la Terra. Dai draghi, dagli uragani, da tutto. Un brutto giorno zia le disse devo andare. Lontano. Che la chiamava. E poi le scriveva. E poi tornava. Invece niente. Quando chiamava parlava solo con la mamma. Non può stare al telefono, costa, ti manda un bacio. Una volta arrivò un pacco tutto per lei. Un gioco da zia Emma col cielo sbriciolato in pezzettini, che poi li mettevi insieme uno a uno e diventava cielo intero. Lei ci mise un po’ a sistemare le formine strapizzate. Le diede una mano il fratello grande, Luca. Lo appese in camera sua e di notte brillava, ché i pezzetti avevano su certi granelli come brillantini. Si vedevano le stelle. Le galassie. E i pianeti. Manuela aveva deciso che zia Emma stava sulla Chioma di Berenice, proprio bella. Che si chiamava così a Manuela lo aveva detto il fratello. Le scritte erano in inglese e lei conosceva solo l’italiano. Abbastanza. Prima di partire Emma aveva lasciato un altro regalo per Manuela. Ma Antonio glielo doveva dare al compimento dei 14 anni. Ora no. Era un libro sulle streghe. Quando appese il puzzle in camera Manuela sapeva leggere e scrivere in italiano già da un pezzo. Però non le scrisse mai. Nemmeno una letterina di Natale. Era arrabbiata assai con lei per averla lasciata senza favole. Smise anche di chiedere di zia. Perché ogni volta le rispondevano ‘sta bene, sta bene, poi viene, poi viene’. E cambiavano discorso. La madre piangeva di nascosto e il padre ‘prendiamo un gelato’ oppure ‘guardiamo il film con Pippi Calzelunghe’. Come quando si faceva male. Come se quella di zia ‘sta bene, sta bene, poi viene, poi viene’ era una storia brutta che faceva male a tutti. All’inizio per consolarsi si era fatta un’idea sua. Zia era andata a salvare la Terra con un’altra principessa, un cavallo bianco e un cavallo nero. Col tempo, i bisbigli delle 20 amiche e qualche buona lettura, capirà che niente come la sua favola inventata era più vicino alla verità. Dopo le medie, seppe dove zia si trovava di preciso. La città era Boston, nello Stato del Massachusetts, uno degli Stati Uniti d’America. A scuola Manuela non ci andava volentieri, era stata bocciata tre volte, una alle medie e due a ragioneria. Niente, non studiava mai. Quella volta studiò quanto riuscì a trovare. Storia, geografia e tutti i particolari della guerra d’indipendenza dove nel 1770 avevano fatto un massacro, a Boston. Un giorno decise. E a tavola disse parole che sapeva avrebbero fatto male a qualcuno. Papà, mamma, voglio chiamare zia Emma. Voglio andare a trovarla. E non voglio più andare a scuola. Voglio lavorare. Faccio i soldi e parto. Tanto, quest’anno mi bocciano un’altra volta! Il silenzio durò poco. Lo ruppe il padre. Non se ne parla proprio! Prima finisci ragioneria. Se no, sono guai. La madre invece disse solo due parole. Oh, Signore! Il primo aveva provato con le minacce, ma sapeva sarebbe stata vita dura. La seconda si era limitata a invocare il cielo e a sospirare, come sempre. La soluzione la trovò Luca. Che lavorava già e aveva l’aria di uno che la sa lunga. Manuela ne aveva anche un altro di fratello. Il secondo. Massimo. Lui, alla faccia del nome, riduceva tutto al minimo, compresi i colloqui a tavola. Minimo sforzo, minimo rendimento, minimo coinvolgimento. Insomma, Massimo. Dopo le parole del padre, Luca si alzò da tavola e fu grande davvero, più di sempre. Che bisogno hai di lasciare la scuola? Ci andiamo insieme, quest’estate. Voglio andare anch’io a Boston da zia Emma. Ok? Luca aveva chiuso guardando i genitori, ma l’unica in grado di dare una risposta conclusiva era Manuela, lo sapevano. Avrebbe fatto veramente la cazzata di lasciare la scuola. Il padre guardò Luca prima male, poi bene. Infine, disse 21 l’essenziale. Però questo quadrimestre porta una pagella come si deve! Lei studierà come non aveva mai studiato. Prenderà anche l’inutile diploma. Il viaggio di andata fu una favola. La valigia piccola piccola. Tre aerei. Tutto quel blu. Boston invece era quasi sempre grigia. E un po’ marrone. Per le case quasi tutte fatte di mattoni. Altre case invece sono alte come nei film. E fatte di vetro quasi specchio. Ti vedi da fuori ma non vedi dentro. Le strade non sono tutte come nei film, però circolano macchine col cofano uguale al portabagagli, lunghi e squadrati come enormi valigie di ferro. Anche a Boston c’è il mare. Anzi, l’oceano. Non è bello per niente. E l’oceano che ci entra dentro come fiume puzza, in alcuni punti. Sì, Boston non era poi questo granché. Però c’era zia. Che quasi non la riconobbe. Manuela sì, era sempre zia sua bellissima. Uguale. Solo, parlava con un accento strano. Americano. Ma era sua zia! La casa di zia si trova in una strada piena di ciottoli per terra. Tra un ciottolo e l’altro l’erba. Fuori da una casa vicina sta appesa la bandiera americana. Proprio come nei film. La casa è piccola, ma con un sacco di quadri e foto e fiori. E un divano colorato. L’amica sua si chiama Helen e sta lì con lei. Luca lo spedirono da un amico italiano lì vicino. Manuela dormì sul divano colorato. Helen e zia invece dormono insieme, nell’altra stanza, nel lettone. I suoi 20 giorni a Boston saranno disordinati, strani, ma bellissimi. Partì che Boston un po’ le piaceva. Partì dicendo in continuazione e solo due frasi alle due donne, in aeroporto. Ma venite sul serio? Prometti, zia? Sì, promesso. Il suo cielo all’andata era ancora a pezzettini. Al ritorno, tutte le stelle avevano trovato il proprio posto. Ogni stella passata e presente era nel suo cielo. E fece spazio per una stella nuova, un nome. 22 Zia Emma conosceva un professore che di nome faceva Robert Thurman. Un esperto di buddismo. E il professore aveva una figlia. È più piccola di te, Manuela. Ma è una tosta, anticonformista. Un po’ come te. Vuole fare l’attrice. Ha già avuto una parte. Senza grande successo. Ma sono certa che diventerà una star. Sì, sarà una stella, lo sento. Te la farò conoscere. La prossima volta, magari. Si chiama Uma. Uma? E che cacchio di nome è? La zia sorrise dolcemente. A parte il sorriso, non fece una piega. La conosceva, nonostante gli anni. E le rispose con la voce seria. È uno dei nomi della Dea Madre, Manuela. Una divinità indiana. Significa luce. Ti darò un libro. E, in lingua giapponese, Uma significa anche cavallo. Ricordi i nostri cavalli, Manuela? Certo che me li ricordo! E… Manuela ci pensò su solo un paio di secondi. Scattò dal divanetto colorato portandosi al centro della minuscola stanza bostoniana. Girò su se stessa velocemente una decina di volte, derviscio indiavolato con le braccia aperte. Si bloccò lasciandole in avanti, tese. Luca, il nuovo amico di Luca, Emma ed Helen scambiarono un’occhiata tra loro. Mute e muti avevano assistito alla performance del twister. Uma si fermò col fiatone e una voce nuova. Deciso. Non chiamarmi più Manuela, zia. Neanche voi. E neanche tutti. Mai più! Da oggi il mio nome è Uma. E, il libro, zia... ok, lo leggerò lo stesso. Nessuno dei presenti disse una parola. Solo, Emma si alzò dal divano, l’abbracciò e, sempre abbracciata a lei, si diresse verso uno scaffale. Lì, dirà solo due parole. Porgendole con gesto solenne il libro sulla Dea Madre. Prometti, Uma? Anche lei risponderà con due. Promesso, zia. 23 Si dice avvocata Doriana era a sistemare carte nella loro stanza-studio. Franca si sporse dal cucinotto stropicciando una salvietta con le mani unte. Apri tu? Deve essere Paola. In anticipo, come sempre. Le due donne abitavano un trilocale a quattro passi da piazza Trilussa e dalla sede di molte riunioni di donne. Romane e non. Una fortuna, viste le dimensioni della loro casa, da una parte, e le frotte di femmine più o meno femministe con la voglia di frequentazioni al tempio, dall’altra. Erano una coppia storica. Di quelle dove il lesbismo passa quasi inosservato. O comunque sublimato nella politica per le donne, queste poverette. Nel loro intimo, sapevano anche quanto il lesbismo fosse passato del tutto, sotto un certo aspetto. Ma si guardavano bene dal farne parola, intanto a se stesse. Ne avevano fatto abbastanza di sesso. E discusso. Abbastanza. Di sesso se n’era parlato, nell’arco degli anni 70/80. Prima in quattro, poi di più. Etero e non etero. In un erotico diffuso, ma poco dichiarato. Dove l’antico volemose bene si era fuso con un pericolosissimo ‘forse possiamo anche noi’. Molte resteranno imprigionate in vesti simili a un cliché. Come personaggi dei giochi di ruolo virtuali a venire. Doriana percepiva il pericolo, se non i sintomi, di un tale imprigionamento. Ci stava pensando giusto prima di andare ad aprire la porta. Un semplicissimo pensiero. Prima o poi, manderò qualcuno al diavolo. In luoghi e modi differenti, Doriana e Franca avevano condiviso battaglie nella lotta di emancipazione delle donne in Italia. La vicenda all’inizio le aveva quasi risucchiate. E forse 24 salvate da un esistenzialismo lesbico eternamente in bilico sull’orrido della perdizione. Entrambe avevano urlato slogan in manifestazioni dove di lesbismo non compariva neanche l’ombra di un’attesa. Una volta a Doriana toccò l’incombenza di aprire un convegno sugli asili nido. Per sostituire una dirigente, all’ultimo momento. Non le mancavano le parole. Magari, l’entusiasmo spinto. Ti tocca mediare troppo nel cuore e nel cervello per appassionarti a un dibattito su scuole materne e dintorni, se sei lesbica e in più faresti volentieri fuori l’infanzia tutta peggio di Erode. Si va di metafora, logico. Ma la correttezza universale femminista finora aveva impedito la minima insorgenza di rigurgiti antifamilistici. Le scuole non si chiamarono più materne, con un aggettivo che da solo era un programma, come aveva voluto Benito Mussolini. Divennero scuole dell’infanzia. La sostanza restò più o meno la stessa. Altre lotte verranno. E altre conquiste. Dell’emancipazione. Delle donne. Italiane. E così, pensava Doriana mentre sistemava carte prima di andare ad aprire, così c’è toccato di dare una mano per sistemare l’istituto famiglia in Italia. A noi. Montare una bella impalcatura. A noi. Dare il contributo per rendere più vivibili le scelte etero-obbligate. A noi. Indirettamente, ma lo abbiamo fatto. Accidenti. A noi. Ok, vado. Ciao, avvocato. Sempre pacchi tu, eh? Paola tracimò nell’ingresso abbracciandola con le braccia ancora cariche di buste e bustine. Si dice avvocata. E smack. Era una pantomina abbastanza rodata. Una partiva con ciao, avvocato. L’altra replicava con si dice avvocata. Lo sapevano entrambe, era come dire ciao, come stai, ti voglio bene, bentornata. Il bacio con lo schiocco era sempre autentico. 25 Nessun bisogno Paola adottò Doriana e Franca. O loro l’adottarono? O, meglio ancora, lei aveva innestato la marcia per una triplice adozione? Fatto sta che le aveva individuate fin dalla partecipazione alla prima manifestazione. Sapeva del loro comune impegno in questioni per lei interessanti. Non solo per lavoro. Non solo per le donne, queste poverette. Conosceva soprattutto il lavoro politico di Doriana. Una che sì, lavorava in banca come lavoro, ma che scriveva della trasmissione dei beni in quel modo, come poteva non interessarla? Paola sapeva anche chi erano Doriana e Franca insieme. Non è che avesse le idee chiarissime sul punto. Dopo la storia di una settimana di passione e polvere finita in cenere, dopo la depressione dalla quale era uscita incinta, sposata e infine avvocata, dopo quella sorta di ‘prendi tre fregature e ne paghi solo una’ che era stata la sua vita a ridosso dei 30 anni, si era imposta di guardare una donna in un certo modo solo sullo schermo di un cinema. E di film brutti ne aveva visti troppi sull’argomento. Aveva pensato più che altro alla carriera. Per il resto, si era ritrovata a incarnare una modernità fuori dal comune. Mitteleuropea, per giunta. Aveva sposato Paolo per non dare un colpo al cuore a sua madre. Nel cuore di Catania. Tanto, che importa? Ed era finita a dare ospitalità a due amanti gay nella casa fine ottocento ereditata dallo zio prete. Paolo le aveva presentato Pavel. Lettore cecoslovacco semirifugiato politico conosciuto all’Orientale di Napoli. Queste le sue prime parole a lei. E che a lei bastarono. 26 Pavel che lei riconobbe subito. Pavel che aveva cinque anni più di Paolo. Ma dimostrava la metà dei suoi. Pavel col viso lungo quasi senza l’ombra di un pelo. Pavel con un paio d’occhi chiari senza colore e un eterno sorriso triste. Pavel che non parlava molto, ma amava la musica classica almeno quanto lei. Pavel che leggeva e studiava. Studiava e scriveva. Pavel che in questo 1989 sarebbe finalmente diventato ceco. Quattro lettere. Senza la i. Pavel che… certo, può stare da noi. Anzi, sono felice e onorata. Sarà così che, senza volerlo, senza che fosse la piena verità, la coppia Paola-Paolo diverrà un simbolo. In una città che voleva darsi un tono già da tempo. Dove l’università era divenuta crocevia di modernità alla ricerca di respiro più ampio. Fuori dalla Sicilia d’altri tempi. Nel giro di poco, sul portone della loro casa fine ottocento, in pieno centro a Catania, si materializzò per tutte e tutti un’inesistente ma tangibilissima targa aurea: ‘supporto terrone a lontana rivoluzione’. Tanto, che importa? Paolo e Pavel facevano sesso, spesso. Lei lo sapeva. A volte lo sentiva. Forse non tanto spesso. Per lei le unità di misura di tempo nel sesso erano vaghe, al pari di altro. In nome della modernità, col primo si era accordata su stanze separate fin dall’inizio. Anzi, lontane. La casa lo permetteva, era grande e lunga. Però li sentiva lo stesso. Una volta definitivamente fuori dalla depressione, le sue fantasie sessuali solitarie ne trassero qualche beneficio. Li immaginava. Li vedeva. Sentirli li sentiva già. Di tanto in tanto, le veniva voglia di sesso anche con un’altra anima sotto forma di corpo. Scartò l’idea di farlo in tre, anche prima del muto e generoso invito dei due. Più muto che generoso. 27 Scartò il pensiero di un amante in loco, troppo complicato. Troppo viavai, perfino per una casa grande e lunga come la sua. Complice una carriera destinata a decollare, prese molti aerei ed ebbe amanti un po’ ovunque. Amanti maschi, per carità. Abbiamo già dato. Solo una volta, un’avventura di tre giorni con una collega svizzera. Durante un convegno sul diritto comunitario del lavoro e sue implicazioni in Svizzera. Faccenda di solo sesso volante nella Svizzera italiana. Anche la collega svizzera era italiana, originaria di qualcosa dalle parti di Orvieto, ma in attesa di nuova cittadinanza. Paola si concesse così un lusso extraeterosessuale nei suoi lussi extraconiugali. Che di coniugale la sua vita non aveva nulla lo sapevano solo in tre. Ma all’esterno era una carta vincente. Si faceva sesso facile e si sapeva che sarebbe finita lì. Lo sapevano tutti gli uomini con cui era andata a letto. Lo sapeva anche la collega, extracomunitaria e distante al punto giusto. Non fu uno spasso con la svizzera, niente di extralusso sul piano sessuale. Paola non era un’esperta. A parte l’aura magica e tragica nella quale aveva racchiuso l’unico episodio lesbico della sua vita, le idee le aveva chiare solo al negativo. Sapeva cosa non le piaceva in una donna. Sul piano fisico e ancor più sul mentale. Non le piacevano le donne femminili. E non pensava mai alle donne in generale. Anzi, nonostante la professione, nonostante le trappole buoniste anzi che no, a lei di pensare le donne come universo unico e a se stante non veniva bene per niente. Infine, non le piaceva lesbica, come parola. Forse per colpa del liceo. Però sapeva, dentro di sé lo sapeva, che solo con una donna prima o poi si sarebbe sentita intera. Ci mise pochissimo a farsi riconoscere da Doriana. Scelse lei tempi e modi per uscire allo scoperto. 28 Si ritrovarono da sole in un angolo appartato a fumare in pausa chiacchiere. In una delle tante riunioni femministe. Paola la guardava con insistenza ogni volta che aspirava. Guardava, piegava lo sguardo quando gettava fuori il fumo, riprendeva ad aspirare e guardare. In attesa di parole che non tardarono ad arrivare. L’altra andò subito al dunque, come faceva sempre. Allora sei sposata e fai l’avvocato. Paola era preparata a un approccio anche più duro. Sorrise. Si dice avvocata e, delle due, è l’unica autentica, per ora. Le era bastato ammiccare alla parola autentica. Doriana proseguì nel gioco dell’interrogatorio, per puntualizzare i contorni di quanto aveva già intuito. Vuoi dire che stai per separarti? Lei era pronta anche per un gioco più complesso. Ma una pausa è una pausa, anche per una grande donna. Pensava di avere davanti una terroncella venuta a Roma per imparare la vita vera? Ok, saremo più esplicite. L’avvocata in lei ci pensò per tre secondi. Scandì le parole una ad una, ma alla velocità della luce, calcando il tono su alcune. E così parlò, l’avvocata. Voglio dire che fino a quando non troverò una donna che mi faccia venire anche voglia di sposarla, e fino a quando non ci sarà il matrimonio anche tra persone dello stesso sesso, non ho nessun desiderio di separarmi. Anzi, ora come ora, non ho nessun bisogno di separarmi. Come non avevo voglia di sposarmi. Solo che, primo, ero rimasta incinta. Secondo, stavo male da morire per aver perso una donna. E terzo, vivevo in una città dove mettere al mondo dei figli da sola era uno scandalo. E ci vivo ancora. Il resto lo sai già, ho abortito spontaneamente. Riprese fiato, gettò nel posacenere il mozzicone che le stava ustionando le dita e rilanciò prima di una possibile replica dell’altra. Ah, scordavo. L’amante di mio marito vive con noi. Ed è 29 un uomo. Non male, eh? Non ne volevo neanche uno e mi ritrovo con la casa piena di maschi di tutte le razze, da mattina a sera. Scusami un attimo. ‘Scusami un attimo’ erano le parole studiate meglio, nell’infilata spavalda. Le servirono per infilarsi nel bagno lì accanto. Una volta dentro, due respiri profondi. È andata. Pipì lunga, lavata di mani e rinfrescata al viso con cinque sciacqui cinque. Sguardo allo specchio, altri due respiri, posso uscire. Doriana era nell’angolo dove l’aveva lasciata, raggiunta da due che tra loro discutevano animatamente, cercando animatamente di coinvolgerla. L’amica sollevò appena sopracciglia e sguardo, inviando un sorriso quasi impercettibile. Fece segno alle altre di zittirsi. Una mano alzata tra le due bastò. Che infatti smisero immediatamente. Sopra due teste, con rinnovata semplicità, Doriana rilanciò a sua volta. Questa sera, l’incontro che tu sai, importantissimo, non puoi ripartire prima. La prima pratica per l’adozione era andata a buon fine. Non era previsto nessun incontro in serata. Complimenti, avvocata. E a lei, dottora. 