PDF - Spaghetti Writers

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Capsule, #1
Francesco Casini
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Sullo schermo potevamo vederlo. La sagoma era indistinguibile, una macchia sfocata, ma era chiaro che
pulsasse. Non sapevamo dove ma lì da qualche parte il cuoricino batteva.
Ele armeggiò col cellulare.
«Il dottore mi ha detto che potevamo sentirlo.»
Cercò di alzare il volume ma il video sembrava muto.
«Quanto costa questo servizio?» chiesi.
«Ventinove al mese ma il primo è gratuito.»
«E non si sente nemmeno il battito?!»
«Dopo telefono al servizio clienti.»
Continuammo a guardare il video ipnotizzati. Sarei diventato padre, non ci potevo credere. Strinsi Ele e
la baciai. Ele mise via il cellulare e sprofondammo nel divano.
Discutemmo su quando andare a vedere la capsula e sull’eventualità d’invitare i suoi genitori; erano
contrari al parto artificiale ma confidavamo che avrebbero cambiato idea, era loro nipote del resto.
«Mi sembra affrettato, rischiamo di fare peggio» concluse Ele.
«Dio mio sono così bigotti?»
Mi alzai di scatto e andai al mobile dove tenevo gli alcolici. Ele sbuffò e tornò a fissare il cellulare. Presi
un bicchiere e mi versai da bere. Rimasi a sorseggiare in silenzio per un po’.
«Vuoi da bere? anche se non dovresti in gravidanza.»
Ridacchiammo e la rabbia svanì di colpo. Ero troppo eccitato per litigare.
Tornai al divano, l’abbracciai. Il bambino era sempre sullo schermo.
«Hai ragione, non c’è fretta, è che mi faccio prendere dall’entusiasmo» dissi «perché non andiamo
domani?»
Ele sorrise poi scattò improvvisamente a sedere.
«Si è mosso! Hai visto?! Si è mosso!»
«Dove?!»
«Guarda!»
«Ma non è possibile»
«Ti dico che si è mosso, guarda non era così prima!»
«Sei sicura? Forse il video va a scatti.»
«Ti dico che l’ho visto.»
Osservammo a lungo quella macchia indistinta sul cellulare.»
La clinica non sembrava affatto una clinica. Non c’erano sale d’aspetto, gente che tossiva o visibilmente
malata. Non c’erano infermiere in ciabatte, lettini o pazienti spinti in sedia a rotelle, neanche
quell’odore di carne lessa e minestra di semolino tipico delle mense ospedaliere. Sembrava più un
lussuoso negozio d’elettronica. Giganteschi schermi proiettavano slogan non-stop: “Assistenza al feto
h24”, “Sperimenta i nuovi innesti genetici”, “Monitoraggio continuo”, “99,7% gravidanze di successo”.
All’accettazione c’era un’infermiera giovanissima dall’aria posticcia, sembrava uscita da una recita o una
festa in maschera. Chiamò il ginecologo che ci avevano assegnato; arrivò velocissimo e sorridente.
Portava il camice anche se sporcarsi era l’ultima cosa che faceva lì dentro. Era molto giovane e
agghindato come un manager d’azienda. A volte mi ritrovavo a fissargli le sopracciglia: qualcosa
veramente non andava con le sue sopracciglia. Ele diceva che probabilmente le ripassava con la matita
per definirle.
Entrammo in un ascensore di vetro e salimmo al secondo piano. Da lì potevamo vedere la hall e gran
parte del paesaggio fuori. Il ginecologo ci fece strada fino alla capsula. Superammo due corridoi di
uffici, gli ambulatori per la raccolta del seme e arrivammo a una grande porta sigillata. Il dottore agitò il
polso e la porta si aprì. Usavano chip sottocutanei per muoversi da un reparto all’altro. Erano l’ultima
trovata in fatto di sicurezza, o almeno così dicevano.
«Da questa parte, la cucciolata ottantatré.»
Le capsule erano raccolte a gruppi di cinque e disposte in cerchio. Al centro un complesso groviglio di
cavi fornivano nutrimento e alimentavano i macchinari. Le capsule erano dei grossi pinoli trasparenti.
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Le avevano sistemate all’interno di culle per bambini. Su alcune c’erano fiocchi blu e rosa, adesivi e
dediche scritte a pennarello. Alcune erano circondate da pupazzi e giocattoli.
Arrivati alla nostra capsula Ele si chinò e salutò il bambino a voce alta. Mi incitò a salutare a mia volta.
Guardai il medico perplesso.
«Oh, non può sentirvi» disse «le capsule sono sigillate. Ma dentro c’è un microfono. Con un piccolo
extra lo attiviamo e potrete parlargli in qualsiasi momento dal cellulare.»
Ele ne sembrò entusiasta.
Il bambino era immerso in un liquido blu attaccato a un tubo di gomma. Già si poteva distinguere la
testa, era enorme e squadrata. Faceva impressione ma il medico ci rassicurò che fosse tutto regolare.
Chiesi come mai dal nostro cellulare vedevamo solo una macchia bianca e nera. Controllò sul suo tablet
e sussurrò che avevamo scelto il pacchetto base, non avevamo telecamere a disposizione, solo una
digitalizzazione a contrasto. Mi chiesi che cazzo significasse ma lasciai perdere. Ele non ascoltava, era
chinata sopra la capsula. Mi avvicinai e contemplammo il bambino per un po’.
Alla capsula accanto due uomini si tenevano per mano e si scambiavano occhiate complici. Ele sussurrò
che erano adorabili. Uno dei due ci notò e tese la mano sorridendo.
«Congratulazioni» disse.
Il compagno gli fece eco e ricambiammo l’augurio. Ci proposero di organizzare una festa per il grande
giorno. Le capsule della solita cucciolata iniziavano e terminavano la gravidanza assieme. Ci sembrò
un’ottima idea e ci scambiammo i numeri di telefono con la promessa di riparlarne. Ele propose di
coinvolgere anche le altre coppie e il ginecologo, che ascoltava in disparte, si propose di informarle.
Terminati i convenevoli ognuno tornò al proprio bambino.
«Come ti sembra?» chiesi a Ele.
Lei sgranò gli occhi.
«Meraviglioso.»
Dopo aver scattato qualche foto il dottore ci informò che l’orario della visita era terminato.
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