Scuola di preghiera 2012 - Seminario Vescovile di Padova

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Scuola di preghiera 2012 - Seminario Vescovile di Padova
Scuola di preghiera 2011-2012
Secondo incontro: 17.12.2012
«A testa alta»
Apocalisse 7,1-12
Dopo ciò, vidi quattro angeli che stavano ai quattro angoli della terra, e
trattenevano i quattro venti, perché non soffiassero sulla terra, né sul mare, né
su
alcuna
pianta.
Vidi poi un altro angelo che saliva dall'oriente e aveva il sigillo del Dio vivente. E
gridò a gran voce ai quattro angeli ai quali era stato concesso il potere di
devastare la terra e il mare: «Non devastate né la terra, né il mare, né le piante,
finché non abbiamo impresso il sigillo del nostro Dio sulla fronte dei suoi
servi». Poi udii il numero di coloro che furon segnati con il sigillo:
centoquarantaquattromila, segnati da ogni tribù dei figli d'Israele:
dalla tribù di Giuda dodicimila;
dalla tribù di Ruben dodicimila;
dalla tribù di Gad dodicimila;
dalla tribù di Aser dodicimila;
dalla tribù di Nèftali dodicimila;
dalla tribù di Manàsse dodicimila;
dalla tribù di Simeone dodicimila;
dalla tribù di Levi dodicimila;
dalla tribù di Issacar dodicimila;
dalla tribù di Zàbulon dodicimila;
dalla tribù di Giuseppe dodicimila;
dalla tribù di Beniamino dodicimila.
Dopo ciò, apparve una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di
ogni nazione, razza, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e
davanti all'Agnello, avvolti in vesti candide, e portavano palme nelle mani. E
gridavano a gran voce: «La salvezza appartiene al nostro Dio seduto sul trono e
all'Agnello».
Allora tutti gli angeli che stavano intorno al trono e i vegliardi e i quattro esseri
viventi, si inchinarono profondamente con la faccia davanti al trono e adorarono
Dio dicendo: «Amen! Lode, gloria, sapienza, azione di grazie, onore, potenza e
forza al nostro Dio nei secoli dei secoli. Amen».
1. Liberi di scegliere?
Gli uomini scelgono maggiormente animali che denotano grande forza, come leoni, draghi,
oppure guerrieri, disegni celtici, anche in formato piuttosto grande, come a voler acquisire la
forza e il potere del soggetto impresso sulla pelle. Le donne, invece, preferiscono soggetti di
piccole dimensioni come fiori, delfini, la luna, il sole, una stella o una farfalla. Sto parlando di
un fenomeno molto diffuso tra i giovani e non solo; sto parlando della moda di farsi i tatuaggi.
Che cosa spinge una persona a decidere di farsi disegnare sul corpo qualcosa di indelebile;
qualcosa che rimarrà per sempre impresso sulle proprie membra? La molla più potente e
profonda che spinge a desiderare un tatuaggio è probabilmente quella di volersi distinguere da
tutti gli altri; il bisogno di riaffermare a livello visivo la propria diversità, l’essere unici
rispetto alla massa. Attraverso i tatuaggi l’uomo o la donna esprime libertà, autonomia,
indipendenza. Ma è proprio vero tutto questo? È proprio vero che basta riprodurre sulla pelle
un guerriero o una farfalla per sentirsi più liberi e indipendenti?
Sembra, invece, che oggi si stia diffondendo sempre di più quello che alcuni definiscono una
certa “autonomia congelata”. Siamo si autonomi, indipendenti – e mai come in questo periodo
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storico, almeno qui in occidente, siamo liberi di fare quello che vogliamo – ma siamo come
congelati, paralizzati, immobili. «A che serve impegnarsi – dice qualcuno –, cercare di
trasformare la società, lottare contro le ingiustizie, i soprusi? A cosa serve tutto questo se poi
non cambia nulla?». Pertanto, è meglio non far niente, rinchiuderci nel nostro mondo
interiore, nelle nostre piccole cose, la nostra camera, il nostro computer, i nostri amici, il
nostro telefonino, il nostro Dio e attendere: attendere che cosa?
E così siamo come seduti in riva al fiume della nostra esistenza, abbracciati alle ginocchia,
appoggiati all’albero delle infinite possibilità a contemplare l’acqua che scorre, come se fosse
qualcosa che non ci riguarda. Nello stesso tempo, però, siamo affascinati da chi questo fiume
l’ha risalito ed è giunto alla Roccia da cui sgorga quell’acqua zampillante e limpida che irriga
i deserti del non senso, come ha fatto san Francesco. È come se fossimo diventati
telespettatori della nostra vita. Abbiamo tante possibilità di scelta davanti a noi; abbiamo
cento canali da scegliere, ma alla fine non ne scegliamo nemmeno uno e ci lasciamo scegliere
da programmi che altri hanno realizzato per noi. Così si finisce per non guardarne nemmeno
uno, perché siamo sempre lì a cambiare canale, sempre disturbati dal dubbio che forse
sull’altro canale c’è un programma migliore… e il fiume della nostra vita intanto scorre via
veloce.