30 Prendi un bel respiro Non so se mi piace veramente. Ma il cuore mi batte alla sola idea di vederla. Vorrà dire qualcosa, no? No…? No…? Paola, dopo ‘vederla’, si era lasciata cadere sul divano. Come una diva. Le sue prime parole dopo la distribuzione di pacchi e baci. Aveva lanciato gli interrogativi finali alternando lo sguardo verso le due amiche. Franca da pochi istanti era risbucata dal cucinotto nel quale aveva ripreso postazione dopo i saluti. L’acqua bolliva. Aveva sentito bene solo la parola ‘qualcosa’. Ma che t’è successo? Hai la faccia come un peperone! Doriana sorridendo amorevolmente zittì Franca col solito gesto della mano in avanti. Tu se non tiri fuori una metafora ortofrutta al giorno! Con espressione lievemente più seria andò a sedere nella sua poltrona preferita, in piena faccia a Paola. Stasera ci vai e vedrai se ti piace veramente, semplice! La fai facile, tu. È tutto semplice per te! Questa è una cazzata che non ti fa onore, avvocato. Si dice avvocata. Ma non ti fa onore lo stesso! Perché non è mai facile. E non è stato facile mai. Neanche per chi lo sa dalla culla! Franca aveva assistito al battibecco tenendosi in disparte. Non era la prima volta. Decise per una dignitosa ritirata, la pasta doveva essere quasi cotta. Prima, depositò uno dei suoi consigli passepartout. Qualsiasi cosa devi fare, prendi un bel respiro, prima. A proposito, grazie per le gocce omeopatiche, te ne sei ricordata, che cara. Rimaste sole, le due si guardarono in silenzio per mezzo minuto. Paola, senza alzarsi dal divano aveva aperto la portafinestra, mandato un segno d’intesa e acceso 31 l’ennesima. Scusami. Non volevo dirlo. Cioè, lo volevo dire, ma non nel senso… Oh, com’è complicata la vita. E quanto sono complicate le donne! Sulla complicazione, avvocata, possiamo concordare. Concordo e di più! Risero un po’ e la tensione si allentò. Paola decise di deviare su una richiesta di consiglio più terra terra. Le ho portato il mio profumo. Cioè, non il mio. Uguale al mio. Oh, per farla breve, ho pensato a un regalo. Che dici, può andare? Dico che è di una banalità profondissima. E sì, può andare, tutto può andare. Banalità? Mi costa un occhio della testa, ogni volta, e sono miope! Doriana rise di nuovo. E l’altra con lei. Franca urlò piano dal cucinotto. Sarebbe pronto, se volete apparecchiare. Mentre sistemava piatti e bicchieri, Doriana lasciò cadere la domanda che prima o poi faceva sempre. Una domanda tanto per. O forse no. Con Paolo, tutto bene? E Pavel, novità? L’amica rispose nel solito stile venato da cinismo, con una punta appena di umorismo. Tutto bene, come sempre. Cioè, niente. Anzi no, qualcosa si muove. Certo, sono in subbuglio. Pavel è tornato una settimana fa. E Paolo ha detto che la prossima volta andrà con lui. Che ti devo dire, spero solo che non si facciano ammazzare! Altrimenti, mi toccherà andare a ritirare due corpi più morti di quanto non lo siano già! Morti e però finalmente cechi. Almeno uno, ceco. Quattro lettere. Senza la i. No, scherzo ché è meglio. Ma la situazione sta prendendo una piega al limite dell’osceno. Non dico del sesso, chi se ne frega di quello. E neanche del fatto che in pratica mantengo due nullafacenti. Che però 32 sono tanto carini, intellettuali, impegnati, ora per giunta rivoluzionari! È tutto l’insieme. Sta a sentire, questa è di ieri, una sciocchezza, ma è per darti un’idea. Ti ho già detto che sono amanti del cinema di Kieslowski, vero? Lui e tutti gli stramaledetti numeri dei suoi Decalogo. Ero nello studio di casa, con una cliente, ma fa niente, è un’amica. Paolo entra, mi guarda, ammicca come un ebete e… ‘scusate, volevo dirti che tra un po’ noi si va a vedere Breve film sull’amore, vieni? In Italia lo hanno tradotto Non desiderare la donna d’altri . Non lo trovi buffo, Paola?’ Gli avrei tirato in testa il manuale di medicina legale, guarda! Al che, Doriana iniziò a ridere. Si levò dalla poltroncina che rideva ancora. Rise così forte e a lungo da avere un attacco di tosse convulsa. Piegata su se stessa si reggeva con le mani sul bordo del tavolo. Paola non rideva molto. Ma era ancora sotto l’effetto delle proprie parole per poter intervenire. Franca arrivò di corsa. Che hai fatto? La domanda era per Doriana, ma la fece guardando Paola che allargò le braccia, trattenendosi a stento dal ridere anche lei. Solo dopo essersi ripresa, solo dopo tre colpi dietro la schiena e altrettanti sorsi d’acqua, Doriana riuscirà a dire la verità. Con le lacrime agli occhi. Niente, tesoro, niente. Devo dirti una cosa, però ti giuro che non c’è nulla di personale. Io adoro questa donna! Ancora risate. Rise anche Franca. Politically correct. Come sempre. 33 Mica vuol dire Non so come fai. Al tuo posto, dovrei essere tre persone, o forse quattro! Nello stesso momento in cui, dalle parti di piazza Trilussa, tre donne sedevano intorno a un tavolo per pranzare dopo una buona dose di risate, altre due si rincorrevano in tondo in un attico di piazza Adriana. La verità, non si rincorrevano. Solo, Viola provava a stare dietro a Letizia che ispezionava ogni angolo alla velocità della luce. Vista la casa a chiocciola, se ripresa dall’alto di un satellite, la scena sarebbe parsa l’inseguimento di spie in un classico 007. Finisce che non sai mai chi insegue chi. Dov’è la sciarpa rossa? E la borsa di Fendi? Per Giove abulico, possibile che sistemi sempre a modo suo? Forse in un altro continente le borse si tengono in frigo? Ogni tanto le poteva capitare una battuta leggera. Ma Letizia non era per niente razzista. Per niente. Viveva di rendita e passatempi. Così li chiamava Viola, passatempi. Letizia era in età da pensione, ma la sua sarebbe stata la minima. Per fortuna, aveva metaforicamente ammazzato il resto della parentela fino al quinto grado ed ereditato una quantità indefinita di case e terreni in Abruzzo. Tra affitti e colonìe, la commercialista le faceva firmare ogni anno carte e assegni terminanti con moltissimi zeri. I passatempi in realtà erano quasi tutti seri. Letizia era da sempre immersa in una miriade d’impegni. Forse, espiava il senso di colpa per essere così ricca, senza aver sudato poi tanto. Lei, che era comunista. E della prima ora. A suo modo, dava un notevole contributo all’abbassamento del tasso di disoccupazione. Per iniziare, 34 aveva due cuoche, un’italiana e una francese. E un domestico indiano. Par condicio con disparità, in nome della differenza sessuale. La massaggiatrice era una donna, lo dice la parola stessa. L’agopunturista un uomo. Venivano tre volte a settimana, a testa, da sempre. Letizia non era malata per niente. Si portava avanti. Un’inglese madrelingua le dava inutili lezioni d’inglese. Una cinquantenne originaria di Stevenage che a Letizia piaceva moltissimo. Veniva ogni volta che lei la chiamava. Tanto, la strapagava. Non facevano sesso. Solo inglese. Parlato. Nel complesso, una costellazione di gente di cui Letizia aveva perso il conto le ruotava intorno. Piano, ma eternamente. Tutte sul suo conto corrente. Tutta bella gente. Letizia era alta, con una certa stazza e generosa di petto. A dieta praticamente sempre. Ossia mai. L’ultima delle sue serissime occupazioni era la sistemazione di un Archivio di una Storia di donne. Con l’aiuto di altre. Di una Storia di cui faceva parte anche lei. Quando ne parlava, scherzava sempre. In fondo, mi sto a sistemare anch’io! Le piaceva molto scherzare. L’unico passatempo nel senso autentico del termine era lo scopone scientifico. Il più serio, all’apparenza. Quando si giocava a scopone nell’attico non volava una mosca, si staccava il telefono e a volte il campanello. Viola era l’unica ad avere la chiave di casa. L’unica da cinque anni, da quando viveva con Letizia. Che perdeva sempre oggetti. Chiave compresa. Deciso, lei quella chiave non l’avrebbe più avuta. Per non dover cambiare serratura a ogni smarrimento. In casa quasi sempre qualcuno. E presi i dovuti accordi col portiere. Per la chiave d’ingresso. Del solo ingresso. 35 Una volta dentro, solo lei e Viola sapevano dove cercare le seconde chiavi per proseguire nella chiocciola. La prudenza non è mai troppa. Essere comuniste mica vuol dire essere fesse, no? Rideva ogni volta che lo diceva. Ossia spessissimo. Essere comuniste non vuol dire essere fesse. Viola era molto più giovane e l’amava di un sentimento autentico. Aveva una bellezza tutta sua. Un’aura di bellezza dolce le apparteneva costantemente. Era bella ed efficiente. Forse per questo i pianeti della costellazione all’oscuro pensavano fosse la dama di compagnia, assistente, segretaria tuttofare di Letizia. Dolce, ma efficiente. Invece Viola non faceva niente. A parte l’arredatrice d’interni per hobby. E amare incondizionatamente quella forza della natura dispotica ma adorabile di Letizia. Eccola! Viola trovò la sciarpa, ma non la borsa. Che l’altra ricordò di aver lasciato in Archivio. Uscita di fretta, aveva preso solo la ventiquattrore. Per Giove abulico, sono in ritardo col parrucchiere. Poi mi toccherà passare da lì prima di andare dalle Soroptimiste. L’invito con l’indirizzo ce l’ho in borsa. Farò il giro di Roma. Oh, che stress! Lo chiami tu il taxi? E ricordati il catering per la festa. Vogliono la conferma del numero. Ho perso il conto, quante siamo? Sedici. Ok, ci penso io. Ciao, amore. Nessuna conosceva l’origine dell’esclamazione. Sapevano solo che era di Letizia. Ed era l’unica. Letizia che per il resto non sopportava le parolacce e poteva toglierti il saluto e molto altro davanti a una bestemmia. Se sei comunista mica vuol dire che ti piacciono certe cose, no? Per Giove abulico! 36 Del dissimulare un’arte Salutatemi alla Sicilia! A domani, vi dirò tutto. O forse no. Se non dico tutto è meglio, no? Paola ammiccò, mandando un bacio con la destra e aprendo l’ascensore con la sinistra. Doriana e Franca avevano un cinema tranquillo per la serata. Nuovo Cinema Paradiso, film ambientato nella Sicilia anni 50 e candidato all’Oscar. Lo vincerà, poi. Paola lo aveva già visto. Buona la musica. Come ogni siciliana che si rispetti era entrata in sala con diffidenza. Alla fine non le piacque quasi niente. Ma lo tenne per sé. Capace di incrociare un’entusiasta. E costretta a dire il perché e il percome. Meglio di no. Non lo disse in giro, come faceva di buona parte dei propri pensieri. Diceva sempre altro. Oppure altro accanto alle verità, per trattenere presso di sé il cuore della verità. Aveva fatto carriera anche grazie a quello. Il suo essere avvocata non era la causa, se mai la conseguenza, con altro, di un’attitudine appresa nell’infanzia e affinata dopo. Sull’arte del dissimulare avrebbe potuto scrivere un manuale. L’ultima sua vittima in ordine di tempo era la donna con cui aveva una riunione. Poi, forse, una cena. Forse da sole. E poi, forse… Ilaria non aveva dovuto faticare per convincerla a entrare nel gruppo di studio per avviare un’altra proposta di legge. Paola accettò subito. Lo avrebbe fatto comunque. Per non insospettirla attese solo di conoscere l’argomento. Arte della dissimulazione, capitolo primo, paragrafo terzo. Ilaria le era piaciuta subito. Donna delicata e ferrea. In una marea di donne e uomini. Più donne che uomini, a convegno. Ilaria al tavolo dei relatori. E solo un’altra con lei. Più uomini che donne, al tavolo dei relatori. Per questo si dice relatori, no? Altrimenti, come si 37 direbbe se al tavolo ci fossero otto donne e due uomini? Sempre relatori? Ancora e sempre relatori, rispondeva Signora Grammatica nella testa di Paola. Che la conosceva da bambina. Non l’aveva mai abbandonata, una rompiballe affascinante. Il suo primo amore vero, in fatto di giochi. Le bambole con l’intero ambaradan altoborghese-siciliano-cattolico-ma-non-troppo destinato alle infanti siciliane anni 50 erano state solo una passione passeggera. La grammatica e i giochi di parole divennero ben presto i suoi primi amori fedeli, fuori discussione. L’amore, poi. Che roba era l’amore? Paola non si era posta spesso la domanda. Sapeva quello che non era e lì si fermava. Non c’era amore nelle storie inanellate e appese come ghirlande al collo con su scritto ‘benvenuta nell’emancipazione sessuale’. Lo sapeva. Ma l’amore vero, di che materiale è fatto? Bella domanda. Paola era erudita in fatto di domande. Sapeva che se non ti interessano davvero le risposte è inutile formulare le domande. Inutile e semmai gentile, se non le fai a te stessa, ma a chi non aspetta altro se non la domanda giusta. Magari. E da così tanto aspetta che la risposta non è più possibile. O, peggio, non è la risposta giusta. Magari. Gentili e false alcune sue risposte, quanto inopportune se non dolcemente violente certe domande altrui. Aveva risposto poche volte con la verità, perché le poche erano bastate. La colpa imperdonabile era nella sua risposta, non nella domanda sciocca e impudente. Dalle prime botte nei denti aveva imparato la lezione. E iniziato un gioco nuovo, quello di domande e risposte. Imparò a non porsi le prime quando l’oggetto delle seconde non era di suo gradimento. E qui, si direbbe, siamo sul facile, a meno che domande e risposte non risiedano nel condominio dei propri desideri. Ma Paola aveva una sapienza più complessa. Per non dare risposte differenti da quelle attese. Prevedeva in 38 tempo le domande. E riusciva sempre a non farsele fare, quando non era possibile dare risposte false ma gentili. Oppure quando, molto più spesso, l’eventuale risposta autentica sarebbe stata di tutt’altro condominio. O peggio, così tanto autentica da far male. Innanzitutto a se stessa. Col tempo divenne maestra anche in quello. Si specializzò durante la fase che altre e altri chiamarono della depressione. Forse l’avrebbe chiamata così anche lei. Tanto, che importa? Quella capacità fu arte per la propria sopravvivenza, a lungo. Poi, fu solo arte. Una maestra senza allieve. Un capitolo a sé nel personalissimo manuale sul dissimulare. Ora però la domanda la inquietava. Continuò a farsela nel taxi. Anche mentre pagava. L’amore, che roba è l’amore? Il vissuto che in pochi giorni, secoli prima, le aveva desertificato l’anima dopo averla infiammata di passioni sconosciute, poteva essere amore? E quanto provava ora per Ilaria, poteva? L’ammirazione immediata per parole pronunciate con soavità mista a fermezza e percepite in una voce unica. La voglia di starla a sentire mai stanca. Il bisogno fisico di cercarla con gli occhi e poi trovarla in una sala, appena arrivata. Magari prima, sulle scale. E gli occhi nella scollatura, mentre scendevano le scale. La voglia di tuffarcisi dentro, quando le chiese del profumo che indossava. Era amore il frullato di emozioni che le procurava una morsa piacevolissima all’altezza dell’ombelico? Ed era stato il carburatore per alcune idee nella parte sinistra del suo cervello, negli ultimi tempi? Più la domanda si faceva impellente in lei, più percepiva che la risposta non dipendeva solo da lei. Un vero guaio. Non solo le importava per la prima volta, ma la faccenda si era complicata, perché la sua arte l’aveva portata, parola per parola, silenzio per silenzio, a lasciar credere a Ilaria di avere una vita felice, accanto a un uomo unico…! S’era scavata la fossa da sola? Forse no, aveva 39 visto una luce nei suoi occhi. Ilaria che aveva smesso di raccontarle dei progressi dei figli a scuola. O dell’ultimo tappeto indiano per la casa. Che aveva accennato alla mostra di Tamara de Lempicka. Ci vado. Ci vieni? E quell’attrice. Mi piace, ti piace? E come lo diceva, Ilaria. Paola non sapeva bene cosa ci fosse dentro tutti quei mi piace ti piace. Ma pensò che poteva osare. La sera a cena osò la proposta del locale carino per sole donne. Che si rivelò di una noia tristissima. Solo, diede loro il tempo per continuare a guardarsi. E bere. Bere e guardarsi. Da sole. Finalmente. Dopo il cacio e pepe, il profumo e il rossore muto di Ilaria in una tavolata dove altre avevano continuato a parlare solo di diritto. Anche nel locale lei sentì che poteva osare. E tirò dritto. Facciamo quattro passi? Serata splendida di fine giugno. Il cielo di Roma brillava di mille luci accese sotto e sopra. Paola fece solo finta di prenderla sottobraccio. La pelle nuda del braccio. Un fremito. Il gomito. Il polso. Poi, la mano. Ilaria la strinse nella sua, si guardò attorno e la portò nella tasca ampia della sua gonna ampia. E lì la tenne. Stretta. Poi meno stretta. Poi premuta a sé. Paola sentiva sul dorso della mano destra ogni movimento dell’anca sinistra di Ilaria. Sentiva i muscoli e perfino le ossa. In mezzo, muto cotone puro. Respirarono e camminarono. E basta. Neanche uno sguardo di lato. Paola era l’unica a conoscere alla perfezione le stradine intorno al Pantheon. Ma lei dettò solo la strada. Muta. L’altra decise la sorte della mano. Muta. Ilaria gliela lasciò solo per tirare fuori un tesserino dalla borsa. Alla reception dell’albergo di Paola. L’addetta al turno di notte parve adeguarsi perfettamente al loro silenzio. Quasi fosse stata tacita testimone di una camminata di mezz’ora muta. Ma era una di poche parole già di suo. 40 Non chiamarmi signora Nella primavera 1989 Uma lavorava nel negozio del padre. A Lecce. Uno di quei negozi specializzati in tinte e vernici, con un reparto a sé per le cose d’arte. Tele, cornici, materiali per découpage, pennelli su pennelli. E tanti, tanti colori. Una sorta di sūq ordinatissimo e coloratissimo. Era stata lei a consigliare di ampliare l’offerta. Prima, era solo una grande ferramenta qualsiasi. Con l’Accademia di Belle Arti qui vicino, conviene, no? Il consiglio lo aveva dato ché lei, quand’era ancora Manuela, frequentava molto l’Accademia. Non ci studiava. La frequentava e basta. Le piaceva una che faceva la modella per aspiranti artiste e artisti. Da qualche tempo parlava strano. Sempre di pittori e pittrici. Di più pittrici. Aveva addirittura comprato libri d’arte. Ne aveva sempre uno sul comodino. In copertina, uno sgozzamento. Al confronto, il più truculento dei film di Dario Argento lo consiglieresti per sonni tranquilli. L’autrice era una certa Artemisia. Al padre aveva fatto una testa così. Si vendeva un locale a fianco. Ok, lo compriamo. La accontentava