Quanto sono libero di scegliere? E quanto, invece, mi conformo alle mode?
2. La paura del “per sempre”
Colpisce che in un’epoca come la nostra, in cui si posticipano tutte le scelte definitive, per
paura di quella parola “sempre”, sia in aumento il numero delle persone che si fanno
disegnare sul corpo, un segno, un animale, una frase che, almeno nell’intenzione, deve
rimanere per sempre. Si ha paura di fare una scelta irreversibile, ma poi si affida ad un
tatuaggio la speranza che ciò che si sta vivendo rimanga per sempre.
Forse nel cuore di ognuno di noi c’è la nostalgia di fare scelte definitive attorno a cui
spendere tutte le nostre forze, il nostro tempo, i nostri pensieri, le nostre passioni. Sappiamo
che quello che ci fa soffrire di più è l’essere dispersi in tanti rivoli; l’essere tante persone e
nessuna allo stesso tempo. Dobbiamo essere bravi figli a casa con i nostri genitori; simpatici
con i nostri amici; bravi cristiani in parrocchia; studiosi a scuola; spietati al lavoro con i
colleghi, forse l’unico luogo in cui siamo veramente noi stessi è il confessionale, ma i
confessionali sono vuoti… Alla fine di una giornata ci domandiamo: «Ma chi siamo
veramente? Dov’è il nostro cuore? Per chi o per che cosa ci stiamo spendendo?». Siamo
stanchi, abbiamo fatto tante cose, ma ci sembra di non aver concluso nulla, ci sentiamo come
inutili.
Il segreto della felicità, invece, è l’aver trovato qualcosa o Qualcuno per cui vale la pena
spendersi; vale la pena giocare la propria vita; vale la pena di dire: “per sempre”. Se non ci si
decide mai a fare scelte definitive saranno gli altri a decidere per noi e a trascinarci nelle
tranquille acque del “fan tutti così”. Eppure siamo conquistati da uomini come Francesco che
sono andati all’essenzialità della vita e lì hanno trovato una gioia così grande, che a distanza
di secoli, riscalda e illumina anche la nostra vita. Chiediamoci perché ci affascinano ancora?
Perché ho paura di fare scelte definitive? Cosa mi blocca nel pronunciare quel per sempre che
potrebbe dare una svolta alla mia vita?
3. Dov’è impressa la croce di Cristo nella mia vita?
Il passo del libro dell’Apocalisse che abbiamo letto ci presenta la scena alla fine dei tempi in
cui verranno radunati tutti gli esseri umani per comparire davanti a Dio. Questa ci presenta un
Angelo che sale da Oriente da cui sorge anche il Sole e il Messia, e tiene in mano il sigillo del
Dio vivente con il quale segnerà la fronte di coloro che saranno ritenuti degni di vivere per
l’eternità al suo cospetto.
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Chi studia il fenomeno dei tatuaggi, afferma che non solo l’immagine del tatuaggio scelto ha
un significato particolare, ma anche la parte del corpo che si decide di farsi tatuare non è
indifferente, un braccio, una gamba, la nuca… La fronte è la parte più in vista di una persona.
Un segno tatuato in fronte, come nel passo dell’Apocalisse che abbiamo letto, può essere
riconosciuto da chiunque. Ma che cosa è tatuato sulla fronte di questi salvati? Nel libro del
profeta Ezechiele si parla di un Tau, infatti il profeta riceve questo comando da Dio: «Il
Signore gli disse: “Passa in mezzo alla città, in mezzo a Gerusalemme, e segna un tau sulla
fronte degli uomini che sospirano e piangono per tutti gli abomini che ci si compiono”» (Ez
8,4). Nell’alfabeto ebraico il tau è l’ultima lettera. San Francesco adottò il tau come
distintivo, sia perché i suoi frati dovevano essere gli ultimi, i minori, sia per la forma che
questa lettera assume nell’alfabeto greco, la cui grafia è quella di una croce. Egli venerava il
tau, perché gli richiamava l’amore per il Crocifisso.
Noi cristiani sappiamo che il Dio vivente si è manifestato in Gesù Cristo, e attraverso il segno
della croce impresso nella nostra fronte il giorno del battesimo e poi riconfermato attraverso
la cresima, la croce si è impressa nel nostro cuore per sempre, come segno indelebile
dell’amore che Dio ha per noi.
Le persone che esibiscono un tatuaggio lo fanno spinti dal desiderio di comunicare, senza
aggiungere parole a ciò che già mostrano agli altri, attraverso il linguaggio dei simboli e delle
immagini, quello che hanno “dentro”. Il tatuaggio “porta fuori” qualcosa di sé che in genere
viene tenuto nascosto o non espresso. Esso può rappresentare un modo per dichiarare la
propria posizione rispetto al mondo, esteriorizzare il proprio modo di essere davanti agli altri:
esprimere, cioè, aspetti di se stessi tenuti nascosti, ma che si vuole siano “letti” e interpretati
da coloro che ci vivono accanto.