sempre. Solo in una cosa non lo aveva fatto. E mai lo farà. Non la chiamava Uma. Ma Manuela. Come la madre. Uma perdonò l’affronto solo a lui. Anche perché la madre dopo un po’ smise di chiamarla Manuela. La chiamava e basta. Al più, diceva figlia mia. Nel febbraio 1989, per il suo compleanno, Uma si era fatta i capelli rossi. Ma proprio rossi. Rosso bandiera. E ritti sulla testa. In casa accettarono la stranezza nel modo di sempre. Prima, un piccolo putiferio paterno e il solito sospiro materno. Poi, rassegnazione generale. Solo da Luca una frase carina: sembri una pappagalla dell’Amazzonia, di quelle in via di estinzione, proprio una 41 bella bestiolina! Lei fece quattro autoscatti nella macchina per le fototessere. Quattro pose differenti. Spedite a Boston con un biglietto: Pippi Calzelunghe ormai mi fa un baffo. Un bacio a te e a Helen. Quando venite, allora? Lavorava, è una parola. Era sempre in giro. Di studiare non aveva mai avuto voglia. S’era capito. Peccato, i suoi avrebbero voluto che almeno la femmina andasse all’università. Una dottora in famiglia fa sempre bene. Magari, architettura. Invece, un fallimento su tutta la linea! Colpa della matematica, aveva detto dopo ragioneria. Io e la matematica siamo incompatibili. In-com-pa-ti-bi-li! Non era proprio così. Alle elementari e alle medie le era piaciuta abbastanza. Giocava sempre con i numeri. Grazie alla matematica e alla memoria aveva anche inventato un trucco nuovo nel tressette. Poi no. A ragioneria l’ora di matematica era una pena. L’insegnante era antipatica, si rivolgeva solo ai maschi quando spiegava. A volte sorrideva facendo battute sceme, sempre ai maschi. Ed era brutta, Manuela la chiamava la Gufa. Una civetta col rossetto, che antipatica! Fino alle medie, sì. Un po’. Poi no. Basta. Incompatibili. Il fratello Massimo che faceva tutto al minimo lavorava col fratello grande, Luca. Che aveva messo su un’attività in proprio. I fratelli, di otto e due anni più grandi di lei, andavano in giro per le case a cospargere le pareti di pitture che Uma trovava ridicole. Ma erano di moda. E pagate profumatamente. A dir la verità, Luca da solo non aveva messo su niente. Il padre aveva fornito i soldi necessari per l’attività dei figli. Macchinari, furgoncino e accessori vari. E continuava a rifornirli a prezzi stracciati oppure gratis. Il negozio però lo lascio per metà a Uma, disse Mattia. Vado dal notaio e ve lo metto sulla carta, disse. E mi sembra il minimo, pensò lei. Che comunque lo ringraziò come si deve. Sua madre Gina invece non faceva niente. Cioè, faceva 42 la casalinga. Ossia, una frascica di lavori da mattina a sera. Uma in casa non c’era quasi mai. Non sapeva neanche dove cercare lo straccio per pulire. Abbiamo fatto la femmina sbagliata, diceva ogni tanto suo padre alla moglie. Però la amava. E perdonava sempre ogni stranezza alla ragazza bellissima che era sua figlia e sembrava più maschio degli altri due. Se solo avesse avuto voglia di studiare, sarebbe stata la migliore! Se avesse avuto voglia di lavorare sul serio, poi! Se almeno si fosse trovata uno come si deve, per sistemarsi e farlo stare tranquillo. Niente, sempre con amiche e amici strani. Come si chiamano, fricchettoni? Scamusi e basta, altro che. Perché, se uno fa l’artista, deve andare in giro sempre vestito come un barbone? Meno male che gli artisti fricchettoni hanno soldi da spendere. E vengono a spenderli anche qua, i soldi di mamma e papà, pensava sempre Mattia. Che in cuor suo era contento perché il consiglio della figlia si era rivelato un ottimo investimento. Però non glielo dirà mai. Poco prima dell’estate, non esattamente in linea con i desideri inespressi del padre, Uma si sistemerà per la vita. Sempre grazie alla ferramenta. Dove un giorno entrò Alma per comprare una tela. Alma che con un battito d’ali spazzò via tutte le modelle del mondo. Uma si trovava in negozio per caso. Che fortuna! Fu attratta dalla signora fin dal suo primo gesto: levarsi gli occhiali da sole con la testa appena inclinata e strizzare lievemente gli occhi, nel guardarsi attorno. Poi, Uma vide il vestito ampio, lungo, colorato, leggero. Come certi camicioni africani. Un incedere elegante senza essere appariscente. Un sorriso splendente. E un corpo che sembrava grande, anche se non lo era. Corpo rotondo, ma lieve. Rinascimentale. Una stupenda donna del Tiziano, decise Uma. Sì, del Tiziano. Uma cicerona la portò a spasso tra gli scaffali come per musei. Con sapienza, come una che sta lì tutti i momenti. 43 Le fece visitare l’intero negozio lasciando per ultime le tele in offerta. Poi questo. E questo. Lei dipinge? Che bella cosa! Ma è di Lecce, signora? Mi scusi, è la prima volta che la vedo. Qui in negozio, dico. Alma rispose con voce suadente. E lo sguardo sempre sorridente che passava dai capelli alla sua bocca. Dalla bocca ai capelli. E ritorno. No, non era di Lecce. Era lì in vacanza con la famiglia. Tra poco andremo a visitare la Cattedrale di Otranto. L’ho vista solo sui libri. I mosaici devono essere magnifici. Li hanno già restaurati? Non vedo l’ora! E, a parte le marine, ho in programma la Chiesa di Casaranello. E la Basilica di Santa Caterina d’Alessandria, a Galatina. Con i suoi affreschi. Non voglio perderla. E tu, dipingi? Uma sentiva su di sé lo sguardo insistente dell’altra. Lo sentiva sulla bocca. Sui capelli. E ritorno. Per la prima volta nella vita avvertì una sensazione prossima all’imbarazzo. Famiglia, poi. A Uma la parola aveva fatto un certo effetto. Oh, famiglia può voler dire tante cose! È appena uscito un libro su quei mosaici, signora. Chi, io? Oh… è so… solo un hobby. Una co… cosa piccola. Uma non aveva mai balbettato prima. Mai. Alma promise di tornare, di rientro a Lecce. Poi, forse, chi sa! E guardava sempre bocca e capelli. Capelli e bocca. Lei da quel giorno andò in negozio tutti i giorni. Al padre non parve vero. Per due settimane almeno, non gli parve vero. Oh, e una è fatta! Pensò. Se solo la smettesse con i colori sui capelli, lei che li ha così belli. Ah, le mode! Per fortuna, passano. Passarono pochi giorni e Alma tornò in negozio. Uma era riuscita a procurarsi il libro raro sui mosaici antichi. Non raro perché antico. Era nuovissimo. Solo molto caro. E si mostrerà quasi offesa del fatto che la signora volesse pagarlo. Ma grazie! Non ho parole, veramente… Invece Alma le trovò. Giuste. L’inizio di un viaggio 44 stupendo. Un nuovo inizio per Uma. E un po’ per tutte. E non chiamarmi sempre signora, ti prego. Mi fa sentire vecchia. Non ho ancora compiuto 35 anni. Mi chiamo Alma. E tu? U… ma. Mi chiamo Uma. Pri… prima Manuela. Adesso, solo Uma. Per la signora il nome Uma doveva essere il più normale e bello del mondo, perché rilanciò, sempre sorridendo. Uma, perché non vieni a trovarmi nella Galleria di Roma? Ti faccio vedere i miei quadri. E magari ricambio il tuo pensiero. Non è proprio una Galleria. È uno studio, ma noi lo chiamiamo così. Lo abbiamo aperto in tre. Ti do l’indirizzo, hai una penna? Erano finite in fondo al negozio, tra scaffali pieni di tele e colori, nascoste alla vista degli altri avventori. Una penna? Sta sul bancone, pensò Uma al fulmicotone, e da qua non mi schiodo neanche se arriva un tornado! Fece finta di guardarsi in giro, sorrise piano a un ripiano che ospitava i gel colorati per dipingere sul vetro, allargò le braccia. Mi dispiace. Una penna no. Però… Fu solo un’impressione la sua o la donna di nome Alma che sentiva le avrebbe mandato il cuore in cielo la stava guardando con un sorriso canzonatorio? Aspetta. Ho sempre un pennarello in borsa. E ora dove lo scrivo l’indirizzo, sul palmo della tua mano? Uma chiamò in soccorso il suo antico fare sfrontato. Le piazzò davanti entrambe le mani. Con i palmi insù. Lievemente a coppa. E a mezzo centimetro scarso dal seno. Guardandola negli occhi, restò muta per circa tre secondi. Poi parlò. L’altra non indietreggiava. Anzi, Uma sentì, per una frazione di secondo ma sentì, che avvicinava il corpo a sfiorare la punta delle sue dita. Sul palmo della mia mano? Perché no? Quale desidera? 45 Una di famiglia Letizia conosceva Franca. Si erano viste spesso, ma di sfuggita. La prima sempre di corsa tra mille impegni seri. La seconda sempre con una faccenda casalinga in sospeso. Qualche mese prima della festa per il bicentenario erano sedute accanto in una riunione dove si parlava di violenza sessuale. E lì si fermarono a parlare un po’ di più. Entrambe, in luoghi e modi differenti, avevano contribuito all’iniziativa di legge popolare per far diventare la violenza carnale e gli atti di libidine un reato differente, in Italia. Una decina di anni prima. Fine anni 80 e il Parlamento Italiano ancora non si decideva! A cassare l’assurdità voluta dal Codice Rocco. Chiamato così dal nome del giurista che per il Fascismo aveva creato il vigente Codice Penale. Non proprio creato, diciamo rivoltato come un calzino di lana grossolano. Ancora violenza carnale e atti di libidine! Ancora delitti contro la morale pubblica! E non contro la persona, e la libertà sessuale. Nel 1989. Assurdo! Un’assurdità per le femministe, sia chiaro. Perché, per Rocco prima e altri poi, le distinzioni avevano un senso. Un conto è la penetrazione vera e propria. E che diamine, quella sì, puoi chiamarla stupro! Dipende poi dove. Se davanti o dietro. A stabilirlo, giudici e ausiliari vari. La distinzione era doverosa. Nel graduare, si controllavano anche vari status della violata. Se fosse vergine oppure no, prima. Se sposata oppure zitella, prima. Se minorenne, durante. O deficiente, prima, durante e dopo. Giusto, l’impianto era costruito a baluardo di morale e buoncostume. E per difendere la Famiglia, caposaldo e palestra insieme di moralità e buoncostume, in Italia. Famiglia dove, da che mondo è mondo, più o meno allegramente si stuprava e si incestuava. Anche se non è 46 corretto, l’ultimo verbo si è fatto carne, in senso stretto. Soprattutto in Italia, Patria della Famiglia. Già. la penetrazione si poteva chiamare stupro. Gli atti di libidine sono ben altro, vuoi mettere? Anche se un lontano parente ti fa fare i pompini chiusa in uno sgabuzzino buio, con la testa ferma tra le mani. Anche se lo fa da anni e anni, da quando tu ne avevi 12, di anni. E anche fino a quando, dal benedetto 1975 in Italia, sei diventata finalmente maggiorenne anche tu, a 18 anni. E quello ancora continua coi pompini. Avrebbe continuato dopo, anche con i tuoi 21 anni, quelli necessari per diventare maggiorenne in Italia prima del benedetto 1975. Per la precisione, prima di una legge varata il giorno 8 marzo del 1975. Che bel regalo ambosesso, finalmente… Con te che nel frattempo hai perso la voglia di diventare qualsiasi cosa. Che non mangi più nulla. Perché ogni cosa porti alla bocca ti fa pensare solo una cosa. Con te che prima dei 21 anni, non si sa com’è, per la prima volta nella vita trovi la forza di fare una cosa da sola. La prima e l’unica, perché ci sei riuscita. Con te che l’hai fatta finita. Beh, vuoi mettere? Sì, lo stupro era un’altra cosa… Non dobbiamo usare sessuale. Sessualità è un’altra cosa! Chiamiamola violenza sessuata e facciamola finita! Che lusso! Nella riunione dove Franca e Letizia si ritrovarono sedute accanto, l’oratrice era una femminista doc. Nel 1978 aveva fatto parte di una formazione femminista che più femminista non si può. Che aveva deciso di unirsi ad altra formazione nell’intraprendere la battaglia per modificare il Codice Rocco, in Italia. A quel tempo la seconda formazione si occupava molto delle donne, queste poverette. Di lavoro, asili nido, pensioni. Diritti giusti, per carità. Ma anche in Italia era scoppiata la voglia di liberazione, poco prima del benedetto 1975, quando una donna sposata non aveva gli stessi diritti di un uomo sposato. In Italia. 47 Anche le donne della seconda formazione iniziarono a parlare di sesso e di violenze. O di solo sesso, perfino. Franca lo ricordò sorridendo. Sapeva di un Questionario sulla Sessualità. Frutto di un’indagine portata avanti dalle donne della seconda formazione. Una compagna di Ferrara aveva recapitato a Roma i risultati. Tutto con garanzia di anonimato, ma ricerca ordinata ed esauriente. Per capirsi, produzione emiliano-romagnola. Per dire, alla domanda hai mai provato l’orgasmo? un’ex mondina aveva risposto tanto tempo fa, una volta, in bicicletta. Nei primi ani 70 anche le donne della seconda formazione parteciparono a manifestazioni colorate con le gonnellone a fiori, dove si urlava a squarciagola e le mani in alto a formare il segno della vagina. E quella volta lì, non era il 1973? Quando Jane Fonda si trovava a passare da Roma e s’infilò in un corteo? Per l’occasione, perfino la TV di Stato democristiana manderà in onda un servizio sulle scalmanate. E Italia intera capirà tre cose, finalmente. Che le femministe urlavano alle finestre semichiuse ‘vieni giù, vieni giù, scendi in piazza pure tu!’. Che le femministe bruciavano i reggiseni in piazza. E che le femministe erano contro la famiglia. Non s’è mai saputa l’origine di questa bufala in Italia. La seconda era una vera bufala. Ma ha avuto lunga vita, con altre bufale. I reggiseni forse erano diventati un simbolo di costrizione? Un emblema degli accessori di cui le donne dovevano liberarsi, anche in Italia? Che dire, i reggiseni svolgevano egregiamente la loro funzione nei favolosi anni 70, se avevi la quarta di misura e il petto ti ballava a cento all’ora, mentre scappavi dalle grinfie di un celerino molto celere, o forse solo arrapato. Le parole della femminista doc avevano ricevuto un plauso convinto, anche da parte di Letizia e Franca. Era una che di sesso aveva scritto e parlato, tanto. Una che ci sapeva fare con le parole. Ma intervenne un’altra. Lì ancora non decidono una riforma e noi qui a fare il 48 pelo e il contropelo alle parole? E chiamatela come vi pare, è sempre violenza! Ora a intervenire era una compagna cui non importava nulla se la chiamavano femminista o comunista. Era solo una che andava al sodo ogni volta. Una che a barricate, barricate vere, aveva partecipato molte volte. Sempre pronta per ogni occasione. A Mirafiori come davanti al Ministero della Pubblica Istruzione. Che a quel tempo aveva ancora l’aggettivo pubblica, dentro. La compagna faceva parte della seconda formazione e strappò gli applausi anche lei. Dalle stesse che avevano applaudito prima. In riunioni del genere poteva capitare. Accadeva anche altro. Anche prima. Sempre in Italia. Per dirne una, Franca e Letizia, per motivi differenti, negli anni 60 e 70 non avrebbero saputo da dove iniziare per intavolare una discussione come si deve sulla famiglia, in Italia. Per arrivare a una proposta di riforma del Diritto di Famiglia come si deve, sempre in Italia. Franca era una zitella già insegnante di ruolo di storia e geografia alle inferiori. Dopo un corso abilitante, insegnerà storia e filosofia alle superiori. Letizia era solo la quasi vedova allegra di un compagno sindacalista. Quasi perché non ancora sposata ma in procinto, questione di giorni. Allegra perché sempre allegra. Ed entrambe, non solo partecipavano alle riunioni con a tema la Famiglia, il bello era che intervenivano! E tanto. Non solo le donne come Franca. E ovviamente Letizia. Qualcosa di simile capita anche oggi, a volte, In Italia. Andiamo al bar vicino al Pantheon? Fanno un caffè che è una squisitezza! La riunione era finita e Letizia parlò senza guardarla. Non era imbarazzata. Figuriamoci, imbarazzata Letizia! Solo, si guardava in giro preoccupata di non ritrovare le sue cose sparse sulle sedie intorno. Blocco appunti, borsa, ombrello, sciarpa e giacca. C’è tutto. Anche Franca ostentò un’aria trafelata. Però, sono 49 ancora le sette. Volentieri, andiamo. Non rientrerò tardi. Sai, ho promesso gnocchi per cena! Aveva parlato col tono inconfondibile di certe casalinghe. In Italia. Al centro di un quadrivio perfetto, tra il rassegnato, il materno, l’efficiente e il compiaciuto. Letizia la guardò stupita, inclinando leggermente la testa. Sei sposata tu? Hai figli? Per Giove abulico, non l’avrei detto! Franca diventò rossa come un peperone, la sua metafora preferita. Poi si schermì. No, non sono sposata. Cioè… No, non sono sposata. E lì si bloccò. Al bar vicino al Pantheon ci riprovò. Riuscendo a imbastire un racconto come si deve sulla propria vita. Prima e dopo l’incontro con Doriana. Soprattutto dopo. A sentirla , la sua relazione con Doriana, e con altre intorno citate en passant, quel rapporto lì sembrava una famiglia. Seduta stante, Letizia fece di Franca una di famiglia. Solo nel 1996 Italia varerà finalmente una legge dove la violenza sessuale è delitto contro la persona. A 18 anni esatti da una raccolta di firme femministe unite. Un bell’esame di maturità. In Parlamento la chiameranno trasversalità. La riforma abolirà sulla carta alcune distinzioni. E innalzerà le pene. L’incombenza di graduare la gravità di fatti e misfatti e, per conseguenza, pene, sarà lasciata ai giudici. Per l’ennesima volta. Ci sarà anche chi arriverà a pensare una naturalissima assurdità, senza dirla. Rocco aveva le idee chiare sul punto! Il Patriarcato quando è forte ha sempre le idee più chiare. Un conto è la penetrazione e un conto è altro. Adesso, saranno i giudici a dovercisi raccapezzare. E in fondo, una differenza c’è, vuoi mettere? Sì, il Patriarcato quando è forte ha sempre le idee più chiare. Altre donne, a metà anni 90, in Italia scriveranno che il Patriarcato era finito. Morto. Addirittura. 50 Nel frattempo, le femministe in Italia si erano portate avanti, non solo con le parole. Purtroppo, si erano spaccate al loro interno. Anche sulla violenza. Anche tra le giuriste. Tra chi voleva la procedibilità d’ufficio per un reato tanto orrendo, al pari di ogni altro delitto. Solo certi furtarelli o lesioni lievi o calunnie possono continuare a essere roba da querela! E chi invece voleva la procedibilità a querela sempre per lo stupro, sempre. Per rispettare l’autonomia di giudizio della donna, prima di altre emergenze. Sempre! Perché la violenza contro le donne non è un delitto come gli altri! Non puoi trattarla con lo stesso metro, non puoi applicarle le misure di giudizio del Diritto. Figlio anche lui di un Patriarcato, in fondo! Le divisioni saranno laceranti. Molte più di due. Come in ogni diatriba femminista erano incluse le sfumature. Dagli anni 80, infine, alcune donne stufe di aspettare leggi in Italia apriranno Centri chiamati Antiviolenza. O di Ascolto. O di Rifugio per Donne Maltrattate. Centri che saranno autonomi fino a quando in Parlamento si penserà che potevano anche giovare allo Stato. E si potevano finanziare. Centri che, anni dopo, perderanno finanziamenti. In qualche caso, anche la pazienza. Ma in ogni caso saranno tutti luoghi dove, senza distinzione di latitudine, si scoprirà che la violenza prima, la più diffusa, la più nascosta, la più atroce, un universo intero di atti atroci che non ti spediscono in Chiesa con ritorno - come vorrebbe un ritornello vaticano - ma in Ospedale oppure direttamente al Cimitero, era la Violenza in Casa. Altrimenti detta Violenza in Famiglia. O meglio, come diranno sociologhe esperte nel ramo, il Fenomeno delle Violenze Familiari. Amen. 51 Quattro Fontane Viola aveva conosciuto Alma nel suo studio. Studio che non era solo suo, ma di altre due e una delle due era amica di Viola. Studio che non era una galleria d’arte, ma ci assomigliava. Studio che non aveva molta luce naturale, questo sì. Anche di giorno era acceso di molte luci. Scelte con cura, in qualità e posizione. Il neon no, non va bene. Studio in pieno centro a Roma, in via delle Quattro Fontane. A un tiro di schioppo dalla Galleria Nazionale di Arte Antica di Palazzo Barberini. Solo che, per tirar fuori alcunché da lì, anche senza schioppo, fosse pure un semplice sguardo, dovevi arrivare a una delle grate a livello del soffitto. Perché lo studio non era altro che un enorme scantinato. Affittato a poco dal negoziante di ottica sopra la testa. Il quale non sapeva che farsene, dopotutto. Le tre amiche lo chiamavano Galleria perché costituito da un unico locale lungo e alto, con la volta a botte. Gli aggeggi contro l’umidità erano sempre in funzione. Funzionavano anche molto bene. Venivano spenti solo durante le visite. Oppure se il loro ronzio fastidiava le orecchie alle artiste. Alma non li sentiva mai. Lei non era sorda. Solo molto concentrata, quando dipingeva. Non solo quando dipingeva. Fuori da ogni stereotipo immaginabile sulla vita di un’artista, Alma era una persona precisa, ordinata, sempre puntuale. Simpatica e gioviale senza strafare. Una dalla vita semplice, all’apparenza. Invece viveva sempre sull’orlo di una crisi. Ma non l’avresti detto. Anche perché, in un modo o nell’altro, la crisi non arrivava. Per fortuna. Qualcosa che non era una crisi, ma ci andò vicino, le piombò addosso come un uragano, da dove meno se l’aspettava. O forse l’aspettava? 52 Alma era anche sposata a un medico, da quasi 10 anni. Un chirurgo plastico. Alma aveva poi un figlio di 9 anni. All’esterno, una vita alquanto agiata. E molte amicizie. Di quelle che amicizie vere non sono mai. Amica sua vera divenne solo Viola. Viola appassionata d’arte e di donne artiste. Viola con la sua aura di bellezza costante. Inconfondibile. Vorrei farti un ritratto, posso? Lei dipingeva solo Madonne, da qualche tempo. Non le chiamava così. Ma quello sembravano. Anche se non erano quasi mai Madonne sole sulle tele. La richiesta era uscita dalla sua bocca quasi senza controllo. Lei che controllata era sempre. E precisa, ordinata, puntuale. Viola aveva sorriso. Certo che sì. Ma cosa doveva fare? L’altra rispose con tranquillità al sorriso, e sorridendo. Niente, a parte stare ferma. E, dipende, venire qui anche ogni giorno, se puoi. Alma sapeva che Viola poteva. Non aveva un lavoro vero o altro con orario fisso a impedire. Durante le sedute le due donne parlavano. E tanto. Alma le parlerà di sé come con nessuna mai. Parlare non era d’impedimento all’arte. Domani arriva la ragazza di Lecce. È in gamba, frequenta l’Accademia di Belle Arti. Avrà poco più di vent’anni. Ha i capelli come una punk. Inorridiresti solo a guardarla. Ma penso che ti piacerà. Sotto la scorza, ha un certo non so che. A me è parsa la reincarnazione di un’amazzone. E… mi affascina. Sì, ti piacerà, vedrai. Fine giugno. Parole di Alma a Viola, mentre dipingeva. Il giorno dopo l’Amazzone reincarnata scese alla Termini con uno zaino sdrucito. E con i capelli… i capelli di un altro colore. Il suo originale, di un castano scuro con sfumature dal rame al mogano. Più mogano che rame. Uma si era stancata di stare appresso ai lavaggi colorati in casa. E di circolare col terzo colore di una bandiera in testa. Si guardava intorno per capire dove cavolo fosse la fermata del 64. Intanto ripensava al motivo vero. Ora 53 vediamo se la signora continua a guardare solo capelli e bocca, bocca e capelli e basta. Qualche giorno prima aveva composto il numero scritto da Alma sul palmo della sua mano sinistra, accanto a un indirizzo. E parlato come una che ci ha pensato all’ultimo momento. Salve, signora Alma. Vengo a Roma per una settimana. A trovare un amico. Forse, potrei visitare questa Galleria. Come? Sì. No. Abita sulla Prenestina. Arrivò col treno della notte che parte da Lecce alle 10 di sera e ti sforna a Roma alle 6 di mattina. Quello che, se non prendi un vagone letto o una cuccetta, ti ritrovi con le ossa rotte, come minimo. Rimbambita dalle tante frenate e ripartenze. Se non stai con gli occhi aperti, anche senza portafogli. Uma non usava portafogli. Aveva soldi e documento in una bustina trasparente, la bustina nelle mutande, le mutande sotto i pantaloni, lo zaino sotto la testa e dormì alla grande. L’amico era un universitario fuorisede. Con una stanza per sé appena. Ok, vieni - le aveva detto - ci arrangiamo. Sulla Prenestina, dove? Oh, mia cara! Ma è praticamente fuori Roma! Alma nella telefonata era stata perentoria. Le avrebbe prenotato una pensione. Ok, un albergo no. Ok, che non costi molto. Però sarebbe stata sua ospite. A trovare l’amico ci sarebbe andata lo stesso. Ma sarai mia ospite, non si discute. I tuoi mosaici sono stupendi, Uma! L’albergo che doveva essere una pensione si trovava dalle parti di Largo Argentina. Uma saltò giù dal 64 con un indirizzo stampato nella mente, a furia di mandarlo a mente. Arrivò in un posto con un tot di stelle. Un tipo alto e lungo in completo bordeaux profilato nero la squadrò dalla testa ai piedi, soffermandosi a lungo sullo zaino. Dopo di che, sospirò e stop. Sì, il nome è questo. Prego. La camera aveva il letto a baldacchino. E anche tre poltrone e una scrivania. Profumava di sole e di pulito. Mi hai sistemata proprio bene, signora Alma! 54 Ci pensò su un attimo e chiamò l’amico dal telefono in camera. In pratica, lo svegliò. Non erano neanche le otto di mattina. Parlava guardandosi intorno. Carlo, senti. Volevo dirti che forse non ci vediamo. No. Sì, sono arrivata ora. Ma penso che sarò molto presa da questa Galleria. E te lo volevo dire subito. Ciao, adesso devo proprio scappare! Ma vedi di andare a… La parolaccia di Carlo si perse nella cornetta, Uma sorrise e buttò giù. Niente di grave, le voleva bene. Non la stava mandando al diavolo sul serio. E neanche nel posto della parolaccia. Era il loro modo di dirsi le cose. E la voce di Carlo sembrava anche sollevata. Già, la signora proprio bene l’aveva sistemata! Dovrò sistemare quattro cose anch’io, si disse. Iniziamo da me. Dopo la doccia e il resto, la prima fu scendere nella hall che sembrava un’altra. Il tipo in bordeaux e nero sollevò lo sguardo e restò a bocca aperta. La seconda fu attraversare Corso Vittorio di corsa. Non sulle strisce pedonali. Aveva già visto sul lato opposto un grande negozio di fiori. Sta aprendo proprio ora. La terza fu l’acquisto di una pianta d’orchidea gigante. Orchidea gialla. Spese la metà dei soldi. La quarta decisione su faccende da sistemare, presa come le altre sotto la doccia, era un biglietto. Vorrei sapere una cosa, se possibile. Anzi, vorrei questo, di preciso. Dovrebbe arrivare alle ore 11.30 precise. È possibile? Precise, eh! Tutto è possibile, signorina. Pagando, s’intende. Era l’orario per visitare la Galleria. Voleva darle una lezione, per lo scherzo dell’albergo non pensione. Girellò nei dintorni. Una seconda colazione con i fiocchi. Nel senso che prese per la seconda volta un cappuccino e un bombolone con la panna. Comprò una cartina di Roma e fece un rapidissimo calcolo. Restò a guardare i gatti del Largo per una mezz’ora. Col cuore che già le batteva forte puntò verso via delle Quattro Fontane. Piazza Venezia. Via Nazionale. Sali. Scendi. Risali. Sì, Roma l’hanno costruita 55 proprio sui colli! Arrivata nei pressi, percorse la strada prima in discesa, poi in salita, poi di nuovo in discesa. Però, lunghe le Quattro Fontane! Le 10,30 precise. Riprese a camminare. Faceva caldo. Lieve stanchezza nelle gambe. Un caffè in ghiaccio è l’unica. Bar in via Venti Settembre. Seduta? No, in piedi. No, non lo voglio shakerato. Senta, un caffè normale! Le 11. Via Quattro Fontane. Ormai la conosceva a memoria. Si fermò davanti a una villa enorme con un giardino enorme. Cancello aperto, ottima postazione. Vide arrivare, rallentare e fermarsi un motorino. Flora Express scritto sulle spalle di una tuta blu. E sulla cassetta del motorino. Blu la cassetta. Giallo il motorino. Gialle le scritte. Dentro la tuta, una ragazza alta e bionda. Quando Uma la vide suonare, s’acquattò. Se viene qualcuno chissà se ci crede, sempre che glielo dica. Però immaginava già i titoli: ragazza magnifica in abito verde chiaro, sorpresa da custode a spiare villa monumentale, dichiara ‘son qui che aspetto la donna della mia vita, le ho mandato un’orchidea, speriamo bene’. Il portone si aprì, ma lei non vide nessuno. Entrò la ragazza in blu che poco dopo uscì, inforcò il motorino e ripartì. E che t’aspettavi, scema? Che la signora si facesse avanti in bella vista sull’uscio di casa? Per mostrarsi in tutto il suo splendore da te che stai qua nascosta come una ladra? Si mandò al diavolo da sola. Le capitava spesso. S’alzò rassettando il vestito verde acqua e cercando di assumere l’aria di una che, se ha deciso di restare là, forse è smemorata, forse si è persa, ma una ladra proprio no. Restò nei pressi del cancello cinque minuti buoni, che le parvero molto lunghi. Troppo lunghi. Guardava in continuazione l’orologio giallo brillante, regalo bostoniano di zia Emma mai indossato. Lei non amava gli orologi, come ogni cosa che si muove restando ferma. Però, è venuta bene! Compiaciuta, occhieggiava il 56 risultato della depilazione, evento straordinario già in sé. Compiaciuta e distratta. Al punto da non accorgersi quasi del portone che con un altro scatto secco si apriva. Di nuovo. È lei! Uma volò via dal nascondiglio. Appena uno sguardo al traffico di auto e gente intorno. Urlò solo tre parole nel bel mezzo della strada. Aspetta! Non chiudere! Una Mercedes bianca proveniente dalla sua destra inchiodò a pochi centimetri da gambe perfettamente depilate. Alma voltò la testa verso la sua voce e impietrì davanti alla scena. Il conducente scese dall’auto infuriato, con Uma che neppure lo guardò e raggiunse con altri due balzi il marciapiede. La sospinse dentro. Il portone si richiuse con un altro scatto. Uma aveva l’affanno. Poggiate appena le spalle sulla parte interna del portone massiccio, con le braccia in avanti teneva ferma Alma. E toccava Alma. Che riuscì a dire solo ma sei pazza? Mi hai fatto prendere… E perché hai scritto sul biglietto che non venivi più? E cosa hai fatto ai capelli? Lei continuava a tenerla ferma. Lontana. E a toccarla. Lievemente. Con le mani che le tremavano. Senza una parola. Sempre con l’affanno. Sputava fuori l’aria e non parlava. Quando le sue mani smisero di tremare, l’attirò a sé. L’abbracciò. Poi si lasciò abbracciare. Un abbraccio lungo. L’affanno passò. Lasciando il posto a un bacio. Lungo. Come Uma non avrebbe mai pensato. Lungo. Le loro labbra con semplicità si erano fuse dopo l’abbraccio. Senza uno sguardo, prima. Accadde in un attimo. Lungo. Nessuna delle due aveva fatto nulla da sola. Nulla di classificabile come la prima mossa, prima. Si baciarono e basta. A lungo. Poi Alma disse soltanto tre parole. Andiamo dentro, meglio. Una volta dentro, ci resteranno per un paio d’ore. Senza una parola. A luci spente. Spento anche il deumidificatore. 57 L’amore con le Madonne Devo andare. Ti amo. Le prime parole di Alma, dopo. Con la testa di Uma tra le mani, a pochi centimetri dalla sua, occhi negli occhi. E due baci sugli occhi verdi di Uma, tra ‘devo andare’ e ‘ti amo’. Le sue prime parole dopo il ‘meglio’ detto in un portone, un secolo prima. In mezzo, due ore di gesti e pensieri. Prima lenti. E frettolosi. E ancora lenti. Poi convulsi. E delicati. Poi rabbiosi. Poi di nuovo lenti. E sudati. E delicati. E violenti. E sapienti. E sconosciuti. Di una sapienza nuova e antica. L’unico atto non compiuto all’unisono fu pensare, per due ore. Ma non pensarono molto. Nessuna delle due pensò molto. Forse Alma. Prima e dopo. Due corpi in azione e, in mezzo, solo passione. Pura. Dura. Nuda. Uma non aveva visto nulla dello studio, una volta dentro. Buio era già abbastanza buio. E Alma cliccò subito su un tot di pulsanti. Quattro tende schermarono all’istante le quattro scacchiere delle quattro grate del seminterrato. al quale, col capo insù, vedresti solo porzioni di gambe passanti. Da fuori, invece, con le luci accese dentro, potresti gustare un’anteprima d’arte, mettendoci l’intenzione. In contemporanea, si spensero tutti i deumidificatori. La seconda azione di Alma fu lasciare borsa e giacca su una sedia. Delicatamente. La terza e le altre, per due ore, con Uma, all’unisono. Sulle prime Alma era quasi arrabbiata. Poi confusa. Poi fusa. Non riusciva a staccarsi da Uma. E Uma da lei. Non è che non riuscissero. Non ci pensarono proprio. Alma, dopo aver posato borsa e giacca, le tenne per un po’ la testa tra le mani. Le baciò la bocca e gli occhi. Poi i capelli. E di nuovo la bocca. Il naso. Gli occhi. Il lobo 58 dell’orecchio destro. Poi il sinistro, sul quale indugiò a succhiarlo. Poi di nuovo i capelli. Sorrideva di un sorriso simile al pianto. Con gli occhi accesi. Dopo averle baciato per l’ennesima volta i capelli la guardò, interrogativa. Uma sorrise picchiettando l’indice destro sulla propria clavicola destra, per tre volte. A dire questa è tutta roba mia, autentica! Lei era già nuda. Non solo di clavicola. Il vestito di cotone verde chiaro aveva preso un volo velocissimo. Preceduto dalla cartina e seguito dagli slip. Verdini anche loro. Lei usava raramente il reggiseno. E borse solo in casi di estrema necessità. Aveva lasciato una parte dei soldi in albergo e con sé lo stretto necessario per la mattina. Il poco resto dello stretto necessario era per terra, fuoriuscito dalla cartina. L’unico oggetto addosso per due ore fu un orologio giallo. Ma non sapeva di averlo. E non lo guardò più. Alma impiegò più tempo, aveva una camicia con molti bottoni. E ordinata, precisa, delicata, la fece indossare a una tela intonsa posata su un cavalletto. Lo stesso con la gonna. E le scarpe, sotto. Con cura. Il tutto sembrò animarsi, testimone manichino. Alma però spogliò se stessa senza distogliere mai lo sguardo dall’altra. E nuda la raggiunse. Un passo appena. A piedi nudi. Le prese ancora una volta la testa tra le mani. La guardava, scuoteva leggermente il capo, sorrideva. Nel frattempo, pensava. Matta. Sei una matta. E io di più. Che sto facendo? E ancora baci. Che stiamo facendo? E pelle. Baci a pelle. Devo andare. Un altro bacio. Mi guarda. Vieni. Mi sta implorando? E baci. E pelle. È tardi! I profumi della pelle. Una sola pelle. Due profumi. E ancora profumi. Sconosciuti. Chi è? La sua pelle. Non voglio andare via. Non vado più via. Tienimi qui. Ti tengo qui. Cascasse il mondo resto qui! Dovessi morire ora, muoio così. Entrami dentro! Sono già dentro. Dammi la mano. Tieni la mia mano. Tienimi dentro! Tu sei già dentro. 