Il corpo diviene così la bacheca su cui fissare i passaggi più significativi e intimi della propria
vita. Senza nessuna vergogna si esterna quello che si nasconde dentro il proprio cuore. La
cosa curiosa è che si postano sulle innumerevoli bacheche che la vita e gli strumenti
tecnologici ci offrono i passaggi più significativi e intimi della propria esistenza, ma poi si è
imbarazzati a testimoniare il Dio in cui si crede.
Ci vergogniamo della nostra fede, non vogliamo parlarne in pubblico perché, diciamo, è
qualcosa di privato, e nessuno ha diritto di sapere cosa si nasconde nel nostro cuore, ma nello
stesso tempo mettiamo in pubblico tutto il nostro privato; arrivando a svendere la nostra
intimità e in alcuni casi anche la nostra dignità per un po’ di notorietà. Abbiamo paura di
raccontare il nostro vissuto di fede, pur sapendo che non c’è gioia più grande del poter
condividere con gli altri il Dio che si nasconde dentro il nostro cuore. È come se avessimo
paura di essere felici, paura di gustare la gioia che scorga da noi nel momento in cui
testimoniamo l’amore di Dio. Sappiamo che cosa, o meglio, chi ci riempie la vita, ma non
vogliamo ascoltarlo o testimoniarlo.
Perché nascondo la Croce di Cristo “tatuata” sulla mia fronte? Perché ci vergogniamo di
mostrare il sigillo dell’amore di Dio che ha segnato la nostra vita di battezzati?
4. Perché non ci lasciamo amare?
La moltitudine immensa di uomini e donne che stanno davanti al trono dell’Agnello, segnati
con il sigillo dell’amore di Dio, per il libro dell’Apocalisse sono coloro che non hanno avuto
paura di testimoniare il Dio vivente. Questi uomini e donne sono avvolti in vesti bianche e
tengono in mano dei rami di palma. Nei banchetti di nozze ebraici, sulla porta della sala
veniva offerta a tutti una veste bianca, un talit, che tutti mettevano come segno della gioia di
quel banchetto. Nella parabola di Matteo (22,1-14) colui che è entrato senza la veste viene
gettato fuori e riceve la condanna perché non ha voluto accogliere il dono della veste, che non
doveva comperare, ma semplicemente ricevere in dono e accettare di indossare.
Molte volte, quando si parla di essere testimoni credibili della nostra fede, si entra in una
forma di “moralismo spirituale”: «Che cosa devo fare? Come devo testimoniare? Quali azioni
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devo compiere per essere un bravo cristiano?». Ma la vera testimonianza è, prima di tutto,
vivere la gioia di un dono ricevuto; di un amore che ci ha preceduti; di una veste bianca che
nel giorno del battesimo ci è stata donata.
Quando una ragazza riceve una rosa rossa dal suo fidanzato, in riva al mare, durante un
tramonto mozzafiato, non serve che qualcuno le suggerisca che cosa deve fare in quel
momento. Lo stesso si può dire per una madre che ama il suo bambino, per un papà e così via;
chi ama una persona non ha bisogno che gli venga suggerito come testimoniare questo amore,
perché lo farà anche se non vuole: la sua stessa vita grida al mondo questo amore che lo
travolge, come fece Francesco per Gesù.
Autentico testimone del Risorto è chi si lascia ferire dall’amore di Dio, perché l’amore, come
ogni dono, provoca una ferita in chi lo riceve. Gesù, dopo essere risorto, portava nel suo corpo
i segni di un amore donato per l’umanità, e i discepoli gioiscono quando vedono i fori dei
chiodi o la ferita sul costato, in quel momento capiscono che quei segni sono stati provocati
dal suo amore per loro. Lo stesso Francesco, alla fine delle sua vita, come consolazione dei
suoi dubbi riceve da Gesù le stimmate.
Ricevere un dono significa lasciarsi coinvolgere nelle profondità del proprio cuore; significa
sentire che con quell’oggetto ci viene offerta un po’ della vita di chi ce l’ha donato. Dio, in
Gesù Cristo, non ci ha donato un po’ della sua vita, ma ci ha donato tutto se stesso. In quel
corpo che tra poco contempleremo, Dio si è donato tutto a noi: lasciamoci ferire dalla sua
passione per noi! Essere testimoni del Risorto significa prima di tutto lasciarsi abitare da
questo amore che fin dall’eternità attende che ci rivestiamo della veste di nozze che Lui ci ha
donato, senza vergognarci di mostrare il sigillo del suo amore impresso nella nostra fronte,
solo così camminando nel mondo a testa alta l’umanità potrà vedere anche in noi i segni del
Dio vivente.
Perché faccio fatica a lasciarmi amare dalle persone che mi circondano e in modo particolare
da Dio?
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