59 Il traffico fuori scandiva il loro silenzio. Dentro due respiri. Traffico. La strada. La macchina. Potevo perderti. E non sapevo che eri mia. Vieni, testa matta. Vienimi dentro. La testa di Uma tra le mani di Alma. Non andare via. Le mani di Alma sulla propria testa. Che sto facendo? Sorride. Voglio farlo fino all’eternità. Tu non fermarti ora. Dovrebbero venire con una ruspa a tirarmi via. E non ci riuscirebbero lo stesso. Dio, quant’è bello il sesso! Questi e pochi altri similari furono i pensieri. Madonna mia, quante Madonne! Abbiamo fatto l’amore con le Madonne! Le prime parole di Uma, dopo. Guardandosi attorno. I suoi occhi si erano abituati alla semioscurità, ma i dettagli a una certa distanza dal proprio corpo si chiarirono solo quando l’altra, rivestita di tutto punto, fece scattare con un clic la tenda di una delle grate, la più lontana. Alma sorrise e si chinò sulla pianta per sfiorare con le labbra un’orchidea, lo sguardo su Uma. Proprio con le Madonne direi di no! Con le Madonne intorno, nel caso. Comunque non sono Madonne. Non di quelle lì. Poi ti dico. Resta qui. Torno tra pochissimo. Ora devo scappare. Alma…!? Sì? Niente, ti amo anch’io. 60 La festa alla cultura Dovremmo essere tutte come lei! Doriana, in un semicerchio con altre cinque, col solito gesto della mano in mezzo, aveva usato queste parole per porre fine a un chiacchiericcio che la infastidiva dall’inizio. In mano aveva un bicchiere di cristallo purissimo, identico agli altri circolanti per la casa. Sembrò un brindisi, ma non lo era. Lo fece guardando verso la parte opposta della sala. Dove Uma era apparentemente intenta a dialogare con la gatta della casa, un affare enorme di peli e sfumature. Placida e regale, una. Apparentemente intenta, l’altra. Erano passate due settimane dal primo appuntamento di in via Quattro Fontane. Il tipo in bordeaux e nero restò di stucco per la seconda volta quando Uma lasciò l’albergo la sera stessa dell’arrivo. La camera non mi piace, i mobili sono scuri e il bidet perde, dal rubinetto dell’acqua calda. La saluto! Quasi di stucco. Era uno abituato a tutto. Alma aveva chiamato Viola. Che ne parlò con Letizia. Che pensò di chiamare Franca. Che lo disse subito a Doriana. Che lo riferì a Paola. Penso di sì, ci dovrebbe essere posto. Uma andrà così nell’albergo vicino Campo dei Fiori. La camera era più piccola, ma molto più invitante. Almeno per Uma, solo più invitante. Il motivo per il quale Alma le aveva chiesto di trasferirsi era un altro. Sono stata un’idiota. Ma non potevo… Lì mi conoscono. E conoscono mio marito. Sono sposata, Uma. E ho un figlio. Ha 9 anni. Si chiama Gabriele. Gabriele è il nome di mio figlio. Alma aveva il dono della sintesi, tra i tanti. Uma ne aveva altri e si aggrappò all’ironia per non 61 cadere lunga distesa in mezzo alle Madonne. Nessuna è perfetta, cosa devo fare? Nell’albergo che forse era stato un albergo a ore Alma e Uma passarono ore e ore a far l’amore. Per giorni e giorni. Di giorno. Di notte Uma ci dormiva. Da sola. Ma non dormiva poi tanto. Girava per Roma di notte. Sola. Le piaceva. Le vennero le occhiaie e finì i soldi. Papà, sono al verde. Rientro tra una settimana. Ma devo tornarci, ho un colloquio importante qui, sono nel mercato romano dell’arte! Bugia presa in prestito dalle uniche certezze toccate in quei giorni, a parte il cielo con un dito. Il primo giorno Alma non le aveva detto altro. E lei non aveva chiesto altro. Quando Uma non faceva l’amore, se non dormiva o passeggiava, leggeva e guardava le figure. Spese il resto dei soldi in un negozio specializzato in arte. E comprato ogni testo possibile per le sue tasche. E giù, a imparare cose d’arte! Contemporanea. Anche nei giorni successivi, Alma evitò di fornirle notizie della sua vita fuori dalle Quattro Fontane. Ne diede solo una e fece benissimo a darla. Con la solita sintesi, ma subito. Per fortuna. E per la sana e robusta costituzione della fantasia di Uma. Con mio marito ci sfioriamo appena. A pranzo o a cena. E neanche sempre. Ma solo a pranzo o a cena, Uma. Non pronunciava mai il nome di questo mio marito. Per la precisione, Alma non lo dirà per più di un anno. A essere ancora più precise, fino alla sera del 13 dicembre 1990. Anzi, era di notte. E lì, lo dirà solo perché costretta dalle circostanze. Alma non le diceva altro. A Uma non serviva sapere altro. La notte del 14 luglio sarà l’unica dell’estate romana passata insieme nell’albergo che forse era stato un albergo a ore. Voglio svegliarmi con te, domani - le aveva detto Alma - voglio vedere l’alba del bicentenario con te. 62 A Uma del bicentenario non fregava un niente. Ma fu una notte di mezza estate che non ti bastano duecento anni per riviverla. Alla festa del 14 luglio, anche Alma e Viola guardavano Uma da lontano, nello stesso momento in cui Doriana aveva interrotto un chiacchiericcio. Le due amiche erano sedute accanto, su un divano antico. Rosa antico. In disparte. In giro per la sala una decina di donne di età e umore variabili. Tutte con i colori della Rivoluzione Francese addosso. La scelta più semplice e fine era stata di Viola, come sempre. Optò per una spilla, una sorta di piccola coccarda. Per il resto, l’attico di piazza Adriana era un tripudio di blu, bianchi e rossi. Anche differenti tra loro. E con sfumature che, in qualche caso, se accostate, stonavano lievemente. Nell’insieme però la festa aveva un incedere armonioso. Nulla di rivoluzionario, solo una festa alla memoria. Profumata, intellettuale. E ricca. Letizia convinse anche le cuoche. Col domestico indiano dovette faticare di più, ma alla fine ogni cosa sarà come l’aveva desiderata. Tutte più uno con i tre colori addosso. In sala, tutte con qualcosa tra le mani. Chi un bicchiere di cristallo, chi una minuscola tartina. Letizia circolava da un gruppo all’altro come una matrona, però leggera. Gli occhi sempre attenti e vispi. Raggiante. Franca provò una volta sola a cercare la cucina per vedere se poteva rendersi utile. Trovò le cuoche che gentilmente la spedirono fuori dal loro regno. Il domestico le indicò la strada del ritorno. Questa casa è veramente enorme, ti ci perdi! Avrò perso la testa? Però credo di amarla, Viola. Non sto scherzando. E per la prima volta in vita mia non guardo alle conseguenze. Solo un pensiero mi fa tremare. Quando ci penso. Lei mi amerà veramente? Alma era splendida. L’emozione vitale, inebriante per 63 quel nuovo amore, nei fatti il primo amore della sua vita, dava al suo corpo un’energia e una luce rinnovate, cariche di promesse. Non ti ho mai vista così, replicò l’amica. E hai ripreso a dipingere. Non conosco un amore come questo. E certamente non sono nella testa di Uma. Che però si fa ogni giorno più interessante. Meglio non aver visto la versione punk, amica mia! Ma avevi ragione. È un’amazzone. Selvatica, come ogni buona amazzone. E, se è il suo amore a dare il contributo, la amo anch’io. Viola guardava Uma da lontano e parlava ad Alma, da vicino. Sottovoce. E proseguì, sempre sottovoce. A parte questo, non posso darti consigli. Poi lo sai, sono parte molto interessata. Ti rinnovo la proposta, per quando vorrai, per quando sarai pronta. Appena la situazione sarà più tranquilla. Va già meglio, vero? Vedrai, tutto si sistemerà e avrai la felicità che meriti. Sono sempre disponibile per la mostra. Non a Roma, se qui proprio non vuoi esporre. Magari, Milano… Alma si limitò a sorridere e a stringere lievemente le spalle, portando alle labbra un bicchiere di cristallo. All’altro capo della sala, Ilaria era colei che aveva dato la stura al chiacchiericcio. Anche lei con un bicchiere in mano. Nonostante l’avventura fresca con Paola, i suoi alibi a prova di bomba e l’eleganza di sempre, aveva sfornato delle frasi fatte, incartate alla meglio. Gianduiotti sfatti. Le sembrava inconcepibile che un esserino così giovane e, diciamolo, anche un po’ ignorante, potesse essere l’amore della vita di una donna come Alma! Suvvia, non scherziamo. Sarà un capriccio da artista! Paola aveva fatto spallucce, ma sentenziato anche lei. Non dura un mese! Non è l’ignoranza, né l’età. Anche se non si discute. Sulla differenza d’età, E, sì, anche sull’ignoranza. Ma alla seconda c’è sempre rimedio. Solo, ho la netta sensazione che la farà soffrire. E sto male se ci 64 penso. Altre due avevano rinforzato le chiacchiere, eleggendosi parte integrante della giuria popolare. D’alto bordo, ma sempre giudicante. Altamente giudicante, con sfumature molte e disparate. Più dispari dei colori circolanti. La nota che accomunava tutte nel verdetto era l’ignoranza di Uma. Doriana non ci vide più. Già Ilaria le stava sullo stomaco, col suo fare perfettino. Ora ci si metteva anche Paola. Non credeva alle proprie orecchie. Poi un’altra. E un’altra ancora. Basta! pensò, quando è troppo è troppo. Parlò ruotando lo sguardo su tutte, ma soffermandosi su Paola. A me piace. Quanto dura? E chi può dirlo? Di te lo puoi dire, forse? Sull’età, non sarebbe la prima volta. Ma scusate, perché non vi meravigliate così tanto se un uomo di cinquanta se la fa con una di trenta? Senza essere per forza pappone e prostituta? Perché ci può essere amore vero lì e qui invece gridate allo scandalo? Ché, se non sbaglio, ci sarà sì e no una decina d’anni di differenza? E tu, perché dici che sarà lei a far soffrire Alma? Potrebbe essere l’esatto contrario! Sempre per l’età? O perché la vedi con la sua aria libera? E voi, perché non è come voi? Perché porta scritto in fronte che, se vuole, può fare tutto? Però decide lei se e quando volere? Pensate forse che andrà nella prima discoteca utile a fare conquiste e vacanze romane? Siete più borghesi nel cervello di quanto avrei immaginato! Sull’ignoranza, poi, vi dico come la penso. In poche parole, ma in fila. Dovremmo essere come lei! La cultura…! Pensate piuttosto a liberarvene, signore care! La cultura. Ma fatemi il piacere! Sull’ultima battuta alla Totò, Doriana sollevò più in alto il calice in un gesto che da lontano poteva sembrare un brindisi caloroso e le lasciò lì, con i bicchieri in mano, sbalordite. Pronte quasi al pentimento. E se ne andò. Da un’altra parte. A sedere. 65 Per Paola fu uno choc. Non tanto perché era stata Doriana a parlare, evenienza che da sola stava portando le altre a un repentino quanto ambiguo ripensamento. Era la passione con cui l’amica aveva parlato. Se vuole può fare tutto. Morsa allo stomaco, a quelle parole. Per un istante, Paola rivide un tempo e un luogo dove aveva assaporato, inebriata, l’idea che tutto fosse possibile. Durò un attimo. Acuto, atroce. Per fortuna, passò. Letizia arrivò nei pressi dei bicchieri in aria o quasi vuoti. Si disinteressò dell’argomento sul quale le altre avevano ripreso a ricamare. Prelevò Paola e Ilaria, portandole sottobraccio al centro della sala. Ragazze, evviva tutte le Rivoluzioni! Evviva il 1989! Abbattiamo tutti i muri. E avanti con la musica! 66 Famiglie e compagnie Mia madre non sta bene. Non sarebbe comunque una pacchia. Tu perché non vai a Vicenza? Con le amiche ci ritroveremo a Pasqua. Paola mi ha detto di un posto all’Abetone. Doriana parlava a Franca. Con grande anticipo, le aveva detto di voler passare il Natale con i suoi. E da sola. Partirà anche prima del previsto. Riuscendo a strappare due settimane di ferie arretrate al punto giusto. A Franca non parve vero, ma fece finta di niente. Anzi, si mostrò un pochetto dispiaciuta. Non vedeva i parenti da una vita. Sarebbe stato il suo primo Natale a Vicenza dopo molto tempo. I suoi genitori erano morti già da anni. Le mancavano soprattutto la sorella e le nipoti. Le aveva abbracciate un anno prima, venute a Roma in visita pasquale guidata. Ma a lei sembrava un secolo. La sorella di Franca, Marta, era una fan di Papa Giovanni Paolo II. E con lei le figlie. L’intero suo parentado era molto cattolico. Aveva anche una zia suora di clausura. Da quando lei viveva a Roma aveva smesso di andare in Chiesa. A messa non ci andava volentieri neanche prima. Però a Vicenza sì. Non poteva una cosa tanto tremenda a Vicenza! A dirla tutta, lì non ne avrebbe potute anche altre. Che a Roma le si erano schiuse, finalmente. Anni prima. Negli ultimi tempi Franca andava di rado nella città d’origine. Non è che avesse grandi difficoltà a spostarsi. Il lavoro a scuola le consentiva ferie e accessori vari che Doriana invece doveva sudare per avere, in banca. Ma, da quando vivevano insieme, 12 anni circa, le visite di Franca ai parenti erano sempre più sporadiche. E le poche volte che ci andava era da sola. 67 I parenti sapevano poco o nulla della sua vita privata. Il poco che sapevano non lo sapevano da lei. Facevano tutti finta. Per prima lei. Per le nipoti era la zia professoressa che sta a Roma. Che scrive articoli importanti sulla scuola, a Roma. E divide l’appartamento con un’amica, anche lei importante, a Roma. Le nipoti adorate erano le uniche parenti che Franca vedeva a Roma. Sempre accompagnate però dalla sorella/madre. Che non mandava mai le figlie da sole a trovare la zia. Anche da grandi. Soprattutto da grandi. Quando le tre venivano a trovare Franca, Doriana era sempre impegnata. Da mattina a sera. Solo una pizza insieme. Una volta sola, in 12 anni. Doriana non ne poteva più di pantomine familiari. Lei non era una da coming out spinto. Era anche abbastanza orso di carattere. Coming out, poi…! Figuriamoci. Negli anni 60 e ancora 70 e ancora 80 a Roma non circolava ancora traduzione autentica della locuzione, in ambienti comunisti. Ossia i luoghi collettivi che, col sindacato, Doriana frequentò molto negli anni 60. Luoghi ai quali si era aggiunta un’organizzazione di donne comuniste. E, solo dopo, un’associazione femminista. Niente di niente con la parola lesbica dentro. Nel titolo come nella sostanza. Doriana non chiacchierava molto. Né di se stessa né di altre. Odiava i pettegolezzi. Ma non amava neanche raccontar chiacchiere sulla propria vita. Lei a domanda rispondeva. Spesso, per le rime. In una riunione di Sezione - non ricordo più quando diede uno schiaffo al Segretario lanciatosi in una battuta fuori luogo. Mandandolo a sbattere sulla fotocopiatrice. Si seppe in giro. Da quel giorno, lei divenne quasi un mito. Il compagno Segretario, va detto, era uno stronzo parecchio stronzo, con tutte e tutti. Ma pensa un po’! Una studia da una vita. Lavora da una vita. Lotta da una vita. Scrive da una vita. E… diventa 68 famosa per lo schiaffo a un coglione! Doriana raccontava l’episodio, inclusi i commenti, a una giovane amica in treno. Il 9 dicembre del 1989. Battute a parte, famosa lo era diventata per davvero. Pian piano, in certi ambienti. Il suo rigore, la sua serietà, le sue battaglie, il suo impegno costante per i diritti sindacali erano noti e ampiamente riconosciuti. Quando poi si veniva a sapere delle sue origini, il quadro era completo. Tutto tornava. Un perfetto quadro comunista. Per donne e uomini. Il valore di Doriana non era riconosciuto solo tra le romane. Anzi, le donne, comuniste e non, femministe e non, furono in assoluto le seconde, dopo i compagni del sindacato. Le riconobbero qualità anche certe dirigenti che storcevano il naso su argomenti privati, appena sapevano. Ma non lo davano mai a vedere. Vuoi per la stima. Vuoi per una correttezza universale storicamente determinata a divenire, da comunista, emancipata e infine femminista. E infine perché intimamente convinte, una ad una, che Doriana non si sarebbe fermata davanti all’appartenenza di genere. Uno schiaffone sarebbe volato anche tra donne. Doriana a casa sua per Natale, anzi prima, senza dirlo a nessuna, andò in compagnia di una donna che nessun compagno sindacalista della prima ora avrebbe visto bene accanto a una come lei. Neanche le compagne e i compagni del Partito. Partito nel quale aveva smesso di mettere piede già da un pezzo, ma dove la conoscevano anche le più giovani, anche i più giovani. La stimavano molto. Sì, anche la meglio gioventù comunista avrebbe visto male assortita la coppia, anche solo come compagnia di viaggio. Per andare a casa sua, poi…! Decisamente, no. Neanche le compagne seriose di certe riunioni femministe. Diciamola tutta, neanche certe lesbiche con la puzza sotto il naso, intellettuali anzi che no. Forse. 69 Ma Doriana ci andò. Trovandosi in ottima compagnia. Perché non lo aveva detto a nessuno? Avrebbe avuto qualche problema a farlo, forse? Macché, il motivo era un altro e più che valido. Intanto, non attaccava in giro i manifesti con su scritto i fatti della propria vita privata. Poi, era stata una decisione improvvisa. Presa appena poche ore prima della partenza. Però, anche se lo sai da pochissimo, cosa ci vuole a dirlo alla tua compagna, con cui dividi vita e casa da 12 anni? Perché neanche a Franca? Perché… perché ora mi fa caldo. Quando torno, se esce fuori il discorso, nessun problema. Ma adesso mi fa caldo. Vado da mia madre e da mio fratello, come deciso e comunicato da tempo. In anticipo per motivi seri. E ci mancherebbe! In compagnia di chi, saranno fatti miei? Ah, prima o poi, sì, mi dovrò decidere a mandare al diavolo qualcuno! Doriana pensava tutto questo mentre preparava di corsa la valigia. Il pensiero finale era ricorrente. In genere, lei aveva presente il destinatario della mandata al diavolo, sempre con fattezze femminili collettive. Doriana usava dire qualcuno, al maschile. Come usava avvocato. Retaggi d’istruzione anni 40 e poi 50 e poi 60? Forse. Nel fare la valigia, poi, qualcosa la tratteneva per ragioni inconfessate dal riempire di sostanza piena quel qualcuno. Qualcosa con fattezze femminili. Forza, su! Ché parte il treno. 70 Tempi di guerra Per la Befana potrei andare a dare una mano nella tabaccheria? Parole di Uma a Doriana, sul finire del 1989. Prima, però, occorre andare indietro nel tempo. La mamma di Doriana aveva rilevato una tabaccheria, qualche anno dopo la guerra. Più che rilevato, ereditato. Dal fratello morto in un incidente. La tabaccheria era diventata nel tempo un emporio con dentro un po’ di tutto. Tipico dei paesini dove, per anni, saranno sconosciuti i supermercati. Aveva un’insegna bella, in caratteri coloniali. Resisteva ancora. Per tutte e tutti era La Tabaccheria. Sali E Tabacchi. Maiuscoli. Doriana, fin da piccola, non aveva molta voglia di starci dentro. Ma ci andava sempre, per dare una mano, dopo la scuola. Come il fratello. Nato un anno dopo di lei. Entrambi in piena guerra. La seconda mondiale. Flora aveva voluto la scuola per entrambi i suoi figli. Almeno fino alla media. Poi si vedrà. Il fratello iniziò la scuola per geometri. Non la finirà. Doriana invece era bravissima in matematica e proseguì gli studi al Tecnico Paolo Savi di Viterbo. Il fratello si occupava a tempo pieno del negozio, con la madre. Non si era mai sposato. Per quanto ne sapeva la sorella, non aveva mai avuto una fidanzata. Donne sì. Fidanzate mai. Lei si diplomò col massimo. Voleva studiare economia. Allo stesso tempo, rendersi del tutto indipendente. E andare a Roma. Un caro amico aveva un amico con un altro amico dirigente della filiale di una Banca a Roma. La madre sulle prime era restia, non le piacevano le raccomandazioni. Ma non era una raccomandazione come le altre. Intanto, il primo amico era un comunista. E fin dai primi giorni di apprendistato l’azienda si era convinta che Doriana sarebbe stata un ottimo acquisto, a prescindere. 71 Doriana sorrise dentro di sé – oh, se sorrise! - quando le chiesero di firmare un contratto con la clausola di nubilato. Ossia l’impegno a non sposarsi, dopo. Sorrise e però pensò anche altro. Firmo che non mi sposo, certo! E firmo che non avrò figli. La verità vera la tengo per me. All’orizzonte della sua vita non vi era nessun marito, fin dalla giovinezza. Ancor meno figli. Sono affari miei! Firmo, ma lo sapete quanto me che questa clausola fa schifo! Conosceva l’impiegata in un sindacato chiamato Fisac Cgil. Una compagna, si diceva allora. Nel sindacato entrerà anche lei. Che nella prima banca era entrata dalla porta principale. E dalla stessa porta uscirà qualche anno dopo per andare in un posto più ambito, la Banca d’Italia. Intanto, si era iscritta a Economia. Ogni finesettimana tornava a dare una mano nella tabaccheria. Ma studiava e studiava. E intanto lavorava. E intanto lottava. Studiava, lavorava e lottava. Una gran fatica. Condita da riunioni fumose in posti fumosi. Iniziò a fumare, lei che non aveva mai sfiorato un pacchetto di nazionali nel suo negozio. Riunioni su riunioni. E manifestazioni. E lotte sindacali. Che anni, gli anni sessanta! Tutte e tutti avranno benefici da nuove leggi, entrate in vigore dopo lotte senza quartiere che poche e pochi come lei avevano condotto. Lotte perché le donne fossero assunte in tutti gli uffici pubblici, come diceva l’art. 51 della Costituzione - questa novità è del 1963, cara mia! - e lotte contro i licenziamenti senza giusta causa. Lotte per la parità salariale. E certo, lotte per avere leggi che tutelassero di più le madri che lavoravano. E sì, anche lotte contro la clausola di nubilato. Rise largo Doriana, in treno, sospendendo il suo sintetico racconto alla compagna di viaggio. Ed è sempre il 9 dicembre del 1989. L’abolizione del divieto di sposarsi a me personalmente non sarebbe mai servita. Però, cosa c’entra? Certo che è da ridere! Quando mi assunsero la prima volta uno si premurò 72 di dirmi ‘stai attenta, se poi ti sposi commetti reato’. A me! Un reato! Ci dovrò scrivere su, un giorno o l’altro. E Doriana continuò a sorridere. Raccontando a Uma. Già! Perché a casa sua, dalla madre malata, senza dirlo neanche a Franca, lei aveva deciso che poteva andarci Uma. Lo aveva detto al volo. Se vuoi, puoi venire con me. Voleva andarci da sola, però con Uma forse sì. Forse, solo Uma. In ogni caso, non ci aveva pensato su tanto. E, in treno, riprese il suo racconto. Era stata la giovanissima madre a infondere in lei la voglia di emergere, essere indipendente e sempre fiera. Fin da piccola le diceva che doveva studiare, lavorare e mai dipendere da nessuno, neanche da un marito. Forse, all’inizio, sua madre avrebbe preferito un impiego più vicino. Magari in una scuola. O in un ufficio postale. Doriana non avrebbe fatto molta fatica a trovarlo. Era brava, ma c’era dell’altro. Altro da dire anche a Uma. Prima del loro arrivo. A parte i meriti, sarei passata davanti a tutti in graduatoria. Perché ero orfana di guerra. Un’orfana doc. Come certi vini buoni. Doriana decise quella battuta per aprire al ricordo di un padre morto in guerra. Morto Partigiano. Partito Alpino, a lui e tanti altri con lui capitò la sventura di essere comandati da chi ordinò di ammazzare partigiani, in Jugoslavia. Dopo, lui e pochi altri con lui entrarono in una Brigata, inquadrati di tutto punto in una Divisione Partigiana. Dove morì, babbo Vittorio. Per la Libertà. Poco dopo aver conosciuto, amato, sposato e messo incinta sua madre Flora. Che non era una partigiana. Ma solo una contadina di appena diciotto anni. E tuttavia già forte come tante altre donne, in tempo di guerra. Ora, la giovane vedova fortissima, nel giorno dell’Immacolata 1989, aveva avuto una crisi cardiaca. Sono arrivata alla fine, Doriana - dirà all’orecchio della figlia, appena arrivata. Piacere, signorina. Venga - sorriderà 73 Flora a Uma. Che bella che è! Se Doriana l’ha portata vuol dire che è anche una ragazza molto in gamba. Mi spiace solo di non stare tanto bene… Ragazza in gamba e lei non lo aveva detto a nessuno…! Uma, dal canto suo, non aveva proferito verbo con Alma sul viaggio a Viterbo. Ma quello sarà il meno. Con cura lei eviterà di dirle ben altro. Tanto per cambiare, avevano litigato. Anche il giorno dell’Immacolata. Non proprio litigato. Non litigavano mai nel vero senso della parola. Ma il loro amore fu una guerra fin dall’inizio. Non proprio dall’inizio inizio, ma sarà anche una guerra. Tra due che si amavano senza tregua. L’unica tregua dell’amore era la guerra. Guerra sui generis. Condita da imboscate e rappresaglie. Mai dichiarata, perché nessuna delle due l’avrebbe accettata. Né vinta. Né persa. Ma c’era. Semisconosciuta dalle poche a conoscenza di una storia d’amore e sesso tra perfette sconosciute. Guerra sottile fatta di silenzi e rare parole. Poche, ma che iniziarono a far male. A entrambe. Nessuna delle due avrebbe voluto sparare, ma capitava. A fine giugno Alma le aveva detto pochissimo della sua vita. Quanto basta della verità. Quanto bastava a lei. Uma all’inizio se lo fece bastare. Il loro amore di giorno, fatto di pelle, colori e profumi, la inebriava. Alma non si staccò da Roma per tutta l’estate 1989. E si staccò pochissimo da Uma, quando Uma era a Roma. Almeno, non si staccava di giorno, che fossero in albergo o alle Quattro Fontane. Ed era amore. La guerra iniziò con sciocchezze, piccole schermaglie che forse sarebbero state diluite, smaltite, se solo ci fosse stato il tempo. Quando non faceva l’amore o la guerra senza saperlo, Alma dipingeva. Questo vedeva Uma, che non sapeva altro. Quando non faceva l’amore o la guerra senza saperlo, Uma dormiva. Poco, perché andava in giro di notte. O guardava le figure con didascalie dei libri d’arte. Questo 74 sapeva Alma, che sapeva dei libri e vedeva le sue occhiaie. Amore e guerra si alternarono quasi con pari dignità. Solo ad ottobre si era inserita una discontinuità. Alma era tesa da qualche giorno. E a Uma non sfuggirono alcuni particolari. Fa le cose a scatti. Arriva alle Quattro Fontane già stanca. Non parla niente, lei che già parla poco. Sistema colori o finge di dipingere. Non sta dipingendo. Una mattina, in albergo, sempre di giorno, ma capitò una volta sola, l’aveva abbracciata stretta e zitta, poi si era addormentata di un sonno che non era sonno. In un giorno di ottobre, alle Quattro Fontane, aveva fermato per aria il pennello. Devo fare un salto in Svizzera. Per una settimana. Con mio figlio. Alma col dono della sintesi aveva parlato davanti alla bozza di un dipinto, assorta. Uma, stesa lunga lunga su una dormosa, quasi dormiva. Ma capì abbastanza. Ossia, tre parole. Svizzera, settimana, figlio. Quando Uma non faceva la guerra o l’amore dormiva. Nessuna è perfetta. Lo aveva detto solo una volta. Lì, alle Quattro Fontane. Ad Alma, il primo giorno. Molto più spesso lo diceva a se stessa, quando ci pensava. Lo pensò anche a ottobre, ma non replicò. Non chiese nulla, né prima né dopo. Amore e guerra ripresero così la loro alternanza, fino a dicembre. Con alti e bassi. Sempre più bassi che alti. In mezzo, andirivieni da Roma a Lecce. Uma aveva perso il conto delle volte che si era ripromessa adesso basta. Basta guerra. Fino all’ennesimo proposito per le feste in arrivo. Nel tempo, aveva imbastito un decalogo alla buona. Sempre lo stesso, poche varianti. Un dialogo con sé. Le veniva facile il botta e risposta. La solitudine notturna vide la nascita di due Uma che domandavano e rispondevano, accanto all’insorgenza di qualche malanno lieve, per l’umidità delle notti romane. Non aveva voglia di vedere nessuno a parte Alma. Senza 75 di lei ci stava di notte. E di notte andava in giro a sussurrare domande e poi risposte. Al Pantheon come all’Argentina. Alla Tartaruga e pure al Viminale. Villa Borghese, no. Lì, mai di notte. Via del Decalogo numero 10, proviamo. Primo: smettere di seguire Alma per vedere dov’è che va a dormire ogni sera. Questa è facile. Una volta scoperto, non è che ci torni tutte le sere. Nessuna è perfetta, procediamo. Secondo: smettere di chiedere ad Alma del marito. Anche questa è facile. Chi se ne frega! L’ho fatto solo una volta. E solo per sapere che lavoro faceva. Non fare la gnorri con me, signorina. Ok, smettere di tirare in ballo, anche solo con una battuta di straforo, il fatto che Alma è sposata. Ma io non lo tiro in ballo, c’è! Sì, ma lo fai sempre per traverso. Mai una domanda diretta. Del tipo, che so?, visto che non ci stai mai insieme, con tuo marito, perché ci stai? Fossi scema, io una domanda così! Già, scema totale. Perché vuoi sapere ma non chiedi. Di questo passo ti verrà l’ulcera. Ma come faccio? Non lo so. Ok, ci provo. No, non devi provarci e basta. Ok, promesso. Terzo: non chiedere ad Alma niente di niente di suo figlio. Facile, facile, facile! Non me ne importa un fico secco, punto! Non provare a fregarmi, ti conosco. Le ho chiesto soltanto cos’ha provato quando le è uscito dalla fica. Non potevo? Semplice curiosità! Semplice? Ok, perché la fica è anche sesso. Ah, ecco. Allora non le chiederò com’è fatto. Lo hai già chiesto e se è per questo lo hai anche visto, di nascosto. Bello, magrolino, ma assomiglia ad Alma. Una specie di Alma tascabile coi capelli corti. Di punto in punto, il ‘Decalogo Umano’ era proseguito per tutto l’autunno. Sempre di notte. Tra strade e fontane, piazze e monumenti. Con numeri di propositi che superarono la decina. La guerra nel frattempo continuava, di giorno. Nelle tregue dell’amore. 76 Tempo tre giorni 7 dicembre. Giorno in cui a Lecce, a casa sua, mangiavano pucce, scapece e pesciolini. Giorno chiamato del Digiuno e non aveva mai capito perché, visto che si strafogavano. Il 7 dicembre Uma aveva deciso per l’ennesima volta basta. Basta guerra. E proprio quel giorno Alma, che a ottobre era andata in Svizzera con il figlio, le aveva detto che ci sarebbe tornata anche a dicembre. Tra pochi giorni. La seconda vacanza questa volta durava tre settimane e mezzo. Sempre col figlio, solo col figlio. No, mio marito no. Solo Gabriele. Alma non aggiunse molto altro, né prima né dopo. Pochi particolari insignificanti. E Uma non aveva mai chiesto nulla. Sentirsi durante? Non se ne parla! Non chiamarmi, non mi piacciono le telefonate. L’altra forse non avrebbe telefonato comunque, ma Uma lo aveva detto. Odiava le telefonate da lontano dal tempo che zia Emma era andata via col cavallo bianco. Che ci troverà poi in questa Svizzera? Avrà parenti o solo montagne? E le montagne, stanno solo lì? Non chiedeva, aveva un orgoglio da sproposito. Ma odiò la Svizzera con tutte le sue forze. Fosse stata Stato le avrebbe dichiarato Guerra. Il sentimento più brutto della sua guerra fu provare odio verso il figlio di Alma, pian piano. Gabriele magrolino che, sì, a conti fatti, non è che ci stia tanto con la madre. Però iniziò a odiarlo ugualmente. Poi a pentirsene amaramente. Poi a odiarlo. E a pentirsene nuovamente. Non era proprio odio. E su Gabriele non dirà mai a se stessa nessuna è perfetta. Si dirà sempre e solo stronza. Ma non poteva farci nulla. 77 8 dicembre. Giorno dell’Immacolata. Giorno seguente all’ultimo decalogo rinnovato. Con propositi crollati e ricostruiti all’istante. Alma sarebbe partita di lì a pochi giorni. Un giorno come un altro. Con l’ennesimo colpo da guerra fredda, appena tiepida d’amore appena fatto. Uma aveva aperto con forza il pesante portone delle Quattro Fontane ed era uscita, di corsa. Andando a sbattere su Viola. Forse stava per suonare? Viola che l’abbracciò, guardandola dolce e un po’ severa. Restò a scrutarla. La sua dolcezza poi si trasformò. Da severa diventò smarrita, poi dolente. Infine, decisa. Basta, io te lo dico. Alma non si rende conto, ha la testa altrove. E tu chissà che farai! Vieni, facciamo quattro passi. Alma non mi perdonerà, ma fa niente. Non fecero neanche il giro completo del trapezio strambo. La forma sottolineata più volte da Uma sulla sua cartina. Sottolineato e poi cerchiato. Così lo chiamava, il mio trapezio strambo. Il posto del cuore. Il posto delle Madonne del suo amore. Il posto della guerra e della pace. Dell’amore e del sesso riparatore. Già, sesso riparatore! Quando lei lo diceva Alma la guardava quasi sempre male. Perché quasi mai era una battuta spiritosa. E mai Alma la meritava. Ma a saperlo era la sola Alma. Un trapezio strambo veramente. Con una stella nel punto con un edificio che ospitava un seminterrato, con dentro uno studio che non era una Galleria, chiamato Quattro Fontane da Uma. Metonimia del cuore. Trapezio strambo conosciuto bene. Percorso molte volte, prima e dopo. Sperimentato ogni angolo dove acquattarsi, prima e dopo. Dal cancello della prima volta. Ora però non era lei a decidere la strada. Si lasciò prendere sottobraccio. Ascoltò Viola dall’inizio alla fine, in silenzio. Arrivate in piazza Barberini, l’amica aveva guardato a sinistra verso via del Tritone, poi a destra. 78 Scelse la destra. Sta facendo il lato del mio trapezio. Via Barberini, sempre parlando. In pausa solo tra un marciapiede e l’altro o con gente nei pressi. Continuarono così fino alla svolta della Salita di San Nicola da Tolentino. Ancora destra. Terzo lato del trapezio. La fecero tutta. Il marciapiede in alcuni punti aveva dei parabordi alti in ferro. Uma vi si appoggiò una volta sola, per non cadere. Viola parlava, si fermava ogni tanto, la guardava e riprendeva. Forse avrebbero completato il giro. Ma Uma non volle. Oggi non voglio chiudere il trapezio. Arrivate all’incrocio con via Venti Settembre, Viola aveva già detto tutto. Stavano per svoltare nuovamente a destra, in direzione di un incrocio conosciuto da Uma come le sue tasche. Con quattro statue e l’acqua in mezzo. Non erano proprio statue. Erano le sue quattro fontane. Non voglio chiuderlo. Oggi no. Uma si bloccò. Dicendo pochissime parole all’altra. Calme, tranquille. La rasserenò. Sembrava un’altra. Ma le disse no. No, senti. Mi fermo qua. Poi vado di là. Vai tu. Vai da lei. Ci stavi andando, no? Tutto a posto, ho capito. Magari, magari ti chiamo. Posso chiamarti? Mi dai il tuo numero? Aspetta, ti do quello di casa mia. Casa mia a Lecce. Uma che non amava il telefono, odiava telefonare e non passava mai le feste con i suoi, lungo il tragitto era stata fulminata da una piccola illuminazione. Mentre Viola forniva altri inutili dettagli. L’essenziale lo aveva appreso già dalla Piazza. In via Barberini Uma aveva alzato gli occhi, una volta sola. I suoi occhi verdi, per il resto del trapezio, li tenne sempre bassi, semichiusi. Non aveva neanche gli occhiali da sole, fedeli compagni delle passeggiate diurne. Nella fretta li aveva lasciati alle Quattro Fontane. Aveva alzato gli occhi in un punto esatto di via Barberini. Targa di ottone. Regione Puglia. Un segno. E aveva deciso. Le ultime parole di Viola, sull’incrocio, erano state 79 accorate ma inutili, non ce n’era bisogno. Uma capì Viola e il tono suo accorato, ma non serviva. Uma, non farle casini. E non farli adesso. Amala. Continua ad amarla. Anche da lontano. Lei non è mai stata così. Amala e basta. 9 dicembre. Uma non andrà così lontano. Solo con Doriana in provincia di Viterbo. Lei che non telefonava mai, il giorno prima, quell’8 dicembre del trapezio strambo e dolente, da via Venti Settembre era andata direttamente a casa sua, dopo il saluto a Viola. Se non fosse stato giorno festivo, sarebbe corsa in banca per cercarla. Non avrebbe dovuto neanche correre più di tanto. Era proprio lì. Uma lo sapeva. E sarebbe stata anche la sua prima volta in una banca. Ma l’8 non si lavora. Speriamo sia in casa. Doriana non si era fatta dire molto. Forse guardarla le bastò. Poi, andava di fretta. Ma Doriana non decise in fretta. Decise e basta. Parto domani, vieni con me? Vado in un paesino, ti piacerà. Nel viaggio, se ti va, mi dici il resto. Uma a Doriana dirà poco. E ad Alma quasi nulla. A Lecce per Natale e Capodanno, bella scusa! Alma non aveva battuto ciglio. Ottima scusa, certo! Uma non passava mai le feste con i suoi. Che infatti saranno sorpresi. Prima e dopo. Sempre un’aria malata. Ma guai a chiederle che hai, mandava tutti a quel paese. Si staccherà da Lecce solo nei primi del nuovo anno. E prima non si staccherà mai dalla sua stanza. Chiusa a leggere didascalie e guardare figure. Ogni tanto telefonava. Lei che odiava le telefonate da lontano chiamava Viola. Telefonate brevissime. L’operazione è per domani. Sì, ti richiamo io. Viola, come Alma se non di più, amava la sintesi. 80 Matrimonio all’italiana Si tratta solo di una settimana. E a me, lo sai, non piace sciare. Viene Giovanna, neh? I ragazzi sono contenti. Nelle sue bugie al marito Ilaria sta per toccare livelli di perfezione ineguagliabili. Impensati appena un anno prima. Ora, infatti, siamo a dicembre 1989, ne diluisce una con la verità. Dicendo, com’è vero, di non amare lo sci. Per la Pasqua successiva a sciare ci andrà, poi. All’Abetone. L’avventura con la collega Paola è diventata una storia vera. Nel senso che si vedono in ogni occasione già possibile. Dal convegno sulla tratta ogni lasso di tempo è allungato con un giorno prima e uno dopo. Sempre fuorisede. Sempre per convegni. Come a settembre, per un imperdibile quanto provvidenziale corso di aggiornamento sul diritto ambientale. Dalle parti di Orbetello. La sorella di Ilaria, Giovanna, è molto affezionata ai nipoti. Lei non ha figli. E non ha impegni di lavoro. Da quando si è burrascosamente separata è spesso ospite in casa della sorella. Quasi ogni giorno a pranzo. E sempre a cena, quando Ilaria è fuori. Soprattutto se Ilaria è fuori. Perché Giovanna è l’amante di suo cognato, marito di Ilaria. Da anni e anni prima della separazione burrascosa. Il marito di Giovanna la mena da sempre. Non sa che lei lo tradisce. L’avrebbe menata comunque. Quando Giovanna non riuscì a nascondere l’ultimo livido la sorella insorse. Non è possibile! Basta, quel bifolco lo mandiamo in galera! Però te lo avevo detto, sorellina… Il violento non andrà in galera, ma pagherà alimenti per colazione, pranzo e cena. Ilaria è una matrimonialista con i controfiocchi. L’esimio ingegnere verserà anche una discreta liquidazione, vedrai! Appena scadono i termini per il divorzio. 81 In Italia per un divorzio ti toccano le forche caudine. E un tot di soldi in più per avvocati. O avvocate. Se non sono tua sorella. In Italia, dopo Vaticano e Mafia, dettano legge a pari merito Ipocrisia e Burocrazia. Ok, era passato il divorzio nel 1970. Perché italiane e italiani erano pronte e pronti. E i tempi erano maturi. Ma, appena fu possibile mettere mano all’intera questione, la sistemarono per bene. Ossia all’italiana. In Italia, prima di un divorzio, devi ricevere da un Tribunale l’autorizzazione a vivere separata e separato. Sempre coniugi, ma separati. E sentiti ringraziamenti a Signora Ipocrisia coniugata mai divorziata da Madama Burocrazia! Il Vaticano sopporta. Certo, non porge ostie ai divorziati! In compenso, Basiliche famose ospitano spoglie di mafiosi, altrettanto se non più famosi. E neanche tanto pentiti, in punto di morte. Viva l’Italia! Il marito di Ilaria non è nulla di eccezionale. Quasi un uomo qualunque. Commercialista a Torino. Ma con una passione segreta da anni. Scrive romanzi gialli tendenti al porno-erotico. Già pubblicati due titoli con uno pseudonimo. Nello studio ha uno stuolo che fatica in suo nome e per conto. Lui si limita a presentare il conto. Chiuso nella sua stanza scrive gialli. Passione segreta alla quale un giorno s’affiancò Giovanna. Sempre di nascosto. Giovanna che arrivò piangendo. Solo a te posso dirlo, Giovanni! Giovanni è il nome del marito di Ilaria. Che fantasia, i casi della vita...! Lei non aveva il coraggio di confessare alla sorella avvocata il fallimento del suo grande amore, per il quale giovanissima volle sposare a tutti i costi… e chi? un maledetto terrone! Bello e con i soldi, ma sempre terrone. Ilaria col resto della famiglia aveva ingoiato il rospo. Il marito picchiava Giovanna dal viaggio di nozze. In albergo uno la guardò e lui la picchiò perché si era fatta guardare. Fino al livido sullo zigomo Giovanna condivise solo con Giovanni il suo segreto. Lei è anche l’unica a 82 sapere della scrittura gialla. Di segreto in segreto, la storia tra la sorella e il marito di Ilaria va avanti da anni. Un occulto ménage à trois. Quasi perfetto. Dei tre, chi si sente più in colpa è Ilaria. Da anni e anni prima del convegno sulla tratta. In colpa perché sempre fuori, piena d’impegni, appresso alla carriera. In colpa con i figli. Che ama tanto. Meno male che c’è Giovanna…! Che ragazza sfortunata, mia sorella! E che sprovveduta, però, a sposare il calabrese bellimbusto! Ilaria si sentì in colpa due volte, prima e dopo il matrimonio di Giovanna. Prima, perché le aveva detto dammi retta, non è l’uomo giusto, non era riuscita a convincerla e se ne faceva una colpa, lei che riusciva sempre in tutto. Dopo, perché davanti alla verità l’aveva rimproverata. Come se non bastasse, poveretta! Ma che mostro sto diventando? Ah, questa professione! T’indurisce il cuore e ti fa dimenticare che, se la tua vita è appagata e perfetta, non è per niente giusto sbatterlo in faccia ad altre. A tua sorella, poi…! I suoi ragazzi, per fortuna, adorano la zia che ha riversato la sua attenzione su di loro, da quando ha scoperto di non poter avere figli. Povera Giovanna! E lei, invece? Due. E giù, sensi di colpa! Ilaria si sente in colpa anche col marito. Che ama come si può amare uno con cui sei sposata da 15 anni. E che trascura un po’, lo sa. Certo, ogni tanto ci scopa. Come puoi farlo con uno con cui dormi nello stesso letto da 15 anni. Con la testa altrove. E il cuscino sempre sistemato bene, per evitare urti non voluti alla cervicale. Negli ultimi anni lo fanno sempre meno. Ilaria non si da grande pensiero. Può accadere, dopo 15 anni. Sarà stanco anche lui, povero Giovanni. Col daffare nello studio. Lei, Ilaria, a letto non fa mai la prima mossa. Solo, aspetta. Se lui muove i piedi in un certo modo o le punta contro un ginocchio, piano, lei capisce e si volta. Dal convegno sulla tratta Ilaria ha fatto sesso coniugale 83 solo tre volte. La prima volta, durante, pensa sempre a Paola. Penserà poco. Tra la prima e la seconda, e tra la seconda e la terza, penserà altro. Avrà problemi il mio Giovanni? Sono passati mesi! Forse non sono più la donna di una volta. Si sente più vecchia e brutta, oltre che in colpa. Ma non ci pensa molto, ha sempre tanto altro cui pensare. La terza volta Ilaria tirerà un sospiro di sollievo. Meno male, non ha nessuna malattia! Pensiero piccolo, veloce. Anche lei è stanca. Tanto da non pensare neanche a Paola, durante. Domattina devo uscire presto. Una causa importante. Buonanotte, tesoro. Buonanotte. Giovanni, quella terza volta lì, è reduce da un coito interrotto molto male nel tardo pomeriggio. Dall’arrivo in studio di un pacco postale. Strettamente riservato personale. La copertina per la ristampa del suo secondo libro era venuta proprio bene. Di venire era passata voglia a lui e anche a Giovanna. Che però andranno a cena per festeggiare. Da soli, ovviamente. Nessuno doveva sapere delle due passioni due nella vita di Giovanni. La sua Ilaria non meritava quel colpo al cuore e due alla carriera. Lui però non si sente in colpa. A Giovanni, quella terza volta lì, forse il vino, forse la contentezza, pensando al libro e un po’ anche a Giovanna, a Giovanni tornerà voglia. E s’arrangerà alla meglio. Che donna sua moglie! Non gli dice mai di no. Non ha molta voglia di sesso la sua Ilaria, per fortuna. Certo, ogni tanto qualunque donna va soddisfatta. Altrimenti, che uomo sei? Se è tua moglie, poi…! Oddio, sesso estremo con Ilaria proprio no! Sorridendo a se stesso, placido come un bambino, Giovanni s’addormentò. Quanto al Senso di Colpa, nei rapporti interpersonali, dai secoli dei secoli dà più di due lunghezze alla Madama e alla Signora di cui sopra. Inarrivabile la sua potenza. Il vero oppio dei popoli sul piano personale. In Vaticano al Senso di Colpa? Baciamo le mani. 84 Le due clitoridee Uma prima di Natale va in un paesino con Doriana. Per le feste va dai suoi ma chiamerà Doriana. Per la Befana vado a dare una mano in tabaccheria? L’insegna coloniale le era piaciuta, anche se sapeva di guerra. L’insegna e non solo lei. Ma perché Doriana? Perché per la Befana? Se è per questo, anche prima, perché Doriana per Uma? E, ancora di più, perché Uma per Doriana? Semplice. In un giorno d’autunno, per caso, due clitoridee sconosciute si erano incontrate. E riconosciute. Domenica. Giorno di guerra e pace come altri, per Uma. Incrociò Doriana in una delle sue rare passeggiate diurne. Perché Uma andava in giro soprattutto di notte, se non dormiva. E passeggiava uguale a come dormiva. Da sola. A volte, dormiva camminando. O viceversa. Piazza Santa Maria in Trastevere. Uma guardava le case attorno oppure il cielo. Indossava il solito paio d’occhiali da sole con la montatura in plastica verde scuro, enormi e fedeli compagni delle sue rare esposizioni al sole. L’altra non la riconobbe subito, ma non per gli occhiali. Le donne Doriana non le guardava poi tanto. Neanche se avevano una massa stupenda di capelli color dell’autunno. Fu attratta da un libretto in bilico precario sull’orlo di una tasca. Libretto verde. Formato e copertina inconfondibili. Un libro di Carla Lonzi. Allora Doriana guardò. E, quando la sorpassò, si voltò a salutare l’amazzone di Alma. Passeranno il giorno assieme. A parlare, passeggiare, stare zitte e poi mangiare. Avresti detto zia e nipote, al più. Mamma e figlia, per nulla. Intanto, diverse nell’aspetto. Doriana robusta, con capelli brizzolati portati a spazzola e lineamenti da Bronzo di Riace. Uma alta, non magrissima, ma col seno piccolo. Tra capelli, occhi e abbigliamento poteva passare per un’irlandese o un’olandese in vacanza 85 romana. Forse svedese, però senza le lentiggini di Pippi Calzelunghe. Fisicamente, quindi, nessuna corrispondenza. Se solo un po’ le avessi conosciute, poi, mai avresti messo nel loro rapporto la parola materno, neanche per difetto. Passeranno l’intera giornata assieme, ma parlò quasi sempre la più giovane. Non raccontò molto di sé, della famiglia, di Lecce. Neanche di zia Emma. E non una parola su Alma. Uma caterpillar scaricò su Doriana ogni parola che poteva, voleva e doveva dirle a partire da quel libro. Andarono a sedere subito sui gradini di qualcosa, forse una Chiesa. E Uma attaccò. Mentre lei parlava Doriana sorrideva, ma era seria e attenta. Aveva capito che doveva innanzitutto ascoltare. E capire. Giorni prima Uma aveva visto in studio da Alma un titolo con dentro una donna che era clitoridea. E un’altra invece vaginale. Clitoridea? Vaginale? Diamo un’occhiata. Sfogliò con la solita aria, tra distratta e diffidente. Cercò una poltrona lontana da Alma che stava usando un liquido maleodorante. Voleva capire. Dove vuole andare a parare la donna che scrive di un filosofo che ci devi sputare addosso? Soprattutto, perché clitoridea e vaginale? Non ci capì niente, ma voleva capire. Posso prenderlo? Viola lo ha scordato qui. Io l’ho appena sfogliato. Vedi di non perderlo. Anche il Diario di Carla Lonzi non è male. Lieve e unica bugia, Alma aveva letto e riletto Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale . E aveva letto altro. Solo, non le era parso vero. Uma aveva voglia di leggere qualcosa! A parte le figure con didascalia di tutta l’arte contemporanea possibile. A parte qualche romanzo di Agatha Christie. E quotidiani, ma solo per informarsi su accadimenti notturni romani vari, da fatti di cronaca nera ad eventi spettacolari. E con l’unico scopo di evitare le strade con dentro gli uni e gli altri. Ad Alma non passò neanche dall’anticamera di consigliarle Autoritratto. Il primo libro di Lonzi. Intanto, 86 era un’edizione introvabile, mai più ristampata. Non voleva correre rischi. E se prima non legge altro si stancherà, pensava Alma, strofinando le mani su uno straccio intriso di trementina. Pensieri e azioni scelti con la solita attenzione e cura. Aveva parlato volutamente come chi non dà poi tanto peso alla faccenda. Non voleva forzarla, sapeva che sarebbe stata fatica vana. Più che altro, era quasi certa che, se si fosse mostrata quasi indifferente, Uma si sarebbe quasi interessata a Lonzi. Tre quasi. Lonzi che aveva molto a che spartire con l’arte. Ma Autoritratto adesso no. Alma sbaglierà solo in un particolare. Uma si fisserà molto su Carla Lonzi. In quella domenica d’autunno con Doriana parlava e parlava. Non chiedeva, ma si capiva che voleva capire. Parlava come un libro stampato, ma senza dire parole come libro stampato. Ogni tanto metteva il libretto sotto il naso di Doriana, lì dove aveva sottolineato il punto che le piaceva. O dove non aveva capito niente. E lì dove c’erano le figure, con la clitoride e il plateau dell’orgasmo. E, guarda qui, dove parla della guerra dei maschi. Non avevo mai pensato alla guerra in questo senso. Qui, invece, parla sempre di psicanalisi. Mah! Era di gran moda tempo fa, Uma. Ogni tanto Doriana interloquiva. Mai con l’aria di dare risposte, neanche quando le parole dell’altra avevano l’aria di essere domande. Chi sarà questo Reich? No, non voglio sapere niente di psicanalisi. E qui, dove trascrive il canto delle donne africane? Che roba brutta dev’essere stata questa cosa chiamata escissione della clitoride, Doriana. La fanno ancora, Uma. Oh, per la miseria! Non faceva domande, ma voleva capire. Doriana lo capiva. E ogni tanto darà risposte ai dubbi dell’altra. Senza rispondere, perché le parole di Uma non erano domande. E Doriana non parlerà mai come libro stampato. Non si sforzerà molto in questo. Perché aveva capito. Intuito. E poi trovato la lunghezza d’onda giusta. 87 E qua, dove parla della clitoride, del sesso delle donne e del sesso degli uomini? E del sesso delle vaginali? Qua ho capito quasi tutto. Ma la politica davvero ha a che fare con la fica? Con le vaginali che fanno politica vaginale e le clitoridee invece politica clitoridea? Neanche questa era una vera domanda. Uma non la faceva come domanda. Era più uno stupore affascinato, pieno di voglia di capire. Doriana capì di avere davanti una donna che avrebbe trovato tutte le sue risposte, prima o poi, perché sulla strada delle domande giuste. Alzò lo sguardo una volta sola. Guardò ben bene la testa tanta di capelli come l’autunno. Riandò con la mente a una festa di mezza estate. E pensò. Signore mie, vi presento l’Ignorante! E, lì, la guardò con amore. Un amore autentico. Lei sapeva che amore era. Uma non lo aveva ancora capito, ma ci sarebbe arrivata. Amore grande, di quelli senza sesso e senza ritorno. Di quegli amori che non possono mai finire. Possono restare nascosti per secoli. Sopravvivere a meteoriti preistoriche e altro di più catastrofico. Dormire. Li puoi chiudere in una torre e lasciare lì per anni e anni. Ma non marciranno mai. Certi amori. Poi, ti si parano davanti, per caso, in un giorno d’autunno. Giornata indimenticabile, per entrambe. Che ne ebbero altre. Sempre di domenica. Magari, non sempre intere come la prima. Forse, se Carla Lonzi avesse potuto vederle, avrebbe scritto di clitoridee sconosciute che in un giorno d’autunno si erano incontrate. E riconosciute. Una sapendolo. L’altra ancora no. Uma, si deve dire anche questo, aveva ridotto il libro a una mappa da caccia al tesoro. Con frecce, stelline, appunti. Ed evidenziature di sei colori diversi. Quando Alma lo vide si trattenne a malapena. Solo, le diede l’indirizzo di una Libreria delle Donne dalle parti di Trastevere. Vedi di trovarne un altro. La stava indirizzando bene. E non poteva sapere quanto. 88 Il pallino sbagliato Anche Franca imparerà a trattare Uma con amore. Un amore sincero. All’inizio, per innamorarsi della ragazza, le bastò vedere come le parlava Doriana. E come la guardava, quando era da loro a cena. Per il resto, Doriana parlava poco di Uma. Strano. La prima volta che ne fece parola con Franca non la nominò neanche col suo nome. Domani vorrei invitare a cena la ragazza di Lecce amica di Alma, cosa ne dici? Non era una richiesta, ma una comunicazione. Doriana era politically correct almeno quanto l’altra. Col tempo Franca amerà Uma di un amore sempre più grande. Sempre dello stesso tipo. Come per una nipote. Oppure, perché no? Una figlia. Amore molto distante da quello di Doriana. Anzi, diciamolo, di un altro pianeta. Di una costellazione prossima alla Galassia di Famiglia. A Uma andava bene. Franca cucinava niente male. Per Doriana lei non era affatto la ragazza di Lecce amica di Alma, anche se così l’aveva nominata la prima volta. Anche se Doriana sapeva del loro rapporto, come lo sapevano altre. Le pochissime altre a conoscenza di un’amazzone nella vita di Alma. Doriana non diceva nulla a Franca delle sue passeggiate domenicali con Uma. Lei non raccontava nulla delle sue passeggiate domenicali, in generale. A chiunque. Con Franca aveva stabilito un accordo. Da 12 anni. Le domeniche erano tutte per sé. E ognuna per sé. Un po’ come la stanza di Virginia Woolf. Ogni domenica per sé, fino alla sera. Poi, magari, un cinema insieme. Le passeggiate con Uma non erano qualcosa da tenere nascosto. Niente di morboso o complice. O di esclusivo, ad ogni costo. Prendevano appuntamento e stop. Scopriranno di avere una grande passione in comune, a 89 parte Carla Lonzi e altre piccole venute allo scoperto nelle passeggiate, tipo il gelato di riso da Pica. Una su tutte era la loro passione, senza essere esclusiva e neanche fenomenale. Per nulla passione femminista. Forse, neanche tanto da femmine, per qualcuno. Era una passione e basta. Giocavano a bocce. Uma aveva la passione delle palle verdi e rosse col pallino bianco fin da quando ci giocò la prima volta nel campetto scalcagnato vicino al cimitero, da bambina. Col tempo le bocce avevano cambiato colore e dimensione. Ma la passione no. Aveva provato anche il bowling. Una volta sola. A Roma. Non era la stessa cosa. Non le piacevano i suoni del bowling, né le facce del bowling. E non le piaceva giocare da sola. Vinceva sempre. Che noia! Una mattina era con Doriana in una stradina. Le rotolò addosso una boccia arrivata da chissà dove. Forse dalle scale di quella casa col portoncino aperto. La boccia aveva preso una bella rincorsa. Rotolosa, rumorosa. Di sampietrino in sampietrino, atterrò sul piede destro di Uma. Toinc toinc toinc tonc tonc tonc e ptah, sul piede seminudo! Lei la raccolse e la tenne in una mano, mentre con l’altra massaggiava il collo del piede. La guardò piegando la testa a sinistra, quasi cagnolino di razza. Parlò alla boccia come persona. Lo faceva spesso con gli oggetti. Meno male che mi piace giocare a bocce, altrimenti chissà che fine facevi te, stamattina! Diventeranno ospiti fisse di un ritrovo, appena fuoriporta. Ritrovo domenicale un po’ triste, ma con un grande giardino. Le uniche a giocare da sole. Per il resto, sempre uomini, a volte accompagnati, di età indefinibile. Che sbirciavano e bisbigliavano ogni tanto in direzione della strana, stranissima coppia assidua di donne. Che ridevano oppure si arrabbiavano. A ogni punto. E parlavano, parlavano. Discutendo di distanze e posizioni. Di lanci e torsioni del polso. Che strane, gareggiano e si 90 danno consigli. Ti conviene tirare da qua. No, così. Guarda. Però era una gara vera. Chi perdeva ci restava male. Sempre. Chi vinceva esultava. E dopo abbracciava l’altra. Sempre. Che strane! Nossò de Roma, senti come parlano, parlano strano. Dice Debora che la giovane deve essere australiana, ché c’ha un nome come de canguro. Insomma, de animale australiano. Doriana e Uma, fatte salve le esultanze, parlavano in modo normale, con accento quasi inesistente. Di strano il loro dire forse poteva avere l’argomento. Ma non sempre, perché l’argomento cambiava sempre. Politica, stanno a parla’ de politica, lascia fare. Allora, a chi tocca? Oh, hai sentito? La rossa ha detto fica! Macchè fica e fica, te sei malato nel cervello, ha detto amica. No, ha detto proprio fica. E malato sarai te. Ma guarda sto deficiente! Deficiente sarai te. Tira, va! Doriana e Uma erano sempre ignare di quanto dicevano o pensavano di loro gli ospiti della bocciofila. Ignare perché disinteressate. Sempre. E sì, Uma quella volta aveva detto proprio fica. Non a voce alta, ma aveva detto fica. Fica infilata in uno sproloquio lungo, arrabbiato. Fiume di parole varie tra le quali Gabriele. Aveva fatto un tiro e l’aveva sbagliato. L’altra le aveva risposto per le rime. Il gioco delle bocce, con i suoi tiri e le metafore, era l’unico luogo dove Doriana lanciava qualche buon consiglio, mentre lanciava. Oppure giudizio. Però mai sopra le righe. Mai condiscendente. Mai intollerante. Solo un paio di frasi al punto giusto. Sempre giocando. Non è un problema tuo, Uma. Ti ammazzi se vai dietro a questo dilemma. Forse dovresti cambiare l’obiettivo. Tiri di boccia e t’arrabbi. Ma non è la boccia, Uma. E non è la posizione. E neanche il colore. È il pallino che è sbagliato! E… guarda, ho fatto punto! Doriana esultò. E anche quella volta si abbracciarono. 91 Non lo pensavano tutti La mamma di Doriana, in barba alle sue premonizioni, non morirà a Natale. E neanche a Capodanno. Anzi, a febbraio 1990 si sentirà abbastanza bene da tornare a dare una mano al figlio nella tabaccheria. Non dava proprio una mano. Ci stava e basta. Seduta su una bella poltrona, con i cuscini al punto giusto, si guardava in giro, osservava e… Sì, dava una mano. Gli occhi sono sempre d’aiuto in un posto dove vanno e vengono tante anime portatrici di animi non sempre conosciuti. Di anime il paese d’origine di Doriana ne aveva sempre meno. La Tabaccheria era ancora l’unico posto rifornito di un po’ di tutto. Per dire, altre sigarette e non di ogni marca le trovi solo in un bar, molto più lontano. Uma non fumava, ma la tabaccheria le era piaciuta subito. Anche a mesi di distanza le tornavano alla mente odori, colori, luci, sapori. Sentiva tutto presente, accanto, dentro. Come se stesse provando ogni emozione sul momento. Mi piace la tabaccheria, compresi gli odori. E il paese con le stradine scendi e sali, giri, riscendi e poi risali. E un po’ ti perdi. Mi piace questo gruppo di case e un campanile, con gli odori dappertutto di camino e di legna per il camino. Così diverso dai paesi del suo Salento, sorta di piccola California amara e brulla, piatta e piena di cuti. Per il resto, ulivi e vigne, vigne e ulivi. Ogni tanto, tabacco. Meno male che il mare è vicino. La tabaccheria e il paese mi sono piaciuti quasi quanto Flora, che mi piace pure come nome. Flora è una tosta, s’è ripresa che noi eravamo ancora lì. Si vedeva che era fiera di Doriana, del suo lavoro. Si vedeva da come la guardava. Fiera anche di quanto non sapeva. E forse non voleva sapere. Va bene così. 92 Il fratello di Doriana, invece, Uma non era riuscita a inquadrarlo bene nel primo periodo della permanenza. Anzi, fino alla sera prima di partire. Non è male. Solo, uno di poche parole. Uno per conto suo. Chiude la tabaccheria, cena con noi e poi va a finire la serata altrove. Non parla niente. Mamma e sorella non chiedono. E non dicono niente. Nemmeno Flora. Vittorio si chiamava Giacomo all’anagrafe. Anche lui non porta il nome suo, però glielo hanno dato subito. Era il nome del Padre Partigiano. Morto per la Libertà in Croazia. E onnipresente nella casa e un po’ anche in tabaccheria. Foto, medaglie e onori sotto vetro. Dappertutto. Per il resto, solo quadri con contadine e contadini. Ma non sono quadri senza i volti, dove ci vedi dentro il sudore e basta. Guardano verso chi guarda il quadro, a testa alta. Uma aveva studiato ogni cosa d’arte alle pareti. Quando ripensava alla casa di mamma Flora e fratello Vittorio rivedeva sempre gli eventi dell’ultima sera. Ed era tutto presente in lei. Lì, davanti ai suoi occhi. Ogni volta. Vado a piazzarmi davanti al quadro gigante, mi piace guardarlo. È l’unica altra faccia reale di uomo sotto vetro nella casa. Di epoca più recente. Ma non sfigura per niente in questa casa santuario della libertà del passato. Non è proprio un quadro, ma la riproduzione di una foto. Scattata di lato a un uomo che parla alla folla, da un palco. Lo so chi è quello. Sempre nel quadro, sempre sotto vetro, parole scritte. Doriana mi viene vicina e guarda la foto con le parole: Enrico, il più amato. Il dialogo che Uma rivedeva spesso nella sua mente andò così, né più né meno. Parte Doriana. Enrico Berlinguer, lo sai chi è? Sì, lo so, è morto, era il Segretario del Partito Comunista. L’altra, a quel punto, aveva ripetuto per due volte le 93 parole della scritta. Enrico, il più amato. Ma non stava leggendo. Uma lo capì. Enrico, il più amato. Da tutti. Uma però non capiva. E il motivo per il quale non capiva era che voleva capire. Perché la frase sta scritta qua? Doriana sorrise. Non l’ho detta io, se è questo che intendi. Neanche mia madre. E neanche mio fratello. Eravamo… eravamo tutti. Uma ancora non capiva. Tutti chi? Tutti, anche chi non era comunista. E Uma ancora niente, voleva proprio capire. La dicevano tutti, Doriana? Già, e lo dicono ancora. Dopo queste poche parole Doriana aveva fatto un piccolo sospiro. Allora Uma capì, finalmente. Siccome aveva capito fece una domanda. Che non era una domanda. E lo pensavano tutti, Doriana? Doriana che restò a guardare Enrico il più amato per un paio di secondi, poi guardò lei e parlò a voce bassissima, non sembrava la sua. Anche la risposta di Doriana non era una risposta. No, non lo pensavano tutti. Vado, è pronta la cena. Ogni volta che Uma ricordava aveva presente la scena per intero. Doriana va verso la stanza della madre, io guardo ancora la foto e poi la scritta. La foto e poi la scritta. Resto ferma a guardarla per un po’. In quel momento, Uma non poteva saperlo, dall’altra stanza Doriana sbirciava con la coda dell’occhio lei ancora immobile davanti al quadro. L’Amazzone ha colpito ancora, non lo pensavano tutti. Tempo qualche secondo e Uma statua amazzone si volta e vede Vittorio alla porta di casa. Entrato zitto zitto, nessuna delle tre donne lo aveva sentito. Fermo sulla soglia, guarda anche lui il quadro con la foto, poi guarda Uma che guarda lui. Poi di nuovo il quadro. Le si avvicina senza staccare il volto dalla foto, all’altezza dei suoi occhi. Vittorio è alto, grande e grosso. 94 Poi le mette delicatamente una mano sulla spalla e parla più parole delle altre messe insieme sentite da Uma in sette giorni. Con voce ispirata, dolorosa, infine incazzata. Sembra si rivolga a lei. Anzi, l’ultima frase senza dubbio è per Uma, Vittorio abbassa lo sguardo su di lei, sempre con la mano sulla spalla. E Uma a domanda risponde. Ragazza educata. Enrico, il più amato. Già. Roba d’altri tempi, Enrico. Roba buona! Non questa che vogliono inventare adesso. La cosa democratica di sinistra. Enrico era un’altra cosa. Tutti noi lo eravamo. Roba buona. Roba comunista! E te… te sei comunista? No, ma gioco a bocce. Vittorio tuonò allora in una risata fragorosa. Come quella di Doriana, però da maschio. Risata poderosa. Sempre con la mano sulla sua spalla, rideva ancora piegato in due quando la sorella attraversò la sala con la madre sulla sedia a rotelle. Rideva e ora quasi piangeva. Uma non capiva perché. Ma veramente! La sua risposta non era stata ironica, per niente. Anzi, l’aveva data con una faccia seria che più seria non si può. Perché Vittorio era stato serio. E Uma si adeguò. Ma dove l’hai trovata? Proruppe lui verso la sorella appena gli fu accanto. E continuava a ridere, sempre con la mano sulla spalla di Uma. Alto, grosso, ma delicato. Rise le risate che forse mai aveva riso in vita sua. Uma allargò le braccia verso Doriana con la testa incassata nelle spalle, a dire non so niente. Doriana rispose seria, ma si vedeva che rideva sotto i baffi pure lei. Quale che sia il posto deve essere allegro. Guarda che bell’effetto, Vittorio! La cena fu molto buona, come sempre. Con sguardi e sorrisi belli, leggermente diversi da quelli di sempre. Con poche parole, quelle di sempre. Flora ogni tanto sospirava, guardando i figli. Prima uno e poi l’altra. E così via. Sospirava e sorrideva, restando zitta. 95 Terminata la cena, come sempre, Vittorio si alzò per andare in bagno. Tornò in cucina con la giacca a vento già indosso, come sempre. Per salutare le donne. Ma non salutò come le altre volte. Guardò prima la madre, poi Doriana. Infine, si rivolse a Uma. Te sai giocare anche a biliardo? Vittorio ogni sera andava a Viterbo. Da sempre. E si vedeva col Ridolfi e il Giovagnoli. E altri compagni. Anche compagne, però di meno. Dalla Sezione, quasi sempre, finivano nella Sala Biliardo lì accanto. E continuavano a parlare di politica, anche con la stecca in mano. Qualcuno bestemmiava, di tanto in tanto. Se la prendevano col Governo. Ora con l’America di Bush. Qualche volta col Partito. Oppure con Vittorio. Che la metteva sempre in buca. Sempre. Perché Vittorio era campione di biliardo. Quella sera Uma entrò in un posto fumoso di verde e di marrone, con lui che sempre delicato le teneva la mano sulla spalla. Dentro, solo due uomini che giocavano, in silenzio. Ma sembrava fosse passato di lì un esercito di fumatori incalliti. Forse comunisti? Lungo la strada, venti minuti appena di curve e silenzi, Vittorio disse poche parole, come sempre. Le avrebbe mostrato come si fa, col biliardo. Ogni tanto sorrideva, con gli occhi alle curve. Non poteva insegnarle il comunismo, non ci sarebbe mai riuscito. A Uma poi del comunismo non fregava niente. Vittorio lo aveva capito. E si adeguò. 96 Gabriele e mio marito Tutto bene. Tornerà a scuola a fine gennaio. Forse qualche giorno dopo. Ma l’operazione è andata bene. Sì, ti richiamo io. Domani. Se insisti. Ok, giuro! Viola era l’unica che Uma sentiva. Beh, non proprio. Diciamo che le sue telefonate erano le uniche attese. Dopo la trasferta con Doriana e il suo magico incontro col biliardo, un paio di giorni appena e aveva preso un altro treno. Aveva detto vado dai miei a Lecce. Torno a Roma per Capodanno. Forse dopo, non so di preciso. Alma non aveva replicato nulla. Davanti a ogni sua comunicazione sillabata. Parole dette piano, per trovarle giuste. Allora, ci sentiamo. Un bacio piccolo e via, verso il portone delle Quattro Fontane. A parte le tre di Doriana, due di Vittorio e una volta sola Carlo, Viola fu l’unica voce romana sentita durante le feste. Carlo, va detto, era ormai romano d’adozione. Su tutto, Viola fu l’unica alla quale Uma fece due telefonate. Due volte! Una cosa seria. Per il resto, chiamava l’altra. Chiamava spesso. Viola era l’angelo della comunicazione. Dal giorno dell’Immacolata. Da quando era stata l’angelo dell’annunciazione. Uma pensava a questo strano tipo di angelo durante le feste. E altri angeli ancora. Tipo l’Arcangelo Gabriele, per esempio. Più che altro, aveva un pensiero ricorrente. Un pensiero quasi unico. Perché Alma non mi ha detto niente? L’8 dicembre Viola non era stata costretta a implorarla più di tanto. Non farò nulla, stai sicura. Lo disse con un’espressione così seria che a Viola sembrò un’altra donna, una donna più seria. Invece lei era solo incazzata come una iena. Dentro. Perché Alma non ha detto niente? Al diavolo lei e la 97 Svizzera! E fantasie su montagne e vacanze e nevi sprecate per settimane e settimane! Perché? Perché? Con altre imprecazioni non riportate per decenza, Uma continuerà a porre la domanda solo a se stessa. Non voleva né poteva una risposta da Viola. La risposta di Alma adesso la voleva ancora meno. La voleva sì, ma non adesso. Alma lo avrebbe fatto, prima o poi. Uma lo sentiva. Le avrebbe dato la risposta e forse tutto. Però, perché non lo ha fatto prima? Gabriele magrolino, la miniatura, il bonsai di Alma coi capelli corti. Aveva rischiato di morire già a ottobre. E lei? Niente! Un difetto al cuore dalla nascita. Non un difetto gravissimo, ma era tenuto costantemente sotto controllo. Pensavano di operarlo quando avrebbe avuto 13, 14 anni al massimo. Ora una leggera crisi e i medici avevano consigliato di anticipare l’intervento a dicembre. Già, a dicembre…! E a lei Alma non aveva detto niente! Viola, lungo il percorso del trapezio non chiuso, aveva provato a comunicarle altro. Percepito da Uma solo come l’eco delle sue parole, una volta compreso l’aspetto più importante: Alma non mi ha detto niente. Uma, io ho saputo della malattia di Gabriele qualche anno fa da… da un’amica comune. E solo dopo, dopo Alma me ne ha parlato. Mi ha fatto giurare di non dirlo a nessuno, neanche a Letizia. Non vuole parlarne. Continua a tenerla dentro. La teneva dentro già da prima. Da sempre. Forse la rifiutava. Non lo so. Anche dell’operazione non l’ho saputo direttamente da lei. Alma con me si è limitata a confermarlo e stop. Non vuole parlarne. Sembrava che Gabriele stesse meglio. Poi, all’improvviso, questa crisi. Proprio ora. Proprio ora. Non so, non so. Sono certa che te lo dirà, Uma. Subito dopo. Ne sono certa. Se non lo fa… Non so, veramente. Io non sono come lei. Lei è diversa da me. Da tutte. Mi chiedo sempre come fa. Ma vedrai che te lo dirà. Subito dopo. 98 I dubbi che la stessa Viola non riusciva a esternare, i dubbi celati malamente nel suo continuo ripetere ‘te lo dirà’, quei dubbi non erano percepiti dall’altra. Così come Uma non recepiva, neanche indirettamente, alcun tipo di rassicurazione. Viola non ci sarebbe riuscita neanche fosse stata capace di argomentarla meglio. Un’unica certezza rimbalzava nella testa di Uma come pallino impazzito di flipper. Senza uscire dalla sua bocca. Per questo le martellava nella mente molto più di un flipper. E faceva male. Non aveva detto nulla neanche a Doriana. L’unica sua certezza era: Alma non mi ha detto nulla. Perché? Perché non l’ha detto a me? Chi sono io per lei? L’amante le aveva fornito solo una notizia riguardante il figlio. In tutti quei mesi. Solo una. Più Uma ci pensava ora, più le sembrava la meno importante. Non è il figlio di mio marito. Solo questo. Alma, come le altre poche volte, non aveva pronunciato il nome proprio di questo mio marito. Mai una volta che fosse una. Fin dalla prima. Solo mio marito. E così lo pensava Uma, quando lo pensava. Come mio marito. Con la stessa locuzione continuerà a pensarlo anche dopo averne scoperto nome e cognome. Ci era riuscita con un semplice appostamento sotto casa. Dopo di che era partita in uno dei suoi giri da investigatrice in erba dei tempi della guerra fredda e quasi muta. Il nome e solo quello. Non lo aveva mai visto. Solo il nome e il cognome, che erano due. Perché certa gente ha due cognomi? Che se ne fa, allarga la targa? Uma aveva individuato uno studio in Quartiere Prati. Con i muri di vetro scuro, fuori. E marmi bianchi, dentro e fuori. Tre piani di studio che le parvero una Clinica. Non aveva mai visto in faccia mio marito durante il suo unico appostamento nei pressi. Sarà una faccia di uomo come tante. Lei non entrò nella Clinica, restò fuori. Anche 99 nel frangente aveva gli occhiali verdi di plastica. Li indossava sempre, non solo d’estate, quando era nella luce. Tutto poteva sembrare tranne la versione femminile moderna di Sherlock Holmes. Ci andò in un giorno d’ottobre in cui sapeva di non correre il rischio d’incrociare Alma. Sicuro, perché è in Svizzera col figlio. E lei sapeva, dentro di sé lo sapeva anche ora che era incazzata come una iena, che Alma le diceva la verità. Parlava poco Alma, ma il poco che diceva era la verità. Parlando poco, parlava di poche verità. Le altre restavano nei silenzi o sulle tele. Uma aveva fatto il possibile per amare gli uni e le altre. Ci era riuscita solo con le seconde. L’amava anche ora. E doveva sforzarsi per non amarla di più. Ora che sapeva. Non voglio amarla di più. Perché non mi ha detto niente? Le poche frasi di Alma a lei, risalenti a mesi prima, si rincorrevano nella sua testa, in assenza di altro. Non è il figlio di mio marito. Ero fidanzata con lui. Da sempre. In casa. Sposa promessa. Non ero felice, Uma. Per niente. Sono solo andata a letto con un perfetto sconosciuto. Il giorno di prima di sposarmi. Mio marito lo sa. Che Gabriele non è suo figlio. Gliel’ho detto subito. Ma… A ogni frase una pennellata e pausa. Ogni volta che si fermava, un tocco col pennello. Al ‘ma’, Alma si era fermata. Stava per dire una bugia? Non l’avrebbe detta. Si era fermata e basta. Non aveva riempito con altre parole la sospensione, ma posato il pennello, pulito come sempre le mani su uno straccio, con attenzione e cura, fatto pochi passi verso di lei e sollevato leggermente le spalle. Il viso serio e triste. Uma non aveva chiesto nulla. E l’altra un bacio. Un bacio soltanto. E basta. Solo ora, Uma provava a inserire parole sue dopo quel 100 ‘ma’. E ogni parola immaginata le sembrava insensata. Ma Gabriele aveva un difetto al cuore, dalla nascita. E mio marito, vediamo, non aveva dato di matto. Non l’aveva picchiata. Speriamo. Solo una cosa era certa, non l’aveva lasciata. Per il figlio? Forse. L’amava nonostante il tradimento? Più probabile. Come fai a non amare una come Alma? L’aveva perdonata? Forse. E lei, si era perdonata? E la malattia di Gabriele, com’era andata? Stava espiando una scopata prematrimoniale con uno sconosciuto, da una vita? Alma che fa una cosa del genere? Perché? Perché? E perché non l’ha detto a me? Domande che non erano domande. Ennesimo galoppo di fantasie. Ma ogni fantasia era inconcludente. Le poche certezze turbinanti nella sua mente avevano come ausilio immagini stridenti e sovrapposte. Caleidoscopio vivente in testa rossa. Fu il regalo assurdo e prolungato a se stessa per Natale e Capodanno. Quadri alle Quattro Fontane, bambina che sembra una piccola Madonna, bambino in braccio a una Madonna, mano destra di Alma senza anelli, sinistra di Alma senza fede, strada di Roma, una villa, due cognomi, strada di Roma, una Clinica, due targhe, marmi bianchi, vetri scuri, montagne, neve, strada di Roma, strade di montagna, Gabriele bonsai che esce di casa, di mattina presto, mano nella mano a una che non è sua madre, ospedale tutto verde, verde come la Svizzera, e ancora marmi bianchi e vetri scuri, marmi bianchi e vetri scuri. Il caleidoscopio riprendeva ogni volta, distorcendo ricordi e fantasie. Il buio completo arrivava solo col sonno. Un sonno senza sogni. Meno male. Uno dei particolari sconosciuti nel 1989 da Uma - resa edotta di dettagli solo nella Pasqua del 1990, un particolare compagno di sventura di notizie apprese solo nel dicembre successivo, mano nella mano a qualcosa che Uma saprà solo nella primavera del 1992, un particolare che aveva per 101 contorno altri che non vedranno mai la luce - era che targhe, marmi, vetri, moquette, tutto compreso in Quartiere Prati erano stati messi su con i soldi del padre di Alma. Che di nome faceva Gabriele, come il nipote. Medico molto in gamba, molto famoso e molto ricco. Morto abbastanza giovane, ma in condizioni tali da lasciare eredità di pietra a un genero molto promettente. Che aveva scelto una branca differente. Mio marito era un chirurgo plastico, sì. Ma uno veramente bravo, non di quelli che ti raddrizzano solo il nasino storto. Mio marito era uno che poteva cambiarti anche tutti i connotati. E nessuno ti avrebbe più riconosciuta, dopo. 102 Indice Ocra carico, direi................................................... 5 Libertà! Libertà?..................................................... 7 Quasi introvabile................................................... 9 Tre parole piccole ................................................ 12 Non c’è nulla di male ........................................... 14 Significa anche cavallo .......................................... 19 Si dice avvocata .................................................. 24 Nessun bisogno ................................................... 26 Prendi un bel respiro ............................................ 31 Mica vuol dire..................................................... 34 Del dissimilare un’arte ......................................... 37 Non chiamarmi signora ........................................ 41 Una di famiglia ................................................... 46 Quattro Fontane ................................................. 52 L’amore con le Madonne .................................... 58 La festa alla cultura............................................... 61 Famiglie e compagnie ......................................... 67 Tempi di guerra ................................................... 71 Tempo tre giorni ................................................. 77 Matrimonio all’italiana......................................... 81 Le due clitoridee.................................................. 85 Il pallino sbagliato............................................... 89 Non lo pensavano tutti ....................................... 92 103 104 Gabriele e mio marito ......................................... 97 105